rp: bill kaulitz

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Fler/Bill (accennato), Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, fandom!AU (Doctor Who), Underage.
- Fler ha sette anni quando un uomo misterioso atterra nel cortile sul retro di casa sua con una cabina telefonica blu tutta rotta che ripara con del nastro biadesivo ed un po' di colla.
Ne ha trentuno quando l'uomo, del tutto all'improvviso, si rifà vivo.
Note: Yeee *O*/ Evviva il COW-T perché mi permette di rimettere mano a robe cominciate millenni fa e dimenticate sotto le sabbie del tempo XD Per la precisione, l'idea di questo rip-off è nata mentre recuperavo il Doctor Who. Perdutamente innamorata della dinamica Dottore/Companion, ho deciso di scrivere un DW!rip-off per ogni singola OTP della mia vita, il Mollamy, il Jobra, il Dersecest, il Bleo, e poi volevo scrivere qualcosa anche in ambito german rap/TH, e questo è, sostanzialmente, quello che ne è venuto fuori. Yay? XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE BOY WHO WAITED
PART ONE

Non aveva mai creduto che si fosse trattato di un sogno. Era un bambino incasinato, lo era sempre stato, non riusciva a ricordare un momento della propria infanzia in cui per un motivo o per l’altro non si fosse ritrovato immerso in problemi e guai di ogni tipo, ma era assolutamente certo di non essere mai stato fuori di sé abbastanza da perdere la cognizione di cosa fosse reale e cosa invece non lo fosse.
Nonostante la realtà alla quale era abituato non fosse in alcun modo piacevole – suo padre non c’era praticamente mai stato (di lui conservava il ricordo di un’ombra, di una voce sommessa e stanca, di una mano grande e callosa e di una ruga orizzontale proprio in mezzo alla fronte, immagini sbiadite che assumevano una consistenza vaga solo quando chiudeva gli occhi prima di addormentarsi, e che invariabilmente erano già sparite quando li riapriva il mattino dopo), sua madre lavorava tutto il giorno per cercare di tirare avanti come meglio poteva, il quartiere, be’, era Tempelhof, nascendoci dentro imparavi a conoscerlo per la giungla che era senza aspettarti niente di diverso dal fatto che mostrasse artigli e zanne ogni volta che provavi a fingere di poterti dimenticare di lei – si era sempre rifiutato, fin da piccolo, di vivere in un mondo di fantasia. La fantasia era un privilegio dei bambini con due genitori (due posti di lavoro, due stipendi). Era un privilegio di chi non doveva svegliarsi all’alba per andare a scuola a piedi. Un privilegio di chi poteva permettersi di tornare a casa ed accendere la televisione e passare le successive sei ore a stordirsi di cartoni animati prima che la mamma lo chiamasse perché era pronta la cena. Un privilegio di chi aveva una mamma che lo avrebbe chiamato nel momento in cui la cena sarebbe stata pronta.
Un privilegio che lui non aveva.
La fantasia era una bugia comoda che lui si era rifiutato di lasciarsi raccontare. Preferiva vivere nella realtà – spigolosa, dura, dolorosa ma sincera. Gli piaceva pensare di poterla conoscere, anche se ciò non significava avere anche solo il minimo potere di cambiarla. Ma era lì, tangibile, sicura. Non era un’illusione, era tutto ciò a cui dovevi abituarti, perché era tutto ciò che ti avrebbe accompagnato per il resto della tua vita. L’unica cosa davvero tua. Il tuo mondo.
Per questo motivo era sempre stato sicuro di non aver sognato, quella notte. Perché era vigile, perché i suoi occhi erano bene aperti e attenti, perché quell'uomo era apparso davvero, nel cortile di casa sua, lui e quella strana cabina telefonica. Non c'erano cabine telefoniche nel suo quartiere - c'era solo ciò che ne rimaneva dopo anni di vandalismo e tag di artisti di strada e vagabondi che le scambiavano per un comodo rifugio caldo in cui passare la notte - e di sicuro non ce n'erano mai state nel suo cortile, o in quel quadrato di ghiaia polverose e biancastra che sua madre chiamava cortile -, e così com'era vero che non ce n'era mai stata una era anche vero che non ce n'era più stata una dopo quella notte, e così come entrambe queste cose erano vere, Fler era sicuro di averla vista, lei e quell'uomo, e che non si fosse trattato di un sogno, né di un'illusione, né della fantasia di un bambino solo e triste e frustrato e spaventato dalla realtà.
Era accaduto veramente. Era accaduto veramente e non era stato un attimo, era stato delle ore. Era stato lo schianto - di cui nessuno sembrava essersi accorto -, era stato uscire in cortile e trovare quella cabina telefonica lì, ferma in mezzo al niente, avvolta dal fumo e dalla nebbia nel silenzio assoluto della notte. Era stato avvicinarsi e sfiorare con la punta delle dita la vernice blu con cui era dipinta, era stato sentirne lo smalto graffiato e sbiadito sotto i polpastrelli, era stato indietreggiare di qualche passo e trattenere il fiato mentre la porta si apriva con uno scricchiolio sinistro e quell'uomo altissimo dalla pelle scura e dal sorriso abbagliante ne veniva fuori con tutti i vestiti stropicciati ed un'espressione di scuse ad addolcire i tratti del viso.
Fler c'era, era lì. L'aveva visto. L'aveva sentito.
- Mi dispiace, - aveva detto l'uomo, allontanandosi dalla cabina telefonica ed osservandola con aria preoccupata, - ho combinato un disastro. Avresti mica del biadesivo e un po' di colla?
Fler l'aveva fissato a lungo in silenzio, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati mentre cercava di fare mente locale chiedendosi se in casa ci fosse niente di quello che quell'uomo stava domandando. Alla fine aveva risposto di sì, era scappato di corsa dentro casa ed era salito al piano di sopra, infilandosi di corsa nello sgabuzzino all'interno del quale suo padre teneva tutti gli attrezzi del suo mestiere - qualunque fosse - prima di andare via di casa. Odiava lo sgabuzzino, non perché la lampadina si fosse fulminata anni prima e non fosse mai stata cambiata, condannando quella stanza minuscola ad un'eternità di buio - Fler non aveva alcuna paura del buio; non c'era niente, nel buio, a parte il buio, e il buio non poteva toccarti, né farti del male -, ma perché si trattava di una stanza chiusa, senza finestre, e puzzava dell'odore di papà invecchiato di mille anni, come se, nonostante lui fosse andato via, fosse rimasto un pezzo del suo corpo nascosto là dentro, e non riuscisse a nessuno di trovarlo per gettarlo via.
Aveva afferrato la cassetta degli attrezzi di papà e l'aveva trascinata fuori, in corridoio. Era di metallo, mezza arrugginita, ed i manici lasciavano sulle mani una traccia marroncina che puzzava incredibilmente. L'aveva aperta ed aveva rovistato all'interno, trovando ciò che gli serviva, ed era corso subito di sotto, senza riporre la cassetta degli attrezzi al proprio posto. Ci avrebbe pensato più tardi, o forse l'avrebbe lasciata lì, spostandola in un angolo del corridoio in modo che mamma non la notasse.
- Ho trovato questi... - aveva detto all'uomo, una volta tornato in cortile. Aveva teso la mano, mostrandogli il piccolo tesoro risultato della sua avventura, e l'uomo aveva sorriso, ringraziandolo con un cenno del capo.
- Vivi qui tutto da solo? - gli aveva chiesto, mentre si avvicinava alla cabina telefonica e cominciava a rattopparla. Fler si era mosso in avanti per guardarlo muoversi più da vicino.
- No. - aveva risposto, scuotendo il capo, - C'è mia mamma con me.
- Capisco. - aveva annuito l'uomo, sempre sorridendo, - E allora perché sei solo adesso?
Fler aveva abbassato lo sguardo. Era solo sempre, non soltanto in quel momento. Conosceva l'amore di sua madre come una certezza istintuale, ne era consapevole come era consapevole di tutte le altre cose reali che lo circondavano, le cose ovvie, il sole, la luna, il cielo, il letto, lo zucchero, lo zaino per andare a scuola, i lividi per le botte dei bulli, il sangue dal naso, la fame, la sete, il sonno, il bisogno di andare in bagno. Fra tutte queste cose c'era l'affetto di mamma, vero, eterno, tangibile, più tangibile perfino di mamma in sé.
Fler si sentiva amato. Sapeva di essere amato.
Ma si sentiva anche solo. E sapeva di essere solo.
Aveva scrollato le spalle, come se non gliene importasse poi tanto, continuando ad osservarlo lavorare.
- Tu da dove vieni? - gli aveva chiesto quindi, quando il peso del silenzio aveva cominciato a farsi insopportabile.
L'uomo aveva riso, incollando la porta scardinata al proprio posto.
- Un po' da tutte le parti. - aveva risposto. Fler l'aveva guardato con diffidenza, scrutando il suo profilo nel buio. Anche senza nemmeno una luce accesa se non quelle dei lampioni sulla strada dall'altro lato della casa, il tatuaggio che gli copriva un lato del collo era talmente grande e scuro da risultare perfettamente visibile.
Quello era sicuramente un tipo pericoloso. Solo un tipo pericoloso risponde così a domande talmente dirette.
- Non è un posto. - gli aveva fatto notare con aria imbronciata, ma l'uomo non aveva dato segno di averlo sentito, allontanandosi dalla cabina telefonica per osservarla da ogni parte con aria soddisfatta.
- Bene, - aveva detto quindi, - è a posto. - Poi si era voltato a guardarlo, sorridendo incoraggiante. - Vieni a fare un giro con me? - gli aveva chiesto.
Fler aveva aggrottato le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto ed indietreggiando ancora, sulla difensiva.
- Nemmeno ti conosco. - aveva protestato diffidente.
- Ma io sono il Dottore. - aveva risposto l'uomo con quel sorriso incrollabile ed un'aria di ovvietà che aveva costretto Fler a distendere i lineamenti del volto mentre si domandava distrattamente e curiosamente "ma il Dottore chi?".
L'uomo aveva socchiuso la porta della cabina telefonica, invitandolo ad avvicinarsi.
- Vieni con me. - gli aveva detto, - E' solo un giretto.
- Ma è troppo piccola quella. - aveva protestato Fler, indicandola e restando fermo dove si trovava.
L'uomo aveva sorriso ancora.
- È più grande dentro. - lo aveva rassicurato.
Fler aveva deglutito, voltandosi verso la porta sul retro, intenzionato a correre dentro senza più voltarsi indietro. Casa sua giaceva immobile e addormentata a pochi passi da lui. Era buia, troppo grande, vuota, e lui era tornato a guardare il Dottore senza nessun ripensamento.
Lui lo aveva portato in alto, lontano da casa sua, lontano dal quartiere, lontano da quel mondo al quale Fler aveva deciso di attaccarsi in maniera così disperata perché era l'unica cosa che conoscesse. Aveva aperto la porta della cabina telefonica, spalancandola sul blu intenso dell'universo, e gli aveva detto "guardati intorno, guarda com'è bello", e con le lacrime agli occhi Fler aveva guardato nella profondità di un abisso grande in maniera incalcolabile, e si era sentito minuscolo ed enorme, insignificante ed assoluto, e completamente senza fiato.
In orbita assieme alle stelle, aveva scoperto un nuovo tipo di realtà, una realtà sconosciuta, ma non per questo meno vera, non per questo meno sua. C'era altro oltre alla casa vuota, oltre alle strade sporche di Tempelhof, oltre alla verità dolorosa di Berlino, c'era altro oltre alle cose vere e brutte che erano state la sua unica possibilità fino al giorno prima.
Era fantastico, ma non era una fantasia, e Fler lo voleva. Lo voleva tutto, lo voleva per sé.
- So che cosa significa. - aveva detto il Dottore, sedendosi accanto a lui sul bordo della cabina telefonica, i piedi penzoloni sul vuoto assoluto, - Sentirsi soli, intendo. - aveva spiegato con un mezzo sorriso, - Sono l'ultimo rimasto della mia specie.
- E tutti gli altri che fine hanno fatto? - aveva chiesto Fler, voltandosi a guardarlo. Il riflesso dell'universo contenuto nei suoi occhi lo riempiva di sgomento.
- Li ho uccisi. - aveva risposto il Dottore, senza guardarlo. Per qualche motivo, Fler non ne aveva avuto paura.
Erano atterrati senza danni qualche istante dopo. Il cortile e la casa erano sempre uguali, vuoti e silenziosi anche se adesso i primi raggi di sole del mattino li accarezzavano incerti, donando loro un po' di colore.
- Adesso te ne andrai. - aveva detto Fler, guardando in basso le proprie scarpe da tennis sporche e impolverate. Non aveva avuto il coraggio di guardarlo ancora.
- Ma torno subito. - lo aveva rassicurato il Dottore con un sorriso, stringendogli con calore una spalla, - Starò via solo cinque minuti.
Fler aveva sollevato lo sguardo, ed aveva deciso di credere al suo sorriso.
Il Dottore non era più tornato, ma per anni Fler non aveva mai smesso di aspettarlo.
*
Bill si solleva sulle braccia e prende fiato, prima di lasciarsi ricadere su un fianco accanto a lui e pulirsi la bocca col dorso della mano. Fler, ancora intontito dall’orgasmo, steso sulla schiena e con braccia e gambe finalmente libere di rilassarsi dopo la tensione degli ultimi minuti, cerca di ricondurre il proprio respiro ad un ritmo meno affannoso, e intanto si volta a guardare il ragazzino, tutto intento a lisciarsi i capelli lungo le spalle, osservandone meccanicamente le punte con aria professionale per controllare che non siano rovinate.
- Come mai? – domanda distrattamente, afferrando un lembo del lenzuolo fra le dita ed usandolo per ripulirsi l’uccello.
- Mh? – cinguetta Bill, voltandosi a guardarlo, - Come mai cosa?
- Come mai il regalo. – spiega Fler con un sorriso, - Non lo fai mai.
- Non è un regalo e ommioddio che cosa orrenda da dire. – ride Bill, tirandogli uno schiaffo su una spalla e poi rotolando sullo stomaco, avvicinandosi un po’ di più. – Mi andava di farlo e basta. Cos’è, non si può?
- Ma sì, figurati. – ride anche lui, - Ti pare che mi stia lamentando? – commenta, schiaffeggiandogli piano il sedere. Bill si lascia sfuggire un urletto tanto carino quanto palesemente finto, e Fler ride ancora, alzandosi dal letto e stiracchiandosi davanti alla finestra.
- Tira le tende. – si lamenta Bill, appoggiando la testa sul cuscino, - Il Chaku è sempre lì di guardia e se scopre che ti ho fatto entrare senza pagare un’altra volta va a dire tutto a Tomi. Non voglio essere rimproverato di nuovo.
- Tuo fratello dovrebbe cominciare a farsi i fatti suoi. – sbuffa Fler, - Non aveva detto che i soldi che facevi tu erano solo tuoi e potevi tenerteli?
- Sì… - sospira Bill, - Ma poi ho fatto un casino.
Fler si volta a guardarlo, incuriosito.
- Un casino tipo?
Bill scrolla le spalle, come fosse una cosa di infima importanza.
- C’era questa borsa…
- Non dire altro. – ride ad alta voce Fler, chinandosi a recuperare i jeans da terra per indossarli, - Milledue? Millecinque?
- Tremila e nove. – sospira Bill.
Fler ride ancora.
- Ti vedo. – sghignazza, - Che entri tutto contento da Louis Vuitton—
- Era Prada.
- Irrilevante. – ride lui, - Ti vedo entrare tutto felice con tutte le tue banconote spiegazzate e strappate, mentre le commesse fuggono come impazzite di fronte alla tua maglia a rete e ai tuoi shorts.
- Non indossavo niente del genere. – borbotta Bill, sollevandosi in ginocchio sul letto ed incrociando le braccia sul petto magro, le belle sopracciglia dal disegno perfettamente simmetrico corrucciate in un’espressione offesa, - E non mi piace quando mi prendi in giro.
- Scusa, ma non posso farne a meno. – ride ancora Fler, avvicinandosi per stampargli un bacio innocente sulle labbra e poi piegandosi per recuperare la maglietta stropicciata dal pavimento, - Immagino che quando l’ha scoperto ti abbia cazziato per bene.
- Per giorni e giorni! – sbuffa Bill, scivolando giù dal letto e chiudendo le tende alla finestra, lasciandone aperto solo uno spiraglio per guardare fuori, alla strada tranquilla e silenziosa che dà sul retro del palazzo fatiscente in cui vive e lavora, - Mi ha detto che se tutto quello che devo fare coi soldi è comprare idiozie, allora è meglio che li tenga lui e mi passi qualcosa mensilmente. “Le borse non si mangiano, Bill,” mi fa, “Il cibo si mangia”. Ma sai cosa? A me di mangiare non frega proprio niente. Anche perché se ingrasso posso anche dimenticarmi di continuare a lavorare. Ma una borsa serve sempre!
- Certo, soprattutto se costa quasi quattromila euro. – ride Fler, raccogliendo la cintura da terra e stringendosela in vita, - Tuo fratello fa bene a tenerti al guinzaglio, - ammette poi, avvicinandosi ed appoggiandogli una mano sulla testa per lasciargli un bacio sulla tempia, - Lasciato a te stesso, appassiresti e moriresti come un fiore. Uno di quei fiori scemi, però. Tipo le margherite.
- Se morissi e rinascessi fiore, come minimo sarei una rosa centifolia. – ribatte Bill, offeso, voltandosi a guardarlo.
- Ed il fatto che tu abbia passato del tempo a pensare che tipo di fiore saresti se morissi e rinascessi vegetale è solo un’altra prova in più che tuo fratello fa bene a toglierti la patria potestà su te stesso. – commenta Fler, divertito. – Hai da mangiare, piuttosto? Ho un appuntamento importante alle quattro e mezza e non ho tempo di fermarmi da qualche parte.
- Devono esserci dei biscotti, di là. – risponde Bill distrattamente, indicandogli il cucinino nell’angolo, - Sulla mensola.
- Biscotti? – ride Fler, - Vivi di questo, adesso?
- Sono buoni e mi fanno sentire felice. – sbuffa Bill, facendogli una linguaccia, - Lasciami in pace.
- Va bene, va bene. – Fler ride ancora e si allunga a recuperare il pacchetto colorato, tirandone fuori un biscotto rotondo e spesso, farcito al cioccolato. – Mmh, i miei preferiti.
- Anche i miei. – sorride Bill. Poi torna a voltarsi verso la finestra, guardando fuori, e il suo sguardo si fa subito più scuro, quasi confuso.
- Cos’è? – sorride Fler, ingoiando mezzo biscotto in un solo morso ed avvicinandosi nuovamente alla finestra, avvolgendo un braccio attorno alla vita sottile di Bill e spiando fuori da sopra la sua spalla, - La tua guardia del corpo mi aspetta per prendermi a pugni?
- Eh? – mugugna Bill, così concentrato nella propria riflessione da realizzare con un secondo di ritardo quello che gli ha chiesto, - No, il Chaku non c’è, stranamente. Però… che strano, vivo qui da tanti anni ma non mi ero mai accorto che ci fosse una cabina telefonica su questa strada.
Le parole risvegliano in Fler il ricordo più prezioso della sua infanzia, quello di cui non ha mai parlato a nessuno. La notte in casa da solo, il botto, i rottami della cabina e il fumo che ne veniva fuori, e quell’uomo, l’uomo che gli aveva chiesto del nastro biadesivo e un po’ di colla e poi l’aveva portato a spasso per l’universo, riconducendolo a casa non più tardi di cinque minuti dopo, come se il tempo passato a fissare le stelle così da vicino da poterle quasi sentire bruciare sulla pelle non fosse mai nemmeno trascorso.
- Che cabina telefonica? – domanda, l’emozione che gli trema nella voce.
- Quella. – risponde Bill, indicandola oltre il vetro, - La vedi? Che poi, di quel colore lì non mi pare di averne mai viste in giro. Eppure sembra vecchissima. Le cose di cui uno non si accorge quando sta chiuso in casa a spalancare le gambe per gli estranei. Vedi? Se avessi una borsa potrei uscire, anche solo per vantarmene in giro, e allora potrei accorgermi… dove vai?
- Devo andare. – Fler si affretta a recuperare portafogli e cellulare dallo spoglio tavolo quadrato sul quale li ha lasciati entrando, e infilarli velocemente in tasca.
- Ma dove? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia con evidente preoccupazione, - Al tuo appuntamento?
- No. – borbotta confusamente lui, lanciando un’ultima occhiata fuori dalla finestra per assicurarsi che la cabina telefonica sia ancora lì, - Cioè… sì. Dopo. Prima devo controllare una cosa. Ci sentiamo. – conclude, prima di lanciarsi fuori dall’appartamento e giù per le scale.
Prega che la cabina sia ancora lì quando esce per strada, e quella c’è, e quando Fler se la ritrova di fronte non può fare a meno di fermarsi ad osservarla, per un secondo. È esattamente come la ricorda, il blu antico, un po’ rovinato delle assi di legno, quella targa, l’aria misteriosa. Si avvicina un passo dopo l’altro, senza rendersi conto che, man mano che avanza, comincia a correre sempre più velocemente, finché la cabina non prende ad avvicinarsi con una velocità pericolosa, e lui finisce per schiantarvisi sopra, tempestando la porta di pugni.
- Apri! – grida, - Lo so che sei là dentro! Vieni fuori!
Non smette di bussare e urlare finché non sente il suono inconfondibile della serratura che scatta, e solo allora, rendendosi conto di non essersi mai davvero aspettato che la porta si aprisse, salta indietro, allontanandosi repentinamente. La porta si apre con un cigolio sinistro, lasciando vedere solo buio per un po’, almeno fino a quando, dallo spiraglio, non fa capolino la testa di quell’uomo.
- Tu! – strilla Fler, puntandogli contro un dito.
- Io! – grida a propria volta l’uomo. Poi corruga le sopracciglia, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure, come quelli di un gatto, - Non sei la persona che mi aspettavo di vedere.
- Ah, no?! – insiste Fler, - Che strano! Forse perché quando sei andato via mi hai detto che saresti tornato in cinque minuti!
- Come, prego?
- Ed io avevo sette anni, allora!
- …oh. – il lume dell’intelletto sembra accendere improvvisamente lo sguardo scuro dell’uomo, che apre definitivamente la porta, senza però convincersi ad uscire dalla cabina e restando lì, sulla soglia, una mano sulla porta e l’altra sullo stipite, a guardarlo stupito, - Oh. Aspetta. Che ore sono.
- Forse ti interesserebbe sapere più che altro che anno è. – borbotta Fler, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, anche. – annuisce il Dottore, - Ma soprattutto che ore sono.
Fler sospira, sollevando la manica della giacca per controllare l’orario sull’orologio da polso.
- Dieci alle quattro, perché?
- Ah! Bene. – risponde il Dottore, illuminandosi in volto, - Ho ancora tempo.
- No che non hai ancora tempo! – sbraita Fler, sbattendo una mano contro la porta blu, - Sei in ritardo di cinque minuti e ventiquattro anni!
- … sì, è vero, per quell’appuntamento sì. – annuisce il Dottore, - Non per l’altro, però.
- Non avevamo nessun altro appuntamento!
- Non io e te, è vero! – annuisce ancora il Dottore, con convinzione.
Fler lascia ricadere il braccio lungo il fianco, spiazzato.
- Vuoi dire che non sei qui per me? – domanda con un filo di voce.
- Come, prego? – ripete il Dottore, inarcando un sopracciglio.
- Non sei tornato qui per me! – sbotta Fler, sconvolto, - Avevi promesso di tornare, ed ora sei qui e mi vieni a dire che ci sei capitato per caso?!
- Tecnicamente no, non è un caso. – scuote il capo il Dottore, - Sono capitato qui perché, come ti dicevo, ho un altro appuntamento. Precisamente alle quattro e mezza.
- Non me ne frega niente! – ribatte Fler, gesticolando animatamente a mezz’aria, - Ti ho aspettato per più di vent’anni e tu hai la faccia tosta di ripresentarti adesso e dirmi che non mi stavi nemmeno cercando! Perché l’hai fatto?! Perché mi hai detto che saresti tornato se non ne avevi la benché minima intenzione?! Ero solo un bambino, mi hai preso in giro!
- Ma io avevo intenzione di tornare. – risponde il Dottore, placido, - Non pensavo onestamente di fare così tardi. Devo aver perso il senso del tempo.
- Sì? – domanda Fler, inarcando un sopracciglio, - Facendo cosa, esattamente?
Il Dottore scrolla le spalle.
- Un po’ di questo, - risponde, - Un po’ di quello.
Fler si passa una mano sul viso, sospirando stancamente.
- Certo.
È in quell’istante che la voce di Chakuza lo raggiunge, modulata nel classico grido cavernoso per il quale ormai ha imparato a conoscerlo e, in una certa misura – piccola, considerate le sue dimensioni –, anche a temerlo.
- Fler! – urla il nano pelato, correndogli incontro, - Ti ho visto!
- Merda. – sibila Fler, osservandolo avvicinarsi velocemente dall’angolo opposto della strada. Si volta verso il Dottore, piantandogli entrambe le mani sulle spalle e spingendolo verso l’interno della cabina, - Presto, fammi entrare!
- Intraprendente. – annuisce il Dottore, - Mi piace. Autoinvitarsi in casa altrui. Lo faccio spesso anch’io.
- Sta’ un po’ zitto! – sbotta Fler, irritato, spingendolo dentro e poi chiudendosi la porta alle spalle. Anche l’interno della cabina è uguale a come lo ricordava, immenso e un po’ freddo e stranissimo, con quella plancia di comando circolare proprio al centro e tutto il resto dell’arredamento bizzarro, scale che non si sa dove conducano, porte che non si ha idea su che stanza si aprano. Si volta a guardare fuori dallo spioncino e, per un secondo, vede solo il cranio rasato di Chakuza che prende tutto lo spazio, come un’enorme luna bianca e lucida. Poco dopo, lo sente picchiare contro la porta.
- Apri! – dice da fuori, - Ti ho visto! Apri! Ti avevo promesso che ti avrei spezzato le dita una ad una, se ti avessi rivisto da queste parti! Quindi ora apri!
- Oh. – considera il Dottore, apparentemente molto divertito dalle sue parole, - Fidanzato?
- Cosa?! – sbotta Fler, - No!
- Ex-Fidanzato, allora?
- Ma assolutamente no!
- Fidanzato del fidanzato, dunque.
- Ma cosa— smettila! – lo zittisce lui, premendogli entrambe le mani sulla bocca, - Dobbiamo andare via. Fai muovere questa cosa.
Il Dottore si allontana da lui, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Spazio personale, prego. – borbotta, sistemandosi addosso i vestiti. Fler li nota solo adesso per la prima volta. L’uomo indossa una tuta grigia palesemente nuova e palesemente costosa che però gli dà l’aria di essere qualcuno che si vesta con immensa modestia. Una specie di accattone di lusso, un povero dentro ricco fuori, uno di quelli che li guardi e sembra non vogliano farti pesare addosso tutti i loro soldi, ma in realtà vogliono mostrarti esattamente quanti ne hanno dandoti però l’impressione di non contarli nemmeno.
- Sei ricco? – gli chiede così, a bruciapelo.
- Mi sento una persona ricca, sì. – annuisce il Dottore, - Ho tanti amici, l’immensità dello spazio-tempo tutta per me, una bellissima astronave e—
- Tanti soldi? – suggerisce Fler.
Il Dottore inclina il capo e lo guarda come avesse appena detto l’idiozia del secolo.
- No. – risponde candidamente, - Non saprei che farmene.
- Beato te. – ribatte Fler, scrollando le spalle, - Ora, per favore, possiamo andarcene? Questa cosa può muoversi, no?
- È la seconda volta che la chiami cosa. – nota il Dottore, offendendosi quasi avesse chiamato “cosa” lui, - E ti sconsiglio vivamente di perseverare. È molto permalosa.
- Chi è permalosa? – domanda Fler, guardandolo con confusione evidente negli occhi.
- La TARDIS. – risponde il Dottore, allargando entrambe le braccia come a presentargli qualcuno che non può essere indicato direttamente. E questo perché si trova tutto intorno a loro. – Tempo e Relativa Dimensione Interna allo Spazio. È la mia astronave.
- Va bene, okay, ma può muoversi? – sospira Fler in tono lamentoso, - Quel gorilla là fuori vuole il mio sangue, e se non ce ne andiamo da qui prima o poi finirà per abbattere la porta ed entrare, e ti assicuro che non vuoi vedere di cosa è capace in tutto il suo imponente metro e mezzo di altezza.
- Non sembra granché imponente. – considera il Dottore, sollevando una mano a circa un metro e mezzo dal suolo, - Dici che è alto più o meno così? Sono sicuro che riuscirei a tenerlo lontano anche solo stendendo il braccio.
- Oh Dio mio, - ringhia Fler, frustrato, aggirandolo e muovendosi deciso verso la plancia, - Era così per dire! Non è altissimo, ma è più alto di un metro e mezzo, e comunque quello che non ha in altezza lo compensa in larghezza, per cui leviamoci dalle palle.
- Ma si può sapere almeno cos’è che gli hai fatto? – domanda il Dottore.
- A lui? – sbotta Fler, osservando la plancia con curiosità, cercando di ricordare come gliel’ha vista manovrare venti anni prima, - Niente. È la guardia del corpo di un mio amico. Non vuole che gli vada vicino.
- E perché non vuole che tu gli vada vicino?
- Perché poi finiamo sempre a letto insieme senza che io possa permettermi di pagarlo. – risponde Fler in un ringhio frustrato, - Come si pilota questa cosa?!
- … quasi tutto quello che hai detto mi confonde. – annuisce il Dottore, - Ma, in ogni caso, se fossi in te, non tirerei quella leva. – aggiunge, indicando una lunga leva grigia pochi centimetri alla sua sinistra con un cenno del capo.
Fler non ha nemmeno un ripensamento, mentre la afferra e la tira energicamente verso di sé.
Quello che accade dopo non è semplice da spiegare, e Fler non è neanche tanto sicuro di capirlo. Quello che sa è che il battere imperterrito dei pugni di Chakuza contro la porta della cabina blu si interrompe bruscamente, o forse è semplicemente nascosto dal rumore sempre più alto che l’astronave emette sollevandosi – o almeno così sembra dal tremito che la scuote e dall’improvvisa mancanza di equilibrio che manda Fler quasi disteso per terra – e poi cominciando a viaggiare.
Si fermano un paio di minuti dopo, e mentre ancora la TARDIS trema, cercando di stabilizzarsi, Fler si aggrappa alla plancia di comando e poi accetta l’aiuto del Dottore per riuscire ad alzarsi in piedi.
- Che… Che cosa è successo? – domanda confusamente, guardandosi intorno come non riuscisse più a riconoscere il luogo in cui si trova, anche se l’interno dell’astronave non è cambiato nemmeno di una virgola.
- Eh. – risponde il Dottore con un sospiro quasi paterno, - Te l’avevo detto, io, di non tirare la leva. Spero che tu non abbia impegni per il resto del pomeriggio. Anche se potrebbe essere un problema di relativa importanza. – aggiunge con una mezza risata.
Fler lo guarda per un paio di secondi con occhio bovino, e poi si lancia contro la porta, spalancandola.
Capisce di avere un problema quando, di fronte a lui, si apre un mondo sconosciuto di fronte al quale perfino la visione dell’immensità dell’universo di ventiquattro anni prima sembra impallidire.

continua
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Eko/Valezka, Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Het.
- "Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore."
Note: Credete pure ai vostri occhi, la nuova shot del GD è qui! E, in un'incredibile concomitanza di buone notizie, non solo è una shot dal POV di Eko, un POV che, sappiamo, attendiamo tutti con impazienza, ma è anche, finalmente, l'ultimo spin-off prima di ricominciare a parlare di cose serie tipo LA TRAMA. Sì, non ce la siamo dimenticati. Anche questa serie ne ha una. No, l'argomento principale della serie non è il matrimonio del Flerkuza, anche se ne parliamo di nuovo anche in questa shot (perché non sarebbe il GD se lo stesso identico avvenimento non venisse riproposto in mille salse da due trilioni di POV differenti). Portate pazienza per questa lunghissima shot (Eko aveva voglia di raccontarci la sua INTERA ESISTENZA, scusate) e vi promettiamo che già nella prossima shot cose nuove ed incredibili cominceranno ad accadere!
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LIVING THE DREAM

In pratica è successo che Fler e Chakuza si sono sposati, e noi lo veniamo a sapere il giorno dopo quando, uscendo tutti dalle nostre camere e scendendo fino al piano terra per fare colazione, troviamo Bill e Bushido che fissano il vuoto aprendo e chiudendo la bocca come pesci rossi nell’acquario mentre Chakuza cerca di darsi un contegno spilluzzicando la colazione e Fler si regge un panno bagnato sulla testa, mentre la sua tazza di caffè nero viene riempita a intervalli regolari da un cameriere che pare messo lì apposta per fare solo questo.
Io, per la verità, neanche volevo scendere a fare colazione. Stavo bene in camera mia. Mi hanno piazzato in una ricostruzione in piccolo della foresta Amazzonica, con le liane che pendono giù dal soffitto e le pozze d’acqua sul pavimento in bagno, che non ho ancora capito se è per mantenersi in tono con l’ambiente o perché s’è rotto lo sciacquone e per tamponare l’esondazione in bagno ci ho dovuto mettere gli asciugamani. Tant’è che poi per fare i bisogni ho dovuto usare il bagno di Kay, che invece è stato infilato in una stanza della reggia di Versailles trasportata qui appositamente da Parigi, e ha le tende di broccato pure nella doccia. Una roba, veramente.
Comunque, io stavo lì tranquillo appeso alla mia liana e dondolavo a testa in giù, quando il telefono squilla urlando come Tarzan. Saltando agilmente da una liana all’altra, mentre il mio pigiama-perizoma svolazza nell’aria umida della foresta pluviale, giungo fino al comodino ed allungo un piede prensile verso la cornetta. La stringo fra le dita e la pianta del piede e, piegandomi con notevole nonchalance, la porto all’orecchio, rispondendo con un verso scimmiesco. Poi mi rendo conto che mi sono lasciato un po’ trasportare e mi riprendo.
- Pronto? – dico, e Kay, dall’altro lato, trattiene il fiato, prima di rispondere.
- Vieni giù, - mi fa, - abbiamo un problema.
Insomma, vado di sotto e poso gli occhi sulla coppia reale in stato catatonico, e ipotizzo che una maledizione sia stata lanciata sul nostro re e sulla nostra principessa. Sicuramente qualcosa che coinvolge il primo cavaliere e il consigliere di corte deve essere accaduta, perché mai Bushido e la principessa sono stati in questo stato, se non per cose che coinvolgessero Chakuza e il suo consorte privo di fissa dimora.
- Insomma, - domando, prendendo posto accanto al principino Tom che, gli occhi ancora chiusi ed evidentemente infastidito dall’essere stato buttato giù dal letto a quest’ora, dorme col naso affondato nella propria tazza, - che è successo?
Bushido continua a fissare il vuoto mentre la nostra reale sovrana prova a rispondermi, non ci riesce e pertanto tira fuori un fazzoletto di pizzo da non so dove e ci scoppia a piangere dentro, tutto scosso dai singhiozzi, mentre Fler si lamenta perché il suono del pianto di Bill lo infastidisce e Chakuza si passa una mano sul viso, spossato.
- Fler e Chakuza si sono sposati. – chiarisce per tutti Kay. Tom affonda di un altro paio di centimetri nella propria tazza, poi gorgoglia e si tira su, il naso impiastricciato di schiuma. Si pulisce con un tovagliolino e poi torna a dormire in piedi.
Io guardo il mondo – Bushido ancora imbambolato, Bill che piange più forte al solo sentire il problema che viene ripetuto ad alta voce da Kay, Fler e Chakuza che indossano degli anelli orrendi e quei due strani amici dei gemelli che, dimostrando molta più intelligenza di tutti noialtri, se ne stanno per fatti loro ignorandoci – e spalanco gli occhi.
- Mi sa che voi due vi siete bevuti il cervello, - dico, rivolgendomi alla coppia di novelli sposi, - e se ve lo dico io che fino a due minuti fa stavo penzolando giù da una liana, potete credermi.
- Stavi facendo cosa? – domanda Kay, fissandomi con un paio d’occhi pallati che sono tutto un programma, ma io lo liquido con un gesto della mano perché mi pare che qui i problemi siano ben altri. Questi due si sono sposati, non so se rendo l’idea. Ora noi torneremo in Germania e tutto il mondo titolerà che Fler e Chakuza sono la prima coppia di rapper tedeschi gay ad essersi unita in matrimonio. No, voglio dire. Chakuza e Fler. Ce li avete presenti?
Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore.
- Senti, non mi sembrano fatti tuoi. – protesta Chakuza, evidentemente di malumore. Dico io, se dovevi essere così uggioso, tanto valeva che non ti sposassi affatto. Ti ho forse obbligato io a farlo? No, sto esprimendo un’opinione su quello che credo sia stato un comportamento assolutamente folle. Puoi tu odiarmi perché do voce alle mie proteste? Ma assolutamente no. Qui mi sa che l’usciere di corte si sta prendendo delle libertà che se il nostro signore e padrone fosse in sé non gli concederebbe assolutamente. Solo che egli non è in sé, quindi mi tocca difendermi da solo.
- Sto solo dicendo – ribatto, fissandolo in cagnesco, - che non mi sembra una gran pensata quella di sposarvi. Non avete riflettuto sulle conseguenze di questo gesto? Il matrimonio è un vincolo sacro.
- Ah, e tu sei il massimo esperto in materia, suppongo! – sbotta Chakuza, battendo un pugno sul tavolo. Fler, al suo fianco, mugola dolorosamente e gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo. No, dico. Lo ripeto. Gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo! Ma delicatamente, come la moglie che è! Non credo di aver mai visto niente di più gay in vita mia, ed io ho accompagnato Bill a fare shopping. No, per dire.
Mentre ancora inorridisco per questa cosa della mano sul braccio – me la sognerò nei secoli a venire, il mio sonno non sarà mai più tranquillo e sereno, io che ho sempre dormito come un bambino, mi viene da piangere – Fler si toglie la pezza bagnata dalla testa e manda giù un po’ di caffè, per poi rivolgersi direttamente a me. Io mi metto a bere il mio latte macchiato perché ho paura che mi contagerà con la sua gaytudine se mi guarda dritto negli occhi. Come Medusa, ma con delle miniature dei Village People per capelli al posto dei serpenti.
- Eko, - mi spiega con pazienza, - eravamo ubriachi, non ci abbiamo riflettuto granché sopra e probabilmente abbiamo agito in maniera avventata, ma non siamo pentiti di averlo fatto e ci rendiamo perfettamente conto della nostra situazione adesso. Siamo molto contenti di come sono andate le cose, e ti pregherei di rispettare almeno questo.
- Sono contenti, loro! – strilla a quel punto Bill, il viso inondato da una marea di lacrime e mascara. La sua voce è talmente alta che Fler fa una smorfia e torna a nascondersi sotto il suo panno bagnato, sofferente. – Siete contenti, eh? E io non ho potuto nemmeno organizzare un rinfresco, o occuparmi dei fiori per decorare la cappella! Scommetto che non c’era nemmeno una rosa bianca sulla navata centrale!
- Io scommetto che non c’era nemmeno la navata. – borbotta Tom, gorgogliando col naso di nuovo tuffato nel caffellatte, e Bill torna a piangere, lanciando il fazzoletto ormai sporco alle sue spalle e centrando in pieno il cesto pieno di altri fazzoletti usati che il cameriere dritto in piedi dietro di lui regge fra le braccia, per poi prenderne un altro dal dispensatore che un altro cameriere, fermo al suo fianco, gli porge con sussiego.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, fissandolo con sconcerto.
- No, dico, - sbotto, - è questo il problema? Cioè, tutta questa tragedia greca, - dico, indicando in un gesto omnicomprensivo i pianti, i fazzoletti, tutta la corte depressa forzata a scendere per la colazione ad orari indecenti eccetera eccetera, - non è perché quei due si sono sposati ma perché la principessa non è stata avvertita in tempo per organizzare le nozze?
Mentre Bill scoppia in lacrime un’altra volta, perché evidentemente le mie parole hanno fatto centro nel cuore del problema, Bushido sospira e sorseggia il proprio caffè con l’aria compunta di uno che soffre molto ma non vuole darlo a vedere per orgoglio personale; una faccia che per la verità ha spesso, perché voi dovete sapere che il nostro signore e padrone, qui, è convinto che tutto il mondo ce l’abbia con lui. C’è la vita vera, e poi c’è la vita che Bushido è convinto di vivere nella propria testa, e in questa deviazione della realtà il cosmo intero complotta contro la sua felicità, ma lui, con la sua forza, il suo eroismo e la sua caparbietà è sempre in grado di ribaltare situazioni senza speranza e risolvere ogni problema, mentre cavalca in sella al proprio stallone bianco panna verso il suo per sempre felici e contenti.
Naturalmente non c’è bisogno che io stia qui a dirvi che è tutta una montatura, che in realtà quest’uomo oltre al fatto che gli va sempre bene in generale ha anche una fortuna sfacciata che, tipo, gli permette di non morire mai, una roba che le persone normali purtroppo non possono neanche sognare, ma lui ci crede molto, e questo gli permette di andare in giro a fare quella faccia lì, la faccia dell’eroe tormentato, e crederci pure tantissimo, e risultare per questo molto convincente mentre beve il suo caffè e si pinza la radice del naso come non riuscisse a capacitarsi di avere tutte queste sfighe, poverino.
- Io, per la verità, di problemi con quello che è successo ne avrei parecchi. – dice, lanciando a Fler un’occhiata tale che mi viene voglia di agitargli una mano davanti alla faccia e dirgli “whoa, ehi, adesso, calmiamoci prima di scatenare un conflitto atomico solo perché il nostro ex amante si è sposato con l’usciere”, - Ma sì, sostanzialmente il problema che ha scatenato la tragedia sotto i tuoi occhi al momento è questo.
- Ci tenevo così tanto, Eko! – squittisce disperata la principessa, riemergendo dal fazzolettino usato e soffiandosi il naso con veemenza.
- Ma se neanche sapevi che avevano intenzione di farlo? – obietto io, inarcando un sopracciglio.
Bill si interrompe e per un paio di secondi cala il silenzio. E poi riprende a piangere con più convinzione.
- Sì, appunto! – dice, come se quello che ho appena detto fosse in qualche modo stato di aiuto alla sua causa, - Non ci tenevo solo perché non sapevo che sarebbe accaduto, ma una volta che è accaduto ho scoperto che ci tenevo tantissimo! Non capisci? Se me l’avessero detto, ci avrei tenuto un sacco!
- Bill, solo tu nel mondo puoi considerare l’interesse per un avvenimento retroattivo. – sospira Tom, facendo le bollicine nel caffellatte.
Nel mentre, però, io sono costretto ad ammettere che, in fondo, il ragionamento ha senso. Intendo, non è che Bill andasse in giro strillando di voler essere il wedding planner di Fler e Chakuza, ma non lo faceva solo perché non aveva idea del fatto che questi due volessero sposarsi. Probabilmente, se l’avesse saputo allora sì, sarebbe andato in giro strillando di voler essere il loro wedding planner e tutto. Ora da un lato sono grato a Chakuza e Fler per averci risparmiato l’imbarazzo, ma dall’altro mi dispiace per la povera principessa, che tiene a poche cose nel mondo – in genere tutte quelle sbagliate – e per giunta nessuno gliele dà mai.
- Okay. – annuisco quindi, e tutti si voltano a guardarmi con una preoccupazione decisamente fuori luogo, - C’è una sola soluzione, per questo.
- Eko, non credo che tu sia nella posizione di proporre soluzioni a problemi inesistenti. – borbotta Chakuza, guardandomi in cagnesco. Ma io vedo che la principessa ha sollevato gli occhi su di me e mi sta fissando speranzosa, e io non posso deluderla proprio adesso.
- Tu e Fler dovreste sposarvi di nuovo. – proseguo quindi, ignorandolo, - Qui, nella sala ricevimenti dell’albergo. Bill potrebbe avere il resto della giornata per organizzare l’evento, stasera potreste dire sì in una cornice meno squallida di una stupida cappella a Las Vegas con qualche finto prete ubriaco che vi benedice, e tutti sarebbero contenti.
- Eko! – si agita tutto Bill, lanciando via il fazzoletto e giungendo le mani sotto il mento, - Ma così, all’improvviso? Organizzare un matrimonio in sole dodici ore? È impossibile!
- Be’, - scrollo le spalle, guardando altrove, - se non pensi di potercela fare, meglio così, passeremo la serata fuori e ci divertiremo lo stesso.
- Stai scherzando?! – strilla a quel punto lui, saltando in piedi ed asciugandosi sommariamente gli occhi, - Mi metto subito al lavoro.
Abbandona la sala subito dopo, riapparendo dopo qualche secondo per afferrare suo fratello e Bushido e trascinarli via con sé, mentre loro gli sbraitano dietro di lasciarli andare immediatamente e lui, naturalmente, non sta affatto a sentirli.
A fare colazione restiamo solo io, Kay, i novelli sposi e i due amici dei gemelli, i quali spariscono a loro volta quando Bill si riaffaccia ed inarca un sopracciglio, segnale apparentemente sufficiente a convincerli a seguirlo con un sospiro.
- Nessuno ha chiesto il nostro parere. – nota a quel punto Chakuza, sconvolto.
Fler emette un lamento disperato, si toglie la pezza umida dalla faccia e si alza in piedi.
- Ho bisogno di dormire. – conclude, abbandonando il tavolo a propria volta.
Restando compostamente seduto, io mi godo il mio caffè ed il mio croissant, consapevole di aver compiuto anche oggi la mia buona azione quotidiana.
*
Con i preparativi, comunque, io non voglio avere niente a che fare. C’è solo un numero limitato di gaiezza che un uomo eterosessuale può sopportare prima di cominciare a dubitare delle proprie posizioni aperte e liberali, e Bill che si improvvisa wedding planner e si mette ad addobbare la sala conferenze dell’albergo riempiendola di nastri di seta, palle traslucide di vetro di boemia, rose rosa, giacinti e gelsomini supera abbondantemente quel numero già di per sé superato dal fatto che il matrimonio è quello di Chakuza e Fler, per cui io decido di lasciare ognuno alla propria occupazione – anche perché Bill il mio aiuto non lo ha chiesto – ed esco felice per le strade di Las Vegas.
Una cosa bella di Las Vegas è che fra il giorno e la notte non esiste la minima distinzione. Cioè, tu ti svegli tranquillo di buon mattino, bevi il tuo caffè, mangi il tuo biscotto, trangugi la tua fetta di pane tostato con burro e marmellata, poi prendi, esci e per strada sono le undici di sera. Cioè, non nel vero senso dell’espressione, intendo, non è che c’è una calotta di vetro sopra Las Vegas che simula il buio e il sorgere della luna eccetera eccetera, no; tu esci per strada a mezzogiorno e non è che è notte, c’è il sole e tutto, però ecco, locali che in qualsiasi altro posto nel mondo a quest’orario qui sarebbero chiusi a doppia mandata, a Las Vegas sono aperti.
Per cui io passeggio allegramente per strada mentre gente già ubriaca corre, urla e si bacia pubblicamente senza il minimo pudore, e poi trovo un localino simpatico che mi ispira, e decido di passare lì il resto della mia giornata.
Poi niente, entro, mi siedo, ordino una birra, guardo il palco e vedo che c’è sopra Valezka che canta, e decido che voglio passarci anche il resto della mia vita.
*
La cosa con Valezka è stata molto complicata. Lo è stata fin da subito, ma non sia mai detto di me che sono un uomo che non gli piacciono le cose complicate, perché io per le cose complicate impazzisco, cioè, mi piacciono proprio un botto, tant’è che vivo con Bushido. Cioè, non assieme, ma quasi, specie considerato il fatto che quando sei nel giro del Bu non c’è scampo, che tu viva a venti o a duecento metri da lui sarà sempre e comunque come se gli vivessi in casa. Bushido è il tipo che si presenta sulla porta di casa tua e ti dice “che stai facendo?”, e se tu tipo gli rispondi “guardavo porno in tv col dolby surround a volume massimo” ti strilla “non finché vivi sotto il mio tetto!”, e tu ti terrorizzi e gli rispondi di sì e spegni subito la televisione anche se dentro di te sei consapevole di non vivere sotto il suo tetto. È tutta una questione di modo di porsi, sapete, Bushido c’ha un po’ quell’atteggiamento che potrebbe vendere ventilatori in Lapponia.
Comunque, il punto non sono le enormi potenzialità di venditore di ventilatori porta a porta di Bushido, il punto è che Bushido è una cosa complessa, e il fatto che io sia un suo sottoposto dimostra che a me le cose complesse piacciono molto.
E infatti Valezka è tipo la cosa che mi è piaciuta di più in tutta la vita.
L’ho conosciuta che aveva ventun anni, ed io ne avevo diciannove. Eravamo due pischelli che non sapevano niente del mondo e volevano soltanto divertirsi, ma il punto non è tanto che fossimo giovani e avessimo voglia di divertirci, ma che non fossimo solo in due. Era infatti il duemiladue, e sapete cosa succedeva nel mondo fra il duemilauno e il duemiladue? Pacey e Joey si mettevano insieme, rovinando la vita di Dawson, e poi rovinandosi la vita a vicenda già che c’erano.
In sostanza, più o meno, è la stessa cosa che è successa a noi. Nel duemiladue, infatti, io lavoravo in un negozio di scarpe – no, lo so che sembra che quello che sto dicendo non abbia nemmeno una minuscola parvenza di logica, ma non è così, seguitemi e giuro che, alla fine, tutto avrà senso – da qualche anno, dopo aver lasciato la scuola, anche se in realtà sarebbe più corretto dire che è stata la scuola a lasciare me, nel senso che alla terza espulsione abbiamo entrambi capito che le nostre differenze erano inconciliabili, ed abbiamo pertanto deciso di prendere strade differenti, per la soddisfazione di entrambi.
Insomma, io lavoravo in questo negozio di scarpe che si chiamava Il Piede del Fauno, che voglio dire, è un nome ridicolo e anche fuorviante, perché i fauni hanno piedi caprini ma noi non vendevamo scarpe caprine, vendevamo scarpe normali. Era un lavoro part-time, stavo lì solo qualche ora ogni mattina, anche perché il proprietario, il vecchio signor Wagner, aveva qualcosa come otto miliardi di anni e riusciva a restare sveglio e presente a se stesso solo nella fascia oraria fra le dieci del mattino e mezzogiorno, però ecco, io mi divertivo abbastanza, la paga non era male, tutto considerato, e di lì passavano un sacco di ragazzi perché principalmente vendevamo scarpe da tennis e in quegli anni la scarpa da tennis era un must per tutti gli adolescenti in tutto il mondo.
Insomma, è stato lì che un giorno ho conosciuto Kool Savas. Ovviamente, ai tempi non era Kool, era solo Savas, però aveva un progetto. È importante avere un progetto, nella vita. Pensate a Bushido, lui un progetto ce l’aveva, ed era diventare il più grande rapper tedesco mai esistito. Oh, è dovuto passare per l’inferno, per riuscirci, ma c’è riuscito, eh. E tutto perché aveva un progetto.
Anche Savas ne aveva uno. Un pelo più modesto – aprire un’etichetta e diventare famoso – ma ce l’aveva. E un giorno entra al Piede, che gli servivano un paio di scarpe nuove, e mi trova lì che sistemo scarpe sugli scaffali cantando Ready to Die, e mi fa “Tu!”. Al che io mi volto e lo guardo, e tenete presente che io appunto ai tempi ero poco più di un pischello, mentre lui praticamente era già un uomo adulto. Per cui mi fa “canti bene”, e io ovviamente reagisco come reagiscono tutti i pischelli quando un uomo adulto fa loro un complimento, cioè da un lato mi sento fighissimo e dall’altro mi pongo due o tre dubbi su cosa il tipo voglia da me.
Lui mi fa “guarda, sto aprendo un’etichetta. Se ti va, vieni in studio e ti facciamo un provino”, e poi mi passa questo bigliettino da visita col suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono.
Sul subito ero un po’ incerto, cioè, ero consapevole che non è che potessi rimanere impiegato al Piede del vecchio signor Wagner per sempre, anche perché lui aveva già passato l’ottantina e mi aveva già detto che, alla sua morte, il Piede sarebbe morto con lui. Per inciso, in questo momento il vecchio signor Wagner ha superato abbondantemente i novanta ma è ancora perfettamente vivo e vegeto, e il Piede assieme a lui. Comunque, niente, non è che io sognassi di diventare un cantante o chissà che, però mi sembrava che la prospettiva di mettermi a lavorare per un ventisettenne mi sorridesse un pelo di più che quella di lavorare per un ottantaduenne, per cui dico arrivederci al vecchio signor Wagner e, il giorno dopo, mi presento agli studi della Optik Records, faccio il mio provino e, fra poderose pacche sulle spalle e poderose dosi di birra alla spina, entro a far parte della grande famiglia di Savas.
Voi dovete capire, Savas, da quel momento in poi, per me è diventato una specie di punto di riferimento. Per dire, i miei erano divorziati, io sostanzialmente ero cresciuto senza un padre perché a quei tempi, capite, non era mica come adesso, quando un uomo se ne andava di casa non è che si prendeva bene coi diritti del padre, i finesettimana insieme, le visite giornaliere e tutto il resto. A quei tempi te ne andavi di casa e basta, e mio padre questo aveva fatto. Quindi niente, quest’uomo che non era assolutamente vecchio al punto da farmi da padre ma che in parte si comportava da tale, quest’uomo che mangiava solo lattuga e beveva solo latte di soia, quest’uomo che suo padre era stato prigioniero di guerra e che aveva vissuto l’infanzia fra la Germania e la Turchia, quest’uomo che a meno di trent’anni era già indipendente e sapeva esattamente cosa voleva dalla vita, per me era una specie di faro nell’oscurità, uno che io lo guardavo e pensavo ecco!, alla sua età io voglio avere le stesse cose che avrà lui, voglio fare le stesse cose che fa lui. Magari mangiando bistecche, anche, ma insomma.
In ogni caso, succede che Savas mi accoglie nella sua vita come una specie di orfano adottato, anche se non sono orfano e lui non mi adotta. Un pomeriggio restiamo alla Optik a lavorare a qualche beat fino a tardi e, ad un certo punto, il mio stomaco esplode in gorgoglii sinistri, e lui si mette a ridere e mi fa “vieni a cena da me, ti faccio conoscere la mia ragazza”.
E qui entra in gioco Dawson’s Creek, appunto. Insomma, Savas mi porta a casa da lui, entriamo e io sento questa voce dolce che viene da una stanza che, dall’ingresso, non riesco a vedere. E Savas fa “Vale? Ho portato ospiti”, e lei si affaccia.
Vedo prima i capelli. I ricci! Questo casco enorme di ricciolini bellissimi che sembra di trovarsi davanti all’improvviso Diana Ross al suo meglio solo un pelo più bionda! Io non so bene come funzionino i colpi di fulmine, non è che mi sia capitato molte volte di prendermi così bene all’improvviso con una ragazza, ma sono abbastanza sicuro che quello per Valezka sia stato un colpo di fulmine. Ma non uno di quelli scemi, che ti prendi una cotta e dopo due mesi, importante per quanto la relazione possa essere stata, è già tutto finito. No, io guardo Valezka, la sua pelle color caramello, quei ricciolini, il sorriso enorme e quegli occhi scintillanti da cerbiatta, e penso “è lei!”, con entusiasmo, proprio, con convinzione, perché era lei davvero.
Unico problema: è la ragazza di Savas, ovviamente. Cazzo!, penso, dico, ma si può essere più sfigati? Vi pare che la donna di cui devo andarmi a innamorare perdutamente può essere una ragazza normale, libera, disponibile? No! Dev’essere la cazzo di tipa del mio datore di lavoro nonché pilastro e faro luminoso attorno al quale la mia nuova vita ruota. Dico.
Insomma, da questa cena io esco completamente traumatizzato, perché da un lato ho incontrato la donna della mia vita e dall’altro è la donna del mio migliore amico. Tragedia. Novello Pacey del rap tedesco, mi aggiro depresso per la città per giorni sapendo di voler baciare questa donna senza poterlo fare. E mi prendo pure male con me stesso perché a me Pacey stava sul culo. Cioè, ti affido la mia donna e ti dico “prenditene cura finché io metto a posto la mia merda” e tu te la limoni alle mie spalle, restauri una barca in suo nome, diventi il beniamino della sua famiglia eccetera eccetera? Ma sei proprio stronzo.
E quindi sono lì che mi sento uno stronzo e non voglio e prego intensamente che qualche altra donna che non sia la fidanzata di Kool Savas mi appaia davanti rubandomi il cuore, quando un giorno che sono solo agli studi ovviamente si presenta Valezka, e io perdo completamente il senno.
Siccome Savas è fuori ma dovrebbe tornare fra poco, mentre lo aspettiamo ci sediamo e parliamo un po’, e viene fuori che abbiamo un sacco di cose in comune, tipo che a nessuno dei due piace la maionese, che entrambi pensiamo che la gente abbia un’opinione esageratamente negativa nonché discriminante sui piccioni e che sia io che lei proviamo sentimenti contrastanti nei confronti del crème caramel. Cioè, più che altro lei ride e mi dice che non aveva mai pensato a nessuna di queste cose nei termini in cui io gliele ho presentate, ma che ora che le ha sentite è perfettamente d’accordo con me e le piace il mio modo di pensare. Una roba in seguito alla quale io sento di avere ogni diritto possibile di immaginare una lunga vita priva di maionese, piena di piccioni e moderatamente dotata di crème caramel al suo fianco, se non che mentre io sono perso in queste mie legittime fantasie noto che lei è nervosa e un po’ triste e continua a guardare l’orologio come una che ha una cosa tremenda da fare e allo stesso tempo vuole farla il prima possibile e non vuole farla mai.
Al che le chiedo se c’è qualche problema, ed è lì che lei mi fa questo sorriso minuscolo e triste così bello che io ovviamente mi innamoro di lei il triplo, e mi spiega che è da qualche settimana che cerca di trovare il coraggio per lasciare Savas. “Oddio,” le faccio io, “Lo sapevo che sarebbe successo. È colpa mia!”, e lei scoppia a ridere e mi fa “Eko, sei un cretino”, e poi mi spiega che no, non è colpa mia. Mi spiega che lei e Savas si sono messi insieme tre anni prima, che lei era solo una ragazzina, quando l’ha conosciuto, e che lui era fighissimo e faceva un sacco di cose appropriatamente fighissime tipo nutrirsi per settimane intere solo di bieta e ravanelli e via così, e che lei s’è innamorata di lui anche perché lui che era così adulto non la trattava come una ragazzina e tutto il resto, una roba che io potevo capire perfettamente perché, insomma, per me era stato uguale. Per cui le dico che la capisco e lei mi fa “ah, ti sei innamorato di lui anche tu?”, e io lancio uno strillo e sollevo entrambe le braccia e dico “no!”, e lei ride e mi dice “ti stavo prendendo in giro”, e io mi innamoro di nuovo e capisco che la mia vita da quel momento in poi sarà un continuo innamorarmi di lei di nuovo e di nuovo, così, senza soluzione di continuità.
Mentre io realizzo questa cosa che un po’ mi spaventa ma che in generale mi piace e basta, lei continua e mi dice che sì, insomma, è rimasta innamorata di lui per un sacco di tempo, ma che ha l’impressione di essere cresciuta, adesso, e non si sente più così attaccata a lui. Gli vuole bene, gli è affezionata, l’idea di spezzargli il cuore la devasta, però insomma, lui sta cominciando a parlare di convivenza e lei ha bisogno di chiudere questa storia prima che diventi troppo grande e ingestibile.
E io la bacio.
Tipo che non me ne frega niente! Okay! Che ancora non l’abbia lasciato, che magari possa cambiare idea e decidere di restare con lui, trasferirsi in casa sua, sposarlo e fare con lui un milione di bambini! Che mi abbia detto che comunque non è certo a causa mia che vuole lasciarlo! Non me ne frega niente. La bacio e basta. E mi batte il cuore tantissimo perché lei mi piace così tanto che il terrore di venire respinto è quasi paralizzante. Ma non a sufficienza, evidentemente, perché alla fine la bacio comunque.
E ovviamente è quello il momento in cui Kool Savas rientra, e ci trova in quel modo lì che ci baciamo impunemente all’interno di un locale per il quale lui e lui solo paga l’affitto.
Insomma, non proprio la cosa migliore che poteva accadere, specie perché Valezka voleva lasciarlo per tutta una serie di motivi validissimi e onesti, e lui invece ci ha beccati a fare l’unica cosa che quei motivi li invalida tutti. A quel punto non conta più che lei volesse lasciarlo già da prima che ci conoscessimo, che sia semplicemente cresciuta e le sia passata la cotta adolescenziale e non si senta pronta a vivere tutto il resto della propria vita al fianco di un uomo di cui non è sicura di essere innamorata, no; l’unico motivo per cui lei vuole lasciarlo, dal punto di vista di Savas, è che io l’ho limonata in casa sua. Una roba falsa e pure un po’ triste, in definitiva, ecco, specie perché invalida tutta la questione del volergli ancora bene ed essere triste all’idea di spezzargli il cuore, una cosa che puoi dire quando lasci il tuo uomo perché ti è passata la cotta, ma che non puoi assolutamente dire quando lo lasci dopo che lui ti ha beccato a limonarti un suo sottoposto sul luogo di lavoro.
Insomma, Savas non la prende bene, ovviamente. Sfido io. Si lancia in tutta questa filippica un po’ imbarazzante, e come avete potuto, e in casa mia, e la mia donna, e io ti ho accolto come un fratello, e io ti ho dato l’opportunità della vita, e come ho potuto essere così cieco, e certo Eko che sei proprio uno stronzo e via così. Ci butta fuori entrambi, intimandoci di non farci più vedere o ci sguinzaglia contro i cani. E, dice, non in senso figurato. Al che io lo prendo in parola, perché non c’ho mezza voglia, proprio, di finire sbranato dai dobermann. Proprio ora, poi, che ho Valezka.
Lei è fantastica, ovviamente. Io mi scuso e lei mi sorride e mi abbraccia. “Non è colpa tua,” mi fa, e io sono già lì che penso che ora mi dirà addio e non vorrà più vedermi, e invece lei resta. Tipo che io mi ero trasferito in un appartamento che Savas mi aveva fatto affittare, si era anche preso cura lui della caparra e tutto il resto, e ovviamente non posso più restare lì, e lei mi fa “vieni a stare da me”. Che lei non è che stia in una reggia, poi, ma a me sembra che lo sia perché è un appartamento così carino e così pulito e così profumato, e tutte le stanze hanno una parete dipinta, ogni stanza di un colore diverso, e i mobili sono in tinta. Che poi sono i mobili dell’IKEA, ma non si nota perché sono così carini e il tutto è assemblato con tanto gusto che io boh.
E quindi niente, io per un po’ cerco qualche altro lavoro, non funziona niente, provo a chiedere al vecchio signor Wagner di riprendermi con sé che così almeno cerco di provvedere per la spesa come un brav’uomo dovrebbe fare per la sua donna, ma lui con quel suo unico dente residuo in bocca mi dice “aria, ragazzo!”, che ha già preso un altro tipo più giovane e scemo di me e può pagarlo la metà per fare il doppio delle cose.
Nel mentre, Savas non può sguinzagliarci contro i cani perché io e Valezka ci teniamo ben lontani dalla sua proprietà, ma nel mentre, per pura soddisfazione, mette in moto la macchina delle diss, e in un paio di settimane tutte le radio underground che passano rap locale risuonano del nome mio e di quello della mia ragazza affiancati ad epiteti non proprio piacevoli tipo troia, vacca, stronzo e derivati. Una roba di una tristezza immensa che va avanti per settimane, ma che dico settimane, mesi!, ma che dico mesi, no, mesi, giusto, non va avanti per più di qualche mese.
Perché? Perché a un certo punto arriva Bushido.
Bushido arriva che io ho da poco trovato lavoro in un bar e preparo caffè per gente triste con lavori seri dalle sei del mattino alle sei di sera. È un lavoro abbastanza schifoso che mi costringe a stare in piedi a fare sempre le stesse cose per dodici ore filate, che dopo mesi che tu sei stato un cantante è una roba un po’ schifa, ma anche che dopo anni passati a vendere scarpe da tennis per un matusalemme con un solo dente e la gengiva più bavosa del west è una cosa un po’ schifa, il che dovrebbe funzionare bene come termine di paragone, perché quanto credete che potesse essere bello lavorare per il vecchio Wagner? Ecco, lavorare al Falce di Luna era pure peggio. Volete sapere perché si chiamava così? Ecco, perché Youssuf, il proprietario, si vantava che il bar apriva quando ancora la luna non era tramontata, e chiudeva che già era sorta di nuovo da un pezzo. No, dico, vi pare un buon motivo per vantarsi? Io dico che se vi vantate per una roba simile siete degli schiavisti impenitenti che sfruttano i lavoratori bisognosi pagandoli dieci centesimi all’ora senza neanche permettere loro di portarsi a casa le mance, ecco.
Comunque, la cosa principale del Falce di Luna, oltra al fatto che è il posto peggio del mondo in cui lavorare, è che è un bar di Tempelhof. E voi a chi pensate se io dico Tempelhof? Eh, infatti.
Bushido mi si para davanti un giorno che sono le sette del mattino e io ho sonno. La cosa che ci accomuna, quella sulla quale troviamo subito terreno di comunicazione, è che ha sonno anche lui. Entra, mi fa “non ho dormito tutta la notte”, e io, che sono una persona sincera, dico “io sì, ma ho sonno uguale”. Al che lui mi guarda, si abbassa gli occhiali da sole palesemente troppo costosi sul naso e sorride divertito. Mi fa “e tu chi sei?”, e io potrei anche rispondergli dandogli tutti i miei dati anagrafici e una breve cronistoria della mia esistenza, ma mi dico, a che pro? E gli dico “sono Eko, il barista. Caffè?”, e lui fa “certo, Eko il Barista, caffè”.
Poco dopo entra Youssuf, che nel mentre era impegnato a scaricare il camioncino con le ciambelle. Entra con la sua bella confezione di ciambelle e vede che io ne voglio palesemente una, ma mica me la dà, lo stronzo. No! Si mette lì a sistemarle nella vetrinetta accanto al bancone, con compiacimento, proprio, che, se potesse, si metterebbe a cantare “ed Eko niente ciambelle, ed Eko niente ciambelle!”.
Ovviamente, Bushido e i suoi occhiali da sole palesemente troppo costosi se ne accorgono. E fanno, “Youssuf, Atze, fammi un favore, allungami una di quelle ciambelle, una di quelle con la crema, grazie”, che io non so neanche come facesse a sapere che volevo proprio quella lì, ma lo sapeva. Io non lo sapevo ancora, cazzo, ma lui sì.
E Youssuf, uno stronzo che io non gli ho mai visto neanche offrire una caramella a un moccioso, prende e gli dà la ciambella. “Certo, Atze,” gli fa. E io lì capisco che ho davanti un tipo importante. O pericoloso. O anche entrambi, perché porre limiti alla Provvidenza?
Comunque, lui aspetta che Youssuf sia sparito di nuovo, e poi, tranquillo come se non stesse succedendo niente, come se non stesse violando delle leggi, tipo, nel farlo, mi offre la ciambella. Lui la ciambella non l’ha nemmeno pagata, eh, gli è stata offerta a sua volta. E lui la offre a me. “Tieni,” mi fa, “Sembri avere fame.”
Dico, c’ho la faccia del bambino africano con la pancia rotonda e la mosca sull’angolo dell’occhio? Ce l’ho? Non mi pare. Ma la ciambella ha un aspetto appetitoso e io ho effettivamente fame, quindi mi faccio passare il rigurgito di orgoglio e la mangio, non prima però di aver fatto all’uomo un cenno di ringraziamento, non si dica che mia madre mi ha cresciuto ineducato.
Poi, mentre sorseggia il suo caffè, mi fa “io comunque ti conosco”, e a quel punto, mentre pulisco il bancone e servo gli altri clienti che man mano entrano ed escono dal bar, ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno, chi sono, chi non sono, che ho fatto, che non ho fatto, dove mi ha già visto?, boh, forse da qualche parte mentre ero in concerto, o forse ha visto qualche video che hanno passato in televisione, e quando glielo dico lui s’illumina, spalanca l’occhione color cioccolato e mi indica. “Eko,” fa, “Eko Fresh!”, e io “presente!”, tristezza. Lui scoppia a ridere e mi fa “senti, sono curioso: cos’è successo davvero fra te e Kool Savas?”, e io, placido, “gli ho rubato la ragazza”. Pausa di silenzio. La pausa si prolunga. Io nel mentre gli ho preparato un altro caffè e lui, prima di parlare ancora, lo beve tutto. “Ma che, davvero?”, mi fa, e io annuisco. E mentre sono lì che penso con serietà alla mia vita, alle mie scelte e al fatto che servo caffè al banco di un bar nel quartiere peggiore di Berlino perché non sono stato in grado di tenere l’uccello nelle mutande, metaforicamente parlando, Bushido sorride. Sul momento è un sorriso che non riconosco, anche perché non lo conosco, come fai a riconoscere una cosa che non conosci? Passaggi logici che si perdono ovunque. Comunque, sul momento non lo riconosco, ma col passare degli anni imparerò a capire cosa vuol dire. Vuol dire soldi, e sembra che io sia appena diventato una gallina dalle uova d’oro.
“Eko il Barista,” mi fa lui, tirando fuori dal portafogli una banconota da cento euro e posandomela lì sul bancone, “Io ho un sogno.”
“Minchia,” penso io, occhieggiando la banconota, “Forse lo sto avendo pure io.”
Insomma, com’è, come non è, due giorni dopo torno a casa da Valezka con un contratto ed un sacco di soldi per produrre un album di coppia, io e lei insieme. È il periodo più bello della mia vita. Io e Valezka non facciamo altro che cantare insieme, limonare ovunque ed improvvisare pic nic sul tappeto peloso rosa del suo salotto. Nel mentre, io comincio a partecipare alle spese di gestione dell’appartamento, e quindi casa di Valezka piano piano diventa casa nostra, ed è una cosa bellissima. All’improvviso non importa più a nessuno dei due che fuori da quelle quattro stanze ci sia un mondo tremendo in cui sia io che lei abbiamo tradito la fiducia di un caro amico, ed ora che quel caro amico, ferito, ci odia, noi ci facciamo sovvenzionare da uno che sta facendo la propria fortuna sulle diss che riesce a produrre su qualsiasi altro rapper di una certa rilevanza della scena tedesca. A Bushido non importa che l’obbiettivo sia Sido, piuttosto che Fler, piuttosto che Kool Savas, gli interessa semplicemente averne uno, perché ogni volta che abbatte qualcuno sale di un gradino sul fianco della piramide sociale, e a lui interessa la cima. Poi, se glielo chiedi, lui ti dice che è un romantico, eh. Ti dice che lo sta facendo per proteggere il tuo amore e quello della tua donna, che la vostra storia l’ha commosso, che l’amore vince sempre e lui modestamente è il cavaliere dei puri di cuore e tutto il resto, ma la verità la sappiamo noi e la sa anche lui, quindi non importa.
Poi succede quello che succede sempre quando le cose vanno così bene che tu quasi non riesci a crederci: tutto finisce. E no, non succede d’improvviso. Non è che da un giorno all’altro cose che fino al giorno prima avevano sempre funzionato benissimo improvvisamente smettono di funzionare lasciandoti a piedi come l’auto nuova comprata due mesi fa e dalla quale non ti saresti mai aspettato un tradimento simile.
Le cose richiedono sempre una buona quantità di tempo prima di accadere. La cosa è che, mentre loro lavorano in background per rovinarsi come l’antivirus mentre navighi su YouPorn lavora in background per bloccare i peggio pop up e i peggio malware, tu non te ne accorgi. Non le noti nemmeno, le piccole cose che capitano. Loro capitano e tu niente, completamente ignaro. Chiaro che, quando poi ti esplodono in faccia come i palloncini quando li gonfi troppo, ti prendono di sorpresa. Ma non è che siano davvero sorprese, lo sono solo per te.
E infatti, quando Valezka dopo un paio d’anni di convivenza è venuta da me e mi ha detto “e allora?” è stata una sorpresa solo per me, che avevo vissuto quei due anni in uno stato di beatitudine perfetta inseguendo il sogno del cantante innamorato sotto protezione dell’eroe romantico del nuovo secolo; non è stato per niente sorprendente per lei, invece, che quei due anni li aveva vissuti aspettandosi qualcosa che non arrivava mai e che probabilmente avrebbe continuato a non arrivare mai se lei avesse continuato ad attenderla silenziosamente.
A quei tempi, tutta la questione mi sembrò surreale. Avevo ventidue anni, ma mi sentivo ancora un ragazzino, e sentirmi dire cose tipo “dobbiamo pensare al nostro futuro”, “ci servirà una casa più grande”, “mi piacerebbe avere un giardino” e “se fosse femmina potremmo chiamarla Cynthia” mi terrorizzò profondamente. Non ci avevo mai pensato, non avevo la minima intenzione di pensarci e mi sembrava assurdo che Valezka lo stesse facendo, per cui ogni volta che lei tirava fuori uno di questi argomenti con quella sua aria sognante e piena di speranza per il futuro la mia reazione era l’unica possibile: tacere.
E infatti sono stati i miei silenzi ad uccidere la nostra relazione. Un giorno lei è venuta da me – e posso solo immaginare quanto le sia costato raccogliere il coraggio e confrontarsi apertamente con me per una cosa che, avessi io avuto un cervello normale, non avrebbe avuto bisogno di nessun confronto – e mi ha chiesto “e allora?”, ed io non ho neanche potuto fare il finto tonto, perché sapevo esattamente a cosa si stava riferendo. E perciò le ho detto l’unica cosa che potevo dirle in una situazione come quella, che poi era la verità. “Non sono pronto, Vale,” le ho detto. E lei, donna con due palle così, che quando a me mi dicono che la donna era meglio nel Medioevo io m’incazzo perché come Valezka non ce n’erano mica, nel Medioevo, l’ha accettato. Non c’è stato odio o risentimento, nel nostro addio, niente stronzate del tipo “ho sprecato i migliori anni della mia vita per starti dietro”. Nessuno aveva sprecato niente, e lo sapevamo. Eravamo stati felici. Non c’era nessun motivo di rovinare il ricordo di ciò che era stato solo perché, da quel momento in poi, non poteva più esistere.
Quella sera, dopo aver preparato una borsa con un po’ di biancheria pulita e lo spazzolino da denti, sono uscito da casa di Valezka per non rimetterci più piede, e sono andato da Bushido. Lui mi ha accolto in casa sua, che ai tempi non era ancora la Villa Gialla, ma ci stavamo arrivando, e mi ha ascoltato pazientemente di fronte ad un’insalatiera piena fino all’orlo di kebab preso dal suo kebabbaro di fiducia. Dopodiché mi ha guardato con quegli occhi che fa sempre quando ti vuole bene ma pensa che tu sia stupido, e mi ha detto “Eko! Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per farvi diventare i nuovi Romeo e Giulietta del giovane rap tedesco,” e poi ci siamo messi a ridere. Al che mi ha chiesto come stavo, ed io ho risposto sinceramente che, tutto considerato, stavo piuttosto bene. Lui ha annuito, mi ha ospitato per la notte e il giorno dopo mi ha trovato un appartamento, che poi è quello in cui vivo ancora oggi, ed un contratto per entrare a far parte dell’Ersguterjunge.
Non è che io sia triste per come le cose sono andate, alla fine. Ho una visione della realtà semplicistica abbastanza da pensare che le cose vanno in un modo perché devono andare in quel modo lì, poi sta a te prenderne il meglio e non lasciarti sommergere dal peggio. Secondo me, se a fine giornata puoi andare a letto pensando “bene! Oggi non mi sono lasciato sommergere dal peggio”, hai già vinto. Ed io, modestamente, non mi sono lasciato sommergere mai. Anche perché sarebbe un problema, non so nuotare.
Ogni tanto, però, tipo adesso, o meglio adesso specialmente, visto che ce l’ho di fronte che canta l’ultimo successo di Alicia Keys, ripenso a Valezka e alla sua casa con le pareti colorate e al suo tappeto di pelo rosa sul quale facevamo lunghi pic nic indoor parlando della danza d’accoppiamento delle api o del ritrovamento di uno scheletro alieno in fondo all’Oceano Pacifico, e mi viene da pensa che sì, forse le cose sono andate esattamente come dovevano andare. Ma forse, se mi ci metto d’impegno, potrebbero tornare com’erano.
*
Mi si avvicina con quel sorriso che io non so come affrontare, seriamente. A parte che sono ridicolo perché la sto fissando come se fosse impossibile per lei trovarsi qui, mentre in realtà lo sapevo pure che s’era trasferita negli Stati Uniti un paio d’anni fa. È che mi fa un’impressione pazzesca trovarmela di fronte dopo tutto questo tempo.
Lei, ovviamente, è ancora bellissima, perché le persone che hai amato e che poi hai perso senza mai davvero smettere di amarle non diventano mai brutte. Anzi, semmai su di loro – ma solo su di loro – il tempo e la distanza hanno più effetto di una ricostruzione facciale completa, tipo, mentre tu hai sempre l’impressione che su di te il tempo sia passato senza pietà, rendendoti più vecchio e più brutto e con gli occhi un po’ più a palla e le guance un po’ più cascanti e la pancia un po’ più tonda e sporgente. E quindi io sono qui che la fisso chiedendomi se sia un fantasma o un’apparizione anche se so che non lo è, e tutto quello che riesco a pensare è “oddio, lei è bellissima e invece io sono diventato un roito!”, e mi prendo malissimo per questa cosa anche se coscientemente so che non è che posso essere diventato così tanto più brutto rispetto a quello che ero qualche anno fa, e poi lei finalmente arriva, si siede sulla poltroncina qui accanto a me, mi abbraccia stretto e mi chiama per nome. Così, con la voce della dolcezza. Ed io mi sciolgo perché questi anni che sono passati in mezzo a noi vengono spazzati via solo da quel nome, dal modo in cui lo pronuncia. Apro gli occhi e la guardo e siamo in quella casa, su quel tappeto peloso rosa. Anche se poi non è vero. Io mi sento come se fossi ancora lì.
E perciò potremmo parlare di un sacco di cose, tipo che lei potrebbe chiedermi come va, se sto con qualcuno, se ho in preparazione un nuovo album o anche qualche informazione sulle palesi pazzie che avvengono nella vita di noi tutti da quando Bushido è tornato dalla morte trasformandoci nell’avamposto tedesco dell’Arcigay, oppure io potrei chiederle cosa sta facendo per ora a parte le cover di Alicia Keys nei locali di Las Vegas, o potrei mettermi in ginocchio ed implorarla di uscire a cena con me anche se mi sa che a stento è mezzogiorno, ma niente di tutto questo accade. Io la guardo e le dico “sai cosa? Mi servirebbe qualcuno per cantare ad un matrimonio, stasera”. E lei mi fissa e la sua faccia dice tipo “cosa?”, e io annuisco. “Si sposano Chakuza e Fler,” dico, “Di nuovo. Ora, non sono sicuro che la principessa abbia previsto la presenza di una cantante, ma sono sicuro che le farà piacere. Vieni con me?”
E sono sicuro al cento percento che, di quello che dico, Valezka non capisca un accidente. Si starà chiedendo chi diamine sono Chakuza e Fler, perché sentano il bisogno di sposarsi un’altra volta, e soprattutto chi sia la principessa, ma non fa nessuna di queste domande, ed io non le do nessuna di queste risposte. Si mette a ridere, però, ed annuisce. Poi si alza e viene con me. È un buon inizio.
*
Quella sera, Valezka indossa un vestito pieno di volant e trine della stessa tonalità di fucsia degli orli e delle pochette che spuntano dai completi neri di Bill, di suo fratello e di Kay One, forzati a fare le damigelle d’onore in mancanza di donne più adatte allo scopo. Bushido, avvolto in un elegante completo grigio scuro, siede in prima fila, imbronciato come se gli fossero morti tutti i cani tutti insieme, una roba vergognosa. Io, infilato in un completo di lino beige, gli batto un paio di pacche sulla spalla.
- Coraggio, Atze, - gli dico, - È un po’ come dar via una figlia, no? – provo a consolarlo, mentre di fronte all’altare Fler e Chakuza si scambiano pigramente i loro anelli dalle forme improponibili per una seconda volta che non dev’essere per niente meno surreale della prima, sul sottofondo musicale di Bill che si perde in singhiozzi e di Valezka che canta No One.
- Ecco, appunto, Eko. – dice lui, ringhiando, - Ti pare che, se avessi una figlia, la darei in sposa ad uno come Chakuza?
E qui non aggiungo niente perché in effetti mi rendo conto che sarebbe crudele. Povero Bushido. Praticamente, se aveva un erede, nel mondo, quell’erede era Fler. Ora è come avere indirettamente regalato tutto il proprio impero a Chakuza. Il nano austriaco. Due volte! Avremo bisogno di molto champagne, più tardi.
La cerimonia finisce che il mal di testa di Fler è, se possibile, ancora peggiorato. Bill chiede a Chakuza di restare per un brindisi, ed è evidente che Chakuza vorrebbe dire sì perché è l’unica reazione che il suo corpo concepisce di fronte a Bill, un sì proprio generalizzato che si espande in tutte le direzioni e su tutti i piani di accettazione dell’uomo, ma prima di dare aria alla bocca si volta a guardare Fler, vede in che condizioni è e, miracolosamente, risponde di no.
- Devo riportarlo in camera o sviene. – aggiunge con una mezza risata. Fler gli tira un cazzotto contro una spalla che non dev’essere stato nemmeno tanto tenero, e lui non si lamenta neanche. Mi volto verso Bushido con l’intenzione di dirgli “guarda! Almeno lo tratta bene, con rispetto”, ma lui mi zittisce prima ancora che io possa provarci. Eh, se vuoi essere geloso della tua progenie, allora. Siilo. Cosa vuoi da me.
Lo lascio andare, che tanto prima di poter pensare razionalmente a questa cosa che Fler s’è sposato con l’uomo che gli ha rubato Bill gli serviranno degli anni, e mi volto verso Valezka.
- È sempre così, da voi? – mi domanda ridendo mentre si sfila dai capelli i fermagli fucsia intonati col vestito.
- In realtà ci hai preso in una giornata quasi normale. – rispondo io. La cosa divertente è che non è nemmeno una battuta, sono serissimo.
È ancora più divertente, però, quando lei mi chiede se ho qualcosa da fare e se non mi piacerebbe andare a cena insieme da qualche parte. Sul momento vado nel panico perché, oddio, cosa le rispondo? Cosa sta succedendo? Farò bene ad accettare? Dovrei ritrasformarmi in Tarzan e colpirla sulla nuca con una mazza per poi trascinarla in camera mia fra le mie liane e le mie pozze acquitrinose?, però alla fine mi calmo, le sorrido, annuisco, la prendo per mano e camminiamo tranquilli verso l’uscita.
Quando domani partiremo per abbandonare il Nuovo Mondo e tornare nel Vecchio, lei sarà seduta al mio fianco, sull’aereo. Ma in quel momento lì io ancora non lo so. Mi godo la serata, il casino per le strade, la voce dolce e melodiosa di Valezka mentre chiacchieriamo del più e del meno di fronte a una buona bistecca ed abbondanti dosi di vino rosso, e penso che l’inizio non è buono, è proprio ottimo. E dalle premesse sembra che possa solo migliorare.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash.
- "Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è."
Note: E insomma. *si schiarisce la voce, guardandosi intorno e poi battendo un paio di colpi sul microfono per verificare che funzioni* Si sente? Uno, due, tre, prova, uno, due, tre, prova. Salve a tutti! Buonasera. *si guarda intorno in maniera imbarazzata* Non so quante volte vi ho detto "ciao, gente, il GD è tornato!" sentendomi scema perché in realtà non se n'era mai andato XD Ecco, questa è una di quelle volte. Quindi, il GD è tornato! Ma questo non stupisce nessuno perché capita con una frequenza di una volta ogni due mesi XD
Stavolta, però, torna in maniera più consistente, riprendendo in mano la storyline principale (...circa. Okay, è uno spin-off anche questo, ma vi giuro che racconta cose che interessano a tutti voi, tipo il Flerkuza che convola a giuste nozze. Eh? Non ho detto niente) per raccontarvi cose assolutamente folli e ridicole. E' anche la penultima shot ambientata in America! Gioite! Dopo questa ce n'è solo un'altra, e poi i nostri torneranno nelle amate terre patrie per continuare a raccontarci altre cose ridicole. Sono sicura che non volete perderveli.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PAURA E DELIRIO A LAS VEGAS

A me l’America non piace. Cioè, non so se l’America non mi piaccia, in realtà, perché l’America è grossa e lunga, cioè, intendo che è un continente molto esteso e tu non puoi passare un paio di settimane negli Stati Uniti in balia del piano-vacanze di una casalinga isterica così smaniosa che pare abbia messo piede fuori dalla Germania per la prima volta nella sua vita quando tu sai perfettamente che non è vero, e dire che l’America ti fa schifo. Principalmente perché non l’hai vista, hai visto solo quella frazione che la casalinga isterica di cui sopra, pianificando i tuoi spostamenti con una severità da generale nazista, ti ha permesso di vedere. Tutto il resto ti è ignoto, e in effetti tutto il resto è ignoto anche a me, ma posso dire con certezza che quello che ho visto dell’America non incontra il mio gusto, e d’altronde non avrebbe mai potuto essere altrimenti visto che, contrariamente alla quasi totalità del resto dei miei compagni di viaggio, io qui non ci volevo venire.
Seriamente. Quando Bill e Bushido, assisi sul loro trono di velluto e legno intagliato e laccato d’oro, hanno annunciato cerimoniosamente che saremmo partiti tutti assieme, come il circo che siamo, tutti si sono emozionati, perché Fler, per dire, al pensiero degli Stati Uniti si esalta ancora come un bambino, e New York è un po’ la sua Mecca personale, e per Bushido, Bill e Tom invece è un po’ come andare a stare nella cara, vecchia casa di villeggiatura che ormai si conosce a memoria ma si ama profondamente perché è comunque un posto che spezza la routine dei quattro palazzi in croce che sei sempre costretto a rivedere in loop quando resti a casa. Non vi dico poi la festa che hanno fatto Kay ed Eko, che pareva gli avessero annunciato, non lo so, che sarebbero presto stati ammessi in un club esclusivo che offre in dono ai propri iscritti un harem di vergini a testa.
Io, invece, non volevo partire. A me piace l’Austria, voglio dire, pure la Germania per la maggior parte del tempo mi sta sul cazzo perché è troppo metropolizzata, e quando tu sei uno che gli piace l’Austria, che gli piace stare nelle baite di montagna circondato solo da capre e vacche, che già il traffico sotto la finestra gli fa fare fatica a dormire, è chiaro che andare a passare tutti questi giorni in un posto in cui le macchine non si fermano mai, le persone parlano continuamente e di capre e vacche non se ne vedono nel giro di chilometri, non può essere la prima cosa da fare nella lista delle Cose Da Fare Assolutamente Prima Di Morire.
Ma sono partito, perché partivano tutti e non mi piaceva l’idea di fare il guastafeste e comunque Fler era così felice che non c’era proprio modo di disertare. Ci sono molte cose alle quali posso resistere – credo, anche se non ci ho mai provato, in realtà la resistenza non è proprio il mio forte – ma fra queste cose non c’è l’idea di andare in vacanza con Fler in un luogo distante miliardi di chilometri da Daniel. Lo so che non è una cosa bella da dire, o anche da pensare, e lo so che ormai il ragazzino in qualche modo è di famiglia, e non mi dà più nemmeno tutto questo fastidio, ma se mi si chiede, in tutta coscienza, “vuoi tu, Peter Pangerl, porre un oceano fra te, Patrick Losensky e Daniel Kobler?”, io, onestamente, non me la sento di dire che non voglio, sarebbe una menzogna bella e buona e io per lo più cerco di non mentire, visto che non sono capace di farlo.
Quindi sì, sono salito anch’io sull’aereo con tutti gli altri e ho ingoiato i numerosi rospi che mi è toccato mettere in bocca da quando ho messo piede in questo luogo che, peraltro, non presenta per me neanche un interesse di tipo scientifico-culinario. Voglio dire, sono passato davanti a dei ristoranti che avevano la faccia tosta di esporre davanti alla porta d’ingresso cartelli con sopra scritto “specialità di cucina americana”. Ma che specialità vuoi avere negli Stati Uniti? L’hot dog? Il pollo fritto? Capirei fossimo in Messico, ma qui! Gente che la cucina non sa nemmeno come la si usa, che i fornelli al più servono a scaldare i sughi pronti, che la cosa cotta più complessa che mangiano è la carne alla griglia. Suvvia. Era ovvio che mi sarei annoiato e infastidito oltre il limite consentito fin quasi a esplodere.
Ho sopportato, però. Avrei potuto essere molto più piaga di quanto non sia stato, avrei potuto guardare tutti in cagnesco e non lasciarmi coinvolgere quando Bushido, durante i pasti, mi chiamava al suo fianco per elencare il menu chiedendomi esplicitamente di riempirlo di assurdità se possibile nemmeno esistenti per far dannare i camerieri, avrei potuto stare sempre chiuso in camera senza seguire gli altri nei loro assurdi giri turistici, avrei potuto ignorarli tutti quanti quando si sono dati alla pazza gioia la mattina del provino, mentre i ragazzi stavano alla Maverick con Jost e noi siamo rimasti in albergo e poi Bushido ha avuto quella geniale idea della piscina ed Eko s’è messo a rincorrere quella ragazza con la gonnellina di mezze noci di cocco tenute su con un filo di spago, e invece no!, sono stato di compagnia, non mi sono immusonito troppo, ho bevuto, ho mangiato, cioè, ho partecipato a pranzi e cene senza affamarmi per protesta contro il trattamento palesemente poco equo che mi veniva riservato in quanto cittadino austriaco per nulla interessato a farsi una cultura sugli usi e i costumi statunitensi, ho supportato sua maestà nella nobile missione da lui scelta – fare impazzire tutti i capo-camerieri di tutti i (numerosi) alberghi in cui abbiamo soggiornato da quando siamo qui – e sono stato una compagnia generalmente piacevole anche se il più delle volte sono finito nella fila dietro con Kay ed Eko mentre Fler e Bushido andavano in giro tutti gonfi e tronfi a farsi belli per le strade di questa città orrenda con baracchini che vendono wurstel agli angoli sotto i semafori, persone che camminano venendoti addosso come se nemmeno ti vedessero e gente che dorme sotto i ponti avvolta nella carta di giornale.
Certo, però, non immaginavo che potesse esistere qualcosa di ancora peggiore rispetto a quello che avevo già visto. Mi sembrava di aver sopportato già abbastanza noia, luci notturne, venditori di hot dog e ragazze con lunghe chiome platinate finte ed enormi seni a palla finti e giganteschi sederi finti infilati in shorts di jeans costosi quanto una plastica facciale. E invece. Invece c’è Las Vegas.
Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è. È per questo che riesco a divertirmi. Perché so che, se un giorno dovessi darmi alla malavita e dovessi fuggire nella notte, non ci sarebbe nessun poliziotto in canotta nera con un caricatore per mitragliatore annodato in vita a mo’ di marsupio ad inseguirmi, e se anche un soggetto simile ci fosse, se io gli sparassi, lo lanciassi contro una vetrina infrangendola, gli piazzassi bombe sotto il sedere e infine lo investissi con un camion, lui morirebbe. Se non alla prima, alla seconda, o alla terza, o alla quarta. Prima o poi creperebbe, e io potrei scappare in Messico.
Quello che intendo è: è importante che i film ti mostrino la fantasia, così da darti gli strumenti per riconoscere la realtà. Confondere le due cose può essere pericoloso. Io diffido sempre dei film realistici, perché sapete come funzionano, i cosiddetti film “realistici”? Loro ti raccontano una storia verosimile, sì, ma poi ci mettono sempre quel particolare che non può accadere mai nella vita, tipo che lo sfigato di turno prende botte per tutto l’anno ma alla fine porta la reginetta della scuola al ballo scolastico, o tipo che la squadra più sfigata del campionato perde quindici partite di fila ma nella seconda parte della stagione cambia allenatore e quello mette tutti in riga ed alla fine loro vincono il titolo pur rimanendo dei bravi ed onesti calciatori da squadra di bassa classifica, o cose del genere. Il realismo è il cancro del cinema moderno, dico io, perché ti racconta una balla ma te la fa passare come una cosa plausibile, e tu ci credi, e questo porta solo casini. Più pallottole, meno lezioni di vita, questo voglio io dal cinema.
E quindi se il cinema mi mostra Las Vegas e i casinò e gli hotel e i bordelli di lusso e le insegne luminose e le conigliette di Playboy ad ogni angolo di strada e i turisti che spendono miliardi in una notte e la gente ubriaca che si diverte e tutte queste altre cose, mi aspetto che siano balle, e invece arrivi a Las Vegas e Las Vegas è esattamente così, uguale, precisa e sputata a com’era nei film che hai visto, e voglio dire, può esistere una cosa più sbagliata di questa? Io credo di no.
- Ma perché dobbiamo restare ancora? – chiedo, guardando malissimo l’entrata dell’albergo nel quale si suppone noi si dorma per le prossime due o tre notti, prima di tornare in Germania, - I Tokio Hotel hanno finito, no? Hanno già un radioso futuro che li attende fra le braccia di sua maestà, che per l’occasione assumerà il titolo di sua santità, suppongo. – dico sprezzante, - Potremmo anche tornare a casa, una buona volta.
Fler si allunga verso di me e mi tira uno scappellotto tanto forte che io quasi mi ribalto, mentre Jost mi passa accanto squadrandomi con malcelato schifo e poi prosegue il suo cammino oltre me con uno sbuffo stizzito.
- I ragazzi sono contenti di lavorare con Anis, - mi spiega Fler, mentre Bill, esaltato come un’adolescente in gita scolastica – e non sto mettendo apostrofi fra le parole a caso – informa suo fratello e Bushido di quanto meraviglioso sia l’albergo che lui e Fler hanno scelto appositamente per noi tutti, - ma ciò non vuol dire che siano felici all’idea di aver perso il treno con la Maverick, in qualunque modo ciò sia successo. – sospira, - Hanno bisogno di un po’ di svago.
- Sì, ma noi che c’entriamo?! – insisto io, pestando i piedi, - Io non mi sento depresso, o meglio, mi sento depresso, ma solo perché sono qui. Se tornassimo in Germania, starei subito meglio!
- Chaku, sei una rottura di palle. – commenta lui, sollevando gli occhi al cielo, - Non puoi provare a divertirti, per una volta?
- No! – sbuffo io, - Mi pare evidente di no! Voglio tornare a casa.
- Oh, tu non hai appena detto questa frase con questo tono di voce. – sibila Fler, voltandosi a guardarmi con sincero sconcerto.
- Sì, invece, l’ho detta. – annuisco io, per nulla imbarazzato dal palese sfoggio di infantilismo che mi sto concedendo con cognizione di causa, - Voglio tornare a casa. Odio questo posto. Voglio tornare a casa!
- Chakuza! – mi ferma lui, proprio nel momento in cui io stringo i pugni lungo i fianchi e quasi comincio a saltellare sul posto, - Abbi un minimo di contegno, santo Dio. Mi metti in imbarazzo. – borbotta, lanciando intorno a sé un paio di occhiate incerte.
- Tanto in questo posto incivile nessuno capisce il tedesco. – sbuffo io, contrariato. Lui inarca un sopracciglio.
- Dicevo con Georg e Gustav. Loro magari si aspettavano ancora che tu fossi una persona normale. – commenta incrociando le braccia sul petto.
- Ebbene non lo sono. – dico, scrollando le spalle, - Come d’altronde nessun altro in questo gruppo. E mi spieghi perché siamo venuti proprio in quest’albergo?!
- Perché è bello. – risponde lui con un mezzo sorriso, prendendomi per mano e cominciando a camminare in coda alla processione di gente che comincia ad entrare in hotel, - Le stanze sono tutte diverse, ognuna ispirata ad un tema differente, e vengono assegnate a caso. È divertentissimo, io e Bill quando siamo venuti qui in vacanza la prima volta ne abbiamo beccata una ispirata a Tarzan. Ti sarebbe piaciuta, c’erano anche i tanga leopardati nei cassetti.
- Ma che posto è questo?! – strillo allarmato, mentre entro in una hall tutto sommato normale, anche piuttosto elegante, piena di gente vestita benissimo che sorseggia martini e ride coprendosi la bocca col dorso della mano. - …no, sul serio, non sembra male. – commento calmandomi, mentre Fler ride divertito accompagnandomi all’ascensore, separandoci dal resto del gruppetto che comincia a sua volta a smembrarsi mentre le varie coppie vengono indirizzate verso ascensori diversi che conducono, suppongo, a diverse parti dell’albergo, - Adesso comincio ad avere paura di quello che troveremo in camera.
- Dai, se siamo fortunati becchiamo la stanza che hanno assegnato a me e a Bill al nostro… doveva essere il terzo o il quarto viaggio qui, sì. – annuisce.
- Ma si può sapere quante volte siete venuti qui insieme?! – sbotto irritato, mentre le porte dell’ascensore mi si chiudono a due centimetri dal naso.
- Era una stanza molto elegante, tutta nera e bianca. – racconta sognante Fler, ignorandomi o forse proprio non sentendomi, perso com’è nella sua testa, - Speriamo sia quella, dannazione alla mia memoria, non ricordo qual era il numero.
Io lo ignoro, perché non c’è molto altro che possa fare a parte afferrarlo per la nuca e fracassargli la testa contro una parete per farlo tacere, e perciò la sua voce rimane lì, una specie di sottofondo musicale mentre io cerco di pensare ad altro, tipo che massimo fra tre giorni sarò finalmente di nuovo a casa mia, dove mi accoglierà il familiare gocciolio di tutti i rubinetti sguarniti e quell’allegro rumore crepitante che fa tanto caminetto in cui si produce il forno elettrico ogni volta che sta acceso per più di venti minuti.
- Ah, eccola. – dice Fler, attirando la mia attenzione ed allontanandomi dai pensieri piacevoli ai quali mi stavo abbandonando, - La nostra stanza.
Lo affianco mentre lui lascia scivolare la tessera magnetica nell’apposita apertura e, quando la porta si spalanca sul palese universo parallelo che la nostra stanza è, impallidisco. Il perimetro della camera è ovale, e le pareti sono ricoperte di moquette viola traslucida, folta quasi come il pelo di un barboncino. Posso vedere fin da qui che, se mi appoggiassi al muro, la mia mano sparirebbe almeno fino al polso. C’è un armadio, in un angolo. Sembra in plastica. Ed è rosa. La sensazione è quella, straniantissima, di star guardando un mobile di Barbie ingigantito ed infilato in una stanza vera. Ho quasi paura di avvicinarmi ed aprirlo perché temo che, se tirassi la maniglia, le ante non si aprirebbero, ed io scoprirei che non sono vere ante, come quello non è un vero armadio, ma solo un blocco di plastica cavo con finte maniglie e finti solchi per far credere alla gente di poterlo aprire quando invece così non è.
Ma il pezzo forte dell’arredamento è un altro, ed i miei occhi lo registrano solo dopo, forse perché, ad un primo sguardo, l’immagine impressa nella mia retina era sembrata talmente assurda al mio cervello da non poter essere razionalizzata, motivo per il quale io avevo guardato la stanza e il letto non l’avevo neanche notato. Ma al secondo sguardo non posso proprio ignorarlo, e nel momento in cui comincio a rendermi conto della gravità della situazione sento provenire dal fondo della mia gola un rantolo esausto.
Il letto è un cuore enorme. Rosa, come l’armadio, ma morbido. È a forma di cuore la struttura in legno, è a forma di cuore la rete, è a forma di cuore il materasso, sono a forma di cuore pure le lenzuola ed i cuscini, tutto. Tutto sui toni del rosa, del bianco e del viola, per richiamare le pareti, suppongo, un tocco di classe che non può fare a meno di essere notato.
Fler allunga una mano ad accendere la luce. È rosa anche quella. E nel momento esatto in cui il lampadario – che sembra plastificato come l’armadio – si accende, si accende anche una fila di luci – neanche a dirlo: rosa – incastonate alla base del letto. Il quale, per pronto accomodo, si mette a ruotare su se stesso.
- Manca solo la colonna sonora. – uggiola Fler, sconcertato.
In quel momento, squilla il telefono. La suoneria sembra la musichetta di un carillon per bambini, con la differenza che suona molto somigliante a Lady Marmalade. E il Voulezvous couchez avec moi, ce soir? è polifonico.
Mentre io rimango in sconcertata contemplazione di questo disastro dell’arredamento moderno, una roba talmente pacchiana che anche se fossi ancora etero mi darebbe comunque i brividi dal disgusto, Fler attraversa la soglia, ne ha proprio il coraggio, ed io lo stimo molto per questo, e si avvicina al comodino sul quale è appoggiato il telefono, sollevandone la cornetta.
- Pronto? – risponde. Gli strilli ultrasonici che oltrepassano le barriere dello spazio e del tempo raggiungendo i miei timpani e facendoli esplodere in mille coriandoli sarebbero abbastanza per capire chi è il suo interlocutore, anche se qualche secondo dopo lui non lo esplicitasse. – Ciao, Bill. Dove siete finiti? Mh-hm, capisco. Noi siamo nella… - poggia una mano sulla cornetta, attirando la mia attenzione con un psst vagamente cospiratorio, - Chaku, - mi chiama sottovoce, - guarda un po’ dentro l’armadio, attaccato ad un’anta dovrebbe esserci un gagliardetto col nome della stanza.
- Ah, perché, si apre, quella roba? – chiedo, indicando l’armadio senza osare mettere piede nella stanza. C’è la moquette viola anche sul pavimento. Sarà alta almeno cinque centimetri. Scommetto che cresce spontaneamente e nessuno viene a tosarla perché ne hanno tutti paura. – E io non ci entro qua dentro, comunque.
Fler si china appena, apre il cassetto del comodino e ne tira fuori una sfilza di palle rosse attaccate l’una all’altra da supporti in plastica dello stesso colore, e me la tira addosso. Io la scanso con malcelato schifo, e mi concedo anche un urletto disgustato.
- Non fare il cretino. – mi rimprovera lui, ed io sospiro, rassegnandomi ad entrare ed aprendo l’armadio. Il gagliardetto c’è, sembra lo stemma della casata nobiliare delle Barbie dell’Ordine delle Vergini Devote al Rosa Fosforescente. Sopra c’è scritto “Pretty in Pink”. Se lo dice lui.
Riferisco il nome della stanza a Fler, che a sua volta lo riferisce a Bill. Sento la sua voce un po’ stridula chiedere “awww, il nome sembra così carino, com’è? È bella?”, e non lascia neanche il tempo a Fler di rispondere che subito si mette a strillare “io ed Anis siamo nella Presidential Beauty and Elegance! Ci fermiamo qui per cena, non scendiamo al ristorante. Voi restate in camera vostra?”
Fler mi lancia un’occhiata, e lo sgomento sul mio viso dev’essere tanto palese che non ha bisogno di pormi la domanda per rispondere.
- No, usciamo. – annuisce con sicurezza, - Porto il Chaku in giro. Sai cosa fanno gli altri? – chiede, una punta di speranza che rende più squillante il tono della sua voce, e che finisce immediatamente spazzata via dal suo volto quando Bill risponde blaterando qualcosa a proposito di Eko, di suo Kay One e di tournée per Las Vegas alla ricerca di ragazze da portarsi a letto coinvolgendo anche Tom e Georg per la bella presenza, mentre Gustav restava a dormire in camera propria per potersi svegliare all’alba ed uscire di buon’ora per scattare qualche bella foto del quartiere. – D’accordo. – sbuffa deluso, - Allora a doma—
- …cosa? – indago io, osservandolo allontanare la cornetta dall’orecchio per guardarla per qualche secondo come non potesse credere a ciò che ha appena sentito.
- Non ha neanche aspettato che finissi la parola! – sbotta sconvolto, riattaccando e lasciandosi ricadere stancamente sul letto. Io mi seggo al suo fianco, pensando chissà!, magari la consistenza morbida del materasso sotto il sedere mi ispira e riesco a sdraiarlo. Quest’orribile letto sembrerà meno orribile, se trovo un modo interessante per utilizzarlo.
E invece no, perché appena mi seggo alzo gli occhi al soffitto, giusto per capire se c’è la moquette anche lì, e vedo che, invece della moquette, c’è un enorme specchio, anche lui a forma di cuore, che riflette l’intera superficie del letto.
- …io qui non ci dormo. – sentenzia Fler, alzandosi istantaneamente in piedi. – Chaku. Usciamo.
- Sì. – annuisco, alzandomi a mia volta.
Io e lui non siamo mai stati così d’accordo in vita nostra, è prodigioso.
Finisce che c’infiliamo nel primo locale a portata di mano, che è un posto arredato come una tavola calda in mezzo al deserto, con gli sgabelli davanti al balcone e finti cactus di plastica pieni di lucine colorate fra un tavolino e l’altro.
Ci sediamo ad un tavolo accanto al quale un manichino vestito e acconciato come Uma Thurman in Pulp Fiction finge di ballare il twist. Ha i piedi imbottiti nudi e senza dita, è pallido come la morte e ha le labbra così rosse e le palpebre così nere da fare quasi paura. La parrucca che indossa è tutta scompigliata e, nel complesso, è l’immagine stessa della tristezza.
- Quando rientriamo ci facciamo cambiare stanza, Chaku, tranquillo. – cerca di rassicurarmi Fler, mentre fa cenno ad una cameriera di raggiungerci e lei, accelerando sui suoi pattini e disinteressandosi della gonnellina a quadretti che le si solleva sulle cosce nel movimento, si affretta ad obbedire, fermandosi proprio accanto a noi con un sorriso smagliante, già pronta a prendere l’ordinazione. – Due birre, grazie.
La ragazza prende nota e si allontana subito dopo. La sua lunga coda bionda termina in un boccolo dalla rotondità praticamente perfetta, che dondola sulla rotondità ugualmente perfetta del suo sedere mentre gira dietro il bancone per recuperare la nostra ordinazione. Io mi chiedo a cosa mi serva ancora notare cose del genere se tanto non le posso più toccare, e mi abbatto sul tavolino, sbuffando come una teiera.
- Già che ci sei, non potresti farci cambiare anche città? – provo in un uggiolio depresso, e Fler sospira, esasperato.
- Ne abbiamo già parlato. – mi ricorda, - Santo Dio, ti fa così fatica aspettare un paio di giorni?
- Se devo passarli in una stanza pelosa in cui tutta la mobilia è a forma di cuore, sì! – spiego io, rimettendomi dritto e battendo lievemente un pugno sul tavolo per sottolineare il punto della questione, e cioè che ho ragione. – Già in condizioni normali mi sarebbe di peso, perché voglio tornare a casa, ma così… e poi scommetto che la coppia reale ha una stanza come si deve, una stanza rispettabile! Spiegami perché noi siamo dovuti finire nel buduoir di Barbie Regina della Notte in Calze a Rete e Babydoll.
- Ti ho già spiegato che l’assegnazione delle camere è del tutto casuale, Chaku. – esala lui, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto. Le nostre birre, nel mentre, arrivano, e Fler saluta la cameriera bionda con un sorriso fascinoso al quale lei risponde arrossendo e stringendosi nelle spalle prima di sparire in un elegante volteggio sui pattini a rotelle. Io grugnisco e afferro la mia bottiglia di birra, mandandone giù metà in un sorso solo.
- Non credere che non l’abbia visto. – borbotto cupamente, e Fler ride.
- Ci credo che l’hai visto, l’ho fatto apposta. – risponde in scioltezza, bevendo un paio di sorsi dalla propria bottiglia. Io spalanco gli occhi, sconcertato.
- Puttana. – sbotto, riprendendo a bere. Fler ride di nuovo, stringendosi nelle spalle.
- In qualche modo dovevo pur distrarti. – si giustifica, - Quello non fallisce mai.
- Ah, sì? – domando io, scettico, - Be’, se vuoi un suggerimento, non c’è bisogno di metterti a fare il cretino con le cameriere, per distrarmi. Mettiti in ginocchio, scendi sotto al tavolo e segui la scia luminosa verso il cavallo dei miei pantaloni. Quello mi distrae che è una meraviglia.
- E poi sono io, la puttana. – ride ancora lui, gettando indietro il capo. Io bevo ancora un po’ di birra e seguo la linea del suo collo. Improvvisamente, il letto luminoso e ruotante a forma di cuore in camera mi sembra meno orribile di prima. È un letto, dopotutto.
- Be’, io quantomeno certe cose le chiedo a te, non mi metto a fare il deficiente con altra gente a caso. – borbotto con disappunto, e lui torna a guardarmi, inarcando un sopracciglio.
- Ma se ti ho visto prima che le facevi una radiografia completa al culo come se ne andasse della tua vita? – mi prende in giro, e poi, notando che la mia bottiglia di birra è già vuota e che anche la sua si appresta a fare la stessa tragica fine nel giro di un altro sorso, chiede ad un cameriere di portarne altre due. Stavolta è un ragazzo, non avrà più di diciott’anni. È sui pattini anche lui, ha i capelli ricci e biondi e gli occhi di un azzurro tale che sembra finto. Faccio la radiografia anche al suo, di culo, mentre mando giù il primo sorso della mia nuova bottiglia di birra. Giusto per non farmi mancare niente. – Almeno non si può dire che tu faccia torto a qualcuno. – considera Fler, annuendo con una certa serietà, - Un po’ una categoria, un po’ l’altra. Non poniamoci limiti.
- Ma la pianti? – sbotto, tirandogli addosso un tovagliolino di carta strappato al dispensatore e appallottolato con furia fra due dita. Lui si scherma con un braccio, ridacchiando vago, e poi sembra placarsi, perché per un paio di minuti non dice una parola. Si limita a sorseggiare la propria birra guardandosi intorno con un sorriso un po’ ebete sulla faccia, e quando sento qualcosa intrufolarsi fra le mie cosce e strofinarsi insistentemente contro il cavallo dei miei pantaloni per un istante il mio cervello rifiuta categoricamente l’ipotesi che quel qualcosa possa essere una qualsiasi parte del corpo di Fler. Voglio dire, è così placido e calmo, sta guardando tutt’altro, e— e se non si ferma immediatamente saranno cazzi amari per tutti quanti. – Fler? – lo chiamo, deglutendo a fatica, - Guarda che scherzavo, prima.
- Scherzavi? – domanda lui, tornando a guardarmi con occhi grandi e puri, - Non capisco di cosa tu stia parlando. – esala con un filo di voce, tramutandosi in Bambi sotto ai miei occhi sconvolti e colmi di paura. Ho già visto abbastanza dell’America per dire che non mi piace. Adesso che ho visto cosa fa alla gente, posso affermare con estrema tranquillità che la odio, anche.
- Fler! – insisto io, alzando appena la voce perché sia chiaro che lo sto rimproverando e disapprovando tantissimo, - Ma sei ubriaco?! – chiedo, mandando giù un po’ di birra anch’io, per buona misura. Se lui è ubriaco, voglio esserlo anch’io. Non la voglio la responsabilità di quello che potrebbe accadere. Voglio ubriacarmi come mai sono stato ubriaco nella mia vita e poi dare la colpa a Bushido per qualunque guaio possiamo combinare io e Fler questa notte. Mi sembra una punizione giusta ed equa, voglio dire, lui mi ha portato in America. In qualche modo dovrà pagare. – Aspetta, - dico quindi, tornando per un attimo presente a me stesso, - ma come fai ad essere già ubriaco? Hai bevuto una bottiglia di birra e mezza, a voler esagerare.
Fler ridacchia divertito, facendo dondolare la sua bottiglia sul ripiano del tavolo e rischiando di rovesciarla un paio di volte.
- Potrei o non potrei aver bevuto qualcosa prima di arrivare in albergo, con Anis. – risponde, annuendo con ampi e lenti cenni del capo.
- Che diavolo vuol dire che potresti o non potresti?! – strillo sconvolto, battendo il palmo di una mano aperta sul tavolo, - O l’hai fatto, o non l’hai fatto! Ma soprattutto, quanto sei cretino se hai deciso di bere ancora pur sapendo di averlo già fatto? Li abbiamo già fatti due secoli fa, questi discorsi! Credevo che ormai ti sapessi controllare!
- Oh, andiamo, Chaku! – sbotta lui, roteando gli occhi, - Mi sto solo divertendo un po’. Non è che tutti gli alcolisti debbano per forza diventare astemi. Io non lo sono, per dire, a me bere piace.
- Sì, magari pure troppo. – sbuffo contrariato, - Dai, torniamo in albergo.
- No, c’è uno specchio enorme su quel letto. – risponde lui con una risatina divertita in maniera quasi criminale, - Non ci dormo là dentro. Chi ce la fa ad addormentarsi con la luce delle lampadine che ti si riflette sulla pelata e poi rimbalza sullo specchio e mi finisce negli occhi?
- Vorrà dire che terrò su il cappellino. – grugnisco, tirandogli uno schiaffetto contro una spalla ed alzandomi in piedi, - Dai, andiamo almeno a prendere un po’ d’aria. E poi questo posto fa schifo.
Inizialmente, Fler non è molto convinto della mia idea. Vorrebbe restare al locale ancora un po’, sospetto che non gli vada granché di muoversi, il che è molto male perché so per certo che se continua a bere e stare seduto prima o poi finisce che si addormenta, e in quel caso dovrò chiamare un carro attrezzi per riportarlo in albergo, motivo per il quale insisto e, alla fine, la spunto io. Andiamo un po’ in giro nella notte illuminata e chiassosa di Las Vegas, ma di aria fresca intorno a noi non ce n’è neanche a pagarne. Scommetto che in questo periodo a Berlino il venticello comincia già a soffiare fresco per le strade della città, e qui, invece? Caldo soffocante, sudato e appiccicaticcio. Questa città non ha lati positivi.
In compenso ha strade piene di lucine colorate di fronte alle quali Fler, in questo stato, è capace di restare immobile per minuti interi, in adorante contemplazione. Ed è durante una di queste adoranti contemplazioni alle quali io non bado, perché so che esaurito l’interesse si esauriscono anche loro, che Fler prende una decisione. Una decisione catastrofica, una decisione che cambierà le nostre vite per sempre, ed io sul momento nemmeno me ne accorgo perché, dopo averla pagata, mi sono portato via dal locale la seconda bottiglia di birra semivuota, ed ho continuato a sorseggiarla per tutto il tempo, e questo, lo ammetto, non ha giovato alla mia lucidità mentale.
Perciò, nel momento in cui Fler si ferma in mezzo al nulla e, fissando un punto a caso nel vuoto enorme che rimbomba dentro i suoi occhi, esala “ommioddio, Chaku, dobbiamo sposarci”, io, in un primo momento, non lo capisco.
- Eh? – biascico, fermandomi a mia volta e voltandomi a guardarlo. Lo trovo che non sta più fissando il vuoto dentro la propria testa, purtroppo, ma bensì qualcosa di decisamente più concreto. Una cappella, una di quelle che si vedono spesso nei film ambientati a Las Vegas in cui lui e lei, ubriachi fradici, si sposano senza essere pienamente coscienti di ciò che stanno per fare, e si risvegliano il giorno dopo con due anelli orrendi al dito, vestiti con costumi imbarazzanti e ridicoli, passando poi i successivi novanta minuti di pellicola a riempire se stessi e il telespettatore di paranoie sul matrimonio e sull’amore per poi scoprire che il contratto non è valido fuori da Las Vegas ma che loro due, in fondo, si amano abbastanza da procedere anche al rito vero, con tutti i crismi, per unirsi per sempre nei secoli dei secoli amen. Segue cerimonia in abito bianco che io non arrivo quasi mai a vedere perché con quei film di solito mi addormento intorno alla mezz’ora.
- Dobbiamo sposarci. – ribadisce lui, indicando la porta spalancata della cappella dalla quale escono un tizio che avrà come minimo sessant’anni abbracciato ad una tipa che ne avrà almeno quaranta di meno, e che camminano entrambi ondeggiando, ridendo ed agitando una bottiglia di champagne che sgocciola per strada. – Subito. Adesso. Lì.
- Fler, no! – cerco di riportarlo a più miti consigli, stringendogli una mano e provando a tirarlo via, - Dai, torniamo in albergo! Che c’entra sposarci adesso? Ma qui, poi? Avanti, è un cliché!
- È perfetto! – insiste lui, quasi saltellando sul posto e prendendo a trascinarmi verso la cappella, ottenendo peraltro molti più risultati di quanti ne abbia ottenuti io provando a trascinarlo dal lato opposto, - È questo il posto! Dev’essere qui. Coraggio, Chaku. È il grande momento!
- Ma il grande momento di cosa?! – strillo io, genuinamente terrorizzato, mentre attraversiamo l’entrata e ci dirigiamo speditamente verso un bancone vuoto sulla sinistra. O meglio, lui si dirige speditamente verso il bancone vuoto sulla sinistra. Io vengo trainato a rimorchio. – Fler, sul serio. Non sono abbastanza ubriaco per fare questa cosa.
- Io sì, invece. – mi liquida lui con una risatina divertita, premendo il palmo della mano contro il campanello dall’aria molto retrò poggiato sul tavolo. Il trillo si diffonde cristallino per la stanza e, pochi secondi dopo, un uomo vestito da prete che palesemente non è un prete né mai sarà un prete, con un bicchiere enorme di coca cola in una mano ed una confezione di patatine del McDonald’s nell’altra, si presenta al nostro cospetto e rutta.
- Avete suonato? – domanda, tirandosi un colpetto sul petto con un pugno chiuso, - Chiedo scusa. Stavo cenando.
- Vogliamo sposarci! – dice immediatamente Fler.
- No, non vogliamo. – piagnucolo io, provando a lanciare uno sguardo supplice al finto prete perché capisca che ho bisogno d’aiuto e mi salvi. Lui non lo capisce, e conseguentemente neanche mi salva.
- Invece sì. – insiste Fler, annuendo deciso, - Vogliamo sposarci e vogliamo una bottiglia di whiskey.
- Io posso darvi entrambe le cose. – annuisce il prete, poggiando cibo e bevanda sul tavolo e chinandosi ad aprire uno sportellino dietro il bancone, per tirarne fuori un’enorme bottiglia di liquore, - A cominciare dal whiskey. Per il matrimonio, sarà un po’ più complicato, ma non molto. Piacere, - sorride, porgendo la mano a Fler, - chiamatemi pure padre Isaiah.
- Piacere, padre. – sorride Fler, annuendo come se ci fosse qualcosa per cui annuire. Prende la bottiglia di whiskey e me la passa. – Tieni. – dice, - Fai in modo di essere ubriaco abbastanza per sposarti, fra una ventina di minuti.
Mi viene da piangere, ma prendo la bottiglia in mano e mi lascio ricadere su un’enorme poltrona rossa e morbidissima mentre osservo Fler e padre Isaiah volteggiare da un bancone all’altro, visionando enormi libri dai contenuti palesemente mistici ed oscuri che non possono portare nella mia vita nulla di buono.
Mi attacco alla bottiglia bevendo direttamente da lì, visto che non mi è stato fornito un bicchiere. Nel mentre, lancio un’occhiata all’altare, in fondo alla stanza. Un altro finto prete, più o meno dell’età del primo, ma con una faccia più grigia e l’aria di uno che è stato sveglio e al lavoro per diciotto ore filate, al punto da essere arrivato a reggersi in piedi solo tenendosi stretto ad una flebo di caffè endovena, sta sposando due tizi vestiti da Elvis e Marilyn. Sono carini, in qualche modo. Sembrano felici. Lei, avvolta nel suo abitino bianco e con una parrucca che le lascia scivolare sulla nuca qualche ciocca di capelli castana, si stringe a lui, infilato a forza in una tutina dorata aderentissima talmente appesantita dai decori e dalla brillantina da scivolargli quasi giù dalle spalle. Ridono, e quando dicono “sì” lo fanno urlando, come se ne andassero così orgogliosi da non riuscire a trattenere la gioia. Mi fanno sorridere, sorridere sinceramente. O forse è solo un effetto collaterale dell’alcool. La perdita totale di senno, intendo.
Come sia o come non sia non lo so, tutto ciò che so è che una mezz’ora dopo io sono ancora su questa poltrona e la bottiglia di whiskey è già semivuota. Il prete che ha sposato Elvis e Marilyn è sparito, quindi suppongo che il suo turno fosse finito, il che è un bene perché se dobbiamo sposarci tanto vale che ad unirci nel sacro vincolo del matrimonio di Las Vegas sia padre Isaiah, che quantomeno mi sembra un tipo sveglio.
- Chaku! – mi chiama ad un certo punto Fler, ed io sollevo lo sguardo e ci metto un po’ ad individuarlo. Lui e padre Isaiah si sono spostati praticamente dall’altro lato della cappella, vicino ad un grande banco frigo di fronte al quale Fler saltella e si sbraccia per farsi notare. Mi sollevo con un grugnito sofferente e disperato e, muovendomi come un orango in procinto di crollare in letargo – se gli oranghi vanno in letargo –, lo raggiungo.
- Cosa? – borbotto, guardando prima lui, poi padre Isaiah ed infine il banco frigo con aria molto sospettosa. Fler mi fa un sorriso da bambino così ampio da mangiargli via tutta la faccia.
- Prima ho scelto i nostri anelli. – mi racconta, mettendomi davanti al naso i due pugni chiusi, - Scegli la mano!
Io sospiro e batto uno schiaffetto lieve sulla destra. Fler ride e la schiude, rovesciandola col palmo verso l’alto così che io possa vedere cosa contiene. È un anello piuttosto grande, con un grottesco teschio con le orbite scavate e dipinte di rosso e tutti i denti in bella vista. È orripilante.
- E questo sarebbe il mio? – domando scettico. Fler annuisce, apre l’altro pugno e mi mostra il suo: altrettanto enorme, assomiglierebbe al mio in tutto e per tutto se non fosse decorato con un enorme cuore metallico con un lucchetto chiuso al centro. Benaugurante, non c’è che dire. – Fanno schifo. – sentenzio. Fler ridacchia.
- Sono meravigliosi. – stabilisce. – Comunque, ora ho scelto anche la torta. – continua, voltandosi verso il banco frigo, - Vediamo se indovini qual è!
- Mmh… - borbotto io, occhieggiando le belle torte dall’aspetto talmente perfetto da sembrare plastificate, come tutto da queste parti, mi rendo conto, tutte in fila sul bancone. Ce n’è una azzurra decorata da perline bianche, una bianchissima su cinque strati ed una bassa, ampia e rettangolare con delle decorazioni tali da far pensare al prato di un campo da calcio, ma scommetto che quella preferita da Fler è un’altra. – Quella rosa? – domando, indicando l’ultima sulla destra, e Fler batte le mani, annuendo compiaciuto.
- Bingo! – esulta, chinandosi a sfilarmi il cappellino per un secondo per lasciarmi un bacio sulla testa, prima di rimettere tutto a posto. – La tiri fuori, padre Isaiah!
Il prete, o quel che è, indossa brevemente un grembiule e, sorridendo divertito, apre il banco frigo, tirandone fuori la nostra bella torta e posandola sul tavolo accanto a noi. Fler ci si avvicina, rimirando il dolce da ogni lato e studiandolo come ci fosse qualcosa che non va.
- Che c’è? – domando, imitandolo e squadrandolo a mia volta. Fler si illumina e schiaccia con un dito l’omino di plastica che rappresenta lo sposo, facendo in modo di affondarlo nella panna fin quasi al petto.
- Adesso è perfetta! – ridacchia divertito, ed io non so se dovrei offendermi per la palese presa in giro alla mia statura, o soltanto preoccuparmi perché si è appena identificato con la sposa. Non vorrà mica che lo riporti in camera tenendolo in braccio?
- Bene, se volete seguirmi… - dice quindi padre Isaiah, facendoci strada verso l’altare, che è una specie di inginocchiatoio in plastica bianca tutto pieno di ditate e impronte di scarpe.
- Vieni qui, Chaku, inginocchiati. – dice Fler, inginocchiandosi per primo e tirandomi per la manica della maglietta per costringermi a fare lo stesso, - Facciamo le cose per bene.
- Non posso tornare a prendere la mia bottiglia di whiskey, prima? – piagnucolo io, senza fare in effetti troppa resistenza e prendendo posto al suo fianco, - Mi aiuterebbe molto.
- Sssh. – mi rimprovera lui, agitando un dito davanti alle labbra, - Sta per cominciare. – dice, come se stesse parlando di un film. O del matrimonio di qualcun altro.
Di quello che succede dopo non ho un ricordo precisissimo. Padre Isaiah dice qualcosa, sembra molto divertito, fa un discorso molto lungo sulla sacralità del vincolo che ci unirà e sull’importanza della famiglia come istituzione fondamentale della società, ma le parole precise che dice io non le ricordo, forse nemmeno le identifico, non mi interessano. Una cosa sola so, ed è che quando chiede a Fler se vuole prendermi come suo sposo, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, nella buona e nella cattiva sorte finché morte non ci separi, lui dice sì, e non lo dice come se fosse ubriaco. Il suo sorriso non è alcolico, la sua voce non è incerta, i suoi occhi sono chiari e limpidi e fissi nei miei. E quando rivolge la stessa domanda a me, la mia risposta è identica alla sua, sia nei modi che nelle intenzioni.
Quindi suppongo di sì. Sì, Fler. Lo voglio.
Quando ci alziamo, mi rendo conto che il sermone di padre Isaiah dev’essere stato di una certa lunghezza, perché mi fanno male le ginocchia. Fler si rimette subito a ridere, mi allaccia al collo e sussurra “ed ora lo sposo può baciare l’altro sposo”, prima di coprire le mie labbra con le sue. Io lo stringo alla vita, chiudo gli occhi e lo bacio profondamente, non so per quanti minuti. Tanti, comunque. Il suo sapore è piacevole, nonostante il retrogusto un po’ amarognolo della birra.
Quando ci separiamo, padre Isaiah ha indossato nuovamente il grembiule e ci ha tagliato due fette di torta.
- Mangiate, - dice, - io nel mentre vi impacchetto il resto.
Siamo fuori non più di dieci minuti dopo. Fler porta il pacco della torta come fosse un sacchetto della spesa, facendolo dondolare avanti e indietro lungo il suo fianco mentre io rimiro da ogni lato il mio anello trovandolo sempre meno brutto ogni secondo che passa. Ci sto facendo l’occhio, suppongo. Il suo è più brutto, c’è un cuore sopra. Sul mio, quantomeno, c’è solo un teschio. Una cosa con una sua dignità. Non fosse per quegli occhi rossi che lo fanno sembrare finto, sarebbe perfino un bel pezzo d’arredamento, visto che è grosso quanto un piccolo soprammobile. E pesante tanto quanto, peraltro.
È solo quando la mano di Fler si intreccia con la mia e mi volto a guardarlo che vedo che non ha più le guance rosse e il suo sorriso s’è fatto meno vago e infantile.
- Tu non eri ubriaco! – dico in un borbottio deluso, perché io invece adesso lo sono. Lui si mette a ridere.
- Invece sì. – annuisce, stringendo la presa sulla mia mano, - Ho bevuto davvero qualcosa, mentre stavo in giro con Anis. Però ho esagerato un po’ con le scene, lo ammetto. – ridacchia, - È che ero felice. Avevo bisogno di una spintarella.
- O non l’avresti mai fatto? – domando, continuando a guardarlo. Lui tiene il naso puntato per aria, e gli brillano gli occhi alla luce di tutte le insegne colorate che illuminano la strada che stiamo attraversando.
- No, forse no. – ammette, - Tu?
- Sicuramente no. – dico sinceramente. Lui, invece di arrabbiarsi, si mette a ridere e mi gira un braccio attorno alle spalle, stampandomi un bacio umido sulla guancia.
- Sei pentito? – mi chiede, restandomi appoggiato addosso.
Scuoto il capo con forza.
- Questo mai. – dico, cercando ostinatamente i suoi occhi finché non me li concede. Lui annuisce, sorridendomi serenamente. Vorrei che questa notte non finisse mai. Anche se sono confuso e un po’ nauseato e quella torta faceva schifo ed ho un anello orribile al dito e non credo di avere ancora realizzato pienamente cosa effettivamente io e Fler abbiamo appena combinato, vorrei che questi istanti potessero dilatarsi nel tempo e durare per sempre. Lo vorrei veramente.
E invece niente, perché il tempo c’ha questa brutta abitudine di passare, ed è sempre troppo poco, ma da un certo punto di vista va bene anche così, perché la cosa bella dei minuti che passano è che ce n’è sempre uno successivo, be’, almeno fino a quando non muori, ma non mi sembra questo il caso, e comunque adesso non ci voglio pensare. Per cui alla fine li prendo bene, questi secondi che non rimangono immobili e diventano altri secondi. Questi secondi in cui il sorriso di Fler si allarga, si istupidisce e si fa più sonnacchioso. Questi secondi che ci riconducono in albergo, su per l’ascensore e nella nostra stanza cuoriforme, rosa e pelosa.
- Non accendere la luce. – bisbiglia lui, tirandomi per un polso e trascinandomi verso il letto, - Sennò quell’affare si mette a girare. E poi non voglio vedere lo specchio.
Io annuisco, chiudendomi la porta alle spalle e seguendolo. Lui ricade sul materasso, io ricado su di lui e scoppiamo a ridere, ed il secondo dopo sto già scivolando con le labbra sul profilo del suo collo, che è da quando l’ho visto piegarlo al locale che sto pensando che vorrei baciarlo, e non mi sembra quasi vero di poterlo fare adesso, anche se i nostri mugolii sono sempre più bassi e confusi e i nostri movimenti sempre più lenti e goffi.
Alla fine non combiniamo niente. Fler si addormenta mentre gli sto slacciando la cintura, io rido e mi appoggio con la fronte contro la sua spalla, e questo è sufficiente, perché chiudo gli occhi e due secondi dopo sto già dormendo anch’io, con la sua cintura fra le mani e il teschio sull’anello che preme con forza contro la mia pancia, solo che sono tanto stanco e ubriaco che non ci faccio nemmeno caso.
Ci faccio caso l’indomani mattina, però, quando la terra improvvisamente si ribalta e io mi ritrovo col sedere sul pavimento dopo che il nord e il sud si sono capovolti, e tutto quello che riesco a capire è che Fler sta strillando e io sento un pizzicorino fastidioso proprio accanto all’ombelico.
- Ma cosa cazzo—?! – grida Fler dal bagno, prima di piegarsi sul water e vomitare anche l’anima, - Chaku! È tutta colpa tua! – strilla fra un conato e l’altro. Io sbatto le palpebre, fissando il vuoto con aria confusa. Che cosa è successo? Mi alzo in piedi e mi dirigo verso l’armadio, lo apro e guardo la mia immagine riflessa nello specchio fissato all’interno di una delle ante. Ho una faccia talmente stravolta… sono inguardabile.
Sollevo la maglietta, giusto per osservarmi la pancia, e quando vedo l’enorme stampa di un teschio sulla pelle arrossata spalanco gli occhi e comincio a ricordare.
Fler che vomita in bagno.
Quest’anello orribile che indosso.
La confezione in cartoncino ondulato della torta che abbiamo posato sul comò rientrando.
Oh, mio Dio.
- C’è nessuno? – chiede la voce un po’ stridula di Bill da fuori, battendo sulla porta come un indemoniato. Ogni colpo sul legno è una capriola del mio cervello, mentre Fler continua a vomitare e suppongo che ne avrà per un bel po’. Probabilmente ieri, quando mi ha detto di non aver bevuto poi così tanto, mentiva.
Mi dirigo verso la porta più per far cessare i colpi e far tacere Bill che perché mi vada davvero di mostrarmi al mondo in queste condizioni, per cui mi limito ad aprire e poi torno indietro, accasciandomi seduto sul letto come senza vita, le spalle curve, le braccia molli, il volto senza espressione.
- Ma che…? – borbotta Bill, facendosi strada all’interno della stanza, - Oddio, - commenta, incapace di trattenere una risatina, - questa suite è di una bruttezza che non si racconta.
Bushido, accanto a lui, tende l’orecchio e sente Fler che continua a diffondere nell’aria questa sinfonia di morte che mi accompagna ormai da cinque minuti buoni, e si irrigidisce come un pezzo di legno.
- Oh, no. – dice perentorio, ed io quasi vorrei scoppiare a ridere gonfiando il petto come un pollo e dirgli “ha! Visto? C’è qualcosa che non puoi controllare, e questa cosa è la nostra palese follia”. Lo farei davvero se non fosse ridicolo. No, ok, forse lo farei davvero anche se è ridicolo. È che ho troppo mal di testa.
- No cosa? – domanda Bill, con l’aria di un bambino che non abbia capito niente della vita in generale, descrizione che peraltro non si allontana di molto dalla realtà dei fatti, per quanto lo riguarda. I conati di Fler sembrano fermarsi, e mentre Bushido continua a fissarmi agghiacciato come avessi messo incinta la sua primogenita senza prima ottenere il suo consenso e la sua mano in matrimonio lo ascoltiamo esalare un sospiro soddisfatto e sereno che dura la bellezza di due secondi contati, dopo i quali riprende a vomitare come se non avesse già fatto la stessa identica cosa fino a due secondi prima. Cosa gli sarà rimasto nello stomaco da espellere non lo so, non voglio saperlo e nemmeno voglio provare a immaginarlo.
Io mi spalmo una manata sulla faccia. Bushido ringhia sottovoce. Bill esala un “non capisco” infantilmente confuso. Fler continua a vomitare.
Decido di prendere in mano la situazione. Mi alzo, raggiungo il comò, apro il pacchetto e ne indico il contenuto con un cenno del capo.
- Abbiamo molte cose di cui parlare. – esordisco con serietà. – Torta?
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido (accennato).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Gen, Angst, Slash.
- "Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica."
Note: L'immortalità è un po' la caratteristica principale di questa saga, no? *ride* Ebbene sì, dopo chissà quanti mesi dall'ultimo postaggio a riguardo, il GD torna fra voi per parlarvi di cose di cui non frega a nessuno. No, in realtà non è andata proprio così XD Di base, volevo scrivere una cosa per celebrare i quarant'anni del nostro uomo gay preferito nel mondo, ovvero David Jost, il quale è passato dagli -enta agli -anta esattamente cinque giorni fa, che il buon Dio l'abbia in gloria. Insomma, io volevo scrivere questa compleanno!fic, però il GD mi chiamava, esso voleva che la scrivessi all'interno della sua confusa e confusionaria timeline, ed io non ho potuto fare altro che seguire la sua voce e lasciare che mi conducesse dove voleva. Di base in realtà io credo che questa storia sia incomprensibile, se non avete letto il GD, e per di più credo che al suo interno ci siano riferimenti ad una shot che, per una serie di ragioni inutili, non ho ancora postato. Insomma, abbiate pazienza, con me. *ride*
Partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ispirandosi al prompt #83 (Contando gli anni), e all'ottavo round della Zodiaco!Challenge.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PICK ME UP WHEN I'M FEELING BLUE

Sipping whiskey out the bottle
not thinking 'bout tomorrow
singing Sweet Home Alabama all summer long

Quando ieri notte sono andato a dormire – molto tardi, ho una regola personale secondo la quale non importa quando scatti la mezzanotte, il nuovo giorno comincia sempre quando mi sveglio dopo aver dormito. Sì, lavorando per i Tokio Hotel mi è capitato spesso che certi giorni durassero quarantotto o anche settantadue ore – l’ho fatto sperando che l’indomani non dovesse mai arrivare. Ieri sera sono uscito, ho acciuffato Dave – unico essere umano rimastomi amico da quando la mia intera esistenza ha smesso di ruotare attorno a quattro ragazzini con evidenti comportamenti asociali per spostarsi sull’asse di un tunisino pazzo, immortale e rompipalle – e l’ho portato in giro per locali come usavamo fare quando eravamo ancora entrambi single, in cerca di ragazzo e disperati abbastanza da pensare che, mal che andasse, potevamo sempre ritirarci in una villetta sul mare nel Devonshire ed allevare gatti finché la senilità non ci avesse uccisi nei nostri letti.
Ogni tanto, ad un uomo, cose come questa servono. Intendo, gli serve recuperare un buon vecchio amico, uno che non c’entri niente con tutti i casini che ha vissuto nel passato recente della sua esistenza, ed uscire con lui, recandosi in qualche allegro posto sperduto di periferia in cui uomini che di giorno fanno i lavascale indossano un costume da pompiere e si denudano per la tua gioia. Ad un uomo serve stare con quell’amico in quel posto e perdersi dentro una pinta di birra nel ricordare episodi divertenti della propria giovinezza, gli serve giusto per ricordarsi che, per quanto tremenda possa essere la sua vita in questo momento, c’è stato un periodo della sua esistenza in cui è stato giovane e stupido, mortalmente stupido, e nessun guaio può essere abbastanza da rimpiangere una cosa del genere.
Io, per dire, sapendo che, il giorno dopo, mi sarei svegliato quarantenne, avevo un bisogno estremo di chiacchierare con Dave e rivangare quell’agghiacciante periodo della mia esistenza in cui indossavo jeans oversize, portavo i capelli come Nick Carter dei Backstreet Boys ed osavo presentarmi in queste condizioni per dei photoshoot che poi finivano fra le pagine patinate di riviste per ragazzine preadolescenti.
Perfino compiere quarant’anni è meno imbarazzante di questo.
Intorno alle tre del mattino, ed intorno alla quinta birra, con gli occhi semichiusi e pesanti di sonno, Dave s’è voltato verso di me e, guardandomi con palese sofferenza, mi ha detto che, se non intendevo salire su un cubo e rimorchiare uno spogliarellista, sarebbe stato molto meglio chiudere lì la serata. Io ho guardato l’uomo dagli ondeggianti pettorali che si agitava come un tarantolato indossando solo un tanga leopardato ed un papillon rosso annodato attorno al collo, ed ho sospirato. “D’accordo,” ho detto, “torniamocene a casa.”
Sono arrivato sano e salvo al mio appartamento dopo un’ora e una decina di chilometri percorsi a passo d’uomo per evitare di attirare l’attenzione di qualche vigile urbano di pattuglia – perché sui rotocalchi mi bastano le facce della gentaglia che rappresento per un motivo o per l’altro, non ho alcun interesse a finirci anch’io ritratto dall’obbiettivo dell’autovelox, peraltro dopo non essere neanche riuscito a mettermi in posa – e dopo aver salutato Dave mi sono ritirato in camera da letto.
Attirato come una falena dalla luminescenza dello schermo del portatile rimasto acceso quando ero uscito, mi sono seduto per qualche istante davanti al computer ed ho lanciato un’occhiata falsamente distratta alla mia bacheca su Facebook ed ai circa cinquecento messaggi d’auguri che s’erano andati accumulando da mezzanotte alle quattro.
Sospirando pesantemente, mi sono alzato in piedi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, l’ho riacceso – dopo averlo colpevolmente tenuto spento per tutta la serata, completamente incurante del fatto che qualcosa di grave avrebbe potuto succedere e qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di sentirmi con urgenza – ed ho aspettato che, per i successivi venti minuti, tutti gli sms, i messaggi in segreteria e gli avvisi di chiamata di chi mi aveva cercato per farmi gli auguri finissero di scaricarsi. Dopodiché, ho posato il telefono sul comodino, mi sono lasciato ricadere a quattro di bastoni sul letto e, nascondendo la testa sotto il cuscino in un’abile imitazione di struzzo africano, e sono crollato in coma etilico.
Qualche mese fa, quando sono stato trascinato in un capannone in periferia e lì sono stato aperto in due, nel momento in cui ho chiuso gli occhi mi sono sentito tragicamente depresso, perché ero convinto che la mia vita stesse per finire e trovavo questo pensiero assolutamente inaccettabile.
Qualcuno avrebbe dovuto dirmi allora che, qualche mese dopo, mi sarei addormentato fra le comode e morbide lenzuola di seta del mio letto indossando ancora i miei mocassini scamosciati blu, ed avrei desiderato di non svegliarmi più solo per non dover per forza compiere quarant’anni.
Sono sicuro che, se l’avessi immaginato, avrei accolto la possibilità della morte imminente con minor sconforto.
*
Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica. Se pensate di aver sofferto, nella vostra esistenza, se pensate di aver avuto una vita sufficientemente difficile da poter dire che passare dagli –enta agli –anta non sarà in grado di sconvolgervi nemmeno un pochettino, be’, vi sbagliate. Non è neanche una questione di vecchiaia in sé – naturalmente è anche una questione di vecchiaia in sé, chi voglio prendere in giro? Ma non è solo quello il problema, ecco – ma piuttosto una questione di traguardi.
A quarant’anni sei più o meno a metà della tua vita. Poi okay, magari arrivi a cento, ma quando hai quarant’anni questo non lo puoi sapere, ti basi sull’aspettativa di vita che la tua società di riferimento, le tue condizioni fisiche e psicologiche ed il modo generico in cui stai al mondo ti danno, e dici d’accordo, ci sono, sono al giro di boa, sono sulla cima del monte, da qui è tutta discesa, devo solo rotolare a valle. Ma mentre mi arrampicavo fino a qui, che cosa ho fatto?
E questa domanda, te la poni lì. A quarant’anni. Non a trenta, quando sei ancora troppo giovane per pensare di poter essere arrivato da qualche parte, e non a cinquanta, che peraltro è un’età talmente lontana che quando ti immagini nel futuro neanche la pensi, ma a quaranta. Quaranta è un bel numero, tondo, rassicurante, e allo stesso tempo spaventosamente netto. Quaranta è quel numero di anni raggiunto il quale per la società che ti ha cresciuto tu devi esserti realizzato.
Credetemi, è un bel casino, quando ci arrivi, capire se ci sei riuscito o meno.
Passare dai ventinove ai trenta, a ripensarci oggi, non è stato così traumatico. Insomma, sì, naturalmente avevo la sensazione di stare entrando in un nuovo periodo della mia vita, cominciavo a sentirmi sulle spalle il peso degli anni, cominciavo a notare in me stesso certi cambiamenti che mi obbligavano a rendermi conto di quanto fossi cresciuto nel tempo, ed anche a chiedermi come fosse stato possibile non notarlo tanto a lungo, ma lì è finita. Sapete quella sensazione che ogni tanto ti prende quando ti convinci che un certo avvenimento cambierà la tua vita, o quantomeno la tua percezione delle cose, e invece poi quella cosa accade ed il giorno dopo tu ti svegli e, di base, non è cambiato niente? E da un lato ti senti deluso per tutta quell’aspettativa sprecata, ma dall’altro sorridi perché ti senti quasi rassicurato dal fatto che la tua vita sia rimasta la stessa, perfettamente controllabile, perfettamente monotona come, in fondo, ti piace che sia?
Ecco, per me i trent’anni sono stati questo. Non ho fatto grandi tragedie, ho accolto con sorrisi di circostanza le battutine degli amici e dei parenti circa le rughe, gli anni che passano e l’essere ormai dei bimbi grandi, sono rimasto al telefono più di mezz’ora ascoltando pazientemente e senza risentimento le lagne di mia madre sul suo essersi ormai rassegnata a non diventare mai nonna, poi mi sono fatto una doccia, mi sono cambiato, sono uscito e mi sono presentato alla festa a sorpresa che i miei amici credevano di avere organizzato tanto perfettamente da non avermi fatto capire dove si fosse tenuta. È stata una bella serata, ne ho ricordi piuttosto chiari.
Ho riso senza falsità, mi sono concesso un capriccio o due, ho bevuto più di quanto non faccia di solito ma senza mettermi in ridicolo e, quando sono andato a dormire, l’ho fatto pensando che dal giorno dopo tutto sarebbe stato diverso, più bello, più entusiasmante, più vero, ma quando mi sono svegliato e ho capito che invece non sarebbe successo, non mi sono sentito triste. Per niente. Ho sorriso, ho fatto colazione, mi sono lavato i denti e sono andato a lavorare, e mi sono sentito contento così, anche se era palese che la mia pelle non fosse più la stessa dei vent’anni, anche se era vero che probabilmente non avrei mai dato un nipote a mia madre, anche se non avevo passato la notte con nessuno ed in generale non avevo diviso la mia vita con qualcuno in un lungo periodo di tempo. Ero a posto. Felice non direi, la felicità è un sentimento così breve e fugace, una scintilla che si accende ed è così preziosa proprio perché si smorza subito. Felice no, ma contento, contento sì.
Alla fine, sapete, la grande questione della gioia, nella vita, sta tutta lì. Nel tuo grado di contentezza quando vai a dormire dopo una giornata pesante, e nel tuo grado di contentezza quando ti svegli al mattino prima di affrontarne un’altra. È davvero tutto lì, in quel pensiero minuscolo col quale di coccoli prima di addormentarti e in quell’altro altrettanto minuscolo col quale ti dai la forza di uscire dal letto.
Ogni tanto può capitare che quel pensiero dolce, quel pensiero incoraggiante, manchino del tutto.
Che poi è il motivo di base per cui io, stamattina, non voglio neanche aprire gli occhi.
*
E invece squilla il telefono.
Tra le svariate miriadi di cose che lo squillo del telefono rappresenta – quasi tutte brutte, specie quando hai un incarico di responsabilità come il mio – ce n’è una molto reale, tangibile e particolarmente sgradevole: il suono del telefono è sempre forte, penetrante ed improvviso. Spezza il silenzio, fa automaticamente sobbalzare, non tanto per la paura, ma per quell’automatica reazione di allarme con la quale l’organismo umano reagisce a suoni simili.
Negli ultimi anni, la gente ha provato in ogni modo ad attutire questa sensazione spiacevole; ha cambiato le classiche suonerie con i toni polifonici, poi ha sostituito anche loro con suoni più particolari e scherzosi, come il miagolio di un gatto o una buffa voce che ti chiama in modi stupidi per attirare la tua attenzione, e poi anche questi suoni sono spariti per lasciare posto alle canzoni che più ci piacciono in un determinato periodo, o alle nostre preferite di sempre.
L’effetto non cambia. Il nostro cellulare potrebbe squillare anche con la canzone con cui ci addormentava nostra madre da bambini, e l’effetto continuerebbe a non cambiare. Quando squilla, improvviso, spaccando il silenzio che ti eri costruito attorno ed all’interno del quale ti eri rifugiato come in un bozzolo caldo e rassicurante, perdi il controllo sul tuo corpo e sobbalzi, sgrani gli occhi, ti volti automaticamente verso la fonte del suono per assicurarti che sia tutto a posto.
Il mio cellulare suona la Lambada, quando mi chiamano, e Dio solo sa se non ho ricordi meravigliosi legati a questa canzone e ad un avvenente portoricano di nome Gael col quale ho ballato su una spiaggia a notte fonda mentre l’eco di questa canzone giungeva a noi tramite la radiolina accesa di una panineria lì vicino, ma nonostante questo, quando squilla io sobbalzo, mi volto a guardarlo con terrore per un secondo e poi, già il secondo successivo, aggrotto le sopracciglia, fissandolo adesso con astio.
Sono ufficialmente le dieci del mattino del dodici agosto, io mi sono appena svegliato e perciò non posso più fingere di avere ancora trentanove anni e di essere ancora fermo al giorno prima, e fa un caldo tale che anche qualcuno con molta più voglia di vivere di me farebbe fatica a trovarne, se dovesse necessariamente alzarsi dal letto.
Sospiro ed allungo una mano verso il telefono, sollevandolo per scrutare il display. È Bill, naturalmente. Se non è mia madre, è sempre Bill.
Mentre sospiro un’altra volta chiedendomi quante possibilità ci siano che il mio figlioccio adottivo onorario decida di chiamare la polizia e denunciare la mia scomparsa se persisto nel non rispondergli, realizzo che a conti fatti non posso continuare ad ignorare la questione. Non è che ci siano possibilità che scompaia, che il tempo torni indietro o che in qualche modo i compleanni vengano cancellati dalla legislazione mondiale, se io insisto a non rispondere al telefono. In realtà, che io risponda o meno, non cambierà proprio niente, nella mia età. Ma almeno, se risponderò potrò smettere di ascoltare la Lambada.
Devo decisamente cambiare suoneria.
- Pronto?
- David! – Bill mi strilla nelle orecchie, la voce già rotta dal pianto liberatorio che immagino si starà lasciando scorrere lungo le guance assieme agli usuali venti chili di kajal, - Dio mio, David, ma sei impazzito? Ma sei impazzito? Hai idea di quanto mi hai fatto preoccupare? Ma come ti è saltato in testa di ignorare le mie chiamate, con tutto quello che è successo negli ultimi mesi?
In realtà, negli ultimi mesi non è successo niente di particolarmente assurdo, fatta eccezione per un viaggio negli Stati Uniti che si è concluso con un matrimonio inatteso e per la breve parentesi di momentaneo dolore emotivo durante la quale il mio ragazzo mi ha lasciato per andare a curare la malaria in Africa con la sola imposizione dei propri pettorali scolpiti nel marmo. L’avvenimento al quale Bill si riferisce, invece, è accaduto mesi fa, ha coinvolto solo me, le mie budella e un coltello non particolarmente affilato, e non avrebbe più modo di ripetersi, dal momento che Bushido, dopo l’accaduto, ha cominciato a pagare uomini perché mi proteggessero seguendomi nell’ombra e terrorizzandomi a morte quando, tornando a casa alle tre del mattino dopo una bevuta, me li vedo spuntare di fronte avvolti nei loro completi neri mentre mi rassicurano dicendo “è tutto a posto, signor Jost, vada pure”.
- Sono vivo, Bill. – annuncio pazientemente, staccandomi di dosso le lenzuola appiccicate alle gambe e sollevandomi faticosamente a sedere mentre ascolto Bill confermare il mio attuale stato in vita a qualcuno accanto a lui, qualcuno che deduco essere Bushido dal modo annoiato in cui risponde “ma te l’avevo detto, Bill”. – Posso andare, adesso? Ho bisogno di una doccia.
- No. – risponde Bill, perentorio, - Cioè, sì, potrai andare a farti una doccia presto, ma prima: tanti auguri! – mi strilla nelle orecchie, inutilmente eccitato per qualcosa che non eccita nemmeno me, figurarsi se dovrebbe avere lui qualche diritto a sentirsi eccitato al mio posto.
- Grazie. – concedo svogliato, - Ora posso andare?
- No! – sbotta Bill, offesissimo, - Ma che ti prende? Ho bisogno di sapere a che ora sei libero, stasera.
- No, Bill, non hai bisogno di saperlo. – gli spiego io con un sospiro stanco mentre costringo il mio vecchio corpo a sollevarsi dalla dolce comodità del materasso memory foam.
- No? – chiede lui, vagamente smarrito. Posso immaginarlo sbattere le lunghe ciglia ricurve, gli occhi di quel brillante castano dorato che fanno capolino da sotto le palpebre pittate di grigio metallizzato.
- No. – confermo, dirigendomi serenamente verso il bagno, - Perché non intendo partecipare ad alcuna festa, per i miei quarant’anni, - spiego, cercando di utilizzare il tono di voce più pacato che i nervi repressi che tremano sottopelle mi consentano, - Non intendo organizzarla a casa mia, non intendo lasciartela organizzare a casa tua, non intendo aprire regali e sorridere fingendo di essere contento nel festeggiare l’inesorabile restringersi della finestra di tempo che mi separa dalla morte e non intendo neanche stare ad ascoltarti mentre cerchi di convincermi che invece sarà una bella festa e ci divertiremo un sacco.
Dall’altro lato della cornetta, Bill resta in silenzio per tre minuti netti. Un record.
- Bill? – lo chiamo, - Sono stato chiaro?
- È scappato. – mi risponde Bushido. Non riesco a decifrare il tono della sua voce. – Gli hai detto che non vuoi saperne niente?
- In sostanza, sì. – annuisco, - Ed è quello che ripeto adesso anche a te. Inoltre, sto per spegnere il cellulare. Ti prego di non inscenare il finimondo, se non mi senti nell’arco delle prossime ventiquattro ore. Gradirei trascorrere questo giorno senza che mi venga ricordato continuamente che sono un vecchiaccio.
Bushido ride appena, lo immagino scuotere il capo.
- Jost, sei un cretino. – mi rimprovera, - Ma d’accordo.
Mi fermo, immobile, una mano sulla maniglia della porta del bagno, l’altra stretta attorno al telefono.
- D’accordo? – domando per conferma.
- D’accordo. – ribadisce lui con sicurezza, - Ci sentiamo, Jost.
D’accordo. Mi sarei aspettato una maggiore insistenza.
*
È una doccia lunga e rilassante, all’avocado e ai minerali del Mar Morto – sebbene io non abbia idea di quale sia l’odore dei minerali del Mar Morto, per cui principalmente è una doccia all’avocado e basta – quella che mi concedo e alla quale mi concedo come non mi sono mai concesso a nessun altro essere con una declinazione al femminile. Lei è buona, con me, mi tratta con rispetto, non sente il bisogno di farmi gli auguri e, pertanto, di farmi sentire vecchio.
Per la verità, dal momento che è una doccia ipertecnologica di ultima generazione, dotata di ogni comfort e di un dispositivo elettronico incredibilmente efficiente che le permette di esprimersi attraverso una voce femminile dalle tonalità suadenti e placide, se avessi attivato il programma “buongiorno del mattino” so che, dopo aver acceso la radio, mi ricorderebbe la data di oggi, l’orario di inizio della doccia, le principali notizie del mattino, gli aggiornamenti sulla viabilità e il traffico e, alla fine, mi farebbe anche gli auguri di compleanno. Fortunatamente, sono stato abbastanza furbo da disattivare quella modalità al secondo giorno di utilizzo, e pertanto la voce di Serafine, che poi è il nome con cui la voce suadente s’è presentata durante la configurazione al primo utilizzo, si limita ad augurarmi il buongiorno e a chiedermi se preferisco doccia semplice, idromassaggio o cromoterapia.
Opto per la doccia semplice, all’avocado e ai minerali del Mar Morto, come vi dicevo, e ne vengo fuori qualcosa come tre quarti d’ora dopo, raggrinzito come una prugna e stupefatto dal fatto che il guanto di crine che ho usato per lo scrub mi abbia lasciato ancora della pelle addosso. È una sensazione abbastanza meravigliosa, e posso sorridere sinceramente mentre, dopo essermi accuratamente asciugato, esco dal bagno avvolto in un microasciugamano che mi copre appena i fianchi. Vado in cucina, bevo una tazza del caffè che la caffettiera ha provveduto a preparare da sé una mezz’oretta fa, poi recupero il nuovo numero di Vanity Fair e passo la successiva ora seduto al tavolo della colazione, le gambe stese sull’unica altra sedia libera, a fingere di leggere mentre in realtà fantastico su immaginari lavori di ristrutturazione alla facciata del palazzo e immaginari operai unti di sudore e sporchi di gesso e cemento armato che fanno educatamente irruzione in casa mia dalla finestra, chiedono un bicchiere d’acqua per dissetarsi dalla calura estiva e poi mi prendono ripetutamente contro il piano in marmo bianco sopra la lavastoviglie. Uno dopo l’altro, a volte anche in coppia.
Dopodiché, ho bisogno di un’altra doccia.
*
Decidere dove andare, o cosa fare del resto della mia giornata, non è così semplice. Non facciamo mai caso a quanto i nostri impegni, intendo quelli che ci scandiscono le giornate, siano per lo più dipendenti dagli altri, più che da noi stessi, fino a quando non spegniamo il telefono. Nel momento in cui quel dettaglio viene a mancare, ecco che improvvisamente ci ritroviamo con un mucchio di tempo libero per le mani e nessuna idea su come impiegarlo.
Dopo essermi assicurato che il sole splenda e che la temperatura esterna oscilli fra i ventinove e i trentadue gradi, stabilisco che restare a casa non ha senso. Primo perché è un luogo facilmente identificabile. Chiunque volesse pensare di volermi trovare, cercherebbe qui per prima cosa. E io non intendo farmi trovare.
Secondo perché fa veramente troppo caldo, ed un uomo attento all’ambiente e al riscaldamento globale quale io sono non può in alcun modo sopportare di risolvere questo problema chiudendosi in una stanza col condizionatore a temperature polari. Qualche pinguino mi ringrazierà per questo, penso con orgoglio mentre indosso il costume da bagno, un paio di bermuda ed una maglietta e, infradito ai piedi, mi lancio verso Steglitz-Zehlendorf.
Tutte le mie buone intenzioni, il mio accorato sostegno verso la causa ambientalista e il mio affetto per i pinguini disagiati che perdono le loro case di ghiaccio a causa del riscaldamento globale, viene meno in un soffio quando, arrivato alla spiaggia del Wannsee, la trovo gremita di gente come non l’ho mai vista da che sono al mondo. E, ricordiamolo, stiamo parlando di quarant’anni. Evidentemente, oggi tutti devono avere avuto la mia stessa idea. Quanti eroi che vogliono salvare il mondo un condizionatore spento alla volta. Greenpeace sarà soddisfatta.
Tanto vale, mi dico, ormai sono qui. Recupero il borsone e mi faccio strada fra ragazzini impegnati a tirare su monumenti di sabbia, donne impegnate a diventare esse stesse monumenti cospargendosi abbondantemente il corpo di creme solari di ogni tipo e uomini che preferirebbero diventare monumenti anch’essi, pietrificandosi possibilmente sul posto, in modo da non dover passare un secondo in più della loro vita ad annoiarsi disperatamente sotto quel sole cocente.
In mezzo a questo acquerello di umanità varia, trovo un posticino grande abbastanza per ospitare il mio telo da mare e me stesso, entrambi piegati in due in modo da occupare il minor numero di metri quadrati possibile.
Ci sono tanti di quei colori, su questa spiaggia, tanti di quei suoni. Gli ombrelloni di ogni dimensione, aperti e puntati verso il sole, sono così tanti che sono sicuro che, se sorvolassi la spiaggia, li vedrei come pois multicolori sul vestito di una ragazza. I gabbiani strillano con forza, ma non abbastanza forte da sovrastare il mormorio incessante del chiacchiericcio delle persone, ognuno perso nelle proprie cose, ognuno annodato nel groviglio dei propri drammi personali, o coccolato nel tepore di qualcosa di bello. Una donna sta parlando del vestito da sposa di sua figlia con un’amica, lo descrive così minuziosamente che quando ha finito potrei disegnarlo senza sbagliare un dettaglio. Una bambina di una decina d’anni sta cercando di spiegare al fratellino, credo, o ad un amichetto più piccolo, come funzionano le onde del mare. Lui fatica a starle dietro e ad un certo punto lei, frustrata, strilla “ma sei stupido?!”, e corre a tuffarsi in acqua. Un uomo parla con un coetaneo, probabilmente un amico. Ha lo sguardo triste, dice “non ce la faccio più”. Non riesco a cogliere i dettagli del discorso, in realtà nemmeno voglio.
Mi appoggio al telo con entrambe le mani, le braccia tese ai lati del corpo. Mi piego indietro e scruto il cielo terso, macchiato qua e là da qualche sbuffo di nuvola. Sembrano fiocchi di panna montata. Nei pressi del sole, il colore del cielo si fa più chiaro, sbiadito, brillante, quasi trasparente. Dà proprio l’impressione di non essere altro che una campana di vetro, tutta attorno al pianeta, attraverso la quale i raggi del sole passano appena. Tuttavia, riesco a sentirli sulla pelle, ed è una sensazione piacevole.
Dietro di me, una famiglia composta da una madre e tre ragazzini di varia età si decide ad andare via, liberando un po’ di spazio. Me ne approfitto, prima che arrivi qualcun altro. Stendo per bene il telo, e mi ci stendo per bene sopra anch’io. Chiudo gli occhi, sorridendo appena. Li tengo chiusi a lungo.
*
La giornata scorre così tranquillamente da sembrare finta. Intorno a mezzogiorno, mi rifugio in uno dei numerosi ristoranti che affollano il lungolago, ed in barba a tutti i miei principi etici e morali passo un paio di piacevolissime ore rifocillandomi – cioè gozzovigliando come un maiale su metà del menu del giorno – e pascendomi nell’aria freddissima che riempie la stanza al punto che, entrando, pare di non essere nemmeno più in estate. Tutta questa gente con le loro giacchettine addosso mentre fuori le persone vorrebbero strapparsi ogni indumento e bruciarlo pur di sentire un minimo di fresco, sono esilaranti. Li osservo con divertimento, facendo punto d’onore nel restare in maniche corte per tutto il tempo nonostante la pelle d’oca da freddo.
Quando comincio a sentire le estremità del mio corpo perdere sensibilità, decido che ne ho avuto abbastanza. Pago, esco dal ristorante e l’escursione termica fra interno ed esterno è tale che un qualsiasi uomo meno fisicamente preparato di me sverrebbe all’istante. Fortunatamente, io sono ancora in forma, e sopporto con stoica testardaggine gli schiaffi del vento caldissimo che scompiglia i capelli di tutte le signore presenti, e poi torno in spiaggia.
C’è molta meno gente, adesso. Il sole sta cominciando ad abbassarsi, le ore migliori per la tintarella sono già finite e chi è qui dalla mattina comincia ad avere troppo caldo, e ad essere troppo stanco, per non desiderare di trovarsi altrove.
Io mi approprio di un paio di metri di sabbia umida in riva, e mi seggo a guardare il lago. L’acqua è meravigliosa, tutta azzurra e bianca, e si arriccia capricciosa attorno ai corpi dei ragazzi e delle ragazze che fanno il bagno. Con ogni schizzo, sembra di sentirla ridere.
Ci vogliono ore, prima che qualcosa cambi. Osservo il sole disegnare un arco perfetto nel cielo, e perdo completamente di vista la cognizione del tempo e dello spazio. È come essere solo, su questa spiaggia. Siamo solo io e il sole che scandisce i minuti e le ore fino alla fine di quella giornata, e gli sono grato, perché da un certo punto in poi sembra che si sia messo a correre, per far calare la notte il prima possibile. Molto premuroso, da parte sua. Starò sicuramente molto meglio, quando queste ventiquattro ore saranno finalmente passate.
E poi, improvvisamente, appena il sole fa tanto di bagnarsi la punta dei piedi, qualcuno si siede accanto a me, posa una bottiglia di whiskey sul mio telo, in mezzo a noi, e tira fuori un walkman – un walkman – dalla borsa nera che porta a tracolla.
Nel momento in cui capisco che si tratta di Bushido, lui mi ha già infilato un auricolare in un orecchio, e le note di Sweet Home Alabama cominciano a farsi strada dentro di me.
- Sul serio? – dico, voltandomi verso di lui con gli occhi sgranati, - Vuoi consolarmi per la mia triste vecchiaia e mi porti un walkman, del whiskey e una cassetta dei Lynyrd Skynyrd?
Bushido ride, il suono della sua voce è dolce, quasi tenero. Non mi guarda nemmeno, impegnato com’è a fissare il lago ormai praticamente vuoto.
- Hai il coraggio e la faccia tosta di dirmi che questa canzone non ti piace? – domanda.
Io sospiro, abbassando lo sguardo.
- La adoro. – ammetto, - Ma questo non significa—
- Bill c’è rimasto malissimo, sai? – mi interrompe. Io faccio una smorfia. Naturalmente, Bill. Lo dico senza risentimento, come il dato di fatto che è: con Bushido, tutto, sempre, è una questione di Bill. Qualsiasi cosa quest’uomo faccia o non faccia, la fa o non la fa tenendo sempre in considerazione Bill per primo, e poi, secondariamente, se necessario, tutto il resto del mondo. – Ci teneva un sacco.
- Non mi stupisce affatto. – commento con un mezzo sorriso, - Adora dare feste.
- Non è solo quello. – mi corregge Bushido, perfettamente calmo, - Tu sei stato come un padre, per lui. Tom ha avuto Gordon, ma Bill ha avuto te. Sei stato il suo mentore, e ricordati che è completamente a causa tua che oggi lui è quello che è. – lo osservo sospirare e poi sorridere, - Devi capire che è così felice di non averti perso che non farebbe che dare feste in tuo onore. E tu pretendi che non festeggi il tuo compleanno? – ridacchia appena, scuotendo il capo, - Ma non capisci che, se facessi il compleanno ogni giorno, lui organizzerebbe ogni giorno una festa diversa, solo ed esclusivamente per celebrare il fatto che esisti?
Non fingo nemmeno di provare a trattenere le lacrime. La cosa più odiosa è che tutto questo io lo so. L’ho sempre saputo, Bushido non è venuto qui a snocciolarmi verità sconosciute come il dio immortale che in realtà sospetto sia veramente. È solo venuto qui al momento giusto, nella cornice giusta, perfino con la giusta colonna sonora, per ricordarmelo.
- Sono veramente egoista, - sospiro, asciugandomi gli occhi, - vero?
- Sì. – risponde lui, sinceramente, - Ma dal momento che lo siamo tutti, almeno sei in buona compagnia. Tieni, - aggiunge poi, sollevando la bottiglia verso di me, - bevi. Ne avrai bisogno.
Obbedisco senza neanche chiedergli perché.
- Come hai fatto a trovarmi? – chiedo fra un sorso e l’altro. Bushido si limita ad indicare con un cenno del capo i due uomini vestiti di nero che mi sorvegliano attentamente dal molo. Poveretti, devono soffrire parecchio, con le cravatte annodate e le maniche lunghe. Chissà da quanto sono qui. – Lo sai, questo è stalking.
Bushido scrolla le spalle.
- Fammi causa. – butta lì, rubandomi la bottiglia. Gliela richiedo indietro pochi istanti dopo, e per molti minuti, finché non ne vediamo il fondo, restiamo lì in riva a bere e a lasciarci bagnare i piedi dalle onde.
*
Il motivo della bottiglia di whiskey lo capisco solo qualche ora dopo, intorno a mezzanotte. La festa, per la gioia di Bill, è stata splendida. Non è che mi abbia fatto dimenticare che sono depresso e che probabilmente mi chiuderò in una SPA per tutto il resto della prossima settimana per farmi massaggiare da giovani tailandesi finché non sarò ringiovanito abbastanza da poter mostrare nuovamente la mia faccia in pubblico, ma almeno è stato un modo piacevole per passare le ultime ore di questa giornata da cancellare con persone di cui m’importa, ed alle quali importa di me. La spiaggia era un luogo bellissimo, impersonale e rassicurante, ma in effetti il calore umano ha qualcosa in più rispetto a quello del sole. Quando capiranno cos’è e riusciranno a imbottigliarlo, scommetto che gran parte dei problemi del mondo potrà essere facilmente risolta.
Al momento, Chakuza è sdraiato a terra con un imbuto di dimensioni preoccupanti in bocca. Fler è disteso al suo fianco, e conta “uno! Due! Tre!” per ogni secondo che il suo nuovo marito riesce a passare in apnea bevendo birra bavarese che Eko Fresh versa direttamente nell’imbuto dalla spalliera del divano sul quale è appollaiato. Tom, che ha bevuto pure lui come un tacchino, è seduto su un divano, arrabbiato per chissà quale oscuro motivo, mentre suo fratello, ridendo come un deficiente per chissà che battuta, gli tira le treccine a casaccio.
Bill è raggiante. C’è come un alone di gioia e santità, attorno a lui. Praticamente vederselo passare di fronte è come avere una visione della vergine Maria quando era un’adolescente dark. O forse, appunto, è solo il whiskey ad aver reso più semplice una cosa complicata, più piacevole una cosa dolorosa. A volte anche fuggire così va bene, sapete, purché ci siano le braccia di qualcuno a tenerti ancorato a terra.
- Ehi. – mi saluta Bushido, il quale, con questo bicchiere di vino rosso che tiene in mano e il completo elegante che indossa, sembra quasi l’uomo serio che in realtà non è. Non potrò mai dimenticarmi che quest’uomo è venuto a recuperarmi su una spiaggia, al tramonto, portando con sé un walkman e i Lynyrd Skynyrd. – Tutto a posto?
- Direi di sì. – sorrido, accettando l’altro bicchiere di vino che mi porge, - Non sono già abbastanza ubriaco? – rido.
- No, sei ubriaco al punto giusto. – ride anche lui, e poi si sistema accanto a me, osservando la festa andare avanti con curiosità e divertimento, proprio come ho fatto anch’io fino ad ora. – Senti, - dice quindi, - lo sai qual è la cura per la malattia del non avere più vent’anni? – domanda.
Mi volto a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Avere qualcuno che ce li abbia ancora. – ghigna lui. Io spalanco gli occhi. – Seconda stanza a destra al piano di sopra. – dice quindi, consegnandomi una chiave di ottone. – Va’ e riproduciti.
- Stai scherzando. – balbetto sconvolto.
Ma no, non sta scherzando. Ed ecco che il whiskey torna utile mentre scoppio a ridere, accettando di buon grado il suo gentile presente e lasciando che il giovanotto al piano di sopra mi aiuti a dimenticare quanti anni ho – e il mio nome, anche – prima di tornare a dormire.
Scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza (accennato).
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: AU, Angst, Violence, Lemon, Slash.
- Bill ha da poco compiuto diciott'anni, e batte le strade da quando ne aveva sedici. Ormai è abituato alla sua routine, e la notte e le strade fredde di Berlino sono il suo regno, ma quando prova ad adescare un agente in borghese tutto cambia: il ragazzo viene portato in prigione, dove subisce subito un tentativo di violenza al quale risponde altrettanto violentemente, riducendo il suo assalitore in fin di vita. Per questo motivo, viene condannato a scontare una pena di dodici anni nel carcere in cui è già recluso, ma fin dall'inizio è chiaro che la sua permanenza all'interno della struttura non sarà semplice e priva di pericoli: gli agenti di custodia lo odiano per quello che ha fatto al loro collega, gli altri detenuti lo vedono solo come un oggetto sul quale scaricare la frustrazione sessuale e non esitano a riempirlo di botte quando lui si nega, e in tutto questo ci si mette a rendere il tutto più difficoltoso anche Bushido, indiscusso boss del braccio in cui Bill è rinchiuso, che ha ricevuto ordine di proteggerlo direttamente dal direttore della prigione. Ma Bill è in grado di difendersi da solo, o almeno così crede, ed è bene intenzionato a dimostrarlo all'uomo e anche a chiunque altro voglia provare a mettersi sulla sua strada. Il problema è che, forse, non è così in grado di difendersi come crede.
Note: Il plot di questa storia risale ad anni fa - no, seriamente, non è che buttiamo lì le parole a caso, se diciamo anni state pur certi che intendiamo davvero anni - e riesce a vedere la luce solo adesso solo perché noi siamo estremamente culopese. E perché quando l'abbiamo plottato la Tab non aveva ancora visto Oz (dal quale questa storia attinge a piene mani in quanto ad ambientazione ed ispirazione generale), e non era pensabile scrivere una cosa simile senza aver prima visto almeno qualche episodio di quella serie.
Nel caso ve lo steste chiedendo, sappiamo perfettamente che ci sono delle incongruenze fra la realtà reale delle cose vere e il modo in cui certe cose accadono in questa storia (tipo che tutta la parte ambientata in prigione - quindi, uh, il 90%? *ride* - l'abbiamo scritta senza prima leggere trattati di 100 pagine sul sistema carcerario tedesco), e la cosa ci tocca molto limitatamente. Ma molto, credeteci. *rotolano felici per campi di tulipani alti venti metri* Buona lettura, se vorrete!
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ALLES GUTE KOMMT VON UNTEN

Come ogni mattina, quando si accendono le luci e le serrature automatiche che tengono chiuse le porte delle celle si aprono, Bushido si alza dal letto – che occupa da solo, forte del potere che esercita su tutto il braccio nonostante la propria condizione di detenuto – e si dirige verso il piccolo lavandino sormontato dallo specchio che occupa non più di una ventina di centimetri in un angolino della cella. Lancia un’occhiata annoiata al proprio riflesso e poi tira giù i boxer, concedendosi un po’ di sollievo davanti alla tazza del cesso, stando bene attento a non sporcare, perché alle pulizie in cella devono provvedere da soli, e lui ha preferito darsi alla criminalità organizzata piuttosto che pulire i cessi per guadagnare qualche spicciolo da ragazzino, figurarsi se si piega a farlo adesso che, facendolo, non vedrebbe neanche il becco di un quattrino.
Sbadiglia lavandosi attentamente le mani, e nel frattempo sbircia oltre le sbarre, nel corridoio. Qualche detenuto più mattiniero di lui è già uscito dalla propria cella ed ora si aggira per l’area comune come uno zombie, guardandosi intorno e studiando ogni particolare di quel luogo come se già non lo conoscesse a memoria. Le televisioni in fondo alla sala sono ancora spente, la sala computer, la biblioteca e la palestra sono ancora chiuse e gli unici suoni che si possono sentire sono quelli che producono le scarpe degli agenti di custodia che abbandonano le loro postazioni per farsi dare il cambio da quelli del turno di giorno, dopo le fatiche della notte passata in piedi a rigirarsi i pollici.
Pian piano, tutti i detenuti cominciano a venire fuori dalle coperte. Gli agenti di custodia prendono i loro posti e cominciano gli usuali giri. Presto, le varie sale ricreative saranno aperte, il biliardo posizionato lontano dai tavolini in un punto non troppo dislocato ma neanche troppo centrale dell’area comune sarà circondato di galeotti in cerca di un po’ di divertimento, e l’usuale vita del braccio A riprenderà a scorrere, pacifica, e niente turberà la sua quiete.
Niente succede mai, nel braccio A. Bushido tiene tutto sotto controllo.
Bushido è dentro da sei anni. Ne ha beccati molti di più, quando l’hanno preso, ma fra uno sconto e l’altro è riuscito a ridurli a sei. Entro un paio di mesi, finalmente avrà la sua udienza per provare ad uscire con la condizionale. Con la condotta che ha tenuto e con una buona lettera di presentazione da parte del direttore Jost, uscire sarà un gioco da ragazzi. E una volta fuori, potrà riprendere tranquillamente la sua vita.
Fino ad allora, però, nel braccio A deve continuare a non succedere niente. O meglio, tutto ciò che vi succede deve continuare ad essere tenuto costantemente sott’occhio, perché non accada nulla di troppo pericoloso. Le regole di Bushido sono chiare, cristalline: chi vuole, scopi, ma niente violenza; chi vuole farsi, si faccia, ma niente overdose; chi vuole prendere a cazzotti qualcun altro, non si crei troppi problemi, ma niente ammazzatine fuori controllo; chi vuole contrabbandare sigarette, riviste porno o il cazzo che gli pare, ne ha piena facoltà, ma se qualcuno viene beccato farà meglio a rimanere zitto, o a non farsi beccare affatto.
Così scorre la vita nel braccio A. Così Bushido fa buona guardia alla propria reputazione, ed anche alla propria futura libertà.
Nell’uscire finalmente dalla propria cella, quando le luci nella sala comune sono ormai state accese e perfino i televisori sono già stati sintonizzati sul telegiornale del mattino, lancia un cenno d’intesa ai suoi ragazzi sparsi in giro – Fler e Chakuza che si intravedono appena davanti ai lavandini nel bagno comune, intenti a lavarsi i denti, Eko e Kay già appollaiati sulle sedioline davanti alla tv che gridano alle guardie di cambiare canale per sentirsi rispondere di andarsene a fanculo, Saad seduto ad uno dei tavolini più distanti, le mani incrociate sotto il mento e un’aria pensosa a rendere duri e cupi i tratti del suo viso – e si compiace di vedere tutto in ordine. Fra un’ora al massimo, gli impiegati nel laboratorio tessile verranno smistati nella loro area, e dopo non molto anche gli addetti al servizio postale interno alla prigione abbandoneranno il braccio. Da ultimi, lui e i suoi ragazzi, verso le undici, andranno in cucina per cominciare a provvedere alla pulizia della sala mensa e al pranzo per tutti i detenuti. E la giornata passerà così, fra un’incombenza e l’altra, un po’ di svago in palestra e un’occhiata indagatrice lanciata in giro per il braccio per assicurarsi che nelle ore buche Sido e i suoi non combinino qualche cazzata di cui lui sarà costretto a pagare le conseguenze, fino al ritorno in cella e al buio.
Sbadigliando ancora un po’, si avvicina a Saad, prendendo posto accanto a lui. Il libanese lo saluta con un cenno del capo, continuando a fissare ostinatamente il vuoto, quell’espressione cupa dipinta sulla faccia. Lui e Baba Saad, com’è più noto per strada, si sono conosciuti per un caso fortuito; Bushido in quel periodo si trovava in carcere a scontare una pena di qualche mese per possesso illegale d’arma da fuoco. Saad, allora, era poco più che un ragazzino e infinitamente meno di un uomo. L’avevano fermato per guida in stato di ubriachezza e gli avevano trovato in tasca un po’ di merda, roba a basso costo, che intendeva rivendere per pagarsi qualche sfizio e magari un po’ di sesso, e così era finito dentro per qualche mese anche lui. Li avevano piazzati in cella insieme, Bushido s’era fatto raccontare la sua storia – la fuga dal suo paese devastato dalla guerra, i soldi che non bastavano mai, i genitori che avevano progressivamente smesso di interessarsi di lui, troppo pressati dalle difficoltà economiche – e poi gli aveva detto di fare il bravo per i mesi che gli restavano da scontare, ed andarlo a cercare a Tempelhof non appena fosse uscito. Avrebbe trovato lui un buon lavoro da affidargli, qualcosa per cui sarebbe stato protetto, entro i limiti per i quali si poteva essere protetti facendo un mestiere come il loro, e così, quando, qualche mese dopo di lui, anche Saad era uscito di galera, Bushido l’aveva subito preso fra i suoi, e l’aveva messo a spacciare su circuiti sicuri, roba buona. Non l’aveva più lasciato andare.
Quando Bushido è stato arrestato per la seconda volta, e s’è ritrovato a dover gestire la consapevolezza di dover rimanere in carcere per almeno altri sei anni, è stato a Baba Saad che ha lasciato tutto. Gli ha detto di tenere a bada ogni cosa, di circondarsi di amici fidati, nel caso dovesse succedere qualcosa anche a lui, e quando poi anche Saad è stato di nuovo messo dentro, salutandolo al suo arrivo non si è stupito di trovarlo sereno e sorridente. “Fuori è tutto a posto, Bu, si occupa di tutto D-Bo,” gli ha detto, e Bushido gli ha rifilato una gran pacca sulla spalla e si è sentito molto, molto orgoglioso di lui, come non si era mai sentito orgoglioso di nessun altro in vita sua.
- Mbe’? – gli chiede adesso, sistemandosi sulla sedia e tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di carte, che comincia immediatamente a mescolare, - Cos’è quella faccia scura?
Saad scrolla le spalle, come se improvvisamente, qualsiasi fosse il pensiero che l’aveva tenuto sulle spine fino a poco prima, ora non avesse più alcun problema nel mondo, e si volta a guardarlo, distogliendo gli occhi da quel punto vuoto che prima sembrava fissare con tanta intensità.
- Te lo dico io, non mi piace come si stanno mettendo le cose. – gli dice, facendogli cenno di distribuire pure le carte, se vuole. Bushido provvede immediatamente, senza risparmiarsi un sorriso di vago scherno per quel tono così cupamente profetico. Si fida di Saad, lavorando con lui ha imparato a tenere conto delle sue percezioni, ma ultimamente il ragazzo sembra essersi fatto inutilmente sospettoso, specie nei confronti di Sido, che è sì uno stronzo, ma non è un coglione, e sa bene quali sono i propri limiti, e quanto oltre può spingersi prima di sorpassarli.
- E come si starebbero mettendo queste cose? – domanda quindi, controllando con una rapida occhiata le carte che ha in mano e confrontandole con quelle che ha disposto sul tavolo.
Saad sospira, quasi offeso da quel suo tono così ilare, che deve giudicare estremamente fuori luogo.
- Ti dico che Sido sta macchinando qualcosa. – dice a bassa voce, cospiratorio, - Quello ormai non si accontenta più di niente. Droga, sigarette e porno non gli bastano più. L’altra volta l’ho visto parlare con due checche in un angolo del cortile, durante l’ora d’aria.
- E che ti devo dire? – scrolla le spalle Bushido, raccogliendo un paio di carte dal tavolo con una delle proprie e mettendole da parte in un mazzetto, - Si sarà svegliato con un certo languorino, quel giorno.
- Cazzone. – borbotta Saad per tutta risposta, allungandosi a tirargli uno scappellotto dietro la nuca e, già che c’è, sporgendosi per vedere cos’ha in mano, prima di fare la propria mossa. Bushido lo lascia libero di muoversi come crede, ridendo divertito, e poco dopo Saad riprende a parlare. – Bu, a quello non piace l’uccello, e il buco del culo nemmeno, e quella strafiga della sua signora viene a trovarlo due volte al mese. Ti dico che ha in mente qualcosa.
- Ma qualcosa tipo cosa? – ride Bushido, finendo di ripulire il tavolo dalle carte, - Scopa! Oggi ti tocca pulire la friggitrice.
Saad ignora sia l’ordine che l’esultanza con cui Bushido accompagna la vittoria, e continua a fissare l’ultima carta che gli è rimasta in mano, come fosse incerto sul da farsi.
- E se stesse organizzando un giro di prostituzione? – domanda curiosamente, e Bushido inarca un sopracciglio.
- Qui dentro? – chiede di rimando, accennando con le braccia all’ambiente chiuso che li circonda, e con un cenno del capo agli agenti di custodia che fanno la ronda tutto attorno a loro. Saad scrolla le spalle, come se questi fossero particolari del tutto irrilevanti.
- Sai meglio di me che se si vuole trovare un luogo appartato in cui fare qualcosa senza essere visti, qua dentro, lo si trova, esattamente come lo si trova di fuori. – gli fa notare. Bushido sbuffa, già annoiato dalla questione.
- Senti, facciamo così: - dice per tagliare corto, - io sono l’ultima persona che voglia guai in questo braccio, - lo rassicura, - per cui ti prometto che terrò le orecchie ben tese e, al primo segnale di pericolo, ci muoveremo per rimettere le cose a posto. Ok?
Saad sbuffa qualcosa, probabilmente un assenso, ma non è per niente soddisfatto dalla risposta. Tuttavia, evita di proseguire nelle proprie rimostranze quando vede avvicinarsi Fler e Chakuza che, giocando come due idioti a tirarsi colpi di asciugamano ancora umido sulla schiena e sul sedere, prendono posto sulle due sedie rimaste vuote attorno al tavolino. Fler, in particolare, gira la propria al contrario, in modo da potersi sedere a cavalcioni, il viso rivolto al grande cancello che separa il corridoio del braccio dal resto della prigione, insomma, la porta dalla quale chiunque voglia uscire e chiunque voglia entrare deve necessariamente passare.
- Oggi arriva un po’ di carne fresca. – dice con una certa eccitazione, le spalle tese sotto la canottiera così attillata da mostrare tutti i tatuaggi che ha addosso senza coprirne quasi neanche uno. La sua emozione è facilmente comprensibile, se si pensa che in prigione si hanno pochi svaghi oltre a quelli di vedere ogni tanto un po’ di facce nuove e prenderle di mira fino a quando non saranno diventate anche loro facce vecchie, ma Chakuza non coglie la sfumatura e, sbuffando infastidito, gli tira una scarpata.
- Attento che ti si vede sbavare da qui. – lo minaccia, mentre Fler ride e gli ritira indietro la scarpa, - Cazzo, guarda che non è femmina davvero, ci assomiglia soltanto. – borbotta, e Saad si volta a guardarlo, incuriosito.
- Allora è vero? – domanda, e Chakuza annuisce, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, lo trasferiscono qui. E il mio consiglio personale e spassionato è di starne tutti alla larga. È un ragazzino instabile e pericoloso, e come ha staccato l’uccello a morsi a quella guardia giurata che ha cercato di farselo succhiare, può staccarlo a chiunque di noi.
Bushido ride divertito, recuperando le carte e riprendendo a mescolarle con destrezza.
- Capito, Saad? – dice in tono canzonatorio, - Stai attento a ciò che dice il Chaku! Se per caso una notte senti che l’uccello se ne sta uscendo dalle mutande da solo per andarsi a fare una passeggiatina in bocca alla puttana, svegliati di corsa e vallo a recuperare, o potresti non vederlo più tornare a casa!
- Sfotti, sfotti. – borbotta Chakuza, imbronciandosi, mentre Fler ride a crepapelle, piegato in due sulla spalliera della sedia, e Saad taglia il mazzo che Bushido gli porge, apparentemente nient’affatto divertito dalla piega che sta prendendo la conversazione. – Poi magari quello decide di ripetere la performance con qualche sventurato pure qui, e addio pace nel braccio. Chissà con chi se la prenderà Jost, quando avrà bisogno di un capro espiatorio?
- Oh, Chaku, ma quanto la fai lunga? – sospira Bushido, continuando a ridere e distribuendo carte a tutti e quattro, - Per evitare che uno ti stacchi il cazzo a morsi, basta non infilargli il cazzo in bocca, ti pare? Col fatto che questo Kaulitz arriva qui già famoso per meriti pregressi, scommetti che non dovrò nemmeno spargere la voce che è off-limits? Non gli si avvicinerà nessuno!
- Sarà. – commenta Fler, continuando a sbirciare il cancello di tanto in tanto, - Dicono che sia molto bello.
- Per quanto mi riguarda, - protesta Saad, - potrebbe avere pure il viso di un angelo, ma se in mezzo alle gambe ha un uccello, non è roba per me.
- Sei fortunato, dunque, il tuo arnese è salvo. – esulta Bushido, ridendo sguaiatamente mentre Fler gli fa eco e Chakuza, sentendosi probabilmente trattato con scarsa considerazione rispetto a quella che meriterebbe, continua a borbottare in una litania di grugniti intraducibili in dialetto austriaco stretto.
Passano solo un paio di minuti – in cui Bushido continua a battere tutti, distribuendo gli incarichi più disgustosi in cucina ogni volta che porta a casa un punto – e poi si sente scattare la serratura del cancello. Tutti i prigionieri che, nell’ultima mezz’ora, sono arrivati ad affollare la sala comune, alzano la testa, interrompendo le proprie attività di colpo per osservare i nuovi detenuti in arrivo. C’è qualche volto conosciuto, per qualcuno. Volano sorrisi e battute, qualche saluto in un italiano tanto finto e forzato da non riuscire nemmeno in parte a coprire l’accento tedesco – Bushido li odia quelli che fingono di saper parlare la lingua dei loro padri, pur essendo tedeschi che più tedeschi non si potrebbe; lui finge forse di saper parlare il tunisino, solo perché la sua pelle è del colore del caramello e quella testa di cazzo di suo padre ha avuto la geniale pensata di nascere in un paese pieno di morti di fame dal quale è dovuto fuggire prima di poter incontrare sua madre a Bonn? Certamente no – ma naturalmente in meno di un secondo tutti gli occhi vengono calamitati dalla figura magra e quasi trasparente che se ne sta rintanata dietro le figure più robuste degli altri detenuti.

Bill Kaulitz ha diciott’anni compiuti da tre settimane, e se ne sente addosso centodiciotto almeno mentre passeggia lentamente per la strada ormai quasi del tutto silenziosa, fatta eccezione per lo scalpiccio dei propri stessi passi sul marciapiede umido di brina. È tardi, o forse è molto presto. Saranno le cinque del mattino almeno, si vede già il sole rischiarare dal basso l’orizzonte e il cielo, fino a lambire perfino qualche nuvola. Le prime notti che ha passato solo per strada, Bill non poteva fare a meno di fermarsi affascinato a fissare l’alba, ogni volta che gli capitava di vederne una. Più che la poesia del fatto in sé, lo colpiva essere riuscito a sopravvivere alle notti, al loro gelo, al calore umido e appiccicaticcio delle mani che lo toccavano, lo tiravano, gli strappavano i vestiti di dosso, lo aprivano, lo frugavano, lo riempivano di lividi. Passeggiando verso la squallida stanzetta senza mobili che si ostina a chiamare casa più per rivendicazione di orgoglio che perché assomigli ad una casa vera, quante volte ha rallentato il passo per lasciare che l’aria fresca del mattino gli scacciasse un po’ di dosso quell’orribile calore che ormai aveva cominciato ad associare alla notte?
Ora questa poesia, o almeno quel poco che ne restava, s’è dispersa. Sopravvivere giorno dopo giorno ha smesso di essere un miracolo, è diventata routine. Il vero miracolo, si dice anche adesso, mentre intravede la propria scalcinata palazzina fare capolino in fondo alla strada e per questo comincia a rovistare nelle tasche della giacca per tirare fuori le chiavi del portone, il vero miracolo sarebbe crepare, una buona volta.
Suo fratello lo aspetta nascosto nell’ombra dietro un pilastro, dove la luce del lampione non può raggiungerlo. Nel notare l’ombra scura che gli si avvicina, Bill sussulta e tira fuori il coltellino che porta sempre con sé, puntandoglielo contro. Lui, però, si mette in favore di luce abbastanza in fretta da scampare a morte certa.
- Tomi. – esala Bill, richiudendo la lama e rimettendo a posto il coltellino nella tasca interna della giacca, - Quante volte ti ho detto di non arrivarmi mai alle spalle? Potevo ammazzarti.
- Scusa. – biascica Tom, tenendo le mani ben sollevate sopra la testa finché il coltello non sparisce, per poi lasciarsele ricadere come inermi lungo i fianchi. – Come stai? Era un po’ che non venivo a trovarti.
- Fa niente. – scrolla le spalle lui, distogliendo lo sguardo, - Ti ho detto mille volte di non farlo. Non voglio che ci vedano insieme.
- Bill, ti prego… - sospira suo fratello, allungando una mano verso di lui e accarezzandogli lievemente una guancia. Bill si ritrae all’istante, e Tom spalanca gli occhi. – È gonfia. – esala, avvicinandoglisi velocemente e scostandogli i capelli dal viso per guardarlo meglio mentre Bill cerca inutilmente di ripiegare il collo contro la spalla, come un cigno, nel tentativo di difendersi dal suo sguardo indagatore. – Ti hanno picchiato?
- Non è niente di grave. – risponde lui, minimizzando. – Adesso torna a casa, è quasi mattina. Devi andare a scuola.
Tom lo afferra per le spalle, e per qualche secondo sembra che voglia prendere a scuoterlo così forte da mandarlo in pezzi. Poi, però, si limita a tirarselo contro, appoggiandogli una mano sulla testa per costringerlo a reclinarla contro il suo petto. Bill fa un po’ di storie, ma quando il suo profumo dolce lo avvolge interamente non può fare a meno di lasciarsi andare, e stringere con forza fra le dita un lembo dell’enorme maglietta che indossa.
- Torna a casa con me. – gli chiede suo fratello, e Bill scuote il capo. Questa scena, negli ultimi anni, si è ripetuta talmente tante volte che a Bill ormai il solo pensiero di doverla ripetere ancora dà la nausea. Si allontana da suo fratello con un gesto secco.
- Vattene, Tom. – dice aspro, guardandolo con durezza. Tom si morde un labbro.
- Resto qui con te, stanotte, magari. – prova. Bill scuote il capo un’altra volta.
- Non sto ancora rientrando. – mente, ma quando capisce che Tom non ha intenzione di andarsene è costretto a cambiare i programmi per la serata, o quello che ne resta. – Sul serio, sto andando al bagno pubblico per vedere se c’è qualche vecchio rincoglionito insonne che ha ancora voglia di scopare. – dice, utilizzando di proposito tutti i termini più feroci, quelli che, lo sa, danno a Tom i brividi dal disgusto.
- Lascia stare, - insiste suo fratello, infilando le mani in tasca e tirandole fuori piene di soldi, - per stasera basta, ti do qualcosa io.
Bill prende le banconote dalle sue mani e le conserva, ma gli volta comunque le spalle.
- Tornatene a casa. – dice un’ultima volta, prima di dirigersi verso il bagno pubblico, un passo dopo l’altro.
Il posto è di uno squallore che lo atterrisce, ed è così ogni volta. Inizialmente, Bill pensava che sarebbe stato facile abituarsi a tutti quei terribili dettagli che ormai rappresentano la sua quotidianità, ma se questo è stato vero per il vivere da solo, per quel buco del suo appartamento, perfino per il dover battere le strade, per le scopate dolorose quando andava male e disgustose quando andava bene con i suoi clienti e per gran parte di tutte le altre cose che rendono la sua vita terribile e vergognosa, l’orrore che prova ogni volta che varca la soglia del bagno pubblico non è mai riuscito a sfumarsi in una sensazione meno spaventosa, o meno violenta. Ogni volta che entra lì dentro sente chiaramente un piccolo pezzo di sé che muore, ed è convinto che, quando finalmente creperà, sarà per colpa di questo dolore sordo e accecante che prova ogni volta che frequenta il bagno pubblico. Sarà lui ad ucciderlo, lui con le sue piastrelle sporche agli angoli e nelle intercapedini fra l’una e l’altra, quando il cemento emerge da sotto, lui ed i lavandini che funzionano uno sì e uno no, lui e le ragnatele agli angoli del soffitto, lui e le porte cigolanti dei cessi sempre sporchi, lui e i drogati che vengono a vomitare l’anima ogni notte, quelli che ogni tanto, accasciati contro la tazza del cesso, vomitano così tanto da non lasciarsi in corpo più niente, nemmeno il cuore che batte.
Bill morirà qua dentro, ne è certo, morirà perché sarà questo posto ad ucciderlo. Ma non stanotte.
Stanotte la luce al neon funziona a intermittenza e il bagno pubblico è silenzioso, eccezion fatta per un tipo che se ne sta in disparte, davanti all’ultimo lavandino, e si lava le mani con l’aria di uno che è lì a lavarsi le mani da un bel po’, in attesa di qualcosa che sembrava non dovesse arrivare mai, e che quando lo vede avvicinarsi si ferma istantaneamente, come se quel qualcosa che stava aspettando da tanto finalmente si fosse deciso a raggiungerlo.
Bill gli sorride, appoggiandosi alla parete accanto a lui e sporgendo in avanti il bacino mentre incrocia le braccia sul petto. È un bell’uomo, alto, magro, brizzolato. Ha occhi azzurri ed espressivi, appena segnati da qualche ruga d’espressione sul contorno. Potrebbe quasi andarci a letto solo per concludere in bellezza la serata, se non sapesse che la quasi totalità di quelli che vanno a puttane lo fanno solo perché nessun altro li vuole, il che automaticamente li inserisce nella categoria degli sfigati, o comunque di gente con la quale il resto della gente non va a letto. Certo, il tipo è carino, ma da qualche parte la fregatura dev’esserci. Magari puzza, magari non gli si rizza o resta su due minuti e poi si sgonfia subito, magari ce l’ha piccolo, o magari troppo grosso, magari è uno di quelli con la testa piena di un sacco di idee strane e pericolose e Bill sta andando a cacciarsi in un guaio ancora più enorme di quello in cui è già. La fregatura dev’esserci per forza, ma in questo momento tornare a casa non è un’opzione, perciò Bill non ci sta a pensare su più di tanto, e si butta.
- Ehi, - dice, guardandolo seducente, - ti va di divertirci un po’? Non costo molto, scommetto che resterai sorpreso.
E invece, a restare sorpreso è lui. Il tizio sorride, si apre la giacca, infila una mano nella tasca interna, tira fuori il distintivo.
- Polizia. – dice.
Eccola qua, la fregatura.
Si lascia condurre in centrale, anche perché sa che resistere non farebbe altro che peggiorare la sua situazione. Gli chiedono un documento d’identità, ma lui non ne ha uno. Il poliziotto che lo sta interrogando ghigna e gli fa sapere che una notte in gattabuia non gliela leva nessuno. D’accordo, pensa Bill, chi se ne frega, e quando il tizio gli chiede di identificarsi lui risponde sollevando il medio.
- È identificativo abbastanza? – domanda con aria di sfida. Il poliziotto gli sferra un manrovescio che, se non fosse ammanettato alla sedia, lo manderebbe giù per terra. Bill sente i muscoli delle spalle, delle braccia e del collo tirare dolorosamente, ma non fa una piega. Quando torna a guardare il poliziotto, gli scivola giù dalle labbra un rivolino di sangue.
- Mi fai schifo. – dice l’uomo, lanciandogli un’occhiata disgustata da così vicino che Bill può sentire l’odore del suo alito. Sa di mentine e caffè. Non è del tutto spiacevole. Quello di suo padre odorava allo stesso modo. – Tutti quelli come te mi fanno schifo.
Le similitudini fra il poliziotto e suo padre non si fermano all’odore dell’alito, pare.
Viene portato in carcere immediatamente. Il commissariato in cui l’ha trascinato il poliziotto che l’ha adescato per strada non è attrezzato per ospitare qualcuno per la notte. È un buco piccolo, squallido e triste all’interno del quale poliziotti assonnati che si tengono su un caffè dopo l’altro si aggirano con aria persa, consapevoli di stare gettando via la propria vita fra quattro mura, nascosti dentro una divisa, dietro a un distintivo, alle spalle di una pistola che avrà sempre più potere di loro. Per strada, Bill era altrettanto consapevole di stare buttando via se stesso, ma almeno non era costretto a nascondersi in una stanzetta satura di fumo e polvere. Le strade erano il suo regno, la sua casa, la sua unica, vastissima prigione. Lui aveva imparato a conoscerle e a non sentirsi solo e sperduto nella loro immensità.
Per questo motivo, la cella in cui lo scaraventano gli pare claustrofobica. In realtà è abbastanza consapevole del fatto che non si tratti di una cella propriamente piccola, anzi, è abbastanza spaziosa. C’è un letto, un letto vero, con un bel materasso di gommapiuma e la rete di metallo, che è molto più di quanto si possa dire del sottoscala in cui vive, c’è una finestra, un lavandino e un cesso pulito da usare, se ne ha voglia.
Non ne ha voglia. Resta tutta la notte raggomitolato in un angolo, sul pavimento, a tremare. Vuole uscire di lì, vuole uscire di lì immediatamente. È talmente sotto shock da non riuscire a pensare a niente. Si addormenta così, per inerzia, perché gli si svuota la testa e non riesce a tenersi sveglio solo ascoltando il rumore dei propri denti che battono.
Quando sente la serratura della cella scattare, si sveglia di soprassalto. È lucido, molto più di quanto non lo fosse quando si è addormentato, e non trema più. Anche la sua posizione è più rilassata. Fa per alzarsi da terra, d’altronde immagina che la guardia appena entrata sia venuta per accompagnarlo fuori, ma quello gli allunga addosso le mani con una tale velocità che Bill non fa in tempo a scansarsi, e lo manda a sbattere contro la parete alle sue spalle. Bill urla, sente il proprio grido vagare per tutto il corridoio silenzioso con la sola risposta dell’eco e contemporaneamente sente qualcosa nella propria spalla scricchiolare pericolosamente, e fa male, malissimo, ma non ha il tempo di urlare anche per quello che subito dovrebbe trovare la forza per urlare per il dolore che gli causa la mano della guardia stretta attorno al suo collo sottile, come volesse soffocarlo. Urlerebbe volentieri un’altra volta, adesso, sì, ma non riesce a trovare fiato a sufficienza.
Il poliziotto si prende tutto il tempo che gli serve per osservarlo accartocciarsi sul pavimento come una foglia morta, e poi slaccia la cintura e i pantaloni. La cintura la sfila proprio dai passanti, e quando si china su di lui la usa per legargli i polsi dietro la schiena. Bill geme di dolore e cerca di capire cosa cazzo stia succedendo, ma il poliziotto lo tira su di peso, lo scaraventa di nuovo contro la parete e subito dopo gli è addosso infilandogli l’uccello in bocca di prepotenza, tenendogliela aperta con il pollice e l’indice premuti contro le guance, la punta del cazzo che gli sfiora l’imboccatura della gola, costringendolo a tossire e contorcersi per lo stimolo di vomitare mentre quella bestia schifosa si muove, scopandogli la bocca senza vergogna, grugnendo come un animale, come l’animale che è.
Bill si sente soffocare, si sente soffocato dal vomito, dalla saliva, dalla presenza ingombrante che gli invade la gola con tanta forza e prepotenza da sembrare voglia attraversarlo tutto fino allo stomaco, e l’unica cosa che riesce a pensare è che lui, una cosa del genere, non l’ha mai fatta se non per soldi. Mai, mai nella sua vita.
E non intende cominciare a subirla adesso.
Cerca di rimettersi dritto, trova la forza di spingere l’erezione dell’uomo fuori dalla propria bocca di qualche centimetro, facendo pressione con la lingua, abbastanza per riprendere a respirare e consentirsi un po’ di tregua dai conati di vomito, per poter ragionare lucidamente. L’uomo si accorge subito di quello che sta succedendo, e ghigna, un po’ sorpreso, quando lo sente cominciare a succhiare docilmente.
- Troia…! – esala, riprendendo a spingersi dentro di lui, anche se, ora che sa di non doverlo più forzare, il suo ritmo s’è assestato su un tipo di violenza meno invasiva e più umiliante, - Lo sapevo che andavi solo addomesticato un po’… Che troia sei, succhialo, bravo.
Bill si permette perfino di mugolare appena, e quando l’uomo geme un “sì” arreso e perso, e molla la presa sul suo viso, Bill chiude i denti come tenaglie, stringendo forte.
L’uomo comincia a urlare immediatamente. Il suo grido è potente come una deflagrazione, non aumenta d’intensità coi secondi, è subito alto, rauco e grondante di dolore, e non fa che farsi sempre più disperato e senza scampo quando la guardia, in preda al panico, comincia a dimenarsi per sottrarsi a quella stretta mortale, con l’unico risultato di costringere Bill a stringere ancora di più la presa, come in un riflesso condizionato, come fosse un animale selvaggio che è finalmente riuscito ad agguantare la propria preda per il collo dopo un inseguimento sfiancante, e che adesso non ha la minima intenzione di lasciarla andare.
Non lo molla, neanche quando le luci nel corridoio si accendono. Neanche quando comincia a riempirsi di guardie. Neanche quando quelle stesse guardie si mettono a urlare, cercano di aprire la grata della cella che il bastardo, entrando, s’è richiuso alle spalle per evitare che lui fuggisse. Bill sorride storto, continuando a stringere quel cazzo disgustoso, ormai livido e sanguinolento, fra i denti serrati. Sono in prigione, in prigione insieme, e nessuno potrà salvarlo.
Per il momento in cui le guardie riescono a trovare un duplicato delle chiavi della cella per entrare, l’uomo è già svenuto. Si è accasciato a terra come senza vita, gli occhi chiusi, il respiro corto. Bill molla appena la presa, poi la stringe di nuovo e con uno scatto violento solleva la testa.
L’uomo spalanca gli occhi, lancia un grido lancinante e poi torna a stendersi per terra, contorcendosi come un’anguilla, mentre dal moncherino che gli è rimasto fra le cosce scorrono fiumi di sangue scuro e denso.
Bill sputa lontano il proprio pasto indigesto, e quando le guardie gli si avvicinano per tirarlo su e trascinarlo via, coi denti e le labbra ancora tutti sporchi di sangue, sta ancora sorridendo.
Di prigione non esce più. Non ha la minima idea di che fine abbia fatto l’agente che, a quanto pare, ha quasi ucciso. E sembra che a nessuno importi che quello la sua fine, qualunque sia stata, se l’è meritata, perché ha cercato di stuprarlo. Pare che il fatto che Bill non abbia quasi una casa, che si sia rifiutato di identificarsi, che faccia la troia per tirare a campare e che fosse stato rinchiuso in una cella per passare la notte in attesa di accertamenti, in qualche modo legittimasse lo stronzo che gli ha ficcato l’uccello in gola, che quasi lo incoraggiasse a farlo.
Lo tengono isolato in una cella finché il processo non finisce. Nel mentre, la sua storia fa il giro della prigione, o almeno così gli dice il detenuto incaricato dalla mensa di portargli da mangiare sotto la sorveglianza degli agenti di custodia. Bill piange ventiquattro ore al giorno, ma non vedere mai la luce del sole non lo aiuta a capire quanto tempo stia passando.
Lo tirano fuori di lì un giorno, gli dicono che è per presenziare al processo. Bill non ne capisce un cazzo. Non ha mangiato quasi niente, negli ultimi giorni, non si lava da settimane, o almeno così gli sembra, gli fa male una spalla e si sente debole, tanto da riuscire appena a camminare.
Una cosa, però, la capisce. I dodici anni che gli danno per aver quasi ammazzato quel figlio di puttana. Da scontarsi nel carcere in cui è già recluso. Capisce anche che, almeno, lo tireranno fuori dall’isolamento. Lo spostano al braccio A, o almeno così gli pare di capire. Perché è un braccio tranquillo, perché lì non ci sono mai casini, perché lì l’ordine è rispettato.
A Bill questo non interessa. Gli basta uscire dal buco dove è stato rinchiuso fino ad ora. Pensa che riuscirà perfino a sorridere quando, finalmente, si sarà lasciato alle spalle la cella d’isolamento.
Ma non è così.


Bushido gli lancia un’occhiata incuriosita, studiando la sua figura – il collo e i polsi magrissimi, la pelle quasi trasparente, gli occhi grandi e pesanti di trucco sbavato, i capelli lunghi e in disordine – e per un secondo il ragazzino incrocia il suo sguardo e sembra ricambiarlo con aria di sfida, corrugando le sopracciglia e tendendo le labbra fino a ridurle ad una linea sottile e livida di rabbia, che gli taglia in due il volto.
- È lui. – gli dice Fler, sporgendosi verso il suo orecchio per sussurrare, - Te l’avevo detto che era bello.
Bushido annuisce, pensieroso. Forse, dopotutto, un paio di voci gli toccherà farle circolare comunque.

*

La guardia viene a prenderlo a mezzogiorno, il momento meno opportuno per distoglierlo dalla cucina perché i suoi sono bravi ragazzi ma, senza l'ombra della sua persona a fargli venire la stretta al culo, quelli si siedono da una parte e se la prendono comoda, così poi i compiti si ammucchiano, le cose non vengono fatte, la gente s'incazza e la tensione sale. Vorrebbe fargli capire che fare quello che devono fare nei tempi in cui va fatto non ridurrebbe la loro virilità, ma permetterebbe a tutti quanti di farsi molto prima i cazzi propri; ma è difficile convincere qualcuno di una teoria astratta quando quello capisce soltanto le cose di cui può avere un riscontro immediato. E siccome lavorare quando nessuno ti guarda ti porta solo ad essere sfottuto dal resto della gente che ti circonda, quelli non fanno niente. Bushido, d'altronde, nemmeno si stupisce; lui lo sa che non tutti nascono capi e molti non nascono nemmeno soldati, ma stupide pecore incapaci di ragionare anche al livello più basilare. E' già abbastanza fortunato a dover gestire un branco di disadatti con poche perversioni che quando parla lo sta a sentire, non può anche pretendere da loro un'organizzazione di tipo pratico.
“Ferchichi,” lo chiama la guardia, porgendogli le manette già aperte e aspettandosi che lui faccia lo stesso con i propri polsi.
Bushido si volta aldilà del banco su cui poi appoggeranno i contenitori d'acciaio con il cibo da servire ai detenuti. Si pulisce la mano su uno straccio che tiene legato in vita e fa un cenno interrogativo alla guardia, senza mai staccare gli occhi dai suoi.
“Jost ti vuole nel suo ufficio,” precisa il secondino.
“Motivo?” Chiede Bushido, allungando le braccia perché quello possa chiudergli le manette intorno ai polsi. Il freddo del metallo e la stretta improvvisa – guarda caso sempre accidentalmente esagerata – non gli fanno nemmeno più effetto, sono diventati parte della routine che costituisce il tragitto per e dall'ufficio del direttore.
“Perché, Ferchichi? Se non ti piace, non vieni?” Sorride sprezzante la guardia, spingendolo in malo modo fuori dalla cucina.
Bushido ricambia con una smorfia strafottente, senza voltarsi verso l'uomo che gli cammina alle spalle. “Il grande capo chiama, dev'esserci qualcosa di grosso dietro.”
“Magari ti danno la grazia,” lo prende in giro la guardia, mentre lo scorta oltre l'area comune, dove i detenuti presenti si voltano a guardarli, subito incuriositi dalla novità. “Sei quello buono tu, no?”
Non capita spesso che Bushido finisca nei guai e sono in molti ad esserne contenti. Qualcuno più coraggioso ghigna nella sua direzione, altri si limitano a fissarlo con espressione indecifrabile.
Bushido serra la mascella e si sforza di non rispondere alla guardia. Sa per esperienza che c'è un limite ben preciso fin dove ci si può spingere a reagire con loro, poi quelle ti spaccano la testa a manganellate e tu hai comunque torto. Allunga il passo dietro suggerimento del secondino e, mentre cammina, lancia un'occhiata agli uomini di Sido che lo seguono con lo sguardo finché non sparisce oltre la prima cancellata. Sido però non c'è.
L'ufficio del direttore Jost è l'unica stanza del braccio A che sembri apparentemente un posto normale.
C'è una vera porta in legno, delle vere finestre – anche se sbarrate – e un vero arredamento.
L'uomo siede dietro una scrivania da ufficio larga quanto tutta la cella di Bushido e, quando lui e la guardia entrano dopo aver ottenuto il permesso, lo trovano indaffarato a firmare una gran quantità di fogli.
“Puoi andare, Hans, Grazie,” dice alla guardia, alzando soltanto una mano ben aperta.
Quella lancia un'occhiata a Bushido che ormai conosce la procedura e se ne sta in piedi a due metri dal direttore, le mani ammanettate bene in vista e il capo chino, anche se la sua espressione suscita più noia che ubbidienza. E' così che funziona con Jost, ti chiama e poi te ne stai tre ore ad aspettare che abbia finito i suoi comodi, come se tu non avessi niente di meglio da fare che contare i rombi sul suo tappeto indiano. Ancora non l'ha capito che pulire il pavimento dei cessi è sempre più emozionante che stare a sentire lui.
“Sta tranquillo, Hans,” dice Jost dopo qualche secondo di silenzio durante il quale non ha sentito la porta chiudersi, “il signor Ferchichi sa bene che aggredirmi non gli conviene.”
“Ma signore,” insiste Hans.
Jost mette ancora qualche firma, la sua stilografica graffia la carta con un suono fastidioso. Poi sospira e richiude la penna. “Vai pure, Hans,” ripete con calma ma con decisione. “Qua ci penso io.”
Nel braccio A non ci sono buone guardie. Ci sono solo guardie stronze e guardie che lo sono un po' meno. Bushido sa che Hans fa parte del secondo gruppo. E' uno che sa di fare un mestiere di merda che non vale i due spiccioli in più che guadagna, ma lo fa perché ha due marmocchi a casa e quelli devono mangiare. E' un coglione, naturalmente, come quasi tutte le divise, però è quel tipo di coglione che Bushido tollera perché almeno non ti colpisce per divertimento quando si annoia. Hans rompe i coglioni solo quando proprio gli gira male, che è più o meno quando comincia a pesargli di stare in questo buco con loro per delle settimane di fila e di vedere la moglie due ore al giorno mentre lei dorme, se va bene.
Hans gli lancia un'ultima occhiata e poi decide che se il direttore Jost vuole rischiare la vita di sua spontanea volontà, non è affar suo. Jost scrive ancora un po' e quando finalmente mette giù la penna, Bushido ha i crampi alle braccia, ma col cazzo che cambia posizione e lo dà a vedere.
“Ferchichi, siediti,” gli dice Jost, togliendosi gli occhiali da lettura e massaggiandosi la radice del naso.
Bushido non si muove, si limita a sollevare lo sguardo su di lui e a lasciar penzolare la testa di lato con aria annoiata. “Preferisco di no,” risponde.
Jost inspira tra i denti e poi si appoggia allo schienale della poltrona. “Fare il duro non ti servirà a niente,” gli dice per nulla colpito. “Non ti ho chiamato per qualcosa che hai fatto.”
“Non avrebbe potuto, non ho fatto niente,” ribadisce lui, sul viso un'espressione indecifrabile.
“Tu fai sempre qualcosa, Ferchichi,” commenta Jost. “Io devo solo provarlo.”
“Auguri,” sorride Bushido, scuotendo un po' le spalle in una risatina silenziosa.
Bushido e Jost possono dire di conoscersi da un sacco di tempo, anche se nessuno dei due la considera propriamente una conoscenza piacevole. All'epoca, lui faceva dentro e fuori dalla sua cella già da sei anni, quindi si può dire che quando Jost è arrivato a posare il culo sulla sua poltrona di pelle, la prigione gliel'hanno consegnata già con Bushido dentro che faceva il bello e il cattivo tempo come il capo quartiere che è. I primi tempi è stata dura perché lui non era affatto il direttore che è adesso, e Bushido ci godeva come un maiale a farlo impazzire. Gli isolamenti che si è fatto anche per delle cazzate durante i primi anni di Jost, sono quelli che sono valsi davvero la pena. Poi, col tempo, Jost ha tirato fuori le palle, si è guadagnato il suo rispetto – Bushido è disposto a capire solo quello, d'altronde – e le cose hanno iniziato ad ingranare diversamente. E' stato Jost a volere il suo trasferimento nel braccio A quando si è costituito e, anche se Bushido non ha mai promesso realmente di farlo, butta un occhio per impedire che la gente si accoltelli troppo, da quelle parti.
“Ti ho chiamato,” riprende Jost “Perché ho una questione da discutere con te.”
“Farà meglio ad essere interessante.” Bushido solleva un sopracciglio, scettico. “Perché la sala mensa è un posto delicato, Jost. E io sono in questo tuo ufficietto di merda da più di mezz'ora. Se qualcuno decide che era il momento buono per aprire in due qualche stronzo, non te la prendere con me.”
“Avrai notato i nuovi arrivi oggi,” dice Jost.
Bushido socchiude gli occhi e fa un cenno disinteressato col capo. “Può essere,” risponde vago.
“Uno di loro si chiama Bill,” continua Jost, pazientemente. “E' poco più che un ragazzino e gli hanno dato dodici anni per tentato omicidio.”
In quella descrizione Bushido non ha alcun problema a riconoscere il corpo esile ed emaciato che ha attraversato l'area comune incollato alla guardia, quella mattina, perciò annuisce. “E allora?”
“Sai perfettamente com'è la vita qua dentro per quelli come lui.”
Quando entri in galera puoi essere tre cose: puoi essere uno che si fa rispettare, uno che non lo fa e puoi essere morto. Difficilmente puoi farti i cazzi tuoi senza rientrare in nessuna delle tre categorie. Bushido conosce poche persone che ci riescono e sono tutti boss anziani, la cui morte scatenerebbe guerre di dimensioni tali che la gente preferisce starne alla larga. Naturalmente questo ragazzino, Bill, rientra nella seconda categoria. Non importa quanti uccelli abbia staccato a morsi, è carne da macello; se gli dice bene, diventerà la puttana personale di qualcuno. Se gli dice male, finirà per impiccarsi con le coperte come il frocio giamaicano quattro settimane fa.
“E' la legge della giungla, Jost” dice Bushido, con una scrollata di spalle. “Ma non si sa mai, magari tira fuori le palle e resta vivo.”
“Io preferirei non correre il rischio,” commenta Jost. “Vorrei che te ne occupassi tu.”
“Non se ne parla neanche,” risponde Bushido, immediatamente, lasciando perdere la calma mantenuta finora. “Io non faccio da balia a nessuno.”
“Devi soltanto tenerlo d'occhio,” spiega Jost. “Impedire che se ne approfittino e che si faccia ammazzare, o peggio, che si ammazzi da solo.”
“No,” Bushido scuote la testa con vigore.
“Tu dici di avere una certa influenza su questo carcere,” insiste Jost. “Se è davvero così, allora ti basterà far circolare la voce che è sotto la tua protezione e nessuno gli farà niente. Ti chiedo solo questo.”
Bushido ha cominciato a scuotere la testa a metà frase. “Tu non capisci, Jost,” gli dice avvicinandosi alla scrivania. Vorrebbe indicarlo, ma il movimento del polso si porta dietro tutte le manette, così rinuncia e cerca di essere convincente facendogli ombra sulla scrivania. “Quel tipo ha staccato l'uccello ad una guardia, ok? E' pazzo. Chissà che cazzo di casini potrebbe combinare. E io non voglio casini quando sono ad un passo dall'uscire da questo buco di merda con la condizionale.”
“Non è pazzo,” sospira Jost. “E' soltanto spaventato e probabilmente è stato aggredito.”
“Per me può anche aver morso la prima cosa che si è trovato in bocca perché aveva fame,” commenta Bushido. “Non me ne frega niente, Jost. Se quello combina qualche altra cazzata mentre è sotto la mia custodia, io di qui non esco più.”
Jost non vorrebbe arrivare a questo, ma non ha altra scelta. “La tua uscita dipende dalla mia parola,” gli fa notare con molta serietà. “E se ti rifiuti, io dirò che, a mio avviso, non ci sono gli estremi per darti la condizionale.”
Bushido trasfigura. “Che bastardo!” Sibila tra i denti. Fa un passo indietro come volesse andarsene, ma poi la rabbia è tanta che si riavvicina alla scrivania, battendoci sopra entrambe le mani. “Sei un grandissimo bastardo!”
“Se è l'unico modo di trattare con te...” Jost si stringe nelle spalle, allargando impotente le braccia.
“Questa me la paghi, Jost.”
Hans viene richiamato perché riporti Bushido nella sua cella. Stavolta il tragitto è più silenzioso e Bushido non guarda nessuno mentre attraversa l'area comune; è troppo impegnato a prevedere come gestire la catastrofe che potrebbe impedirgli di uscire.

*

Quando Bushido torna dall'ufficio di Jost, il ragazzino sta sistemando le sue cose sul letto di sopra.
Non ha perso tempo, quel bastardo, a spedirglielo come un pacco postale.
“Sembra che tu abbia un nuovo compagno di cella, Ferchichi,” commenta Hans ridendo di lui e lasciando scivolare gli occhi sul corpo di Bill. “Fate amicizia, mi raccomando.”
Bushido ignora le parole della guardia, troppo impegnato a cercare quelle adatte a spiegare al ragazzino come funzionano le cose qui, ma è Bill che lo anticipa non appena la porta della cella si chiude, dando loro una parvenza di privacy. “Tu sei Ferchichi, vero?” Chiede.
Bushido nota che lo hanno fatto lavare e cambiare. Pulito e con i capelli ancora umidi e tirati all'indietro sembra completamente diverso da come lo ha visto stamattina; è vagamente più adulto, ma solo alla prima occhiata. Poi la rotondità del viso e gli occhi impauriti e sgranati, nonostante i quintali di trucco, tradiscono la sua vera età.
“Mi chiamano Bushido,” risponde, annuendo. “E tu devi essere Bill.”
Il ragazzino annuisce, quindi si issa sul letto di sopra. Quando si siede le sue gambe penzolano fino a metà del letto inferiore. E' altissimo.
“D'accordo, Bill,” continua Bushido, grattandosi la nuca. “E' la prima volta che finisci in galera?”
“Sì,” risponde lui. “Per colpa di due sbirri di merda.”
“Gli sbirri non piacciono a nessuno,” risponde Bushido. E' una di quelle cose che vanno dette a prescindere, anche se in quel momento non servono a niente. Sono come le bestemmie, scaricano il nervoso. “D'accordo, le regole qua sono semplici. La cella dobbiamo pulirla noi, quindi vedi di non sporcare. Mangia quando ti dicono di mangiare, vai a letto quando ti dicono di dormire. Non cercare guai e loro non verranno a cercare te. ”
Bill lo guarda dall'alto del letto a castello, poi gonfia una guancia e sbuffa. “Illuminante. Senti Bushido,” dice, calcando sul suo nome come lo trovasse ridicolo. “So perché mi hanno spostato qui con te, d'accordo? Jost vuole che tu mi faccia da baby sitter. Ma io non so chi sei e nemmeno m'interessa saperlo. Non ho bisogno di protezione, so cavarmela benissimo da solo. “
Bushido solleva entrambe le sopracciglia. Un piccola ruga gli divide la fronte a metà mentre, per sicurezza, lo guarda di nuovo da capo a piedi per vedere se è ancora magro ed effeminato com'era due minuti fa, perché da come parla sembra uno capace di spaccare la faccia a parecchia gente. E invece no, è sempre il mucchietto d'ossa che gli sembrava.
“E, tanto per essere chiari,” continua Bill. “Anche se fuori di qui batto, non ti far venire strane idee perché non sono la puttana di nessuno, chiaro?”
Bushido ha l'impressione che il ragazzino abbia passato l'ultima mezz'ora a mettere insieme questo bel discorsetto da duro, convinto che qui dentro gli basti fare la voce grossa per essere lasciato in pace.
Se fosse un altro tipo di persona, diciamo una con i coglioni per davvero e non una che i coglioni li stacca e basta e solo perché glieli mettono a portata di mano, magari potrebbe anche andargli bene, ma se per aprire bocca e dare fiato ai denti si mette seduto e dondola i piedi, ecco, far finta di essere uno che sa come si sta al mondo non gli serve a niente. E' fortunato che Jost lo abbia spedito da lui. Solo due celle più avanti c'è uno che è dentro per stupro. Non lo avrebbe nemmeno fatto finire di parlare.
Bushido è rimasto fermo di fronte alla porta per tutto il tempo, per nulla impressionato.
“Hai finito?” Chiede, quando Bill, finito di usare la bocca a sproposito, la imbroncia cercando di darsi un tono.
“Sì,” risponde.
Bushido annuisce. “Bene,” commenta, un attimo prima di afferrarlo per la maglietta e tirarlo giù sul pavimento. “Allora, tanto per cominciare, questo è il mio letto e se non vuoi che ti prenda a pedate nel culo subito, ti conviene scendere,” gli dice, mentre il ragazzino si raccoglie dal pavimento. Bushido gli fa il favore di riconsegnargli anche la coperta e il rotolo di carta igienica che aveva ordinatamente riposto sul suo materasso. “Secondo, quello che fai fuori di qui sono cazzi tuoi. Se proprio vuoi farti scopare anche dentro la prigione, vai a chiederlo a qualcun altro. A me il tuo preziosissimo culo non interessa.”
Bill si spolvera i pantaloni aderenti e deglutisce forte per la rabbia che gli tende i lineamenti, ma non dice una parola mentre ripone di nuovo le sue cose sul materasso in basso.
“E terzo,” conclude Bushido afferrando con forza le sbarre del letto per riprendersi il suo legittimo posto. “Se non vuoi il mio aiuto, non sarò certo io ad insistere. Vedremo come te la cavi a proteggerti da solo.” Bushido si distende sul materasso e incrocia le braccia dietro la testa. Fissa il soffitto scrostato della cella, fingendo di pensare agli affari suoi e intanto ascolta il ragazzino che si muove piano e incerto per la stanza, mettendo a posto le sue cose. E' silenzioso e profuma un sacco. Bushido avrà un bel da fare ad abituarsi al suo odore ogni giorno per i prossimi mesi.

*

Quando Bill si sveglia, l’indomani mattina, non vede l’ora di uscire da quella gabbia di merda. Tutto, di quel luogo, lo infastidisce a morte. Le grate, le ombre scure agli angoli, il cazzo di rubinetto che gocciola e non ha smesso di gocciolare un secondo scandendo gli attimi di quella notte infinita, lo specchio sbeccato appeso alla parete che gli rimanda la placida immagine di Bushido addormentato, il viso contro la parete, la schiena che si muove appena al ritmo del suo respiro. Odia lui più di tutto il resto, lui e quel suo atteggiamento insopportabile, come se tutto gli fosse dovuto, perfino il rispetto che chiede senza avergli neanche mostrato perché pensa di meritarlo.
Quell’uomo non ha capito niente, di lui. Non sa niente di come ha vissuto, di quello che ha passato e di come è in grado di ridurre un uomo, se solo vuole, dentro e fuori da un letto – o da qualsiasi altro posto in cui sia possibile fare sesso.
Bill sa difendersi da solo. Bill non ha bisogno di nessuno. Tutto quello di cui ha bisogno adesso è poter uscire da questa prigione del cazzo e camminare in silenzio per le strade di Berlino di notte, ma questo semplicemente non accadrà, per cui gli tocca accontentarsi della cosa più simile che possa procurarsi al momento.
Lo fa immediatamente, appena le luci si accendono e le gabbie si aprono. Sente il rumore metallico e netto della serratura che scatta, e scatta anche lui, dritto in piedi, già pronto per uscire, i pantaloni e la maglietta ancora addosso. Non li ha tolti dalla sera prima, si è rifiutato di mettersi comodo, perché farlo avrebbe significato accettare quella sistemazione come definitiva. Non vuole farlo. Lui non appartiene a quella gabbia di metallo e musi duri. Lui appartiene alla notte fredda e alle stelle che puntellano il cielo scuro e spaventoso. È lì che tornerà. In qualche modo ci riuscirà.
Non oggi, però. Non oggi, né domani, probabilmente non fino a quando i dodici anni che deve scontare saranno terminati. Uscendo dalla cella e guardandosi intorno, Bill si fa qualche conto. Lui, di anni, adesso ne ha diciotto. Quando uscirà da quel buco di merda, ne avrà trenta. Mercato rovinato per sempre, dovrà cambiare completamente target e chissà se qualcuno lo vorrà ancora, rovinato come sarà a quell’età.
Sospira, lanciando occhiate disinteressate qua e là, e sta per sedersi ad uno dei tavoli quando una guardia gli si avvicina e gli chiede di seguirlo.
- Perché? – domanda lui, aggrottando le sopracciglia, e la guardia sospira scocciata, sollevando gli occhi al cielo.
- Il direttore vuole vederti. – spiega, - Ora piantala di fare storie e muovi il culo, se non vuoi che ti ci trascini.
Bill serra le labbra, quasi raggomitolandosi sulla sedia. Il suo istinto gli dice di non seguirlo. È un istinto che gli ha insegnato la strada, perché quando batti queste percezioni devi averle per forza. Certo, molto lo fa lo studio, moltissimo l’osservazione, ma ci sono certi uomini che apparentemente non forniscono nessun indizio, certi individui che ad un primo sguardo possono sembrare tranquilli, nient’affatto pericolosi, e che invece sono quelli dai quali dovresti guardarti di più. Sono quelli che possono fare male davvero. Sono quelli che impari ad evitare, perché nessuna quantità di denaro può valere la pena di ritrovarsi con la pancia aperta in due da un coltellino svizzero, o dall’aspettare che i conati di vomito di esauriscano, accasciato in un angolo di strada, dopo essere stato picchiato per ore fino a svenire, o peggio, dal ritrovarsi morto in un fosso senza neanche aver capito come, o perché, e senza che nessuno lo sappia mai, o abbia il minimo interesse a recuperare il tuo corpo.
Bill non è mai andato con qualcuno che gli desse una sensazione simile. A volte arrivavano ad offrire anche parecchio, cifre enormi, cifre che facevano pensare a Bill “che cazzo, non posso rinunciare ad una cosa simile solo per un fottuto presentimento, se invece è una persona normale con i soldi che mi offre campo senza scendere più in strada per i prossimi due mesi…”, salvo poi realizzare che nessuna persona normale offrirebbe tanto denaro per una semplice scopata in qualche lurido buco o in mezzo alla strada.
No, Bill segue sempre l’istinto, Bill con quella gente non ci va, Bill è sopravvissuto bene o male senza traumi troppo grossi proprio per questo motivo. E quest’uomo, questa guardia, gli dà la stessa sensazione, e perciò Bill vorrebbe potergli voltare le spalle ed allontanarsi nella notte come ha sempre fatto per difendersi da questi spaventosi presentimenti, ma stavolta non può. Non può perché non esiste un posto, in questa prigione, in cui lui possa fuggire, o sentirsi al sicuro. Non c’è la sua topaia a proteggerlo dalla strada e dal suo gelo penetrante, o dagli uomini e dal loro calore appiccicaticcio. Perciò, Bill si alza, si lascia ammanettare e segue la guardia fuori dal braccio A, a sguardo basso.
Naturalmente non conosce la prigione, e non sa dove si trovi l’ufficio del direttore – il quale, immagina, vorrà parlargli di quello che ha fatto a quell’altra guardia, probabilmente minacciarlo, che non gli salti in testa di rifarlo con qualche detenuto o, peggio, con un altro agente di custodia – perciò segue docilmente il proprio accompagnatore, cercando di non agitarsi troppo quando gli sembra di stare camminando da troppo tempo. In circolo.
Si fermano davanti a una porticina che Bill è abbastanza sicuro di avere già visto un paio di minuti prima, in mezzo a un corridoio che Bill è quasi certo di aver già percorso. Non può essere la stanza del direttore, perché non c’è neanche una fottuta targhetta, sopra. È una porticina ampia appena a sufficienza per far passare un uomo, è di un colore spento e smorto, lo smalto grigiastro sbeccato in più punti, e un minuscolo vetro opaco attraverso il quale è impossibile scrutare l’interno. La guardia la apre, e Bill vede che la stanza non è altro che uno sgabuzzino.
I polsi ancora stretti e immobilizzati dalle manette, si volta a guardare l’agente di custodia aggrottando le sopracciglia.
- Entra. – dice quello, seccamente.
- No. – risponde Bill, - Questo non è l’ufficio del direttore.
L’uomo stira sulle labbra un ghigno infastidito, ed estrae il manganello dalla propria custodia, appesa al cinturone proprio accanto alla fondina della pistola. Bill ha appena il tempo di realizzare cosa sta per succedere, e poi sente un dolore insopportabile alla base della schiena, il dolore come di qualcosa che si spezza, anche se è abbastanza sicuro di non essersi rotto niente. Ma le gambe gli cedono, gli si mozza il respiro all’altezza della gola e vede bianco all’improvviso, perdendo l’equilibrio e lasciando così alla guardia tutto il tempo ed il modo di spingerlo dentro la stanza con uno strattone violento, per poi entrare dietro di lui e chiudersi la porta alle spalle.
Bill finisce contro un mucchio di scatoloni semivuoti addossati contro la parete opposta. L’ambiente è piccolo, claustrofobico, non c’è modo di scappare. L’uomo non accende la luce, e quindi Bill non può vederlo arrivare. Cerca di aggrapparsi agli scatoloni per mettersi in piedi e provare quantomeno a schermarsi il viso e la testa con le braccia, ma lo scatolone al quale si aggrappa è quasi vuoto e cede immediatamente sotto le sue dita che si stringono convulsamente attorno al bordo, e al peso del suo corpo che sembra improvvisamente essersi raddoppiato, triplicato, quadruplicato, da quando la botta alla base della schiena gli ha messo fuori uso le gambe.
La guardia gli si avvicina – gli basta un passo – e comincia a picchiarlo col manganello. È buio, e non può vedere dove lo colpisce, ma Bill ha come l’impressione che non gli importerebbe anche se la luce fosse accesa. Si prende una manganellata sulla tempia, una sulla spalla, parecchie sulle braccia e poi una, più forte delle altre, sulla nuca. Vorrebbe svenire, o crepare, ancora meglio, ma nessuna delle due cose succede. Il colpo lo lascia rintontito, confuso, ma cazzo, fottutamente vigile. Si accascia sul pavimento, accartocciato nei pochi centimetri di spazio che le scope e gli strofinacci gli lasciano libero, e resta lì con gli occhi sbarrati, il dolore che gli esplode nel corpo come un bombardamento, e nessuna capacità di muoversi, neanche per urlare o piangere, mentre l’agente lo prende a calci sulla pancia, sui fianchi, sulla schiena, fra le gambe.
- Questo è per Jäger, stronzo figlio di puttana che non sei altro. – urla, continuando a picchiarlo, - E stai attento a dormire con un occhio solo, la notte, perché prima o poi ti strappo le palle nel sonno, testa di cazzo, così magari lo capisci quello che cazzo hai fatto.
Bill perde il senso del tempo. Dopo un po’, tutte le sue percezioni fisiche cominciano a farsi sbiadite, distanti. La voce dell’uomo si abbassa di volume, anche il dolore diventa meno pressante e intollerabile, è solo un’eco lontana. Bill trova perfino la forza di piegare l’angolo delle labbra in un sorriso sereno. Forse finalmente è la fine, forse sta crepando, forse riuscirà ad essere libero, finalmente. Non ci sarà più una prigione di metallo a costringerlo, ed anche la sua prigione di strade, fuori da lì, sarà finalmente dimenticata per sempre.
E invece no.
La guardia smette di picchiarlo, una volta soddisfatta la sua rabbia, e si allontana, col fiatone. Recupera uno degli strofinacci appoggiati su uno scaffale, trovandolo un po’ alla cieca e facendo cadere una bottiglia di detersivo che atterra sulla testa di Bill – lui nemmeno la sente, ovviamente – e ripulisce il proprio manganello, scaraventandogli lo strofinaccio sporco di sangue sul viso subito dopo. L’odore metallico e penetrante del sangue dà a Bill la nausea istantaneamente, ma non ha ancora recuperato abbastanza forza o capacità di muoversi per potersi lamentare.
La porta si apre, e Bill la vede appena. La guardia esce, e lo lascia lì riverso per terra. Lo trova un inserviente, più di un’ora dopo.
- Porca puttana. – sibila, e Bill, che ha tenuto gli occhi chiusi fino a quel momento, li riapre, e lancia un urlo devastante quando il tipo lo afferra da sotto le ascelle e lo rimette in piedi, per portarlo in infermeria.
Non male, come inizio.

*

Resta in infermeria una settimana. Ne odia l’odore, odia tutti i detenuti nei lettini attorno al suo, odia i medici e gli infermieri che lo trattano con supponenza, lo toccano appena, difficilmente lo curano. Lo lasciano semplicemente lì disteso, lo puliscono quando se la fa addosso perché non riesce a muovere le gambe abbastanza da arrivare fino al cesso, e poi aspettano che il suo corpo faccia tutta la fatica di rimettersi in sesto da sé.
- Sei giovane, - gli dice il medico che lo visita distrattamente il terzo giorno, verificando la buona strada di guarigione intrapresa dai suoi tagli e lanciando occhiate disinteressate agli ematomi che lo ricoprono per un buon novanta percento su tutto il corpo, - per due schiaffetti, non vale neanche la pena di tenerti qui troppo a lungo.
Bill vorrebbe sgranare gli occhi e rispondere “due schiaffetti?”, ma è abbastanza sicuro che non otterrebbe niente a parte uno sguardo gelido, ed in ogni caso è contento di potere uscire da lì prima possibile. Ha sempre odiato gli ospedali, l’ansia che gli mettevano addosso, il loro odore di malattia e morte e paura e medicinali. L’odore insopportabile dei guanti in lattice, poi, o quello delle garze disinfettate. È nauseante. Le rare volte in cui s’è messo nei guai abbastanza da avere bisogno di cure mediche, si è sempre assicurato di potersi rimettere abbastanza in fretta da lasciare l’ospedale dopo al massimo un paio di notti, anche se per questo gli toccava dover fingere di stare meglio di quanto in realtà non stesse.
Qui non può farlo, e piano piano i giorni si accumulano, diventano quattro, poi cinque, poi sei, e Bill non ne può più. Un giorno, il detenuto che porta il pranzo e la cena ai ricoverati dalla mensa si sofferma con lui un po’ più a lungo. È un uomo basso, tarchiatello, pelato, dal viso stranamente rassicurante, forse a causa degli occhi chiari dallo sguardo limpido. Bill non lo conosce, ma d’altronde non ha passato abbastanza tempo fra gli altri detenuti per poter dire di conoscere qualcuno, a parte Bushido.
- Ciao, - lo saluta l’uomo, organizzandogli il vassoio in grembo, per potergli servire il suo pasto, - io sono Chakuza. Bushido manda i suoi saluti.
Bill aggrotta immediatamente le sopracciglia, serrando le labbra in una smorfia infastidita.
- Puoi dirgli di ficcarseli su per il culo. – risponde acido, e Chakuza ridacchia, posando il piatto col pollo in mezzo al vassoio e sistemandogli attorno le posate e il bicchiere per l’acqua, lasciandogli un piattino con le verdure sul comodino.
- Può essere indisponente, alle volte. – commenta.
- Non me ne frega un cazzo. – ribatte Bill, - Non li voglio, i suoi saluti di merda.
- Mi ha detto anche di riferirti… aspetta, com’è che ha detto? - aggiunge l’uomo, fingendo di soffermarsi a pensare e picchiettandosi il mento con l’indice mentre piega le labbra in una smorfia ironicamente riflessiva, - Ah, sì: gran lavoro stai facendo, nel proteggerti da solo. – sogghigna, - Così ha detto.
Bill digrigna i denti, furioso.
- Vaffanculo. – risponde, - Tu e lui. – conclude, e getta il vassoio in terra con un ringhio stizzito.
Chakuza ridacchia e non fa una piega. Chiama un inserviente per pulire il disastro combinato da Bill per terra, e poi si allontana, per portare il pranzo agli altri detenuti.
All’alba del settimo giorno, i progressi di Bill sono sufficienti da permettergli di deambulare sulle proprie gambe, pur con una certa fatica. Due infermieri lo mettono in piedi, gli riconsegnano i propri vestiti e poi chiamano due guardie perché lo scortino fino al braccio A. Bill cammina lentissimo in mezzo a loro, e per tutto il tempo il cuore gli batte tanto forte che potrebbe esplodergli. È paura, Bill la riconosce. Continua a guardare con attenzione ogni angolo, ogni corridoio, ogni incrocio, per essere certo che i due non lo stiano facendo girare in tondo per poi ficcarlo in uno sgabuzzino e finire l’opera del compare, e quando finalmente vede l’enorme cancello che è l’ingresso del suo braccio esala quasi un sospiro di sollievo. Lo inghiotte subito, quando si ricorda che non c’è proprio niente di cui essere sollevato.
Si trascina faticosamente nella propria cella, lasciandosi andare sul letto e ringraziando mentalmente per non avere insistito nel pretendere quello di sopra. Chiude gli occhi e dorme, per la prima volta in sette giorni. In infermeria era sempre sotto antidolorifici, e si sentiva confuso, per la maggior parte del tempo. Non sentire gli arti lo terrorizzava. Chiudere gli occhi sembrava spaventoso come condannarsi a morte. Adesso riesce quantomeno a sentire tutto. E fa tutto piuttosto male, ma almeno è rassicurante abbastanza da potersi concedere di chiudere gli occhi e assopirsi. Sa che, in caso di pericolo, il dolore lo sveglierà e renderà i suoi sensi abbastanza acuti da poter fronteggiare il problema. O almeno lo spera.
Problemi, comunque, non se ne presentano. Quando riapre gli occhi, dev’essere già notte fonda, perché le luci sono spente, la gabbia è chiusa e non si sente volare una mosca, a parte il ronzio silenzioso del russare pacato di Bushido. Bill si mette a sedere e gli sfugge un gemito di dolore. La schiena fa ancora male. Bushido si sveglia immediatamente, Bill lo sente muoversi sul materasso e poi gettare le gambe nel vuoto per saltare a terra, e impreca sottovoce perché avrebbe preferito risparmiarsi questo momento, quello in cui questo stronzo di merda rigirerà il coltello nella piaga dandogli del coglione con tutte le ragioni per farlo.
“D’accordo,” pensa Bill, “andiamo,” e solleva gli occhi, aggrottando le sopracciglia in una smorfia scontrosa. Bushido lo guarda con una certa severità, le braccia incrociate sul petto, e resta in silenzio a lungo.
- Be’? – lo invita quindi Bill, il tono strafottente, - Coraggio, lo so cosa vuoi dirmi.
Bushido inarca un sopracciglio, e poi parla.
- Il direttore ha deciso di lasciarti a riposo per un altro paio di giorni, - dice, - finché non ti rimetti. Dopodiché, verrai assegnato alla mensa, e lavorerai con me e i miei ragazzi. Questo è quanto. – conclude, e poi si arrampica nuovamente al proprio posto.
Si riaddormenta quasi subito. Bill mormora un “vaffanculo” fra i denti, e poi torna a stendersi a propria volta, ma non chiuderà occhio per tutto il resto della notte.

*

I due giorni successivi gli passano addosso come polvere. Nemmeno li sente. Il dolore diminuisce, piano ma considerevolmente, e quando il secondo giorno riesce a trascinarsi in mensa per il pranzo – dopo aver digiunato per tutto il giorno precedente – riesce a sentirsi perfino abbastanza orgoglioso di sé.
Si guarda intorno con curiosità ed osserva il luogo in cui, da domani, comincerà a lavorare. La sala è enorme, ci sono tre grandissimi tavoli di metallo sistemati parallelamente in verticale, ed altri due sui due lati corti opposti della stanza, posizionati in orizzontale. L’effetto è abbastanza straniante, ma non fastidioso. C’è una certa idea di ordine che lo intriga. E poi sembra tutto molto pulito, che è una cosa sempre piacevole dopo aver passato una settimana in infermeria a rotolarti nel piscio e nel tuo stesso sangue.
Recupera il proprio pranzo e si siede in un angolo, lontano da qualsiasi cosa possa essere definita un gruppo. Non ha interesse a sviluppare relazioni con gli altri detenuti, e comunque non sta ancora abbastanza bene da poter considerare l’interazione sociale come un’opzione valida. A metà del purè di patate, cominciano a dolergli le ossa. È la posizione, immagina, sta seduto e con le spalle piegate per cercare di attirare meno attenzione possibile, e la sua schiena – abituata a restare perlopiù in posizione sdraiata negli ultimi giorni – non può sostenere il peso del suo corpo troppo a lungo. Lascia perdere il cibo, perché il dolore gli sta togliendo la voglia di mangiare, e comincia a prepararsi mentalmente al calvario che sarà alzarsi in piedi e percorrere il lungo corridoio che separa la mensa dal braccio A. Sta per alzarsi, quando sente addosso gli occhi di qualcuno, e nel guardarsi intorno scopre che si tratta di due detenuti che parlottano fra loro, ghignano, ridacchiano e lo indicano con evidenti cenni del capo. Aggrotta le sopracciglia e sporge il mento con aria strafottente, quando i ghigni e i gesti dei due cominciano a farsi troppo insistenti e allusivi.
- ‘Cazzo volete? – ringhia esasperato, e uno dei due gesticola indicando prima se stesso, poi il suo compare, poi Bill, e infine mimando un atto sessuale spingendo l’indice di una mano attraverso un cerchio formato da indice e pollice dell’altra mano. Bill rotea gli occhi, lascia andare uno sbuffo parzialmente annoiato e parzialmente esasperato, e solleva il medio. I due scoppiano a ridere e lui si riserva il diritto di considerare chiusa la questione, perciò si alza in piedi, svuota i resti del proprio vassoio nel cestino e poi comincia a muoversi lentamente verso il braccio.
Quando arriva in sala comune, gli viene quasi da piangere. Un po’ perché ce l’ha fatta, un po’ perché tutto il corpo gli fa male da impazzire. Ci ha messo tanto di quel tempo, a camminare, che per il momento in cui arriva la sala comune è già quasi tutta piena, perché anche tutti gli altri detenuti hanno già fatto ritorno. Bill cerca un tavolino vuoto al quale sedersi, ma non ne trova. I pochi posti liberi sono a tavoli già occupati, e lui non vuole avere a che fare con nessuna di quella gente.
Decide di tornare in cella, ma in questo momento non può muovere un passo in più. Non ce la fa proprio. Ha bisogno di respirare, di calmarsi, di riposarsi un attimo, perciò si lascia andare in un angolino per terra e si fa piccolo piccolo, stringendo le ginocchia al petto e raggomitolandosi in una palla, sperando che nessuno lo noti e tutti lo lascino in pace.
È una speranza vana, e se non altro Bill dovrebbe avere imparato almeno quello, nel corso dei suoi primi dieci giorni scarsi di permanenza in prigione, ma in qualche modo riesce comunque a sentirsi stupito quando sente qualcuno richiamare la sua attenzione e, nel sollevare lo sguardo, si rende conto che sono i due detenuti che ci hanno provato prima in mensa. Il più alto e grosso dei due ribadisce l’offerta, e Bill li fissa entrambi, incredulo.
- Sono ridotto una merda. – fa presente, allargando le braccia e mostrando il viso e il collo ancora pieni di ematomi, - Come cazzo fa a venirvi voglia di scoparmi? Io non lo so.
- Non rompere il cazzo, adesso. – dice il tizio più basso, allungandosi a cercare di afferrarlo per una spalla, probabilmente per tirarlo su e trascinarlo in un luogo più appartato. In un movimento del tutto istintivo, Bill allunga entrambe le gambe e gli tira un calcio su uno stinco, abbastanza forte da costringerlo ad allontanarsi con un lamento, per poi tirare su la gamba dolente e massaggiarla con entrambe le mani. La soddisfazione di averlo costretto a saltellare ridicolmente su un piede solo per il dolore dura non più di una manciata di istanti, però, perché subito gli effetti del movimento improvviso si fanno sentire, sotto forma di una scarica elettrica di dolore concentrato che si accende alla base della sua schiena e si arrampica lungo tutta la sua spina dorsale, annebbiandogli la vista e scombinandogli il cervello.
Bill cerca di muoversi, ma fa fatica a respirare e questo lo confonde ancora di più, e la parete è liscia, troppo liscia, non gli offre alcun appiglio, e pochi secondi dopo, quando lui è riuscito a piegarsi sulle ginocchia e sta cercando in qualche recondito anfratto del proprio corpo la forza sufficiente per puntare un piede a terra e sollevarsi in piedi, uno dei due detenuti comincia a prenderlo a calci nello stomaco, e poco dopo si aggiunge anche l’altro, e Bill pensa chiaramente no basta cazzo non ne posso più ammazzatemi o toglietevi dalle palle non le reggo più le botte non la reggo più la nausea non reggo più un cazzo voglio morire ammazzatemi ammazzatemi ammazzatemi cazzo o lasciatemi in pace, e non ha idea di quanto tempo duri quella tortura, ma sa che ad un certo punto s’interrompe bruscamente, e lui si ritrova riverso a terra, ancora vivo, scosso dai tremiti di paura e dolore, e i due detenuti hanno fatto un paio di passi indietro, e a frapporsi fra lui e loro c’è un uomo che non ha mai visto prima, e che quando parla fa sbiancare quei due con una facilità che a giudicare dalla sua stazza – è magro, e decisamente non alto – non ha alcun motivo di esistere.
- Avanti, ragazzi, le conoscete le regole. – li rimprovera con fare paternalistico, - Fuori dal braccio, potete fare il cazzo che volete. Qui dentro, però, non deve volare una mosca. Io per me vi lascerei pure divertirvi, - aggiunge sollevando le braccia, - ma Bushido, lo sapete, lui non è magnanimo come me. Fossi in voi, mi terrei alla larga. – conclude, annuendo compitamente. Bill trova forza sufficiente a tenere aperti gli occhi e seguire la scena, ma si azzarda a rimettersi seduto, raggomitolandosi tremante in un angolo, solo quando i due si sono allontanati abbastanza da non rappresentare più una minaccia.
Il tipo si volta verso di lui, avvicinandosi con aria circospetta. Si muove in maniera strana, vagamente scimmiesca, forse, anche se comunque sta moderatamente dritto e non ciondola. Ha solo un’aria particolarmente svagata e assurda, probabilmente motivata dai ridicoli baffetti che disegnano un arco sul suo labbro superiore.
- Ohi, stai bene? – gli domanda, e Bill lascia andare una risata amara che dura il tempo di capire che ridere fa troppo male.
- Secondo te? – domanda con supponenza, tirando su col naso e sentendo sulla lingua il sapore del sangue, - Cristo, odio questo posto. Non ne posso più di essere picchiato. – si lamenta, guardando per terra e stringendosi nuovamente le ginocchia al petto. il tizio si siede al suo fianco, una gambe distesa sul pavimento, l’altra piegata, a fare da appoggio per il braccio.
- Se ti unissi al gruppo di Bushido, non avresti più problemi. – considera, scrollando le spalle con naturalezza.
- Sì, il problema è che non voglio. – ribatte Bill in un mezzo ringhio, - Non me ne frega un cazzo di queste beghe da coglioni e da stronzi. Fate la voce grossa, ma siete chiusi in una fottuta prigione. E questo Bushido poi chi cazzo sarebbe, un qualche boss o qualcosa del genere? Be’, non governa un cazzo, a parte una decina di stronzi come lui, teste di cazzo abbastanza grosse da farsi beccare come stupidi.
Il tipo lo ascolta con attenzione e poi scrolla le spalle un’altra volta, per nulla colpito dalla sua arringa.
- Qualsiasi posto sia quello in cui uno vive, - spiega, - la cosa importante è averne il controllo, capito? Così ti eviti di venire abbordato da due troie come quelle, che poi perdono il controllo, e magari ti risparmi di finire picchiato ogni volta che cambia il vento. Io, comunque, sono Eko Fresh, ladro specializzato in furti e rivendita di automobili di lusso. – si presenta, porgendogli la mano. Bill la squadra con disinteresse ed inarca un sopracciglio, decidendo di non stringerla.
- Bill Kaulitz, puttana, specializzato in prenderlo su per il culo e staccarlo a morsi a quelli che glielo infilano a forza in gola. – procede sulla sua stessa falsariga, prendendolo in giro, - Ti basta, come curriculum?
Eko si mette a ridere, annuendo.
- Sono capacità sempre utili, specie in prigione. – dice con trasporto, come se per lui la faccenda fosse incredibilmente seria. – Comunque, Bushido ci ha spiegato che vuoi essere lasciato in pace. Se vuoi il mio parere, non sei capace di farti lasciare in pace, e neanche ti conviene, ma ehi, - scrolla le spalle un’altra volta, sollevando entrambe le braccia in un gesto di resa, - ognuno è padrone del proprio destino.
- Se il tuo capo del cazzo ti ha spiegato che non voglio balie intorno, perché ti sei messo in mezzo? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia, infastidito.
- Ah, ma quella è una questione completamente differente. – risponde Eko, scuotendo il capo, - Non l’ho fatto per te, l’ho fatto perché noi teniamo ordine nel braccio. Per “noi” intendo “il gruppo di Bushido”, e per “tenere ordine nel braccio” intendo… - ci riflette un paio di secondi, - be’, tenere ordine nel braccio. – conclude annuendo. – Se ti serve qualcosa, in ogni caso, io o uno dei miei compari possiamo darti una mano. C’è Baba Saad, - dice, indicando un tizio impegnato a confabulare di qualcosa con Bushido ad un tavolo, - che è il braccio destro di Bu.
- Bu? – domanda Bill, inarcando un sopracciglio e faticando a trattenere l’impulso di scoppiare a ridere, riuscendoci solo riportando a galla il ricordo di quanto gli avesse fatto male lo stomaco quando ci aveva provato poco prima.
- Sì, ma tu non chiamarlo mai così. – lo avverte Eko Fresh, - S’incazza anche con noi, quando lo facciamo, figurarsi cosa non farebbe con te. Poi, vediamo, ci sono Fler e il Chaku, Chakuza. – continua, indicando due tizi seduti accanto davanti alla tv, che ridono come deficienti per le battute di qualche stupido comico nel programma che sta andando in onda. – Fler fuori si occupava di corse clandestine e spaccio. Il Chaku invece era un individuo pericoloso. Ammazzava la gente, sai. Col cibo. Era uno chef.
- Non doveva essere granché bravo, allora. – ipotizza Bill, ed Eko scoppia a ridere.
- Ma no, - spiega, - era la sua copertura. Serviva i pasti, ed invece di condirli solo con le spezie, aggiungeva giusto quel tocco di cianuro. In modo da rendere la cena indimenticabile, capito come? – aggiunge ridacchiando, e facendogli l’occhiolino. Bill sbatte le ciglia un paio di volte, decisamente poco impressionato dalla battuta.
- E gli permettono di lavorare in cucina? – domanda.
- Ah! – esclama Eko, - Lo conosci, dunque.
- Portava il cibo in infermeria mentre ero ricoverato. – scrolla le spalle lui, - Cibo, e fastidiosi saluti da parte del vostro stupido capo.
Eko annuisce compunto, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido ci tiene, alla buona educazione. – commenta, e Bill rotea gli occhi. – Comunque, questi che ti ho detto, be’, sono i buoni. – Bill lo guarda con inequivocabile ironia, ed Eko tossicchia, schiarendosi la voce, - Intendo, i meno cattivi dei cattivi. Se devi tenerti alla larga da qualcuno, quel qualcuno è Sido. – dice, indicando un tizio con gli occhiali e l’aria da nerd sfigato, seduto ad un tavolo con altre due persone. – Lui gestisce il traffico della droga e delle sigarette in tutta la prigione. Bushido glielo lascia fare, a patto che lui non crei problemi. Ma non è che Sido si diverta, a fare il sottoposto di Bushido, per cui bisogna sempre tenere gli occhi aperti.
- Ti ho già detto che a me di queste stronzate non frega un cazzo. – ribadisce Bill, tornando a raggomitolarsi su se stesso. Eko annuisce.
- Sì, ma io te lo dico perché è importante conoscere il luogo in cui si vive, se non lo si può comandare. Tieniti alla larga da Sido e da quei due lì, B-Tight e Tony D. Era gente che faceva roba sporchissima, fuori, e sarebbero perfettamente in grado di ricominciare a farla anche qua dentro, se si trovassero davanti all’occasione giusta.
- Va bene, d’accordo. – sospira Bill, guardando altrove, - L’hai finita la lezione? Mi sto annoiando.
Eko aggrotta le sopracciglia, offeso.
- Sai, - borbotta, alzandosi in piedi, - sei indisponente.
Si allontana senza una parola di più, e Bill sospira sollevato quando lo vede tornare a sedersi accanto a Bushido, al tavolino che divide con Saad. Dopodiché, cerca di spingersi in piedi facendo pressione sulle gambe, utilizzando tutta la poca forza che ancora gli resta, e si trascina in gabbia, lasciandosi ricadere sul letto come un peso morto.
Ripensa al primo giorno in cui s’è svegliato in quella cella e tutto ciò che voleva era uscirne il prima possibile. Ora, vorrebbe poterlo non dover fare mai più.

*

Jost firma documenti da quattro ore e non si sente più la mano.
I detenuti sono convinti che il suo ufficio sia una stanza dei bottoni dalla quale potrebbe far piovere oro, se solo lo volesse. La verità è che lui è solo un impiegato statale con una penna stilografica molto costosa. Dopo aver ascoltato i suoi collaboratori e aver preso decisioni per questioni di cui non ha esperienza di prima mano, il resto del suo tempo è diviso tra l'occuparsi delle cause legali che sono attualmente in corso per e contro il penitenziario – che sono un numero esageratamente alto – e cercare di seguire le direttive dei piani alti che sono spesso contraddittorie e seguono il soffio del vento.
Quando finalmente alza la testa dalla pila di fogli che non accenna ad esaurirsi, è solo perché hanno bussato alla porta. Una delle guardie lo avvisa che Ferchichi chiede un colloquio. Jost si appoggia allo schienale della poltrona in pelle e si massaggia gli occhi stanchi. “Fallo entrare,” dice, consapevole di aver appena permesso all'ennesimo problema di mettersi in fila insieme a tutti gli altri che deve ancora risolvere. Il tunisino non è mai latore di buone notizie.
“Che cosa vuoi?” Gli chiede, non appena quello mette piede in ufficio, trascinandosi svogliatamente fino alla solita zona di sicurezza a qualche metro dalla scrivania. La guardia di sicurezza si ritira ad un suo cenno.
“Ma come, David, non mi saluti nemmeno?” Ghigna lui, piegando la testa di lato e guardandolo con strafottenza.
“E' Jost per te, Ferchichi,” gli ricorda.
“Allora tu chiamami Bushido.”
Jost è direttore del penitenziario da più tempo di quanto sia effettivamente sano ed ha imparato che a volte con i detenuti è meglio trattare che non pretendere. Ma questa non è una di quelle volte. “C'è un motivo per cui ti trovi qui, Ferchichi o hai lasciato il tuo regno incustodito solo per venire fin qui a ricordarmi come ti chiami?”
“Il mio regno è ben sorvegliato, non si preoccupi,” Bushido sposta il peso da un piede all'altro e solleva le mani bloccate dalle manette per grattarsi il naso con l'indice. “Sono qui perché la sua bambolina non se la passa tanto bene.”
“La mia bambolina? …Intendi Kaulitz?””
Bushido mastica lo stecchino che tiene sempre incastrato tra i denti. “Sì, lui,” annuisce. “Non ce l'ha un altro posto dove metterlo? Se continua così, quello non supera la settimana.”
“Pensavo che il medico lo tenesse in infermeria.”
“C'è stato,” Bushido muove entrambe le mani a sinistra e poi le sposta di nuovo a destra. “Ma poi è tornato in prigione con tutti gli altri. Ed è qui che cominciano i casini.”
Jost sospira e si passa una mano sugli occhi; non che serva a qualcosa ma lo aiuta a tenersi occupato mentre Ferchichi gli racconta quello che già si era aspettato. “Che cos'è successo?”
“Niente, ancora,” dice lui. “Ma succederà e non sono sicuro che sarà un bel vedere. Quello non può andarsene in giro per i cazzi suoi senza che qualcuno gli metta gli occhi addosso, Jost. I guai se li tira addosso anche solo respirando. Senza contare che è una testa di cazzo, quindi non ha nemmeno abbastanza cervello per evitarli.”
“Se non mi sbaglio, tu e i tuoi dovevate tenerlo d'occhio.”
Bushido sposta lo stecchino da un lato all'altro della bocca. “Ci abbiamo provato, ma a quanto pare il ragazzino non gradisce la nostra protezione,” risponde, con un sospiro falsamente contrito. “E un paio delle sue guardie non ha familiarità con il concetto di etica professionale.”
Lo sguardo di Ferchichi è apertamente accusatorio, ma Jost preferisce soprassedere perché non ha né il tempo né la voglia di discutere al riguardo. Scuote il capo e si stringe nelle spalle. “Purtroppo non c'è molto che posso fare. Gli hanno dato dodici anni e deve passarli qui.”
“E' questa la nuova politica del penitenziario per diminuire il numero dei detenuti? Lasciarli al proprio destino sperando che crepino prima della fine della condanna?” Chiede Bushido, con noncuranza e come se, in effetti, la situazione dei suoi colleghi gli interessasse qualcosa.
Lui ha sempre accettato le cose per come stavano fin da quando è arrivato, salvo il fatto che ha preso il comando della situazione non appena ha messo piede nel braccio; per il resto, però, non si è mai mosso per migliorare le condizioni sue o degli altri detenuti, tutt’al più ha promesso di non farle peggiorare. E' per questo che Jost lo usa come mediatore: il suo attaccamento allo status quo è già più di quanto possa chiedere a qualunque altro detenuto.
“A te non è mai fregato niente di come vivete qua dentro.”
“Qua dentro,” annuisce Bushido, “inteso come la prigione in generale, ma non nella mia cella. Sono piuttosto interessato a che ne è di quei due metri di spazio in cui sono costretto a vivere.”
Jost sente l'emicrania partire dalla base del collo e risalirgli il cervello, pronta ad esplodere inesorabile in uno di quei mal di testa in grado di stenderlo su un divano per giorni. “Non ti seguo, Ferchichi,” geme, aprendo un cassetto laterale della scrivania e cercandovi dentro a casaccio, sicuro che ci sia una qualche pillola sparsa in grado di aiutarlo. “Cerca di farla breve. La vedi quella pila di fogli davanti a te? Aspetta ancora che ci lasci l'autografo.”
“Il ragazzino ha pensato bene di salvare il culo chiudendosi in cella,” spiega Bushido. “Non ne esce da giorni e io vorrei evitare che morisse di consunzione nel letto sotto al mio.”
“E che cosa vuoi che faccia? Non posso trascinarlo fuori di lì se non vuole.”
Bushido gli riserva uno dei suoi sorrisi storti. “Non avevo dubbi che l'avresti detto, David.”
“Jost.”
“Voglio il permesso di portare del cibo in cella,” spiega Bushido. “Per lui, s'intende.”
“Per lui, certo,” ripete Jost. La precisazione strappa un sorriso anche al suo mal di testa. “Sai perfettamente che non sono ammessi favoritismi.”
Bushido annuisce. “Conosco il regolamento,” annuisce. “Lo consideri una misura precauzionale. Se si sente male, sarà considerato un tentativo di suicidio. E lei sa meglio di me che è più facile gestire uno strappo alla regola che l'opinione pubblica.”
Jost lo sa molto bene. I cittadini desiderano sentirsi al sicuro, non vogliono i ladri, gli stupratori e gli assassini liberi per strada. Li vogliono dietro le sbarre e solo allora, quando non minacciano più i loro quartieri – quando in sostanza non sono più affare loro – sono subito disposti a dimostrare pietà e ad accusare la polizia carceraria di qualunque cosa accada. Se per qualche motivo un detenuto ne accoltella un altro oppure si appende per la gola, quelli non sono più il truffatore o l'assassino che fino al giorno prima dovevano essere mandati a morte. Sono vittime di un sistema carcerario violento e disumano. Ed ecco i picchetti, le petizioni, gli scioperi della fame di gente legata ai cancelli del penitenziario, gente che urla e strepita finché un politico non interviene per concedere la grazia prima delle prossime elezioni.
Jost è consapevole che le sue guardie non sono stinchi di santo, ma sa che fra le mura della prigione c'è sempre una forte tensione generata da un gran numero di uomini rinchiusi in un unico posto senza la possibilità di sfogarsi in alcun modo e con la sola compagnia di poliziotti che odiano per principio e di altri detenuti con i quali, quasi sicuramente, hanno qualche conto in sospeso. E' fisiologico che gli incidenti capitino e, per quanto lui cerchi di stare attento, è umano anche lui. Solo che, apparentemente, questa non è una giustificazione valida con cui rispondere ad un tentato suicidio, nel caso.
“Credi davvero che potrebbe aiutarlo?” Chiede Jost.
“Se è ancora vero che chi non mangia da giorni ha fame...”
Jost ha già preso un foglio bianco per scarabocchiarci velocemente sopra l'autorizzazione. “E va bene, facciamo questo esperimento,” gli dice, richiudendo la stilografica ma tenendosi il permesso che non rimane a Bushido, naturalmente, ma va ad infilarsi nella cartella di documenti che giornalmente lascia il suo ufficio per essere fotocopiata, inviata in triplice copia e poi archiviata dalla sua segretaria. “Torna pure con gli altri, avverto io le guardie.”
L'agente di custodia che ha accompagnato Bushido fino all'ufficio del direttore viene richiamato perché lo scorti di nuovo all'interno del penitenziario.
Bushido conosce ormai la strada a memoria, così avanza docilmente, un passo dopo l'altro, senza bisogno che la guardia alle sue spalle lo spintoni o gli dica di darsi una mossa. Non ci vede niente di ribelle nel piantarsi a gambe larghe in mezzo ad un corridoio come un mulo recalcitrante solo per dare a vedere che se ne frega degli ordini. Lui non ha bisogno di queste ridicole manifestazioni di testardaggine per farsi valere e lo ha insegnato anche ai suoi ragazzi, così che si distinguano fin da subito dalla feccia che segue Sido come le mosche la merda.
Quando arriva, la cella è silenziosa e il ragazzino è così raggomitolato in un angolo che alla prima occhiata nemmeno lo vede. Se ne sta seduto in terra, tra il cesso e il lavandino, le gambe strette al petto e lo sguardo fisso e un po' vacuo che gli ha visto addosso ogni giorno durante l'ultima settimana.
“Beh, se volevi disperarti e lasciarti morire, potevi anche farlo sul letto, sai?” Lo apostrofa, facendo un passo all'interno e lasciando che la guardia gli chiuda la porta alle spalle. Il ragazzino gli dedica appena un'occhiata ma non dice una parola mentre Bushido si volta e porge i polsi alla guardia attraverso le sbarre. “Ti spiace?” Chiede, con un sorriso sghembo. “I braccialetti cominciano a stringere.”
L'uomo sbuffa una mezza risata e lo libera dalle manette, poi si allontana facendo un cenno ad entrambi. “Fate i bravi, là dentro.”
“Hai sentito?” Bushido si rivolge di nuovo al ragazzino, ripiegando un po' le maniche della camicia. “Dovresti comportarti a modo e sederti come un essere umano.”
“Si può sapere tu che cosa cazzo vuoi?” Sbotta Bill.
Bushido non si scompone. “Fa piacere sapere che non ti è scomparsa la voce e che la usi sempre per dire cose tanto piacevoli,” lo prende in giro.
“Senti, non ho nessuna voglia di-”
“Sta' zitto, fammi il favore. Ti ho portato da mangiare,” dice Bushido, tirando fuori dalla tasca qualcosa avvolto in tovaglioli di carta e una di quelle bottigliette di plastica in cui viene distribuito il succo frutta. “Spero che tu non sia allergico alle fragole, perché questo era l'unico rimasto.”
Bushido appoggia il cibo sul letto di sotto e lo spinge verso il ragazzino, quindi si appoggia al tavolo che c'è nell'angolo della cella e resta in attesa. “Mangia,” ordina con un cenno del capo dopo che si è allontanato abbastanza da lasciar intendere che questo è il massimo dell'interazione che ha previsto con lui.
Bill rimane immobile per un lungo istante e poi allunga una mano a recuperare il fagotto. “Com'è che tu puoi portare cibo in camera?” Chiede sospettoso mentre svolge l'involucro di carta e ne estrae un panino rotondo e straripante di ripieno.
“Ho un permesso speciale” spiega Bushido. “Ma fossi in te non mi farei vedere.”
Lo stomaco di Bill fa le capriole di fronte a quel ben di Dio e, anche se vorrebbe continuare a fregarsene, il ruggito inarrestabile del proprio stomaco lo costringe a cedere. Il primo morso gli fa quasi salire le lacrime agli occhi, tanto che si ritrova a mugolare compiaciuto. “Questa non è come la merda che servono in sala mensa,” commenta. “Dove l'hai trovato?
Bushido sorride. “L'ho fatto fare a Chakuza appositamente per te.”
Bill allontana subito il panino dalla bocca e si chiede se è ancora in tempo per vomitare anche il morso che ha già mandato giù.
Bushido scoppia a ridere. “Tranquillo, è buono. Fidati,” gli dice. “L'ho fatto preparare a lui perché per poter avvelenare i cibi, prima doveva prepararli. Ed è un ottimo cuoco.”
Il ragazzino ci pensa su qualche istante e osserva il panino con la stessa diffidenza con la quale guarda Bushido. Quel tipo potrebbe volergli mettere le mani addosso un giorno o l'altro, ma di sicuro non ha alcun motivo per volerlo morto. E poi con tutti gli uomini che ha in giro per la prigione, perché prendersi la briga di portargli del cibo avvelenato in camera? Tanto valeva farlo ammazzare da qualcuno una delle tante volte che lo hanno pestato.
“Mangia, ti ho detto,” ripete Bushido, più severamente. “Il panino è a posto. Il direttore sa che ti ho portato del cibo, quindi se adesso cadi in terra morto stecchito, lui saprà che ti ho ammazzato io. Sei più tranquillo adesso? Forza.”
“Ora sì che mi sento più sollevato, sapendo che finirai in isolamento se crepo,” commenta ironico Bill, però tira un altro morso al panino. “Come fa uno come Chakuza ad avere il permesso di lavorare nelle cucine?”
“Infatti non ci lavora,” Bushido si stringe nelle spalle e, visto che Bill sta mangiando, può anche arrampicarsi sul suo letto e stendersi lì, con le braccia dietro la testa. “Porta solo i pasti in infermeria, ma se si vuole fare qualcosa, il modo lo si trova.”
Per qualche minuto sulla cella cade il silenzio, interrotto soltanto dal ruminare di Bill che si è evidentemente lasciato andare alla fame e sta divorando il cibo come non ne vedesse da giorni, cosa che in effetti non fa. Bushido attende pazientemente che il ragazzino abbia finito e, quando quello finalmente si alza in piedi, gli rivolge la parola senza nemmeno voltarsi a guardarlo. “Pensi di passare qui dentro tutti gli anni che ti hanno dato?”
“E anche se fosse?”
“Se così fosse ti direi che non mi pagano per portarti da mangiare,” risponde. “Tienilo a mente mentre cerchi di usare i tuoi super-poteri per campare dodici anni senza mettere in bocca neanche un pezzo di pane.”
Bill si stende sulla sua branda, il viso rivolto verso il muro di fronte a sé, reso più scuro dall'ombra del letto di sopra e solo allora, lontano dallo sguardo di Bushido, si permette di deglutire di preoccupazione. Non può passare tutto il suo tempo in quello schifo di cella ma, per come stanno le cose, non può nemmeno avventurarsi fuori. Bill non crede nel tempo che sistema le cose, soprattutto in galera, dove al massimo sono pronti a tirargliele di nuovo perché si sono scordati di averlo già fatto una volta.
“Ehi, ragazzino?” La voce di Bushido è calda e bassa, e sempre così impostata che Bill lo trova ridicolo. Ma chi si crede di essere questo marocchino impiantato in Germania? Che diavolo vuole da lui e dalla sua vita? Perché non lo lascia in pace un istante? E' per questo che non riesce a concentrarsi e a trovare una soluzione al suo attuale problema come fa di solito, perché quello lassù, abbarbicato sul suo stupido trono non sta mai zitto e pretende anche che lui gli risponda. “Cosa vuoi?”
“La mia offerta è sempre valida.”
“Fottiti,” Bill si raggomitola e diventa ancora più piccolo. “Ti ho già detto che non ne ho bisogno.”
“Il panino lo hai fatto fuori, però.” La voce di Bushido non cambia di tono. Resta pacata e venata da un leggero umorismo. “E un grazie sarebbe gradito, sai? Non è che se batti per strada devi essere maleducato.”
Bill sbuffa rumorosamente dalle narici. “Nessuno ti aveva chiesto niente.”
Non a parole, pensa Bushido. E' evidente che, da qui in avanti, se vuole evitare che la situazione degeneri, la volontà del ragazzino non va più presa in considerazione.

*

Proprio per questo motivo, la prima cosa che Bushido fa all’alba del terzo giorno di Bill Kaulitz nelle cucine, dopo averlo osservato finire in tre risse nel giro di quarantotto ore, e quasi violentato dietro le caldaie durante il suo turno di pulizie, è andare a fare una visitina al suo vecchio amico Jost.
Ci sono voluti tre giorni solo perché Bill si riprendesse abbastanza da decidere di potersi fare un giro fuori dalla propria cella. Ce ne sono voluti altri due di suggerimenti velati per convincerlo a mettersi a lavorare. Bushido non ha intenzione di sprecare tutta la fatica fatta solo perché questa prigione, come tutti i luoghi in cui le gabbie superano in numero le stanze, è abitata solo da animali.
Osservandolo sulla soglia della porta, accompagnato da un agente di custodia e con i polsi stretti nelle manette, Jost sospira. Bushido solleva una mano per salutarlo agitando le dita. L’altra segue la prima nel movimento, ma resta lì appesa alla propria manetta come un peso morto.
- Il mio non è un lavoro, - commenta, - è espiazione. Può andare, agente.
L’agente di custodia spinge poco delicatamente Bushido all’interno dell’ufficio e poi si allontana, chiudendosi la porta alle spalle.
- Buongiorno, David. – lo saluta Bushido, svaccandosi senza complimenti sulla poltroncina di fronte alla grande scrivania dietro la quale il direttore si nasconde.
David si pinza la radice del naso, inspirando ed espirando profondamente.
- Guarda, Ferchichi, usualmente sarei ben felice di rimproverarti, ricordarti che per te sono direttore o al massimo Jost e tutto il resto dei preliminari che ti piace tanto mettere in pratica quando devi parlare con me, - comincia, osservando un sorrisetto divertito farsi strada sulle labbra del detenuto, - ma sono giorni che non fai altro che entrare ed uscire dal mio ufficio, e sinceramente non ne posso più di vedere la tua brutta faccia giorno dopo giorno dopo giorno, perciò facciamola breve e tagliamo i convenevoli: cosa diavolo vuoi?
- Ci siamo alzati col piede sbagliato, stamattina, eh? – ride Bushido. David rotea gli occhi. Gli ha appena detto di voler tagliare i preliminari, ed ecco che lui insiste, come non l’avesse neanche sentito.
- Sempre, Ferchichi. Sempre, credimi. Ora, ti dispiacerebbe, per cortesia, vuotare il sacco e poi sparire dalla mia vista per sempre? – domanda con educazione, recuperando una pila di fogli da un cassetto e prendendo a fingere di leggerli con estremo disinteresse, giusto per darsi qualcosa da fare.
Bushido si prende il suo tempo, prima di rispondere. Non perché abbia bisogno di raccogliere i pensieri – Jost lo conosce abbastanza bene da sapere che Bushido non muove un passo per parlare con qualcuno se non sa già esattamente cosa deve dirgli e come deve farlo in modo da ottenere precisamente ciò che vuole – ma appositamente per snervarlo, sperando che infastidirlo in questo modo lo porti a concedergli una risposta veloce e affermativa, solo per toglierselo dai piedi quanto prima.
Inutile dire che sta funzionando.
- Dunque, a proposito del ragazzino che mi hai affibbiato… - comincia lentamente, e David rotea gli occhi, nauseato.
- Non ne posso più di sentirti parlare di quest’argomento. Non ne posso più di te in generale, ma di questa cosa in particolare, poi, non riesco più a tollerare nemmeno l’esistenza. Ora lo sposto in isolamento e tanti saluti. – minaccia in un ringhio impietoso, e Bushido, prevedibilmente, si mette a ridere.
- Mamma mia, David, dovresti prenderti un calmante. Una camomilla, almeno, se non vuoi ricorrere alla prescrizione del tuo psichiatra. – suggerisce con tono falsamente preoccupato. David deve dar fondo a tutto il proprio autocontrollo per impedirsi di afferrare il pesante fermacarte a forma di zampa di leone che ingombra una buona percentuale della sua lussuosa scrivania in legno massello e tirarglielo dritto sulla fronte, proprio in mezzo agli occhi. Sarebbe soddisfacente – oh, Dio, sarebbe così soddisfacente – ma con la fortuna sfacciata che ha Bushido riuscirebbe sicuramente a sopravvivere; lui, invece, finirebbe arrestato e incriminato per tentato omicidio, e probabilmente sarebbe recluso proprio nella stessa prigione che fino ad ora, con alterni risultati, ha diretto. Questo sarebbe di sicuro meno soddisfacente, perciò David pone un freno alla propria furia, e si limita ad inspirare ed espirare rumorosamente dal naso, provando a recuperare la calma.
- Non ho bisogno di nessuna prescrizione, Ferchichi. – ribatte, sospirando con rassegnazione. – Coraggio, sputa il rospo. Cos’è che vuoi ora? Il permesso di portarlo a pisciare e reggergli l’uccello mentre lo fa? Puoi. Contento? Ora vai.
Bushido rimane in silenzio per un paio di secondi, il sorriso abbandona velocemente le sue labbra e le sue sopracciglia si aggrottano visibilmente. David si permette un sorriso di trionfo.
- Sei il peggior direttore di prigione esistente sulla faccia della terra. – commenta.
- Oh, e il tuo parere mi interessa così tanto che penso che stanotte non dormirò. – ribatte David, con un altro mezzo sorriso. – Seriamente, Ferchichi. Sputa il rospo. Non ho tempo da perdere. Specialmente con te.
- D’accordo, d’accordo. – sospira lui, mettendosi seduto in maniera vagamente più composta, come a dargli un segnale tangibile delle proprie buone intenzioni a passare ad argomenti più seri. – Allora, lo voglio fuori dalla cucina.
David aggrotta le sopracciglia, accomodandosi meglio contro lo schienale della propria enorme poltrona girevole in vera pelle.
- Come, prego? – domanda incerto. Bushido non si scompone.
- Lo voglio fuori dalla cucina. – ribadisce, - Pensavo che sarebbe stato più semplice tenerlo sotto controllo lì, ma la verità è che non fa che creare problemi. O sono i problemi che continuano a trovarlo, questo non mi è ancora del tutto chiaro. In ogni caso, - scrolla le spalle, e le manette producono un suono tintinnante particolarmente fastidioso, in risposta al suo movimento, - non posso più tenerlo lì. Non solo non riesco a farlo stare tranquillo, ma finisce per rallentare il lavoro a tutti. I miei ragazzi si lamentano e una ciurma scontenta è una ciurma potenzialmente pronta all’ammutinamento. Lo sposti da qualche altra parte.
- Scusami mentre trattengo a stento le risate sulla metafora piratesca. – sbotta David, inarcando un sopracciglio, - E scusa anche mentre cerco di non soffocarmi d’ilarità mentre realizzo che tu supponi di poter venire qui in quest’ufficio a fare il bello e il cattivo tempo senza che io ti rida in faccia e ti mostri la via più breve per toglierti dalle palle presentando il tuo triste fondoschiena alla punta dei miei stivali da milleduecento dollari.
Bushido inarca le sopracciglia così tanto che sulla sua fronte si formano rughe ondulate e profondissime.
- Questa è la cosa più gay che io abbia mai sentito dire in assoluto in tutta la mia vita, non scherzo. – lo avvisa. Ancora una volta, David deve trattenersi dal reagire in maniera sconsideratamente ed inappropriatamente violenta. Questa conversazione lo sta portando sull’orlo di una crisi di nervi.
- Va bene, Ferchichi, basta così. – sospira, massaggiandosi stancamente le tempie, - Sono stufo. Non ne posso più. Dove vorresti che lo spostassi?
Bushido scrolla le spalle, come non ci avesse ancora pensato. David lo odia. Questi giochini lo irritano. Entrambi sanno perfettamente che Bushido ha già pianificato quella conversazione nei minimi dettagli, ed entrambi sanno anche che tutti i tentativi di David di accorciarla e modificarne il corso sono stati vani. Perché, quindi, continuare a trascinarla inutilmente per chissà quanti altri minuti?
- Magari in biblioteca. – si degna finalmente di rispondere, - È un posto tranquillo, ci sono solo due ingressi e non dovrebbe fare altro che stare seduto al computer a registrare i libri presi in prestito. Inoltre, lì i miei ragazzi potrebbero tenerlo d’occhio meglio e più discretamente, così anche lui non se ne accorgerebbe e la smetterebbe di rompere le palle e piantare casini apposta per dispetto nei miei confronti. – sorride, accavallando le gambe. – Mi sembra la soluzione migliore per tutti.
David lo fissa con malcelata rabbia per un paio di secondi, chiedendosi se quest’uomo sappia di fronte a chi si trova. Se ne abbia un minimo di consapevolezza, almeno.
- Lo sai perché ti ho affidato questo ragazzino, Ferchichi? – domanda, e quello fa una smorfia.
- Me lo chiedo continuamente. – risponde.
- Me lo sono chiesto anch’io. – annuisce David, - E la verità è che fino a questo momento non ne avevo un’idea precisa. Ma adesso sì.
L’espressione di Bushido cambia. Si fa più seria, perfino preoccupata, mentre sulle labbra di David si disegna un sorrisetto divertito.
- Sarebbe?
- Non me ne frega niente, di quel ragazzino. – spiega David, - O meglio, non più di quanto non mi freghi di un qualsiasi altro detenuto. Quindi, in realtà, molto poco. Ma sai quanti omicidi e suicidi ci sono stati fra i nuovi arrivati nel corso dell’ultimo anno? È meglio che non ti dica il numero preciso, perché sono di quelle stime che farebbero rizzare i capelli sulla testa anche a uno stronzo come te. Posso però dirti che in percentuale stiamo parlando di più della metà dei nuovi detenuti, la maggior parte dei quali ragazzi molto giovani, che in teoria uscendo di qui in una decina d’anni o meno avrebbero potuto rifarsi una vita. – David si prende qualche secondo per tenere Bushido sulle spine, osservando i suoi occhi farsi più scuri, perfino preoccupati. – La verità è che te l’ho affidato perché è un caso perso, Ferchichi. Perché se il ragazzino crepa, in qualsiasi modo, io avrò la scusa perfetta per tenerti ingabbiato qui dentro fino a che non avrai scontato la tua pena integralmente. Perché davvero, se c’è qualcuno in questa prigione che non merita di rivedere la luce del sole il più a lungo possibile, questo sei tu. E sai perché, Ferchichi?
- Perché lei è uno stronzo e mi odia, direttore? – risponde immediatamente Bushido, gelido, tornando ad una forma di cortesia che con lui non ha mai usato e che, per la prima volta, stabilisce fra loro una distanza, sintomo evidente del fatto che lui non ha più alcuna voglia di scherzare.
- No. – ridacchia David, stendendosi comodamente contro lo schienale della poltrona e intrecciando le mani in grembo, - Perché la prigione non ti ha insegnato niente, Ferchichi. Sei sempre la stessa feccia che eri quando sei entrato qui dentro, e non hai alcun diritto di uscire. Non sei stato rieducato. – il suo ghigno si allarga, - Ecco perché ti ho affidato il ragazzino. Perché tu fallirai, e io potrò tenerti qui dentro. Non perché ti odio, ma perché è quello che meriti.
Bushido scatta in piedi, osservandolo dall’alto con rabbia evidente. Le sue mani tremano.
- È tutto? – domanda. David si concede un altro sorriso soddisfatto.
- Il permesso per il trasferimento del detenuto Bill Kaulitz in biblioteca è accordato. – conclude, - È tutto, sì.

*

All’alba del terzo giorno di biblioteca, Bill si è già annoiato così tanto da ripensare alle botte e ai tentativi di stupro con nostalgia. Almeno, allora succedeva qualcosa. Invece, adesso ogni ora è una tortura, i minuti non passano mai, le giornate sono infinite. Se pensa che gli toccano dodici anni di questa merda, gli viene da vomitare. Saranno dodici e sembreranno ventiquattro, visto che, palesemente, il tempo in quella stanza silenziosa scorre due volte più lentamente di quanto non faccia in tutto il resto della prigione e del mondo.
Il primo giorno è stato perfino piacevole. Un agente di custodia l’ha scortato alla biblioteca, gli ha mostrato la postazione e gli ha gettato fra le mani un breve opuscolo che gli spiegava in sintesi ciò che doveva fare e il funzionamento di base del programma col quale avrebbe dovuto registrare i prestiti e le restituzioni.
La biblioteca non è molto frequentata, la maggior parte dei detenuti preferisce fare altro rispetto a leggere, evidentemente, e Bill non può certo biasimare nessuno, per questo – non si avvicinerebbe a un libro neanche se stesse morendo di noia e non ci fossero altri passatempi possibili nel raggio di chilometri – e per questo motivo fin dall’inizio non è che il suo lavoro sia stato granché faticoso. Ogni paio d’ore, al massimo, un detenuto che magari era rimasto lì a leggere per eternità, si avvicinava alla sua scrivania e gli sventolava il libro davanti, e Bill non doveva fare altro che inserire nel programma il codice del libro e il numero di riconoscimento del detenuto, e il suo lavoro era finito. È stato piacevole perché le sue ossa avevano ancora bisogno di riprendersi da una recente scarica di legnate, e poter stare sostanzialmente seduto a rigirarsi i pollici per una mattinata intera era stato riposante, perfino soddisfacente, allo stesso modo in cui era soddisfacente ritornare da scuola il venerdì pomeriggio e gettarsi a pancia in su sul proprio letto a fissare il soffitto per ore, come faceva spesso a quattordici anni.
Anche il secondo giorno è passato senza particolari traumi. L’unica cosa un po’ strana che è successa è stata quando, ad un certo punto del pomeriggio, dopo aver sghignazzato seduti ad un tavolo senza mai avere aperto un libro da quando erano entrati in biblioteca, tre detenuti gli hanno chiesto di trovare per loro un volume che non riuscivano ad individuare. Bill si è fatto dare il titolo ed ha scoperto che il libro si trovava in uno scaffale parecchio in alto. L’ha indicato ai detenuti sghignazzanti, chiedendosi cosa diavolo avessero da ridere e stabilendo in ultimo che non gli interessava minimamente, e poi ha detto loro di usare pure la scala per recuperarlo. A quel punto, uno di loro gli ha risposto che i detenuti comuni non hanno il permesso di utilizzare la scala per prendere i libri. È uno specifico compito del detenuto al quale è stata affidata la gestione della biblioteca, ha detto.
Bill li ha guardati tutti e tre aggrottando le sopracciglia.
- Ma che stronzata è? – ha chiesto. I detenuti hanno scrollato le spalle, e lui si è detto che, in fondo, si trattava di una regola abbastanza idiota da poter essere perfino vera, e sospirando pesantemente ha recuperato la scala da sé, spostandola in corrispondenza dello scaffale giusto per poi arrampicarsi verso l’alto, un piolo dopo l’altro, sentendo tutte le ossa scricchiolare sinistramente ad ogni passo.
È stato allora che i tre detenuti hanno ripreso a sghignazzare. E prima ancora che Bill potesse darsi del cretino e saltare giù dalla scala, quelli l’hanno afferrata per i due lati e hanno cominciato a scuoterla violentemente a destra e a sinistra.
Bill ha lanciato un gridolino terrorizzato, aggrappandosi all’ultimo piolo in alto e stringendolo forte fra le braccia nel tentativo di ancorarsi a sufficienza per non cadere rovinosamente per terra, mentre il suo corpo ondeggiava senza posa seguendo il movimento della scala, e quegli stronzi continuavano a ridere, senza fermarsi un secondo, e poi all’improvviso è finito tutto, senza che lui capisse come né perché. Un attimo prima il mondo oscillava pericolosamente da un lato all’altro, e l’attimo dopo invece era fermo.
- Che cazzo…? – ha sillabato, ancora terrorizzato, voltandosi a guardare i tre detenuti ed osservandoli arretrare un passo dopo l’altro mentre cercava di recuperare l’equilibrio sulla scala.
- S-Scusa… - ha detto uno dei tre, afferrando gli altri due per le maniche delle rispettive magliette per trascinarli indietro più in fretta, - Non volevamo…
- Non volevate cosa?! – ha strillato a quel punto lui, sconvolto, voltandosi per scendere dalla scala in due grandi passi, - Ma sparite, coglioni! Sparite!
I tre non se lo sono fatto ripetere due volte, e quello, bene o male, è stato l’unico episodio emozionante della giornata. Bill si è naturalmente ritrovato a chiedersi cosa sia stato a metterli in fuga in quel modo, perché – e di questo è abbastanza sicuro – di certo non è stato il suo stupido culo ondeggiante per aria in completa balia del loro ridicolo bullismo da adolescenti mai cresciuti. E d’altronde gli è capitato anche di chiedersi cosa ci facessero Chakuza e Baba Saad in un angolo della biblioteca, apparentemente intenti a rigirarsi i pollici, e da quanto tempo fossero lì in osservazione, visto che lui, prima di quel momento, non li aveva notati affatto.
Ma è stato solo un pensiero di fugace curiosità, ed è passato subito. Questo perché sostanzialmente non gli importa un accidenti di quello che succede in questa dannata prigione. Attorno a lui o a causa sua o per qualunque altra ragione. È tutto così incredibilmente stupido che lui semplicemente rifiuta di averci qualcosa a che fare.
Adesso, però, la domanda torna a farsi insistentemente avanti nel momento in cui, dopo una giornata intera a rigirarsi i pollici, accade qualcosa di perfino più strano. I due detenuti che l’hanno abbordato in mensa ormai quasi due settimane fa, e che poi l’hanno ridotto uno straccio quando lui si è rifiutato di scoparseli, entrano in biblioteca una decina di minuti prima dell’orario in cui usualmente l’agente di custodia passa a prenderlo e chiude la porta a chiave per la notte, prima di ricondurlo alla propria cella.
L‘ultimo ad entrare, il più grosso, si chiude la porta alle spalle. A parte loro due e Bill, la biblioteca è completamente vuota, e nell’accorgersene lui immediatamente aggrotta le sopracciglia, alzandosi in piedi ed affrontandoli a muso duro.
- Non è aria. – dice il più scontrosamente possibile. I due si lanciano un’occhiata divertita, e poi quello più basso si avvicina di un altro passo, mentre il suo compare afferra una sedia e la incastra fra il pavimento e la maniglia della porta, per bloccarla.
- Indovina a chi non frega un accidente di che aria tira? – dice il tipo più basso, ormai così vicino che Bill può percepire distintamente il puzzo nauseante del suo sudore. – Adesso fai il bravo e tirati giù i pantaloni, culetto d’oro. Mostraci per cosa pagavano i tuoi clienti quando stavi fuori. – conclude, avvicinandosi ancora, le mani protese verso di lui.
Bill scatta indietro, soffiando come un gatto.
- Non vi avvicinate. – ringhia. La maniglia della porta si muove, ma naturalmente chiunque si trovi al di là non riesce ad aprirla, - La guardia sarà qui a minuti.
- No, credo di no. – ridacchia il suo compare, il quale, Bill scopre quando si avvicina a propria volta, puzza anche più di lui, - Indovina chi ha messo da parte qualche risparmio per chiedere all’agente un gentile favore…?
Bill digrigna i denti, nauseato.
- Cos’è, un quiz a premi? – commenta, sbirciando la porta e notando che la maniglia continua a muoversi. Se la guardia è stata pagata, allora chi è che sta cercando di aprirla? Forse, se riesce ad essere abbastanza veloce da aggirare questi due stronzi e lanciarsi sulla sedia per toglierla di mezzo… prova a calcolare le proprie possibilità, ma scopre ben presto di aver fatto la scelta sbagliata. I due gli sono addosso molto prima che lui riesca a concludere i propri calcoli, e nel momento in cui sente le loro luride mani addosso Bill non può far altro che urlare.
La maniglia smette di girare convulsamente, e a Bill salta il cuore in gola. Magari un detenuto stava provando ad entrare ma, quando ha sentito il suo urlo, ha saggiamente deciso di evitare di farsi coinvolgere in qualche rissa o qualcosa di peggio. È stato stupido, è stato stupido a non scappare immediatamente quando questi due stronzi si sono intrufolati in biblioteca, è stato uno stupido a perdere tutto quel tempo invece di lanciarsi sulla sedia appena pensata la mossa, è stato stupido a urlare perché forse, se fosse rimasto in silenzio, chiunque stesse cercando di aprire la porta avrebbe continuato a provarci finché non ci fosse riuscito, e tutto quello che gli succederà da questo momento in poi è solo colpa sua e della sua stupidità. In qualche modo, lo merita perfino. Il suo corpo, intento a dibattersi fra le mani dei due detenuti, non la pensa allo stesso modo, ma è così.
In ogni caso, non importa: passano al massimo dieci secondi, e poi la porta viene letteralmente scardinata, e un uomo alto e pallido coi capelli cortissimi e gli occhi di un azzurro incredibilmente intenso fa irruzione all’interno della biblioteca, interrompendo i due detenuti nel momento in cui il più basso infilava una mano giù per i pantaloni di Bill mentre il più grosso lo teneva fermo.
- Oh. – dice il tipo, che Bill riconosce come quello che Eko Fresh gli ha indicato come Fler giorni prima, - Allora ho fatto bene a insistere. Mi serve un libro. È una faccenda di una certa importanza. – spiega, e proseguendo nel proprio discorso guarda più i due detenuti che Bill. – Il mio capo non sarà contento, se non torno con buone notizie. – conclude.
I due detenuti lo mollano con una serie di ringhi frustrati, e Bill deve aggrapparsi ad uno dei tavoli da lettura per non cadere per terra.
- Ho già spento il terminale. – balbetta, indicando il computer che giace immobile e silenzioso sulla scrivania, - Non posso registrare altri prestiti se non lo riavvio, e non c’è tempo. La guardia dovrebbe… - balbetta. Fler fa un gesto vago con la mano.
- Non verrà nessuna guardia a prenderti oggi. – borbotta, - Il libro non era urgente, comunque. Sta’ attento, quando torni al braccio. – conclude, voltandogli le spalle e attraversando la porta, o meglio, il passaggio al posto del quale prima c’era una porta che giace adesso per terra, quasi spaccata in due, con una crepa visibilissima che la taglia in due parti quasi uguali da sopra a sotto, e lasciandolo lì senza una parola di più.

*

Bill odia le cucine e la sala mensa.
Odia dover fare la fila con in mano il vassoio e doversi guardare alle spalle perché c'è sempre qualcuno che allunga le mani. Odia dover aprire bocca per chiedere quello che gli va o non gli va di mangiare. Odia dover fare il percorso a ritroso verso uno dei tavoli vuoti che sono sempre in fondo e rischiare che qualcuno gli faccia lo sgambetto o si avvicini con una scusa qualsiasi per sputargli nella minestra.
E' già successo, quando non lo hanno proprio sbattuto contro un muro e palpato fino all'arrivo sempre tardivo e rilassato delle guardie di sicurezza, naturalmente.
Preferiva quando poteva mangiare in cella, ma Jost si è degnato a venire di persona ad avvisarlo che il suo permesso speciale era stato revocato non appena è stato in grado di restare in piedi per più di dieci minuti senza stampelle. Grazie Jost, sempre il solito stronzo. E' qua da nemmeno un mese e ha già capito che la prigione è piena di teste di cazzo, gli altri detenuti sono degli animali ma tra guardie e direttore non è che la gente libera sia tanto meglio.
Si siede nell'angolo più lontano della sala, vicino al palco che per chissà quale cazzo di ragione è stato costruito proprio qui. Bushido gli ha detto che una volta ci facevano gli spettacoli, quelli di beneficenza, organizzati da qualche attore impegnato nel sociale ansioso di aiutare la comunità, ma poi c'è stata una rissa e Jost non ne ha più voluto sapere. Com'è nella sua politica, tutto quello che non può controllare viene eliminato. Pare che questo braccio non veda visite coniugali da due anni e mezzo, per dire, una roba che ha fatto impazzire un sacco di gente. E poi quello si stupisce che i suoi detenuti cerchino di infilarlo nel primo culo che vedono.
Bill infila la forchetta in quello che dovrebbe essere purè ma è solo un intruglio giallognolo della consistenza del cemento. Gli viene da vomitare solamente all'idea di mangiarlo, ma ha già sperimentato più volte che, nonostante stia praticamente seduto tutto il giorno, non sopravvive alla giornata se non mangia a sufficienza. Sarà che sta sempre teso come una corda di violino e così consuma più calorie di quando era fuori e passava il tempo scopando.
A furia di fare passi falsi e di rischiare la vita o lo stupro ad ogni sospiro, Bill ha imparato anche un'altra cosa, ossia a prendere coscienza della situazione che versa in ogni luogo in cui mette piede prima di decidere se è il caso di rimanervi. In realtà questo è un insegnamento che Bushido gli ha ficcato a forza nel cervello, ripetendolo fino alla nausea ogni volta che ha parlato nelle ultime settimane. Bill ha sempre finto di fregarsene, ma non può negare che fra le mille stronzate che quell'uomo si fa uscire di bocca ogni giorno credendo di avere una qualche importanza per lui, questa è una delle più sensate.
Al momento in sala ci sono tre guardie. Dovrebbero essere quattro, tanto per cominciare, e le uniche tre presenti non sono granché attente; questo potrebbe voler dire guai, se qualcuno ha qualcosa in mente, ma potrebbe anche voler dire che quelli non hanno voglia di lavorare.
Gli uomini di Sido siedono tutti insieme da una parte, ma ce ne sono alcuni sparsi per la stanza, come per non lasciare certe zone sotto il controllo totale degli uomini di Bushido. D'altronde anche quelli fanno la stessa cosa. Bill può più o meno inquadrare questa stanza come fosse il tabellone del Risiko con il quale lui e suo fratello passavano interi pomeriggi prima che la sua famiglia cadesse a pezzi.
A lui questo schieramento da battaglia sembra una gran cazzata, non capisce per quale motivo questa gente senta il bisogno di farsi la guerra. Per ottenere che cosa? Sempre in gabbia si dorme, alla fine.
Ha ingurgitato controvoglia primo e secondo e sta per attaccare una pallida imitazione di torta alla ricotta, quando l'ombra tozza di uno dei bestioni di Sido si allunga sul suo vassoio.
“Ehi, fiorellino,” grugnisce, per poi ridere divertito del modo esilarante con cui ha rotto il ghiaccio mentre si sedeva sul tavolo.
Bill cerca di ignorarlo, anche se come tattica non si è rivelata poi così utile in passato. Quando questi scimmioni ritardati non si sentono abbastanza considerati – il che significa, se non vedono che ti pieghi autonomamente a novanta per compiacerli – reagiscono in malo modo. “Che fai, fiorellino?” Dice di nuovo, invadendo il suo spazio e condividendo con lui l'alito pestilenziale. “Non mi guardi nemmeno? Sei timido?”
Bill sospira infastidito, la testa bassa e lo sguardo fisso sulla sua forchetta. Si sposta qualche posto più avanti con tutto il vassoio sperando che il tipo abbia altro di meglio da fare, ma ovviamente non è così. Anzi, quello lo segue sempre più divertito, scoppiando in una risata roca e catarrosa quando Bill raggiunge la fine del tavolo, dove si accorge che è seduto un altro degli uomini di Sido, pronto a ghignare sdentato nella sua direzione. “Vai da qualche parte, culetto d'oro? Non ti piace la compagnia?”
Bill sospira di nuovo, d'altronde era strano che nessuno lo avesse ancora importunato; è lì seduto da più di venti minuti. A pensarci bene non gli capita di essere inchiodato al muro da giorni e perfino nelle docce, alle quali deve avvicinarsi con estrema attenzione, nessuno si è più avvicinato.
“Senti bene, principessa,” sputa fuori il primo dei due uomini quando finalmente si accorge che non ha nessuna intenzione di rispondergli, “finora mi pare di essere stato gentile, ma la mia pazienza ha un limite.”
“Non ti conviene farlo incazzare, sai bellezza?” Gli fa eco quell'altro. “Potrebbe non essere piacevole.”
Bill fa in tempo ad alzare la testa per dirgli che in nessun modo uno dei due potrà mai essere piacevole visto il tanfo di morto che esalano, che Eko si siede di fronte a lui, mangiando placidamente un biscotto a piccoli morsi, proprio come il criceto a cui assomiglia.
“Sai, ragazzino, ci ho messo una vita a trovarti,” esordisce come se quei due non fossero nemmeno lì. “Sei sempre in un posto diverso. Non è che ho tempo che mi avanza per giocare a nascondino, sai?”
“Eko...?”
“Sì, sono io. Vedo che fai progressi.” Lui continua a smangiucchiare il suo biscotto e sputa le gocce di cioccolato in un angolo del vassoio per poi guardarle con malcelato disgusto. “Ti piace la cioccolata? Io odio la cioccolata. E' perché una volta, da piccolo, sono stato morso.”
I due uomini di Sido scendono immediatamente dal tavolo e ringhiano tra i denti qualcosa che Bill fatica a capire, ma è chiaro che non è stata la sola – e per altro modesta – presenza di Eko a farli desistere, ma quello che Eko in sé, con le sue quattro ossa scombinate, rappresenta.
Eko gli lancia un'occhiata apparentemente disinteressata, ma segue i due con la coda dell'occhio finché non sono spariti, andandosi a rintanare in mezzo ai loro comparsi.
“Non mi piace nemmeno l'uva passa,” continua allora Eko, come Bill si fosse dimostrato interessato in qualche modo all'argomento. “Come sapore non è neanche male, è solo che è facile scambiarla per cioccolata. Tu sei lì che mangi il tuo bel biscotto e lei se ne sta lì, tonda e scura, proprio come fa la cioccolata. E io non li sopporto quelli che si travestono e fanno finta di essere qualcun altro.”
Bill lancia un'occhiata intorno a sé: Chakuza, Fler e Saad fingono tutti di fare altro mentre lo tengono sotto controllo da punti diversi della stanza. Bushido naturalmente non c'è, ma Bill sa perfettamente che nessuno dei suoi uomini si muove senza che lui lo sappia.
Scatta in piedi e si dirige a passo spedito verso le celle. La guardia all'entrata non si spreca nemmeno a guardarlo abbastanza a lungo da capire di chi si tratti.
Eko non lo segue, chiede soltanto con estremo e calcolato ritardo: “Quello lo mangi?” Indicando la torta di ricotta, prima di appropriarsene.
Bill entra in cella come una furia, dando uno spintone a Bushido che se ne sta di fronte al lavandino, intento a lavarsi la faccia.
“Esattamente, quale parte di non mi serve il tuo aiuto non hai capito?” Sbraita, mentre Bushido fa un passo indietro senza scomporsi e recupera il proprio asciugamano.
Finisce anche di asciugarsi e rimettersi la maglietta prima di dedicargli il minimo sindacale della sua attenzione mentre ispeziona con cura il proprio riflesso. “Sentiamo, di quale assurda fantasia stai blaterando questa volta?”
“Prima quell'armadio a due ante che fa irruzione nella biblioteca spaccando in due la porta, poi il nano pelato in lavanderia e oggi quello schizzato, Eko, che mi si piazza davanti in mensa a parlarmi di quanto odia la cioccolata. Seriamente, sei tu che ti circondi di casi umani e malati mentali per sentirti normale o sono loro che vedono in te qualcosa di familiare e ti si avvicinano?”
Bushido si volta a guardarlo con estrema lentezza e quando i suoi occhi si fissano in quelli di Bill sono infastiditi. “Ekram non è affatto un malato mentale,” commenta con calma “e sta con me perché è un tipo a posto, ma sono certo che sia io che lui sopravvivremo anche se la pensi diversamente. Il tuo giudizio, d'altra parte, non ci tocca minimamente. C'è altro? Dovrei andare.”
Bill fa una smorfia oltraggiata. “Hai sentito quello che ti ho detto o sei anche sordo oltre che stronzo?”
Bushido, che lo ha appena superato per raggiungere l'entrata della cella, si ferma e inspira contando ben oltre il dieci per mantenere la calma. “Dovresti essere riconoscente,” gli fa notare. “Se puoi ancora camminare sulle tue gambe, non è certo per merito tuo.”
“Riconoscente? Non posso andare nemmeno al cesso senza che uno dei tuoi mi segua!”
“E' per la tua sicurezza,” ripete Bushido, la voce tesa dal nervosismo e dalla voglia, ormai fuori controllo, di prendere quel ragazzino insopportabile e scuoterlo finché non gli ha mescolato tutte quante le ossa.
“Nessuno ti ha mai chiesto di proteggermi!”
Bushido è un tipo paziente. Non è mai stato una di quelle teste calde che scattano alla prima offesa. E' uno che se l'è anche presa per niente, questo è vero, ma quando lo fai incazzare, prima di frantumarti la faccia ci pensa due volte perché così gli vengono in mente il doppio dei modi per farti fuori.
Questo ragazzino, però, petulante, lagnosa, potenzialmente pericolosa spina che Jost ha fatto in modo di ficcargli ben a fondo nel fianco, ha già sfidato la sua pazienza più di certi omicidi eseguiti per farlo uscire di testa. Per questo finisce per girarsi ed attaccarlo al muro. “Sentimi bene, ragazzino,” gli sputa addosso, premendogli forte la mano contro la giugulare perché, per una volta, cazzo, stia zitto. “Senza me che ti paro il culo, tu qua dentro non campi una settimana, il che per me non sarebbe un problema in generale, perché a me di te non me ne frega un cazzo. Il fatto è che io sto per uscire con la condizionale, ma Jost ti ha affidato a me. Il che significa che se tu muori, se ti violentano, se ti feriscono, qualunque cosa ti succeda mentre sei sotto la mia protezione, io mi fotto la condizionale.”
Bushido preme la mano contro il suo collo ancora una volta e poi allenta la presa, senza però lasciarlo andare. Il ragazzino boccheggia e tossisce, stringendogli forte le dita intorno al polso per cercare di sostenersi e non pendere floscio come uno straccio. “Quindi, come vedi,” continua Bushido, continuando a parlargli a due centimetri dalla faccia, “non è per te e per il tuo bel faccino che i miei uomini ti stanno addosso tutto il giorno. Il tuo culo è il mio foglio di via e non ho nessuna intenzione di perderlo solo perché tu credi di potertela cavare da solo. Sto proteggendo i miei interessi.”
Bushido resta a guardarlo in cagnesco ancora per qualche secondo, poi con un gesto stizzito lo lascia andare e Bill cade come un sacco vuoto a terra, tossendo forte e massaggiandosi il collo che è chiazzato di rosso là dove le dita di Bushido lo hanno stretto.
“A me non frega niente dei tuoi interessi,” dice roco, non appena ha recuperato fiato sufficiente per replicare. Bushido non si capacita di come questo ragazzino possa ancora aver voglia di fare lo stronzo quando palesemente ha appena rischiato di essere strangolato. E' controproducente perfino per lui, non ha nessun istinto di sopravvivenza e se lui – che deve tenerlo in vita per forza – ha già di nuovo voglia di ammazzarlo, quante probabilità ci sono che superi anche solo i primi sei mesi di permanenza?
“Fai un favore a te stesso e chiudi quella fogna,” replica.
“No,” Bill si rialza a fatica, aggrappandosi al muro e lo guarda furioso. “No, perché non sono io quello che ha bisogno di te. Io, in questa fogna, devo passarci sicuramente dodici anni. Ma tu? Tu hai bisogno che io faccia il bravo per uscire in anticipo. Non è così?”
Bushido si irrigidisce. I tratti del suo viso si fanno ancora più severi e tesi. Per un attimo lo guarda con tanto di quell'odio che se solo si lasciasse libero di seguire l'istinto probabilmente lo ammazzerebbe davvero. “Te lo dico per l'ultima volta, ragazzino. Chiudi quella cazzo di bocca, non hai la minima idea di quello che stai dicendo.”
In tutta risposta, Bill ride. E' un suono debole e ancora provato ma gli dà abbastanza forza da mettersi di nuovo dritto e guardarlo negli occhi. “Tu non puoi governarmi,” gli dice sprezzante. “Se io decidessi di dare il culo a tutta la fottuta prigione, se volessi sfondarmi di droga e scatenare risse per il solo gusto di vedere se sopravvivo, tu non potresti impedirmelo. Tu non potresti fare proprio un bel niente.”
Bushido ringhia e si fa avanti con tanta violenza da sbatterlo di nuovo contro il muro. Gli si preme addosso con tutto il corpo, sbuffandogli sul viso fiato caldo che sa di dentifricio e tabacco. “Col cazzo, ragazzino!” Sibila fra i denti. “Posso fermare chiunque cerchi di scoparti. Posso impedire alla gente di venderti la roba e posso terrorizzare a morte chiunque anche solo pensi di sollevare un dito su di te.” Mano a mano che elenca, riacquista la calma e la sua voce si fa più stabile e severa. “Tu qua dentro non vai nemmeno a pisciare se io decido che non puoi farlo. Io ho il controllo sulla tua vita, accettalo.”
Lo lascia andare con la certezza che Bill non replicherà.
Infatti, una volta libero, si limita a lanciargli un'occhiata infuocata, sbuffando inviperito, prima di sbattere violentemente le mani contro le sbarre della cella in segno di stizza e andarsene.

*

Sono le quattro e mezzo del pomeriggio e Fler è appena rientrato dalla palestra dove avrebbe voluto scaricare lo stress sollevando i pesi, come fa di solito, ma qualche stronzo si annoiava e ha scatenato la rissa. Bushido ha una politica molto severa riguardo alle risse, che consiste principalmente nel non scatenarle, non finirci in mezzo se non è necessario ed evitare di fermarle quando sono gli altri a cominciarle e tu non c'entri niente.
Così ha preso il suo asciugamano ed è tornato in cella con l'idea di fare qualche flessione mentre le guardie tentavano di impedire che quelli di Sido ammazzassero un povero Cristo la cui unica colpa, a quanto pare, è quella di essere arabo senza far parte del giro di Bushido.
Da quello che ha visto, Hassan o come diavolo si chiama, non ha molte speranze. Il pezzo di vetro acuminato gli ha perforato lo stomaco un po' troppo a sinistra per non aver preso il fegato.
Non che Fler sia un medico, ma dopo tre o quattro dei suoi compagni finiti in infermeria più o meno allo stesso modo, ci ha fatto l'occhio. Solo sei mesi fa, prima che Jost chiamasse Sido e Bushido nel suo ufficio per organizzare la tregua – che poi non è che l'abbiano fatta sul serio – Eko ha rischiato parecchio.
Un infame lo ha colpito alle spalle. Tre coltellate ben assestate su un fianco ed Eko si è accasciato a terra come una marionetta. C'era tanto di quel sangue che sembrava avessero sgozzato un vitello o roba simile. E' stato in coma una settimana. Fler era dieci metri più avanti a pulire una pentola quando è successo. Quando l'ha visto a terra era convinto che non si sarebbe più rialzato perché la ferita era davvero brutta e invece dopo sei giorni il turco apre gli occhi e chiede della gomma da masticare, così dal nulla. Un pazzo.
Mentre è lì che fa flessioni e pensa agli affari suoi, un'ombra si allunga sul pavimento proprio davanti a lui, così alza gli occhi e si trova davanti il ragazzino, appoggiato con noncuranza all'entrata della cella, così magro che sembra una sbarra anche lui.
“Bill,” mormora un po' spaesato mentre si alza da terra con un saltello.
“Bei muscoli,” commenta lui, con un sorriso che Fler non è ben sicuro di sapere interpretare. O meglio, lo saprebbe se non ci fossero tutta una serie di circostanze ad urlargli nelle orecchie che si sta sbagliando e, semplicemente, non capisce i ragazzi. “Devi allenarti parecchio.”
“Cosa ci fai qui? E' successo qualcosa?” Fler tossicchia e recupera l'asciugamano appeso al letto per asciugarsi la faccia.
Bill resta attaccato alle sbarre ma scivola comunque all'interno, con un movimento lento e calcolato finché non può aggrapparsi alla gamba del letto a castello per accarezzarla con fare allusivo. “Non posso venirti a trovare, adesso? ”
“No, no.” Fler ride. “Assolutamente. E' che di solito te ne stai sulle tue.”
“Sono solo timido,” risponde, guardandolo in modi che di timido non hanno assolutamente niente. “Ci metto del tempo a trovarmi davvero a mio agio.”
La risata che scappa di bocca a Fler è così squillante che lui si sente in colpa e mette le mani avanti. “Scusami, ma visto che fuori battevi...” si giustifica, senza per altro alcun tatto.
Bill non si scompone, il suo sorriso si tende e diventa più furbo. “Quello è solo lavoro,” commenta mentre si stringe nelle spalle e gli si avvicina, facendo strisciare un dito lungo il materasso. “Non è la stessa cosa.”
“Capisco,” commenta Fler. Fa un passo indietro e si guarda intorno, cercando qualcosa da fare, giusto per non dover stare lì immobile a guardare il ragazzino, visto che si muove in modi che scatenano in lui reazioni pericolose. “E adesso che ti senti a tuo agio, posso fare qualcosa per te?”
“In effetti sì,” risponde il ragazzino. “Mi hanno detto che potresti rifornirmi in caso... avessi bisogno.”
Fler comincia a scuotere la testa ancora prima di aprire bocca. “No, no, no, ragazzino,” sorride. “Niente droga da queste parti.”
“Non ne vendi?” Chiede Bill, ironico. Lo sanno tutti che a far girare la droga per Bushido ci pensa Fler, è un'informazione di dominio pubblico. Cultura Generale Carceraria, se perfino uno come lui lo sa.
“Di sicuro non a te,” specifica Fler che ora ridacchia quasi divertito. Appende l'asciugamano al suo gancio vicino al lavello e si schiaffeggia un paio di volte davanti allo specchio con un gesto molto simile a quello che Bill ha visto fare a Bushido nemmeno due ore prima.
“Guarda che posso pagarti,” lo rassicura.
Fler lo guarda attraverso il riflesso. “A parte che non credo tu abbia abbastanza soldi per farlo visto che non hai avuto modo di recuperarne da che sei qui dentro,” premette. “Non posso proprio. Ordini dall'alto.”
Per un attimo la maschera sul viso di Bill si frantuma, lasciando solo una smorfia infastidita.
Quel coglione di un tunisino ha proprio deciso di rendergli la vita un inferno, vero? Quello che più lo fa infuriare è che Fler sappia esattamente in che situazione si trova, che nessuno è venuto ancora a fargli visita e che perciò non ha un euro. Di tirare su due spiccioli succhiandolo in giro non c'è verso, chi non ha paura di quello che ha fatto alla guardia, ha paura degli uomini di Bushido che lo seguono come un'ombra; ma non hanno ancora fatto i conti con la sua testardaggine e il fatto che campa da solo per la strada da un sacco di tempo e non ha affatto bisogno di nessuno di loro.
Recupera il proprio sorriso smagliante e attraversa la cella, appoggiandosi al muro, appena accanto al lavello. I suoi fianchi distano solo qualche centimetro dalla mano di Fler che lancia loro uno sguardo con la coda dell'occhio e sposta impercettibilmente le dita più lontano. “E tu esegui gli ordini come un cagnolino?” Chiede Bill. “Lui comanda e tu stai a cuccia?”
Fler sospira. “Senti, va così, d'accordo?” Si stringe nelle spalle. “Devi stare pulito e rigare dritto. Sono le regole.”
“Le regole di chi?” Mormora Bill, spingendo in avanti il mento, le labbra appena dischiuse. “Uno come te non dovrebbe stare alle regole. Dovrebbe farle.”
Fler lo guarda intensamente per qualche istante, forse curioso o forse turbato, Bill non saprebbe dirlo, quale che sia, comunque, gioca a suo favore perché perde il sorriso e si fa teso. Non sembra più tanto convinto.
“Andiamo,” dice severamente, indicando l'entrata della cella con un cenno del capo. “Fuori di qui. Ti riporto nella tua cella.”
“E se invece trovassimo un accordo?” Chiede Bill, appoggiando la testa al muro dietro di lui e facendo ondeggiare il bacino, in quel modo un po' vezzoso che Fler ha visto usare solo alle ragazze e a certi uomini su cui non metterebbe mai le mani però. Bill è diverso, non fa parte esattamente di nessuna delle due categorie e questo gli sta fottendo il cervello in un modo che non gli piace per niente. “Quale accordo?”
Fler è così facile che Bill prova quasi della tenerezza.
Si stacca dal muro e gli si avvicina, ma non abbastanza perché lui senta il bisogno di indietreggiare, così quando ormai è a tanto così dal respirargli in faccia, Fler non ha più il tempo di muoversi e nemmeno vuole farlo. “Diciamo che tu mi dai quello che voglio,” dice Bill a bassa voce. Si allunga ad accarezzargli un braccio dal gomito al polso, intorno al quale poi stringe la mano chiusa a pugno. “ E io ti do quello che vuoi tu.”
Fler deglutisce e si schiarisce la gola, cerca se non altro di darsi un contegno mentre il suo corpo reagisce contro la propria volontà. Guarda altrove, cercando i motivi per cui dovrebbe continuare a rifiutare. Bushido gli ha salvato la vita più volte di quante riesca a ricordarne e di sicuro se vive bene in quel posto di merda è solo perché c'è il nome di Bushido a proteggerlo. Questo da solo dovrebbe essere sufficiente a fargli tenere le mani a posto, ma se gli serve qualche altra motivazione: Bushido è anche un amico e gli ha chiesto un favore – okay, glielo ha ordinato, ma Bushido è un po' quel tipo di amico che ti ordina le cose e tu le fai perché sai perfettamente che poi lui ricambierà il favore senza che tu nemmeno glielo abbia chiesto e quando più ne hai bisogno – e tu non dici di no ad un amico che ti chiede un favore.
“Non lo verrà a sapere nessuno,” continua Bill, facendosi così vicino che ormai gli sta spalmato addosso. Fler sente il calore del suo corpo attraverso la canotta leggera che indossa e le mani si muovono da sole per posarsi sui fianchi magri di Bill, che gli ridacchia in un orecchio. “Ti prometto che terrò la bocca chiusa,” mormora ancora, sollevandogli addosso uno sguardo da gatta in calore che ne basterebbe la metà perché lui gli saltasse addosso. “A meno che tu non voglia diversamente, ovvio.”
Fler sente le proprie restrizioni venire meno una ad una, come elastici troppo tirati che alla fine si spezzano. Si fotta Bushido, si fotta la prigione, si fotta il divieto di non toccarlo e non passargli niente; il ragazzino ha ragione, lui non è un balia. E gli ordini vanno bene, fintanto che hanno a che fare con loro, ma questo ragazzino chi cazzo è? Se ha tanta voglia di darlo via in giro e di farsi, non è un problema di Bushido. O magari lo è, ma di sicuro non è un problema di Fler.
Chakuza s'incazzerebbe come una bestia e gliela farebbe pagare cara se solo lo venisse a sapere, ma non sarà di certo lui a dirglielo e in questo momento, con lo stomaco che gli fa i salti di gioia al pensiero di poter infilare l'uccello da qualche parte, per una volta, invece di farselo sempre e solo menare – quando non deve fare da solo poi – , non ci pensa nemmeno che Bill potrebbe anche non mantenere la parola.
Così alla fine se ne frega, ringhia qualcosa e trascina Bill in un angolo della stanza, dietro al letto dove sarà più difficile notarli e soprattutto interromperli. Gli dà un bacio affamato e frettoloso, le sue labbra premono solo per un attimo contro le sue, nemmeno troppo convinte, come se fosse un convenevole da togliersi dai piedi il più in fretta possibile. Bill quasi trova interessante come Fler senta il bisogno di baciarlo prima di infilargli le mani nelle mutande. A quanto pare c'è della dolcezza sotto la scorza dell'uomo indurito dalla galera, pensa dando fondo ha tutta la malignità ironica di cui, fortunatamente, la natura lo ha provvisto.
Fler gli lecca le labbra, prima di spostarsi più in basso, sul suo collo, e lasciarvi una traccia umida di piccoli morsi confusi. Bill emette una risatina allegra – è trionfale, ma Fler nemmeno lo nota – mentre viene girato con poca grazia e appoggiato al muro. Apre bene i palmi delle mani contro la parete; lo ha già fatto così tante volte che il gesto di sistemarsi per mantenere l'equilibrio gli viene quasi automatico.
“Ehi, ragazzone,” dice mentre Fler, alle sue spalle, gli tira giù in fretta e furia i pantaloni, “Non dimentichi niente ?”
“Hmn?” Mugugna Fler, tenendogli una mano in mezzo alle scapole come avesse paura di vederselo scappare via di sotto gli occhi e armeggia con i propri pantaloni, imprecando perché, evidentemente, collaborano molto meno di quelli di Bill.
Il ragazzino, dal canto suo, manda indietro una mano, il palmo aperto e le dita che si chiudono e si aprono in un gesto molto chiaro. “Si paga in anticipo.”
Fler annuisce e si fruga nelle tasche dei pantaloni prima di lasciarli cadere a terra definitivamente.
Gli consegna la roba che lui si affretta ad infilarsi su per il naso, un po' perché ne sente improvvisamente il bisogno come non ne sentiva da giorni, e un po' perché sinceramente vuole già essere strafatto quando Fler gli entrerà dentro per iniziare a grugnire come un animale.
Ci mette più del previsto, in effetti. Quando lo sente farsi strada dentro di sé, Bill inarca la schiena e preme bene le mani contro la parete della cella che sembra improvvisamente un po' più sfocata e fa tanto ridere.
In ogni caso non ha molta importanza, perché lui non sa già più nemmeno dov'è.

*

Quando Bill torna in cella, si regge a stento sulle gambe. Ha un sorriso idiota sulla faccia che non promette niente di buono, e Bushido se ne accorge subito, perché li conosce, quei sorrisi lì. Li vede ogni giorno, stampati sulle facce instupidite dalla roba di tutti quei coglioni che non capiscono che quando sei chiuso in prigione – quando cioè sei confinato in un posto in cui altri decidono per te, stabilendo cosa devi fare, dove, quando e in che modo – l’unica possibilità che hai di mantenere un certo controllo sulla tua persona è evitare di fotterti la testa con la droga. Tanti la usano come una via di fuga, l’unico modo per evadere da una realtà di catene e sbarre di ferro, ma la verità è che la droga è l’esatto opposto. Cominciare a drogarsi quando si sta in galera significa rinchiudersi di propria spontanea iniziativa all’interno di una gabbia ancora più stretta di quella all’interno della quale ci si trova già, con possibilità di decidere per te stesso ancora più limitate rispetto a quelle che ti vengono concesse, che sono già fin troppo poche.
Drogarsi non è un problema perché fa male, drogarsi è un problema semplicemente perché è una cosa da idioti. E ti porta a fare cose idiote. E Bushido, in questo momento, non può permettere a Bill di fare cose idiote, non quando da ciò che fa può dipendere tanto di ciò che invece farà lui nel suo futuro.
- Ti vedo bene. – comincia, scendendo giù dal letto con un saltello e parandoglisi di fronte. Bill ride e scuote il capo.
- No, dai, oggi lasciami in pace, non mi va proprio di starti a sentire. – lo liquida, avvicinandosi al proprio letto con passo barcollante e lasciandovisi ricadere sopra con un sospiro soddisfatto e una mezza risatina. – Ah, sono tutto indolenzito. – commenta in un cinguettio compiaciuto, - Era un po’ che non mi divertivo così.
Bushido gli lancia un’occhiata disgustata, avvicinandoglisi e torreggiando sopra di lui, restando in piedi accanto al suo letto.
- Immagino. – commenta, - E immagino anche che ti sentirai un cazzo fiero di te stesso quando ti sarà passato lo sballo.
- Sai quanto me ne frega di essere fiero di me stesso? – ride Bill, rigirandosi sullo stomaco e dondolando le gambe in aria, - Faccio la troia, andiamo, quanta stima di me stesso pensi che abbia? E a cosa cazzo pensi che mi servirebbe averne? – ride ancora, ondeggiando con il capo a destra e a sinistra in un movimento fluido e delicato, come seguisse il ritmo ipnotico di una qualche canzone che solo lui può sentire. – Piuttosto, tu… - continua poi in un risolino ironico, voltandosi ancora sulla schiena e stiracchiandosi pigramente, - mi sa che faresti meglio a rivedere tutta l’alta considerazione che hai di te stesso, perché… ricordi tutte le tue belle parole sull’onnipotenza e tutta l’altra merda che hai in testa e con la quale ti sei convinto di essere chissà che cazzo di re dei re qua dentro? Be’, non vale una sega. – ride un’altra volta, dondolando ancora i piedi in aria.
Bushido inarca un sopracciglio, per nulla impressionato da quel suo continuo dimenarsi sul letto come un ragazzino di quattro anni.
- Cosa intendi? – domanda, una mano su un fianco e le sopracciglia aggrottate. Bill si lascia andare ad un altro risolino, e si sistema il cuscino sotto la testa, cercando di gonfiarlo per renderlo più comodo.
- Sono stato bravo, sai? – pigola, - Non sono andato da Sido a farmi dare la roba. Mh-hm. – scuote il capo, - Ho pensato che fosse più sicuro andare da qualcun altro. E poi… - ridacchia, - quando ho pensato alla faccia che avresti fatto sapendolo…! Cioè, non potevo rinunciare all’occasione.
Bushido trattiene il respiro per un paio di secondi, irrigidendo il braccio lungo il fianco mentre le dita della mano appoggiata sul fianco si contraggono impercettibilmente, tremando appena, dando a Bill una chiarissima idea di quanto sia arrabbiato, e di quanto stia cercando di tenere quella mano lì solo per non utilizzarla contro di lui.
- Cosa cazzo stai dicendo, ragazzino? – domanda Bushido, la voce bassa, cavernosa, pericolosa, e il sorriso di Bill si allarga.
- Sto dicendo che la droga me l’ha data uno dei tuoi ragazzi. – chiarifica una volta per tutte, stringendosi nelle spalle, - Evidentemente non ti sono tanto fedeli come pensi, visto che mi è bastato dimenare un po’ i fianchi per convincere Fler.
Bill non ha neanche il tempo di capire cosa esattamente stia succedendo. Un attimo prima è ancora disteso sul proprio letto e sente il corpo così piacevolmente pesante e intorpidito da riflettere sulla possibilità di farsi un pisolino come si deve, una volta tanto, e l’attimo successivo è in piedi, sollevato a qualche centimetro da terra, le dita di Bushido strette attorno al colletto della sua maglietta con tanta forza da chiuderglielo attorno al collo come una tenaglia, impedendogli di respirare. Si dimena, afferrando il polso dell’uomo con entrambe le mani e cercando di spingerlo ad allontanare la mano e lasciarlo andare, ma le dita dell’uomo neanche accennano ad allentare la presa, e Bill, sentendosi soffocare, perde la propria lucidità, e comincia a tempestargli il braccio di pugni e graffi, mentre tende spasmodicamente le gambe, per cercare di arrivare a toccare il pavimento almeno con le punte dei piedi, senza riuscirci.
- Potrei spezzarti in due con una mano sola. – ringhia Bushido, stringendo la presa e costringendo Bill a un gemito convulso, mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime, - Sei talmente un’inutile testa di cazzo che nessuno piangerebbe la tua scomparsa. La tua unica fortuna è stata arrivare in un periodo in cui di teste di cazzo come te ne erano già crepate troppe, perché se così non fosse stato tu saresti già all’altro mondo, e Dio solo sa se non sarei più che felice di farti fuori io stesso, ma la verità è che non ne vali la pena neanche per un cazzo. – conclude, scaraventandolo nuovamente sul letto. Bill si porta una mano alla gola, ripiegandosi su se stesso, scosso dai colpi di tosse mentre cerca di riprendere a respirare, rantolando pietosamente. – La prossima volta che ti avvicini ad uno dei miei, ragazzino, posso assicurarti che le statistiche sulla mortalità dei nuovi detenuti saranno in fondo alla lista delle mie priorità. – dice gelido, guardandolo con disgusto, - Tienilo bene a mente.
Bill neanche gli solleva gli occhi addosso, ed anche se lo facesse, con la vista così offuscata non riuscirebbe neanche ad individuarlo. Lo sente andare via, però, ed è una sensazione incredibilmente fisica, come se ad abbandonare la cella non fosse solo un corpo, ma anche tutta la rabbia che conteneva.
Solo allora gli sembra di riuscire a ricominciare a respirare liberamente.

*

Fler era un ragazzino, quando Bushido l’ha conosciuto. Aveva quattordici anni ed era ridicolo in tutte le sue manifestazioni, specie in quella in cui si dava un sacco di arie da adulto senza poterselo minimamente permettere, con quegli occhi azzurri enormi e quelle guanciotte rosa, per non parlare dei capelli, che appena si azzardava a fare tanto di lasciarli crescere qualche centimetro cominciavano a diventare chiarissimi e ricci come quelli di un putto.
Al tribunale dei minori l’avevano spedito a ripulire i muri che aveva contribuito a imbrattare con le sue tag – che poi erano il motivo per cui, in quello stesso tribunale, ci era finito – e Bushido l’aveva conosciuto proprio durante uno dei suoi turni. Fler – allora era ancora solo Patrick – dipingeva di bianco un muro e ogni tanto ci sputava sopra, giusto perché fosse chiaro che non lo faceva per piacere, ma solo per obbligo, e che se fosse stato per lui l’avrebbe magari imbiancato lo stesso, si, ma solo per riprendere a scarabocchiarci sopra subito dopo.
A Bushido era piaciuto l’atteggiamento. Lo aveva trovato ridicolo, in generale, ma in realtà gli aveva ricordato molto di quel se stesso che, qualche anno prima, aveva affrontato le strade con la stessa stupida tracotanza, supponendo presuntuosamente di poterle comandare con uno schiocco di dita, prima ancora di conoscerle. Lui aveva imparato sulla propria pelle a non commettere più errori di valutazione come quello, ma al ragazzino poteva andare meglio. A lui poteva rendere le cose più facili.
Più di ogni altra cosa, gli erano piaciuti i suoi occhi. Lo sguardo ardente, colmo di passione. Per come la vedeva lui, l’unico modo di comandare la strada era amarla. Amarla con passione, non come un’amica, non come una sorella, proprio come un’amante, un’amante pericolosa, una di quelle dalle quali ti devi guardare le spalle, ma anche una di quelle dalle quali finisci sempre per ritornare, perché non puoi farne a meno, perché ti appartengono, perché tu appartieni a loro.
Fler aveva negli occhi il germoglio di quell’amore. Bushido aveva sempre pensato con un certo orgoglio di averlo aiutato a farlo sbocciare.
È per questo che adesso dover recidere il gambo fa male. Anche se Bushido sa che va fatto, perché un’insubordinazione del genere non può essere tollerata, non può essere perdonata, non può essere nemmeno punita e basta, perché per quanto esemplare possa essere la punizione il succo rimarrebbe lo stesso: Fler ha disobbedito ad un suo preciso ordine, e sotto nessuna circostanza Bushido può adesso permettergli di continuare a fare parte dei suoi uomini. Fler non può espiare. Fler è fuori e basta.
- Ma si può sapere che hai oggi? Sei un pezzo di legno. – sta dicendo Chakuza, con tono lamentoso, quando lui entra nella cella. Non ha molto tempo, fra poco le gabbie verranno chiuse e le luci spente per la notte. Vorrebbe potersi prendere il tempo che gli serve, non tanto per dire ciò che deve, quanto per accettare di doverlo fare, ma d’altronde non può dimenticare che è sempre in una prigione che si trova. Per quante siano le cose sulle quali può avere un’autorità, la propria libertà personale non rientra nell’elenco.
- Fler. – lo chiama con severità, per attirare la sua attenzione, - Patrick.
Nel sentire la sua voce, Fler si irrigidisce all’istante, e Chakuza fa lo stesso quando si accorge che l’ha chiamato per nome. Guarda prima Bushido e poi il proprio compagno con aria confusa, ma non si azzarda a spiccicare una parola. L’espressione ed il tono di voce di Bushido non glielo consentono.
- Mi chiedevo quando saresti arrivato. – dice Fler, teso come una corda di violino. Le sue labbra a stento si muovono. Ha i pugni serrati e poggiati sulle ginocchia, le nocche quasi bianche, e le dita che tremano impercettibilmente per il nervosismo. – Non so come scusarmi.
- Non puoi farlo. – risponde subito Bushido, la sua espressione non cambia di un millimetro, anche se dentro di sé sta urlando; sta urlando dalla frustrazione, sta urlando dalla rabbia, sta urlando a Fler che è stato uno stupido a buttare via tutto quando per una cosa così insignificante come una cazzo di scopata, ma non può lasciarsi travolgere dall’emotività adesso, e se è diventato ciò che è, è anche e soprattutto perché ha sempre avuto il controllo sulle proprie reazioni. Se vuole rimproverare a Fler di aver perso questo stesso tipo di controllo, non può farlo perdendolo a propria volta. – Non c’è niente che tu possa dire o fare per cancellare la tua colpa. Sai meglio di me cosa sono venuto a fare.
Fler abbassa lo sguardo, colpevole.
- Aspetta un attimo… - si azzarda ad intervenire Chakuza, - Di cosa cazzo stiamo parlando? Cos’è successo? – si volta a guardare il proprio compagno con apprensione evidente, - Fler, che cazzo hai combinato?
- Ascoltami bene, Chakuza. – dice Bushido, mentre Fler resta immobile, pronto ad affrontare la sua condanna, - E bada di dirlo anche agli altri. – precisa, ed a questo punto anche Chakuza non può fare altro che pietrificarsi, perché quello che sta accadendo lo capisce perfettamente; è un rituale rodato. – Questo pomeriggio, Fler ha disobbedito ad un mio ordine, fornendo droga a quella rottura di coglioni del ragazzino in cambio di una scopata del cazzo. Per questo motivo, da questo momento in poi Fler non fa più parte della banda. Non dovrete più rivolgergli la parola, né fraternizzare con lui in alcun modo. – si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, - In alcun modo, Chakuza.
Le labbra di Chakuza tremano appena, come in una protesta muta, perché è ancora troppo sconvolto dalle informazioni che ha appena ricevuto per realizzare appieno cosa le parole di Bushido significhino. Ma il silenzio di Fler è troppo prolungato, la sua rassegnazione troppo evidente per porsi ancora delle domande a riguardo. È tutto vero. E sono ordini ai quali non è possibile disobbedire.
- Sì, Bushido. – annuisce quindi. Lui risponde con un cenno del capo, abbandonando la cella subito dopo, e a quel punto Chakuza non può fare altro che voltarsi a guardare Fler, allibito.
Lui ha ancora lo sguardo basso.
- Mi dispiace, Chaku. – mormora, - Lui ha… insomma, mi ha offerto qualcosa che tu non hai mai voluto darmi. – prova a giustificarsi. Chakuza aggrotta istantaneamente le sopracciglia, stringendo i pugni attorno al lenzuolo del letto sul quale è seduto.
- Non provarci nemmeno, Fler. – ringhia, - Non provare a darmi la colpa per quello che hai fatto. Noi avevamo un patto. Hai tradito Bushido, hai tradito la banda. – rimane in silenzio per un secondo, mordendosi con forza la lingua per cercare di trattenersi dal concludere il proprio pensiero, senza riuscirci. – Hai tradito me. – sussurra. Fler gli solleva addosso uno sguardo perso e contrito che Chakuza non riesce ad ignorare come vorrebbe. Per questo guarda altrove, mentre le celle cominciano a chiudersi con gli usuali scatti metallici, e poco dopo anche le luci vengono spente.
Chakuza si spoglia meccanicamente, fissando il vuoto e tendendo l’orecchio. Fler sembra immobile, pietrificato. Lui prende posto nel proprio letto e si sistema sotto le coperte, il viso rivolto alla parete apposta per non guardarlo, né ora, né quando si spoglierà per salire sul proprio letto.
- Mi dispiace, Chaku. – dice la sua voce nel buio. È lontana, e non conta più niente. Chakuza nemmeno risponde.

*

Bill ha vomitato l'anima e si sente uno straccio. Non è che prima di finire in galera si facesse regolarmente – la regolarità sistematica è per i tossici, a lui serviva per sciogliersi – ma capitava di tanto in tanto e il suo corpo ne reggeva abbastanza da non disfarsi appena finiva l'effetto. A quanto pare è bastato un soggiorno da quelle parti per fargli passare del tutto il vizio. Quando ha riaperto gli occhi era buttato su una sedia della sala comune senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato. Poi ha sentito il sapore di marcio in bocca e si è trascinato nei bagni per vomitare. Per un attimo, mentre era chino su uno dei lavandini e la testa gli girava da far paura, si è chiesto dove cazzo fosse perché il bagno era pulito come quello di casa dei suoi, ma era quasi certo di non aver mai fatto in tempo a vomitarci dentro prima che suo padre lo buttasse fuori a calci nel culo. Il cervello ci ha messo un po' a mettersi al passo e, intanto che lo faceva, Bill s'è trascinato fino al primo muro disponibile e si è seduto per terra, in attesa che il mondo smettesse di girare. Ora fissa il vuoto, di nuovo accasciato per terra. Potrebbe alzarsi, ma non ne ha voglia e comunque sul pavimento si sta bene e nei bagni c'è silenzio.
O almeno, c'era finché quel tipo assurdo, Eko, non spalanca la porta e si ferma sulla soglia, a metà di un passo, fissandolo con i suoi occhietti rotondi e idioti da topo. “Ah, bello mio, non hai mica una bella cera,” commenta schioccando la lingua e scuotendo la testa.
Bill emette un lamento e torna a nascondere la faccia nelle proprie braccia incrociate. “Fammi il favore, sparisci e lasciami in pace,” sibila.
Eko chiude la porta con un piede, ancora in quella ridicola posizione a metà di un passo e, visto che è semi-chinato in avanti, sembra uno di quegli angioletti che sputano acqua dalle fontane, solo tristemente più brutto. Si avvicina ai lavandini ignorando completamente la sua richiesta e apre con grande attenzione la sua busta da bagno, dalla quale esce ogni genere di oggetto inutile. “So che hai combinato un bel casino,” continua.
“Ti ho detto di andartene,” insiste Bill. “Lo farei io, ma è meglio se non mi alzo.”
“Infatti, sta' pure disteso,” annuisce Eko, del tutto sordo a qualsiasi cosa farfugli quando riesce a snodare la lingua intorpidita. “Sai, non è stata una mossa tanto furba la tua. Qua sono tutti piuttosto elastici con la proprietà privata, un oggetto non è mai veramente tuo finché anche gli altri possono vederlo, capisci cosa intendo? Per questo c'è un botto di gente che viene ricoverata con roba nella pancia o nel culo. Perché quando vuoi che nessuno ti tocchi qualcosa, è meglio se la butti giù. Con le persone però è diverso, specie se queste persone sono di qualcuno da un sacco di tempo,” Eko scuote ancora la testa, mentre si riempie la faccia di schiuma da barba. “Le persone non si toccano, quando le tocchi succede sempre casino, tanto casino. Sai quanta gente c'è morta perché aveva toccato qualcuno? Prova a dire un numero. No, ma non lo dire, tanto non ci avvicini nemmeno. Comunque tanta. E tu che cosa vai a fare? Non solo tocchi Fler che non era roba tua, era roba di Chakuza e prima ancora di Bushido, ma vai a farti, con la sua roba quando Bushido ti aveva espressamente proibito di fare una qualsiasi di queste cose.”
Bill si lamenta ancora una volta, a voce più alta. “Ma che problema hai tu quando ti si dice di toglierti dai coglioni?” Sbotta, decidendo infine che se quello non se ne va, tanto vale cercare di andarsene lui. Si tira su a sedere e il bagno gira ancora. La buona notizia è che smette subito, così lui può provare ad alzarsi.
“Non mi piace andarmene quando me lo dicono gli altri,” annuisce Eko, come fosse una domanda seria.
“Sì, come ti pare,” borbotta Bill, aggrappandosi al muro per tenersi su.
“Comunque, a mio modesto parere, dovresti ragionare su quello che è accaduto oggi,” continua Eko, radendosi con cura ma agitando anche il rasoio in maniera vaga e preoccupante. “Ma naturalmente non lo farai perché sei un deficiente.”
“Ehi!” Sbotta Bill. Vorrebbe farsi valere, ma quando stacca le mani dal muro, a stento si regge in piedi, così non gli rimangono che le parole. “Vacci piano, d'accordo?”
“Non devi mica vergognarti. Io ce l'ho un cugino deficiente. Si chiama Ismet e non capisce un cazzo di niente, ma gli vogliamo tutti bene lo stesso.”
Bill rotea gli occhi e si chiede se tornare in cella non sia comunque preferibile allo stare qui con questo pazzo che blatera. “Mi fa piacere,” commenta, decidendo di avanzare un lavabo dopo l'altro fino alla porta.
Quando però è quasi arrivato alla porta e ha faticosamente messo mano alla maniglia, Eko parla di nuovo. “Sei uscito dalla sua cella in condizioni pietose, non stavi nemmeno in piedi. Mentre lui buttava fuori Fler dal gruppo, tu facevi il giro della prigione, strusciandoti praticamente su qualunque cosa avesse un pisello e ti accasciavi in un angolo della sala comune, privo di conoscenza. E nonostante questo, nessuno ti ha toccato perché in questo posto ormai l'hanno capito che sei uno dei suoi. E le persone degli altri, come ho detto, non si toccano mai se non si è pronti a fare un gran casino.”
Bill si ferma, la mano ancora sulla maniglia e deglutisce forte, buttando giù saliva e vomito e anche qualcosa che non sa bene cos'è, ma non va giù e gli stringe la gola.
“Bushido sarà anche una testa di cazzo, te lo concedo, ma non è uno stronzo. Se ti tiene d'occhio è perché conosce questo posto meglio di te e conosce pure te più di quanto tu non ti conosca da solo,” dice Eko, fissandolo attraverso il riflesso dello specchio e battendo gentilmente il rasoio contro il bordo del lavandino. “Gli mancano due mesi per uscire di qui con la condizionale. Quindi si, a lui conviene che tu non ti faccia ammazzare ma più che a lui conviene a te, mi segui? Se ti sta col fiato sul collo, è perché il suo fiato qui è un fottuto campo di forza. Abbiamo perso uno dei nostri perché pensavi che il tuo culo non valesse abbastanza per tenerlo al sicuro. Pensaci prima di fare qualche altra cazzata e credere che Bushido fa lo stronzo con te perché non ha altro di meglio da fare. Prova a pensare a chi ha fatto lo stronzo per primo e a chi ha perso di più, per colpa di chi.”
Eko si volta e torna a radersi senza guardarlo più.
Bill resta lì ad aspettare che lo faccia per un po', la mascella serrata per la tensione. Le sue dita si stringono intorno al ferro della maniglia ancora una volta, poi la preme di scatto verso il basso e scivola fuori dal bagno in silenzio.

*

La loro cella non è molto grande e ha una sola finestra, ovviamente sbarrata; ma è così piccola che quando fuori fa brutto tempo entra a malapena un filo di luce e a metà pomeriggio sembra già sera inoltrata.
Quando supera la soglia e si guarda intorno, ci mette un po' ad inquadrare Bushido che è disteso immobile sul letto di sopra, ma è così sottile che, se non si gira di fianco, non sporge poi troppo dal materasso.
Anche se Bushido non si muove, però, Bill sa che è sveglio dal modo in cui respira. Per questo si aspetta di sentirlo aprire bocca non appena fa un passo all'interno e invece niente, il silenzio.
Bill ha la brutta abitudine di irritarsi quando non viene considerato, probabilmente perché attirare l'attenzione è l'unica cosa che sa fare e, quando non gli riesce nemmeno quello, non è una bella sensazione.
Rimane lì in piedi vicino alla porta per un po', senza sapere esattamente come comportarsi e poi decide di darsi qualcosa da fare lavandosi le mani nel piccolo lavandino della cella.
“Ho parlato con quel tipo, il turco,” dice, buttando lì il primo argomento che gli viene in mente. Non che Eko sia granché come argomento, ma visti i recenti sviluppi, è anche l'unico.
Dal letto non arriva nessuna risposta. Bushido continua a restare disteso con gli occhi chiusi.
“Tanto perché tu lo sappia, non l'ho avvicinato io,” continua Bill, ricordandosi di essere stato minacciato a riguardo nemmeno qualche ora prima. “E' venuto lui da me. Più che altro è andato al cesso e io ero già lì.”
Bushido si schiarisce la gola, ma senza aprire gli occhi.
Bill chiude il rubinetto e si asciuga le mani. “Quando parla non si capisce un cazzo,” dice ancora, buttando lì una mezza risata che però non copre la tensione crescente nella sua voce. “E poi tiene dei pastelli a cera nella bustina da bagno insieme al dentifricio. Non ci sta con la testa, vero?”
In tutta risposta, Bushido si volta di lato, dalla parte del muro. E Bill si rompe le palle.
“Guarda che lo so che sei sveglio,” gli fa presente e, quando l'uomo si ostina a non rispondere, afferra una delle gambe del letto a castello e lo smuove, producendo un rumore sgangherato di ferro che attira una delle guardie. Bill gli fa cenno che è tutto a posto e, dopo aver lanciato un'occhiata dubbiosa alla cella, l'uomo si allontana di nuovo. “Di' un po', hai intenzione di continuare a comportarti come un bambino di cinque anni ancora per molto?” Chiede, strafottente.
“Dovresti esserci abituato,” la voce di Bushido arriva un po' roca, forse perché è stato in silenzio per ore, ma non sgradevole come invece suona la sua la prima volta che apre bocca al mattino, “tu lo fai di continuo. Io mi sono solo adattato al tuo modello comportamentale.”
“Bel modo di dimostrare maturità, per uno che accusa me di essere una testa di cazzo,” replica Bill.
Fa per distendersi su letto ma, quando vede che Bushido si sta girando verso di lui, ci rinuncia per accoglierlo a braccia incrociate, guardandolo storto.
“Per tua informazione, io non devo dimostrare niente, ragazzino,” risponde, guardandolo dritto negli occhi senza nessuna esitazione, cosa che Bill non riesce a fare con continuità. “Tu invece, fino a prova contraria, sei ancora una testa di cazzo.”
Bill diventa paonazzo, incapace di controllare la propria rabbia. Per uno che, bene o male, ha dovuto imparare a tenere a bada le proprie emozioni per battere in strada, è un fallimento di proporzioni epiche non riuscire a sostenere una conversazione senza dare di matto. Ma la colpa è dello stronzo e del suo stupido modo di fare, come se il mondo dovesse sempre inginocchiarglisi ai piedi. E lui cretino, ha anche pensato che potesse esserci un modo per comunicare con questo idiota pieno di merda.
Tutte queste cose però non gliele dice perché anche se le sue labbra tremano e la sua lingua ha una gran voglia di sciogliersi e vomitargli addosso tutto quanto, la gola gli fa ancora male dove lui l'ha stretta.
“Sai che ti dico, torna a fare finta di dormire,” sputa quindi, infilandosi nel proprio letto infastidito, tanto per avere la scusa di allontanarsi per quel che può. “Non ho bisogno di te, né tanto meno di parlarti. Anzi, se non ti sento aprire bocca e sparare le tue stronzate, tanto meglio.”
“Per me va bene,” dichiara Bushido. “Se vuoi rinunciare alla mia protezione, sono affari tuoi. Ne riparliamo tra due settimane, magari per allora ti sarà tornato in mente come ti hanno conciato quando hai voluto fare per conto tuo.”
Bill fissa le molle del letto sopra il suo che ondeggiano un'ultima volta, segno che Bushido si è girato di nuovo. Pensava che si sarebbe sentito meglio dopo aver vinto una battaglia contro di lui, ma ha la bocca amara e non è sicuro si tratti solo di vomito.

*

È la prima volta che vede suo fratello da quando è rinchiuso in questo buco di merda, e non può fare a meno di sentirsi nervoso al riguardo. Ormai è in prigione da quasi due mesi, e naturalmente questa è la prima visita che riceve. È la prima volta che mette piede nella piccola sala accuratamente sorvegliata, piena di tavoli rotondi e sedioline basse e scomode. Le pareti sono grigie, il pavimento è grigio, anche i mobili sono tutti grigi, così come i distributori automatici sistemati in fondo alla stanza. L’unica cosa colorata, all’interno dell’ambiente, sono le merendine tutte in fila oltre i vetri, e naturalmente i vestiti dei parenti in visita.
Tom arriva in perfetto orario, e Bill ha immaginato questo momento molto a lungo durante i giorni che hanno seguito l’ultima telefonata che si sono scambiati, e ha sempre pensato che sarebbe stato composto, quando l’avrebbe visto, che non si sarebbe lasciato travolgere dalle emozioni, che l’avrebbe tenuto a distanza – d’altronde, era sempre stato bravissimo, in questo, almeno da quando era andato via di casa –, che avrebbe fatto di tutto per dare a Tom l’impressione di essere perfettamente in grado di cavarsela da solo, anche in un ambiente palesemente ostile come quello, ma la verità è che, dopo tutto quello che ha passato da quando è qui, vedere il suo volto lo scuote fin dentro, e non è capace di stare immobile, semplicemente deve seguire il primo impulso che gli attraversa i nervi e i muscoli, e salta in piedi, lanciandosi verso di lui per allacciargli le braccia al collo, nascondendo il viso contro il suo petto con un sospiro sollevato.
Tom lo accoglie fra le proprie braccia con la naturalezza di chi non ha mai perso l’abitudine a farlo, e Bill non può fare a meno di pensare che è incredibile che ci riesca ancora esattamente come quando erano più piccoli, anche se negli ultimi anni hanno passato molto più tempo lontani l’uno dall’altro che insieme. Il pensiero non manca di riempirlo di tristezza, come ogni volta, ma si forza a tenerlo lontano dalla propria mente fin da subito. È stata una sua scelta, in fin dei conti. Sarebbe ridicolo pentirsene adesso.
- Ehi. – lo saluta Tom, allontanandosi da lui per sorridergli un po’ tristemente e guardarlo da ogni lato, come ad assicurarsi che sia ancora tutto a posto, - Stai bene?
- Sì. – risponde Bill con un mezzo sorriso incerto, le mani ancora poggiate sul suo petto.
- Balle. – lo rimbrotta Tom, accarezzandogli una guancia, - Sei così magro che fai paura. Non mangi?
- Tomi, ti prego, da quando sei diventato nostra madre? – sbotta Bill, allontanandosi da lui e prendendo posto su una delle due sedie attorno ad uno dei pochi tavoli rimasti liberi. Lo sguardo di Tom si incupisce all’istante, quando lo sente nominare Simone. Si siede di fronte a lui e sospira.
- Perché non vuoi che le dica dove sei? – gli domanda apprensivo, - Verrebbe a trovarti.
- Appunto. – ribatte seccamente Bill, - Non ho mai voluto vederla quando vivevo praticamente per strada, cosa ti fa pensare che possa volerla vedere adesso che vivo in un posto ancora peggiore?
Tom sospira ancora, passandosi una mano sul volto.
- Non ha mai smesso di preoccuparsi per te. – dice a bassa voce.
- Non è esatto. – ritorce Bill, distogliendo lo sguardo, - Ha cominciato quando a me non serviva più, è diverso.
- Sei crudele, Bill. – lo rimprovera suo fratello, lanciandogli un’occhiata di fuoco, - Mamma ti ha sempre capito. Ti ha—
- Non mi ha mai difeso. – lo interrompe Bill, gelido, come non gli importasse nemmeno. – So che non l’ha fatto solo perché aveva paura di papà. Ma se pensi che questo possa giustificarla ai miei occhi, ti sbagli. Tu ti sei preso botte che non ti spettavano, per proteggere me. Lei non l’ha mai fatto.
Tom si copre il viso con entrambe le mani, scuotendo il capo.
- Dici cose agghiaccianti, Bill. – esala in un rantolo, - Per favore, sta’ zitto.
Bill obbedisce, serrando le labbra e guardando in basso, mordendosi con forza l’interno di una guancia. Riesce a capire perché Tom inorridisca al pensiero di suo fratello che giudica l’affetto dei propri familiari attraverso le botte che sono stati capaci di prendersi per difenderlo dalla furia di suo padre, ma allo stesso tempo non riesce ad immaginare nessun altro indice per misurare una cosa del genere, per cui per quale motivo non dovrebbe essere quello? Ha capito che poteva fidarsi di suo fratello quando Tom si era fisicamente messo di mezzo fra la sua guancia e il palmo ruvido della mano di suo padre. Sua madre non l’aveva mai fatto. Se poteva esserci un metro per stabilire chi dei due tenesse di più a lui, non poteva essere che quello, per quanto squallido e, probabilmente, fuori di testa potesse sembrare.
Aspetta che Tom si sia calmato, e quando lui finalmente smette di coprirsi il viso e torna a guardarlo si arrischia perfino a rivolgergli un sorriso incoraggiante. Tom risponde con un sorriso uguale, lasciando scivolare una mano sulla superficie del tavolo, a cercare la sua da stringere. Bill gliela concede senza indugiare, godendo del calore delle dita di suo fratello strette teneramente attorno alle sue.
- Non parliamone più. – dice Tom, scuotendo il capo, anche se è evidente che intende “almeno per ora”, - Sono felice che almeno tu abbia voluto vedere me. Finalmente. Sei uno stronzo.
Bill ridacchia, stringendosi nelle spalle e ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Credimi, è stato meglio non vedersi fino ad adesso. – risponde. Se solo ripensa a tutti i lividi che ancora aveva addosso fino ad un paio di settimane fa, si sente male. Non avrebbe mai potuto farsi vedere da Tom ridotto in quelle condizioni, senza contare il dolore alla schiena che ancora ogni tanto lo tormenta. Sa bene, ad esempio, che quest’incontro non potrà durare più di una ventina di minuti, e questo non tanto perché gli incontri coi familiari siano regolati secondo una tabella oraria molto precisa e inamovibile – lo sono, comunque, come tutto in quel dannato posto – ma perché Bill sa che dopo venti minuti passati seduto su una sedia tanto scomoda la sua schiena comincerà a protestare molto vivacemente, e lui sarà costretto ad andare via se non vuole scoppiare a piangere davanti a Tom. È già tutto abbastanza difficile senza dover aggiungere l’umiliazione di una cosa simile.
È per questo che si è rifiutato anche solo di chiamarlo per così tanto tempo, ed è sempre per questo che, pur dopo averlo chiamato, aver parlato con lui due o tre volte ed avergli chiesto un po’ di soldi da mandargli con la posta e magari una maglietta ed un paio di pantaloni nuovi, visto che i suoi erano ormai ridotti a brandelli per i motivi più svariati, ha esitato ancora più a lungo prima di accettare che venisse a trovarlo, e questo nonostante sapesse – riusciva a sentirlo nella sua voce – quanto Tom fosse impaziente di vederlo, di sincerarsi che stesse bene osservandolo coi propri occhi.
Questo perché lui non sta bene. L’unico modo che ha di stare bene quando il dolore – non solo quello alla schiena – comincia a farsi troppo forte è andare da Sido, e farsi dare un po’ di roba. È per quello che gli servono i soldi. È per quello che continua a chiederne. Ma questo a Tom non può dirlo, non vuole dirglielo, malgrado suo fratello abbia dimostrato negli anni di essere perfettamente in grado di continuare ad amarlo nonostante tutta la merda che sputava o in cui si andava a cacciare ad intervalli regolari.
Tom lavora per sostenerlo. Piccoli lavoretti, naturalmente, perché suo padre non avrebbe mai accettato di dargli dei soldi da passare a lui, ma è sempre stato così, da quando Bill è scappato di casa. Bill ha cercato più e più volte, all’inizio, di dirgli di smetterla, di fargli capire che non aveva bisogno dei suoi soldi, che scopando in giro riusciva a mantenersi perfettamente, ma la verità è che erano tutte bugie, e Tom non ha mai sbagliato a leggerle nei suoi occhi, per cui per quanto Bill potesse tentare di allontanarlo Tom si rifiutava di lasciarglielo fare, ed è sempre tornato, portandogli sempre qualcosa. Dopo un po’, Bill ha smesso di sentirsi in colpa nell’accettare il suo denaro, ma quel senso di colpa è tornato a farsi sentire con prepotenza da quando quel denaro ha cominciato a finire puntualmente nelle tasche di Sido o di uno dei suoi spacciatori di fiducia sparsi per il braccio.
- Lo sai, Billi? – dice Tom, stringendo appena la presa delle proprie dita attorno alle sue, - Sono preoccupato.
Bill sospira, roteando gli occhi.
- Lo sei sempre. – sbuffa, scrollando le spalle.
- E ho sempre ragione ad esserlo, non ti pare? – insiste suo fratello, ma lo fa con un sorriso tanto dolce che è impossibile arrabbiarsi con lui.
- Sto bene. – ripete Bill, annuendo con più decisione. Non sa chi sta cercando di convincere, se Tom o se stesso. In ogni caso, non funziona granché bene.
Tom distoglie lo sguardo, stufo di sentirsi dire bugie e di poterle leggere così chiaramente nei suoi occhi. Preferisce ascoltare Bill mentire senza doverlo guardare. È più semplice fingere di potergli credere, così.
- D’accordo. – annuisce, alzandosi in piedi. Bill lo segue nel movimento all’istante. – Ti… ti manderò qualcos’altro, fra un paio di giorni. Al massimo una settimana. Puoi resistere, nel frattempo? – gli domanda, tornando a guardarlo negli occhi mentre gli accarezza il viso. Bill si appoggia al palmo della sua mano, annuendo lievemente, e stavolta non sta mentendo.
- Ho ancora qualcosa da parte, non preoccuparti. – lo rassicura. Tom sorride ed annuisce ancora, tirandoselo contro per un altro abbraccio.
Quando l’agente di guardia davanti alla porta comincia ad avvisare tutti i presenti che l’orario di visita sta per concludersi, Bill fa un sacco di fatica a lasciarlo andare.

*

Non passa neanche mezz’ora, che si sta già dirigendo verso la cella di Sido. Stringe le dita attorno alle banconote tutte spiegazzate che tiene in tasca, e non può fare a meno di pensare che incontrare Tom sia stato un errore madornale. Adesso la sola idea di spendere così quei soldi gli dà la nausea, ma è una nausea che non può permettersi, specie quando conosce quella che gli afferra lo stomaco e lo devasta quando sta troppo tempo senza una dose. Non è ancora mai andato in crisi d’astinenza – non ne ha avuto il tempo, e fortunatamente neanche il modo – ma quello che ha sentito nella sua vita, quello che ha visto durante gli anni di permanenza per le strade e la scossa di dolore nervoso che ha già provato sulla sua pelle quando ha lasciato passare troppo tempo fra una sniffata e l’altra sono tutte informazioni abbastanza circostanziate perché lui possa sapere al di là di ogni ragionevole dubbio che in quella condizione non intende trovarcisi proprio per un cazzo. E quindi, senso di colpa o meno, inghiotte amaro e si ferma davanti alla cella di Sido.
Appena fuori, proprio davanti alla porta, c’è un gorilla che sarà anche appena più basso di lui, ma in compenso è largo tre volte tanto. Bill ripensa con un po’ di nostalgia ai tempi in cui per strada per seminare uno stronzo come questo bastava un calcio nelle palle. Qui non può farlo – il rischio è di finire in buca, e non ci tiene affatto a farsi spogliare di tutti i suoi vestiti per finire abbandonato in una cella sotterranea sporca e maleodorante, senza finestra e con solo un secchio in un angolo per pisciare, per chissà quanto tempo – ed anche se potesse i giorni in prigione gli hanno insegnato la prudenza a suon di botte. E la sua schiena ancora ne risente, e ci tiene a ricordarglielo pungendo dolorosamente all’altezza dell’osso sacro. È già stato in piedi troppo a lungo.
- Fammi passare, Tony. – ringhia con evidente nervosismo. Quello sghignazza, incrociando le braccia sul petto.
- Magari oggi a Sido non va di vedere la tua faccia di cazzo, Kaulitz. Che ne pensi? – domanda, appoggiandosi con tranquillità alle sbarre dietro di lui. Sido, seduto su una sediolina di legno che tiene in equilibrio sui piedi posteriori, ha le gambe incrociate sulla superficie del tavolo di fronte a sé, e le mani intrecciate sullo stomaco. Osserva la scena senza mostrare né interesse, né disinteresse. Semplicemente attenzione.
- Tony, levati dai coglioni. – insiste Bill, le mani che tremano lungo i fianchi, - Ho i soldi. Non costringermi a ficcarteli su per il culo.
- Dici che mi piacerebbe? – chiede ancora quello, già ridendo fra sé per la battuta che sta per fare, - Te lo chiedo perché sai, il parere di un esperto è sempre importante.
Tutto il corpo di Bill è scosso da un tremito di frustrazione e impazienza, e sta quasi per tirargli un’unghiata in un occhio fregandosene della prudenza ed anche della paura di quante ne prenderebbe se si mettesse a litigare con Tony D, quando Sido tira giù le gambe dalla scrivania, mettendosi in piedi.
- Vatti a fare un giro, Tony. – dice gelido, incrociando le braccia sul petto ed appoggiandosi ad una parete. Tony D sta ancora ridendo, mentre si allontana verso la sala comune.
Bill irrompe nella cella come una furia, tirando fuori dalla tasca tutti i soldi che ha e schiantandoli contro la superficie del tavolo con stizza, guardando Sido negli occhi e digrignando i denti.
- Bella storia siete, voi maschi alfa di questo buco di merda. – non può fare a meno di commentare, - Vi nascondete tutti dietro chi ha le spalle più larghe di voi, sempre. Siete solo delle mezze seghe. Tu, quell’altro, tutti uguali. Avete tutti i vostri mastini favoriti coi quali fingere di poter fare la voce grossa anche se sapete perfettamente che se solo volessero potrebbero spezzarvi le gambe con uno schiocco delle dita. Mi fate pena.
Sido sorride, apparentemente neanche turbato dalle sue parole.
- Ciao, Bill. – lo saluta con un breve cenno del capo, - È un piacere anche per me.
- Non sono in vena di convenevoli, né di false cortesie, e sicuramente quello che ho detto fino ad ora non c’entra niente col piacere di vederti, che giusto per essere chiari non esiste. – batte con forza la mano sulle banconote sparpagliate sul tavolo, - Dammi quella merda e fammi tornare in cella.
Sido si prende il proprio tempo, prima di rispondere. Guarda lui, poi i soldi sul tavolo, poi di nuovo lui, e sorride ancora.
- Tu facevi la puttana, prima di finire qui. Correggimi se sbaglio. – comincia. Bill rotea gli occhi e lascia andare un lamento infastidito. Non c’è speranza di ottenere quello che vuole in tempi brevi, se ne rende conto anche da solo, sa capirlo quando qualcuno temporeggia nel tentativo di confonderlo, perciò lascia il denaro sul tavolo ed incrocia le braccia sul petto a propria volta, fissandolo dritto negli occhi, con attenzione.
- Non sbagli. Ora posso avere quello per cui ho pagato e andarmene? – domanda. Sido scuote il capo, smette anche di sorridere. La sua espressione si fa seria, perfino professionale, e Bill non sa più cosa aspettarsi da lui.
- Cosa penseresti, - dice, - se ti dicessi che ho una proposta per te?
- Penserei che non me ne frega niente e che ti sei bevuto il cervello. – sbuffa Bill, picchiettando nervosamente la punta del piede contro il pavimento, - Sido, qual è il tuo problema? – domanda annoiato, ma Sido non risponde. Si volta verso il tavolo, raccoglie tutte le banconote sparse sulla superficie, le spiana, le mette in ordine in un blocchetto che si prende perfino il tempo di pareggiare, e poi le porge a Bill.
- La mia proposta potrebbe permetterti di risparmiare questi spiccioli per qualcosa di meglio. – spiega, - Che ne so… ho sentito dire che se ne hai abbastanza da parte, puoi permetterti di corrompere qualche agente di custodia. – aggiunge con un mezzo sorriso, - E quando hai un agente di custodia dalla tua, la vita qua dentro può essere molto più semplice. E mi pare che a te un po’ di semplicità servirebbe eccome.
Bill gli lascia scorrere addosso un’occhiata incuriosita, anche se mantiene le braccia incrociate sul petto in segno di chiusura. Posa gli occhi sulle banconote che Sido continua tranquillamente a porgergli, e qualche secondo dopo gliele strappa di mano con un gesto secco, infilandosele sbrigativamente in tasca.
- Continua. – lo invita, senza però mostrare particolare interesse. Sido, comunque, sorride come se avesse vinto chissà che guerra.
- È da qualche mese che cerco di mettere su una nuova attività, da queste parti, - comincia vago, - ma purtroppo non ha ancora avuto modo di decollare perché, capisci bene, manchiamo in materia prima.
- …materia prima. – ripete Bill, inarcando un sopracciglio, - Posso solo immaginare di che tipo di materia prima si tratti, visto che ne stai parlando con me.
- Immagini bene. – ridacchia Sido, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, per accomodarsi meglio contro la parete. – Insomma, ti sarai guardato intorno, da quando sei qua. Sei senza dubbio il più carino del gruppo. La gente pagherebbe per scoparti, come ben sai. E questo è un po’ il punto del mio discorso.
Bill rimane in silenzio per un paio di secondi, prima di concedersi un mezzo ghigno ironico.
- Non dirai mica sul serio? – sbotta, - Qui dentro? Vuoi farmi fare la puttana a tempo pieno qui dentro? Devo ricordarti che è per questo motivo che ci sono finito, qui?
Sido si stringe nelle spalle, sorridendo beato.
- Gli anni di esperienza nel campo contano, Kaulitz. – risponde semplicemente, - La mia proposta, comunque, è questa. Tu lavori per me, e in compenso… - si infila una mano in tasca, tirandone fuori una fialetta trasparente. Bill le lancia un’occhiata veloce e tutti i suoi sensi tornano ad acuirsi in un istante in maniera quasi dolorosa, pungendo sottopelle. La vuole. La vuole adesso. Direbbe di sì a qualsiasi cosa, per averla, e non riesce neanche a provare pena per se stesso mentre lo pensa. Ma se almeno può ottenerla senza per questo buttare via i soldi di Tom…
- D’accordo. – annuisce in fretta, afferrando la fialetta prima ancora che Sido possa aver sollevato completamente la mano. La stringe fra le dita con tanta forza che potrebbe spaccarla, ed è solo pensando a questo che cerca di allentare un po’ la presa. – Dimmi cosa devo fare.

*

Una delle docce gocciola. Solo nel bagno comune, appoggiato ad una parete e in nervosa attesa dell’uomo al quale ha appena venduto il culo per una fottuta dose il cui effetto non sarà durato più di cinque minuti, Bill non riesce a concentrarsi su nessun altro dettaglio. Gli effetti della dose stanno ancora scivolando via, sono lenti come l’acqua sporca agli angoli delle strade dopo che ha piovuto per ore, e si lasciano dietro la stessa velenosa traccia viscida e spiacevole. E il cazzo di rubinetto della doccia gocciola, e il suono si allarga dentro le sue orecchie in cerchi concentrici che gli fanno pulsare dolorosamente le tempie, e tutto quello che riesce a pensare è che plic il fottuto rubinetto della doccia plic gocciola plic. E lo stronzo non arriva. Plic.
Sta quasi per andarsene, dal momento che la schiena lo sta uccidendo e se resta in piedi un secondo di più palesemente morirà, quando il tizio che sta aspettando finalmente arriva. Solo che non è da solo. Non è uno, e non sono nemmeno due. Sono tre, e appena Bill riesce a mettere in moto il proprio cervello confuso abbastanza da contarli tutti, fa immediatamente un passo indietro.
- No. – dice risolutamente, - Io non le faccio queste stronzate. Potete tornare indietro e dire a Sido che per quello che mi interessa può anche andare a farsi fottere.
I tre si guardano fra loro, sembrano stupiti. Poi si lanciano sorrisi complici l’un l’altro, e riprendono ad avanzare verso di lui.
- Sai cosa, puttana? – dice uno di loro, allungano una mano ed afferrandolo per i capelli, tirandoli con forza ed obbligandolo a gemere di dolore mentre piega il capo all’indietro, cercando di seguire il suo movimento per non farsi troppo male, - Ce ne frega un cazzo di cosa fai o non fai. Abbiamo pagato, quindi ora tu stai buono e te lo fai mettere su per il culo, anche da tutti e tre contemporaneamente, se ci gira. Ci siamo capiti? – conclude con uno strattone. Bill quasi grida, ma poi si morde un labbro, e cerca di trattenere le lacrime che si stanno già raccogliendo fra le sue ciglia. Schiude gli occhi, guarda il tipo che lo tiene ancora stretto per i capelli, e digrigna i denti. Dopodiché, gli sputa in faccia.
- Certe cose le puoi ottenere solo pagando, quando sei una merda come quella che siete voi. – ringhia, e il tipo ringhia a propria volta, asciugandosi il viso col dorso della mano e poi afferrandogli la testa più saldamente, solo per spingerlo di faccia contro la parete.
Bill osserva il muro avvicinarsi quasi al rallentatore, e quando sbatte contro la superficie piastrellata e gelida il dolore gli esplode nella testa come una bomba, in macchie biancastre che gli offuscano la vista. Urla, e urla più forte quando qualcuno lo prende a calci nelle gambe, all’altezza delle ginocchia, che si piegano contro la sua volontà.
Il secondo dopo è rannicchiato sul pavimento, apre gli occhi e vede solo rosso e uno stronzo lo sta prendendo a calci nella schiena con tanta forza che lui non riesce a smettere di urlare. Semplicemente non riesce, ci prova a tenere la bocca chiusa, se non altro per non dare soddisfazione a questi psicopatici di merda, ma fa semplicemente troppo male, e il residuo della droga che ha sniffato non fa che amplificare la sensazione di dolore riempiendogli il corpo di brividi insopportabili, e lui continua a scuotersi e a urlare e gli stronzi continuano a calpestarlo, e quando uno dei tre gli sfila di dosso i pantaloni lui pensa “bene, cazzo, adesso almeno magari la smetteranno di picchiarmi e si concentreranno per scoparmi”, ma un altro dei tre stronzi gli si inginocchia accanto e gli sorride in un modo che gli fa quasi scoppiare il cuore di paura. Bill lo osserva sollevarsi la manica della maglietta fino al gomito e stringere la mano a pugno e pensa “no, cazzo, Dio, Dio, ti prego, no”, e ansima terrorizzato, e vorrebbe provare ad alzarsi in piedi e fuggire via, ma le gambe non rispondono, e la schiena fa male come gliel’avessero spezzata, e lui non riesce più a respirare, e poi le nocche dell’uomo premono contro di lui e lui urla così forte che si sente esplodere i polmoni nel petto, e strabuzza gli occhi, e poi qualcosa si spacca, e a lui non resta più fiato neanche per gridare.
Mentre la vista gli si annebbia, gli sembra di scorgere una figura familiare sulla porta del bagno. Una figura piccola, magra, che si muove in maniera strana. “Eko?” pensa, ma potrebbe essere un’illusione, così come la vocetta nasale che sillaba “merda”, un attimo prima che la figura scompaia, veloce com’è apparsa.
Un paio di minuti dopo, però, entrano in bagno cinque persone. Bill non vede un cazzo di quello che sta succedendo, non gl’importa nemmeno. Tutto quello che sa è che un attimo non respira, e l’attimo dopo qualcuno lo svuota, e lui può finalmente tornare a respirare. Anche se fa male. Come fa male tutto il resto.
Fa tutto così fottutamente male che non riesce a tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo neanche per riconoscere Bushido che, mentre i suoi riducono quei tre bastardi in fin di vita, lo solleva di peso fra le braccia e lo trascina di corsa in infermeria.

*

Bill ha imparato a riconoscere l'infermeria dalla lampada che pende storta nel centro del soffitto pieno di crepe, così quando apre gli occhi non perde neanche un secondo a chiedersi dove si trovi. Impiega più tempo a capire perché sia di nuovo disteso su un letto e si senta stanco, assonnato e debole.
I ricordi arrivano insieme al dolore, quello sordo tra le gambe e quello più acuto e quasi insostenibile alla schiena che sembra essersi svegliata all'improvviso insieme a lui.
Geme infastidito e tenta di girarsi di fianco, che è l'unico modo che conosce per alleviare le fitte pungenti, ma non riesce. Non riesce nemmeno a capire quale arto sta muovendo quando lo muove. Se lo muove. Ha la testa così confusa, chissà quanti cazzo di antidolorifici gli hanno dato. Chissà quanto cazzo farebbe male senza; il solo pensiero lo fa rabbrividire.
Prova di nuovo a voltarsi, lancia un braccio sul materasso e afferra il lenzuolo. Cerca di usare quello per issarsi, ma gli sembra di pesare una tonnellata. Riesce soltanto a sollevarsi di qualche centimetro e, quando ricade giù, la schiena fa ancora più male e il dolore gli strappa di bocca un lamento disperato del quale si vergogna. E' così stanco che ha voglia di piangere.
Furioso, tira un pugno sul materasso mentre si morde forte un labbro per trattenere le lacrime di dolore e frustrazione. Non può stare disteso in quel modo un minuto di più, lo sa. “Dottoressa,” mormora. La voce gli esce debolissima e roca, rotta dal respiro affannato. Prova a chiamarla più forte ma non arriva nessuno. Gli fa male perfino la gola.
Mette insieme le forze, si concentra e si gira di scatto con un gesto rabbioso. Cercando alla cieca un appiglio a cui aggrapparsi, urta il vassoio che c'è sul comodino e quello cade, portandosi dietro una scodella, le posate e tutto il resto del suo pranzo, probabilmente. Ricade anche lui, sul materasso, e la fitta di dolore è così forte che lo riduce ai singhiozzi. “Vaffanculo!” Piagnucola. “Vaffanculo.”
“Ehi, piano” gli dice qualcuno, posandogli una mano sul braccio.
Bill fa uno scatto che gli strappa un'altra smorfia di dolore. Si volta a guardare chi è stato con tanto odio che quello fa un passo indietro. E' uno degli uomini di Bushido, quello basso e pelato.
“Tranquillo,” Chakuza tiene le mani bene in vista. “Non voglio farti niente. Mi sono avvicinato solo perché sembravi nei casini. Ti ricordi di me? Sono Chakuza.”
Bill lo guarda male un altro po' prima di sbuffare. “Mi hanno quasi stuprato, non ho mica perso la memoria,” replica infastidito. Si sforza di tirarsi su, ma anche mettersi seduto è un'impressa impossibile e per quanto tenti di nasconderlo, il dolore gli contorce i tratti del viso.
“Posso aiutarti?” Chiede Chakuza, prima di farsi avanti di nuovo.
Bill vorrebbe dirgli di andare a fanculo, ce l'ha sulla punta della lingua e la rabbia che prova per tutto e tutti indistintamente in questo momento vorrebbe tanto farglielo dire, ma non ce la fa più a stare in quella posizione. Così annuisce brevemente.
“Vuoi sederti?” Chiede l'uomo, sorreggendolo per il braccio.
Bill scuote la testa velocemente. “Di lato va bene,” lo informa mentre il peso sulla schiena si allenta e il dolore diventa più sopportabile. Adesso gli viene quasi da piangere per il sollievo.
“Ecco fatto. Va meglio?”
Bill annuisce sbrigativamente. Vorrebbe poter chiudere la conversazione adesso che non ha più voglia di accasciarsi e morire, ma Chakuza resta di fianco a letto e l'ombra della sua testa rotonda si allunga sulle coperte che sta fissando, impedendogli di ignorare completamente la sua presenza. Così sospira e si volta verso di lui con un sopracciglio sollevato. “Ti serve qualcosa?” Chiede.
“A me no, ma magari hai fame,” commenta lui. Voltandosi per recuperare un altro vassoio dal carrello che si trascina dietro.
Bill lancia un'occhiata al cibo che è finito per terra, dall'altra parte del letto.
“Lo avevo appoggiato sul comodino visto che dormivi,” si giustifica Chakuza, seguendo il suo sguardo mentre sistema il nuovo vassoio sul braccio mobile perché possa accedervi più facilmente.
Bill torna a guardare lui e quello che sta facendo. Chakuza dice cose talmente ovvie che non trova nessun argomento con cui replicare, perciò resta in silenzio mentre l'uomo appoggia con cura il piatto di carne e verdura, l'acqua, il pane e una porzione di budino alla vaniglia.
“L'hai fatta tu questa roba?” Chiede Bill.
“Non dirmi che hai paura,” commenta Chakuza, passandogli il tovagliolo e le posate, che poi sono solo una forchetta di plastica con le punte arrotondate e un cucchiaio, sia mai che gli venga in mente di sgozzare qualcuno. “Se serve a farti stare più tranquillo, non mi conviene avvelenare il cibo che servo. Non ho alcuna voglia di marcire qui dentro per sempre. “
Bill sbuffa dal naso, iniziando a tagliare la carne. “Lo dicevo perché ha un bell'aspetto,” precisa, con un ghigno. “Hai la coda di paglia, per caso?”
Chakuza non se la prende, ma a dirla tutta non sorride neanche. “Da queste parti è sempre meglio pensare al peggio e poi, nel caso, cambiare opinione,” commenta.
“Sì,” borbotta Bill. “Me ne sono accorto.”
“Sempre troppo tardi,” Chakuza nota l'occhiata che gli lancia una delle guardie e si affretta a fingersi indaffarato. In via del tutto eccezionale, decide che può raccogliere lui quello che è caduto. “Sei stato fortunato.”
Bill immagina che a fronte della possibilità di prendersi una malattia venerea, perdere un arto o l'uso cosciente del proprio corpo, lo strazio di una schiena a pezzi e dei dieci punti che gli hanno messo nel culo siano considerabili come una fortuna. Forse crepare lo sarebbe stato di più. “Infatti, non lo vedi come festeggio?” Chiede ironico. “Credo che lo champagne arriverà da un momento all'altro.”
“Dico sul serio,” insiste Chakuza. “Se non fosse stato per Eko, poteva andarti molto peggio.”
Allora era davvero lui la figurina magra che ha intravisto prima di perdere i sensi. “Mi è sembrato di vederlo,” mormora.
“Non doveva essere lì. Ti ha seguito di sua spontanea volontà, perché è pazzo o sa il cazzo perché,” spiega Chakuza, mentre impila i piatti sporchi sul carrello. “Dovresti ringraziarlo appena esci dall'infermeria.”
“Se mai uscirò, sarà il mio primo pensiero,” fa in modo di suonare ironico ma non gli riesce un granché bene, forse perché ogni volta che apre bocca gli torna in mente la paura che ha provato – che non era quella buona che ti tiene all'erta ma quella violenta e paralizzante che non ti serve a sopravvivere a niente, perché ti lascia inerme contro qualunque pericolo ti si pari davanti – ed è consapevole che se non ne ha provata di più lo deve soltanto a quell'uomo con la faccia da topo.
“Bene,” annuisce Chakuza, sollevandosi finalmente da terra. “E magari potresti provare a mostrare un po' di riconoscenza in generale. “
Bill gli alza subito addosso un'occhiata altezzosa e infastidita. “Prego?”
Durante tutto il tempo che ha passato là dentro, Bill si è abituato che alle sue reazioni scostanti la gente reagisce ridendo oppure trattandolo ancora più di merda di quanto lui non faccia con gli altri. Chakuza invece sospira. “E' normale che tu non voglia fidarti di nessuno qua dentro, soprattutto perché hai visto quanti pezzi di merda ci sono,” spiega. “Ma dopo che ti sei fatto un'idea di che aria tira, ti accorgi che un amico ti serve. Qua dentro da solo non puoi sopravvivere. Vale per tutti, non solo per quelli come te.”
“Che sarebbero?”
“Quelli che non si sanno difendere,” specifica Chakuza, con molta più pazienza di quanto, ancora una volta, Bill si aspetti da lui. “Ed è inutile che fai quella faccia, perché sei tu quello su un letto d'ospedale e io quello in piedi, quindi almeno su questo mi darai ragione.”
Bill non smette di fare nessuna faccia anzi, se possibile lo guarda perfino peggio, e fa schioccare la lingua. “Di' un po' ti manda lui, per caso?” Chiede, sviando il discorso.
“No, non mi manda nessuno perché, se ti è sfuggito, questo è il mio lavoro,” replica Chakuza. “Comunque Bushido era preoccupato per te. Quando Eko è venuto ad avvisarci, è sbiancato, che per lui è una bella impresa.”
Bill si fa scappare una risatina che gli esce camuffata come l'ennesimo sbuffo, ma è comunque riconoscibile, tanto che anche Chakuza ride.
“Non ci ha pensato un secondo, ragazzino,” aggiunge poi più serio, con una scrollata di spalle. “E dopo tutto quello che ci hai combinato e abbiamo... perso, per pararti il culo, forse sarebbe il caso che ti ricredessi, non ti sembra?”
A quel punto la guardia ne ha avuto abbastanza e si incammina verso di lui, costringendolo a recuperare il suo carrello senza poter aggiungere altro.
Bill è contento così perché sa di poter dire le parole che ha in gola una volta sola, e non sarà qui.

*

Jost è incazzato come una bestia.
Non che Bushido si aspettasse di trovarlo pacifico e pronto al dialogo, ma quando la guardia lo fa entrare nell'ufficio del direttore, lui ha appena finito di sbattere il telefono contro il muro dall'altra parte della stanza e quello, naturalmente, si è fracassato in tre pezzi.
“Sai che l'infarto è una delle più comuni cause di mortalità tra gli uomini della tua età, specialmente quelli che fanno un lavoro di merda come il tuo?” Commenta, mettendosi obbediente al suo posto, con le mani bene in vista davanti a sé.
“Stai zitto!” Urla Jost, senza che per altro Bushido sia colpito dalla violenza con la quale lo fa. “Abbi la decenza di tacere, almeno.”
Bushido chiude la bocca, ma con l'aria di uno che ti accontenta. Jost questa cosa di lui non la sopporta, come non sopporta tante altre cose, ma questa più delle altre perché Bushido non dovrebbe accontentare nessuno. Lui dovrebbe eseguire gli ordini perché è un detenuto. E i detenuti fanno questo, ma lui ovviamente si sente al di sopra di tutto. Ce lo ha scritto in faccia e alle volte Jost ha davvero una gran voglia di prenderlo a pugni finché non si stanca.
Alla fine si ricorda che non può e si ricorda anche che, fra tutte le cose che non può permettersi di fare, mostrarsi così vulnerabile è proprio l'ultima, pertanto emette un sospiro e lo guarda duramente. “Quello che è successo oggi è inammissibile,” inizia. “Da chiunque e da te più di chiunque altro.”
“Non mi sembrava di essere un detenuto speciale. “
“Ti sembra eccome, Ferchichi,” continua Jost. “Ti sembra eccome. Io garantisco per te per farti dare la condizionale e tu mi mandi d'urgenza tre uomini in ospedale?”
Bushido, in realtà, non ha mandato all'ospedale proprio nessuno. E' entrato in quel bagno, ha rotto il naso a uno dei tre e ha lasciato che i suoi si occupassero del resto mentre recuperava le quattro ossa di Bill per portarlo in infermeria. Jost lo ha fatto chiamare solo perché sa che Chakuza e gli altri ragazzi non si muovono senza che lui lo abbia ordinato.
“Chiamiamoli danni collaterali. Mi hanno attaccato, mi sono difeso.”
“Li hai quasi ammazzati.”
Bushido non fa una piega. “Quasi,” dice soltanto. “Si vede che sono scivolati e hanno battuto la testa nel modo sbagliato. Succede.”
“Piantala con le cazzate!” Sbraita David. “Con questa bravata hai messo a rischio la libertà vigilata! Non posso coprirti in eterno.”
Bushido fa qualche passo irritato verso la scrivania. “Vuoi parlare di cazzate, David?” Ringhia, a voce abbastanza alta da stabilire quanto sia incazzato ma non abbastanza da richiamare l'attenzione della guardia fuori. Jost si fa indietro per affrontarlo, ma senza paura. “Parliamo di cazzate! Pensi davvero che se mi sono mosso dalla mia cella per prendere a calci nel culo tre stronzi lo abbia fatto per divertirmi e rischiare di perdere tutto quello per cui ho lavorato finora? Te lo dico io, Jost, no. Li ho fatti pestare perché stavano per violentare il tuo fottuto ragazzino. “
“Avresti potuto chiamare le guardie.”
“Vuoi sapere la cosa divertente, Jost? Le ho avvertite le tue stramaledette guardie. Eko ha avvisato loro prima di me ma si vede che quelle sono sorde perché sono arrivate mezz'ora dopo. Se la prendono comoda i tuoi uomini, eh? Tanto c'è tempo. D'altronde che cazzo vuoi aspettarti da gente che sa benissimo quali zone è meglio non perlustrare se non si hanno né le palle né la voglia di intervenire!”
David si appoggia allo schienale della sedia e per un attimo guarda altrove. Fosse un qualsiasi altro detenuto, replicherebbe e magari negherebbe anche, ma con Anis Ferchichi no. Se fra loro c'è il rapporto che c'è – per quanto sbagliato possa essere – è anche e soprattutto perché non si sono mai detti cazzate a vicenda. Certo, Ferchichi ne spara di grosse ma non con la volontà di fargliele anche bere, e David non gli mente, nel bene e nel male. Pertanto annuisce, prendendo atto della pigrizia di guardie carcerarie che può permettersi di punire fino ad un certo punto.
C'è uno strano equilibro nelle carceri, fra gli occhi che si possono chiudere e i reati che non si possono commettere e mantenere la bilancia perfettamente in pari è il compito più difficile di tutti. Guarda caso il suo. “Chi è stato?”
“Sido, è stato,” sbuffa Bushido, mentre la rabbia lo abbandona come fosse bastato urlare per liberarsene. Torna anche al suo posto. “Non ti è arrivato l'ultimo numero del gazzettino ufficiale?”
“Siete sul piede di guerra, lo so,” replica Jost infastidito. Conoscere lo status quo della prigione è un fattore importante per mantenere tutto sotto controllo.
Bushido scuote la testa. “No, lui è sul piede di guerra,” precisa. “Io sto cercando di tenerlo buono.”
“Pestando a sangue tre dei suoi?”
“Ha iniziato lui.”
David annuisce ironicamente. “E questo non ha niente a che vedere con l'allontanamento di Fler?” Butta lì, come se fosse una cosa da nulla.
Bushido lo fulmina con lo sguardo. “No.”
David lo fissa dritto negli occhi per minuti interi e poi sorride. “Diciamo che faccio finta di crederti perché ne ho piene le palle di tutti e due,” commenta, recuperando qualche foglio e iniziando a scriverci sopra come se volesse in questo modo annunciare la fine della discussione. “Tu pensa a stargli lontano anche quando uscirà dalla buca. Spiegherò alla commissione la tua posizione, farò leva sul fatto che il tuo spirito comunitario è più spiccato di quello degli scagnozzi di Sido. E speriamo che questo faccia ombra sul fatto che è l'ennesima storia di droga.”
“Ti aiuterà il fatto che né te né la commissione avete prove a riguardo.”
“Le prove si trovano.”
Bushido ride. “Auguri, allora.”
Jost chiama la guardia e lo fa portare via senza abbassarsi a rispondergli ancora e a Bushido sta bene così. Sa che per un po' almeno le acque si calmeranno e lui potrà sistemare il macello che si è andato a creare, come al solito. Esce dalla stanza con la flemma di chi non ha nessuna fretta né di raggiungere qualche altro posto né di liberarti della sua presenza perché sa che ti dà fastidio e si lascia ricondurre docilmente nella cella che ancora vuota. Bill dev'essere ancora in infermeria.
Non si preoccupa però, Chakuza è lì a controllare e se fosse successo qualcosa, Bushido lo saprebbe già, pertanto si issa sul suo letto e si distende con uno sbuffo stanco, coprendosi gli occhi con un avambraccio.
E' così che Bill lo trova, quasi quaranta minuti dopo, quando faticosamente riesce a tornare in cella, con l'aiuto della guardia che è costretta a sostenerlo perché la schiena gli fa ancora male.
Rimane per un po' al centro della stanza, i rumori della prigione vanno affievolendosi, è quasi ora che spengano le luci, ormai.
“Sei tornato,” dice Bushido, senza cambiare posizione.
Bill annuisce e stringe i pugni lunghi fianchi, per darsi coraggio stavolta, ma le parole fanno tutto da sole. Escono più facilmente di quanto sperava, forse perché sono davvero sincere. “Grazie per oggi,” mormora.
Bushido gli fa solo un cenno. Non c'è bisogno di dire altro.

*

La vita nella prigione diventa più facile. Non che le pareti si colorino di rosa e i detenuti comincino a cantare in rima spargendo ovunque amore e gioia, ma almeno non tentano più di ammazzarlo, scoparselo o fare le due cose insieme e, per quanto lo riguarda, a Bill sta bene così. Naturalmente questo succede perché lui ha deciso di accettare la protezione di Bushido – il che significa che ovunque vada uno dei suoi uomini lo tiene d'occhio, in ogni momento della giornata – e quindi nessuno che abbia un cervello si azzarda anche solo ad annusarlo da lontano. Dopo la schiena a pezzi, i punti di sutura e una dose di legnate che in confronto quelle di suo padre erano carezze, Bill comincia quasi ad abituarsi e ad apprezzare la possibilità di farsi una passeggiata nel cortile senza rischiare la vita. Ad aiutare questo processo c'è anche il fatto che Bushido non gli fa mai pesare il fatto che glielo avesse detto. Non nomina mai quello che è successo in passato, non ne fa nemmeno un accenno. Dopo l'aggressione per volontà di Sido – che, intanto, pare non si sia ravveduto quando Jost glielo ha chiesto la prima volta dopo tre giorni e che, per questo, sia ancora chiuso in buca con nessuna prospettiva di uscirne tanto presto – Bushido ha ricominciato da zero, con lui e lo ha perfino trascinato via da quel buco di merda della libreria per farlo trasferire nelle cucine con i suoi ragazzi, adesso che può farlo senza rischiare niente.
Bill davvero non sa come possa ottenere sempre tutto quello che vuole con Jost. Lui e il direttore della prigione hanno parlato una volta soltanto, quando lui è entrato, e non è che si siano detti grandi cose.
Più che altro Jost ha tentato di avvisarlo che sarebbe stato un inferno, solo che non l'ha fatto un granché bene, perché è evidente che non ha proprio un'idea chiara di quello che succede là dentro, della droga che gira, della gente che sparisce le ore per poi tornare più sfatta di prima. Bill vuole credere che non lo sappia, anche se in fondo è consapevole che è così, perché se solo pensa che sia a conoscenza di tutto, ricomincia ad aver paura delle cose orribili che si nascondono dietro l'angolo e non ne ha proprio voglia; non ora che la tensione si è allentata al punto che arriva perfino a scherzare con gli altri, ogni tanto.
L'unica cosa che Bushido gli ha davvero ordinato di fare è andare alle sedute di recupero per la sua dipendenza. Non è che Bill abbia fatto i salti di gioia – lui non è certo il tipo che si alza in piedi e racconta i cazzi suoi ad un cerchio di altri disperati che si sono ridotti a sniffare qualunque cosa pur di dimenticarsi in che mondo vivono – ma questa al tunisino gliela doveva, anche solo perché grazie a lui cammina ancora. Lui è contento, il tipo che gestisce le sedute pure e tutti dicono che funzionerà. A Bill sembra che funzionerà perché non c'è più nessuno che gli venderebbe la roba ormai, ma che sia per un motivo o per l'altro va bene uguale, a lui conviene non avere più crisi. Non vuole trovarsi a strisciare ai piedi di qualcuno peggiore di Sido. Se qualcuno del genere c'è.
Insomma, per essere uno che i primi mesi li ha passati in infermeria, con l'unica speranza che, una volta uscito, non ce lo rimandassero troppo presto, la sua vita è sensibilmente migliorata e questo significa che, oltre ai doveri – fin troppi – ha anche un certo numero di piaceri che ora può godersi senza dover sempre pensare a quanto fa schifo la sua vita in generale. Anche perché, a ben pensarci, per come stanno le cose adesso, faceva ben più schifo fuori.
Qui dentro ha un letto, il riscaldamento e mangia tre volte al giorno, se si escludono le docce in comune e qualche detenuto che dovrebbe imparare ad usarle, giusto per non rischiare di ammazzarli tutti, sta quasi pensando che alla fine di questi dodici anni che gli restano da passare in cella, potrebbe mordere un altro paio di uccelli e prolungare il soggiorno. Ha cominciato a scherzare, appunto.
Ora che scandisce il suo tempo con le cose che ha da fare, è anche più facile farlo passare. Qualcuno gli ha detto che così è anche più facile rendersi conto di quanto ne passa, ma lui ha scrollato le spalle e come al solito è andato per la sua strada.
Bill ha il risveglio difficile, nel senso che potesse dormirebbe per metà della giornata e passerebbe l'altra metà a svegliarsi buttato su una sedia a caso, ma non può farlo naturalmente; per questo Bushido, fra le tante responsabilità, si è accollato anche quella di afferrarlo per l'orlo dei pantaloni e tirarlo giù dal letto, tutte le mattine alle sette precise, quando le luci si accendono. All'inizio è stato traumatico – leggi molto irritante – ma alla fine si è abituato e da qualche giorno a questa parte, riesce perfino a prevedere quando la sua mano si allungherà verso di lui e si scosta prima, saltando giù per conto suo.
Il lunedì non è diverso dalla domenica dentro una prigione, ma per chissà quale automatismo mentale sono tutti quanti più scorbutici. Loro delle cucine devono sistemare le scorte, ne arrivano di nuove ogni inizio settimana. Bill pensava che ci fosse qualcuno – chi, gli gnomi? Lo ha preso in giro Saad – che lo faceva per loro, perché non si intascassero qualcosa, ma poi ha scoperto che tutto il cibo arriva in grossi bidoni pesanti che per aprirli devi comunque portarli in cucina, aprirli e poi rimettere a posto. Quindi se proprio ti fotti qualcosa, hai comunque prima fatto il tuo dovere.
Il mercoledì, Eko lo ha convinto ad andare in palestra, anche se poi lui non solleva nemmeno un chilo e a Bill fare pesi non interessa, così finisce che si siedono sulla panca e Bill gli fa duemila domande su Bushido e sulla banda, cercando di dare un senso al groviglio sconclusionato di parole che è il linguaggio di quell'uomo.
Il venerdì ha le sedute di recupero, il che significa che deve recarsi in questa saletta adiacente l'infermeria, sedersi sulla sua piccola sedia di legno e stare a sentire gli altri che si pentono e si dolgono di aver fatto uso di droga, alcuni trovano anche la faccia tosta di assicurare ai presenti che senza si sta meglio. Sì, forse. A Bill non importa granché ma è molto bravo a fingere il contrario. Lui non ha ancora parlato. Il medico o quello che è che presiede le sedute gli ha chiesto un paio di volte come stava, lui ha risposto bene e poi sono stati a guardarsi negli occhi per cinque minuti annuendo. Ha ancora molta strada da fare, pare.
Il resto del tempo in cui non lavora, non finge di allenarsi in palestra e non si oppone ostinatamente all'auto analisi, lo passa con Bushido. Bill lo segue letteralmente passo passo ovunque vada.
Adesso che hanno sistemato la questione della protezione, quell'uomo lo incuriosisce. Si chiede che cosa lo abbia spinto a continuare a difenderlo nonostante tutto. Bill è perfettamente consapevole che la libertà vigilata di Bushido è legata al suo comportamento, ma sa anche che la possibilità di un privilegio così grande si perde anche solo per la metà delle cose che Bushido ha combinato per parare il culo a lui. Ad un certo punto avrebbe anche potuto andare da Jost, visto che sembrano tanto in confidenza, e fargli presente che Bill non era affare suo e invece non lo ha fatto.
In questi giorni lo ha osservato attentamente mentre parlava con i suoi ragazzi o tentava un dialogo con i suoi nemici che invece gli hanno riso in faccia. Bill era lì di fianco e nessuno gli ha posato gli occhi addosso, hanno fissato solo Bushido fintanto che ha parlato.
A quanto gli è sembrato di capire Bushido sta lavorando da tempo nel tentativo di trovare un accordo con Sido, una specie di tregua. Ci stava provando già prima che arrivasse lui ma con scarsi risultati e ora, con Sido chiuso in buca, è ancora peggio perché i suoi uomini gli si sono chiusi intorno e se hanno un qualche sentimento nei confronti della situazione è di odio profondo. Detestano Bushido e lo vorrebbero morto, così quando si presenta nelle loro celle accompagnato da Bill, è già tanto se lo fanno parlare. Bushido però non molla, così come non ha mollato con lui.
“Si può sapere chi te lo fa fare?” Chiede Bill mentre lasciano la cella di Tony D.
“Fare cosa?”
“Questo sforzo assurdo. Cerchi di entrare nella testa della gente anche se quella ha chiaramente il piombo fuso nel cervello. Insomma, guardali!” Bill accenna agli uomini di Sido che, alle loro spalle, ancora ridono di gusto. “Come puoi pensare che capiranno mai qualcosa?”
Le labbra di Bushido s'increspano in un sorriso appena accennato che Bill riesce a vedere solo perché lo sta fissando anche se lui non lo guarda. “Vuoi dire che dovrei lasciar perdere chi si ostina a ripetermi continuamente no?”
Bill alza gli occhi al cielo mentre lo segue nei bagni. “Questa è una situazione diversa,” precisa.
“No, non lo è.” Bushido si slaccia i polsini della camicia e li tira un po' su, quindi si toglie l'orologio e glielo passa prima di accingersi a lavarsi le mani. “Sono solo incredibilmente testardi perché credono che accettare una tregua sia segno di debolezza. Quello che non capiscono, perché sono così pieni di loro stessi da non vedere nient'altro, è che se smettessimo di farci la guerra potremmo ottenere molto di più qua dentro.”
“Tipo?” Chiede Bill, rigirandosi il grosso orologio da uomo tra le dita magrissime.
“Più sicurezza, più libertà, la fiducia di Jost,” elenca Bushido. “Se vedesse che non ci ammazziamo per un posto in mensa, forse sarebbe più ben disposto ad organizzare attività di cui finora non ha nemmeno voluto sentir parlare. Ha paura di quello che potrebbe succedere da un momento all'altro e non gli si può dare torto quando i detenuti non fanno che aggredirsi gli uni con gli altri.”
“Com'è che tu e Jost andate così d'accordo?”
Bushido scrolla le mani nel lavandino e le asciuga sui pantaloni. “Che cos'è, stamattina, la giornata delle domande?” Esclama ridendo e riprendendosi l'orologio. “Non dovresti essere da qualche altra parte?”
“Sfortunatamente per te no,” replica Bill, che è costretto ad asciugarsi le mani anche lui dopo che Bushido le ha sfiorate con le sue. “Allora?”
“Allora cosa?”
“Tu e Jost vi conoscevate?”
Bushido espira dal naso. “Lo sai, ragazzino, non vado molto d'accordo con gli interrogatori,” gli fa notare mentre si avviano insieme fuori dai bagni e di nuovo in direzione delle celle.
“Non è un interrogatorio, sto facendo conversazione.”
“Allora non ti dispiacerà se ti faccio io qualche domanda.”
Bill ha passato troppo tempo per strada a dubitare di chiunque gli si avvicinasse, nascondendo per questo ogni tipo di informazione personale, per essere entusiasta di quella prospettiva, perciò si irrigidisce un po'; ma trova comunque la faccia tosta di stringersi nelle spalle. “Che cosa vuoi sapere?” Chiede.
Si incamminano lungo il corridoio che porta alle celle. Apparentemente hanno un sacco di libertà, ma i percorsi sono segnati, non ci sono molte alternative. “Quello che ti è venuto a trovare è tuo fratello?” Chiede Bushido.
“Cosa fai, mi spii adesso?” Chiede Bill, lanciandogli un mezzo sorriso storto e nervoso, più che altro per prendere tempo.
“Con te non si sa mai,” scherza Bushido. “Comunque mi trovavo a passare da quelle parti. E, anche se non rispondi... siete due gocce d'acqua.”
“Tom ed io siamo gemelli,” sospira Bill.
“Ma non mi dire,” Bushido ride di cuore. Una cosa che prima faceva spesso, a quanto dice Eko, ma che Bill non gli aveva mai visto fare. E' un po' assurdo che rida proprio parlando di suo fratello che, per lui, è tutto tranne che un argomento di cui ridere. “E anche lui fa la tua stessa vita?”
Bill scuote la testa. “No, lui è il gemello buono.”
Per un po' smettono di discutere perché Bushido deve fermarsi a parlare con un paio di persone e Bill resta lì al suo fianco, in silenzio. Potrebbe allontanarsi per evitare definitivamente l'argomento, e accarezza l'idea di farlo, ma poi si rende conto che potrebbe andare in ben pochi posti e che alla sera Bushido lo inchioderebbe di nuovo, quindi tanto vale restare. O forse gli piace stare lì a guardarlo mentre ha a che fare con gli altri detenuti, il modo un po' impostato ed eccessivo con cui si presenta, la posa che assume – molto rilassata eppure autoritaria – Bill non ha idea di come ci riesca, ma sembra che per lui i muri della prigione non esistono. Da come si muove ti dà l'idea che una volta finito di chiacchierare potrebbe continuare a camminare oltre il corridoio, superare la cancellata e uscire all'aria aperta. Così, come niente.
“E il resto della tua famiglia?” Quando Bushido riprende il discorso, sono nella sala comune e lui era perso nei suoi pensieri. “Tuo padre e tua madre?”
Bill si stringe nelle spalle. “Ci hanno guardati e dopo un'attenta analisi hanno deciso che lui era più conveniente.”
“Vuoi dire che tu eri troppo problematico?”
“Troppo frocio,” precisa subito Bill, con un'asprezza nella voce che non nasconde niente dell'odio che prova.
Bushido annuisce come se quel breve scambio di frasi fosse stato sufficiente a fargli inquadrare l'intero problema. Si trattasse di qualunque altra persona, Bill ne dubiterebbe fortemente ma, trattandosi di Bushido, gli concede il beneficio del dubbio.
“Quindi tuo padre non accetta il tuo stile di vita.”
A Bill scappa da ridere. “Sì, è un modo come un altro di dirlo.”
Bushido gli lancia uno sguardo interrogativo, forse il primo da quando si conoscono. Bill sbuffa un'altra risata, una amara però. “Quando mio padre lo ha saputo mi ha preso subito a cinghiate per evitare che il Signore lo ritenesse responsabile, immagino. Dopodiché mi ha spedito da un prete e da un medico e quando il primo non mi ha esorcizzato come sperava e il secondo gli ha confermato che non era una malattia, mi ha preso a cinghiate di nuovo, perché secondo lui non se ne danno mai abbastanza di cinghiate a chi ama prenderlo nel culo, che è tutto ciò che ha capito lui quando gliel'ho detto.”
“E tua madre?”
Gli occhi di Bill si fanno più scuri, come se fosse più difficile per lui parlare con tanta leggerezza della madre. “Mia madre è rimasta in silenzio, come suppongo ci si aspettasse da lei,” sospira. “Mio fratello mi ha difeso per un po', ma casa mia non era più vivibile e così me ne sono andato. D'altronde gli rimaneva sempre un figlio con cui consolarsi.”
“Non li senti mai? Neanche adesso?”
“Non credo che sappiano che sono qui. L'ultima volta che ho visto mio padre è stato quando me ne sono andato. Mia madre ha continuato a volermi incontrare per qualche mese, cercando di convincermi a perdere le cattive abitudini. Poi si è stancata anche lei,” Bill si stringe nelle spalle. “Immagino fosse più facile fingere che ero morto piuttosto che sapermi per strada, non so.”
“Tuo fratello deve volerti molto bene,” commenta Bushido, mentre raggiungono la cella. Sistema alcuni articoli da bagno che gli sono arrivati per posta sulla mensolina sotto allo specchio. “E' lui che ti porta i soldi?”
Bill annuisce. “Non dovrebbe, ma è impossibile farlo smettere.”
“Ha la testa dura come suo fratello,” sorride Bushido. Davanti allo specchio si schiaffeggia piano la faccia, come fa di solito. Bill non ha capito se è per ridare tono al viso o per svegliarsi, anche se propende per la seconda visto che Bushido non sembra il tipo da maschere facciali. “Sei fortunato ad avere qualcuno che sta dalla tua parte. Quando sei nella merda fino al collo, anche una persona sola fa la differenza.”
Bill lo osserva con attenzione, non perde nemmeno il più piccolo dei movimenti. Quand'era più piccolo non era così bravo a notare i dettagli, ma col tempo le cose sono cambiate; ha dovuto imparare a riconoscere le situazioni dalle prime avvisaglie, in modo da potersi difendere. E ora scruta Bushido mentre si aggira per la cella e rifà il proprio letto in maniera metodica e veloce, la maniera di uno che abituato a fare gli stessi gesti da un sacco di tempo. “Per te chi c'era?”
“Chi ti dice che c'era qualcuno?” Chiede l'uomo, allungandosi a stendere bene il lenzuolo.
Bill si è seduto per terra e scrolla le spalle. “Hai l'aria di uno che aveva qualcuno dalla sua parte.”
Bushido non si volta, ma sorride. “Era mia madre,” risponde Bushido e Bill resta stupito perché in realtà non si aspettava che l'uomo rispondesse. “Mi ha sempre difeso, anche quando non me lo meritavo perché mio padre se lo meritava sempre meno di me.”
“Non andavate d'accordo?”
Bushido solleva una spalla. “Quand'era sobrio andava quasi tutto bene. Ma non lo era mai,” spiega con un sospiro. La sua voce ha il tono rassegnato di chi una situazione l'ha già vissuta ad ogni livello e, quale che sia, vi ha già trovato una soluzione. Mentre a Bill fa ancora male sapere che a casa sua non si può più fare il suo nome, Bushido sta solo raccontando un fatto come un altro che casualmente è successo a lui come poteva succedere a chiunque. “Picchiava mia madre ogni volta che poteva e picchiava me ogni volta che cercavo di difenderla. Ho sopportato finché non ha messo le mani su mio fratello, allora non ci ho visto più. Quella è stata la prima volta che sono finito in galera.”
“Lo hai ucciso?”
Bushido scuote la testa. “No, ma lui mi ha fatto arrestare per aggressione perché gli ho rotto il naso. Mi sono fatto sei mesi di riformatorio,” spiega. “Quando sono tornato a casa, però, lui non c'era. Mia madre lo aveva buttato fuori a calci.”
Bill annuisce e basta, perché non sa che cos'altro dire.
A quanto pare lui e Bushido non sono poi così tanto diversi.
Quando Chakuza compare sulla porta della cella ad avvertire Bushido che è ora di occuparsi della cucina, Bill si chiede cosa sarebbe cambiato nella sua vita se tornando dall'ospedale quel giorno, a sparire di casa fosse stato suo padre e non lui.
Poi scuote la testa e si affretta dietro Bushido quando lui lo chiama.

*

Decide di farlo quella notte. Non che ci abbia davvero pensato, in realtà, non l’ha certo programmato o pianificato, ma è qualcosa di cui il suo corpo sente un intenso bisogno, prima ancora della sua mente. Non può che immaginare che si tratti di un residuo di quando ancora viveva a casa sua, dove niente lo aiutava a capire di fronte a chi si trovasse più delle reazioni fisiche che aveva in sua presenza. Il modo in cui suo padre lo guardava, come se neanche riuscisse a reggere la sua vista tale era il disgusto che la sua persona gli suscitava, il modo in cui sua madre distoglieva dolorosamente lo sguardo trincerandosi dietro un muro di scuse e di falsa impotenza, il modo in cui invece Tom non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di cercarlo con gli occhi, e con le braccia, ed a volte, nei momenti più duri, perfino con le labbra, quando sfiorava in un bacio infantile ma spaventosamente confortante qualche livido particolarmente vistoso su uno zigomo, o sull’angolo delle sue labbra.
Questa è probabilmente l’unica cosa che Bill ricorderà per sempre, di casa propria. E si tratta di un insegnamento che ha sempre seguito con scrupolosa attenzione.
Ed è per questo che quella notte scivola fuori dal proprio letto. Perché dopo le settimane che ha passato ad osservarlo, a seguirlo ovunque, a seguire perfino i suoi ordini fingendo che si trattasse di consigli per mandarli giù con meno difficoltà, c’è ancora qualcosa che vuole chiedere a Bushido, una domanda senza voce della cui risposta sente di avere bisogno più di qualsiasi altra cosa Bushido gli abbia mai detto, o dimostrato, o fatto capire a parole.
È un’azione che gli serve. Gli occhi che sfuggono o che restano incollati. Le mani che si avvicinano o si nascondono. I tocchi che si fanno curiosi o si ritraggono. Di questo ha bisogno. E dopo sarà facile, sì, sarà molto più facile capire il perché di molte cose. Perfino capire di più Bushido stesso.
La prigione è naturalmente avvolta nel buio più totale. Bill è rimasto sveglio tutto il tempo, per controllare gli agenti di custodia. L’ultimo è passato con la torcia una ventina di minuti fa, ed era il quarto. Ciò vuol dire che sono ormai quasi le cinque del mattino, fra un paio d’ore le celle verranno aperte e le luci riaccese, e nel frattempo nessun altro secondino dovrebbe passare a spiarli.
Bushido sembra dormire serenamente, il viso rivolto verso il muro. Le sue spalle si sollevano e si riabbassano lentamente, seguendo il ritmo placido del suo respiro, e Bill ne segue la linea con attenzione, rendendosi conto per la prima volta in quel momento di quanto in realtà sia quelle che tutto il resto del corpo di Bushido sia sottile. È strabiliante che, pur magro com’è, riesca a farsi rispettare da tutta quella gente. Se non lo conoscesse almeno un po’, se non sapesse che non è certo a causa della forza fisica di Bushido che tutti chinano il capo ad ogni suo ordine, non riuscirebbe neanche a crederci.
Gli viene perfino da sorridere, nel pensarlo, ma quando si accorge della piega che hanno preso le sue labbra – e i suoi pensieri – si affretta a scuotere il capo, liberandosi di quel fardello di melensaggini gratuite. Non è un ragazzino, non è stupido, e soprattutto di Bushido non gliene frega niente. Non in questo senso, almeno, e decisamente non prima di averlo sottoposto a quest’ultimo test.
Pianta le mani sul materasso e si issa senza difficoltà sul letto di Bushido, sedendosi sulla sponda per poi distendersi un attimo dopo, raggomitolandosi contro la schiena dell’uomo e strusciando il viso in mezzo alle sue scapole come un gattino in cerca di coccole, lasciandosi perfino sfuggire un mugolio minuscolo, giusto per attirare la sua attenzione e dargli una mano a svegliarsi, nel caso la sua improvvisa presenza da sola non sia riuscita nell’intento.
Bushido si sveglia – Bill lo sente nel ritmo del suo respiro, che cambia all’istante – ma non si agita. Sembra quasi che se l’aspettasse, anche se, in realtà, con Bushido non si può mai dire. Non ha quasi mai reazioni talmente improvvise o violente da far supporre che non immaginasse già che qualcosa dovesse prima o poi avvenire.
- Che cazzo stai facendo, ragazzino? – domanda, e infatti la sua voce è perfettamente tranquilla, perfino rilassata. Anche troppo.
Bill, comunque, sorride, allungando una mano a scivolare lungo il suo fianco, e poi avvolgendogli un braccio attorno alla vita.
- Non riuscivo a dormire, - risponde a bassa voce, lasciandogli baci lievissimi lungo la spina dorsale attraverso il tessuto di cotone sottile della canottiera che l’uomo indossa, - e perciò ho pensato di venire a farti una visitina. Magari potevi darmi una mano, - suggerisce, - o magari… - aggiunge con un altro sorrisino, la mano che scivola giù fra le gambe di Bushido, - potevo darla io a te.
Bushido non fa niente per fermarlo, e Bill non si accorge neanche di quanto questo dovrebbe deluderlo. Si è messo in questa situazione proprio perché voleva provare qualcosa a Bushido e a se stesso, d’altronde, perché voleva dimostrare che anche lui non è poi diverso da tutti gli altri uomini di quella prigione, perfino da tutti gli uomini che si sono avvicendati dentro e contro di lui per strada, e non stanno forse i fatti dimostrando che ha ragione? E non dovrebbe forse questo rattristarlo, o deluderlo, o perfino farlo arrabbiare, invece di costringerlo a sorridere stupidamente solo perché quest’uomo lo sta sostanzialmente lasciando fare?
Bushido lascia che la sua mano scivoli oltre l’elastico dei suoi pantaloni e lo stuzzichi lievemente attraverso i boxer. Si volta verso di lui, però, quando le dita di Bill superano anche quell’ultima barriera di tessuto, sfiorandolo leggermente. Non gli lascia il tempo di stringerlo, e nemmeno di accorgersi che i suoi tocchi non hanno davvero avuto su di lui l’effetto che Bill immagina abbiano avuto.
Bill allarga le braccia, accogliendolo contro il suo corpo, e non si accorge nemmeno che qualcosa non va, che Bushido non sta rispondendo come lui pensava che avrebbe risposto, come avrebbe dovuto rispondere.
Non se ne accorge finché non gli preme sulle labbra un bacio umido e gonfio di desiderio che non pensava nemmeno di stare provando. E sente quelle stesse labbra chiuse, e piegate in un sorriso sarcastico.
- Sul serio, ragazzino? – domanda Bushido, e Bill può sentire il trillo di una risata fra l’incredulo e l’ironico nella sua voce resa un po’ roca dalle ore di sonno, - Ci hai appena provato sul serio?
Bill ringhia, ritraendosi come si fosse scottato. Si stringe nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e squadrando con fastidio l’espressione divertita di Bushido.
- Sei uno stronzo. – grugnisce, quasi tremando dalla rabbia e dalla vergogna. Bushido, per tutta risposta, ride.
- Ma davvero? – domanda, scuotendo il capo, - Forse, - ammette quindi, - ma tu sei ridicolo. Sentiamo, cos’è che pensavi, esattamente? – ridacchia ancora, - Che in fondo in fondo tutto quello che ho fatto l’ho fatto per il tuo bel culetto? O per la tua bella boccuccia? E sentiamo, - aggiunge in un’altra risata, sempre più divertita, - pensi davvero che, se fosse stato questo quello che volevo, non me lo sarei già preso? Con le buone o con le cattive?
Bill distoglie lo sguardo, stringendo i pugni.
- Chi se ne frega. – sbotta astioso, - Era solo una prova, comunque. Per cui, bravo, Bushido. L’hai superata. Non te ne frega un cazzo del mio corpo e non mi hai aiutato solo perché volevi scoparmi. Complimenti, sei il primo uomo onesto che incontro, peccato che tu sia in galera perché evidentemente la tua onestà è solo una stronzata di facciata. E vaffanculo. – cerca di concludere, voltandosi istantaneamente dall’altro lato per saltare giù dal letto, ma Bushido glielo impedisce, afferrandolo per un gomito e schiacciandoselo contro.
- Non puoi prendermi per il culo, ragazzino. – gli sussurra all’orecchio, - Una prova? Ma fammi il piacere. Questa non era una prova.
- Non so di cosa cazzo stai parlando. – soffia Bill, cercando di sfuggirgli, - Lasciami andare.
- Non prima di aver chiarito il punto. – insiste Bushido, stringendolo più forte. Bill si impedisce di gemere di dolore solo perché non intende in alcun modo dargliela vinta, non più di quanto non se la sia già presa lui da sé.
- Che sarebbe? – ribatte con supponenza, voltandosi a guardarlo da sopra una spalla, per quanto può. Bushido sta ancora sorridendo.
- Sarebbe che non ci sono vie d’uscita facili, nella vita, ragazzino. Mai. – risponde, - Qui dentro, poi. E men che meno con me. A me dici la verità, Bill. Anche quella che non vuoi dire a te stesso.
- Ti ripeto che non so di cosa cazzo stai parlando! – ringhia ancora Bill, riprendendo a dimenarsi per costringere Bushido a mollare la presa e ottenendo in cambio soltanto le sue dita che affondano con forza ancora maggiore nell’interno del suo gomito.
- Lo so io, allora. – dice Bushido, e sta ancora finendo di parlare quando la sua mano si posa ruvida fra le sue cosce, premendo appena, giusto per mettere in evidenza l’erezione svettante che gonfia il tessuto morbido dei suoi pantaloni. Bill si lascia sfuggire un gemito frustrato senza riuscire ad impedirselo per tempo, e subito dopo arrossisce così violentemente da farsi venire un capogiro. – Non dirmi che era solo una prova. – prosegue l’uomo, lasciandolo andare per poi quasi spingerlo giù dal letto. Bill atterra sui piedi, si piega appena per il dolore alla schiena e poi si volta a guardarlo. Bushido lo sta fissando con estrema serietà. Non ha bisogno di aggiungere “perché sappiamo entrambi che non lo era”.
- …tu sei solo un bastardo. – gli sibila contro, allontanandosi quasi di un passo. Bushido agita una mano come a scacciare via quelle idiozie, voltandosi nuovamente verso la parete.
A Bill non resta molto altro da fare che rintanarsi un’altra volta sotto le coperte. Molto più scomodamente di prima.

*

Bill non gli rivolge più la parola. Dal giorno dopo in poi, anzi, agisce quasi come se Bushido non esistesse davvero. Segue i suoi ordini in cucina solo perché non vuole problemi, e perché sa che ignorarlo anche in quel senso non avrebbe altra conseguenza che indurre Bushido a parlargli di più, fosse anche solo per rimproverarlo. Bill, invece, non ha alcuna voglia né intenzione di sentire ancora la sua voce, ed è per questo che fa in modo di rigare dritto quando sa che deve farlo, mentre per tutto il resto del tempo si limita a starsene sulle sue, le braccia incrociate sul petto e il broncio di uno che sia convinto di essere stato offeso in modo così plateale, palese e gratuito da non poter pensare nemmeno lontanamente alla possibilità di un perdono.
Il primo giorno, Bushido si limita a registrare la cosa sotto la categoria “stronzate da ragazzino capriccioso e infantile”, e non se ne preoccupa. Gli passerà, si dice, e anche se non gli passa, chi se ne frega? Purché stia lontano dai guai.
Il secondo giorno, la cosa comincia onestamente ad infastidirlo. Bill non risponde neanche ai più banali buongiorno e buonanotte, lo fissa come fosse un criminale – cosa che è, ma un tale livello di disgusto per la questione non dovrebbe certo rispecchiarsi negli occhi di Bill, dal momento che lui faceva la puttana – ed è generalmente indisponente quando non direttamente insopportabile.
Bushido sente lo scatto della serratura alle sue spalle quando le guardie spengono le luci augurando a loro modo la buonanotte ai carcerati, e sospira profondamente, restando in piedi accanto al letto. Bill finge palesemente di dormire, quasi completamente nascosto sotto le coperte.
- Bill. – lo chiama a bassa voce, ma lui, naturalmente, non risponde. – Bill! – ripete dunque, e Bill sbuffa rumorosamente, scattando a sedere e voltandosi a guardarlo.
- Cosa cazzo vuoi?! – sibila, onestamente dispiaciuto dal non potere urlargli in faccia come vorrebbe.
Bushido recupera la sedia di plastica accanto al tavolo e la trascina vicino al letto, sedendosi ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia, piegandosi appena per poter guardare Bill più da vicino.
- Parlare. – risponde. Bill soffia, distogliendo lo sguardo.
- Io no. – ribatte secco. Bushido sospira un’altra volta, scuotendo il capo.
- Bill, non so cosa cazzo ti sia successo nella testa, ma qualsiasi cosa sia è un gran casino e ti tocca ripulirla. – dice quindi, - Credimi, posso capire per quale motivo tu possa esserti—
- Ma stai zitto! – lo interrompe Bill, voltandosi nuovamente a guardarlo con aria perfino incredula, - Ma sei un coglione o cosa?! Punto primo, qualsiasi cosa tu pensi di aver capito di me è sbagliata, questo posso dirtelo con sicurezza. Punto secondo, ti ho già detto che non voglio parlare, e potresti quantomeno fare finta di voler rispettare questo mio desiderio. E punto terzo, - i suoi occhi diventano sottili come quelli di un gatto, e ugualmente gelidi e distanti, - puoi comandare dentro questa prigione, Bushido, puoi comandare le mie azioni mentre lavoro, puoi perfino dirmi di stare zitto o levarmi dalle palle se non mi vuoi intorno, ma non puoi, Bushido, non puoi controllare quello che c’è nella mia testa. Per cui, piantala di ordinarmi di ripulire cose di cui non sai un cazzo, e vattene a dormire. Questa conversazione è finita. – conclude, tornando a distendersi sotto le coperte, fino a nascondersi quasi completamente.
Bushido ringhia fra sé, infastidito e frustrato. Non c’è proprio modo, si dice, di far funzionare le cose con questo ragazzino. E non riesce a capire perché non riesca a stargli bene anche così. Non è un uomo stupido, è sempre stato in grado di riconoscere una causa persa, ogni volta che se n’è trovata una davanti, ed è sempre stato abbastanza furbo da capire quando gli conveniva insistere su qualcosa, per quanto senza speranza potesse apparire, e quando invece fosse molto più utile girare i tacchi e scappare a gambe levate. Bill, decisamente, è qualcosa dalla quale dovrebbe scappare, anche perché ormai all’udienza per la libertà vigilata manca davvero pochissimo, ed a tutto dovrebbe pensare meno che a sistemare i rapporti con un ragazzino che, nel giro di un paio di settimane, se tutto va come pensa, non rivedrà mai più, ma semplicemente non riesce. Forse per ostinazione, forse per chissà quale altro motivo.
Ne parla con Saad, all’alba del terzo giorno di musi lunghi e occhiate al vetriolo. Lui lo fissa con una certa pietà, sospira e gli chiede “stai scherzando?”, e Bushido non saprebbe spiegare esattamente il perché di una reazione simile, perciò aggrotta le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Che cosa intendi dire? – borbotta contrariato, e Saad scuote il capo.
- Intendo dire che chi se ne frega, Bushido! – sbotta, - E in ogni caso, devi essere cieco, per non accorgertene. Ma poi fai sempre così, attorto a te succedono le cose più disparate, ma tu figurati se le noti. Ti ho detto mesi fa che credevo che Sido avesse in mente qualche stronzata delle tue, ma tu non mi hai creduto finché non hai visto coi tuoi occhi di che cosa stavo parlando! E anche stavolta è uguale, cose assolutamente palesi succedono tutte intorno a te e tu niente. È surreale come tu possa essere ancora vivo e soprattutto a capo di una qualsiasi banda.
- Saad, - grugnisce lui, - stai andando in cerca di rissa o cosa?
L’uomo si lascia sfuggire un mugolio esasperato, passandosi una mano sul volto.
- No, dico, - comincia, - esattamente, cos’è che ti aspettavi? Che non ti si appiccicasse al culo come una cozza? Quello come minimo il gesto più gentile che si è mai visto rivolgere è stata una bastonata sul naso. E tu gli hai salvato la vita qualcosa come duecento volte! Le sappiamo ancora fare le addizioni o no?
Bushido lo guarda, gli occhi bene aperti, le labbra appena dischiuse.
- …tu credi, mh? – riflette, abbassando lo sguardo, pensieroso.
- Io credo? Quanto te n’è mai fregato di quello che credeva chiunque che non fosse te stesso? – sospira Saad, lanciando uno sguardo supplice al cielo. – Quello che so, Bushido, è che qualunque sia il problema lo devi risolvere, ma non nella testa del ragazzino, nella tua. – precisa, puntandogli un indice contro, - Perché tu fra due settimane sei fuori di qui e noi che restiamo indietro, per non parlare dei fratelli che aspettano fuori, abbiamo tutti bisogno di una guida. E tu la testa devi averla dov’è giusto che sia. Sono stato chiaro?
Bushido gli lancia un’occhiata vagamente indisposta, sbuffando piano.
- Mi sto rompendo il cazzo di tutto questo rimproverarmi a caso. – sbotta, - Piantiamola.
- Chi è che ti ha rimproverato, oltre me? – domanda Saad, inarcando un sopracciglio.
“Bill,” sta per rispondere Bushido, ma si ferma per tempo. Saad, però, il suo mestiere lo sa fare bene, e lo capisce comunque. Fortunatamente, si limita a un mezzo sorriso ironico, e non commenta.
Quando arriva di fronte alla porta del bagno, dopo essersi preso almeno un paio d’ore per starsi un po’ a sentire e chiedersi se davvero intende esporsi in questo modo, ci trova davanti Chakuza, appoggiato alla parete, che fa la guardia, come pensava. Bill è incredibilmente abitudinario, un po’ perché l’abitudine è una sicurezza per chiunque, un po’ perché essere sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro ti forza a fare più o meno sempre le stesse cose, più o meno sempre nello stesso modo, più o meno sempre allo stesso orario.
Chakuza spalanca gli occhi nell’accorgersi di lui, perché anche Bushido è un tipo abitudinario, ma contrariamente a Bill non lo si è mai visto fare una doccia a quest’ora del pomeriggio.
- Ohi. – lo saluta, sfilandosi il berretto per grattarsi confusamente la testa, - Com’è?
Bushido scrolla le spalle.
- È dentro, vero? – domanda, e Chakuza annuisce. – Fai in modo che non ci disturbi nessuno. – si raccomanda quindi, passandogli oltre con un asciugamano appoggiato sulla spalla. Chakuza lo osserva passare, incredulo, e quando Bushido si ferma, poco prima di oltrepassare il muricciolo che protegge le docce da sguardi indiscreti, quasi si paralizza sul posto. – Hai parlato con Fler, ultimamente? – domanda.
Chakuza abbassa istantaneamente lo sguardo.
- No. – risponde.
- Bene. – annuisce Bushido, cercando di ignorare la fastidiosa puntura di senso di colpa che percepisce da qualche parte fra lo stomaco e il cuore. Fosse anche solo per quello che ha fatto alla sua banda in generale e al suo rapporto con una delle persone che avesse di più care nel mondo nel particolare, non dovrebbe volere avere più niente a che fare con questo ragazzino. E invece dà le spalle a Chakuza, supera il muretto e si spoglia, entrando nella doccia accanto a quella che Bill sta usando ed aprendo l’acqua, armeggiando coi rubinetti per ottenere la temperatura che desidera prima di cominciare ad insaponarsi pigramente.
Per molti minuti non si sente altro che lo scosciare dell’acqua, e Bill riesce perfino ad illudersi che Bushido lo lascerà in pace, che magari sia entrato solo perché voleva farsi una doccia, non perché cercasse una scusa per parlargli. Ed invece, naturalmente, è così.
- Mi dispiace per quello che è successo. – dice. Bill si volta a guardarlo così di scatto che urta il sapone appoggiato sul muretto basso dietro di lui. Naturalmente, non si china a raccoglierlo.
- Cosa? – domanda, quasi senza fiato. Bushido si lascia sfuggire un sorriso vagamente intenerito, di fronte a tutta quella sorpresa.
- Cos’è, credevi che non fossi in grado di chiedere scusa a qualcuno quando mi rendo conto di essere nel torto? – lo prende in giro, inarcando un sopracciglio. Bill fa la stessa cosa, tornando a rilassarsi e sciacquarsi i capelli sotto la doccia.
- No, credevo proprio che non fossi in grado di renderti conto di quando avevi torto o meno. – risponde sarcastico, guardando altrove. Bushido ridacchia, scuotendo il capo.
- Sorpresa, dunque. – scrolla le spalle, e poi sospira. – Ascolta.
- Ho qualche speranza di risparmiarmi questa cosa? – chiede immediatamente Bill, lasciandosi sfuggire un mugolio già stanco, appoggiandosi alla parete.
- No. – ridacchia ancora Bushido, - Ora smettila di fare il bambino e stammi a sentire, prima che mi passi la voglia e ti mandi pesantemente a fanculo.
- Okay, okay… - sospira lui, stringendosi nelle spalle. – Parla.
Bushido finisce di sciacquarsi prendendosi tutto il tempo necessario per farlo, e solo dopo chiude i rubinetti e si volta verso Bill, appoggiandosi al muricciolo che separa le due cabine della doccia.
- Ragazzino, - sospira, concedendosi un breve sorriso rassicurante, - io ho trent’anni. – Bill inarca un sopracciglio, ed è lì lì per chiedergli “e allora?”, quando Bushido prosegue. – Io ho trent’anni, - ripete, - e tu sei un ragazzino convinto di avere visto tante cose, nella vita, ma la verità è che hai visto sempre le stesse, ripetute tante volte da sembrare tantissime, sì, ma sempre le stesse. Sei confuso, - dice, ignorando lo sguardo deluso e un po’ ferito di Bill che vaga altrove, sulle piastrelle bagnate lungo le quali scorre l’acqua che ancora gli piove addosso dalla doccia, - non hai idea di quello che vuoi, e qualsiasi cosa sia, io non potrei dartela, Bill. Ho l’udienza per la libertà vigilata fra due settimane, sarò fuori di qui prima che tu possa anche solo rendertene conto, e non posso… - si interrompe per un paio di secondi, osservando Bill stringersi nelle spalle così tanto da apparire improvvisamente minuscolo, molto più piccolo di quanto già usualmente non sia. – Non posso mettermi a giocare con te, non è così che mi comporto. Quello che volevi stanotte, io non posso dartelo. Non per poi uscire e lasciarti qui da solo. Capisci cosa intendo?
Bill mantiene lo sguardo basso, i capelli scuri fradici che scivolano a coprirgli il volto quasi nella sua interezza. Bushido non riesce a scorgere la sua espressione, ma la voce con cui parla, pochi secondi dopo, è sufficiente a dargliene un’idea più che precisa.
- Scopare o meno, a questo punto, non conta più un cazzo. – risponde, chiudendo di scatto il rubinetto ed afferrando l’asciugamano alle sue spalle, - Il danno ormai l’hai fatto comunque.
È sparito il secondo dopo, correndo sul pavimento bagnato, coperto a malapena dall’asciugamano avvolto attorno al corpo magro. Bushido lo osserva andare via sentendosi inspiegabilmente colpevole e stupido. Specie visto che tutto quello che riesce a pensare è che spera che, correndo a quel modo, non scivoli e non si faccia male da qualche parte.

*

Sido ci mette altri quattro giorni ad uscire dalla buca, e Bushido sa che non è certo per ciò che ha fatto che è stato rinchiuso là dentro così a lungo, quanto più per ciò che non ha detto. Se pensa a Jost e a quanti esaurimenti nervosi deve avere affrontato nel corso delle ultime settimane perché, ogni volta che scendeva in buca a chiedere a Sido una confessione, quello rispondeva sempre con un’alzata di spalle, gli viene da sorridere, e quasi la parte più cattiva di lui vorrebbe tirare a Sido una bella pacca sulla spalla e tornare amici come prima, anche se, applicata a loro, l’espressione perde di senso, dal momento che né quando stavano entrambi fuori, né da quando stanno entrambi dentro, si sono mai potuti chiamare amici.
In ogni caso, si tratta solo di una piccola parte di lui a desiderarlo, forse anche per quieto vivere, ma fortunatamente quella non è una voce alla quale Bushido si senta particolarmente incline a rispondere. Non adesso, forse mai.
Vederselo apparire di fronte in magazzino mentre fa la cernita della roba da mangiare e cerca di capire dove siano finiti i dieci barattoli di fagioli che mancano all’appello non lo aiuta ad essere condiscendente nei suoi confronti.
- Sido. – lo saluta con l’aria di uno che preferirebbe di gran lunga prenderlo a calci nelle palle, piuttosto che doverlo salutare, ma che comunque si piega a farlo per buona educazione, - Vedo che non sei neanche passato dal bagno, prima di venire a trovarmi. – osserva, accennando col capo alla barba che gli ricopre le guance e il mento, - Potevi quantomeno raderti, prima.
- Avevo fretta di venire a salutarti. – risponde Sido con un sorriso, gli occhi che lo scrutano febbrilmente, con tanto palese astio da poter fare quasi paura, se non fosse che Bushido sa di essere perfettamente in grado di gestire quest’uomo anche al suo peggio. – E poi, sai, dopo che passi in buca tanti di quei giorni da perderne il conto, l’ultima cosa che vuoi è tornare in cella. Preferisci gli ampi spazi, non so se rendo. La mensa è uno spazio molto ampio, e guarda caso volevo scambiare due parole con te, per cui ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Ed eccomi qua.
- Bene. – risponde immediatamente lui, dando chiaramente segno di averlo a malapena ascoltato, - Ora che tutta questa montagna di cose di cui non m’interessa niente è finalmente uscita dalla tua bocca, e tu ti sei liberato di questo peso, che ne dici di tornartene in un luogo in cui puoi effettivamente stare e lasciarmi in pace, di modo che possa finire di lavorare?
Sido ghigna divertito, quasi compiaciuto dalla sua durezza.
- Non ti ruberò molto tempo. – lo rassicura, spostando il peso del corpo da un piede all’altro e muovendo qualche passo all’interno dell’ampio magazzino sul retro della mensa, sfiorando i vari barattoli e le varie lattine riposte sugli scaffali più per darsi un tono che perché gli interessi davvero cosa si trova lì. – Volevo solo ringraziarti per lo scherzetto che mi hai tirato. Mi ha fatto capire molte cose. È stato un bell’insegnamento.
- Ne sono lieto. – risponde Bushido con un sorriso smagliante, segnando sul bloc notes che porta con sé che all’appello mancano anche due interi sacchi di patate. Sarà esilarante andare da Jost a fare l’elenco degli assenti e poi osservarlo sclerare come un invasato per l’ennesimo furto di vettovaglie destinato a restare senza un colpevole. – Spero che non ti verrà più in mente di organizzare qualche altra stronzata delle tue. Hai visto che posso fermarti quando voglio, come voglio, e anche facendola franca. Cosa che di certo non rientra invece nelle tue competenze.
Il sorriso di Sido si allarga, mentre lui annuisce con sussiego.
- Hai ragione. – ammette, - Infatti, sai qual è la cosa più importante che questo sfortunato episodio mi ha fatto capire? – chiede retorico, appendendo entrambe le mani ai fianchi. Bushido si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, e Sido sorride ancora. – Mi ha fatto capire che tu la fai sempre franca, - prosegue, - e che questo gioca a mio favore. Sai perché, Bushido? Perché tu uscirai da questo posto. Presto, molto presto, il tuo culo nero sarà fuori da questa prigione, e per quanto solo Dio sappia quanto mi faccia incazzare la sola idea di te in libertà mentre io resto qui a marcire, non averti più fra le palle potrà portare solo benefici a me, ed a tutto quello che intendo fare una volta che a governare qui dentro sarò rimasto solo io.
Il tono di Sido si è fatto via via più serio man mano che il suo monologo proseguiva, ed in accordo con le parole che sentiva anche l’espressione di Bushido si è rabbuiata ed irrigidita sempre più. Le sue labbra sono ridotte ad una linea sottilissima, e i suoi occhi non sono che due macchie scurissime all’interno delle quali si agitano rabbia, irritazione e fastidio, e vedere il sorriso di Sido farsi sempre più ilare e compiaciuto con ogni secondo che passa non riesce a fare altro che indisporlo ancora di più.
- Sido, attento a te. – lo minaccia in un ringhio di gola, - Se ti azzardi a combinare qualcosa—
- Oh, ma non devi preoccuparti. – lo interrompe lui con una risata frivola, agitando una mano a mezz’aria come a scacciare via anche solo l’idea di poter complottare qualcosa mentre lui è ancora dentro, - Le settimane che ho passato in buca mi hanno insegnato il valore della pazienza. Saprò attendere, - precisa con un altro sorriso, più pericoloso degli altri, - e quando sarai fuori, Bushido, niente potrà più fermarmi. E quel tuo ragazzino, visto che ci tieni tanto, sarà il primo a pagarne le conseguenze.
Bushido si ferma, il sangue di ghiaccio nelle vene.
- Non ti permettere. – sibila. Sido sorride ancora.
- Ti lascio al tuo lavoro, Bushido. – conclude con un breve cenno del capo, prima di voltargli le spalle con la sicurezza di chi sa di non rischiare niente. – Buona giornata.

*

Bushido ha passato così tanto tempo in attesa di questa udienza che quando arriva, nemmeno riesce a crederci. E' come aver aspettato per anni qualcosa che, in fondo in fondo, non credeva si sarebbe mai davvero realizzata – anche se faceva di tutto per convincersi del contrario – e vedersela poi succedere davanti agli occhi di punto in bianco.
Tutto ciò che ha fatto in questi ultimi anni, e soprattutto in questi ultimi mesi, è stato in funzione del momento in cui si recherà in quell'aula di tribunale e ascolterà la volontà del giudice, ma è sempre stato un evento ancora lontano, vago, del tutto irreale, esattamente come la fine della condanna per qualunque carcerato che non abbia preso l'ergastolo. Tutti sanno che prima o poi usciranno; ma quel poi appare sempre un giorno troppo lontano per vederne l'alba.
Per questo Bushido è nervoso mentre si sistema la cravatta di fronte allo specchio nella sua cella; la tensione non lo ha fatto dormire e, nonostante la voglia che ha di lasciare questo buco di merda, era quasi meglio l'attesa infinita di un giorno ancora da definire che non quella ben calcolata delle ore e dei minuti precisi che lo separano da quell'aula di tribunale.
Bill è seduto sul suo letto, ma si finge estremamente interessato al libro che ha per le mani. Non gli parla da giorni – cioè dalla storia delle docce – ma Bushido al momento non ha il cervello abbastanza sgombro per potergli prestare attenzione. Non appena questa faccenda sarà sistemata, quando tornerà a prendere le sue cose prima di andarsene, gli parlerà di nuovo e cercherà di farsi odiare un po' di meno; anche perché di più gli sembra impossibile, a giudicare dal foro che Bill gli sta facendo dietro la testa quando lo guarda mentre crede di non essere visto.
Non riesce a tenere le mani lontane dalla cravatta, forse perché si sente strangolare e, per quanto la sposti e la muova e la snodi per riannodarla subito dopo, quella sembra sempre storta. Mentre se la fa passare di nuovo intorno al collo, ripassa mentalmente il percorso che dovrà fare. Jost è venuto personalmente ad informarlo in cella ieri sera. Ha detto che lo accompagnerà all'udienza e Bushido è contento di questo. Sa che ci saranno un sacco di stronzi in quell'aula e vuole averne almeno uno dalla sua parte.
La cella si fa improvvisamente più buia quando la figura massiccia di Fler si ferma sulla porta, occupandone praticamente tutta la superficie.
Bushido si volta e lo osserva, senza lasciar trasparire nessuna emozione. “Che cosa vuoi?” Chiede.
Bill solleva lo sguardo dal libro e li scruta entrambi con attenzione, facendosi istintivamente più piccolo nel tentativo di rendersi invisibile; d'altronde lo sa che la tensione che adesso rende elettrica l'aria l'ha generata lui e vorrebbe poter scomparire perché si sente pesare addosso la responsabilità.
“Devo parlarti,” mormora Fler, che sostiene il suo sguardo ma senza sfidarlo. La sua è un'occhiata coraggiosa ma piena di umiltà. Bill trova incredibile come sia chiaro e lampante che si sta scusando anche senza dire nemmeno una parola.
Bushido gli fa un cenno col mento.
Fler scuote la testa. “In privato,” precisa, indicando Bill con un movimento degli occhi che vorrebbe essere impercettibile ma non sfugge al ragazzino, il quale apre subito la bocca per parlare e viene puntualmente interrotto da Bushido che lo aveva già previsto.
“Bill, lasciaci da soli qualche minuto, per favore.”
“Questa è anche la mia cella,” gli fa notare lui.
Bushido nemmeno lo guarda. “Sono sicuro che puoi continuare a fare finta di leggere anche nel corridoio.”
Oltraggiato, Bill rimane letteralmente a bocca aperta per qualche secondo, forse in attesa di ipotetiche scuse che per nessun motivo potrebbero mai uscire dalla bocca del tunisino e, quando finalmente si rende conto che quei due – che stanno immobili a fissarsi – aspettano solo che lui se ne vada, sbuffa violentemente, afferra in malo modo il suo libro e quindi si piazza di fronte a Fler con aria imbronciata finché quello non si sposta e lo lascia passare.
Bushido lo osserva finché non lo vede sedersi per terra a gambe incrociate più avanti, nel corridoio, prima di invitare Fler all'interno. “Non ho molto tempo, quindi vediamo di farla breve,” commenta. “Tu non dovresti nemmeno essere qui.”
“Lo so, ma è una cosa importante e pensavo volessi saperla.”
Bushido allarga le braccia, invitandolo a proseguire.
Fler si guarda intorno, ma nelle vicinanze non c'è nessuno perché, quando alla mattina le porte si aprono, nessuno vuole rimanere in cella, così durante il giorno quasi tutti i carcerati sono in sala comune o in palestra e questo lascia a loro un po' di privacy. “Corre voce che Sido abbia in mente qualcosa per quando sarai all'udienza.”
“Sido si è premurato di venirmelo a dire di persona,” gli fa presente Bushido. “Ma stava solo facendo promesse che non può mantenere, come al solito, visto che non può fare nient'altro.”
Fler scuote la testa. “Stavolta no. Girano soldi. Qualcuno è stato pagato.”
Bushido torna subito serio e lo guarda, corrugando la fronte preoccupato. “Chi?”
“Non lo so, sto ancora cercando di scoprirlo,” risponde Fler. “La cosa certa è che si tratta di una cazzo di cifra enorme. Potrebbe essere per una persona sola, molto probabilmente per un gruppo, in ogni caso Sido si sta organizzando per quando sarai uscito di qui.”
Bushido rimane impassibile e solo la tensione dei suoi lineamenti lascia trasparire la rabbia che gli si agita nello stomaco. Le minacce a vuoto di Sido non le preoccupavano, ma i soldi sono tutt'altra storia. Da qualche parte, in quella prigione, c'è un uomo o un gruppo di uomini che hanno ricevuto del denaro e che devono tenere fede a quel pagamento. C'è un intero ingranaggio che si è messo in moto e va fermato.
Bushido si riscuote quando vede David, vestito di tutto punto imboccare il corridoio che porta alla cella. Il direttore si ferma a chiedere a Bill che diavolo ci fa buttato per terra come un barbone e il ragazzino risponde qualcosa di infastidito, agitando le mani. “Dovete scoprire di chi si tratta,” dice Bushido. “Uno, due, dieci uomini, non m'interessa. Trovateli e teneteli d'occhio, dovete essere pronti se e quando attaccheranno.”
Fler gli lancia un'occhiata a metà tra l'incredulità e la sorpresa e Bushido gli sorride quasi con tenerezza, anche se sul suo volto c'è anche quell'espressione preoccupata. “Di' pure ai ragazzi che ti mando io e se qualcuno ha da ridire, ci penserò appena torno dall'udienza,” commenta, abbracciandolo stretto e dandogli due pacche di bentornato sulle spalle.
“Non ti preoccupare, Losensky. Te lo porto via solo per qualche ora,” esclama la voce divertita di Jost, costringendoli a separarsi. “Cos'è, non vi parlate per settimane e ora fate la tragedia greca?”
“La nostalgia è una brutta bestia,” Bushido ride, dissolvendo l'aria cupa nella cella e Fler gli regge il gioco, scoppiando in una risata piena e cristallina che lascia basito soprattutto Bill, che è rientrato approfittando della presenza di Jost e si è rintanato di nuovo nel suo letto.
“Ragazzino, fai il bravo,” lo apostrofa Bushido. Bill vorrebbe replicare qualcosa di acido ma quello che legge negli occhi di Bushido lo fa rabbrividire. Si scolla dal letto per seguirlo fino all'entrata della cella, dove Jost gli sta facendo mettere le manette per portarlo via e lo fissa sperando che dica qualcosa di più, che lo rassicuri su ciò che gli è sembrato di scorgere in quell'occhiata, ma Bushido sta zitto.
Quando Jost gli chiede se è pronto, annuisce e basta.
Poi si incammina senza voltarsi più.

*

L'aula per le udienze si trova all'interno della prigione e, nonostante il nome, è appena poco più grande di uno stanzino. Quasi accostato alla parete più lontana dalla porta c'è un lungo tavolo di metallo che ospita le persone incaricate di sfogliare la sua documentazione e giudicare se sia pronto o meno ad uscire da quel carcere. David ha una sedia proprio accanto alla sua e a quella del suo avvocato. Nella stanza c'è un tale silenzio che anche il minimo spostamento produce un suono violento che rimbomba fino al soffitto e sbatte contro le tre piccole finestre rettangolari, di quelle che si aprono grazie ad un lungo bastone che arriva fino a terra. L'aria è fredda e pesante e gli occhi del giudice sono disinteressati, lontani, vedono già il campo da golf sul quale si recherà dopo aver deciso dei prossimi vent'anni della sua vita.
O almeno questo è quello che Bushido si immagina sarebbe successo se l'udienza avesse effettivamente avuto luogo, ma lui nell'aula nemmeno ci entra.
David lo accompagna fino alla porta e poi lo lascia seduto su una panca, appena fuori dall'aula, gli dice di aspettare e lo affida ad una guardia con le mani incrociate dietro la schiena, che non avrà più di vent'anni e da lì ad un paio d'ore sarà distesa per terra col naso rotto.
Il tempo scorre lento, soprattutto perché Bushido non stacca gli occhi dal quadrante dell'orologio; le lancette fanno fatica a muoversi, ogni scatto è faticoso. I secondi passano come minuti, i minuti come ore e, se qualche ora è passata, Bushido potrebbe giurare che sia stata una vita intera.
Quando Fler si presenta all'improvviso è sconvolto e ha il fiatone. Bushido si alza in piedi, risvegliando la guardia dal proprio torpore ma ne ignora i richiami mentre cerca sul viso di Fler una spiegazione alla sua presenza e all'agitazione che gli fa tremare le mani, nel caso non faccia in tempo a dargliela a voce.
Fler però sa come vanno queste cose, così gli frana addosso e gli artiglia la bella camicia elegante per rimanergli attaccato e darsi il tempo di sussurrargli all'orecchio che li hanno trovati e che la morte che aspetta il ragazzino non è né pietosa né veloce.
La guardia riesce ad agganciare Fler sotto le braccia e a strapparlo via da Bushido che per un istante resta immobile a fissare il vuoto, mentre le parole dell'amico si ripetono all'infinito nella sua testa.
Fler lo guarda mentre la guardia lo tiene fermo e inchiodato al muro, urlando ai suoi compagni di venire a dargli una mano.
L'aula per le udienze è a pochi passi da lì e Jost è lì dentro ormai da così tanto tempo che non può mancare molto al momento in cui lo chiamerà. Potrebbe davvero uscire di lì e – se è abbastanza furbo – non tornarci mai più, prendere sua madre e sparire per sempre.
Invece solleva i polsi ammanettati, chiude le mani a pugno e colpisce la guardia sulla nuca. Quella barcolla un attimo, si gira farfugliando impaurito nella radio e cercando a tentoni il manganello che gli pende dalla cintura. Bushido lo colpisce ancora e ancora, finché non cade a terra.
Fa un cenno a Fler che si dilegua prima che possano fermarlo e va ad avvertire la prigione che Bushido non se ne va. Quando Jost accorre al trambusto, Bushido è chino sul ragazzo a cui ha spaccato il naso, ma non resta fermo. Si avventa anche sulle guardie che sono appena arrivate in soccorso della prima, comincia a tirare pugni alla cieca finché in tre non lo bloccano e una manganellata sui denti non riduce al silenzio il suo ringhio furioso.
“Portatelo in buca,” ordina Jost alla fine, perché non può fare proprio nient'altro.
Quando i loro sguardi s'incontrano, sono in due a chiedersi se ne sia valsa la pena.

*

La notte passa lenta, esasperante. Seduto in un angolo, la schiena nuda contro la parete e l’umidità pesante dei sotterranei ad appesantirgli il respiro, Bushido guarda il soffitto, lo guarda ossessivamente, per ore, e cerca nelle variopinte chiazze di muffa che lo ricoprono un senso a quello che ha fatto, all’opportunità che ha mandato a puttane. Non sa se gli ricapiterà ancora di poter fronteggiare la reale occasione di uscire da quel buco di merda, ma il punto non è nemmeno più tanto quello. È diverso, ed è molto più spaventoso, e somiglia in maniera inquietante ad una domanda che Bushido non ha quasi nemmeno il coraggio di porsi. Ma è lì, riecheggia nel retro della sua mente, minacciosa e sospesa, come un fantasma, e per questo molto più difficile da ignorare di un qualsiasi altro fugace pensiero.
Se anche dovesse ripresentarsi l’occasione di uscire, fra sei mesi o un anno o due, uscirei? Oppure basterebbe sapere Bill in pericolo per rinunciare alla possibilità volta dopo volta dopo volta?
Jost arriva presto, l’indomani mattina. Bushido non sa se sia perché aveva fretta di chiudere la questione – forse l’agente s’è fatto più male di quanto Bushido non avesse previsto, forse ci sono state delle complicazioni, forse forse forse, non è che gli interessi più di tanto, in ogni caso, ed è agghiacciante pensarlo perché, quando ancora sperava di poter rivedere la luce del sole da uomo libero o quasi tale, di questi dettagli gli interessava sempre moltissimo, mentre adesso non sono che nebbia, confusi sullo sfondo, particolari insignificanti – o semplicemente perché vuole vederci più chiaro in prima persona, ma non perde tempo ad entrare e fare cenno all’agente di restare fuori dalla porta blindata.
- Che cazzo hai fatto e perché. – dice, restando in piedi accanto a lui. Non è nemmeno una domanda.
Bushido non ha motivo di nascondere niente.
- Sido ha minacciato l’incolumità di Bill. – risponde guardando fisso davanti a sé, - Se fossi uscito, avrei perso il controllo di tutto, qua dentro, e lui sarebbe finito male. – trattiene per un attimo il fiato, realizzando che tutte le risposte alle domande che si è posto sono racchiuse nella manciata di parole che sta per pronunciare. – Non potevo permetterlo.
Jost ci mette un po’ a capire cosa ciò che Bushido ha appena detto significhi, ma poi annuisce.
- Doveva essere il tuo lasciapassare per uscire, - commenta con un mezzo ghigno disilluso, - non il motivo per cui non avresti più voluto farlo.
Bushido scrolla le spalle, alzandosi in piedi. Si volta a guardarlo, e il direttore gli porge i suoi abiti.
- Cosa vuoi che ti dica, Jost? – scrolla le spalle, cominciando a rivestirsi, - Quel che è fatto è fatto. Ora voglio solo tornarmene in cella e smettere di pensare a quello che… - sospira, distogliendo lo sguardo. È la prima volta che David glielo vede fare. – A tutto. – conclude con un’altra scrollata di spalle, indossando anche la maglietta e poi tornando a guardarlo. – Posso andare?
Jost sospira, ma annuisce e si volta verso la porta, facendo segno alla guardia di aprire tramite il vetro che rende possibile spiare all’interno della cella.
Due agenti di custodia lo scortano fino al cancello d’ingresso del braccio A, e lì lo lasciano senza una parola. Lo guardano con odio per tutto il tempo – Bushido le conosce, le guardie carcerarie, sa che gli porteranno rancore per sempre per avere osato spaccare il naso ad un loro compagno, ma sa anche di essere abbastanza fortunato da non essere un bersaglio semplice per nessuna delle loro vendette; Bill, a suo tempo, non è stato altrettanto fortunato, e forse anche questo ha inciso sulla sua ultima decisione – ma si limitano a questo, allontanandosi in una sinfonia di borbottii sussurrati a mezza voce e niente più.
Bushido si avvicina alla propria cella, naturalmente già aperta, visto l’orario, e non ha bisogno di guardarsi troppo a lungo intorno per accorgersi di Bill, anche perché lui, quando lo vede arrivare, da seduto sul letto com’era scatta in piedi, le braccia rigide lungo i fianchi, le gambe dritte come fusi, la schiena quasi bloccata dalla tensione, così come i lineamenti del volto pietrificati in un’espressione ansiosa e perfino un po’ impaurita.
- Chakuza mi ha detto… - comincia incerto, - mi ha spiegato. Tutta la situazione. Quello che… - esita appena, mordendosi il labbro inferiore, gli occhi che vagano svelti intorno alla figura di Bushido come non riuscisse a inquadrarla correttamente, o come se si sentisse troppo in imbarazzo per farlo, - Quello che sarebbe potuto succedere. E il fatto che hai deciso di rimanere.
Bushido annuisce, distogliendo a propria volta lo sguardo. Si sente stupido, ma si sente perfino più stupido quando capisce che in realtà si sente così solo perché anche lui è in imbarazzo, proprio come il ragazzino che ha di fronte. Solo che il ragazzino è un ragazzino. È giustificato. Per lui non si può dire lo stesso.
- Stai bene? – gli domanda, - Non è successo niente?
- Niente. – risponde subito Bill, scuotendo il capo, per rassicurarlo. I capelli scuri, morbidi e setosi, ancora freschi di shampoo, gli scivolano lungo le spalle, e Bushido sente il bisogno di concedersi un atto tenero, ed accarezzarli. È il primo atto tenero che si concede da anni. È come sentirsi sciogliere sul cuore un grumo di lava. Brucia da impazzire.
- Bene. – commenta con un mezzo sorriso, - Sarebbe stato deludente se avessi mandato tutto a puttane e fossi tornato fin qui solo per trovarti ridotto ad un mucchietto d’ossa in frantumi in un angolo. No?
Bill si irrigidisce ancora una volta, le labbra strette in una linea sottilissima.
- Mi dispiace. – mugola piano, - Ma grazie.
Bushido si concede un altro mezzo sorriso, e vorrebbe replicare qualcosa di sarcastico, qualcosa che possa sollevare almeno in parte il velo di sacralità che è piombato loro addosso da quando lui è tornato in cella, ma Bill non gli dà il tempo di farlo. Si sporge in avanti ed approfitta delle sue labbra dischiuse per baciarlo piano, lentamente ma profondamente, stringendo le dita sottili attorno al tessuto della sua maglietta e tirando appena per stringerselo al petto.
Bushido posa le proprie mani sulle sue. Sono grandi il doppio, le coprono interamente. Ricambia il bacio con un abbandono al quale non si lascia andare da più tempo di quanto non riesca a ricordare, e si separa da lui con uno schiocco soffice e discreto solo quando sente il bacio concludersi naturalmente, di sua iniziativa.
Bill, così vicino da potergli leggere negli occhi qualsiasi cosa, lo guarda intensamente. Si sta già fidando di lui al punto da rimettere la propria vita nelle sue mani.
Bushido accetta la responsabilità. E stavolta è una sua scelta.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo."
Note: Ed eccoci qui col nuovo episodio di SE \o/ Teoricamente doveva andare su tipo una settimana fa, solo che poi m'è passato di mente, la Tab è partita con le altre per andare a vedere il concerto del Bu a Berlino (ç_ç) e fra una cosa e l'altra ho preferito postare adesso. Attenzione al cuore, mentre leggete.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I CAN’T HURT YOU ANYMORE

Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio.
*
Il mio risveglio, stamattina, non sembrava preannunciare niente di speciale, figurarsi qualcosa di disastroso come Bill che irrompe nel mio ufficio rovesciando il mondo come ormai ha imparato a fare – e se sa farlo bene, pochi cazzi, è colpa mia, che nel ribaltamento dei mondi altrui sono un campione – costringendomi prima a schienarlo contro un muro, poi a tentare di soffocarlo, quindi a baciarlo sa Dio perché.
Stamattina mi sono svegliato col russare debole e regolare di Pat piantato nelle orecchie, e all’improvviso mi sono sentito addosso dieci anni di meno, ed ho borbottato “Frank, siamo in ritardo”. Al che lui ha aperto un occhio e mi ha guardato come se non capisse un accidenti di ciò che stavo dicendo, giustamente, e a quel punto ho riso perché non so cosa avessi pensato di preciso ma era evidente che mi stavo riferendo a qualcosa successo uno sproposito di anni prima, probabilmente una delle mille volte che mi sono fermato a casa sua perché il giorno dopo dovevamo andare presto da qualche fornitore prima dell’apertura dei negozi – prima che Tempelhof, o almeno la parte onesta di Tempelhof, quella che non viveva di notte, cominciasse a risvegliarsi. Era una scusa che usavo spesso, “resto da te così domani facciamo prima e non devo passarti a prendere”, ma la verità era che intanto adoravo i bignè che sua madre faceva in casa, e poi adoravo anche passare la notte con lui davanti alla tv parlando di cose assurde e fumando uno spinello fino a stordirci al punto di dire e vedere cose veramente allucinanti, crollare addormentati esausti alle cinque del mattino e poi, naturalmente, svegliarci in ritardo. Il che mi riporta alla prima frase che ho detto stamattina, e che comunque, non so, non è una cosa che parla solo di ritardi a un appuntamento o cose simili che poi scompaiono nel giro di pochi giorni, quanto più una cosa generale. Io e Patrick siamo in ritardo, è vero. È verissimo.
- Anis, vaffanculo. – mi fa lui, e si rigira a pancia sotto mentre io non riesco a smettere di ridere, - Ma perché cazzo mi dovevi svegliare… e piantala di ridere! – sbotta, e mi tira un cuscino sulla faccia mentre contemporaneamente cerca di scalciarmi via dal letto e anche di nascondersi sotto due chilometri di lenzuola per cercare di tornare a dormire. Io però a quel punto ormai sono sveglio, quindi niente, mi avvicino e me lo stringo contro, un po’ anche per la questione del ritardo, appoggiandogli il mento su una spalla e sorridendogli contro una guancia. – ‘Cazzo fai? – mi chiede lui, che sta ancora palesemente dormendo, e io rido e lascio scivolare una mano lungo la sua schiena, sotto le lenzuola.
- Suono la sveglia. – dico con una risatina, accarezzandolo distrattamente fra le natiche, al che lui solleva la testa dal cuscino come se solo ora avesse cominciato a capire cosa stia esattamente succedendo, mi guarda con gli occhi enormi e poi mi scoppia a ridere in faccia.
- Ma vaccagare. – ride come un demente, e poi salta in piedi e, nudo com’è, che io mi preoccupo pure che Karima possa vederlo e non sarebbe il caso – non perché Karima non sappia, quanto più perché poi partirebbe con la millecentesima tirata sui costumi discinti di questa casa, cosa che decisamente mi rovinerebbe il risveglio – insomma, nudo com’è mi informa che va a preparare il caffè e mi lascia tutto il tempo di suonarmela da me, la sveglia. Voglio dire. Ma chi me l’ha fatto fare di tirarmi in casa quest’individuo – ripetute volte negli ultimi dieci anni, peraltro – io non lo so.
Comunque, mi sono messo in piedi, anche perché era evidente che, a meno che non volessi accoppiarmi coi cuscini o col materasso mentre coperte e pareti ci spiavano libidinosi, lì nel letto non c’era trippa per gatti, dal momento che tutta la trippa e anche tutti i gatti s’erano spostati in cucina per preparare la colazione. Sono rotolato giù dal materasso, mi sono infilato la prima cosa che ho trovato così da poter urlare “ma è Fler che va in giro nudo, io no!” se Karima si fosse improvvisamente palesata in cucina prima delle nove ed ho infilato il corridoio. Fler fischiettava maneggiando la moka con mani esperte, ed io ho sorriso.
- Perché tutta questa fretta? – ho chiesto, guardandomi intorno per assicurarmi che Karima non ci fosse ancora e poi appendendomi alle sue spalle e sfiorandogli il collo con la punta del naso.
- Io non ho nessuna fretta. – ha risposto lui, serafico, continuando a maneggiare la moka, - D’altronde, mia madre non mi aspetta prima di mezzogiorno. Sei tu che devi essere all’Ersguterjunge fra tipo dieci minuti.
- Che? – ho sbottato con una smorfia infastidita, subito mitigata dall’odore penetrante del caffè in polvere che si è diffuso nell’aria in cucina non appena Fler ne ha aperto il barattolo, - Non vieni con me?
- No, te l’ho detto ieri che sono a pranzo da mia madre. – ha sbuffato lui, roteando gli occhi ed accendendo il fornello sotto la caffettiera, - È una settimana che mi chiama ogni giorno chiedendomi quando vado a trovarla. Scommetto che mentre ne parlavo non mi hai sentito.
- Dipende. – ho mormorato abbattuto, tornando a nascondere il naso contro il suo collo, - Stavamo facendo qualcosa, mentre me ne parlavi?
- Guardavamo la tv, Anis. – ha ridacchiato lui, asciugandosi le mani umide contro un panno.
- E allora è ovvio che non ti stessi ascoltando, non ero abbastanza concentrato su di te! – ho ribattuto, spingendomi verso di lui, - Provi a ripetermi i concetti base adesso? – ho proposto speranzoso, ma lui ha riso e si è divincolato senza fatica dalla mia stretta, dirigendosi tranquillo verso il bagno.
- Vatti a fare una doccia. – mi ha suggerito, - E per punizione, vai in bagno al piano di sopra.
In quel momento, naturalmente, Karima è uscita dalla sua stanza, vestita di tutto punto e perfettamente in ordine, pronta a cominciare le grandi pulizie che ogni mattina organizza e che si protraggono puntualmente fino a sera, ed ha osservato – non senza un certo turbamento – il sedere di Fler mentre, ondeggiando tranquillo, spariva dietro la porta del bagno, proprio nel momento in cui lui, sereno come un bambino appena sveglio di domenica mattina, tirava su una mano e la salutava col più serafico dei “buona giornata, Karima”. Al che lei, naturalmente, sopraffatta dalla perfezione di Fler – che è l’unico essere umano che riesce a gestire pure le situazioni più improbabili senza mai andare in imbarazzo, che mi viene da ridere se solo provo a ricordarmi com’era quando aveva quattordici anni e si scioglieva andando nel panico ogni volta che lo guardavo – non poteva guardarlo con disapprovazione, anche perché si sarebbe trovata a guardare con disapprovazione una porta chiusa, e pertanto si è voltata a guardare me con l’occhio torvo presagio di sventura.
- Che c’è? – ho sbottato, mentre lei scendeva dal piano di sopra carica di disapprovazione e severità, - Sono vestito!
Naturalmente non ha attaccato.
- Il signor Losensky non lo era. – ha risposto lei, tetra, passandomi davanti senza guardarmi, come se non mi meritassi ulteriore attenzione da parte sua.
- Potresti anche cominciare a chiamarlo Patrick, immagino. – ho borbottato, mentre lei passava davanti ai fornelli, sbirciava il caffè già uscito nella moka e spegneva il fuoco.
- Il nostro grado d’intimità – ha detto, sollevando un singolo sopracciglio da madre puritana di svariati secoli fa, - non è ancora tale da giustificare simili prese di confidenza. Inoltre, vorrei ricordarle che non mi ha ancora comunicato quando il signor Losensky ha deciso di tornare a stabilirsi definitivamente nel proprio appartamento, signor Ferchichi.
Forse perché di buttarlo fuori non ho la minima intenzione, ho pensato io guardandola con l’occhio pallato.
- Be’, per ora è qui, comunque. – ho concluso, scrollando le spalle, - Quindi sii gentile con lui, ha avuto un’infanzia difficile.
- E non fatico a immaginare di chi possa essere la colpa. – ha commentato lei, versando il caffè in due tazzine e cominciando ad armeggiare in giro con l’obbiettivo di raccoglie latte e biscotti in quantità industriale nel minor tempo possibile e poi, probabilmente, iscriversi al Guinness dei primati.
- Che cosa vorresti dire, con questo? – ho sbottato io, incrociando le braccia sul petto e mettendo il broncio come quando avevo tredici anni, che peraltro è una cosa che Karima non può sapere perché quando avevo tredici anni ancora non la conoscevo. Ogni tanto ho l’impressione che, siccome mi ha conosciuto già adulto, abbia dimenticato che un tempo sono stato un bambino anch’io, e che posso ricadere in quello stato infantile quando voglio, peraltro. Altre volte, invece, mi sembra che, anche se mi ha conosciuto che ero già grande, in realtà non abbia poi fatto mai molto affidamento sulla mia maturità.
In ogni caso, non mi ha risposto – probabilmente perché non ero degno della sua voce come non lo ero stato dei suoi occhi poco prima – e quando Patrick è uscito dal bagno lavato e vestito di tutto punto e lui e Karima si sono messi a confabulare strigliandomi perché ero ancora in pigiama e ovviamente in ritardo ho sbuffato “d’accordo, d’accordo, datemi tregua tutti e due!” e sono fuggito al piano di sopra, grandemente deluso dai miei sudditi indisciplinati e colmo di disappunto per la mia regale autorità violata.
Solo che, quando mezz’ora dopo sono uscito di casa, nonostante il pensiero delle ore infinite di noia che mi attendevano all’Ersguterjunge, sorridevo come un cretino. E questo non posso proprio negarlo.
*
Per dire, ero così felice che neanche la vista dell’Ersguterjunge è riuscita a deprimermi. E dire che in genere mi basta entrare in questo posto per sentirmi crollare addosso tutto. Voglio dire, io non dico che queste pareti le ho tirate su col sudore della mia fronte – perché così non è. Forse i soldi per comprarle li ho tirati su col sudore della mia fronte, ma le pareti decisamente no – però erano comunque una cosa mia, e in quanto cosa mia erano stati inglobati dalla mia persona e rimessi al mondo marchiati. Come tutto ciò che tocco, perché odio che ciò che tocco, ciò che amo, mi venga portato via, e l’unico modo che si ha per assicurarsi la paternità a vita di qualcosa è lasciargli addosso un segno. Nessuno vuole una macchina graffiata, nessuno vuole un motorino pieno di adesivi, nessuno – nessuno mentalmente sano, almeno – dovrebbe volere un corpo che ha addosso il sapore e l’odore di un altro. Poi non sempre va a finirti bene, però intanto tu il tuo marchio lo lasci. Almeno così hai più possibilità di tenerti stretto ciò che vorresti portarti dietro fin nella tomba.
Ora io mi guardo intorno e queste pareti non le riconosco. Il mio ufficio era pieno di poster. Miei poster, ovviamente. Quando hanno ritinteggiato, me li sono fatti mettere da parte perché volevo riappenderli subito dopo, solo che poi lo scatolone in cui avrebbero dovuto conservarli non s’è più ritrovato. E quindi io avevo una stanza che ero io, rappresentava me, una stanza in cui mi sentivo a mio agio, e ora invece mi sento un impiegato delle poste in uno stanzino bianco e anonimo che odio e che mi dà la nausea dal momento in cui ci metto piede al momento in cui ne esco. È una cosa devastante.
Eppure, ero così di buon umore che, entrando qua dentro e fissando le pareti bianchissime, non ho pensato “che schifo, dov’è finita la mia vita?” come faccio sempre, bensì “più tardi a casa devo ricordarmi di chiedere a Pat se gli è rimasto qualche poster vecchio, magari qualcosa dell’Aggro”, visto che dubito fortemente che si sia messo a collezionare poster delle mie uscite discografiche comprando Bravo travestito da quindicenne infoiata mentre passavamo le nostre giornate a insultarci da una parte all’altra di Berlino.
Questa sensazione di beatitudine interiore è durata naturalmente fino a quando la segretaria piccola e carina che si occupa di accogliere gli ospiti all’ingresso e smistarli nelle varie aree del palazzo in cui devono andare non è spuntata sulla soglia della mia porta e, con aria un po’ colpevole e un po’ impacciata, mi ha detto che il signor Kaulitz era all’Ersguterjunge e desiderava vedermi.
In un primo momento ho pensato “ma non esiste”. Ho anche rimandato a memoria la tabella degli orari e dei giorni lavorativi di Bill per essere proprio certo che no, oggi non avrebbe dovuto trovarsi qui, non a quest’orario né in nessun altro orario, ed avrei voluto guardare la segretaria negli occhi e dirle “dev’essersi sbagliata”, solo che poi mi sono reso conto di quanto sarebbe stato assurdo ed ho deglutito forzatamente, cercando di ricompormi.
- Sono molto impegnato. – le ho detto. Lei ha guardato la mia scrivania sgombra, il computer ancora spento e la generale aria di nullafacenza che si respirava nella stanza, e poi è tornata a guardare me, con occhi sempre più tristi e colpevoli, probabilmente chiedendosi quanto ci avrei messo a licenziarla, al punto che avrei voluto darle una pacca sulla spalla e rassicurarla, che tanto ormai non ho più potere neanche sui dipendenti in questa cazzo di etichetta.
- Ecco… - ha proseguito lei, incerta, - Il signor Kaulitz ha molto insistito. – ha detto, e io cosa potevo ribattere, a quel punto? “Digli di andarsene a fanculo e, se continua a insistere, insisti anche tu e defenestralo”? Ho sospirato tanto profondamente che mi ha fatto male il petto, ed ho annuito.
- Fallo passare.
Lei ha annuito come a volersi scusare ed è sparita in un secondo. Il secondo successivo, al suo posto c’era Bill, e io avevo smesso di respirare. Ho pensato distrattamente “è tremendo che il mio ultimo respiro sia stato così doloroso”, e poi non ho avuto spazio neanche per i pensieri. Bill stava già occupando tutto.
- Scusa se ti disturbo. – ha mormorato, gli occhi nascosti dietro un paio di giganteschi occhiali da sole a mascherina e i capelli tirati indietro e stretti in una coda alta a imprigionare le ciocche bionde, come a cercare di tenere a bada lui domando i suoi capelli. Come fosse possibile, l’una cosa o l’altra.
- Fa niente. – ho sputato con una difficoltà estrema, sperando che lui non la notasse. Lui ha abbassato appena gli occhiali sul naso, lanciandomi una lunga occhiata scrutatrice prima di sfilarli del tutto e riporli nella borsa a braccio in un gesto fluido e abitudinario. – Ti serviva qualcosa?
Lui si è guardato intorno con aria un po’ confusa, penso non fosse mai entrato qua dentro e deve aver fatto una certa fatica a riconoscere l’ambiente come familiare.
- Posso sedermi? – ha chiesto, al termine del giro di studio. Io ho piantato le mani sulla scrivania e mi sono alzato in piedi.
- A dire la verità preferirei di no. – ho detto in un fiato, osservando i suoi occhi macchiarsi della consapevolezza di non essere una presenza gradita, una cosa che aveva spesso osservato negli occhi di molti, ma mai nei miei. – Cosa ci fai qui, Bill?
- Volevo solo parlarti. – ha sbottato offeso, incrociando le braccia sul petto.
- Potevi prendere un appuntamento, come fanno tutti gli altri. – gli ho fatto notare.
- Tutti gli altri…? – ha spalancato gli occhi lui, incredulo, - Anis, capisco tutto, ma—
- Sono molto impegnato, Bill. – ho detto, battendo con una certa forza le mani sul tavolo e sperando che questo bastasse ad intimorirlo, o a farmi mandare a quel paese, raggiungendo comunque l’effetto desiderato, ovvero buttarlo fuori da questa stanza il prima possibile, per evitare di perdere il controllo di me stesso.
- Impegnato a fare cosa? – mi ha chiesto lui, senza cedere di un passo, fissandomi con gli occhi brillanti di rabbia, offesa, tradimento e tutte quelle altre piccole cose che è in grado di mettere in un solo sguardo quando vuole farti sentire una merda fatta e finita, - Impegnato a— a fare cosa, Anis? Cos’è che ti tiene tanto impegnato da non lasciarti neanche un minuto libero per stare a sentire me?
- Quali diritti speciali dovresti avere tu? – ho sbottato io, alzando la voce e sollevando le braccia come ad invitarlo ad andare oltre ed affondare il coltello, se ne era capace, - Sentiamo, Bill! Quali diritti che non ti sia già fottuto da solo nonostante io te li avessi ridati tutti in mano appena ti ho posato gli occhi addosso? Eh?
Lui ha spalancato gli occhi, le labbra gli tremavano.
- Non so, Anis. Quelli che si riservano a un normale essere umano quando ti chiede due minuti per parlare?
- Tu non chiedi, Bill! – ho tuonato io, esasperato, - Tu non chiedi, è questo che ti sfugge! Tu ti presenti e pretendi!
- Io non ho preteso niente! – s’è difeso lui, quasi stringendosi nelle spalle, - Io ti ho chiesto—
- Tu ti sei presentato qui come se riceverti da parte mia fosse una cosa ovvia! – gli ho fatto notare, allargando le braccia ai lati del corpo, - L’idea che a me non andasse di vederti non ti è mai passata neanche per l’anticamera del cervello! Tu agisci come se tutto ti fosse dovuto e te ne sbatti il cazzo di quello che il resto dell’universo possa pensare, perché tanto i sentimenti degli altri non sono importanti come i tuoi! Nessuno soffre come te, vero Bill? Nessuno è in una situazione peggiore della tua, giusto?
I suoi occhi si sono fatti liquidi all’improvviso, le guance arrossate e il respiro accelerato. Ho avuto paura che si sentisse male, ma non ho smesso di guardarlo duramente neanche per un secondo.
- Sei ingiusto. – ha esalato con un filo di voce, - Credi che per me sia facile, Anis? – mi ha strillato contro, - Pensi che per me vederti ritornare dopo un anno e tutto il resto sia stato semplice? Pensi che mi diverta, cazzo, che sia felice della situazione in cui siamo? Se pensi questo di me, allora non mi conosci, perché—
Gli sono saltato addosso prima che potesse concludere la frase. L’ho spinto contro il muro, mi sono schiacciato contro di lui, ho piantato un braccio contro il suo collo e l’ho guardato.
- Smettila di parlarmi come se fossi il primo stronzo cui puoi rifilare tutte le tue cazzate preimpostate da diva del cinema muto, Bill. – gli ho ringhiato addosso, - Vuoi sapere cosa penso? No, non penso che per te sia facile. Però penso che ti piaccia complicarla. Non penso che tu sia felice, però penso che il dolore ti faccia sentire al sicuro, perché non sei felice da tanto di quel tempo che provare della felicità vera ti spaventa. Non penso che tu ti diverta, ma penso che tu ti senta meglio quando mi trascini nel tuo cazzo di baratro di tristezza, Bill, questo penso. E non dirmi che non ti conosco. Perché sai che non è vero, come sai che invece è vero tutto quello che ho detto adesso.
E ora Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio. Lo bacio perché è troppo vicino, lo bacio perché mi manca, lo bacio perché – cazzo – io questo ragazzino lo amo tanto che mi scoppia la testa se solo ci penso, che il mio corpo non mi sembra robusto a sufficienza per sostenerlo, lo bacio perché l’ho perso, perché voglio lasciarlo andare ma non ci riesco, lo bacio perché voglio il suo sapore sulla lingua e quando lui solleva le mani e mi stringe alla nuca, graffiandomi la pelle del collo fino a che sento il sangue scorrere in un rivolo lento e sottilissimo giù fino al colletto della maglietta, sento che lo vuole anche lui, sento che tutto il casino che c’è dentro la mia testa c’è uguale anche nella sua.
Lo allontano dalla parete schiacciandomelo contro, lo stringo fra le braccia e lui aderisce perfettamente al mio corpo come non si fosse mai allontanato nemmeno di un millimetro dal mio fianco. Siamo due universi paralleli e perfettamente distinti io e lui, adesso, eppure alle volte basta così poco e Bill è ancora lì, è ancora mio, e non capisco come tutto questo non possa essere vero e reale – so che non lo è, lo so, ma adesso che siamo così vicini mi sembra l’unica verità possibile. E quindi, ciò che invece è vero, lui con Chakuza, io con Patrick, deve essere una bugia.
Torniamo a dirci la verità, piccolo, vuoi?
È nel momento in cui lo penso – che poi è lo stesso momento in cui lo appoggio sulla scrivania sgombra e mi allontano appena dalle sue labbra per riprendere fiato – che mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo, di quanto il mio cervello prenda a sragionare per vie incomprensibili quando ho Bill intorno. Cos’è che voglio dare a bere a questo ragazzino? Che non importa niente di quello che siamo diventati, che possiamo tornare com’eravamo prima che tutto questo accadesse dimenticando gli ultimi mesi e andando avanti per una strada che nemmeno esiste se non nelle nostre fantasie quando escludiamo dai pensieri tutto il resto del mondo che non siamo noi due? Che storia voglio raccontare a Bill, a me stesso? Che cosa cazzo sto facendo?
Lui schiude le palpebre quando non mi sente tornare a baciarlo. Sotto le sue ciglia, che tremano in un battito sottile come quello delle ali di una farfalla, passa la consapevolezza che è cambiato qualcosa rispetto a un secondo fa. Poso le mani sulle sue, allontanandole dal mio collo e posandogliele in grembo. Lui, seduto sulla scrivania, le spalle un po’ curve e l’espressione corrucciata, le labbra arricciate in una smorfia delusa e triste, mi guarda e mi implora di non farlo, non fermarmi, dargli mezz’ora di tregua dalla realtà.
Non posso farlo, piccolo, io ti amo troppo per mentirti così spudoratamente.
- Vai via. – gli sussurro sulle labbra. Stringo le mani attorno alle sue e ne accarezzo il dorso coi pollici.
Lui sospira stremato. La sua testa si piega in avanti in cerca di appoggio e la sua fronte trova il mio petto con una naturalezza che mi smuove qualcosa dentro. È sempre la stessa storia, queste piccole cose riaccendono la scintilla, ma è dura tenerla accesa quando il fuoco non prende.
- Non è come se mi stessi dicendo “vai, non ci vedremo più”… - mugola, strusciando la fronte contro la mia maglietta, - Fra poco comincia il tour… mi dici come faremo? Perché io non lo so.
- In qualche modo faremo. – sorrido appena, lasciando una delle sue mani per sciogliergli la coda ed accarezzargli lentamente i capelli, ravviandoglieli sulle tempie, dietro le orecchie, sul collo. – Tu però devi starmi lontano, piccolo. Io prometto che starò lontano da te.
Bill deglutisce a fatica, prendendosi un secondo prima di parlare.
- E se io non volessi starti lontano? – pigola a voce bassissima, e scommetto che gli è servita più forza per dirmi questa singola frase di quanta non gliene sia servita per presentarsi qui e mettersi a strillarmi contro. E già per fare quello gliene è servita parecchia.
Mi allontano da lui, lasciandolo andare. Sto ancora sorridendo, quando lui si rimette in piedi.
- Non vuoi nemmeno starmi vicino, però. – gli faccio notare. È straniante essere così tranquillo adesso. Mi sembra di stare facendo la prima cosa giusta in assoluto da quando sono tornato in Germania.
Lui non mi risponde. Si morde un labbro e nemmeno annuisce, abbassa lo sguardo e si ricompone in fretta prima di sgattaiolarmi alle spalle, oltre la porta, fuori dall’Ersguterjunge, fuori dalla mia vita spero almeno per la prossima settimana. Il tempo di prepararmi alla tortura che mi aspetta. Te lo prometto, piccolo, sarà tutto più facile, da ora in poi. Farò in modo che lo sia.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Angst, Violence (accennata).
- "Sono solo, triste e mi sto annoiando."
Note: Buongiorno, donne /o\ Vi anticipo che non ho davvero riletto con attenzione questa shot - ci ho provato, ma non ce l'ho fatta per svariati motivi che scoprirete leggendo, se avrete la bontà di farlo - quindi mi scuso in anticipo per qualsiasi sciocco refuso possiate trovare nel testo. Non è mia intenzione foraggiarvi con shot trascurate, ma sul serio, non potevo riuscirci XD E' indubbiamente una delle cose più crudeli che mi sia ritrovata a scrivere nel corso dell'ultimo anno, e non lo dico per spoilerarvi ma per avvertirvi. Soprattutto tu che piangi sempre T_T Ti vedo lì che mordi il tuo fazzoletto in anticipo. Perdonami /o\
A parte queste facezie, comunque, il titolo è preso da un verso di Evil Thoughts dei Foxy Shazam. Buona lettura \o/
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ALL I KNOW ISN’T ALWAYS THE TRUTH

Sono solo, triste e mi sto annoiando. Se avessi ancora dieci anni – o se qui con me ci fosse Tomi, che in qualche modo il miracolo lo fa sempre e riesce a riportarmi a quando ero piccolissimo solo standomi accanto – metterei il broncio e piagnucolerei un po’, attaccandomi alla prima maglietta con dentro qualcuno che incontro e cominciando a strattonarla per farmi portare fuori ed offrire un gelato, una caramella o comunque qualcos’altro di altrettanto dolce che possa ingannare i miei sensi fino a farmi credere che sia tutto a posto e stia andando tutto bene, anche se poi non è vero, fosse solo per una mezz’ora.
Purtroppo non ho più dieci anni e qui in casa di Peter non c’è Tomi, quindi non posso neanche fingere di averli. Tra l’altro, anche se decidessi comunque di mettere il broncio in barba all’età ed ai passi avanti che dovrei aver fatto negli ultimi due anni – perché tutti si aspettano da me che sia cresciuto, e io non posso certo deluderli – non ci sarebbe nessuna maglietta da strattonare e nessuno che mi ricoprirebbe di attenzioni, perché come dicevo prima sono completamente solo. E triste. E mi sto annoiando.
Il motivo per cui sono solo è che apparentemente oggi Peter fatica a restare nello stesso ambiente ristretto con me per più di dieci minuti consecutivi. E il fatto che non ci riesca, peraltro, è il motivo per cui sono triste. Io e Chaku abbiamo forse avuto dei problemi di comprensione, in passato, col ritorno di Anis e tutto il resto che ci ha mandato entrambi fuori di testa, ma mai, mai l’ho visto tremare nella sua stessa pelle, come desiderasse uscirne e scappare il più lontano possibile com’era mentre, in macchina, mi portava qui dopo essere passato a prendermi dagli studi dell’EGJ.
Il motivo io non lo so. E fatico ad ammettere che è colpa mia se non lo so, è colpa mia se io e Peter ci stiamo allontanando, perché ultimamente sono stato così perso dentro di me per cercare di capire cos’è che mi stesse succedendo – il tremore quando pensavo ad Anis con qualcun altro, la paura ridicola per questa cosa che nemmeno dovrebbe riguardarmi, l’immagine del suo sorriso rilassato riproposta dentro la mia testa come in una telecamera a circuito chiuso senza che io potessi fare niente per scacciarla via o nasconderla, almeno per un po’ – da dimenticarmi completamente di tutto il resto. Fatico ad ammettere che è colpa mia perché non voglio ammettere di aver considerato Peter esattamente uguale a tutto il resto. E fatico ad ammettere di averlo considerato così perché in nessun caso mi va di dire che è vero, quando Anis entra nel mio campo visivo mi ruba il cervello, tutto, non ne lascia libero un centimetro. Cambia il ritmo cui batte il mio cuore, cambia i colori e le forme di ciò che vedo, tutto diventa sfumato e indistinto e scuro mentre lui è l’unica cosa chiara e precisa che riesco a mettere a fuoco.
Mi fa rabbia che abbia questo potere ancora adesso. Mi fa rabbia che non l’abbia mai perso, mi fa rabbia non essere mai stato in grado di toglierglielo, perché non l’ho mai davvero voluto. Mi fa rabbia essere ancora il ragazzino che ero quando mi sono innamorato ed ho cominciato ad assillarlo perché mi considerasse. Mi fa rabbia non essere mai cresciuto davvero. Perché tutti se lo aspettavano da me, perché io volevo farlo, e non ci sono mai riuscito. E vorrei poter dare ad Anis la colpa anche di questo, ma non posso. Posso dargli tante colpe – avermi spezzato il cuore andandosene, aver distrutto i miei sogni restando lontano, avermi devastato la vita tornando – ma dopo un anno io non posso incolparlo perché la mia vita non va avanti. La mia vita ha avuto un mucchio di occasioni per muoversi. E credevo lo stesse facendo. E invece è ancora lì, concentrata sul palmo della sua mano. Come sempre, gli basterebbe stringere per togliermi il fiato. E, forse, fino a un paio di settimane fa io mi crogiolavo nel pensiero che la nostre situazione fosse ancora in bilico. Che io fossi ancora lì, minuscolo, su quel palmo grandissimo, e che prima o poi lui avrebbe stretto la presa.
Vederlo sorridere con Patrick mi ha fatto capire che non sono più fra le sue mani da tempo, ormai. Mi ha poggiato da qualche parte ed è andato avanti e io nemmeno me ne sono accorto, perché stavo lì con gli occhi serrati terrorizzato ed emozionato ad aspettare che le sue dita si chiudessero attorno al mio corpo, e non ho visto che invece lui a stringere la presa non ci pensava più. Non con me, almeno.
Anche il fatto che io qui, adesso, stia a pensare ad Anis ed al fatto che non rappresento più una parte della sua esistenza, è una cosa profondamente sbagliata. Peter mi ha portato qui, a casa sua, è rimasto dieci minuti in casa con me e poi ha detto che aveva voglia di cucinare, ma visto che non c’era niente in casa sarebbe uscito a comprare qualcosa. Ed è scappato due secondi dopo senza neanche darmi un bacio perché si vedeva che faceva fatica perfino a starmi accanto, e io dovrei preoccuparmi di questo, questo dovrebbe essere al centro di tutti i miei pensieri, adesso, e invece io sto qui, solo, triste e annoiato, e penso ad Anis. C’è qualcosa di sbagliato, in me. Qualcosa che io non voglio raddrizzare. E mi sento in colpa a fare una cosa del genere proprio a Peter, perché lui è sempre stato sincero con me – be’, forse magari a parte la questione di quel pestaggio di cui alla fine non mi ha spiegato niente – e dovermi tenere dentro questa cosa perché mi vergogno a dirgliela e perché in realtà non è giusto neanche provarla, è devastante. Io non sono abituato a fare così, io— con Anis io non dovevo mai trattenermi, potevo dire tutto quello che mi passava per la testa. Ed invece ora non posso e non è neanche colpa di Peter. Vorrei qualcuno accanto che potesse dirmi di non preoccuparmi, che non è nemmeno colpa mia, ed allo stesso tempo non lo voglio, perché so che è colpa mia e non voglio sentirmi rifilare balle solo nel tentativo di farmi stare tranquillo, ma Dio mio, non sono sereno da così tanto, così tanto che mi esplode il cuore se ci penso, e voglio un po’ di pace, voglio smetterla di pensare, voglio— basta, non voglio più niente, non ce la faccio a volere qualcosa, sperare nelle soluzioni comporta troppa fatica emotiva. Non ho più energia, in quel senso. Né in nessun altro.
Mi passo una mano sulla fronte e fra i capelli, sospirando. Sono lì che mi stendo contro lo schienale del divano e getto indietro il capo, chiudendo gli occhi e chiedendomi se non potrei, magari, addormentarmi ora e svegliarmi domani scoprendo di aver sognato tutto e che durante la notte Chaku mi ha messo addosso una copertina, così potrei aprire gli occhi e chiedergli “ma che ci faccio qui?”, e lui potrebbe rispondermi “ti sei addormentata mentre chiacchieravamo, Principessa. Bushido è appena tornato da Monaco, dai che ti porto a casa sua”, quando sento la serratura della porta scattare e mi risollevo di scatto, fissando l’ingresso.
Peter si richiude la porta alle spalle con un calcetto, e tiene fra le braccia due sacchi di carta di quelli di un supermercato che non è il solito, segno che probabilmente ha preso la macchina e s’è fatto un giro, già che c’era. Forse per recuperare tempo perché non gli andava di tornare. Mi mordo l’interno di una guancia e provo a sorridergli un po’. La guancia tira, ancora stretta fra i denti, e fa male. Mi si riempiono gli occhi di quelle lacrime minuscole che pungono e bruciano, quelle tipiche di quando ti fai male da solo come uno scemo.
Lui, comunque, del mio sorriso neanche si accorge. La sua testa appare solo a tratti dietro i sacchetti, e in ogni caso non credo mi stia guardando.
- Ehi… - lo chiamo quindi. La voce mi viene fuori affaticata e debole, e me la schiarisco con un paio di colpetti di tosse. – Ehi, vuoi una mano? – chiedo, e faccio per alzarmi, puntando le mani sul divano. Lui si affaccia da sopra le buste e mi guarda come se gli avessi chiesto se per caso non ha visto dove stesse andando il coniglio col panciotto.
- No, faccio da me. – mi dice quindi, tornando a nascondersi là dietro e muovendosi spedito verso la cucina. Io resto lì a molleggiare sul divano per un po’, fino a quando non mi decido a scattare in avanti e mettermi in piedi. Muovo qualche passo incerto di fronte al divano, attorno al tavolino, ed osservo Peter poggiare i pacchi sull’isola e tirarne fuori di tutto, mentre posa alcune cose sul ripiano della cucina e ne conserva altre in frigo.
Mi avvicino piano, quasi con circospezione, guardandolo da sotto in su, che in pratica vuol dire che chino la testa e sollevo gli occhi e spero che lui si giri a guardarmi, lo spero insistentemente per un sacco di minuti, ma lui non lo fa. Perciò io mi avvicino sempre di più, progressivamente, e non mi accorgo che sta tremando, o meglio, me ne accorgo solo all’ultimo momento, che lui stringe la mano attorno a una confezione di panna da cucina e quella si deforma tutta e per poco non scoppia, e poi la sbatte sul ripiano, e sento il ringhio che gli esce dalla gola anche se lui prova a nasconderlo in tutti i modi. E continua a non guardarmi.
- Bill. – mi chiama, la sua voce è dura e tesa come i lineamenti del suo volto, - Che c’è?
- Volevo solo… - balbetto un po’, stropicciandomi l’orlo della maglia, una cosa che in una situazione normale non farei mai neanche sotto tortura, - chiederti se era tutto a posto, e se ti servisse una ma—
- Non mi serve una mano. – taglia corto lui, riprendendo sistemare roba tutta in fila come per una parata dell’esercito e poi voltandosi a recuperare una terrina dallo scaffale dietro, - Te l’ho già detto prima.
- Mh… - annuisco io. Lo guardo un po’, poi guardo qualcos’altro perché guardare lui fa male. – Ed è tutto a posto o no?
Lui resta zitto per qualche secondo, e durante questo periodo di tempo recupera due uova, le rompe e le versa nella terrina. Si volta a cercare una forchetta con cui sbatterle e io continuo a guardarlo e semplicemente lui non è il mio Chaku. Che è una cosa molto stupida e infantile, da dire, quelle cose cui in genere si risponde con un ghigno storto e un “evidentemente non mi conosci abbastanza”, ma è vero, in fondo, mi sento davanti ad uno sconosciuto, in questo momento.
Penso di sfuggita che dev’essere successo qualcosa, per forza, perché lo strappo fra com’era prima e com’è adesso è troppo netto per non essere il risultato di uno strattone di quelli forti. Ma è un pensiero che mi sfiora soltanto, perché poi mi prende l’ansia, che se non ritrovo Chaku – il mio Chaku – e non lo riporto indietro subito, perderò anche lui, e non me lo posso permettere, perché voglio ancora almeno una mano cui aggrapparmi, quindi mi avvicino ancora, e non ci penso se lui trema di nuovo e stringe convulsamente le dita attorno alla forchetta, muovendo la mano quasi con violenza, non m’interessa, lo vedo e non me ne curo, e quando gli poggio la mano sulla spalla e poi mi chino a strusciare il naso contro il suo collo lo sento che c’è qualcosa di sbagliato e che stiamo per fare un errore enorme, ma non riesco a fermarmi perché ho troppa paura che se lo facessi perderei l’attimo, e lui, per sempre.
- Bill. No. – mi dice lui. Ma è orribile sentirsi dire no proprio da Peter, lui che a me non lo dice quasi mai per nessun motivo, figurarsi per il sesso, perciò chiudo gli occhi così forte che vedo le macchie bianche ovunque e mi fanno male le tempie, e lo bacio piano lungo tutto il collo, fino alla mascella, allo zigomo, e poi ridiscendo e cerco le sue labbra, - No. – dice ancora lui, ma è più incerto, Peter è facile, da questo punto di vista, lui è facile ed io sono uno stronzo irresponsabile infantile e viziato e mi odio mi odio mi odio, e quando trovo le sue labbra lui non si tira indietro, mi bacia forse un po’ troppo incerto, sicuramente con meno voglia di quanta non vorrei ne provasse, perciò scivolo fra lui e l’isola, gli accarezzo il viso, gli allaccio le braccia dietro la nuca, approfondisco il bacio, ed è allora che le sue labbra si schiudono del tutto e la sua lingua corre a cercare la mia e mi si schiaccia addosso, e io non sento differenze finché non percepisco la stretta delle sue mani attorno alla mia vita, molto più forte e decisa del solito. E quando apro gli occhi e guardo dentro i suoi e li trovo annebbiati e stanchi e cupi e distanti, capisco che l’ho perso davvero.
Un attimo dopo, la terrina vola sul pavimento ed io sono semisdraiato sull’isola, i gomiti piantati sul ripiano per evitare di cadere all’indietro e Peter che mi si spinge contro e mi si tira addosso baciandomi con forza, mordendomi le labbra quando faccio tanto di allontanarmi per riprendere fiato, mentre una sua mano risale lungo la mia schiena e il mio collo per poi affondare fra i miei capelli e tirare, per costringermi a piegare il capo come preferisce.
Quando poggia entrambe le mani sulle mie ginocchia e mi costringe a spalancare le gambe, sobbalzo appena, spaventato. Lui si tira indietro per impedirmi di mordergli la lingua e gli vedo sulle labbra un’ombra di sorriso un po’ ghignante e un po’ sicuro di sé che non gli riconosco. Sento le sue mani che risalgono lungo le mie cosce ed ho i brividi ovunque quando mi afferra per l’orlo dei pantaloni e li strattona verso il basso. Me li tira via di prepotenza, ed io mi distraggo troppo facilmente con le sue labbra che scivolano lungo il profilo del mio collo, perciò non mi accorgo che sta rinsaldando la presa contro i miei fianchi – e fa quasi davvero male, scommetto che domani avrò due lividi spaventosi e dovrò mettere qualche maglietta lunghissima per evitare che si scoprano quando alzo le braccia – e quando me ne accorgo comunque è troppo tardi, gemo di sorpresa e un po’ anche di dolore perché Peter mi ribalta sul ripiano, costringendomi carponi, e mi tocca attaccarmi al bordo dell’isola per non ruzzolare di faccia per terra. Sbatto un’anca, sono i momenti in cui odio essere così magro. Me ne accorgo solo ora perché non mi ha mai trattato così. Mai.
Mi mordo un labbro e, quando mi accorgo che, nello stare carponi sul tavolo, c’è qualcosa che mi pressa contro una gamba, schiacciata fra il ginocchio e il piede dell’isola, per un attimo fatico a capire cos’è. Però fa male, quindi non riesco a smettere di farci caso, ed è allora che realizzo che è la cinghia della cintura. Che i miei pantaloni sono stati abbassati il minimo indispensabile. Che insomma, sono ancora del tutto vestito, e avrei dovuto capirlo prima perché non sento freddo né il legno plastificato del ripiano contro la pancia, e insomma, era ovvio. Peter non mi ha spogliato.
Peter non mi vuole. Vuole solo sfogarsi. Potrei essere qualsiasi persona, qualsiasi cosa, e per lui non farebbe differenza. Mi viene spontaneo chiedermi se non sia così anche per me. Potrebbe essere chiunque. Voglio solo spegnere il cervello. Perché sono triste, e sono solo, e sono annoiato. Anche adesso.
L’unica cosa che mi distoglie dal dolore della cinghia contro la gamba, è il dolore più acuto che sento quando Peter mi tiene per le ginocchia e, dopo avere indossato il preservativo, entra dentro di me. Senza perdere poi neanche tutto questo tempo a prepararmi. Lancio un mezzo grido fra il sofferente e il sorpreso e getto indietro il capo, inarcando la schiena per reazione. Lui mi tiene fermo per un fianco e si spinge a fondo dentro di me, e prima che io abbia la possibilità di tornare ad accasciarmi sul ripiano mi afferra di nuovo per i capelli e mi tira indietro, con forza, costringendomi ad inarcarmi ancora di più, tanto da farmi quasi male.
Scivolo all’indietro lungo il ripiano e la maglietta mi si alza. La pancia sfrega contro la superficie liscia dell’isola e l’attrito è così forte che si sente un suono scricchiolante e sinistro coperto appena dal mio gemito di fastidio mentre torno a poggiare i piedi a terra e Peter approfitta della mia nuova stabilità per spingere più forte. Mi viene da piangere e ho le ginocchia molli.
Solo quando appoggio i gomiti contro il ripiano e nascondo il viso fra le braccia, lasciandomi andare un singhiozzo strozzato, Peter forse si ricorda che dopotutto sta scopando un essere umano. Le sue dita mi corrono fra le cosce, ma non c’è niente da masturbare. Lui si incaponisce, comunque, perché è testardo – fa male – perché deve avere sempre ragione – fa male che faccia male – perché non vuole arrendersi al fatto che sta facendo una cosa orrenda – fa male volerlo da impazzire – e continua ad accarezzarmi, stringendo la presa ed insistendo così tanto che, alla fine, fosse anche solo per sfregamento meccanico, può gloriarsi di tenere stretta in mano la mia erezione.
Scoppio a piangere fra i gemiti di piacere che germogliano sulle mie labbra, lievi e strozzati. Faccio fatica a respirare, Peter non si ferma, non vuole fermarsi, e non so se, anche volendo, ci riuscirebbe. Tengo gli occhi serrati perché ho la netta impressione che, se li aprissi, mi vedrei crollare il mondo davanti. E sto già abbastanza male così.
Vengo per inerzia, che è lo stesso principio fisico per il quale suppongo venga anche lui. Che non geme, ringhia e basta. Arrabbiato come non l’ho mai visto. Mi si accascia addosso subito dopo, stremato, e non si preoccupa di pesarmi sulla schiena e quindi anche sul petto, impedendomi di respirare agevolmente. Resto lì ad affannarmi, cercando di gonfiare i polmoni e tenermi quanto più possibile sollevato dal tavolo – per chi mi hai preso, Peter? Cazzo, non ti reggo – ma non ce la faccio a chiedergli di spostarsi. E non solo perché sono tutto dolorante. Non ci riesco e basta.
Non so per quanto rimaniamo in questo modo. So che il legno plastificato sotto di me ha tutto il tempo di intiepidirsi e inumidirsi un po’ a contatto con la mia pelle accaldata e sudata, e che solo dopo aver cominciato a trovarlo fastidioso mi accorgo che il ritmo del battito del cuore di Peter è cambiato, s’è fatto più ansioso. Lo sento sollevarsi piantando le mani sul tavolo, ai lati del mio corpo, ed uscire da me con un movimento lento, quasi premuroso. Il primo della serata.
- Dio… - mormora, la voce persa, - Dio, Bill. – mi accarezza piano la schiena, i capelli, il collo, guardandomi da tutti i lati mentre io faccio leva sulle braccia per rimettermi in piedi e non riesco nemmeno a stare dritto, finendo per crollargli addosso un secondo dopo. Lui mi regge per le spalle e continua a mormorare imprecazioni, agitatissimo. – Bill, mi dispiace. Dio, mi dispiace tantissimo, come— cazzo, come stai?
- Non lo so… - biascico, tirando su col naso. Chino il capo perché ho pianto tutto il tempo e devo essere un mascherone orrendo. Non voglio che mi veda. Gli resto appoggiato addosso, però, perché non ce la faccio proprio a reggermi da me, e lui mi sistema tutto, mi ripulisce, mi tira su i pantaloni, mi maneggia come fossi fatto di porcellana, e io mi chiedo dove cazzo eri, Chaku? Dove cazzo eri dieci minuti fa, quando mi servivi così e invece eri un altro?
Mi porta fino al divano, e non mi prende in braccio solo perché suppongo voglia verificare che sono ancora in grado di camminare. Mi aiuta a sedermi comodo, poi si siede al mio fianco, e quando mi allungo a cercare un abbraccio lui mi stringe subito a sé, lasciandomi sistemare contro il suo petto ed accarezzandomi dolcemente i capelli. Piango un altro po’, silenziosamente. Non sono più nemmeno triste, lo faccio perché non sento nulla. C’era qualcosa, dentro di me— c’erano un sacco di cose, dentro di me. Non ho mai pensato di essere una bella persona, ma c’è stato un tempo in cui ero almeno una persona piena. Ora non resta nemmeno quello. Mi sono svuotato, e tiro fuori altre lacrime solo perché sto raschiando il fondo del barile. Finiranno anche quelle, prima o poi. O almeno lo auguro, perché i miei occhi sono stanchi, e bruciano, e non ne possono più nemmeno loro.
- Va un po’ meglio? – mi chiede qualche minuto dopo. Non ha mai smesso di accarezzarmi i capelli. Io annuisco lentamente, strusciando il viso contro il suo petto. Schiudo le labbra e me le inumidisco, prima di parlare.
- Ora me lo dici cos’è successo? – chiedo piano, e lui si irrigidisce subito. Si ferma anche la sua mano, e questa è la conferma definitiva che qualcosa deve per forza essere successo.
Deglutisce, il cuore gli batte forte. Resta immobile e quasi non respira – il suo petto non si alza né si abbassa, o se lo fa io non me ne accorgo, perché è un movimento impercettibile, appena accennato, come avesse paura di farmi scappare respirando troppo profondamente. Resto in silenzio, e in attesa.
- Bill. – sospira quindi lui, - …io devo dirti un po’ di cose.
Sollevo lo sguardo e trovo subito il suo, molto più limpido di quanto non fosse prima. Anche molto più carico, però, e questo mi fa paura. Mi allontano appena e lui non mi trattiene, perciò mi metto dritto e mi siedo più compostamente al suo fianco. Solo per un attimo, perché non ce la posso fare a reggere questa situazione senza darmi un po’ di conforto, almeno da solo, perciò finisce che due secondi dopo ho già sfilato le scarpe e tirato su le gambe sotto il corpo, rannicchiandomi accanto a lui.
Peter mi guarda e si vede che non sa come dirmi quello che vuole dirmi. Vorrei sapergli leggere nella testa per risparmiare ad entrambi questo momento.
- Io e Fler… - comincia abbassando lo sguardo e grattandosi nervosamente la nuca. Cosa c’entra Patrick? – Io e Fler abbiamo avuto una storia, Bill.
In un primo momento, credo di non aver capito bene. Lo guardo con aria interrogativa e lui non fa una piega, ed è lì che comincio a preoccuparmi.
- Cosa stai dicendo? – chiedo quindi, perché mi sembra una follia. E ora voglio che mi dica che scherzava. Pesce d’aprile. Puoi dirmelo, Chaku? Anche se non siamo in aprile.
- Io e Fler abbiamo avuto una storia. – ripete lui, e il suo tono è così colpevole che mi si secca la gola e devo per forza chiedergli se—
- Mentre io e te…?
- No! – torna subito a guardarmi lui, quasi oltraggiato, - No, Bill, no! Voi non… - esita appena, - non vi siete mai accavallati, te lo assicuro. Io e lui siamo stati molto vicini l’anno scorso, prima che tu… intendo, dopo che io e te abbiamo deciso di non vederci più. E, insomma, è durata. Un po’.
- Un po’ quanto? – chiedo, deglutendo a fatica, - Giorni, settimane, mesi?
- Praticamente… - scolla quasi con dolore, aggrottando le sopracciglia, - Praticamente fino a poco prima che io e te ricominciassimo a frequentarci e… sì, be’, insomma. Dopo la morte di Saad.
Faccio un rapido calcolo mentale e mi stupisco da solo di quanto giri bene la mia mente, di quanto sia lucido in questo momento. Comunque stiamo parlando di un sacco di tempo.
- E-- - comincio, ma non ho tempo né modo di finire perché lui mi interrompe con un cenno della mano.
- E poi, - riprende, - anche dopo. Quando è tornato Bushido e tu sei andato a vivere con lui, Bill, io e Fler ci siamo ritrovati di nuovo. E – dice tutto d’un fiato, quasi volesse liberarsi la coscienza il più in fretta possibile. Come quando tiri su scatoloni per interi piani, e gli ultimi gradini te li fai di corsa anche se non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. Proprio perché non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. – E l’ho lasciato io, Bill, quando tu sei tornato da me. È stato lui… lo so che mi hai detto che non c’è alcun bisogno di dirtelo, ma è stato lui a picchiarmi, quando sono tornato ricoperto di lividi.
Vorrei potergli dire qualcosa, giusto per fargli capire che sono ancora vivo. Il fatto è che non ne sono tanto sicuro nemmeno io.
- Ecco… - balbetto a disagio, scostando lo sguardo, - io—
- Io non ho finito. – mi interrompe lui, e il suo tono torna a farsi duro. Serro le labbra e aspetto. – Non ti ho detto tutto questo per capriccio, Bill. – sospira, i tratti del viso che tornano più dolci, più simili a come li amo, - Ma perché oggi l’ho rivisto, e quel qualcosa che ci ha tenuto insieme prima di te, era ancora lì. Anzi, non credo… non credo si sia mai davvero spento del tutto.
Non respiro nemmeno, per una quantità di secondi che non riesco a calcolare.
- Cosa stai cercando di dirmi? – gli chiedo. Vorrei che la mia voce potesse suonare stanca come mi sento, ma temo suoni solo gelida e urtata. Come, d’altronde, mi sento.
Peter mi fronteggia a muso duro, per un po’. Non che la sua espressione si incattivisca, solo che sta cercando di tirare fuori tutto il coraggio che ha. E io lo so che è tanto, solo che fino ad ora l’ha sempre usato per proteggermi, mai per ferirmi.
- Ho provato a baciarlo. – confessa atono, - Lui mi ha rifiutato. Io però ci penso. E non riesco a smettere di pensarci. Io ti amo, Bill, ma— non lo so. Forse amo anche lui. – si prende una pausa, inspira ed espira, si passa una mano sugli occhi, sulla fronte, sulla nuca e sul collo. È palesemente esausto e io mi sento in colpa e non capisco da dove venga questo sentimento. – A te non succede? – mi chiede poi, e mi si stringe il cuore perché ho paura che lo stia guardando, che mi stia spiando nel petto, e che per questo il mio cuore stia cercando di nascondersi, facendosi minuscolo per non farsi vedere. Solo che fa male, e io così non riesco nemmeno a respirare. – Non ti succede di pensare le stesse cose con Bushido?
E io ripenso ai tremori, e al sorriso di Anis, e a quanto facesse male guardarlo con Fler, e al palmo della sua mano, e alle volte che tornava da qualche viaggio promozionale in Svizzera o Austria, o quando mi veniva a prendere all’aeroporto, e penso a quando veniva a trovarmi a casa, a quando abbiamo preso l’appartamento, agli scatoloni, al sangue sulle lenzuola, a quanto era bello coi capelli lunghi vestito di bianco nella penombra di quel salotto in quell’appartamento sconosciuto, al suo profumo, agli hamburger di McDonald’s, alle ricettario di Karima, alla villa gialla enorme e bellissima che profumava di casa, a Tomi pieno di lividi, alla sua discografia in frantumi sotto l’Escalade, alle serate con la crew e le ubriacature e restare svegli fino all’indomani mattina e andare a Tempelhof solo io e lui e i progetti le vacanze la paura di perderlo quando non mi diceva qualcosa il suo odore il suo sapore la consistenza della sua pelle la sua voce il suo nome – e guardo Chakuza e ho gli occhi pieni di lacrime, e sono le lacrime più pesanti che ho versato da quando Anis è tornato a casa. Oltre il velo delle lacrime, io Chakuza lo vedo appena. Come sempre, la sola idea di Anis basta ad offuscarmi la vista.
- Sì. – ammetto. Perché non posso fare altrimenti, e non per le lacrime, ma perché quello che mi ha appena colpito al petto ricordando è troppo importante per poterlo tradire mentendo. – Sì. Cerco di fare di tutto per non pensarci, ma sì. Dio… - singhiozzo più forte, mi piego su me stesso, - Dio, sì. – e il Chaku è lì, com’è sempre stato lì quando io e Anis eravamo ancora il re e la principessa, e litigavamo ed io avevo bisogno di una spalla su cui piangere. Come allora, mi accartoccio come in mezzo alle fiamme e mi appoggio contro la sua spalla, e piango, piango tantissimo, e lui mi stringe a sé e ricomincia ad accarezzarmi i capelli.
Dovrei venire a patti col pensiero che abbiamo appena confessato l’uno all’altro di essere innamorati di altri uomini. Ma potrò farlo in un secondo momento.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Flashfic, PWP, Slash, Lemon.
- "Non si è mai troppo grandi per sedersi in grembo a Babbo Natale."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF German Rap/RPF Tokio Hotel, Bushido/Bill Kaulitz, "Non si è mai troppo grandi per sedersi in grembo a Babbo Natale".
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
COSPLAY

Le cosce di Bill si chiudono come tenaglie attorno ai suoi fianchi, e Bushido lo stringe con forza in vita un po’ perché ha quasi paura possa scivolargli di dosso cadendo all’indietro – Bill, d’altronde, non è questo illuminante esempio di coordinazione e grazia dal quale non puoi mai aspettarti idiozie simili, anche nel mezzo della scopata più grandiosa che ti pare di ricordare da che sei venuto al mondo, circa – un po’ perché il modo in cui si muove freneticamente addosso a lui, accogliendolo in profondità all’interno del suo corpo mentre i loro fianchi collidono con un rumore schioccante che gli riempie le orecchie e il cervello fino a stordirlo, gli fa venire voglia di afferrarlo tanto forte da lasciargli addosso i segni.
Pianta le dita sui suoi fianchi bianchissimi ed anche se, avvolto in quel costume rosso, bianco ed enorme e in lana spessissima, sente un caldo che potrebbe perfino squagliarsi e non se ne accorgerebbe nemmeno, continua a spingere, andando incontro a Bill ogni volta che i suoi fianchi stretti si calano sulla sua erezione che quasi esplode dalla voglia che ha di venirgli dentro ogni volta che si stringe tutto intorno a lui.
Le mani di Bill, sottilissime come tutto ciò che fa parte del suo corpo, accarezzano con bramosia le lunghe maniche rosse, appendendocisi in un gesto un po’ infantile mentre solleva le cosce per allacciargliele dietro la schiena, strattonando poi con una certa forza, come volesse usarle come leva per spingerglisi contro più violentemente, fino a sentirlo più profondamente che può, fin quasi a fargli male.
- Oh, cazzo. – ringhia Bushido, stringendolo con forza perfino eccessiva e baciandolo ovunque mentre con una mano scivola fra le sue gambe ad accarezzarlo con cura, seguendo il ritmo delle sue spinte. – Bill, cazzo.
- Sì. – risponde Bill, se di risposta si tratta, premendo le labbra contro le sue ed invadendo letteralmente la sua bocca con la lingua mentre viene fra le sue dita con un gemito prorompente, - . – e Bushido nasconde il viso contro il suo collo mentre si svuota con la stessa violenza dentro di lui, mordendo la pelle tenera della spalla e coprendola poi di baci un po’ consolatori e un po’ teneri, seguendo il segno della chiostra dei denti sulla pelle arrossata.
Il movimento è stato così repentino che la lunga coda del cappuccio è stata sballottata in avanti e ora pende pigramente lungo la schiena di Bill, ondeggiando lenta al ritmo dei loro respiri concitati.
- Adesso… - ansima Bushido, allontanandosi un po’, ma non così tanto, il minimo indispensabile per guardarlo negli occhi, - devi proprio spiegarmi – borbotta, tirando indietro il cappello, prima che il pon pon bianco gli solletichi il naso fino a farlo starnutire, - perché hai preteso che mi conciassi così prima di scopare.
Bill si lascia andare ad un sorriso malizioso, sporgendosi per strofinare la punta del naso contro il suo in un gesto tenerissimo, allacciandolo al collo.
- È sempre stato uno dei miei sogni proibiti. – risponde sibillino, in una risatina divertita.
Bushido inarca un sopracciglio, dubbioso.
- Non sarai un po’ troppo grande per questo? – chiede, indicando la casacca rossa ed enorme che pende lungo i suoi fianchi nudi, e subito dopo i pantaloni di fustagno, dello stesso colore, arrotolati attorno alle caviglie.
Bill ride ancora, coprendosi pudicamente le labbra un po’ umide e arrossate.
- Non si è mai troppo grandi per sedersi in grembo a Babbo Natale.
Genere: Comico, Generale, Romantico (accennato).
Pairing: Bill/Bushido (accennato).
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash (accennato).
- Il regalo che Tom compra a suo fratello Bill per Natale si rivela il pretesto per concedere all'estro artistico di Bill di avere sfogo in modi poco convenzionali. E ci va di mezzo un povero modellino di Gundam.
Note: Questa storia nasce principalmente per rendere omaggio al Gundam più gaio della storia – un’invenzione splendida per la quale ringrazio che il mondo sia composto da persone del tutto folli – e per soddisfare le menti perverse di Tab e Meg, le quali in realtà hanno plottato questa storia ben prima che io mi decidessi a scriverla, roleplayandola su Twitter. Di fronte alle meraviglie da loro partorite (come l’idea dello sposalizio fra Gundam e Ken XD), io non ho proprio potuto evitare di piegarmi al volere del Dio del Fangirling, perciò l’ho scritta XD E questo è il mio regalo di Natale al fandom dei Criceti Crucchi più famosi della storia <3 (Bushido s’è insinuato senza che io potessi in alcun modo fermarlo. Cattivo Bu, cattivo.)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
REMEMBER
77. Remember

Quale fosse il motivo per cui Tom avesse insistito tanto per avere il salvadanaio di porcellana, Simone lo comprese nell’esatto momento in cui il bambino si presentò davanti a lei, avvolto in un giaccone grande il doppio della sua taglia. I capelli biondi e ingarbugliati stavano tutti raccolti sotto un cappellino gonfio e rovinato che, allungandosi dietro la sua nuca e terminando con un pon pon che forse un tempo era stato morbido e rotondo, gli dava quasi l’aspetto di una specie di Babbo Natale dei piccoli, minuscolo, mingherlino, affannato e scompigliato.
- Cos’hai fatto tutto il pomeriggio, Tomi? – chiese dolcemente, inginocchiandosi davanti a lui e sfilandogli il cappellino, per poi riordinargli i capelli sulla fronte e sulle tempie, - Dove sei stato?
Tom sorrise furbo, tirando fuori dalla giacca un pacco regalo di medie dimensioni ma che, in braccio a lui, sembrava grande almeno due volte tanto.
- L’ho trovato! – disse trionfante, agitando il pacco avvolto in una bella confezione blu scuro, lucida e cangiante sotto la luce della lampada, - Il regalo per Bill!
Simone spalancò gli occhi, parzialmente intenerita e parzialmente stupita. Fece per chiedergli dove avesse trovato i soldi per acquistarlo – qualsiasi cosa fosse – ma lì, appunto, ricordò del salvadanaio in ceramica e di come avesse inizialmente pensato che quel porcellino dall’aria beata e pasciuta non sarebbe sopravvissuto neanche una settimana, per poi osservarlo rimpinguarsi giorno dopo giorno con tutte le monetine con cui lei, Jörg e Gordon continuavano a riempirlo di tanto in tanto, sotto lo sguardo grato e speranzoso del Tom più carino che Simone riuscisse a ricordare in anni di soddisfatta maternità.
E dire che Tom, a tutti gli effetti, era quello carino, fra i gemelli; di Bill si sarebbero potute dire molte cose, a fronte dei suoi dieci anni scarsi di vita – che fosse talentuoso, anche se su come incanalare questo suo talento nessuno aveva ancora le idee granché chiare, Bill compreso, che fosse piacevolmente autoironico ma anche in grado di prendersi tragicamente e fastidiosamente sul serio anche troppo facilmente, che fosse trasgressivo, sempre per quanto possa essere trasgressivo un bambino di dieci anni, che fosse manesco e capriccioso e intelligente, ma che fosse carino, nel senso più ampio e dolce e tenero e morbido del termine, quello proprio no. Bill già parlava di lasciarsi crescere le unghie per ficcarle negli occhi di chi lo prendeva in giro, carino proprio no.
- Oh! – annuì la donna, scrutando il figlio con aria curiosa, - E cos’è?
- Un giocattolo. – rispose Tom con una scrollatina di spalle, come fosse del tutto ovvio. In effetti lo era, ma Simone non poteva fare a meno di sentirsi profondamente inquieta sul punto. Bill poteva essere così incredibilmente facile all’offesa, quando si trattava di ciò che gli altri facevano per compiacerlo – il suo ragionamento di base, peraltro non del tutto assurdo, era qualcosa di molto simile a un secco “a me non interessa se fai qualcosa per rendermi felice, se poi non riesci a rendermi effettivamente felice, non meriti la mia gratitudine, ma al limite una lunga e penosa occhiata prima di un tragico e teatrale sospiro e della mia fuga in camera”.
- E che giocattolo è? – chiese quindi, timorosa, stringendosi un po’ nelle spalle.
Tom arricciò il naso, indispettito.
- È una sorpresa, è solo per lui. – sbottò, prima di liberarsi della sua stretta, posare il pacco sotto l’albero e salire in camera propria, chiamando Bill a gran voce.
Simone sospirò, risollevandosi in piedi. Ripensò alla Barbie Sirena che Bill custodiva geloso come un cane da guardia, impedendo a chiunque – lei compresa – di avvicinarsi, e sperò che Tom fosse già abbastanza furbo da riuscire a fare i propri conti e capire.
*
Dieci anni, a Tom, non erano decisamente bastati. Lui e Bill avevano trascorso insieme la totalità di quel tempo, più i nove mesi addizionali all’interno dell’utero materno, che però probabilmente non andavano calcolati nell’atto della computa finale, semplicemente perché erano stati mesi di convivenza inconscia – e, se c’era stata della coscienza, Tom l’aveva dimenticato. Fosse perché quando sei nella pancia di tua madre non sei ancora in grado di ricordare, o fosse perché Bill l’aveva traumatizzato già allora così tanto da costringerlo a rimuovere ogni ricordo, non gli interessava scoprirlo.
Comunque fossero andate le cose, Tom aveva sempre trovato suo fratello un oggetto strano e misterioso da maneggiare con cura, al pari dei coltelli, delle pistole giocattolo – che non andavano mai mai mai puntate contro Gordon, perché i pallini finivano sempre in qualche modo per conficcarglisi negli stinchi – e delle creme cosmetiche di sua madre. Doveva d’altronde esserci un motivo per cui invece tutte quelle cose Bill le maneggiava con la leggerezza di una pallina di gomma, come fossero state del tutto innocue – e sì che Tom aveva problemi anche a maneggiare le palline di gomma, che in mano a lui sembravano improvvisamente diventare armi mortali atte a sventrare vasi, infrangere vetri e sbudellare infelici e sfortunate bocce di pesci rossi.
Insomma, doveva esserci un’affinità fra Bill, i coltelli, le pistole giocattolo e le creme cosmetiche di Simone, e al di là di quella lampante che legava suo fratello alle ultime, la più grande somiglianza che lo legava agli altri due tipi di oggetto era sicuramente la sua capacità di diventare qualcosa di incredibilmente pericoloso in un lasso di tempo talmente breve da non permetterti in alcun modo di prendere delle contromisure adeguate ad arginarlo.
Suo fratello, seduto sul tappeto di fronte a lui ed illuminato a tratti dalle luci a intermittenza che adornavano l’albero, si rigirava fra le mani il modellino del Gundam che, risparmiando per mesi, era riuscito a comprargli per Natale, guardandolo da ogni lato come non riuscisse a trovargli un senso neanche sforzandosi. Alle sue spalle, Tom poté sentire Gordon schiacciarsi una sonora pacca esasperata sulla fronte, mentre Simone sospirava profondamente.
- Uhm, ti piace? – chiese timoroso, guardando il fratello dal basso verso l’alto dopo avere inclinato lievemente il capo. Bill soppesò il modellino come volesse provare a rilevarne la densità e poi sospirò profondamente, alzandosi in piedi.
- Suppongo di sì. – rispose quindi, allontanandosi verso le scale con aria meditativa.
- …suppone? – chiese Tom, quando suo fratello fu sparito al piano di sopra, voltandosi a guardare sua madre e Gordon in cerca di una spiegazione. L’uomo scrollò le spalle e scosse il capo, preferendo rintanarsi in cucina finché la nuvola di delusione di Bill non si fosse dissipata, e Simone si accucciò sul tappeto accanto al figlio, accarezzandogli dolcemente la testolina bionda.
- Tuo fratello… - cercò di spiegargli, - è un ragazzino difficile.
Tom sospirò, abbandonandosi di schiena contro il divano e fissando i ghirigori senza senso che decoravano il tappeto.
- Lo so. – rispose affranto, - A volte mi piacerebbe che ci assomigliassimo di più.
- Tu sei convinto di essere un ragazzino facile? – rise Simone, coccolandolo un po’.
- Be’, non lo so se sono facile o difficile, ma sicuramente non sono difficile quanto lui! – sbottò Tom, allargando le braccia ai lati del corpo. Simone rise ancora, traendolo contro di sé e ravviandogli i capelli dietro le orecchie, stringendoli poi in una coda appena accennata che lasciò immediatamente libera di ricadergli lateralmente lungo una spalla.
- Coraggio. – lo esortò quindi, sollevandosi in piedi e trainandolo con sé verso la cucina, - Vieni a prendere un po’ di dolce, e poi portane una fetta anche a tuo fratello.
*
Tom bussò discretamente alla porta ed attese che suo fratello gli desse il via libera, prima di entrare, ponendo naturalmente davanti a sé – e cioè fra se stesso e qualsiasi tipo di pericolo rappresentato principalmente da Bill con gli artigli sfoderati e le zanne a fare capolino fra le labbra, pronto a colpire alla giugulare – il piatto col dolce che sua madre aveva preparato nel pomeriggio, riflettendo sulla possibilità di usarlo come distrazione estemporanea se si fosse presentata la necessità di fuggire per salvarsi la vita o, almeno, provare a vender cara la pelle.
Suo fratello, comunque, non sembrava intenzionato a farlo a pezzi. Entrando in camera, Tom lo vide chino sulla propria scrivania, circondato da tutta una serie di oggetti che in genere utilizzava per distruggere e ridecorare da capo le magliette che Simone gli comprava. Immaginando che dovesse essersi messo a fare l’imitazione della bella sarta di paese come sempre quando sentiva il bisogno di dimostrare al mondo quali meraviglie le sue mani erano in grado di produrre, Tom si avvicinò con un sorriso, posando il piatto sul tavolo accanto a lui.
Inorridì – per usare il termine più adatto a descrivere il suo sconcerto – non appena posò gli occhi sul Gundam, o meglio: su ciò che il Gundam era diventato dopo essere passato per le abili quanto psicotiche mani di suo fratello.
Dove prima c’era stato del sobrio nero semilucido, ora si susseguivano infinite distese di smalto rosa confetto ancora fresco, interrotto a sprazzi da composizioni di strass e perline che, quando avevano una forma, ricordavano quella dei fiori, ed in qualche punto specifico perfino dei cuori.
- Bill…? – lo chiamò, visibilmente scosso, - Cosa…? – provò a chiedere, ma la domanda tutto sommato garbata rimase imprigionata nella sua gola, schiacciata dal più sincero ma allo stesso modo meno educato “cosa cazzo stai facendo al regalo che ti ho comprato spendendo in un colpo tutti i miei risparmi degli ultimi mesi?!”. Tom lottò con se stesso, e fu una battaglia lunga e difficile, ma alla fine riuscì a trattenere nelle profondità della gola lo strillo aquilino che avrebbe voluto lasciare andare. Trattenne però in quel modo pure tutto il resto della domanda, motivo per cui Bill poté permettersi di ignorarla felicemente e sollevare il Gundam, reggendolo accuratamente dalle parti non coperte di smalto rosa, per mostrarglielo in tutto il proprio cosiddetto e supposto splendore.
- Adesso sì che è bellissimo! – disse con entusiasmo, guardando il modellino con occhi traboccanti d’amore, - Grazie mille per il regalo, Tomi!
Grazie per il regalo – le parole rimbalzarono all’interno della sua testa, battendo contro le pareti del cranio e capitombolando in giro, inciampando fra un neurone e l’altro, per una serie di istanti che parve infinita.
- Bill… - cercò di recuperare l’uso della parola, inumidendosi le labbra secche, - cosa hai fatto a Gundam?
- Be’, ma l’ho preparato, ovviamente. – rispose Bill, con tutta la naturalezza del mondo.
- Preparato a cosa? – insistette Tom, sempre più spaventato.
Bill sorrise come gli aveva visto fare solo nelle occasioni di maggiore felicità della sua intera esistenza.
- Per il matrimonio! – rispose candido, avviandosi verso la cesta dei giocattoli – quasi sempre vuota, visto che i giocattoli preferivano stare sparsi sul pavimento, dove avevano molto più spazio per, uhm, stare immobili in attesa che qualcuno li recuperasse per usarli o metterli a posto – e tirandone fuori il Ken Tritone che alla sua Barbie Sirena favorita si accompagnava da sempre, ma che Bill non aveva mai tenuto granché in considerazione.
- Il matrimonio. – balbettò Tom, incerto. – Bill, quello è il fidanzato di Barbie. – protestò, in un disperato tentativo di evitare l’inevitabile.
- Be’, Barbie voleva la sua indipendenza. – motivò Bill con una scrollatina di spalle, affiancando Gundam a Ken e rimirandoli l’uno accanto all’altro come per verificarne la giustezza a livello di amalgama sentimentale, - È una donna emancipata, sai?
- Emanciche? – chiese Tom, - No, guarda, non lo voglio sapere, sembra una cosa orribile.
Bill sospirò, roteando gli occhi.
- Vuol dire che-
- Ho detto che non lo voglio sapere, scusa! – lo fermò Tom, piantandogli una mano sulla faccia per impedirgli fisicamente di parlare ancora, - E comunque non puoi far mettere insieme Ken e Gundam, sono due maschi! Che schifo!
- Tomi, - rispose Bill, laconico, - Gundam è un robot, non ha un sesso.
- Peggio ancora! – continuò Tom, annuendo decisamente, - Se non ha sesso, non dovresti costringerlo ad accoppiarsi con un Ken che invece un sesso ce l’ha eccome!
- Ma non ha sesso nemmeno Ken! – gli fece notare Bill, - È un tritone!
- La coda è finta! – disse Tom, puntando il dito contro il suddetto addobbo pseudo ittico.
- Sì, e sotto non ha niente. – illustrò Bill, denudando il povero pupazzo dell’unico indumento che ne coprisse le pudenda. – Vedi? Al più un calzino sotto la plastica.
- Eh, e allora perché due esseri asessuati dovrebbero sposarsi, scusa? – cercò di inquisire Tom, indicando a propria volta le mutande di ferro – ormai rosa confetto – del Gundam. – Non ne hanno alcun bisogno!
- Ma è una questione di amore, Tomi! – piagnucolò Bill, rattristato dalla mancanza di comprensione che suo fratello mostrava nei confronti di quella romantica storia.
- Ma come hanno fatto ad innamorarsi, se uno stava nel baule e l’altro l’hai torturato ricoprendolo di paillettes fino ad ora?!
Bill aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto e guardando suo fratello con tutta la disapprovazione di cui era capace.
- Tu non hai nessun rispetto del vero amore. – dichiarò stizzito, - Cosa importa – aggiunse poi, più dolcemente, - di quale sia il tuo sesso o delle condizioni in cui ti sei innamorato? Alla fine, - concluse con un sorriso, - non è l’amore stesso che conta, più di tutto il resto?
Tom lo osservò per qualche minuto, e la convinzione di Bill non vacillò di un punto, mentre finalmente disponeva ordinatamente tutti i suoi pupazzi sulla scrivania in due gruppi ben distinti che Tom immaginò essere quello dei parenti della sposa – se una sposa c’era – a sinistra, e quello dei parenti dello sposo a destra, mentre Gundam e Ken attraversavano orgogliosamente la navata centrale, orgogliosi nel luccicare delle loro paillettes e delle scaglie delle loro code. O quel che erano.

Molti, molti anni più tardi, quando Bill avrebbe preso a vedersi sempre più spesso con un certo rapper pseudotunisino che nulla aveva a che fare con la sua persona, nell’osservare i due avvicinarsi, diventare sempre più intimi e poi, finalmente, innamorarsi, Tom avrebbe per un istante ripensato al Gundam ed a Ken che si univano in matrimonio in quella notte di Natale di tanti anni fa, ed avrebbe zittito definitivamente qualsiasi protesta potesse immaginare riguardo quella relazione.
Alla fine, probabilmente, aveva davvero ragione Bill. Non è l’amore che conta, più di tutto il resto?
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Comico, Generale.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Quello che dico io è: se muori, muori."
Note: Quest’uomo voleva parlare da lungo tempo XD E da altrettanto tempo io volevo lasciargli la possibilità di farlo, perciò spero che quanto avete letto non vi abbia deluso. Io mi sono divertita moltissimo, Eko è l’unico modo che ho per guardare a quello che è accaduto/sta accadendo/accadrà alla Saga con un pizzico di dovuto umorismo XD Eko for President, subito.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE WAY THINGS GO

Quello che dico io è: se muori, muori. C’è un motivo per cui ognuno può morire una volta sola, e non è una questione fisica, cioè, voglio dire, è anche una questione fisica, ma è che principalmente morire è una rottura di palle. Nel senso, c’è da prendersi cura del cadavere, c’è da affidarlo all’impresa di pompe funebri giusta, c’è da tenere d’occhio i preparativi del funerale, la veglia, la cena, e poi naturalmente c’è da avere a che fare col fatto che la gente è triste, eh, e non le viene mica voglia di sorridere, perché uno fa tanto di dire “per il mio funerale, voglio che ridiate e balliate nudi sui tavoli!”, e i suoi migliori amici in genere stanno lì a dire “ma sì, vedrai, rideremo, racconteremo barzellette e la danza delle odalische del ghetto sui tavoli non ce la farà mancare nessuno!”, ma poi, quando la disgrazia accade, non c’è tanta voglia di ridere, e se per caso ti azzardi a tirare fuori la faccenda delle odalische gli altri ti guardano come se fossi una specie di mostro assassino, perciò meglio lasciare perdere.
Insomma, quello che intendo è che non è che tu puoi morire e costringere tutta la tua famiglia e i tuoi amici a tutta questa serie di operazioni deprimenti, per poi venirtene fuori fresco come una rosa con un codino assurdo e i capelli morbidi e lucidi, vestito di bianco come Gesù Cristo dopo la resurrezione, e dire “be’, eccomi qui, in realtà non ero morto, sono tornato, amatemi come prima”. Voglio dire, è scorretto, non sono cose che si fanno.
Quando Bushido è morto, naturalmente sono successe un mucchio di cose. E parlo del mucchio di cose che sono successe subito, immediatamente dopo la sua morte, non di tutto il casino altrettanto incasinato che è venuto giù dopo con Fler infermiere, Fler e Chaku agenti speciali nella notte di Tempelhof e Saad traditore e assassino. Quello poi è stato l’apice. No, parlo delle cose immediatamente successive, tutto quello che abbiamo dovuto dire, e fare, e sopportare, la Principessa in pezzi, il Principino confuso, il Cavaliere del Re che quasi ci rimette lo stomaco se non peggio e il Senzatetto che passa più tempo intorno a noi che in casa sua. Voglio dire, sono stati sacrifici di una certa entità, roba che abbiamo tutti tollerato perché credevamo di avere un motivo per farlo, e quel motivo era che, in fondo, eravamo tutti uniti dalla perdita di quest’uomo insopportabile che però era il nostro capo e lo sarebbe rimasto comunque, anche dopo, indipendentemente da tutto.
Insomma, ci siamo fatti forza e siamo andati avanti, tutti insieme. Almeno fino a quando è stato possibile, poi ovviamente è venuta fuori quella roba di Saad e quindi “tutti insieme” ha un po’ cambiato la sua conformazione, nel senso che quello che stava apprestandosi a diventare il cardine della nuova Ersguterjunge naturalmente è venuto a mancare, per dirla così in termini blandi, quindi le maglie della nostra rete si sono un po’ sfaldate. Per dire, chi lo vede più Nyze, da un po’? Lui e Saad avevano un buon rapporto, deve esserci rimasto di merda quando ha scoperto che era stato lui ad ammazzare Bu. Oppure Kay, per dire. Lui bazzica ancora perché a parte il fatto che comunque siamo tutti affezionati l’uno all’altro – e vorrei dire, è anche ovvio, ti affezioni per forza alle persone con le quali ti sei scattato una foto in collant e mutande – lui con Bill e Tom si diverte parecchio, perché sono vicini come età, quindi sta ancora da queste parti, ma non è mica più come prima, con tutto questo fatto della fidanzata e della nuova casa in centro a Berlino e tutto il resto.
Insomma, ci siamo un po’ persi l’uno con l’altro, che non è stato proprio bello – anche perché eravamo tipo abituati a vivere in simbiosi tutti assieme, la Villa Gialla era un po’ la nostra tana… non so se avete presente, ci sono dei roditori glabri, da qualche parte nel mondo, che vivono tutti sotto terra e per non sentire freddo si spiaccicano l’un l’altro e vivono tutti assieme… okay, forse non erano roditori glabri, ma comunque mi è rimasta impressa questa foto di questo topo senza peli, rosa e cieco che… no, ma comunque non è questo il fulcro del discorso – insomma, non è stato bello ma ci abbiamo guadagnato in tranquillità. Voglio dire, quando le cose sono più tranquille lo capisci perché improvvisamente riesci ad organizzarti la vita senza che questo rappresenti un problema per il prossimo. Per dire, prima, subito dopo la morte di Bushido, c’era il problema-Principessa, e quindi, se a me saltava in testa di ordinare al ristorante un’impepata di cozze e mangiarmela – ora non so se si possa ordinare al ristorante un’impepata di cozze e farsela portare a casa, ma non è importante – insomma, non potevo farlo, perché alla Principessa l’impepata di cozze non piace ed io dovevo mettere in conto che se Bill mi si presentava a casa di umore piagnucoloso, dovevo nutrirlo, che poi è magro e mi deperisce, perciò la mia impepata di cozze non la potevo avere. Dovevamo tutti nutrirci con alimenti Bill-approvati, se no era un dramma.
La cosa è andata avanti per un bel po’, con alti e bassi di varia natura, almeno fino a quando Saad non è morto. Che poi vuol dire che Bill l’ha ucciso, ma questo è un segreto che non deve sapere nessuno, quindi state attenti con chi parlate, quando uscite di qui. Insomma, dopo quel momento sono successe svariate cose, non è che noi si sia tornati esattamente alla normalità – suppongo che una delle varie controindicazioni della morte, a parte il fatto che muori, sia che niente torna più come prima – però almeno abbiamo cominciato a risparmiarci le visite a sorpresa di Bill, che può sembrare una cosa banale, ma è invece una cosa importantissima, perché è importante sapere che puoi tornare a casa e svaccarti sul divano, alla sera, sapendo anche che nessuna Principessa parata a lutto si presenterà alla tua porta in cerca di coccole che non sei sicuro di essere in grado di darle, e che ti guarderà peraltro malissimo prendendo possesso del tuo divano e dormendoci anche, se non sarai in grado di soddisfarla pienamente. Almeno, non so se era così che Bill si comportava anche con gli altri, ma di sicuro era così che si comportava con me.
Insomma, questa situazione ha continuato ad essere più o meno pseudo pacifica per una buona quantità di tempo. Non so cosa facesse Bill, più che altro mi limitavo a pensare che fosse tornato una normale ragazzina della sua età e perciò, che ne so, avesse ricominciato a giocare con le bambole e via discorrendo. L’importante era che non mi importunasse e che, se volevamo vederci perché io potessi offrirgli da mangiare da qualche parte, fosse perché entrambi lo volevamo e non solo perché lui aveva voglia di rendermi il suo cuscino del pianto preferito per una notte.
Tutto ciò era evidentemente troppo bello per poter durare, e perciò Bushido – che non è uno che possa vantare di migliorare la qualità della vita della gente, in genere – ha pensato di mandare tutto a puttane risorgendo.
Insomma, io sono là che aspetto la mia pizza, no? Sono tornato a casa stanco dopo una giornata di registrazioni con Sentino – che non so se lo conoscete, ma è un fuori di testa più fuori di testa di me, eh. È uno che ti si presenta in studio cantando di aver visto trifogli rosa crescere lungo il battistrada del marciapiedi, perché prima di uscire s’è sparato una canna grossa quanto una bottiglietta d’acqua. Insomma, dopo una giornata passata con un tipo simile, che ogni tanto ti guarda con gli occhi vacui e le pupille dilatate, che tu ti chiedi se per caso una colonia di folletti non sia appena spuntata dal nulla sulla tua testa, tu hai voglia solo di tornartene a casa, abbatterti sul primo divano che incontri e muoverti solo per sollevare la cornetta del telefono, ordinare la pizza e poi andarla a recuperare sulla soglia della porta, punto.
Quindi è quello che faccio: mi getto sul divano, decido di ordinare una quattro formaggi perché voglio qualcosa di pesante che mi mandi in coma fino a domani mattina, e poi resto lì a rigirarmi i pollici, godendo del silenzio che mi rimbomba nella testa, fino a quando non suona il campanello.
Io lì non lo so che la mia vita sta per cambiare, perciò mi alzo tranquillo e sono pure felice perché penso “pizza!” e tutto ciò che voglio è soffocare nel formaggio e morire felice. Solo che quando apro la porta non mi trovo davanti il ragazzo delle pizze. No. Io mi trovo davanti Bushido.
E quindi, naturalmente, lo investo di testa e scappo.
Mentre scendo per le scale cercando di stare attento a non ruzzolare giù di testa, che sarebbe un po’ una conclusione eccessiva anche per una giornata tanto brutta come quella, l’unica cosa che riesco a pensare con chiarezza è che tutto ciò deve essere colpa di Chakuza. Cioè, per forza. Penso “magari Saad non c’entrava niente e Chaku e il Senzatetto hanno preso un abbaglio, inducendo in errore anche la Principessa” – penso così, “inducendo in errore”, perché mi viene in mente una volta che Bill s’è presentato a casa mia, Bushido era ancora vivo, ai tempi, e io gli faccio “Principessa, ma che cazzo ci fai qui?” e lui chiama Bushido e fa “Ani-iiis, sono a casa di Eko ma tu non ci sei!” con tono piagnucoloso e Bushido gli fa “passamelo” e io faccio a Bushido “pronto?” e lui mi fa “Bill credeva che ci saremmo visti da te”, e io giustamente rispondo “Bill ha sbagliato” e lui, tranquillissimo, mi ribatte “Bill con voi non sbaglia mai, tienilo a mente. Circostanze confuse l’hanno indotto in errore”, quindi è questo che mi viene in mente, circostanze confuse che poi sono Chakuza e il Senzatetto, che magari non sono circostanze ma confusi lo sono di certo, hanno indotto la Principessa a credere che fosse opportuno fare fuori Saad mentre così non era, e ora Bushido è tornato dal mondo dei morti per vendicare l’ingiusta scomparsa del cugino innocente. Solo che magari qualche circostanza confusa ha indotto in errore anche lui, e quindi lui, invece di prendersela con Chaku e il Senzatetto, che sono i diretti responsabili, se la prende con me.
Proprio per questo motivo, appena arrivo giù in strada e mi rovisto nelle tasche dei jeans trovando il telefonino, la prima cosa che faccio è chiamare lui.
- Pro- - mi fa, ma io non gli lascio il tempo di concludere.
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa! – dico tutto d’un fiato. E, voglio dire, nel momento in cui lo dico io ci credo, perché pensare che Bushido sia risorto dalle sue ceneri come la tunisina fenice è molto più sensato di una qualsiasi alternativa che la mia mente possa propormi, tipo che ha vissuto sotto un sasso dietro casa mia per tutti questi mesi, salvo poi rispuntare lindo e pinto come non fosse successo niente perché aveva finito il sale nella sua casa di pietra, per dire.
- Tu hai cosa dove, Eko? – fa Chaku con voce stridula, come non capisse minimamente cosa sto dicendo. Eppure, sto parlando in tedesco. Non può mica aspettarsi che tiri fuori dal cappello qualche dialetto alpino che conosce solo lui, la sua famiglia e qualche capra.
- Cristo santo! – ripeto io per buona misura, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! – e, siccome lui sembra ancora non capire, mi spiego meglio: - Chakuza, quando hai fatto fuori Saad – dico sbrigativamente, dando a lui la colpa perché non mi va di ripetere il complesso processo mentale dell’indurre in errore la Principessa, - tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
- Eko… - sospira lui, e lo fa con quel tono come a dire “ah! La santa pazienza che ho!”, mentre io vorrei dirgli “vola basso, austriaco, che tanto per cominciare sei anche più spostato di me, tu, e comunque sei un nano di merda”, - È una serata di merda. – sì, ma anche a me cosa me ne frega, - Seriamente. – ma puoi pure giurarmelo su tua madre! – Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! – esplodo gesticolando, - Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi trovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, - riprende lui interrompendomi e facendo sfoggio di grande maleducazione, come se chiamarsi come l’amichetto preferito di Heidi lo esonerasse dal lasciar finire gli altri prima di cominciare a blaterare idiozie che non interessano a nessuno, - perciò… - lo sento che si interrompe un attimo e poi cambia argomento all’improvviso, che è una cosa che capisco bene perché pure io lo faccio, sono gli unici momenti in cui il cervello mio e quello di Chakuza funzionano in sintonia. - …Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?! – mi fa, solo che questo non è il momento di pensare alla pizza, naturalmente, e glielo dico pure.
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! – gli faccio, - Ti hai dei problemi seri! Il punto è che io ho aperto la porta e mi sono trovato davanti Bushido. Bushido, capisci?
Lui si prende una pausa per realizzare.
- Eko…? – mi chiama. Io roteo gli occhi.
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – e la pausa me la prendo io, per cercare di respirare di nuovo. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. – decido arbitrariamente, - E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospira, - Eko, senti. Ora vengo da te e poi saliamo insieme. – mi fa con aria rassicurante, come se io potessi sentirmi rassicurato dalla sua presenza! – Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel cazzo che credi. – rispondo annuendo compitamente, perché Bushido buon’anima me lo diceva sempre, puoi dire tutte le parolacce che vuoi, ma la tua espressione dev’essere sempre quella di uno che sta dicendo le cose più educate del mondo, così la gente ti prende sul serio. E poi mi guardava a lungo, con aria comprensiva, e mi diceva “e Dio sa se hai bisogno di essere preso sul serio tu, Ekram”, me lo diceva proprio col mio nome, Dio l’abbia in gloria. – Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari – realizzo all’improvviso, e ancora lì non so quanto ho ragione, - dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego! – si lagna lui, e io scrollo le spalle.
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
Lui mi chiede se intendo mangiarmele, e tutto ciò che rispondo io è un vaffanculo irritato, decidendo poi di restare lì in attesa perché di rimettere piede nel mio appartamento da solo non se ne parla nemmeno sotto tortura, nossignore: quando salirò nuovamente per quelle scale, sarà solo con un’adeguata vittima sacrificale di nome Chakuza al mio fianco.
La serata, comunque, procede in maniera abbastanza assurda, e se lo dico io potete fidarvi. Tra Chakuza che arriva e, come prima cosa, quando vede Bushido, decide di chiamare Fler, e Bushido che poi si mette a parlarmi di donne che fanno cose strane con le noci di cocco, anche quando poi rimaniamo soli perché lui ha deciso di dormire a casa mia per chissà che assurdo motivo, rischio di perderci la testa numerose volte, e sto evitando di parlare del momento tremendo in cui Bushido e il Senzatetto si sono messi a flirtare sul mio tavolino da caffè, perché sarebbe troppo da ripercorrere adesso per la mia povera psiche stanca, ecco.
Comunque, da una partenza del genere non si può certo migliorare, e da allora, appunto, le cose non hanno fatto che degenerare verso il fondo del fondo. Ripeto: c’è un motivo per cui si muore una volta sola e dalla morte non si torna. La gente ci mette tanto a ricostruirsi quando perde una parte così importante di sé, e tu non puoi tornare e mandare all’aria tutti gli sforzi che le persone che ti amavano hanno fatto per andare avanti. Bushido mi sa che non l’ha messa in conto, questa cosa, tornando. Non so esattamente cosa si aspettasse, ma di sicuro non si aspettava di trovare tutto sbagliato come poi è stato – lui non è uno cui piaccia mettersi in mezzo alle cose quando sa di non poterle rivoltare a proprio favore. Probabilmente si aspettava davvero che la Principessa tornasse ad essere sua e anche tutti noi riprendessimo i posti che avevamo prima che morisse. Non lo so. Un po’ mi dispiace che niente di quello che pensava si sia avverato, d’altro canto però mi dico che è stato lui a decidere di morire ed altrettanto ha fatto quando ha deciso di risorgere. Bushido non è mai stato uno da rifiutare le proprie responsabilità, e gli toccherà farlo anche adesso, che voglia o meno.
Il che ci riporta – non senza difficoltà, mi rendo conto, ma cercate lo stesso di seguirmi – a parecchie settimane dopo. Le signorine che fanno cose con le noci di cocco non sono che un vecchio ricordo, nelle menti di noi tutti, perché negli ultimi tempi è successo un putiferio: il mondo ha scoperto della resurrezione di Bushido e, cosa ancora peggiore, la Principessa ha scoperto della resurrezione di Bushido, cosa che ha portato con sé tutta una serie di drammi di varia entità e portata che hanno raggiunto il loro culmine nel momento in cui alla Universal hanno deciso che a loro non importa quanto male possa essere conciata una situazione, ciò che importa loro è la possibilità di ricavarne dell’utile. Ora, seguitemi: un rapper muore durante uno scontro a fuoco lasciando a casa una vedova affranta e peraltro appena maggiorenne; meno di un anno dopo, quello stesso rapper risorge dicendo di essere stato nascosto in America fino a quel momento e di essere appena tornato in Germania camminando probabilmente sulle acque, e quella stessa vedova affranta è apparentemente lì per lui, pronta a farsi riaccogliere nella regale dimora con gli occhi pieni di devoto amore.
Ciò che la Universal non sa è che, mentre loro facevano i loro calcoli, in mezzo è successo di tutto – cioè Bill e Bushido hanno consumato il loro amore, si sono apparentemente rimessi insieme e poi, dal nulla, è venuto fuori che Bill in realtà stava con Chakuza e aveva dimenticato di rendere noto il particolare a tutti noi – che va be’, non è importante – ed a Bushido stesso – che invece di importanza ne ha eccome.
Tanto per cominciare, già tutti dovremmo avere dei problemi col fatto che Chakuza stia con la Principessa. Questo perché la Principessa, checché ne dica il suo titolo onorifico – e il suo aspetto e tutto il resto – è un maschio. E Chakuza è Chakuza. E sì, lo so che dopo Bushido praticamente nulla dovrebbe più stupirmi e nulla dovrebbe essere automaticamente considerato eterosessuale fino a prova contraria, ma!, intendo, è di Chakuza che stiamo parlando, insomma, si dovrebbe avere almeno un po’ di raffinatezza, credo, per essere gay, quindi Chakuza dovrebbe essere tipo l’antitesi dell’omosessualità, lui, i suoi prosciutti stagionati del 1980 e le sue muffe nel frigorifero. E invece toh, viene fuori che è gay. Che è gay e che sta con la Principessa di qualcun altro, a rendere le cose ancora peggiori. Non so se vi rendete conto dell’enormità del tutto.
La cosa veramente grave è che Bushido si rende subito conto dell’enormità del tutto, e così – dopo aver buttato fuori di casa la sua Principessa privandola della sua corona e dell’anello nuziale che sanciva la sua sovranità – prende la spada e monta in groppa al suo cavallo arabo bianco, diretto a casa del suo personalissimo Lancillotto e fermamente intenzionato a lavare l’onta del tradimento col sangue. Che poi è un’altra cosa che mi turba molto, perché io ho studiato poco, nella mia vita, ma una cosa la so, e cioè che Lancillotto era un gran figo, altrimenti Ginevra col cazzo che mollava Artù per un paio di braccia forti a caso. Quindi il mio sconvolgimento è ancora maggiore, se penso che, se dovessi indicare tutta una serie di Lancillotti fra le persone che conosco, il Chaky, con tutto il rispetto, sarebbe l’ultimo della lista, sotto perfino al Senzatetto, quindi figurarsi.
A Bushido, però, non interessano questo tipo di discorsi. Lui vuole il sangue di Chakuza che ha messo le mani addosso a roba che non gli apparteneva, e quel sangue ottiene, spargendosene un po’ sulle mani e un po’ sulle pareti di casa del Chaky. Chakuza però non muore, come tutte le erbe cattive è parecchio resistente, da quel punto di vista; e forse è meglio, perché se fosse morto tanto per cominciare non so come avrebbe potuto reagire la Principessa, e tanto per continuare chi mi assicura che poi non sarebbe risorto anche lui, magari fra altri nove mesi, tornando dalla Lapponia o dall’Australia o che so io e generando ancora più caos di quanto già non ne abbia generato il sovrano sperimentando la propria immortalità ai danni di noi tutti?
Insomma, Chakuza non muore, Chakuza si rimette con Bill. Come, non lo so e non voglio nemmeno saperlo. Immagino sia stata una questione regolare, capito come?, Bill torna a casa, lo trova con l’occhio nero, bla bla, fetta di carne, bacio appassionato e via così, solo che Bushido non è mica uno che prende e molla l’osso per una minuzia simile – perché per lui i no delle persone tendenzialmente sono minuzie, soprattutto quando sa di avere le armi adatte per trasformarli in sì – no, lui è più il tipo che all’osso ci si attacca con tutta la sua bellissima chiostra di denti nuovi di zecca fino a quando non lo stacca dal resto del corpo, e quindi resta lì, attaccato a Bill come una patella sul suo scoglio; e uno magari si dice “eh, lui è ostinato, ma il karma saprà punirlo”. E invece no! Il karma non lo punisce mai, quest’uomo, gli è asservito come noi tutti, tant’è che cosa fa la Universal? Gli organizza un video in cui lui può molestare sessualmente la Principessa mascherando il tutto con le esigenze di copione! Se non è fortuna questa – per lui, sfortuna per tutto il resto del mondo – non so cosa possa esserlo.
Se c’è una cosa che Bushido sa fare, comunque, è usare il suo corpo. Anche perché lui non è uno che canta, è uno che si esibisce, e c’è una bella differenza, fra le due cose. Lui quel corpo è abituato a venderlo giornalmente – in senso puramente platonico, almeno credo – a migliaia di ragazzine, ragazzini, uomini adulti e puzzolenti e in sovrappeso e casalinghe in ansia da ribellione, nonché ad un altro svariato centinaio di tipologie umane, perciò nessuno di noi aveva veramente dei dubbi su chi sarebbe uscito vincitore dallo scontro fra titani. Che poi titani non sono, perché Chakuza al massimo può essere il cugino sfigato e sottomisura dei titani, per dire.
Insomma, fatto sta che: Bushido continua a girare intorno alla sua Principessa – e questo io lo so non perché vado in giro spiandoli, per carità, spiarli è l’ultimo dei miei desideri, lo era in passato, lo è adesso e lo sarà per sempre, come le cose che non cambiano mai tipo le muffe del frigo di Chaky che ormai le conosciamo per nome e i gerani degli studi dell’Ersguterjunge che non possono cambiare posizione sennò Bushido si indispone e non canta più a tempo nemmeno se lo minacci di infilargli il metronomo su per il culo – e la Principessa cede, perché è la Principessa e perché lui è Bushido.
E in fondo, io penso, il fulcro del tutto è un po’ questo. Io non sono bravo a trovare i nodi fondamentali delle questioni, perché come avrete potuto notare in realtà mi perdo spesso. Nella mia testa ma anche nel mondo che mi circonda. Ma questo punto è così fondamentale, così primario, così assoluto nella mia vita degli ultimi tre anni, che non posso proprio mancarlo. Come il mio nome o che ne so. È lì, c’è da tanto, c’è da troppo, non penso andrà più via. Il punto è che Bushido e Bill potranno anche smettere di amarsi come prima, amare altre persone, fare altro, trasferirsi in America o in Russia o in Papuasia, ma resteranno sempre quello che sono stati fino ad adesso, Bushido il Re e Bill la Principessa. Bill non smette di essere la Principessa di Bushido uscendo da quella porta. Ed altri uomini – io, il Chaky, chiunque altro – possono rivolgersi a lui utilizzando quello stesso nome, ma non sarà mai la stessa cosa, perché quel nome ha un senso preciso solo se usato da Bushido. È così che funziona, è così che gira, questa cosa non finirà mai. Io lo so che è così, e so che è vero che anche se la maggior parte dei punti fissi rappresentano delle garanzie – perché sono in quel modo e non cambiano mai e quindi, anche se tutto si distrugge, sempre da loro puoi ripartire – so anche che a volte sono degli ostacoli insormontabili. Perché a volte vuoi distruggere tutto. E i punti fissi te lo impediscono.
È questo che penso adesso, in questo preciso istante. Davanti a me – e davanti a un sacco di altra gente che queste cose non dovrebbe vederle, anche – ci sono Bill, Bushido e Chakuza. Bill piange, e continua a farlo stretto a suo fratello, per molto tempo. Bushido e Chakuza si guardano negli occhi e parlano di Bill come se non ci fosse. Esprimono una proprietà su qualcosa che non dovrebbe essere di proprietà di nessuno e sulla quale sentono entrambi di avere dei diritti. Guadagnati col tempo, con la fatica, con l’amore che hanno investito in questo ragazzino che più che altro, a me, sembra solo troppo piccolo e confuso per decidere qualcosa – qualsiasi cosa. E io questo penso. Le cose, purtroppo, vanno in un modo, e quando vanno in quel modo poi tornare indietro è impossibile. È per questo che non si torna dalla morte. Ma è anche per questo che la Principessa resterà Principessa funerali o meno.
È così che gira, e non è rassicurante pensarlo. Ma io queste cose non dovrei pensarle. E nemmeno dovrei dirvele. Quindi voi ricordatevi di dimenticarvele, prima di andare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza, Sido/Bushido/Bill/Fler/Chakuza (wut?).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Fivesome.
- Tom Kaulitz ha cinque certezze. Sono poche, ma sono buone. O almeno così crede.
Note: Vorrei potermi liberare di un po’ di responsabilità concernenti questa storia, per cui: l’ha plottata Tab, Meg s’è rifiutata di scriverla passandomi la palla e Def me l’ha betata e mi ha istigata a postarla, mentre Gra, con la sua meravigliosa challenge per DispariSome, mi ha fornito il pretesto perfetto per farlo davvero. Oltre ciò, non ho poi molto da dire, a parte il fatto che dovreste avere molta pietà di me e di Tom. Ma molta davvero. *piange*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PRINCIPLE OF UNCERTAINTY

Nel corso del mio ultimo anno di vita, gran parte delle mie certezze sono state prese, gettate in terra come pezze vecchie e poi calpestate senza ritegno né dignità come non avessero il benché minimo valore. Io capisco che la vita è sempre un divenire, non c’è mai nulla che sia uguale un minuto dopo averla vista, sono grato a David per il corso di filosofia accelerata cui mi ha sottoposto prima dell’Abitur e tutto il resto, ma comprendetemi, non è bello quando credi in qualcosa fino a un determinato secondo della tua esistenza e poi in quel determinato secondo succede qualcosa che devasta tutto come una specie di uragano, lasciandoti in mutande e con nient’altro in mano oltre alla tua disperazione.
E sì, mi rendo conto di stare esprimendomi in termini catastrofistici, emodepressivi e generalmente iperdrammatici, ma ci sarà un motivo per il quale condivido il cento percento del mio corredo genetico con mio fratello Bill; in qualcosa dovevamo pure assomigliarci, ed evidentemente questo qualcosa è la propensione al drammatismo spicciolo da tragedia catastrofenaturalistica americana. Oltre al talento nell’usare le parole, naturalmente, voglio dire, visto quanti termini nuovi di zecca sono stato in grado di coniare in meno di cinque minuti di monologo? Sono meraviglioso.
Comunque, mia meraviglia personale a parte, parlavo delle mie certezze. Ne avevo poche, ma tutte erano ben salde e costituivano le fondamenta del mio intero essere, per svariati motivi.
La prima e più importante di tutte era: Bill non è gay.
…non osate ridere né guardarmi in quel modo! Io sono la persona che conosce Bill meglio in assoluto in tutto l’intero universo, lo conosco da prima che venissimo al mondo, da prima che venissimo generati, da prima che la grande volontà dell’universo decidesse che era giusto che due Kaulitz uguali calpestassero il suolo del pianeta Terra contemporaneamente, io e Bill siamo una cosa sola da che il Big Bang è esploso generando l’universo e via discorrendo, se vi dico che mio fratello non aveva mai dato segno della sua inclinazione omosessuale dovete credermi. No, trucco, unghie e capelli non sono segno di inclinazione omosessuale, furbastri supponenti che non siete altro – e nemmeno i vestiti! Bill non era gay, posso giurarlo, so che scopava con delle donne e non fate queste facce sconvolte e nauseate, era un ragazzo assolutamente normale. Oh.
Poi, Bushido è piombato nelle nostre vite. Prego inserire musica drammatica in questo punto.
Ora, io non ho mai nascosto la mia preferenza per il lato cattivo del rap tedesco. Voglio dire, di fronte a una scelta, ho sempre scelto l’Aggro Berlin e Sido. Senza nemmeno rifletterci su, in realtà. Però, ecco, Bushido mi piaceva, per il semplice fatto che – voglio dire: è sfrontato, è cazzuto, è stato arrestato, è un rapper. Come poteva non piacermi?
Quindi, insomma, quando David mi ha detto che probabilmente ci sarebbe stata una collaborazione con uno dei suoi uomini, per il nuovo album, io naturalmente mi sono esaltato, e non dico di essermi messo a squittire come una fangirl – a questo proposito, non chiedete mai a Georg di raccontarvi la mia reazione, poi dovrei uccidere lui e voi e temo che questo causerebbe dei problemi non indifferenti alla mia carriera – dicevo, non mi sono certo stracciato le vesti di dosso crollando a piangere di commozione, anche perché le vesti che avevo addosso dovevano valere sul migliaio di euro tutto compreso, ma sono comunque stato molto felice. Certo, Kay One non era assolutamente il mio preferito nel mucchio degli artisti sotto contratto all’Ersguterjunge & Co., ma era meglio di niente. Ero ancora vagamente dubbioso riguardo quando fosse opportuno inserire del rap nelle nostre canzoni, ma mi fidavo di David.
Naturalmente non avrei dovuto. Alla fine non siamo riusciti a infilare il rap in nemmeno una delle nostre canzoni. In compenso, Bushido è riuscito a infilare le mani nelle mutande di mio fratello.
Voglio dire.
La seconda certezza fondante la mia esistenza, dato che apprezzavo l’uomo e tutto il resto, era Bushido non è gay. Poi l’uomo arriva, sparge sorrisi smaglianti e acqua di colonia da non so quante centinaia di euro per tutto lo studio e il minuto dopo lo trovo lì che flirta spudoratamente con mio fratello, costringendolo a stringersi imbarazzato nelle spalle esili e spostare altrove lo sguardo brillante di emozione. Io lo conosco mio fratello, lo so quando si sente compiaciuto, e il primo passo per scalare la montagna di gambe chilometriche che conduce al suo cuore è lusingarlo. Bushido ci stava riuscendo.
Insomma, per me è stato un disastro umano! Due certezze spazzate via in un colpo solo da un tunisino con un opinabile taglio di capelli ed un’ancora più opinabile propensione verso l’inchiostrazione indiscriminata del proprio corpo! Non si fa così, non è corretto.
Come potrete abbondantemente immaginare da voi, venire a patti con tutto ciò non è stato semplice. Vi risparmierò la cronaca dei lunghi mesi che ho passato, nell’ordine, a: ostracizzare mio fratello da qualsiasi mia decisione, fosse essa mettere o meno i cetrioli in un panino o cambiare radicalmente taglio di capelli; combattere una guerra di grugniti e ringhi di varia natura nei confronti di Bushido per aver privato mio fratello della sua innocenza o almeno di un’emanazione della stessa; combattere una guerra di pari violenza e pari intensità dotata però anche di scazzottate ai limiti del legale con David, che ritenevo primo e principale colpevole del disastro in atto, visto che avrebbe dovuto dire a mio fratello di piantarla una buona volta e stare lontano dal tunisino o, in alternativa, avrebbe dovuto prendere il suddetto tunisino e trascinarlo di fronte a un tribunale per circonvenzione e abuso di incapace e costringere i giudici a rinchiuderlo in uno sgabuzzino in compagnia di turchi che non vedono da anni la luce del sole, per tutto il resto della sua vita, tipo, e invece non stava facendo niente del genere e si limitava anche lui a spargere sorrisi e acqua di colonia come non ci fosse un domani, così, al solo scopo di mandarmi ai pazzi.
Alla fine, dopo numerose tribolazioni, ho accettato la realtà – nel senso che mi sono rassegnato, ecco. Accettare è un termine un po’ forte, ti fa pensare ad un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, spalanca la finestra, alza gli occhi al cielo, inspira a pieni polmoni ed esclama “io posso farcela e ce la farò!” richiamando a sé le forze della natura perché lo pervadano e lo aiutino ad uscire dalla brutta situazione in cui s’è cacciato. Ecco, io non direi di essermi comportato proprio così, per questo “rassegnare” è un termine più preciso, perché ti fa pensare a un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, incurva le spalle, sospira e sbotta “va be’, poteva andare peggio, poteva mettersi con Chakuza”. Per dire.
Comunque, da lì in poi le cose hanno cominciato a migliorare. Io ho ripreso a parlare con Bill, ho smesso di picchiare David e ho anche scoperto che in fin dei conti il Billshido diventato realtà non era nemmeno così male. Voglio dire, mio fratello era parecchio frustrato, ultimamente, e da quando andava a letto con Bushido invece le cose sembravano andare sensibilmente meglio, perciò evidentemente Madre Natura sapeva cosa fare quando li aveva chiusi entrambi in uno sgabuzzino per indagare sulle nuove frontiere della loro sessualità. Bisognerebbe sempre fidarsi di Madre Natura, lei sa cosa fa e non sbaglia mai. Ha fatto me etero perché non poteva privare le donne della mia bellezza, ha fatto Georg e Gustav etero perché non poteva dare agli omosessuali anche questa sfiga e ha fatto Bushido e Bill omosessuali perché potessero trovarsi e ristabilire gli equilibri dell’universo, evidentemente. Chi sono io per oppormi? Nessuno. E quindi non mi oppongo.
I problemi hanno ricominciato a bussare alla mia porta quando la storia fra Bill e Bushido ha cominciato a farsi seria. Intendiamoci, io non avrei avuto nulla in contrario se quei due avessero continuato a scopare come ricci fino ad esaurire la forza che li spingeva l’uno verso l’altro, ma loro no, volevano fare i romantici, gli innamorati, e si sa come finiscono queste cose, che poi ci si appiccica come crauti ai wurstel e non ci si stacca più nemmeno coi lacrimogeni. E quindi è cominciata la lunga trafila di cose che odio e che succedono sempre in questi casi: presentazione dei genitori – che poi in realtà è stata la cosa meno devastante, perché Bushido per qualche motivo adora la frittata con le cipolle di mia madre ed io per motivi ancora meno comprensibili adoro lo spezzatino con le patate della signora Luise Maria – pellegrinaggi continui negli appartamenti altrui, spostamento dei primi vestiti e, dulcis in fundo, presentazione degli amici.
E lì crolla la mia terza certezza. Nello specifico: se anche Bushido fosse gay, i rapper in generale non potrebbero esserlo.
Immagino lo sappiate già, comunque: Bushido vive in un’enorme villa gialla che io suppongo possa essere vista dallo spazio al pari della grande muraglia cinese, se non altro perché il suo colore è tale da dover essere per forza catarifrangente, quindi immagino che catturi la luce del sole e poi la proietti nell’universo per centinaia di migliaia di anni luce. Scommetto che esiste un qualche pianeta perso nel nulla dal quale vedono i suoi bagliori giallastri, e scommetto anche che la credono una stella. E l’avranno nominata in qualche modo tipo B-Ush1d0. O chessò io. Comunque! Il nostro tunisino preferito vive in questa villa, e naturalmente non ci vive da solo. Fino a qualche tempo fa ci viveva con Kay One e D-Bo, poi Kay One ha deciso giustamente di fuggire per rincorrere il miraggio dell’eterosessualità e D-Bo ha deciso di imitarlo per rincorrere quello dell’indipendenza, e quindi Bushido s’è visto costretto a cambiare coinquilino.
E qui entra in gioco Fler.
Dunque, Fler è un uomo che mi sono ritrovato ad apprezzare parecchio, in passato, se non altro perché Sido diceva un gran bene di lui, se lo portava ovunque e tutto il resto. E poi, ammettiamolo, l’uomo col rap ci sa fare, e ci dà dentro che è una meraviglia. L’ultimo album, poi, è una delle cose più grandiose siano state prodotte all’AB nei suoi quasi dieci anni di meravigliosa esistenza, perciò io, ecco, gli volevo del bene.
Quando ha deciso di riappacificarsi col vecchio amico e poi arcinemico, non è che ci abbia trovato qualcosa da ridire. Trovo però decisamente qualcosa da ridire nell’entrare in casa di Bushido in compagnia del sovrano della baracca e della sua regina – mio fratello – e ritrovarmi appunto Fler sul divano che limona selvaggiamente con Chakuza. Ecco, questo mi turba parecchio, ed ho da ridire eccome, per due motivi fondamentali: il primo è che una cosa del genere ovviamente distrugge la mia certezza sui rapper che non sono mai gay, il secondo è che non si limita a distruggere solo questo ma distrugge anche la quarta delle mie certezze – che, ve lo anticipo fin d’ora, sono cinque, quindi sopportate stoicamente, che il martirio sta per concludersi. Tale certezza era: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, per nessun motivo al mondo Chakuza sarebbe un essere umano sessualmente attivo. E invece, tutto insieme, scopro che non solo il rap tedesco in parata ha deciso di seguire le orme del suo principale esponente, ma ha deciso di farlo anche Chakuza e, cosa peggiore di tutte, ha deciso di farlo con Fler. Di fronte ai miei occhi!
Poi, per dire, mi sarei aspettato una reazione alla “cielo! Mio marito!” pur senza mariti implicati. Capite cosa intendo? Qualcosa tipo Fler e Chakuza che si tirano un inesistente lenzuolo fin sotto il mento ed urlano cose random tipo “oddio! Non ci aspettavamo una vostra visita! Ci dispiace! Ci spostiamo immediatamente al piano di sopra, e non certo per continuare ma per fare harakiri a seguito della nostra intimità violata” e via così. E invece niente, io mi vedo questi due uomini adulti che restano nell’esatta posizione in cui erano quando li abbiamo beccati – per la precisione e nel caso vi interessi, anche se ne dubito: Chakuza seduto sul divano con Fler a cavalcioni nell’atto di sollevarsi per liberarsi più facilmente dei jeans – e si voltano a sorriderci e salutarci come niente fosse, e insomma, mi prendo male! Chiunque si prenderebbe male, in una situazione del genere! E quindi raccolgo ciò che di mio è caduto fin sul pavimento di Bushido – la mascella, per lo stupore, non le palle, quelle le tengo sempre in gran conto e al loro posto – e fuggo via il più lontano possibile. Letteralmente.
È un peccato che mio fratello abbia gambe così lunghe, sia così leggero e, soprattutto, sappia esattamente dove trovarmi quando entro in depressione e mi chiudo in posizione fetale rinnegando l’esistenza del mondo esterno.
Insomma, sono stato riportato indietro al grido di “ma dai, Tomi, sono così carini!” e non ho potuto fare a meno di rassegnarmi ancora e prendere atto del fatto che la mia vita aveva deciso di tradirmi ribaltandosi al contrario mentre io dormivo o ero comunque momentaneamente assente, e senza nemmeno lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Ci sono tragedie alle quali uno dovrebbe essere preparato prima, e invece niente, un attimo prima sei un uomo felice e l’attimo dopo ti ritrovi su un divano giallo dentro una casa gialla che mangi pasticcini gialli bevendo tè al limone mentre un rapper tunisino divora di baci tuo fratello da un lato e altri due rapper dall’altro lato si fanno prendere da una sorta di delirio pro-gay e ti raccontano tutta la loro vita e, soprattutto, come e quanto in meglio sia cambiata la loro vita da quando hanno scoperto di amarsi. Che sono cose che uno non vorrebbe mai sentirsi dire, intendo, ascoltare Chakuza che ti racconta dei suoi piani di vita matrimoniale con Fler aggiungendo che prima o poi gli piacerebbe anche adottare dei bambini o, in assenza, almeno qualche cane? No, grazie, vivo felice anche senza.
Comunque niente – e aiutatemi a ripetere niente – di tutto questo poteva prepararmi al dramma cosmologico che da lì a poco si sarebbe verificato. Perché uno vede tante cose, nel corso della propria vita, e io ne ho viste un mucchio, credetemi, e dopo un po’ si convince che niente potrà più stupirlo o piombarlo in un baratro di disperazione, perché ci si riprende da tutto, no? Io mi sono ripreso da mio fratello, tanto per cominciare, poi mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido e ha due amici che sono Chakuza e Fler e che stanno insieme!, e dopo tutto questo pensavo che nulla più avrebbe potuto scalfirmi. E invece no. Non avevo tenuto conto del fatto che al peggio non c’è mai fine.
E tutto ciò mi riporta ad oggi. A una cena con tutta la crew di Bushido che è finita da almeno mezz’ora e a me che, svaccato su questa poltrona e con un bicchiere di vino rosso ancora quasi del tutto pieno in mano, osservo la scena che si presenta di fronte ai miei occhi e che coinvolge mio fratello, Bushido, Chakuza, Fler e Sido, che s’è fermato a chiacchierare un po’ dopo la fine del pasto.
Ricordate della quinta certezza cui accennavo prima? Ecco, recita pressappoco così: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, e se pure Chakuza dovesse rivelarsi un essere umano sessualmente attivo, una cosa non potrà mai cambiare, e questa cosa è che Sido non è gay né mai lo diventerà.
Capite bene che è un po’ difficile ripeterlo adesso che lo stesso Sido che mai e poi mai dovrebbe essere gay si spinge e sgomita per cercarsi uno spazio fra le braccia di mio fratello mentre Bushido lo tiene stretto da dietro strusciandosi contro di lui e Fler e Chakuza si danno alla pazza gioia baciandosi e spogliando contemporaneamente tutti gli altri, aiutati da una maestria che dimostra esperienza di un tipo che non sono certo di voler conoscere. E tutto questo qui, di fronte ai miei occhi.
- Ragazzi… - azzardo incerto, osservando il mio bicchiere di vino e allontanandolo con aria dubbiosa, sia mai il problema non sia negli appetiti sessuali ma nelle bevande, - non credete di stare un po’ esagerando? Siete tutti ubriachi e… - mi rispondono solo mugolii incomprensibili, che si protraggono a lungo come in una nenia.
- Shai qual è il tuo problema, Tooomi? – borbotta Bill, cadendo un po’ da un lato e un po’ dall’altro, sorretto dalle braccia malferme di Bushido che lo sistema esattamente nel mezzo fra il suo corpo e quello di Sido, mentre Fler e Chakuza si avvicinano, circondandolo ai lati con una serie di spaventose risatine compiaciute, - Che tu… non ti shai divertirrrre. – sentenzia mio fratello ridacchiando a propria volta e lasciandosi maneggiare come una bambola.
Io mi passo una mano sugli occhi, disperato. Dovrei fare qualcosa, tipo alzarmi, piantarmi in mezzo a tutti questi uomini concupiscenti e fuori di testa, prelevare mio fratello e portarlo il più lontano possibile da qui prima che abusino della sua persona…
- Oh, sì, A-Anis, così! – mugola Bill, allungando braccia e gambe a caso come se, oltre ad Anis, volesse inglobare dentro di sé pure tutti gli altri che lo stanno accarezzando baciando sfiorando ovunque in questo stesso momento. E lì io sospiro ancora, poso il vino e mi alzo in piedi diretto al piano di sopra, senza prelevare nessuno. Anche perché mi rendo conto che il piano originario, quello di salvare Bill prima che abusassero della sua persona, non posso più portarlo a termine: non sono più tanto sicuro di chi stia abusando di chi altri, in questo momento.
Le mie certezze ormai sono tutte sparite nel nulla. Non sono più sicuro di niente. Una cosa, comunque, la so: la prossima volta che Bill e Bushido mi invitano a cena, li mando tutti a fanculo senza nemmeno passare dal via.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- "Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo."
Note: Ma buongiorno *_*v Non ve l’aspettavate quasi più, uh? XD Mi rendo conto che vi ho costrette ad aspettare tantissimo e ciò è orrendo, ma spero che vi siate godute questa shot enorme – per quanto sia godibile, visto ciò che accade al suo interno… *riflette* …okay, credo che almeno una di voi se la sia goduta sufficientemente XD Comunque u.u Perdonate il mio Bimbo mentre sfiora nuove vette di perfezione dove non si credeva nemmeno che sarebbe stato possibile (ormai è oltre anche il concetto stesso di Gary Stu. Esiste un Gary Stu alla seconda o anche alla terza? Ecco). E insomma, per il resto, aspettatevi novità nel prossimo futuro: haters to the left, SE continua imperterrita u.u
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
YOUR LOVE ALONE IS NOT ENOUGH

Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole, Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro."
Note: Mi dispiace non essere molto loquace nelle note finali, ultimamente, ma la mia vita ha deciso che, dopo qualche mese di gioia, ora merito di essere massacrata, perciò non passa una sera senza che io sia stanca morta e di tutto abbia voglia meno che di mettermi a disquisire di ciò che ho buttato giù scrivendo XD Questa shot mi piace perché mi piace perdermi dentro Chakuza, alle volte. È liberatorio. Spero sia servita a voi per capire un po’ meglio le dinamiche del Flerole e cosa passa per la testa al mio bimbo. E spero che vi siate godute il Bikuza, perché questi due sono di una dolcezza infinita, anche se la Tab li rende sempre molto meglio di quanto non riesca a fare io, cosa per la quale la odio con furia. A presto :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE WAY HE LOVES HIM

Stamattina ho visto Fler.
Fler, in questo momento preciso della mia esistenza, è un problema che mi sto sforzando di ignorare. Nel senso, non lo so se vi è mai capitato: vi svegliate una mattina e scoprite che la vita che stavate vivendo in maniera non perfetta ma tutto sommato passabile fino al giorno prima è scomparsa. Non è che una cosa prende e va male, no, tutto comincia a muoversi nel verso sbagliato contemporaneamente, e uno in una situazione del genere comincia ad avere difficoltà a capire da che lato dovrebbe girarsi, no? Cioè, dovunque guarda vede solo casino, è un problema. Che mi si potrebbe pure dire: “be’, ma tu vivi una condizione di casino perenne dentro la tua testa, quindi qual è il problema?”, e il problema è proprio questo, che quando non sei un cazzo ordinato nel cervello il mondo esterno deve stare al proprio posto. Quando non riesci ad avere un punto di riferimento dentro di te, devi cercartelo fuori. Se fuori dalla tua testa tutti fanno il cazzo che vogliono – che è pure giusto, alla fine, ma mi crea problemi non indifferenti – tu i punti di riferimento non puoi più cercarli da nessuna parte. Ed è questo il problema.
Quindi, insomma, io mi sono svegliato una mattina e Bushido era vivo, Bill non era più così assolutamente innamorato di me e Fler s’era messo con una donna. Fra tutte queste cose, ovviamente, la priorità è Bill. Bill è sempre la priorità. Bushido arriva al secondo posto, perché a Bill è legato a doppio filo. E poi c’è Fler.
Di ciò che fa Fler, di dove va Fler ed anche di chi si scopa Fler, non dovrebbe fregarmi un accidenti. Beninteso, io lo so. Lo so che non dovrei assolutamente incazzarmi perché me lo vedo spuntare allegro e sorridente mano nella mano con una ragazza, lo so che dovrei accettarlo, congratularmi con lui ed anche esserne felice, ed esserlo sul serio, perché a me non piace che Fler stia male, e fino a prima di mettersi con Nicole lui indubbiamente soffriva, ed invece da quando ci si è messo insieme sta visibilmente meglio.
Però.
Il solo vederli vicini mi manda fuori di testa.
È una cosa assolutamente priva di senso, io me ne rendo conto perfettamente. Non vorrei che di me passasse un’idea ancora più fuori di testa di quanto già non sia nella realtà. Io lo so che non sono tanto normale, ma non sono ancora tanto pazzo da pensare che Fler mi debba fedeltà assoluta dopo tutto quello che gli ho combinato nel corso dell’ultimo anno. Per questo non gli dico niente e cerco di stare tranquillo, anche quando lo vedo con Nicole in giro, ma ciò non cambia la realtà dei fatti che appena io faccio tanto di mettergli gli occhi addosso e lo vedo che la stringe, le sfiora un braccio, le sorride o quel che è, la prima cosa che penso è che ho voglia di pestare lui e defenestrare lei. Che poi è la stessa cosa che ho provato quando l’ho visto interagire con Bushido la prima volta che si sono rivisti, in casa di Eko, solo che stavolta è anche peggio, perché, voglio dire, chi cazzo è Nicole? Siamo seri.
Comunque, stamattina è successo che sono andato a registrare le mie parti per Prinzessin. Io, di questa canzone, non voglio parlare. Perché è anche troppo evidente cosa Bushido ci abbia messo dentro. Ora, io lo so come lavora Bushido. È uno molto presente a se stesso, quando si sta vendendo ad un pubblico pagante; tiene sotto controllo tutto, programma tutto, niente succede se non è stato lui a deciderlo. Quando scrive no, però, quando scrive è molto più libero. Si ascolta molto, anche se credo sia solo uno strascico del suo egocentrismo del cazzo. La sua voce sovrasta quelle degli altri anche dentro di lui, quindi, quando scrive, lo fa ascoltando la parte più profonda di se stesso, quella con cui magari lui direttamente non parla, ma che lascia scivolare sul foglio, perché così è più semplice tenerla a bada. La canzone che ha scritto per Fler, in Heavy Metal Payback, l’ha scritta così. Ed io credo che Prinzessin sia nata nello stesso modo, perciò non è che posso avercela in maniera distruttiva con Bushido per il solo fatto di averla buttata giù.
Però ce l’ho con lui per il modo in cui la sta usando. Quindi no, non voglio parlare di questa canzone e di come a leggerne il testo io venga fuori come un pezzo di merda quando, in tutta franchezza, non ho fatto proprio un cazzo di male. Mi urta dovermi prestare a questo giochino per niente divertente, mi urta star qui a cantare cose che non penso quando io sui testi che avevo da cantare sono sempre riuscito a mettere mani e bocca per renderli il più possibile vicini al mio modo di sentire, e mi urta non esserci riuscito adesso solo perché, come mi ha detto Jost quando mi ha fatto sapere che la mia presenza era richiesta e no, non potevo rifiutarmi, “alla Universal sono già abbastanza incazzati per lo scherzetto che gli ha combinato Bushido. Pretendono la massima collaborazione e tu non vuoi davvero averli contro, Chakuza”. E no che non li voglio contro. Mi mancano davvero solo i pezzi grossi dell’industria musicale tedesco che mi vogliono fuori dal giro, e poi sono completo, cazzo.
Comunque, ovviamente prima di dire “d’accordo” mi sono informato, con Jost. Pazzo sì, cretino no. Gliel’ho chiesto, “sono registrazioni di gruppo?”, e lui naturalmente mi ha guardato e m’è scoppiato a ridere in faccia. Poi è tornato subito serio e fa “ma ovviamente no, Chakuza”, come a dire “ma per chi mi hai preso?”, ed in effetti io lo sospettavo che Jost non l’avrebbe mai permessa una cosa del genere, perché è uno che sul lavoro è molto preciso e gli danno fastidio i tempi, quando si allungano, perciò supponevo avesse già preso tutte le precauzioni del caso, ma sempre meglio chiedere, dico io, per scrupolo.
Comunque nella mia domanda era compreso anche Fler. Nel cervello di Jost no, invece, perché giustamente lui si dice “Fler non c’entra un cazzo”, ma per me Fler c’entra sempre, quindi se ti chiedo se c’è la possibilità per me di incontrare qualcuno, nei vari “qualcuno” possibili è incluso anche Fler. Nella mia testa questo è chiaro, in quella di Jost no, e questo è giusto, ma io tendo a dimenticarlo. Perciò oggi mi sono presentato agli studi con le palle girate, d’accordo, ma fiducioso che non mi sarei trovato a dover fronteggiare nessuna situazione difficile. E invece appena esco dalla sala d’incisione, dopo tre ore sfiancanti, chi mi vedo passare davanti? Ma la coppietta felice, naturalmente.
Non ho il tempo materiale di fuggire dietro il primo angolo disponibile dopo aver adocchiato Fler che cammina – un braccio attorno alle spalle di Nicole, lei ha intrecciato le dita con le sue – che lui si volta e mi guarda e, come fosse tutto perfettamente a posto, mi sorride. Così, tranquillissimo. Solleva anche una mano nella mia direzione, rilassatissimo, e mi saluta. Al che io non posso fare molto più che rispondere abbozzando un sorriso a mia volta, restando lì fermo impalato mentre lui mi si avvicina, trascinandosi dietro Nicole che è minuscola e scialbissima e non c’entra niente col tipo di donna che avrei affibbiato a Fler se mai avessi voluto affibbiargliene una. Per dire, visto che lui comunque è robusto ed ha la pelle e gli occhi chiari, accanto gli starebbe bene una ragazza alta con un sacco di curve, la pelle scura e gli occhi grandi e castani. Invece lui mi si presenta con questa cosina minuscola, pallidina, biondiccia, con questi occhietti marroncini anonimi, boh, Fler poteva pretendere di più, credo. Anzi no, lo so, Fler poteva pretendere di più eccome. Comunque mi sforzo di guardarla con calore, perché lei mi sorride timidissima e non me la sento di lanciarle occhiate intimidatorie. Non ne avrei nemmeno un motivo, peraltro.
- Ehi. – mi fa, perfettamente a suo agio, - Finito per oggi? – chiede, indicando con un cenno la porta chiusa della sala incisioni. Nicole stringe la presa delle proprie dita attorno alle sue ed io fisso l’intreccio delle loro mani per un po’ di secondi, prima di riscuotermi e decidermi a rispondere.
- Sì, - ammetto, - è stata dura ma ce l’ho fatta. – commento con una scrollatina di spalle. Lui annuisce e lo vedo chinarsi appena su Nicole, sfiorarle la guancia con un bacio lento e poi sussurrarle qualcosa che non riesco a percepire. Lei sorride ed annuisce, e mi saluta a bassa voce prima di sciogliersi dal suo abbraccio ed andare verso l’uscita degli studi. Inarco un sopracciglio e fisso Fler con aria curiosa. – Be’? – chiedo, indicando la porta dalla quale Nicole è appena uscita. Lui ride.
- Le ho chiesto di precedermi a casa sua. Ho voglia di spezzatino con le patate.
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno, spostando il peso da un piede all’altro.
- La fai filare? – chiedo, e lui mi tira una mezza spinta, ridendo come un ragazzino.
- È solo gentile. – risponde, - Mi piace che lo sia. È dolce ed è semplice. Niente di neanche lontanamente paragonabile al resto della gente con cui sono stato.
- Ah, grazie mille. – rispondo, un po’ offeso, e lui ride ancora.
- Non sono mica stato solo con te. – mi fa notare, e penso pure che c’ha ragione e che questo dialogo è surreale.
- E… - gesticolo, perché non so se posso chiedere questa cosa e non so nemmeno se voglio chiederla, o meglio, voglio chiederla ma non so se voglio sapere la risposta; o meglio ancora, voglio sapere la risposta, ma non so se sono veramente pronto a sentirmelo dire. Quindi, in sostanza, gesticolo per tergiversare. - …da quant’è che state insieme?
Fler è a disagio e lo vedo subito nel momento in cui volta lo sguardo e scrolla le spalle.
- Lasciamo perdere. – taglia corto, - Ti va un caffè?
Annuisco, un po’ confuso, e gli vado dietro mentre ci avviciniamo ai distributori automatici. Fler mi chiede cosa voglio, io rispondo “un caffè ristretto” e, quando lo vedo recuperare il portafogli in tasca, gli chiedo cosa vuole lui, come fosse una curiosità come un’altra. Lui apre la taschina portamonete, rovista tintinnando e mi risponde sovrappensiero che lui ne prende uno doppio zuccherato. Perciò io infilo la mano in tasca, recupero due euro spersi nei pantaloni da chissà quanto tempo e pago per entrambi. Lui, che non aveva ancora racimolato la quantità sufficiente di monetine, se ne rende conto solo quando sente la macchinetta ronzare e cominciare a riempire il bicchierino di plastica col suo caffè, e mi lancia un’occhiata a metà fra lo sconvolto e il nient’affatto compiaciuto.
- Chakuza! – mi rimprovera, - Ma chi te l’ha chiesto?!
- …nessuno. – ammetto io, recuperando il bicchierino e porgendoglielo, - Mi faceva solo piacere farlo.
Lui accetta il bicchierino sospirando teatralmente in un roteare di occhioni azzurri che mi fa anche un po’ ridere, e poi resta in silenzio mentre io prendo il mio caffè e rimaniamo lì a sorseggiare lentamente, perché il coso è pure caldo, e nessuno qui vuole scottarsi la lingua. Restiamo in silenzio finché possiamo permettercelo – ossia finché non diventa troppo pesante – e poi gli chiedo come sta. Che è una cosa che faccio sempre quando non so cos’altro fare con lui. Fler non è semplice, da maneggiare, anzi. È uno che, tra l’altro, appena sbagli di un millimetro ti si volta contro in maniera devastante. Quindi, prima di fare o dire qualsiasi altra cosa, io devo chiedergli come sta. Così posso elaborare un piano d’azione, o pensare ad una strategia, o qualunque sia un modo meno idiota per definire il momento in cui cerchi di capire come muoverti per non passare come un fottuto carro armato addosso ad una persona alla quale tieni.
Lui scrolla le spalle, butta giù ciò che resta del suo caffè e si appoggia contro la macchinetta.
- Bene, credo. – risponde, - È un periodo un po’ incasinato, con Nicole e tutto il resto, ma sto tranquillo. Cioè, tutto il mondo è un casino, ma io sono tranquillo. Non so se capisci cosa intendo.
Annuisco vagamente, e non lo faccio per finta. Lo capisco cosa intende. Anche se è una cosa che non mi piace, perché vuol dire che è felice davvero. Mi piace vederlo felice, cazzo, ma… oh, insomma.
- Stai da lei? – chiedo, fingendo disinteresse. Lui mi sgama subito e sorride.
- Cosa vuoi sentirti rispondere?
- …la verità, suppongo. – borbotto senza guardarlo. Lui ride un po’.
- Penso che la prenderesti anche peggio. – mi informa con una risata da ragazzino che sembra prendermi in giro.
Simulo tranquillità, lanciandogli una mezza occhiata che mi auguro sia indecifrabile, e invece non lo è, perché lui si mette subito a ridere come un cretino, e io sbuffo.
- Be’, dimmelo se stai da Bushido. – sospiro alla fine, abbattendomi di spalle contro la parete. Lui ride ancora.
- Praticamente sì. – ammette, gettando il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura, - Lo sai come funziono. Ragiono meglio se ho gente attorno.
- Che bisogno avrai di ragionare, adesso… - mi lamento io, e lo faccio solo perché non mi piace saperlo giorno e notte piantato in casa di Bushido.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – mi risponde lui, ed in effetti non posso dargli torto, perciò annuisco. – Comunque in genere sto bene. Come ti dicevo, Nicole è molto carina e dolce.
- E la ami?
…non so come funzioni con questo tipo di domande. Probabilmente ognuno, nel proprio cervello, ha una scatola con dentro tutte le domande scomodissime che non vorrebbe mai fare e delle quali però vorrebbe conoscere la risposta. E le domande vanno accumulandosi in questa scatola finché non diventano troppe, e quando diventano veramente tantissime ecco che salta via il coperchio e quelle cominciano ad uscire. E il problema è che, mentre stavano lì strette nella scatola, si sono aggrovigliate fra loro come i gomitoli di lana quando non li avvolgi bene e li lasci lì nella cesta per giorni, perciò quando ne esce una se ne porta dietro un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non escono tutte. Forse è così che funziona per tutti, o forse è così che funziona solo per me, fatto sta che di questa domanda io so che voglio conoscere la risposta, ma so anche che non avrei voluto porla. E perciò, dopo averla detta, non mi sento bene neanche per un cazzo. E guardare Fler esitare, prima di rispondere, non mi aiuta per niente.
Lo osservo rifletterci sul serio – nei suoi occhi chiarissimi i pensieri passano come in trasparenza, che se solo sei un po’ abituato a guardarci dentro, a quegli occhi, lo capisci cos’è che sta succedendo dentro la testa di Fler. Puoi perfino anticiparlo. Perciò, quando schiude le labbra, io so già cosa sta per dire, e mi tendo tutto, stringendo i pugni per cercare di fermare qualsiasi sia il gesto che vorrei compiere in reazione alle sue parole. Perché non posso permettermelo, perché non posso farglielo e perché in generale è più giusto se sto fermo.
- No. – risponde, comunque. È la cosa più bella che sento da giorni. – No, non credo proprio. – mi guarda, ed è tranquillissimo. – Ma lo sai già.
Annuisco lentamente, gettando via il mio bicchierino.
- Perché ci stai insieme? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospira e mi ricambia lo sguardo.
- Perché è meglio che stare soli. Perché boh… non è così male. – sospira ancora, più pesantemente. – Perché anche se mi manchi non me ne faccio niente di questo sentimento. Mi sento anche uno scemo a dirtelo.
Mi mordo un labbro, schiacciandomi con forza contro la macchinetta per non avvicinarmi neanche di un passo.
- Non sei uno scemo. – rispondo a bassa voce, - Mi dispiace che tu stia così, Pat.
Lui tira fuori un mezzo sorriso e scrolla le spalle. Ogni tanto, quando lo fa, quando scrolla le spalle, dico, mi sembra voglia scrollarsi di dosso i problemi. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Come servisse davvero.
- Non sto male. – ribadisce, - Ed ora basta parlare di me. – sorride più decisamente, tornando ad appoggiarsi qui accanto a me solo quando vede i miei muscoli rilassarsi e la voglia che ho di baciarlo scivolarmi lentamente via dagli occhi. – Tu com’è che stai, Chaku?
*
Com’è che sto mi ha chiesto Fler stamattina. Com’è che sto. Immagino che la risposta a questa domanda sia “non lo so”, ma “non lo so” non è veramente una risposta. È la scusa che usi quando non ti va di risolvere una questione, penso, e posso dire di parlarne con una certa competenza, visto che la uso molto spesso. Non è nemmeno una bugia: io davvero non so come sto. Non è la risposta completa, perché la risposta completa è “non lo so perché non voglio saperlo, perché non posso mettermi lì a risolvere la questione, perché mi fa male pensare di stare male”, ma non è una menzogna. È una parte di ciò che è. Ed è anche quello che ho detto a Patrick, che d’altronde da parte sua non ha nemmeno mai avuto bisogno delle mie risposte complete. Quelle incomplete sono sempre state sufficienti a dargli una base di partenza per trovare il resto di ciò che voleva sapere nei miei occhi, nella mia voce, nel mio odore, sul mio corpo.
Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro. A volte, ripensando a tutta la mia vita nell’ultimo anno, mi sembra di averla vissuta solo così. In attesa. Di Bill, naturalmente, perché niente è stato più importante di lui in questi ultimi dodici mesi. Niente è stato più importante di lui in generale, in tutta la mia vita, temo. E penso succeda così, in fondo, quando ti innamori di una persona, indipendentemente da chi sia. Fa come un balzo fra le tue priorità. Era lì, nel mucchio, e all’improvviso te la ritrovi su un piedistallo, in evidenza, e da lì non riesci a toglierla nemmeno con la forza. E poi neanche vuoi, in fondo.
Con Bill è stato così. Io ho vissuto in attesa di capire cosa stavo cominciando a provare per lui, all’inizio. Poi ho vissuto in attesa di un suo cenno d’assenso. Poi ho vissuto in attesa di risentire il suono della sua voce e guardarlo nuovamente negli occhi. Ed alla fine ho iniziato a vivere nell’attesa del momento successivo in cui avrei potuto tenerlo stretto a me, che poi è quello che ho fatto negli ultimi nove mesi ogni volta che per forza di cose siamo dovuti stare lontani, ed è quello che sto facendo anche ora che è tutto complicato e intricato e doloroso. Vivo in attesa di Bill. Ed è una cosa bellissima.
Quando il mio cellulare squilla, so già che si tratta di Bill. Perché questo è l’orario in cui mi chiama di solito, quando tutti gli altri si decidono a lasciarlo in pace e lui si ritrova finalmente tranquillo in casa propria. È l’orario in cui può smettere di tenere a freno il bisogno che ha di vedermi, e quindi quel bisogno sfonda gli argini e lui mi chiama, e quando mi parla lo fa con tenerezza ma anche con urgenza. Perciò, quando sento la sua voce, sorrido. Perché è stanca, è provata, è angosciata, è triste ed è un altro milione e mezzo di cose, ma soprattutto è piena del bisogno che ha di me. E siccome per me è lo stesso, io non posso fare a meno di esserne felice, e sorridere.
- Secondo te, - mi dice, senza nemmeno salutarmi, - anche se lo yogurt è scaduto da un paio di giorni, posso mangiarlo?
Rido a bassa voce, perché come si fa a restare seri di fronte ad una cosa del genere?
- Ho esperienza sul campo. – gli faccio notare, dal momento che entrambi conosciamo le condizioni del mio frigorifero, - Sono quasi sicuro di no, Bill. Forse è il caso se mangi qualcos’altro.
Lui sbuffa, e lo ascolto lasciarsi andare sul divano e raggomitolarsi in una pallina contro il bracciolo.
- Non c’è nulla di buono. – borbotta, - C’è qualcosa che mi ha comprato David, ma non saprei come metterla insieme e tirarne fuori qualcosa di commestibile.
Rido ancora, e quello che gli chiedo glielo chiedo solo perché lui me lo sta già chiedendo da quando questa telefonata è cominciata.
- Vuoi che venga a prepararti qualcosa? – suggerisco, - Sono quasi sicuro che David abbia comprato sufficienti ingredienti almeno per un piatto di pasta.
Lui sorride e mi dice che mi aspetta. Ed io rido un po’ perché fino a due minuti fa stavo pensando che l’intera mia esistenza – be’, ok, l’ultimo anno, ma in fondo se ci penso un po’ stavo aspettando qualcosa come Bill da sempre, qualcosa che mi sconvolgesse dentro, che mi trascinasse completamente in sé, qualcosa che mi prendesse come mi ha preso lui, quindi forse è davvero tutta la vita che lo aspetto – insomma, pensavo che l’intera mia esistenza fosse stata vissuta in sua attesa, e lui ora mi dice che mi sta aspettando. Che sembra una cazzata, ma è bello pensare che in qualche modo, in un certo senso, forse anche Bill stava aspettando me. Indipendentemente da tutto il resto, anche lui mi stava aspettando, ecco.
Quando arrivo a casa sua, lo trovo lì sulla soglia che mi guarda, una mano stretta nervosamente attorno allo stipite della porta e tutto il corpo proteso in avanti a cercare il mio. Quando Bill vuole un abbraccio, lo vedi da lontano, perché tutta la sua persona si prodiga per trovarlo. Ha dei bisogni molto fisici, Bill, perciò basta osservarlo e vedere come si sporge, come si espone, come tiene le braccia, come pianta un piede in avanti rispetto al corpo, per capire che ti vuole vicino e vuole sentirti addosso il prima possibile. Si fa rassicurare con così poco, alle volte, che sembra molto più fragile di ciò che è in realtà. Perché poi quasi te lo dimentichi che ha fatto fuori un uomo, per dire. Ma Bill è bellissimo soprattutto per questo, perché è un mistero continuo, che lo guardi a non capisci proprio come possa essere possibile che sia proprio così. E invece lo è. Se me ne fregasse qualcosa della religione, direi che è un miracolo. Della religione non mi frega un accidenti, e Bill è il mio miracolo comunque.
Lo tiro a me e lo stringo forte, richiudendomi la porta alle spalle, e Bill nasconde il viso contro il mio collo e mugola un po’, strusciando il naso lungo il mio zigomo e cercando subito le mie labbra per un bacio veloce.
- Mi sei mancato… - mi sussurra sulle labbra, mentre io lascio scivolare le mani sui suoi fianchi, accarezzandolo piano, - Puoi… puoi prepararmela dopo, la cena?
Io lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, sulla parete di fronte, e vedo che sono già quasi le dieci. Non c’è verso che, se gli faccio mangiare qualcosa adesso, lui riesca a digerirlo prima di mezzogiorno di domani. Oltretutto, fra meno di un’ora, qualsiasi cosa decidiamo di fare adesso, Bill sarà già crollato addormentato sulla prima superficie disponibile. Vorrei essere io, quella superficie. Perciò lo bacio piano sulle labbra e gli assicuro che sì, gli cucinerò qualcosa dopo, anche se so per certo che la prima cosa che preparerò per lui saranno le frittelle domattina, e mi lascio condurre dalle sue mani che si aggrappano ai miei vestiti, cercando di tirarli via, trascinandomi fino in camera da letto.
Lo stendo sul letto cercando di essere delicato, perché è stanco e lo sento dal modo arreso in cui si lascia maneggiare e accarezzare e mi si appoggia addosso, come avesse bisogno di aiuto per tenersi in piedi. È per questo che lo aiuto a distendersi, così non dovrà faticare per tenersi dritto. Schiude le gambe lasciandomi lo spazio per sistemarmi contro di lui, ed attraverso la stoffa sottilissima del pigiama sento il calore della sua pelle e quello della sua eccitazione, ed entrambi mi colpiscono in scariche elettriche che partono dalla base della mia schiena e si diffondono per tutto il mio corpo, rendendo più affamati i miei baci e i miei tocchi, finché lo sento ansimare pesantemente e gettare indietro il capo alla ricerca d’aria, quando scendo ad accarezzarlo sotto i pantaloni e lo sollevo con la mano libera da sotto la schiena, così che possa inarcarsi, schiacciandosi contro il mio corpo e stringendo le ginocchia sui miei fianchi, le cosce che si serrano come tenaglie attorno al mio polso ed alle mie dita.
- Peter… - mi chiama piano, ed il mio nome scivola sulle sua labbra in maniera tanto dolce che mi viene voglia di assaggiarlo, perciò mi sporgo a baciarlo, affondando dentro di lui che mi accoglie morbido come sempre, e questi sono i momenti in cui mi viene da pensare che forse, se mi sforzo, posso ancora fare in modo che sia come non fosse cambiato niente, come se Bushido non fosse mai tornato, come se Bill non fosse così indeciso come invece è. E quindi ce la metto tutta, cazzo, ce la metto tutta davvero, e lo stringo piano per i fianchi mentre accontento le sue richieste e mi faccio avanti dentro il suo corpo solo dopo averlo preparato per bene, dopo averlo sfiorato e baciato e toccato ovunque, e quando lo sento stringersi attorno a me, seguendo l’impronta che le mie spinte lasciano dentro di lui, chiudo gli occhi e lo bacio sul collo, sullo zigomo, sulla guancia, sugli occhi chiusi e stanchi, sulla tempia, e glielo dico piano, che lo amo, e non mi arrabbio se non mi risponde subito, non mi arrabbio nemmeno se non mi risponde affatto, perché so che è così, lo so che mi ama anche lui, se non me lo sta dicendo in questo momento è solo perché non è il momento opportuno, ed io questo lo rispetto. E Bill lo sa, che lo rispetto. Ed è tutto quello che mi interessa, in questo momento.
Quando si scioglie fra le mie dita ed io mi sciolgo dentro di lui, ascolto i suoi respiri inseguirsi affannosamente sul mio petto, dove ha poggiato le labbra, per molti minuti, prima che lui riesca a domarli abbastanza da costringerli a tornare ad un ritmo più regolare. Ed anche allora continuano ad accarezzarmi piano, così come io accarezzo lui, le dita che si incastrano fra le ciocche intrecciate dei suoi capelli e seguono il disegno sottilissimo e un po’ spigoloso delle sue scapole e della sua spina dorsale.
Come previsto, mi si arriccia addosso e comincia subito a scivolare nel dormiveglia, ed io sorrido mentre lo aiuto a sistemarsi comodamente sul mio corpo e tiro su le lenzuola perché ci coprano entrambi.
- La cena… - borbotta sul mio collo, - …domani, okay?
Rido ancora, sulla pelle un po’ accaldata della sua fronte, ed annuisco stringendolo a me. Domani, Bill, okay. Quando vuoi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Language, Lime, Slash.
- "Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima."
Note: Questo, signore care, è il Billshido di Schmetterlingseffekt. Vorrei poter stare qui le ore a parlarne, perché il rapporto che si instaura fra loro in questa shot mi manda fuori di testa per ragioni incomprensibili <3 Ma sono tornata tardi da lavoro – checché se ne dica, ho una vita, come tutti XD – ed ho una figlia che attende questo capitolo con trepidazione. Cercate solo di comprenderli, non sono stronzi, solo pazzi XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
MEIN REVIER

La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo."
Note: Io vorrei dire, a proposito di questa shot, che è evidente che per seguire EKR serve una grande dose si umanità e pazienza, nonché parecchio cuore. In assenza di queste qualità è ovvio che non si capisca niente di ciò che provano i personaggi ed è anche ovvio, credo, volerli sbranare ad uno ad uno. Io spero che voi possiate trovare dentro voi stessi un po’ di quella comprensione umana che serve per star dietro a della gente che, per un motivo o per l’altro, soffre. Altrimenti, lasciatevi pure andare al bashing, prometto che non vi fermerò XD
Comunque, adesso sapete in che termini s’è svolto il Dashido. Adesso, se proprio volete, potete paragonarlo al Bikuza e decidere chi ha più colpe e chi ne ha di meno. O rassegnarvi magari al fatto che nessuno ne abbia XD A voi la scelta. David la sua l’ha detta, e Bushido anche.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NIE WIEDER

Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo. Intorno a me la gente si muove frenetica trascinando borsoni e sacchetti di plastica, sorridono quasi tutti. Partire per Miami, d’altronde, è una cosa che in genere rende allegri. È un bel posto per una vacanza ed è un bel posto anche per gli incontri lavorativi, come dimostrano i numerosi uomini d’affari che si ritagliano un po’ di spazio fra una famiglia e l’altra, avvolti nei loro completi gessati e in compagnia delle loro onnipresenti ventiquattrore. Io forse avrei potuto essere una persona così, una persona che va in giro in gessato e ventiquattrore. Forse potrei esserlo anche adesso, il mio mestiere non me lo vieterebbe, e forse è proprio perché non voglio che invece mi ostino ad andare in giro in jeans, maglietta e giacca di pelle, quando le circostanze non mi obbligano all’abito formale – ed anche lì, in genere, riesco comunque a piegarle al mio volere, le circostanze.
In sostanza sembro un pesce fuor d’acqua in mezzo a tutta questa gente che si muove inequivocabilmente o per turismo o per lavoro. Io perché mi muovo? A guardarmi non lo si saprebbe dire, ho con me solo uno zaino. Se mi guardassi da fuori, non saprei indovinarlo, il perché della mia partenza. In realtà ho difficoltà a capirlo anche guardandomi da dentro. Questo è un po’ un problema, ma penso me ne occuperò a tempo debito – cioè quando sarò già arrivato, perché trovare una risposta a questo perché potrebbe essere sufficiente a costringermi a rimanere qui, e nonostante tutto non voglio farlo. Anche se non so perché sto partendo, voglio partire lo stesso.
Oggi è il ventotto settembre. Quando, stamattina, ho chiamato Tom, per assicurarmi che fosse tutto a posto, attraverso la cornetta e sotto la voce agitata del mio stupido chitarrista preoccupato ho sentito il flusso persistente delle lacrime di Bill venare l’aria in un lamento continuo e regolare, ed ho sospirato.
Io penso che Bushido sia entrato dentro Bill fino ad impossessarsi di ogni singola cellula del suo corpo. Ci sono molti modi di sentire la mancanza di una persona e tutti coloro che hanno vissuto al fianco di quell’uomo – l’avessero fatto per mesi, per anni o per pochi giorni – adesso sentono il vuoto causato dalla sua assenza in modi molto diversi. Ognuno ha il proprio ed ogni modo è intimo e personale, ma nessuno – nessuno – si sente mancare un pezzo di sé come sta succedendo adesso a Bill. Bill, che era una persona della quale si poteva dire tutto meno che fosse incompleta – perché lo vedevi da come andava in giro, da come sorrideva, da come gli brillavano gli occhi, che non gli mancava niente – Bill adesso è una cosa spezzata in due e non riesce a recuperare il pezzo di sé che ha perso. Non oso immaginare cosa dev’essere stato per Tom scoprire che l’altra metà di suo fratello non era più lui, ma so che sono fiero di lui per come si sta comportando adesso, soprattutto perché con Bushido lui non era mai veramente venuto a patti e Bill non l’ha mai neanche aiutato ad avvicinarglisi, quindi è molto bello da parte sua, adesso, mettere da parte il proprio risentimento per stringersi attorno a suo fratello mentre lui piange e strepita come Bushido fosse morto ieri, solo perché oggi è il suo compleanno e non possono più festeggiarlo insieme.
Bushido, naturalmente, non è morto, e questo dovreste già saperlo. Solo che oggi, ventotto settembre duemilaotto, lo so solo io. E lui, dall’altro lato dell’oceano. Anche se non sono proprio sicuro che, nonostante sia sopravvissuto, al momento sia propenso a credersi vivo. Ci sono molti modi anche di morire, in fondo; non mi sembra di mentire, quando ripeto a me stesso che meno di tre mesi fa noi quell’uomo l’abbiamo seppellito per sempre. Quello che c’è adesso in quell’appartamento a Miami non è Bushido e non è nemmeno Anis Mohamed Youssef Ferchichi, e non è il King of Kingz e non è niente di quello che Bushido è stato quando era ancora se stesso ed era qui. Quindi sì, Bushido è morto. Pensarla in questi termini non è sbagliato.
Solo che è morto un nome. Un nome significa tanto, ma non tutto. C’è ancora un corpo, c’è ancora un uomo, quell’uomo è vivo e non riesce ad esserlo.
Questo è probabilmente il motivo per cui sto partendo, dopotutto.
Un bambino sfugge al controllo della madre e si mette a girare in tondo per la pista, facendo lo slalom fra i viaggiatori che un po’ ridono e un po’ sono infastiditi dal suo muoversi così frenetico. Io sbuffo un mezzo sorriso e resto appena il tempo di osservare il bimbo inciampare sui propri stessi piedini incerti e cadere per terra con un tonfo, subito seguito da uno scoppio di pianto accorato e lamentoso che mi ricorda moltissimo il pianto di Bill, motivo per cui distolgo lo sguardo e smetto di restare lì in attesa del niente: stringo una mano con forza attorno alla cinghia dello zaino e risalgo la scala, andando alla ricerca del mio posto. Quando lo trovo, mi siedo ed allaccio la cintura. Sistemo lo schienale del sedile perché sia ben dritto ed infilo lo zaino sotto il sedile di fronte al mio. Poi mi rilasso. Chiudo gli occhi. E non resto sveglio abbastanza da sentire la hostess spiegarmi come dovrò salvarmi la vita in caso di pericolo.
*
Bushido non sa che sono qui e probabilmente neanche se lo aspetta. Quando l’ho sentito l’ultima volta, ieri sera, non sembrava essere abbastanza presente a se stesso da aspettarsi alcunché, d’altronde. Di certo non poteva aspettarsi che avessi già il biglietto in mano mentre lo ascoltavo biascicare qualcosa sulla birra americana che sembra piscio, scuotendo il capo mentre si fracassava il ginocchio contro un mobile non meglio identificato e cominciava poi a mugolare di dolore accasciandosi a terra. Ora – che è più o meno lo stesso orario del giorno dopo – mi auguro solo di non ritrovarlo nello stesso posto in cui l’ho immaginato mentre parlavamo al telefono ieri, ed è con un sospiro sfiduciato che mi infilo in un taxi e ripeto a memoria l’indirizzo al conducente, recuperando poi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e componendo il numero di Tom.
Lui non risponde subito, e quando lo fa il suo tono di voce è soffice e un po’ assonnato.
- David…? – mugola, - Che ore sono…?
Io sorrido appena.
- Un ottimo orario per fare la nanna, in realtà. – lo prendo in giro, - Un po’ presto per i tuoi standard, ma potrebbe diventare un’ottima abitudine.
- Sei un cretino. – borbotta lui in un mezzo sussurro, - Bill dorme. – dice poi, senza attendere che sia io a chiederglielo, - È rimasto qui a parlare piangendo per ore, e poi s’è addormentato. Dovresti vederlo. È sfatto.
Serro la mascella, annuendo meccanicamente, anche se lui non può vedermi.
- Lo immagino. Lo tieni da te, stanotte?
- Ovvio. Che pretendi, che lo riporti a casa sua? – poi sospira e lo sento allungarsi sul materasso, stendendo un braccio. Bill mugola mentre lui lo stringe, ma sento nella cornetta il suo respiro tranquillo e regolare e so che non s’è svegliato, perciò sorrido. – Non ha fatto che parlare di lui. – continua Tom, la voce bassa venata di tristezza. – Non sono riuscito a farlo parlare d’altro.
- È ancora presto… - gli spiego, sospirando appena, - Starà meglio. Fra un po’.
- No, io non credo, David. – dice lui, e ne è talmente sicuro che non trovo la forza di rispondergli che è convinto così solo perché è piccolo e perché, come suo fratello, in questo momento è convinto che, morto Bushido, sia morto anche tutto il resto. Bill e Tom non sono mai stati tanto distanti l’uno dall’altro come lo sono adesso. Al contempo, però, non sono nemmeno mai stati tanto vicini. – Io non credo. – ripete più nervosamente. – Non so cosa fare con lui.
- Devi solo stargli vicino, Tom. – cerco di rassicurarlo, - Solo questo. Andrà meglio.
- Mi sono rotto di sentirtelo ripetere. – singhiozza lui, ed io mi rendo conto che questo ragazzino, perché di ragazzino si tratta, ha ascoltato per tutto il giorno il pianto disperato della persona cui tiene di più al mondo, e non ha potuto versare con lui neanche una lacrima. Perché quando Bill si dispera tu devi restare lucido, perché a Bill viene facile lasciarsi ricadere così profondamente nella propria tristezza da non essere più in grado di tirarsene fuori. E quindi serve qualcuno che resti lì pronto ad afferrarlo saldamente quando cade. Tom oggi non ha versato una lacrima. Tom piange adesso, al telefono con me. – Perché cazzo è dovuto succedere? – si lamenta, - Riportalo indietro. – ed io ho i brividi, perché Tom non sa che potrei farlo davvero, quello che mi chiede. Potrei e al contempo non posso.
- Tom… - lo chiamo a mezza voce, ma lui mi interrompe tirando su col naso.
- Scusami. – dice, asciugandosi le lacrime, - Ora passa. A me passa.
- Mi dispiace. – sospiro io, muovendomi a disagio sul sedile, - Appena torno a casa-
- Sei in viaggio? – cambia subito argomento lui, e nella sua voce non c’è quasi più traccia di pianto, - Dove vai?
- Affari. – rispondo io, vago, - Non preoccupartene. Cerca di badare ad una cosa per volta. – sorrido un po’.
- Sì. – annuisce lui. Non perde neanche tempo a domandare oltre, sa che se avessi voluto dirgli qualcosa l’avrei semplicemente fatto. Ed ha comunque altro cui pensare, al momento. – Allora ci sentiamo.
Annuisco e lo saluto a bassa voce, ascoltando la chiamata interrompersi ed il segnale della linea caduta sostituirsi alla voce impastata di Tom, mentre i freni del taxi stridono sotto di me e l’automobile si ferma di fronte al palazzo di Bushido. La strada è illuminata e piena di gente. Il tassista si volta e dice “arrivati, io pago e scendo dalla macchina senza dire una parola, guardandomi distrattamente intorno per recuperare la memoria fisica dell’ultima volta che sono stato qui e lasciare che siano i miei piedi a guidarmi verso il palazzo giusto, la scala giusta, la porta giusta. Apro con le chiavi, tengo il doppione nel mazzo che uso comunemente in Germania anche per quelle di casa mia.
L’appartamento è buio e, se non sapessi che per forza Bushido deve trovarsi qui, lo penserei disabitato. Le finestre sono tutte chiuse, peraltro, con le serrande abbassate, l’aria è pesante e densa e non si sente volare una mosca. Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza, ed evito di accendere la luce, muovendomi all’interno della casa con un po’ di difficoltà, finché non mi abituo all’oscurità.
Bushido sta dormendo sul divano. O almeno suppongo stia dormendo: non lo sento respirare, mi auguro che non sia morto davvero proprio quando io ho deciso di alzare il culo per venire a trovarlo.
Mi siedo sul bracciolo del divano ed inspiro profondamente.
- Tarek. – chiamo ad alta voce.
Lui non si sveglia.
Io sospiro ancora.
- Anis. – sussurro più dolcemente. E il suo respiro cambia ritmo. S’è svegliato.
Lo sento muoversi sul divano, la pelle crocchia sotto di lui, e poi lo osservo sbadigliare e stendere le braccia per stiracchiarsi, mettendosi seduto. Resta in perfetto silenzio finché non ha chiaro a grandi linee chi sia, dove si trovi, chi sono io e perché sono qui.
- David. – mi chiama quindi, - Andato bene il viaggio? – e la sua voce è ancora impastata di sonno ed alcool. Muovo un piede e si rovesciano per terra due o tre bottiglie di birra. Io sospiro, Bushido ride. – Spero non fossero ancora piene. – commenta. Io evito di rispondere che ho i miei dubbi al riguardo.
- Dormivi già? – chiedo, - È presto.
Lui scrolla le spalle.
- Avevo sonno. – risponde. Non “ero triste”, non “è meglio se dormo perché altrimenti mi ubriaco fino a vomitare l’anima”, nemmeno “mi annoiavo e non c’era nulla da fare”, che sarebbe sì una bugia ma comunque meno sfacciata di quella che ha detto. “Avevo sonno”, dice lui.
- E quando hai sonno non ti viene mai in mente di andare almeno a letto? – lo rimprovero, - Ti fotterai la schiena, continuando a dormire qua sopra.
Lui scrolla ancora le spalle. Giustamente, non gliene frega un accidenti di quello che succederà alla sua schiena da questo momento in poi.
Io, ancora appollaiato sul bracciolo, resto in silenzio qualche secondo in più, prima di parlare ancora.
- Ti ho portato un regalo. – affermo, recuperando lo zainetto e sistemandomelo in grembo mentre lo apro e comincio a rovistare all’interno. – Tanti auguri, a proposito.
Lui lascia andare un ghigno e sbuffa.
- Non ho voglia di festeggiare i trent’anni. – risponde, - Sto diventando vecchio.
- Ah, grazie mille. – ringhio io, tirandogli addosso il pacchetto avvolto nella carta argentata e lucida, - Ora chiudi la bocca e aprilo.
Lui frena la caduta del pacco lungo il suo petto, con una mano sola, e poi lo solleva all’interno del viso, guardandolo attentamente, come potesse sbirciare oltre la carta per scoprire di cosa si tratti.
- Cos’è? – chiede, rigirandoselo con cura fra le mani.
- Dio, ma aprirlo e basta no? – borbotto scivolando giù dal bracciolo sul cuscino accanto a lui.
Lui segue il consiglio, fortunatamente. Prende il pacchetto con entrambe le mani e lo scarta con una lentezza esasperante, stando bene attento a non strappare la carta né l’adesivo dorato che la teneva sigillata. Mi viene quasi voglia di rubarglielo di mano ed aprirlo io, il più in fretta possibile. Bushido è un uomo che le attese e i silenzi sa manipolarli bene. Io, in questo momento, non dovrei stare praticamente saltando sul divano, frustrato dall’aspettativa di vedere come reagirà a ritrovarsi il regalo sotto gli occhi, quando l’avrà aperto. Eppure lo sto facendo.
Quando il CD viene fuori dalla carta, Bushido lo guarda a lungo in silenzio, prima di voltarsi e sollevarlo a mezz’aria, guardandomi da sotto le sopracciglia inarcate. Non dice niente, me lo mostra e basta, e non capisco cosa mi stiano chiedendo i suoi occhi.
- Be’? – chiedo alla fine, - Il packaging è come lo volevi?
- Potevate usare la foto della sega elettrica. – borbotta lui, tornando a rimirare la custodia da ogni lato, - Mi piaceva di più, lo sapevi anche. E poi in questa sembro una specie di meccanico appena uscito da sotto una macchina.
- E questo ha mandato in delirio la Germania intera, se t’interessa saperlo. – comincio con entusiasmo, - Non hai nemmeno idea della quantità di ragazzine che… - ma mi fermo, quando capisco, dalla sua espressione, che no, non ha idea della quantità di ragazzine che, e soprattutto non gli interessa. – Comunque abbiamo usato anche quella. Quella della sega elettrica, dico. Lo so che ti piaceva di più.
Lui annuisce distrattamente.
- Come stanno andando le vendite? – chiede. Non che gliene freghi qualcosa. Comunque è già tanto averlo trovato in stato semicosciente e non semicomatoso, immagino, perciò se vuole fare un po’ di conversazione io di certo non gliela negherò.
- Ovviamente benissimo. – rispondo con un sospiro, - La Germania ti idolatra, Bushido. Sei diventato una specie di santo.
- E non sono nemmeno dovuto morire sul serio… - commenta con un ghigno fra l’ironico e l’incattivito, - L’Ersguterjunge?
Scrollo le spalle.
- Non si può pretendere si rimettano già al lavoro. È stato abbastanza faticoso costringere la Universal a fare pressione su Saad perché si decidesse a finire di produrti l’album e metterlo in commercio. Non erano mica d’accordo. Chakuza ha tirato su il bordello.
Lui sbuffa una mezza risata, rilassandosi contro lo schienale del divano.
- È ancora arrabbiato, Chaky? – chiede, gli occhi socchiusi e la testa reclinata all’indietro. Mi chiedo se non abbia intenzione di riaddormentarsi qui ed ora. E questo mi ricorda Bill durante tutto il suo primo mese di lutto, dopo la sua morte. Non faceva che dormire. Si svegliava, piangeva fino a sfinirsi e poi dormiva ancora. Tom mi ha detto che pensava fosse l’unico modo in cui suo fratello riuscisse a far trascorrere le giornate. Se non si fosse esaurito e poi addormentato, quelle non sarebbero mai passate. Credo che per Bushido sia più o meno la stessa cosa, adesso.
- È scosso. Come tutti. – sospiro. A Bill non accenno. – La settimana prossima saremo a TRL. Hanno organizzato con l’occasione del tuo compleanno, ma sono riuscito almeno a farla spostare di modo che non cadesse proprio oggi. Non sarebbe stato il caso.
Bushido annuisce lentamente.
- Suppongo di no. – concorda, stendendosi appena sul divano. Il CD è poggiato sul cuscino accanto a lui, e lui nemmeno lo tocca più. – Queste cose potevi anche dirmele per telefono, comunque. – ride poi, - Non c’era bisogno del viaggio transoceanico.
- Dico, uno si prodiga tanto… - borbotto, rimettendomi in piedi e tirando su i jeans che, nel mentre, minacciano di rovinare a terra. Poi gli tendo una mano. – Coraggio, in piedi.
Lui schiude gli occhi e mi guarda come fossi un alieno.
- Eh? – chiede, sollevando il capo dal divano.
- In piedi, ho detto. – ripeto, scandendo bene le parole perché siano chiare. – È il tuo fottuto compleanno. Per i miei trent’anni, sono andato in giro per bar fino alle sei del mattino. Non intendo riportarti a casa prima di allora.
Lui si irrigidisce, schiude le labbra e fa per dire qualcosa – so anche precisamente cosa: sta per dire “no”. E siccome i no di Bushido non sono semplici no, sono “no, non se ne parla, toglitelo dalla testa e se solo fai tanto di ostinarti ti faccio del male fisico”, gli impedisco di dirlo afferrando un cuscino proprio lì di fianco a lui e schiacciandoglielo contro il viso.
- Jo- - annaspa lui, agitando le mani mentre io premo contro la stoffa col palmo bene aperto, - Jost! – abbaia, e si libera della pressione scivolando sotto al cuscino e poi in piedi, - Avevi intenzione di ammazzarmi sul serio, Cristo santo?! – urla, a due centimetri dal mio viso.
- Be’, - lo affronto a muso duro, - sempre meglio farlo io che non osservarti mentre ti… ti consumi su questo divano, Bushido! Dico, ma ti sei guardato allo specchio, ultimamente?! Da quanto non ti radi? Da quanto non ti lavi, Dio mio, da quanto non mangi? – e lo spintono, rimettendolo a sedere sul divano e guardandolo dall’alto, i pugni piantati sui fianchi, piegandomi appena in avanti per fissarlo negli occhi. È così che rimprovero i piccoli, quando è necessario. È così che rimprovererò anche lui. – Sei magro, sfatto e inguardabile. Ti ho permesso di sopravvivere senza sputtanarti e sono intenzionato a costringerti a sopravvivere anche con dignità, se tu non senti il bisogno di farlo per te stesso. D’accordo? Quindi ora – lo afferro per le spalle e lo rimetto dritto. È dimagrito davvero. – alzati in piedi e muovi il culo, stronzo. Ti aspetto il tempo della doccia.
Lui mi fissa per un minuto buono con un paio di occhi da pesce lesso che mi fanno venire il nervoso. Sto giusto chiedendomi se non dovrei farlo cadere a terra con uno sgambetto e poi pestarlo con violenza fino a lasciare di lui solo un mucchietto d’ossa sanguinolente, quando lui prende e ride. Saranno mesi che non lo sento ridere così, Dio. Una bella risata piena, di quelle fatte con convinzione. Lo vedo gettare indietro il capo – i capelli arruffati che gli si scompongono appena sulla testa – e stendere il collo mentre chiude gli occhi e schiude le labbra, pressandosi una mano contro lo stomaco, la maglia bianca e larghissima che si arriccia in sbuffi attorno alle sue dita scure e bene aperte.
Imbarazzato, aggrotto le sopracciglia.
- E allora… - borbotto, spintonandolo contro una spalla. Lui ride ancora un po’, ed asciuga una lacrima dall’angolo di un occhio, scuotendo il capo.
- D’accordo, papà. – continua a ridere in singhiozzi minuscoli. Dico, che cretino. – Vado a rendermi guardabile, visto che me lo chiedi con tanta insistenza.
Quando esce dal bagno, in realtà, è molto più che guardabile. Faccio fatica a non distogliere lo sguardo perché – davvero – sarebbe ridicolo abbassare gli occhi adesso, ma è dura. È dura perché lui è seminudo, ancora un po’ umido di doccia, sbarbato e coi capelli scompigliati sulla testa. Stanno crescendo, e il fatto siano ancora pesanti d’acqua li porta ad appiccicarglisi sulla fronte. Lui li scosta con un gesto lento e distratto, sistemando meglio l’asciugamano attorno ai fianchi e piazzandosi davanti allo specchio del salotto – le gambe semidivaricate e il bacino lievemente sporto in avanti – per riavviarli con più cura sulle tempie e sulla nuca.
- Stanno allungando. – mi fa notare, guardando la propria immagine riflessa, - Non ho pensato di tagliarli.
- Non ti stanno male. – rispondo io con una scrollata di spalle, decidendomi finalmente a smettere di fissarlo.
- Vanno bene per Tarek. – continua lui, perso in chissà che cosa dentro la propria testa, - Magari li faccio allungare ancora.
- Potrebbe essere una buona idea. – annuisco io, fingendo interesse per la sua copertura qui, - Saresti ancora meno riconoscibile. – e ancora più bello, anche, ma è un pensiero che mi attraversa solo marginalmente, senza colpirmi in pieno. Ho imparato ad evitare cose simili, nei tre anni che hanno visto quest’uomo frequentare i miei ambienti più spesso di quanto già non facesse prima per cause lavorative.
Bushido non risponde alla mia ultima nota. Pianta le mani sui fianchi, sospira e si volta a guardarmi.
- Allora. – comincia quindi, - Dove mi porti?
Io inarco le sopracciglia.
- Nudo, da nessuna parte. – rispondo, accennando col capo all’asciugamano che è ancora l’unica cosa che lo copre, - Se ti vesti, andiamo a bere da qualche parte. E se fai il bravo magari ti compro anche una torta.
Lui sorride e non aggiunge altro, voltandomi le spalle ed infilandosi in camera da letto. Quando ne viene fuori, ha addosso una camicia bianca e un paio di jeans scuri. Infila le scarpe da tennis saltellando prima su un piede e poi sull’altro, quindi mi si para davanti a braccia larghe.
- Be’? – chiede, - Bello?
- Bushido, piantala. – ringhio io, tirandogli una spinta contro una spalla, - Ti preferivo depresso. – borbotto, muovendomi verso la porta.
- Balle. – ghigna lui, - E poi sciogliti un po’, Jost, è il nostro primo appuntamento, in fondo!
- Bushido, sei avvertito. – insisto, chiudendo la porta quando lui esce dietro di me, - Continua a fare il deficiente e prima ti ubriaco e poi ti lascio ad un angolo di strada.
Lui ride e solleva le mani all’altezza del viso, bene aperte, in segno di resa.
- Okay, okay, Jost. Hai vinto. Te lo concedo.
- Da quando… - mi lamento, girando le chiavi nella toppa, - Da quando le vittorie si concedono? Di solito le vittorie le vince chi le ha vinte.
Bushido ride ancora.
- Mi sono perso alla prima ripetizione del verbo vincere. – commenta, sistemandosi addosso la camicia mentre io cerco disperatamente di non guardarlo, - Comunque l’idea di andare in giro a bere mi piace. Anche se non saprei dove portarti. – e ride un po’, - Dovrei conoscerlo, questo posto, ormai. Sono tre mesi.
Mi volto a guardarlo con aria un po’ sconvolta.
- E non sei mai uscito di casa?
- Per la verità sì… - borbotta lui, scrollando le spalle, - Ma il minimarket è proprio qui sotto. Quindi, insomma, non è che abbia avuto veramente occasione di spingermi tanto in là nell’esplorazione del quartiere.
Io sospiro, passandomi una mano sulla fronte.
- Va bene, va bene… non mi va di litigare. – mi arrendo, sconfitto, - Adesso ti porto al Palms. O al Chico Loco. Magari se non vogliamo casino ci infiliamo al Tropical Paradise, conosco personalmente il proprietario e potrebbe trovarci un privè. O magari… - e continuo sulla stessa traccia per quelli che mi sembrano una decina di minuti, sciorinando un nome di locale alla moda dietro l’altro, al punto che al quindicesimo la cosa comincia a diventare disturbante perfino per me, ed è a quel punto che alzo lo sguardo su di lui e capisco che non è disturbante solo per me.
- Tu – dice Bushido, indicandomi con un dito, - sei veramente un esemplare perfetto di omosessuale in carriera. Io non ho parole.
Io cambio colore e lo sferzo con un’occhiataccia che spero lo uccida definitivamente, risolvendo in un colpo sia i miei che i suoi problemi. Bushido però non muore, la cosa non mi stupisce ed io smetto di arrabbiarmi. D’altronde, non è che possa dirgli “no, non sono un perfetto esemplare di omosessuale in carriera”. Sono un esemplare, sono un omosessuale, sono in carriera e sono indubbiamente perfetto, anche. Perciò pace.
- Diamoci una mossa. – dico quindi, - Se arriviamo tardi potremmo non trovare più privè. – e mi muovo verso l’ascensore. Bushido mi segue, e nello specchio dell’ascensore, quando le porte si aprono, scorgo l’ombra di una smorfia ad increspargli le labbra. – Qualcosa non va? – chiedo immediatamente.
- Niente di particolare. – scrolla le spalle lui, - Solo che pensavo che magari, invece di andarci a chiudere in un qualche locale alla moda pieno di fighetti ubriachi, potremmo andare in qualche pub meno frequentato. Una roba tranquilla, insomma. – lui osserva il mio sopracciglio sinistro inarcarsi in maniera convincentemente dubbiosa, e si affretta a precisare. – Mi diverto, Jost, promesso. Solo che non c’ho voglia di casini. Non mi va di vedere gente.
- Sono sconosciuti. – gli faccio notare. Non vedo che problema debba esserci ad avere a che fare con gente che non ti conosce, non vuole nemmeno conoscerti e probabilmente dimenticherà il tuo viso prima del sorgere del sole, il giorno dopo.
- Sono gente. – risponde semplicemente Bushido, e il suo tono di voce è netto e deciso. – Ora, visto che sai perfettamente che faccio già abbastanza fatica ad uscire di casa, al momento, - ed è raggelante la calma serafica con cui ne parla. Come fosse normale. Magari è convinto lo sia, - potresti almeno cedere se ti dico che non voglio vedere gente? Mi basti tu. Davvero.
Ed io cedo, che altro dovrei fare? D’altronde, Bushido è il mio datore di lavoro – e praticamente nient’altro – mi paga profumatamente per ciò che faccio ed io non dovrei prendermi certe libertà come cercare di salvarlo dalla depressione, quando è palese che l’ultima cosa che vuole è proprio essere salvato. Non mi paga per questo. Io dovrei ricordarmelo. Anche se probabilmente, proprio perché non è per questo che mi paga, questa è la cosa che dovrei fare con maggiore attenzione.
Alla fine non andiamo al Palms, non andiamo al Chico Loco e non posso neanche passare a salutare Micah al Tropical Paradise. Passeggiamo sul lungomare, invece, ed io osservo Bushido prendere lentamente coscienza del luogo in cui si trova. Quando mi ha detto che probabilmente Miami sarebbe stata la soluzione migliore per quella fuga assurda, io ho approvato per due motivi: primo, era abbastanza lontano da essere un luogo sufficientemente sicuro; secondo, era abbastanza bello da rappresentare una distrazione.
Il problema è che Bushido, in questi mesi, non s’è mai concesso di distrarsi. Lo sta facendo ora per la prima volta e si sta rendendo conto di aver vissuto in un paradiso senza mai lasciarsi la possibilità di esplorarlo. I suoi occhi si perdono seguendo la linea dell’orizzonte affogata nel mare, e la sua pelle si colora dei toni aranciati del tramonto che si sfuma in sera, e quando lo sento respirare a pieni polmoni respiro improvvisamente meglio anch’io. Perciò non mi lamento quando ci fermiamo in un localino proprio lì, sulla spiaggia, una specie di casotto di legno col tetto spiovente e un sacco di ghirlande di fiori che pendono dal soffitto decorando cocchi, manghi, papaye ed altri frutti di cui non conosco nemmeno il nome.
Il bancone gira tutto attorno al locale, io e Bushido prendiamo posto su due sgabelli e cominciamo a farci servire da bere. So che non dovrei permettergli di ingurgitare altro alcool dopo tutto quello che sicuramente ha mandato giù negli ultimi giorni, ma cazzo, è il suo compleanno. Non intendo impedirgli niente proprio oggi. Che beva pure. Tra l’altro, avere a che fare con lui ubriaco è comunque molto più semplice che avere a che fare con lui da lucido. Che poi è il motivo per cui lo stronzo cerca di ubriacarsi il meno possibile, quando è in compagnia. Gli piace rendere complicate le cose alla gente.
Oggi no, però. Evidentemente il divertimento che proverebbe nel rendermi difficile l’esistenza è surclassato in necessità dal bisogno che ha di stordirsi, perciò non ci pensa nemmeno a mantenersi lucido, e butta giù una birra dopo l’altra, chiedendo di tanto in tanto anche un cocktail o qualcosa di diverso per cambiare gradazione alcolica e stordirsi di più e più in fretta. Io bevo il minimo indispensabile, se non altro perché almeno uno dei due dovrà ricordarsi la strada di casa, quando questo strazio sarà finito.
Nel mentre lo ascolto parlare, e Bushido mi dice un sacco di cose, anche se nei fatti non mi sta dicendo praticamente niente. Lo so che Miami è un bel posto, Bushido, è assurdo che ancora non lo sapessi tu. Lo so che ti manca Berlino, Bushido, lo so. Lo so che ti manca tua madre. Sta bene tua madre, Bushido. Lo so che ti mancano i tuoi ragazzi, manchi tantissimo anche a loro. Lo so che qui fa troppo caldo per te, no, non ti ci potevo mandare in Antartide, Bushido. Lo so che non riesci a chiedermi di Bill. Sta male, Bushido. Sta un sacco male. Ma visto che non chiedi non rispondo. Per ora è meglio così.
Quando ci allontaniamo dal locale, molte ore più tardi, la luna è alta nel mezzo di un cielo nerissimo ed abbiamo speso un capitale in bibite. Bushido si regge a stento sulle gambe, tant’è che devo sostenerlo io, e meno male che è leggerissimo altrimenti ci accasceremmo entrambi per strada in un angolo e dovrebbero venirci a recuperare con un carro attrezzi prima di bloccare il traffico, domattina.
L’appartamento è sempre buio e incasinato, quando torniamo, e Bushido sta ancora blaterando roba, con la differenza che adesso lo sta facendo completamente steso contro di me, ad un centimetro dal mio orecchio, e mi sfiora piano il lobo con le labbra ogni volta che dice una parola.
- Sono stanco, - mi dice, - non mi piace stare qui. Posso tornare a casa?
- No, Bushido. – rispondo stendendolo sul proprio letto perfettamente rifatto e immacolato al punto che mi chiedo se ci abbia mai veramente dormito, - Non puoi, lo sai.
- Ma mi sento solo. – borbotta. Come fosse una giustificazione alle sue richieste assurde. Non lo è, Bushido, non ci sono giustificazioni per le tue richieste e non potrei lasciarti tornare anche se invece ce ne fossero. Mi dispiace. Dio sa che mi dispiace, cazzo. Ma non posso proprio.
Sfilo via le coperte da sotto il suo corpo e cerco di rimboccargliele sotto il mento, ma lui prima le scosta con una mano e poi, quando io insisto, si mette a scalciare come un moccioso.
- Va bene, va bene! – mi arrendo, - Dormi scoperto, come preferisci! Io vado di là. – affermo irritato, e faccio per mollarlo lì e trasferirmi sul divano, che ho sonno, il jet lag comincia a farsi sentire nonostante l’abitudine e domani a non-mi-ricordo-che-orario-devo-ricontrollare-la-carta-d’imbarco ho l’aereo per rientrare in Germania. Scemo io e fanculo ai viaggi transoceanici.
E invece niente, non mi allontano, non faccio nemmeno un centimetro, perché le dita della sua mano si chiudono come una tenaglia attorno al mio polso ed io quasi finisco steso sul letto accanto a lui. Riesco a tenermi in piedi per puro miracolo, e mi volto a guardarlo con un sopracciglio inarcato in segno di muta richiesta.
- Resti? – mi chiede a mezza voce. Ha gli occhi chiusi. Credo non voglia vedermi. Credo non voglia vedere niente.
- Sto già restando. – gli faccio notare, senza neanche provare a forzare la sua stretta, - Sono qui a due metri, se hai bisogno.
- Resta qui. – specifica lui, stringendo con maggiore decisione e tirandomi un po’, - Nel letto.
Mi giro per guardarlo attentamente, anche se lui ha ancora gli occhi chiusi e quindi di certo non può accorgersene. Schiude appena le dita per permettermi di girare anche il polso, così da non dovermelo torcere, e poi torna a stringermi. Non è che abbia bisogno di trattenermi. Vuole solo sentirmi sotto i polpastrelli.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce, - Non fare il coglione.
Lui stringe ancora la presa e non dice niente. Non dice niente tanto a lungo che finisco per sentirmi io il coglione della situazione. E quindi pianto un ginocchio sul materasso e lui, quando sente la pressione del mio corpo, si scosta per farmi spazio, così da lasciarmi distendere accanto a lui.
La situazione è assurda. La nostra posizione, anche. Io non dovrei essere qui disteso e lui non dovrebbe volere da me ciò che penso voglia. Sono io che dovrei volere queste cose da lui. Sono io che le voglio, in realtà, ma non dovrei potermele prendere. Bushido non dovrebbe volermele dare.
- Toccami. – dice piano, la sua voce è un sussurro pieno di bisogno.
- Bushido… - cerco di richiamarlo un’ultima volta, ma lui mi ferma.
- Ssh. – sospira, stendendosi meglio sul materasso. – Toccami.
Io mi mordo un labbro e sollevo una mano, e per un secondo la lascio lì a mezz’aria perché non ho idea di come dovrei o potrei toccarlo. Insomma, non è un uomo qualsiasi. È Bushido. Non so nemmeno da che lato prenderlo.
Mentre penso che farò sicuramente qualche cazzata colossale, e che anzi probabilmente la mia cazzata colossale la sto già facendo, poso una mano sul suo petto e la lascio scorrere verso il basso. Le dita si impigliano una ad una fra i bottoni della camicia e li slacciano uno dopo l’altro. Bushido rabbrividisce ogni volta che mi muovo. Schiude le labbra e stira indietro il capo, i capelli che si scompigliano contro il cuscino.
- Di più. – mormora fra le labbra, e spinge il bacino verso l’alto nello stesso momento in cui la mia mano ci finisce sopra, sfiorandolo appena. Slaccio i pantaloni e lo accarezzo piano, stringendo le dita attorno alla sua erezione ancora incompleta e pompando lentamente. Dio mio, cosa sto facendo? Perché lo sto facendo? Resto qui, il gomito piantato sul materasso, lievemente sollevato per guardarlo meglio, e lo osservo inarcarsi sotto i miei movimenti, ed è praticamente l’unica cosa che fa. Non mi cerca con le mani, non mi cerca con le labbra, non mi cerca neanche coi pensieri, Bushido, lo so perfettamente cos’è che sta cercando. Non posso ridartela io la tua principessa, Bushido. Non può ridartela nessuno. Ti toccherà accontentarti.
Quando smette di farsi bastare la mano, quando comincia a volere di più, io non lo capisco perché me lo dice. Lo capisco perché si mette seduto in un movimento lento e strascicato, insospettabilmente sensuale – ci resto a bocca aperta, non me lo aspettavo per niente, ma Dio mio, appena lo vedo sollevarsi in quel modo, la testa piegata su una spalla e le braccia tese, deglutisco a fatica e respiro con difficoltà se possibile ancora maggiore.
Sfilo la mano e lui si volta verso di me, mettendosi in ginocchio sul materasso.
- Stenditi. – sussurra piegandomisi addosso, - Voltati.
Obbedisco e in aggiunta mi spoglio anche. È chiaro che lui non lo farà ed è chiaro che invece si aspetta lo faccia io per lui. continua a tenere gli occhi chiusi, non mi guarda, non mi parla se non per lo stretto indispensabile e soprattutto non mi bacia nemmeno. Da nessuna parte. Si regge sulle braccia, sospeso sopra di me, sento il suo calore intorno ma non addosso, e aspetta che io mi sia spogliato abbastanza per lasciarmi scivolare un paio di dita umide fra le natiche. Rabbrividisco sotto la leggera pressione dei suoi polpastrelli e mi inarco contro di lui, lasciando scivolare fra le labbra un ringhio roco.
- Mi manchi. – lo sento sussurrare contro la mia spalla, - Dio… mi manchi. – ed affonda dentro di me, sostenendosi sul materasso con entrambe le mani, - Cazzo, mi manchi. – lo so che ti manca, Bushido. Cazzo, lo so. Lo so che stai male. Non avrei mai dovuto permetterti niente di simile. Non avrei mai dovuto lasciarti uscire dai confini della fottuta Germania, non avrei mai dovuto lasciarti andare, non avrei – cazzo, sì – non avrei mai dovuto permetterti di mettere su questa commedia del cazzo – Dio, Bushido, più forte – e adesso dovrei prenderti a ceffoni – – dovrei riportarti a casa per i capelli – sì, cazzo, sì – dovrei – cazzo, sì – non lo so, affondo il viso nel cuscino mentre vengo e lo sento spingere ancora un paio di volte, ma lui non viene. Non viene, cazzo. Le spinte si smorzano e basta, il suo respiro, da concitato che era, si regolarizza, ed esce dal mio corpo insoddisfatto, lasciandosi rotolare sulla schiena e poi su un fianco senza guardarmi neanche per sbaglio.
Mi volto anch’io, mettendomi seduto a fatica e passandomi una mano sulla fronte.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce. Lui non mi risponde. Respira piano. Non dorme. Resta immobile.
Mi risistemo appena ed esco dalla stanza, abbandonandomi esausto sul divano appena incrocia la mia traiettoria, perché non mi reggo più in piedi. Quando chiudo gli occhi, lo faccio esattamente per lo stesso motivo per cui l’ha fatto Bushido. Non voglio più vedere niente. Anche se dubito che stanotte riuscirò a dormire.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Flashfic, Slash.
- Dopo un litigio con Anis, Bill esce di casa. E cade in un cliché.
Note: *_* Bikuza, yay! No, Fedy, non odiarmi. È anche Billshido, visto? XD E poi è oggettivamente piccola e pucciosa, o almeno, io la trovo molto carina. Mi piace perché il Billshido è conflittuale e il Bikuza è dolce. Queste sono le caratteristiche che preferisco principalmente nei rispettivi pairing, quindi è ovvio provare dell’affetto XD
Titolo regalato dalla Tab. Partecipante all’Iniziativa Estemporanea Silenzio-Assenso di Criticoni.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
BACKLASH

Bill si muove fra le lenzuola con una certa fatica. È ancora intorpidito ed assonnato, e nel mezzo del semicoma post-alcolico in cui ancora si trova cerca a stento di ritrovare un briciolo di lucidità per ricordare cosa sia successo ieri sera, cosa sia stato di lui e perché non si trova fra le lenzuola familiari di Anis, col suo familiare odore addosso e col suo familiare tepore a riscaldarlo mentre si risveglia.
Piano piano, mentre riemerge dal cuscino contro il quale ha schiacciato il viso addormentandosi, ricorda. Il litigio con Anis, andare via di casa sbattendo la porta, dirsi che non avrebbe ceduto a nessuno stupido cliché, sarebbe andato di filato a casa di suo fratello e gli avrebbe chiesto ospitalità per la notte, solo per quella notte, poi, cazzo, sarebbe tornato a casa e lui ed Anis avrebbero sicuramente chiarito. D’altronde era sempre così, fra loro: non si divertivano se non potevano devastarsi a vicenda, dicendosi addosso di tutto, anche cose che non pensavano, ma soprattutto quelle che pensavano veramente, perché sono quelle, in fondo, che fanno più male. E dirgli che è uno stronzo e lo odierebbe se non lo amasse è mille volte più doloroso che dirgli che non lo ama affatto. Fa più male perché è più vero.
Bill continua a ricordare, stendendosi sul letto a pancia in su, mentre i suoi occhi si abituano alla luce del giorno che filtra in strisce irregolari che si allungano progressivamente sulla parete di fronte. Si stiracchia assieme alla luce e ricorda che invece in quegli stupidi cliché del cazzo c’è caduto con tutte le scarpe. Non è andato da Tomi, ha preferito infilarsi nel primo pub incontrato per strada, fregandosene della possibilità di incontrare fan – d’altronde, che fan rispondenti al suo target avrebbe mai potuto incontrare in un pub tanto schifoso alle tre del mattino? – ed anche di quella di incontrare paparazzi – si fottessero anche loro e si cercassero una vita, invece di sbranare ogni brandello della sua fino a lasciare solo le dannate ossa – ed attaccandosi ad una bottiglia di birra, poi un’altra, poi un’altra, e poi…? E poi…?
Qualcuno mugugna al suo fianco e si sposta più vicino a lui, poggiandogli un braccio sul ventre senza pesargli troppo addosso.
…e poi Chakuza, ecco.
Bill guarda i suoi lineamenti fieri e dritti, il profilo del suo naso, le linee sottili delle sue labbra, e lo osserva mentre lentamente si sveglia. Si aspetta un po’ che, quando l’austriaco avrà finito di schiudere gli occhi, si scosterà da lui con aria infastidita e imbarazzata, rendendosi conto di aver messo le mani dove mai – mai e poi mai – avrebbe dovuto. E invece non accade. Quando gli occhi verdissimi di Chakuza si piantano nei suoi, l’uomo non si allontana. Non sposta nemmeno il braccio. In realtà non si muove di un millimetro, se si esclude il movimento lento che i suoi respiri impongono al suo petto.
- Stai bene? – chiede piano, la voce ancora un po’ arrochita dal sonno. Bill ripensa ad Anis e a la sua voce gli rimbomba nelle orecchie fino a fargli dolere i timpani, solo per un istante. Poi ripensa alle mani di Chakuza che gli scivolano addosso, alle sue labbra sul suo collo, al suo corpo tutto pressato contro il proprio, e sorride.
Non sente il bisogno di rispondere. Chakuza non sente il bisogno di chiedere altro.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Rape, Slash.
- "Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene?"
Note: Storia ispirata ad una splendida poesia di Emily Dickinson, che ho letto perché partecipante a questo concorso indetto da Harriet sul suo LJ. Non avrei mai letto la poesia, non fosse stato per il contest, quindi sono contenta di averlo letto XD E andate a leggerla anche voi, pure se non è che vi serva per la comprensione della storia in sé. È la storia in sé che, temo, non è granché comprensibile XD Spero lo sia e spero faccia male a voi leggerla quanto male ha fatto a me scriverla ;_; Billi ;_;
Devo dire che in genere io le storie così non le apprezzo per niente. La maggior parte della gente che ne scrive, non sa come farlo e si esibisce spesso in clamorosi buchi nell’acqua. Spero non lo sia anche questa, ma non vi assicuro niente, dal momento che non ho mai scritto niente di simile XD
Ultime due precisazioni. Primo: scrivere questa shot mi ha fatto venire voglia di scrivere una long di cui questo sia praticamente il prequel. Quindi è anche probabile che prima o poi la vediate su questi schermi XD Secondo: il titolo della storia è rubato all’omonima – e bellissima – canzone degli Strokes.
Grazie per aver letto e arrivederci :)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
HEART IN A CAGE

Specchio entra sempre per primo, perché visto che mi somiglia tanto gli altri magari credono che poi loro mi faranno meno paura, quando entreranno. Ma io non ho paura per niente, sai mamma?, io non ho paura per niente perché ormai sono un sacco abituato a loro che vanno e vengono dalla stanza, e sorrido a tutti, anche perché sono sempre gentili con me – ma sempre sempre – e poi non mi hanno mai fatto niente di male, lo sai?, quindi non ho per niente paura. Però loro sono convinti che io abbia paura, infatti sono sempre un sacco timorosi, sai che mi toccano a stento, mamma?, non lo so mica perché, io sono un sacco forte, non mi servono queste delicatezze, però a loro non posso dirlo, poverini, fanno tanta strada per venire dal loro mondo fino nel mio, solo per vedermi, quindi non li posso rimproverare, lo capisci, mamma?, non posso proprio.
Che poi secondo me Specchio me l’hanno pure costruito in laboratorio, sai mamma?, apposta per me. Perché mi assomiglia veramente tantissimo, tipo che è uguale, tipo che se ricalco i suoi lineamenti coi miei siamo la stessa persona, tipo che abbiamo lo stesso odore, la stessa forma, tipo che se lo tocco su un braccio lui ha il mio stesso calore – ma proprio uguale, mamma, è una cosa stranissima! – tipo che se lo guardo negli occhi non c’è solo il mio stesso colore, ci sono proprio io. Tipo che lo sento – mi crepita sulla pelle come una scintilla – lo sento che siamo proprio identici. A volte guardo Specchio e mi chiedo – ma non è che mi hanno rubato qualcosa una notte che dormivo e l’hanno plasmato proprio da un pezzo di me? Perché quando Specchio va via, sai mamma, mi sembra un po’ che stia andando via con lui una parte del mio corpo. E fa un po’ male. E poi torna tutto a posto quando Specchio ritorna. Per questo dico che forse l’hanno creato in laboratorio apposta. Ma è una cosa stupida, vero?, vero mamma?, i fantasmi non si fanno in laboratorio, i fantasmi sono fantasmi e basta. Magari Specchio è il mio fantasma, magari io sono morto. Magari sono io il suo fantasma, visto che Specchio è un sacco luminoso e io invece sono un sacco spento.
Papà, quando viene a trovarmi, mi dice sempre che Specchio ha pianto un po’. Lo chiama con un nome che non conosco, non lo chiama Specchio, ma d’altronde anche quando io lo chiamo papà lui scuote il capo e mi risponde che no, non si chiama papà, non è papà, non è papà, Bill, papà è a casa, è venuto a trovarti la settimana scorsa, lo ricordi, Bill?, non lo ricordo no, sei tu papà, perché non ti fai chiamare papà?, io non mi chiamo Bill, io non ce l’ho un nome. Papà non mi vuole bene, non si lascia chiamare papà e non mi ha nemmeno battezzato. Non è giusto chiamarmi in quel modo, quello non è il mio nome. Mamma, neanche tu dovresti chiamarmi Bill. Nessuno dovrebbe chiamarmi Bill. Bill non esiste.
Comunque, anche quando papà mi dice che Specchio ha pianto, mi dice sempre anche che non devo sentirmi in colpa, non è colpa mia se Specchio piange. Specchio non dovrebbe mai piangere, comunque, è troppo bello per piangere. Io preferirei che non piangesse. Però non posso farci niente. Anche se papà mi dice che il modo per farlo smettere di piangere è stare meglio. Ma io sto bene, mamma, diglielo anche tu, com’è che non lo vedete? Sono perfettamente guarito, non ho più male da nessuna parte, non c’è più sangue, sono di nuovo pulito. Però non posso uscire, è l’unico problema, non posso uscire perché non riesco a camminare. Quando ci riuscirò uscirò, papà e mamma, è una promessa, quindi dite a Specchio che la smetta di piangere, per favore, tutto a suo tempo, mi rimetterò in piedi, piano piano. Piano piano, però. Piano piano.
E poi c’è Amore. Quando Amore entra nella stanza io sorrido senza sforzarmi. Amore sono quasi certo che non si chiami proprio Amore, ma io non riesco a ricordare il suo nome, ed è l’unica cosa che mi fa male. Sono sicuro che lui c’era da prima, non viene a trovarmi da adesso, lui c’era da prima che entrassi qua dentro. E non riesco a ricordare come si chiama. E lui ogni tanto me lo chiede, mi chiede se lo so come si chiama, lo sai come mi chiamo, Amore?, e io non me lo ricordo e scuoto il capo, ma lo chiamo Amore perché lui chiama Amore me, ed è così che voglio chiamarlo, anche se il suo sorriso, quando lo chiamo così, è un sacco triste.
Amore ha dei colori bellissimi. È colorato come il caramello, anche se non ha lo stesso sapore. E ha gli occhi come il cioccolato e i capelli come l’ebano, e le mani grandi, le mani grandi e forti, ed è l’unico che mi tocca tantissimo, mi tocca fino a darmi fastidio, però è un fastidio a cui non riesco a rinunciare, sai mamma? Lo so, mamma, lo so che queste cose non si fanno, lo so che sono cose sporche, lo so che non dovrei lasciarmi baciare da lui, lo so che non dovrebbe toccarmi. Lo sa anche lui, mamma, te lo giuro, si ferma sempre prima di andare troppo oltre, è buono, le sa queste cose, non mi farebbe mai del male. Te lo giuro, mamma, mi bacia e mi accarezza soltanto. Lo so che secondo te è sbagliato, ma ti prego, non dirgli più di smetterla, io ne ho bisogno, mi piace tantissimo.
Amore poi porta sempre un sacco di gente strana, mi viene tanto da ridere quando arrivano. È che sono tanti tantissimi, non è che ho un nome per tutti, però le loro facce, quelle sì, quelle le conservo tutte, sono tutti divertenti. Lui sembra un re, quando viene con quelle persone, perché loro sembrano la sua corte. È così bello il mio Amore quando me li presenta, te li ricordi loro? Questo è… questo è… non mi ricordo i nomi, mi dispiace, mi dispiace signore tondo con gli occhi verdi, mi dispiace signore strambo coi baffetti, mi dispiace ragazzo abbronzato che assomiglia a un porcellino, io vi voglio un sacco bene, lo so, lo sento, però non mi riesce di ricordare come vi chiamate, perdonatemi.
E poi arriva il momento che Amore dice ai ragazzi che è ora di andare, ed io comincio a rabbrividire e non sto più nella pelle, perché quando i ragazzi vanno Amore si avvicina. E mi sfiora le spalle, con le sue mani grandi, ed io piego il capo e lui mi bacia sul collo e poi si siede al mio fianco. E io gli scivolo addosso e mi strofino contro il suo corpo, che è caldo e forte, e sento che mi manca anche se non ricordo di essere mai stato con lui – Amore, mi perdoni se non me lo ricordo? Perché devo ricordarmi solo cose tristissime quando penso a cose come questa? Perché non ricordo le tue mani, perché ricordo solo quelle di un’altra persona? Non voglio ricordare, Amore, chiudimi gli occhi, tappami le orecchie, serrami le labbra, e Amore lo fa, Amore è bravissimo, Amore mi stringe, ti amo, Amore, e lui mi dice di non dirlo. Non dirlo, Amore, me lo dirai quando starai meglio. Amore, sto bene. Posso dirtelo. Amore, ti amo, ti amo tantissimo.
Poi Amore va via ed arrivi tu, mamma. Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene? Sento la testa tanto leggera. Posso andare a casa con Amore? Magari Specchio smetterebbe di piangere. Pensi che papà sarebbe d’accordo? Perché tu non lo sei, mamma? Io sono felice. Non lo vedi che sono felice? Sto piangendo di gioia. Sto piangendo di gioia, non lo vedi? È gioia, vero? Ho la testa vuota e il cuore pienissimo, mamma. È gioia, vero? È gioia?
Non dirmi che non lo sai, mamma. A me sembra gioia. Io voglio credere che lo sia, ti dispiace?
Comunque d’accordo. È okay. Sto bene, comunque. Le caramelle?


*

- Non abbiamo rilevato dei miglioramenti veri e propri, nell’ultimo mese di terapia. Ma siamo sicuri che sia solo una questione di tempo. Ai farmaci reagisce bene, l’umore è ottimo, non presenta più cambiamenti eccessivamente repentini. Suppongo che-
- Dovrei poterlo portare a casa.
- …no, signor Ferchichi. È ancora presto.
- È un fottuto anno che-
- Anis, per favore.
- No, Tom, Anis il cazzo, è-
- Signor Ferchichi, devo ricordarle che siamo in un ospedale?
- …
- Quando pensa che potremmo portarlo via, dottoressa?
- Non saprei dirle, signor Jost. Come cercavo di dire prima, suppongo che dovremo semplicemente avere pazienza.
- Io non ne ho.
- Anis.
- Io non ne ho. Lo porterò fuori di qui, dottoressa. Ragazzi, andiamo.

*

Amore va via, dietro di lui ci sono i ragazzi, c’è papà, c’è anche Specchio. Li saluto dalla finestra muovendo la mano, e loro mi sorridono tutti. Che belli che sono. Tornate domani? A domani. Buonanotte.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Commedia, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Le Canarie sono un bel posto, sono piene di gente ma sono a misura d’uomo."
Note: Prima che me lo scordi: c’è un collegamento bellissimo (sì, me lo dico da sola) e difficilissimo da trovare fra questa shot ed una delle shot conclusive di EKR XD Un applauso a chi lo becca e magari anche un regalino di più =P Provateci *_* Sia mai vi do l’opportunità di scrivervi qualcosa su richiesta XD
Comunque, a parte le cavolate ç_ç” Sì, lo so. Vi comprenderò, se comincerete ad odiare furiosamente Fler, da qui in avanti, perché è palese che quest’uomo è un danno e si tira addosso dolore con le proprie stesse mani ç_ç Se non lo amassi follemente, io stessa a questo punto lo odierei, credo. Quindi non sentitevi in colpa se volete dargli del coglione, nei commenti XD
Però quello che fa per Bill è un sacco carino, ecco. *spuccia i due amiconi in vacanza*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GIRLS JUST WANNA HAVE FUN

Io e Bill siamo alle Canarie. Non è la prima volta, perché la prima vacanza che ci siamo concessi insieme – solo io e lui, gliel’avevo promesso mentre inseguivamo Saad nel gelo di una notte che al momento non mi va di ricordare, e io le mantengo sempre, le mie promesse – l’abbiamo organizzata qui di proposito. Le Canarie sono un bel posto, sono piene di gente ma sono a misura d’uomo. Nel senso che è tutto molto carino e compatto, non ti ci perdi. Il che è fondamentale, quando devi andare dietro ad uno come Bill, che in pratica non fa che inseguire farfalle – sotto forma di borse Prada e pantaloni D&G.
Comunque sia, la prima volta che siamo venuti qui è stata proprio la prima volta in assoluto che ci siamo mossi da soli – e per quanto riguarda me era pure la prima volta che mettevo piede su un dannato aereo, la qual cosa mi ha fatto del male fisico che ho superato solo in virtù del fatto che non potevo lasciare Bill lì al check-in e tornarmene a casa correndo, urlando ed agitando le braccia sulla testa. Non sarebbe stato per niente qualcosa di cui andare orgoglioso e Chakuza mi avrebbe preso per il culo a parole – mentre cercava di prendermi per il culo anche in altri sensi – finché fossi rimasto in vita. La cosa non era proponibile.
Insomma, le Canarie – non so se ce le avete presenti – comunque sono questo arcipelago di isole paradisiache, ed è meraviglioso, perché uno non se la aspetta una roba simile in Europa. Cioè, quando uno immagina isole di questo tipo pensa automaticamente di dovere andare per forza oltreoceano. E invece niente, a due passi – più o meno – da casa, tu arrivi e c’hai tutto. Il mare e le spiagge e le lunghe vie affollate piene di palme e turisti in shorts che fanno tanto L.A. E sei sempre in Spagna, eh, non sei nemmeno uscito dall’Unione Europea. Secondo me è una cosa stupenda.
Comunque sia, la prima volta che siamo partiti eravamo entrambi un po’ scossi. Cioè, Bill lo era. O meglio, non lo era, la qual cosa era anche più preoccupante. E io ero circondato da gente che non riusciva a venirne a capo, nel senso che Jost non riusciva a capire come farlo tornare un essere umano normale che si preoccupasse di avere ucciso un uomo, e Tom era del tutto fuori di testa. A me, sinceramente, ha fatto paura, Tom, quando sono passato a prendere Bill per portarlo al Cafè Zapata ed offrirgli un gelato. Cioè, mi ha ringhiato contro e mi ha strillato “no che non te lo lascio portare fuori!”. A me. Tom mi venera, tipo.
E poi c’era il Chaku, naturalmente.
Gesù, un uomo incapace di comprendere cos’ha nella testa. Sempre, questo, ma in quel momento in maniera particolare. Perciò niente, nessuno poteva aspettarsi delle soluzioni da loro, perciò io ho arbitrariamente deciso che avrei risolto la situazione, ho preso Bill e l’ho portato in vacanza.
Il primo viaggio, quindi, l’ho pianificato io. Bill non ha fatto resistenza, quando l’ho invitato a partire, però non ha nemmeno mostrato chissà che entusiasmo, ecco, quindi mi sono dato da fare per portarlo in un posto carino e sono andato da un amico giù nel ghetto a chiedergli “ma tu un bambino dove lo porteresti, tipo, per farlo riprendere da un trauma di quelli belli grossi?”. E quello prende e mi trascina a casa sua, dove tira fuori chili di depliant pieni di roba su queste isole fantasmagoriche a due passi da casa, che sono cose che ti turbano, anche, non te l’immagini che uno spacciatore possa prendere a brillare come un bambino mentre ti illustra le meraviglie di un delfinario, perdio.
Così l’ho portato a Tenerife, che praticamente è un’isola per famiglie. Nel senso, c’è il parco acquatico e c’è, appunto, il delfinario e ci sono un sacco di posticini carini in cui portare i ragazzini, perciò niente, non ho fatto per nulla fatica, perché poi a Bill piace stare in mezzo alla gente, non è mica felice quando lo rinchiudi in una casa, quale che sia il motivo. Siccome vive con un bisogno costante di adorazione, ha sempre questa necessità spasmodica di trovarsi in mezzo a gente che possa venerarlo come si deve. Quindi, in sostanza, o è in famiglia e tutti lo venerano per partito preso – perché come fai a non volergli bene, al ragazzino? Andiamo, non puoi – oppure va per negozi a farsi venerare per un qualche motivo valido da commessi e commesse.
Insomma, la nostra prima vacanza, proprio perché l’ho progettata io, è andata alla grande. Ho portato Bill in un sacco di posti carini, l’ho portato anche al delfinario e l’ho osservato riacquistare poco a poco tutte le sue espressioni. Una cosa un sacco carina, peraltro, perché poi i sorrisi di Bill quando si aprono sono come quelli dei bimbi, grandi e improvvisi, e tu resti lì a fissarlo e ti chiedi come sia possibile che un ragazzo sia così tremendamente bellino. Suppongo che Bill ignori un sacco di regole, compresa quella per cui un ragazzo non può essere carino.
Quindi, la prima volta è andato tutto a meraviglia. Poi Bill s’è preso bene – anche troppo – ed ha deciso in primo luogo che le nostre vacanze andavano ripetute; in secondo luogo, che della progettazione delle altre si sarebbe occupato lui. Io avevo, in effetti, una mezza idea di dirgli “no, guarda, grazie mille ma ho altro da fare, nella mia vita”, ma insomma, il ragazzino, mente stavamo lì a guardare i delfini, mi si è sciolto in lacrime per la prima volta da quando eravamo partiti, e... e poi, insomma, non è che avessi molto da rimpiangere, io, lì a Berlino. Non è che abbia molto da rimpiangere anche adesso, d’altronde.
Per dire, al momento la situazione a Berlino è: ho un Chaku che, per ovvi motivi, s’è completamente dimenticato della mia esistenza – non ce l’ho con lui, lo capisco, l’ho mandato da Bill un paio di mesi fa e sono in pieno delirio romantico, al momento, non c’è spazio per me… il Chaku nemmeno lo cerca, lo spazio per me, d’accordo, ma lui è così, non ci si può fare niente, gli si vuole bene per il disastro che è o non gli si vuole bene affatto. Quindi, il risultato di tutto questo è che io un Chaku non ce l’ho per niente. E Sido non s’è ancora deciso a partire con il tour, per inciso, perciò se stessi a Berlino dovrei praticamente stare tutto il giorno in casa – solo – sperando di non vedermi spuntare all’improvviso Tom in aria di fanatismo. Non esattamente un paradiso.
Comunque, anche stare lì solo in casa tutto il giorno sarebbe rilassante e piacevole, al confronto con ciò che sto vivendo in questo preciso momento della mia esistenza. E se sapete almeno un po’ di quanto odi stare in casa da solo, immaginerete facilmente cosa voglia dire questa frase pronunciata da me medesimo.
Sto vivendo una tortura.
- Ommioddio!!! Pat!!! Guarda lì!!! Oddio, le voglio… oddio, le voglio tutte!
Bill sta gemendo in maniera surreale, qui accanto a me. Ed il fatto che stia gemendo così per delle caramelle già basterebbe ad inquietarmi. Il problema è che ho qualcosa di anche peggiore, intorno a me, al momento. Ed è questo quello che mi preoccupa di più.
Siamo sulla Gran Canaria, terza isola dell’arcipelago in ordine di grandezza. Per la precisione, in questo momento siamo sulla Playa dal Inglés.
Non ho idea del punto fino al quale si spinga la vostra conoscenza delle Canarie: io, comunque, le conosco abbastanza per sapere che ci troviamo in uno dei più importanti centri turistici omosessuali dell’intera comunità europea.
Sapevo che non avrei dovuto lasciare a Bill la possibilità di organizzare il viaggio senza consultarmi prima.
Lo vedo che si fionda letteralmente all’interno del negozio di dolciumi e lo afferro per l’orlo della maglietta, trascinandomelo dietro mentre avanzo per la strada, portando entrambe le nostre valigie – il suo trolley per il manico, il mio borsone a tracolla – e guardandomi intorno alla ricerca del nostro albergo, mentre cerco di tenere il depliant con l’immagine dell’hotel in equilibrio sulla testa, così da potere lanciare qualche occhiata all’immagine ed alla strada, alla ricerca del posto giusto.
- Non se ne parla, ragazzino. – lo rimprovero, mentre lui miagola e mugola e cerca in tutti i modi di farmi sentire in colpa per averlo trascinato lontano dall’amore della sua vita, - Prima ci sistemiamo in camera, poi se ne parla.
- Ma io-
- Ma tu niente. – insisto trascinandolo verso l’entrata dell’albergo. – E ora comportati bene, su. Non facciamoci rimproverare subito.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina maliziosa e divertita e poi mette su la maschera della signorina di buona famiglia, le braccia strette lungo i fianchi e le mani intrecciate in grembo. Roteo gli occhi e lo lascio fare, pensando che il ragazzino certo si diverte in modi stranissimi.
Il consierge ci accoglie con estrema sollecitudine. Bill, oltre gli occhiali enormi e scurissimi, le labbra che brillano del riflesso dei raggi del sole contro il lipgloss, sembra una ragazzina, più che un ragazzino.
- I signori hanno prenotato?
Bill fa un sorriso piccolissimo e si stringe appena nelle spalle, in un’imitazione di timidezza che da sola mi fa venire voglia di sbottare “oh, andiamo!”. E invece niente, mi limito a tirare l’ennesimo sospiro stremato della mia giornata e poggio per terra tutta la roba che mi trascino dietro da ore, allungandomi sul banco della reception in cerca di un po’ di refrigerio dalla calura assurda che attanaglia questa città. Il legno, almeno, è fresco.
- Una matrimoniale a nome Losensky.
Bill lascia andare la risatina di rito, coprendosi le labbra con una mano. Il consierge inarca entrambe le sopracciglia ed io gli lancio uno sguardo tra l’esausto ed il pietoso, come a dirgli “vede con cosa devo avere a che fare ogni giorno?”. Però niente, lui non sembra interessato al modo in cui devo espiare ciò che secondo lui è così palese – cioè che io questa ragazzina me la porti a letto. Nella sua testa c’è sicuramente qualcosa di molto simile ad uno scocciato “sì, ma che cazzo vuoi? Te le cerchi adolescenti? Problemi tuoi”. Solo che io non me le cerco per niente adolescenti, Bill non è veramente una ragazzina e io, comunque, vivaddio non me lo scopo. Quindi un po’ di comprensione me la merito e quest’uomo è ingiusto nel non darmela.
Un facchino che sarà anche più piccolo di Bill recupera il nostro bagaglio e ci precede verso l’ascensore. Noi lo seguiamo qualche passo più indietro.
- Dico, era necessario? – ringhio, afferrando Bill per un gomito e tirandomelo vicino.
Lui ride ancora e non risponde, ma quel trillo argentino mi basta a capire che sì, era proprio necessario, perciò sospiro e lo lascio andare, dandogli modo di prendermi sottobraccio spalmandomisi addosso neanche fossimo fidanzati da anni.
Non so perché Dio – se esiste davvero – mi abbia circondato solo di piaghe sociali, al posto di darmi degli uomini normali. Devo aver fatto qualcosa di orribile in un’altra vita, ma proprio pesante. Magari ero tipo Giuda, perciò reincarnandomi… ma mi sa che sto facendo confusione fra le religioni.
Il motivo per cui Bill si sta comportando in questo modo disdicevole e disturbante, è che questo ragazzino, fondamentalmente, è un animale da palcoscenico. Soffre, quando non può esibirsi. E non sto parlando di esibizione di tipo canonico, quella in cui sali sul palco e fai ciò che sai fare meglio. No, Bill si esibisce nel senso che esibisce se stesso. Per questo soffre tanto, a Berlino: non può mostrarsi. Qui, invece, può godere dell’anonimato del mio nome – non sono esattamente uno che attiri la presenza dei paparazzi, io, ed anche a prenotare come Losensky tendenzialmente non ho nulla di cui preoccuparmi – e del fatto che nessuno si aspetti di vederlo qui in giro con uno sconosciuto. Così, mentre sui giornali lo accoppiano con Jimi Blue, lui passa una settimana a fingere di essere la fidanzata di questo sconosciuto me stesso in terra straniera, per poi tornare a Berlino più tranquillo. E tornare anche ad essere la fidanzata del suo legittimo proprietario.
Dopo esserci sistemati, lavati e cambiati, scendiamo giù e Bill decide che lo shopping può aspettare: vuole un cocktail e lo vuole a bordo vasca, nell’immenso giardino che ospita la piscina dell’albergo. Io lo squadro dal basso verso l’alto. In effetti, tra le infradito, la quantità oscena di ciarpame metallico che s’è gettato addosso apparentemente alla rinfusa e l’enorme cappello di paglia bianco che gli copre la testa e metà del viso, penso che gli manchi solo un ampio vestito scollato, morbido e con una stampa floreale, per essere indicato come una perfetta signora dell’alta borghesia che si concede un breve aperitivo in piscina.
- Ti sei almeno reso conto di essere ridicolo? – chiedo con una certa curiosità, spostandogli la sedia perché possa sedersi e prendendo poi posto di fronte a lui.
Lui fa un mezzo broncino deluso.
- Ma come… - biascica, - E io che mi sono messo tutto in ghingheri per te…
- Bill!
Lui ride ancora, gettando un po’ indietro il capo, ed io sospiro pesantemente.
- Avanti… - pigola, piegandosi tutto in avanti fino a guardarmi dal basso come una lolitina innocente, - fammi divertire un po’. Sei sempre così serio…
- Io non sono serio. – borbotto, - Mi limito ad avere un cervello.
Il cameriere ci si avvicina, sorridendo amabilmente. Bill fa per afferrare il menu e sbizzarrirsi con le richieste, ma lo fermo piantando una mano fra lui e il libriccino, schiacciandolo sul tavolo.
- Un succo alla pesca. – dico, rivolgendomi direttamente al cameriere per evitare l’occhiata da cucciolo oltraggiato che Bill mi rivolge, - E per me un caffè.
Il cameriere annuisce compitamente e scompare verso il piano bar – un bel bancone bianco sormontato da un sacco di ombrelloni colorati, dietro al quale svariate ragazze si dividono i gravosi compiti dell’agitare gli shaker per preparare i cocktail e dell’agitare i sederi per attirare i clienti. Cerco di salvare in memoria i tratti dei loro visi senza lasciarmi – troppo – distrarre dai suddetti sederi, per poi tornare a fare un giro da queste parti quando verso le dieci di sera Bill, stremato, sarà crollato fra i cuscini in camera, e poi torno a guardare la principessina oltraggiata. La quale mi sta a propria volta fissando come fossi una specie di barbaro che l’ha rapita e la sta trattando con ingiustificabile rozzezza.
- Be’? – chiedo con un sorrisetto divertito, - Che ti prende adesso? Non ti diverti più?
Bill aggrotta le sopracciglia ed incrocia le braccia sul petto, accavallando teatralmente le gambe.
- Tutti uguali, voi rapper. – borbotta a bassa voce, sciogliendo l’intreccio delle braccia solo per sistemare il cappello di paglia di modo che possa schermare la sua pelle – che deve restare bianchissima; Bill, quando prende il sole, diventa dello stesso colore di Anis. Dal momento che fuggiamo dalla Germania di nascosto come ladri, non posso riportarlo a casa troppo colorato, pena morte istantanea per mano di Jost, che sarà pure piccolo e carino ma sa farsi temere. – Anche Chakuza, quando vede Eleonor, non vede più niente.
Mi fermo e faccio mente locale, perché qui c’è qualcosa che non mi torna.
- Eleonor? – chiedo quindi, inarcando un sopracciglio, - Ma non si chiamava Ingrid?
Ingrid è la groupie inesistente che Bill ha affibbiato al Chaku. Quando il Chaku ha da fare perché, tipo, vivaddio Stickle l’ha incatenato al mixer e lo sta costringendo a tirare fuori qualcosa che non sia un delirio erotico-romantico dalla sua testaccia bacata, Bill, per farlo sentire in colpa per finta, comincia a tirare fuori la storia di questa Ingrid che dovrebbe essere – a quanto ho capito quell’unica volta che il Chaku, mentre gli pulivo casa, mi ha fatto una testa così lamentandosene – questa signorina bellissima e perdutamente innamorata del Chaku col quale il Chaku, appunto, va a letto, tradendo ripetutamente Bill. Ovviamente nulla di tutto ciò è mai avvenuto – suppongo che me ne sarei accorto – ma Bill la tira fuori di tanto in tanto, e ne parla proprio come fosse una persona vera, la descrive, le ha dato un carattere e tutto, quindi ormai la conosciamo come se fosse reale sul serio. L’ho detto, io, che il ragazzino si diverte in modi stranissimi.
- Dettagli. – sbuffa Bill, tirandosi un po’ indietro quando il cameriere arriva a portare la roba che abbiamo ordinato, e cominciando a sorseggiare il succo.
- Be’, - annuisco io, zuccherando il caffè – che è una cosa che ho preso per abitudine dormendo a casa del Chaku… lo prendevo amaro, prima, ma lui ha questo vizio di zuccherarlo a chili di default, quindi quando mi portava la tazzina o mandavo giù o gliela tiravo in testa. Quando ho capito, alla terza volta, che anche tirandogliela in testa all’infinito avrebbe continuato a zuccherarla, mi sono rassegnato. Questo, immagino, dice molto del Chaku e anche di me. Comunque, mando giù un sorso di caffè e continuo. – d’altronde, essendo una donna inesistente, può cambiare nome quando vuole, immagino.
Bill mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile e poi si stende contro lo schienale della sedia, occhi socchiusi e capelli che si agitano appena nel venticello del pomeriggio. Il sole è ancora altissimo nel cielo e non sembra che siano le cinque passate. Questo posto è meraviglioso, anche se siamo palesemente in una specie di riserva naturale gay, realizzo mentre lascio scorrere lo sguardo tutto intorno a noi e vedo solo uomini dai fisici perfetti ed anche perfettamente oliati. Per un secondo mi infastidisco e mi viene anche da chiedermi, allora, ‘cazzo sculettassero le signorine dietro il bancone. Poi realizzo tutto d’improvviso che probabilmente stanotte sarò l’unico essere umano vagamente eterosessuale nel raggio di chilometri, e la vita mi sembra improvvisamente stupenda.
- Lo sai che me l’ha detto? – sento improvvisamente arrivare la voce di Bill come provenisse da un altro pianeta, sottilissima e trasognata. Quando mi volto a guardarlo, lo trovo che fissa un punto imprecisato nel nulla, giocando con le dita sulla cannuccia. Ha le labbra piegate in un sorriso tanto piccolo e tanto tenero che mi viene voglia di dargli un bacio. Una cosa stupida, niente di malizioso, solo un bacetto a fior di labbra, sarà che io sono molto fisico, però glielo darei un bacio, in questo momento. Anche se mi ha appena confessato che Chakuza gli ha detto di amarlo.
Cerco di fingere che questa cosa non sia esattamente l’ultima che avessi voglia di sentire, in questo momento – ma anche in qualsiasi altro – e che non sia anche il motivo per cui sto cercando disperatamente di farmi trascinare da Sido in qualsiasi posto che sia lontano da questi due, e sorrido appena.
- In un momento di particolare entusiasmo? – chiedo, trasformando il sorriso in un ghigno stronzo.
Bill sbuffa, voltandosi a guardarmi con occhi colmi di disapprovazione.
- Ma no! – sbotta, - Che idea hai di Peter, Pat?! – ho quella che mi ha dato lui di se stesso, ragazzino. – Mica passiamo tutto il nostro tempo insieme a letto!
Che è, in effetti, molto più di quanto non possa essere detto di me e lui. Ed anche questo, suppongo, dice tanto sia di Chakuza che di me.
- E quando è successo, allora? – chiedo comunque, perché è evidente che il ragazzino vuole parlarne ed è evidente anche che l’unica persona con cui può farlo sono io.
Bill si entusiasma subito. Posa il bicchiere col succo sul tavolino e si tende tutto, voltandosi verso di me e cominciando a saltellare sul posto.
- Sapessi, Pat! – e comincia a raccontarmi questa storia incredibilmente romantica che è molto probabile abbia esagerato nei toni, per la quale Chakuza si è presentato a casa sua il giorno di non mi ricordo quale mesiversario – il sesto? Il settimo? Sto cercando di non tenere il conto – facendo apparentemente finta di aver dimenticato l’importanza fondamentale della data, per poi mostrarsi incredibilmente stupito nel momento in cui un facchino ha bussato alla porta di Bill portando con sé un enorme mazzo di rose rosse che poi, ovviamente, aveva ordinato lui perché arrivassero precisamente nel momento di maggiore sconforto di Bill – cioè una mezz’ora prima che il Chaku dovesse tornarsene a casa. E poi niente, gliel’ha detto.
- Assurdo. – commento con una mezza risata.
Bill sorride dolcissimo.
- Grandioso.
Il che, invece, dice molto di Bill e di Chakuza insieme.
*
Restiamo qui in piscina finché non si svuota. Piano piano, tutti gli uomini – e anche tutte le poche donne che ci sono in giro – cominciano a tornare all’interno dell’albergo. È quasi ora di cena. Bill sonnecchia sulla propria sedia e temo proprio che stasera non mangerà. Il che vuol dire che domani mattina dovrò avere l’accortezza di passare da qualche parte a prendergli qualcosa di buono, prima di tornare in camera e stendermi al suo fianco per abbracciarlo e rassicurarlo sul fatto che sì, ho dormito con lui, anche se in realtà non l’avrò fatto. Sì, lo so, non dovrei mentirgli. Però non mi sento per niente in colpa a farlo, il ragazzino non ha bisogno di sapermi a scopare in giro. Ci sono delle bugie che puoi dire. Ci sono delle cose che puoi tralasciare. Il ghetto – Anis – mi ha insegnato anche questo. La verità prima di tutto il resto – ma oh, quante facce possono avere il vero e il falso?
Ghigno un po’ mentre il sole tramonta sulla spiaggia che da qui si vede benissimo, e ripenso all’espressione concentrata e presuntuosa con la quale Anis mi spiegava questa sua illuminata teoria, e prima di cominciare a pensare cose di cui mi pentirei – tipo che mi manca; tipo che dovrei cominciare ad andare avanti come stanno facendo tutti intorno a me; tipo che a volte ho come l’impressione di voler continuare a frequentare Bill proprio per impedirmi di dimenticare quello che tutti gli altri sembrano aver già rimosso abbondantemente – mi tiro in piedi, sospirando pesantemente.
- Ragazzino? Dai, andiamo in camera.
- Ma non ho sonno… - si lamenta, la testa che penzola avanti e indietro.
- No, naturalmente. – rido io, tirandolo su di peso e stringendolo forte perché non cada, mentre lo trascino per il cortile e poi all’interno dell’albergo e nell’ascensore, fino in camera.
Quando lo adagio sul letto, lui mi trascina con sé, ed io faccio i salti mortali – quasi letteralmente – per non cadergli addosso e planare invece sul materasso al suo fianco.
- Resti? – mi chiede con un filo di voce, e io mi sollevo su un gomito e resto steso sul fianco mentre lui mi si accoccola contro.
- Mh-hm. – annuisco, riavviandogli i capelli dietro un orecchio in una carezza distratta che lo fa sorridere.
- Io ti voglio sempre bene, sai…? – continua a blaterare. Sta già praticamente dormendo. Fra dieci minuti russerà e domani mattina neanche ricorderà di avermi detto queste cose. – Anche se il Chaku mi ha detto che mi ama e gliel’ho detto anch’io, io ti voglio bene tantissimo…
Annuisco ancora, ridendo appena più forte. Non so più nemmeno se sta parlando con me o con la persona che i miei abbracci gli ricordano.
- Lo so, ragazzino. Ti voglio bene anch’io.
Bill sorride e poi, sfinito, crolla con la testa sul cuscino, profondamente addormentato. Gli rimbocco le coperte cercando di muovermi il più silenziosamente possibile, e poi medito sulle numerose possibilità che mi offre la mia serata.
Ovviamente, come a ricordarmi che nella mia testa non posso fare troppo spazio, visto che lui è assolutamente intenzionato a riempirla tutta, Chakuza mi chiama sul cellulare. Rispondo prima che la suoneria possa svegliare Bill, e sospiro pesantemente.
- Ma non hai mai niente da fare, tu?
Chakuza si lamenta borbottando a bassa voce, rigirandosi il telefono fra le mani.
- Ero solo preoccupato. – si giustifica, - Mica mi fido, a mandarvi in giro da soli.
- Siamo grandi e forti. Possiamo sopravvivere ad una vacanza.
- Bill non è grande e forte.
- Io lo sono.
Chakuza non risponde, non subito, almeno. Si prende il proprio tempo per inspirare ed espirare, e solo dopo parla.
- È tutto a posto, sì?
Vorrei rispondergli che può anche fare a meno di essere così discreto. Che lo so che lui e Bill stanno insieme. Che non è nemmeno tanto giusto non si senta in diritto di dirlo chiaramente. Che l’ho sempre saputo, e se non ho ancora cominciato a lamentarmi sul punto è ragionevole immaginare non comincerò mai. Perciò puoi stare tranquillo, Chaku. Puoi anche dirmelo, se ti manca e vuoi sentirlo.
- Sì, è tutto a posto. Bill già dorme. Dovresti anche tu.
- Alle otto di sera? – ride lui, una risata piccolissima e veramente divertita.
- Be’, almeno così non corri il rischio di fare cazzate perché ti senti solo. – rispondo io con una risata uguale.
- Avanti, - borbotta lui, - lo sai che non c’è verso di prendere sonno prima dell’una del mattino.
Io rido ancora.
- Sì, sei una piaga sociale. Comunque ti mollo, ho di meglio da fare che stare al telefono con te. Lo sai che sono tipo l’unico essere umano eterosessuale sull’isola?
- Che?! – strilla lui all’improvviso, - …okay, ci sono tante di quelle cose che non funzionano, in questa frase, che fatico a processarle tutte.
- Tranquillo, nessuno attenterà alla nostra virtù. – lo rassicuro, continuando a ridere, - In compenso non ti assicuro che non attenterò io alla virtù di qualche bella fanciulla, perché ho solo l’imbarazzo della scelta.
Lui mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile.
- Ovvio. – aggiunge poi, - Appena ti si toglie un attimo le mani di dosso… - e lì, per un secondo, mi si ferma il tempo nella testa. E si ferma anche nella testa del Chaku. - …scusa. – si affretta a correggersi subito dopo, - Non so da dove mi sia uscita.
Io sospiro.
- Fa niente. – rispondo con una scrollatina di spalle che lui non può vedere. – Ora mi fai riattaccare?
- Sì, - annuisce subito, - sì, naturalmente. Comunque richiamo domani.
Roteo gli occhi.
- Peggio di una vecchia madre. – biascico acido, - Buonanotte.
Lui ride. Il suo buonanotte mi arriva forse un po’ troppo dolce di quanto non sarebbe giusto suonasse, ma non sono in vena per lamentele di questo tipo, al momento.
Bill mugola nel sonno e mi si schiaccia addosso, sgomitandomi in mezzo alle costole e stringendomi come un peluche.
Sospiro.
Stasera non si scopa.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Commedia.
Pairing: Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Tom/Cassandra.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Het, Angst.
- "A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri."
Note: Salve O/ Qui parla l’autrice che palesemente non avrebbe mai dovuto scrivere questa storia, perché nel farlo s’è strappata il cuore dal petto più e più volte nel tentativo di sopravvivere a Tom. Cosa peraltro impossibile, perché Liz lo ama e vederlo soffrire la distrugge. Oltretutto, fare sia a Tomi che al Billshido ciò che è stato loro fatto in questa shot era palesemente mestiere di Tabata. Liz gliel’ha rubato perché le piaceva Epic!Tomi sul finale. E poi Tomi ha deciso di fare ciò che voleva di queste otto pagine, ficcandoci dentro dosi esagerate di Fler – l’autrice se ne scusa – e follie varie ed eventuali, girando attorno al punto per una quantità indecente di tempo prima di arrivarci. Speriamo solo che riusciate a sopravvivere a tutto questo, ecco. Fedy, sappi che ti amiamo per il tuo contegnoso stoicismo. E… insomma ;_; So che è dura, ma non abbandonateci *sparge amore e Fler in dosi uguali per tenersi vicine le fangirl*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I’M AN OUTSIDER OUTSIDE OF EVERYTHING

Per sapere che Bushido era ancora vivo, io ho dovuto fisicamente estorcere l’informazione a mio fratello, costringendolo in un angolo e schiacciandolo fra me stesso e la parete intrappolandolo fra le mie braccia finché non si fosse deciso a parlare e raccontarmi tutto. È stato in questo modo che ho appreso che io e lui eravamo venuti a conoscenza della cosa nello stesso modo, cioè attraverso la dannata rivista.
Quando mi sono ritrovato quella copertina davanti, la prima cosa che ho pensato è stata “Che cazzo, Bushido non andrebbe mai in giro con una fottuta coda”. E quindi, a quello che stavo guardando, non ho dato un centesimo.
Ho chiamato Bill, però, perché supponevo potesse avere voglia di smadonnare un po’. Cioè, trovi una roba così su una rivista del cazzo, ti viene un po’ voglia di tirare giù i santi uno per uno e dire loro cosa esattamente pensi delle loro sacre persone.
E invece niente. Chiamo, squilla, lui non risponde. E io mi preoccupo, ovviamente. Perché penso “Dio mio, se Bill è in quel periodo del mese in cui finge di avere il ciclo per ricordarsi che il suo obiettivo primario è diventare il più possibile donna senza farsi tagliare via l’uccello, allora ci sta anche che l’abbia presa un po’ tanto male. E quindi magari, più che avere voglia di tirare giù i santi, ha avuto voglia di piangere”.
Insomma, alzo il culo e mi muovo. Se Bill sta piangendo fino a sputare i polmoni, mi dico, è giusto che non stia da solo a farlo. Penso: magari se mi sbrigo arrivo pure prima di quella piaga sociale di Chakuza, che al momento, peraltro, sta così fottutamente appiccicato al culo di mio fratello da darmi da pensare voglia farci tutt’altro che starci solo appiccicato, a quel culo. Prima o poi dovrò prenderlo di petto e dirgli che è inutile che ci speri, a mio fratello piacciono alti, scuri e pericolosi, e lui non è niente di queste tre cose. Fler – che pure è tanto bianco che, appena fa un po’ di fatica, tira fuori un paio di guanciotte rosse neanche fosse Heidi che sono una cosa spassosa – al suo confronto è una minaccia molto più consistente. Anche se a Fler potrei anche darlo, mio fratello. Anche perché, tanto per cominciare, sa maneggiarlo, che con Bill non è una cosa così scontata. Anche Bushido, a volte, faticava a domarlo. Fler invece ci va in scioltezza. Senza problemi. E poi, andiamo, è Fler. Palesemente non potrei mai rifiutargli nulla.
Comunque, niente. Arrivo a casa sua e mi faccio tutto un filmino per il quale, quando mi aprirà e vedrà che sono io, mi si getterà fra le braccia chiamandomi piano fra i singhiozzi – “Tomi, Tomi!” – ed io potrò fare la parte del fratello maggiore adulto, maturo e comprensivo – che poi mi si adatta un casino, perché mi fa sempre bellissimo – e consolarlo stringendolo forte ed accarezzandogli i capelli, per poi piazzarlo con una pizza in grembo davanti a The Notebook fino a rincoglionimento totale e successiva nottata passata a dormire avvinghiati sul divano. Come da copione, insomma.
E invece niente, di nuovo. Mi accoglie il vuoto, Bill non c’è, ‘sticazzi. Medito se tornarmene a casa, ma poi mi dico “che diamine, magari era fuori e non lo sa ancora. Allora, a questo punto, è meglio che mi trovi qui, così potrò essere io a dirglielo”. E giù altri filmini con me – fratello perfetto – che mostro quella roba a Bill – piccolissimo e sconvolto – e dopo lo rassicuro dicendogli “vedrai, ora ne parliamo con David. Li lasciamo in mutande, quei bastardi”.
Comunque, resto lì armato di buone intenzioni e di infinita pazienza, ad aspettare che mio fratello torni da… dovunque si trovi. E resto lì le ore. Tant’è che a un certo punto mi rompo pure le palle ed uso il doppione delle chiavi per salire e infilarmi nel suo appartamento, dove mi svacco su uno dei divani e poi continuo a restare in attesa finché non sento il rombo del motore dell’Audi di David, che ormai conosco a memoria. E mi chiedo, in effetti, cosa ci faccia Bill con David. Però sono troppo cretino, forse, o forse troppo ingenuo, e comunque quella cosa sulla rivista non l’ho mica presa così sul serio, perciò tutto ciò che faccio è saltare in piedi e muovermi anche con aria piuttosto rabbiosa verso la porta, spalancandola nello stesso identico momento in cui mio fratello viene fuori dall’ascensore.
Disfatto.
Non si aspetta di vedermi, e quando mi inquadra spalanca gli occhi arrossati e stanchi.
- Tomi… - sussurra appena, immobilizzandosi sulla porta. – Come… perché-
- Dove cazzo sei stato?! – lo attacco io, preoccupato dai suoi lineamenti tesi e dalle tracce evidenti di pianto che ancora gli rigano le guance, - Cristo, non hai neanche portato con te il telefono! Mi sono preoccupato!
Bill si passa una mano sugli occhi, sospirando profondamente, e poi mi supera, infilandosi nel niente di spazio che c’è fra il mio corpo e lo stipite della porta.
- Tomi, per favore… - mugola, dirigendosi verso il frigorifero ed aprendolo alla ricerca di qualcosa da bere, - Oggi non è proprio giornata.
- Cazzo, no che non è giornata. – borbotto, e fanculo a tutti i buoni propositi del dirglielo con tatto. – Hai visto il Bravo di oggi?
Bill riemerge dal frigorifero con un bottiglia d’acqua in mano, e appena sente la parola “Bravo” si congela sul posto.
- …l’ho visto. – risponde in un soffio, senza guardarmi.
- Che stronzi, mh? Ora viene fuori che Bushido è risorto. – butto lì. E lo faccio con cattiveria, visto che quando qualcuno in qualche parte del mondo pronuncia il suo nome, Bill sta fisicamente male. – Il prossimo passo qual è, la santificazione?
Bill si volta a guardarmi con una calma raggelante. Non dice una parola, ma solo a cercare di leggere cosa c’è nel fondo dei suoi occhi mi salgono i brividi per tutta la schiena. Manda giù un altro sorso d’acqua, poi posa la bottiglia sul ripiano accanto al frigorifero e si asciuga le labbra col dorso della mano, come un bambino. È l’unica cosa che incrina appena la dignità glaciale e del tutto fuori luogo con la quale continua a parlare.
- Non è risorto. È lui.
E potrei ridere, dargli del cretino, mandarlo a fanculo o anche urlargli di piantarla di prendermi in giro. Ma non lo faccio. Perché quest’espressione qui io l’ho già vista, secoli fa. Anche se ormai stavo cominciando a dimenticarla.
Capisco che Bushido non può essere altro che vivo, perché questo è il suo Bill. Quello che s’era portato nella tomba. Ecco, adesso l’ha riportato fuori.
Bill guarda altrove e fa per evitarmi – lo vedo che si allontana verso la camera da letto, perfettamente intenzionato a non dire una parola di più sull’argomento – ma io decido che mi sono rotto i coglioni di non sapere cosa gira per la testa di mio fratello. Da quando mi sono mosso di casa non ho fatto che cercare di immaginare ciò che Bill avrebbe potuto fare o stesse facendo, e non ne ho presa una. Tutto sbagliato. E dire che un tempo riuscivo a capire quali sarebbero state le sue mosse ancora prima che lui le facesse. Ora non mi riesce nemmeno di immaginare cosa stia combinando nel momento in cui lo combina.
Mi alzo in piedi e mi muovo svelto verso di lui, piantando una mano sulla parete così improvvisamente che lui quasi va a sbattere contro il mio braccio. Si ferma appena in tempo e si volta a guardarmi con aria oltraggiata, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in una smorfia infastidita.
- Sono stanco. – mi informa atono, - Voglio andare a dormire.
- Non mi interessa. – rispondo io, sollevando anche l’altro braccio e intrappolandolo perché non possa sfuggirmi. – Cosa è successo?
- Niente. – ringhia a muso duro. Io aggrotto le sopracciglia e mi chino sul suo collo, annusandolo piano. Lui si scosta di pochissimo, trattenendo il respiro. Non è spaventato da ciò che sto facendo. È spaventato da ciò che potrei leggergli addosso.
- Hai scopato. – dico, tornando a guardarlo negli occhi, - Da quanto lo sai? Da quanto vi vedete?
- Non sono cazzi tuoi. – sbotta acido, e mi pressa le mani contro il petto nel tentativo di allontanarmi. Io batto i pugni contro il muro talmente forte che l’eco rimbomba per tutto l’appartamento silenzioso, e Bill mi guarda con aria sinceramente spaventata.
- Lo sono. – rispondo a voce bassa, gli sto così vicino che posso leggergli negli occhi qualunque cosa. Bill, ogni tanto, ha bisogno di essere costretto. – Come cazzo ha fatto? Perché l’hai visto? Perché ci hai scopato, Cristo santo? Da quanto è tornato?
Bill mugola e distoglie lo sguardo, mordicchiandosi un labbro con aria incerta.
- Non… non lo so, Tomi. – biascica, stringendosi nelle spalle, - Non so niente, so solo che è qui. Non volevo-
- Non dire balle. – lo interrompo con un grugnito contrariato, - Forse davvero non sai niente, ma non venirmi a raccontare che non volevi andarci a letto. Non ci saresti andato. – sospiro e mi scosto appena. – Non ti ha spiegato proprio nulla?
Lui non risponde subito.
- Non gliene ho dato veramente il tempo. – ammette alla fine, sospirando pesantemente, - Dice di averlo fatto per me. Dice… che era preoccupato. Che l’ha fatto perché ero in pericolo. Ma era lui quello a cui avevano sparato! Non io! – riprende con più veemenza. Io penso distrattamente che Bushido era in casa di mio fratello, quando è morto, anche se poi non è morto davvero. Penso che, se di fronte a quella finestra non ci fosse stato Bushido, fra mio fratello e tutto il resto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Penso che Bill, come al solito, non stia riuscendo a vedere la situazione nel modo corretto – ricordandosi cioè che esistono altri cervelli ed altri modi di affrontare le situazioni oltre al suo. Così come non ha mai capito perché io abbia distrutto l’intera discografia di Bushido, quando mi ha detto che stavano insieme, non riesce a capire perché Bushido abbia deciso di distruggere la propria vita, quando ha scoperto che stare insieme a lui era troppo pericoloso. È evidente.
- …come ha fatto? – chiedo quindi, allontanandomi da lui e lasciandolo nuovamente libero di muoversi, - Come c’è riuscito?
- A sopravvivere? – chiede lui di rimando, sorridendo amaramente mentre ricomincia a respirare, - O a starsene nascosto fino ad ora?
Io rido appena.
- Entrambe le cose.
La voce di Bill mi fa eco con una risata uguale.
- Non so neanche questo. – risponde con un sospiro, - Però c’entra David.
- Gli ha offerto i propri organi in regalo? – scherzo, - L’ho sempre detto io che il modo in cui lo guardava non mi tornava…
- Ma no! – ride più apertamente Bill, coprendosi le labbra con una mano, - Non c’entra col fatto che sia sopravvissuto, credo. Però con tutto il resto sì.
Io annuisco e per la testa mi passano pensieri di ogni tipo – dall’andare a pestare David finché non mi abbia spiegato per bene in che cazzo di casino si sia andato a ficcare lui trascinandosi dietro noi tutti quanti insieme, all’andare a fare la stessa precisa identica cosa anche con Bushido, per gli stessi precisi identici motivi e con gli stessi precisi identici intenti – e mio fratello nel mentre smette di ridere – la sua risata si spegne sfumandosi nel silenzio come un vecchio disco di musica anni Sessanta o chessò io – e si lascia andare seduto sul divano. Non sembra più tanto intenzionato a restarsene solo a piangersi addosso, e questo mi sta bene, perciò mi siedo al suo fianco e gli passo un braccio contro le spalle, stringendomelo addosso e coccolandolo un po’.
- Tomi… - si lamenta a bassa voce, nascondendo il viso sul mio collo, - Ho fatto una cazzata enorme.
Io annuisco perché sì, me ne rendo conto che andare a letto con Bushido sia stata una mossa un tantino avventata. Però io, in quel momento lì, non so un cazzo. Io mi sto davvero solo illudendo – come al solito – di avere vinto. Di sapere cosa ci sia nella testa di mio fratello.
Probabilmente io ho smesso di sapere con esattezza cosa ci sia in quella testa a diciassette anni. E non ho più ripreso.
Che sia stata una mossa un tantino avventata, perciò, è tutto ciò che penso. E lo stringo un po’ di più, e quando gli dico “si sistemerà tutto” lo faccio credendoci. Proprio perché non so un cazzo. Non si sistemerà niente, invece. Adesso che osservo mio fratello sbiancare mentre Bushido gli dice che sa tutto, invece, è molto più chiaro che non si risolverà proprio un bel niente. Ed io, in tutto questo, riesco solo a pensare che Bushido sa molto più di quanto non sappia io.
A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri.
*
Cassandra è stata inizialmente solo una scopata, nonché l’unica cosa buona sia venuta fuori dalla frequentazione forzata di rapper cui mi ha costretto per lungo tempo il fatto che mio fratello andasse a letto col capobranco. Seriamente, io avrei fatto volentieri a meno di essere controvoglia risucchiato in un mondo che credevo il massimo del figo e tutto il resto, per scoprire che tutta la gente su cui avrei scommesso qualsiasi cosa era in realtà un manipolo di deficienti. Voglio dire, Chakuza è un cuoco. Eko un cretino. Io ero felice quando credevo che questa gente fosse gente pericolosa. Ero felice di odiare mio fratello perché stava infilandosi in un mondo oscuro e potenzialmente mortale. Ma questo ho potuto pensarlo per qualche mese, prima che – per forza di cose, perché ci mancava l’aria, altrimenti – io e Bill ricominciassimo a frequentarci e parlare. Quindi, tolti quei pochi mesi all’inizio, ho dovuto comunque fronteggiare più di due anni di frequentazione. Sarebbe stato veramente drammatico se, oltre alla distruzione dei miei miti infantili, io non avessi ricavato nient’altro.
Ok, ho conosciuto Fler, d’accordo, questo teoricamente sarebbe dovuto bastarmi anche senza Cassandra. Intendo, Fler è l’unica cosa che sia rimasta pressoché intatta di tutti i miei miti, perché è un figo davvero. Cioè, al di là di qualsiasi cosa si potesse dire di Bushido – compreso il fatto fosse palesemente un pedofilo; magari non violentatore, ma pedofilo di sicuro – era ovvio che lui fosse l’unico vero gangster del mucchio, in mezzo a gente che c’era entrata per caso. E Fler è uguale, però meglio perché non è uno stronzo intollerabile come invece Bushido è sempre stato, è ancora e sempre sarà se la Morte non si accorge di esserselo lasciato sfuggire e non viene a riprenderselo. Al di là di Fler, comunque, sono tutti veramente da prendere e buttare nel cesso, dal lato dell’Ersguterjunge. Ed infatti Fler non è dell’Ersguterjunge. Quelli dell’Aggro mi sono rifiutato di incontrarli, comunque; non vorrei ritrovarmi a scoprire controvoglia che Sido fa la maglia guardando Verbotene Liebe in pausa pranzo.
Comunque. Cassandra, dicevo. È un po’ inquietante che io volessi parlare di Cassandra e sia finito a raccontare quanto profondamente apprezzi Fler. È che lui è tipo una roccia, avreste dovuto vederlo quel giorno in cui è venuto a prendere Bill a casa per portarlo fuori – c’è stato un periodo, dopo quella notte tremenda, in cui solo lui portava Bill fuori, perché Bill voleva in giro solo lui – ed io ero ancora preso malissimo per tutta la faccenda di Saad – “la faccenda di Saad”, sentitemi, sono costretto a parlare per eufemismi, sennò non riesco – e quindi ho ringhiato e pure parecchio, sono arrivato quasi a buttarlo fuori di casa, e lui niente, mi si avvicina con quei fanali azzurri piantati nei miei occhi e fa “non ti ho chiesto il permesso di portare fuori tuo fratello, ragazzino”, che io quando mi sono sentito chiamare in quel modo mi sono pure sentito un sacco a disagio, perché boh, il suo “ragazzino” è Bill e va bene essere gemelli, ma non confondiamo, e comunque niente, mi sono zittito all’istante perché comunque ha un modo di parlarti che è pacato tranquillo pure quando vedi che se ti rifiuti di obbedire ti fa di tutto. Fa un sacco paura Fler, quando ti guarda e ti parla così.
Ma io volevo parlare di Cassandra.
Cassandra era una donna di Bushido. Problema numero uno degli uomini con carisma: quando ti mettono le mani addosso è la fine, una volta è per sempre. Quindi, niente, quando io ho conosciuto Cassandra lei ovviamente già non ci stava più con Bushido, però era ancora una delle sue donne, e per questo motivo metterle le mani addosso è stato assolutamente impossibile fino a quanto Bushido non s’è tolto dalle palle. Contando il fatto che era una dei pochissimi membri della famiglia allargata di Bushido con cui Bill andasse perfettamente d’accordo, e contando il fatto che per questo gravitava tantissimo intorno a casa nostra, potete bene immaginare la tortura di vedere questa bellezza color caramello svolazzarmi sotto il naso a intervalli regolari di una volta ogni due giorni, senza poterla toccare neanche per sbaglio pena morte istantanea preceduta da tortura pubblica nel cortile della Villa Gialla.
Insomma, per tutto il periodo in cui Bill è stato con Bushido, io ho approfittato del fatto che tutti – Bushido compreso – fossero distratti dall’omosessualità emergente del loro capo, ed ho cominciato ad accerchiare Cassie. Non ho fatto nient’altro ed in realtà anche quel poco che ho fatto non è stato niente di eclatante. C’è questo momento meraviglioso, nel corteggiamento, che sta proprio all’inizio; è un momento in cui tu non fai praticamente nulla, ti limiti a dare dei segnali e restare in attesa per vedere se quei segnali sono stati colti e accettati. Perciò c’è stato questo periodo stupendo in cui io e Cassandra non abbiamo fatto che sorriderci.
Non è che le morissi dietro, eh. Anche perché, con l’ombra scura di Bushido a pendere sopra le nostre povere teste innocenti, non è che mi aspettassi davvero qualcosa. Però era un’opportunità, era bella e tanto valeva tenerla da conto. Al più mi perdevo in qualche epica fantasia nella quale, in seguito ad un’esplosione particolarmente forte di tensione sessuale irrisolta, finivo per schienarla contro una parete senza pensare alle conseguenze di quel gesto; a quel punto, Bushido ci beccava ed il resto della fantasia ero io che restavo a fronteggiarlo a testa alta, riempiendolo di botte sotto lo sguardo estasiato sia di Cassandra – che, appena concluso il pestaggio, mi saltava al collo ringraziandomi per averla liberata dal giogo del crudele dittatore – che di Bill – il quale poi diceva a Bushido ancora in terra e sanguinante qualcosa di meraviglioso tipo “Anis… ti credevo un uomo forte”, per poi chinare il capo ed allontanarsi con me e Cassandra nella luce del tramonto, verso un futuro migliore.
Volete far felice un uomo? Dategli un pomeriggio da solo sul divano e la libertà di immaginare sesso, botte e dichiarazioni epiche nelle quantità che preferisce. Avrete salvato una vita. Io me la sono salvata così, per dire – ok, magari non la vita, ma la razionalità di sicuro; c’erano questi momenti in cui la presenza di Bushido, per quanto potessi sforzarmi di ignorarla, era così ingombrante che non mi sentivo libero di fare niente. Sono cose che possono mandarti al manicomio. Soprattutto se non te le sei scelte.
Comunque poi Bushido è morto, ed io non è che abbia avuto granché modo di pensare a Cassandra, tra mio fratello che si deprimeva, mio fratello che cominciava ad impiantarsi notte e giorno a casa del dannato Chakuza e mio fratello che finiva per uccidere libanesi in mezzo a una strada a due giorni da Natale. Insomma, fra mio fratello e mio fratello, non è che avessi granché tempo libero. Come sempre. Mio fratello riempie la totalità del tempo di chiunque gli graviti attorno. Tutti, poi. Anche contemporaneamente. Palesemente non può essere una persona sola. Io ho in realtà tre o quattro gemelli, me ne accoro da queste piccole cose ed anche dal fatto che non è possibile cambiare umore repentinamente tanto quanto fa mio fratello di continuo. Quindi per forza devono essere tre o quattro. Magari Bushido s’era rotto le palle per questo, quando ha deciso di disertare e darsi alla macchia. Comprendo la sua obiezione di coscienza.
Al di là delle cazzate, comunque, anche dopo la roba di Saad sono stato molto preso. Pure troppo preso, nel senso che sono entrato in loop iperprotettivo nei confronti di Bill. Peraltro è un cosa che lui detesta ma che a me serve perché, essendo sempre stati appiccicati come le gomme da masticare alla suola delle scarpe, quando me lo perdo di vista comincio a dare di matto. Sono perfettamente consapevole dell’assurdità di tutto questo e so anche che per Bill non è la stessa cosa – d’altronde, per quanto gemelli, siamo comunque due persone diverse e viviamo le relazioni in modi diversi – ma non posso farci niente. Quindi, in pratica, ho passato tutto un periodo orrendo in cui ho costretto Bill a vivere con me – anche se lui aveva decisamente bisogno di coccole, quindi non si è esattamente lamentato – e non ho permesso a nessuno di avvicinarsi a noi, con l’eccezione di Fler, di fronte al quale ero palesemente impotente e del quale comunque Bill aveva un intenso bisogno.
Da quella situazione, se Cassandra non avesse deciso autonomamente di smettere di sorridere e baciarmi, io probabilmente non ne sarei mai uscito. E in realtà dopo non è che sia veramente successo qualcosa. Solo, niente, ha ripreso a sorridere ma ha anche continuato a baciarmi. E tutto il resto.
Fra me e Cassandra c’è una cosa un sacco tranquilla. Che mi piace tantissimo. E credo di averne il bisogno, adesso – intendo, di tenere fra le mani qualcosa che sia dolce e buono e basta, senza dovermi preoccupare di vederlo crollare fra le mie mani da un momento all’altro. Il ritorno di Bushido, in questo momento, non mi interessa, e soprattutto non mi intralcia in nessun modo, perché Cassandra è forte davvero, e per quanto lui possa insistere con gli sguardi confusi e disapprovanti che mi lancia da ieri, e per quanto possa insistere a chiamarla “stella” anche quando siamo insieme, so che Cassandra è più forte di lui. Ne ho parlato con Fler, dopo quel disastro di cena che ha avuto luogo a casa di Bushido, e lui ha riso. “Donne del ghetto”, ha commentato. Io ho annuito perché mi sa che ha ragione. Sono le femmine, quelle veramente cazzute. Per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo.
Tutta questa premessa – su me, su Cassandra, su Fler che non c’entrava ma c’è entrato lo stesso chissà come, e su Bill, naturalmente – io l’ho fatta per spiegare che, a parte le sparizioni settimanali alle quali ultimamente mio fratello si lascia andare e per le quali dovrò decidermi a torchiare per bene David – perché lui non può propinarmi scuse come “Bill è in beauty farm” ed aspettarsi pure che io ci creda – insomma, a parte questo, prima del ritorno di Bushido io stavo conducendo un’esistenza piuttosto felice e tranquilla. C’erano delle cose oggettivamente incomprensibili – il rifiorire immotivato di mio fratello, e non che non mi facesse piacere, ma restava incomprensibile; o l’ombra scura perennemente presente negli occhi di Fler; o la ruga che, sempre con maggiore insistenza, andava formandosi sulla fronte di David, proprio in mezzo alle sue sopracciglia – ma non erano cose che mi infastidissero particolarmente.
Ma ora è tutto diverso. E adesso, in questo salotto, di fronte a questa scenata indecente, di fronte alle lacrime di mio fratello, di fronte all’espressione dura e risentita e soprattutto ferita di Bushido, io devo prenderne atto.
*
Potrei raccontare nel dettaglio la giornata di oggi fin da quando mi sono svegliato, ma sono quasi sicuro che perdermi nella mia testa al momento sarebbe deleterio. Non devo perdermi, devo solo cercare di riassumere le ultime ore della mia esistenza per avere un punto fisso da cui ripartire quando finalmente riuscirò a prendere pienamente coscienza del disastro in atto.
Quindi niente resoconto dettagliato, non mi soffermerò su quanto fosse buono stamattina il profumo di Cassie attaccato alle mie lenzuola, alla mia pelle e ad ogni molecola d’aria che riempiva la stanza; non mi soffermerò su quanto abbia trovato odioso lo squillo del cellulare e non mi soffermerò su quanto mi sia sentito stupido nel rassegnarmi comunque a rispondere alla chiamata appena individuato il nome di Bill sul display. Non parlerò diffusamente di quanto mi sia sembrato strano sentirgli dire “vado da Anis… mi accompagni?” – Dio, come faccio a non parlarne diffusamente? Bill ha sempre visto i momenti di intimità con Bushido come, tipo, cose sacre e inviolabili, per quale cazzo di motivo avrebbe dovuto volermi fra le palle in una situazione come quella? – e non dirò nemmeno quanto io l’abbia trovato teso quando sono passato a prenderlo da casa sua per portarlo all’appartamento in cui Bushido sta per ora; non lo descriverò, anche se potrei dipingerle, le linee corrucciate delle sue sopracciglia, e disegnare il broncio teso e chiuso delle sue labbra.
Però posso raccontare quello che è successo da quando ho messo piede in questa casa, perché questo è importante. Posso raccontare di Bushido tanto scuro da fare paura, colore della pelle a parte. Posso raccontare della paura di Bill, perché me la sono sentita fisicamente addosso per tutto il tempo. Posso parlare del suo imbarazzo quando Bushido gli ha chiesto di andare a prendere da bere in cucina mettendoci meno tempo di quanto non ne avesse perso il giorno prima durante la cena. Posso parlare a lungo della luce tremolante negli occhi di mio fratello e di quella netta e brillante negli occhi di Bushido. Posso parlare di quel momento di immobilità in cui io mi ero già impossessato di un divano su cui svaccarmi e mi stavo ancora chiedendo cosa cazzo ci facessi proprio io e proprio in quel momento in quel dannato salotto, mentre alle mie spalle, fra gli occhi di Bill e quelli di Bushido, scoppiava una guerra tale che avrei dovuto sentirne il clangore anche se fossi stato su un altro pianeta. E invece niente. Invece il silenzio. Posso descrivere ogni sfumatura di quel silenzio – quella tesa, quella angosciata, quella già prematuramente disperata – posso farlo, devo farlo, perché quel silenzio è stato l’ultimo di questa giornata che abbia avuto un significato e sia valso qualcosa.
Poi Bushido ha parlato.
- So tutto.
La sua voce risuona in questo silenzio in maniera così fisica che mi sembra di poterla toccare. È scura e decisa. È molto da lui, così com’è molto da lui dare per scontato la gente capisca a prescindere di cosa stia parlando. Per me non è così ed evidentemente neanche per Bill, che si ferma a metà del salotto e si volta a guardarlo, inarcando appena le sopracciglia.
- Sai cosa? – chiede, forzando un sorriso talmente tirato che io lo guardo e penso “Cristo, Bill. Ma se lo sai già, perché chiedi?”. Ed io, in questo momento, continuo a non sapere un cazzo. Ed è un attimo di confusione che dura veramente pochissimo, solo pochi secondi. Il tempo che serve a Bushido per mettersi in piedi, sollevandosi in tutto il suo fottuto metro e novanta di altezza, e ricominciare a parlare.
- So di te e Chakuza, Bill.
E lì mi esplode il cervello. Perché, non so se vi è mai capitato, ma a volte succede che tu passi in mezzo ad una situazione, no?, diciamo pure che la vivi, ne sei partecipe e tutto, però non la comprendi pienamente. Ci sono un sacco di sfumature che ti sfuggono e il tuo cervello le registra però gli mancano tasselli, e visto che gli mancano tasselli non riesce a ricomporre gli indizi in un quadro che abbia un senso. Perciò quei particolari apparentemente stupidi – il nome di Chakuza che diventa Peter sempre più spesso sulle sue labbra, le fughe continue, i momenti di imbarazzo quando si parlava di lui e così via – tu poco a poco te li dimentichi, li archivi come cose prive di importanza.
E poi arriva qualcuno che invece la soluzione del puzzle già ce l’ha. E gli basta mezza parola, cazzo. Solo mezza. E a te basta sentirla che rimetti tutto al suo posto. E lì o razionalizzi o ti esplode il cervello.
A me esplode il cervello.
In mezzo a tutto quello che potrei pensare – Bill s’è messo con Chakuza; Bill è stato a letto con Bushido; Bill e Chakuza stanno ancora insieme? – io penso solo che è la seconda volta che mio fratello mi butta fuori a calci dalla sua vita. Penso che di tutto questo – di mio fratello che boccheggia a corto d’aria e di Bushido che continua a guardarlo con un misto di delusione e dolore – non mi importa niente. Penso che c’è stato un tempo in cui io e Bill eravamo attaccatissimi. E penso che mio fratello adesso non mi dice più nemmeno quando si innamora di qualcuno. Non mi dice quando è felice, non mi spiega perché lo è e non mi dà modo di gioirne con lui – Bill non ci ha nemmeno provato, a vedere se la mia reazione al sapere di lui e Chakuza sarebbe stata diversa rispetto a quella che ho avuto quando ho saputo di lui e Bushido.
E penso anche che tutto questo è ingiusto. Perché non posso sentirlo quand’è felice, ma in compenso quando il cuore gli batte tanto forte da fargli male lo sento ancora.
- Non hai niente da dire? – chiede Bushido a bassa voce, restando fermo dov’è. Bill deglutisce pesantemente.
- Anis- - comincia piano, ma Bushido lo ferma con un ringhio imperioso.
- Non so se voglio davvero sentirti parlare. – dice d’un fiato, guardandolo dritto negli occhi.
Bill china il capo e le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance in grossi goccioloni brillanti.
- Mi hai chiesto se non avevo niente da dire. Vorrei rispondere almeno a quello.
- Non so se la voglio, la tua risposta! – precisa Bushido alzando la voce e tendendosi tutto verso Bill, che incassa la testa nelle spalle come se l’urto della sua voce lo sentisse addosso né più e né meno di un ceffone.
- …Anis, ti prego. – cerca di calmarlo Bill, parlando dolcemente, anche se non riesce nemmeno a guardarlo e quindi, penso, l’effetto del suono della sua voce è di molto ridimensionato. – Lascia che ti spieghi.
- Cosa vuoi spiegarmi, Bill? – insiste lui, tagliente come una lama, - Vuoi spiegarmi perché mi sei caduto fra le braccia e ti sei fatto scopare nonostante stessi con lui da quasi un fottuto anno? – e si lascia andare ad una mezza risata ironica, incrociando le braccia sul petto mentre Bill serra le palpebre e stringe le labbra. – Quasi un anno! – ripete Bushido, il tono a metà fra il risentito e il crudelmente divertito, - Che bel lutto! Alla prima occasione favorevole-
- Non è stato così, Anis! – esplode mio fratello, stringendo i pugni, ma la sua esplosione non è niente paragonata al rombo della voce di Bushido, pochi secondi dopo.
- Te lo dico io com’è stato, cazzo! – urla, e parla proprio come se fosse stato qui sempre, in ogni momento. Perciò a me un po’ viene voglia di crederci, alla sua versione. – Quanto hai aspettato? Tre mesi? Quanto, prima di buttarti fra le sue braccia? E siete stati felici, fino ad ora? Sei tornato dritto a scopare con lui dopo avermi mandato a fanculo nonostante ti fossi fatto mettere le mani addosso- no, nonostante mi avessi chiesto tu stesso di metterti le mani addosso?!
Bill si copre il volto con le mani.
- Anis, ti prego… - mormora, e la sua voce attutita riempie la stanza in un lamento sofferente. Bushido inspira ed espira.
- Ho capito che voglio che parli, Bill. – dice freddamente, senza staccargli gli occhi di dosso, - Sono curioso di vedere se troveresti un modo di metterla che non ti faccia passare per una qualsiasi di tutte le altre troie che mi sono passate nel letto per tutta la mia vita.
Bill non solleva lo sguardo. Le sue mani stringono appena la presa sulle sue guance e poi scivolano lentamente nel vuoto, lungo i suoi fianchi. E lì restano, ai lati del suo corpo, a dondolare inermi. Seguo il tintinnio dei suoi bracciali e mi concentro su quello, perché preferisco quel suono alla voce di mio fratello che ammette “Non credo che esista, Anis”. Perché dice troppe cose tutte insieme.
Bill, che cazzo.
Che cazzo, Bill.
Bushido non se l’aspetta, comunque. Probabilmente – come me – credeva che si sarebbe difeso. Che avrebbe combattuto, in qualche modo. Che avrebbe cercato di metterla in un qualche modo che non lo facesse sembrare poi così colpevole. E invece mio fratello non esita un attimo per dargli ragione e chiudere il discorso.
Né io né Bushido ci aspettavamo niente di simile. Probabilmente perché né io né Bushido abbiamo la più pallida idea di come sia stato l’ultimo anno della vita di mio fratello. Ed in questo momento di chi sia la colpa di questa mancanza non importa poi neanche tanto.
- Fuori da questa casa. – la voce di Bushido è così bassa e lontana che sembra provenire da un altro luogo. Fa quasi paura. – Non ti ci voglio più vedere, qua dentro. Né altrove. Fanculo, Bill, noi abbiamo chiuso.
Bill solleva lo sguardo e gli punta addosso un paio di occhi enormi di terrore e lacrime.
- No… - mormora senza fiato, - Anis, no.
- Decido io, principessa. – dice lui, guardando altrove. Immagino lo faccia perché non è facile mandare a fanculo la persona per la quale ti saresti letteralmente fatto ammazzare guardandola negli occhi. – Come sempre. Sparisci.
Bill non si muove subito. Resta immobile per qualche secondo e lo guarda. Bushido non fa una piega. Il mondo intero sembra essersi del tutto dimenticato di me, ed io ne sono contento.
Riprendo a respirare solo quando Bushido si sposta e Bill prende quel movimento per ciò che è – un invito estremamente fisico a togliersi dalle palle. Obbedisce, si muove oltre la porta e scompare in corridoio, e lì ricordo che devo per forza andargli dietro – per quanto non sappia cosa dirgli e nemmeno se voglio dirgli qualcosa. O anche solo vederlo, stargli accanto, pensare a lui – primo perché è venuto in macchina con me e secondo perché io non voglio restarci in questa casa con quest’uomo che guarda il vuoto e si morde un labbro a sangue mentre negli occhi gli brucia di tutto. Perciò seguo Bill e lo faccio in silenzio, fino a quando non mi trovo sulla porta. Mentre io sono lì, Bushido lascia andare un sospiro ed io lo sento. Lo sento e non so perché mi sconvolge tanto, però lo fa.
Mi volto a guardarlo, cercando le parole. Non è facile. Non lo è per niente.
- L’ho capito perché l’hai fatto. – dico alla fine. Lui mi solleva addosso uno sguardo estenuato e non risponde. – Perché sei andato via, dico… non ho capito come, ma ho capito perché. – mi fermo un attimo e sospiro anch’io. – Mi dispiace. – aggiungo poi, - Se me ne avessi parlato, l’avrei portato via io.
Bushido serra le labbra e continua a restare in silenzio. Smette anche di guardarmi, però, e quindi decido di andare via davvero. Questo silenzio, stavolta, non sono proprio in grado di sostenerlo. Né di parlarne.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla."
Note: …ebbene è successo XD Non so se ve lo aspettaste e, in caso ve lo aspettaste, se ve lo aspettaste così. Io e Tab – che questa shot l’abbiamo scritta insieme per il semplicissimo motivo che ci saremmo entrambe strappate i capelli dalla testa se avessimo dovuto scriverla da sole, per motivi diversi ma complementari XD – sappiamo con certezza che almeno una di voi (senza fare nomi e cognomi ma solo nickname: FedyKaulitz XD) ci era arrivata molto – ma molto – vicina. Per il resto, speriamo che nulla di ciò che è stato scritto qui sopra vi abbia deluso. Liz ci tiene a specificare che ama moltissimo Bushido e l’ha amato in questa shot in pratica come mai prima XD Tab ci tiene a rimarcare il suo odio, BTW. Quanto al resto, ci si vede venerdì per lo spin-off :)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CRASH INTO ME

Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Lui ha annuito e mi ha baciato ancora. E, poco prima di prendermi, lì sul divano, mi ha sussurrato sulle labbra “sono felice, piccolo, sai?”. Io ho sorriso e gli ho risposto “anche io lo sono”. Parlavamo chiaramente di due felicità diverse."
Note: Quando io scrivo qualcosa, o sto raccontando una storia (e allora ho una trama e vengono fuori come niente malloppi da trenta pagine minimo), o sto seguendo una suggestione. Questa oneshot rientra nel secondo caso, e quindi presumibilmente comincerò ad odiarla non appena la ricopierò al pc (al momento sto scrivendo sul mio bellissimo squadernino Muji da 7mm, in ufficio di mamma). Ora come ora, comunque, provo per lei una discreta quantità di affetto. Perché è piccola ma, pur nel suo essere così sospesa, la trovo completa: senza raccontare quasi niente, descrive la fine di un amore e l’incerto inizio di un altro (anche se quest’ultimo dipende un po’ da quello che ci volete vedere voi XD Io, per dire, ce lo vedo; e sono felice così =P). Spero abbiate gradito ^^
Titolo rubato ad un verso di Back For Good dei Take That (non commentate, grazie XD). Storia partecipante a Temporal-mente. <3
Ps. Il 31 marzo è stato scelto perché pare che, proprio quel giorno lì, sia stata scattata questa foto. Il fangirling ha fatto il resto XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNAWARE BUT UNDERLINED
"I never loved someone the way that I'm lovin' you." (Fallin' – Alicia Keys)

Nel momento in cui la mia vita è cambiata per sempre, io stavo festeggiando il compleanno di Georg. È un peccato che, come punto di riferimento, io abbia solo una data – il trentuno marzo duemilanove – e non anche un orario – che ne so, le nove, le dieci, le undici di sera – perché se avessi quello potrei anche dire esattamente che cos’è che stavo facendo in quel preciso attimo. Se erano le nove, per dire, stavo prendendo a scappellotti mio fratello perché lanciava occhiate fin troppo esplicite alla sorella di Gustav. Se erano le dieci, stavo sbocconcellando con aria annoiata delle tartine dal sapore orrendo. Se erano le undici, stavo cercando il cellulare in un delirio di borse e giacconi, e lo stavo cercando per chiamare Anis. Perché mi mancava, perché non lo sentivo da due ore e perché mi stavo annoiando al punto da desiderare il suicidio – o cominciare a fantasticare sulle sue mani che mi scorrevano addosso non più di dodici ore prima.
E invece niente. Invece non so che ore erano mentre Anis e Fler ricominciavano a parlare dopo anni di silenzio e guerra di bande, e quindi non saprò mai né a che ora precisamente sia andata a puttane la relazione più importante della mia vita, né che cazzo stessi facendo mentre tutto questo accadeva. E tutto ciò è ridicolo.
Anis non mi ha mai parlato di Fler. Non che avesse qualcosa da nascondere – o almeno credo – e non che non ne avesse voglia – Anis è uno cui va sempre di parlare, qualsiasi sia l’argomento in discussione. È che io non ho mai chiesto. Sinceramente, la cosa non mi ha mai interessato più di tanto. Mio fratello mi parlava di diss e scontri fra rapper ed io archiviavo il tutto alla voce “bambinate”. Come si fa a prendere sul serio un gruppo di uomini che si sfanculano via radio? È ridicolo, è ancora più ridicolo dei bambini che si fanno i dispetti spaccandosi i giocattoli a vicenda.
Per quanto Tomi potesse esaltarsi, e per quanto gli occhi di Anis potessero prendere a brillare quando c’era di parlare del suo passato all’Aggro Berlin ed a tutta la merda che s’erano buttati addosso fra di loro quando lui aveva deciso di andare via – quel milione di anni prima – per me rimaneva tutto troppo stupido, troppo infantile e, soprattutto, troppo distante per rappresentare un argomento interessante. Era una cosa, era accaduta, era antica: non c’entrava niente col mio presente, io ed Anis vivevamo insieme in una villa enorme, gialla, tremenda e bellissima, in uno dei quartieri più ricchi di Berlino. Cosa poteva avere a che fare la nostra vita meravigliosa con quel passato così stupido?
Quindi, d’accordo, lo ammetto. Forse in parte è anche colpa mia, se io e Anis ci troviamo in questa situazione, adesso. Forse avrei dovuto essere più curioso e attento, forse avrei dovuto interessarmi di più.
Ma ero innamorato. Anche Anis era innamorato, io lo so questo. E quando ami così vivi in mezzo alle certezze, sei forte dei tuoi sentimenti e convinto al cento per cento che non potranno mai venire meno.
Forse, anche se avessi saputo di Fler e di tutto ciò che il suo nome scatenava nella mente di Anis, non sarei comunque riuscito ad accorgermi di quello che stava succedendo. Probabilmente neanche Anis se n’è accorto, probabilmente è solo successo. E nessuno avrebbe potuto farci proprio un bel niente.
La cosa più assurda di tutte è che io, Fler, non l’ho nemmeno mai incontrato. Non fosse un rapper famoso, non saprei nemmeno che faccia ha e non conoscerei neppure il suono della sua voce. Anis ci ha tenuti separati come era giusto facesso fin dal principio, perché Anis è uno attento a queste cose, smista bene ogni oggetto che possiede e lo tiene chiuso nel proprio universo di appartenenza. Fler veniva dal ghetto, e lì è rimasto, anche se non so dove viva adesso e dubito fortemente che stia in un appartamento diroccato in quel di Tempelhof.
Io, comunque, col ghetto nella testa di Anis non c’entravo niente. E infatti ne sono rimasto fuori.
Quando mio fratello mi ha riaccompagnato alla villa, dopo la festa di Georg, Anis non era ancora tornato a casa. Ho sbuffato pesantemente, perché odio che non sia a casa quando torno. C’è quasi sempre, d’altronde, mi sarà capitato di non trovarlo solo un paio di volte. E poi non mi sono certo trasferito da lui per non trovarlo.
Comunque, insomma, lui non c’era, perciò io ho fatto la doccia, ho scrostato via dalla faccia quei due chili di trucco sfatto che la impiastricciavano, mi sono cambiato e mi sono arrotolato sul divano di fronte alla televisione. Anis ha un televisore da centottanta pollici che credo sia illegale. Qualsiasi cosa, vista su uno schermo tanto grande, sembra incredibile ed enorme. La pubblicità di una marca di grissini con in sottofondo una colonna sonora firmata Hans Zimmer può sembrare la cosa più epica del mondo, anche se tutto ciò che vedi è un nonnino che passa attraverso un campo di grano accarezzando ogni spiga neanche fosse un nipote. Non è questione di quello che vedi, è questione di come lo vedi, di quanto nitidi e vividi sono i colori, di quanto è chiara la risoluzione del video, di quanto è alto il volume che le casse parietali ti sparano dritto nelle orecchie. Se riesci a farti prendere dalla sensazione fisica che ciò che stai guardando costringe il tuo cervello a provare, è molto probabile che tu ti ci perda dentro e poi fatichi ad uscirne. Soprattutto se sei molto stanco.
Io sono stato particolarmente sfigato e, subito dopo la pubblicità dei grissini, ho beccato gli ultimi venti minuti di Matrix Revolution. Non potete capire che esperienza extrasensoriale sia guardare quel film su un televisore come quello, finché non lo provate. È una cosa più che epica, è una cosa esagerata, quasi eccessiva. A me piacciono da morire le cose esagerate ed eccessive, tant’è che sono come sono, adoro mio fratello e, quando mi sono innamorato, mi sono innamorato di Anis.
Insomma, sono rimasto lì sul divano a stordirmi di Keanu Reeves, e quando Anis è tornato a casa non me ne sono nemmeno accorto. Non ho sentito girare le chiavi nella porta, non ho sentito la porta aprirsi e richiudersi, non l’ho neanche sentito muovere i primi passi all’interno della casa. Mi sono accorto di lui solo quando il divano s’è mosso sotto di me, il profumo dell’aria è cambiato ed ho sentito la sua voce bassa e un po’ roca chiedermi “Di nuovo ipnotizzato, piccolo?”.
La sua voce mi ha riportato sulla terra, perciò mi sono riscosso e mi sono voltato a guardarlo, mugolando scontento come faccio sempre quando pretendo le coccole arretrate, e lui ha sorriso e spalancato le braccia. Quando mi sono spalmato contro di lui, gli ho annusato addosso l’odore acre del kebab, ed ho storto il naso.
- Dove sei stato? – gli ho chiesto in un altro mugolio stanco. E poi, senza aspettare che mi rispondesse e fosse lui a ricambiare la domanda, gli ho raccontato la mia serata. – La festa di Georg è stata noiosa, come tutto ciò che ha a che fare con Georg. Non vedevo l’ora di andarmene, e tra l’altro deve aver scelto il servizio di catering peggiore di tutta la Germania, perché ho mangiato delle tartine così orribili che ne sento ancora il saporaccio sulla lingua. – ho sospirato profondamente, - E ora non posso nemmeno chiederti di mandarlo via, perché sicuramente saprai di cipolla, olive e spezie. Sei tremendo.
Anis ha riso piano fra i miei capelli e mi ha stretto più forte, accarezzandomi lentamente le braccia.
- Io sono uscito con Ali ed altri ragazzi. – ha risposto quindi, visto che gli stavo lasciando il tempo di farlo.
Io ho sbuffato.
- Lo sapevo che doveva essere colpa di qualche arabo. – ho borbottato stancamente, - Quale figlio di non so che cugino “non-di-sangue-ma-fa-lo-stesso” sta per sposarsi, questa volta?
Anis ha riso ancora, più forte.
- Niente del genere, piccolo. – ha scosso il capo, - Però io e Fler avevamo bisogno di parlare e lui sapeva che non avremmo potuto farlo in campo neutro. Mi doveva del vantaggio.
Ho sollevato gli occhi, fissandolo imbronciato.
- Giocate ancora a farvi la guerra? – ho biascicato stancamente. Anis ha riso di nuovo, accarezzandomi il collo ed attirandomi a sé per un bacio umido e svelto.
- Abbiamo appena smesso. – ha risposto quindi, ma io non ho realizzato cosa questo potesse significare, perché lui mi aveva appena baciato e, anche se sapeva davvero di kebab, quando Anis mi bacia io smetto di pensare. Mi ha respirato un po’ fra le labbra e si è allontanato appena, poggiando la fronte contro la mia. - …se vuoi vado a lavarmi i denti. – ha suggerito dolcemente, con un mezzo sorriso.
Io ho scosso il capo.
- Vai benissimo così.
Lui ha annuito e mi ha baciato ancora. E, poco prima di prendermi, lì sul divano, mi ha sussurrato sulle labbra “sono felice, piccolo, sai?”. Io ho sorriso e gli ho risposto “anche io lo sono”. Parlavamo chiaramente di due felicità diverse.
Anis non è mai veramente cambiato, nel corso delle ultime settimane, e non sono cambiato neanche io. Non è stato come svegliarsi una mattina e scoprire di non volere più niente dall’uomo che mi dormiva accanto.
Uccidere l’amore non è tanto facile. È un sentimento persistente. Ci vuole del tempo. È un processo lungo. L’amore non lo devasti in un colpo, perché anche di fronte alle cose peggiori l’amore non scompare. Non è una bomba, non puoi farlo esplodere, contare i danni e constatare che non ne è rimasta traccia.
L’amore lo logori poco a poco. Lui c’è, continua a resistere fino all’ultimo. Quando lasci la persona che hai amato, in quel preciso momento l’ami ancora. E le ultime tracce di quel sentimento continui a tenertele dentro, finché non le piangi.
Il nostro amore l’ha ucciso un uomo con cui io non ho mai avuto nemmeno il piacere di parlare. L’ho solo visto crescere negli occhi di Anis, nei suoi continui ritardi, nelle sue mezze risposte confuse e nel suo nome che si affacciava sempre più spesso sulle sue labbra.
Non credo che Anis fosse mai stato innamorato, prima di innamorarsi di me. Il problema di quando t’innamori una volta, comunque, è che la volta successiva, se ricapita, lo riconosci. Anis deve averlo capito, quando è successo. Quando il battito del suo cuore ha cambiato ritmo. Quando il suo nome sulla lingua ha cambiato gusto. Quando i suoi colori hanno cominciato a significare più di quanto non fosse pronto ad ammettere. Anis deve averlo capito per forza.
Io non l’ho realizzato finché non gli ho sentito addosso un sapore che non era mio e non era nemmeno nostro. Non l’ho realizzato, in sostanza, fino a questo preciso momento.
- L’hai baciato? – parlo, ma non riconosco il suono della mia stessa voce.
Neanche Anis lo riconosce, o forse semplicemente non crede che possa davvero averglielo chiesto.
Deglutisce pesantemente, guardandomi negli occhi.
- Ma che dici, piccolo? – chiede con una certa tenerezza, sporgendosi per baciarmi ancora. Io lo fermo, piantandogli una mano sul petto. Non voglio sentirlo di nuovo, questo sapore sconosciuto.
- L’hai baciato. – ripeto, e stavolta non è una domanda. La domanda viene dopo. – Perché?
Anis non protesta. Non riesce neanche a reggere il mio sguardo. E dire che mi sto impegnando tanto per non piangere. Non voglio che si senta in colpa, voglio solo che mi dica come stanno le cose. Cosa intende fare di noi. Cosa intende fare di me.
- Anis… - lo chiamo piano, cercando i suoi occhi, - Perché? – e, visto che ancora non risponde, provo a rispondere io. – Lo ami?
Lo sento tendersi tutto a pochi centimetri da me. Quasi trema. Si inumidisce le labbra, sospira profondamente.
- È complicato, piccolo.
Complicato, dice lui. Non è esattamente quello che si dice delle cose semplici che però non vuoi risolvere?
- Prova a spiegarmelo. – insisto senza distogliere lo sguardo.
Lui lascia affiorare alle labbra un mezzo sorriso stanco.
- Non credo che ci riuscirei. – ammette poi in un sussurro, - Per la verità non riesco a spiegarlo nemmeno a me stesso, piccolo. Non saprei neppure dirti se è una cosa che c’è sempre stata o sia nata adesso. Non so nemmeno se mi piace, come puoi pretendere che sappia se lo amo?
- Non sai se ti piace? – annaspo a fiato corto. La semplicità con cui ne parla mi dà i brividi. – Ma l’hai baciato…
- Una cosa non implica l’altra, piccolo.
- L’hai baciato perché non avevi niente di meglio da fare?
- L’ho baciato perché volevo baciarlo, Bill. – risponde duramente, aggrottando le sopracciglia, - Questo vuol dire che adesso so di cosa sa e so che mi è piaciuto il suo sapore. Mi chiedi se lo amo? Non lo so, piccolo. Il bacio si è fermato molto prima che riuscissi a capirlo.
Inspiro ed espiro. Mi prendo tutto il tempo che mi serve.
- Io ti amo. – dico infine, - Non ho mai amato nessuno come amo te. Non sai se ami lui, d’accordo. Sappi però che io amo te. Quindi, adesso, è tua la scelta.
Anis mi guarda a lungo. Schiude le labbra ma non parla. Ricambio il suo sguardo e lo scruto attentamente, cercando da qualche parte nel fondo dei suoi occhi una qualche traccia di me.
Non la trovo.
Mi allontano trattenendo il fiato. Non penso di essere pronto a sentirmi dire che è meglio se porto via le mie cose.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza (accennato), Fler/Bushido (accennato), Fler/Chakuza (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- "Quattro mesi fa, Bill si è presentato a casa mia con un sorriso smagliante sul volto ed i lineamenti un po' tesi e provati."
Note: Il panico! XD In realtà voglio chiedere scusa alla mia adorata figliUola che probabilmente non si aspettava che il suo unico padre passasse così sfacciatamente dalla parte del nemico e si mettesse pure lei a propinarle Bikuza senza la minima pietà. A mia discolpa posso dire che questa shot serviva a livello narrativo (non ha senso ripetervi che capirete dopo, mh? Ormai vi starete abituando, è così che funziona con SE XD), che ho fatto di tutto perché, a livello di accoppiamenti, questa shot fosse il più equilibrata possibile (in realtà non ho “fatto” niente, ha fatto lei tutta da sola, distribuendosi equamente fra Bikuza, Flerkuza, Billshido ed anche un accennino minuscolo al Flershido palese di Typisch Ich XD) e che, soprattutto, Bill e Chakuza insieme sono oggettivamente dolcissimi e, mentre scrivevo, mi sono presa troppo bene. Soprattutto perché entrare nella testa del Chaku, ogni volta, per me, è un po’ come andare in gita in Australia. Ti aspetti sempre di veder girare l’acqua al contrario nello sciacquone XD Insomma, ti aspetti cose strane. E loro puntualmente arrivano. E infatti il Chaku è amore totale <3<3<3
Titolo rubato ingloriosamente al romanzo omonimo di Jeanette Winterson. E comunque nessuno di voi si stava chiedendo se prima o poi questo tatuaggio sarebbe comparso in questa storia? XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SCRITTO SUL CORPO

Quando apro la porta di casa, Bill è così slanciato in avanti che praticamente mi cade fra le braccia. Siccome non pesa niente, reggerlo non è difficile e non è che a ritrovarmelo addosso io faccia fatica a sostenerlo. Siccome, però, è illegalmente alto, se mi si getta addosso in questa maniera, mantenere il giusto equilibrio è un po' problematico, ed è per questo che, appena me lo vedo cadermi sopra, lascio andare un lamento un po' stupito e cerco – invano – di reggermi sulle due gambe che la natura mi ha dato. Purtroppo fallisco nel tentativo e in meno di due secondi io e Bill ci ritroviamo a terra. Io ho anche battuto con una certa forza – tra l'altro contro qualcosa che non sono certo di volere identificare – ma Bill sta ridendo, perciò è tutto ok.
Lo sento chinarsi un po' sul mio collo, mentre mi stringe con più convinzione e continua a ridere. Per un secondo penso voglia solo baciarmi, poi lo sento strusciare il naso contro la mia pelle e vado nel panico – solo un momento, il momento che in genere uso quando Bill sta per dirmi “sei stato con Patrick”. È un momento che mi serve perché “stare con Patrick” ha valenze tremende, nella mia testa. Sono valenze che non esistono, nella testa di Bill. Io non so lui cosa creda facciamo io e Fler quando stiamo insieme. Probabilmente è convinto che giochiamo a scacchi o qualcosa del genere. Comunque questo momento mi serve per tranquillizzarmi e convincermi del fatto che no, Bill non sta per accusarmi di alto tradimento, sta solo per annunciarmi che ho l'odore di Patrick addosso. Che per me equivale all'alto tradimento di cui sopra, ma per lui no. Quindi devo calmarmi per forza, se non voglio fare qualche cazzata delle mie.
- Hai ancora il suo odore addosso! - ride quindi, sistemandomisi in grembo e scatenandomi una guerra fra le gambe. Che poi, veramente, vorrei alzarmi e dare una testata contro il muro, ma di quelle forti, perché è indecente la successione di eventi che mi ha portato a questo momento. Cioè, io ieri ho quasi schienato Fler contro lo sportello della sua Escalade, eh. Ed eravamo tipo in mezzo alla strada. Io non so con che diritto faccio certe robe, giuro. Le faccio senza volerlo, forse. Che poi non è vero, è che probabilmente voglio un po' troppe cose tutte insieme.
Oltretutto, non è mica tanto normale che Bill mi riconosca addosso l'odore di Fler. Non è tanto normale che lo riconosca e non è tanto normale nemmeno che lo accetti lì com'è. Però c'è anche da dire che Bill probabilmente è davvero convinto noi si giochi, quando si va insieme da qualche parte. Che poi io e Fler non siamo mai andati da nessuna parte, tipo. Solo quando s'è trattato di Saad, e lì non si andava certo per divertirsi, comunque.
- Sì, ci... – invento palesemente, - è che aveva freddo.
Non che io mi renda conto di cosa ho detto. Cioè, aveva freddo. Che vuol dire, che l'ho scaldato? E come? Prego che Bill non me lo chieda perché non saprei come nascondergli che avevo una buona metà della sua lingua in gola, ieri sera, mentre ci dibattevamo come due ossessi fra il volante, il cruscotto e la leva del cambio. Penso a Fler, al cruscotto, alla leva del cambio, alla sua lingua in gola e cerco di calmarmi.
Bill, comunque, annuisce come se la mia fosse stata la risposta più logica possibile. E se me ne stupisco io davvero nella testa di questo ragazzo c'è qualcosa che non va. E d'altronde è il mio ragazzo. Sarebbe strano se fosse normale.
- L'importante è che sia rimasto. – dice quindi con una tranquillità addirittura inquietante. Dico io, d'accordo. Pure per me va bene se è rimasto. L'ho limonato perché rimanesse. Avrei probabilmente fatto di tutto purché rimanesse – e nemmeno sapevo che anche a Bill l'idea che lui partisse dava fastidio.
Non intendo sentirmi giustificato sul punto o pensare roba del tipo "eh, ma se alla fine Bill è d'accordo, il sacrificio è valso la pena". Baciare Fler ieri – e comunque mi ha baciato lui, credo – è stato quanto di più lontano da un sacrificio abbia mai vissuto nella mia intera vita.
Ma ho problemi più seri di questo, al momento. In realtà Bushido è vivo quindi io, a Fler, non dovrei nemmeno pensare. Così come non dovrei pensare a nient'altro che al fatto che Bushido è vivo anche ora che Bill mi si sistema addosso con la palese intenzione di farmi impazzire.
Oltretutto, pensare a Fler ieri mi dà ancora fastidio, soprattutto se lo associo a Bushido. Ma ho già detto che non dovrei pensarci, quindi perché lo sto facendo?
Comunque annuisco, anche perché Bill – a vedermi qua immobile che lo fisso con la solita occhiata da triglia che riservo di default a tutti gli uomini che scopo, per un motivo o per l'altro, quando dicono cose che mi sconvolgono – potrebbe pure insospettirsi. Quindi, appunto, annuisco e forzo un mezzo sorriso, incerto sul da farsi. Bill risolve il problema alla radice sporgendosi in avanti e baciandomi.
Io mi ci perdo tempo niente, nel senso che non si può davvero pretendere della razionalità, da me, perché io non ne ho in questi frangenti. Non riesco davvero nemmeno a colpevolizzarmi del tutto per aver baciato Fler, perché non è una cosa che mi stupisca. Io, davvero, non ce la faccio a frenarmi, di fronte a certe cose. Non lo faccio per cattiveria, lo faccio per affetto. Il mio enorme problema è che io Bill lo amo. Quindi se Bushido dovesse mettersi in testa che lo rivuole indietro, non so davvero come riuscirei a staccarmene. O come potrei fare a trattenermi e non saltargli addosso anche sapendo che non è più mio. Il problema si ripropone con Fler: io con quell'uomo c'ho una roba, non ho idea di cosa sia, mi fa paura la possibilità di capirlo un giorno, ma se mi si piazza davanti, io non ce la faccio a tener giù le mani. E' più forte di me, ma non è che voglio fargli del male. Non voglio fare del male a nessuno, io li voglio solo per me.
Lo stringo per i fianchi, attirandolo contro di me con una mano e cercando di eliminare la roba che ho sotto il sedere con l'altra. Il pavimento non è mai stato in cima alla lista dei posti in cui scopare, ma non ricordo di averlo fatto per terra con Bill neanche una volta, potrebbe essere un'esperienza. Bill mi mugola e mi sorride fra le labbra, io sorrido fra le sue e mi preparo a sentire dolore alla schiena per il resto dei miei giorni mentre lui mi appoggia le mani sulle spalle con una leggerezza che non ha bisogno di chiedere niente, e mi spinge a stendermi sul parquet, che scricchiola un po' sotto il nostro peso mentre Bill si solleva leggermente per sfibbiare i pantaloni e guardarmi con un sorriso sornione che mi manda fuori di testa.
Si tira su sulle ginocchia ed i jeans scivolano lungo i suoi fianchi stretti e magri. Io mi mordo un labbro e lui ansima pesantemente quando sollevo una mano a sfiorarlo attraverso il tessuto sottile dei boxer. Mi lascia fare, seguendo col bacino i movimenti della mia mano e strusciandosi lentamente contro il mio palmo aperto, e nel mentre afferra la maglia per gli orli inferiori e la tira su.
E lì i miei problemi vengono di nuovo fuori tutti nel loro ordine di importanza. Lì metto da parte le cazzate, veramente, perché c'è un particolare del corpo di Bill che tendo ad ignorare, dimenticare, cancellare – dato che lo odio – ma che esiste. È lì ed è enorme, è impossibile fingere che non esista.
Perciò deglutisco e, anche se continuo a muovere la mano sul suo corpo, so già che fare l'amore adesso non sarà bello come avevo sperato. Perché vedere quel tatuaggio a me mi manda fuori di testa. E non in senso positivo, per una volta.
Quattro mesi fa, Bill si è presentato a casa mia con un sorriso smagliante sul volto ed i lineamenti un po' tesi e provati. Bill ha quella faccia lì solo quando litiga con Tom, quando è stato ingiustamente privato della propria settimanale dose di Fler – che è peraltro una cosa che posso capire benissimo, anche se mi auguro che fra loro due non funzioni esattamente come funziona fra noi due – e quando torna stanco da un qualche impegno lavorativo. Al che, quando l'ho visto spuntare sulla soglia con quel faccino, mi sono giustamente preoccupato. Gli ho chiesto cosa ci fosse che non andava, lui ha risposto con un mezzo sorrisino scuotendo il capo e aggiungendo "è stata solo una giornata un po' faticosa", poi mi ha baciato, io l'ho tirato su per i fianchi, l'ho steso sul materasso e, quando gli ho sfilato di dosso la maglia, l'ho visto.
E lì mi sono fermato. Per la prima e unica volta nella mia intera esistenza – io non mi fermo mai – io mi sono fermato. Mi sono fermato, l'ho guardato, ho cercato di trattenermi e gli ho chiesto cosa cazzo fosse quel fottuto tatuaggio.
Sul suo fianco sinistro, ancora un po' arrossato e macchiato qua e là di inchiostro e qualche gocciolina di sangue già vecchio, campeggiava un'enorme frase il cui senso intrinseco ancora mi sfugge - "non smetteremo mai di gridare, torneremo alle radici", non è una frase che davvero significhi qualcosa: le radici dei Tokio Hotel sono i Devilish ed io mi auguro che Jost sia un uomo abbastanza furbo da impedire che questo crimine contro l'umanità possa avvenire. Comunque non era importante che quella frase avesse o meno un senso. Il punto non era la frase. Il punto era la forma del tatuaggio.
Quel tatuaggio è una B.
Mi si potrebbe dire che no, non è vero, non è una B, sono due dannate frasi che si intrecciano l'una con l'altra e l'illusione ottica di quell'intrecciarsi forma qualcosa di simile ad una dannata B – che peraltro, se anche fosse una B, potrebbe tranquillamente essere l'iniziale di Bill, Bill è un egocentrico e da lui un po' queste cose uno se le aspetta.
Se io non conoscessi Bill bene quanto lo conosco, probabilmente darei anche ragione a motivazioni simili. In realtà io lo conosco. In realtà so che, se non me ne ha parlato, è perché sapeva che non avrebbe avuto niente da dirmi al riguardo. Che la decisione era già presa ed io avrei anche potuto tirar giù la casa a cazzotti e urlargli in testa la qualsiasi, il risultato non sarebbe cambiato, lui quel tatuaggio l'avrebbe avuto.
Bill agisce così solo quando si tratta di Bushido. L'ho visto succedere. Ho visto venir giù un temporale epico, una roba da arca di Noè, verso i primi di gennaio, l'anno scorso. Ho visto Tom e Fler uniti nel tentativo di convincere Bill non fosse il caso di andare al cimitero a dare alla lapide di Bushido la lieta novella della morte di Saad per sua mano. Ma Bill è stato irremovibile, lui doveva andare e sarebbe andato, e l'ha fatto, alla fine. Fler l'ha accompagnato – Tom s'è giustamente rifiutato – ed al suo ritorno, quando me lo sono ritrovato congelato sulla soglia di casa che implorava per una secchiata d'acqua bollente in testa, mi ha raccontato scene allucinanti che vedevano Bill immobile davanti alla lapide che raccontava alla foto sorridente di Bushido ogni singolo minuto di quella notte disastrosa, mentre la bufera gli agitava i capelli e gli congelava le lacrime sulle ciglia e il sorriso sul volto.
Bill fa così, quando si tratta di Bushido. Ed è per questo che questo tatuaggio parla di lui.
Gli lascio scorrere addosso la mano libera, Bill geme ed io corro con le dita oltre l’orlo del boxer, perché si sta perdendo nelle mie carezze ed adoro quando lo fa. Adoro osservarlo quando chiude gli occhi ed il mio nome comincia a tremargli sulle labbra come volesse pregarmi e non riuscisse a capire bene per che cosa – come non riuscisse a capire se mi vuole più veloce, più lento, più a fondo o appena più indietro, semplicemente perché tutto ciò che vuole è avermi ovunque in ogni modo e non sa come chiedermelo.
- Peter… - mi chiama piano, ed io gli sfilo lentamente i boxer. E mentre lo faccio lo guardo e lo trovo ad accarezzarsi piano il fianco, dal basso verso l’alto. Mi ha detto che lo fa perché lì la pelle è molto sensibile e passarci sopra con la punta delle unghie gli dà i brividi.
Io credo che ogni tanto Bill abbia bisogno di accarezzarsi addosso Bushido. Credo che non lo faccia coscientemente, però ci sono dei momenti in cui ha bisogno di sentirselo sulla pelle, e questo ormai è l’unico modo in cui può farlo.
Fa male. Fa malissimo pensare che Bill ha tolto il bracciale e la fede e che togliere di mezzo quelle cose ha portato solo a peggiorare la situazione. Prima non c’era Bushido scritto sul suo corpo. Adesso sì. Adesso quell’onda di inchiostro nero gli marchia la pelle e resterà lì per sempre. Bill non se la strapperà mai di dosso, fa parte di lui. Come Bushido, in realtà: lui è sempre stato lì; questo tatuaggio, più che esserselo impresso sulla carne, Bill l’ha lasciato affiorare passo dopo passo. Ed io lo so. Lo so mentre lo stringo e mentre lo accarezzo fra le gambe e mi inumidisco le dita ed entro dentro di lui con tutti i dannati riguardi del caso, piano piano, lentamente, con delicatezza. E lo so mentre mugola e geme il mio nome, e smette perfino di accarezzarsi il fianco. Bushido resta lì, ed il fatto che resti lì è spaventoso adesso come mai prima, perché adesso Bushido è qui per davvero.
Ogni tanto mi chiedo se Bill non abbia tolto i gioielli pensando già a quando si sarebbe tatuato quella B addosso. O se forse sia stato un bisogno nato successivamente, proprio perché mancava il peso dell’oro e dell’argento e dei brillanti di Bushido attorno al suo polso ed al suo anulare sinistro. Mancava quel peso e lui s’è inciso addosso un peso diverso ma ugualmente importante, forse.
Non lo so.
Non riesco davvero a pensarci quando lo sento stringersi ritmicamente attorno a me, seguendo la traccia delle mie spinte lente e calibrate. Non riesco a pensarci anche se vorrei e forse dovrei, e per un attimo – solo uno – riesco perfino a dimenticare che Bushido è ancora vivo, che questa storia non può che finire male e che in questo momento ho l’impressione che la storia fra me e Bill non sia ancora nemmeno cominciata, che sembra già sia costretta a concludersi.
Riesco a dimenticare tutto per un solo momento, per il momento in cui Bill trattiene il respiro e poi viene fra le mie dita, per il momento in cui lo sento stringersi convulsamente un’ultima volta attorno a me e vengo anch’io, soffocando gli ansiti pesanti sulla pelle morbida e profumata del suo collo. Lo dimentico e spengo il cervello per tutti i secondi successivi, cercando di prolungare le dimenticanze il più possibile, cercando di infilare in quel buco nero di tutto – Bushido, Fler, perfino il mio incasinatissimo cervello – lasciando riaffiorare solo Bill.
- Mi sei mancato così tanto ieri… - mi sussurra Bill direttamente all’orecchio. I suoi capelli sono ovunque addosso a me, mi solleticano il naso e mi s’infilerebbero negli occhi se non tenessi le palpebre abbassate. Il pavimento è duro e scomodo ed io dovrei dire al mio ragazzo che il più grande amore della sua vita non è morto come crede. Ma non posso farlo, perché dirglielo implicherebbe perderlo. Ed io forse pecco di egoismo, ma non sono disposto a cederlo. Così come non sono disposto a cedere nient’altro.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi Bushido.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi nemmeno me stesso.
Non so davvero, soprattutto, come farò a guardare nuovamente negli occhi Bill.
- Anche tu mi sei mancato tanto. – rispondo tirandomelo contro per la nuca ed aiutandolo a sistemarsi per bene contro il mio corpo. – Resti un po’?
- Sono scappato col benestare di David! – mi informa lui con una risatina, mentre si stringe contro di me in cerca di un po’ di calore, - Resto a cena ed anche per la notte. Contento?
Io mi lascio sfuggire un sorriso un po’ triste. Fortunatamente, Bill non può vederlo.
- Sì, molto. – sussurro piano, prima di baciarlo ancora. E tapparmi la bocca. Perché è sicuramente meglio così.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo."
Note: Ehm. Ci dispiace. Sorpresa ^O^
Dunque, ieri sera il fratello della Tab - dalla quale mi trovo in vacanza - ha spento il modem mentre noi cercavamo di mantenere i nostri impegni di madri devote - che hanno in pugno la storia, ve lo assicuriamo; per quanto possa sembrare stia andando a ramengo, non è così. Da ciò si deduce che dopo aver postato la prima parte non abbiamo potuto postare anche la seconda. Quindi, insomma, ci dispiace per chi dovesse aver già letto la prima parte senza poter sapere che fosse appunto la prima, e speriamo che abbiate gradito la seconda. Che peraltro è la parte più bella perché il Flerkuza finalmente limona. A parte questo: il Bu è bellerrimo - anche se non fa molto più che ridere; il Chaku merita disapprovazione - e Tab mi sta odiando molto per questo, ma lei sa che non disapprovo il Chaku a prescindere ma solo quando mette mano sul bimbo quando non dovrebbe. Adesso sta protestando che Fler gli appartiene, ma io mi dissocio; Fler... so che può sembrare un po', come dire, una mezza zoccola, però... la presenza del Bu mi sconfinfera un po' tutti, quindi giustificatelo se si fa un po' annusare qui e là tipo stendendosi sul tavolino in una chiara offerta che, peraltro, nella testa del Chaku, il Bu non solo nota ma accetta di buon grado anche se in realtà il povero tunisino si è limitato a posare la propria tazzina lì accanto al culetto in offerta. Per quanto riguarda Eko (del quale probabilmente non vi frega una sega, ma io lo amo, perciò ne parlo) egli è il bene, ha palesemente capito tutto di cosa succede nei letti degli altri - anche perché nel suo non succede niente, quindi ha del tempo libero - ed è lol. E la questione del fantasma noi ce la portiamo dietro da circa un milioni di anni.
Ci scusiamo ancora per il disguido e divertitevi ^O^
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
TYPISCH ICH

Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza.
Rating: PG-15.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- "Sono a casa di Chakuza perché s’è messo in testa di spostare i mobili della camera da letto."
Note: Ho avuto una settimana disgustosamente piena e mi sono ridotta alle tre del mattino di venerdì per sistemare questa shot. Che poi in realtà erano due, ma erano quattro pagine una e tre pagine l’altra ed erano così dannatamente consequenziali che mi sono detta “ma sì, va’, le ragazze hanno avuto così poco di Fler… diamoglielo in doppia razione” ^O^ Non sono incredibilmente buona/magnanima/gentile?
…no, eh?
Oh, insomma *occhioni* avevamo detto che avremmo postato qualcosa venerdì, non che la shot che avremmo postato avrebbe risolto tutti i vostri dubbi e risposto a tutte le vostre domande *ri-occhioni* Per quello, mi sa che dovrete aspettare lunedì, come precedentemente programmato *ri-ri-occhioni*
Sì, siamo cattive. Abbiamo cominciato ad essere cattive con la prima shot, abbiamo continuato con la seconda e non intendiamo certo fermarci adesso <3 Anzi, visto quanto deve accadere nella serie, mi sa che continueremo a maltrattarvi a lungo XD Ma sappiamo che ci volete bene e continuerete a seguirci. Continuerete, vero? é.è Fler ve lo sta chiedendo per favore *espone Fler che guarda le lettrici con gli occhioni blu cucciolosi*
Quindi! Vi chiedevate che fine avesse fatto Fler? Come stesse? Perché David ne avesse parlato come di un uomo sull’orlo del crollo? Ebbene, il motivo è Chakuza, come sempre questo. Su, su, visto? A qualche domanda, in fondo, abbiamo risposto *-* *le autrici e Fler guardano tutti e tre le lettrici con ENORMI occhi coccolosi, sperando che loro abbiano pietà delle loro anime* ^O^
PS. Ah. Il titolo °_° Idea di Tab. L’armadio è l’armadio, la strega è Bill (…). Il leone non l’abbiamo ancora capito. Fler, probabilmente, comunque XD Ah, il mio bimbo coraggioso e tanto tanto stupido… <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
IL LEONE, LA STREGA E L’ARMADIO

Sono a casa di Chakuza perché s’è messo in testa di spostare i mobili della camera da letto.
…sono a casa di Chakuza perché io gli ho messo in testa che spostare i mobili della camera da letto sarebbe stato utilissimo, vista la pendenza con cui entra il sole nella sua stanza. E no, non avevo idea di cosa stessi dicendo. Ed è successo mesi fa, oltretutto, lui non avrebbe dovuto ricordarlo. E nemmeno io.
Sono a casa di Chakuza, fondamentalmente, perché credo di avere voglia di stare con lui. Non in qualche senso strano, solo perché avevamo un bel rapporto, al di là di tutto, e vederlo sfumare così nel niente è, non so, fastidioso? Irritante?
Sa dolorosamente di già visto, immagino. Tutto qui. Siccome ne ho già visto morire uno – prima ancora che Anis morisse davvero, oltretutto – non ci tengo a lasciarne morire anche un altro. E visto che non sono ancora riuscito a trovare le palle per andare via, tanto vale che, finché sono qui, continui a vederlo. Non facciamo niente di strano. So che non possiamo.
Quando sono arrivato qui, lui stava guardando la televisione con aria assente, e m’ha accolto con un sorriso da salvatore della giornata. Per la serie: meno male che sei arrivato tu, perché a stare qui da solo altri dieci minuti avrei potuto uscire pazzo. “Fler!”, mi ha detto, “Sei venuto per l’armadio?”. Io ho annuito ed ho tirato su un sacchetto pieno di bottiglie di birra, che è un po’ il prezzo che pago ogni volta che metto piede qui dentro. Non che Chakuza me l’abbia mai chiesto, naturalmente, è che io ho sempre bisogno di una scusa per presentarmi a questa porta. Ne ho bisogno per me ed ho bisogno di darla a lui.
Insomma, ho posato le birre in frigo e siamo andati in camera da letto perché – anche se non avevo la più pallida idea di come far pendere meglio il sole in camera sua – sarebbe stato allucinante arrivare fino a lì e poi dire “no, va be’, lasciamo perdere e guardiamo un film”. Abbiamo svuotato l’armadio trovandoci dentro roba che non ero sicuro di volere vedere, abbiamo guardato la finestra, ho finto di sapere cosa stessimo facendo ed ho cercato di ricordare dov’è che avevo detto di spostarlo quando gliene ho parlato la prima volta. Ho indicato un punto a caso sulla parete opposta. “Dovrebbe stare lì”, ho detto, “ingombrerebbe meno”. Chakuza ha riso ed ha annuito per inerzia, immagino.
Dopodiché abbiamo provato a spostare l’armadio prima sollevandolo e poi facendolo strisciare per terra, ma il peso non indifferente e la palese mancanza di rotelline sotto hanno reso entrambe le manovre impossibili. Perciò il risultato di più di un’ora di “aspetta, reggi lì” e “no, no, tienilo così” è stato che siamo riusciti a muovere la struttura di tre-centimetri-tre e solo dopo abbiamo capito che andava smontata e rimontata altrove, se non volevamo morire giovani.
Dal momento che il sole pendeva anche fin troppo bene, e batteva su di noi attraverso la finestra spalancata al punto che mi sono chiesto per quale motivo dovessimo davvero spostare l’armadio, ci siamo ritrovati in dieci minuti sudati come avessimo corso la maratona di New York. La conseguenza è stata che abbiamo sfilato le magliette, recuperato le istruzioni di montaggio e cercato di concentrarci su quelle perché stare seminudi e vicini non è più facile come lo sarebbe stato un anno fa. Nonostante tutto.
Quindi abbiamo smontato la struttura pezzo per pezzo – le ante, la base, la copertura, gli scaffali, la cassettiera – ed abbiamo spostato il tutto sull’altra parete. Abbiamo ottenuto solo che adesso armadio e letto distano tipo un metro, cioè niente, e la prossima settimana ci toccherà quasi sicuramente rismontare tutto da capo, perché così la camera da letto non è vivibile. Sul momento, però, eravamo stanchi morti, il sole aveva rotto le palle e quindi Chakuza ha detto “fanculo la pendenza, basta così” ed io ho annuito entusiasticamente. Ricordando peraltro di dover andare a pranzo con Sido entro le successive due ore, se non volevo farmi silurare anzitempo e perdere così la mia ultima occasione di fuga.
“Senti, mi faccio una doccia”, ho detto a Chakuza, grattandomi distrattamente la nuca, “Non ce l’ho il tempo di tornare a casa per farla”.
Lui ha annuito tranquillamente, biascicando un “Lo sai dove sono gli asciugamani e l’accappatoio” prima di recuperare la propria maglietta e ricominciare a riempire l’armadio con tutte le cose che avevamo buttato un po’ a casaccio fra letto e pavimento.
Mi sono diretto in bagno pieno di una certa soddisfazione. Stare nella stessa stanza e non saltarsi addosso era ancora un obiettivo possibile e la cosa non era di poco conto. Il sesso tende a rovinare tutti i rapporti, ed ero felice di sapere che invece qualcosa di salvabile fra me e Chakuza c’era ancora.
La doccia e l’acqua ghiacciata con cui ho sedato i pezzi di corpo ribelli che non erano d’accordo sulla parte del non saltarsi addosso mi sono sembrati rigeneranti. Sono uscito dal box con un sorriso di una soddisfazione tale da rasentare l’ebetismo.
E mentre recuperavo l’asciugamano e mi asciugavo, ho sentito le voci. Prima delle voci, anzi, la porta. E prima della porta i passi. Passi, porta, voci. “Chaku…”. Bill.
All’inizio è terrore panico. Non dovrei essere qui. Non dovrei essere nudo in questo bagno e non dovrei essermi fatto una doccia e in realtà non avrei neanche dovuto smontare e rimontare l’armadio di Chakuza. Non abbiamo fatto niente oggi, ma non è questo il punto. Bill non è stupido. Bill è tante cose ma purtroppo non è stupido.
Trattengo il fiato e sento la porta richiudersi e Bill muoversi all’interno dell’appartamento – l’inconfondibile ticchettio dei tacchi dei suoi stivali, l’unico segno di movimento perché Chakuza non fa alcun suono, quando si muove. O almeno da qui non riesco a sentirlo.
- Come mai qui? – chiede Chakuza premuroso, - Successo qualcosa?
Bill ridacchia.
- Ho una riunione fra un’ora, ho pensato di passare a trovarti… - il che mi riporta a Sido. Non arriverò mai in tempo. Non se dovrò stare nascosto qui per tutta la prossima ora. Devo trovare un modo di scappare e in realtà non voglio.
- Oh. – la prima esclamazione di Chakuza è atona. – Oh! – la seconda è più entusiasta ed è talmente ridicolo che vorrei ridere ma chissà perché non lo faccio. Non mi sento a mio agio. – Allora… ti va una birra? – c’è la mia birra nel frigo. È la mia tassa d’ingresso, non può darla al ragazzino.
In realtà può. Mi stringo nell’accappatoio perché sto cominciando a sentirmi davvero un idiota e lo sguardo che mi rimanda lo specchio non aiuta affatto.
Chakuza passa svelto di fronte al bagno – adesso i suoi passi li sento perché sono pesanti e frettolosi. Sento il frigo che si spalanca – il tintinnio delle bottiglie l’una contro l’altra – e poi si richiude, e Chakuza ripassa a due centimetri da me e ho come l’impressione che si sia dimenticato della mia esistenza. Scuoto il capo: non è mica possibile. Abbiamo spostato un armadio fino a mezz’ora fa.
Comunque non posso uscire e resto qua a guardarmi negli occhi da solo – il che è ridicolo, a pensarci – mentre sento Bill lamentarsi in lontananza dei ritmi assurdi che David impone loro, e di quanto sia stupido continuare a presenziare ovunque “se poi tanto non scrivo una parola, Chaku, e ci sto impazzendo, dietro questa cosa”.
Chakuza lo rassicura – anche se non sento di preciso cosa dice; colpa della sua voce, quella di Bill è chiara e squillante e la sentiresti a chilometri di distanza, quella di Chakuza invece è cupa come un tuono lontano e non capisci quello che dice a meno di non sentirtelo dire praticamente addosso – e sento solo le bottiglie fare avanti e indietro dal tavolo alle loro bocche, tintinnando contro gli anelli sulle mani di Bill e riempiendo il silenzio della loro conversazione quando, inevitabilmente, sfocia nel vuoto.
“Perfetto”, mi dico, anche se non ci credo neanche un po’. Perché anche io sono tante cose, ma non sono stupido. “Argomento esaurito. Ora si alza e se ne va”. È più una speranza che altro, ma in effetti sento dei suoni che possono darmi ad intendere qualcosa del genere – rumori ovattati, stoffa che striscia contro altra stoffa, gli anelli di Bill che continuano inesorabilmente a tintinnare – e mi sporgo per affacciarmi alla porta, giusto per capire esattamente quanto tempo passerò ancora qua dentro.
D’altronde Chaku non può veramente decidere di scopare col proprio ragazzo. Non mentre ci sono io qui. No?
Schiudo l’uscio.
Ed è come quando senti rumori strani in camera da letto dei tuoi genitori e, quando vai a curiosare, vedi qualcosa che non capisci ma che, per qualche strano motivo, ti fa schifo e ti disturba nel profondo.
Io, quello che vedo, non lo capisco perfettamente. So cosa sta succedendo – Bill e Chakuza in piedi, schiacciati contro lo schienale del divano, che si divorano l’un l’altro con gli occhi talmente serrati da sembrare in trance – ma mi rifiuto di capirne il perché. E questo nonostante io sappia esattamente cosa è successo. Nonostante sia stato proprio io a dargli il via, anzi. In questo preciso istante, con loro negli occhi e il silenzio della casa a riempirmi le orecchie, non riesco a fare altro che chiedermi quando sia successo. Dove fossi io mentre succedeva tutto questo. Penso “in questo bagno sto chiuso da mezz’ora o da… quanti mesi?”, e vorrei prendermi a schiaffi da solo. Per essere stato tanto cretino da pensare che il fatto che loro stessero insieme potesse sfiorarmi senza toccarmi. O farmi del male.
Il loro non è un bacio ansioso e non è un bacio frettoloso. È un bacio umido e aperto, sensuale e lento, di quelli ai quali tieni, di quelli dei quali vuoi conservare il sapore. È una cosa rodata. È una cosa che fra me e Chakuza, nonostante i mesi – mesi interi, Dio – che abbiamo passato a scopare, non c’è mai stata. Bill gli tiene le mani sul petto e lo esplora con competenza, ne traccia gli angoli e le curve, si sofferma a torturarlo con le unghie. Chakuza lo stringe alla vita e se lo tira contro, lo fa con una prepotenza che mi fa salire il sangue alla testa, e Bill gli mugola fra le labbra ed il suo mugolio mi s’infila nelle orecchie e si ripete come un’eco.
Vedo Chakuza che si allontana un po’, prende aria e la lascia prendere a Bill. Il ragazzino è perso, non riapre gli occhi e respira lentamente, pesantemente, appoggiandosi un po’ a Chakuza e un po’ al divano. Solleva le braccia e si aggrappa al suo collo, le punte delle dita sfiorano la sommità del tatuaggio di Chakuza che esce in parte dalla canotta scollata.
- Non pensavo… - gli mormora sulle labbra, e Chakuza s’irrigidisce.
- Non vuoi? – chiede con una certa premura, stringendolo teneramente attorno ai fianchi.
Bill esita qualche secondo, mordicchiandosi l’interno di una guancia, e poi lo bacia ancora. È lì che Chakuza comincia a tirarlo verso la camera da letto. Ma non sembra affatto che lo tiri, in realtà, perché i piedi di Bill si muovono senza particolari problemi.
Io so che dovrei avere almeno la decenza di chiudermi qua dentro e non uscirne più – possibilmente affogarmi da qualche parte, perché non è proprio possibile che io sia qui in questo momento ed abbia visto tutto questo – ma non riesco. Apro la porta e la richiudo silenziosamente alle mie spalle, cammino a piedi nudi sul pavimento come un criminale – e un po’ mi ci sento – e mi accosto alla soglia della camera da letto.
Io non sto bene. Non ci sto con la testa.
Quello che resta del mio cervello esplode quando vedo Bill sedersi sul letto cercando il materasso a tentoni con una mano dietro di sé, incapace di staccarsi dalle labbra di Chakuza, che lo guida come può – poco e male, visto che tiene gli occhi chiusi, ma a loro sembra bastare.
Bill afferra la canottiera di Chakuza per l’orlo e la tira su – adesso è affamato, lo vedo anche io, adesso c’è la fretta di sentirselo addosso pelle contro pelle – e Chakuza ringhia qualcosa di indistinto, qualcosa che fa mugolare Bill. I mugolii di Bill mi spaventano a morte. Il ragazzino è proprio perso.
Chakuza gli si stringe contro con una passionalità che mi sconvolge. Come volesse inglobarlo e tenerselo dentro. E lì penso che sono innamorati. Che sto guardando due innamorati che fanno l’amore. Sono un innamorato e sto guardando due innamorati che fanno l’amore. E non so quale delle tre cose sia la più sbagliata. Fanno male tutte, in un modo o nell’altro.
Il resto non ho veramente voglia di guardarlo. Mi nascondo dietro lo stipite e fisso gli occhi sulla parete vuota di fronte a me. Vorrei diventare un pezzo di arredamento. Ma non lo sono, posso sentire tutto e forse è meglio così, perché sento e immagino. L’immaginazione non è fisica quanto la realtà. E quindi io immagino Bill che gli si struscia addosso, immagino Chakuza che s’insinua fra le sue cosce, sento Bill trattenere il respiro e rilasciarne poi uno spezzato e sofferente. I fruscii delle lenzuola. E i respiri mozzati di Bill che diventano ansiti incerti, via via sempre più convinti. E so che Chakuza è dentro di lui e so che Bill lo voleva e so che stanno godendo insieme. Lo sento nelle loro voci, negli ansiti che rilasciano, nello schiocco dei baci che mi rimbomba nelle orecchie – e non riuscirò più a liberarmene, lo so.
I loro corpi battono l’uno contro l’altro e fanno un rumore che ricorda quello degli schiaffi.
Bill viene sospirando. Chakuza quasi in silenzio, soffocandosi contro la sua pelle. Lo schiocco dei baci è sempre lì e non va via, ma non so se si stanno baciando ancora o lo sento solo io.
Comunque si disincastrano – scivolano contro le lenzuola e se le tirano un po’ dietro, sudati come sono – solo per incastrarsi nuovamente due secondi dopo, mentre cercano di ridare un ritmo al loro respiro. Gli anelli di Bill tintinnano ancora mentre le sue mani scivolano addosso a Chakuza.
Non so quanto tempo è passato, quando sento Bill mugolare che non vuole andare via. E questo mi ferisce più di tutto il resto, ed ho quasi voglia di prendere e andarmene senza pensarci un secondo di più.
Chakuza ride e nella sua risata c’è soddisfazione. Ed io mi chiedo se ho la pistola nei pantaloni. Ma devo stare calmo. Devo stare assolutamente calmo.
- Devi andare. – gli ricorda pacato, - Ti aspettano.
Bill annuisce stancamente – mi sporgo di nuovo a spiarli sperando di non essere visto – e fa per alzarsi.
- Poi torno. – annuncia timidamente, e Chakuza sorride ancora. È il sorriso del salvatore della giornata. Era mio, fino a un’ora fa.
Si aggira per la stanza recuperando i vestiti. Solleva lo sguardo sull’armadio.
- E questo che ci fa qui?
Ed io vedo Chakuza trasfigurare. Non so se avere paura o sentirmi irrazionalmente e crudelmente felice. Il suo sguardo saetta per la camera e incontra la mia maglietta che è ancora lì sul letto a due centimetri dal suo corpo. Ci hanno praticamente scopato sopra. Dovrò andare via con addosso il loro odore, perché non posso farmi prestare qualcosa di Chakuza, non posso andare via con addosso un odore che è il suo e solo il suo.
- L’ho… spostato. – spiega brevemente.
Bill ridacchia.
- E perché?
Chakuza abbassa lo sguardo.
- …il sole illumina meglio la stanza, così.
Il ragazzino si guarda un po’ intorno, dubbioso.
- Ma ne sei sicuro? – chiede soprappensiero. Poi scrolla le spalle, - È un po’ ingombrante qui, comunque. – butta lì come un commento casuale. Si riveste e si china a baciarlo lievemente sulle labbra, prima di allontanarsi da lui.
Riprendo facoltà di muovermi. Mi costringo a farlo. Mi nascondo in bagno appena un attimo prima che Bill esca in corridoio. Stringo con forza il lavandino fra le mani – la ceramica fredda oppone una strenua resistenza contro i miei polpastrelli, e io stringo fino a farmi male e sentirla scricchiolare sotto i palmi.
Chakuza sta battendo alla porta del bagno un attimo dopo che la porta s’è richiusa dietro alle spalle magre di Bill.
- Sei ancora lì, vero? – chiede attraverso il legno.
Io respiro – ci provo, almeno – prima di rispondere.
- Sì, sto uscendo! – lo rassicuro, - Ho perso un po’ di tempo, scusa. Tanto l’appuntamento con Sido è fra mezz’ora!
Mi rivesto ed abbandono l’accappatoio sul mobile. Quando esco dal bagno, Chakuza è appoggiato al muro e posso leggergli in viso così chiaramente che si sente una merda che, anche se non avessi visto nulla, comincerei a sospettare.
- Ho dimenticato la maglietta da te.
Lui la solleva, stringendola in una mano.
- Grazie. – annuisco stringendola con la mia. Per un secondo lui non la lascia andare. Ridacchio. – Guarda che devo mettermela. – solo allora molla la presa.
- Senti, ci vediamo più tardi? – chiede con una certa urgenza, mentre io infilo la maglietta e mi dirigo verso la porta.
Vorrei urlargli che più tardi torna Bill. Che io in questa casa non dovrei mai più metterci nemmeno un piede.
- Magari, sì. – dico distrattamente. La maglietta sa davvero di loro. Mi toccherà chiamare Sido e dirgli che ritarderò una mezz’ora, perché devo per forza tornare a casa e indossarne un’altra. – Poi ci sentiamo.
Poi non so cosa succede, perché non ho il tempo di accorgermene. Non ho il tempo di osservare l’espressione di Chakuza cambiare, o di notare la luce nei suoi occhi farsi più intensa. So solo che mi blocca sulla porta e mi bacia di prepotenza. Non riesco a realizzare subito, sento solo la pressione. Non chiudo gli occhi, i suoi sono serrati.
- Ehi, ehi… - mi allontano con una mezza risata, scivolandogli via fra le braccia, - Cos’era? – mi viene da vomitare.
Chakuza distoglie lo sguardo.
- Ci vediamo più tardi, per favore? – dice semplicemente, ed io annuisco perché non trovo nulla di meglio da fare.
Esco da quell’appartamento e mi sembra di ricominciare finalmente a respirare. Appena arrivo alle scale, sento il primo soprammobile cadere. Chakuza sta distruggendo casa. Di nuovo. Mi toccherà accompagnare lui e Bill all’IKEA domani o dopodomani. Seguiranno scene deliranti delle quali non potrò fare a meno di ridere, perché ogni volta che Chaku distrugge casa Bill si mette in testa di riarredargliela, ma alla fine Chaku è cocciuto e compra sempre le stesse cose, dice che ci si è abituato.
Tornare indietro e fermarlo non è un’opzione contemplabile. Ma mi sa che passo il giro di compere, stavolta.
*
Sbatto di schiena contro la parete e per un secondo tutto ciò che riesco a sentire è un dolore lancinante un po’ ovunque su tutto il corpo. Parte dalla testa e si diffonde sulla nuca e lungo la spina dorsale, e da lì viaggia attraverso i nervi fino a quando ogni singola parte del mio fottuto corpo non sta soffrendo. Per un attimo penso che mi sta bene, perché cazzo, la situazione è quella che è ed io decisamente non dovrei essere qui adesso. Poi Chakuza mi si spinge contro ed io sento il suo cazzo battere contro il mio attraverso i vestiti e mi esplode il cervello. Così, boom, tutto bianco.
Lo afferro per le spalle e lo tiro lontano da me. M’è esploso il cervello e non dovrei poter pensare, ma in realtà è un attimo e dura niente, il momento dopo non c’è più bianco, ci siamo solo io e lui pressati contro un muro in una camera da letto buia con un armadio fuori posto e la serranda abbassata.
Otto, nove ore fa al massimo, stavo oltre quella porta e lo spiavo mentre scopava con Bill. Bill Kaulitz. Il ragazzino di Bushido.
Da allora, ho passato la giornata a cercare di capire come sia stato possibile ridursi a questo modo, partendo dai presupposti dai quali siamo partiti noi. Non è facile venire a capo di cose simili, soprattutto quando all’improvviso ti rendi conto che ti sei rovinato la vita quasi da solo. Avrei potuto evitare di spingerli l’uno fra le braccia dell’altro, e d’accordo, avrei avuto un ragazzino triste ed un Chakuza infelice, ma magari avrei ancora potuto dire di possedere qualcosa di mio. Sarebbe stata un’illusione stupida – Chakuza non è mio, non lo è mai stato, probabilmente non lo sarà mai – ma almeno sarebbe stato qualcosa, Dio.
È buffo che mi venga in mente solo adesso che una situazione simile è stata la prima dannata cosa che ho pensato quando sono entrato per la prima volta in questa casa. Chakuza mi aveva appena pestato a sangue, io avevo appena finito di raccontare la mia versione dei fatti e mi spunta il ragazzino tutto arruffato in palese rintontimento da sonno, ed io penso “cazzo, c’ha messo poco a dimenticarsi del morto. Come si chiama, passaggio del testimone?”. Ma è stato un pensiero fugace, poi l’ho capito – me l’ha fatto capire il ceffone di Bill – che non era niente del genere.
E però, ora che Chakuza forza la mia spinta e mi bacia con violenza, non riesco a fare a meno di pensare che forse in realtà la cosa era esattamente come l’avevo capita io. Solo che questi due ancora non lo sapevano.
- Chakuza. – faccio per chiamarlo, ma lui grugnisce e ritorna a schiacciarmisi contro. Si sente fottutamente in colpa, ed io ne sono felice; non intende parlare – di questo sono meno felice; quanto alla sua intenzione di scoparmi stanotte, non so che pensare. Lancio un’occhiata all’orologio a muro: sono le otto. Bill non aveva detto che sarebbe tornato? – Chakuza! – lo chiamo con più insistenza, e lui si separa da me e poggia la fronte contro la mia, tenendo gli occhi chiusi e sospirando pesantemente. È una cosa che fa sempre, o almeno, la fa quando cerco di fermarlo. È capitato spessissimo nove mesi fa ed aveva smesso di capitare negli ultimi mesi solo perché lui aveva smesso di provarci, per ovvi motivi. Non so se gli dispiaccia sentirsi dire no in generale o sentirselo dire da me.
- Cosa…? – chiede senza aprire gli occhi. È così vicino che sporgendomi un po’ potrei sfiorarlo senza problemi. Forse sarebbe meglio, almeno sarebbe una procedura brevettata, io che lo bacio, lui che mi afferra e mi rovescia sul letto e così via.
- Che stiamo facendo? – chiedo invece, senza muovermi di un millimetro, tenendo lo sguardo fisso sui suoi lineamenti tesi.
Lui si lascia andare ad un sorrisino frustrato. È a disagio.
- Devo spiegartelo con le diapositive? – scherza scendendo ad afferrarmi per i fianchi e trascinandomi verso di sé. I nostri bacini collidono ed io vedo di nuovo bianco. E poi torno di nuovo in me.
Realizzo d’improvviso che sono almeno… oddio, non lo so. Sei mesi circa, che non scopiamo. Sei mesi, forse di più. Dannatamente di più.
- Credevo fosse… passata. – butto lì in un sussurro, perché non saprei come altro metterla. Non c’era niente, in realtà. Sei mesi fa – di più, decisamente di più. Fanno nove mesi, mi sa. Nove mesi sono un’eternità – lui mi ha preso e mi ha scopato su un fottuto tappeto sul quale ora c’è il mio sangue. Almeno credo, il tappeto è sparito. Dopodiché abbiamo continuato a – non lo so. Cos’era? Affogavamo frustrazione? – insomma, per un mesetto circa. Poi la storia s’è conclusa, Bill ha fatto fuori Saad, la Vendetta di Bushido è stata compiuta ed io questo letto non l’ho più visto se non passandoci davanti per sbaglio.
Credevo fossimo tornati solo amici. Per quanto assurdo possa essere questo modo di mettere la questione – amici non lo siamo mai stati. Alleati, compagni, colleghi?, non so, decisamente non amici – credevo che Bill avesse risolto la nostra questione.
Chakuza mi scivola addosso con la punta del naso, disegna tutto il profilo della mia mascella e poi sale a sfiorarmi le labbra con le proprie. Sono delicatezze che nove mesi fa non esistevano neanche per ipotesi. Sono cose nuove, fanno parte di un modo completamente diverso di vedere la situazione. Sono cose che con me non ha mai fatto e so esattamente da chi le ha imparate. Ho la pistola nella tasca posteriore dei jeans e sono così eccitato che questi fottuti pantaloni sembrano stretti da morire. Schiacciato come sono contro il muro, il revolver mi pressa contro la schiena come volesse ricordarmi che esiste e posso usarlo.
È già la seconda volta oggi che vorrei ammazzare Chakuza per gelosia.
C’è qualcosa che non va in me.
- Mi sei mancato. – confessa in un sospiro.
Bianco. Bianco bianchissimo. Se continua così non capirò più niente, e però non è normale che non debba neanche più pressarmisi contro, per farmi andare fuori di testa. Non è normale che gli bastino un respiro e tre parole.
Sollevo le braccia e lo sfioro attraverso la maglietta. Lui mugola e si ripiega sul mio collo, lo sfiora con le labbra ma non fa altro. Per un attimo, oggi, mentre spostavamo l’armadio, sono stato felice. Io, cazzo, sono completamente uscito pazzo per quest’uomo. Lui no, ma poter passare del tempo insieme anche senza scopare era bello.
Ma lui si scopa il ragazzino. E ora vuole scoparsi anche me. Ed io continuo a ripetermi che è uno stronzo ma so che non è vero, Chakuza non è uno stronzo, non lo è mai stato, però cazzo. Cazzo, Chakuza.
E ciò che è peggio – io lo voglio. Io lo voglio, fanculo, lo voglio. È mancato anche a me, Dio, mi è mancata la forma dei suoi pettorali pressata contro la mia schiena, mi è mancato aggrapparmi alla sua vita mentre cercavamo una superficie sulla quale lasciarci andare, mi è mancata la sua bocca e mi è mancata la sua lingua, mi sono mancati i suoi denti e queste spalle assurdamente imponenti, che chiamano per dirti “appoggiati, tanto finché ci sono io non cadi”.
Le mie mani arrivano fino al suo collo e lì si abbandonano, rimanendo immobili.
Lo sto abbracciando. Dovrei sentirmi fuori posto. Chakuza solleva le braccia e mi stringe a propria volta. Sono a postissimo.
- Fler… - mi chiama, e si ferma. Non vuoi dirmelo, Chaku. Non dirmelo. - …mi dispiace. – non è vero. – Ci siamo un po’ allontanati, noi, ma… non volevo che accadesse. – sono bugie. Al ragazzino non le dici, ci scommetto. L’unica cosa che gli tieni nascosta siamo noi. Ma noi non siamo niente, quindi va bene. – Sono contento di-
Gli tappo la bocca nell’unico modo che so essere risolutivo, perché mi fa male sentirlo parlare così. Lo fa sembrare sincero. Io voglio credere che sia sincero. E allo stesso tempo non voglio. Ma se continuo ad ascoltarlo impazzirò del tutto, e non posso permettermi di impazzire. Forse avrei potuto permettermelo mesi fa, quando tutto quello che Chakuza voleva era proteggere il ragazzino e scopare con me. Ora Chakuza vuole scopare col ragazzino e proteggere me.
Ma io non ho bisogno di protezione. Anis mi ha insegnato a difendermi da solo. Me l’ha insegnato prima di diventare Bushido, prima di andarsene, prima di morire e lasciarci tutti nella merda. Ci sono cose che non dimenticherò mai – la prima tag, la prima volta in galera, la prima consegna da spacciatore, la prima scopata – e fra queste cose c’è Anis che, nel mezzo di un assalto così pieno di coltelli da farmi venire le lacrime agli occhi dalla paura, trova il tempo di lanciarmi un’occhiata sarcastica e ringhiare “Difenditi, Frank, o New York non ce l’avrà mai, il suo King”.
Ricordo le imprecazioni dei nostri avversari, la risata brillante di Anis, perfino la mia – divertita e sincera, nonostante la situazione. E ricordo il coltello che affonda nel fianco del fottuto stronzo che mi voleva morto perché pretendevo ci pagasse la merda che gli avevamo venduto.
Io so difendermi.
Io sono forte.
Mi separo da lui e lui grugnisce scontento, perché immagino abbia pensato che il mio bacio sarebbe stato solo il preludio al resto del nostro brevettatissimo rituale di riavvicinamento. Ma niente, Chakuza, non adesso, non per ora, non col ragazzino di mezzo, assolutamente no.
- Dormo a casa mia, stanotte. – dico con decisione, spingendolo via senza fretta, delicatamente. Non voglio che si senta rifiutato su tutta la linea. Voglio solo che sia chiaro che non mi scoperà.
Mi guarda come se l’avessi appena pugnalato alle spalle.
- Non resti…? – chiede, ha l’aria persa, gli occhi liquidi, brillano nel buio perché sono troppo luminosi per non farlo.
Scuoto il capo.
- È meglio così. – lo rassicuro con una pacca sulla spalla.
L’orologio segna quasi le nove. Non capisco se Chakuza abbia dimenticato la promessa di Bill, o se l’abbia sentito nel pomeriggio ed abbiano deciso di non vedersi, alla fine. Comincio un po’ a pentirmi della mia decisione di andarmene, perché lui continua a fissarmi come se lo stessi tradendo e mi sono sentito dare ingiustamente del traditore per tanti di quegli anni che ormai penso di essere condannato a sentirmi male ogni volta che anche solo penso la parola.
- Ci vediamo domani? – chiede lui, arrendendosi e lasciandomi passare. Quando nella mia testa si forma un ringhio rabbioso che dice esattamente “perché non mi fermi?”, scuoto il capo per scacciare i pensieri. Lui lo prende per un no. – Non vuoi più vedermi? Cazzo, Fler-
- No, no! – mi affretto a rassicurarlo, cercando di sorridere, - Sì, ci vediamo domani. Ho da fare all’Aggro ma quando finisco passo per l’Ersguterjunge, così se sei libero mangiamo un panino insieme.
Annuisce. Non è convinto. Si sente ancora in colpa, non gli ho dato modo di fare ammenda come avrebbe voluto.
Realizzo che nella sua testa la situazione è molto più semplice di quanto non sia nella mia. Si sente in colpa solo perché ha scopato con Bill mentre io ero qui, non perché sa che ho visto. Io, invece, sto male proprio perché ho visto. Per questo motivo penso che potrebbe scusarsi in tutti i modi del mondo e la cosa non avrebbe il minimo effetto, su di me: non si starebbe scusando per la ragione giusta, in ogni caso.
- Buonanotte. – dico a bassa voce, dandogli un’altra pacca sulla spalla.
Lui mi afferra per un polso. Non mi lascia andare.
- Sicuro che non vuoi restare a dormire? Anche sulla poltrona. È tardi.
Non è affatto tardi, ovviamente. Le nove non sono “tardi” neanche se hai dodici anni, figurarsi. Mi guardo intorno e vedo che gli effetti della devastazione di stamattina sono ancora visibili sul pavimento e sui mobili ingombri di roba rovesciata. Sembra abbia dato una sistemata, ma è ancora tutto un casino, il che vuol dire che prima di rassettare qui doveva davvero somigliare tantissimo al caos primordiale.
Non so. Se vado via, domattina questo palazzo sarà ancora in piedi?
Decido che non mi importa. È una bugia, ma per stanotte va bene così.
- Ci vediamo domani, Chakuza. – concludo. Sono fuori dalla porta appena in tempo per risparmiarmi la vista di un lume del comodino che si schianta contro il pavimento.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill, David/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo."
Note: …*risata malefica in dissolvenza*
Ed io tendenzialmente il mio lavoro l’ho concluso *indica la risata* ma a questo punto vi aggiungo anche che “La sospensione dell'incredulità è un particolare carattere semiotico che consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un'opera di fantasia”. A mio modesto parere (mio di liz) questa storia non è incongruente. Se avrete la bontà di aspettare, tutto sarà spiegato. Ma Tab ci tiene perché è paranoica *annuisce* E comunque è un concetto che piace molto anche a me, quello della sospensione d’incredulità, perciò, ecco, sospendetevi :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo.

SCHMETTERLINGSEFFEKT

C’è il sole, oggi. È una bella giornata, bella davvero, di quelle che poi da queste parti sono rare, perché il cielo di Berlino è quasi sempre una macchia grigia uniforme che ti dà l’impressione di essere un blocco di cemento. Ti sembra pesante allo stesso modo, almeno, ti sembra che a lasciartela cadere sulla testa ti schiaccerebbe a morte.
Dentro l’Audi nera d’ordinanza che mi è stata esplicitamente richiesta per mantenere il più possibile l’anonimato, io guardo il cielo di oggi – che non è grigio, ma di un bel celeste arioso e fresco – e penso che sto andando a tirarlo giù. Lo sto facendo consapevolmente e colpevolmente. Ed anche se, col cemento, quest’azzurro non c’entra niente, penso che, quando ci cadrà in testa, sarà pesante comunque.
Mi chiedo se Bill sia diventato forte abbastanza da reggere il colpo. Mi chiedo se sia maturato abbastanza, se le sue spalle si siano inspessite, se le sue gambe siano diventate più robuste, le sue braccia più salde. Me lo chiedo e lo rivedo come l’ho visto due giorni fa, prima che Chakuza lo caricasse in macchina per portarlo a Disneyland. Lo vedo piccolo e sottile e stupidamente felice come ha reimparato ad essere solo di recente. E realizzo che potrebbero passare anche anni, ma un colpo simile Bill non riuscirebbe a sostenerlo proprio mai.
*
Osservare le cose dall’esterno, in questi ultimi mesi, è stato come osservare delle piante ricrescere in giardino dopo l’inverno. Tra l’altro, il paragone è più che appropriato – suppongo che le metafore azzeccate siano ciò che mi resta in eredità dei Bed&Breakfast e degli aiuti a Bill quando ancora si rivolgeva a me se doveva scrivere una canzone – perché intorno a dicembre io mi sono guardato intorno e, proprio come un giardiniere, ho portato con desolazione le mani ai capelli e mi sono detto che, come niente, avrei perso tutto il roseto.
I problemi sono cominciati la notte – o meglio, l’alba – in cui Tom, strillando come una scimmia isterica, mi ha chiamato al telefono, implorandomi di andare subito a casa sua, perché Bill “palesemente s’era rincoglionito e lui aveva bisogno di una mano per tirarlo fuori dal pantano di merda in cui era caduto”.
Tom tende ad iperreagire, quando si tratta di suo fratello, questo c’è da dirlo. Basta toccarglielo e lui impazzisce. Gli ho visto fare delle cose assurde – investire la discografia di Bushido non è stata neanche la più allucinante; per dire, sono stato io ad applicare cerotti su cerotti su quella sua allucinante faccia da schiaffi, quando è tornato una notte alle quattro abbaiando che “quelli non erano rapper ma animali”. Alla mia domanda legittima – “Cosa hai fatto per meritare le botte, Tom?” – lui ha risposto altrettanto legittimamente – “Ho dato a Bushido del pedofilo” – e, a quel punto, sono stato io ad abbaiare “tu non sei un chitarrista, sei un microcefalo”. Questo per dire che, quando entra in conto Bill, Tom smette di ragionare e segue il flusso dell’amore indiscusso che prova per lui. Solo che è un cretino, quindi come si muove sbaglia.
In ogni caso, questa tendenza all’esagerazione di Tom mi ha portato a prendere sottogamba la questione. Voglio dire, io dormivo, quando lui ha chiamato. Per cominciare a ragionare con un minimo di senso, a me serve del caffè. E non ho mai del caffè in casa prima delle sette, perché per preparare del caffè devo prima alzarmi dal letto, naturalmente, e ciò non avviene quasi mai prima di quell’orario, a meno di casi straordinari. Quindi, in poche parole, ho cercato di calmarlo e rimandarlo a nanna – sperando che ci fosse stato, a nanna, almeno per qualche ora.
Il problema – enorme – di Tom è che, quando sragiona, si fissa. Non ne esce più. Ha odiato Bushido per anni, cominciando vagamente ad accettare l’idea della sua presenza – e più con rassegnazione che con piacere – solo qualche mese prima che morisse, per dire. E tutt’ora prova dell’antipatia palese per Chakuza, nonostante non sappia cosa c’è in realtà fra lui e suo fratello, perché a suo dire è troppo presente nella vita di Bill. E, ripeto, Tom non ha idea dei modi e delle misure in cui Chakuza è presente nella vita di Bill. Non sa che la vita di Bill è ancora una vita e non un insieme di vuoti solo perché Chakuza li riempie tutti. Non sa che c’è lui dietro ad ogni sorriso, ad ogni occhiata dolce, ad ogni gesto tenero di suo fratello. Non sa che Bill ha ricominciato a respirare davvero solo perché ora può farlo anche dalle sue labbra. E, pur non sapendo tutte queste cose, lo malsopporta.
Tom si è fissato anche quella notte. Mattina. Insomma. Non c’è stato verso di scollarlo dal telefono, perciò alla fine mi sono rassegnato, mi sono vestito, ho mandato giù del latte di soia nella speranza che risvegliare il mio apparato digerente servisse anche a risvegliare il resto del mio corpo e mi sono messo in macchina, alla volta dell’appartamento del mio angosciato chitarrista.
All’arrivo, Tom mi ha accolto con aria tesa. In genere, quando sclera, Tom è molto buffo, perché si agita tanto, strilla e strepita. Se ritiene tu non stia capendo abbastanza profondamente il motivo del suo sgomento, ti scuote per le spalle. Come se servisse a qualcosa. Quella mattina, invece, me lo sono ritrovato che mi fissava serio, le sopracciglia aggrottate, tutto intento a torturare coi denti il labbro inferiore, fino a screpolarlo.
“Sono sconvolto,” mi ha detto, mentre mi invitava ad entrare ed a chiudermi la porta alle spalle.
“Sì, lo vedo,” ho risposto io, appendendo la giacca all’attaccapanni e sbirciando lungo il corridoio verso l’unica luce che vedessi, e che proveniva dal salotto, “Qual è il problema?”
Tom ha esitato, prima di rispondere. Ha deviato un po’ lo sguardo verso un punto vuoto oltre le mie spalle, e poi è tornato a guardarmi fisso ed ha schiuso le labbra.
“Che Bill non lo è. Non è sconvolto. È questo, il problema.”
In realtà, questo era parte del problema. Io sono abituato a guardarli tutti in faccia e nel complesso, i drammi. Il mio mestiere è sbrogliarli. Risolverli. Fare in modo che tutto si concluda bene. E sono bravo a farlo – è questa la ragione per cui mi trovo oggi in questa posizione del cazzo. Tom no, Tom del problema vede solo quello che gli interessa. Come quando suo fratello è stato male e ciò ci ha costretti a cancellare un tour; per Tom, l’unica cosa importante era il dolore di Bill, non il dramma economico e pubblicitario che da quelle cancellazioni sarebbe derivato. In quel caso, fu la stessa cosa.
Suo fratello aveva ucciso Saad. Saad era l’uomo che aveva ucciso Bushido. Fler e Chakuza gli erano rimasti accanto per tutto il tempo e non avevano mosso un dito che fosse uno per fermarlo. Questo era il problema nella sua completezza. Ovviamente, però, a Tom interessava solo che suo fratello non fosse turbato quanto sarebbe stato giusto dall’aver premuto il grilletto e spedito un proiettile nel mezzo della fronte di un altro essere umano.
L’apatia di Bill – se poi di apatia si poteva parlare; io, per dire, l’avrei descritta più come serena accettazione – non era dunque tutto il problema. Ne era però una consistente parte, e questo era abbastanza chiaro. Io, Bill, lo trovai seduto sul divano che guardava fisso davanti a sé senza particolare interesse, come stesse guardando scorrere l’acqua di un fiume. Pure un po’ annoiato, per la verità.
Quando mi raccontò cos’era successo – ripetendo le stesse parole che aveva già detto al fratello, immagino, perché sembravano rodate. Di quei discorsi che vengono fuori dopo che te li sei ripassati mentalmente almeno una ventina di volte – lo fece con incredibile calma. Con enorme compostezza. Le mani rigide strette in grembo, le ginocchia che si sfioravano, il petto scosso appena dai respiri. Sul volto, un sorriso rassicurante e serafico che mi diede i brividi. Me li dà ancora, a ripensarci.
Bill non ha omesso niente, nel racconto. Tant’è che quando, per scrupolo, sono andato da Fler a chiedergli la sua versione dei fatti – anche per capire cosa ne avessero fatto del corpo. Ed è incredibile con quanta freddezza si possa arrivare a pensare, quando hai già visto un altro uomo morire – non l’ho trovata differente nemmeno in un punto.
Bill non ha cominciato ad avere un problema quel giorno. Bill ha cominciato ad avere un problema quando il suo problema principale è svanito.
Durante i mesi precedenti all’assassinio di Saad, Bill aveva vissuto con l’unico obiettivo di mettere il punto a quella storia. Voleva essere lui a farlo perché lo sentiva come un suo diritto. Anzi: perché Bushido gli aveva dato quel diritto. L’aveva fatto portandoselo a letto, dicendogli di amarlo, rendendolo una parte tutt’altro che ininfluente della propria esistenza. Facendolo suo, in pratica. Bill, quel diritto, l’aveva per concessione regale, per dirla con parole che a Bushido farebbero anche un gran piacere. Non credo che Bill pensasse di farlo fuori fin dall’inizio, eh. Penso però che volesse essere lui a trovare il modo in cui concludere la storia. E penso che, quando ha guardato Saad negli occhi – forse anche prima, forse anche solo pensando a come si sarebbe sentito guardando Saad negli occhi – abbia deciso che quello andasse bene. Che un proiettile fosse sufficiente.
Risolta la questione, Bill ha cominciato ad appassire. È una cosa piuttosto normale, credo: il fiore ha un fine. Il fine del fiore è il frutto. Il fiore muore, appena il frutto nasce.
Cosa sia successo fra Bill e Chakuza, io non lo saprò mai con certezza. Bill non ne parla volentieri. Neanche con me, pure se ha dovuto per forza informarmi almeno in parte di ciò che stava succedendo, visto che – come sempre – a me è toccato coprirlo. Con suo fratello, con la stampa, col mondo, sostanzialmente. Mi è sembrato di ripetere l’esperienza Bushido, per certi versi. Quasi avrei voluto dire a Bill “l’hai visto, com’è andata la prima volta. Allora?”.
Bill non parla di Chakuza perché Bill ha un modo molto intenso di vivere le storie d’amore, quando iniziano. Visto che è una testa dura e si caccia sempre in situazioni complicate, è naturale che poi abbia paura di distruggere tutto e vedere il frutto della propria fatica spargersi sul tavolo come un castello di carte abbattuto da un soffio. “Meno ne parlo”, pensa, “più facile sarà che resti tutto in piedi”. Quindi, anche se io so dove va a dormire, e con chi esce, e con chi scappa a Disneyland, e di chi sono i segni rossi che ha sul collo quando arriva agli studi brillando di luce propria, non saprò mai nel dettaglio com’è che i fatti si sono svolti. Come si siano mossi. Quando abbiano cominciato.
Per certi versi, è molto meglio così. Perché sono bravo a coprire le cose, ma ci sono persone alle quali non riesco a nascondere quasi niente.
Purtroppo, da un annetto a questa parte, lavoro alle dirette dipendenze di una di queste.
*
Fatto sta: Bill e Chakuza stanno insieme, e per quanto io abbia svariati milioni di motivi per pensare questo sia l’errore del secolo, per quanto io continui intimamente a credere che probabilmente avrei dovuto recuperare Bill per i capelli e riportarlo dalla parte giusta della Germania quando Bushido è morto, devo purtroppo ammettere che Bill non sarebbe qui – bello, in salute, possibilmente neanche vivo – se non ci fosse stato Chakuza. La tensione che ha tenuto Bill insieme quando Chakuza non c’era era la furia con la quale lui cercava di sfuggire a ciò che stava provando nei suoi confronti. Quando quella tensione si è sciolta – quando Bill ha smesso di fuggire – si sarebbe certamente disfatto, se a quel punto non ci fosse stata una forza di tutt’altro tipo a tenerlo insieme. La forza di tutt’altro tipo, nel caso di specie, è quella delle braccia di Chakuza. Delle sue spalle, della sua strana, complicata maturità e di quello che prova per Bill.
Chakuza, Dio mio, lo adora. Anche Bushido lo adorava, ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso, nei loro sguardi, che è evidente se solo li si sa guardare. Bushido guardava Bill come fosse una cosa propria, quasi un pezzo di corpo. I suoi occhi riflettevano un senso di appartenenza che rendeva Bill orgoglioso.
Chakuza, invece, lo guarda come se fosse un regalo. Qualcosa di totalmente inaspettato, che è nuovo ogni volta che cambia la luce, il giorno, l’angolazione o la prospettiva. Qualcosa di diverso che non riesce ancora a capire perfettamente e che, anche per questo, lo avvince. I suoi occhi riflettono un senso di gratitudine che rende Bill orgoglioso. Ancora. Credo che Bill abbia pensato che non avrebbe mai più provato niente del genere. Ed invece è capitato di nuovo. È per questo che Bill guarda Chakuza con la stessa gratitudine con la quale viene osservato.
Per certi versi, ciò che lega loro due è molto più maturo di ciò che un tempo ha legato Bill a Bushido.
Questa sarebbe una cosa bellissima. Se solo io oggi non fossi in questa dannata Audi nera di merda. Direzione aeroporto.
*
Bushido era un uomo molto organizzato. Il fatto che, generalmente, si comportasse come un cretino – divertendosi a tirare scemo chiunque, per esempio – mi ha spesso fatto perdere di vista la verità fondamentale per la quale, per fare il suo mestiere e gestirsi adeguatamente, uno debba per forza esserlo.
Il mestiere di Bushido… è complicato definirlo. Bushido era un cantante. Fin qui, tutto chiaro. Bushido era anche un personaggio pubblico, e questo faceva mestiere a sé indipendentemente anche dal canto. Era famoso perché cantava, ma non era rimasto famoso solo perché aveva cantato. Mantenere un’immagine pubblica che ti tenga di continuo sulla cresta dell’onda non dipende solo da quanti biglietti riesci a vendere in occasione di un concerto, o da quanti dischi d’oro riesci a piazzare appesi alle pareti dei tuoi studi. Serve altro, servono le sbruffonate, l’iperpresenza sugli schermi – di qualsiasi tipo – serve del fascino e serve saperlo usare. Bushido, in tutto questo, è sempre stato bravissimo. Suppongo fosse così perché s’è sempre gestito da solo, fin da piccolo. Errori su errori, a un certo punto impari.
In aggiunta a tutto questo, l’altro mestiere di Bushido – un lavoro a tempo pieno – era quello di non perdere contatto con le proprie origini. Quando vivi in un bel quartiere residenziale, circondato da alberi rigogliosi, con una piccola piscina sul retro, Spongebob in televisione e World Of Warcraft sempre acceso sul pc, ci può anche stare che ogni tanto ti dimentichi di essere venuto da un ghetto, dallo spaccio e da tutto il resto.
Bushido non era un criminale.
Non più, almeno.
Ma c’era un pezzo di lui che era rimasto a Tempelhof. Era un pezzo di lui che aveva il suo valore. E che in caso di bisogno doveva farsi valere.
Quindi no, Bushido non era un criminale. Ma aveva ancora un nome che sapeva farsi rispettare, se qualcuno aveva bisogno di un favore.
Ed anche questi sono mestieri, suppongo.
È evidente, comunque, che quando devi gestire tre situazioni così diverse fra loro – devi cantare e devi essere un pagliaccio e devi anche ricevere all’Ersguterjunge gente che ti parla dei suoi problemi in stile Padrino, ecco cosa intendo – devi anche saperti organizzare. Devi essere uno che guarda piuttosto avanti nel futuro, uno che capisce come andranno le cose prima ancora che quelle comincino a muoversi in una determinata direzione. Perché non puoi permetterti di essere impreparato di fronte ai casi della vita, no, devi prevederli sempre e devi prevederli tutti.
Nella maggior parte dei casi, non puoi nemmeno farcela da solo. Anche se Bushido, ammetto, si destreggiava più che bene anche prima che arrivassi io.
Io non ho capito cosa Bushido intendesse esattamente quando mi ha chiesto se ero bravo a sistemare le cose, almeno fino a che non ho avuto qualcosa da sistemare per lui. E questo è successo tre giorni prima che morisse.
Tre giorni prima che morisse – prima ancora di andare da chiunque altro, sospetto – Bushido è venuto da me. Mi ha detto chi era, mi ha tenuto fermo in una kebaberia per circa tre ore solo per descrivermi da dove veniva, cosa c’era nella sua testa e, soprattutto, cosa stava preparandosi ad affrontare.
Dopodiché, senza nemmeno chiedermi se per caso mi andasse di farmi assumere da lui, ha cominciato a darmi direttive.
Non è che abbia dato per scontato il mio assenso, eh. Questo ci tengo a precisarlo, perché Bushido non ha mai dato per scontato nulla. Anzi, è probabilmente l’uomo che si aspetta di meno in assoluto, dalla vita. Direi quasi che non si aspetta proprio un bel niente. E tutto il suo modo di pensare, di agire e di risolvere le cose, si esprime così. Proprio perché non si aspetta nulla di gratuito, lui le cose se le prende. Il mio assenso – la mia complicità… quello che ora si esprime in me che viaggio verso l’aeroporto – lui non l’ha dato per scontato. Se l’è preso. Punto.
Insomma, gli ordini erano molto semplici: “nel caso dovessi morire – nel caso, Jost, non fare quella faccia, lo so che ti mancherei più di quanto potresti sopportare, ma cerca di essere uomo e forte” “Bushido, fottiti” “Oh! Come sei sboccato” una risata delle sue, “Nel caso dovessi morire, Jost, a Bill sto già pensando da adesso. Chakuza, uno dei miei, non è ancora nel giro come gli altri. Non che sia un pivello, è solo che la sua testa fa più resistenza. Sarà che è austriaco. Sarà che è un cuoco. Sarà che stava in fattoria coi genitori, tipo. Sarà che era biondo ossigenato, quando l’ho conosciuto” e giù altre risate, “Comunque a Bill penserà lui. Lo terrà su di morale. Ma non posso contare sul suo lavoro per tenerlo anche lontano dai guai con la stampa. Quello posso tranquillamente affidarlo a te – posso, vero? – tu le sai sistemare, queste cose”.
Al di là del suo essere come al solito un intollerabile buffone, si capiva lontano un miglio stesse parlando con estrema serietà. Questo per il semplice fatto che Bushido era un uomo molto orgoglioso. Non arrivava a chiedere niente, se non sapeva di averne effettivo bisogno. È uno dei motivi per cui, quando Bushido chiedeva, la gente non si tirava mai indietro. Perché ci si rendeva tutti immediatamente conto del fatto che c’era evidente necessità.
Quando, tre giorni dopo, Tom mi chiamò per dirmi che lo stronzo era morto, che Bill piangeva avvinghiato al suo dannato cadavere fino a pochi minuti prima e che adesso il corpo era in viaggio verso l’ospedale – “…l’ospedale, Tom?” “…sì. Era ancora… respirava. Poco. Ma respirava. A Bill non l’ho detto.” – io sono andato lì solo perché dovevo preparare l’ospedale all’arrivo del mio protetto. Era ciò che mi aveva chiesto Bushido, in fondo, no? E conoscevo Bill abbastanza da sapere che, una volta realizzato che il corpo del suo uomo non era più lì, non gli stava piangendo addosso e non lo stava sentendo sotto le mani, la prima cosa che avrebbe chiesto – e l’avrebbe anche ottenuta, perché Tom, alla fine, non riesce a negargli mai niente – sarebbe stato farsi portare dovunque fosse lui.
Dovevo disporre la sicurezza. Dovevo parlare coi medici. Dovevo parlare con le infermiere.
Di certo non mi aspettavo che, appena messo piede nell’edificio, un medico mi raggiungesse e, con aria piuttosto seria, mi rivelasse candidamente che “avevano avuto esplicita richiesta di conferire solo con me”.
A ripensarci, rivedo la scena con una perfezione tale che non sembrano passati nemmeno due giorni. E invece è quasi un anno. Il medico che mi si avvicina – “Il signor Jost?” – io che esito – “Sono qui perché-…” – lui che mi interrompe – “Abbiamo ricevuto esplicita richiesta di conferire solo con lei” – io che lo fisso disorientato – e penso: è arrivato fino a questo punto, quell’essere assurdo? È venuto a parlare perfino coi medici, in previsione della propria morte? – e lui che mi poggia una mano sulla spalla e mi conduce di là. E Bushido sul lettino.
Mentre i miei ricordi indugiano sul suo volto pallido e provato – Bushido aveva la capacità di diventare, tipo, bianco, quando stava male. Non un bianco da carnagione chiara, un bianco spaventoso, cadaverico. Appropriato, direi, vista la situazione in cui si trovava in quel momento – le porte a vetri smerigliate e scorrevoli della sala arrivi dell’aeroporto si spalancano, ed io osservo il flusso di turisti americani che sfilano allegramente fra i nastri trasportatori per recuperare i bagagli e godersi un po’ di sane vacanze europee; osservo anche i tedeschi che tornano dalle spiagge d’oltreoceano, arrossati dal sole e con certi sorrisi da pubblicità – non tanto per la perfezione, quanto per la felicità che mostrano – che ti riempiono il cuore; e fra una persona e l’altra, un po’ mescolato fra la folla, i capelli lunghi che sfiorano il collo, gli occhiali da sole a coprire quasi metà del viso ed il pizzetto curato a rendere anonima e irriconoscibile l’altra metà, osservo anche lui.
Si guarda intorno. Sta cercando me. Le linee nere e definite del tatuaggio sul collo spuntano appena, giocando a nascondino col colletto della camicia bianca che spunta dallo scollo a v del maglioncino di cotone blu che indossa. È, forse, un po’ troppo leggero per il periodo in cui siamo. È roba primaverile, mentre qui le porte dell’autunno si schiudono lasciando passare i primi spifferi di freddo. Immagino che i lunghi mesi di soggiorno a Miami abbiano un po’ sfasato il suo termostato naturale. Ed era già sfasato di suo, eh, capacissimo di andare in giro in maniche corte in pieno inverno. L’ho visto coi miei occhi.
Quando finalmente mi trova, sorride. Ed anche se al momento vorrei alternativamente prenderlo a cazzotti, rispedirlo negli Stati Uniti con un calcio o terminare il lavoro che Saad non è stato evidentemente capace di concludere, sorrido anch’io. Perché mi tira fuori uno di quei sorrisi brevettati ai quali non puoi sfuggire. Sono cose solo sue.
Peraltro…
- Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?
Bushido ride ad alta voce e posa l’enorme trolley rosso che si trascina alle spalle.
- Ti sono mancato, Jost? – chiede con aria fascinosa, piantando una mano sul fianco.
Io inarco un sopracciglio.
- Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro.
Lui finge disperazione ed inarca le sopracciglia verso il basso, sfilando gli occhiali da sole per potermi somministrare più disinvoltamente quella specie di occhiata da cucciolo bastonato che non so come riesca a tirare fuori all’occorrenza, dall’alto del suo abbondante metro e novanta.
- Ma mi hai fatto tornare tu! – si lamenta con aria affranta.
Io sospiro.
- Sì. – ammetto, - Ti ho chiamato io. – “e me ne sto già pentendo”, vorrei aggiungere. Ma lui ha ricominciato a sorridere. E insomma. – L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente.
- Sdrammatizzo, Jost. – mi corregge, riprendendo a muoversi disinvoltamente verso l’uscita. Ricorda ancora tutto perfettamente, un po’ mi fa pensare che sia venuto altre volte, nel corso dell’ultimo anno. Altrimenti non si spiega la sicurezza con la quale si riappropria degli ambienti. Poi però ricordo che lui è Bushido, che le cose non le vive, le possiede, perciò non mi pare più nemmeno tanto strano che ricordi ancora perfettamente Berlino-Schönefeld.
Io sospiro ancora e gli vado dietro. Non ho nemmeno bisogno di guidarlo verso la macchina, ricorda anche lei. Pure se l’ultima volta che l’ha vista è stata quando l’ho accompagnato proprio a questo aeroporto, un anno fa. L’altra volta era in partenza, però. Stavolta è di ritorno. E non so ancora per quanto.
- Allora. – comincia tranquillamente, aspettando che abbia aperto il portabagagli per posare al suo interno la valigia, - Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. – aggiunge con una risata naturale.
È cambiato, tanto per cominciare, che il Chaky non ti vuole solo chiudere l’azienda, ma si diverte anche a chiudere il tuo ex ragazzo nel proprio appartamento. Con la di lui complicità e per la sua gioia, peraltro. Gioia che condividono solo loro due, inoltre, perché in quei periodi Tom sclera – e sto finendo le scuse plausibili al riguardo, lo ammetto. Credo di aver raschiato il fondo con “è in beauty farm”, la settimana scorsa – ed io non me la passo mai in maniera piacevole, quando Tom sclera. C’è di nuovo anche che, ricordi l’altra tua ex? Cassandra? Ecco, quando Tom non è impegnato a sclerare perché non capisce con chi sta uscendo suo fratello, si vede con lei. E non credo giochino a scacchi, quando lo fanno. C’è poi quell’altro tuo ex ragazzo, quello che non è mai diventato tale, Patrick, lo ricordi lui? Ecco, lui me lo sto perdendo. Non credo di aver mai visto Fler triste com’è in questo periodo. Ed è un anno che ci gira intorno, sai? Non è bello quando vedi uno che sta decorosamente bene ridursi così. Ed i motivi, peraltro, sfuggono a tutti meno che a me, perché grazie a te – o per colpa tua – ho imparato ad osservare.
Sono cambiate un mucchio di cose, Bushido. Del tipo che prima si stava bene. E adesso è un casino. Ma come si fa a dirtelo?
- Be’, fa più freddo. – annuisco con aria competente, - Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?
Lui scrolla le spalle ed entra disinvoltamente in macchina.
- Non ho lasciato niente lì. – risponde sovrappensiero, quando mi osserva sedermi al posto del guidatore. Lo guardo con sincero sgomento. – Intendo… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-
- Bushido… - lo recupero dal vortice di pensieri assolutamente inopportuni in cui si sta allegramente gettando, - ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-
- Tranquillo, Jost. – mi interrompe con uno sbuffo infastidito, - Non ho intenzione di restare più del necessario.
Al che, giustamente, mi viene da rispondere “No, noi avevamo concordato che non saresti rimasto più di un mesetto, giusto il tempo di risolvere la questione. Com’è che adesso un mesetto è diventato il necessario? E perché il necessario mi fa paura, come periodo di tempo?”. Però non lo faccio.
- Sarà. – borbotto scontento, mettendo in moto. – Comunque sia-
- Non mi farò vedere da anima viva. – mi interrompe ancora, - Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?
- Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, - sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo, al momento. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo perché ricordo fin troppo bene che nove mesi fa le dita che adesso pestano sulla tastiera del cellulare, scrivendo messaggi diretti non so e non voglio sapere a chi, sfioravano la mia pelle. Non mi fa bene. Non mi fa bene per niente. Sono evidentemente un cretino. - …bentornato, ecco.
Bushido ride, non solleva gli occhi dal cellulare e mi molla un paio di pacche sulla spalla.
- Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu.
E se da un lato penso che, grazie a questa sfacciata naturalezza, per certi versi avere a che fare con lui è incredibilmente facile, dall’altro lato penso che lo odio. La mia giornata di oggi è un continuo realizzare che, da questa situazione, non riusciremo mai ad uscire vivi.
*
Ho appena lasciato Bushido in uno dei numerosi appartamenti che ha continuato a tenere qua a Berlino nonostante, quando è andato via, non si pensasse minimamente all’eventualità che potesse tornare. In realtà, il fatto che ci fossero ancora tutti questi appartamenti a suo nome, qui nei dintorni, avrebbe dovuto darmi da pensare in tal senso. Voglio dire, non tieni la zavorra inutile di dieci dannati posti vuoti, se non pensi che prima o poi tornerai a utilizzarli. Soprattutto, non li tieni quando sai che la tua etichetta è destinata a chiudere e sai anche perfettamente che, vendendo quelli, potresti tranquillamente sopravvivere di rendita per tutto il resto della tua esistenza. Quindi sì, in effetti avrei dovuto pensarci. O avrei dovuto costringerlo – convincerlo, Bushido non lo costringi mai – a venderli.
Gli ho promesso il kebab per cena. Quell’uomo, alle volte, è un bambino. Nel senso che se gli prende un capriccio, vallo a smuovere, poi. Non si può. Avrei potuto fargli la spesa e preparargli un buon piatto di pasta – dice di aver imparato a cucinare, mentre stava a Miami, ma che vuoi che si impari a cucinare in America? Gli hot dog? – ma lui no, lui vuole il suo intruglio malefico e disgustosamente piccante che peraltro io non posso mangiare in quanto riempito fino a esplodere di carne varia ed eventuale, ovviamente. Niente pasta, il kebab, per lui. È stato palesemente troppo lontano da casa.
Perciò, è cercando una kebaberia che chiamo Bill al cellulare. Giusto per capire se sta bene e se si diverte. O forse solo perché mi sento in colpa.
- David! – strilla lui, la voce che sprizza gioia ad ogni nota, come nei migliori casi di esaltazione zucchero-indotta. Chakuza deve averlo ingozzato di dolcetti.
Sorrido intenerito, anche se, da qualche parte dentro di me, sto strillando “santo cielo” in tutte le lingue che conosco. E non sono così poche.
- Bill, ciao. – lo saluto, individuando finalmente una kebaberia ed introducendomi all’interno dell’ambiente caldo e saturo dell’odore forte delle cipolle, delle olive, delle salse piccanti e della carne che ruota sullo spiedo. – Dove sei?
- Disneyland! – riprende a strillare. E lo immagino sollevare un braccio in segno di gioia. Come il bambino che sta ricominciando ad essere da quando può. – Puoi crederci? Siamo appena usciti… entrati… cioè, siamo usciti dal parco ed entrati in albergo! – e sottolinea l’imbarazzante confusione da allegria con una risatina sottile e divertita.
- Aha, capisco… - mugugno, indicando al ragazzo dietro al bancone di preparare due panini con… be’, tutto quello che vuole metterci, è indifferente. – Sei con… - ed esito, perché ho paura a parlarne con Bushido che mi aspetta in quell’appartamento buio e silenzioso a qualche strada da qui.
Bill, comunque, non mi lascia rispondere. È ansioso di dirlo lui, quel nome.
- Sìsì! – miagola entusiasta, - Sono con Peter, stiamo decidendo se andare fuori a cena! E oggi mi ha comprato un mucchio di caramelle, non è carino?
- …già. – annuisco a fatica, - Molto. Senti… pensate di rientrare in settimana? O comunque a breve?
- Assolutamente no! – ride ancora lui, - Avanti, David, è il nostro mesiversario, te l’ho detto tre giorni fa! Non starai mica per dirmi che c’è del lavoro da fare…
Per un secondo, accarezzo l’opportunità di smontargli i piani. Non perché non voglia che sia felice, tutt’altro, dubito che esista un’altra persona al mondo – a parte Tom – che voglia Bill felice più di quanto lo voglia io. Solo che mi viene da pensare che fra poco ricorrerà il compleanno di Bushido. Sarebbero trentun anni, se non fosse morto. Che poi non è morto davvero, d’accordo, ma certe volte – in maniera del tutto irrazionale – mi viene da pensare che Bill questo lutto non l’abbia vissuto per niente bene. Che si sia distratto troppo.
Non lo so, in realtà non mi pare che il lutto di Bushido sia stato davvero vissuto per bene da qualcuno. Forse solo da sua madre. La cosa è un po’ ironica e un po’ – tanto – triste. Vorrei solo che Bill non fosse con Chakuza, adesso. E lo penso mentre il ragazzo dietro al bancone mi consegna i due panini incartati e insacchettati.
- No, no. – lo rassicuro con una mezza risata, porgendo al ragazzo una banconota da dieci, e attendendo il resto, - È tutto a posto. Volevo solo esserne sicuro. Per stasera non ci sentiamo più, giusto?
- No, infatti. – annuisce lui, più tranquillo, - Pensavamo di fare tardi. – aggiunge poi, con una mezza risatina.
Sospiro profondamente, intascando le monetine e tornando in strada.
- D’accordo, Bill. Avete il mio benestare, anche se volete andare fuori a cena. Però, ti prego, non costringermi a correre dietro i paparazzi sventolando assegni nella speranza di salvaguardare la tua carriera e la tua immagine pubblica, d’accordo? – anche perché, vorrei aggiungere, pure se non lo faccio, dato che il giorno si avvicina, ovunque si stanno organizzando trasmissioni celebrative, concerti all’onore e bla bla bla. Tutta roba che quando la racconto a Bushido lo fa ridere di gusto. “Non sono mai stato amato tanto,” si lamenta giocosamente, “quando ero vivo”. Mi sa che ha ragione.
Bill non coglie il sottinteso del mio discorso. Meglio così, in fondo.
- Sì, sì, lo so. – si lagna sbuffando, - Niente baci, niente carezze, niente di niente in pubblico.
- Bravo. – mi complimento subito. – E… per quando tornerete a Berlino… - mi faccio forza perché devo dirlo. Devo dirlo per forza, perché non posso rischiare niente e se Bushido è in città io non posso mettere Bill nelle condizioni di farsi beccare da lui con Chakuza. Anche per un caso fortuito. Anche se quell’idiota decidesse davvero di non uscire ma si limitasse a guardare fuori dalla finestra e casualmente li vedesse. - …ho saputo da fonti fidate che Bravo è in cerca della paparazzata del secolo. Mi sa che non siete stati granché discreti ultimamente. – non è vero, sto inventando. Bill, però, non può saperlo. – Magari è meglio che tu e Chakuza vi vediate un po’ di meno, per le prossime settimane. D’accordo?
Il suo silenzio mi raggiunge come una stilettata in mezzo ai polmoni. Sento voci di persone, risate di bambini ed altri miriadi di rumori, tutti attorno a lui, ma lui resta in silenzio.
- …ma non ci siamo visti per niente, la scorsa settimana… - mugola scontento, - E presto dovremo rimetterci al lavoro…!
Ha ragione, insomma. Ha ragione.
- Bill, non mi deludere adesso. – ringhio, e sono irritato perché ho torto. – Un po’ di professionalità, Cristo.
Dall’altro lato della cornetta, lui esita, incerto.
- Non… - balbetta insicuro. Poi sospira. - …mi dispiace. È che ci vediamo così poco che… mi dispiace. Faremo come vuoi tu, David.
Il mio sospiro fa eco al suo. È ugualmente profondo e ugualmente affranto, almeno.
- Lo so, Bill. Lo so che è difficile. – e sono triste per Bushido, ma è Bill il mio bambino, in fondo. – Facciamo che alla prima pausa disponibile vi do due settimane solo per voi. – suggerisco con un mezzo sorriso che spero lui senta fra le vibrazioni delle mie parole.
- …due settimane? – chiede Bill, incredulo, - Intere?
- Sì. – confermo io senza un’esitazione. E non m’importa, in questo momento, se ciò significa che dovrò rispedire Bushido a Miami quanto prima, anche a costo di fare carte false. – Due settimane piene, senza nemmeno un impegno. Dì a Chakuza di organizzarsi. – concludo con una risatina.
L’urlo di gioia di Bill si fa attendere solo un secondo. Poi arriva, come previsto, spaccandomi i timpani e, in buona misura, anche il cuore. Io, davvero, non so che pesci prendere. Dovunque guardo vedo profilarsi disastri a lungo termine. Di quelli che rovinano la vita a lungo.
Io non ci credo che Bushido potrà passare per il suolo tedesco per poi tornarsene negli Stati Uniti senza colpo ferire. Io non ci credo, per il semplice fatto che quell’uomo non… non passa mai senza lasciare traccia. Non è neanche colpa sua. Non gli riesce e basta.
Allontano la cornetta dall’orecchio e parto con le lamentele di routine. Del tipo “Sono troppo buono, palesemente ti vizio, sei venuto su diva perché ti ho lasciato fare tutto quello che volevi” e così via. Bill mi ferma come al solito, ringraziandomi con quel tono dolce che non ammette repliche per il semplice fatto che, quando lo usa, ti sta parlando col cuore in mano.
- Saremo buoni buonissimi, David. Promesso. – cinguetta al settimo cielo.
Sorrido, inspiegabilmente soddisfatto di me stesso.
- Bravo. Ora vai, su. E divertiti.
Lui ridacchia appena.
- Lo farò. Grazie, David.
Mi si stringe il cuore.
- Figurati. Buonanotte.
Chiudo la telefonata prima che possa dire altro. Me lo vedo già che corre verso Chakuza, che chissà dove lo stava aspettando per non disturbarlo. È discreto, con lui. È gentile. È palesemente la scelta perfetta. La più perfetta che Bill poteva fare dopo Bushido.
Sospiro pesantemente.
- E tutto questo… - borbotto, incamminandomi verso l’appartamento, - perché quello mi ha scopato, una volta. Io devo essere completamente pazzo.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Cosa. Ci. Fai. Tu. Qui."
Note: No, non siamo ubriache, stiamo solo tornando indietro nel tempo XD La tragica verità è che ci eravamo completamente dimenticate dell’esistenza di questa shot *O*/ Cioè, no, ok, la sua esistenza la ricordavamo, solo che è stata scritta un po’ così out of the blue per un po’ di fanservice gratuito (a me il Billshido rumoroso piace tanto, e poi mi diverto a torturare Tab facendole piagnucolare “sì, però sono belli T_T” a dispetto del suo orientamento di fandom. GratuitamenteCattiva!Liz XD
A parte questo, non ho molto da dire, a parte il fatto che spero vi sia piaciuta e che, continuando di questo passo, probabilmente Tom e Fler in un non lontano futuro finiranno insieme XD
Settimana prossima si torna a SE =P Non vi distraete troppo con giochini neri e arancioni dall’aspetto ingombrante.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DEL PERCHÉ BILL SI RITROVÒ A DOVER COMPRARE UNA CASA NUOVA

Io e Tom non abbiamo ancora imparato ad andare d’accordo e, per come mi sta guardando in questo momento – come volesse prendermi a cazzotti ma non si sentisse ancora fisicamente pronto a farlo, un atteggiamento tipico dei ragazzini – penso che non impareremo mai. È una cosa di cui in un certo senso mi dispiaccio, è una cosa di cui si dispiace Bill – per il quale è fondamentale che le persone che ama vadano d’accordo – è una cosa di cui si dispiace Jost – che vorrebbe sempre pace intorno a sé, mentre io e questo scricciolo coi rasta seguitiamo a privarlo in questo senso – ed è una cosa di cui si dispiace pure la mia crew, soprattutto Chakuza e soprattutto quando lo mando a prendere Bill in momenti in cui è con Tom. Ammetto di farlo apposta, ecco. Solo che Chakuza non sono io e Tom non si permette di guardarlo con gli occhi con cui guarda me. E, in ogni caso, sa bene che a Chaky non dà fastidio prendere a tirargli uno scappellotto sulla nuca per rimetterlo a cuccia. Io, invece, Tom non posso toccarlo.
Per questo motivo – perché devo fare il bravo, insomma – adesso cerco di stare tranquillo e non farlo rotolare fino alla parete di fronte con una schicchera sul naso, e mi appoggio allo stipite della porta, reggendo il mio pacco regalo ben stretto sotto il braccio. Lui mi guarda come un leoncino incazzoso, e stringe la presa sulla porta. Sembra indeciso sulla possibilità di scostarsi o sbattermela in faccia.
- Cosa. Ci. Fai. Tu. Qui.
È incredibile come, attraverso lo schermo di un televisore o fra le pagine patinate di una rivista, possano passare messaggi così distorti. Il mondo intero è convinto che il gemello rompiballe sia Bill. Bill – e posso assicurarlo di persona, perché io sono un uomo paziente ma ho dei limiti molto rigidi – è delizioso. Una volta che chiarisci bene patti e regole, andare avanti con lui è meraviglioso, perché non sgarra di niente. Cammina sempre lungo la linea tratteggiata, non inciampa e, se deve farti il casino, te lo fa privatamente.
Tom, invece, è una piaga solenne. Dio mio, è intollerabile. Io non so come faccio a non spaccargli la faccia come meriterebbe ogni volta che posso o ogni volta che me ne dà occasione – tipo quando parla con l’aria di una checca oltraggiata, calcando le sillabe ed usando punteggiature opinabili.
- In quella domanda, se era una domanda, - preciso rimettendomi dritto, visto che gli atteggiamenti fascinosi che mandano Jost in brodo di giuggiole su Tom non hanno il minimo effetto, - tanto per cominciare ci andava un punto interrogativo sul finale. E poi ho come l’impressione che-
- Tu non dovresti essere qui! – mi fa notare, ignorando apertamente la lezione di grammatica che stavo faticosamente tirando su solo per lui, - Tu e Bill avete litigato! Gli hai tirato un pacco enorme per il compleanno!
Sospiro pesantemente e non fatico ad immaginare perché Tom abbia il dente così avvelenato sul punto. Bill, in genere, non si lagna con lui di me, visto che sa che il fatto che stiamo insieme non gli va giù. Ma suppongo che la faccenda del compleanno mancato l’abbia mandato abbastanza su di giri da impedirgli di considerare chi – della massa indistinta di spalle su cui piangere che vede quando è depresso – fosse la persona con cui stavaparlando.
- Questo è esattamente il motivo per cui sono qui, Tom. – rivelo quindi, sospirando ancora, - Mi dispiace non essere potuto venire a festeggiare con voi i diciott’anni-
- Per quello che mi riguarda, mi hai fatto un regalo bellissimo!
- …ma ho avuto da lavorare. – proseguo, cercando di trattenere le mani. – E comunque sia, sono venuto a chiedere scusa a Bill. – annuisco, indicando compiaciuto il pacco regalo. – A te non ho portato nulla, s’intende. – ghigno poi, infilando una mano nella tasca interna della giacca, - Almeno a voler considerare “nulla” il Fler 90210 Mixtape. – rivelo poi, estraendo il cd e sventolandoglielo davanti agli occhi neanche fosse una caramella.
Tom si mette a brillare. Io sorrido soddisfatto. Bill ricordava bene, questo Mixtape è stato fra le vittime innocenti del massacro della mia discografia ad opera dell’Escalade. Lo vedo che allunga le mani verso il disco neanche fosse un’apparizione divina, le labbra dischiuse e gli occhi enormi.
Sollevo il braccio.
- Sai quanto m’è costato? – lo prendo in giro, - Non tanto in termini economici, quanto in termini di orgoglio. Voglio dire, roba di Fler…!
Lui si mette a saltellare.
- Oh, dammelo! Dammelo! – borbotta, allungandosi su di me per raggiungerlo, mentre io lo sollevo sempre più in alto, ben deciso ad arrivare anche a mettermi sulle punte per impedirgli di toccarlo prima dell’esatto momento in cui vorrò io.
L’esatto momento in cui lo voglio arriva pochi secondi dopo, quando – a seguito delle manovre per cercare di impossessarsi del disco – l’occhio di Tom cade inavvertitamente sulla confezione del regalo.
- Bushido… - borbotta rimettendosi in piedi ed allontanandosi di qualche centimetro, - Ma quella carta…
Io comincio a sudare freddo. Non gli do il tempo di finire, comunque: gli faccio passare Fler sotto il naso e lui ne segue tipo l’odore, è una cosa buffissima. Certe volte penso che mi basterebbe andare dalle parti dell’Aggro Berlin, dire a Fler che magari si può tornare amici e poi tornare qui a regalarlo a Tom, e tutti i miei problemi sarebbero risolti, potrei entrare e uscire impunemente da questa casa senza causare scompensi ormonali a nessuno e il mondo vivrebbe in pace. Poi mi ricordo che certe cose non dovrei pensarle nemmeno per scherzo, e che comunque Fler non si meriterebbe di essere usato a questo modo, nonostante tutto, e lascio perdere.
Lascio Fler nelle mani del suo legittimo proprietario – che a pensarla così mi fa pure un po’ senso, nonché darmi del fastidio indistinto che comincerò immediatamente ad ignorare – e mi dirigo verso la camera di Bill mentre Tom biascica che non me la farà passare liscia e il momento in cui pagherò per tutte le mie colpe è solo rimandato. Però lo dice con un’aria talmente sognante, mentre accarezza la copertina e fluttua verso il mega-impianto stereo che è stato il primo regalo che ho fatto a Bill quando ci siamo messi insieme, che non mi preoccupo nemmeno.
Busso piano alla porta e aspetto. Il singhiozzo che mi raggiunge dall’altro lato, dato che siamo appena al due settembre, non mi stupisce.
- Non voglio guardare The Notebook un’altra volta, Tomi! – si lagna la principessa, probabilmente immersa in un caos di cuscini e lenzuola, come ogni sua degna compagna di fiabe, - Piango già abbastanza anche senza stimolo, mi pare!
Mi viene un po’ da ridere, a sentirlo così depresso. Se lo conosco bene – ed è così – saranno già ventiquattro ore almeno che pensa senza sosta che evidentemente io non lo amo abbastanza, che devo essermi completamente dimenticato di lui e del suo compleanno e che sicuramente mi starò divertendo con un branco di groupie seminude come niente fosse stato. Mi starà ricoprendo di improperi e si starà dicendo che non vuole più vedermi né sentirmi. E piange perché non è vero che non vuole più vedermi né sentirmi.
Non gli rispondo, voglio vedere la sua faccia prima che abbia il tempo di prepararsi alla mia presenza, perciò mi limito a poggiare una mano sulla maniglia e ruotarla, spingendo lievemente la porta.
- E non entrareeee! – continua a lagnarsi lui, - Sono impresentabile! – ma io entro lo stesso.
La sua espressione, quando si rende conto di chi sono, è un capolavoro. Spalanca gli occhi – liquidi e persi – e schiude le labbra – vagamente gonfie e un po’ umide – e resta lì, immobile, un ammasso di capelli scomposti sulla testa e il faccino più confuso che gli abbia mai visto addosso. È tutto raggomitolato in uno spicchio di letto, le ginocchia al petto e le braccia a stringere le gambe. Solo la testa si solleva e mi dà modo di capire che quello è ancora il mio ragazzo e non una palla di emodepressione da piagnisteo immotivato.
- Principessa… - lo saluto con un cenno del capo e un sorriso un po’ stronzo, - sono venuto a fare ammenda per i miei peccati.
- Anis… - esala lui, con lo stesso tono con cui mi è capitato di sentirgli chiamare il mio nome mentre ancora dormiva. Resta con quell’espressione deliziosa addosso ancora solo per un secondo. Poi ricorda di essere Bill Kaulitz, di aver appena compiuto diciott’anni e di avere tutti i diritti di questo mondo di farmi sentire una merda perché non c’ero. Perciò aggrotta le sopracciglia e stringe le labbra in una smorfia piccata e delusa. – Anis. – ripete, più duramente, - Hai finalmente trovato il tempo per ricordarti della mia esistenza?
Io sospiro e roteo gli occhi, entrando in camera e chiudendomi la porta alle spalle.
- Ti ho chiamato, ieri, piccolo. – gli ricordo, - Non mi sono dimenticato della tua esistenza.
- Non c’eri! – mi attacca subito lui, saltando in ginocchio con uno scatto da capriolo imbizzarrito, - Io ero lì che spegnevo le mie diciotto candeline… diciotto candeline!... e tu non c’eri!
Mi lascio andare ad un altro sospiro, mettendomi seduto ai piedi del suo letto. È meraviglioso come, quando mi ha sotto gli occhi, Bill non riesca a fare a meno di starmi vicino. Non so com’è che abbia sviluppato questo bisogno, probabilmente dipende dal fatto che io ho la necessità fisica di toccarlo di continuo. Quando siamo nella stessa stanza, è molto raro che non gli stia addosso in qualche modo. Se succede, ho qualche motivo serio per non stargli appiccicato – tipo stare lavorando o stare litigando con Saad. Ma in genere quando litigo con Saad sto anche bene attento a tenere Bill il più vicino possibile. Giusto perché il messaggio sia sempre chiaro e mai contraddittorio.
Comunque sia, appena mi appoggio sul materasso, Bill gattona verso di me, e subito dopo me lo trovo accucciato al fianco. Visto che è ancora arrabbiato, però, tutto il contatto che condividiamo è la sua mano stretta attorno al mio braccio, come volesse tenermi lì per tutto il tempo della sfuriata. E infatti, subito dopo ricomincia a parlare.
- E poi non ha nessuna importanza che tu abbia chiamato! – mi rinfaccia, le labbra strette in un broncino da baci, - Chissà cosa stavi facendo mentre eri al telefono con me! – ripesco dai file di memoria: stavo pestando Chakuza perché si ostinava a non collaborare attivamente per il duetto che devo infilare nell’album. Niente di compromettente. – E comunque avresti dovuto esserci! – conclude quindi, strattonando il braccio un po’ qui e un po’ lì, come a richiamarmi dal punto in cui mi sono perso. Bill sa sempre quando smetto di ascoltarlo.
- Ho capito, principessa, ho capito. – annuisco, - Avrei dovuto esserci. – allungo un braccio e me lo tiro contro. Bill non fa la minima resistenza, si lascia avvolgere e si schiaccia contro di me aderendo immediatamente al mio corpo, neanche fosse nato apposta. Mi stringe le braccia attorno al collo e nasconde il viso sulla mia spalla, strusciando il naso contro la maglia come a volersi scavare una via per la pelle. – Ho pensato a te di continuo. – gli sussurro fra i capelli, - E mi è dispiaciuto sentirti così arrabbiato, al telefono. Avrei preferito farti un po’ di coccole.
- Ma eri tipo lontanissimo… - mugola, risalendo il mio collo con le labbra.
- Avrei potuto coccolarti lo stesso. – rido, e lui arrossisce e mi dà un pizzicotto poco convinto sulla nuca.
- Non dire queste cose… - borbotta, strusciandosi un po’.
Io sogghigno.
- Ti ho portato un regalo. – dico poi, separandomi controvoglia dal calore del suo corpo, - Non vuoi aprirlo?
Lui mi guarda con un paio d’occhi enormi e brillanti, gli nasce il sorriso sulle labbra ed io, invece di sentirmi in colpa come sarebbe giusto, comincio a gongolare pensando alla faccia che farà quando vedrà cosa gli ho portato. Certe volte raggiungo picchi di infantilismo tali da stupirmi da solo, davvero.
- Un regalo…? – cinguetta estasiato, giungendo le mani sotto il mento nella posa tipica da ragazzino innamorato che mi somministra sempre quando vuole intenerirmi, - Cos’è? Cos’è? È per farti perdonare?
- Già. – annuisco compitamente, recuperando il pacchetto e consegnandoglielo. Bill non è come suo fratello, davvero, Bill è allo stesso tempo una delle cose più diverse ed uguali che esistano rispetto a Tom, e comunque sia gli manca la conoscenza di base di cui invece suo fratello è anche troppo pieno. Per dire, Tom l’ha capito subito che questo pacco viene da un sexy shop. Bill, invece, si ferma ad osservare la carta nera con il nome del negozio traslucido e quasi irriconoscibile se non in controluce e l’enorme fiocco rosso che chiude il tutto, e si limita a squittire di gioia perché è un pacchetto molto elegante e potrebbe contenere qualsiasi cosa, da un rolex a un bracciale di diamanti al microfono originale usato da Nena al suo primo concerto, per dire.
Lo osservo con un compiacimento probabilmente illegale e decisamente inopportuno, mentre scioglie con navigata grazia il fiocco – anni e anni di gavetta come cucciolo di casa e favorito dalle fan, suppongo – e spacchetta il tutto, ficcando le mani nella carta velina e riemergendo due secondi dopo con un’espressione adorabilmente sconvolta e un dildo nero e arancione da trenta centimetri per le mani.
Ah, che soddisfazione. Dio, potessi tirare fuori una macchina fotografica e scattargli una foto in questo preciso istante, giuro che lo farei. È strepitoso: mi guarda come non riuscisse a capacitarsi della mia esistenza in questo momento e in questo luogo, stringe le mani attorno al giocattolo ed ha le labbra dischiuse come volesse dirmi qualcosa ma non sapesse cosa.
È stupendo, giuro.
- Anis! – urla alla fine, agitandomi il coso davanti agli occhi come se da solo bastasse a farmi sentire inopportuno. Io, naturalmente, scoppio a ridere, - ‘Cazzo ridi?! – si lamenta lui, mettendosi dritto sulle ginocchia e attaccandomi con entrambi i pugni chiusi, finendo inevitabilmente per lasciarsi intrappolare i polsi fra le mie dita.
- Be’, è una cosa utile e simpatica! – mi giustifico ridendo e trattenendolo mentre lui si sforza di essere minaccioso, - E poi sono i tuoi colori preferiti!
- I miei colori preferiti! – ripete lui, incredulo, - Ma sentilo!
Io rido ancora e lo tiro giù, e quando lo bacio lui mi si scioglie sulle labbra. Mugola e si dibatte solo un secondo – mentre già la sua lingua gioca a nascondino con la mia – poi cede e mi sbuffa contro, stringendomi nuovamente al collo con le braccia. Mi tiene così stretto che il giocattolo quasi si intromette fra di noi, dato che lui si ostina a tenerlo in mano, ed io lo scosto con un gesto sbrigativo, prima di accarezzarlo morbidamente su una guancia e seguire i suoi movimenti mentre inclina il capo e mi si sistema a cavalcioni in grembo, approfondendo il bacio.
Lo attiro contro di me stringendolo con un braccio alla vita, e lui lascia andare un versetto acuto e stupito che mi fa sorridere. Sorride anche Bill, mi sorride addosso e so che abbiamo già fatto pace. È fantastico che io non abbia nemmeno dovuto chiedere scusa. Io e Bill siamo perfetti per questo, perché non possiamo stare lontani, perché non abbiamo bisogno di dire le cose, perché c’incastriamo con una facilità sconvolgente. Perché non vedo niente quando me lo trovo in giro, perché non vede niente nemmeno lui, perché quello che è stato prima e quello che sarà poi, quando stiamo così vicini, non importa nemmeno. Perché siamo liberi, quando siamo insieme. Anche se poi liberi non siamo affatto, visto che non facciamo che imprigionarci a vicenda. Ma è giusto così.
- Ho pensato che non ci saremmo più rivisti, perché ti ho chiuso il telefono in faccia a quel modo… - biascica confusamente, tirando la mia maglia verso l’alto mentre io scendo a sfiorare con le labbra la pelle tenera e calda del suo collo, - Ho pensato… Anis, la maglietta… - mi scosto con una mezza risata, così che lui possa finalmente togliermela di dosso, e poi lo lascio riprendere a parlare, perché quando la principessa ha bisogno di sfogarsi, inutile lamentarsi, la si deve lasciar fare, - Ho pensato che avresti cominciato ad odiarmi perché mi ero arrabbiato… e poi ti ho odiato anch’io perché c’erano tutte le persone alle quali voglio bene, a quella festa, e però non c’eri tu…
- Lo so, piccolo… - lo zittisco, mozzandogli il respiro con un morso lieve, - La tua testa è un disastro, sai? – lo prendo in giro, stringendogli i glutei attraverso il tessuto leggero del pigiama. Lui mugola, a metà fra l’imbarazzato e il compiaciuto.
- Non è un disastro… - borbotta, - I pantaloni…
Lo ribalto sul materasso e lo spingo un po’ indietro. Lui non ha ancora lasciato andare il giocattolo, cosa che un po’ mi fa ridere, se devo dire la verità.
- Cos’è… - lo prendo in giro mentre, guardandolo dall’alto, comincio a sfibbiare lentamente la cintura, - ti ci sei già affezionato? – chiedo, indicando il dildo con un cenno del capo, - Il prossimo passo è dargli un nome?
Lui arrossisce istantaneamente e lo lascia andare di peso sul materasso, ma non riesce a staccarmi gli occhi di dosso. Io ghigno e lascio la cintura a pendere dai fianchi, retta solo dai passanti dei jeans, afferrando Bill per la vita e sistemandolo sul materasso, introducendomi fra le sue gambe perché ogni mio movimento ed ogni suo movimento coincidano con uno sfiorarsi dei nostri bacini.
- Togli… - lo sento lamentarsi, mentre sfiora con le dita il bottone e la zip dei miei pantaloni, - Per favore…
Annuisco compiaciuto, sfibbiando il bottone ed aprendo la zip, e non potrei essere più lento di come sono. Sto impazzendo di desiderio ma adoro guardarlo quando è così perso, adoro guardarlo quando noi siamo l’unica cosa che riesce a realizzare e adoro guardarlo quando fissa il mio corpo con quest’aria innamorata e confusa, come non sapesse dove vuole mettere le mani prima e solo per questo motivo sta fermo immobile senza toccare niente.
- Anis… - mi chiama, e quando mi chiama io non resisto più. È sempre stato così, fin dalla prima volta, e se vado ancora più indietro con la memoria, alle notti in cui ancora non stavamo insieme, ad esempio, e mi chiedeva di restare, ricordo che è sempre grazie a quello che ha avuto la meglio su di me. Gli bastava chiamarmi per nome ed io ero finito, non potevo più dirgli no. È incredibile, se ci penso. Mi sento anche un po’ un cretino, volendo. Gli è bastato chiamarmi per nome, davvero, tutta la nostra storia è questo, lui mi ha chiamato per nome e mi ha sconfitto così. Penso che quando basta così poco è amore. È amore e basta.
Resto semivestito solo perché ho voglia di spogliare lui. Resto semivestito anche perché ho altri progetti per la serata, in realtà, e se mi spogliassi – se la mia pelle toccasse la sua, se non ci fosse più niente fra di noi – di sicuro perderei il controllo e finirei con il non riuscire a realizzarne neanche uno. Ed invece è giusto che la mia principessa si goda il suo regalo. Prima che, Dio, io mi goda lei, finalmente.
- Ora aspetta un secondo, principessa… - gli sussurro all’orecchio, dopo essermi liberato del suo pigiama, - ti va di giocare?
Bill mi fissa con aria supplichevole, poggiando le mani sulle mie spalle ed attirandomi a sé.
- No… - mugugna scontento, - Non mi va di giocare, mi vai tu…
Io rido, sfiorandogli lentamente il collo in una scia di baci umidi.
- Anche a me vai tu, ma prima voglio vederti giocare un po’. Avanti, non vuoi provarlo, il tuo regalo?
- Noo-oh… - mugola, spingendo in alto il bacino alla ricerca del mio, - Per favore, Anis…
- A-ha. – scuoto il capo, mettendomi dritto e poi sistemandomi seduto fra i cuscini, poggiandomi di schiena alla testiera del letto e sporgendomi verso il comodino per aprirne il cassetto e tirare fuori un preservativo e un tubetto di lubrificante semivuoto. – Tu fai contento me, io faccio contento te, principessa. Le conosci le regole.
Bill, ancora disteso sul materasso, mi guarda al contrario per qualche secondo – i capelli dispersi ovunque sulle lenzuola bianchissime – e poi sospira pesantemente e si mette seduto, andando a tentoni fra le coperte per recuperare il giocattolo e poi gattonando con aria impacciata e infantile fino a me.
- D’accordo… - pigola arreso, - però posso starti addosso? Almeno sentirti… - e struscia un po’ il viso contro il mio petto.
Annuisco sorridendo e lui lascia andare un sospirone felice che mi fa ridere, perché non c’è mai davvero stata la possibilità che potessi rifiutargli una concessione simile. Dopodiché lo aiuto a sistemarsi seduto sul mio grembo. Il che vuol dire che impazzirò per tutto il tempo in cui vorrò guardarlo.
Dannazione.
Bill si volta a lanciarmi un’occhiatina furba e io gli mordo una spalla per protesta.
- Come sei scorretto… - lo rimprovero. Lui ride, gettando indietro il capo e strusciandosi contro di me.
- Tu fai contento me, io faccio contento te, mio signore. – dice, per tutta risposta. – Le conosci le regole.
- Ti sei fatto troppo furbo, sai? – rido, baciandolo lentamente. Lui risponde mugolando, mi ruba dalle mani il tubetto di lubrificante e poi si scosta un po’, restando a cavalcioni ma puntellandosi sul materasso con le ginocchia, in modo da restare sollevato.
- E ora sta’ a guardare e pentiti. – sussurra a bassa voce, spargendo un po’ di lubrificante su due dita e scendendo ad accarezzarsi da solo fra le natiche, stuzzicandosi con lentezza assassina e godendo del mio sguardo perso che segue i suoi movimenti come mi stesse ipnotizzando. Si mordicchia distrattamente un labbro, gli occhi chiusi, i capelli cadono liberi e selvaggi sulle spalle, lungo la schiena, solleticandomi il petto, e mentre lui si muove per accogliersi più disinvoltamente io lascio scivolare una mano dentro i pantaloni e cerco di darmi un po’ di sollievo. Bill mi lancia un’occhiataccia glaciale – come mi abbia visto è un mistero – ed io smetto subito. – Tu no. – borbotta, - Tu guardi.
Tiro fuori la mano, sorridendo divertito.
- Agli ordini, principessa.
Bill lascia andare una risata leggera ed allunga una mano.
- Me lo passi…? – chiede, stendendo bene le dita per accogliere il giocattolino. Io comincio a pensare concretamente all’eventualità di mettergli in mano ben altro che il dildo, ma lascio comunque scivolare le dita fra le lenzuola e recupero l’affare dal punto in cui Bill l’ha lasciato cadere mentre mi si sistemava addosso, passandoglielo un po’ di controvoglia. – Grazie. – sorride, recuperandolo dalle mie mani. Lo stringe un po’, guardandolo da un lato e dall’altro come a volerne memorizzare per bene la struttura, per poi poterlo utilizzare al meglio – ha guardato così anche me, qualche volta, agli inizi – e mentre io sono qui che immagino le sue manine sottili ricoperte di lubrificante che accarezzano il dildo in tutte le direzioni, ecco che lui mi stupisce. Ravvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio, di modo che possa guardarlo bene in viso, e chiude gli occhi, mentre lascia scivolare il giocattolo fra le labbra e comincia a succhiarlo come fosse un gelato molto gustoso. Facendo pure un sacco di rumorini compiaciuti, peraltro.
- Sei… - ringhio, allungando una mano ad accarezzargli possessivamente il collo e la nuca, - Sei una cosa incredibile.
Lui solleva la mano libera e la posa sulla mia, è così pallida che il contrasto con la mia pelle e coi suoi capelli la rende quasi abbagliante. Combatto contro una forza di gravità tutta particolare – quella che spinge il mio corpo verso il suo – per non cedere all’impulso di tirarmelo contro, sfilargli quella roba dalle labbra e mettere al suo posto qualcosa di decisamente più interessante, qualcosa su cui lascerebbe scorrere la lingua allo stesso modo che ora mi fa vedere con aria sfacciata, qualcosa che sparirebbe fra le sue labbra a profondità ancora maggiori, perché Bill quando mi prende non mi prende solo in bocca, mi tira giù fino in gola, si fa sentire ovunque, ed è odioso che invece a godersi questo trattamento privilegiato sia un dannato pezzo di plastica che nemmeno se ne accorge. Deficiente io, come ho potuto pensare che potesse essere un regalo appropriato?
- Bill… - lo chiamo confusamente, tirandolo un po’. Lui sbuffa una mezza risatina e scuote il capo.
- No-oh. – mi rimprovera, sfilando il dildo dalla bocca, - Volevi guardare, no? – “no”, risponde una voce dentro di me, ma va be’, - Guarda.
Mi guarda, mentre accoglie disinvoltamente il dildo dentro di sé. So che vorrebbe sorridere, lo vedo da come gli brillano gli occhi; so anche, però, che la mia principessa è tanto brava a fingersi adulta quanto poi non è capace di mantenersi tale quando ciò che si aspettava in un modo va in un altro. Ed ecco che piange se non mi presento alla sua festa di compleanno. Ed ecco che adesso, con un cazzo di gomma da trenta centimetri a farsi strada dentro il suo corpo, il bambino proprio non ce la fa a fare il furbo e sorridere come volesse sfidarmi. Resta lì, gli occhi pesanti e il respiro ridotto a singhiozzi. Mi guarda e si muove piano, lentamente, in gesti lunghi e un po’ irregolari, confusi. Sorrido, perché fa tenerezza. Ci sono dei momenti in cui ricordo d’un tratto quanto Bill sia piccolo, e finisco sempre per sentirmi in colpa.
Me lo tiro contro. La sua schiena aderisce al mio petto e lui mugola scontento quando il movimento causa un effetto troppo brusco sul modo in cui regge il dildo, che gli sfugge di mano e rotola sul materasso, lontano da noi. Si allunga a recuperarlo - le dita che scivolano fra le lenzuola alla cieca, confuse ma bene aperte - ed io lo fermo, trattenendolo per un polso e conducendolo verso di me. Mi stringe subito, la principessa, appena mi tocca. Come fossi una cosa sua e ci tenesse a ribadirlo. Sa che può farlo, perché sa che è vero.
- Non ti serve. - gli sussurro all’orecchio, baciandolo lievemente sulla linea della mascella.
- Ma me l’hai regalato tu… - borbotta, e lo fa solo per prendersi gioco di me, visto che sento nei tremiti dai quali è scosso che brucia del mio stesso desiderio.
- E adesso non ti serve. - ripeto, la voce bassa che vibra direttamente sulla sua pelle, mentre lo sollevo appena e mi faccio strada dentro di lui, seguendo la via già aperta dal dildo e sentendolo adattarsi lentamente alla mia forma con un mugolio soddisfatto.
- Anis… - mi chiama in un sospiro pesante, sollevando entrambe le braccia ad allacciarmi al collo mentre io lo stringo fermamente per la vita e, con una mano, accarezzo la sua erezione, seguendo il ritmo dei miei movimenti. I miei ansiti si perdono nei suoi, la sua voce nella mia, non so più, a un certo punto, se è lui che continua a ripetere il mio nome o sono io che continuo a ripetere il suo. Seguo la traccia fisica dei suoi suoni sul suo corpo. Il petto che si gonfia aritmicamente, le labbra umide che si arrossano sotto la scia di morsi coi quali le tortura, i muscoli del collo e delle spalle che si flettono e si tendono mentre lui si muove per assecondare i miei gesti. È la nostra musica. La sentiamo solo noi.
Getta indietro il capo quando gli mordo una spalla. Si appoggia contro di me e si muove più velocemente; quando la principessa smania è perché c’è vicina, ed io sorrido fra me e me stringendolo con maggiore decisione ed affondando dentro di lui con maggiore forza, perché odio farlo aspettare. Odio deluderlo, in realtà. Succede già abbastanza spesso fuori dalle lenzuola, perché io possa permettere di ripetere l’errore anche quando siamo a letto. Questi momenti sono perfetti. Devono esserlo. Ci sono coppie per le quali il sesso non è che l’appendice in aggiunta di tutto il resto. Io e Bill ci esprimiamo col corpo. La voce è per cantare, non per le dichiarazioni d’amore. Io e Bill ci dichiariamo facendolo.
Quando mi piego un po’ in avanti, alla ricerca delle sue labbra, noto che, per quanto tenga gli occhi chiusi e tutto il suo corpo sia rilassato contro il mio, si sta trattenendo. Perché dalla sua gola vengono fuori solo singhiozzi strozzati. Il che è uno spreco addirittura offensivo, perché la voce della mia principessa è stupenda, quando geme ed ansima. È stupenda quando chiama il mio nome. È stupenda quando urla.
- Piccolo… - gli sussurro, mordendogli il collo, - non ti stai facendo sentire…
- Anis… - borbotta lui, aggrottando appena le sopracciglia, - perché devi sempre… c’è Tomi di là…
- Non è qua. - concludo, baciandolo sotto l’orecchio, - Avanti. Fammi sentire quanto mi senti.
Lo stringo ancora e lui mi accontenta. Mi chiama a bassa voce. Mi chiama di nuovo, il tono che si alza al ritmo delle mie spinte. E quando viene, lo fa urlando. Urlando e stringendosi attorno a me in quel modo che mi fa impazzire, che mi fa sentire a posto e senza fiato. In quel modo che mi fa ringhiare direttamente sulla sua pelle, il modo che mi costringe a morderlo e leccarlo e succhiarlo fino a lasciargli i segni. Perché li veda e sappia che gli sono addosso anche quando non lo sto toccando.
Restiamo fermi il tempo necessario per riprendere fiato e tornare lucidi. È incredibile quanto sia facile spegnere il cervello quando sono in compagnia di Bill. In realtà ogni tanto penso che i momenti che passiamo insieme e nei quali non ci stiamo toccando - non necessariamente in senso sessuale: il più delle volte basta anche solo una carezza - non siano altro che diversivi in attesa del momento in cui ci toccheremo. E poi, in quel momento lì - quello in cui finalmente ci tocchiamo - è tutto perfetto. Mettiamo il punto alla frase e diamo un senso alla giornata.
Non so da quando il nostro rapporto sia diventato così di dipendenza. Probabilmente dal primo momento in cui l’ho sfiorato ed ho sentito che mi piaceva la consistenza della sua pelle sotto i polpastrelli, almeno quanto a lui piaceva la pressione delle mie mani sul suo corpo.
- Non sono più tanto arrabbiato con te… - confessa, stirandosi sonnacchioso sul materasso prima di appallottolarsi nuovamente contro il mio petto, - Ti ho perdonato. - annuisce poi, con aria seria, - Il regalo, comunque, me lo tengo.
- Assolutamente no. - borbotto io, giocando distrattamente coi suoi capelli mentre lui disegna cerchi inesistenti sul mio petto, - Lo buttiamo dalla finestra appena riprendo a muovere le gambe.
- A parte che dovrei essere io quello con difficoltà di movimento… - si lamenta, pizzicandomi appena un fianco, - Ormai mi sono affezionato! Potrei davvero dargli un nome e sarebbe un’ottima compagnia per le fredde notti in cui tu non ci sei…
Lascio scorrere la mano lungo il suo collo, fino alla spalla, e lì mi fermo, stringendo forte.
- Magari potremmo evitarle, queste fredde notti in cui non ci sono.
Lui solleva appena il viso. I suoi occhi ambrati si fanno enormi - sono ancora liquidi e un po’ annebbiati, ma brillano di una luce incredibilmente intensa, tutta sua - e lo osservo schiudere le labbra e cercare le parole per una sequela di infiniti, terribili minuti.
- Cosa-
- Non dobbiamo per forza pensarci adesso. - sorrido conciliante, - E’ solo un’idea. Almeno non dovresti dare un nome al dildo. - sdrammatizzo, baciandogli la fronte.
Bill mugola un assenso confuso, ma è imbarazzato e il rossore sulle sue guance si diffonde con tonalità così carine che mi viene voglia di prenderlo a morsi o a pizzicotti, neanche avesse due anni. Lo stringo a me, coccolandolo un po’. Non sono mai stato così tenero con nessuno, nella mia intera esistenza. Mai.
- Quando devi andare…? - mi chiede in un miagolio scontento, stringendomi le braccia attorno alla vita e strusciando il naso contro il mio petto.
- Presto, piccolo. - sospiro, - Mi aspettano agli studi. Sono scappato di nascosto da Saad.
Lui ride, cristallino e divertito, e scuote il capo.
- Ti farai buttare fuori dalla tua stessa etichetta.
- Per riuscirci dovranno farmi fuori, principessa. - gli faccio notare ridendo a mia volta, - E comunque guarda che io sono immortale.
- Sì, certo! - mi rimbrotta, omaggiandomi anche di un piccolo pugno sul petto. - Rivestiti, dai. Ti accompagno alla porta.
- Nudo?
Finisco a rivestirmi sul pavimento, dopo che mi ci ha spinto. Adoro - Dio, adoro - prenderlo in giro.
*
Appena usciamo nel corridoio, realizzo all’improvviso che la nostra musica, quella mia e di Bill, non l’abbiamo sentita solo noi. La prima cosa che vediamo è Tom. Tom, per la precisione, sta tutto raggomitolato sul divano come se per terra fosse stato pieno di scorpioni fino ad un minuto prima che noi venissimo fuori dalla stanza di Bill. Tiene stretta fra le braccia la copertina del CD che gli ho regalato e, mentre la voce di Fler si diffonde per la stanza riempiendomi di una certa nostalgia che non riesco ad ignorare come vorrei, ci fossa con gli occhioni spalancati, come avesse paura di noi. Guarda suo fratello e sembra vederlo per la prima volta. Guarda me e fa come se nemmeno mi vedesse.
Palesemente non era pronto a sentirci scopare. Posso comprenderlo, neanche la mia crew era pronta, quando è successo a loro.
Bill sospira pesantemente e mi scorta fino all’ingresso senza lasciarmi andare neanche per un secondo. Mi bacia sulla soglia e mi dice che mi chiamerà più tardi.
- Per la buonanotte? - chiedo io, con un sorrisetto stronzo.
Lui sorride nello stesso modo.
- Per la buonanotte. - annuisce compiaciuto.
Faccio per ridere e baciarlo, prima di andare via, ma mi fermo, perché Tom si mette in ginocchio sul divano e solleva un dito come a chiedere il permesso di parlare. Io e Bill ci voltiamo a guardarlo, siamo ancora così vicini che posso sentirmi il suo profumo addosso. Non è mai facile dare retta a qualcun altro che non sia lui, a queste condizioni, ma Tom è tutto sommato speciale. Quando Tom parla, lo si ascolta. Se non altro perché ascoltare Tom è una delle attività preferite di Bill, nonostante tutto.
- Io credo… - comincia il principino, un po’ incerto, - …che a te serva un appartamento nuovo, Bill. - annuisce compunto, - Un posto dove startene per i fatti tuoi, ecco. - si interrompe un secondo, ci guarda e poi annuisce ancora. - Già, già. - conferma, immergendosi nello sfoglio del libretto accluso al CD.
La risata, stavolta non la trattengo. Ride anche Bill. Nella sua risata c’è una nota incerta che non fatico a ricondurre alla mia proposta di qualche minuto fa, ma suppongo sia giusto che esiti al riguardo. È ancora piccino, in fondo. Ha appena fatto diciott‘anni.
Lo saluto con un bacio, lui mi si appende al collo come una scimmietta per qualche secondo e poi mi lascia andare con un mugolio piagnucoloso. Uscendo dall’appartamento ed entrando in ascensore, tiro le somme della giornata odierna e stabilisco che, in fin dei conti, il bilancio non è affatto negativo. Suppongo che, anche stasera, Saad sbraiterà a vuoto.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Commedia, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Per un momento penso che adoro le donne del ghetto, perché hanno sguardi che ti sanno dire tutto in un niente."
Note: Perché scrivere questa shot, vi chiederete? D’altronde, la vicenda di EKR si è già abbondantemente conclusa, al limite potremmo sommergervi di spin-off pre-mortem (ma anche post-mortem) ed invece siamo ancora qui a raccontarci le favole X’D I motivi per cui abbiamo scritto questo spin-off, comunque, sono principalmente tre. Punto primo: Tab si stava arrovellando il cervello blaterando “SI’, MA IL REALISMO DELLA SITUAZIONE BLA BLA NON È POSSIBILE CHE NON CI SIA UN’INCHIESTA BLA BLA COME LO MOTIVIAMO BLA BLA”. Queste sono in genere domande cui Liz risponde biascicando “sì, ma anche chissene…”, ma qui sono entrati in gioco il punto secondo (Fler in completo) e il punto terzo (GRETA *ç*), ed alla fine la shot è venuta fuori aggiungendo da sé cose che non erano nemmeno previste (il Bu e la donna di Saad o.o Bill e Fler o.o Aiuto). Si spera abbiate gradito <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GORGEOUS WAVES OF SORROW

Allora, la cosa è andata così: stavo cercando di scrollarmi di dosso Chakuza, quando prende e mi squilla il cellulare. Il mio cellulare non squilla quasi mai perché tutti sanno che odio usarlo per parlare. Preferisco che mi si mandi un messaggio in cui mi si dice “fatti trovare lì alla tale ora”, ed io eseguo. Ma stare lì a discutere mi scazza a livelli profondi, perciò non mi chiama mai nessuno, con l’eccezione di mia madre per ovvi motivi e di Chakuza, che però, al più, mi dice “mbe’?” quando non sono già a casa sua per le nove massimo.
Comunque mi squilla il cellulare ed io sono schiacciato fra Chakuza e il suo armadio, perché la cosa è cominciata con lui che mi dice “okay, devo fare il cambio stagione, dammi una mano”. Ora, era palesemente una scusa, perché Chakuza ha un solo armadio e ci tiene dentro tutto, dalle maglie alle felpe ai jeans ai numeri di playboy, quindi cambio stagione il cazzo. Però io sul momento non ci ho pensato, il cambio stagione è una cosa normale, in fondo. Gli ho detto solo “ma a Natale?”, e lui ha risposto “non è ancora Natale”, ed era vero, in effetti, perciò amen.
Quindi, in sostanza, io qui ho lo spigolo dell’anta che mi pressa proprio nel centro della schiena e Chakuza tutto pressato addosso davanti, e palesemente sento squillare il cellulare per miracolo, perché fra il dolore e tutto il resto non è mica semplice. Comunque lo sento, e infilo una mano in tasca a dispetto delle dita di Chakuza che mi si stringono immediatamente attorno al polso, nel vano tentativo di fermarmi.
Peraltro, la scena è ridicola perché io sono qui che mi rifiuto di baciarlo da almeno mezz’ora, eh. Cioè, io l’ho baciato lì, nel canale, a Tempelhof, e dopo non l’ho più fatto e non intendo riprendere adesso. Contando poi il fatto che Sido mi ha chiesto se mi va di accompagnarlo in tour quando partirà, l’anno prossimo, e che quindi ho una possibilità effettiva di andarmene in modo che sembri normale, non intendo ricadere in qualche brutta abitudine.
Quindi niente, lui ha provato un po’ a baciarmi, ma visto che io continuavo a girarmi e dire “no”, “piantala” e via discorrendo, a un certo punto s’è arreso ed è passato al piano B, che generalmente è prendermi per sfinimento. Prendermi per sfinimento vuol dire infilarmi una mano nei pantaloni e posare le labbra… ovunque, tipo. Come ci riesca è un mistero, fatto sta che ci riesce, lo sento ovunque quando fa così, ed è un dramma, sul serio, continuare a dire no in queste condizioni. Lui lo sa, peraltro, certe volte lo vedo uscirsene con certi ghigni che mi viene voglia di dargli uno scappellotto e fargli volare il cappellino borbottando “abbassa un po’ la cresta”. Non lo faccio perché in genere ha ragione a ghignare, io cedo.
Stavolta, però, squilla il benedetto cellulare, e malgrado i suoi sforzi io riesco a recuperarlo e tirarlo su all’altezza del viso, per vedere almeno chi è.
Il display recita “numero privato”. Io non rispondo mai ai numeri privati. Se già non ho voglia di parlare con amici e parenti, figurati se ho voglia di stare a sentire un Cristo qualsiasi che chissà da chi ha avuto il mio numero e si sente in vena di dirmi roba, chiedermi favori o sa Dio solo cos’altro. Non esiste. Quindi no, in genere non rispondo. Stavolta, però, ho decisamente bisogno di una scusa per scrollarmi di dosso Chakuza, anche perché quella mano là sotto mi sta facendo impazzire e lui si sta strusciando da abbastanza tempo per essere già abbondantemente perso, quindi se qui non prendo in mano la situazione – possibilmente senza che questo mi porti a prendere in mano lui – finisce male.
Insomma, poggio il pollice sul tasto verde e Chakuza mi solleva addosso un’occhiata stile “ma fai sul serio?” cui rispondo spintonandolo malamente lontano da me. Solo che ha la mano incastrata nei miei jeans, quindi si allontana tipo trenta centimetri e poi il braccio lo tira e me lo ritrovo di nuovo schiacciato contro, mi dà pure un colpetto involontario sulla pancia, al che io faccio un verso tipo “ahuff” e lui ride. Gli do un pugno nel mezzo del petto e lui continua a ridere, massaggiandosi il punto dolorante, ed io approfitto dell’ilarità momentanea per rispondere.
Quello che sento dopo aver detto “pronto?” mi turba un po’. Non per altro: a parte mia madre, non mi chiama una donna da… be’, mesi, tipo. Perciò boh, mi fa un effetto strano sentire questa voce calma e gentile dall’altro lato della cornetta. Tant’è che faccio una smorfia allucinata e Chakuza mi guarda, inarcando interrogativo le sopracciglia. Io sollevo due dita per dirgli di far silenzio, mentre quella, dal telefono, mi fa “parlo col signor Losensky?”. Una donna che mi chiama Losensky è, tipo, una cosa mai sentita prima dai tempi della scuola. Ma sul serio. Ci resto un po’.
- Sì, sono io. – rispondo quando riesco a raccogliere abbastanza lucidità, - Scusi, con chi parlo?
- Sono Greta… - risponde lei. Faccio l’elenco delle groupie del mio periodo di gloria, tristemente defunto quattro o cinque mesi fa. Non mi pare di ricordare nessuna Greta. Non mi pare neanche di aver chiesto nomi, in realtà. Mah. – El-Haddad. – aggiunge lei. Vuoto. “Pure araba”, mi dico, e dico anche “ma che cazzo, quand’è che smetterà di rompere le palle la fottuta Africa?”, e mentre lo penso borbotto questo dannato cognome a mezza voce, giusto per vedere se facendolo mi torna in mente qualcosa, ed ho la malaugurata idea di sollevare gli occhi su Chakuza. E lo trovo che mi fissa congelato, pallido come un cencio.
El-Haddad. Ok. Saad.
Non so bene cosa dirle. Lei resta in silenzio.
- Buonasera. – butto lì, un po’ confuso. Mai vissuta una situazione simile. E di situazioni particolari posso vantarne un casino, io. – Posso fare qualcosa per lei?
- Sì, può… - comincia lei, vagamente incerta, - può darmi del tu e chiamarmi Greta, per cominciare, e poi… - si ferma ancora, e resta di nuovo in silenzio.
Io deglutisco.
- Sì? – la incito. Non posso davvero stare avendo questa conversazione con questa donna. E in tutto questo Chakuza continua a fissarmi come se fossi un unicorno sputafuoco apparso improvvisamente nel centro della sua stanza al posto dell’uomo che stava limonando o provando a limonare fino a pochi secondi prima. Giuro che se non la pianta lo prendo a cazzotti.
Lei si schiarisce un po’ la voce.
- Avrei bisogno di parlarti, Patrick.
Patrick. Cioè, parliamone. Io sono Patrick per mia madre, per Bill quando è in vena di tenerezze, per Chakuza quando è in vena di scazzi o quando faccio qualcosa di particolarmente fantasioso in un momento in cui non se la aspetta e per Sido quando è in vena di paternali – e neanche sempre. Patrick mi chiama, lei. C’è da andarci fuori di testa, davvero. Io ero lì mentre il suo uomo veniva ammazzato, Cristo santo.
- Sì. – rispondo a mezza voce, - Naturalmente. – anche se sto pensando “naturalmente il cazzo”. – Dove?
Lei sembra stupita. Resta in silenzio ancora un po’.
- Verrai? – chiede, incredula.
- Eh. – annuisco io, grattandomi la nuca, - Sì, se mi dici dove.
Lei mi fa il nome di un locale che solo a sentirlo mi vengono i brividi. So dov’è, è un posto sciccosissimo appena fuori città, una specie di enorme sala da tè riadattata a locale di lusso. Classico posto da tavolini tondi e piccoli con ampie tovaglie rosse drappeggiate che strisciano sulla moquette nera immacolata che copre il pavimento.
- Ci metterò un po’, non è esattamene dietro l’angolo. – le faccio presente, e lei mi rassicura: non ha fretta, non c’è problema.
- E potresti… hai qualche possibilità di portare con te anche Peter?
Guardo fisso davanti a me, Chakuza mi sta ancora lanciando occhiate terrorizzate.
- Sì, lo chiamo. – annuisco. – A fra poco.
Interrompe la chiamata prima che possa dire o anche solo pensare qualsiasi altra cosa.
Chakuza deglutisce.
- Era… - comincia, ed io lo fermo.
- Sì. – rispondo sbrigativamente, - Coraggio, datti una mossa, abbiamo un mucchio di strada da fare. – lui mi fissa allucinato ancora per un po’, gli occhi verdi enormi nella penombra della stanza, ed io lo squadro supponente dall’alto in basso. – Sì, ma devi cambiarti, non puoi mica-
- Fler! – mi ferma lui, esasperato, sistemandosi il cappellino sulla testa dopo aver finalmente rimosso le mani da dove ha continuato a tenerle per tutto il tempo della telefonata, - Ma di che cazzo stai parlando?!
- Prima di tutto, Cristo santo, vai a lavarti le mani prima di toccarti in giro! – sbotto io, tirandogli via la mano dal cappellino e trascinandolo in bagno, - E che cazzo, mi stavi facendo una sega fino a due secondi fa!
- A proposito-
- Concentrazione, Chaku, dobbiamo uscire. – borbotto aprendo il rubinetto e lavandogli le mani. Col sapone e tutto. Dio mio, che cosa sto facendo? Io dovrei essere a casa mia a dormire.
- Quando tu mi chiedi di uscire è sempre l’inizio di un guaio enorme. – risponde lui, occhi bassi e voce cupa, mentre si lascia maneggiare neanche avessi due anni. Questo è il modo in cui Chakuza mi dice che non ha proprio alcuna voglia di fare qualsiasi cosa sia quella che vorrei chiedergli. Diventa svogliato e insopportabile. Sono momenti tremendi, sono i momenti in cui la mia voglia di massacrarlo di legnate raggiunge i suoi picchi storici.
- Chaku, ti prego, non cominciare. Greta mi ha chiesto di vederci, ha bisogno di parlare con noi. Ci sei, fino a qui?
Lui annuisce controvoglia.
- Vieni, sì?
Annuisce ancora.
- Chaku?
- Mhn?
- Non mi costringere a fare qualcosa di cui poi dovrei pentirmi, d’accordo?
Lui grugnisce e si allontana da me, asciugandosi le mani con un panno.
- Prendermi a cazzotti, strillare che non vuoi più vedermi, buttarmi una secchiata d’acqua in testa…?
- Baciarti perché so che dopo mi ascolti. – rispondo, afferrandolo per una spalla e rivoltandolo, inchiodandolo contro la parete e guardandolo fisso negli occhi. – Devo proprio?
Lui mi guarda con tanto d’occhi e a me viene un po’ da ridere. Credo che Chaku abbia di me un’idea incredibilmente distorta. Come faccio ora a spiegargli che inseguivo con la spranga i debitori insolventi, in quel di Tempelhof, nel fiore dei miei sedici anni?
- …ti sto ascoltando. – mi rassicura lui, annuendo lentamente.
- Bene. – annuisco io a mia volta, - Dicevo che era la cazzo di moglie di Saad. Che ci ha chiesto un cazzo di appuntamento. A me e te. Non potevo dirle di no.
- Certo, le abbiamo solo ucciso il marito, in fondo. – risponde lui a muso duro. Io roteo gli occhi e lo lascio andare, rubandogli il panno dalle mani per asciugarmi.
- Appunto, Chakuza. – ritorco, rimettendo l’asciugamano al proprio posto. – Quindi muovi il culo. Ce l’hai un completo elegante?
Lui riprende a guardarmi con aria sconvolta e io sospiro di nuovo. Visto che io e Chakuza abbiamo un buon feeling, ogni tanto dimentico che lui non è nella mia testa e non segue perfettamente la linea dei miei pensieri. Che non è com’era con Anis, ecco, perché con lui davvero bastava mezza parola, a volte, e si capiva esattamente dov’è che si voleva andare a parare. Senza sprechi inutili, anche solo con gli sguardi. Con Chaku non posso fare così, lo dimentico spesso, ma non dovrei.
- Greta mi ha chiesto di raggiungerla in un locale molto elegante. Se ci presentiamo conciati così, - e gesticolo, indicando i nostri abiti scomposti da svacco casalingo, - neanche ci fanno entrare, figurarsi metterci a sedere con una signora.
Lui annuisce.
- Capisco. – biascica, - Però non credo di avere niente di adatto.
Faccio mente locale, cercando di riportare alla memoria i vestiti di Chakuza, ma oltre alle felpe, alle magliette e ai jeans di cui sopra ci sono davvero solo le riviste sconce, in quell’armadio, perciò poco da fare.
- Okay, senti. – sospiro, - Andiamo da me.
Lui mi solleva addosso uno sguardo incuriosito.
- A casa tua?
- Sì. – annuisco, - Vediamo se posso darti qualcosa io.
- Tu hai dei completi?
Dio mio, quanto lo odio quando fa così.
- Sì, Chaku. Non è che siccome Eko Fresh ha deciso che sono un pezzente, allora lo sono davvero.
Riusciamo ad uscire da quell’appartamento dieci minuti dopo, e quando arriviamo a casa mia ne sono passati altri dieci ed io comincio a darmi mentalmente dell’idiota per aver accettato e non aver chiesto a Greta di andare da qualche altra parte. È una situazione complicata: so che ora vuole parlarci, ma non so se sarà di questo stesso avviso fra una o due ore, e più tempo le diamo per riflettere maggiori sono le possibilità che cambi idea. Questa, vista la situazione contingente, è un’eventualità che non posso ammettere.
Soprattutto perché la scomparsa di Saad non è ancora stata denunciata. C’è questo “forse” enorme che pende su tutte le nostre teste, su quella di Chakuza, su quella di Bill, sulla mia, ed è veramente pesante. Se posso risolverla andando a parlare con la vedova, allora devo farlo, e devo farlo subito.
Casa mi accoglie come al solito – che poi è il motivo principale per cui evito di tornarci, la maggior parte delle volte. Non è che sia disordinata o sporca, non ha veramente modo di disordinarsi o sporcarsi. È solo desolatamente vuota. Non sono abituato a vivere da solo. Io e Bushido abbiamo diviso una topaia fino a che lui non ha cominciato a fare i soldi. E da quel momento in poi, cioè, da quando lui si è allontanato in poi, praticamente, ricordo di aver dormito più spesso da Sido che non in qualsiasi altro luogo, alberghi compresi quando si andava in tour.
L’appartamento è vuoto, freddo e buio. C’è ancora il letto sfatto dell’ultima volta che ho dormito qui – non ricordo nemmeno a quando risalga – lo intravedo dalla porta della camera semiaperta. C’è polvere ovunque. Non tantissima, ma è uno strato ben visibile. Chakuza si guarda intorno e deglutisce.
- È spettrale, questo posto. – commenta lanciando occhiate incerte al piccolo divano ed al tavolino che compongono, in sostanza, l’arredamento totale del soggiorno.
Scrollo le spalle.
- Vieni. – biascico, guidandolo verso la camera da letto, - Comincia a spogliarti. Qualcosa per te dovrò pure averla. – ed entrando in camera sfilo velocemente la felpa e la maglietta, dirigendomi deciso verso l’armadio e prendendo a rovistare fra gli abiti. Certe cose non le ho nemmeno mai messe. Doreen, la moglie di Sido, è una donna molto buona e gentile, ed ogni volta che esce a far shopping per la bambina – cosa che accade con cadenza regolare di una volta a settimana – prende sempre qualcosa anche per me. A volte, dal modo in cui mi hanno palesemente adottato in quella famiglia, non sembra nemmeno che Sido sia più grande di me di soli due anni.
Nel mentre, Chakuza mi fissa come se non avesse ancora capito un cazzo di ciò che sta succedendo. So che non è così perché so che non è stupido, perciò suppongo si tratti del fatto che adesso sono seminudo e mi sto sbracciando e tendendo per cercare qualcosa che gli stia.
Sospiro.
- Chaku, piantala di guardarmi a quel modo.
Stranamente, non comincia a lamentarsi come fa quasi sempre in questi casi. Questa è la conferma che ha capito perfettamente il casino in cui ci troviamo, e la cosa mi rassicura parecchio. Lo vedo annuire e cominciare a spogliarsi, mentre riesco a recuperare nel fondo dell’armadio un abito che non indosso da secoli e le cui maniche spero riesca a compensare con quelle spalle enormi che si ritrova. Quanto ai pantaloni, al limite gli faccio un paio di svolte verso l’interno.
Gli tiro il tutto e lo prendo in faccia mentre sbottona i jeans.
- Fanculo. – sbotta, ma ha praticamente il valore di un “okay”, quindi non perdo neanche tempo a rispondergli a tono e sfilo i pantaloni, recuperando il completo nero lucido che è stato l’ultimo regalo di Doreen in ordine di tempo, ed una camicia scura.
Posiamo entrambi la roba sul letto e già un secondo dopo i vestiti son tutti mischiati. Nel tirare su i pantaloni, Chakuza ha spedito la camicia che dovrebbe mettere fra le mie cose, ed io nel tirare su i miei ho mandato all’aria la giacca, che ora copre quasi per intero la sua roba. Perciò finiamo per vestirci a pezzi passandoci vicendevolmente la roba. Che è pure una cosa divertente, infatti ridiamo. Ed almeno ho la scusa del divertimento che si trascina, quando vedo che il mio abito gli cade addosso in maniera ridicola, e posso ridere senza offenderlo troppo, anche se immagino che lui capisca il motivo della mia ilarità.
Lo sento sospirare e lo osservo scuotere un po’ il capo, rassegnato.
- Quanto sono ridicolo, da uno a dieci? – borbotta.
- Be’, dai… - cerco di rassicurarlo, ridendo ancora, - Non sei poi così assurdo. Ti si potrebbe anche dare una botta, volendo.
Mi tira un calcio sul ginocchio che mi costringe a saltellare su un piede per un minuto buono, mentre continuo a ridere tranquillamente.
- Certo che sei stronzo forte, tu. – sbotta, riallacciando le scarpe da tennis. Quelle erano e quelle restano, peraltro, anche a me pesa il culo a cambiare le scarpe.
Quando ci rimettiamo in piedi, lui mi guarda un po’ con aria compiaciuta.
- …stai bene. – annuisce alla fine, come fosse una gran concessione. In realtà la concessione non è il complimento, è l’occhiata che mi lancia, che già da sola basterebbe a farmi capire a cosa sta pensando, anche se non fosse ulteriormente precisato dalla sua lingua che si muove lentamente a inumidirgli le labbra.
- Sono uno schianto. – preciso inarcando un sopracciglio. – Sto sempre bene, vestito elegante.
- E te la tiri come una fottuta primadonna, anche. – grugnisce per tutta risposta, scazzottandomi contro una spalla.
Ridiamo ancora un po’ e sono abbastanza contento della piega che ha preso la situazione. Intendiamoci: so perfettamente che, quando saremo a due passi da Greta, Chakuza comincerà a sclerare. Com’era prevedibile, non ha mai preso bene quello che è successo quella notte, ed ha continuato a vivere in uno stato di angoscia perenne per tutto questo tempo fino ad ora, mentre aspettavamo un segno. Non posso dire di capire davvero questo suo atteggiamento, perché io sono disabituato all’ansia. Non so più com’è essere agitati per qualcosa. Però suppongo sia una cosa abbastanza normale, che poi è il motivo per cui non me la prendo davvero con lui quando mi fissa con occhi confusi come ha fatto per quasi tutta questa sera.
Quindi, insomma, so che non sarà facile gestirlo quando saremo lì. Però se riesce a mantenersi almeno un po’ calmo è già un enorme passo avanti, e non può che semplificarmi le cose.
Quando arriviamo al locale, Chakuza fissa l’ingresso con la solita aria da poveraccio sperduto. Ma io dico, perché Eko Fresh ha deciso arbitrariamente che il pezzente fra i due sono io, se poi è ovvio che è Chakuza quello che certe cose non le ha viste mai in tutta la propria esistenza?
Io qui ci sono stato con Sido e famiglia un’abbondanza di volte, perciò sono abbastanza a mio agio mentre entro ed osservo il cameriere travestito da pinguino – che si muove così elegantemente da volteggiare quasi a qualche centimetro dal pavimento – avvicinarsi a noi e chiederci se abbiamo prenotato.
Dico che siamo attesi dalla signora El-Haddad e lui annuisce compitamente, facendoci strada verso l’interno. Il posto è elegante e riservato, i tavoli – piccoli e tondi, coperti da drappi rossi pesanti e lucidi che scendono in sbuffi fino a sfiorare la moquette nera che tappezza il pavimento – sono tutti piuttosto distanti l’uno dall’altro. Abbastanza da concedere a tutti il riserbo di cui hanno bisogno.
Dio sa se ne abbiamo bisogno anche noi.
Greta è semplicemente stupenda. La notte in cui abbiamo fatto fuori Saad non me ne sono accorto, un po’ perché avevo altro a cui pensare ed un po’ anche perché lei era sfatta, agitata e in vestaglia. Però a vederla adesso è palese, tant’è che io resto pure un po’ senza fiato. Chakuza fa una mezza risatina e mi dà una gomitata nel fianco.
- È sempre stata così. – mi sussurra, - Saad aveva un ottimo gusto.
Annuisco senza neanche rendermene conto, sono ancora un po’ imbambolato quando ci sediamo al tavolino di fronte a lei. Ha dei capelli biondi che sembrano grano, di quello delle pubblicità delle merendine ai cinque cereali, però, non di quello vero. Quello vero ha sempre un colorito un po’ smorto, soprattutto nelle campagne intorno alla città, mentre quello delle pubblicità è sempre, tipo, il biondo più bello che possa esistere – sarà che non esiste davvero; forse è per quello. Comunque il biondo di Greta è ancora più biondo di quel biondo lì, ed io mi perdo un po’ sulla frangia ondulata che le scende lungo la fronte e si ferma sulla tempia, guidata da un fermaglio nero molto elegante, con delle decorazioni floreali.
I capelli li ha raccolti in uno chignon alto e piccolo dietro la testa, sono sistematissimi, tanto da sembrare finti. Non ce n’è uno fuori posto. Però fanno un buon profumo di shampoo alle more, quindi finti decisamente non sono. E stanno bene un sacco con i suoi occhi, che sono azzurrissimi e tristi e un po’ stanchi, ma fieri.
Per un momento penso che adoro le donne del ghetto, perché hanno sguardi che ti sanno dire tutto in un niente. Mia madre è così, Luise Maria è così. Bill è così ed anche Greta è così.
Sistema per qualche secondo le numerose pieghe dell’abito bianco lungo che indossa, e che si perde in un morbido strascico che brilla quasi contro la moquette scura. Le mani sono pallide e curate, e si muovono con grazia appianando gli sbuffi di tessuto. Sia io che Chakuza restiamo interdetti e silenziosi per tutto il tempo; non c’è proprio niente da dire a riguardo: è bellissima, punto.
Quando solleva lo sguardo, io e Chaku facciamo quasi un salto sulle sedie. Ci guarda a lungo, dritti negli occhi, prima lui, poi me, e non sembra nemmeno respirare. Non sembra una creatura di questo mondo. Poi, lentamente, inspira. E quando apre la bocca Chakuza va immediatamente in tensione.
- Io ed Anis, - dice, e giuro che il suo nome era proprio l’ultimo, l’ultimo davvero, che potessi aspettarmi di sentire stasera, - eravamo molto amici.
Per un secondo, ci resto un po’. Voglio dire: mia madre ha sempre adorato Anis. Anche Luise Maria ha sempre adorato suo figlio. La Steen se l’è portato a letto per un considerevole quantitativo di tempo e ciò che faceva con Bill è abbastanza noto a livello mondiale, ormai, ed ora veniamo a scoprire che aveva le mani in pasta anche con la moglie di Saad. Quell’uomo non aveva limiti, cazzo. È assurdo a pensarci, non so se ricordarlo con un sorriso o con un “fanculo”.
Anche Chakuza sembra non fosse preparato alla cosa, tant’è che resta pure lui a guardarla come stesse recitando l’alfabeto al contrario o che so io.
- Mio fratello Thomas, - continua lei, intrecciando le dita sul tavolo, - ha avuto dei problemi piuttosto seri. Io e Saad eravamo sposati da poco ed eravamo… molto giovani e molto stupidi. Io, soprattutto, non sono stata in grado di accorgermi di niente, e quando ho scoperto dei debiti enormi che aveva accumulato a causa della droga non ho saputo cosa fare. Mi sono sentita persa, e le cose sono peggiorate ancora quando l’hanno arrestato. S’era messo a spacciare anche lui, per cercare di rimborsare i debitori. – fa una pausa, un po’ per riprendere fiato, perché si vede che fa fatica, nonostante sia piuttosto calma, ed un po’ per lasciare anche a noi il tempo di metabolizzare. Ci mette più tempo Chakuza, che pare si stia rendendo conto solo adesso di aver vissuto in mezzo ai criminali fino ad ora. Per me è vagamente più normale. Vagamente. – Ne ho parlato con Saad. Ci abbiamo riflettuto a lungo e l’unica cosa che siamo riusciti a capire era che da soli non potevamo tirarcene fuori. Saad ancora, sapete, non era sotto contratto all’Ersguterjunge. Lui ed Anis però si conoscevano, si conoscevano da un sacco di tempo, perciò l’idea iniziale era chiedere a lui. Solo un prestito, ovviamente, volevamo solo pagare gli avvocati. Thomas era costretto a stare in galera, in attesa del processo. E lui era… - si passa una mano sul collo, come a voler sciogliere i muscoli tesi, - Diciassette anni sono troppo pochi, per certe cose.
Vorrei dirle che io a diciassette anni ci avevo già abbondantemente fatto il callo, a questioni simili, ma non le dici certe cose a una sorella che parla del fratello in galera, così come non le dici ad una madre che dice lo stesso del figlio. Ci sono cose che uno non può dire.
Quando mi schiarisco la voce e parlo, è per dire tutt’altro.
- Cos’è che ha fatto Anis? – chiedo. Perché è questo il punto della questione. È attorno a questo che ruota tutto, altrimenti lei non l’avrebbe tirato in ballo.
Greta mi guarda a lungo, lo fa con una certa curiosità. E poi sorride appena.
- Ha risolto la questione. – dice, la voce modulata su un tono più dolce e caldo rispetto a prima, - Tutta l’intera questione, senza che noi neanche glielo chiedessimo. Gliela esponemmo e basta, gli chiedemmo dei soldi e lui rispose con uno strano sorriso buffo, dicendoci “vi sembro tipo da fare l’elemosina, io?”. E Thomas era fuori la settimana successiva. Fuori e senza più un debito.
Mi limito ad annuire. Così tipico di lui, mi dico con un mezzo sorriso. Anis era uno che le situazioni se le prendeva a cuore, in genere. Non tanto per altruismo o per ricavarne un utile, direi piuttosto per una specie di strano orgoglio. Abituato com’era a considerare propria qualsiasi cosa toccasse, era per lui un’offesa intollerabile che qualcuno si azzardasse a metterci sopra le mani. Perciò il fratello di un amico non può restare in galera, soprattutto se ha diciassette anni ed è palesemente carne da macello.
Greta sorride ancora.
- Lo conoscevi molto bene? – mi chiede, ed io sento Chakuza agitarsi al mio fianco. È la classica situazione che preferirei non vivesse, questa, ma ormai l’ho portato fino a qui, non ho più molto da fare a riguardo.
- Quanto bastava. – rispondo, - Quindi?
Lei inspira ed espira ancora, sistemandosi un po’ sulla sedia ed accavallando elegantemente le gambe.
- Quindi io amavo mio marito. Ma quello che c’era con Anis non era solo un debito. E non era solo affetto. – si interrompe ancora, sorseggiando il drink ancora intoccato che ha di fronte, - Mio marito l’ha ucciso. Voi avete ucciso lui. Io lo so. E ci metterei poco a scoprire quello che mi serve per incastrarvi. – Chakuza suda freddo, io cerco di tranquillizzarlo sfiorandogli una mano con due dita, da sotto il tavolo, ma serve a poco. E poi lei lo dice. – Ma non intendo farlo. Le regole valgono per tutti e… non siete stati voi ad infrangerle. È stato Saad.
Questo, molto semplicemente, chiude la questione. Le chiude tutte, anzi. Non voglio soffermarmi a riflettere sul legame che stringeva questa donna ed Anis, ho imparato tempo fa e a mie spese che con quell’uomo definire è molto pericoloso. Definire, ma anche non farlo, in fondo. Non ricordo di aver mai definito niente di ciò che c’era fra noi, con lui, e forse è per questo che mi pesa ancora addosso.
In tutto questo, da quando siamo arrivati, Chakuza non ha ancora spiccicato parola. D’accordo, non che io abbia fatto chissà che grandi discorsi – diciamo che Greta ha parlato abbastanza per tutti – ma fa strano davvero non sentirgli dire niente. Sospiro e stringo un po’ la presa sulla sua mano, lasciandolo andare subito dopo. Lui si riscuote e mi guarda, decidendosi finalmente a chiudere le labbra – fino ad ora semiaperte in un’espressione di sgomento mal dissimulato – e schiarirsi la voce, annuendo. Si sistema sulla sedia, a disagio, e io sorrido un po’.
Chakuza, ti regalerei un ristorante tutto tuo, certe volte. O anche un agriturismo in campagna, chissà. Bill sarebbe bravo ad accogliere i clienti ed accompagnarli nelle loro stanze mentre elenca i benefici della campagna senza crederci neanche un po’, visto che lui la odia. Però probabilmente con te ci verrebbe.
Greta freme e intreccia più strettamente le dita, prima di deglutire faticosamente e tornare a guardarci con una luce vagamente intimorita negli occhi.
- Potrei sapere dov’è? – chiede quindi, inumidendosi nervosamente le labbra. Al momento non saprei stabilire se sia più giusto che sappia o no. È passato un bel po’ di tempo da quando abbiamo buttato Saad nel canale. Io non credo che lo vorrei vedere un cadavere in quelle condizioni. Per quanto l’abbia amato quand’era in vita. Non so se vorrei vedere neanche quello di Anis, per dire.
Mentre mi perdo sul punto, Chakuza raddrizza la schiena e guarda Greta con una certa intensità.
- Non credo che sia il caso, Greta. – le dice dolcemente. Lei annuisce subito, e sorride un po’ timidamente.
- Sì. – esita un secondo, - Sì, Peter, credo che tu abbia ragione. Ma sai… - e gesticola un po’ con una mano, un movimento elegante e fluido, che dice tutto quello che abbiamo bisogno di sapere. Abbassiamo lo sguardo, ed è la prima volta da quando Saad è morto che mi sento veramente in colpa. – In ogni caso, - riprende dopo qualche secondo, - non denuncerò la sua scomparsa. Mi ha lasciato una lettera, prima di andare via, in cui mi diceva di dimenticarlo e perdonarlo. – Chakuza ci mette un po’ a realizzare che Greta non sta raccontando dei fatti ma inventando una nuova verità. Io sorrido un po’, perché anche questo è un lascito di Anis. La verità non è niente più che la descrizione di qualcosa su cui tante persone sono d’accordo. “Il fuoco brucia” non è verità perché sì, è verità perché tutti siamo d’accordo sul fatto che, se ci ficchiamo dentro la mano, la ritiriamo carbonizzata. Quindi la verità basta inventarla e poi fare in modo che nessuno possa o voglia contestarla. Bushido lo faceva continuamente. – Nyzaad è ancora arrabbiata, ma le passerà. Le dirò la verità, prima o poi.
Io annuisco. Nyzaad dev’essere la bimba bionda. Chakuza mi guarda. Realizza. Annuisce anche lui.
Greta sorride un’ultima volta, prima di alzarsi dignitosamente in piedi.
- Questa conversazione non ha mai avuto luogo. – dice, il sorriso ancora sulle labbra. – Restate pure quanto volete.
Non la osserviamo allontanarsi. Posso immaginarla passare davanti al guardaroba e farsi portare una pelliccia dall’addetto, prima di uscire sorridendo ancora, come non avesse appena discusso di morti e denunce con gli assassini di suo marito.
Chakuza inspira ed espira e l’attimo dopo lo vedo piegarsi in avanti e piantare i gomiti sul tavolo, mentre poggia la fronte contro i palmi aperti e si massaggia un po’, come avesse un gran mal di testa.
- Chaku…? – lo chiamo a bassa voce, chinandomi nella sua direzione. Lui, inizialmente, mi risponde solo con un mugolio esasperato. Poi parla.
- Non potrei dimenticarmi l’ultima mezz’ora neanche se volessi. – ammette insolitamente quieto, senza guardarmi, - Tutto quello che è successo… non potrò dimenticarlo mai.
Mi appoggio contro la sua spalla, discretamente, e mi sporgo verso il suo orecchio.
- Non devi. – sussurro, - È un pezzo di te. Ti renderà una persona migliore.
- Di queste cose, quante ne hai viste tu? – chiede a bruciapelo, restando immobile.
- …tante. – ammetto io, scrollando le spalle, - Troppe.
- E questo ha fatto di te una persona migliore?
La risposta è “no”. La risposta, anzi, è molto simile a “no, Chaku, io sono quasi una delle persone peggiori possa capitare di incontrare nella vita”. Ma dirlo ad alta voce non servirebbe a niente, perciò mi allontano da lui e mi alzo in piedi.
- Torniamo a casa, Chaku. Non abbiamo più niente da fare, qui.
*
Chakuza ha provato come al solito a farmi restare da lui per la notte. Io, come al solito, gli ho dato picche, e l’ho fatto anche con un certo fastidio, dicendomi “ma quanto gli ci vuole, a capire?”. La verità è che non è che Chaku abbia proprio torto, in questo senso. Voglio dire, io continuo a tornare. E se ripenso a prima, quando ha provato a scoparmi contro l’armadio… intendo, quella non è una scena così distante dalla nostra routine. Perché non so come sia successo o per quale motivo, o magari lo so e mi girano solo le palle ad ammetterlo, ma so che c’è comunque una cosa che, insomma, quando ci vediamo scatta. Magari la teniamo a bada per un po’, ma poi esplode. Prima della notte in cui abbiamo chiuso la questione con Saad, capitavano cose allucinanti del tipo: io stavo svaccato sul divano a guardare la tv, lui stava in bagno a farsi la barba, e lo vedevo spuntare ancora umido di risciacquo per dirmi “oh, ma non è che ti va, per caso?”. Frase cui ho risposto più di una volta con una risata e un vaffanculo, prima di alzarmi in piedi e schiacciarlo contro la prima parete disponibile. Perché sì, mi andava.
Quindi sì, insomma, non mi stupisce tanto che Chakuza non capisca cosa mi passa per la testa. Per la verità anche io ho dei momenti in cui mi chiedo che cazzo sto facendo. Suppongo sia normale.
Riassunto: sono riuscito a sganciarmi solo due minuti fa e, per riuscirci, ho dovuto tirare fuori Bill. Quando conosci tanto bene una persona è molto facile rigirartela fra le dita. Io so che per far cambiare umore al Chaku basta nominare il ragazzino, e lui si spegne subito. Non è affatto facile spegnere Chakuza, eh. Onore al merito del ragazzino che è riuscito a devastare il cervello di due degli uomini più cocciuti ed eterosessuali mi sia mai capitato di incontrare. Per quanto mi renda conto che dare ad Anis e Chakuza degli eterosessuali adesso suoni quantomeno ridicolo. Ma comunque.
Appena gli ho detto “Chaku, io devo andare a parlare con Bill”, lui ha immediatamente smesso di cercare il bottone dei miei jeans sotto il giubbotto, nell’androne del palazzo, e mi ha guardato con aria persa e supplichevole. Suppongo volesse guardarmi solo con aria persa, ma era anche supplichevole, io lo so. Lui non se ne rende conto, quando ti sta implorando di dargli una scusa per rivederlo. Però è così.
Insomma, gli ho sorriso e gli ho dato una specie di pugno sulla spalla, dicendogli “lo sai che non puoi venire. Devo dirgli cose importanti, e tu me lo distrai”, al che lui è sclerato ed ha cominciato a strillare che dovrei smetterla di dire cazzate sul punto. Avrebbe anche ragione – perché in teoria non sarebbero fatti miei – se non sapessi perfettamente di avere ragione, sulla questione. Però lui ha difficoltà enormi a parlarne con me, e inoltre sospetto che il giorno in cui gli dirò a chiare lettere “guarda che lo so, che ti piace”, gli verrà un infarto, perciò almeno per oggi me lo sono risparmiato e l’ho osservato salire le scale a passo di carica augurandomi di andarmi a schiantare contro un muro appena uscito di là. Ho riso perché non avevo nemmeno la macchina, visto che mi sono mosso con lui, quindi anche a schiantarmi contro un muro, camminando, al più mi schiacciavo il naso.
Bill lo chiamo solo quando sono già sotto casa sua. Guardo dritto alla finestra del suo appartamento e porto il cellulare all’orecchio, dopo aver composto il suo numero a memoria. Lui mi risponde con una vocina sonnacchiosa e pigolante.
- Fleeeer… - borbotta, - Ma che c’è?
- C’è freddo ed ho voglia di un caffè. – rispondo ridacchiando, - Mi fai salire?
Lui biascica qualcosa di incomprensibile ma sento un fruscio di lenzuola tutto intorno e poi il suo ciabattare annoiato per il corridoio. Pochi secondi dopo, la serratura del portone scatta ed io mi ritrovo nell’ingresso sobrio ed elegante. Le suole delle mie scarpe da tennis sono umide perché fuori c’è un po’ di ghiaccio sui marciapiedi, e nello strisciare contro il pavimento in marmo misto producono un rumore fastidiosissimo che riecheggia per tutto l’ambiente. Sospiro e questi due piani me li faccio a piedi, se non altro perché ho bisogno di riscaldarmi un po’.
Quando arrivo, Bill sta dormendo in piedi sulla porta. Senza esagerazioni, Bill è così, si addormenta ovunque. Lo trovo appoggiato con una spalla allo stipite, gli occhi chiusi e il capo dondolante avanti e indietro, e mi metto a ridere. Lui solleva appena le palpebre e si strofina gli occhi coi pugni chiusi, mugolando scontento.
- Fler, è tipo l’alba…
È appena mezzanotte e mezza, eh.
- Bill, - lo prendo in giro, spingendolo dolcemente all’interno dell’appartamento e chiudendomi la porta alle spalle, - quando ero un ragazzino come te, io arrivavo senza chiudere occhio dalle sei del mattino alle sei del mattino del giorno dopo!
Lui si lascia spingere ciabattando rumorosamente, e mi si accuccia contro la spalla appena ci sediamo sul divano.
- Io non sono un ragazzino… - biascica, la voce impastata di sonno, - sono una principessa, le principesse a quest’ora dormono…
Rido ancora, annuendo.
- Naturalmente. Ehi, ti svegli un po’? Il caffè devo farmelo da solo?
Lui mugola e mi tira per il giubbotto, che non ho ancora sfilato.
- Vieni a dormire? – borbotta, riuscendo finalmente a togliermi la giacca sbavandomi un po’ sulla spalla, - Cioè… - si riprende un po’, sforzandosi pure di aprire gli occhi, almeno uno spiraglio, - Se mi porti a letto poi giuro che ti ascolto… però c’è freddo qui, e voglio andare a letto…
Rido ancora.
- E come fai a sapere che devo parlarti? – ghigno, sgomitando un po’ per metterlo dritto.
Lui mi si riappoggia addosso e socchiude gli occhi.
- Hai addosso l’odore di Peter, quindi siete stati insieme… e quando state insieme succede sempre qualcosa… quindi cos’è successo?
Chiaramente, il cuore prima mi sale in gola e poi sprofonda fino al centro dello stomaco, quando glielo sento dire. All’odore di Chakuza, poi, non avevo nemmeno fatto caso. Non ci faccio più caso, in realtà, da un mucchio di tempo.
- D’accordo, ragazzino, - sospiro, e mi sento schifosamente in colpa, anche se non ne ho il dovere, - per stasera e solo per stasera, sei principessa sul serio. – dopodiché, mi alzo dal divano. Lui sonnecchia ancora, quindi rotola un po’ sui cuscini e poi apre gli occhi e mi fissa con aria persissima, asciugandosi le labbra col dorso della mano.
- Fler…? – mi chiama, ed io mi chino a prenderlo fra le braccia.
Non pesa niente, il ragazzino. Mi si accoccola contro e mi allaccia al collo, posando il capo sulla spalla e mugolando soddisfatto.
- La tua ragazza sarà fortunata un sacco, sai? – sussurra sulla mia pelle, sistemandomisi addosso.
Io rido, perché mi viene in testa che non sono mai stato innamorato di una donna. Scopare, d’accordo, ma a parte mia madre tutto ciò che posso dire di amare o aver amato con le femmine non c’entra niente. Eppure, con Bill fra le braccia che mi parla di un’ipotetica fidanzata, un po’ me ne viene voglia. Una bella ragazza gentile e fedele, una casa sul mare, dei bambini, un cane pigro. È una cosa che non c’entra niente con me, me ne rendo conto. È una cosa che probabilmente non mi piacerebbe nemmeno. Però un po’ ci si pensa, quando ti dicono che una donna potresti renderla felice. Che per lei potresti essere più che abbastanza. Soprattutto quando sai perfettamente che invece non potrai mai essere abbastanza per qualcun altro, insomma, ti viene un po’ voglia di provare a vedere come sarebbe avere la certezza assoluta della totalità dell’affetto di un’altra persona. Probabilmente con una donna sarebbe più facile. Non lo so.
Bill mi indica la strada per camera sua e, quando ci entro, smetto istantaneamente di pensare. È la prima volta che metto piede qua dentro. Questa è la stanza in cui è morto Bushido, quello è il letto su cui si è disteso e su cui è rimasto mentre moriva. Per un attimo immagino le lenzuola zuppe di sangue ed esito, nell’adagiare il corpo sottilissimo di Bill sul materasso. Mi sembra di vederci delle tracce rosse che non ci sono davvero, e non voglio lasciarlo andare. Lui però allarga entrambe le braccia e si riappropria di quello spazio come di un pezzo stesso del proprio corpo. Infila le mani sotto il cuscino e lo stringe fortissimo, ed io adocchio la federa e noto che c’è scritto Ferchichi sull’orlo. E mi viene un sacco da ridere. Perciò rido e basta.
Lui apre gli occhi e ridacchia di riflesso.
- Che c’è…? – chiede, tirandomi una mezza ginocchiata mentre mi siedo al suo fianco.
Io indico il cuscino.
- Il nome... – e Bill ride a voce più alta.
- Lo ha ricamato Karima. – dice, e poi, di fronte al mio sguardo smarrito, aggiunge – La domestica. – con aria un po’ più cupa.
- Si divertiva proprio a mettere il suo nome ovunque, mh? – chiedo teneramente, stendendomi un po’ sul fianco accanto a Bill e tenendomi sollevato dal materasso col gomito. Bill annuisce e sorride, e quando lo vedo posare per bene la testa sul cuscino e socchiudere nuovamente gli occhi, mi schiarisco la voce e riprendo a parlare, - Oggi mi ha chiamato Greta.
Lui torna a guardarmi, vagamente confuso. Poi capisce di chi sto parlando.
- Perché? – chiede. Non si muove, resta lì steso a guardarmi fisso dal basso, ma il punto è proprio questo: mi guarda fisso, non c’è più sonno nei suoi occhi, tiene le palpebre ben sollevate e i suoi occhi castani sono perfettamente lucidi e attenti.
Mi metto più comodo, sistemandomi con una mano un cuscino sotto la testa. Bill mi si sposta più vicino e mi copre col lenzuolo – ovviamente non serve a niente ed è una cosa assurda, anche perché ho ancora su le scarpe, quindi sto per metà fuori dal letto e il lenzuolo finisce per coprirmi solo con un triangolino sullo stomaco, ma è una cosa tenera lo stesso. Tutto quello che so dopo è che comincio a sentirmi un po’ più caldo, ed è perché Bill mi sta abbracciando. Mi viene naturale fargli passare un braccio dietro le spalle e stringerlo. Non sembra strano.
Io e Bill ci tocchiamo spesso. Intendo, quando ci vediamo lo cerchiamo spesso, questo tipo di contatto. Sappiamo entrambi perfettamente che è perché io ho preso da Anis l’abitudine di toccare tutto. E lui, invece, a quell’abitudine lì ci si era abituato.
Suppongo che la cosa dovrebbe stupirmi di più.
Sono un po’ stupito dal non stupirmi affatto.
Bill, in ogni caso, sa abbracciare. L’unico modo per godersi un abbraccio è che chi te lo dà sappia farlo. Sappia, per dire, che sono le tue forme che devono adattarsi a quelle dell’altro corpo, non quelle degli altri che devono modificarsi per farti spazio. Uno che sappia dosare la forza, che sappia modulare la stretta, uno che sappia come alterare il ritmo del respiro perché non dia fastidio all’altro sfiorandogli la pelle. Non è una cosa da tutti. Chakuza, per dire, ha un sacco di pregi ma abbracciare non è proprio la sua cosa. È anche tenero, quando lo fa, ma proprio perché si vede che non lo sa fare. È troppo impetuoso e, quando ti stringe, lo fa perché ti sta dicendo chiaramente che ti vuole vicino. Non è una cosa che fa con altruismo, è una cosa che fa con desiderio. È bello anche quello, a suo modo, ma non è la stessa cosa.
Bill sa abbracciare, non mi stupisce, e siccome so abbracciare anch’io ci incastriamo un sacco bene. Perciò, quando riprendo a parlare, lo faccio con molta meno ansia.
- Anis ti ha mai spiegato perché lui e Saad erano così amici?
Bill stringe la presa attorno alla mia maglia ed aggrotta le sopracciglia. Sento proprio i suoi lineamenti cambiare fisionomia perché, nella ricerca di una posizione comoda, ha finito per nascondere il viso nell’incavo del mio collo. Ora potrebbe dirmi qualsiasi cosa, del tipo “amici il cazzo”, che è un po’ quello che viene da pensare anche a me, in effetti, però non lo fa.
- No. – risponde, - Anis era sincero, non stupido. E io non ho mai preteso di ficcare il naso in faccende che non mi riguardassero.
Rido un po’.
- Bravo ragazzino. – commento, stringendo la presa sulla sua spalla, - Avevi un talento, come donna del capo.
Bill annuisce lentamente.
- Era la mia strada. – dice, e sta scherzando, è evidente, però la nota seria nella sua voce non mi sfuggirebbe neanche se fossi sordo. – Insomma, quindi…?
- Be’, - comincio a raccontare, - pare che sia cominciato tutto perché il fratello di Greta… Greta ha un fratello, lo sapevi?
Lui ride appena contro la mia pelle, e scuote il capo.
- Tu di mestiere non dovresti fare il rapper, sai? – mi prende in giro.
- Sì, infatti mi sto un tantino rompendo le palle di fare il detective da strada. – sbotto, agitandomi pure un po’, fra le sue risate. Approfitto del momento rilassato perché mi sa che se non vuoto il sacco col ragazzino adesso, non lo faccio più, - A proposito di questo, sai che pensavo di andare in tour con Sido, con l’anno nuovo? – Bill si irrigidisce e si allontana un po’, lanciandomi un’occhiata allarmata, - No, ehi, niente lagne. – lo avverto, guardandolo come stessi rimproverando un bambino di tre anni, - Fai il ragazzino grande.
- Ma Patrick! – comincia, sottolineando il mio nome in tono di rimprovero.
- Niente nemmeno “Patrick”, ragazzino. – borbotto ancora, tornando a stringermelo contro di prepotenza, così che lui smette di agitarsi come un’anguilla e sceglie la via del tentativo di commozione stritolandomi in un abbraccio pieno di bisogno.
- Non puoi andartene così… - biascica confusamente.
- Non vado mica via per sempre… - lo rassicuro, accarezzandogli piano la nuca, - Solo qualche mese.
- Ed io e Chaku faremo in tempo a impazzire, nel mentre. – lo dice a bassa voce, in tono quasi spettrale. Perfettamente consapevole di ciò che questa frase significa. O meglio, perfettamente consapevole di cosa significhi per lui. Di cosa significhi per me suppongo che non ne avrà mai idea. Anche perché io non gliela posso fare questa, al ragazzino. Non posso proprio. Sono destinato a perderli tutti in favore suo, penso, e mi viene un po’ da ridere mentre lo faccio. Anis era molto epico, nelle sue manifestazioni; immagino questi siano gli strascichi che si fanno sentire su di me.
La verità è che spero impazziscano sul serio. Impazziscano, una buona volta, e facciano questo dannato passo avanti. Io – cazzo – non voglio essere quello che andrà da Chakuza, fra uno o due mesi, per dirgli “be’? Guarda che ti sta aspettando”. Non voglio assolutamente, e il pensiero che invece potrebbe essere quello che mi toccherà fare, se resto troppo a lungo, mi tortura. Quindi voglio togliermi di mezzo e voglio farlo in fretta e voglio che, quando sarò tornato, tutto si sia già mosso nel modo giusto, e sia ormai irreversibile. Come quando Anis mi ha detto che sarebbe andato via solo a giochi fatti. Quando non potevo più nemmeno seguirlo, anche volendo. Perché così è più facile, Anis l’ha sempre saputo: è più facile quando sei di fronte a un fatto che non puoi cambiare. Ti metti il cuore in pace.
Comunque non ce la faccio ad affrontare un discorso alla “non ti lascerò andare via”, in questo momento. Soprattutto perché se Bill me lo chiedesse nel modo giusto, non potrei davvero farlo. Se davvero, guardandolo negli occhi, sospettassi che ciò che vuole davvero è avere me qui, perché senza non può stare, resterei. Sarebbe lo stesso con Chakuza. Se lui mi dicesse che il motivo per cui non può togliermi le mani di dosso è che sono io che faccio motivo da me, resterei. Ma sia il ragazzino che Chakuza mi vogliono tra i piedi solo perché così è più facile, inciampando in me non corrono il rischio di inciampare l’uno nell’altro.
Io non voglio dare adesso a Bill la possibilità di farmi pensare che mi voglia qui. Perciò lo tengo buono e ricomincio a parlare.
- Vedrai che non sarà così drammatico. – scrollo le spalle, riducendo la faccenda a una cosa di minima importanza, - Comunque sia questo benedetto fratello di Greta ha avuto dei brutti problemi con certi brutti tipi con i quali uno non dovrebbe mai avere a che fare. E in men che non si dica s’è ritrovato con la merda al collo. E indovina chi è arrivato sul suo fottuto cavallo bianco in una riedizione ghetto-style del principe azzurro?
Bill dimentica istantaneamente il resto della nostra conversazione e mi si abbatte addosso, ricominciando a ridere.
- Anis? – chiede, cercando di riprendere fiato fra una risata e l’altra.
- Cazzo, sì. – rido anch’io, scuotendo il capo, - Tra l’altro pare che abbia risolto sia i problemi coi brutti tizi che i problemi legali che ne erano derivati. Cioè, te lo vedi? Infilato in un completo nero che va a disquisire con gli avvocati fino a mezzogiorno, e poi avvolto in una tutaccia da svacco che va a minacciare di morte gli spacciatori per i vicoli di Tempelhof. Assurdo.
- Grandioso. – corregge lui con un sorrisino dolce.
Io rido ancora un po’.
- Già. – concedo alla fine. – Comunque, - riprendo con un sospiro, - questo è quanto. Anis salva il culo al ragazzino, gratitudine eterna da parte della donna del ghetto. Ovvio.
Bill ride ancora, scuotendo rassegnato il capo.
- Questo però non spiega tu cosa sia venuto a fare qui… - mormora confusamente. Poi sembra realizzare, e solleva lo sguardo a cercare il mio, - …a meno che tu non stia cercando di dirmi che è grazie a questo che…
Annuisco prima ancora che possa finire.
- Pare di sì. – aggiungo per rafforzare il concetto, - Insomma, siamo a posto. È andata. Finita. Ora puoi dormire tranquillo. – dico sbrigativamente, rimboccandogli il lenzuolo sotto il mento.
Bill si lascia maneggiare come stesse già dormendo, ma ha un’espressione assorta e lo vedo giocare con la fede che porta al dito, quella che mi ha detto di aver rubato da uno dei portagioie di Anis, perciò non lo lascio solo. È evidente che ha ancora qualcosa da dire.
- Quindi… - biascica infatti dopo un po’, mettendosi bene disteso sul materasso, - parentesi chiusa. È questo che intendi.
Scrollo le spalle.
- Be’, sì. – ammetto, - Dubito che sentiremo ancora parlare del fatto. Credo che, a domanda, Greta risponderà che è stato Saad a lasciarla senza farsi più vedere.
Bill annuisce. Prende atto. E poi sospira.
- Tu non ti muovi di qui, stanotte. – borbotta, appendendosi alla mia maglia – sono contento di essere passato a cambiarmi, prima di venire qui – e tirandomi scompostamente verso di sé.
- D’accordo, d’accordo! – concedo, sfilando le scarpe ed infilandomi sotto le coperte, - Sei viziato da morire. E Sido domani mattina mi farà il culo, arriverò con un ritardo stratosferico.
- Non ti ci faccio andare, da Sido! – continua a lagnarsi lui, ma già lo vedo che sta riprendendo sonno, - Tu poi non torni…
Sospiro profondamente.
- Torno, ragazzino, torno. Ti devo ancora una vacanza.
Mezzo addormentato per com’è, lo vedo sorridere mentre mi si adagia sul petto e crolla, esausto. Sistemo per bene le coperte, sistemo per bene i cuscini, sistemo per bene lui. E poi metto il punto alla giornata.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Questa telefonata significa più di quello che sembra e m'incazzo all'idea che mi raggiunga in un momento del genere."
Note: Questo spin-off io sognavo di scriverlo da un po’ e la cosa è evidente di fronte al fatto che non ho avuto grossi problemi esistenziali a buttare giù le cinque pagine che compongono la mia parte. L’evento ha del miracoloso, credetemi. Per quanto sia uno spin-off e per quanto sia breve (sempre 10 pagine ma in questi ultimi tempi ci siamo abituate a stordirvi con ben altri numeri *ride*) racchiude in sintesi praticamente tutta la storia e io lo amo molto per questo.
Ogni giudizio di carattere morale sul comportamento del Chakuza verrà amabilmente ignorato dalla sottoscritta… no scherzo! XD Scherzo, davvero. Se avete qualcosa da dire, ditela pure. E’ bello quando avete cose da dire.
Ah! Il file di questa storia è rimasto nominato TeLoRegaloPrenditeneCura!Bu per giorni e giorni, tanto che io lo spin-off volevo chiamarlo così ma Liz non me lo ha permesso. =P
In fine, tanto per concludere: il sito ufficiale di Eine Kugel Reicht è aggiornato e la Timeline è ora comprensiva di EXP + 10%, StaadtFeind nr.1, Collide (ma non questa X’D).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I WILL

Ci sono dei momenti in cui Bill è bellissimo. Sono momenti molto precisi e specifici, perché Bill è generalmente bello, ma in quei determinati istanti splende. Quando è felice di vedermi, per esempio. Capita si passi settimane intere senza poter fare altro che sentirsi al telefono, e quando finalmente riusciamo a metterci le mani addosso sul suo viso si apre un sorriso così enorme che lui sembra illuminarsi tutto.
Adesso è uno di quei momenti. La stanza è immersa nella penombra del primo mattino, il sole non è ancora sorto e Bill sta dormendo al mio fianco. Non è carino e delicato come ci si aspetterebbe da uno con la sua faccia. Sta steso sul materasso, le braccia e le gambe larghissime, e dorme a bocca aperta, russando un po’. È così che finisce puntualmente per rovinarsi la voce, ogni volta si ritrova con la gola gonfia come un canotto e fa fatica perfino a parlare. È che qui siamo circondati da un terreno piuttosto ampio, somiglia un po’ all’aperta campagna, ed anche il freddo è quello dell’aperta campagna. Bill non riesce a ficcarselo in testa o, più probabilmente, non gli importa.
Mi rigiro su un fianco e pianto il gomito sul cuscino, tenendomi dritto per poterlo osservare dall’alto, e mi mordo subito un labbro. Io e Bill abbiamo un tacito accordo per il quale col suo corpo posso fare tutto ciò che voglio, ma sarebbe carino se almeno, prima di toccarlo, lo avvertissi che sto per farlo. Questo non perché Bill sia infastidito dall’idea di avere le mie mani addosso mentre dorme. No, è che Bill ha un estremo bisogno di sentirsi parte di questa coppia. Col fatto che nelle occasioni pubbliche è richiesto da lui il più religioso silenzio, Bill ha necessità di fare casino, quando siamo chiusi in casa, nel nostro mondo. E quindi vuole avere diritto di parola, se decido di toccarlo.
Bill, comunque, ci mette ore a svegliarsi. Ed in queste condizioni non posso certo aspettarlo.
Gli faccio scivolare un braccio dietro la schiena e l’altro sul ventre, stringendomelo contro. Lui non reagisce immediatamente ma, appena il suo corpo tocca il mio e ne percepisce il calore, si raggomitola sul mio petto come un gatto in cerca di coccole.
Sorrido appena, infilando una mano sotto la maglietta e scorrendo la traccia della sua spina dorsale lungo la schiena magra. Bill mi sbava un po’ sulla maglietta, mugolando scontento. “Tomi…”, borbotta, tirando un mezzo calcio al vuoto, ed io sbuffo una mezza risata e scuoto il capo. Fino a qualche mese fa, una cosa del genere mi avrebbe indisposto in maniera furiosa. Mi sarei alzato e Bill non mi avrebbe più rivisto fino a sera. Fino a qualche mese fa, un “Tomi” mugolato in questo momento sarebbe stato, più che un’offesa, il tentativo inconscio di Bill di ricordarmi che l’avevo portato via dal suo mondo. Che sì, d’accordo, lui forse aveva fatto uno sforzo per intrufolarsi nel mio, ma ero stato io a portarlo via definitivamente, stabilendo che stare con me significava anche stare solo con me.
Non lo nascondo e non me ne vergogno, so bene di quali colpe mi sono macchiato nel corso della mia vita: il rapimento di Bill rientra nell’elenco, assieme a tutto il resto, ma è una delle poche cose di cui nemmeno mi pento.
Lo bacio su una tempia e Bill si rilassa subito. Scioglie i lineamenti tesi del sonno disturbato e solleva le braccia a stringermi al collo. Il respiro profondo e quieto che gli scuote appena il petto mi conferma che sta ancora dormendo, ed io comincio apposta a muovermi piano, per non svegliarlo. Gli disegno addosso il mio nome, tutto per esteso, lungo il fianco. È da un po’ che parliamo di questo fianco, Bill vuole assolutamente scriverci su qualcosa ed è da quando me l’ha detto che non faccio che ripetergli che ho un nome abbastanza lungo da starci per esteso, fino all’inguine. Ogni volta lui ride e mi guarda e dice “Anis, lo sai che non si può…”, ma è più deluso che razionale. Lo so che gli dispiace. Potesse, mi starebbe attaccato addosso giorno e notte, altro che tatuaggi. Solo che non può. Perciò ho preso l’abitudine di scriverglielo addosso con la punta delle dita. A lui piace.
Insinuo le dita oltre l’orlo dei pantaloni. È ancora caldo di sonno. Respiro forte contro il suo collo e lui piega un po’ il capo, appoggiandosi sulla mia spalla e sfiorandola con le labbra umide. Io sorrido sulla sua fronte e vago un po’ lungo le cosce magre e i fianchi stretti prima di risalire lungo la cucitura dei boxer e poi superare l’orlo anche di quel sottile strato di cotone, sfiorandolo appena fra le natiche. Caldissimo e morbidissimo, Bill mi accoglie dentro di sé senza la minima difficoltà, ancora provato dalla notte appena trascorsa. Lo sento trattenere per un attimo il respiro mentre le dita da una diventano due, e quando scendo a succhiare avidamente la pelle liscia e sottile del collo avverto il ritmo dei suoi respiri cambiare all’improvviso, e quando il mugolio che trema dentro la sua gola mi annuncia che sta per svegliarsi rallento appena il ritmo con cui le mie dita si muovono dentro di lui, così che svegliandosi non debba sentirsi troppo invaso.
- Anis… - borbotta contro la mia spalla riprendendo conoscenza, il bacino che si muove indipendentemente dalla sua volontà per seguire il ritmo imposto dalle mie dita, - Lo stai facendo di nuovo…
- Mh-hm. – annuisco, baciandolo piano lungo il profilo della mascella, fino alle labbra, - Ti spiace?
- Quante… - ansima, piantandomi le unghie sul braccio, - quante volte… devo dirti… di chiedere…?
Sorrido e scendo a mordergli il collo, ipnotizzato dal movimento lento dei suoi fianchi.
- Posso entrare, principessa? – chiedo ironico, mordendo piano.
- Sei… - i suoi occhi chiusi fanno fatica a restare tali, le ciglia tremano impercettibilmente nel buio della stanza, - sei già dentro…
Rido un po’, stringendomelo addosso di modo che possa sentirmi alla perfezione.
- Non parlavo delle dita, Bill. – mormoro ad un centimetro dal suo orecchio, rallentando il ritmo, - Ho voglia di sentirti.
Bill ansima forte sulla mia pelle, gli occhi serrati.
- Ma… David-
- Aspetterà.
- …Anis, tutta la notte, noi…
- Dimmi che non vuoi e ti lascio subito in pace.
Bill ansima pesantemente e mi si abbandona addosso, cercando sollievo per la propria eccitazione pulsante fra le gambe.
- …come faccio a dirti che non voglio? – mugola, cercando le mie labbra per un bacio che gli concedo immediatamente.
- Non dirlo, principessa. – e Bill infatti non lo dice. Dimentica Jost, che probabilmente starà già tartassando il suo povero cellulare di chiamate che resteranno senza risposta, e si solleva sulle braccia, scavalcandomi e sedendosi su di me, allacciandomi al collo.
- Facciamo in fretta, però? – chiede con aria rassegnata, strofinandosi contro di me.
- Dammi il mio tempo, Bill. – obietto baciandolo velocemente.
- Anche se non te lo do… - mugugna lui sulle mie labbra, - te lo prendi lo stesso.
Rido a bassa voce, sistemandomelo per bene in grembo ed entrando lentamente dentro di lui. Bill si tende tutto intorno a me e getta all’indietro il capo, gli occhi serrati e le labbra dischiuse, il respiro debole e un po’ affannoso. È il mio modo di fare con tutto, credo. Se penso che qualcosa mi spetti, me la prendo. E le cose mi spettano se anche solo le voglio. Finché non pensavo che Bill mi spettasse, Bill nel mio letto non è entrato. O meglio, lui è entrato nel mio letto perché è un ragazzino cocciuto e testardo, ma io non sono entrato dentro di lui, e questa era una sfumatura molto importante. Ma quando l’ho voluto, me lo sono preso. E succede sempre così: quando voglio tempo, quando voglio attenzioni, quando voglio la sua presenza, quando voglio lui, io me lo prendo. Ho fatto così anche con altri, prima che lui arrivasse. In modi e per motivi diversi, ma l’ho fatto.
Suppongo sia una colpa anche questa.
Suppongo sia questo, anche, il motivo per cui questa sera uscirò con Chakuza e metterò in chiaro quello che a grandi linee sto cercando di fargli capire da quando l’ho mandato all’aeroporto a recuperare Bill.
Io mi sono messo nei casini da solo.
Si sta avvicinando il momento di pagare, in un modo o nell’altro.
Fra le tante cose che mi ha insegnato Tempelhof – ed è assurdo pensarci mentre Bill si muove lentamente su di me, sollevandosi ed abbassandosi in sincrono con le mie spinte – c’è anche la massima fondamentale della vita per cui non importa affatto chi ha ragione e chi torto. Il punto non è essere dei bravi ragazzi o dei cattivi ragazzi: la vita riserva solo merda per tutti. Il punto non è come ti comporti, il punto è se resti in piedi alla fine della serata. Se ancora respiri. Se non perdi sangue. E, in caso tu lo perda, se sei forte abbastanza da rimarginare la ferita prima che ti uccida. È questa l’unica cosa che conti.
Prima di Bill, non mi sarebbe importato di andare da Chakuza e spiegargli per bene che, per qualsiasi evenienza, toccherà a lui prendersi cura di Bill. Non mi sarebbe importato perché non avevo nessuno di cui m’importasse anche oltre me stesso. Io per Bill non ho paura solo finché resto in piedi. È il periodo che seguirà la mia caduta, che mi terrorizza. Non mi era mai successo, prima d’ora. L’unica altra persona per la quale ho provato un simile trasporto è stata mia madre, ma lei è troppo distante dal mio mondo e da ciò che sono ora, per essere davvero in pericolo. Al momento, a rischiare sono solo io, ma se io muoio non ho idea di cosa potrebbe succedere in giro. Non ho idea di cosa la mia assenza potrebbe scatenare.
Se Fler darà inizio alla fine del mondo facendomi fuori, voglio che Bill abbia un cavaliere dalla sua parte. E voglio che quel cavaliere sia Chakuza.
- Anis… - Bill mi chiama a bassa voce, stando bene attento a come pronuncia il mio nome, lasciando scivolare la s fra i denti e la lingua, ed io scendo ad accarezzarlo lentamente fra le gambe. Subito i suoi movimenti si fanno più ansiosi e concitati, e non passa molto prima di sentirlo tendersi e stringersi attorno a me, mentre lascia andare il capo all’indietro e viene fra le mie dita, arrendendosi alla mia stretta. Continua a muoversi anche dopo l’orgasmo, continua a farlo anche se è spossato e indolenzito. Non gli importa, sa che non vuole fermarsi finché non sarò venuto anch’io e quindi, testardo, continua ad agitarsi.
Io sorrido appena e cerco di trattenermi quanto possibile, perché adoro quando si muove in questo modo. Languido, sensuale, lento. Bill non lo è quasi mai, in genere è una pertica imbizzarrita priva della benché minima grazia, ma in questi momenti, quando è stanco e sopraffatto dalla sensazione indomabile dell’orgasmo che ancora lo scuote a tratti, riesce ad essere davvero sexy. Senza nemmeno volerlo, ed è quello il punto. Quando si atteggia, Bill può attrarre al massimo qualche sedicenne in aria di bisessualità. Sono i momenti in cui non si controlla, quelli in cui è veramente sensuale.
Venti minuti dopo – ha appena avuto il tempo di riprendere fiato, io sto ancora cercando il mio – sta già volteggiando confusamente dall’armadio allo specchio, impegnatissimo nell’attività di vestirsi nella maniera più adatta per andare alla Universal, affrontare suo fratello e fargli credere per lui sia indifferente ottenere la sua approvazione o meno. Bill, ogni tanto, tira fuori una combattività che non c’entra niente col ghetto e nemmeno con i capricci ostinati di una principessa. È una cosa propria del suo essere com’è, un misto di testardaggine infantile ed orgoglio spaventosamente adulto che costringono gli altri a chinare il capo. Con la crew c’è già riuscito. Suo fratello, però, è uguale a lui. Quindi servirà più tempo.
Mi sollevo dal materasso, lasciandomi ricadere di dosso le lenzuola, e scorgo l’occhiata imbarazzata che Bill mi lancia dallo specchio, prima di tornare a concentrarsi sul proprio riflesso e sulla sequela di bottoni che deve preoccuparsi di affibbiare assennatamente sul petto. Sorrido nell’ombra, non visto. Poche cose mi compiacciono come la consapevolezza che, ad avermi davanti ogni ora del giorno e della notte, Bill non riuscirebbe mai a staccarmi gli occhi di dosso. Non riuscirò mai a capire davvero a cosa pensasse la principessa bianca come la luna quando ha deciso di innamorarsi dell’uomo nero, ma so per certo che, quando l’ha fatto, l’ha fatto per davvero. E perciò, di fronte a me, Bill è arreso.
Lo stringo ai fianchi con le braccia ed a lui basta sentire la lieve pressione del mio sesso già quasi nuovamente pronto a prenderlo, per irrigidirsi ed arrossire.
- Anis… - sussurra piano, mentre io mi chino a baciargli il collo e lo solletico appena con le labbra, - Ma abbiamo appena finito, e poi è già tardi, e-
- Farò da solo quando sarai andato via. – gli respiro addosso. Bill mugola e stende il collo, ripiegando il capo contro la mia spalla.
- …è uno spreco. – biascica, spingendosi verso di me, - E non sono ancora completamente vestito…
Ghigno e gli mordicchio un lobo.
- Ma è già tardi. – concludo, chiudendo i bottoni dei jeans e poi allacciando la fibbia della cintura, - Stai attento che salti bottoni. – dico, accennando col mento alla sua immagine nello specchio. Mi fermo un po’ a guardarlo, mentre lo faccio. Respira profondamente, le sue mani seguono il profilo delle mie ed i suoi occhi sono lucidi e pieni di voglia. – Sei bellissimo.
Bill mi si rigira fra le braccia, allacciandomi al collo e strofinandosi sfacciatamente contro di me. La chiusura metallica della cinta, contro la mia pelle bollente, è quasi dolorosa.
- …posso restare a guardarti? – chiede, lasciando baci piccoli ed umidi lungo la linea delle mie clavicole, - Solo un po’…
- Devo fare da solo perché tu devi andare via, principessa. – gli faccio notare, stringendolo alla vita, - Se resti, non ho motivo di fare da me. Ti pare?
- È che… - si morde un labbro, sospirando pesantemente, - non ti ho mai visto, e invece tu…
Lo bacio lentamente, profondamente, fino a sentirlo confuso ed abbandonato in punta di lingua.
- Mi vuoi guardare, piccolo? – gli chiedo fra le labbra, e lui annuisce in silenzio, gli occhi socchiusi, le palpebre che tremano appena. Rido e lo bacio di nuovo. – Non adesso. – concludo, lasciandogli una sonora pacca sul sedere, - Jost poi mi insulta. – e mi allontano.
Bill rimane quei due, tre secondi a fissarmi dall’alto in basso – la linea dei pettorali, gli addominali, l’ombelico, le ossa sporgenti delle anche, il desiderio che svetta imponente fra le gambe – e poi si lascia andare ad un ringhio piccolo e frustrato, incrociando le braccia sul petto.
- Hai sempre avuto in testa questa cosa dell’obbedire a David, tu… - borbotta, ravviandosi i capelli dietro le spalle con un gesto stizzito.
Io rido.
- Be’, è un alleato utile, in ogni caso. Per dire, ti copre ancora con tuo fratello, quando lui accidentalmente dimentica che stiamo insieme da tre anni.
I lineamenti del volto di Bill si rilassano e la sua bocca si piega in un sorriso delizioso. Fare la conta degli anni con lui funziona sempre. In realtà funziona sempre anche con me – quando ci penso non mi sembra vero finché non realizzo che è davvero così. Certe lunghezze ti sembrano irreali, se non le misuri costantemente.
Sospira e torna ad aggrottare le sopracciglia, rimettendo su il broncio tipico delle finte offese.
- Be’, d’accordo, visto che non vuoi accettare la mia generosa offerta, resta qui da solo. – mi si avvicina di un passo e mi spinge all’indietro. Io lo lascio fare e cado sul letto. Mi tengo sollevato piantando i gomiti sul materasso e lo fisso di rimando, con aria di sfida. Lui mi fa una linguaccia. – Riprendi confidenza con la tua mano, mi sa che è troppo tempo che non ti do occasione di usarla. – io rido ed obbedisco, accarezzandomi lentamente un paio di volte. Bill arrossisce e si morde un labbro, guardandomi attentamente. – Ricordami di chiedertelo più spesso. – pigola poi, deglutendo a fatica. – Comunque ti odio! – borbotta, ed esce dalla camera sculettando infuriato, battendosi oltraggiato la porta alle spalle.
Rido e mi lascio andare disteso sul letto, rinunciando subito al proposito iniziale. Senza Bill non è lo stesso. E stasera penso che, per un po’, mi farò guardare.
Prima, però, ho una faccenda da risolvere.
Allungo una mano verso il comodino e recupero il cellulare, componendo a memoria il numero di Chakuza e restando in attesa finché lui non risponde.
- Chaky? – lo chiamo, mentre sento in sottofondo la voce di sua madre che gli chiede se per caso non sono Klaudia, e di salutarmi, in caso fossi lei. Ridacchio. – Ho un favore da chiederti. – lui annuisce, un “uh-hu” confuso che mi fa ridere ancora. – Possiamo vederci, più tardi? – lui risponde con un “ma sì, ovvio, a che ora?”. Io sospiro. – Nel pomeriggio. – poi ghigno un po’, - A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex.

*

Bushido mi chiama che sto riparando un lavandino in casa di mia madre e un po' quella telefonata me l'aspettavo. Non che sapessi quello che poi mi avrebbe detto ma è evidente che in questi giorni sta accadendo qualcosa e che lui ci avrebbe chiesto favori.
A dirla tutta, sono due settimane che a casa sua facciamo finta che gli attacchi di Fler non si siano fatti più aggressivi e che le sue risposte non si siano automaticamente regolate di conseguenza. In questi ultimi tempi, Atze ha sempre tentato di essere diplomatico ma quando le offese pesanti hanno cominciato a piovere sulla Principessa, ha smesso con la convivenza pacifica e non ha più risparmiato una virgola a quel cretino di Fler.
Comunque lui non parla e noi non chiediamo. Sediamo nel suo salotto e beviamo birra. La nostra attività principale, tendenzialmente, è quella di ignorare: le diss di Fler, l'incazzatura che tende il viso di Bushido e Bill, ovvio.
Bill siamo bravissimi a fingere che non sia in casa e che non si stia facendo la doccia. Quando compare in salotto vestito, truccato e perfetto come sempre, noi fingiamo che le ore precedenti non le abbia passate a scopare con Bushido. Perfino Eko butta sempre lì un "Ciao Principessa" che sembra che Bill venga da fuori piuttosto che dalla camera da letto.
Una roba così, però, la reggi solo per poco; poi la tensione ti sfonda il fegato. Quindi sono contento quando quella telefonata arriva. Quasi sospiro di sollievo.
Esco fuori da sotto il fottuto lavandino che non ne vuole sapere di farsi rimettere in sesto - dovrò chiamare un cazzo di idraulico - e do a mia madre un nuovo buon motivo per ricominciare a dirmi che secondo lei dovrei stringere di più, oppure farlo di meno, o anche chiudere l'acqua che l'ho già fatto quattro ore fa quando sono arrivato qui ma ancora continua a dirmelo. Quando apro il flick, lei smette di improvvisarsi idraulico per chiedermi "E' Klaudia? Me la saluti?"
Klaudia non è più la mia ragazza da un mese e mezzo ma mia madre finge che non sia così. Le ho detto più volte che io e lei non ci vediamo più, che si è addirittura trasferita dall'altra parte della città e che ha rivoluto indietro quel quintale di ciarpame che aveva lasciato nei miei cassetti ma mia madre niente, da quell'orecchio non ci sente.
La verità è che la prolungata presenza di Klaudia nella mia vita l'aveva portata a convincersi - mia madre, non Klaudia - che ci saremmo sposati di lì a poco e che c'era un nipotino in arrivo, in non più di sei mesi, massimo un anno. Klaudia non stava pensando di avere figli e io comunque non stavo pensando di sposare Klaudia. In ogni caso ci siamo lasciati, per motivi - tra l'altro - che non posso spiegare a mia madre, per cui...
"No, mamma, non è Klaudia," sospiro alla fine e sento Bushido che ride. "Atze?"
Spingo gentilmente mia madre fuori dalla stanza e la sento borbottare che a lei quel Bushido non piace mica tanto.
"Disturbo?"
Incastro il telefono tra il collo e la spalla e mi lavo le mani. "No, figurati. Anzi, mi salvi da una mattinata di morchia giù da un lavandino."
"Conosco un paio di ragazze che pagherebbero per vederti in canotta e sporco di morchia."
Rido mentre m i asciugo le mani. "Grazie ma sono a posto così."
"E Klaudia?"
Dio, anche lui con questa Klaudia. "Andata," rispondo e mi siedo sul water coperto.
Per terra c'è un casino di attrezzi e di cenci luridi, nonché quel catino appena sotto il sifone che è pieno di roba schifosa.
"Un vero peccato," commenta lui. "Era un amore, Klaudia."
"Non so se avresti detto lo stesso, conoscendola," sorrido. "Era un po' isterica."
"Credo di essere abituato all'isteria," risponde lui. "Klaudia almeno non aveva 19 anni, Chakuza."
Qui evito proprio di rispondere. Ho paura ad aprire bocca su Bill, con Bushido non sai mai cosa puoi dire e cosa no. Per dire, io lo so che Bill a volte va fuori controllo - tipo che l'altro giorno che l'ho accompagnato al supermercato per ordine di Atze e non ha trovato le caramelle che cercava. Per venti minuti non gli ho potuto parlare perché qualunque cosa dicessi mi mangiava la testa. E questo è solo un esempio. Io però mica posso fare notare ad Atze che il suo fidanzato è fuori come un citofono. "C'era qualcosa che volevi dirmi?" Cerco di deviare il discorso, che di Klaudia mi sono anche un po' rotto.
"Sì, ho un favore da chiederti."
"Uh-uh" annuisco vago perché forse mi è venuto in mente che il problema del lavandino potrebbe essere il tubo stesso. E se devo cambiare un tubo, piuttosto compro a mia madre un bagno nuovo.
"Possiamo vederci più tardi?"
La voce non smette di essere divertita, ma cambia tono. E' più bassa, più netta e questo mi fa capire che c'è un certo grado di serietà dietro al cazzeggio. Klaudia serviva a coprire la pesantezza di una motivazione che non mi dice. "Sì, ovvio, a che ora?"
"Nel pomeriggio," ghigna. "A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex."
Fissiamo in una birreria non lontana da casa mia. Quando riattacco, con il lavandino che gocciola in sottofondo, so che questa telefonata significa più di quello che sembra e, per quanto assurdo sia, mi incazzo all'idea che mi abbia raggiunto mentre riparavo il lavandino. Questa non è una telefonata normale, doveva arrivarmi nel momento meno normale del mondo. Invece sono a casa di mia madre, a fare una cosa per lei come faccio sempre ogni volta che riesce ad acchiapparmi e so che da lì a quattro ore Bushido mi dirà qualcosa che non mi piacerà per niente. Ma proprio no.

*

La birreria è un buco incastrato tra due palazzi giganteschi, in una via praticamente invisibile appena dietro casa mia. Quando mi sono trasferito, ci venivo quasi ogni sera perché era comoda e perché ci si mangiava bene e il mio frigo era sempre vuoto. La situazione della mia dispensa non è cambiata molto negli ultimi due anni, in effetti. Il mio problema non è che non mi vada di cucinare, anzi, io adoro cucinare. E' che non ho la testa per fare la spesa, tenere a mente le scadenze o comprare le cose giuste nella quantità giusta. Anche quando andavo all'istituto professionale - ho studiato da cuoco. Sì, io. - il mio problema non era mai preparare qualcosa ma avere tutti gli ingredienti, o gli utensili. Ero molto distratto. Il tipico caso di E' bravo ma non si impegna. Ad ogni modo, anche ad aver voglia di cucinare, non avevo mai niente in casa con cui farlo, per cui scendevo, mi facevo due passi a piedi e andavo a farmi sfamare dalla proprietaria del locale, che era una donna gigantesca e mi faceva quasi più paura di suo marito. Poi, più o meno sei mesi fa, i due hanno venduto e la birreria ha cambiato gestione, diventando di proprietà di una famiglia di tunisini, che le zuppe non te le fanno, ma ti preparano il kebab. Tra le altre cose, ho poi scoperto che questi sono parenti di Bushido. In effetti non so se siano parenti veri o parenti di altro tipo, con Bushido non si sa mai: ha le mani in pasta ovunque e la tendenza a chiamare parenti tutta una serie di persone diverse, per motivi che no so e neanche voglio sapere.
Quando spingo la porta, di fatto, lo trovo già dentro seduto ad uno dei tavoli riservati che parla con uno dei proprietari che indossa una canotta bianca tragica e ha al collo una patacca da far rabbrividire il buon gusto. Mi rendo conto che ho appena fatto dei giudizi di stile sul tunisino proprietario di una bettola della semi-periferia berlinese. Questa è evidentemente l'influenza malefica della Principessa e dei suoi giudizi cinici sulle donne in carne coi pantaloni a vita bassa. Devo decisamente chiedere a Bushido di trovare a Bill un'altra guardia del corpo che non sia io.
I due parlano fitto e Bushido ride in quella maniera un po' sguaiata che ha quando siamo fra di noi. E' da segnali come questo - il tipo di risata, le sue braccia che si appoggiano sullo schienale della sedia dove sta seduto al contrario - che capisci che è tranquillo e, di conseguenza, che in quel posto ti ci puoi rilassare. E' un posto amico.
Il tipo si chiama Fouad, se non ricordo male, ed ha una sorella bellissima, che si chiama Halida e non è quasi mai presente nel locale. E' timidissima, e l'abbiamo vista spuntare solo un paio di volte da dietro la porta delle cucine. Intanto che mi perdo nella mia testa e negli occhi di quella donna, che li ho visti una volta sola e potrei ricordarmeli finché campo, Bushido si accorge di me. "Chaky, da questa parte," mi chiama a gran voce, agitando la mano.
Mi siedo al tavolo e Bushido ordina per entrambi due birre rosse senza chiedere il mio parere. Fouad sparisce all'istante e solo allora noto che il locale è praticamente quasi vuoto.
"Allora? Che succede?" Chiedo quando il tunisino ritorna con le birre per poi eclissarsi di nuovo.
Bushido beve un sorso dal suo bicchiere e ci guarda dentro con un'aria pensosa che non mi piace. Quando uno si perde in mezzo litro di birra e sembra vederci dentro il futuro del mondo, significa che sta cercando le parole da dirti e che quelle parole sono le più pesanti che ti sia mai capitato di sentire.
"Immagino che tu sappia come stanno le cose tra me e Fler in questo periodo," dice alla fine.
E' un esordio che non mi aspettavo. Voglio dire, sapevo che avremmo parlato di Fler, ma non con questo tono. Me lo aspettavo arrabbiato, non così, come se Fler fosse il preambolo trascurabile di una questione ancora più seria. Al momento non ci sono questioni più serie di Patrick Losensky che spara minchiate sulla Principessa, su Bushido e sull'Ersguterjunge.
Mi sbaglio.
"Sì, direi di sì," rispondo, senza fargli notare che questa è una cosa che hanno capito anche i muri. Io dico che anche la signora Lotte, la mia vicina di casa, ormai lo ha capito che Fler e Bushido si odiano e che Fler lo prende in giro perché ha un fidanzato. "Credo che Fler abbia passato ogni limite."
Lui fa un mezzo sorriso intenerito, senza alzare lo sguardo. E' uno di quelli che fa incazzare Saad, che non li sopporta perché, generalmente, sono rivolti a due persone soltanto. Uno è Bill - e lasciamo perdere che cosa Saad pensi di quel ragazzino -, e l'altro è Fler al quale, nonostante tutto, Bushido si ostina a rivolgere una sorta di rispetto nostalgico che gli impedisce di riempire le nostre canzoni di merda vera. Urliamo a Fler da mesi ma Bushido non ci ha mai permesso di dirgli veramente chissà cosa. Saad per questo potrebbe uccidere, proprio non riesce a capire come faccia Bushido a permettergli tante delle cose che gli permette. E dire che è piuttosto semplice da capire: lui e Fler sono cresciuti insieme e si sono divisi per una cazzata tanto grossa che era quasi impossibile non rimanere con l'amaro in bocca. Voglio dire, sì d'accordo i soldi e gli ideali, ma erano cose di cui forse si poteva discutere, cose che non erano sufficienti a troncare i ponti, ad offendere madri e fidanzati. Quei due si rispettano perché erano amici e quando rispetti un'amicizia che non c'è più, in realtà quella c'è ancora o non la rispetteresti. E Saad, cazzo, mica lo vede. Va avanti per la sua strada e non c'è verso di farglielo capire.
"Ho visto Fler tre giorni fa," la voce di Bushido cambia tono e si fa più calda. Questa volta alza lo sguardo e mi osserva mentre io spalanco la mascella su una birra che ho appena assaggiato. "Abbiamo stabilito una tregua di qualche ora per poter parlare."
Annuisco lentamente. Certo, ha senso. Credo.
"E abbiamo deciso che chiuderemo la questione una volta per tutte."
Nella mia testa quelle parole suonano un po' come l'enorme gong di una chiesa buddista e rintronano sulle pareti del mio cervello, stordendomi neanche troppo leggermente.
Bevo. "E per chiudere, intendi...?"
"Intendo finirla," dice subito lui. "E' andata avanti troppo a lungo."
Io per un momento rimango immobile e mi chiedo se quello che ho capito ha un senso oppure no. Bushido non può veramente avere in mente di far fuori Fler. Quello canta e basta, cazzo. Noi cantiamo e basta. Mica puoi pensare sul serio di uccidere un cristiano come se fossimo in un film di Tarantino. Lui deve leggere la confusione sul mio viso, anche perché ce l'ho stampata in faccia - lo so perché mi conosco e quando trovo che qualcosa sia assurdo senza possibilità d'appello, la mia faccia riporta esattamente il mio pensiero. Ho i lineamenti di gomma, mi muovo tutto. Sono un pessimo giocatore di poker.
"Immaginavo che avresti reagito così," mi dice con uno sbuffo divertito.
"Non ho reagito in nessun modo."
Lui annuisce un po', come uno che vuole dirti di sì quando pensa tutto il contrario e poi beve di nuovo. "Tu quando non vuoi parlare, le cose le dici lo stesso," commenta. "Il viso, le mani, il modo in cui ti muovi. Se qualcosa non ti va o ti confonde, in qualche modo traspare. Non menti mai, per questo sei qui stasera."
"Non capisco," ammetto.
Lui prende un sospiro lungo, che fa ancora più paura del tempo che si è preso per cercare le parole che hanno dato il via a questa serata. E' un sospiro per darsi coraggio. E io mi chiedo a cosa gli serva questo coraggio. Cosa può far paura a Bushido che coinvolga me, Fler e questa birreria?
"Tra quattro giorni, io e Fler ci incontreremo e chiariremo la cosa fra di noi."
"Ma Atze, non-"
Mi ferma sollevando una mano, l'indice e il medio diritti e il resto delle dita leggermente piegato, come a chiedermi tempo più che a darmi ordini. E io mi fermo perché come al solito mi sono buttato senza aspettare.
"Quello che avrà luogo da qui a tre giorni è già stato deciso e non deve interessarti, se non per un motivo soltanto," quelle dita sollevate diventano una "Ed è lo stesso motivo per cui ti ho chiamato."
Questa volta sto zitto.
"Come ti ho detto al telefono, ho bisogno di un favore."
"Qualunque cosa, Atze."
"No." Mi ghiaccia con quel rifiuto e l'occhiata che mi lancia è sufficiente perché io mi senta in dovere di guardarlo. "Non accettare prima di sapere di cosa si tratta. Se dirai d sì, lo farai consapevole dell'impegno che ti sei preso."
L'aria è tipo elettrica, non ho idea di come ci sia riuscito. Fatto sta che sono in ansia e ora più che mai vorrei essere sotto il lavandino in casa di mia madre piuttosto che qui di fronte a quest'uomo che è visibilmente sul punto di rivelarmi qualcosa che non voglio sentire.
"Quando io e Fler ci scontreremo, non so come andrà a finire," esclama poi, dopo interminabili minuti di silenzio. "Fler ci sa fare con le armi, gliel'ho insegnato io."
Non so se dovrei preoccuparmi del fatto che sorride, anche se è sempre uno di quei sorrisi amarissimi che gli sollevano un solo angolo della bocca. "Quindi potrei creparci se quella sera decidesse di incazzarsi sul serio." Poi mi guarda. "E credimi, è sulla buona strada."
Il mio cervello non potrebbe girare più a vuoto di così perché adesso ho due interrogativi. In primo luogo mi sto chiedendo ancora una volta in che razza di universo parallelo sono finito per ritrovarmi nella condizione di ascoltare questa discussione. In secondo luogo, adesso devo anche cercare di capire quale sia il mio ruolo in tutto questo.
Rimango in silenzio e attendo il resto che mi arriva dritto in faccia, senza nessun preavviso. Con Bushido è facile capire quali siano le cose importanti: sono quelle che ti dice senza giri di parole. "Se io muoio, voglio che sia tu a prenderti cura di Bill."
Vorrei che avesse detto qualcos'altro. Il mio primo pensiero coerente dopo quelle parole è che vorrei non averle sentite, non male da parte della persona a cui le hai appena dette. Lui ha la prontezza di spirito di continuare a parlare e riempire il baratro che si è aperto tra me e lui e che è pieno di tutto ciò che quella richiesta implica. La morte di Bushido, la sofferenza di Bill e io che devo tenerlo insieme quando è chiaro che cadrebbe a pezzi.
"Dopo la mia morte," e lo ripete di nuovo, con quella calma assurda, "ci sarebbe un gran casino, credo. O almeno io lo spero che se crepo ci sia casino."
Fa un sorriso e ne strappa uno anche a me. La tensione un po' si scioglie, che è quello che ci vuole perché le cose serie vanno affrontate con un certo grado di rilassamento o non si ha abbastanza cervello per reagire nel modo giusto.
"Bill in questo casino ce l'ho trascinato io," dice poi, "ma non voglio che ci resti se io non sono con lui."
Annuisco perchè questo lo so già. Ho visto come lo tratta e con che cura lo guarda. Bushido non lo perde mai di vista, Bill, lo tiene sempre sott'occhio anche se non sembra. Anche quando non è lì fisicamente. E nessuno osa dirgli o fargli niente - Fler è un caso a parte - proprio perchè quel ragazzino il marchio di Bushido è come se lo portasse addosso. E' roba sua, lo sanno tutti. Però credo che lo distruggerebbero se sapessero che Bushido non può vederli né sentirli. E se conosco un po' Bill, non vorrà andarsene di qui se Bushido non ci sarà più. Anzi, si aggrapperà ancora di più a tutto quello che gli ricorda il suo uomo e non ci sarà verso di schiodarlo. E Dio solo sa come gli ridurrebbero la vita una merda se si arrogasse il diritto di far parte del giro anche senza avere più il letto di Bushido da scaldare.
Per quanto io possa ancora fare fatica ad accettare l'idea di un duello e di un morto, non mi è difficile capire che Bill avrebbe bisogno di protezione. Questo non c'entra niente con il ghetto e con le bande, c'entra con le persone. Se sei circondato da gente che ti odia, vorresti sempre qualcuno che sia dalla tua parte. Questo lo capisco anche io. E Bill ne avrebbe bisogno, se Bushido morisse. Ce l'avrà qualcuno che lo protegge, perché la possibilità di rifiutare non l'ho nemmeno presa in considerazione e me ne rendo conto all'improvviso, come una rivelazione divina.
Negli ultimi tempi io e quel ragazzino abbiamo passato un sacco di tempo insieme perché Bushido mi manda a prenderlo e riportarlo, e Bill mi parla un sacco - mi sfianca a furia di chiacchere, non sta mai zitto. E io un po' mi sono affezionato a quella pertica che urla e strepita davanti ai negozi di scarpe. Non voglio che stia male e non voglio neanche che qualcuno si azzardi a pensare di poterglielo fare solo perché Bushido non è più lì.
Ci sarò io con lui. "Conta su di me, Atze," gli dico.
"L'ho già fatto," e sorride.

Quattro giorni dopo, Bushido è morto e io stringo tra le braccia un Bill scosso dai singhiozzi che non si riprenderà se non quasi quattro mesi dopo, quando ogni cosa è ormai precipitata e io ho imboccato un casino dietro l'altro senza fermarmi in tempo.
Di quella sera in birreria mi resta ogni dettaglio, come se ce lo avessi marchiato addosso nella testa, perché di fronte a quei bicchieri di birra io a Bushido ho fatto una promessa importante e nel bene o nel male, quella promessa l'ho mantenuta.
Lui lo sa.
Genere: Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Al venti dicembre duemilaotto, Bill Kaulitz si aspetta un Natale normale. Ed invece gli capita fra le mani il Babbo. E va tutto per il verso sbagliato - ma chissà che invece non sia proprio il verso giusto, alla fine.
Note: C’è qualcosa di meraviglioso nel svegliarsi al mattino e rendersi conto di aver scritto qualcosa come nove pagine di storia (seimila parole, all’incirca) tutte di seguito XD Anche nell’assoluta incertezza della loro qualità effettiva, il pensiero di avercela fatta è esaltante XD Accidenti, comunque, a questa mia assurda mania di plottare storie destinate palesemente allo sviluppo in più capitoli e convincermi a farle partecipare ai contest come oneshot.
Questa storia è stata scritta per il Fidelity X-Mas Party ’08, proposto da Lokex. I punti da cui prendere ispirazione erano tre: bisognava ci fosse un cavallo (e Palla di Neve spero ricopra adeguatamente il ruolo con la sua apertura alare da tre metri e mezzo circa XD), un personaggio della letteratura (ed io ho deciso arbitrariamente che Babbo Natale è tale personaggio) e dovevano essere presenti le parole “fino a Natale”.
Il difetto principale di questa storia è che nella seconda parte si mette a correre in maniera spaventosa, e quindi, poverina, si rovina un sacco. Ma la prima parte mi piace molto e l’idea originale era meravigliosa: giustamente non era mia, ma di Nai. Me l’ha plottata in dieci minuti e poi abbiamo coccolato insieme l’idea finché non siamo state soddisfatte di ogni più minuscolo dettaglio, e solo dopo l’ho scritta XD In un certo senso, quindi, è decisamente una collaborazione. E c’è un pezzo di Nai in questo contest <3
A parte questo, non molto altro da dire: mi dispiace per l’aberrante lunghezza e spero non annoi XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A CHRISTMAS CAROL

Quello era indubbiamente Babbo Natale. Bill ne era sicuro. Da qualsiasi lato lo si guardasse, non c’erano dubbi che tenessero: era tondo, era vestito di rosso, aveva le guanciotte lucide e sporgenti, una lunga e morbida barba bianca ed un cappello col pon pon sulla testa. Lo fissava bonario come non avevano mai fatto nemmeno i suoi nonni e la sua pancia si sporgeva in avanti fin quasi a sfiorarlo ogni volta che respirava.
Oltretutto, era uscito dal suo camino.
Non poteva che essere Babbo Natale.
La cosa poneva Bill di fronte a tutta una serie di interrogativi che valeva la pena porsi. Del tipo “ma allora esiste davvero?”, molto differente dal più classico “ma allora non è vero che non esiste?”, perché in realtà Bill aveva sempre tenuto moltissimo a quell’intimissima parte di sé che non aveva mai smesso di credere alle fiabe. Perciò sì, sarebbe valsa la pena di prendersi un momento per rifletterci e sbottare in un “ha! Allora avevo ragione!” che poi sarebbe stato il caso di infiocchettare un po’ e passare a Tom come appropriatissimo regalo di Natale – “chi è che aveva ragione, Tomi? Ripeti dopo di me: Bill”.
L’uomo di fronte a lui, comunque, non gli diede tempo di riflettere su niente, perché si espresse in un rotondissimo “ho ho ho” e poi gli diede un paio di pacche sulla spalla, tranquillo, gioviale, serafico, come fosse perfettamente normale avere Babbo Natale in salotto.
Bill si guardò intorno. In casa non c’era nessuno.
Erano lui e il nonnino lappone. Un incredibile testa a testa.
- Caro Bill… - disse il vecchietto, sempre sorridendo, ed a Bill quasi venne da ridere a propria volta nel pensare che lui, da piccolo, ne aveva scritte tante letterine a Babbo Natale, cominciando appunto con “Caro Babbo Natale”, - sicuramente ti starai chiedendo perché sono qui.
Bill inclinò il capo e si grattò una guancia.
- Fra le altre cose, sì. – ammise annuendo.
Babbo Natale rise ancora.
- E ti starai probabilmente chiedendo anche perché io sia qui il venti dicembre, visto che i regali si portano il ventiquattro notte…
Okay, quindi Babbo Natale portava davvero i regali. Questo apriva delle prospettive meravigliose: se era davvero lui che portava i regali, perché tutti – perfino lui! – ricordavano sempre i pomeriggi di shopping festivo prima della fatidica sera? Babbo Natale governava le loro memorie? Dava loro dei ricordi falsi perché si illudessero sulla sua non-esistenza? La cosa cominciava a farsi complessa.
- …anche. – annuì Bill, che in realtà non se l’era chiesto perché era ancora impegnato a cercare un modo abbastanza crudele e sfacciato per dirlo a Tom.
- Ebbene… - Babbo Natale si chinò e recuperò da terra il sacco di iuta che aveva mandato in avanscoperta lungo la canna del camino, e sul quale poi Bill l’aveva visto agilmente cadere qualche secondo dopo, - ho un regalo in anticipo per te! – e, così dicendo, tirò fuori dal sacco un minuscolo cucciolo di unicorno.
Che era indubbiamente un unicorno. Bianco, col musetto tondo e rilassato, dormiva amabilmente e stava tutto raggomitolato su se stesso, la lunga criniera azzurra e lucente a scivolare sul collo, confondendosi con la foltissima coda ripiegata contro una zampetta. Ed un ridicolo abbozzo di corno tondo e dall’aspetto gommoso ad uscire dalla fronte, proprio sopra gli occhietti chiusi. Era talmente piccolo che stava tutto sul palmo della mano di Babbo Natale.
Il primo istinto di Bill fu sollevare una mano ed accarezzarlo. Il secondo, gongolare fra sé ripetendo al fratello immaginario che aveva nella testa “ma allora vedi che esistono anche gli unicorni? Haha!”. Il terzo – che poi fu ciò che fece – fu puntare un dito contro Babbo Natale, inorridire e strillare.
- Ma tu ci sei caduto sopra!!! Avresti potuto ucciderlo!!!
Babbo Natale rise bonario – il solito serafico “ho ho ho” che era davvero un suono tondo – e sistemò sul naso gli occhialini – minuscoli e cerchiati d’oro, Bill sospettava fossero anche abbondantemente inutili, visto che erano perfino più piccoli delle sue pupille. Occhiali decorativi, insomma.
- Bill, il sacco di Babbo Natale è un sacco magico. – spiegò, - Sai quante ernie mi verrebbero, altrimenti? I miei poveri reni ne risentirebbero. – aggiunse annuendo, - Le cose si materializzano solo quando io ne ho bisogno.
Bill inarcò le sopracciglia.
- Ma allora perché usare il sacco? Se le materializzi così…
Babbo Natale s’imbronciò come un bambino.
- Ma così è molto più carino! – motivò infervorandosi, e Bill non poté che dargli ragione. – Comunque sia, mi aspettavo di trovarti molto più ricettivo! – continuò sbuffando.
Bill si sentì tremendamente in colpa. Insomma, era Babbo Natale! Venuto a trovarlo anzitempo con un unicorno in mano, addirittura! Avrebbe dovuto essere più carino, con lui. Decisamente.
- Mi… mi dispiace. – mugolò affranto, stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, - Scusami, Babbo, è che la tua è stata una visita inaspettata, quindi… - si fermò e rifletté. Poi tornò a sollevare gli occhi in quelli puntuti e azzurrissimi del nonnino, e s’illuminò in viso. – Aspetta qui! – disse, allontanandosi a saltelli verso la cucina.
Tornò due minuti dopo con un piattino colmo di biscotti al cioccolato ed un bicchiere pieno di latte fino all’orlo.
- Ho ho ho! – rise felice Babbo Natale, poggiando l’unicorno sul pancione sporgente e battendo le mani, - Questa sì che è una bella accoglienza! – si complimentò, sedendosi al tavolo senza chiedere il permesso e poggiando sul ripiano di legno il cucciolo prima che finisse schiacciato fra il pancione e il bordo.
Bill si sedette accanto a lui e lo osservò ruminare biscotti ed annaffiarli col latte per una quantità di tempo indefinito, prima di poggiare il mento sul palmo della mano e guardarlo con aria inquisitoria.
- Dunque, Babbo… cosa ti porta da queste parti? – chiese, col tono più casuale possibile. Non voleva essere più sgarbato di quanto già non fosse stato.
- Ah, già! – disse il nonnino, tornando subito serio e ripulendosi le labbra col dorso della mano guantata, - Ho un enorme favore da chiederti, Bill.
Il moro lo osservò recuperare l’unicorno ancora dormiente e riposarlo sul palmo della mano, porgendoglielo.
- Come forse saprai, gli unicorni sono animali piuttosto rari. – cominciò ad istruirlo con aria professionale, annuendo fra sé, - Si dice siano estinti, ma non è così. In realtà qualche esemplare c’è ancora, ma sono molto pochi. Tanto pochi che, generalmente, i genitori stanno molto attenti a non perdere i piccoli in giro. – il nonnino inarcò le sopracciglia verso il basso, scontento. – Per qualche motivo, però, i genitori di questo cucciolino sono scomparsi. Ed è veramente molto piccolo, come vedi non gli sono ancora cresciute le ali…
Bill annuì partecipe, piegando le labbra in un broncio triste e giungendo le mani sul petto.
- Ma è terribile… - commentò, - ed i suoi genitori non si possono trovare…?
- Ho già messo una squadra di elfi alla ricerca. – annuì il nonnino, serissimo, - Ma ci vorrà del tempo, capisci?
Bill annuì e sfiorò teneramente il musetto dell’unicorno con due dita. Lui non mostrò neanche di accorgersene e continuò a dormire beato.
- Ora… fossimo in un altro periodo dell’anno, - ricominciò a borbottare Babbo Natale, mentre Bill si perdeva sulle lunghissime ciglia del cucciolo, - non ti chiederei mai un favore simile. Ma siamo proprio sotto le feste e sia io che Mamma Natale che gli elfi siamo molto impegnati coi preparativi, e con una squadra in missione in giro per il mondo non è tanto semplice conciliare il tutto, e i cuccioli di unicorno hanno bisogno di molte attenzioni, e…
Bill sollevò gli occhi sul nonnetto.
- …aspetta un attimo, Babbo. – cominciò allarmato, - Di che favore stiamo parlando?
“…ma soprattutto, vogliamo parlare di Mamma Natale?”, gli venne quasi naturale aggiungere. S’interruppe giusto in tempo, riportando alla memoria un’antica lezione impartitagli da David durante gli anni della loro gavetta e splendidamente riassumibile in “i filtri, Dio, Bill!, i filtri, quando parli!”.
Babbo Natale, comunque, si strinse imbarazzato nelle spalle.
- Ho bisogno di una persona fidata cui lasciare l’unicorno. – spiegò, - Capisci, qualcuno che possa prendersene cura. Solo per qualche giorno! – si affrettò a rassicurarlo, - Il venticinque sera verrei immancabilmente a riprenderlo, e per allora conto anche di avere ritrovato i suoi genitori!
Bill lo fissò, gli occhi enormi.
- Ed io sarei una persona fidata…? – chiese incerto, indicandosi. Generalmente, solo suo fratello era tanto stupido da pensare di lui una cosa simile senza pensare anche a quanto fosse drammaticamente inesatta, per voler usare un eufemismo.
Babbo Natale annuì compiaciuto.
- Sì, Bill. Tu ti affezioni alle cose e credi nella mia esistenza ed anche in quella degli unicorni, quindi sei la persona più adatta. Ma soprattutto… - aggiunse con aria grave, agitandogli un dito guantato di fronte al naso, - sei ancora vergine. E, com’è noto, solo i vergini possono domare gli unicorni.
Incerto fra la possibilità di sprofondare in un baratro da aprire nel pavimento grazie alla forza del proprio imbarazzo, e quella di scappare via il più lontano possibile più o meno per lo stesso motivo, Bill arrossì.
- Io non… - biascicò, ma si rese presto conto dell’inutilità di mentire di fronte a Babbo Natale. - …sì, capisco. – annuì quindi alla fine, abbassando gli occhi.
Era ingiusto che uno dei motivi più gravi della sua sofferenza interiore fosse anche uno dei motivi che gli avrebbe dato la possibilità di prendersi cura di un cucciolino tanto bello. Oltre che di dimostrare a se stesso e al mondo che aveva sempre avuto ragione lui su tutto, ovviamente.
- Solo una cosa devi sempre tenere a mente. – disse a quel punto Babbo Natale, posando il cucciolo sul tavolo di fronte a lui, - L’unicorno può stare solo con gente che creda nella sua esistenza. Come tutte le creature fatate, se qualcuno nega la sua realtà… - pausa enfatica che Bill non apprezzò, se non altro perché la situazione era già abbastanza complessa senza aggiungerci pathos non necessario, - …morirà.
Bill deglutì. E poi fu il panico.
- Mio fratello… - boccheggiò, - lui non ha mai creduto… - si perse nei propri pensieri, - nessuno che frequenti abitualmente questa casa ha mai creduto negli esseri fantastici, Babbino!!! – strillò confuso, - Come farò?! Forse David nella sua infanzia può aver creduto nelle fiabe, ogni tanto i suoi occhi scintillano ancora della luce della fantasia, ma tutti gli altri… Georg!!! Gustav crede in Dio, però, quindi forse…
- Dio non c’entra niente con la fantasia, Bill, è una favoletta che si racconta ai bambini per farli stare buoni! – lo blandì Babbo Natale con una risata divertita, mentre il cervello di Bill andava in palese overload di irrazionalità. – Sta’ tranquillo. – lo rassicurò alla fine il vecchietto, - So per certo che troverai una soluzione ed andrà tutto bene.
Bill non era tanto sicuro che il nonnino lappone avesse ragione, sotto molti aspetti. Non era tanto sicuro di essere affidabile, tanto per cominciare, non era nemmeno tanto fiducioso da pensare che una soluzione si sarebbe comunque trovata. In poche parole, l’unica certezza che aveva era quella di essere vergine, ed era una certezza che avrebbe volentieri fatto a meno di portarsi dietro, peraltro.
Così era, comunque. Babbo Natale ringraziò per latte e biscotti e si accomiatò con un abbraccio bonario, prima di ricordargli che si trattava comunque di un breve periodo di tempo – “solo fino al venticinque sera, Bill!” – e lasciarlo solo col cucciolo dormiente ancora sul tavolo. E neanche la più pallida idea di come risolvere quel garbuglio.
*
Lui ed Anis s’erano conosciuti – conosciuti davvero, non incrociati e salutati – durante il backstage dei Comet del 2005. Ciò che Bill sapeva di quell’uomo era riconducibile a ciò che Tom gli aveva detto di lui, disperandosi fra un ascolto nostalgico e l’altro di fronte alla rottura fra l’Aggro Berlin ed uno dei suoi rapper preferiti. La cosa lo aveva segnato nel profondo, e Bill poteva ancora ricordare, senza nemmeno sforzarsi troppo, i piagnistei infiniti di suo fratello ed i pomeriggi passati ad ascoltare i sampler dell’Aggro conditi dal racconto di una storia di gangster di strada che un po’ l’aveva sempre affascinato, anche se non capiva esattamente cosa tutto ciò avesse a che fare con la musica. Ma Bill aveva sempre avuto un’idea molto romantica, della musica, perciò non era strano che non capisse cosa c’entrassero una mandria di uomini imbufaliti con la delicatezza perfetta di un ritornello in armonia con le strofe che lo seguono e precedono.
Lui aveva quindici anni e Tom non aveva ancora deciso se fosse più opportuno odiare Bushido e restare fedele all’Aggro o mollare l’Aggro e seguire Bushido nella sua nuova avventura. Di qualsiasi tipo fossero i pensieri che vorticavano nella testa di quel suo assurdo fratello, sembravano essere molto seri, drammatici ed epici: Tom la vedeva come una questione della massima importanza. Tant’è che tutto era cominciato proprio perché a quei Comet lui non aveva la benché minima intenzione di trovarsi davanti al proprio idolo senza sapere cosa dire. Perciò, quando Bushido aveva fatto tanto di avvicinarsi, con addosso il sorriso suadente e tranquillo delle rare occasioni in cui voleva solo congratularsi senza sentire il bisogno spasmodico di aggiungere in cosa al complimento qualche cavolata delle sue, Tom era letteralmente scappato verso i bagni. Le sue ultime parole nei confronti del fratello erano state “Tienilo impegnato mentre io cerco di evadere attraverso le prese d’aria”.
Bill aveva sospirato teatralmente, osservando con occhio vagamente divertito lo sguardo di Bushido seguire suo fratello fino a che non lo perse di vista, e poi aveva aspettato candidamente che fosse l’uomo ad avvicinarsi e cominciare a discutere.
“Ma… tuo fratello?”, aveva chiesto Bushido, usando un tono incredibilmente confidenziale, neanche si conoscessero da sempre.
Bill aveva ridacchiato appena. Si sentiva talmente piccolo, di fronte a lui, da non riuscire proprio ad evitare l’imbarazzo.
“È un tipo emotivo,” aveva risposto dopo un attimo d’incertezza. Bushido aveva riso di gusto e gli si era seduto accanto senza chiedere il permesso.
La chiacchierata era proseguita senza intoppi: lui e Bushido avevano parlato del più e del meno come non avrebbe mai creduto possibile, Bushido era stato schietto e sincero e ad un certo punto s’era perfino lamentato della sua età.
“Sei troppo piccolo, per quest’ambiente,” gli aveva detto, e quando Bill aveva provato a replicare che con lui non poteva parlare di gangsta-rap perché, nonostante il fratello che si ritrovava, lui e quel tipo di musica erano lontani anni luce e bene intenzionati a restarlo, Bushido aveva replicato schernendolo con una mezza risata. “Parlo della musica in generale. È facile consumarsi, quando si è piccoli come te.”
“…e tu ne hai visti tanti? Consumarsi, intendo…” era stata la sua risposta incuriosita, venata appena da una nota più dolce e intimidita provocata probabilmente dalle almeno sei bottiglie di birra che aveva in qualche modo convinto Bushido a recuperargli sottobanco per tutto il tempo della loro conversazione.
“Mi stai dando del vecchio, ragazzino?”, aveva replicato Bushido con una risata divertita. Bill era arrossito istantaneamente e s’era affrettato a negare, agitandogli le braccia di fronte al viso come se le parole fossero state fisiche e lui avesse avuto il potere di cancellarle. Si era calmato solo quando Bushido aveva riso ancora, più dolcemente, e l’aveva rimesso a sedere scompigliandogli i capelli con una grande mano color caramello. “Sì, ne ho visti tanti,” aveva risposto quindi, annuendo appena, “Non è una bella cosa. Ti servirebbe una protezione. Niente di eclatante,” aveva spiegato, gesticolando disinteressato, “giusto qualcuno con cui parlare quando ti sembra di non farcela. A volte aiuta.”
Era stato in quel preciso istante – mentre portava per l’ennesima volta la bottiglia di birra alle labbra per farsi coraggio e scacciare l’imbarazzo con un sorso d’alcool – che Bill aveva deciso di essersi innamorato. Ci aveva fantasticato su un sacco – sul primo amore e tutte quelle cose che credeva di aver già provato per Linda e che invece s’erano spente in un niente quando s’era allontanato da Magdeburgo – ed in effetti gli sembrava un po’ strano ritrovarsi a capire lucidamente di essersi innamorato, quando invece con Tom aveva sempre parlato di cose tutte diverse, brividi inconsci, incertezze, tremori eccetera eccetera. Non c’era niente del genere. Però guardare Bushido lo scaldava più della birra e, quando lui aveva parlato di una persona con cui parlare quando avesse avuto paura di non farcela, nella mente di Bill s’era formato il suo nome. Prima ancora di quello di Tomi o di Andi o di sua madre.
Quindi sì, era stata una decisione perfettamente consapevole: quella di cominciare a ronzargli intorno perché era lui, Bushido, non chiunque altro, che avrebbe dovuto proteggerlo ed impedirgli di consumarsi.
Bushido, però, fondamentalmente, non era mai cresciuto davvero. O meglio: per certi versi era molto maturo e saggio e tutto quanto, ma per altri era un disastro. Tutto, in lui, faceva pensare ad un’infanzia non goduta e quindi rincorsa finché fosse stato possibile. Perfino i suoi modi di divertirsi erano assurdi – a partire dai sabati notte su World of Warcraft per concludere con i modi decisamente opinabili che aveva di prenderlo pubblicamente in giro flirtando in maniera spudorata e perfino pesante. Col tempo, Bill aveva imparato ad abituarsi, ma la cosa sconvolgente del tutto era stata percepire chiaramente che nulla del suo amore s’era mai perso neanche di fronte alle cose peggiori. Non di fronte all’uscita sul sesso orale, non di fronte alla proposta di matrimonio estemporanea, nemmeno di fronte alle centinaia di volte in cui quegli scherzi Bushido li faceva in privato, quando uscivano insieme sotto copertura o quando Bill si presentava a casa sua.
Con Linda il sentimento sfioriva appena litigavano. Era una cosa automatica.
Con Anis persisteva. Non c’era modo di tirarlo via.
Unico guaio, come nella migliore delle tradizioni da sfigato che l’avevano sempre perseguitato – a partire dai bulli del liceo per continuare con le doppie punte e la frustrazione del non riuscire ad abbinare quel fantastico giubbino bianco con le ragnatele con nulla, col risultato di sembrare ogni volta inguainato in una tuta spaziale – non si era mai dichiarato. Erano passati tre dannatissimi anni – ormai quasi quattro – e non solo non aveva mai confessato i propri sentimenti a Bushido, ma nemmeno li aveva mai fatti in qualche modo trapelare. Con nessuno, poi. Neanche uno sfogo. Tomi l’aveva più o meno capito da solo, ma Bill non avrebbe confermato neanche a morire – gli prendeva un batticuore assurdo ogni volta che ci pensava. Si sentiva sempre incredibilmente stupido.
La cosa, fortunatamente, non aveva mai minato i rapporti fra lui ed Anis. Perciò, quando quel venti dicembre Bill si ritrovò con un unicorno – un unicorno! – in mano e l’ordine di Babbo Natale - …Babbo Natale!!! – di prendersene cura fino a Natale, il suo primo pensiero, nonché l’unica soluzione avesse trovato, era stato andare da Bushido.
S’era attaccato al campanello della casa gialla con la furia di un disperato, pregando in un centinaio di lingue – molte delle quali inventate – che Bushido fosse in casa, solo e ben disposto nei suoi confronti e, quando poi aveva sentito la serratura della porta scattare, aveva serrato gli occhi e stretto forte al petto il cucciolo d’unicorno addormentato ed aveva pregato ancora, stavolta perché non scomparisse.
Quando era tornato a guardare il mondo, la prima cosa che l’aveva colpito era stata la presenza caldissima del cucciolo ancora stretto fra le braccia. Il battito del suo cuoricino, lento e calmo, si spandeva all’interno del suo piccolo e morbido corpo e si diffondeva poi anche dentro il suo petto, facendosi sentire fino in gola.
Di fronte all’inevitabile consapevolezza di essere capitato davanti a qualcuno che, evidentemente, negli unicorni credeva eccome – dato che il piccolo era ancora lì – Bill si prese un secondo per realizzare il pensiero, digerirlo e venirci a patti. Poi sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti un Bushido in perfetta tenuta da scazzo casalingo – tuta enorme ed anonima maglietta bianca – i cui occhi giocavano a rimpiattino saltando ansiosi dal suo viso al cucciolo e poi di nuovo al suo viso.
- Bill…? – esalò appena l’uomo, decidendosi finalmente a fissarlo negli occhi, in cerca di una risposta.
- Ciao. – rispose lui, abbozzando un sorriso incerto e sollevando una mano per salutarlo, - Posso entrare?
Bushido annuì meccanicamente.
- Sì, certo che… Bill, cos’è questo? – concluse in un mezzo rantolo, indicando il cucciolo.
Bill deglutì a fatica e lo sollevò un po’, perché Bushido potesse vederlo meglio.
- …esattamente quello che sembra, temo. – rispose annuendo e tornando a nascondere il piccolo fra le braccia.
Bushido si prese qualche secondo per riflettere, prima di tornare ad aprire bocca.
- Non è possibile, Bill. – disse alla fine, gli occhi ancora spalancati, - Ha le ali. Queste cose non… - ma non ebbe tempo di concludere, perché Bill scattò in avanti e pressò il palmo di una mano contro le sue labbra, cercando di spingerlo indietro per quanto gli consentissero quegli abbozzi di muscoli che si ritrovava e che, in confronto alla strenua resistenza del fisico fermo e compatto di Bushido, sembravano ancora più ridicoli.
- Non dirlo! – disse allarmato, agitandosi tutto, - Ti prego, se lo dici morirà!
Bushido smise di resistere e si lasciò spingere in casa, osservando un po’ sconcertato Bill chiudersi la porta alle spalle con un calcio, il cucciolo ancora stretto al petto e la mano libera ancora impegnata a chiudergli la bocca. Lo lasciò solo quando fu certo di aver chiuso bene la porta ed essere solo con lui nell’ampio salotto che accoglieva chiunque mettesse piede nella villa.
- Bill, che diavolo sta succedendo qui? Cos’è questo animale e cosa significa che potrebbe morire?!
Bill non rispose subito. Il palmo della sua mano conservava ancora qualche traccia del calore delle labbra di Bushido, ed il ragazzo trovò difficile ignorare il pensiero per concentrarsi su fatti di maggiore importanza, per molti secondi. Bushido dovette chiamarlo un paio di volte per ottenere un qualche cenno di vita.
- È… - cercò di spiegare Bill, deglutendo agitato, - È una creatura di fantasia, Bu, se dici che non… insomma, scompare!
Bushido continuò a guardarlo e poi si passò una mano sugli occhi, inspirando ed espirando con calma.
- Bill… - lo richiamò con aria stanca, - …quello che hai detto non ha senso, te ne rendi conto? Una creatura di fantasia, dici? È qua, lo sto guardando, è un… un accidenti di cavallo con le ali-
- E il corno. – precisò Bill, indicando la fronte vagamente sporgente del cucciolo, - È un unicorno, infatti. Non si vede perché è ancora piccolo…
- …un unicorno.
Bill annuì e lo osservò cercare a tentoni con la mano un divano alle sue spalle, per poi lasciarcisi ricadere sopra con un tonfo non appena l’ebbe trovato.
- Bu…? – lo chiamò debolmente, andandogli vicino ed esitando un po’ prima di sedersi al suo fianco, cosa che alla fine fece comunque. – Tutto bene?
Bushido non rispose alla domanda, ma lo guardò intensamente.
- Un unicorno, Bill?
Bill annuì di nuovo.
Bushido prese atto, annuendo a propria volta.
- Bill, credo dovrai raccontarmi questa storia dall’inizio.
Il ragazzo fece una mezza smorfia, sistemando il cucciolo su un cuscino ricamato appoggiato al bracciolo.
- Odio quando ripeti così spesso il mio nome. – borbottò scontento, - Sembri mio padre, sempre sul punto di rimproverarmi o chissà che.
Bushido si massaggiò lentamente le tempie, chiudendo gli occhi.
- In effetti ho voglia di rimproverarti, B-… insomma. Ma non saprei per cosa farlo esattamente, quindi aspetterò che tu abbia finito di raccontare. E poi vedremo.
Bill incrociò le braccia sul petto e sbuffò teatralmente.
- Senti, non è colpa mia, è stato Babbo Natale che-
- Babbo Natale, Bill?!
- La pianti di ripetere il mio nome? So come mi chiamo.
Bushido respirò ancora, sempre più profondamente, e tornò ad alzarsi in piedi, cominciando a camminare nervosamente intorno al tavolino basso nel centro del salotto, le mani sui fianchi e la maglietta che si arrotolava in sbuffi attorno alle dita.
- …spiega meglio. – lo invitò, continuando a camminare.
Bill lo guardò, inclinando lievemente il capo.
- Non ti fermi?
- No. – rispose con naturalezza l’uomo, scuotendo il capo, - Scarico. Parla.
Il ragazzo annuì incerto.
- Be’, tutto è cominciato stamattina verso l’una del pomeriggio, quando mi sono svegliato-
- Bill, ti prego, evita le incoerenze, è già tutto abbastanza confuso… - lo implorò l’uomo, massaggiandosi la fronte, - Mattina o pomeriggio?
- Mi confondi! Ti muovi! – si agitò il ragazzo, spiegazzando la fodera del divano sotto le dita, - Era mattina perché io mi ero appena svegliato, ma era pomeriggio perché io mi sveglio di pomeriggio, quando sono in vacanza!
Bushido annuì lentamente, continuando a camminare.
- …d’accordo, ci sono. Quindi eri sveglio e…?
- E c’era Babbo Natale in salotto.
Bushido si fermò. Solo per qualche secondo. Poi riprese la sua marcia.
- Bu?
- Sì, sì. Babbo Natale. Vai pure avanti.
Bill inarcò le sopracciglia, incerto, e si concesse una smorfia impaurita prima di portare il cuscino con sopra il cucciolo di unicorno sulle ginocchia e cominciare ad accarezzarlo delicatamente.
- Be’, lui mi ha consegnato questo… Bu, non mi stai credendo per niente, vero?
- Ho un unicorno sotto agli occhi, Bill. – gli fece notare l’uomo, guardandolo distrattamente, - Non sono nella posizione di non credere. Qualsiasi cosa tu mi dica.
Bill annuì lentamente, insicuro.
- …insomma, - riprese, - mi ha consegnato il cucciolo e mi ha chiesto per favore di prendermene cura fino a Natale, visto che lui e Mamma Natale… - sollevò gli occhi e si ritrovò di fronte Bushido che lo guardava come non l’avesse mai visto prima, fermo nel centro del salotto con gli occhi spalancati e le braccia molli lungo i fianchi. Sospirò. – Scusa, Bu. Vado via subito. – mugolò, recuperando il cucciolotto e rimettendosi in piedi.
- No, ehi, ehi, aspetta. – si affrettò a fermarlo Bushido, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e spingendolo delicatamente a sedere, - Non ti ho chiesto di andartene. – si sedette al suo fianco, continuando a tenere una mano sulla sua spalla e massaggiando un po’ per rassicurarlo, - …Bill, perché sei venuto da me? In poche parole.
- Devo… tenere il cucciolo fino a Natale. – ammise il ragazzo, - L’ho promesso a Babbo Natale, non potevo dire no a Babbo Natale, e lo so che sembra assurdo, ma è così. E non potevo restare a casa, Tomi non ci crede negli unicorni, e nemmeno in Babbo Natale, perciò ho pensato-
- Che io invece ci credessi? – lo interruppe Bushido, vagamente divertito.
Bill sbuffò, sollevandogli addosso un broncio adorabile ed un paio di occhioni ostinati.
- Be’, avevo ragione, no? – e Bushido sorrise. - …però no, non ho pensato quello. In realtà… non ho pensato affatto, ho solo sentito che dovevo venire da te, ecco.
Bushido sorrise ancora, più apertamente, mentre se lo tirava contro e lasciava che si accomodasse contro il suo petto, l’unicorno un po’ schiacciato fra i loro corpi, ma ancora placidamente addormentato.
- Vuoi restare qui fino a Natale? – gli chiese a bassa voce, sussurrandogli all’orecchio, - Non sei spaventato? Sono un uomo poco raccomandabile e ti ho fatto un sacco di avances, negli ultimi anni…
“Ne avessi anche mai concretizzata una…” si ritrovò a pensare tristemente Bill.
- No, sono… tranquillo. – ammise con un mezzo sospiro. – Pensi che potrei restare?
Bushido guardò lui e l’unicorno e poi si espresse in un mezzo sbuffo incerto.
- Non hai portato niente con te… - Bill scattò in piedi senza neanche lasciargli il tempo di concludere la frase.
- Oh, posso tornare a casa, preparare la borsa ed essere di nuovo qui in, facciamo, mezz’ora! – strillò saltellando eccitato da un piede all’altro, - Bu, mi hai salvato la vita! Cioè, a me ed al cucciolo! – rise, gettandogli le braccia al collo.
Bushido sospirò, accarezzandogli distrattamente i capelli mentre recuperava l’unicorno che, nella foga dell’abbraccio, Bill aveva dimenticato di dover stringere.
- Ecco, bravissimo. – annuì il ragazzino quando si fu separato di lui, non appena si accorse di come Bushido tenesse saldamente il cucciolo tutto nel palmo della mano, - Tienilo tu. Io faccio subito!
L’uomo lo osservò uscire come una furia – esattamente com’era entrato – e poi lanciò un’occhiata all’unicorno, sollevandolo fino all’altezza del viso per osservarlo da vicino. Il piccolo dischiuse le palpebre quasi subito, e lo fissò a propria volta con un paio di enormi ed acquosi occhioni azzurri.
- Dio, sei vero… sul serio. – commentò Bushido, avvicinandosi fin quasi a sfiorarlo con la punta del naso. Il cucciolo si sporse in avanti e lo morse, stringendogli saldamente il naso fra le gengive prive di denti. - …e sei anche pericoloso. – borbottò l’uomo, staccandoselo di dosso e ripulendosi con il dorso della mano libera. Sorrise. – Più o meno come quello che ti ha portato qui, mi sa. – concluse, poggiandolo nuovamente sul cuscino. E cominciando a chiedersi di cosa, esattamente, si nutrissero gli unicorni.
La pace durò all’incirca due secondi. Si interruppe precisamente quando il cucciolo si fu ripreso dal suo placido sonno abbastanza da capire esattamente dove fosse, con chi si trovasse e, soprattutto, con chi non si trovasse. Bushido lo osservò curiosamente sollevare il capino, guardarsi intorno e poi, con una naturalezza quasi sfacciata, saltare giù dal divano e trotterellare spedito verso la porta.
Lo seguì con lo sguardo e, quando si rese conto che il cosino non sembrava intenzionato a fermarsi, gli andò dietro anche coi piedi.
- Dov’è che staresti andando? – gli chiese, chinandosi e cercando di riprenderlo in mano.
Vigile e attento, il cucciolo si scostò e, incerto sugli zoccoli, rotolò lateralmente, caprioleggiando per qualche centimetro di moquette prima di rimettersi dritto, scuotere il collo per sistemare la corta criniera argentata e riprendere la propria marcia impettita verso la porta.
Bushido continuò a seguirlo, sempre più attonito, finché il cucciolo non arrivò alla porta e batté un paio di volte con uno zoccolo contro la superficie in legno.
- …devo aprire? – chiese l’uomo, piegandosi sulle ginocchia per guardarlo più da vicino e molleggiando sulle punte dei piedi per mantenere l’equilibrio.
Il cucciolo si limitò a fissarlo con aria supponente, battendo nuovamente lo zoccolo contro il legno.
- Bill mi ucciderà, se ti lascio fare. – gli fece presente, mettendo comunque una mano sulla maniglia.
Il cucciolino nitrì – o meglio, vagì un’idea di nitrito – e Bushido sospirò. Quegli occhi azzurri lo stavano fissando con tanta di quella disapprovazione che si sentiva quasi fuori luogo.
Tutto ciò che poté fare a quel punto il pover’uomo fu rimettersi in piedi ed aprire la porta. E sarebbe stato ciò che doveva essere. Punkt. Lui non credeva nel destino, ma non credeva di credere neanche ad unicorni e Babbi Natali vari ed eventuali, fino al giorno prima, perciò…
Il cucciolo trotterellò felice sulla ghiaia del sentiero davanti casa per qualche metro, e dopodiché Bushido lo vide spiegare le piccole ali ancora immature e spiccare un salto da record, per le dimensioni del suo corpo. Planò disinvoltamente fra le braccia di Bill, che stava lì fermo come in attesa e lo guardava con enormi occhi adoranti.
- Bill? – chiese, uscendo a propria volta di casa e raggiungendolo sul selciato, - Come mai sei ancora qui?
Bill tirò fuori la lingua e sorrise appena, come per scusarsi.
- Ho dimenticato di dirtelo. – biascicò poi, stringendosi nelle spalle, - Il cucciolo non può stare solo in compagnia di persone non vergini, perché solo un vergine può… - si interruppe ed arrossì istantaneamente, - …domarlo.
Bushido aprì la bocca.
Non seppe sinceramente che dire.
- Ah. – si rassegnò alla fine, tornando a cercare di darsi un contegno, - Capisco.
Bill abbassò lo sguardo, imbarazzato a morte.
- Bu, credo che… dovrai andare tu a prendere qualcosa per il mio cambio. – mormorò, consegnandogli direttamente in mano le chiavi di casa.
Bushido chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Non servì a calmarsi.
Sarebbero stati cinque giorni decisamente pesanti.
*
Tom era un ragazzo che Bushido non aveva ancora capito completamente. Era, se possibile, ancora più umorale del fratello, e riusciva a passare da uno stato d’animo all’altro con una velocità spaventosa, a tratti disorientante. Perciò, quando Bushido lo osservò entrare tranquillamente in casa, posare le chiavi sulla consolle e poi voltarsi sorridendo alla ricerca di Bill, incassò la testa nelle spalle e si preparò al peggio.
Certo, avere le mani nel cassetto della biancheria intima di Bill non aiutava i suoi disperati tentativi di darsi un tono. Pregò che Tom capisse, anche se non era sicuro di cosa ci fosse in effetti da capire.
Gli occhi di Tom si spalancarono ed il ragazzo lasciò cadere in terra il giubbotto che ancora stringeva nella mano ed attendeva di essere appeso all’attaccapanni.
- Bushido…? – esalò incerto, mentre lui, per evitare di fargli pensare stesse facendo qualcosa di sconveniente, continuava a rovistare con nonchalance fra le mutande di Bill. Cosa che forse non era la più appropriata da fare, dopotutto. - …cosa stai facendo?
Bushido si decise finalmente ad afferrare quante più paia di boxer poté ed infilarle di gran corsa nello zainetto che teneva per le bretelle con la mano libera.
- Ciao, Tom. – disse con un sorriso, cercando di distrarlo.
Tom deglutì ed annuì.
- Oh… - disse, arrossendo vagamente, - Ciao, sì, scusa, è che… - indicò con un gesto distratto Bushido, il cassetto ancora aperto ed i boxer che sporgevano dall’apertura dello zaino, - …capisci, non è una cosa tanto normale.
Bushido sospirò.
Ciclicamente, Tom ritornava sempre sullo stesso punto.
- Tom, non pensare male, per favore.
- Oh, no, ma Atze, sul serio, lo sai che a me puoi dirlo.
Appunto. L’uomo richiuse il cassetto e cominciò a marciare verso il bagno, ben deciso a non perdere altro tempo recuperando dei vestiti per Bill – gli avrebbe dato qualcosa di suo – prendere solo lo stresso indispensabile – spazzolino, trucchi e lacca, in poche parole, ovvero cose che non poteva fornirgli da sé – e poi fuggire immediatamente da quell’appartamento. Possibilmente senza dare spiegazioni a Tom.
- Non c’è niente da dire, Tom, lo sai. – biascicò mentre armeggiava con la trousse di Bill – sei chili almeno di beauty case – chiedendosi se potesse eliminare qualcosa o dovesse rassegnarsi a portare proprio tutto.
Tom aveva un problema, con lui. O lui aveva un problema con Tom. In ogni caso, c’era un problema nella loro relazione, e questo problema era l’adorazione cieca che il chitarrista nutriva nei suoi confronti. Il classico amore profondo che riservi agli idoli, le cose che non ti passano mai, anche con gli anni, quelle che possono portarti ad arrossire per il sorriso di un uomo anche se non hai alcuna intenzione di andarci a letto insieme – cosa che Tom faceva spesso, con lui. Arrossire, non andarci a letto. Per carità.
Insomma, lo adorava. Tutta quell’adorazione, però, non poteva avere uno sfogo pubblico, perché Tom era un piccolo gangsta-rapper fedele e mai e poi mai avrebbe potuto rinnegare l’Aggro Berlin di fronte ai microfoni ed alle telecamere. Perciò, se tutte le dichiarazioni d’amore pubbliche erano per Sido e compagnia, era nel privato che invece Tom “si faceva perdonare”, ronzandogli intorno come un moscone e sommergendolo di attenzioni. In un modo, peraltro, drammaticamente sbagliato.
- Atze, sul serio, è orribile che né tu né Bill vogliate ancora ammetterlo! Non dico pubblicamente, ma io sono suo fratello e noi siamo amici!
…ovvero decidendo arbitrariamente di diventare suo confidente personale – un po’ come il fratello aveva deciso arbitrariamente di diventare una specie di animale da compagnia ed accoccolarglisi addosso ogni piè sospinto – ed autoconvincendosi per chissà quale motivo che lui e Bill stessero insieme. Certo, immaginava che la quantità enorme di tempo che il Kaulitz minore trascorreva a casa sua potesse essere un indizio in tal senso, ma Bill era tragicamente piccolo, minorenne nell’aspetto ed anche in tutto il resto, per quanto l’anagrafe cercasse di convincere tutti del contrario. Non l’avrebbe mai toccato, non in quel senso e con niente che andasse oltre un flirt un tantinello spinto. E solo per ridere un po’.
- Tom… - borbottò, rassegnandosi a recuperare la trousse per intero e chiudendo lo zaino con uno scatto secco. Bill odiava che lui ripetesse così spesso il suo nome, come volesse rimproverarlo? Ebbene, Bushido detestava che i gemelli gli dessero in effetti quintali di occasioni per riprenderli esalando il loro nome in un rimprovero da padre sconfitto. – Ti ho detto e ripetuto almeno cinquecento volte che tuo fratello non è il mio ragazzo.
Tom annuì ed indicò lo zaino.
- Stai prendendo il suo cambio per la notte? – chiese innocentemente. Bushido annuì. – E quanto si ferma da te? – proseguì il ragazzo. Bushido rimase in silenzio. Tom annuì vittorioso. – Non è il tuo ragazzo, eh?
Bushido provò l’intenso desiderio di dargli un colpo di zaino sulla testa, tramortirlo e fuggire dalla finestra. Ma sarebbe stato ridicolo e sospettava Bill non l’avrebbe mai perdonato, per una cosa simile, perciò si trattenne.
- Non si ferma da me per i motivi che immagini tu. – borbottò in un mezzo ringhio frustrato, caricando lo zaino – incomprensibilmente pesante – in spalla e dirigendosi verso la porta.
- No, naturalmente. – annuì Tom, battendogli una pacca sulla schiena, - E allora perché?
Bushido fu tentato di rovesciargli addosso tutta l’intera storia dell’unicorno e di Babbo Natale. Ma questo sarebbe stato ancora più ridicolo del dargli uno zaino in testa, e probabilmente Bill sarebbe stato altrettanto incapace di perdonarlo, se l’unicorno fosse scomparso perché Tom aveva detto ridendo “ma cose simili non esistono!”, perciò si costrinse al silenzio. Lo salutò a bassa voce e Tom rimase ad agitare festosamente la mano sulla soglia della porta strillando “verrò presto a trovarvi!” per tutto il tempo che lui impiegò a scendere le scale e rimettersi in strada.
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa, ma il pensiero ci fosse Bill solo con l’unicorno – e con la possibilità che uno qualsiasi della sua crew passasse di lì per impossessarsi della Wii come al solito – lo convinse a non fuggire in vacanza a Miami e tornare alla villa.
Già sul selciato, quando ancora non aveva toccato la porta di casa, cominciò ad avere paura: dall’interno dell’abitazione provenivano rumori sospetti.
- Cosa sta succedendo? – disse ad alta voce, introducendosi in casa e lasciando ricadere lo zaino per terra. Di fronte a lui, un dramma aveva luogo. Del cucciolo di unicorno grande una spanna che aveva lasciato prima di uscire, non restava niente. S’era però tramutato in un puledro di dimensioni tutt’altro che trascurabili, con un paio d’ali larghe almeno un metro, perfettamente formate ed anche perfettamente dispiegate. Proprio nel centro del suo salotto.
Si guardò intorno, adocchiando la decina buona di narghilè nei più svariati materiali frangibili che campeggiavano su gran parte dei mobili della sala e tirò un mezzo sospiro di sollievo: non ne mancava nessuno all’appello – ancora. In compenso c’erano due poltrone rovesciate ed il tappeto arrotolato in un angolo.
Anche Bill stava arrotolato. Sul divano. Con le mani nei capelli.
- Bu! – strillò, saltando in piedi non appena lo vide, - Gli ho dato solo un po’ di latte!
Bushido annuì vagamente, osservando l’ampia macchia bianca che copriva per metà la maglietta di Bill. Doveva essere stato davvero poco, visto che la maggior parte del liquido sembrava finito addosso a lui.
- Ti sei sporcato tutto… - gli fece notare, indicandolo e rimpiangendo di non avergli preso dei vestiti per cambiarsi. Nei suoi sarebbe letteralmente annegato.
- Sì, ma non importa! – protestò il ragazzo, agitandosi, - Non riesco a fermarlo!
Bushido sospirò.
- Hai provato a chiederglielo? – propose, sentendosi un idiota fatto e finito e chiedendo silenziosamente ad Allah perché gli stesse facendo una cosa simile. Bill lo fissò per qualche secondo, inclinando il capo. – Sì, be’… - aggiunse quindi lui, imbarazzato, - quando sei andato via… non dico che io ed il cucciolo abbiamo dialogato, ecco, però insomma, sembra capire. – scrollò le spalle. – Magari, se glielo chiedi…
Il ragazzo annuì lentamente e si spostò verso il puledro che, nel mentre, aveva preso a brucare le frange del tappetino sotto al mobile del televisore, con evidente soddisfazione.
- Palla di Neve…? – lo chiamò, mettendo le mani avanti in caso fosse improvvisamente impazzito. Il puledro non diede segno di volerlo fare ma neanche di volergli dar retta, e continuò a ruminare placidamente il persiano. – Palla di Neve, potresti smetterla?
L’unicorno alzò il musetto e sbatté gli occhioni. E, mentre Bushido cercava di non ridere per il nome che Bill gli aveva affibbiato, cercò col naso il musetto di Bill e lo strofinò un po’, in un tacito assenso, prima di salire con gli zoccoli sul divano ed accucciarsi per una sana dormita.
Bill batté le mani, entusiasta.
- Visto? – rise Bushido, recuperando lo zaino da terra e consegnandolo a Bill, - È un animale ragionevole. – Bill annuì. – Ed ora… - continuò l’uomo, sospirando teatralmente, - vieni di là. Dovrò darti qualcosa da mettere, visto che non sono riuscito a prenderti dei vestiti.
- E come mai? – chiese Bill, giustamente curioso, seguendolo verso la camera da letto.
- C’era tuo fratello in casa. Mi ha trovato con le mani nel cassetto delle mutande. Puoi immaginare il dialogo che ne è seguito.
Bushido si aspettò una risata, ma Bill non rise affatto. E lui cercò di non farci caso.
*
La notte avrebbe potuto essere più piacevole, se le operazioni di nanna fossero andate nel verso giusto. Avere a che fare con Bill, però, significava senza dubbio avere a che fare con un bambino molto piccolo e molto capriccioso, e con individui simili – Bushido aveva imparato a capire – c’era poco da stare a contestare. Perciò, quando Bill s’era intrufolato nel suo letto alle nove di sera ed aveva stabilito del tutto arbitrariamente che ci sarebbe pure rimasto causa bagno personale raggiungibile tramite porticina accanto all’armadio, Anis s’era ritrovato con poco altro da fare che non chinare la testa ed andare a rifugiarsi nella camera degli ospiti, pregando intensamente che la donna delle pulizie le avesse dato una rinfrescata generale, l’ultima volta che era venuta.
Bill aveva anche provato a chiedergli se gli andasse di dormire con lui – facendolo peraltro con un candore disarmante, al punto che Bushido s’era un po’ chiesto se non fosse il caso di tenerlo con lui, tipo, per sempre, e proteggerlo dai mali del mondo – ma Anis aveva appena avuto il tempo di rimirare il proprio meraviglioso letto a tre piazze con amore profondo e valutare la proposta – pro e contro… più contro che pro, Bill a letto era un pericolo sotto svariati punti di vista – che l’unicorno aveva deciso di far valere la propria autorità di animale fatato e s’era appollaiato sul letto accanto a lui, testolina sul cuscino ed ali morbidamente ripiegate attorno al corpo.
Non c’era stato modo di rimuoverlo dal suo posto – anche quando Bill gliel’aveva chiesto – perciò Bushido aveva ipotizzato l’animale non lo volesse proprio fra i piedi: e piuttosto che fare arrabbiare il cucciolo di unicorno di Babbo Natale, aveva preferito ritirarsi in camera degli ospiti. Col risultato di ritrovarsi recluso in un letto singolo – non toccava materassi tanto piccoli da quando aveva sedici anni – sul quale non poteva neanche espandersi come sarebbe stato buono, naturale e giusto. E non chiudere occhio per tutta la notte, ovviamente.
Alle otto del mattino, frustrato e stanco morto e con un pensiero fisso che suonava più o meno “dovrò cambiare le lenzuola nel mio letto? Chissà se gli unicorni sporcano come i cavalli normali…”, Bushido si alzò in piedi, spalancò le tende e salutò il nuovo giorno con un’imprecazione furiosa nel ritrovarsi davanti al cancello di casa la solita mandria di giornalisti attaccati con la colla al culo di Bill, e che per questo motivo alle vicissitudini di quel benedetto culo erano anche incredibilmente interessati.
Sospirò.
Spalancò la finestra.
Si affacciò.
- Dorme ancora e no, non me lo sono scopato!
Una risatina timida lo raggiunse alle spalle e Bushido si voltò per ritrovarsi davanti Bill in groppa al puledro. Che era cresciuto ancora.
- Bill…? – lo chiamò incerto, e lui rise ancora, rimettendo i piedi per terra, - Stamattina mi sono svegliato presto e gli ho dato un biscotto mentre facevo colazione. – lo indico, - Questo è il risultato.
L’uomo si passo una mano sugli occhi.
- Scusa, Bill, ma visto che sappiamo che appena mette qualcosa in bocca cresce a dismisura, non potremmo smettere?
- Non vorrai mica che lo lasci morire di fame? – rispose seccamente Bill, guardandolo con disapprovazione neanche stesse davvero progettando di far morire di stenti il povero unicorno. Poi indicò la finestra, - C’è gente?
Bushido scrollò le spalle.
- La solita. – rispose con falsa noncuranza.
Bill annuì e si affacciò a propria volta, salutando la folla con ampi gesti del braccio e trascinando per un polso Bushido perché lo raggiungesse.
- No, di nuovo no, Bill… - provò a mugolare stancamente lui, ancora provato dalla mancanza di sonno ed ancora privo di un caffè per renderla meno fastidiosa.
- Ma non capisci, Bu? – disse il ragazzo, continuando a tirarlo finché ebbe raggiunto il proprio scopo, - Se ci comportiamo in maniera losca otteniamo l’effetto contrario a quello desiderato… sorridi, foto.
Bushido sorrise ed agitò un braccio in segno di saluto verso il fotografo di Yam!.
- E se ci comportiamo da novelli fidanzati, invece, che effetto otteniamo? – chiese tra i denti mentre si lasciava immortalare da almeno un’altra decina di paparazzi.
- Ah, non ne ho idea. – scrollò le spalle Bill, sorridendo amabilmente, - Vedremo con l’uscita della settimana prossima.
Era appena cominciato il ventuno dicembre, al ventiquattro notte mancavano quattro giorni pieni e Bushido non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto per vedere l’alba del giorno dopo. Sospirando pesantemente, richiuse la finestra e richiuse le tende, muovendosi con aria afflitta verso l’uscita della stanza. L’unicorno, ancora appollaiato sulla soglia, gli diede una musata sulla testa, come a dirgli “non ce l’ho con te, è la situazione complicata”. Bushido lo fissò malissimo e scese le scale in direzione della cucina. Si fermò con un principio d’infarto quando, adocchiando il salone – del quale si aveva una visione quasi completa, dal pianerottolo del piano di sopra – lo vide già infestato dalla crew al gran completo.
Allargò istintivamente le braccia, spingendo Bill e l’unicorno indietro perché nessuno potesse vederli.
- Ragazzi! – sbraitò con aria falsamente cordiale, - Che sorpresa! Qual buon vento?
Kay One sollevò una mano e la agitò gioiosamente.
- Ciao Bu! Speriamo non ti dispiaccia, c’era la finale di pattinaggio artistico maschile e-
- Pattinaggio artistico maschile…? – chiese allucinato, e i ragazzi scoppiarono a ridere.
Chakuza sollevò un DVD.
- Volevano vedere questo. – spiegò pacatamente. Fra le sue mani campeggiava il porno che gli avevano regalato l’anno scorso per il compleanno, per puro spirito di scherzo. E che invece sembrava aver riscosso un successo di gran lunga maggiore rispetto alle aspettative – un po’ come la riedizione di King Of Kingz senza Fler.
- ...non so nemmeno cosa dirvi prima. – biascicò Bushido in preda ai principi di una crisi di nervi, - L’avrete già visto ottomila volte. I film porno non si guardano in gruppo. Sono le otto del mattino. Questa è casa mia. – agitò una mano con aria disinteressata, - Scegliete il rimprovero che vi piace di più e poi fate quello che vi pare. Io mi preparo un caffè.
Chakuza annuì mentre premeva play sul telecomando e la familiare eco dei gemiti di una donna si diffondeva per la casa, assieme alle urla da stadio di tutta la crew. Viveva a stretto contatto con un branco di animali. Questa cosa era assolutamente disdicevole, per uno della sua risma.
- Ohi, ragazzi, - annunciò Saad sollevandosi in piedi dopo essersi faticosamente districato dal groviglio di arti umani che infestava il divano, - io vado in bagno.
E Bushido si fermò a due passi dalla moka.
I bagni erano al piano superiore.
Al piano superiore c’era Bill.
E il dannato unicorno di Babbo Natale.
- No! – si voltò di scatto, afferrando Saad per le spalle un attimo prima che cominciasse a salire le scale e sperando che Bill, nel mentre, avesse avuto almeno il buonsenso di nascondersi.
Bill. Buonsenso. Doveva immediatamente buttare tutti fuori da quella casa.
- Atze, che ti piglia? – chiese giustamente Saad, fissandolo con gli occhioni verdi spalancati, - Devo farmi una pisciata!
- I bagni sono fuori uso. – disse lui, secchissimo, senza mollare la presa.
- Qualcosa in casa tua non funziona? – si intromise Chakuza, inarcando supponente le sopracciglia, - Credibile come un duetto con Sido, Atze. – poi sorrise crudele, - Hai qualcuno di sopra, mh?
Il problema con Bill era fossero tutti abituati alla sua presenza, sì. Ma di giorno. Bill non si fermava mai a dormire da lui – per ovvi e ragionevoli motivi – e Bushido non poteva presentarlo in quel momento e in quel modo, non con un unicorno alle spalle, soprattutto, e comunque non ci sarebbe stato niente da presentare, che diavolo andava pensando?!, il suo raziocinio stava prendendo degli svarioni non indifferenti, quella mattina.
- Di sopra non c’è nessuno e fate conto che non ci sono neanche i cessi. – rispose lui a muso duro, - Ora alzate il culo e, se proprio volete darvi ad una sessione di porno comunitario, fatelo sul selciato di fronte casa, almeno quegli stronzi dei giornalisti avranno qualcosa di serio di cui parlare.
- Atze, io non intendo tornarmene a casa mia per una-
- Io non intendo tenervi qui un secondo di più, perciò-
- Bu? Ho un problema con l’unicorno, non vuole… oh.
E l’aria, nella grande casa gialla, si fece immobile.
Bill stava affacciato dal pianerottolo, i capelli ancora scomposti dal sonno e gli occhi grandi e curiosi. L’unicorno s’era affacciato accanto a lui, entrambi guardavano Bushido con aria cucciolosa e sembravano incerti su quale fosse la loro posizione nel mondo. Saad, le spalle ancora strette fra le mani di Bushido, si irrigidì all’istante, seguito a ruota dal resto della crew.
L’unicorno non morì né scomparve nei lunghi minuti di silenzio che seguirono il suo arrivo. Il che avrebbe dovuto preoccupare Bushido più di tutto il resto, probabilmente. Poteva anche andare bene che l’unicorno non fosse scomparso di fronte a lui – non andava bene per niente, in realtà, ma poteva con enorme sforzo accettarlo, ecco – ma l’idea di avere un’intera crew composta da ragazzini che ancora credevano negli unicorni lo sgomentava abbondantemente. E quella avrebbe dovuta essere la sua banda, il non plus ultra del virilissimo german-rap, insomma, i bad boys di Berlino. Probabilmente Fler aveva ragione, i veri deutscha bad boys stavano all’Aggro.
Saad sollevò una mano puntando il dito verso l’unicorno. Bocca e occhi spalancati, lo fissò a lungo, fino a quando l’unicorno non nitrì il proprio disappunto e Bill non fu costretto a specificare “credo gli dispiaccia essere indicato. È molto maleducato, Saad”. Al che, il braccio del libanese cadde come morto lungo il suo fianco e l’uomo annuì pesantemente, senza staccare gli occhi dall’animale.
Le sue prime parole, qualche istante dopo, furono “credo che andrò a pisciare a casa mia”. Guadagnando un cenno di approvazione da parte di tutta l’intera crew, che si mise in piedi abbandonando il divano – e il porno ancora acceso – con sincronia perfetta, neanche si fosse trattato di un unico corpo.
Bushido si passò stancamente una mano sugli occhi.
- Mi pare scontato che non voglio che questa cosa esca da questa casa. – disse con aria burbera, prima che i ragazzi uscissero dall’appartamento. Chakuza si fermò sulla soglia della porta e lo fissò, allucinato.
- Ti pare che siamo così idioti da andare pure a parlarne in giro, Atze?
La domanda, in effetti, si rispondeva da sola. Perciò Bushido non aggiunse altro.
*
Adattarsi a convivere con l’unicorno non fu particolarmente difficile: Bushido capì già all’alba del ventidue dicembre – quando se lo ritrovò steso addosso, naturalmente dalla parte meno piacevole, non appena aprì gli occhi – che quel cavallo aveva con lui un enorme problema indecifrabile di cui non riusciva a parlargli – strano, perché sapeva essere molto eloquente, quando voleva. E poi Bill traduceva per lui. Come Bill potesse comprenderlo era una domanda che non voleva porsi, ma rimaneva il fatto che, quando qualcuno della crew passava per la casa, ad esempio, Palla di Neve ci tenesse a dire la propria sulla presenza di estranei in casa, e Bill traduceva meticolosamente ogni educato invito a togliersi dalle palle. Per qualche motivo, però, quando l’unicorno indirizzava un nitrito di disappunto a Bushido, non c’era verso di costringere Bill a spiegargli perché ce l’avesse con lui. Il che poteva essere frustrante, visto che l’animale si stava facendo enorme e Bushido cominciava a temere per la propria vita – soprattutto quando si vedeva sbattuto contro una parete a causa di un colpo di coda.
In ogni caso, stabilito che lui e Palla di Neve erano l’uno l’antitesi dell’altro e che, per questo motivo, sarebbe stato molto meglio tenerli lontani, la convivenza era stata perfino piacevole. L’unicorno era educato, si scostava per farlo passare, non intralciava la via verso il bagno ed a parte soffocarlo di dispetti come lo scherzetto del sedere sulla faccia non faceva niente di particolarmente molesto.
Il problema era Bill, che Allah l’aiutasse.
Bill era pieno di fissazioni assurde. Erano così tante che non erano nemmeno calcolabili. Bushido le approssimò ad un numero tendente all’infinito e, quando lo fece, gli venne da pensare di essere stato perfino troppo generoso nel sottrarne qualcuna di poco conto. Bill non mangiava mele. A Bill piaceva la cioccolata ma solo a determinate condizioni. Bill non mangiava quasi niente non contenesse più conservanti che ingredienti naturali. Bill aveva bisogno di piastrare giornalmente i capelli perché odiava i boccoli. Bill odiava gli insetti e non usciva mai in giardino per paura delle punture. Bill era di una pigrizia sconcertante ed era capacissimo di richiamare te – che stavi in camera da letto dall’altro lato della casa a farti un’abbondante quantità di cavoli tuoi – per farsi portare dalla cucina – vicino al salotto – un bicchiere d’acqua – in salotto dove stava lui, appunto.
Bushido sospirò, posando il dannato bicchiere d’acqua sul tavolino basso accanto al divano dove Bill stava svaccato, sfogliando una rivista mentre con la mano libera accarezzava Palla di Neve, morbidamente accucciato sull’altro cuscino, ai suoi piedi. Inarcò le sopracciglia.
- Palla, potresti anche lasciami un po’ di spazio per sedermi… - si lamentò, piantando le mani sui fianchi ed osservando l’unicorno, ormai grande quanto un normalissimo cavallo e con un’apertura alare da albatros, mentre sonnecchiava sul divano.
L’unicorno sollevò appena una palpebra e sbuffò un nitrito disinteressato.
- Dice che c’è l’altro divano. – tradusse distrattamente Bill, senza sollevare gli occhi dalla rivista.
Bushido aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, deluso.
- Insomma, ho smesso di essere padrone di casa mia nel momento in cui siete entrati da quella porta. – si lamentò, accucciandosi sull’altro divano e cercando a tentoni il telecomando fra i cuscini, - E a Natale mancano ancora tre giorni!
Bill gli sollevò addosso un paio di occhi incredibilmente brillanti, allungandosi a recuperare il suo bicchiere d’acqua dal tavolino.
- Mi dispiace di darti tanto disturbo…
Bushido grugnì con disappunto.
- Non ti dispiace affatto. – borbottò, - Ti piace da morire farti servire e riverire, eh?
Bill lasciò andare una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Assolutamente sì. – ammise annuendo. E poi esitò solo un secondo, abbassando appena lo sguardo, - …fosse per me, rimarrei qui per sempre.
Bushido inarcò le sopracciglia. Fece per rispondere qualcosa – una cosa qualunque, la prima battuta che gli fosse capitata sulla punta della lingua – ma dovette interrompersi causa campanello martellante direttamente nelle orecchie. Sospirò e si mise in piedi.
- Vedi di far sparire quell’animale, mentre vedo chi è.
Bill annuì e saltò in piedi.
- Palla di Neve? Fuss! – ordinò con ingenua gioia.
Bushido sospirò: era assurdo che Bill si fosse convinto di essere stato in grado di addestrare l’unicorno in due giorni. Quell’animale palesemente lo idolatrava e lo seguiva ovunque, non c’era bisogno di trattarlo come un pastore tedesco, per portarlo in giro per casa.
Il campanello strillò ancora, offeso dal suo disinteresse.
- Ho capito, ho capito… - biascicò Bushido, sporgendosi per spiare l’identità dell’ospite al di là dello spioncino. Quando capì di chi si trattava, gli venne voglia di prendere a cazzotti Babbo Natale, e si ripromise che, qualora l’avesse visto, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. – Merda… mormorò scontento, - Bill, c’è tuo fratello! – urlò poi, in direzione delle scale che portavano al piano di sopra.
Bill si affacciò e lo fissò, attonito.
- E che ci fa qui? – chiese incerto.
Bushido scrollò le spalle.
- È il tuo gemello, siete voi quelli della telepatia gemellare-
- Non usare quel termine, a Tomi non piace, lui non crede nella telepatia.
- No, ma dice di sapere sempre cosa ti passa nella testa, per quanto io creda impossibile anche solo intuire cosa ci sia là dentro. – precisò lui, indicandolo con un dito, - Comunque sia, io non intendo averci a che fare.
Bill continuò a guardarlo con la stessa aria stupita.
- Io devo stare con Palla di Neve, Bu. – gli fece notare.
- Palla può stare da solo, per un po’! – cercò di convincerlo lui, per quanto sapesse perfettamente che no, Palla non poteva stare da solo. Palla sclerava appena Bill si chiudeva in bagno, figurarsi. – Tuo fratello mi stressa, Bill!
Bill scrollò le spalle.
- Vuoi che Palla di Neve fugga dalla finestra? – gli chiese, - È già successo, lo sai!
Bushido ringhiò.
- Tu e le tue dannate due ore di ricostruzione ogni volta che ti strucchi. – borbottò disperato, - Sparisci. – disse poi con un gesto vago, - Cerco di rimandarlo a casa.
Bill rise e scomparve oltre le scale, mentre Bushido sospirava profondamente e si preparava ad affrontare il dramma.
Tom apparve sulla soglia fissandolo con l’aria navigata dell’uomo che della vita ha capito tutto, e Bushido si chiese distrattamente come avrebbe reagito se fosse salito su, avesse recuperato Palla di Neve e gliel’avesse graziosamente posato di fronte.
Sospirò.
Probabilmente Tom avrebbe riso e gli avrebbe detto qualcosa tipo “non è più assurdo di te che cerchi di farmi credere che in realtà tu e Bill non state insieme”.
- Ciao, Tom. – lo salutò atono, - Qual buon vento?
Lui avanzò all’interno dell’appartamento senza chiedere il permesso, guardandosi intorno con aria sospettosa. Bushido temette si mettesse ad annusare l’aria, in cerca chissà di che cosa, poi.
- Allora… - chiese invece il ragazzo, voltandosi a guardarlo con malizia, - mio fratello?
Bushido sospirò.
- È uscito.
- Aha… - disse Tom, palesemente senza credergli, - quindi se vado di sopra e lo cerco in camera da letto non lo trovo, eh?
L’uomo deglutì.
Bill aveva preso possesso della camera da letto al punto che Tom non avrebbe faticato a pensare tutto e il contrario di tutto anche solo a metterci piede dentro: vestiti ovunque, trucchi sparsi in giro sulla toletta, un quintale di scarpe affiancate in un’ordinatissima fila contro la parete…
- Non ti farò entrare in camera mia, Tom, non siamo ancora abbastanza intimi. – scherzò, cercando di porre freno al dramma in atto. Tom non ne fu granché impressionato.
- Guarda che i flirt con me non funzionano. – ghignò invece, piantando una mano sul fianco e sporgendo appena un’anca, come il fratello faceva anche troppo spesso. – Allora, che mi racconti?
“Che tuo fratello mi fa ammattire, il suo unicorno mi odia ed ho un Bravo in cui io e Bill salutiamo i giornalisti dalla finestra della camera degli ospiti, come la fottuta famiglia reale inglese, in uscita entro la fine di questo mese. Ho una vita molto piena, sì.”
- Niente, Tom. – biascicò, andandosi ad abbattere contro il divano poco distante, - Tuo fratello mangia sempre chili di dolciumi, non muove mai un dito in casa ed è generalmente il solito ragazzino lamentoso coccola-dipendente. Ti basta così?
Tom aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Sei un mostro. – lo accusò infine, fissandolo con estremo disappunto, - Non dovresti parlarne così!
Bushido mugolò sconfitto e si passò una mano sugli occhi.
- Lo sai che voglio bene a tuo fratello, Tom-
- È il tuo ragazzo! – sbottò lui, - Dovresti volergliene di più!
- Ma non è il mio ragazzo!
Tom si spiaccicò una manata esasperata sulla fronte e sospirò teatralmente, andando a sedersi accanto a lui sul divano.
- Ascoltami bene. – gli disse poi, fissandolo intensamente negli occhi e piantandogli un dito proprio nel mezzo della fronte, - Io ho capito che piaci a mio fratello nel momento stesso in cui sono tornato in albergo con lui dopo i Comet, millemila secoli fa, e lui mi ha detto con occhio sbrilluccicoso “Bushido è una persona fantastica!”. – disse, cercando con poco successo di imitare la voce di Bill, vagamente più acuta della sua. – Io. – precisò, indicandosi, - Io sono un tonto. – annuì, - Io le cose non le capisco a meno che non siano palesi.
- Oppure – protestò Bushido, sbuffando annoiato e scuotendo il capo per cercare di liberarsi dall’indice puntato contro la fronte, - capisci fischi per fiaschi. Visto che io e tuo fratello non stiamo insieme e lui non mi ha mai detto-
- Non te l’ha mai detto perché guardati!, - riprese Tom, roteando gli occhi, - ti basta che io faccia tanto di insinuarlo e scleri! Chiaro, me l’hai terrorizzato, povero piccino, non ti dirà mai niente!
Bushido spalancò gli occhi, fissandolo sgomento.
- Tom. – sospirò alla fine, passandosi una mano sulla fronte, - cos’è che stai cercando di dirmi?
Tom sospirò a propria volta, con l’aria di uno che decisamente deve dare fondo a tutte le proprie riserve di pazienza, per star dietro ai tonti coi quali si ritrova ad avere a che fare.
- Sto cercando di dirti che tu non ascolti abbastanza. – rispose quindi, liberandogli la fronte dal peso di quell’indice puntato ed incrociando le braccia sul petto, - Non ascolti abbastanza Bill, o te ne saresti accorto da te. Già da un sacco di tempo, peraltro. – sospirò ancora, - E non ascolti me. Che, non a caso, non ho mai usato le parole “state insieme”.
Bushido ringhiò.
- Tom, non ho più neanche idea di quante volte mi hai ripetuto che tuo fratello è il mio ragazzo!
- Appunto. – sorrise trionfante Tom, inclinando furbo il capo, - E su questo, Atze, non puoi proprio darmi torto: magari non state insieme, ma lui di sicuro è tuo da anni. E quanto al suo essere un ragazzo, se vuoi posso confermartelo per iscritto. Ma credo che sarebbe meglio se controllassi tu di persona.
E così se ne andò: trascinandosi dietro tutto il proprio carico di inopportuna quanto fastidiosa sincerità. Bushido rimase lì, sulla porta, a fissare il vuoto. Per un sacco di tempo, poi. Fin quasi a sentirsi ridicolo da solo, perfino: il che, per uno che in genere non si sentiva ridicolo neanche quando rincorreva i propri compagni di crew con un carrello, era davvero inquietante.
Tornò presente a se stesso ed al mondo che lo circondava soltanto quando Bill tossicchiò appena da qualche parte alla sua sinistra. Mentre lui rimaneva in ascetica contemplazione del nulla, il ragazzo aveva avuto tutto il tempo di uscire dalla stanza in cui si augurava si fosse nascosto, scendere le scale e piantarglisi là di fianco con l’espressione tipica di uno pronto a chiedere scusa anche solo per essere venuto al mondo.
Bushido lo guardò. Piccolo e spaurito, Bill non riusciva nemmeno a guardarlo. Era talmente rosso in viso che c’era da chiedersi se per caso non avesse la febbre – e, in caso di risposta affermativa, preoccuparsi: Jost non aveva fatto che chiamarlo una volta ogni tre ore per assicurarsi che stesse bene e minacciarlo di violente e tremende ripercussioni legali in caso succedesse qualcosa al suo bambino. Bushido comprendeva quell’uomo e provava anche della sincera pietà, nei suoi confronti, ma sapeva che poteva essere un discreto rompimento di palle, se solo ci si metteva, perciò no, non aveva nessuna intenzione di rovinargli il cucciolo. Soprattutto perché, oltre Jost, se fosse successo qualcosa al leader dei Tokio Hotel, gli avrebbero voluto male davvero in tanti.
L’uomo si schiarì la voce, sporgendosi verso di lui ed allungando un braccio quasi a volerlo consolare per chissà cosa, ma Bill lo stupì nel modo più impensabile e normale di tutti: aprendo bocca e parlando. Il punto di Bill era proprio quello: parlava continuamente, ma tirargli fuori di bocca le cose veramente importanti era difficile quanto raggiungere la luna saltando.
- Mi dispiace che tu l’abbia dovuto sapere così. – disse invece Bill, dando probabilmente fondo a tutte le proprie riserve di sincerità, - Tomi tende ad avere la bocca troppo larga. – sospirò, - Spero solo tu non ti sia arrabbiato.
Bushido deglutì faticosamente.
- Bill… - cominciò, ma si fermò subito, incerto su come continuare. Era sempre stato una persona piuttosto fisica, e questo valeva anche per i tentativi di consolazione. Ma come diavolo faceva a consolare quel ragazzino? Se toccarlo sembrava fuori discussione proprio a causa del motivo della sua tristezza…
Palla di Neve, neanche stesse intuendo i suoi pensieri più nascosti, si parò fra lui e Bill, scrutandolo con occhi disapprovanti. Bushido resse il suo sguardo ed aggrottò le sopracciglia, resistendo appena al desiderio di ricoprire quel dannato cavallo d’improperi e tirargli pure una botta sul muso. Cercò di calmarsi ripetendosi che si trattava del dannato unicorno di Babbo Natale, non avrebbe dovuto volere far del male al dannato unicorno di Babbo Natale, ma per qualche strano motivo pensieri simili gli facevano venire voglia solo di ricoprire d’improperi e dare una botta sul muso anche al dannato vecchio, perciò lasciò perdere.
Fece per eludere il cavallo e raggiungere Bill alle sue spalle. Anche solo per accarezzargli un po’ la testa. Giusto per non fargli capire che non era arrabbiato, non era disgustato e non era niente di negativo in generale, ma Palla di Neve nitrì di scazzato disappunto e non gli permise nemmeno di fare un passo.
- Palla… - lo chiamò rabbioso, ma si fermò appena il pigolio incerto della voce di Bill lo raggiunse da dietro il corpo possente dell’animale.
- Palla di Neve… - lo chiamò il ragazzino, e subito quello si voltò a guardarlo, - Sitz.
Ed obbedì all’istante.
Tutto ciò che Bushido riuscì a pensare, osservando Bill risalire mestamente le scale, diretto probabilmente in camera da letto, fu “dannazione. Mi sa che l’unicorno l’ha addestrato davvero”. E, mordendosi un labbro mentre decideva di passare la notte al piano di sotto – visto che la sola idea di dormire ad un paio di metri da Bill lo turbava in maniera non descrivibile – gli venne quasi da pensare che l’addestramento dell’unicorno di Babbo Natale non fosse l’unico danno combinato da Bill prima da quando era arrivato in quella casa. Probabilmente non era nemmeno il più grave.
*
Il ventitre dicembre scivolò lentamente sotto le loro dita senza che neanche si guardassero, quasi. La mattina fu pigra e silenziosa – Bill non aveva chiuso occhio e si aggirava per casa come uno zombie, fissando il vuoto con occhi spenti ed evitando il suo sguardo a tutti i costi. A Bushido non era poi andata tanto meglio – il bracciolo del divano non s’era rivelato un cuscino piacevole, e per la verità neanche il suo turbamento s’era rivelato granché simpatico, come compagno di sonno, ragion per cui, praticamente, non aveva dormito affatto.
Fra una telefonata ridacchiante di Tom, una minacciosa di Jost e gli spettri invisibili della crew che spuntavano all’improvviso per rubare un po’ di Wii – per poi naturalmente dileguarsi alla prima comparsa di Bill o di Palla di Neve – Bushido non aveva posato quasi per nulla gli occhi sul proprio ospite; a parte un breve momento d’imbarazzo verso mezzogiorno – cioè quando Bill aveva deciso di scendere al piano di sotto per la colazione – occasione in cui Bill s’era ritrovato senza zucchero e Bushido s’era ritrovato abbastanza soprappensiero da biascicare un distratto “è qui sopra”, prima di sollevarsi a recuperare il barattolo sul ripiano della credenza senza curarsi del corpicino del ragazzo che finiva schiacciato fra il suo e la superficie rigida e legnosa del mobile.
Il respiro di Bill gli aveva sfiorato la pelle del collo ed il suo calore era giunto chiarissimo attraverso i vestiti, colpendolo nel centro del petto ed annullando qualsiasi traccia di pensiero razionale dentro di lui, per moltissimi secondi. Non riusciva a capire se quello fosse solo imbarazzo, se si sentisse a disagio perché Bill l’aveva conosciuto che era uno scricciolo ed il pensiero di doverlo guardare da adulto per la prima volta lo mandava in confusione… o le radici di quel turbamento fossero differenti.
Se per caso non avesse ragione Tom, ad esempio. Se i suoi continui tentativi di mantenere quella relazione fra il vago e l’incerto non fossero in realtà i trucchi furbi di un trentenne che sa esattamente come rigirarsi i ragazzini fra le mani. Di un trentenne magari perfino spaventato dalla possibilità che il ragazzino che ha coccolato fino a poco tempo prima possa ritrovarsi cresciuto e senza più alcun bisogno di lui.
Bill era parte della sua vita da un sacco di tempo, ormai.
Era difficile identificare adesso dove finisse lo scherzo e cominciasse il desiderio.
Il ventiquattro dicembre, la consapevolezza che quel gioco del silenzio non sarebbe potuto durare in eterno lo raggiunse come un pugno in pieno viso nel momento in cui, verso le quattro del pomeriggio, Bill si presentò al suo cospetto in salotto, accompagnato come al solito da Palla di Neve. Con la piccola aggiunta dello zainetto che Bushido aveva portato per lui da casa sua.
- …che? – chiese l’uomo, indicando lo zaino con un cenno del capo.
Bill ne torturò le bretelle fra le dita, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- È praticamente Natale… - disse dopo un po’, sguardo basso ed aria afflitta, - e penso che tu abbia di meglio da fare che non badare ad uno come me. – sospirò, - Anche perché non riesco a parlarti. Né a guardarti. Né a fare nient’altro.
- …Bill, ascoltami-
- No. – scosse il capo lui, riuscendo solo per un secondo a sostenere i suoi occhi, prima di tornare a puntare i propri sui ghirigori del tappeto, - Questa cosa… mi è caduta addosso come un macigno. – spiegò a fatica, - Io non avevo alcun problema con… con il fatto che mi piacessi. Ma ora che lo sai è tutto diverso. E siccome è evidente che non… - tornò a guardarlo fugacemente e poi si disperse ancora sul pavimento, - insomma, penso che andrò a casa e parlerò con Tomi. Se riesco a parlare con lui prima che veda Palla di Neve, allora magari-
- Ma Bill… - cercò di riportarlo in sé lui, massaggiandosi la fronte e mettendosi in piedi, - cerca di ragionare. Palla è diventato enorme. Non puoi uscire da qui con quell’animale appresso!
Bill si morse ancora il labbro, a disagio.
- …ti sta rovinando tutto il parquet, al piano di sopra. – lo informò, - Sono gli zoccoli, credo. Ti sto distruggendo casa e ti sto distruggendo la vita e-
- E magari invece non mi stai proprio distruggendo niente. – lo interruppe l’uomo, andandogli incontro e posandogli le braccia sulle spalle. Non lo toccava da un sacco di tempo e, quando i loro corpi vennero in contatto, si ritrovò letteralmente ricoperto di brividi. – Adesso ti calmi. – lanciò un’occhiata a Palla di Neve che, nel mentre, allarmato da tanta vicinanza, stava per mettersi di mezzo, - E tu ti levi di torno. Raus. – borbottò infastidito nei suoi confronti. Palla di Neve rispose con uno sbuffo risentito, accucciandosi lì di fianco senza spostarsi di un millimetro. – Bill, - sospirò Bushido, roteando gli occhi prima di tornare a guardarlo, - qui nessuno ha problemi con nessun altro, d’accordo? Non c’è niente che non vada. Non sono offeso e comunque ti ho chiesto io di restare fino a Natale. E non sarà Natale prima di stanotte a mezzanotte. – Bill lo guardò con aria smarrita, perdendosi un po’ nei suoi occhi, e Bushido si ritrovò a sospirare ancora, esplicitando ulteriormente, - Quindi adesso ci mettiamo in cucina e prepariamo qualcosa di buono, ok? Un bel cenone. E ci godremo la serata. E del resto parleremo poi.
Bill aveva sorriso ed aveva fatto quello sguardo lì, quello allegro e brillante che in genere precedeva i momenti in cui mandava a quel paese il buonsenso e ti saltava al collo riempiendoti di baci a caso – senza badarci se per caso uno dei baci finiva sulle labbra. Senza badarci o badandoci eccome, c’era quasi da chiederselo.
Non fu tanto piacevole osservarlo spegnere di prepotenza quella luce e trattenersi dall’abbracciarlo. Comunque, le due ore successive passarono piacevolmente, mentre entrambi stavano immersi in cucina fra chili di pentole e pentolini alla ricerca di qualcosa di commestibile fra credenza e frigorifero.
Palla di Neve seguì con cipiglio critico tutte le operazioni di cottura, senza mai intralciarle ma nemmeno favorirle; quando, alla fine, Bill si mise in testa di fare i biscotti di pan di zenzero – “perché stanno tanto bene attaccati all’albero, Bu, non hai idea quanto!” – pretese anche che lui uscisse dalla cucina, e di buttarlo fuori s’incaricò proprio l’unicorno, spingendolo a musate fuori dalla stanza senza la minima delicatezza.
Bushido si augurò che Babbo Natale lo buttasse fuori di casa al secondo giorno, visto il brutto carattere, ma non protestò e si svaccò sul divano mentre attendeva che Bill riemergesse da quell’incredibile frenesia da casalinga festosa.
Cosa che successe puntualmente un paio d’ore dopo: Bushido lo vide venir fuori dalla cucina completamente ricoperto di farina e zucchero, ma con un sorriso talmente smagliante sul volto da non riuscire neanche a prenderlo in giro.
- Non voglio nemmeno immaginare il delirio che ci sarà in cucina… - sbuffò divertito, senza nemmeno alzarsi in piedi. Bill gli regalò una linguaccia ed una mezza risata.
- La cucina è ok… sono io da ristrutturare!
Bushido lanciò un’occhiata all’orologio a muro e rise a propria volta.
- Be’, sono quasi le sette e mezza. Se vai a farti in bagno adesso, c’è una qualche possibilità tu sia già ristrutturato per l’ora di cena?
Bill aveva tirato di nuovo fuori la lingua, mostrando il piercing e lanciando un’occhiatina all’albero di Natale illuminato che i ragazzi della crew erano venuti a sistemare poco a poco come scusa per essersi defilati ed averlo mollato da solo con Bill Kaulitz ed un unicorno, ma aver continuato a gravitare di nascosto per la casa solo in virtù delle consolle per i videogiochi.
In realtà non c’era proprio da stupirsi che tutti quanti credessero negli unicorni, se poi in effetti si comportavano da bambini di dieci anni. Fler doveva indubitabilmente avere ragione.
- È un po’ triste che sotto non ci siano regali. – commentò appena, spolverandosi un po’ la maglietta.
- Ti sbagli. – rise Bushido, indicando con un cenno del capo Palla di Neve placidamente accoccolato sotto le fronte dell’abete, sul tappeto parzialmente ricoperto di aghi, - C’è lui.
Bill ridacchiò.
- E quello lo chiami regalo? – chiese ironico.
Bushido scrollò le spalle.
- Quello proprio no. La tua compagnia, però, può essere.
Lo osservò arrossire e borbottare qualcosa di confuso, prima di cominciare a correre a rotta di collo verso il piano superiore senza nemmeno guardarsi indietro, e si ritrovò a riflettere su quanto in realtà fosse davvero poco netto il confine fra i suoi sentimenti. In realtà, nella sua vita, erano sempre stati chiari solo gli odi. Per tutto il resto – ed anche per qualcuno di quegli odi stessi – vagava in un limbo d’incertezza in cui un sentimento avrebbe tranquillamente potuto essere qualsiasi altro.
In sostanza, gli piaceva avere Bill intorno.
In sostanza, probabilmente, se non l’aveva mai visto come un probabile compagno, era stato perché si era ostinato a non volercelo vedere. Oltre che perché lui era Bushido e quell’altro Bill Kaulitz, naturalmente. Sono cose, queste, che già da sole frenano i rapporti, in genere.
Bill ridiscese nel tempo record di un’ora e mezza, quando già Palla di Neve aveva ripreso conoscenza dal pisolino pomeridiano e si apprestava a piantare grane – tipo mangiando i babbi di stoffa appesi ai rami dell’albero – perché al suo risveglio non aveva trovato Bill a fargli le coccole.
Bushido sollevò lo sguardo e se lo ritrovò immerso in un accappatoio bianco dalle cui maniche spuntavano appena le mani. Attorno alla sua vita, la cintura faceva almeno due giri ed era ancora molle al punto che, quando si muoveva, i lembi dell’accappatoio si separavano e si poteva scorgere al di sotto qualche spicchio di pelle bianchissima ed ancora umida di doccia. Da sotto il cappuccio e le pesanti ciocche di capelli neri ancora bagnati, Bill lo fissava con estremo imbarazzo, stringendosi nelle spalle.
- …ho dimenticato di chiederti qualcosa per cambiarmi, quando sono andato in bagno. – biascicò incerto, abbassando lo sguardo.
Bushido sospirò pesantemente e si alzò in piedi, raggiungendolo di fronte alle scale con un sorriso bonario ad increspare le labbra.
- Tu sei un danno. – gli fece presente, sollevando le mani per frizionargli i capelli col cappuccio, mentre pesanti gocce trasparenti scendevano la china di quella cascata d’ebano per infrangersi contro il pallore delle sue scapole. – Guardati qui. Siamo a dicembre inoltrato e non ti sei nemmeno asciugato per bene.
Bill sorrise appena, e sotto le ciglia ancora bagnate i suoi occhi brillarono di una luce incredibilmente intensa. Intensa al punto che Bushido ebbe quasi difficoltà a sostenerla.
Gli venne in aiuto la sfiga, perché la luce saltò in quel preciso istante.
- Merda… - imprecò, stringendo la presa su Bill neanche avesse paura di sentirselo svanire sotto le mani col favore del buio. Il ragazzo, per contro, gli si strinse addosso, agitandosi appena. – Deve essere saltata la luce. Con tutte le decorazioni che ci sono accese per ora nelle strade… - ringhiò, - Aspetta, dai. Vado a controllare il quadro elettrico.
Fece per allontanarsi, ma Bill scattò immediatamente a stringerlo per un braccio. Nel buio e nel silenzio, le sue dita ossute serrate attorno al polso erano quasi inquietanti. Ma erano umide e calde, e Bushido non faticò a cedere alla loro richiesta di fermarsi, tornando a cercare di scorgere il suo profilo nel buio profondissimo che annegava la casa.
- Bu… - lo chiamò Bill, la voce tremante, - sai cos’è che dice sempre Palla di Neve quando mi vieni così vicino?
Bushido scosse appena il capo, e si rassegnò a tirar fuori un “no” umanamente comprensibile soltanto quando capì che, con quel buio, Bill non avrebbe mai potuto vederlo.
- Dice sempre che sei pericoloso. – continuò Bill in un sussurro. Era così vicino che Bushido poteva sentire il suo respiro sul viso. Sapeva di zucchero e cose dolci. Era un buon odore. – E dice anche che dovresti starmi lontano.
- Forse – sussurrò a propria volta, molto più incerto di quanto avrebbe voluto, - dovrei dargli retta.
Bill rise piano, un trillo appena percettibile, e gli posò entrambe le mani sul petto.
- Palla di Neve non può vederci, adesso.
E Bushido l’aveva schiacciato contro il muro il secondo successivo. L’aveva baciato subito dopo. L’aveva condotto su per le scale quasi di seguito. E s’era chiuso alle spalle la porta della propria camera da letto non più di due minuti più tardi.
Quando la luce tornò in casa – da sola, senza che nessuno ce la riportasse – il salotto venne illuminato solo dal bagliore delle lucine intermittenti che adornavano l’albero di Natale. Di Palla di Neve non c’era più traccia. A meno di non voler considerare una traccia una finestra spalancata.
*
Bill era scoppiato a piangere nel momento stesso in cui s’era reso conto del danno che avevano combinato. In un primo momento, ancora perso nell’assonnato sfinimento che aveva seguito il loro incontrarsi e scontrarsi pelle contro pelle fra le lenzuola fresche di bucato, era rimasto immobile contro il suo petto e non aveva detto nulla, ma quando finalmente avevano ripreso a parlare e Bushido gli aveva fatto notare quanto le premesse di quella relazione fossero sbagliate e disastrose – l’età! Due mondi diversi! Il tuo manager mi ucciderà, Bill – il ragazzo l’aveva zittito con un bacio veloce pregandolo di non sparare cavolate a raffica quando non poteva insultarlo come giusto e poi, d’improvviso, aveva spalancato gli occhi, mormorato un “Palla” afflitto ed era scoppiato in lacrime. Singhiozzando talmente forte, poi, da dare a Bushido l’impressione potesse spaccarsi. Un’impressione che, per la prima volta, lo terrorizzava – e non solo per le possibili ripercussioni legali.
Quando erano scesi di sotto, era bastata una breve perlustrazione della casa – fra un “Babbo Natale mi ucciderà” e l’altro – per rendersi conto che sì, le previsioni di Bill si erano avverate: non era più vergine; l’unicorno era scappato. Volando via dalla finestra ed immettendosi nel traffico notturno del ventiquattro dicembre a Berlino, peraltro. Fossero almeno stati in campana… ma no, proprio nella capitale tedesca.
Bushido sospirò pesantemente e si strofinò gli occhi con una certa forza, cercando di recuperare lucidità mentale. Quando ci riuscì, l’unica cosa che pensò fu che quello era proprio il momento di mettere in campo la crew: una manciata di uomini forti, asserviti, indipendenti e fondamentalmente stupidi. Una manciata di uomini, soprattutto, che quell’unicorno lo vedeva senza dubbio. Perciò, perfettamente sfruttabili.
- Tu non ci stai con la testa, Atze. – fu il commento di D-Bo quando, di fronte a tutto il resto della crew, gli venne spiegata la situazione.
- Cioè, tu e Bill – precisò Eko, spalancando smisuratamente gli occhi, - avete scopato. E già questo basterebbe a sconvolgermi. Ma oltretutto tu mi vieni a dire che quell’allucinante creatura stava qui solo perché il ragazzino qua era vergine e che ora che non lo è più è fuggita chissà dove…
- …ed a noi tocca cercarla?! – rincarò la dose Chakuza, agitandosi nervosamente attorno al divano, - Noi siamo rapper! È già allucinante ci fosse un unicorno in casa tua, io non intendo prestarmi a-
- Tu ti presterai a qualsiasi cosa io ti chiederò. – fu il secco commento di Bushido, spedendoli tutti fuori casa e tirandosi appresso Bill mentre si immetteva a propria volta per le strade della città, - Altrimenti io ti licenzierò e farò in modo da non farti più mettere piede in qualsiasi etichetta della città.
Mentre Chakuza borbottava inascoltato un “vorrà dire che andrò da Sido e Fler, sia mai loro siano meno cazzoni di te!”, Bushido si affiancò a Bill e gli strinse protettivo una spalla.
- Guarda che lo ritroviamo. – cercò di rassicurarlo, preoccupato dai suoi lineamenti tesi. Bill era sempre sull’orlo del crollo. Pensare di doverlo rimettere in piedi dopo una caduta era spaventoso: se non altro perché lui era così fragile da minacciare di rompersi in una quantità infinita di minuscoli pezzi, in caso fosse caduto davvero.
- Bu, non capisci… - mugolò il ragazzo, asciugandosi le guance, - io avevo fatto una promessa a Babbo Natale… - continuò mentre Saad borbottava un “bah!” sconvolto alle sue spalle, - ed invece Palla di Neve è scappato per colpa mia e… - Bushido lo osservò sollevare lo sguardo e poi spalancare gli occhioni, prima di puntare il dito verso un punto imprecisato di fronte a lui e prendere fiato neanche dovesse apprestarsi a cantare per i successivi dieci minuti di seguito senza avere la possibilità di respirare. E poi esplose: - Palla!!!
L’unicorno stava in effetti immobile a qualche metro di distanza da loro. I passanti sembravano non vederlo e continuavano a vivere la loro gioiosa festività senza curarsi del delirio in cui invece loro stavano immersi.
Bill cercò di andargli incontro, ma Palla di Neve nitrì adirato e s’impennò.
- Palla, non… non fare così, ti prego… - provò il ragazzo, ma l’unicorno non lo ascoltò. Nitrì ancora, sempre più indignato, e poi partì al galoppo quasi stesse inseguendo una preda.
Bushido non attese che un paio di secondi prima di afferrare Bill per il polso e trascinarselo dietro alle calcagna dell’animale impazzito, mentre tutto il resto della crew ammetteva che rimanere comunque lì al freddo e al gelo senza combinare niente era perfino più assurdo che seguire il proprio capo in quell’impresa allucinante: e decideva pertanto di mettersi a correre a propria volta.
Tutto ciò che Bill riuscì a commentare, fra uno sbuffo di fiato e l’altro, mentre Palla di Neve si fermava di fronte ad un palazzo e spiegava le ali per volare fino al decimo piano, fu “io questo posto lo conosco”. E poi più niente, perché quel palazzo era casa sua: e perché Palla di Neve ci fosse tornato era un mistero che si sarebbe dipanato solo quando l’avrebbero seguito.
*
All’interno dell’appartamento, Tom stava disperatamente cercando di non morire dalle risate mentre Gustav passava a Georg il proprio regalo di Natale commentando distrattamente “c’è anche la piastra per il frisé” prima ancora che il bassista riuscisse a scartarlo.
- E che cazzo, Gusti, sarà il quarto anno consecutivo che mi regali una piastra per capelli, a Natale! – borbottò il ragazzo mentre Tom rotolava sul divano andando ad impattare contro un povero manager esausto che tutto avrebbe voluto tranne ritrovarsi la notte della vigilia a babysitterare tre adolescenti palesemente mononeuronici.
- Ma ti dico che questa ha la piastra per il frisé! – insisté Gustav, oltraggiato da tanta ingratitudine, - Quella dell’anno scorso non ce l’aveva!
- Io non la uso, la dannata piastra per il frisé! – sbraitò Georg, agitando in tondo il proprio regalo ancora mezzo impacchettato, - Ti pare che io sia tipo da frisè?!
Gustav scrollò le spalle.
- Uno non può mai sapere, magari ti viene voglia di cambiare.
E su quell’ultima battuta la finestra s’era infranta ed un’enorme cavallo alato aveva fatto irruzione in salotto. Un cavallo alato con un enorme corno bianco e lucidissimo nel mezzo della fronte. Un cavallo alato e cornuto con un paio d’occhi talmente azzurri e acquosi da sembrare finti, peraltro.
Insomma, un unicorno.
Tom guardò Georg. Che guardò Gustav. Che non se la sentì di tirare nuovamente in ballo il frisé per motivare l’assurdità dell’accaduto. Alla fine, tutti e tre guardarono David come si aspettassero da lui una soluzione definitiva.
Il manager fissò l’unicorno, la bocca spalancata e le braccia molli lungo i fianchi.
- Ragazzi… lo vedo solo io?
La scrollata di capo simultanea che seguì la sua domanda non lo rassicurò per niente. Invece di dirsi “ah! Allora non sono pazzo!”, lo portò a commentare “ah! Allora siamo pazzi in quattro!”.
- Palla! – strillò qualcuno aprendo la porta di scatto. E quel qualcuno era Bill. Seguito da Bushido. E dall’Ersguterjunge al completo. Compreso Eko, che magari non era più sotto contratto all’etichetta ma, quando c’era da seguire il capo, sembrava sempre pronto ad obbedire.
David deglutì a fatica.
- Loro li vedo solo io, però, giusto?
Tom, Gustav e Georg scrollarono nuovamente il capo in sincrono.
Ed a quel punto ci sarebbe davvero stato da chiedersi cosa diavolo stesse succedendo, ma l’unicorno li batté tutti sul tempo guardandoli uno per uno con sincero scazzo… prima di posare i propri enormi occhioni acquamarina su Tom e dirigersi con aria innamorata verso di lui.
- Ehi! – sbottò Tom, sulla difensiva, - Stai lontano, eh?!
- No, Palla! – strillò ancora Bill, tendendo una mano verso l’animale, - Morirai!
Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Aspetta. – suggerì, fissando curiosamente la scena, - Sembra che sappia quello che fa.
Ed in effetti Palla di Neve lo sapeva davvero. Ne ebbero tutti la conferma nel momento in cui lo videro accucciarsi placidamente ai piedi del chitarrista e lì restare, sprofondando immediatamente in un tranquillo sonno ristoratore. Il volo doveva averlo sfiancato.
- Ho ho ho! – disse a quel punto Babbo Natale, carambolando giù dal camino e rotolando felice fin nel centro del salotto, - Ouch. Dovrei ricominciare ad usare gli abiti imbottiti. Erano incredibilmente d’aiuto, in queste situazioni.
Una bolla di silenzio si espanse per tutta l’estensione della stanza.
Ed esplose solo quando Bill si mise a piagnucolare.
- Babbino! – disse con tono lamentoso, - Mi hai preso in giro!
Babbo Natale sistemò gli occhialini tondi sul naso, prima di rimettersi in piedi e guardare Bill con aria critica.
- Io ti ho preso in giro, Bill? Mi pare che qui quello che non ha onorato la sua promessa sia stato tu…
- Ma tu mi avevi detto che l’unicorno poteva stare solo con i vergini! – continuò a borbottare Bill, del tutto sordo ai rimproveri, come in effetti tutti si aspettavano, - E invece guardalo, sta lì e fa le fusa a mio fratello!
Il nonnino si voltò a guardare Tom, squadrandolo compitamente da capo a piedi.
- Infatti, non c’è nessun errore. L’unicorno ha individuato il vergine più vicino e-
- I-Io non sono vergine! – protestò Tom, agitandosi convulsamente ed arrossendo imbarazzato, - Io non sono vergine proprio per niente! Che diavolo di storia è questa?!
Babbo Natale gli si avvicinò, lanciandogli un’occhiataccia critica.
- A-ah, Tom! – lo rimproverò, agitandogli un dito guantato davanti agli occhi, - Niente bugie! O quest’anno, per te, niente regali!
Il silenzio piombò nuovamente nella stanza, e le attenzioni di tutti furono concentrate su Babbo Natale che, dopo aver controllato che l’unicorno stesse bene, si sedeva compostamente sul divano, intrecciando le dita sul ventre sporgente e guardando il suo attonito pubblico con aria placida e pacifica.
- State tranquilli, ragazzi miei, ho un regalo per tutti voi, tranne che per quelli che l’hanno già ricevuto. – li rassicurò bonario, lanciando un’occhiata di paterna soddisfazione a Bill e Bushido, - Ora, se avrete la pazienza di starmi a sentire, vi racconterò la storia di un cucciolo di unicorno, di un ragazzo innamorato e di un uomo parecchio distratto. E poi vi darò i vostri regali. – si interruppe un attimo, guardandosi intorno con aria curiosa. – Ma prima, non ci sarebbe mica un bel bicchiere di latte e qualche biscotto?
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Death, Slash.
- "Sono le sei del pomeriggio circa."
Note: Poche e brevi, perché mi pare di essermi già dilungata abbastanza con quanto scritto XD Scrivere questa shot è stato praticamente un parto. Lunga com’è, poi. Ma c’erano così tante cose da dire, e così poco tempo… e così tante paranoie di mezzo °_° Insomma, non riesco neanche a parlarne in maniera completa, perché io con EKR – da sempre – ho un rapporto di cuore più che di cervello. Queste cose non si spiegano. E dire che è una delle storie più minuziosamente plottate sulle quali abbia mai messo le mani XD Io voglio solo ringraziare chiunque abbia letto questa storia dall’inizio alla fine, ma anche chi ci ha provato e non ci è riuscito, chi s’è ricreduto, chi l’ha amata, chi l’ha odiata, chi s’è preso male per i cambiamenti, chi invece li ha apprezzati, chi non ha ancora smesso di piangere e chi s’è fatto risate sonore per certi pairing entrati in gioco in corso d’opera. Davvero, chiunque abbia posato gli occhi addosso a questa piccolina almeno una volta nel corso di tutti questi mesi, ha il mio amore imperituro. Ed il mio ringraziamento più totale e sincero. E grazie anche a Tab, che mi ha lasciata entrare e che c’è stata sempre, fra alti e bassi vari ed eventuali. Insomma. Sono commossa ç_ç Ma non vi libererete di noi tanto presto u.u
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
STAATSFEIND NR. 1

Sono le sei del pomeriggio circa. In realtà non so, potrei anche stare cannando completamente orario – il che sarebbe molto male, visto che ho un appuntamento in Alexanderplatz fra mezz’ora e come ci arriverò in tempo è un mistero. Comunque sia sono entrato in questa casa verso ora di pranzo portando con me un tipo di pasta che non avevo mai visto in vita mia ma che la signora Lotte mi aveva assicurato essere meravigliosa. In realtà né io né Chakuza sapremo mai di cosa sapesse quella pasta quando era calda e buona da mangiare. Abbiamo fatto altro appena sono arrivato – praticamente sulla soglia della porta. Ci sono momenti in cui ci penso e mi viene da ridere – poi abbiamo provato a mangiare ciò che era diventato un impasto gelido e colloso dal colore verdastro per nulla invitante, ma ci abbiamo rinunciato subito. Ci siamo svaccati sul letto ed è lì che siamo rimasti a parlare del nulla assoluto – non saprei richiamare alle mente nemmeno un argomento di conversazione spuntato fuori nelle ultime due ore – fino a quando non ho commesso il grave errore di sporgermi verso di lui per recuperare l’orologio da polso abbandonato sul comodino e controllare l’orario e, prima di riuscirci, mi sono sentito tirare verso il basso con una forza ed un’urgenza addirittura preoccupanti. E lì poi il senso del tempo l’ho perso del tutto.
Mi infilo la maglietta ed ho appena il tempo di sistemarmi i capelli quando la testa viene fuori dal colletto, che mi sento tirato all’indietro per un lembo e quasi cado di nuovo sul materasso. Mi volto e c’è Chakuza che mi fissa con l’aria di un ragazzino furbo e molto divertito. Mi strattona a intervalli regolari di due secondi e poi d’improvviso cambia il ritmo nell’evidente tentativo di sbilanciarmi.
- Be’? – chiedo, tirando l’orlo della maglia sul davanti, visto che il fatto che lui la tiri da dietro mi riduce continuamente seminudo, - La piantiamo?
- Eddai, resta! – continua a ridere, prendendomi palesemente in giro e continuando a tirarmi, - Tanto non hai niente da fare!
- E invece se proprio vuoi saperlo ho un appuntamento! – borbotto offeso, sottraendomi a questo ridicolo tira e molla ed abbottonando i jeans un attimo prima che la gravità riesca a farli cadere sul pavimento.
Chakuza inarca un sopracciglio, incerto.
- Donna?
Io sospiro e vorrei quasi rispondere “una specie”, ma mi trattengo.
- Sido. – rispondo. E sto mentendo. – Ti risulta femmina?
Lui annuisce, prendendo atto.
- Ma tu cosa c’entri con l’Aggro Berlin, Fler? – butta lì curiosamente, sistemandosi meglio sotto il lenzuolo, - Sono palesemente i cattivi di Berlino. Tu sei una specie di bambino sperduto.
- Tu che sei suor’Anna di carità cosa c’entri col rap? – rispondo acido, recuperando la felpa dall’angolo di letto in cui è finita. La apro per infilarla. – Chakuza, l’hai sporcata, cazzo! – mi lamento, tirandogliela addosso, - Quante volte ti devo dire che se mi togli i cazzo di vestiti devi buttarli in un posto in cui non possono sporcarsi?!
Lui impallidisce e si passa una mano sugli occhi.
- Fler, tu sei troppo schietto. – commenta fra il disperato e il rassegnato, - E comunque non posso averla sporcata io. Io non posso aver sporcato niente, sei tu quello che si sparge costantemente sul materasso.
Arrossisco e spalanco gli occhi, sento il calore ovunque sul viso.
- Chi è schietto, poi? – sospiro stremato. – Non posso andare in giro in maglietta, Chaku. Si gela. – gli faccio notare poi, stringendomi nelle spalle.
Lui indica casualmente l’armadio di fronte al letto.
- Prendi una delle mie felpe. – suggerisce.
- Potresti anche fare qualcosa, di tanto in tanto. – borbotto io, raggiungendo comunque l’armadio e rovistando all’interno alla ricerca di qualcosa che non sia irrimediabilmente corto di maniche.
- Non intendo rivestirmi. – si lamenta lui, stiracchiandosi sul materasso, - E non intendo neanche andare in giro nudo.
- Tanto, a meno che non sia spuntato qualcosa di nuovo negli ultimi dieci minuti, ho già visto tutto. – lo prendo in giro, infilandomi una felpa rossa che giudico abbastanza anonima perché il mio appuntamento non possa riconoscerla.
Ci credo poco. Ci spero, comunque.
- Torni a cena? – chiede vago in un mezzo sbadiglio.
- Punto primo: - mi volto io, sul piede di guerra, piantando un pugno sul fianco, - non ne hai ancora abbastanza, della mia presenza? – Chakuza ride. – Punto secondo: se vuoi mangiare la roba della signora Lotte, schioda il culo e valla a prendere! – Chakuza mi tira un cuscino ed io lo evito. – Punto terzo: - ed ora comincio a blaterare, lo so, perché non avevo un punto terzo ma faceva figo dirlo, dopo il cuscino evitato. - …dovremmo cambiare posto all’armadio. – butto lì. Mi do del cretino due secondi dopo, ma almeno ho detto qualcosa.
Chakuza mi guarda con aria allucinata.
- E perché? – chiede. Giustamente.
- …non cade bene la luce nella stanza. – motivo, del tutto a caso. – Cadrebbe meglio – ma che cazzo sto dicendo? La luce non cade! Che cazzo ho in testa? – se fosse tipo lì. – indico un punto random vicino al letto, - Capito?
Lui annuisce lentamente, come si fa coi pazzi. Mi prendo il mio assenso condiscendente e sospiro.
*
Sono per strada due minuti dopo e congelo. Congelo tipo all’istante, appena metto piede fuori dal palazzo di Chakuza. Odio dovermi muovere a piedi ma è questo il dramma di quando mi fermo a dormire qui. Cioè, non è come passare per caso mentre vado a lavorare, io vengo qui e non mi muovo fino al giorno dopo, perciò visto che non abito tanto lontano vengo a piedi ed evito…
…va be’.
Comunque sto andando da Bill e di sicuro non potevo dirlo a Chakuza. Tanto non credo abbia ancora preso l’abitudine di chiamare Sido per chiedergli se sono davvero con lui o se per caso non sono scappato da qualche altra parte. E lui e Bill… di sicuro in quest’ultimo periodo non si sentono granché. Perciò posso ragionevolmente pensare che questa piccola bugia non verrà mai alla luce.
So che è da cretini dirlo adesso, e infatti non lo dico, non l’ho mai detto neanche a Bill, che comunque è un ragazzino intelligente e quindi non ha bisogno delle conferme verbali, il più delle volte, comunque io non ho mai avuto un problema con Bill Kaulitz. In un periodo in cui tutto il mondo aveva un problema con chi Bill era e con come si conciava, il mio unico problema era che lui fosse il tipo con cui Anis andava a letto. Per quanto assurdo e malato possa sembrare, non era un problema di gelosia, era un problema di appartenenza ad un certo gruppo. Un problema di ideali, in un certo qual modo. Non sto dicendo che uno non possa andare a letto coi maschi - … - sto dicendo che tu non puoi dare del frocio a destra e a manca a chi t’ha aiutato ad emergere dalla merda in cui stavi sepolto da adolescente, e poi diventare frocio davvero. C’è qualcosa di sbagliato in questo. Era questa, la cosa che non concepivo.
…e poi avevo bisogno di un pretesto per insultarlo. Un pretesto che suonasse diverso dal “mi hai mollato senza un fottuto perché”. Perché dopo cinque anni cominciava a perdere in forza, come argomentazione per le diss.
Insomma, in definitiva io Bill non l’ho mai odiato. Non gli ho mai voluto male neanche per un cazzo. In buona sostanza lo trovo pure vagamente tenero, è un cosino piccolo che non c’entra niente con tutto questo e che s’è visto morire l’amore della vita fra le braccia, e insomma, anche se non ero lì anche io più o meno lo so come ci si sente in questi casi. Quindi mi dispiace pure.
Mi dispiace anche di più perché comunque non sono mai stato un cretino e, fra le tante cose che Anis m’ha insegnato, c’è anche la capacità di capire al volo le situazioni. Perché è più facile sbrogliare i casini quando capisci subito il problema.
Stavolta non ha aiutato – io il problema l’ho capito subito ma non sono stato in grado di arginarlo. Io l’ho capito subito che fra Bill e Chakuza c’era qualcosa. L’ho capito probabilmente prima che lo capissero loro.
Non è giusto quello che io e Chakuza stiamo facendo a Bill.
Non è giusto neanche quello che stanno facendo Bill e Chakuza a loro stessi, comunque.
Bill mi chiama sul cellulare e mi strilla entusiasta che s’è ricordato di un posto meraviglioso in Oranienburgerstraße.
- Si chiama Cafè Zapata, ci sono stato solo una volta con Anis ed è bellissimo! Mi raggiungi lì? Sono già seduto! – che suona più o meno come “non vorrai mica farmi alzare per andare altrove?!”.
- Bill, - sospiro, - Bushido aveva i soldi che gli crescevano pure nelle mutande. Quanto intendi farmi spendere per una cioccolata calda?!
- Ma possibile che tu sia sempre squattrinato? – borbotta lui. Lo immagino già con un broncio enorme e le braccia incrociate sul petto, - Che razza di rapper sei?
- Quello che non ha mollato l’etichetta per diventare multimilionario. – gli ricordo, e Bill ride. Mi piace che rida alle battute che faccio su Anis. In realtà mi piace che, per noi due, parlare di Anis sia ancora normale. Non lo facciamo con nessun altro.
- Avanti, offro io. – mi rassicura lui, ed io biascico qualcosa ma poi mi ricordo che sono uscito tipo con venti euro nel portafogli stamattina, perciò tanto vale lasciarlo fare, il ragazzino è meglio della zecca dello stato quanto a produzione di banconote.
- D’accordo, arrivo. – e quando arrivo lo trovo tutto stretto in un piumino enorme, gli occhiali da sole calcati sul naso ed un berretto di lana a cuffia che gli schiaccia tutti i capelli attorno al viso. Un paio di ciocche nere svolazzano a causa del vento debole ma penetrante che spazza la via, e Bill se le scosta infastidito dalle guance e dal naso quando sente il solletico.
Sollevo una mano per farmi notare e lui sorride appena mi individua, rispondendo con un ampio gesto del braccio.
- Ma perché ti sei seduto fuori, perdio? – mugolo disperato, stringendomi nella giacca e facendomi minuscolo sulla sedia gelata del cortile esterno del bar, - Ci sarà un cazzo di grado centigrado ed in questo cazzo di cafè c’è anche la galleria d’arte! Perché siamo qui?!
Bill sorride appena, stringendosi nelle spalle.
- Era estate, quando sono venuto qui con Anis.
E questo dà senso alla sua scelta e toglie forza alle mie polemiche, perciò sto zitto.
Io e Bill abbiamo preso quest’abitudine di vederci, da quando lui e Chakuza hanno smesso di farlo. Per quanto possa sembrare assurdo, non è stato lui a cercare me nella speranza di estorcermi qualche informazione su come stesse Peter o chissà che altro – anche solo per sentirsi di nuovo un po’ vicino a lui tramite me, chissà. Sono stato io a chiamarlo. Perché quando Chakuza mi ha chiesto di proteggere il ragazzino non intendeva soltanto “metterlo in salvo in caso di pericolo”. Ed anche se lui lo intendeva, non è questo che si intende con “proteggere”, per me. Proteggere vuol dire che mi preoccupo. Proteggere vuol dire che ci sono se ti servo ma anche se non ti servo, giusto per vedere se hai bisogno o meno. È una cosa complessa ed è una cosa che possono fare solo le persone oneste.
Io sono finito nei guai con la legge un bel po’ di volte, ma sono una persona onesta. Anis, prima di diventare uno stronzo, mi ha insegnato ad esserlo. È la parte di lui che non ho perso, e me la tengo stretta.
È stato in un’occasione simile – ma eravamo in un pub, era sera e c’era decisamente più caldo – che ho chiesto a Bill di raccontarmi come fosse morto. Ho visto i suoi occhi brillare all’improvviso e l’ho visto tendersi e irrigidirsi tutto come avessi provato a pungerlo con cattiveria, ma poi l’ho visto sciogliersi e sorseggiare piano la sua cola al limone, le dita a disegnare figure astratte sul legno ruvido del tavolo, mentre a mezza voce mi diceva del suo arrivo, del sangue, dei baci, della cassetta del pronto soccorso, del letto. Dei proiettili. Del suo sorriso. Del suo respiro sottilissimo.
Gli ultimi istanti della vita della persona più importante di tutta la mia intera esistenza. Una persona che avevo perso, da qualche parte, ma che era sempre rimasta dentro di me, in qualche modo. Quelli erano i suoi ultimi battiti. Le sue ultime parole. I suoi ultimi istanti. Bill me li ha regalati senza un tremito nella voce e con una lacrima incerta sulle ciglia, una lacrima che non è mai scesa e s’è sciolta in un sorriso quando, alla fine del racconto, m’ha visto chinare rassegnato il capo e scusarmi.
“Figurati,” mi ha detto, “sai quanto ho aspettato di poterlo raccontare così a qualcuno? Certe volte, finché non lo dici tutto per bene…” e s’è interrotto, ma io ho annuito lo stesso perché avevo capito dove voleva andare a parare: perché certe volte, finché non lo ascolti tutto per bene non ti sembra vero. Il meccanismo è lo stesso.
Bill mi lascia scorrere addosso lo sguardo ed abbassa appena gli occhiali sul naso, fissandomi curiosamente.
- Ma quella… - inizia, indicando i pezzi di felpa rossa che escono dal giubbotto semiaperto, - è di Chakuza?
Mi chiedo sinceramente come diavolo abbia fatto. Non ha senso dirmi “non dovresti stupirti, lo sai cosa c’è dietro”, è assurdo che riconosca una felpa rossa che ho scelto appositamente perché fosse il più anonima possibile, perché potesse essere di chiunque, perfino mia. Mi passa per la testa in un pensiero distratto che questo ragazzino ama troppo intensamente. Si farà un male cane, così. Vorrei dirglielo. Ci sono passato, ragazzino. Tiratene fuori finché puoi. Ma non ho alcun diritto di farlo.
- Sì, mi sono sporcato con della roba… - mugugno gesticolando a caso e implorando perché non chieda di che tipo di roba io stia parlando, - mi ha prestato una felpa per venire qui.
Solleva repentinamente gli occhi nei miei, rimettendo a posto gli occhiali.
- Eri con lui?
Sì e non posso dirtelo, ragazzino. Non posso dirtelo perché non dovrei nemmeno farlo, ma di farlo in qualche modo ho un bisogno fottuto, perciò mi dispiace ma non mi fermerò. Prima o poi ti passerà. Forse. Ed allora andrà meglio. O passerà a me – Dio, lo spero – e sarà perfetto.
- No, mi sono sporcato e lui mi veniva di strada. Mi sono fermato, gli ho rubato una felpa e sono corso qui perché ero già in ritardo. – racconto con un mezzo sorriso.
- Lo tratti proprio male, povero Chaku. – ridacchia lui.
Io annuisco e rido a mia volta.
Il cameriere ci chiede se siamo pronti per ordinare. Bill resta mezz’ora a domandarsi se sarebbe il caso di prendere una birra alla fragola – “la fanno solo qui, Fler!”, il che dovrebbe dargli un’idea di quanto faccia schifo, visto che nessun altro ha seguito il geniale esempio – oppure non sarebbe più saggio ripiegare su una più normale cioccolata. Lo costringo moralmente a prendere la cioccolata ricordandogli che non ho una macchina per portarlo in ospedale se sviene. Lui prova a dirmi che potrei chiamare un’ambulanza, in caso, ma quando lo guardo ed inarco un sopracciglio lui borbotta “okay, okay!” ed ordina un pastrocchio con panna, granella di cioccolato, granella di noci, una spruzzatina di caramello, una spruzzatina di caffè e litri di latte, al che io mi chiedo dove sia finita la cioccolata e suppongo sia meglio che almeno quella manchi, altrimenti questa roba invece di dieci euro ne costerebbe quindici.
Bill affonda il naso nella tazza appena se la ritrova fra le mani. Squittisce di gioia stringendola fra le dita e non sfalda la complicata coreografia di panna e decorazioni che esce da sopra come una montagnola innevata; sorseggia direttamente da lì, poggiando appena le labbra sul bordo, e quando risolleva il viso ha due baffi irregolari di panna sotto il naso. Rido e glieli indico, lui li cancella con una leccatina da gatto e si gratta la nuca, imbarazzato.
- Stai ancora da tuo fratello? – chiedo, sgranocchiando le arachidi che mi hanno portato con la Beck’s.
Bill annuisce.
- Tomi è molto preso. – racconta divertito, - Era da un po’ che non gli lasciavo fare il fratello maggiore con tutti i crismi. È tutto una coccola, è così servizievole! – ride e manda giù altra cioccolata, - E poi non mi si stacca mai di dosso. Mi mancava, devo ammetterlo. – aggiunge, arrossendo lievemente.
- Che fai, ragazzino? – lo prendo in giro, bevendo un sorso di birra, - Invece di progredire, regredisci? Dovresti crescere, diventare grande… e invece torni a vivere dal fratellone.
Bill aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro.
- È una cosa temporanea, non sono tornato a vivere da lui. – borbotta offeso, - E poi io sono grande. Non sono un ragazzino. – sospira, - Però tu ormai hai deciso che ti piace chiamarmi così.
- Mi piace chiamarti così perché mi piace chiamare le cose col loro nome. – ridacchio, e lui annuisce, ridacchiando a propria volta. – Senti… - aggiungo poi casualmente, quasi a mezza voce. Un po’ spero che neanche mi senta. – Perché non ti fai vedere, di tanto in tanto, a casa del Chaku? – lui mi solleva addosso due occhioni terrorizzati, ed io mi affretto a sollevare entrambe le mani, come per rassicurarlo. – Magari quando siamo tutti insieme, ecco! O, se ti dà fastidio sentire quel coglione di Eko blaterare, magari andiamo da qualche parte noi tre. Potrebbe essere divertente. Che dici?
Bill sospira, abbassa un po’ lo sguardo sul fondo di panna che è rimasto nella tazza e poi torna a guardarmi. Dritto negli occhi. Vedo anche i suoi, nonostante la barriera ostile delle lenti scure.
- Dico che non posso. – risponde deciso, quasi freddo, - Lo sai.
Annuisco piano e ricomincio a sorseggiare la birra. Resto in silenzio mentre lui sfila gli occhiali e li posa sul tavolino in un gesto stanco accompagnato da un sospiro ancora più stanco. Lo osservo passarsi due dita sugli occhi – neanche un velo di trucco addosso – e massaggiarsi esausto la radice del naso. Non riapre gli occhi e non rimette gli occhiali. Però riprende a parlare.
- Fler… - chiede in un sussurro, - …tu pensi che questa situazione sia colpa mia?
Deglutisco appena, posando la birra.
- Quale situazione? – chiedo. Non perché voglio infastidirlo o forzarlo a parlare, ma perché davvero non so, fra tutte le situazioni, a quale si stia riferendo.
- Tutta questa situazione. – chiarifica lui, scuotendo il capo, - …Anis. Quello che gli è successo. E Chaku… - quello che ci è successo, ma lui non lo aggiunge.
Prendo un respiro profondo e metto in circolo un po’ dell’aria congelata di Berlino, sperando che possa aiutarmi a chiarire le idee. Sì che è colpa tua, ragazzino. Sì che, chiunque ha fatto fuori Bushido, l’ha fatto perché c’eri tu di mezzo. Sì che hai fatto impazzire Chakuza e sì che quello che è successo a me è una tua responsabilità indiretta.
- No. – rispondo deciso. E lo rispondo perché lo penso. Amare ed essere amati… non è veramente una colpa. E nemmeno una responsabilità.
*
- Stasera si esce.
Sono le mie prime parole quando Chakuza apre la porta. Mi guarda con aria incuriosita e poi si sporge appena per controllare se per caso non sto nascondendo del cibo dietro la schiena. Sospiro e roteo gli occhi, piantandogli una mano sul petto e spingendolo all’interno dell’appartamento, lontano dalla soglia, così da poter entrare.
- Non mangiamo? – mi chiede con l’aria di un cucciolo molto affranto, e mi viene un po’ voglia di pestarlo, quando fa così.
- Prenderemo un panino al volo, fuori. – spiego autoritario mentre recupero la sua giacca e gliela lancio.
- Fler, ma fuori c’è un freddo polare! – si lamenta, - Se ti va di bere qualcosa possiamo farlo anche qui!
Roteo di nuovo gli occhi, recupero il cappellino dall’appendiabiti e mi avvicino a lui, calcandoglielo sulla testa.
- Copriti che prendi freddo. – lo avverto. Perché è vero che fuori si congela e che, in una situazione normale, non avrei proprio nessuna voglia di uscire. Dio solo sa se non preferirei mettermi sotto le coperte e lasciare perdere.
Però Bill mi ha fatto pensare. In realtà Bill mi fa sempre pensare, per un motivo molto semplice che io capisco perché ho sempre addosso la solita maledizione-premio di Bushido che m’ha insegnato a sopravvivere, mentre a Bill e Chakuza sembra sfuggire completamente.
Qui ci stiamo tutti abbondantemente usando per non pensare.
E questo non va bene, perché c’è una persona che proprio non si merita di essere dimenticata prima di scoprire almeno chi l’ha gettata sotto terra dopo avergli sparato senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo in faccia prima.
Io e Bill siamo gli unici che non si usano per distrarsi a vicenda; io e Bill, quando siamo insieme, siamo ancora perfettamente concentrati sull’obiettivo. E quindi uscire con Bill è come tornare a focalizzare la realtà per quella che è, ogni volta.
- Senti, ma almeno mangiamo qualcosa, prima. – borbotta Chakuza, richiudendo il giubbotto con la zip.
Lo gelo con un’occhiata infastidita.
- Mi sembra che abbiamo perso già abbastanza tempo. – commento serio.
Anche l’espressione di Chakuza cambia. Realizza.
- Dove stiamo andando, Fler?
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno soddisfatto.
- A casa.
*
Sto vivendo un assurdo perché Chakuza è un maschio. Al di là di tutto il resto, se Chakuza fosse una femmina tanto per cominciare non sarebbe qui, e tanto per continuare non avrebbe una fissa tanto stupida quanto purtroppo comprensibile che suona più o meno come “la macchina è mia e la guido io”. “Anche se palesemente non so dove sto andando”, aggiungo io.
Insomma, gli sono girate le palle quando gli ho fatto capire che stavo manovrando la serata per cominciare ad andare un po’ in giro e provarci, almeno, a trovare ‘sto fottuto assassino. Perciò ha deciso di fare ostruzionismo e l’ostruzionismo si traduce nel restare alla guida in un posto che non conosce mettendoci peraltro in condizione di pericolo, perché Tempelhof non ti aiuta e non conoscerla è un peccato mortale.
Non credo lo stia facendo perché l’assassino di Bushido non vuole trovarlo affatto. Credo lo stia facendo perché sta provando ad andare avanti con la sua vita ed invece si ritrova da ogni lato gente che lo tira indietro. Sia Bill che io. Lo capisco, perciò non è questo quello che gli rinfaccio.
- Chakuza, se sbagli un’altra volta e non giri dove ti dico io al prossimo incrocio, giuro che ti butto nel canale. – è questa assurda cocciutaggine che contesto. È irritante.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile ed addenta il panino strabordante di kebab che ha preteso di comprare una mezz’ora fa, quando stavamo ancora seguendo la via che avevo in mente e non c’eravamo irrimediabilmente invischiati in questo dannato reticolo che ci porterà a ritrovarci all’improvviso con la macchina semi-immersa nell’acqua, se ci va bene, o circondata da ragazzini in aria di fermo se ci va male. Faccio mente locale. Ce l’ho la pistola? Ce l’ho. Chakuza ce l’ha? Gli lancio un’occhiata poco convinta, lui sbrodola cipolle. Sospiro e alzo gli occhi al cielo.
- Basta, basta. – imploro, - Ferma la macchina. Posa quella merda. – mai capito come Anis potesse anche vivere solo di questa roba, sul serio. – E scendiamo.
- Continuiamo a piedi?! – dice lui, fermando la macchina ed aggrappandosi al panino come ad uno scoglio in mezzo al mare, - Fler, si congela!
- Sì. – annuisco sospirando ancora, - Non hai fatto che ripeterlo da che siamo usciti. Posteggia qui.
- Questo è un vicolo. Me la rubano.
- Tanto è un catorcio. – scrollo le spalle, - Vai mica in giro in BMW, tu. Avanti! – gli do un colpo sulla spalla, - Piantala di fare il coglione, è già quasi l’una!
Mugugna scontento ma posteggia dove gli ho detto e scende subito dalla macchina, seguendomi mentre io faccio gli onori di casa, accompagnandolo verso il canale. La strada che fiancheggia il corso d’acqua è sgombra e solitaria come sempre, non vedo nessuno in giro, tutta la vita del luogo è concentrata nei dintorni del porticciolo ed oltre gli alberi, sulla via puntellata di bar e kebaberie, e sembra distante chilometri da questo spiazzo silenzioso illuminato in pieno dalla luce della luna. L’acqua brilla di riflessi azzurri e bianchi e mi perdo un po’ a fissarli, questi bagliori che non vedevo da anni, mentre l’unico suono che sento oltre allo scorrere del fiume ed a quello dei miei pensieri, è lo scalpiccio delle suole delle scarpe di Chakuza, qualche metro indietro rispetto a me.
- Cosa stiamo facendo esattamente qui, Fler? – chiede, affiancandomisi mentre prendo posto sull’argine, le gambe che penzolano in basso verso il corso d’acqua e le mani ben piantate sul cemento, lo sguardo fisso alla luna senza nemmeno vederla. Mi manca questo posto. È assurdo perché non è poi così lontano rispetto al luogo in cui vivo adesso, ma sembra comunque tutta un’altra realtà. Può darsi che io non sia cambiato granché, ma sembra cambiato tutto il resto. Eppure anche tutto il resto è sempre uguale.
- Devo riprendere confidenza. – gli spiego, sentendo la grana un po’ irregolare della colata di cemento sotto i polpastrelli, - Ci sei già tu che non hai idea di dove andare a sbattere la testa. È bene che almeno uno di noi sappia dove stiamo andando.
- Perché diavolo dovremmo cercare qui? – chiede ancora lui, vagamente irritato, - Non è detto che l’assassinio di Bushido abbia a che fare con Tempelhof. Potrebbe venire da tutt’altro posto. Cristo, potrebbe essersi trattato anche solo di un cazzo di mitomane…
- …che l’ha seguito proprio la notte in cui io e lui ci accoltellavamo in un vicolo, per poi pensare bene di concludere il lavoro al mio posto? – scuoto il capo. Evito di dirgli che io i miei sospetti li ho, come tutti. Che essere stato a mia volta un sospetto non mi ha impedito di pensare. Però non posso parlare con Chakuza di questo, al momento, perché è troppo presto e non saprei nemmeno cosa dire, in realtà, perciò scrollo le spalle. – Qualsiasi problema di Bushido è sempre venuto da qui, comunque.
Chakuza inarca un sopracciglio e mi guarda, curioso.
- Storia della tua vita? – chiede con un mezzo sorriso sarcastico.
Io aggrotto le sopracciglia e lo fisso, offeso.
- Non sono così ciarliero. – mi lamento.
- Oh sì che lo sei. – ride lui, annuendo, - Ogni volta che cominci a raccontare qualcosa con una frase enigmatica, l’unica cosa che resta da chiedersi è per quante ore andrai avanti. Quanto all’argomento di conversazione, - aggiunge, tirandomi una gomitata affatto discreta, - è sempre lo stesso.
- Stronzo. – borbotto a bassa voce, allontanandomi un po’, - Volevo solo dire che quando vivi in questo posto e non riesci a scappare da piccolo, ti resta dentro. E te lo porti dietro. Dovunque vai, la tua origine è sempre questa. Tu ti porti ancora qualcosa dell’Austria?
Lui mi fissa incerto, scrollando le spalle.
- Non saprei dirti. – ammette a bassa voce, - È Berlino casa mia.
- Appunto. – annuisco, - Chi viene da Tempelhof invece non ha altra casa rispetto a Tempelhof. Chi viene da Tempelhof, ci ritorna, prima o poi, in qualche modo.
- Quindi l’assassino è di queste parti?
Mi mordo un labbro.
- L’assassino è uno che sapeva dove andare a cercare qualcuno che potesse aiutarlo a concludere il lavoro. – cerco di suggerire. Mi aspetto che colga un po’ il riferimento, ma Chakuza scuote il capo e sospira.
- Sei peggio di Bushido, quando parli per enigmi. – esala piegandosi in avanti, i gomiti sulle ginocchia, e prendendo a fissare lo scorrere lento del fiume.
Lascio perdere e sbuffo un mezzo sorriso, piegandomi come lui per poterlo guardare negli occhi.
- Tu vorresti essere da tutt’altra parte. – gli dico serenamente. Lui fa per aprire bocca e protestare, ma lo fermo scuotendo il capo. – Quando avremo finito qui… avrai tutto il tempo per andare dove vorrai. Non starò più tra i piedi.
Chakuza spalanca gli occhi e per un attimo dà segno di non capire, ma quando io annuisco tranquillo vedo la consapevolezza farsi strada dentro di lui e costringerlo a tendere nervosamente i tratti del viso.
- Tu non- - ritorce, ma non lo lascio concludere.
- È giusto. – annuisco ancora, raddrizzando la schiena, - Voi… - ed è chiaro chi sia l’altro di chi sto parlando, - non siete di qui. Non avete nessun conto in sospeso con Tempelhof, a parte Anis. Risolto quello… - sospiro e scrollo le spalle.
Chakuza non aggiunge niente. Si alza, però, puntando le braccia per terra e rannicchiandosi tutto per un attimo prima di scattare in piedi. Io rimango seduto e per qualche secondo lo guardo dal basso, mi rivedo appena quindicenne e vedo Anis che va per i venti e sta in piedi accanto a me, esattamente come Chakuza in questo momento, e mi dice “tanti auguri, ragazzino”, e improvvisamente ricordo anche perché mi piace chiamare Bill in questo modo. Non c’entra chiamare le cose col loro nome. È a causa di Anis.
Bill non ha davvero colpa, in questa storia.
Però sarebbe troppo facile, adesso, dare la colpa al morto.
- Avanti. – dice Chakuza, la voce incredibilmente cupa, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi, - Qui non troveremo un bel niente.
Annuisco ed afferro la mano che mi porge. Mi tiro in piedi e capisco quello che sta succedendo solo quando è già successo: ho messo male un piede e sono scivolato. Chakuza non mi ha lasciato anche se avrebbe tranquillamente potuto farlo ed il risultato è che ci siamo sbilanciati in due e siamo caduti, rotolando per tutta la parete obliqua del canale e rovinando in acqua alla fine della corsa, con un sonoro splash che spezza la quiete della notte ed anche il riflesso della luna sul fiume, le cui acque si allargano in cerchi attorno a noi ed attorno ad ogni singola gocciolina generata dal nostro tuffo. Riemergo tossicchiando e lanciando imprecazioni in giro, mentre osservo Chakuza trascinarsi stancamente verso la parete di cemento tentando di asciugarsi un po’ il viso.
- Fler, Cristo santo… - si lamenta, rabbrividendo dentro il giaccone zuppo, - Ma stare un po’ più attento, no?
Io tiro su col naso e mi appoggio sul cemento al suo fianco.
- Scusa. – biascico, scrollandomi un po’ d’acqua di dosso, - Bagneremo tutta la macchina.
- Sì, è il problema minore. – ringhia lui, - Il problema maggiore al momento è come usciamo da questo pantano, visto che gli argini qui sono inclinati a sessanta fottuti gradi. – constata passando una mano sulla parete e guardando in alto alla sponda che sembra irraggiungibile.
- C’è un ammasso di pietre, più giù, verso il ponte… - borbotto indicando un punto nella notte con un cenno del capo, - C’era già quando ero piccolo io, lo si usava per scendere a recuperare la palla quando cadeva.
Chakuza annuisce lentamente, aguzzando la vista per cercare di individuarlo e rinunciando pochi secondi dopo.
- Mi fido. – concede alla fine, scuotendo stremato il capo, - Ora possiamo per favore tornarcene a casa prima di morire di freddo?
Annuisco con aria assente e non so se è perché oggi ho parlato con Bill o perché siamo venuti per cercare l’assassino di Bushido ed invece non abbiamo trovato niente, oppure perché il fatto che abbia detto “andiamo a casa” mi ha fatto scorrere brividi strani lungo la schiena, ma realizzo all’improvviso che quello che penso quando in genere rifletto su me e Chakuza è sbagliato. Non passerà, se non lo faccio passare. Ed io devo farlo passare.
- Chaku… - lo chiamo, lui si volta e quando si volta mi presso contro di lui, labbra contro labbra. È un contatto che conosciamo a memoria ed al quale ormai sappiamo reagire bene, perciò non mi stupisco quando lui solleva una mano a stringermi per la vita, combattendo contro la giacca bagnata che si gonfia e si sgonfia ovunque, e lui non si stupisce quando infilo le mani sotto il suo giubbotto, raggiungendo la felpa e strizzandola fino a spremerla, bagnandomi più di quanto già non sia fradicio.
Quando ci separiamo, lui sorride appena.
- E questo? – chiede in uno sbuffo divertito e un po’ incredulo, - Così, in mezzo alla strada…
- Non c’era nessuno. – mi giustifico con una scrollatina di spalle, - E poi stanotte dormo a casa mia.
Lui aggrotta le sopracciglia.
- Pe-
- Passa a prendermi Sido domani. – mento sfacciatamente, zittendolo prima che possa anche solo pensare di cominciare ad imbastire una protesta.
Ho idea che sarà una lunga serie di menzogne, questa.
E devo anche sbrigarmi a vedere se ho ragione e se l’assassino di Bushido è chi io penso sia. Prima lo trovo, prima mi stacco. E poi sì che sarà davvero tutto perfetto.
*
Gli ultimi quattro giorni sono stati pesanti. Hanno cominciato ad essere pesanti quando, la sera del giorno dopo il nostro primo incontro con Tempelhof – il primo di Chakuza, almeno, per me più che altro s’è trattato di rivedere un’ex-ragazza che non so se avevo davvero tutta questa voglia di rincontrare – mi sono ritrovato appeso al citofono di Chakuza a litigare per farlo uscire di casa. In un dialogo delirante cominciato con un “ti sto aspettando” e concluso – fra un “sali, prima!” ed un “Chakuza, stai rompendo i coglioni” – con me che strillo “d’accordo, resta dentro, vado da solo” che sapeva di suicidio, dato che ero a piedi.
Grazie al cielo mi sono sentito afferrare da una mano fortissima circa due minuti dopo, mentre mi facevo strada nella neve per tornare verso casa e recuperare un mezzo di trasporto, e c’era Chakuza che mi fissava con estrema disapprovazione, dandomi silenziosamente della merda ed annunciandomi ad alta voce che non dovevo prendere iniziative, visto che avevamo un accordo.
Avrei voluto chiedergli se nell’accordo fosse compreso il diritto da parte sua di incazzarsi e rompere le balle qualora avessi smesso di darglielo. Mi sono trattenuto solo per educazione – e dire che in genere non passo per uno educato.
Al momento siamo in macchina e Chakuza sta cercando posteggio nel vicolo che ormai è diventato il nostro riparo durante queste ronde notturne. Stasera la zona è frequentata e non c’è un buco neanche a pagarlo oro, perciò Chakuza sta ringhiando ed io sto cercando di ignorarlo, ma non è così semplice quando, fra un ringhio e l’altro, colgo allusioni su come io sarei palesemente l’inizio e la fine di tutti i suoi problemi.
Sei tu stesso l’inizio e la fine di tutti i tuoi problemi, Chakuza. Mi ripeto che non posso dirtelo, ma in realtà sto smettendo di crederci e, quando mi convincerò, probabilmente ti prenderò a cazzotti come meriti, e magari ti dai una svegliata.
- C’è posto qui. – dico indicando un gigantesco parcheggio vuoto accanto al cancello di una ditta di trasporti.
- Non rompere i coglioni. – risponde lui con l’ennesimo ringhio, - Non ci entro.
- Non ci entri perché sei un’enorme testa di cazzo. – rispondo a tono, incrociando le braccia sul petto.
- Aha, hai anche tastato con mano. – ritorce Chakuza, velenoso, ed io sussulto.
- Potremmo tenere fuori questa roba dalle nostre uscite? – chiedo pacatamente, cercando di non far scoppiare una guerra che, nella testa di Chakuza, sta già infuriando da giorni.
- Certo. – sibila lui, infilandosi miracolosamente in un altro parcheggio e spegnendo il motore, - Teniamo fuori la roba dalle uscite. E tu ti tieni fuori dalla roba, invece. Senza un cazzo di motivo.
Spalanco lo sportello e lo schianto senza tanti complimenti contro la fiancata della macchina accanto a quella di Chakuza.
- Cazzo, non siamo mica sposati, Peter, datti una calmata!
- Vaffanculo. – risponde semplicemente lui, - E stai attento alla macchina, è l’unica che ho.
Agito stizzito una mano, il danno è stato veramente minimo. Volevo giusto scheggiargliela un po’. Visto il catorcio che è, nemmeno se ne accorgerà, se non glielo faccio notare.
- Comunque al momento abbiamo altre priorità che non siano scopare, Chakuza. Mi era sembrato di essere stato chiaro a riguardo.
- No, Fler, non sei stato chiaro, perché non ne abbiamo mai parlato, Cristo santo. – si interrompe e sospira, richiudendo la zip del giubbotto e sollevando il cappuccio per schermarsi dai fiocchi di neve che ricominciano a cadere appena ci immettiamo nel marasma di persone che entrano ed escono dai locali sulla via principale, - E comunque, non si tratta solo del sesso.
Lo dice come non avesse la minima importanza e come fosse perfettamente ovvio.
Io ci resto come uno stronzo, ovviamente.
- Che-
- Non avevamo altre priorità? – sbotta sarcastico, voltandosi prima che possa vederlo arrossire come un liceale.
Sarà difficile staccarmi da questa cosa. Sarà fottutamente difficile.
- Senti… - sospiro, tirando su il cappuccio della felpa, visto che la giacca non ce l’ha, e mettendomi al suo fianco per esplorare la via, - guarda che comunque non potevamo continuare in quel modo.
Chakuza solleva il capo e si guarda in giro, sta imparando a conoscere il quartiere e mi piacciono gli occhi con cui lo guarda. L’ha presa sul serio, alla fine, questa cosa, e sono contento che ce la stia mettendo tutta, scazzo a parte, ma in realtà mi piace solo come guarda Tempelhof. Mi piace che voglia impararlo a memoria e mi piace che lo stia facendo per non farmi ripetere continuamente sempre le stesse indicazioni.
- Perché, in che modo stavamo andando avanti? – chiede distrattamente, infilando le mani in tasca.
- Scopavamo, Chakuza. – gli ricordo con aria rassegnata, sperando di dirlo abbastanza schiettamente da fargli cogliere l’assurdo.
Non lo coglie.
- Non ha senso farmi un discorso simile. – mi dice infatti, scrollando le spalle, - A me piaceva.
- E questo era un nuovo episodio della fortunatissima serie televisiva ghetto-gay di ProSieben. – sospiro scuotendo il capo, - Chaku, ripigliati.
- E tu cerca di essere meno stronzo, piaceva anche a te. – odio che Chakuza riesca a mantenere l’attenzione su un argomento anche quando faccio di tutto per deviarla. Se non funzionano nemmeno le prese in giro, non so più a cosa attaccarmi. Potrei prenderlo a mazzate ma non so quanto servirebbe.
Sospiro.
- Sì, Chakuza, mi piaceva. Contento?
- No. – si ferma e mi guarda, io mi fermo a mia volta e mi cade un fiocco di neve sul naso. Incrocio gli occhi per guardarlo sciogliersi e Chakuza rimane interdetto un paio di secondi, prima di scuotere il capo e scoppiare a ridere. Questo suono non lo sentivo da un bel po’. Sorrido anch’io. – Sei un cretino. – mi riprende dandomi una spintarella, - Facciamo che stanotte resti da me anche perché nevica che sembra Natale, e poi domani ne parliamo con calma.
- Facciamo che prima il dovere e poi… tutto il resto, Chakuza. – cerco di mantenermi serio, spingendolo a mia volta. – Dai, entriamo là. – concludo indicando una kebaberia ad angolo di un vicolo poco invitante.
Lui annuisce ma adesso sorride, il che è molto male perché non gli piacerà come si concluderà questa serata – con me che gli do picche di nuovo, cioè – ma comunque entriamo nel locale e prendiamo posto e non abbiamo neanche il tempo di sederci che già Chakuza sta chiamando il cameriere per ordinare qualche quintale di questa schifezza di cui s’è innamorato ed alla quale io sinceramente non riesco a trovare un senso. Trovo difficile dare un senso alle cose di cui s’innamora Chakuza, in effetti, ma penso di poterlo accettare per com’è.
- Invece di mangiare a sbafo, guardati un po’ intorno. – ordino infastidito, attaccandomi come di consueto alla bottiglia di Beck’s, - Non siamo qui per cenare, siamo qui per individuare qualcuno a cui chiedere qualcosa.
- Sì, ma si dà il caso che non abbiamo cenato, in tutto questo, quindi prendiamo due piccioni con una fava e… Fler, metti giù quella bottiglia, non è acqua, prendi un respiro fra una sorsata e l’altra.
- Chaku, facciamo così, tu t’ingozzi ed io faccio il resto, d’accordo? – lui borbotta e ricomincia a mangiare, mentre io sollevo lo sguardo e vado alla ricerca di un tipo ben preciso di persone. Non mi aspetto certo di trovare l’assassino alla prima botta, cerco solo qualcuno a cui chiedere se magari sa qualcosa.
Sono circondato da bianchi che mangiano e bevono allegramente e mi chiedo se non ho sbagliato completamente posto. Non è questa la gente a cui dovrei rivolgermi. Non sono loro quelli che possono sapere qualcosa. Questi sono lavoratori che si concedono un’uscita con le loro donne di sabato sera. O ragazzini che non hanno nulla da fare e scendono nei quartieri bassi per vedere di cosa sa l’aria.
I miei obiettivi li individuo in un tavolo distante dal nostro, addirittura dall’altro lato del locale. Sono già abbondantemente ubriachi – li riconosco gli ubriachi, non stanno in piedi e ridono senza un perché – e chiacchierano del più e del meno gesticolando ed urtando le bottiglie vuote che tappezzano il tavolo.
Sono tunisini, soprattutto. Lo sanno tutti che è a loro che si chiede, quando si vuole sapere cosa gira e cosa non gira in questo quartiere. Lo sanno tutti e soprattutto lo so io. Sempre perché me l’ha insegnato Anis. Come tutto, dannazione. Sarà orgoglioso di me, il King. Gli sto facendo giustizia, piano piano.
Mi alzo in piedi e Chakuza mi guarda curiosamente per un attimo, ma quando gli faccio cenno di seguirmi molla immediatamente il panino e mi si mette alle calcagna. Se è nervoso o agitato, di certo non lo dà a vedere. Mi complimento interiormente con lui e mi avvicino al tavolo.
- Buonasera. – mi introduco con un sorriso. I due tunisini sollevano lo sguardo e non capiscono un accidenti di quello che sto dicendo, naturalmente. – Mi hanno mandato da voi perché pare che siate due che ne capiscono, di questo quartiere del cazzo. – cerco di farmeli amici, mentre Chakuza prova con tutte le proprie forze a non fare una piega, fermo al mio fianco come una bodyguard.
- Sei di fuori, ragazzino? – dice uno dei due, ridendo selvaggiamente, - Che ci fa uno come te qui? Quanti anni hai, dodici? Occhioni!
- Uno come te è carne da macello in questo posto! – gli dà man forte l’altro, - Quanto costa quella felpa? Duecento euro?
- Duecentocinquanta. – preciso, mentre Chakuza mi fissa sgomento. Ora, non è che se uno esce con venti euro nel portafogli non deve avere nient’altro in banca, dico. – E ne ho altrettanti da spendere, stasera.
I due ridono ancora, uno si abbatte sul tavolo e fa cadere tutta una serie di bottiglie per terra. Una va in pezzi, qualcuno si lamenta, torna tutto tranquillo dieci secondi dopo.
- Cos’è, ragazzino, vuoi la roba?
- Noi non ne vendiamo merda. Lo facciamo fare ai quattordicenni bianchi di pelle, finiscono in galera molto più raramente. Quando li beccano i poliziotti si accontentano di fare un giretto nelle loro mutande, non ce li mandano in galera, che poi si rovinano!
Cerco di trattenermi dal recuperare la bottiglia in frantumi e fare una cosa che non faccio da fin troppo tempo, e li ignoro, sedendomi accanto a loro su una sedia che rubo al tavolo di una coppietta poco distante. Chakuza resta in piedi dietro di me.
- Non cerco droga. – rispondo sorridendo, - Cerco informazioni.
I due ridono ancora e Chakuza sospira dietro di me.
- Questi non sanno un cazzo. – borbotta.
- Ehi, pupetto, dì al tuo amico di tenere a freno la lingua! – si agita uno dei due, il più vecchio, avrà una cinquantina d’anni. Lo osservo alzarsi in piedi e stendere un pugno in direzione di Chakuza, il quale afferra la mano chiusa fra le dita e torce il braccio del tunisino fino a farlo mugolare di dolore, - E Cristo, tieni a bada il nano forzuto, bimbo! Ce la siamo dimenticata l’educazione?
Scrollo le spalle.
- Non è che tu sia molto educato con me o con lui. – mi piace giocare con questi ruoli, mi sto divertendo. Anche Chakuza dietro di me, scommetto che non vedeva l’ora di sfogare un po’ di frustrazione contro qualcosa che non rimbalzasse quando cade per terra.
- D’accordo, d’accordo… - dice l’altro tunisino, sulla quarantina, sistemandosi meglio sulla sedia, - Parliamone un po’ da persone adulte, vi va? Il tuo amico si siede, bimbo?
- Tu chiamalo bimbo un’altra volta, - risponde Chakuza, - e mi siederò con le scarpe sulla tua testa, stronzo.
Il tunisino ride ed io mi passo una mano sugli occhi.
- Chaku, lascia parlare me. – lo imploro, mentre i due tunisini insieme cominciano a prenderci allegramente in giro parlando di fidanzamenti e accoppiamenti vari ed eventuali coi quali battezzare casa nuova appena papino e mammina ce la regaleranno, dopo il matrimonio. – Allora, io ho duecentocinquanta euro che scalpitano per uscirmi dalle tasche. – affermo, cercando di riportare la conversazione su un terreno che posso controllare, - Però se non intendete collaborare…
- Ma sì che collaboriamo, sì! – dice il cinquantenne, battendo una mano sul tavolo.
- Senza perdere tempo, su. – aggiunge l’altro, intrecciando le dita sotto il mento, - Cos’è che vi serve sapere?
Sorrido furbo, chinandomi verso di loro.
- So che sono venuti a reclutare gente in questa zona, per rompere i coglioni al ragazzino di Bushido, un mese fa. – insinuo, e vedo il cinquantenne ridacchiare.
- Chiamalo rompere i coglioni! – dice ilare, - Volevano che gli succedesse ben altro!
Il quarantenne gli tira una gomitata fra le costole. È più lucido dell’altro. Questo potrebbe essere un problema.
- Chi cazzo siete? – chiede.
No, così non va bene per niente.
- Amici. – rispondo con sicurezza.
Il tizio annuisce e si alza in piedi.
- Bene, allora da amici chiuderemo questa conversazione e da amici ci perderemo di vista.
L’altro si alza assieme a lui e Chakuza va in agitazione.
- Ehi, dove cazzo- - inizia, ma lo fermo con un cenno del capo.
- Sentite, non ce l’abbiamo con voi. – preciso conciliante, - Voglio solo sapere se potete dirmi chi è stato assoldato per portare a termine il lavoro. Tutto qua. Li troveremo noi.
- Li troverete anche senza il nostro aiuto. – dice il quarantenne con un vago gesto della mano, - Qui a Tempelhof le voci corrono in fretta.
Chakuza si fa avanti, bene intenzionato a menare le mani, ma lo fermo puntandogli una mano sul petto e scuotendo il capo.
- Agli ordini del bimbo, mi raccomando, eh! – ride il cinquantenne, - Sbaglio o è per questo che Bushido c’ha lasciato le penne? – continua sguaiato, mentre il quarantenne gli tira un’altra gomitata e lo spinge verso l’uscita del locale.
Chakuza ringhia – lo sento tremare sotto le dita nonostante il giubbotto imbottito e mi scosto per motivi che non capisco in pieno nemmeno io – e mi si piazza davanti con aria scazzata.
- Perché li abbiamo lasciati andare via?! – chiede infastidito, - Sapevano qualcosa!
- Sì, ma oggi è sabato sera e ci siamo già fatti notare abbastanza senza metterci dentro anche una rissa, Chaku. – cerco di spiegargli pazientemente, - Stai tranquillo, queste non sono cose che si risolvono in fretta…
- Sì, ma noi stiamo andando alla cieca da giorni! – protesta ancora lui mentre io mi avvio verso l’uscita, - E quando finalmente troviamo qualcosa-
- Quando finalmente troviamo qualcosa, quel qualcosa ci resta in mano, no? – sospiro, - Ora abbiamo la conferma che sì, è qui che l’assassino di Bushido è venuto a cercare una mano d’aiuto.
Chakuza sospira ed annuisce, rimettendosi a posto il cappuccio mentre ci immettiamo nuovamente nella strada principale, diretti alla macchina.
- Pensi che potrebbero essere stati quei due a…
- E cosa vuoi che ne sappia io? – scrollo le spalle, - Forse sì, forse no. Più probabilmente, sanno qualcosa ma non vogliono finirci di mezzo. – ghigno, - Non che non li capisca.
Chakuza annuisce ancora e resta in silenzio mentre ci facciamo strada nella folla stando attenti a non scivolare sulla neve mezza sciolta che ricopre quasi tutto il marciapiedi. Lo sento irrigidirsi qualche secondo dopo, ma non cambia l’andatura del passo e non si volta indietro. È solo più teso, lo sento a pelle. Mi volto a guardarlo.
- Be’? – chiedo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Credo che ci stiano seguendo.
Inarco un sopracciglio e sono già sul punto di dirgli “Chaku, ricordati che tu sei quello che sbatte negli armadi”, quando mi accorgo che in effetti ha ragione, c’è una figurina incappucciata e vestita di bianco che ci pedina e cerca di dissimulare tenendo un passo diverso. Mi accorgo che segue noi perché non è capace e quando perde il ritmo deve correrci dietro.
Sospiro, lanciando un’occhiata indietro ed individuandolo. È un nanetto. Sarà un ragazzino.
Annuisco a Chakuza e gli indico un vicolo che naturalmente non è quello in cui abbiamo infilato la macchina. Il nostro misterioso inseguitore, comunque, non dovrebbe saperlo. Faccio affidamento su quello quando io e Chakuza svoltiamo nella stradina laterale un po’ buia, e faccio affidamento sul giusto, perché quando ci voltiamo indietro la figurina bianca si ritrova spiazzata a fronteggiare due uomini con un’espressione vagamente incazzata sulla faccia e poca voglia di chiacchierare. Si tira un po’ indietro ed allarga le braccia, sulla difensiva, la tuta in acrilico bianco che brilla appena dei riflessi dei lampioni che costeggiano la strada principale, che da questa penombra umida e fredda sembra lontana chilometri e invece non disterà più di tre o quattro metri.
- Tranquillo. – dico con un mezzo sorriso, mentre lo osservo indietreggiare spaventato, - Scopriti il viso.
Chakuza resta zitto e buono al mio fianco ed il ragazzino si ferma e ficca le mani in tasca.
- Nevica. – risponde scaltro, - Ed anche voi avete i cappucci.
Mi viene da ridere ma non lo faccio. Sfilo il cappuccio, invece, e faccio cenno a Chakuza perché faccia lo stesso. Lui ghigna divertito e poi insieme osserviamo il ragazzino esitare, confuso, e scoprirsi, restando fiero e dritto nella neve che cade, il volto pallido arrossato dal freddo sulle guance e sulla punta del naso ed i capelli corti e biondi disordinati sulla fronte, scossi appena dal vento. Ci fissa con un paio d’occhi azzurrissimi resi scuri dall’ansia e dalla paura, sotto le sopracciglia aggrottate in una posa da duro che conosco benissimo.
Chakuza ride apertamente e io gli do una spinta.
- La pianti di prendere per il culo?! – lo rimprovero, ma sto ridendo anch’io, e colgo l’espressione del ragazzino distendersi e poi arricciarsi nuovamente in un broncio offeso e deluso. – Avanti, è stato bravo fino ad ora!
Chakuza annuisce e pianta le mani sui fianchi, guardandolo bonario.
- Quanti anni hai? – gli chiede, il vocione rude modulato da una nota di tenerezza che è davvero impossibile da ignorare.
Il ragazzino incrocia le braccia sul petto.
- Sedici! – protesta stizzito, battendo un piede per terra.
Io annuisco e cerco di frenare Chakuza prima che ricominci a ridere. Mi avvicino con le mani bene in vista, trattandolo da pari, è così che si gioca con questi ragazzini qui. Mi dispiace un po’ sapere che a continuare a vivere in questo postaccio diventerà davvero ciò che adesso sta solo imitando.
- Okay, e ti chiami? – mi informo fissandolo dritto negli occhi.
Lui è un po’ incerto, guarda altrove, non sa se è giusto dirlo o meno. È molto piccolo, dovrebbe stare a casa.
- Daniel. – risponde alla fine, mascherando con un cipiglio sicuro l’esitazione nella voce.
- E ci hai seguito perché…? – chiede Chakuza affiancandosi a noi. Daniel esita ancora, si tira un po’ indietro, poi si rimette dritto e ci fronteggia con sicurezza.
- Io lo so cosa state cercando. – dice annuendo, - Ma qui non ve ne parlerà nessuno, dovete per forza risalire alla fonte.
Mi verrebbe da ridere per come parla, se non sapessi perfettamente che da ridere, in questa situazione, non c’è niente.
- E come mai nessuno dovrebbe parlarcene? – indago, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Perché c’è gente importante invischiata. – risponde lui, - Gente importante del quartiere, intendo. Posso farvi i nomi, se volete.
Chakuza inarca un sopracciglio ed incrocia le braccia.
- E questo slancio di generosità è dovuto a…? – chiede curiosamente, ed io ridacchio.
Gli occhi di Daniel saettano prima su di lui, fulminandolo – o almeno provandoci – e poi tornano su di me e si fanno più imbarazzati e liquidi, prima di chinarsi ad osservare la punta delle scarpe da tennis macchiate di fango.
- …sono un fan dell’Aggro, io. – biascica a mezza voce, ed io spalanco gli occhi e rido compiaciuto, battendogli una pacca sulla spalla.
- Grazie! – rispondo con entusiasmo, mentre Chakuza borbotta al mio fianco, - È bello vedere che i giovani hanno ancora degli ideali.
Chakuza coglie la frecciatina e fa per tirarmi un cazzotto sulla spalla, ma io lo evito e smetto di ridere, riportando l’atmosfera su un piano meno divertito e più serio.
- Dunque, Daniel. – inizio piano, - Questi nomi?
- Devi cercare Samir Azad. – risponde pacato lui, tirando su la zip della felpa fino a coprirsi il mento. Comincia a fare più freddo, e già prima non si stava bene. Mi passa per la mente in un pensiero confuso che dovrò fare i salti mortali per fuggire da casa di Chakuza, stanotte, se mai ci rimetteremo piede. – Spaccia per suo fratello Jad, che si rifornisce da certa gente di Cuba… non li conosco molto bene, non sono ancora arrivato a quel livello là. Io per ora lavoro per un tizio che ho incontrato in riformatorio e che li conosce.
Annuisco lentamente, Chakuza è già confuso e scalpita al mio fianco ma la mia calma lo tranquillizza.
- E io questo Samir Azad dove lo trovo?
Daniel scrolla le spalle con aria navigata.
- È sempre in giro. – risponde con un cenno del capo.
- In giro dove? – chiede Chakuza, - Sii più preciso.
- Verso Alter Park… - dice, indicando con un gesto distratto oltre il canale, che s’intravede appena oltre la gente, le luci, la strada e gli alberi, - Lo riconosci subito perché è mezzo zoppo, ha perso un pezzo di piede quando lavorava in fabbrica.
Chakuza annuisce.
- Lo conosco Alter Park. – commenta, - È un posto carino.
Io ghigno.
- Non dopo mezzanotte. – e Daniel ride con me. Infilo le mani in tasca e tiro fuori il portafogli, guardando questo ragazzino che ridacchia come se fosse molto figo essere uno spacciatore e dare una mano a due spiantati per trovare due cazzo di quasi-assassini. Forse perché non sa come si finisce, a camminare su questa strada. O forse perché lo sa e crede di non avere alternativa.
Spero che questi duecentocinquanta euro lo tengano lontano dalle strade, per un po’.
Lui mi guarda mettere mano ai soldi e mi ferma, scuotendo il capo.
- Non l’ho fatto per farmi pagare. – dice col cipiglio serio del ragazzino che crede di sapere cosa sta facendo, - L’ho fatto perché sei tu. – aggiunge più candidamente.
Ripongo il portafogli nella tasca, annuendo lento. Poi sorrido.
- Adesso hai un amico che conta, Daniel. – aggiungo dandogli una pacca sulla spalla. Sospiro. – Sei mai stato arrestato? – chiedo a bruciapelo, e Daniel aggrotta le sopracciglia.
- No. – risponde con orgoglio, - Sono stato bravo.
- Fortunato. – correggo, stringendo la presa sulla sua spalla, - Cerca di mantenerla, questa fortuna.
Lui esita per un attimo e poi risponde con un sorriso più sincero prima di salutarci, scomparendo oltre il vicolo. Quando ne veniamo fuori io e Chakuza, ritornando in strada e guardandoci intorno per capire il da farsi, sembra svanito nel nulla.
- Non so se ridere di più per l’amico che conta o perché hai fatto colpo su un sedicenne. – mi prende in giro Chakuza dandomi una gomitata in pieno petto e ridendo sonoramente, - Guarda che è illegale, eh?
- Sì, be’, - arrossisco in maniera indecente io, - Non è che ora improvvisamente solo perché tu sei frocio lo sono anche tutti gli altri, Chaku.
Lui ride ancora, calandomi il cappuccio sulla testa.
- Tu te ne tiri fuori? – chiede, e nella sua voce c’è una nota un po’ più profonda di quella che usa in genere quando prende in giro e basta.
Non ti va giù che possa andarmene, vero, Chaku? Capissi perché, forse non me ne andrei.
Riprendiamo a camminare e mi accorgo solo dopo qualche passo che stiamo andando in due direzioni completamente diverse. Mi volto a guardarlo e lui si volta nello stesso momento, ed immagino che sulla mia faccia ci sia la stessa espressione ebete che c’è sulla sua.
- Dove stai andando? – chiedo curiosamente, senza muovermi dalla posizione plastica in cui mi sono praticamente congelato, interrompendo il passo a metà.
Lui solleva un dito ed indica una direzione ideale che è quella del vicolo in cui abbiamo posteggiato. Mi chiedo se saprebbe arrivarci da solo.
- A casa. – risponde quindi, - Non l’hai detto tu che queste cose non si risolvono mai in fretta e che ci siamo già fatti notare abbastanza?
- Sì, ma abbiamo ricevuto una soffiata! – dico io, voltandomi per intero, finalmente, e guardandolo sconvolto, - Non possiamo perdere l’occasione, rischiamo che li avvertano e non si facciano più trovare!
Chakuza sembra incerto ma annuisce e mi si affianca. Sono consapevole di stargli chiedendo uno sforzo. In realtà lo sto chiedendo anche a me stesso. È un po’ spaventoso essere così vicini alla soluzione. Fa paura anche perché la soluzione in realtà porterà un mucchio di problemi con sé. Con quest’assassino, cosa ci facciamo, una volta che l’abbiamo trovato? E se è chi io penso sia, come la mettiamo?
- Ehi… - Chakuza mi dà una mezza gomitata sul fianco, - che hai?
Scrollo le spalle.
- Tu non sei nervoso? – chiedo, guardando altrove mentre ci avviamo lenti verso Alter Park.
Chakuza sbuffa una mezza risata.
- Tu, il padrone delle strade!, chiedi a me se sono nervoso? – mi prende in giro, inarcando le sopracciglia, - La birra ti ha dato alla testa in ritardo?
- Ma perché devi essere sempre così stronzo? – ritorco, tirandogli un cazzotto sulla spalla, - Era solo una domanda.
Chakuza guarda dritto davanti a sé e si gratta la nuca, sotto il cappuccio.
- Non tantissimo. – ammette, - Mi preoccupa di più che tu sia nervoso, che non la situazione in generale.
Lo fisso, stupito.
- Come, scusa?
Lui scrolla le spalle.
- Eri a tuo agio, fino a poco fa. Se cominci a preoccuparti vuol dire che hai paura di qualcosa. Se ne hai paura tu, praticamente io posso già cominciare a scappare, in sostanza.
Ridacchio.
- Allora ammetti che è vero? Sei l’uomo che sbatte negli armadi?
Lui cerca di farmi lo sgambetto ma io lo evito.
- Non intendevo dire quello. – ride, - È che io la mia vita te la affiderei, Atze. – e mi si ferma l’aria in gola, - Quindi hai una responsabilità.
Arriviamo ad Alter Park e sinceramente credo che i miei piedi abbiano ricordato da soli la strada, perché Chakuza ha questa cosa che dice parole di cui secondo me non si rende conto. O meglio, lui se ne rende conto, lui lo sa perfettamente quanto vale quell’Atze o quando vale sentirmi dire che la sua vita è nelle mie mani, però non capisce che ci sono cose che quando le senti ti annullano i pensieri. Lui le dice e basta, lo fa con una certa innocenza, non è che voglia mandarti in black out. Però lo fa.
Ci sono momenti in cui mi è veramente semplice capire perché Bill sia perso fino al punto in cui è.
Chaku si guarda intorno con aria tranquilla, scruta il buio della notte attraverso i viali alberati e le fontane spente. Il cielo è coperto e continua a nevicare ma l’acqua bassa nelle fontane è ancora liquida, così com’è liquido il fiumiciattolo che scorre sotto il ponticello arcuato verso il quale ci avviciniamo.
- Dove stiamo andando, Fler? – mi chiede quando comincia a sospettare il nostro girovagare non abbia veramente un senso.
- Non lo so. – ammetto scrollando le spalle, - In giro. Se vedi uno storpio, dimmelo.
Chakuza fa una smorfia.
- Che vorrebbe dire, “se vedo uno storpio”? – borbotta, - A parte che, se vedo qualcosa, lo vedrai anche tu, visto che stiamo andando nella stessa direzione. E comunque qui non c’è nessuno. Con questo tempo da cani, non capisco nemmeno perché ci siamo noi…
Sospiro e roteo gli occhi, indicando un’ombra scura appoggiata sotto un albero.
- Lì c’è qualcuno. – gli faccio notare con aria tranquilla come fosse ovvio e scontato trovare lì quella figura incappucciata.
Chakuza annuisce e deglutisce.
- Lui? – chiede.
- Non mi pare storpio. – dico, osservando il tipo dondolarsi da un piede all’altro e cominciare a giocare con un sasso per terra. – Però è probabile sia un palo. Stammi vicino e non aprire bocca.
- Ehi-
- Non mi avevi affidato la vita? – ghigno furbo, e lui si zittisce mentre ci avviciniamo al tipo. Mi schiarisco la voce e pianto una mano sul fianco, fissando il tipo con aria non propriamente ostile ma neanche propriamente ben disposta. – Ci hanno detto che da queste parti c’è roba buona.
Quello solleva lo sguardo e mi scruta da sotto il cappuccio, masticando rumorosamente una gomma.
- Mai visti da queste parti. – risponde secco, - Sbirri.
Aggrotto le sopracciglia, le mani bene in vista.
- Io ci sono nato qui.
Lui sbuffa e tira su col naso.
- Io non ti ho mai visto.
Chakuza resta in silenzio al mio fianco ma percepisco il nervosismo nel suo respiro appena trattenuto.
Io roteo gli occhi.
- Quindi nessuno ti ha mai raccontato niente di Frank White? – ghigno sicuro di me. Potrebbe essere la cazzata più grande della mia vita. Se questo tizio c’entra con tutto il casino che è successo, o se anche solo il suo capo gliene ha detto qualcosa, siamo fregati. Se non sa niente, però, questo nome potrebbe essere il nostro lasciapassare definitivo.
Il tipo solleva lo sguardo e mi fissa, incerto.
- Tu saresti… - mi libero del cappuccio e lascio che mi guardi bene in faccia. - …oh. – prego vivamente che Chakuza non si faccia riconoscere. Il tipo, comunque, annuisce brevemente. – Al gazebo. – indica oltre il ponte, - Samir è là.
Annuisco e mi allontano, tirandomi dietro Chakuza. Il gazebo, se è ancora come lo ricordo io, è una struttura in legno bianco con una cupola di tegole nere, tutta circondata da una ringhiera ad assi incrociate che fa molto recinto di campagna da ricca famigliola americana, e da schiere di aiuole piene di cespugli che in primavera sono colorate e profumatissime. Il classico luogo che in genere viene adottato dalle coppie di fidanzatini per pomiciare, ed infatti succedeva eccome, almeno ai miei tempi, solo che, calato il sole, questo posto cambia faccia.
Quando arriviamo, lo scenario è molto più adatto allo spaccio che non ai flirt, comunque. Un po’ perché è inverno, e quindi delle aiuole colorate non è rimasto poi molto. Un po’ anche perché sono passati più di dieci anni. Quindi, anche del resto, non è che sia rimasto tanto.
Samir Azad, avvolto in un giubbotto in piuma d’oca, il viso nascosto da un ampio cappuccio col pelo sull’orlo, sta contrattando con un tizio dal volto semicoperto da berretto e sciarpa, e si muove avanti e indietro lungo le pareti del gazebo per non stare fermo, anche perché a star fermi si gela. Chakuza mi guarda, un’occhiata ferma e sicura, ha visto che zoppica: è lui, sì Chaku, è lui.
Mi appoggio contro una parete, incrociando le braccia e sollevando un piede contro il legno, che tanto è così pieno d’impronte da non farmi nemmeno più sentire in colpa per il fatto che sto calpestando la mia gioventù ed usando il mio nome – cose di cui vado abbastanza orgoglioso, insomma – per vendicare un uomo che mi ha mandato a fanculo e dal quale non mi sono mai sentito dire grazie. O scusa. Lui e tutte quelle canzoni del cazzo come quella in cui mi diceva che sperava stessi bene. Come se per me fosse possibile stare bene senza che mi desse una fottuta occasione per perdonarlo. Ma Bushido il mio perdono non lo voleva. Lui non ha mai sbagliato.
Il tipo col volto coperto si allontana e lascia il gazebo mentre Samir conta i soldi e li infila nella tasca posteriore dei jeans, prima di voltarsi verso di noi e farci cenno col capo. Mi avvicino e mentre lo faccio metto bene a fuoco la situazione. Samir probabilmente è armato. Così come saranno probabilmente armati anche i numerosi pali che ha sparso per il parco. Noi siamo in due, io ho una pistola ma dubito che Chakuza abbia la mia stessa fortuna, il che vuol dire che devo prendere immediatamente in mano la situazione, farmi dire ciò che mi serve di modo che poi lui non abbia più nulla da difendere e scappare via da qui il più in fretta possibile. Prima che lui allerti qualcuno, almeno.
Mi chiedo per un attimo chi mi abbia convinto a ficcarmi in una situazione che puzza di suicidio lontana chilometri. Poi ricordo che mi ci sono ficcato da solo. E ricordo anche che mi piacerebbe poter tornare da Bill e dirgli “visto? Te l’abbiamo preso, il figlio di puttana”. Ricordo, soprattutto, che sulla fottuta tomba di Bushido voglio tornarci presto. Magari lanciare un’occhiataccia a quella foto sorridente incastonata sulla lapide e poi dirglielo. Mi devi un favore enorme, stronzo, perciò… perciò non lo so. Mi piacerebbe credere in Dio e poter pregare, in una situazione del genere. Almeno non starei rischiando la vita per qualcosa di così inutile ma che sento come assolutamente inevitabile.
Chakuza non lo capisce, quello che sto facendo. Mi osserva con la coda dell'occhio ficcare una mano in tasca e quando fa per aprire bocca e chiamarmi se lo risparmia, perché capisce che è già tardi: c'è la mia pistola pressata con forza contro lo stomaco di Samir, e la mia mano libera è salita a chiudergli prepotentemente la bocca. Samir mi fissa con gli occhi spalancati, respira forte contro la mia mano e il suo fiato caldo scioglie il gelo dei miei polpastrelli. Stringo la presa attorno al suo viso fino a fargli male, lui si lamenta sotto di me e continua a fissarmi con quegli occhi enormi – è più giovane di me, avrà vent'anni, cazzo, forse nemmeno – ed io lo spingo indietro violentemente, cercando la ringhiera contro cui schiacciarlo. Lui incespica, il piede monco non lo aiuta, non cade a terra solo perché gli sto stringendo la mascella fra le dita come una tenaglia.
- Cristo... Fler! – strilla Chakuza venendomi vicino per nascondere la scena col corpo, - 'Cazzo stai facendo?
Io sorrido.
- Pubbliche relazioni. – rispondo, ripescando dalla mia adolescenza una faccia di culo che mi sembrava di avere perduto – anche perché non credevo ne avrei più avuto bisogno – e che invece viene fuori con una semplicità disarmante, come fosse sempre stata lì in agguato in attesa del momento giusto per rifarsi viva. Probabilmente è stato così per davvero. Ed io avevo proprio ragione a dire a Chaku che chi viene da questo quartiere di merda prima o poi, in qualche modo, ci ritorna e basta. – Ciao, Samir. – ghigno cattivo, affondandogli la canna della pistola nella pancia, - Serata fredda, mh? – lui mugola e cerca di liberarsi, ma Chakuza scatta a tenerlo fermo per le braccia ed ora siamo in due a schiacciarlo contro la ringhiera. Non ha cosa fare. – Ho qualche domanda da farti, quindi ora devo liberarti la bocca. Però tu non urli, altrimenti io ti ammazzo. Sono stato chiaro?
Samir annuisce freneticamente ed io sollevo la mano, lasciandolo libero di parlare. Lo stringo per la spalla, però, così che non gli venga in mente di fare qualche stronzata che, teso come sono, mi porterebbe a sparargli per davvero, anche se non ho la minima voglia di concludere la serata in un bagno di sangue.
- Che cazzo volete? – chiede lui, una nota di terrore profondissima nella voce tremante.
Io sospiro e mi avvicino a lui.
- Guardami bene in faccia. – gli dico, - Mi riconosci, Samir? Lo sai chi sono?
Chakuza mi lancia un'occhiata allarmata ed io spero che non si faccia saltare in testa qualche idea geniale delle sue tipo scoprirsi il viso. Ne basta già uno nella merda fino al collo, ed è più giusto che quell'uno sia io, perché se stasera andasse tutto a puttane e per uno di noi qualcosa dovesse andare storto, non me la sentirei proprio di restare io con Bill ed i fantasmi di due uomini che hanno contato tanto. Meritatamente o meno.
Samir, comunque, annuisce e chiude la bocca, mandando giù a vuoto.
- Lo volevi morto anche tu, Bushido. – dice con rabbia, cercando di scattare in avanti, ma lo riporto indietro a sbattere contro la ringhiera.
- Errore. – sibilo, stringendolo al collo, - Non mi pare di aver autorizzato nessun omicidio, negli ultimi tempi, tantomeno quello di Bushido. – gli faccio presente, - Ma non fare l'avvocato del diavolo, stronzo, so che non sei stato tu a farlo fuori. – ghigno, - Tu hai fatto il gradasso col suo ragazzino, vero? – ipotizzo, e so che non sto toppando perché ad ammazzare Bushido non può davvero essere stato lui. Io c'ero, quella notte, io lo so che qualche stronzo ha fischiato. Ma non può essere stato questo stronzo qui. Lui non ne sa niente, di fischi e simili. – Coraggio. – lo incito, - Sì o no? Posso farti un sacco di male, Samir.
- Fler, cazzo! – mi chiama Chakuza, ma io lo ignoro.
- Cristo! – geme Samir quando sente la pistola schiacciarsi più profondamente contro il ventre, - È vero, Cristo, è vero! Lo sapevo che era una cazzo di storia pericolosa, quello stronzo di un libanese non mi ha lasciato scelta, cazzo!
E lì il tempo, per un bel po', si ferma. Non contano i secondi e la neve che cade, Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio al mio fianco e la sua stretta attorno alle spalle di Samir si fa fortissima per un istante, prima di disperdersi lentamente e diventare nulla.
Io riesco solo a pensare che, cazzo, avevo ragione. C'era un solo stronzo cui Bushido potesse aver parlato del nostro fottuto fischio. Quello stronzo non poteva che essere il suo braccio destro. Quello che doveva accompagnarlo quella notte. Quello che doveva essere il testimone della sua morte. Baba Saad. Il libanese. Alla fine, è stato testimone della sua morte per davvero. Lo stronzo figlio di puttana.
Mollo Samir e mi tiro indietro, tenendogli sempre la pistola puntata contro. Lui solleva le mani in segno di resa ma Chakuza non si muove. Non lo sta stringendo, però è ancora lì, lo fissa e gli tiene le mani addosso.
- Peter. – lo chiamo, ed uso apposta il nome di battesimo, perché Peter può essere chiunque e Chakuza non dovrebbe essere qui. Lo guardo dove dovrebbe esserci la sua faccia, ma non vedo niente. C’è buio ed il cappuccio è tirato così in basso che quasi gli sfiora il naso. – Peter! – lo chiamo ancora, e lui si volta appena, - Vieni via.
Lo vedo che solleva un po’ il viso e mi lancia una mezza occhiata incerta. Samir ha ancora le mani bene in alto e respira con fatica, probabilmente pensa abbia una pistola anche lui e trova la sua vicinanza un tantino troppo spaventosa.
Chakuza si schiarisce la voce un paio di volte, inspira ed espira e poi inspira ancora e trattiene il fiato, tant’è che davanti a lui non si forma più condensa e dopo un po’ comincio perfino a preoccuparmi. Ma poi apre la bocca e parla, e quando lo fa mi si attorciglia qualcosa dentro perché il tono che usa è tremendo. Non è debole, non trema, non è allarmato. Non è neanche freddo e distaccato come dovrebbe, però. È qualcosa che si avvicina molto ad un’incredulità allucinata che fa un po’ male. Mi viene da pentirmi di un mucchio di cose. Tipo di averlo portato qui. Tipo di averlo costretto a sentire una cosa simile. Insomma. Non è stato giusto.
- Stai parlando di Baba Saad? – chiede, e Samir annuisce senza aspettare un attimo.
- Cazzo, chi altri? – rincara la dose, - Ehi, amico, dì a questo tizio di mollarmi, non so nient’altro, cazzo, e non gliel’ho infilato io il coltello nello stomaco, al tuo uomo!
Ringhio e lo mando a fanculo, per un attimo ho perfino paura che Chakuza reagisca in maniera troppo infastidita, cosa che darebbe modo a Samir di capire o almeno intuire chi ha davanti – ma a Chakuza non interessa del suo stomaco, adesso. Credo di poterlo capire.
Lo lascia andare e si allontana, venendo verso di me.
- Tutto a posto? – gli chiedo quando è abbastanza vicino, lui non risponde.
- Cristo, dovreste chiederlo a me se è tutto a posto! – sbotta Samir, massaggiandosi lo stomaco.
Tendo il braccio, puntandolo alla testa.
- Tu mi fai il favore di strozzarti con la tua stessa lingua, grazie. – dico, per chiarire nuovamente le posizioni, - Prima che io ti faccia qualcosa di peggio.
Samir solleva di nuovo le mani ed annuisce.
- Okay, okay, amico, ti ho detto tutto quello che sapevo! Mi lasci andare?
Annuisco e faccio cenno di muoversi con la pistola, Samir si china a raccogliere la sua roba e poi lo vedo allontanarsi zoppicante ed agitato verso il ponte. Mi avvicino a Chakuza, e comincio a preoccuparmi davvero perché la situazione non è bella, dobbiamo decidere cosa fare e lui continua a fissare il vuoto. La cosa non mi piace.
- Chaku, ehi. – gli do una pacca sulla spalla, non ho la più pallida idea di come cazzo consolarlo perché tutto ciò cui riesco a pensare è che la voglia di concludere la serata in un bagno di sangue è tornata all’improvviso quando Samir ha parlato. Solo che ora so con precisione di chi voglio che sia, il fottuto sangue. – Ehi, ci sei?
- Sì. – risponde seccamente lui, guardandomi. – Cazzo. Saad. – e lo dice come se si aspettasse da me un “assurdo, vero?”. Boh, non so, forse dovrei accontentarlo, ma la verità è che non lo penso. E però non posso stare qui a dirgli “guarda che io l’ho sempre sospettato, eh”. Cioè, con che faccia gliela dico una cosa simile? Perciò mi limito a stringere ancora di più la presa sulla sua spalla, e cercare di guardarlo comprensivo.
- Lo so, Atze, lo so. Senti, dobbiamo muoverci da qui. – gli faccio presente, - Non è sicuro e dobbiamo vedere cosa fare.
Lui si scosta con un ringhio frustrato.
- Ma cosa cazzo vuoi fare, Fler?! – strilla, ficcandosi le mani in tasca e muovendosi nervosamente in tondo nel gazebo, - Cristo, proprio lui! Cazzo! Fler, che cazzo facciamo?!
Mi passo una mano sugli occhi e sospiro pesantemente.
- Ci pensiamo dopo, Chaku. – gli vado dietro, riprendendolo per le spalle per cercare di tenerlo fermo, - Ehi, senti, mi servi calmo e concentrato, ok? – lui fa per divincolarsi. Lo stringo con più forza e lo costringo a girarsi e guardarmi negli occhi, e poi lo fisso nel modo in cui fisso sempre la gente quando voglio farmi ascoltare e obbedire. Come se non vedessi altro, cioè. – Chakuza, ho davvero bisogno di te. Non mi mollare adesso, stai calmo.
Lui respira con forza.
- Stiamo parlando di Bushido, qui. – mi fa notare, come non ne fossi perfettamente consapevole, - Cristo, è Saad che ha ammazzato Bushido! Ti rendi conto?!
- Sì che me ne rendo conto. – rispondo annuendo, - E credimi, non c’è nessuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me, al momento, ma… - mi interrompo, perché realizzo all’improvviso che invece c’è qualcuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me. E quel qualcuno è un ragazzino pallido e magro che gela nell’inverno di Berlino per andare a bere una cioccolata disgustosa nel posto in cui è andato con Bushido magari anche solo una volta, ma che continua a ricordare come se le volte invece fossero state mille. Deglutisco. – Chaku… - lo chiamo, mentre lui continua a fissarmi smarrito, - Dobbiamo andare da Bill.
Chakuza non dice niente. Neanche una parola. Chiude la bocca e spalanca gli occhi e non fiata, ma tutto quello che deve dirmi lo sta dicendo in silenzio, guardandomi in questo dannato modo che mi manda fuori di testa ed al quale vorrei tanto rispondere “okay, dai, Chaku, torniamo a casa e vediamo se c’è ancora un po’ di pollo con le patate avanzato dall’ultimo rifornimento dalla signora Lotte e poi guardiamo un po’ di tv fino a che non ci viene sonno e poi si vede”, ma non posso, cazzo, non posso assolutamente farlo, perciò lo stringo ancora per le spalle e cerco di sorridere un po’.
- Chakuza, io glielo devo, al ragazzino. Ho bisogno di dirglielo. Non lo metterà in pericolo, questa cosa la risolviamo stasera. – mi fermo ed esito un po’, - …o la risolvo. Se preferisci… restare con lui, dico.
- Fler… - si passa una mano sulla fronte come stesse realizzando solo adesso tutta l’intera situazione per com’è. Sembra che voglia dire qualcosa, si ferma e poi riprende lo stesso. - …non lo vedo né sento da settimane. – dice a bassa voce. Il suo tono è talmente cupo e profondo che mi dà i brividi. Mi viene voglia di dargli un cazzotto e non capisco neanche bene perché.
- Sì, lo so. – cerco di fermarlo, ma lui scuote il capo e si ostina.
- No, non lo sai, Fler, la situazione fra me e Bill è… complicata.
Mi manca il fiato. Vorrei che questa serata fosse già finita. Non avrei mai voluto parlare di questa cosa, non con Chakuza, almeno. Con Bill è diverso, con Bill è tutto sempre molto più etereo e meno realistico. Cristo, se anche Bill mi dicesse in faccia e a chiare lettere che è innamorato di lui, non farebbe male nemmeno un quarto di quanto potrebbe fare male se invece…
- Lo so. – deglutisco a fatica. E quando lui prova a riprendere a parlare gli poso una mano sulle labbra e lo zittisco definitivamente. – Ti dico che lo so. Okay? Lo so. Ma, Chakuza, forse è vero che io ho la responsabilità della tua vita, d’accordo, però è molto più vero che invece tu hai la responsabilità della sua. Quindi ora basta con le cazzate, d’accordo? – sospiro e scuoto il capo. – Andrà tutto… esattamente per il verso migliore. Chiaro? Perciò ora piantala e torna in te. Non esiste farti vedere dal ragazzino in queste condizioni. Okay?
Quando lo lascio libero di parlare, Chakuza mi manda a fanculo. Proprio così, senza pensarci nemmeno un secondo, mi dice “vaffanculo, Fler”, e non aggiunge altro. Rimane lì con una mano sugli occhi a massaggiarsi le tempie col pollice e l’indice ed io continuo a tenergli le mani sulle spalle e stringere un po’ per fargli coraggio, e lui resta zitto per un sacco di tempo, mentre io non faccio altro che guardarlo. Quel vaffanculo era pieno di roba, Chakuza ce l’ha con me per un sacco di motivi, adesso, ma non si scosta, quindi va bene. Cioè, è incazzato ma non vuole davvero mandarmi a fanculo, e questa è una cosa buona, almeno per il momento.
Solleva lo sguardo solo qualche secondo dopo.
- D’accordo. – annuisce, - Andiamo.
Il tragitto in macchina non è silenzioso come mi aspettavo. Non so, credevo che avrebbe guidato in silenzio assoluto fino a casa di Bill e che avrebbe sclerato solo una volta lì, magari prima di entrare. E che poi si sarebbe calmato automaticamente, giocoforza, quando avremmo detto tutto a Bill e sarebbe stato il turno suo, del ragazzino, dico, di sclerare come si deve.
E invece no, sclera da subito, già in macchina, e per nascondere il fatto che sta sclerando si mette lì a farmi domande assurde delle quali non capisco il senso, perché se si aspetta da me che abbia una risposta a cose tipo “e quando lo prendiamo, che facciamo?” è veramente fuori strada. Come cazzo fa uno ad avere risposte simili?
- Cristo, Fler, ma non hai pensato a niente, prima di venire fino a qui?! – ringhia, costeggiando il canale per uscire da Tempelhof.
- Non contavo di dover fare niente di simile, stasera. – cerco di farlo ragionare, - E comunque calmati, Chaku.
- Non dirmi di stare calmo! Cosa facciamo? Lo portiamo alla polizia? Ma non ci crederà nessuno, Cristo, non possiamo portare uno spacciatore zoppo come testimone di un omicidio che non ha visto e per il quale non ha prove, cazzo!
- Ci inventeremo qualcosa, dai. Calmati.
- Non dirmi di stare calmo, Cristo santo, Fler! Non senti come suona male la frase? Stai calmo non puoi dirmelo mentre andiamo a casa di Bill per parlargli dell’assassino di Bushido!
Batto un pugno contro lo sportello.
- E allora vaffanculo, diventa isterico! – concedo urlando, - Cristo, sei una piaga!
Lui non risponde, si lascia andare ad un grugnito frustrato e stringe le dita attorno al volante. Riprende a parlare solo dopo molti minuti, quando siamo già nei paraggi di casa di Tom. Gli ho detto io di venire qui. Chakuza non sapeva che Bill si fosse trasferito da suo fratello, nell’ultimo periodo.
- Fler. – mi chiama, nella voce una strana tranquillità rassegnata che mi preoccupa un po’. – Voglio che, quando questa faccenda si sarà risolta, torni tutto come prima.
Esito per qualche secondo, mordendomi l’interno di una guancia.
- Prima quando? Quando non ci conoscevamo e Bushido era vivo?
Chakuza scuote il capo.
- Prima di venire a Tempelhof. – risponde senza guardarmi, – Quel prima lì.
Abbasso lo sguardo.
Non ce la farò mai a dirgli che voglio andare via.
- D’accordo. – annuisco, – Ora però sta’ tranquillo.
Ed annuisce anche lui.
Arriviamo a casa di Tom e per un po’ ci guardiamo intorno spaesati come non riconoscessimo l’ambiente. Chakuza ride nervosamente e rido anche io. È incredibile, sono questi i paesaggi urbani cui siamo abituati, ma per qualche ragione questo condominio che non c’entra niente con Tempelhof in questo momento ci disorienta.
Suoniamo educatamente al citofono e per un attimo dimentichiamo pure che abbiamo fretta e un assassino da recuperare: come fai ad attaccarti al campanello e suonare come ne andasse della tua vita, in un posto simile? Svegli i condomini. Ti insegue il custode coi dobermann, tipo, soprattutto a quest’orario indecente della notte. Mentre suono, guardo Chakuza e lui guarda me e ci passano per la mente gli stessi pensieri idioti: magari dormono, per dire. Non dovrebbe interessarci che i gemelli dormano o no, questa cosa è decisamente più importante, ma ci pensiamo lo stesso. È assurdo e mi viene di nuovo da ridere. Chakuza in effetti una mezza risata la sbuffa, ma poi scuote il capo e si ferma, così evito anche io.
- Sì? – la voce che mi risponde dall’altro lato è impastata e profonda, sa di sonno nonostante il citofono ne deformi i toni verso una nota fastidiosamente metallica. È una cosa tipica dei citofoni moderni iperfunzionali, ti scombussolano la voce. Quando parlo con Chaku al suo citofono scassato mi sembra quasi di avercelo davanti ed invece qui mi pare che la voce di Tom provenga da un altro pianeta.
- Tom? – chiedo un po’ incerto. Guardo Chakuza e, mentre realizzo che questo ragazzo fino a un anno fa andava in giro dicendo che adorava l’Aggro Berlin, lui mi fa cenno di spostarmi e prende la parola.
- Sono Chakuza. – dice con sicurezza, - Mi apri?
Lui resta un attimo in silenzio.
- Ma quello era Fler? – chiede, senza rispondere alla domanda.
Io inarco le sopracciglia e guardo Chakuza. Lui solleva gli occhi al cielo e sospira.
- Sì, Tom. Mi apri?
- Ma che ci fa qui Fler? – continua a chiedere Tom, come neanche lo sentisse, - Ma sono le tre del mattino! Cosa ci fa qui Fler? – un secondo di pausa, - E cosa ci fai qui tu?
- Grazie per aver ricordato la mia esistenza. – grugnisce Chakuza, appoggiandosi al muro, - Mi apri o no?
- Ma cosa vuoi?! – chiede ancora lui, ed io sospiro pesantemente. Un attimo prima che Chakuza si metta a lanciargli improperi di ogni tipo, gli tappo la bocca e lo scanso dall’altoparlante del citofono, schiarendomi la voce.
- Tom? – lo chiamo senza presentarmi, visto che ormai sono ragionevolmente sicuro che, nonostante le distorsioni del citofono, mi riconoscerà comunque, - Abbiamo bisogno di parlare con tuo fratello.
- Bill sta- - fa per lamentarsi lui, ma lo fermo.
- Lo so che è molto tardi e probabilmente Bill starà dormendo, ma abbiamo davvero bisogno di parlargli. – chiarisco calmo. – Ci fai salire, per favore?
Tom esita solo un attimo.
- Okay. – dice infine, facendo scattare la serratura del portone.
- Potevi aprire anche a me, Tom! – sbraita al citofono Chakuza, alle mie spalle.
- Lui ha chiesto per favore! – risponde piccato Tom, spaccando per l’ultima volta il silenzio della notte, prima di riagganciare.
Quando le porte scorrevoli dell’ascensore gigantesco con cui saliamo al settimo piano si spalancano, annunciando il nostro arrivo con un avviso sonoro da chiamata aeroportuale, mi ritrovo di fronte Bill che mi fissa con gli occhi spalancati dalla soglia di casa. Indossa una vecchia tuta azzurra ed una felpa nera con un logo talmente sbiadito da essere ormai irriconoscibile, ha i capelli tirati in una coda bassa dietro la nuca e, nel complesso, non sembra avere molto più di quindici anni. Sospiro pesantemente e mi faccio avanti.
Il guaio è che, appresso a me, viene pure Chaku. L’aria cambia consistenza appena mette piede sul pianerottolo, la sento tendersi tutta. Bill stringe le mani attorno agli stipiti della porta affondando quasi le unghie nel legno. Mi viene paura per la forza che ci mette, potrebbe farsi male. Le nocche sono diventate bianchissime per lo sforzo.
Chakuza rimane immobile e lo guarda, non s’è mosso molto dall’ascensore, è rimasto lì a due passi. La porta non si richiude perché lui continua a stare nel raggio d’azione della cellula fotoelettrica, e questo particolare insignificante mi irrita così tanto che mi viene voglia alternativamente sia di spingerlo di nuovo in cabina che di tirarlo via di lì per un orecchio.
Il primo a parlare è Bill. Deglutisce di prepotenza – sul suo collo magro il pomo d’adamo fa un viaggio difficilissimo, prima di tornare al proprio posto – e poi forza un mezzo sorriso.
- Ciao… - dice a bassa voce. E sta parlando solo con lui. Aggrotto le sopracciglia e tossicchio, e lui si volta a guardarmi, - Ciao, Fler. – aggiunge con calore, dimostrando ampiamente, neanche a farlo apposta, che in effetti fino ad un secondo fa non aveva nemmeno registrato la mia presenza in questo dannato corridoio.
Rispondo con un cenno del capo mentre Chakuza finalmente mi si affianca e solleva una mano per salutarlo. Il momento d’imbarazzo che segue il suo avvicinarsi a Bill è talmente deprimente che mi ritrovo ad incrociare le braccia e sospirare come una vecchia madre esasperata, e batto nervosamente un piede per terra. La moquette che ricopre tutto il corridoio impedisce alle mie scarpe di fare rumore, perciò fortunatamente non se ne accorge nessuno.
- Io direi – sbotto irritato, - che la questione fra voi due potete tranquillamente risolverla dopo. – e fatto entrambi una specie di mezzo salto, sollevano gli sguardi su di me e mi fissano allarmati come avessi appena pronunciato una qualche parola proibita. Me ne frego altamente e continuo, - Bill, io e Chakuza siamo stati un po’ in giro, ultimamente.
Lui annuisce senza capire. Non mi stupisce, è che mi blocco un po’ perché avrei preferito fosse più ricettivo. Sì, ok, sono le tre del mattino. Ma non è per niente facile quello che sto per dirgli e vorrei un po’ d’aiuto, solo che naturalmente non posso aspettarmelo da Chakuza, che ha palesemente smesso di pensare quando siamo entrati in ascensore, e non posso aspettarmelo neanche da Bill, che non è messo tanto meglio di lui e continua a fissarmi con questi occhi da cerbiatto sperduto.
Sospiro e gliela butto lì tutta. Nella maniera più semplice che posso. Gli parlo delle nottate a Tempelhof, dei tunisini, del ragazzino, di Samir e quando arrivo a Saad cerco di non esitare perché so che se esito è la fine, perciò mi faccio forza e lo dico. Avevi il nemico nascosto fra gli alleati, ragazzino, e non sei riuscito ad accorgertene. Non è posto per te, questo. Ma, chissà perché, piuttosto che allontanartene preferisco proteggerti e tenertici.
Bill non dice niente per un sacco di tempo, quando finisco di parlare. Continua a guardarmi in maniera quasi fastidiosa, come se si aspettasse altro. Ma non ho altro da dargli. Posso offrirgli la testa dello stronzo su un piatto d’argento, se vuole, ma dovrà concedermi un po’ di tempo in più se è questo il suo desiderio.
Deglutisce ed allenta un po’ la presa sugli stipiti prima di tornare a stringerli.
- Cosa avete intenzione di fare, adesso? – chiede pacatamente, e per qualche strana ragione a lui riesco a rispondere. Quando me l’ha chiesto Chakuza non ho avuto idea di cosa dirgli, ma di fronte agli occhi di Bill – che adesso brillano di rabbia in un modo del tutto nuovo rispetto alle altre volte in cui li ho visti brillare – so esattamente qual è il mio dovere.
- Gli andiamo dietro. Cerchiamo di beccarlo prima che lo avvertano ed abbia il tempo di scappare. – rispondo deciso.
Chakuza mi solleva addosso uno sguardo allucinato, ma io lo ignoro. Tutto ciò che mi importa è che invece Bill annuisce con approvazione.
E poi dice una cosa assurda.
- Vengo con voi.
- No! – sbottiamo contemporaneamente io, Chakuza e Tom. Allungo il collo per osservare dietro le spalle di Bill, ed in effetti suo fratello sta lì e lo guarda con aria inorridita, le mani piantate sui fianchi e una cascata di dread sciolti sulle spalle.
- Bill, sarà molto pericoloso. – gli fa presente Chakuza.
- E faticoso. – aggiungo io, inarcando le sopracciglia.
- E sono le tre del mattino! – conclude Tom, cercando di staccare il fratello dalla porta, senza peraltro riuscirci.
Bill ci guarda tutti e tre con tanta di quella supponenza da mettermi addosso i brividi, e per un attimo mi chiedo da dove venga quello sguardo. È solo un attimo, comunque, perché poi lo ricordo subito e sospiro: so già cosa dirà.
- Non sono affari vostri. – ci ricorda freddo, - E non mi sembra di aver chiesto nessun permesso. – si volta e guarda suo fratello. – Tomi? Fammi passare. – lui deglutisce e si fa da parte. Bill fa un passo e poi torna a guardarci, - Aspettatemi qui. – dice annuendo, - Metto le scarpe da tennis e torno. Faccio in un attimo. – ed è l’ultima cosa che sentiamo prima di vederlo scomparire in corridoio.
Io e Tom restiamo a guardarci per un po’ e non è affatto piacevole. Non lo so, mi fissa come se nemmeno mi vedesse, eppure per certi versi mi pare anche che mi guardi come se in tutto il resto del mondo non riuscisse a vedere altro. Dio quant’è fastidioso. Mi volto verso Chakuza e gli dico di aspettare lui Bill, mentre io comincio a scendere, ma lui mi arpiona per un polso e mi sibila un “non ci provare nemmeno” che mi fa spalancare gli occhi, perciò ammutolisco e resto lì, ma mi appoggio contro il muro, così da interrompere il contatto visivo. Tant’è che la cosa successiva che vedo, a parte l’ascensore che resta immobile in attesa che qualcuno lo chiami, è Bill stesso, che mi si presenta davanti avvolto in un piumino che lo ingloba praticamente tutto ed un cappello a cuffietta sulla testa. E le scarpe da tennis, ovviamente.
Mi guarda e sorride appena. Io mi rimetto dritto e faccio strada verso l’ascensore – quello che mi succede alle spalle, oltre il brusio insoddisfatto di Tom e la voce di Bill che lo rassicura sul fatto che tornerà presto, non più tardi dell’alba, mentendo palesemente, perché io non so nemmeno se torneremo, figurarsi avere un orario preciso, insomma, quello che sta succedendo dietro di me, non voglio saperlo. Vale a dire che se Bill e Chakuza si stanno lanciando occhiate particolari o che so io, se si stanno bisbigliando qualcosa, qualsiasi cosa stiano facendo, io non voglio saperla. Sto bene così.
Quando c’infiliamo in macchina e ci dirigiamo verso casa di Saad – e Chaku si trova finalmente qualcosa da fare, concentrandosi solo sulla guida e sulla strada da percorrere – Bill, che sta seduto dietro, sui sedili posteriori, si mette al centro e si sporge in avanti, incastrandosi fra i nostri sedili e sporgendo la testa a guardarmi. L’immagine in sé è molto tenera, sembra un bambino a spasso coi genitori. Però, appena questo pensiero mi attraversa la mente, mi sale una pelle d’oca assurda ovunque, perciò lo accantono e gli do retta, visto che nel mentre ha anche cominciato a parlare.
- Fler. – mi chiama pacatamente, - Quando lo prenderemo, cosa pensi che succederà?
La sua calma un po’ mi rassicura, perciò scrollo le spalle e sbuffo con naturalezza.
- Non lo so ancora, ragazzino. – ammetto. Poi sorrido, - La principessa ha qualche suggerimento?
Lui non abbassa lo sguardo neanche un secondo, e nei suoi occhi non passa neanche un’ombra d’incertezza.
- Io voglio farlo fuori. – dice, con un candore inquietante. E capisco che forse della sua serenità dovrei preoccuparmi. E un po’ m’incazzo con Anis, perché se Bill oggi è così, se è qui con noi che mette a rischio la propria vita e parla di uccidere Saad, se non è in giro con un gruppo di diciannovenni scemi a sfondarsi di rum e cola e scopare in giro, è colpa sua. Che non è stato capace di tenerlo lontano da questa mentalità del cazzo fino a che non è stato troppo tardi.
Mi lascio andare ad una risatina nervosa, mentre Chakuza stacca gli occhi dalla strada per la prima volta da quando è salito in macchina e lancia un’occhiata allarmata prima a lui e poi a me. Scrollo le spalle e gli indico il semaforo, deve fermarsi. Cerco di ignorare le ultime parole di Bill, perché l’eventualità che Saad possa rimetterci la pelle stasera c’è. E non so se sarebbe un bene o un male, se succedesse.
Quando arriviamo sotto al palazzo, mi guardo istintivamente intorno per cercare la macchina di Saad – e la voce di Anis mi risuona in testa: “quando prepari un agguato, ricordati sempre di controllare che lo stronzo che vuoi fare fuori non possa fuggire” – ma poi ricordo che non ho la minima idea di che macchina sia la macchina di Saad, e quando faccio per chiederlo a Chakuza lo vedo già muoversi tranquillamente verso il citofono, con estrema calma. Quando si accorge che lo sto guardando, si ferma un attimo – Bill è ancora impegnato a non affondare nel proprio giubbotto mentre si tira fuori dal catorcio di Chaku – e mi lancia un’occhiata incerta, come a chiedermi se sta facendo le cose per bene. Annuisco ed indico con un cenno del capo il citofono, per dirgli che va bene, l’intuizione era giusta, può andare.
Quando suona il campanello noi restiamo tutti tesi e in silenzio, e dopo un po’ sentiamo una voce di donna che risponde un po’ incerta. Faccio cenno a Bill di restare in silenzio e guardo fisso Chakuza mentre dice alla donna che si scusa per l’orario, ma ha urgentemente bisogno di parlare con Saad. La donna si lamenta, gli chiede se può passare domattina e lo fa con una certa confidenza, perciò immagino si tratti della moglie. Chakuza insiste, la signora esita e tergiversa, Saad dorme, la bambina pure – c’è una bambina? – insomma, Peter, ti sembra modo di presentarti così a casa dalla gente per bene?, e Chakuza insiste, si scusa e chiede di entrare, per favore Greta, è una cosa urgente, altrimenti non sarei mai venuto, e così alla fine lei cede, “d’accordo,” dice, “ma Saad non ne sarà contento”, ed io e Bill ci scocchiamo un’occhiata supponente inarcando lo stesso sopracciglio ironico. Non ne sarà contento eccome.
Quando scatta l’apertura del portone, Bill fa per passarmi davanti e prendere per primo le scale, ma io e Chakuza scattiamo ad afferrarlo uno per braccio e lui si ritrova tirato indietro in una mossa un po’ comica. Chaku lo lascia andare subito, come scottasse, io invece lo tengo ben stretto.
- Dietro, ragazzino. – borbotto contrariato, - Niente colpi di testa.
- Non volevo fare niente di male. – dice lui con un mezzo broncio. Non ci credo nemmeno se lo giura.
- Dietro. – ripeto, e faccio cenno a Chaku di darsi una mossa ad entrare.
Lui obbedisce e ci ritroviamo a salire le scale in fila indiana, lui davanti, io nel mezzo e Bill dietro che saltella e si sporge oltre le mie spalle per cercare, non lo so, di essere il primo a vedere Saad quando saremo di fronte alla porta. Lo fa con un’ansia tutta particolare, neanche fosse possibile uccidere con gli occhi e lui volesse assicurarsi di essere proprio il primo a farlo. Penso che no, non è possibile uccidere con gli occhi. Penso che però un po’ Bushido ci riusciva a farti male in quel modo. E Bill ha imparato tanto da lui.
Capisco che c’è qualcosa che non va nel momento in cui arriviamo sulla porta e ad attenderci troviamo la signora. Le abbiamo detto che volevamo parlare con Saad. Ma non c’è Saad assieme a lei. È sola. E non capisco perché.
Lancio un’occhiata allarmata a Chakuza, che però mi dà le spalle e quindi non mi vede, e fa un gran sorriso alla tipa, chiamandola pure per nome e sporgendosi a salutarla – lei risponde quasi senza toccarlo, tesa come una corda di violino.
- Allora, dov’è Saad? – chiede Chakuza, e lo sguardo di lei vaga un po’ oltre le sue spalle ed incontra noi, me e Bill, dico, che non facciamo una piega.
- Loro che ci fanno qui? – domanda con un filo di voce. Chakuza fa fatica a non balbettare una scusa a caso.
- Mi hanno accompagnato. Ma non entrano, tranquilla. – cerca di rassicurarla, continuando a sorridere, - Non entra nessuno, non vogliamo disturbare la bambina. Fai solo uscire Saad, per favore?
Lei esita ancora, e mentre io sono lì che sbuffo contro queste madri iperprotettive moderne – mia madre volendo mi lasciava fuori casa anche fino all’una del mattino, non che fosse una cattiva donna, solo che aveva capito di che pasta ero fatto, ecco tutto – vedo un’ombra che si muove alle sue spalle e capisco che no, non sta iperproteggendo nessuno, la bambina non c’entra, questa qui non ha intenzione né di farci entrare né di fare uscire nessuno.
- Chaku, togliti di mezzo. – sibilo burbero, e quando arrivo di fronte alla donna la guardo e dico “mi scusi” prima di prenderla di peso e spostarla letteralmente dall’altro lato della stanza, così improvvisamente che lei perde l’equilibrio e si accascia sulla moquette, e la prima cosa che fa è puntellarsi al pavimento e strillare “scappa!”, ed è lì che solleviamo tutti e tre gli occhi e quella che era solo un’ombra scura diventa Saad che afferra un paio di chiavi e prende un corridoio del quale da qui non riusciamo a vedere la direzione. – Cristo! – impreco furioso, ignoro la donna che cerca di fermarmi e mi lancio al suo inseguimento. Mi guardo indietro solo una volta, giusto per vedere se Bill e Chaku mi stanno seguendo, e quando mi accerto che lo stiano facendo e che Chaku stia dietro a Bill – che va un po’ troppo lento, per i miei gusti – mi concentro solamente sulla corsa.
La voce di Anis si fa sentire ancora. Me che continuo a girarmi indietro mentre scappiamo da non mi ricordo chi e lui che ride e dice “Guarda che devi scappare guardando in avanti, Frank. È la fine della strada, quella che ti interessa, non l’inizio”. Ed io che comincio a correre guardando solo lui. Perché tanto sta davanti a me. Lui e la fine della strada sono la stessa cosa.
Mentre imbocco il corridoio passo davanti ad una camera con la porta aperta e c’è una ragazzina seduta sul letto. Avrà dodici anni, tipo, è bionda e sottilissima, non riesco a vedere molto, un po’ perché la stanza è buia ed un po’ perché vado di fretta. È bionda e sottilissima, però, e indossa un pigiama bianco. Il padre di questa bambina è un assassino e probabilmente morirà prima di stasera.
Mi ripeto che è la vita che mi sono scelto e tiro dritto.
Saad è un corpo che si allontana. Imbocca una porticina laterale alla fine del corridoio e quando lo raggiungo lo trovo che cerca di mettere in moto la macchina. I passi di Chakuza e Bill mi inseguono, sono lenti, cazzo, così non va, se poi quello prende la macchina siamo fottuti, ma la macchina non parte ed io lo vedo attraversarla tutta fino ad uscire dallo sportello del passeggero e lanciarsi in una corsa furiosa oltre la saracinesca del garage, che si apre così lentamente che lui è costretto a piegarsi in due per uscirne.
Quando riesco ad uscire anche io, lo vedo arrampicarsi sulla scala antincendio che risale esternamente tutto il palazzo fino alla terrazza e, dopo essermi chiesto cosa cazzo voglia fare, mi metto a sperare che non chiuda la questione in qualche modo da bastardo tipo gettandosi di sotto.
- Stronzo! – gli urlo dietro, faccio per salire a mia volta ma mi guardo alle spalle e Chakuza e Bill non ci sono, perciò mi fermo e continuo a urlare, - Stronzo! Non ci pensare neanche! – e vorrei aggiungere che non ce l’ha il diritto di togliersi di mezzo, e poi penso per un attimo che quel diritto è di Bill, ma è un pensiero fugace: in realtà c’è qualcosa dentro di me che sta urlando di rabbia perché io a quest’uomo voglio strappare il cuore, cazzo. Ha ammazzato Bushido. Ha fatto passare me per un assassino. Cristo… ha ammazzato Anis.
Scalpito per cominciare la scalata e quando Chakuza e Bill escono finalmente dal garage mi metto a urlare anche contro di loro.
- Chakuza, Cristo santo, muovetevi!
Lui ringhia e posa una mano sulla schiena di Bill, spingendolo in avanti. Il ragazzino ansima neanche avesse corso in tondo per tutta la città.
- Te l’avevo detto. – grugnisco impaziente, - È salito di sopra. Dobbiamo andargli dietro. – e cerco di spiegare in fretta, perché lo vedo allontanarsi verso l’alto e non ho la minima idea di dove potrebbe andare una volta in terrazza.
Bill lancia una lunga occhiata terrorizzata alla scala antincendio e poi guarda me.
- Sì, fin lassù, Bill. – confermo senza attendere la sua domanda. Dopodiché, ho appena il tempo di scorgere con la coda dell’occhio Chakuza che gli posa una mano sulla spalla e gli chiede se ce la fa, che comincio a salire sbraitando che se non vogliono essere lasciati indietro faranno meglio a darsi una fottuta mossa.
La situazione è incasinata perché, se da un lato vorrei concentrarmi solo su Saad – che nel mentre sarà circa tre piani sopra di noi, il che vuol dire che fra meno di due minuti raggiungerà la terrazza, lo stronzo – dall’altro non riesco proprio a disinteressarmi di quello che mi succede alle spalle, ed il respiro forte di Chakuza si mischia a quello stremato di Bill, così ogni tanto mi volto e mi fermo. Un po’ li aspetto, un po’ li aiuto – al quinto piano Bill è talmente stanco che continua a incespicare negli scalini, perciò mentre Chakuza lo regge per la vita io lo tiro per le braccia e stiamo lì in due a sussurrare “coraggio Bill, ci siamo quasi”, e lui lì a fare l’ometto, “sto bene, tranquilli”, ma è stravolto al punto che mi viene un po’ voglia di tirarlo su di peso e trascinarmelo in braccio fino al tetto. Chakuza, d’altronde, non è che stia poi tanto meglio. Ed anche io, cazzo, non corro con ritmi simili da quando avevo sedici anni. La situazione è davvero incasinata.
E noi siamo davvero troppo lenti, me ne accorgo quando riusciamo ad arrivare in terrazza e, mentre lascio qualche secondo a Bill per riprendersi – e commentare che i tetti almeno sono tutti pianeggianti, perciò può risparmiarsi l’arrampicata – vedo Saad che è già passato sul tetto del palazzo accanto e sta correndo spedito verso il successivo.
Mi passo una mano sulla fronte, si gela e sono sudatissimo. Bill, imbacuccato nel giubbotto, s’è rimesso dritto.
- Stai bene? – gli chiedo, - Sei un danno. – aggiungo mentre lui annuisce e sorride un po’, intimidito. – Lo capisci che dobbiamo inseguirlo ancora, vero?
- Fler, lo sa. – mi interrompe Chakuza, aggrottando un po’ le sopracciglia. Io gli lancio un’occhiataccia inviperita.
- Tu bada a stargli dietro. – lo rimprovero, ed il fatto che lui si rifiuti di abbassare lo sguardo e continui a fissarmi con rabbia mi dà un po’ la misura di quanto io stia passando il segno, stasera. – Scusa. – mi correggo sospirando, - Non volevo essere-
- D’accordo. – mi dà una pacca sulla spalla ed indica Saad che si allontana. – Fai strada.
Io annuisco, guardo Bill e vedo che annuisce anche lui, perciò mi volto e riprendo a correre. Passare da un tetto all’altro è perfino facile, in questo condominio di blocchi di cemento tutti uguali, alti e monotoni. C’è solo da seguire la traccia, quell’ombra che si allontana senza variare di un millimetro il proprio percorso in linea retta.
Dobbiamo solo essere un po’ più veloci.
In effetti, l’assenza di scale aiuta: sul terreno pianeggiante Bill se la cava decisamente meglio e, dovendo badare meno a lui, anche Chakuza è molto più svelto. Saad è agitato e corre come una dannata antilope, fanculo a lui, mentre al quarto tetto io comincio a sentirmi un po’ appesantito. Prego non mi prenda un crampo. Non manderei Bill e Chakuza avanti neanche se ne andasse della mia vita. I motivi sono troppi per realizzarli tutti, adesso.
Ho un po’ perso il conto delle terrazze, quando Saad si decide ad imboccare una scala antincendio che lo riporterà in strada. Non so quante terrazze abbiamo passato, ma so che adesso siamo abbastanza vicini. Lo so perché assieme agli ansiti sconnessi e affaticati di Bill e Chakuza – ho un attimo di panico nel pensare che dovrò far scendere le scale a Bill, ho paura che ceda e cada, Cristo – riesco a sentire anche gli ansiti del bastardo. È talmente vicino che sento quasi l’odore del suo sudore. E sento che è terrorizzato.
- Ci siamo. – ansimo appoggiandomi al corrimano ghiacciato della scala che ha imboccato Saad, - Dobbiamo riprenderlo adesso. Per forza. – guardo in basso, non è tanti piani sotto di noi. Dobbiamo darci una mossa. – Bill. – lui solleva lo sguardo ed è talmente stanco che ha gli occhi annebbiati. Non sono neanche sicuro che mi veda bene. – Bill, ascoltami. Ci siamo quasi. Ci sei?
Lui annuisce debolmente.
- Sto bene… - esala in un fiato.
- No che non stai bene. – lo correggo io, mentre Chakuza lo sostiene tenendolo per un braccio, - Ma pensa che dopo potrai farti una bella vacanza. A costo di portarti io personalmente da qualche parte. D’accordo? Solo stanotte. Poi basta correre. Okay?
Bill annuisce ancora e raddrizza la schiena.
- Ce la faccio. – dice con più sicurezza, - Davvero.
Lancio un’occhiata a Chakuza, lui annuisce ed è tutto quello che mi serve sapere. Non lo lascerebbe mai cadere di sotto, questo lo so. E tanto mi basta. Mi lancio giù per la rampa senza assicurarmi che Bill e Chakuza mi seguano: devo riacciuffare Saad. Devo farlo e devo farlo per primo. Ci sono momenti in cui lo vedo così vicino che penso che se allungassi una mano lo toccherei, ma quando faccio per stendere il braccio ed afferrarlo davvero non ci riesco mai. Continuo a corrergli dietro per tutti i fottuti piani di questo fottuto palazzo che mi sembra alto quanto un grattacielo.
Quando riesco a prenderlo, succede all’improvviso. Come succede sempre tutto nella vita. Quello che ti aspetti non succede mai. Quello che non pensi si verifica sempre. Perdi di vista l’amico di una vita. Quell’amico muore. Finisci a letto con la persona sbagliata.
Io allungo il braccio e prendo Saad. Mi butto addosso a lui con violenza, col preciso intento di gettarlo a terra, e così perdiamo l’equilibrio e rotoliamo lungo tutta l’ultima rampa di scale, al punto che la prima cosa ferma che sento sotto la schiena è la consistenza granulosa e umida dell’asfalto bagnato. La neve sciolta impregna il giubbotto e i vestiti di sotto. C’è un freddo fottuto. Stringo Saad fra le braccia e non so com’è che non l’ho ancora fatto fuori personalmente.
Lui si dibatte, prova a tirarmi un calcio, io sento dolore a una tempia e non capisco se le gocce che mi bagnano lo zigomo al momento sono di sudore o di sangue. Sulla scia bagnata soffia un vento gelido che mi fa rabbrividire, ma non mollo la presa e lo tengo immobilizzato a terra.
- Cristo santo, stai fermo o giuro su Dio che ti ammazzo a sangue freddo e poi torno indietro ed ammazzo anche tua moglie e tua figlia, stronzo! Dico sul serio, cazzo! – gli urlo nell’orecchio, e per fargli capire che faccio sul serio lo stringo alla gola con un braccio. Stringo tanto e stringo forte, al punto che lo sento tossire affaticato ed il suo fiato si disperde in un incerto sbuffo di condensa tutto intorno a lui.
- Fler! – urla Chakuza, esausto, quando lui e Bill riescono a completare la discesa delle scale.
- Alla buon’ora, cazzo! – urlo io. Ed urlo come un pazzo. Non ho il minimo controllo sulla mia voce e neanche su quello che sto dicendo, - Toglietemelo dalle mani, toglietemelo dalle mani perché altrimenti gli spezzo il collo! Toglietemelo dalle mani! – e continuo a stringerlo. Ed ho anche un po’ l’impressione che se solo Bill o Chakuza si avvicinassero per cercare di liberarlo, mangerei loro il cuore.
E invece non mangio il cuore di nessuno, quando Chakuza mi si avvicina e si china su di me nemmeno mi muovo. Lo vedo che tiene Saad fermo per le braccia e poi annuisce, come a dirmi “ok, ora puoi lasciarlo”. Ed io lo lascio. Lo lascio, Cristo. Potrei ammazzarlo e lo lascio, invece. E rimango lì accovacciato in terra come un coglione, fissando in cagnesco lo stronzo che ha ammazzato Bushido mentre Chakuza lo tira lontano – e non fa neanche molta fatica, visto che la caduta dalle scale ha rincoglionito molto più lui che me.
Bill mi è accanto in un attimo.
- Fler! – mi chiama, inginocchiandosi al mio fianco, - Sei ferito! – mi passa una mano sulla tempia ed è gelida, nonostante abbia corso fino ad adesso. Quando mi volto a guardarlo vedo che ha le dita ricoperte di sangue.
- Non è nulla di grave. – borbotto, rimettendomi in piedi. Passo il dorso della mano sulla ferita per ripulirmi, ma quando lo faccio brucia da morire e sento la pelle tirare. Dev’essere un brutto taglio, ma ci penserò dopo.
Nel mentre Saad si riscuote, si rende conto di non riuscire a muoversi e comincia ad agitarsi, tant’è che Chakuza mi grida di avvicinarmi e cerca di tenerlo stretto come può. Saad scoppia a ridere ed è una risata che ho sentito qualche volta, quand’ero ragazzino. Bushido, quand’era ancora Sonny Black, le riduceva così le persone. Lui ghignava e quelli davano di matto e ridevano. Ridevano e ridevano, eccome. E lui continuava a ghignare e in genere quello che seguiva non era mai una bella cosa. Quando lo seguivo, di notte, ogni tanto mi chiedevo come fosse possibile che uno che faceva ciò che faceva lui fosse ancora a piede libero. Questo mi ha insegnato che la libertà non te la guadagni, te la prendi e basta, che tu la meriti o meno. È una lezione importante, perché è molto più realistica di qualsiasi cazzata sulla giustizia possano infilarti in testa mentre cercano di farti crescere come un essere umano normale.
Mi avvicino per dare una mano al Chaku e Saad mi guarda dritto in faccia con quegli occhi verdi e scuri che brillano di rabbia nella notte, e parla.
- Alla fine sei venuto allo scoperto. – mi dice, sorridendo strafottente, - Lo sapevo che quello veramente pericoloso saresti stato tu. Bushido è per sempre, eh? Una volta che ti mette le mani addosso…
- Sta’ zitto, stronzo! – urlo, restando a qualche passo da lui per il semplice fatto che, se dovessi davvero avvicinarmi di più, in questo momento, lui non sopravvivrebbe. Ed invece leggo negli occhi di Chakuza il desiderio chiaro e preciso di evitare altro sangue, per oggi, perciò mi fermo.
Saad ride ancora.
- Non lo sai? – continua a prendermi per il culo, - All’EGJ lo dicevamo sempre, anche quando Bushido era ancora vivo. Che in realtà ti aveva scopato ed era questo, il tuo problema, eri geloso della principessa. Ci ridevamo un casino, diglielo anche tu, Chaku. Ci rideva anche Anis.
Gli salto addosso che, sospetto, Bill e Chakuza non hanno ancora avuto nemmeno il tempo di registrare quello che ha detto. Mi abbatto su di lui con la furia di un animale, Chakuza insieme non ci regge e ci lascia andare, col risultato che rotoliamo sull’asfalto ed io ho la prontezza di spirito di mollargli un cazzotto sul naso prima che lui possa reagire in alcun modo. Il sangue comincia a scorrere a fiotti, Saad urla ed io continuo a prenderlo a pugni ovunque, sul viso, sulla testa, perfino sul collo e sul petto, ovunque, pur di fargli sputare sangue.
- Chiudi – cazzotto sui denti, mi faccio male anch’io, - questa fogna – un occhio che diventerà presto nero, sempre che io non l’ammazzi prima, - di merda! – e il respiro che gli manca, perché non gli do tregua neanche il tempo minimo per aprire la bocca ed inspirare da lì, dato che il naso è fuori uso.
Sento appena Chakuza chiamarmi per nome – “Patrick, Cristo santo!” – e Bill esalare un “oddio” sconvolto, ma li ignoro. Non sono io che mi fermo. È Chakuza che mi tira su di peso, ed anche quando lo fa io continuo ad agitarmi e sporgermi in avanti per colpirlo. Anche se so che non serve. Anche se mi accorgo che lo stronzo è praticamente svenuto e non riuscirebbe a muoversi neanche volendo. Lo voglio lasciare morto a terra. Lo voglio lasciare morto nel suo cazzo di sangue come immagino sia morto Bushido su quel fottuto materasso, e voglio esserci, alla morte di Saad, perché quella di Bushido non ho potuto vederla, ma quella di questo stronzo voglio godermela tutta, fino in fondo.
Chakuza mi tiene stretto, mi ha fatto passare le braccia sotto le ascelle e mi ha arpionato per le spalle. Sento la sua voce vicinissima all’orecchio – “Pat, Pat… calmati. Calmati. È tutto ok. Ha detto un mucchio di stronzate, non è vero niente. Ti calmi, sì?” – e sì, Chaku, mi calmo. È solo per questo che mi calmo. E me lo scrollo subito di dosso, il Chaku, non appena mi sono calmato, perché là dietro c’è Bill e non voglio che pensi cose. Non voglio che pensi niente. Non dovrebbe neanche essere qui o aver assistito a questo spettacolo. Ci sto male davvero, per lui. Se sopravvivo a me stesso, se non faccio qualche cazzata stanotte, qualcosa di pericoloso davvero – non so nemmeno se Saad è armato – giuro che me lo porto in vacanza davvero. In qualche bel posto che non ho mai visto, o in qualche posto che non ha visto nemmeno lui, anche se immagino abbia girato più o meno tutto il mondo. Non importa, a costo di dover arrivare fino in Groenlandia.
Mi avvicino al corpo quasi immobile di Saad e lo tiro su per un braccio.
- Una mano, Chaku. – ordino perentorio, e lui annuisce e si avvicina, aiutandomi a rimetterlo in piedi e tenendolo fermo per l’altro braccio. Sembriamo due cazzo di guardie giurate che piantonano un condannato.
Bill si avvicina e guarda Saad come lo stesse vedendo per la prima volta.
E lì ho la netta sensazione che Saad lo sia davvero, un condannato. E decido: non ho intenzione di fermare niente che possa portare alla sua morte, stasera.
- L’hai ucciso davvero tu? – chiede, con una vocina incerta ma molto meno malferma di quanto non mi sarei mai aspettato. Sembra tremi solo per il freddo. Sembra non c’entri niente la paura. I suoi occhi sono puri e cristallini. Mi ricordano Anis. Lui non aveva paura quasi mai.
Saad solleva appena il capo. Sanguina un po’ ovunque, è tutto sporco di fango e bagnato fino alle ossa, ma ghigna ancora. L’espressione di chi non ha niente da perdere ormai ce l’ha attaccata addosso. Se la porterà nella tomba.
- Sì. – annuisce, respirando a fatica.
- Perché? – chiede Bill, senza aspettare un secondo di più.
Saad ride, un suono roco e spaventoso.
- Per colpa tua, ovviamente. Ma questo lo sai già.
Bill annuisce.
Saad sorride più apertamente.
- Te la porterai dietro per sempre, questa colpa, eh, puttana? – gli parla proprio come se si stesse rivolgendo ad una femmina. E Bill non fa una piega. – Io spero di sì. Se non ci fossi stato tu, non ci sarebbe stato nessun motivo di ammazzarlo. Stava svendendo l’immagine dell’Ersguterjunge per il tuo bel culo. Ho sperato lo ammazzasse Fler, quella notte, così avremmo chiuso il conto ed io non mi sarei neanche dovuto sporcare le mani. Ma lui no, non ha avuto le palle nemmeno per fare questo… - sogghigna ed io faccio per ficcare la mano in tasca a recuperare il serramanico, ma Bill mi ferma con un’occhiata di ghiaccio.
- Continua. – dice, perfettamente a proprio agio. E non so proprio da dove gli arrivi, tutto questo autocontrollo.
Saad ghigna ancora.
- Nient’altro, principessa. Soddisfatto?
E Bill annuisce.
- Sì. – dice. Lo dice proprio. Non me lo sogno, lo sente anche Chakuza, tant’è che ci guardiamo negli occhi come due scemi e non capiamo. Non capiamo nemmeno quando lo vediamo pararsi davanti a Saad e mettersi ben dritto, neanche stesse cercando la posizione più adatta per tirargli un calcio nelle palle, per dire, e non capiamo nulla neanche quando abbassa la zip del giubbotto ed infila una mano all’interno.
Capiamo, però, quando tira fuori la pistola. Che è la Heckler.
- La riconosci questa, Saad? – dice freddissimo, avvicinandogliela al viso mentre io e Chakuza scattiamo a stringerlo con più forza attorno alle braccia, perché non possa fare niente di pericoloso.
- Bill… - lo chiama debolmente Chakuza, ma il ragazzino usa con lui lo stesso identico sguardo che ha usato con me poco fa, e Chakuza si congela ubbidiente sul posto.
- La pistola di Bushido… - esala Saad, ridendo appena, - Vorresti farmi paura, maneggiando quell’arma?
E lì Bill sorride. Per la prima volta oggi. Ed è un sorriso che spaventa. Mi dà i brividi per tutta la schiena. È Bushido, in questo momento. No, non è nemmeno Bushido. E non è Anis. È quello che ho conosciuto io. È Sonny, lo spiantato che governava Tempelhof a diciott’anni. Mi chiedo dove l’abbia visto Bill. Mi rendo conto che gliel’ha fatto vedere Anis.
- Dovrei. – risponde tranquillo il ragazzino, ed arretra di un passo. – So usarla.
Saad ride, io fisso attonito Chakuza e lui mi risponde col mio stesso sguardo sconvolto riflesso negli occhi. Al che guardo Bill. E lui invece mi sorride. Ed è un sorriso dolcissimo.
- Mi ha insegnato Anis. – spiega pacato.
Saad ride ancora e scuote il capo in un gesto di rassegnazione. Solleva il viso e lo guarda dritto negli occhi. Bill lo sta fissando e sorride ancora come ha sorriso a me. È tutto tremendamente fuori posto, in questo momento. Non so se Bushido avrebbe apprezzato una cosa simile.
Forse sì. Probabilmente, se esiste un cazzo di paradiso o di inferno e lui c’è finito dentro, e se da lì sta guardando, si sta sentendo perfino orgoglioso del suo ragazzino.
- Non puoi farlo. – ringhia Saad, sollevando supponente il mento.
- È un mio diritto farti fuori, - risponde Bill, - e tu lo sai.
Saad scuote il capo.
- La legge del ghetto non vale con te, principessa. Tu non sei dei nostri. Non te lo puoi permettere.
Bill sorride ancora.
- Io sono dei vostri, Saad. – solleva l’arma. – Sono la donna del capo. – punta l’obiettivo. – Se c’è una cosa che posso permettermi, è proprio questa. – e spara.
E Saad sta qui immobile, il suo corpo è pesante e c’è un buco precisissimo proprio nel mezzo della sua fronte. Dietro non voglio guardarlo perché lo so com’è quando ti sparano in testa.
Per un secondo vorrei fermare il tempo e ritornare indietro. Togliere la pistola dalle dita di Bill e premerlo io, il fottuto grilletto. Per sentire in qualche modo la vita scivolare via dal corpo di questo pezzo di merda con ogni goccia di sangue. Sentirla colorare il marciapiedi di rosso, sentirlo perdere forza e respiro, sentirlo morire e prendermi la mia soddisfazione, riappropriarmi di ciò che è mio – che avrei voluto fosse mio, che avrei voluto prendermi, che non ho mai avuto il coraggio di prendermi – ma poi lascio perdere.
È giusto che a fare questo sia stato Bill.
È giusto.
Non è ancora sorto il sole e tutto intorno c’è solo silenzio, quando io e Chakuza lasciamo cadere il corpo di Saad per terra. Si accascia ai nostri piedi con un tonfo pesantissimo che la neve sciolta ovatta un po’. Lo guardo di sfuggita e mi viene da vomitare, perciò distolgo subito gli occhi. Bill invece lo guarda a lungo, come volesse sincerarsi che sia proprio tutto come doveva essere, e poi annuisce ancora.
- Bill… - Chakuza lo chiama e gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla come a volerlo consolare, ma Bill non sembra aver bisogno di consolazione. I suoi lineamenti sono tesi e rigidi e di sicuro non sembra felice, però tutto sommato sembra stia bene. Lo vedo abbozzare un sorriso.
- È tutto ok. – ci rassicura, e poi si volta a guardarmi. – Perdi ancora sangue.
Io annuisco.
- Sto bene anch’io. – dico comunque, e Bill mi sorride.
- Se vieni da me, ho la cassetta del pronto soccorso e-
- No, credo… - sorrido appena, interrompendolo, - credo che un cerotto non basterà, Bill. Mi serviranno un paio di punti.
Bill lascia andare una risata soffice e cristallina.
- E stai qui a fare il grand’uomo?
Sospiro e guardo ancora il cadavere.
- C’è un mucchio di lavoro da fare. – metto da parte la nausea. Non è il caso di perdersi adesso, devo risolvere il problema. – Chaku, riportalo a casa. – dico, indicando Bill, e quando vedo una luce strana e vagamente terrorizzata farsi strada nei loro occhi, preciso: - Da Tom. Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto.
Chakuza annuisce e Bill abbassa lo sguardo. Li vedo allontanarsi per la strada – Chakuza si guarda intorno cercando di riprendere familiarità con l’ambiente e, quando ci riesce, punta un dito verso il palazzo di Saad che si vede ancora in lontananza, ed è in quella direzione che scompaiono entrambi, proprio mentre io mi chino a recuperare il corpo e cerco di fare il conto per vedere quanti chilometri mi separano da casa mia, dalla mia macchina e, poi, da Tempelhof. Ci tornano tutti, prima o poi. La cosa importante, però, è che in genere nessuno ci vada a cercare niente.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio."
Note: Aaaah. Sì. Insomma. XD. In realtà il titolo di questo spin-off è quello che è solo perché all’inizio era stata strutturata in modo completamente diverso. Ruotava tutta attorno al tappeto, era molto più breve, non comprendeva neanche metà degli sviluppi che alla fine mi sono ritrovata per le mani (guidata da indubbio amore per il pairing, suppongo) ed era stata pensata solo per mostrare al mondo il signor dottore che è evidentemente un’emanazione del bene in EKR. Poi però s’è evoluta, non so esattamente per quale motivo, avevo voglia di scrivere e son venute fuori sedici pagine in tre giorni, tipo. Tant’è che è pronta da due ma non potevo certo pubblicarla immediatamente XD
L’intermezzo Bikuza ci è stato gentilmente offerto da Tab che continuava a chiedersi, in tutto questo, che fine avesse fatto il Bill. Ovviamente io non l’avevo plottato (ehm) perciò ho immaginato un possibile scambio tra i due e poi ho detto a Tab “okay, adesso scrivilo”, e lei l’ha scritto in tipo due ore, confermando l’ipotesi secondo la quale a lei il Bikuza tira tantissimo.
Per quanto mi riguarda e per concludere, spero solo questa shot vi sia piaciuta <3 E che possiate perdonare il Chaku per quel suo madornale errore. Fler ci sta provando *annuisce*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
WEIRD CARPET THOUGHTS ON A WEIRDER NIGHT

Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio. Sono quindici, venti minuti, una cosa del genere. Non è mai facile quantificare il tempo che passa quando è scandito dalle lacrime. Ricordo che quando morì mio nonno fu più o meno la stessa cosa, con mia madre. Non capii che erano passate quattro ore, da quando eravamo entrati nella camera ardente, fino a quando non uscimmo fuori e vidi che era già sera. Avevo dodici anni e la cosa mi turbò parecchio.
Insomma, potrebbero essere passate ore. Tutto ciò che so è che la mano di Fler è congelata anche se la sto stringendo da tutto questo tempo. E che i suoi singhiozzi invece sono caldissimi, anche se non dovrei sentirmeli addosso.
Lo chiamo a bassa voce, non credo neanche che mi senta. Stringo un po’ la presa attorno alle sue dita ed è lì che lui mi risponde.
- Sì. – dice, - Ora provo ad alzarmi. – ci riflette qualche secondo ed io lo guardo per tutto il tempo, ha gli occhi umidissimi, - Me la dai una mano? – chiede dopo un po’, - Non ce la faccio a mettermi seduto. Devo tirarmi subito in piedi.
Le cose che questo discorso implica sono troppe perché io possa pensarci con razionalità, perciò lascio perdere ad annuisco senza esitazione, mettendomi in ginocchio e passandomi un suo braccio sopra le spalle. L’ultima volta che siamo stati in questa posizione, lo stavo trascinando su per le scale ed era ubriaco perso. Lo stavo rimproverando ed avevo un motivo per farlo. Sembrano secoli fa. Ora dovrebbe rimproverarmi lui, ne avrebbe tutti i motivi, ma non mi dice niente.
Ci muoviamo lentamente e lui trattiene un gemito di dolore ad ogni passo. È palese che si lascerebbe volentieri ricadere sul pavimento senza protestare, se lo lasciassi. Non intendo lasciarlo e questo non riesce a lenire nemmeno in parte i miei sensi di colpa.
- Ti senti un po’ meglio? – chiedo titubante mentre raggiungiamo a stento la mia macchina, appena sotto casa.
- No. – sibila lui nel gelo della notte. – Piantala di chiedermelo.
Ed io la pianto.
Il viaggio in macchina verso l’ospedale – luogo ormai più che familiare per entrambi – e silenzioso e teso. Non riesco a fare a meno di sbirciare il suo profilo dritto e serio per tutto il tragitto. So che dovrei stare più attento alla strada che non ai mutamenti della sua espressione, ma non mi riesce. S’è seduto come un bambino capriccioso, una gamba sotto il sedere e l’altra penzolante in avanti. La gamba sotto il sedere lo tiene decisamente sollevato dalla superficie del sedile. Cerco di non pensare al perché abbia scelto proprio questa posizione qui.
Arriviamo in ospedale che è già praticamente notte fonda. Saranno le tre e mezza, probabilmente quasi le quattro del mattino. C’è giusto qualche infermiere scazzato in giro, nessuno che mi sembri di conoscere se non di sfuggita, il che è bene.
Naturalmente, all’accettazione troviamo Katrina.
Lancio un’occhiata allarmata a Fler – che zoppica ancora al mio fianco, anche se ora non sembra più avere bisogno di aiuto per camminare – e lo vedo irrigidirsi come congelato all’istante. Mi viene voglia di stringergli di nuovo la mano. Grazie a Dio mi fermo in tempo.
Katrina si mette letteralmente a saltellare non appena gli posa gli occhi addosso. Sarebbe comico, se la situazione non fosse quella che è. Fler sospira e rotea gli occhi. Ci avviciniamo lentamente al bancone e lei guarda subito me.
- Qualcosa che non va coi punti? – chiede con un sorriso affascinante, tornando subito a guardare Fler.
- No. – risponde lui al mio posto, - Qualcosa che non va col mio culo.
Cala un velo di ghiaccio su tutta la sala d’attesa, lo sento. È una sensazione veramente fisica. Katrina lo fissa, sconvolta.
- Col tuo…?
- Il Chaku, qui, mi ha scopato con un tantino di violenza in più rispetto al necessario. – sibila velenoso, ed io vorrei morire qui ed ora. Qui ed ora, giuro. – Lo dici al medico di turno che mi sa che ho qualcosa da ricucire?
Katrina abbassa lo sguardo, le guance rossissime, e sparisce subito in corsia. Io guardo Fler, allucinato.
- Fler…? – lo chiamo a bassa voce, e lui mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- L’ho detto nel modo migliore possibile, credimi. – sbotta acido. – Senza indugiare sui particolari schifosi.
Non protesto perché so che è vero, c’è un particolare schifoso che avrebbe potuto menzionare. E non l’ha fatto.
Dal modo in cui il dottore ci accoglie in sala visite, capisco che Katrina è stata un’infermiera diligente e gli ha riferito per esteso la versione dei fatti fornita da Fler. Ci guarda bonario e, prima ancora di chiedere a Fler come sta, stringe ad entrambi la mano e ci fa accomodare.
- Non lei. – dice con un mezzo sorriso a Fler, - Lei si distenda pure sul lettino. A pancia sotto.
- …io devo restare? – chiedo indicandomi, e sono convinto di avere sulla faccia un’espressione da perfetto idiota, al momento.
- Oh, sì, tanto non c’è niente che verrà esposto stasera che lei non abbia già visto, a quanto pare, signor Pangerl.
Vorrei rispondere che invece sì, c’è qualcosa che non ho mai visto, e cioè la dignità di Fler che si perde come niente. Mi ricordo poi che ho visto la dignità di Fler perdersi ogni sera in troppe bottiglie di birra, ma non è la stessa cosa. Ora Fler è lucido.
- Oltretutto, se lei sta qui ci sbrigheremo molto più in fretta. Potrò medicarlo e parlarvi contemporaneamente ed avremo risolto molto prima. – il tono è pratico e professionale e mi rendo conto che probabilmente non mi sta obbligando a restare per cattiveria, ma la situazione nel complesso è veramente troppo grave per rassegnarmi al pensiero. Ciononostante, mi seggo su una poltroncina. Abbasso lo sguardo, però, appena gli occhi celesti di Fler me lo chiedono.
- Si spogli. – sento dire al dottore con tono asciutto.
- Tutto? – chiede Fler curiosamente.
- Solo i pantaloni andranno bene. – ride l’altro. È chiaro che il dottore l’abbia presa come una barzelletta. Se io veramente… se io veramente avessi solo esagerato durante una scopata normale, probabilmente la prenderemmo a ridere anche io e Fler. Probabilmente.
I bottoni vengono sganciati uno dopo l’altro ed i jeans di Fler cadono a terra assieme ai boxer. Entrambi gli indumenti sono macchiati di sangue. Mi volto.
- Prego, si distenda. – invita il dottore. Sento il fruscio del lenzuolo di carta sul lettino e non passano nemmeno trenta secondi prima che l’aria della stanza diventi satura dei sospiri e dei lamenti di Fler. Cerca di trattenerli invano. Non ho voglia di guardare cosa il dottore gli stia facendo, per la verità i movimenti del dottore non li sento neanche. Però sento ogni singola sfumatura dei gemiti di Fler e sento il rumore che fa la carta del lenzuolo quando lui la stropiccia sotto il pugno, chiudendolo, e sento anche i sospiri di sollievo che lancia quando il dottore smette per qualche secondo di toccarlo. E poi ricomincia da capo a rantolare.
- Con coppie formate da ragazzi giovani come voi, - comincia il dottore dopo un po’, coprendo la voce di Fler, - è normale ogni tanto fare errori come questo. Scommetto che era la prima volta, vero? – si interrompe appena e poi continua, - La prima volta dopo un bel po’, almeno. – precisa poi, ed io non ho nemmeno il tempo di chiedermi cosa intenda nello specifico, perché devo prima realizzare coscientemente che ci sta facendo una paternale. La cosa è assurda.
- Dottore, senta, - comincio, senza sollevare lo sguardo, ma lui mi ferma con un sospiro.
- Dicevo, - riprende serafico, - siete molto giovani e suppongo sia trascurabile se per una volta vi siete lasciati un po’ prendere la mano. Ma dovete assolutamente capire che il sesso anale presenta dei problemi non indifferenti. La lubrificazione non è automatica ed il preservativo non è solo una protezione contro le malattie veneree, ma soprattutto una protezione contro l’attrito inevitabile che lo sfregamento produce.
Sollevo lo sguardo. La visuale di Fler disteso ed esposto che colgo è abbastanza per costringermi a riabbassarlo.
- Dottore, guardi che-
- Non ho finito. – borbotta lui, - Mi lasci dire. Non la sto rimproverando, solo informando.
Fler ricomincia a gemere ed io mi concentro sul suono della sua voce. Non mi sono mai fermato a riflettere su quanto i gemiti di dolore siano simili ai gemiti di piacere durante il sesso. In effetti la cosa non mi stupisce quanto dovrebbe.
- Dovrò visitare anche lei, signor Pangerl. – dice il dottore subito dopo. Dovrei stupirmi del fatto conosca il mio nome? No, mi rispondo, gliel’avrà detto Katrina.
- Io sto benissimo. – rispondo cupamente, - Si concentri su Patrick.
Fler lancia un grugnito random del quale non capisco il significato. Suppongo sia una protesta ma ne ignoro il destinatario. La tengo per me, comunque: è giusto che sia arrabbiato.
- Ecco fatto! – continua il dottore dopo qualche minuto di silenzio, - Era meno grave del previsto.
- Ha perso molto sangue! – torno a sollevare il capo io. Fler è su un fianco, ha le lacrime agli occhi, è ancora seminudo e sta cercando di ricomporsi. Mi alzo e gli sono vicino in tre passi. Il modo in cui mi chino su di lui è equivoco pure nella mia testa, non oso immaginare quanto possa esserlo in quella del dottore che ci guarda con aria paterna e sorride. – È sicuro che non abbia bisogno di niente?
- Ha bisogno di stare a riposo e di qualche coccola fuori dalle lenzuola. – risponde in tono compiacente. Io e Fler ci guardiamo mentre lui rimette a posto boxer e pantaloni, e ci scorre un brivido identico lungo la schiena. Però non saprei dire cosa significa. – Oh, be’… - riflette poi, - magari anche dentro le lenzuola, se proprio dev’essere, ma starei lontano dal punto critico, se fossi in voi, almeno per i prossimi due, tre giorni.
Fler abbassa gli occhi e lo sento distintamente ridacchiare. Non è come la risata amara di quando piangeva. È un bel suono. Tiro il primo respiro a pieni polmoni della serata.
- Per quanto riguarda le precauzioni… - riprende il dottore poco dopo, mentre noi ci avviamo stancamente verso la porta, - vorrei darvi quest’opuscolo che potrebbe esservi utile. – si china sulla scrivania, apre un cassetto e ne tira fuori un libriccino colorato di una ventina di pagine, che sfoglia vagamente mentre si muove verso di noi.
Adesso ho voglia di tirargli un cazzotto, così, giusto per togliermi lo sfizio, ma Fler ride ancora, un po’ più convinto di prima, e lo ferma con un cenno della mano.
- Staremo più attenti, la prossima volta. – dice ironico, - Lo sappiamo, come si scopa. È che Peter era un po’ arrabbiato, stasera, tutto qua. – spiega. Io deglutisco. Non so. Cosa si fa in queste situazioni? La si abbraccia, una persona così?
Usciamo nel freddo di Berlino che devono essere le cinque passate e già albeggia. La temperatura è così bassa che perfino Fler ha difficoltà a reggerla. Anche se forse la sua difficoltà ha radici molto più profonde dell’inverno teutonico.
Raggiungiamo la macchina e m’infilo all’interno in due secondi netti. Fler perde un po’ più di tempo, resta a fissare il sedile con aria critica, prova quasi a sedersi come una persona normale ma poi ci rinuncia e si rimette nella stessa posizione da bambino scazzato che ha usato all’andata, ed io abbasso subito lo sguardo.
- Dove… - comincio a bassa voce, ma mi sento molto in imbarazzo e non riesco a concludere.
- A casa mia. – risponde lui, indovinando i miei pensieri, - Non è molto distante da qui. Saranno un quattro, cinque chilometri. Vai dritto di là. – ed indica la strada da prendere con la mano tesa, che trema un po’.
Potrebbe essere solo per il freddo. Potrebbe.
Distolgo lo sguardo – di nuovo – e seguo le indicazioni fino al suo appartamento, che è una bettola – il palazzo cade letteralmente a pezzi – e sta in una stradina laterale in cui penso non mi muoverei mai di mia spontanea iniziativa ma solo se costretto… e comunque molto armato.
- …è qui che tengono il cantante di punta dell’Aggro Berlin? – dico, fra lo stupito e l’ironico.
Fler grugnisce qualcosa di decisamente poco carino. Io penso che avrei fatto meglio a stare zitto.
Scivola fuori dalla macchina in un movimento troppo fluido per non sembrare sollevato. Mi fa male che sia così, soprattutto contando che durante il corso dell’ultimo mese era difficilissimo schiodarlo dalla poltrona, figurarsi mandarlo via dal mio appartamento. Non so, me ne rendo conto adesso che si allontana, che potrei non vederlo più e che mi mancherebbe. Cerco di evitare di pensare che queste sensazioni potrebbero essere solo un effetto collaterale dell’assenza di Bill. Facciamo che mi mancherebbe Fler. Facciamo così.
Allungo una mano quasi senza accorgermene, lo tiro per un polso e lui ne è preso così alla sprovvista che cade indietro sul sedile. Lo vedo irrigidirsi e tendersi e rabbrividire e soffocare un lamento, ma gli riesce malissimo.
- Oddio… - mi agito, sporgendomi verso di lui per controllare sia tutto a posto, - Scusami!
- Cristo, Chakuza! – si lamenta lui, spostandosi sul sedile in modo da trovare una posizione meno dolorosa, - ‘Cazzo t’è preso?
Resto in silenzio perché non ho idea di cosa dirgli.
- Mi lasci andare? – chiede Fler dopo qualche secondo, guardandomi con un misto di ansia e curiosità. Noto solo ora che lo sto ancora tenendo stretto per il polso.
- Sì… - annuisco lasciandolo libero, - Solo… buonanotte, okay?
Fler scrolla le spalle, rimettendosi in piedi.
- Quello che ne resta, almeno. – mugugna, indicando il sole ormai quasi alto nel cielo con un cenno del capo. – Fatti una dormita, Chakuza. Ne hai bisogno. – suggerisce poi. Mi muovo solo quando lo vedo sparire su per la tromba delle scale attraverso il vetro spaccato in più punti del suo portone.
*
Me lo vedo apparire di fronte la sera dopo alle nove precise e non ci voglio credere. Lo fisso per un tempo lunghissimo, mesi, anni, intere epoche, eppure la realtà non cambia. È qui davanti a me, mani ficcate a fondo nelle tasche dei jeans ed un sopracciglio inarcato con aria spavalda, come a voler rimarcare il fatto che io non me l’aspettassi ma lui, eh!, lui è proprio qui, altroché.
- Patrick…? – chiamo a bassa voce, del tutto sconvolto, continuando a fissarlo con l’aria, lo so, di un pesce lesso.
Lui fa una smorfia.
- Non devi mica fingere che siamo fidanzati, Chakuza, - sbotta acido, calcando con forza sul mio pseudonimo ed incrociando le braccia sul petto, - siamo soli, il dottore non c’è e non intendo averne bisogno in tempi brevi. Perciò chiamami col mio nome. Fler, dico.
Annuisco lentamente, come un automa.
- Be’? – continua Fler, sbuffando sonoramente, - Non mi fai entrare?
Mi scosto dall’uscio senza dire una parola. Fler mi sta guardando come fossi un cretino epocale e non mi sento di dargli torto. Sposta gli occhi da me – ringrazio parecchi santi, quando accade – soltanto per lanciare occhiate disapprovanti in giro. Stanotte – o meglio: nella fascia oraria fra le cinque e mezza e le sette del mattino – ho devastato un po’ casa. Solo un po’, ero incazzato. Voglio dire, avevo le mie ragioni. Poi ho rimesso tutto a posto, più o meno, però già che c’ero ho tolto il tappeto. Voglio dire, chi terrebbe una cosa simile in casa dopo… insomma, dopo aver combinato ciò che quella cosa testimonia?
Fler la nota subito, quell’assenza. Me la fa notare con un ghigno cattivo.
- Elimini le prove a tuo carico? – chiede furbo, sporgendosi un po’ verso di me. Io indietreggio, terrorizzato.
- Non era… - biascico incerto, - Voglio dire, non l’ho buttato, è ancora di là nello stanzino!
Fler mi spalanca gli occhi addosso e scoppia a ridere il secondo successivo.
- Chaku… calmati. – mi incita poi, muovendo qualche passo verso il divano, - Non intendo denunciarti né niente di simile. È già stato abbastanza faticoso parlarne ieri in ospedale. – rimane un attimo fermo sospeso fra il dire e il non dire, guarda il divano, la poltrona, poi me. – Me la offri una birra?
Io cerco di riacquistare le mie capacità di ragionamento basilari. Non che mi riesca del tutto, ma almeno recupero le funzioni motorie. Voglio dire, mi fa piacere vederlo. Non credevo che sarebbe successo. Non così presto. Non come fosse tutto… normale. Perché mi sembra assurdo pensarla in questi termini? È giusto che io mi senta in colpa dopo quello che ho fatto, ma negli occhi di Fler non vedo una richiesta simile. Non mi sta dicendo “pentiti!”, mi sta dicendo… non lo so. Sinceramente non lo capisco bene, cos’è che sta cercando di dirmi. Sempre che stia cercando di dirmi qualcosa, s’intende.
Annuisco e mi muovo lentamente verso la cucina. Scorgo con la coda dell’occhio Fler accucciarsi sul divano nello stesso modo in cui s’è seduto ieri in macchina. La suola delle scarpe da tennis striscia contro la fodera ma non sarò certo io a chiedergli di tirare giù i piedi.
Quando torno con la birra – una sola bottiglia, solo per lui – mi seggo direttamente al suo fianco e gliela porgo incerto. Lui la prende e la soppesa fra le mani per lunghi istanti. La guarda da ogni lato con falsa indifferenza, in realtà ci si perde un po’, fra le bollicine. Come stesse aspettando di trovare le parole giuste, o il momento più adatto per tirarle fuori.
Alla fine, torna a guardarmi e si china appena a posare la bottiglia sul tavolo.
- Ti stai comportando in maniera condiscendente. – afferma serio e quieto, accomodandosi meglio contro il bracciolo in modo da – me ne accorgo subito – mantenersi un po’ sollevato rispetto al cuscino del divano ed anche alla gamba che lo sostiene.
Chino il capo, torcendomi le mani in grembo. Un po’ vorrei tiragli uno scappellotto e cazziarlo, eh, voglio dire, dirgli qualcosa tipo “guarda che sei tu quello che si comporta in modo strano! Arrabbiati!”, ma mi rendo conto di non essere nella posizione più adatta per fare un discorso simile, perciò cerco delle parole migliori. Qualcosa che possa servire come una scusa. Non mi sembra di essermi scusato abbastanza.
- In realtà… - confesso a mezza voce, gli occhi bassi, - non ho la minima idea di cosa sto facendo, Fler. Non so cosa dirti o cosa fare con te, mi sento… insomma, capisci, è strano. Cosa dovrei fare?
Lui scrolla le spalle e mi guarda dritto negli occhi. È un’occhiata assassina, è troppo sincera. Non… non c’è neanche un cazzo di risentimento, in fondo a tutto quel celeste. Questa cosa è sconvolgente.
- Comportati come sempre. – suggerisce pacato, e sarebbe un suggerimento molto sensato e corretto se non fosse palesemente una cazzata. Non capisco, si aspetta che dica “oh, sì, certo!” e ricominci a… non lo so, gli faccia posto sulla poltrona e gli prenda la coperta e lo metta a nanna per poi rimproverarlo domattina? Per quale motivo dovrei rimproverarlo? Non si ubriaca più da secoli e l’unica cosa che gli si potrebbe additare come colpa è il non aver capito in tempo che cazzone tremendo io sia ed aver continuato a frequentare quest’appartamento.
Ma non è colpa sua, è colpa mia. Ce l’ho tenuto io, qui.
In questa situazione ci sono solo un carnefice ed una vittima. I ruoli non sono confusi. È solo colpa mia.
- Fler… - comincio, sporgendomi verso di lui e massaggiandomi una tempia. Cerco qualcosa da dire, qualcosa che suoni diversamente da “non dire puttanate!”, anche se è quello che penso. Cerco di andarci piano. Forse è un po’ confuso, dev’essere un po’ confuso. - …tu ti rendi conto di quello che ti ho fatto?
È allucinante che a fare questo discorso sia io. Allucinante.
Fler si tira indietro ed aggrotta le sopracciglia, infastidito probabilmente dall’ovvietà indegna delle mie parole.
- Sì, mi sembra di rendermene perfettamente conto, Chakuza. – butta lì freddo e spietato, sistemandosi sul cuscino nell’evidente tentativo di farmi impazzire dal rimorso.
È palese che non usciremo mai da questo discorso. È un labirinto. Lui vuole – se ho capito bene – che io sia lo stesso di sempre. Che lo tratti come se lui fosse lo stesso di sempre. Il problema è che io non sono più quella persona e non lo è nemmeno lui. Non possiamo andare avanti – qualsiasi cosa sia questa che si muove, intendo – senza prenderne atto e… accettarlo, credo. Ma Fler non vede niente, è convinto che si possa risolvere tutto con un cerotto. Con una bottiglia di birra. Tornando a comportarsi come prima.
- Senti… - borbotto, massaggiandomi la radice del naso e sospirando, - mi dispiace davvero, Fler. Non ho la minima idea di cosa mi sia preso ieri, ti giuro che non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello di farti male a quel modo. E se pure avessi pensato che fra noi due potesse esserci qualcosa di simile, - sto palesemente blaterando. Vorrei che Fler mi fermasse ma lui non lo fa. – insomma, non avrei mai voluto che cominciasse in quella maniera. È stato tutto sbagliato e me ne scuso, ma tu non puoi-
Non faccio in tempo a finire la frase perché lui si sporge in avanti e me lo ritrovo pressato contro il secondo successivo. In realtà niente del suo corpo mi tocca, solo le labbra. Ma sono ferme sulle mie. Ferme e calde e sicure sulle mie. È già abbastanza per mandarmi in crisi.
Non mi muovo, comunque, resto con gli occhi aperti come un gufo e fisso il volto teso di Fler che invece gli occhi li tiene chiusi, ma non serrati. Le sopracciglia sono distese, le ciglia tremano appena. Continuo a non muovermi e questo ha un effetto collaterale piuttosto evidente: dopo qualche secondo, Fler si scosta. Si tira indietro con l’incertezza di un bambino che si è reso conto di aver fatto qualcosa di molto stupido, tipo dare fuoco alla coda del gatto coi petardi.
Riapre gli occhi sulla mia faccia basita e sconvolta e mi fissa con imbarazzo palese, stringendo le mani in grembo. La domanda muta nei suoi occhi mi sconvolge, perché non so bene cosa rispondere. “Cosa si fa?”, mi sta chiedendo. Ed io cosa devo dire? Cosa devo fare?
Mi allungo verso di lui. Rimango un po’ fermo, lo guardo. Lui mi guarda e non dice una parola. Nemmeno un fiato. Neanche un lamento, neppure quando lo afferro per le spalle e me lo tiro contro. E giuro che non so perché lo sto facendo. O meglio, lo so, ma non posso pensare a Bill anche in questo momento. Non posso farlo a Fler, non di nuovo. Non posso perché ci pensavo già mentre me lo scopavo, non posso perché ci pensavo mentre lo vedevo andare via, non posso perché è evidente che la sua mancanza mi manda fuori di testa, ma è Fler che tengo fra le braccia adesso, è Fler che sto baciando ed è Fler che ansima fra le mie labbra. Bill è il motivo, cazzo. Ma io non posso pensarci.
Chiudo gli occhi e mi lascio andare e non è per niente difficile. Fler è caldissimo, mi si stringe contro in un modo tremendamente impacciato che è similissimo al mio. Non so dove mettere le mani e non lo sa nemmeno lui, perciò andiamo completamente a casaccio e mi ritrovo una sua mano pressata forte sulla nuca e l’altra a tirarmi per la maglietta, mentre una delle mie cerca un posto sotto il suo braccio per stringerlo alla vita e l’altra si fa strada da qualche parte dietro la schiena alla ricerca di qualcosa di più caldo di un maglioncino di lana da toccare. Dio, la sensazione è quasi identica a quella che ho provato con Bill. La confusione e l’ansia e la smania di arrivare in fondo… è quasi identico. Quasi, cazzo. È il quasi che mi fotte ma è sempre il quasi che mi salva, allo stesso tempo, perciò stringo forte le palpebre ed affondo con la lingua fra le labbra di Fler, che mugola qualcosa che non comprendo e smette immediatamente di tirarmi la maglietta.
Non lo prendo come un segnale di cambiamento. Ho modo di pentirmene subito dopo, quando Fler si scosta imbarazzato e resta lì, ad un centimetro da me, il respiro pesante e gli occhi socchiusi, entrambe le mani pressate forte contro il mio petto per tenermi distante, anche se, cazzo, io continuo ad avvicinarmi neanche fosse una calamita.
- Aspetta… - mormora confusamente, cercando di scostarsi ancora, - Non… - esita appena, poi sospira, - Non voglio.
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa. Non me la sento, non è il momento, stiamo facendo una cazzata. Qualsiasi cosa. Ma “non voglio” è peggio di una coltellata nello stomaco. E so esattamente di cosa sto parlando.
- Patrick…? – chiamo con ansia, cercando di sporgermi ancora nella sua direzione.
- Fler. – mi ricorda lui, allontanandosi ancora, - Non voglio. – ripete poi, scuotendo il capo. – Mi lasci andare? Per favore.
Lo ammetto, esito un po’ prima di lasciarlo. Stringo la presa sui suoi fianchi – quand’è che le mie mani sono finite là sotto? – e lui viene scosso da un tremito appena percettibile di cui riconosco immediatamente le motivazioni. Solo allora lo lascio andare. E lui ha la delicatezza di non alzarsi all’istante come so vorrebbe fare. Si prende il suo tempo, invece, e mi lascia il mio. Quello di percepire il calore del suo corpo che si allontana, quello di sentirmi raffreddare contro la mia volontà, quello di prendere atto di un problema piuttosto fastidioso all’altezza del cavallo dei jeans ed anche quello di chiedermi se non sono davvero del tutto ammattito.
Mi saluta a bassa voce. Io non rispondo. Non sono arrabbiato – Cristo, in realtà sono furioso, ma non con lui – è che non so cosa dirgli. Questa situazione non mi è familiare. In nessuno dei suoi aspetti. Non sono in grado di gestirla.
Non lo guardo, mentre esce dalla porta. E penso per l’ennesima volta che probabilmente stavolta non tornerà davvero.
*
Non so che cosa sia veramente successo con Fler l'altra sera però continuo ad avere il forte sospetto che il problema sia Bill. E anche se le due cose non fossero collegate – io che mi limono Fler e Bill, dico – è comunque vero che Bill mi manca.
È una roba strana da dire, e da qualche parte credo che non dovrei dirla affatto. Non dovrebbe mancarmi Bill. Non dovrei aver limonato Fler. Non dovrei aver fatto niente di quello che ho fatto nelle ultime settimane – questo me lo dico soprattutto ogni volta che apro lo sgabuzzino e ci trovo dentro quel tappeto. Devo levarlo di lì, prima che lo trovi mia madre per sbaglio – e quando mi rendo conto di questo mi rendo anche conto che sto vivendo a casaccio e che è l'ora di finirla, in qualche modo. Chiamo Bill. Sì, lo chiamo.
Bill non si fa sentire da una settimana. Non è passato da casa, all'Ersguterjunge, non ha chiamato. Nemmeno un messaggio. Capisco che abbia tutto il diritto di comportarsi così ma sto facendo così tanti casini in così poco tempo che vorrei per lo meno parlarci. Se mi deve mandare a fanculo per quello che è successo, voglio che lo faccia. Vederlo sparire così nel nulla non mi va giù. In realtà non mi va giù neanche che mi mandi a fanculo, perché a me quello che è successo tutto sommato, non lo so... stamattina mi sono svegliato chiedendomi che cosa implica il fatto che mi sia piaciuto. Bill. Ma anche Fler. E non so nemmeno se il problema devo farmelo perché sono due, o perchè sono due uomini.
Non mi rispondo. Telefono; che non è una soluzione, ed è pure un danno perché se questa volta risponde non so cosa dirgli.
"... pronto?"
Ecco, appunto.
Mi passo il telefono da un orecchio all'altro. Sono in casa, in piedi in mezzo al salotto e, fra tutte le cose che potrebbero passarmi per il cervello, mi viene da chiedermi dove mettermi per avere quella conversazione. Non sul divano, è l'unica conclusione che raggiungo. Quindi sto in piedi, che è meglio. "Bill, sono... Peter."
Il mio nome suona sempre strano se non è lui a dirlo. Mi sento scemo a pronunciare quelle cinque lettere, perché ormai sono abituato all'altro. A Chakuza. Il mio vero nome non mi sembra più nemmeno tanto vero.
"Chaku..." lo sento inspirare e non so se è un sospiro rassegnato o se non se lo aspettasse. Se è emozionato, io ci provo a sperarlo. Mi fa male che non mi chiami Peter, però. Mi aspettavo che lo facesse. È una situazione da Peter. No?
"Ti disturbo?"
"No," risponde. Dovrei essere contento, in realtà è così incerto quando lo dice che forse dovrei prenderlo per quello che è: un modo carino di dirmi che invece lo disturbo. Solo che non lo faccio, ovvio. Un po' perché io non li ho mai capiti i velati suggerimenti e un po' perché ora che ho sentito la sua voce mi manca ancora di più. Sembra passato un secolo dall'ultima volta che eravamo seduti vicini a ridere.
"... volevo," metto il muto sul televisore. "... volevo sapere come stai."
"Bene," non lo dice con la convinzione con cui vorrei che lo dicesse e per qualche motivo me lo immagino che guarda in basso e giocherella con qualcosa a caso, tipo il laccio di una scarpa o l'orlo della maglietta. Quando è nervoso – lo so – stropiccia sempre qualcosa. Quand'era qui a cena e parlava di Bushido, finiva sempre con il piegare il bordo della tovaglia su se stesso finché non aveva più stoffa. Allora si fermava, rendendosi conto di aver ridotto la tovaglia ad un grosso serpente e rideva. La risata di quando si rende ridicolo, una specie di sbuffo, e gli diventano tutte le guance rosse.
"Dove sei?" Chiedo, cercando di far suonare la domanda casuale. Fino a quando non è successo il casino, sapevo sempre dov'era. Non si muoveva senza avvertirmi che sarebbe arrivato tardi, o a che ora sarebbe arrivato. Se andava da qualche parte, e da che parte andava. Ora che ci penso, ha passato i mesi prima della trasmissione a casa mia, e le settimane dopo in ospedale. E quando non c'era, raccontava dov'era stato. In ogni caso è stato sempre con me, in un modo o nell'altro. E' chiaro che mi manchi. Non è chiaro perché fosse così prima che gli mettessi le mani addosso. Non è chiaro perché gliele ho messe, le mani addosso.
"Sono da Tomi," mi dice.
Da Tomi non è una buona risposta. Da Tomi significa che sta male. Significa che ha pianto più di quanto sia normale che faccia, perché l'unica persona che si può sciroppare tutte le sue lacrime e che – soprattutto – sappia come fermarle, quello è Tom. All'improvviso mi chiedo che cos'abbia raccontato a suo fratello.
"Io sono a casa," gli dico, che è una cosa stupida dal momento che lui non me l'ha chiesto. E mi rendo anche conto che potrebbe suonare male, tipo che dal momento che sono qui, potrebbe venirci anche lui. Insomma, non è che l'avevo intesa così. "Cioè, così.. per dire," aggiungo. E riesco a peggiorare la situazione in molti modi diversi contemporaneamente. Tipo che faccio la figura dell'imbecille. Tipo che è chiaro a cos'ho pensato e perché ho dovuto specificare.
"Come vanno i tuoi punti?" Mi chiede lui. E lo stomaco mi fa un verso strano, mi si annoda, ecco. Poi ride, ed è ancora più bello. "Non li avrai fatti aprire di nuovo!"
Rido anche io. "No, è tutto a posto," già che ci sono uso la vetrinetta della credenza per darci un'occhiata, alzando la maglia. "Sta guarendo, devo andarli a togliere in settimana."
"Ti rimarrà la cicatrice?"
"Assolutamente sì," rispondo fiero senza nemmeno rendermene conto. Faccio una smorfia e mi do del cretino.
Lui però ride di nuovo. "Non dovresti essere tanto entusiasta," commenta, "ma immagino che per voi gangster sia motivo di vanto."
"Le cicatrici hanno il loro fascino."
"Già," la sua risata rimane, ma è un po' più spenta di prima. Capisco che stiamo di nuovo camminando su un terreno minato. "Gli altri come stanno?"
Intende Kay One ed Eko, ovviamente. E La domanda non mi sorprende, Bill si è sempre trovato bene anche con loro. Anche se Eko finge che di lui gli interessi meno della mia aragosta di peluche.
"Stanno bene," annuisco. "Sono stati a cena qui un paio di giorni fa."
"E sei riuscito ad offrire loro qualcosa di commestibile che non si muovesse già sulle sue gambe?"
"Hey, guarda che io so cucinare!" Protesto.
"Sì, ma non hai mai cibo in casa," ride lui. "Hai il metodo ma non la materia prima."
"Avevo fatto la spesa," specifico, "E hanno mangiato come maiali, per inciso."
"Beh Eko pesa poco più di me," commenta lui. "Non può aver fatto grossi danni."
Sollevo un sopracciglio. Non bene quanto lui, però. "Bill, tu mangi molto più di quanto sarebbe logicamente possibile."
"Mi stai dicendo che mangio troppo?"
"No!" E sbraito. Mi chiedo perché sbraito sempre quando sono agitato. Mi chiedo perché Bill abbia il potere di agitarmi tanto. "Sto solo dicendo che tutto quello che mangi poi non si sa dove lo metti. Ecco."
Lo sento ridere un po'. "Stavo scherzando, tranquillo."
A quel punto penso che potrei farlo, dirglielo ecco. Ci sto rimuginando da stamattina, da quando mi sono svegliato e ho pensato che fosse ora di telefonargli. Ho voglia di vederlo, e mi sembra che anche lui... non lo so, ecco. Non sembra infastidito. "Senti," comincio. E lo sento che si irrigidisce. Trattiene il respiro. Insomma, lo sento che siamo di nuovo tra le mine ma non mi fermo perché se lo faccio poi non avrò più il coraggio. "...magari potremmo prenderci una pizza una di queste sere..."
"Peter..."
Questo non è un discorso da Peter, cazzo.
"Possiamo andare al cinema, se non vuoi venire qui," mi correggo. "O andiamo a bere qualcosa. Sicuramente lo troviamo un posto in cui non ci siano fotogra-"
"Forse è meglio se non ci vediamo, per un po'," mormora. E ha la vocina sottile e dispiaciuta. Lo so che è dispiaciuto, ma io ho voglia di spaccare qualcosa lo stesso. Non gli dico niente, perché sicuramente di bocca mi uscirebbe la cosa sbagliata.
"Solo per un po'," insiste lui. La sua voce si è addolcita, sta cercando di convincermi di una cosa a cui non crede nemmeno lui. Quel poco di cui parla si trasformerebbe in molto. Forse in sempre. E tutto perché ho messo le mani dove non dovevo, quel pensiero continua a tormentarmi.
"Non succederà niente," esclamo alla fine. Non voglio rassegnarmi all'idea di una pausa. Lo so che è infantile e che me la sta chiedendo per favore, però non voglio dargliela. Ho paura che se lo lascio andare adesso e gli dico di sì, poi non lo recupererò più. "Te lo prometto, Bill."
Lui rimane in silenzio per qualche secondo. "Non puoi prometterlo," dice alla fine. "E nemmeno io."
Non posso dargli torto su questo. Non lo so cosa succederà davvero se me lo ritrovo davanti, perché nemmeno la prima volta so cos'è successo. Era lì, avevo voglia di toccarlo e l'ho fatto. Se non lo avessi fatto, questa telefonata non sarebbe mai esistita. E lui sarebbe qui adesso, sarebbe stato qui anche l'altra sera. La mia vita non sarebbe il disastro che è se io quella sera non lo avessi toccato. Eppure ho una gran voglia di rifarlo. Quindi forse ha ragione lui. Cazzo.
"Va bene," concedo alla fine, ma lo faccio controvoglia e solo perché è chiaro che se insistessi potrei ottenere quello che voglio e dovrei mantenere la mia promessa. La promessa non la manterrei. Ora lo so. La voce di Bill da sola basta a ricordarmi le sensazioni. E no, non la manterrei.
"Solo per un po'," ripete lui, ma tanto non serve a niente. "Ti chiamo io, va bene?"
Che vuol dire Non mi cercare. E nello specifico Questa è l'ultima volta che mi senti.
Non glielo dico che va bene, perché non va bene. "Io sono sempre qui, quando vuoi."
"Lo so," sussurra. Lo sento appena. E poi: "Mi ha fatto piacere sentirti."
"Anche a me."
Quando ci salutiamo gli trema la voce, e mi maledico perché non voglio che pianga. L'ho fatto piangere anche troppo nei giorni precedenti. Non gli dico niente però, perché sono nervoso e non saprei controllarmi. "Allora, ciao," mormora.
"Ciao principessa," chiudo il telefono prima di sentire qualunque cosa.
Né lacrime, né singhiozzi.
*
Non riesco più a stupirmi della presenza di Fler. Il che è allucinante, se si pensa che è effettivamente assurdo lui sia qui. D’accordo, dovrei fermarmi a pensare più approfonditamente al fatto che è stato lui a… farsi avanti andrà bene, come verbo? Comunque, a fare quello che ha fatto ieri sera. Io ci sono solo stato.
Dio.
Lancio un’occhiata all’orologio a muro, ovviamente sono le nove. Torno a guardare Fler che solleva una recipiente in plastica, quadrato e con un tappo rosa.
- Lasagne. – annuncia seriamente, - La signora Lotte mi aspettava sul pianerottolo.
Spalanco gli occhi.
- La signora Lotte ti ha dato delle lasagne per me?
- Be’, se vuoi mangiartele da solo, d’accordo, ma io non ho ancora cenato. Sempre che t’interessi. – borbotta facendosi strada all’interno del mio appartamento sgomitandomi in piena pancia.
- Attento! – blatero infastidito, - I punti!
- Tanto li togli giovedì. – scrolla le spalle posando il contenitore sul cucinino ed allungandosi verso uno stipetto per recuperare dei piatti che naturalmente non trova perché io non ho un servizio di stoviglie. Lo raggiungo e mi chino, ripescando un paio di piatti di plastica da un cassetto e posandoli accanto a lui. – Grazie. – annuisce aprendo il contenitore ed afferrando un coltello per dividere le porzioni, - Era giovedì, giusto?
Annuisco con aria assente e la mia porzione di lasagne si spiaccica sul mio piattino di plastica. La guardo: cola olio e mozzarella fusa e besciamella e tritato da ogni parte e tutto ciò è meraviglioso. Mi sale una fame boia, così all’improvviso, mangerei qualsiasi cosa. Fler mi allunga una forchetta ed io la affondo nella pasta il secondo successivo.
- Come mai così silenzioso? – mi chiede lui, osservando con aria critica lo sgabello. Ma pure seriamente, nel senso che lo squadra da ogni lato come se dovesse riprodurlo.
- Niente di particolare… - rispondo io, un po’ distratto perché mi perdo un attimo a cercare di capire cos’abbia di tanto sbagliato il mio sgabello perché Fler lo fissi in questa maniera intensa, - Fler, ma che c’è?! – chiedo alla fine, quando l’ansia si fa intollerabile.
Lui torna a guardarmi ed inarca un sopracciglio.
- Me lo dai un cuscino? – chiede quindi, indicando la superficie in legno sulla quale si suppone debba sedersi.
Potrebbe prendermi a ceffoni, di tanto in tanto. Sono sicuro che mi servirebbe.
- Subito! – mi agito, scattando in piedi e correndo letteralmente verso la camera da letto, dalla quale esco col cuscino che fa pendant con la sua coperta coi cavallucci marini. Lo agito tipo bandiera, come a rassicurarlo, sì, ce l’ho il tuo cuscino, Fler, ora puoi sederti.
Lui ride e me lo toglie di mano, arrampicandosi sullo sgabello – adesso morbido – con qualche problema di troppo, nonostante tutto.
- …come va? – mi forzo a chiedere mentre torturo le lasagne, chiedendomi se sia educato mangiare mentre si chiede una cosa simile.
Fler scrolla le spalle e manda giù una porzione di lasagne che probabilmente sarebbe stato meglio mangiare in due morsi differenti. Ma non posso fargli la paternale su questo.
- Oggi non è uscito sangue. – rivela alla fine. Non mi guarda ed io mi sento crollare qualcosa addosso e mi viene voglia di urlare.
- …ah. – annuisco imbarazzato.
- Credo sia una cosa buona. – continua lui, mandando giù un altro morso di lasagne, meno convinto del primo. Poi si volta a guardarmi e deve vedere lo sgomento nei miei occhi, perché riprende subito a parlare. – Non dovevo dirlo, mh?
- No, io-
- È che non ne parlo con nessuno. – aggiunge poco dopo, e su di noi cala il silenzio.
Annaspo.
- Sì! – cerco di dire con sicurezza, - Voglio dire, certo! Guarda che con me puoi parlarne! – annuisco deciso, - Sono contento che si stia… risistemando tutta la… situazione, mi fa piacere, ecco. Magari vieni in ospedale con me giovedì e… non so, ti fai controllare anche tu?
Fler scuote il capo.
- Io sto bene. – aggiunge, e manda giù altre lasagne. – Sul serio. Guarisco da solo.
- Fler-
- Mi hanno dato… delle cose. – è incerto, si mordicchia un labbro e i suoi occhi saettano confusi da una parte all’altra della stanza, - Intendo, lo so come devo curarmi. Non ti preoccupare.
Annuisco e lui finisce le lasagne mentre le mie sono ancora tutte qui. E dire che avevo fame sul serio.
Scende giù dallo sgabello e butta via il piattino, per poi dirigersi tranquillo verso il lavandino e cominciare a lavare la forchetta. Quando ha concluso mette le mani pure sul contenitore ormai vuoto ed unto, e mi sale un qualcosa dentro che mi fa scattare in piedi e muovermi verso di lui.
- Aspetta, aspetta… - sussurro, sfilandogli il contenitore di mano e chiudendo il rubinetto, - Non metterti a lavare i piatti, dai… - suggerisco con un sorriso.
Fler scrolla ancora le spalle e continua ad evitare i miei occhi.
- Era giusto per fare qualcosa. – dice, e nel suo tono c’è una certa ansia che non saprei identificare.
- Be’, lascia perdere. – dico, tirandolo un po’ verso il divano, - Faremo altro.
Fler si agita ancora, sento chiaramente che mi sta sfuggendo dalle mani e non ci sto.
- Okay, forse è meglio che me ne torni a casa. – borbotta, ma no, non voglio che se ne vada a casa. Dobbiamo risolverla, questa cosa, dobbiamo risolverla adesso o non ne usciremo davvero più.
Mi fermo e lo fronteggio, lo guardo dritto negli occhi e non intendo lasciarlo andare via prima di aver… concluso qualcosa. Qualsiasi cosa.
- Senti, non c’è bisogno di fare così. – dico con sicurezza, - Non voglio… farti male. – e stringo la presa sulle sue spalle. Solo che dopo scendo un po’. All’altezza dei gomiti. È troppo tardi quando mi accorgo di starlo stringendo per i polsi, lo sto già facendo. Non posso scendere più in giù di così, alle mani non posso arrivare, perciò mi accontento.
Fler deglutisce.
- Lo… lo so. – ma è incerto.
- No, non lo sai.
- No, no, credimi, - borbotta, cercando di liberarsi i polsi, - lo so che non era tua intenzione e che non ci pensi nemmeno a farmi niente, l’ho capito, stai tranquillo, sono solo-
Il calore umido della sua lingua lo incontro subito perché stava parlando senza guardarmi. Quindi non mi ha visto avvicinarmi. Non se n’è accorto. Ed è stato facile scivolare dentro di lui, perché era esattamente quello che volevo ed è facile zittire qualcuno che blatera così. Stringo e me lo tiro un po’ contro, Fler lancia un mugolio incerto ma quando schiudo gli occhi per controllare se sia con me vedo che lo è. Lo è eccome. Le palpebre sono distese e chiuse e le sue labbra si muovono morbide seguendo le mie.
Cristo, perché me lo lasci fare, Fler?
Lascio i polsi e lo stringo alla vita, è sottile per essere quella di un uomo, e lo attiro contro di me. Ci scontriamo l’uno contro l’altro e dal mio bacino parte una scarica elettrica che si diffonde nello stomaco e poi lungo le braccia, che scattano e lo stringono con più forza. Fler solleva le mani e le posa sulle mie spalle. Non stringe e non mi spinge, si posa lì e basta.
Mi muovo un po’ in avanti perché voglio trovare una superficie – una qualsiasi – contro la quale posarlo, perché voglio… non lo so nemmeno io cosa voglio ma voglio più libertà e stando così in mezzo alla stanza non ce l’ho, perciò avanzo ed alla fine trovo una parete, che non sarà il massimo della comodità ma almeno è solida e liscia. Fler ci si adagia contro ed io mi spingo contro di lui e rivoglio quella scarica lì, quella che ho sentito quando mi si è spinto addosso, arrivo a sentirla e mi ci perdo.
E lui allunga le mani e mi allontana. Un gesto secco ed affatto fraintendibile. Un attimo gli sono addosso, l’attimo dopo mi sta guardando come se non sapesse come darmi due di picche.
Vorrei dirgli che sto cominciando a farci il callo e di non preoccuparsi. Lascio perdere – mi chiedo quanto suonerebbe ridicolo e decido che sarebbe tanto.
- Pa- - comincio, ma mi fermo subito. – Fler?
- È tutto okay. – mi rassicura immediatamente lui, annuendo un po’ incerto, - Solo… basta così, per oggi, d’accordo?
Annuisco anche se vorrei mettermi ad urlare, nell’ordine, sull’okay che non esiste – perché niente è okay – sul basta così che non mi va giù – perché sono palesemente fuori di testa – e sul per oggi che mi fa ammattire su così tanti livelli che non posso nemmeno stare a contarli tutti.
- Senti, posso dormire qui stanotte? – mi chiede titubante.
Continuo ad annuire come uno stupido piccione e gli faccio strada verso la camera da letto – sono fuori di testa, è palese – se non che lui mi tira per la maglia e mi ferma ed io per poco non cado per terra ma mi volto a guardarlo come nulla fosse.
- Sì…? – cerco di informarmi sperando di non suonare come un completo deficiente, ma non mi viene bene.
- Dormo in poltrona. – annuisce tranquillo lui, - Mi dai solo la coperta?
Lo fisso.
- Ma non stai scomodissimo? – chiedo.
- No, va bene. – insiste lui, - Sul serio. Mi dai la coperta?
Penso che dovrei chiedergli perché non vuole tornare a casa sua. Ma ho un po’ paura di sentirmi rispondere che il problema non è che non vuole tornare a casa propria, ma che vuole restare qui nella mia. Il che è… decisamente troppo perché io possa decidere di affrontarlo adesso e con coscienza.
Sparisco in camera da letto e quando torno con la coperta lui s’è già rannicchiato in poltrona in una posizione incomprensibile. Lo copro e resto seduto sul divano finché non sono sicuro che dorma.
*
È giovedì. Gli ultimi tre giorni della mia vita sono riassumibili in pochi semplicissimi concetti e la mia mente è così stremata che ringrazio di essere ancora in grado di formularli.
Niente Bill. Che è in assoluto la cosa peggiore. Perché vuol dire che avevo ragione a pensare che “un po’” sarebbe diventato “sempre”. E non riesce ancora ad andarmi giù.
In compenso, Fler è venuto qui ogni giorno ed ogni notte s’è fermato a dormire. Sempre in poltrona. Ogni sera ha portato qualcosa da mangiare, tranne martedì, che s’è presentato senza niente ed io sono andato nel panico perché non c’era niente di veramente commestibile in tutto l’appartamento – forse la piantina di bambù che mi ha portato mia madre domenica, ma non sono sicuro che non sia già marcita anche quella. Alla fine gli ho fatto un uovo. Ce n’era uno solo, l’ho fatto a lui. Ha insistito per darmene a mangiare metà ed abbiamo passato il resto della notte piegati sul cesso a vomitare. Mercoledì, naturalmente, s’è presentato lui con del cibo chiesto palesemente in elemosina alla signora Lotte, che comunque l’ha preso in simpatia e lo fa con piacere.
Io sono tornato due ore fa dall’ospedale. I punti non ci sono più, è rimasta una striscia di pelle di un colore completamente differente rispetto al mio. È così diverso che sembra non mi appartenga neanche. Ma è un po’ una ferita di guerra e… me la sono procurata per Bill. Perciò resta dov’è, poco da fare.
Fler e ciò che sembra un’intera coscia di capretto attraversano puntualmente la soglia di casa alle nove. Fler sorride. Il capretto profuma di rosmarino.
Il terzo concetto base che sarebbe il caso io smettessi di farmi casualmente sfuggire di quando in quando, è che io e lui – Fler, non il capretto – continuiamo a saltarci addosso da quando ha stabilito che può dormire sulla mia poltrona. Prima o dopo succede comunque, e la cosa si muove sempre nello stesso modo. Io mi avvicino – o lui si avvicina – io lo sfioro – o lui mi sfiora – io lo bacio – insomma, ci baciamo – e poi lui mi allontana. E non è facile, non è facile neanche per un cazzo separarti da un corpo caldo che ti si stringe contro confondendoti al punto che non sai più neanche su che superficie lo stai schiacciando, non è facile fermarti anche se l’altra persona ti fa capire chiaramente che non vuole più andare avanti.
Mi sembra assurdo metterla in questi termini ma sono così frustrato che penso potrei esplodere. Così la scena che ha luogo fra me e Fler è del tutto surreale.
- Ho portato il capretto! – dice lui con entusiasmo, - Ti hanno tolto i punti?
- Sì, sì. – dico distrattamente io, avvicinandomi, - Ma quanti chili di capretto sono?
- Non così tanti… - borbotta lui soppesando l’enorme cosciotto con gli occhi. Questo non è un capretto, peraltro, come minimo è un vitello. – Comunque ora ci mettiamo qui tranquilli e lo mangiamo, se resta… no, non lo conservo nel tuo frigorifero. Finiamolo tutto. – annuisce alla fine.
- Ma non finirà mai! – mi sporgo e cerco di metterlo via, - E poi non ho fame!
Non so perché sto facendo così. Non è che voglia saltargli addosso, sono solo incredibilmente nervoso, voglio darmi qualcosa da fare e se questo qualcosa sarà tagliare fettine dalla coscia del capretto gigante geneticamente modificato fino a domattina per poi avvolgerle nel cellophane e metterle in freezer, d’accordo.
Ho voglia di urlare.
- Come mai non hai fame? – chiede Fler curiosamente. Ed io ho ancora più voglia di urlare. – Non ti senti bene?
- Sto benissimo! – ansimo agitato, mettendo le mani sul capretto e tirandolo via, - Parliamo d’altro! Tipo, fa un freddo cane, ti pare? Accendo i termosifoni.
- Non funzionano. – mi informa lui, cercando nuovamente di raggiungere il capretto. Io riprendo a tirarlo via. Mi sembra di stare giocando.
- Come non funzionano? – chiedo allibito. È casa mia, saprò cosa funziona e cosa no.
- Sentivo freddo ieri ed ho provato ad accenderli, ma niente. Dovrai sistemarli.
Per un attimo accarezzo l’idea di strillare “be’! visto che palesemente conviviamo e l’unica cosa che ci manca per dichiararci coppia di fatto è che, Cristo santo, non si scopa neanche a morire, direi che mi aiuti tu a sistemarli, i fottuti termosifoni, no?!”, ma poi lascio perdere. È evidente che non posso dire una cosa del genere. Piuttosto mi butto dalla finestra.
- …insomma! – biascico, e vado ad abbattermi sulla poltrona.
Fler mi viene vicino lasciando perdere finalmente il dannato capretto, e mi fissa con aria preoccupata.
- Chakuza, tu non stai bene. – annuncia seriamente, chinandosi un po’ verso di me, - Vai a letto, guarda, domani mattina ti sembrerà tutto più semplice. – annuisce convinto. Non so di cosa cazzo stia parlando. Probabilmente s’è convinto io sia ubriaco.
Non sono lucido, è vero, ma l’alcool non c’entra. Rilasso le spalle e mi passo una mano sugli occhi, sospirando pesantemente. Fler sospira a propria volta e resta dritto davanti a me, le mani sui fianchi, chiedendosi probabilmente cosa dovrebbe farsene di questa versione isterica di me stesso. Mi chiedo cosa dovrei farmene anche io. Mi servirebbe una doccia congelata.
Ed invece sollevo le mani e gliele stringo attorno alla vita, accarezzandogli vagamente i fianchi con i pollici.
- …ah. – prende atto lui, e resta immobile.
- …“ah” non è una risposta, Fler. – mi sgonfio io, stremato.
Lui trasale.
- Ma vuoi pure una risposta?! – chiede allucinato.
- Senti, ha senso non parlarne?! – chiedo io, ugualmente allucinato, tornando all’improvviso a guardarlo negli occhi.
Lui non se l’aspetta, tant’è che lo trovo che mi guarda con l’aria di una quattordicenne che non abbia proprio capito per quale motivo l’insegnante di ginnastica continui a fissarla con quegli occhi strani.
- Fler, mi dici qualcosa? – chiedo esasperato, stringendo la presa sui suoi fianchi, - Una qualunque cosa! Mandami a fanculo, se preferisci, però così non può continuare.
Lui esita. Mi guarda ancora un po’, poi si china su di me e cerca le mie labbra.
D’accordo, non è una risposta. Ma chi se ne frega.
Lo attiro per la nuca, lui si stupisce giusto per un attimo – è un attimo di rappresentanza, sapeva che l’avrei fatto – e poi, visto che la posizione così è scomoda, incastra le ginocchia ai lati del cuscino, vicino ai braccioli, così che sta a cavalcioni sopra di me ma non mi sta seduto addosso, che è una cosa intollerabile perché sta un casino lontano ed io invece me lo voglio sentire addosso sennò do di matto.
Faccio per tirarlo verso il basso e mi preparo a costringerlo se si rifiuta, ma non si rifiuta. Battiamo l’uno contro l’altro ed è la solita scarica, solo che poi continua, perché lui si muove ed ottiene uno strusciamento che Dio, mi manda in blackout, perciò lo tengo stretto per i fianchi e comincio ad odiare i vestiti, tutti, in blocco.
Decido che qui non possiamo più stare e scatto in piedi. Me lo trascino dietro, chiaramente rischiamo entrambi di morire perché non si può pretendere di alzarsi insieme da una poltrona e sopravvivere, comunque sopravviviamo per un qualche miracolo che non comprendo ed io comincio a spingerlo verso la camera da letto. Non mi sono ancora staccato dalla sua bocca neanche per un secondo. Non ci stiamo toccando moltissimo, per la verità, suona tutto un po’ troppo strano per prenderlo normalmente, però capita di sfiorarsi a caso, di tanto in tanto, ed i brividi sono fortissimi.
Non ci arriviamo, in camera da letto, Fler si abbatte contro la parete di fronte incespicando sulla moquette rovinata del corridoio ed io gli vado dietro, mi schiaccio contro di lui e lo sento che si ancora con un braccio al mio collo per non cadere. Non ci capisco molto, ho gli occhi chiusi, lui lancia un piccolo lamento ed io mi stacco dalle sue labbra – che sono gonfissime, Dio mio – e scendo a caso a morderlo sul collo, pure con una certa violenza, ma lui non sembra lamentarsi ed io penso Cristo, Cristo, Cristo, ci siamo, e dura tipo tre secondi.
Tre secondi sono il tempo che impiega Fler a schiudere gli occhi e visualizzare la camera da letto. Questi tre secondi li usa anche per irrigidirsi tutto, piantarmi le mani sul petto e spingermi via, come al solito.
- Fler… - mugugno affranto, perfettamente consapevole di stare riducendo in ginocchio la mia dignità, anche se alla fine mi pare di aver poco da perdere, nella situazione contingente, - cazzo, lo vuoi anche tu… - e non ho nemmeno il tempo di realizzare quanto stronza e cretina e fuori luogo suoni questa frase, che sono lontano già più di venti centimetri ed il calore del suo corpo non lo sento neanche per sbaglio.
- Forse è meglio che torni a dormire a casa mia. – borbotta confusamente, cercando di allontanarsi dalla parete senza per questo doversi avvicinare a me. Capisco che vuole veramente andarsene e cazzo, mi allontano. Cosa devo fare? Mi allontano e basta, cazzo.
Fler si muove lungo il corridoio ed io lo fisso e non so se vorrei uccidere lui o ammazzarmi da solo. Comunque non lo fermo. Quando sento il clack della porta che mi annuncia che è andato via, in compenso, mi dirigo serenamente verso il salotto e comincio metodicamente a distruggere casa. Prima i soprammobili – ormai mia madre porta solo roba di gomma. Qualsiasi cosa rimbalza sul pavimento e si perde sotto i mobili, ma non si rompe niente – poi i mobili – rovescio tutti gli sgabelli, uno dopo l’altro, ci finisce di mezzo pure il cosciotto del capretto geneticamente modificato che cade per terra e no, non si rompe ma di sicuro non sarà più mangiabile. Non so quanto tempo passi, so che me la prendo pure con i fornelli e con le cassettiere e so che per tutto il tempo non faccio che darmi del cazzone e non so neanche perché. Continuo ad avere difficoltà ad identificare il motivo del mio scazzo. Non so più neanche se è solo colpa di Fler. C’è ancora Bill, Cristo, è ovunque. È come se tutto partisse da lui. Non ce la faccio più.
Non so quanto tempo è passato quando arrivo di fronte alla poltrona. Mi viene voglia di farla a pezzi e bruciarla, almeno mi scalderei, ma poi la prendo per le gambe e la ribalto, sto accarezzando l’idea di saltarci sopra, sono sudato ed ansimo e non so come, sopra i miei respiri e sopra la rabbia, riesco comunque a sentire il campanello.
Fisso la porta con aria allucinata per un tempo lunghissimo, ci metto un po’ a rendermi conto che mi tocca comunque andare ad aprire. Prego in svariate lingue che non sia la signora Lotte – potrei averla svegliata. O qualche altro inquilino del palazzo, chissà fino a dove s’è sentito l’eco della devastazione.
E invece è Fler. Lo guardo e non riesco a realizzarlo, ma è lui. Mi fissa come non sapesse che dirmi, poi lancia uno sguardo all’appartamento, spalanca gli occhi e schiude le labbra.
Vorrei mandarlo a fanculo ma, quando apro la bocca, esce una cosa completamente diversa.
- Sei tornato…
Lui torna a serrare le labbra ed annuisce, semplicemente.
- E questo significa? – cerco di capire io, stringendo una mano attorno alla porta.
Palesemente non sa cosa dirmi. Abbassa lo sguardo, si tortura il bordo della felpa con le dita, poi torna a guardarmi e si fa avanti. Pressa le labbra contro le mie e sinceramente non mi serve sapere altro. Se mi manda in bianco di nuovo, però, giuro che l’ammazzo.
Mentre lo strattono con poca delicatezza verso la camera da letto – almeno quello posso offrirglielo – Fler cerca di ricavarsi lo spazio per qualche domanda fra le mie labbra.
- Chakuza… - ansima incontrollatamente, - ma come facciamo?
- In qualche modo. – rispondo deciso io, cercando di zittirlo, - Poi ci pensiamo.
- Poi è adesso. – insiste lui, cercando di allontanarsi, - Senti, è pericoloso, forse-
- Cristo. – lo interrompo, posandogli una mano sulla nuca e fermandomi un attimo prima di baciarlo ancora, - Sei tornato. Un modo lo troviamo. Non sarò… faccio attenzione, ok?
Lui esita un secondo e poi annuisce, io non ho la minima idea di cosa sto facendo né di cosa farò a breve ma lui mi lascia fare e finché lui mi lascia fare io sono a posto. Si stende sul letto ed io mi stendo sopra di lui, mi reggo sulle braccia e mi chino solo per baciarlo, non lo tocco quasi. Questa cosa non ha senso e non mi interessa. Lo prendo per un fianco e lo spingo di lato, spero che capisca che voglio che si giri perché non posso dirglielo ad alta voce.
Grazie a Dio lo capisce, lo vedo voltarsi ed affondare il viso contro il cuscino. Da qui in poi so come si fa, non bene ma posso intuirlo. Lo spoglio appena, solo quello che serve, la situazione è già abbastanza assurda così com’è e possiamo prenderla solo come una soddisfazione momentanea, se non ci spogliamo del tutto. Voglio dire, cazzo, sono giorni che mi tira scemo. È una soddisfazione e basta. Non è niente di che.
Cerco di fare piano. Il preservativo lo trovo in fondo al cassetto. Non ricordavo ci fosse, lo speravo e basta. Cerco di lubrificarmi con un po’ di saliva – abbondante, okay, lo ammetto, sono terrorizzato, cazzo – non so esattamente quanta ne serva, direi che vado ad intuito. Spero di non combinare disastri.
Mi fermo al primo gemito. Fler lo soffoca contro il cuscino ma io lo sento lo stesso. Non gli chiedo se devo smettere perché non voglio smettere. Prego che mi lasci andare avanti. Ma è un po’ difficile rispondere “no” ad una domanda che nessuno ti pone, perciò io non chiedo e lui non risponde. Lo prendo per un assenso e mi muovo ancora.
- Piano. – mormora lui, ma non solleva il viso dal cuscino. Non so cosa fare. Avanzo piano, è l’unica cosa cui riesco a pensare; questa, e quanto sia simile la sensazione rispetto a quella che ho provato la prima volta. Sentirlo aprirsi al mio passaggio è ancora inebriante. Sentirlo tendersi sotto di me è eccitante.
Faccio sinceramente fatica a tenermi fermo.
E quando lo vedo scendere ad accarezzarsi fra le gambe tiro un sospiro di sollievo e comincio a muovermi più velocemente. Mi piego su di lui e scorgo un pezzetto della sua faccia – l’espressione è tesa ed addolorata – non sta bene proprio per niente ed ho il timore che accarezzarsi non sia altro che una distrazione neanche tanto efficace. Vorrei poter fare di più, vorrei provarci almeno, ma non lo faccio. Continuo a spingere ed a me, cazzo, piace tantissimo. Lui ansima e geme ma non sta bene. Non sta bene ed io dovrei smetterla di essere la causa di questo suo non stare bene.
Cazzo.
È così stretto che mi muovo a stento.
Al momento spero solo che non sanguini.
Vengo e lui probabilmente nemmeno se ne accorge. Lui non viene affatto. Smette di accarezzarsi nel momento esatto in cui io smetto di spingere, confermando che sì, si trattava solo di una distrazione.
Tutto ciò è deprimente.
Non posso neanche dire non sia stato bello. Ma cosa cazzo è stato?
Mi seggo sul materasso al suo fianco e lui rimane immobile a lungo, si prende un sacco di tempo solo per riprendere fiato. Almeno non sanguina. Non sembra nemmeno felice, comunque. Rimango in silenzio ed aspetto che sia lui a dire qualcosa. Il problema è che non dice niente. Passato qualche minuto, tira su i jeans e si rimette in piedi.
Lo fisso, sconvolto.
- Fler? – chiedo, - Dove… come va?
Se mi sta guardando, non lo so. È buio, non lo vedo.
- Tutto a posto. – dice a bassa voce.
- Sì, okay. – insisto io, - Dove stai andando?
Solleva un braccio, indica la porta della stanza.
- Sulla poltrona. – risponde piano, - La coperta… - si china a recuperarla dal comodino dove l’ha posata lui stesso stamattina, prima di andare via.
- Aspetta… - mi agito e mi rivesto, allungandomi sul materasso verso di lui, - Non puoi andare sulla poltrona, Fler-
- Sto bene. – mi interrompe lui. È durissimo. Mi fermo come paralizzato, lui se ne accorge e sospira, moderando il tono di voce. – Sto bene. – ripete, più conciliante, - Preferisco dormire lì. Dormo meglio. – sorride, sento lo sbuffo nel buio. – Buonanotte.
Vedo solo la sua sagoma che si allontana. Fler non dimentica di chiudersi la porta dietro alle spalle, quando se ne va.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Violence, Rape.
- "Ho preso la fottuta Zipfer e mi ha rovinato il sapore in bocca per tutta la serata, che poi è il motivo per cui mi sono alzato e sono andato via e adesso sono qui in questa strada e mi sto dirigendo verso quel portone scassato là sotto."
Note: ._.
E tendenzialmente quella faccina basterebbe ad esplicitare il mio stato d’animo, ma come voi tutti sapete la mia è una logorrea inesauribile perciò parliamone. Anche perché parlare aiuta a superare i traumi e qui tutti abbiamo bisogno di superare un trauma ;_; Mi pare evidente. Il mio trauma, nello specifico, è che questi due veramente li amo. Mi piacciono un sacco come coppia (non necessariamente in senso romantico… cioè, sì, anche, ma mi piacciono le loro interazioni perché hanno un rapporto molto virile e goliardico, insomma, son belli ç_ç) e, credetemi, non esagero se dico che sogno di scrivere questa shot da mesi. Seriamente. Da quando abbiamo cominciato a plottare EKR con Tab. È un sacchissimo di tempo fa. Ed io li ho amati all’istante, quando abbiamo cominciato a scegliere i loro ruoli e i loro destini.
Per la verità questa… cosa… non doveva avvenire esattamente in questi termini. Il mio difetto (forse anche un pregio, dipende dai punti di vista) è che lascio molto parlare ed agire i personaggi. Io scrivo in un roleplay continuo, se così si può dire, in cui sono contemporaneamente tutti. Non decido, lascio decidere. E loro due hanno deciso così. Perciò una scena che nelle intenzioni mie di fangirl era sì rabbiosa e “ruvida”, per così dire, ma niente di più, è diventata qualcosa di decisamente più pesante che spero non vi abbia fatto troppo del male ^^”
Il titolo – unica parte palesemente meravigliosa della shot – è rubato ad un’altrettanto meravigliosa canzone dei Linkin Park, e significa “una cura per il prurito”. Lo amo perché riassume veramente in pochissime parole entrambi i concetti che la shot porta avanti: se, nella prima parte, l’alcool è il “prurito” di Fler e Chakuza è la sua “cura”, nella seconda parte il “prurito” di Chaku è Bill e la sua “cura” è Fler. E questo è un concetto meraviglioso per il quale penso mi amerò a lungo in futuro u.u
In ogni caso, il Fler della prima parte è palesemente un tatolino sperduto. Dio mio. Cosa ho fatto. Sono come il Chaku, non me lo perdonerò mai XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CURE FOR THE ITCH

Una Klosterbräu, una Becks e una Charly Brau. Poi una tequila. Poi dello scotch. Un’altra Klosterbräu e poi ho meditato se ricominciare il giro con un’altra Becks ed un’altra Charly Brau. Alla fine ho preso una Zipfer e sono sicuro all’ottanta per cento che sia a causa della fottuta birra austriaca se adesso sono qui. Avrei dovuto ricominciare il ciclo con la Becks, magari sarei svenuto nel locale. Il proprietario mi trova simpatico, dato che probabilmente gli sto pagando l’università per la figlia, visto quanto spendo lì ogni giorno. È meglio che non sappia che la ragazzina me la sono scopata un paio di volte la settimana scorsa, o finisce che invece di chiamarmi un taxi come ha fatto fino ad ora mi getta lungo disteso sul marciapiedi e lì mi lascia.
Comunque non l’ho presa, la Becks. Ho preso la fottuta Zipfer e mi ha rovinato il sapore in bocca per tutta la serata, che poi è il motivo per cui mi sono alzato e sono andato via e adesso sono qui in questa strada e mi sto dirigendo verso quel portone scassato là sotto.
Sbatto contro un tizio un attimo prima di attraversare la strada, e me ne accorgo solo perché lui mi mette le mani addosso e mi rimette dritto prima che io possa cadere sull’asfalto.
- Vattene a casa, ubriacone! – si lamenta quello, non vedo neanche che faccia abbia, lo ignoro. – Stai barcollando!
- Non sono nemmeno brillo… - rispondo a mezza voce, ma quello naturalmente non può sentirmi perché è già lì che se ne va avvolto in quel suo bel cappotto scamosciato beige e giusto che ci penso sto morendo di freddo, si vede che siamo a novembre, non ci posso più andare in giro in felpa, è meglio che me lo ricordi per il futuro, Dio, mi viene da vomitare.
Attraverso la strada e sbando un po’ di qua e un po’ di là, non tanto, insomma, non tantissimo, ecco, so che crollo sul muro e pesto un po’ di pulsanti a caso sulla placca del citofono. Speriamo di beccare quello giusto, nel mucchio. In questo momento non mi ricordo neanche come fa di cognome Chakuza. Un qualche stupidissimo cognome austriaco come la stupidissima birra austriaca che è quella che mi ha portato qui questa notte.
Mi risponde una voce di donna che decisamente non è Chakuza.
- Chi è? – chiede, per un attimo mi domando se non sia qualcuna che lui s’è portato a casa, ma il tono è quello della signora anziana e non sono ancora tanto ubriaco da pensare credibile un’ipotesi del genere… o magari a Chakuza piacciono vecchie, chissà, è pure possibile.
Okay, forse sono davvero ubriaco.
Non rispondo e premo un altro pulsante a caso, la tipa continua, “chi è? Chi è? Guardi che chiamo la polizia!” e vorrei rispondere che non è la prima volta, ma da un lato ho una nausea che già la metà basterebbe a stendermi se non ci fosse tutto questo fottuto freddo, e dall’altro sento una voce ruvida e profonda che si intreccia con quella acuta e spaventata della vecchina e penso “bingo! L’ho beccato!”, ed in effetti dall’altro lato del citofono c’è Chakuza che mi chiede chi sono.
- Sono Fler… - rispondo, e mi viene da ridere perché il mio nome è comico quando sono ubriaco, si allunga. Fleeeer.
Chakuza non dice nulla, per qualche secondo si prolunga un silenzio stranito e poi la serratura del portone scatta ed io posso rotolare dentro l’ingresso, che è congelato e odora di muffa. Sarei dovuto andare a casa di Sido, casa di Sido è stupenda e c’è il tappeto rosso all’ingresso e lungo tutte le scale, però non posso presentarmi da Sido in queste condizioni. Avrei dovuto andarmene a casa mia, che è congelata e odora di muffa esattamente come qui, ma almeno lì non mi sputtanerei con nessuno.
Arranco sulle scale maledicendo l’assenza di un ascensore, mi aggrappo al corrimano cercando di non scivolare ma ho le dita congelate e non fanno granché presa – peraltro è freddo anche lo stupido metallo, qui. Odio questo posto.
Chakuza mi aspetta sul pianerottolo, ha una mano sulla porta e la tiene aperta mentre si sporge per osservarmi emergere dalla rampa di scale, io lo individuo ed individuo anche una signora avvolta in una vestaglia felpata di un verde smeraldo così brillante che secondo me luccica sul serio, non per colpa della tequila.
- E questo chi sarebbe? – chiede la donna, è quella del citofono.
Chakuza è imbarazzato.
- Non si preoccupi, signora Lotte, è un amico.
- Sono un amico! – confermo annuendo. E tutto all’improvviso vedo il pavimento che si avvicina verso la mia faccia. Così, senza preavviso. Dico, ma dove vive Chakuza? In una casa che si muove per i fatti suoi? Non è una bella cosa.
Mi sento afferrato per le spalle un attimo prima che il pavimento mi dia uno schiaffo e quando sollevo lo sguardo vedo Chakuza che mi fissa allucinato, mentre mi rimette in piedi e cerca la mia vita per stringermi e aiutarmi a camminare.
- Diosanto, ma quanto hai bevuto?! – mi chiede, sconvolto, mentre la signora con la vestaglia fosforescente si rintana preoccupata in casa propria.
- Una birra! – rispondo con un mezzo broncio, nessuno crede che non sono ubriaco, dico, che sta succedendo in questa città?!
Chakuza si chiude la porta alle spalle mentre incespichiamo entrambi su qualcosa che c’è buttato sul suo pavimento, anche se non capisco cos’è… in realtà ci sono tante cose buttate sul suo pavimento, solo che è scuro e non è che riesca ad identificarle proprio tutte… forse quella era una maglietta, comunque. Rido.
- Non sono io che cado, è la tua casa che è piena di trappole, Chakuza! – ha un nome lunghissimo anche lui! Però è spigoloso, il mio è più divertente. – Chakuza, Chakuza… - lo richiamo, a forza di dirlo è carino, - te ne sei mai accorto che ho un nome lunghissimo? – lui mi guarda strano ed io gliene do la prova, - Fleeeer… - cantileno dondolandomi un po’.
- Ma se sono solo quattro lettere… - protesta lui. Evidentemente non sa contare le e! Sono molto deluso, - Cristo, Fler, ma lo sai che ore sono?!
Scrollo le spalle, non ne ho idea.
- Sono le tre del mattino! – mi informa, irritato.
- E tu già facevi la nanna? – lo prendo in giro, mi accorgo solo adesso che ha addosso solo una maglietta e un paio di pantaloncini, non so perché lo trovo divertente. Comunque rido.
Lui arruffa le penne e mi fissa come se mi dovesse rimproverare.
- “Già” è un concetto molto meno relativo di quanto non pensi tu! È oggettivamente tardi!
Mi lascia andare ed io cado su una poltrona. Cioè, prima sbatto col sedere su un bracciolo e poi scivolo con un tonfo sul cuscinone che fa puff e mi scappa un’altra risata perché questa casa sembra viva.
- Parli difficile, Chaku… - borbotto e sbadiglio perché ho sonno. Mi alzo in piedi. – Dov’è il letto?
Lui mi guarda stralunato, tira fuori un paio di occhi enormissimi.
- Il letto?
Mi avvicino e lo fisso male.
- Voglio dormire! – spiego. Perché non mi capisce?! Mi sembra di parlare facile!
- Oh. – prende atto, forse mi ha capito, - Oh, no! – aggiunge, e mi riprende per le spalle, riportandomi indietro neanche fossi un bambino piccolo. E va bene, se vuole che faccia il bambino piccolo farò il bambino piccolo!
Mi metto a piagnucolare.
- Chakuzaaaa… - lui ha un sacco di a. Ma le mie e sono più belle. – Fammi dormire!
- Quello che vuoi, Fler, ma non nel mio letto! – precisa, e mi sa che ha ragione, non si dorme nel letto coi maschi, me lo diceva sempre pure Anis, cioè, me l’ha detto una volta che è rimasto da me per la notte e gli ho detto che se voleva poteva dormire con me, tanto avevo il letto a una piazza e mezzo, ci stavamo, e lui ha riso e ha detto “non ci dormo mica nel letto con un maschio”, ed oggi se fosse vivo mi verrebbe un po’ da tirargli un cazzotto, ad Anis, eh, ma giusto perché è uno stronzo, cioè, era uno stronzo, mica per altro.
Ricado indietro sulla poltrona – sempre prima sul bracciolo, non c’è verso di centrare il cuscino, la bastarda si sposta – e mugolo. Chakuza mi guarda come se avessi le antenne.
- Che vuoi?! – gli tiro dietro un cuscino a caso, lui lo prende in faccia senza muoversi.
- Ma sei la stessa persona con cui ho parlato le altre volte…? – mi chiede sconvolto. Io mi accuccio sulla poltrona.
- No, il gemello cattivo. – rispondo tirando su le gambe, - O buono. Non lo so. A te piacciono i gemelli, eh Chakuuuu? – ha anche un sacco di u.
Scuote la testa e mi sento molto preso in giro, perciò chiudo gli occhi e mi volto dall’altro lato facendomi male ovunque perché la poltrona è dura, accidenti a lei, e proprio mentre sto per addormentarmi mi sento piovere addosso una cosa calda e morbida e apro gli occhi e ci sono cavallucci marini ovunque.
- L’oceano! – rido e batto le mani. Chakuza si è seduto sul divano, volto la testa e lo guardo dal basso verso l’alto, continuando a ridere, - Sono caduto in acqua!
Ride anche Chakuza, e mi dà una pacca sulla fronte.
- Cerca di dormire, sei completamente fuori…
Io annuisco perché, anche se mi tratta come un bambino, è stato tipo un bravo papà. Cioè, io non ce l’ho mai avuto un papà, e quando ho fatto tanto di trovarmene uno ho combinato un disastro, però Chakuza potrebbe essere un bravo papà, forse, ha delle belle coperte morbide con dei disegni carini. Gli dico buonanotte e lo sento ridere ancora prima di tornarsene in camera, e la sua risata un po’ roca è l’ultima cosa che sento e penso che uno a queste cose può anche abituarcisi in fretta.
*
Cristo che mal di testa del cazzo. Io non posso aprire gli occhi, stamattina. Cioè, mi fa male la testa al solo pensiero di aprire gli occhi e fare passare della luce attraverso le palpebre. Già quella che filtra è abbastanza da mandarmi in confusione. Dio mio come mi pulsa il cervello. Cazzo, non ricordo cosa ho bevuto ieri ma deve essere stato qualcosa di davvero disgustoso. Ma davvero tanto.
Faccio per muovere un braccio – non ho ancora aperto gli occhi né intendo farlo a breve – ma lo trovo incastrato. Non capisco cos’è che lo tenga incastrato perché ha perso totalmente sensibilità. Non sono neanche tanto sicuro di avercelo ancora, un fottuto braccio.
Dovrei aprire gli occhi e guardare ma sono terrorizzato dal dolore.
E però a un certo punto sento una risatina provenire da qualche parte alla mia destra e mi spavento al punto che gli occhi li spalanco di scatto.
E morire trafitto da un centinaio di lance sarebbe stato meno doloroso.
- Cristo! – sbotto, e tutto il mio intero corpo scatta e si richiude a riccio. Così scopro che, tanto per cominciare, il mio braccio era incastrato sotto la mia gamba, e non l’ho capito prima perché non è solo il mio braccio ad essere privo di sensibilità, è anche la mia gamba. E probabilmente pure tutto il resto del mio corpo.
Cerco di schermarmi contro la luce del sole che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace e riesco perfino a dimenticare la risata che mi ha tanto spaventato. Solo che poi la risata ritorna.
Ed io mi volto lentamente verso la sua fonte.
E scopro altre due cose: primo, sto su una poltrona. Lo scopro perché, come mi giro, casco sul pavimento. Mi accoglie un tappeto peloso mica tanto pulito, ma almeno morbido.
La seconda cosa che scopro è, appunto, di aver comprato un tappeto peloso e sporco.
In alternativa, questa non è casa mia.
Sollevo lo sguardo e c’è Chakuza – no, dico, Chakuza! – che mi fissa.
Ok.
- Dove sono?
Chakuza ride ancora, ma stavolta non è una risatina, è proprio una risata, allegra, tonante, divertita, mi rimbomba nel cervello con una violenza inaudita ed io mi accoccolo sul tappeto, la testa fra le braccia, piagnucolando disperatamente.
- Cristo, pietà… parla piano… - imploro stremato, tornando a fingermi una palla incosciente mentre Chakuza si piega sulle gambe e molleggia un po’, battendomi un paio di pacche sulle spalle.
- Fleeeeer, - mi chiama divertito, - dovevi svegliarti, prima o poi.
Dolore. Perché strascica così il mio nome? Dio mio.
- Che hai da chiamarmi così? – protesto schiudendo un occhio e cercando di metterlo a fuoco con scarsissimi risultati.
- Fleeeeeer! – ripete lui, e ride ancora, sempre più divertito. Rinuncio a capirci qualcosa.
- Ma dove sono? – chiedo, aggrappandomi alla poltrona e rimettendomi in ginocchio mentre medito sulla possibilità di alzarmi perfino in piedi. Mentre io seguo questo logicissimo processo mentale, Chakuza salta in piedi con l’entusiasmo di un bambino di sei anni che va verso l’albero la mattina di Natale, e si dirige verso la cucina.
- A casa mia, naturalmente. – risponde serafico maneggiando la caffettiera.
- Questo è impossibile. – affermo issandomi sulla poltrona e asciando mici ricadere sopra, esausto, - Io non so dove abiti.
Chakuza ride.
- Sì che lo sai.
- Lo sapevo ma l’ho dimenticato! – cerco di spiegare. Non è facile fargli capire che in questo momento, se lui non avesse ripetuto il mio nome cantilenandolo come un deficiente, non ricorderei nemmeno quello. Che poi, Fler non è il mio nome. Non voglio chiedermi come mi chiamo, ho paura di non avere una risposta da darmi.
Chakuza annuisce e mette la caffettiera sul fuoco, appoggiandosi al cucinino con aria navigata mentre torna a guardarmi.
- Dì un po’, quanto hai bevuto ieri?
Imbarazzato, abbasso lo sguardo.
- …non me lo ricordo. – ammetto in un soffio.
- Hai dimenticato anche questo? – mi prende in giro lui, avvicinandosi e sedendosi sul divano qui accanto. Io non torno a guardarlo. – Seriamente, Fler, questa cosa si ripete spesso? Eri mezzo ubriaco pure la prima volta che sei venuto qui, ti ho dovuto riportare in te a cazzotti-
- Tu non mi hai preso a cazzotti per riportarmi in me, la prima volta che sono venuto a casa tua. – preciso con una smorfia colma di disappunto, tornando finalmente a guardarlo. Lo trovo che mi sorride tranquillo. - …succede ogni tanto, comunque. – mi ritrovo controvoglia a rispondere, con un sospiro.
Chakuza annuisce con competenza e mi guarda con compassione.
- Non ti sei ancora ripreso da- - fa per chiedermi, ma non intendo sostenere questa discussione, visto che so già dove va a parare, perciò mi alzo in piedi e combatto contro la mia debolezza, contro il dopo sbornia ed anche contro la forza di gravità per restarci, dritto come sono, e lo guardo dall’alto in basso.
- Non ti preoccupare per me. – ringhio infastidito, - Sono perfettamente in grado di badare a me stesso.
Chakuza inarca le sopracciglia e si solleva a fronteggiarmi da una posizione di svantaggio minore.
- Fler, tu non puoi presentarti a casa mia alle tre del mattino svegliando tutto il palazzo, crollare sulla mia poltrona, svenire, dormire dodici ore e poi dirmi che sei perfettamente in grado di badare a te stesso! È palese che non lo sei!
- L’alcool non mi ha ucciso in ventisei anni, dubito fortemente che comincerà a farlo adesso! – ribatto con veemenza, ed al momento non mi interessa se il discorso in sé non ha senso. Voglio solo ingannare il tempo mentre aspetto che il caffè sia pronto, poi scroccargli una doccia, magari, e tornarmene a casa, riprendere possesso dei miei spazi e fare finta che tutto questo non sia mai avvenuto.
E, già da stasera, ricominciare a sbronzarmi perché non so cosa farmene di me stesso ora che la mia ossessione è morta.
- Fler, potrebbe succederti di tutto! Potresti svenire per strada o sentirti male, che cazzo, vuoi proprio rimetterci la pelle?! – si infuria lui, dirigendosi a grandi passi verso la cucina e spegnendo il fornello per versare il caffè in due tazzine, - Cerca di volerti un po’ bene, Cristo, piantala di bere.
- Ma tu sei un rapper o una suora di carità? – mi lamento avvicinandomi a mia volta ed allungando una mano. Lui mi porge la tazzina senza che neanche io abbia bisogno di chiedergliela. – Grazie.
- Smetterai di bere? – mi chiede lui, invece di rispondere un più che adeguato “prego”.
- Non sei mica il mio frate confessore, eh. – protesto, - Anzi, per la verità non ti ho confessato proprio nulla, stai facendo tutto da solo.
Lui incrocia le braccia sul petto e non beve il suo caffè. Cerco di capire a cosa gli serva l’altra tazzina, ma avviene tutto molto naturalmente quando poso sul ripiano la mia ormai vuota, allungo di nuovo la mano e lui me la porge. Ecco a cosa serviva l’altra, penso, buttandone giù il contenuto amarognolo.
Torno a guardarlo. Adesso almeno sono sveglio.
- Posso farmi una doccia? – chiedo titubante. La domanda successiva è “mi presti qualcosa di pulito da indossare?” e non so perché la cosa mi manda nel panico.
- Intanto puoi dirmi che smetterai di bere. – insiste lui, fissandomi deciso.
- Sì, ma io non voglio dirtelo. – cerco di fargli capire, e quasi mi viene voglia di ticchettargli con le nocche sulla testa per vedere se si sente l’eco del vuoto. – Perché io non voglio smettere di bere.
- Stai facendo il bambino. – mi fa notare lui mentre io roteo gli occhi disapprovando ogni attimo di questa conversazione.
- Veramente, sto solo facendo quello che mi pare e piace. – correggo in uno sbuffo.
- Appunto. – annuisce lui con aria critica, - Fler, hai promesso che mi avresti aiutato a proteggere Bill.
Sibilo fra i denti, infastidito. Era proprio necessario andare a battere sui sensi di colpa? Come fossi un uomo sereno e rilassato, io. Come se mi servisse, tanto per cominciare, mettermi al servizio di un ragazzino che palesemente sta in un posto in cui non dovrebbe stare.
Poi ricordo che sì, mi serve, perché devo chiedere scusa a Bushido, in qualche modo. E questo è l’unico modo.
- Posso farmi una doccia? – ripeto, passandomi una mano sugli occhi.
- Smetti di bere o no?! – ritorce lui, un po’ indispettito, piantandosi mani sui fianchi fra me e il bagno.
- D’accordo, d’accordo! – concedo senza neanche rendermene conto davvero. Voglio solo farmi scorrere addosso un po’ d’acqua calda e tornarmene a casa, penso che direi di sì pure se mi chiedesse di vendergli mia madre per tenersela in salotto come scultura vivente. – Ora posso farmi una doccia?!
Chakuza sorride trionfante.
- Domani sera alle nove. – risponde.
Io lo fisso.
- Devo aspettare domani sera alle nove per farmi una doccia? – chiedo stupito, - E intendi tenermi qui per tutto il tempo?
Chakuza ride e mi tira una pacca sulla spalla. Io potrei anche morire, sento l’eco di quel ciaff in tutto il corpo.
- Domani sera alle nove ti voglio qui a rapporto per farmi vedere che non hai bevuto, Fler. – precisa bonario, - La doccia puoi anche farla ora.
Continuo a fissarlo.
- Come, scusa?
Chakuza annuisce come a rassicurarmi sulla perfetta normalità di ciò che ha detto. Potrei essere d’accordo, se non avesse appena deciso di essere il mio babysitter o qualcosa del genere.
- Hai detto che smetterai di bere, ma non pretenderai mica che ti creda sulla parola. – mi spiega.
- Cioè, cazzo, - sbotto io, allucinato, - mi stai chiedendo più garanzie ora per questa cazzata che non quando ti ho detto di credermi sulla mia innocenza per l’omicidio di Bushido! Hai qualcosa che non va nella testa, tu!
Scrolla le spalle.
- Be’, allora si trattava di una persona già morta. – illustra tranquillo, facendomi strada verso il bagno, - Potevo fidarmi o non fidarmi ma non sarebbe cambiato poi molto. Adesso invece si tratta di te che sei vivo. – sorride, - Quindi, fidarmi o non fidarmi può cambiare un sacco di cose.
Rimango un attimino a fissarlo imbambolato, lo ammetto.
Poi scoppio a ridere e neanche il mal di testa può fermarmi.
- Verrà fuori che sei vegano ed iscritto al movimento per la difesa dei diritti delle donne, io lo so. – lo prendo in giro, piegandomi un po’ sulle ginocchia perché questa risata è soddisfacente ma mi sta sfiancando. – Senti, ce l’hai qualcosa da prestarmi? – chiedo, decisamente più rilassato, mentre lo osservo distogliere lo sguardo imbarazzato. Scommetto che pensava di fare il gran figo, dicendo quella cosa prima. È quasi tenero. – Questi vestiti puzzano ed ho bisogno di un cambio, dopo la doccia. Prometto che poi ti riporto tutto lavato.
Chakuza borbotta qualcosa di indefinito mentre scompare in camera da letto e ne riesce qualche secondo dopo con un paio di asciugamani, una maglietta, un paio di pantaloni, dei calzini e dei boxer.
- Mai prestato roba mia ad un altro essere umano. – ci tiene a precisare porgendomi il tutto, - Ritieniti onorato. E appena domani ti presenti qui sbronzo, ti prendo a cazzotti. Di nuovo.
Rido e m’infilo in bagno senza una parola di più.
*
Aaah, non ricordo cosa ho bevuto. Mi irrita, questa cosa, a me piace fare la conta delle cose che ho bevuto, quando faccio la conta delle cose che ho bevuto vuol dire che riesco ancora a ricordarmele e quindi forse alla fine non ne ho bevute poi così tante, solo un pochino. E invece non riesco a fare la conta quindi mi sa che ho bevuto un tantino troppo.
Però sono in orario! Controllo di nuovo l’orologio al polso, le lancette sono un po’ sfocate però le vedo! La lunga fa “meno cinque”, la corta fa “nove” ed io ho ben cinque minuti per attraversare la strada, raggiungere l’altro marciapiedi e ricordare a che altezza sta il pulsante del citofono di Chakuza! Che si chiama Pangerl. Oggi me lo ricordo! Forse non sono poi così tanto ubriaco!
…o forse sì, l’asfalto è troppo vicino alla mia faccia e mi sa che non è la città che si muove, sono io che cado. Mi sa che non era nemmeno la casa di Chakuza che si muoveva ieri. Ero sempre io che cadevo.
Pianto le mani per terra e mi tiro in piedi mugugnando, c’è la gente intorno che mi dice cose ma io non le capisco. Faccio per guardare una signorina e chiederle cosa c’è, mica sto male!, però la tipa scappa via. Mi offendo, non sono abituato ad avere questo effetto sulle donne.
Attraverso la strada con le macchine che mi sfiorano, fanno woosh passandomi accanto, ed arrivo fino al citofono, suono a caso e mi risponde la vecchina di ieri.
- Chi è? – chiede ed io sospiro, il citofono di Chakuza non lo beccherò mai al primo colpo, è una maledizione.
- Sono Fler… - rispondo direttamente a lei, e mi aspetto un sacco di parolacce, perciò mi appoggio al portone in attesa della sfuriata e mi stupisco non poco quando invece sento solo un sospiro ed il clack della serratura. Comunque non ho tempo di stupirmi troppo, perché la porta si spalanca sotto il mio peso ed io rotolo indietro e faccio una mezza capriola sul pavimento.
Faccio per alzarmi ma ricado seduto. Mi sa che ho bevuto veramente troppo. Sto peggio di ieri. Chakuza si arrabbierà.
Nel frattempo, sopra la mia testa, sento il suono di una porta che si apre e di ciabatte che battono sulle mattonelle ed immagino la signora Lotte che bussa all’appartamento di Chakuza per dirgli che ha visite, ed in effetti poi sento l’eco di un campanello ed un’altra porta che si apre e c’è la voce cupa di Chakuza che probabilmente si aspettava la mia faccia, visto che sono le nove, ed invece vede quella della sua vicina di casa.
- Sono qua sotto… - lo informo, lui mi sente, io sollevo lo sguardo e lo vedo che si affaccia sulla tromba delle scale e mi guarda, sconvolto.
- Fler?
- Non ce la faccio ad alzarmi in piedi… - e sto un po’ piagnucolando perché mi dispiace dare spettacolo così.
Lo sento sospirare – l’eco amplifica pure il sospiro, è molto fastidioso – e poi scende giù per le scale e lo sento che mi afferra da dietro, sotto le ascelle, e mi tira in piedi di peso.
- Ma si può sapere come cazzo hai fatto, Fler? Sono le nove!
Mugolo mentre lui si fa passare un mio braccio sopra le spalle e mi regge con una mano per il polso e con l’altra per la vita, stringendo forte così che non possa cadere ancora.
- Mi sono portato avanti col lavoro… - biascico sperando di suonare divertente.
- Il che vuol dire che già alle sei eri in giro a bere, stronzo? – sbotta lui aiutandomi a salire le scale.
- Alle cinque. – preciso ridendo, - Se cominciavo alle sei non ce la facevo.
- Sei proprio uno stronzo. – la sua voce è cupissima e mi fa un po’ paura. Mi sa che si è arrabbiato davvero. – Avevi promesso.
- Io volevo solo farmi una doccia… - protesto, e manco il gradino successivo. Già mi vedo sbattere la faccia contro lo spigolo e svenire, però Chakuza è forte, stringe il braccio e mi tiene strettissimo, perciò invece di cadere in avanti mi sento tirato su e gli sbatto contro. Solo che non sono esattamente un fuscello, perciò lui finisce pressato contro la ringhiera ed io mi schiaccio contro di lui e decido che è comodo, perciò mi lascio andare e mi appoggio.
- Fler, Cristo santo! – si lamenta lui, cercando di rimettermi dritto, - Avanti, spostati!
- Ho sonno… - vorrei dirgli che è comodo, è per questo che mi addormenterei bene qui, però non trovo le parole, e poi mi sa che qualsiasi cosa, detta in questa situazione, suonerebbe tremendamente gay, che è una cosa che vorrei evitare, perciò non dico altro e mi appoggio meglio.
Lui tira fuori un tono paziente che mi intenerisce.
- Siamo quasi arrivati e poi dormi, ok? Un ultimo sforzo.
Mugolo un assenso e provo a rimettermi dritto. In realtà non ci riesco perché sto veramente crollando di sonno, perciò mi rimette dritto Chakuza e non so, per quanto mi riguarda potrebbe anche muovermi le gambe come un burattinaio per farmi arrivare fino al suo appartamento. Non ho la forza. Dio mio, non berrò mai più così, lo giuro.
Riprendo un po’ conoscenza solo quando sento aleggiarmi sotto il naso l’aroma familiare del caffè. Apro gli occhi e mi accorgo che sto sulla poltrona di Chakuza e lui sta in piedi davanti a me e mi porge una tazzina piena di caffè fino all’orlo. Ho la sensazione che, se non avesse pensato che una dose del genere potesse uccidermi, me ne avrebbe rifilato un bricco intero.
- Non lo voglio… - mi lamento voltandomi di scatto, ho la nausea.
- Tu lo prendi e cerchi di darti una sistemata. – ordina lui, afferrandomi per il mento e riportando i miei occhi su di sé. – Non ricominciare a fare il bambino. Hai quasi trent’anni.
- Anche tu! – protesto offeso. Io non sono vecchio.
- Sì, e infatti mi comporto come tale! Avanti, Fler! – e spinge la tazzina in avanti.
- Okay, okay… - borbotto io, la prendo fra le mani, cosa pure piacevole, perché è calda ed io ho le dita freddissime, e butto giù tutto in un sorso.
Il secondo successivo sono piegato in avanti e sto vomitando come non mi capitava da anni. Come avessi bevuto litri d’alcool, cazzo. Addosso a Chakuza.
- Fler! – è sconvolto e schifato, io comincio ad andare nel panico perché so già che quando l’alcool sarà tutto uscito dal mio corpo vedrò questa situazione con occhi completamente diversi e non mi verrà più tanto da ridere. Odio tornare sobrio. – Fler, cazzo!
Non riesco a fermarmi, mi piego ancora e sto per cadere a terra, sollevo un braccio e mi aggrappo alla sua spalla col terrore che mi prenderà per la mano, mi staccherà da sé e mi lascerà cadere a terra nel mio vomito, ma non lo fa. Posa una mano sulla mia e mi tiene ancorato alla sua spalla in quel modo, mentre con l’altra mano mi regge per il collo.
E se ne frega bellamente se gli sto vomitando addosso, se gli sto sporcando casa, se sto sporcando lui.
Tossisco un po’ e sputo per terra – tanto, peggio di così… - e penso che potrebbe anche lasciarmi andare, a questo punto, non rischio più niente. Ed invece continua a tenermi.
- Stai meglio? – chiede, e non è sarcastico. Cioè, non è come stesse cercando di dirmi “ora che ti sei svuotato sul mio tappeto va meglio, eh?”. È più come si fosse preoccupato davvero.
Annuisco impercettibilmente, con gli occhi chiusi. Mi fa male la testa.
Chakuza si alza in piedi e mi tira con sé, io apro gli occhi e vedo che gli ho veramente sporcato tutta la maglietta ed anche buona parte dei pantaloni. Cristo. Non facevo così neanche a sedici anni. Ma cosa cazzo mi sta succedendo?
- Vieni, ti aiuto a pulirti un po’… - sussurra, accarezzandomi lentamente il collo, che peraltro mi fa un male cane. Ci sa fare con gli ubriachi. O con le persone in generale, forse, non lo so.
Arriviamo in bagno e lui mi fa sedere sul coperchio del water.
- Togliti quella maglietta, avanti. – mi incita mentre apre il rubinetto del lavandino e miscela l’acqua. Vede che io non mi muovo e continuo a fissare il vuoto perciò sospira e mi viene vicino, togliendosi la maglietta lurida e ripetendo lo stesso gesto anche con me. – Coraggio, alzati in piedi, ti aiuto a lavarti. – sbotta, - Cristo, sei in condizioni pietose.
Mi sollevo appoggiandomi al lavandino e cado sopra Chakuza. Sbattiamo l’uno contro l’altro ed io sono congelato e lui è caldissimo, vorrei stargli un po’ più vicino ma non sono più nemmeno tanto ubriaco da concedermi una cosa simile. Mi rimetto dritto con un lamento, Chakuza mi fa passare un braccio attorno alla vita e mi tira vicino.
- Se stai a tre metri non posso lavarti. – spiega ficcando una mano sotto il getto d’acqua.
Poi fa esattamente come faceva mia madre quando mi sporcavo col cioccolato, da piccolo. Mi lava con una certa ruvida tenerezza bonaria, sospirando esattamente come un genitore. Il sapone profuma di lavanda e la sua mano un po’ ruvida mi passa sulla faccia, sul collo, sul petto. Mi riscalda e lava via lo schifo che mi sono gettato addosso.
Quando finisce, mi accompagna direttamente in camera da letto. Io non ho il coraggio di dire niente, non riesco nemmeno a sollevargli gli occhi addosso, mi sento davvero in difetto come un bambino piccolo. È irritante che mi faccia quest’effetto, non è davvero così tanto più grande di me. Questo rapporto dovrebbe essere più equilibrato.
Poi realizzo che questo non è un rapporto. Lo realizzo nel momento esatto in cui Chakuza mi sistema sul letto e mi dice di dormire un po’ e che domattina mi farà una paternale tale da farmi dimenticare perfino come mi chiamo. Socchiudo gli occhi sulla sua figura che si allontana e lo vedo ripassare davanti alla porta con un secchio ed un mocio in mano solo qualche minuto dopo. Mi addormento col suono consolante dello straccio che strofina con forza il pavimento. Mi sembra di avere di nuovo tredici anni. La sensazione non è completamente spiacevole.
*
Alla fine, quella mattina non mi ha rimproverato. Mi sono svegliato in un casino di lenzuola e l’ho trovato che dormiva accucciato sul divano, con il viso completamente affondato in un cuscino rovinatissimo. Mi è venuto da sorridere ed ho fatto un po’ come fossi a casa mia, nel senso che ero completamente sobrio e pure tanto in imbarazzo, visto che gli avevo praticamente rubato il letto da sotto il culo, perciò sono andato in cucina ed ho preparato il caffè. Quando lui ha aperto gli occhi mi ha trovato appollaiato su uno degli sgabelli attorno all’isola con una tazzina in una mano e l’altra mano sollevata a metà in un saluto. Per prima cosa, ho chiesto scusa. Quindi lui ha scosso il capo e si è alzato, ha chiesto un po’ di caffè ed ha detto “okay. Però stasera alle nove sei di nuovo qui”.
Un po’ mi scazza esserci sì, di nuovo qui, ma anche di nuovo ubriaco. Mi scazza perché non sono ubriaco come le altre volte – al secondo scotch qualcosa dentro di me ha detto “no” e non voglio pensare a quanto somigliasse alla voce di Chakuza – e se fossi almeno seriamente ubriaco tutto questo, adesso, sarebbe più facile. E invece sto qui, meno incosciente del solito, arrotolato sulla poltrona mentre Chakuza mi fissa con aria di disapprovazione dietro le braccia incrociate sul petto.
- Non sono ubriaco. – borbotto confusamente, abbassando lo sguardo.
- Ti puzza l’alito a chilometri, Fler. – mi fa notare serio.
- Sono solo un po’ brillo. – nego, tirando su le gambe sulla poltrona.
Lui si china su di me e mi inchioda con le mani alla spalliera, così che sono costretto a sollevare gli occhi e guardarlo.
- Tu l’alcool non lo devi toccare più neanche con un dito, Fler, hai capito? E non perché ti fa male e nemmeno perché in queste condizioni sei inutile, ma perché te l’ho chiesto io e tu hai promesso. Ti fai sempre grande con le questioni di onore ed onestà, quando canti, e poi con me ti comporti così.
Mentre mi rimprovera, penso distratto che Chakuza sa perfettamente che sono meno ubriaco del solito, altrimenti non mi starebbe facendo questo discorso. Non mi parla, se non è certo che io capisca alla perfezione ciò che mi sta dicendo.
Potrebbe almeno apprezzare la buona volontà, mi dico. E poi però ricordo che non c’è nessuna buona volontà dietro al mio essere meno sbronzo: solo la sua voce che mi minaccia e l’immagine tremenda di me stesso che vomita su di lui, sul suo tappeto e sul suo pavimento e che poi, per questo, finisce a dormire nel suo letto.
- Insomma, che cazzo. Mi sembrava di parlare con un adulto, ma sei un ragazzino. – continua lui, ed io torno ad abbassare lo sguardo, ma solo per un secondo: poi mi afferra per il mento e mi tira di nuovo su. – E guardami, quando ti parlo. Guarda che io ho davvero bisogno del tuo aiuto, ma non me ne faccio niente di uno in queste condizioni, d’accordo? Sei inutile.
Mi lascia andare, io torno a guardare in basso con un mugolio di dolore e lui si allontana di qualche passo.
- Se domani devi presentarti di nuovo così, Fler, risparmiati di venire. – annuncia, tirandomi addosso la coperta coi cavallucci marini che è andato a prendere in camera prima di cominciare la paternale. Mi lascia solo il secondo dopo ed io resto lì con la coperta piegata fra le mani. E non ho proprio nessuna voglia di dormire.
*
Lo fisso. Lui mi fissa.
Lo facciamo per un sacco di tempo ed alle mie spalle c’è la signora Lotte che fissa entrambi come fossimo due creature molto strane.
È uscita fuori perché, appena sono arrivato – in ritardo di dieci minuti – ho citofonato a Chakuza e lui mi ha strillato in testa che ero in fottuto ritardo e che per quanto gli interessava potevo pure andarmi a sfondare di tequila per tutto il resto della notte, com’era sicuro avessi fatto fino a quel momento, altrimenti sarei stato in orario. Poi mi ha chiuso il citofono in faccia.
A quel punto, ho citofonato alla signora Lotte ed il dialogo seguente s’è svolto più o meno in questi termini: “Signora Lotte? Sono Fler. Le dispiacerebbe cortesemente aprirmi? Ho litigato con Peter e vorrei risolvere la questione, ma lui non mi lascia entrare.” Silenzio allucinato. “…d’accordo, caro. Entra pure.” Tutto qui.
Quando sono arrivato davanti alla porta lui ha aperto già sul piede di guerra – probabilmente aveva immaginato avessi corrotto qualcuno pur di salire – e si è ritrovato me a fissarlo come sto facendo adesso. Cioè serio e perfettamente lucido. È per questo che anche lui, in questo momento, mi sta fissando.
- …non sei ubriaco. – commenta sinceramente stupito, una mano sullo stipite della porta, l’altra a ciondolare inerme lungo il fianco.
Sorrido trionfante.
- Oggi neanche un goccio. – rispondo tranquillo, - Me la offri tu una birra?
Scoppia a ridere all’improvviso, ed io lo imito poco dopo. Mi trascina dentro continuando a ridere e, fra una pacca sulla spalla e l’altra, mi dico che forse un rapporto c’è. Di quest’uomo posso fidarmi.

*

Non vedo Bill da tre giorni. Da quando ha stretto le chiavi nel pugno ed è andato via dopo avermi fermato, dopo averci fermati, non l’ho più visto né sentito. Sono state settantadue ore di assenza e non mi è mai successo di sentire così tanto la mancanza di qualcuno in vita mia. L’assenza di Bill sa di qualcosa di incompleto. C’era qualcosa, c’era qualcosa che si stava muovendo e che si stava creando e mi è veramente difficile accettare questo pensiero. Ma è molto più difficile accettare che invece possa all’improvviso non esistere più nulla solo perché…
…ho messo le mani dove non dovevo. Ho dannatamente messo le mani dove non dovevo. Cristo.
Questo pensiero non mi dà pace.
- Insomma, non ne posso più, non so perché le ho dato il numero di telefono ma mi sa che adesso mi toccherà cambiarlo perché chiama cinquemila volte al giorno. Mi sono rotto.
Fler sta parlando a macchinetta da circa un quarto d’ora ed io non faccio che pensare che a questa casa manca il chiacchiericcio infinito di Bill. Che manca a me. Che la voce di Fler non è la stessa, non ha gli stessi toni né gli stessi colori, non ha lo stesso entusiasmo e non raggiunge gli stessi picchi di dolcezza quando invece è triste. Per la verità non riesco a riconoscere proprio un cazzo, nella voce di Fler. E invece mi infastidisce da morire che sia quella che ho sentito più spesso, negli ultimi tre giorni, perché davvero, Fler non ne ha saltato uno: è venuto ogni santa sera da quando sono tornato a casa.
- Mhmh. – grugnisco in risposta, perché comunque sentirlo parlare è sempre meglio che sentire silenzio.
- Davvero, se avessi saputo che finiva così avrei dormito in un angolo per strada. – continua a borbottare lui, irritatissimo dal fatto che l’infermiera che ha rimorchiato mentre stavo in ospedale continui a non lasciarlo in pace. Non capisco cos’abbia Fler per la testa: la tipa è chiaramente interessata, lui non se la sarebbe scopata se non lo fosse stato a propria volta… perché non si rilassa e fa come farebbe un qualsiasi altro uomo normale al suo posto?
- Così invece di prenderti il raffreddore avresti preso una polmonite coi controfiocchi, Fler. – gli faccio notare distrattamente, - Ed ora non saresti qui a lamentarti.
- E sarebbe stato meglio! – sbotta lui, fissandomi malissimo. Mi viene un po’ da ridere perché Fler quando vuole sa tirare fuori degli occhi cattivissimi, ma in questo momento sta solo facendo il buffone. È facile vedere quando si arrabbia, gli si oscurano gli occhi. Adesso invece sono di un celeste purissimo e brillano, quindi non è arrabbiato. Non so, quando fa discorsi come questo – quando borbotta contro le stupidaggini – mi sembra sempre che voglia sentirsi solo dire “sì, piccolo, hai ragione”. Come non gliel’avessero detto abbastanza quando piccolo lo era davvero.
In realtà comunque non ho una cazzo di voglia di ridere. In genere le cavolate di Fler mi aiutano un sacco – se non altro perché ne ha sempre una riserva infinita da tirare fuori all’occorrenza – ma stasera sono irritato e di ridere proprio non mi va.
- Ti va una birra? – gli chiedo alzandomi in piedi e dirigendomi verso la cucina senza neanche aspettare la sua risposta.
- Oh, sì, grazie. – risponde comunque lui, annuendo, - In ogni caso se chiama di nuovo giuro che la mando a fanculo. Mi sei testimone tu!
- Sì, Fler, naturalmente. – sospiro annoiato, recuperando le due birre dal frigo e tornando di là per consegnargli la sua.
Fler la prende fra le mani e mi fissa con un broncio amareggiato, stendendosi un po’ contro lo schienale del divano.
- Certo che sei proprio una merda, quando ti ci metti, tu. – commenta con rabbia, attaccandosi alla bottiglia, scazzato.
Io spalanco gli occhi e mi lascio ricadere al suo fianco, fissandolo sgomento.
- Come, scusa?
Scrolla le spalle e posa la birra sul tavolino.
- È da quando sono arrivato che rispondi a monosillabi e grugniti. E quando le tue risposte superano le due sillabe, allora sono acide o comunque si capisce che non te ne frega un cazzo di quello che sto dicendo. – apro la bocca per negare e lui mi ferma con un’occhiataccia, di quelle vere, però, - E non provare a dire di no perché ti prendo a cazzotti!
Poso anche io la bottiglia ed incrocio le braccia sul petto.
- Non è vero! – e un po’ lo sto sfidando. Perché lo so che è vero.
Fler mi guarda per un secondo come volesse staccarmi la testa. Poi guarda altrove e dice una cosa che mi terrorizza. E che mi fa incazzare. Ed un altro milione di cose.
- Non hai visto Bill, oggi, eh?
Lo dice così. Come se sapesse perfettamente l’importanza che ha. Lo dice esattamente con l’importanza che merita. Perdo un respiro e poi due e poi tre ed alla fine mi rendo conto che mi sto impedendo di respirare perché ho paura di cosa mi potrebbe uscire dalla bocca se lo facessi. Sicuramente urlerei. Sicuramente ci andrebbe di mezzo Fler. Insomma, tutte cose che non ho il diritto di far accadere.
- Che cazzo intendi dire? – ritorco con ansia. E so che è la cosa peggiore potessi dire in assoluto, so che suona come una dannata ammissione quando non dovrei sentirmi in diritto neanche di ventilare l’ipotesi, ma al momento non mi interessa.
Fler scrolla le spalle e continua a non guardarmi.
- Niente. – risponde in un soffio, - Ipotizzavo.
- Ipotizzavi cosa, esattamente? – insisto.
Lui torna a guardarmi e lo fa con la stessa rabbia di prima.
- Secondo te sono un deficiente, Chakuza? O un cieco? Che cazzo. Non trattarmi come un bambino.
- Abbiamo già discusso di questo tempo fa. – rispondo con un ghigno incattivito, - Ed abbiamo stabilito che sei un bambino, perché ti comporti come tale. Anche adesso, - spiego con presunzione, - lanci il sasso e nascondi la mano. Butti lì l’insinuazione ma non mi spieghi cosa cazzo ti gira in testa. Dovrei trattarti come un adulto?
Lui volta di nuovo lo sguardo e non c’è verso di tirargli qualcosa fuori dalla bocca.
- Fler? – lo chiamo, già irritato, - Fler!
Stringe le labbra e continua a non guardarmi.
- D’accordo! – sbotto, tirandomi in piedi, - Fai il cazzo che vuoi, continua pure a pensare tutte le cazzate che preferisci-
- Cazzate, eh? – mi interrompe lui con un sorrisino strafottente, - Dio, odio quando mi si prende per il culo!
- Stai rompendo i coglioni, Fler! – gli urlo contro, combattendo l’impulso di buttarlo fuori di qui a calci, - E piantala di rispondere solo quando ti conviene! Sei un cazzo di ragazzino impossibile!
- Non sono un ragazzino! – si alza in piedi da solo, fronteggiandomi direttamente, - E tu sei un vigliacco, Chakuza!
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro la parete, che è molto più vicina di quanto non pensassi. Fler non se l’aspetta, perciò spalanca gli occhi e batte con forza, aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro per il dolore e poi fatica un po’ a rimettersi in piedi da solo. Si appoggia con falsa casualità al muro, come non avesse bisogno di alcun supporto per stare dritto e invece ne ha bisogno eccome.
Mi fissa stordito, apre la bocca, so che – cazzo – sta per dire qualcosa e non ho alcuna intenzione di starlo a sentire. È solo per questo che lo afferro di nuovo per la stessa spalla di prima e lo trascino un po’ indietro, prima di spingere con forza ed obbligarlo a rovinare a terra, in ginocchio.
Batte sul pavimento, posso vedere il brivido di dolore correre lungo tutto il suo corpo, lo sento sotto il palmo della mano mentre stringo le dita attorno al suo braccio per torcerglielo dietro la schiena.
- Fanculo. – ringhia lui, fissandomi di sbieco mentre si piega in avanti per assecondare quanto più può il movimento innaturale del braccio, - Se devi pestarmi non fare tante cerimonie.
Non so se voglio pestarlo. So che voglio farlo stare zitto. So che mi dà fastidio che abbia parlato di Bill perché continuo a pensare che Bill dovrebbe essere una cosa mia e so che invece non lo è. E non lo sarebbe neanche se stessimo insieme. E non lo saremmo stati neanche se l’altro giorno mi avesse lasciato continuare, cazzo.
So che, merda, io lo volevo davvero. So che lo voglio davvero. So che mi sta montando una rabbia incredibile e che si sta traducendo in un desiderio indecente perché Fler è qui, arreso sotto le mie dita, e se stringo ancora un po’ posso fargli abbastanza male da farlo urlare.
Voglio sentirlo urlare.
Stringo e ruoto il polso. La spalla di Fler scricchiola un po’ e, come previsto, lui urla. Urla e si piega in avanti, sfiorando con la fronte il pavimento ghiacciato e digrignando i denti.
- Cristo, Chakuza! – ringhia furioso, - Cazzo, lasciami!
Ma non lo lascio. Mi schiaccio contro di lui perché mi piace questa posizione di vantaggio. Mi piace sentirlo debole e mi piace sapere che un minuscolo movimento del mio corpo basta a mandarlo fuori di sé dal dolore. Mi piace perché a Bill basta sbattere le ciglia per mandarmi fuori di me dal dolore. Gli basta respirare. Gli basta esistere, cazzo. Voglio anche io questo potere. Mi piace questo potere. Mi piace anche troppo, lo percepisco io e lo percepisce Fler che, quando sente la mia erezione premere contro la sua gamba, spalanca gli occhi e si irrigidisce, ma non dice una parola.
È una realizzazione improvvisa e un po’ assurda, ma so anche che è assolutamente vero: Fler non dice niente. Fler non dirà niente in ogni caso. Non so se sia sconvolto da ciò che sta succedendo o se dietro questo silenzioso assenso ci sia dell’altro, francamente in questo momento non mi interessa. Fingo di non prendere atto della sua eccitazione mentre lo lascio andare – il suo braccio batte sul pavimento e lui lo usa per tenersi dritto quando riesce a recuperare sensibilità, ma non combatte, non si oppone, non fa nulla – e gli sfibbio la cintura, sfilandola dai passanti dei jeans e lanciandola lontano. Fa un rumore assordante mentre striscia sul pavimento e va a incagliarsi contro la parete qualche metro più in là.
Sbottono i jeans e mi fermo un secondo. Mi sembra impossibile che non cominci a protestare. Ma non comincia, cazzo. È assurdo. D’un tratto mi viene da ridere se penso che fino a mezz’ora fa mi stavo chiedendo cosa ci fosse di strano nella sua testa, per portarlo a rifiutare così l’infermiera che gli muore dietro. Ora mi sa che lo capisco cosa c’è.
Lo vedo che stringe i pugni sul tappeto e socchiude gli occhi. Trattiene il respiro, in attesa. Mi sembra assurdo continuare a stare qui a tergiversare. Cazzo, non posso credere di stare facendo una cosa simile. Tiro giù jeans e boxer tutti assieme, incontro la resistenza della sua erezione e la ignoro ancora, gli faccio male, è palese nel suo ringhio frustrato, ma lui continua a non protestare e questo è assurdo ed eccitante allo stesso tempo. Lo lascio un attimo, non mi chiedo neanche se scapperà, so che non lo farà. Sbottono i miei jeans, mi libero di qualsiasi impedimento ancora esista fra me e lui e poi mi prendo un secondo – solo un fottuto secondo – per darmi ripetutamente del coglione.
È solo un fottuto secondo – e subito dopo spingo e mi dibatto per entrare dentro di lui.
È stretto e chiuso e non dovrei davvero poter entrare qua dentro. Mi chiedo se con Bill sarebbe lo stesso. Se sarebbe la stessa sensazione. Se urlerebbe come sta urlando adesso Fler.
Se sarei così violento, così impaziente, così sconsiderato anche con lui.
Se non baderei alle protezioni, con lui, se me ne fregherei di fargli male.
Mi chiedo se sia un problema del sesso, che faccia così schifo e sia così dannatamente appagante – mentre scavo a fondo nel corpo di Fler, mi ci ricavo un posto e comincio a spingere e lo sento stridere e fremere sotto le mie mani mentre lancia lamenti di cui non capisco il senso e che mi fanno rabbrividire fin dentro allo stomaco. Lo afferro per i fianchi per tenerlo fermo, perché voglio arrivare fino in fondo, perché Dio, la sensazione di calore umido attorno al mio cazzo è veramente irresistibile, e mi rendo conto che sto ansimando e che mi sta piacendo, e vorrei prendermi a cazzotti da solo, vorrei che me li desse anche Fler, i cazzotti, vorrei che si alzasse e se ne andasse ma non lo fa, non dà neanche cenno di volerlo fare. Tutto ciò che fa è chiudere gli occhi e stringere con più forza il tappeto. Non si tocca. Non fa niente. Rimane qui e, cazzo, si fa violentare. Si fa violentare, cazzo.
Mi spingo forte dentro di lui devastandolo fino all’ultimo centimetro e lo sento che si apre sotto di me. È una sensazione di potenza incredibile. È una sensazione meravigliosa, potrei non saziarmene mai. Mi piego sulla sua schiena con un grugnito e lo tengo stretto per la vita mentre vengo dentro di lui e lo sento che sibila di dolore e fastidio, perciò presso con più forza, fino a zittire perfino i lamenti, perché adesso non voglio sentire più niente.
Lo lascio andare solo quando sono certo di essermi del tutto svuotato. Scivolo fuori da lui e resto in ginocchio sui talloni, mentre lui crolla a terra, sfatto ed esausto, distrutto. Si trascina sul tappeto perché il suo corpo è per metà sul pavimento ed immagino senta freddo. Lo vedo strisciare e poi girarsi a pancia in su, una mano sugli occhi, la traccia delle lacrime evidente sulle guance. Distolgo lo sguardo perché non la reggo, questa vista. Il pensiero di essere stato io a ridurlo così è straziante. Non ne avevo alcun diritto.
Cerco di respirare.
- Fler… - lo chiamo debolmente.
- Sta’ zitto. – risponde lui in un rantolo arreso. Non ha neanche la forza di ricoprirsi. Cristo. Cosa ho fatto?
Mi rivesto velocemente mentre lui si asciuga stremato il viso. Quando toglie la mano vedo che ha gli occhi rossissimi. Mi fissa senza parlare. Non riesco a capire cos’è che vorrebbe dirmi e questo mi spaventa.
- Come ti-
- Una merda. – risponde senza neanche farmi finire la domanda, - Tu come cazzo ti sentiresti, Chakuza?
Mi mordo un labbro e mi muovo sulle ginocchia verso di lui.
- Non ti avvicinare. – allungo una mano, - Non mi toccare, Cristo, non ti avvicinare!
- Fler… - poso comunque la mano sul suo braccio, - Fler, ti prego-
- Cristo… - si copre di nuovo gli occhi con una mano ed io so che dovrei stare zitto ma non ci riesco.
- …non piangere… - lui ride amaramente e scuote il capo.
Mi avvicino ancora e mi piego su di lui. Cerco di essere delicato – mi rendo conto di essere in ritardo – mentre gli rassetto i vestiti, provando a coprirlo senza fargli troppo male. Lui si lascia maneggiare come fosse senza vita, non scosta la mano dagli occhi ed io vorrei lasciare stare tutto e scappare. Però allo stesso tempo non voglio. Non voglio affatto lasciarlo qui così.
- Ce la fai a rimetterti in piedi? – chiedo a bassa voce, sfiorandogli il collo con due dita.
Lui si scosta infastidito.
- No. – risponde sinceramente, ma fa comunque forza sulle braccia e si mette a sedere. Rinuncia immediatamente. Torna a distendersi, una ventina di centimetri più in là.
Sul tappeto c’è una macchia larghissima di sangue e sperma mescolati insieme.
Mi viene da vomitare.
- Cristo. – mormora Fler, - Sparisci. – chiede, la voce rotta.
Mi alzo in piedi e faccio per obbedire e nascondermi da qualche parte, magari in bagno, ma faccio solo un paio di passi e poi torno indietro. Mi siedo al suo fianco ed allungo una mano verso la sua. La stringo appena e mi stupisco di non sentirlo ritirarsi di nuovo.
- Mi dispiace. – dico a bassa voce, - Appena riesci a muoverti ti porto in ospedale. D’accordo?
Non mi aspetto che risponda e lui infatti non lo fa. Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero."
Note: Mi chiamo liz e non pubblico una shot di EKR dalla fine di ottobre o.o Sono turbata quanto voi, ma se avete continuato a seguire la saga sapete perfettamente che non sono rimasta con le mani in mano, bensì mi sono dedicata a salvare Tab dal baratro. Riguardo questa shot in realtà ci sarebbero tante cose da dire. Tanto per cominciare che speriamo che il POV scelto non vi abbia mandate ai pazzi XD Sappiamo che non è la scelta più razionale possibile (dovevate vederci in fase di scrittura:
liz: ricordami perché abbiamo scelto questo POV.
Tab: non… non lo so.). Comunque speriamo vi sia piaciuto e che abbiate sofferto tanto *_* Per noi è stato un parto. Be’, per la liz almeno. Tab scriveva stile treno.
Comunque questo capitolo è schizofrenico. Il Bu si tirava fuori roba lol dal cappello – o, com’è anche più probabile, in quanto puro spirito è circondato da gente lol che fa e dice cavolate. *liz si prostra davanti ad Eko e lo idolatra come una statuina sacra del Buddha*
Fler palesemente è un mito e le sue avventure sono già leggenda. L’infermiera è nata per caso. Ci stiamo ancora chiedendo come sia stato possibile.
Comunque, da qualche parte dentro di noi il Bu è ancora vivo *riot*
PS: Il titolo è rubato ai Coldplay. E comunque di questa shot abbiamo una diapositiva. =P
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE HARDEST PART

Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- Bill sta sotto la pioggia. Il perché ce lo spiega Bushido. Più o meno.
Note: Dunque… questa storia è nata in maniera assolutamente vaga, così, out of the blue. Stavo ascoltando Auf Der Suche di Bushido e Baba Saad, e questa canzone si apre con un paio di versi campionati da un’altra canzone, Foolish Games di Jewel… che poi è quella che dà il titolo alla fic. Ed i due versi sono appunto quelli che la aprono. Ed attorno alla quale gira tutta la storia che storia non è. Perché questa non è una storia. *piange*
Spero comunque che possa esservi piaciuta XD
PS: Il Flershido è canon. Punto. *muore*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
FOOLISH GAMES

You took your coat off and stood in the rain
You were always crazy like that.

Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente, oltre le finestre. Si vede la notte – la notte non puoi evitare di vederla, perché è enorme e nera e circonda tutto – si vede la forma di qualche albero che macchia il panorama, si vedono- no, si intuiscono le case degli altri, il resto del quartiere, ma in realtà l’unica cosa che si vede chiaramente è la pioggia stessa. Gocce e gocce e gocce, così tante che sembrano una tenda d’acqua.
Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente. Però là fuori c’è Bill. C’è il suo corpo minuscolo scosso dai tremiti per il freddo, c’è il suo impermeabile stretto ed elegante, c’è l’enorme ombrello nero che ha calato sopra la testa fino a schermare perfino gli occhi, per nascondersi forse, anche se nessuno potrebbe riconoscerlo, in mezzo a quel diluvio.
Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente. Però là fuori c’è Bill. Bushido lo sa. Ed è questo il suo problema.


*

Eko stava raccontando la vecchia storia di quando aveva fatto sparire gli occhiali di Sido. Quella storia, Bill l’aveva già sentita almeno un centinaio di volte, da quando stava con Bushido, e la cosa stava cominciando a farsi grottesca. Non che in genere trovasse particolarmente opinabile ciò che la crew trovava divertente – non era molto dissimile da ciò che trovavano divertente Tom, Georg e Gustav… i videogame, le battute sconce, cazzeggiare fino alle cinque del mattino e via così – ma doveva esserci un limite alla quantità di volte in cui puoi sentire la stessa identica storia e trovarla ancora divertente.
Invece no, evidentemente non c’era, perché tutti stavano lì seduti attorno al tavolino stracolmo di bottiglie di birra – religioso silenzio e sorrisi pieni d’aspettativa sui volti – e Bill poteva sentirli fremere in attesa del momento di ridere.
Insomma, come i bambini piccoli. Puoi fare bubu settete mille volte, non si annoiano mica. Erano uguali.
Annoiato, si stirò lungo il divano e si appoggiò un po’ contro Bushido, strusciandosi il minimo indispensabile per rendere chiare le proprie intenzioni – o almeno il proprio disagio – ma non così esplicitamente da farsi urlare contro. Non che Anis disprezzasse le pomiciate pubbliche, pure se spinte, ma c’erano momenti in cui decisamente non gli faceva piacere trovarsi un gattino annoiato sulle ginocchia. Soprattutto se quel gattino era sul punto di tirare fuori gli artigli e rovinargli i jeans. O la serata.
Lui, ovviamente, lo capì al volo.
- Aspetta un attimo, piccolo. – bisbigliò sottovoce, stringendo una mano attorno al suo ginocchio, come per rassicurarlo, - Eko sta finendo.
- E lui si volta e fa “ma i miei occhiali?”. – continuò infatti l’uomo, spalancando gli occhi ed imitando l’espressione di Sido, - Ed io gli faccio “non lo so, perché non provi a guardare di là?, c’era la tua giacca sulla sedia” e lo vedo che si avvicina alla sedia… - pausa enfatica, Bushido tremò letteralmente sotto le mani di Bill e Bill si sentì praticamente obbligato a ridacchiare a propria volta, perché per quanto noiosa potesse essere quella storia il pensiero che un gruppo di uomini adulti potesse riderne era troppo divertente per ignorarlo, - …solo che sulla sedia c’era Fler rannicchiato che dormiva come un moccioso, e Sido va e gli mette le mani addosso e Fler si alza e strilla “BUSHIDO!”.
Bill si scostò dal corpo di Anis appena in tempo per evitare di venire travolto mentre l’uomo si piegava in due e scoppiava a ridere, in sincrono con tutti gli altri. Guardarlo ridere era sempre una cosa molto tenera, perché tanto bello riusciva ad essere quando sorrideva composto tanto improvvisamente diventava ridicolo quando rideva in maniera incontrollata. Sembrava quasi che nessuno gli avesse mai insegnato a farlo, quando Anis rideva non era solo una questione che coinvolgeva le labbra la lingua la gola, no, coinvolgeva tutto il suo corpo, il ventre le gambe le braccia gli occhi, ogni cosa.
Tornò ad appoggiarsi contro di lui solo appena l’uomo fu tornato a rilassarsi contro lo schienale del divano. Anis lo accolse con una risatina sbuffata e tenera e strinse un braccio attorno alle sue spalle, trascinandoselo sul petto. Bill mugolò, sollevandosi a sfiorargli il collo con le labbra.
- Torniamo a casa…? – sussurrò allusivo, strusciando il naso contro il tatuaggio.
Bushido rise.
- È presto. – rispose, dolce ma deciso. – Restiamo ancora un po’.
Bill aggrottò le sopracciglia, deluso.
- Ma perché-
- Bill. – lo riprese Anis, accarezzandogli una spalla, - Rilassati, ok? Non usciamo tanto spesso. Goditela un po’.
Avrebbe voluto rispondere che in realtà se la sarebbe goduta molto di più a casa, sotto le lenzuola e fra le sue braccia, tanto per cominciare, ma conosceva abbastanza Anis da sapere che, in situazioni come quella, l’unico modo di spuntarla era mettersi a litigare, ed in realtà non è che ci tenesse in maniera particolare. Sospirò e si tirò dritto, per poi poggiare il gomito sul bracciolo opposto e sbuffare sonoramente.
- Chaku… - chiamò annoiato, e l’uomo, dalla poltrona a fianco, gli dedicò immediatamente tutta la propria attenzione, - Che mi dici di bello?
Chakuza rise, chinandosi verso di lui.
- Cosa vuoi raccontato, Bill? – chiese curiosamente, imitando la sua posizione e poggiando a propria volta il gomito contro il bracciolo. Era divertente che, così di fronte, Chakuza dovesse comunque piegare il collo verso l’alto per guardarlo negli occhi. Bill si accucciò un po’ sul cuscino per arrivare alla sua altezza e farsi, se possibile, perfino più piccino. Fu soddisfatto quando Chakuza riuscì a guardarlo dall’alto in basso.
Fu soddisfatto, precisamente, quando sentì gli occhi di Bushido fissi sulla schiena. Farsi così piccino significava sempre “guardami, non mi trovi carino?”. Ed Anis lo sapeva.
- Non lo so… - piagnucolò lamentoso, con un mezzo sorrisetto, inumidendosi le labbra, - Qualsiasi cosa… sei l’unico che non mi ignora. – concluse, tirando indietro una gamba abbastanza da dare un piccolo calcio sullo stinco a Bushido. Giusto per assicurarsi stesse guardando davvero.
Chakuza rise nervosamente, grattandosi la nuca e sistemandosi il cappellino sulla testa.
- Uhm… - balbettò, - non so, non è che abbia avuto una giornata granché entusiasmante…
- Ma non importa! – ridacchiò lui, stendendosi letteralmente sul bracciolo e lisciandosi i capelli lungo una spalla, - Dove pensi di andare dopo…?
Bushido ringhiò alle sue spalle e Bill ghignò interiormente ma non diede alcun segno di averlo notato. Poteva immaginarlo perfettamente aggrottare le sopracciglia ed accavallare nervosamente le gambe, come faceva sempre quando non era soddisfatto dell’andamento di qualcosa. Giocava con l’orlo dei vestiti, sistemava i lacci delle scarpe, si grattava una guancia, Bushido era incredibilmente palese nel dimostrare il proprio scontento. Bill adorava che lo fosse perché adorava metterlo a disagio. Era l’unico a riuscirci.
- Uh… - Chakuza spalancò gli occhi, un po’ senza capire, un po’ fingendo di non aver capito, ed inarcò le sopracciglia, - Penso che me ne andrò a casa a dormire, suppongo… - biascicò incerto.
Bill inclinò lateralmente il capo.
- Niente compagnia? – chiese con naturalezza, sbattendo le ciglia.
Chakuza arrossì furiosamente.
- Compagnia? – balbettò confuso, tirandosi dritto sulla poltrona.
Bill sorrise allusivo.
- Qualcuno con cui passare la notte, Chaku… - spiegò in un sussurro, chiudendo un po’ le palpebre.
- Ah! – disse l’uomo, come lo stesse davvero realizzando solo in quel momento, - Ecco… cioè, stasera non è serata… - biascicò, guardandosi intorno alla ricerca di aiuto. Saad, appollaiato sul bracciolo al suo fianco, si dondolò un po’ sulle gambe e ghignò divertito, mentre Eko tratteneva a stento le risate dalla propria sedia, - E la piantate?! – si lamentò Chakuza, arrossendo ancora di più.
- Scusa, ma ti si sta rigirando sul palmo della mano! – rise Saad, schiacciandogli la visiera del berretto sugli occhi, - Bravo Bill, mettilo in ridicolo.
- Sì… - ghignò Eko, incrociando le braccia sul petto, - Rendi ridicolo lui ed anche Bushido… Atze, c’è il tuo uomo che ci prova con un altro dei tuoi uomini, te ne sei accorto…?
Anis, chiamato in causa, grugnì del fastidio indistinto, tornando a posare entrambi i piedi per terra e stringendo le mani attorno alle ginocchia, nervoso.
- I miei uomini – disse infastidito, guardando fisso davanti a sé, - dovrebbero imparare a stare ai loro posti.
Bill aggrottò le sopracciglia, voltandosi a guardarlo indisposto mentre Chakuza tornava a sedersi composto e borbottava una scusa imbarazzata figlia del bisogno assoluto di non mandare a puttane una serata semplicemente perfetta fino a dieci minuti prima.
C’era quasi da provare della pietà per quell’uomo. Bill sapeva quanto lui e Bushido fossero amici. Gli dispiaceva un po’ averlo trascinato in quella sceneggiata per la quale, lo sapeva, Bushido non gli avrebbe rivolto la parola per giorni interi, ma insomma. Certe volte mettere Anis in difficoltà era l’unico modo per farsi ascoltare, almeno un po’.

*

Fuori piove ancora. Bushido non sa sinceramente cosa fare e questo non va bene, perché se almeno fosse tranquillo potrebbe decidere di lasciar stare Bill là fuori finché non si sia sciolto con le lacrime in mezzo alla pioggia e fregarsene. Andarsene a dormire e basta. Oppure, fanculo, uscire, recuperarlo e tirarlo in casa, infilarlo in una vasca d’acqua calda e scioglierlo lui, fra la schiuma e le labbra.
Karima lo guarda indispettita, e Bushido non riesce a reggerlo, quello sguardo.
- Piove. – gli fa notare.
- Me ne sono accorto. – risponde seccamente lui.
- C’è il bambino di fuori. – spiega allora lei, le braccia incrociate sul petto pieno da nonna bonaria.
A Bushido piace quando Karima chiama Bill “il bambino”. Gli piace perché lo fa sentire uno di famiglia.
Comunque il bambino è là fuori, da solo sotto la pioggia, con l’unica protezione di un impermeabile ed un ombrello. È là fuori ormai da quasi mezz’ora. La sua figuretta smilza sta già diventando indistinguibile contro il cielo scurissimo. I contorni si sfocano e la pioggia è più fitta. Bushido deve aguzzare lo sguardo per capire che non è andato via e c’è ancora qualcosa da guardare.
- Tornerà a casa. – dice, ma non ne è affatto convinto.
Non ne è convinta nemmeno Karima. I suoi occhi lo disapprovano ancora. Bushido cerca di ignorarla ma è come Bill là fuori, non ci riesce davvero. E questo è un altro dannato problema.


*

Bill si sistemò rigidamente sul sedile della BMW, chiudendo la cintura di sicurezza di modo che non spiegazzasse la giacca e la maglietta sotto. Bushido si sedette al suo fianco, poggiando le mani sul sedile e stringendolo fra le dita come volesse frantumarlo.
Bill incassò la testa fra le spalle. Strigliata in arrivo.
- La prossima volta, se potessi fare a meno di mettermi così sfacciatamente in ridicolo di fronte a tutti, te ne sarei immensamente grato, Bill. – disse Bushido con aria sostenuta, fissando la strada dritto davanti a sé.
Bill aggrottò le sopracciglia. Certe volte non riusciva veramente a capire perché Anis non potesse litigare come tutte le persone normali, strillando parolacce e magari lanciando un paio di ceffoni. Lui no, lui doveva rimproverarlo. Doveva farlo sentire piccolo e stupido e inadeguato, altrimenti non sarebbe mai stato contento. Non sarebbe stato abbastanza riconoscergli abbastanza maturità da concedergli un “vaffanculo”, no. Doveva dirgli “non si fa”. Neanche fosse ancora lo stesso quindicenne che sfotteva nel duemilacinque.
- Be’, la prossima volta starai attento a non ignorarmi e forse allora vedrò di non metterti in ridicolo. – rispose con un broncio. Era perfettamente consapevole dell’incredibile infantilismo di una simile risposta, ma d’altronde Anis lo stava trattando come un ragazzino, quindi perché rovinargli la festa.
- Ci stavamo divertendo. – gli fece notare lui, - Ma tu non sei contento se non sei sempre al centro dell’attenzione di tutti.
- Io me ne frego dell’attenzione di tutti. – mentì lui, aggrottando le sopracciglia, - Volevo solo la tua!
- Ed è per questo che ti sei messo a flirtare con Chakuza, sì?
- Sì! – quasi strillò, guardandolo improvvisamente in viso, - Esattamente per questo!
Anis non ricambiò il suo sguardo.
Bill digrignò i denti e sentì l’irrefrenabile impulso di scoppiare a piangere in quel preciso istante. Anis almeno si sentiva in colpa, quando lui piangeva.
- Dovrei veramente andarmene con qualcun altro! – gridò invece, tirandogli un pugno contro un fianco, - Sei uno stronzo!
Bushido non fece una piega. Ma imboccò una strada che non era quella che li avrebbe portati a casa sua.
- Dove stai andando? – chiese Bill, il cuore in gola, spalancando gli occhi, - Anis?
- Ti porto a casa. – rispose seccamente lui, senza degnarlo di uno sguardo, - Mi sembra evidente che sei regredito ai dodici anni. I bambini vanno a letto a casa propria, no?
Bill strinse i pugni lungo le cosce.
- Non sono un bambino, piantala.
- Ti comporti come tale. Ti comporti anche come se in realtà di me non te ne fregasse granché, Bill, dunque?
- Non me… - annaspò lui, percependo distintamente le lacrime farsi strada fra le ciglia, - Non me ne fregasse niente, Anis? Ogni cazzo di cosa che faccio è in tua funzione, vaffanculo!
- Sai che odio quando flirti. – disse lui, duro.
- Volevo attirare la tua attenzione!
- Potevi, cazzo, spogliarti e ballare nudo sul tavolo, Bill! – gridò Anis, voltandosi finalmente a guardarlo, - Tu non flirti in giro. Capito? Non lo fai.
Bill slacciò la cintura di sicurezza, lasciandola tornare a posto con uno scatto secco.
- Non sei mio padre, fottiti!
Anis non disse niente. Strinse di più la presa sul volante e si fermò senza scomporsi di fronte al cancello del suo complesso residenziale.
- Buona notte, Bill. – disse freddamente, senza guardarlo.
Bill lo fissò arrabbiato, in attesa che facesse qualcosa. Anche solo voltarsi nella sua direzione, cazzo.
Ma lui non fece niente, Bill si rassegnò e lo mandò a fanculo un’ultima volta prima di scendere dalla BMW ed infilarsi risolutamente all’interno del proprio palazzo.

*

Karima ha acceso le luci sul vialetto d’ingresso. In genere, la notte le tengono spente, a meno di aspettare qualche visita. Ma di fuori c’è il bambino e Karima ha deciso che se Bushido vuole lasciarlo a congelare almeno dovrà anche guardarlo mentre diventa una statua di ghiaccio. E quindi ha acceso le luci.
Nel momento stesso in cui la luce ha invaso l’ambiente esterno, a Bushido s’è fermato il cuore in gola. Bill era lì immobile in mezzo alla ghiaia, fermo, ritto in piedi, tremante come un cucciolo impaurito. Ma fissava dritto la finestra, come aspettandosi di vedere i suoi occhi da un momento all’altro.
Bushido e Bill si guardano negli occhi attraverso il vetro bagnato, da almeno dieci minuti. Bill s’è avvicinato alla finestra, appena ha intuito che anche Bushido lo stava vedendo. E adesso è lì fermo che lo guarda.
Bushido non sa dannatamente cosa fare.
Decide Bill per lui.
Bushido lo osserva lasciar cadere l’ombrello alle spalle. Compie una parabola perfetta e gocciola pioggia ovunque, sembra la coreografia di una fontana. A Bill piacciono i giochi d’acqua, Bushido se lo ricorda solo in quel momento. Non riesce a staccargli gli occhi di dosso, non quando lascia cadere l’ombrello, non quando la massa vaporosa dei suoi capelli comincia ad appiattirsi e inumidirsi fino a grondare acqua da tutte le parti. Nemmeno quando, lentissimo, scioglie la cinta che tiene l’impermeabile stretto in vita e lo apre, lasciandoselo scivolare lungo le braccia fino a cadere.
Deglutisce e resta immobile.
Se Karima fosse lì gli direbbe che il bambino sta prendendo freddo. Sul serio, adesso.
Karima è andata a dormire dopo aver acceso le luci.
Bill non sembra intenzionato a cedere di un passo. Per un attimo, Bushido spera lasci perdere e fugga via senza degnarlo di un altro sguardo. Ma Bill resta lì. Non si muove.
E allora si muove lui. Si alza lentamente e lo raggiunge alla finestra. Solleva una mano e la posa sul vetro, è ghiacciato. Può solo immaginare quanto freddo faccia fuori. Bill lo guarda, il trucco sciolto lungo le guance. Bushido non sa se sia per la pioggia o perché sta piangendo. Ma lo sguardo di Bill è fiero e serio. Non è uno sguardo da lacrime.
Bushido si allontana verso la porta.
È quasi convinto che quando la aprirà non troverà niente, dall’altro lato. Bill sembrava una visione trasparente, sotto la pioggia, vederselo scomparire d’improvviso non lo stupirebbe. Non si stupisce di non ritrovarselo davanti, infatti. Sta quasi per richiudere la porta e tornare dentro, si affaccia solo per scrupolo. E ringrazia mentalmente Dio per averlo fatto, quando si accorge che Bill non è andato via: è solo rimasto fermo dov’era, sotto la pioggia.
- …vieni sotto la pensilina, dai. – mormora sottovoce, e non è neanche sicuro che in tutto quello scrosciare d’acqua Bill lo abbia sentito.
Bill l’ha sentito. Scuote il capo e quei suoi capelli lunghissimi si muovono appena, appiccicandoglisi alle guance ed al collo nudo.
- Bill, sta diluviando.
- Pensi che non me ne sia accorto?
Bushido sospira e muove un passo sul vialetto. Si congela. Sospira ancora, ma si decide e viene fuori, avvicinandoglisi lentamente ed andando subito alla ricerca di una sua mano. La prende fra le proprie – è un piccolo cubetto di ghiaccio – cerca di scaldarla, la sente tremare sul palmo e gli viene voglia di abbracciare Bill e nascondere il viso sulla piega del suo collo, ma non lo fa.
- Vuoi venire dentro? – chiede, tornando a guardarlo con disapprovazione negli occhi.
- Mi vuoi in casa anche se sono una puttana? – ritorce lui, velenoso, ficcandogli le unghia nel palmo.
- Io – precisa Bushido con una smorfia a metà fra l’irritazione e il dolore, - non ti ho dato della puttana.
- È come se l’avessi fatto. – ritorce Bill, guardandolo fieramente negli occhi.
Bushido fa un’altra smorfia.
- Sei venuto per litigare, Bill? – sbotta acido, cercando di lasciargli la mano. Bill non glielo permette.
- Sì. – risponde invece, annuendo appena, - Io non sono tuo figlio, Anis. Sono il tuo ragazzo. Non mi rimproveri, con me ci litighi, capito?
E Bushido ricorda anche il motivo – quello fondamentale – per cui Bill gli piace tanto. Che poi è lo stesso motivo per cui non avrebbe mai dovuto portarselo a letto. O innamorarsene.
Sono identici. Decisionisti e cocciuti e orgogliosi e stronzi fino al midollo nello stesso identico modo.
- Odio quando flirti. – sibila Bushido, alle strette, - Se stai con me, non puoi flirtare con gli altri. Sono geloso, lo sai.
- Oh, allora solo perché sei geloso io devo improvvisamente diventare una perfetta donnina di casa e smettere di divertirmi. Certo, Anis, ovviamente.
L’uomo aggrotta le sopracciglia, indisposto.
- ‘Cazzo intendi dire, Bill? Dovrei lasciarti-
- Non stai litigando, cazzo. – Bill si passa la mano libera sugli occhi, stanco. – Piantala di essere così dannatamente tranquillo. Non mi stai elencando gli insegnamenti base del Corano. – gli si avvicina, posa quella stessa mano sul suo petto e stringe le dita attorno al tessuto ormai fradicio della sua camicia, - Stai dicendo che sei geloso. Cazzo. Che mi vuoi solo per te. È questo che stai dicendo, vero?
Bushido abbassa lo sguardo e si morde un labbro.
- Anis…
Torna a guardarlo, gli occhi brillanti di rabbia e di pioggia.
- Vaffanculo, Bill. – le labbra del ragazzo diventano sottili come linee, le guance si arrossano, - Sei una tortura. Cazzo, sì che ti voglio solo per me. Potessi, ti metterei le mani addosso alle otto del mattino e non le toglierei più fino a sera! Cazzo, non è che ti voglia per me,
tu sei mio perché io ti amo, Bill, e vaffanculo.
Il ragazzo si mordicchia il labbro inferiore. La pioggia continua a scorrergli sul viso, lungo le guance, lungo il collo, sopra i vestiti. Bushido resta immobile e non sa che fare. Bill si solleva sulle punte non perché ne abbia veramente bisogno ma perché sa che ad Anis piace quando lo fa. Si solleva sulle punte e lo allaccia al collo, stringendosi contro di lui.
- Siamo due deficienti. – gli bisbiglia all’orecchio in uno sbuffo divertito.
Bushido lo stringe alla vita.
- Tu lo sei. – ritorce borbottando, - Ti prenderai una polmonite coi controfiocchi. Ed io appresso a te.
Bill scrolla le spalle.
- Vorrà dire che staremo un po’ a letto insieme.
- Sai che meraviglia. – sospira simulando un fastidio che s’è perso con l’ultimo sbuffo di fiato, e Bill gli pizzica la nuca. Bushido ride. – Scherzavo, scherzavo. – lo rassicura, abbracciandolo un po’ più stretto.
- Dovremmo litigare più spesso. – mugola lui, sfiorandogli una spalla con le labbra. I vestiti sono tutti così bagnati che è come essere nudi.
Bushido si scosta da lui solo per baciarlo.
- Farò il possibile. – promette. La pioggia, tutto intorno, continua a cadere.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "'Quattro secondi... tre... due...' il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.".
Note: Sullo storyboard questo capitolo era uno dei miei preferiti. Mi piaceva l'idea di ricreare da zero una puntata di TRL, provando ad immaginare cosa si sarebbero dette le due crew e Bill una volta in studio. Quando poi ho cominciato a scrivere, però, la cosa non si è rivelata facile come sembrava. Ho urlato, strepitato, cestinato, finché Liz - impietosita - non ha deciso di occuparsi della cosa. Quindi anche questo capitolo è una Tabata feat. Liz.
Un po' di cosine che magari vi interessano. Non mi capita mai di fare riferimenti con il reale, fatemi divertire un po'. Dunque:
1 - La foto di Backspin di cui parla Bill, è questa.
2 - Il simpaticissimo (come un virus intestinale) Patrice, è questo ometto qui (è quello che parla).
3 - Il primo video citato lo trovate qui.
4 - Il secondo, dagli oscuri meandri del passato del Bu, qua.
Cos'altro? Ah sì, se vi venisse lo sghiribizzo di vedere la timeline aggiornata, la trovate sul sito. E basta, credo.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SET ADRIFT ON MEMORY BLISS

Questi ultimi giorni sono stati piuttosto stancanti.
Un po' perché sono i giorni peggiori, quelli dove manca poco. Un po' perché per questo motivo, chiunque mi conosca ha cercato di fare qualcosa per distrarmi intanto che aspettavo quel poco che rimaneva. Il problema è che nessuno mi ha chiesto cosa volessi fare io, e io volevo starmene in casa da solo, magari a rilassarmi. Ovviamente nel via vai di gente che andava e veniva, di stendersi due minuti in vasca o anche solo di svaccarsi davanti alla televisione di tempo non ce ne stato per niente.
Gustav prima, David poi; e quindi Andi, Georg e Chakuza che ha fatto la spola tra casa sua, l'Ersguterjunge e il mio appartamento, incrociandosi con Tom. Sembrava si fossero messi d'accordo: lui arrivava, mio fratello partiva. Uno dietro l'altro sono venuti tutti, da ogni angolo del mio personalissimo universo. Non mancava nessuno.
Qualche giorno fa, seduto sul mio letto, ho visto anche lui che mi guardava e sorrideva, con quel modo che aveva di guardarti che non sapevi mai se ti stava prendendo in giro oppure no. Mi stavo asciugando i capelli, è stato solo un istante ma nella mia memoria è ancora così nitido che mi è bastato per vederlo tutto.
Mi ha fatto notare che non dovevo lamentarmi di tutta quella gente che andava e veniva, che sono ancora la principessa ed è per questo che mi viziano tutti.
Nella mia testa, la sua voce è chiara quanto il suo viso.
Non è come ricordare vagamente il suono di come diceva le parole, è sentirlo parlare, come se in realtà fosse ancora qui.
Così mi ha detto che sono sempre la principessa e ho stretto forte la spazzola per aggrapparmi a qualcosa. Tom dice che se non smetto di piangere mi scioglierò e non rimarrà più niente di me; e io mi chiedo se voglio che resti qualcosa di me ora che non c'è più niente di lui. Poi ricordo che mio fratello morirebbe se morissi anche io, e all'idea di una morte effetto domino mi viene da ridere. Lo so che non è bello, ma so che lui riderebbe.
Anis rideva sempre quando qualcosa lo spaventava. Così fa meno paura, diceva.

Comunque sia, sono le due del pomeriggio e mio fratello ha passato qui la notte.
A dire la verità credo che sia solo il fortunato vincitore di una complicatissima partita a morra cinese in cui se la sono giocata un po' tutti questa nottata della vigilia; mi piace vedermeli riuniti ad un tavolo che tirano giù veloci sequenze di sasso forbice carta per vedere a chi tocca stare con la vedova la notte prima dello speciale di TRL. Ha vinto mio fratello, a quanto sembra. Ieri sera non avevo ancora finito di chiudere la porta dietro le spalle di mia madre, venuta fin da Loitsche per quattro splendidi giorni con suo figlio, che Tom si è presentato a casa mia, la sua sacca da viaggio e la chitarra, pronto per una serata fra gemelli: la salsa, The NoteBook, tutto il necessario da manuale, insomma.
Per un istante l'ho odiato, dico davvero. Volevo solo togliermi i vestiti, mettere quattro candele agli angoli della vasca e stare in ammollo finché non mi fossi rattrappito come una prugna; trovarmelo lì sulla soglia, che sorrideva amabile come me stesso quando non sono così sbattuto, mi ha fatto anche un po' girare i coglioni.
Poi mi sono reso conto che non ho mai veramente voluto stare da solo, che se mio fratello non si fosse presentato lì, probabilmente avrei finito per passare la serata avvolto nel plaid a guardare il mio album di fotografie. In realtà non ne avevo uno finché Anis non è morto; avevo un sacco di foto, quello sì, ma erano mucchi sparsi in giro per casa. La sera del funerale le ho riunite tutte sul pavimento del salotto, e ho cominciato a dividerle prima per mese, poi per occasione, poi in base al fatto che fosse da solo o ci fossi anche io, poi per i vestiti, e per un altro centinaio di caratteristiche stupide; tanto che sono rimasto alzato fino a tardi e non avevo ancora deciso quali inserire nell'album e quali scartare.
Alla fine le ho messe a caso. Ho cominciato a tirarle su dal mucchio con gli occhi chiusi, le guardavo e mi sorprendevo dell'espressione che avevo pescato. Era un po' come averlo lì, che non potevi controllare le sue reazioni.
Allora gli ho raccontato com'era andata la giornata: - C'era un sacco di gente, sai, amore?
E ho tirato su la foto e l'ho visto che sorrideva; gliel'ho fatta io quella, sul tourbus, una mattina che aveva detto qualcosa di stupido e ci stava ridendo su. Era ancora tutto scombinato, era Anis; non Bushido.
Quindi ho continuato a parlare. Gli ho spiegato che nessuno voleva farmi passare ma l'ho rassicurato: - Chakuza mi ha aiutato a farmi largo tra la folla.
Nella foto che ho tirato su c'era lui impegnato a cantare: gliel'ho fatta durante un concerto. Ero dietro le quinte, quindi il taglio è strano e lui è concentratissimo. Mi è sembrata un'espressione solenne. Anche quella è andata nell'album.
Sono andato avanti per un po', gli ho raccontato che Eko quasi piangeva e che lui mancava disperatamente a tutti. Foto dopo foto mi ha regalato di nuovo tutti i suoi sorrisi e tutte le sue facce buffe. Era anche arrabbiato a volte, con la mascella tesa e gli occhi scuri scuri, che a volte ti ci perdevi dentro e altre volte erano un muro, proprio.
Erano le quattro del mattino quando sono rimasto senza pagine nell'album, e avevo ancora un mucchio di fotografie da sistemare. - Ti ho messo una calla; ho detto all'improvviso. Non lo so perchè, ma in quel momento ho realizzato che la bara era chiusa e che forse non può vedere un bel niente. Ho detto: - Ti ho messo una calla. Sopra al legno però, perchè non ti hanno esposto. Eri già chiuso. David dice che lo hanno fatto per tua madre, che era meglio così. Comunque la calla te l'ho messa lì. Ecco.
E la foto che ho tirato su era bellissima. Era lui, con me; e tranne noi non si vede niente, ma io lo so che è stata scattata tra le coperte del mio letto, che ad inquadrare più in basso ci sono i nostri vestiti, io sono nudo e lui mi stringe attorno alla vita con le braccia forti, color nocciola. Nella foto però si vedono solo i nostri visi, fianco a fianco e io che rido come non ho più fatto da quando non c'è lui.
Sto guardando una foto anche adesso, comunque, quella che ho sullo specchio. E' una foto molto speciale, è quasi uno scherzo ecco, però a me piace. C'è tutta la crew, proprio tutta, non solo i ragazzi che mi odiano meno; Kay e Chaku sono di fianco ad Anis, come i cavalieri del re. Era una foto ufficiale, cioè, ne esiste una ufficiale proprio uguale, per un articolo di Backspin se non ricordo male. Quella che ho io, però, è lo scatto precedente; quello dove ci sono anche io che passavo di là e Anis mi ha portato di peso sul set e ha detto al fotografo di scattarne una. Così io sono lì, che sembra ritagliato da un’altra fotografia e incollato tra le braccia di Anis.
"Bill, sei pronto?" La voce di mio fratello arriva da dietro la porta della mia stanza chiusa.
"Un attimo! Arrivo!"
Tom ha dormito sul divano, stanotte. Il letto è solo mio, non può più toccarlo nessuno. Mi da fastidio anche solo che ci si siedano sopra. Ieri ho urlato a mia madre che si stava azzardando a rifarlo. Io cambio le lenzuola, io lo rifaccio, io sistemo i cuscini. E, ovviamente, io ci dormo dentro. Da solo. Anis ha dormito qui e ci abbiamo fatto l'amore. C'è morto sopra. Non posso dormirci che io, adesso. Qualsiasi altra persona sarebbe come profanarlo, non lo so.
Le prime due settimane non ho avuto nemmeno il coraggio di entrare in camera. Poi mi è presa la nostalgia e allora tornare in questo letto mi è sembrata la cosa più logica da fare. Per un po' ho dormito solo dalla mia parte, ma la metà di Anis rimaneva troppo fredda, così adesso sto esattamente in mezzo e allargo le braccia e le gambe, scaldo tutto così quando mi giro la notte, posso rannicchiarmi dalla sua parte al calduccio e fingere che si sia alzato per andare in bagno. Nel dormiveglia è consolante, e la mattina dopo non ho mai il tempo di pensarci davvero perchè passa sempre qualcuno a prendermi, parlare, distrarmi.
"Bill!" Di nuovo la voce di mio fratello. "Stiamo facendo tardi, posso entrare?"
Gli dico di sì e mi trova di fronte allo specchio mentre finisco di mettermi il mascara. Gli sorrido attraverso lo specchio: il mio riflesso è splendido. Sono in piedi da ore, mi ci sono impegnato, voglio apparire meglio del solito. Anis lo avrebbe voluto, credo.
Nella mia testa risuona il:- Fatti bello, stasera usciamo; che mi diceva al telefono. E io gli rispondevo sempre che ero già perfetto.
"Sicuro di volerti truccare?" Mi chiede. Lo guardo e capisce di aver detto un'idiozia. Come potrei non volermi truccare? Devono ricordarsi che sono io. Io per come sono, non per come sarebbe stato meglio che fossi. Che poi dovrei essere donna, per quello. "D'accordo, lascia perdere. Ho detto una stronzata. Comunque, tra due minuti usciamo."
Annuisco e lo vedo che scappa via di nuovo. Tom è nervoso e non capisco seriamente perchè. La situazione sarà difficile, ma lui non c'entra. Lui serve a me, probabilmente lo faranno parlare solo un paio di volte. Non dovrebbe essere nervoso, davvero.
Schiocco le labbra, quindi mi schiodo dallo specchio. Non faccio in tempo ad uscire dalla camera che mio fratello mi recupera e m'infila, letteralmente, nel mio cappotto. Mi chiude perfino i bottoni. "David è qui fuori. Tobi ci aspetta giù," mi dice sbrigativo mentre cerco di capire perchè mi sta trattando come avessi otto anni. Quindi mi tiene per la vita e mi guarda negli occhi. "Bill..."
"Che c'è?"
"Quando arriviamo, stammi vicino." Dice.
"Tomi, cosa?"
"Non ti allontanare da me," ripete. "Solo questo."
Mi ritrovo ad annuire senza averci capito granché, e poi mi abbraccia e preme le labbra contro la mia guancia per qualche secondo, per un attimo credo che non voglia lasciarmi più andare. Quando torna a guardarmi, sorride un po' di più. "Sei bellissimo," mi dice, accarezzandomi le braccia. "Li stenderai tutti."

Agli studi di TRL ci sono già stato quel milione di volte, eppure sono nervoso lo stesso.
Dal momento che di fronte agli studi c'è moltissima gente, David ha dato ordine che passassimo dal retro ma la situazione non cambia molto. La nostra auto viene bloccata dalla folla qualche metro prima di arrivare alla porta. Vedo David espirare dalle narici, segno che è così nervoso che potrebbe esplodere qui e ora. Dentro la macchina.
Guardo fuori e vedo quello che non mi aspettavo di trovare. Ci sono delle fan dei Tokio Hotel abbarbicate sulle transenne; le riconosco subito e non tanto dai cartelli, quanto dal fatto che urlano con tutto il fiato che hanno e sono seminude. Continuano a cantilenare il mio nome - Bill! Bill! Bill! - e sorrido perchè nonostante tutto mi fa piacere.
Quando è saltata fuori la mia storia con Anis, per davvero intendo, non le stupide dichiarazioni che fece per farmi arrabbiare, fra le mie fan ci fu una scossa di terremoto. Qualcuna dichiarò di amarmi comunque - perchè io ero io, indipendentemente dal fatto che fossi gay - e molte altre si dichiararono molto deluse. Mi dispiacque, ma mi sono sempre chiesto in che cosa le avessi deluse di preciso.
Ad ogni modo, David fu bravissimo a gestire la cosa ed organizzò la conferenza stampa del mio coming out, tra le urla di mio fratello e quelle della Universal. In barba a tutto la risposta del pubblico fu meravigliosa. E comunque io non avrei accettato qualcosa di diverso, non avevo nessuna intenzione di giustificarmi oltre.
Sono felice di ritrovarle qui, che mi urlano che sono dalla mia parte in una situazione così dove ho veramente bisogno di supporto. E, se mi fanno piacere loro, mi fanno ancora più piacere le ragazze con la maglietta bianca con la B rossa che spuntano qua e là tra le mie emo-vampire vestite di nero. Sono le fan di Anis, quelle. E quando finalmente con l'auto riusciamo a passare, sono lì che gridano il mio nome insieme alle mie fan.
E mi sento bene, dannatamente bene.
Fermiamo l'auto proprio davanti alla porta; quando Tobi scende, le urla si fanno più forti e Tom mi stringe la mano. Parla prima ancora che lo faccia David, e David sta zitto e guarda fuori.
"Tu scendi per ultimo," mi informa mio fratello. "Prima David, poi io. Aspetta che ti aprano la portiera, intesi?"
"Tom, calmati, ti prego," lo guardo negli occhi e cerco di capirci qualcosa. "Non è la prima volta che devo scendere da una macchina circondato dalle fan, ricordi?"
Lui non mi ascolta. "Fà come ti ho detto."
Ci mancava mio fratello a dirmi cosa devo fare. Prima mia madre, poi la Universal, poi David, Anis... e in fine lui. Che razza di Principessa sono se non posso mai fare di testa mia?
Sento gli scatti delle portiere, David esce col volto tirato. Nemmeno un sorriso per le ragazze che - se non lo vogliono morto credendolo un negriero - lo amano quanto amano me. Tom lo segue a ruota e non esce dalla macchina, rotola fuori. Sento il boato: non so se sapevano che ci sarebbe stato anche lui ma credo di sì, lo sanno sempre.
Due secondi e Tobi apre la mia portiera. Tom è lì accanto a lui e mi chiedo perchè non stia spargendo se stesso un po' ovunque, come al solito. Poi penso che forse non è il caso che lo faccia, siamo qua per un altro motivo.
Come metto piede fuori, mi trascinano via. Cerco di sorridere alle ragazze, anche solo per ringraziarle ma Tomi è molto sbrigativo, se non mi tira dentro gli studi di corsa poco ci manca.
Una volta dentro, è il solito turbinare di tecnici e assistenti che ci circondano parlando tutti insieme. Ho imparato che non ho nessuna necessità di ascoltarli perchè paghiamo David apposta per quello. Sarà poi lui a farmi un riassunto di tutto ciò che devo sapere. Tom mi indica i camerini e ci muoviamo in quella direzione. Mentre passiamo dò un'occhiata allo studio, il pubblico è già dentro ma nessuno, grazie a Dio, fa caso a noi.
"Nervoso?" Mi chiede Tom, stringendomi il braccio all'altezza del gomito.
"No," scuoto la testa. "Solo terrorizzato." Sorrido.
Svoltiamo l'angolo subito dopo Tobi, e vedo Chakuza parlare con Fler da una parte. Fler tiene le braccia incrociate al petto e lo ascolta attento anche se sembra un po' annoiato. Chakuza è tutto agitato e muove le braccia come a ribadire qualcosa. Sapere che è qui, che sarà in quello studio con me, un po' mi tranquillizza, e non me l'aspettavo. Insomma, mi sembrava che fosse un me contro loro. E mi rendo conto che è un noi contro l'Aggro Berlin. O forse no. Forse è semplicemente un noi, e altri, e mio fratello e i fan. Contro nessuno, perchè tanto il motivo di combattere lo abbiamo perso tre mesi fa.
Chakuza alza lo sguardo e mi vede, ha il viso tirato sotto quel cappellino. "Hey!" Saluta mio fratello con un cenno del capo e poi mi si avvicina e mi guarda. "Tutto bene? Mi hanno detto che non vi lasciavano passare."
"Al solito," mi stringo nelle spalle. "Le fan erano ovunque."
E lui fa quella cosa lì, quella che fa ogni volta che mi chiede come sto e io gli rispondo che sto bene. Non ci crede mai; e mi scruta tutto, da capo a piedi, neanche ce lo avessi scritto in fronte se mi sento male. E finché non è convinto non mi molla. Alla fine sembra capire che non sto per collassare perchè annuisce.
Forse sta anche per dirmi qualcosa, ma uno dei tecnici si avvicina e ci avverte che la trasmissione inizierà tra cinque minuti, di prendere posto. "Dobbiamo microfonarvi," spiega poi. Ci muoviamo tutti verso lo studio, intanto che Chaku si sente in dovere di spiegarmi la situazione. "Voi due siete con noi," dice. "Hanno diviso lo spazio in due zone nette."
"E dall'altra parte, l'Aggro?"
Chaku annuisce. "Ma non ci sono tutti, soltanto Sido e Fler."
Fler, tra l'altro, ci ha seguiti ma non ci parla. Quando oltrepassiamo l'entrata dello studio, raggiunge Sido e si siede, col microfono già al suo posto. La stanza non è piccola, ma lo spazio è ridotto dalla quantità enorme di pubblico, che in effetti non mi aspettavo. Sono tutti zitti e fermi, però, e questo è un bene. I nostri divani sono di un giallo fulminante, e mi viene in mente che assomiglia al giallo delle pareti di casa di Anis; Saad, Eko e Kay-one sono già seduti e l'ultimo poso vuoto fra loro è quello di Chakuza. Io e mio fratello abbiamo un divanetto più piccolo alla loro destra, il resto dell'Ersguterjunge è ammassato nello spazio che resta. Lascio malvolentieri che Chakuza si sieda lontano mentre mio fratello mi aiuta a sistemare il microfono dietro ai pantaloni. Uno dei tecnici ci scandisce di nuovo il tempo.
David mi ha fatto avere una copia della scaletta qualche ora fa, l'ho letta ma non ne ricordo nemmeno un pezzo. David non voleva che venissi, mi ha fatto una paternale più lunga di mia madre e poi, quando si è reso conto che non avrei mai cambiato idea, ha parlato con la redazione e ha preteso e ottenuto che non mi facessero domande troppo private.
Uno studio televisivo, dall'interno, non è come lo si vede in televisione. Innanzi tutto ci sono molte più persone di quelle che ti fanno vedere, e ci sono più tempi morti. Quando passeranno i filmati, a casa li vedranno a tutto schermo, noi avremo un solo piccolo televisore lì a terra per controllare quando il video finisce, e un sacco di minuti da sprecare a guardarci tra di noi. Solo che questa volta, invece di avere accanto la mia band, ho quella di Anis - che non mi può vedere - e quella di Fler - che mi ha sempre preso per il culo. Mi stringo involontariamente a Tom che se mi stesse anche solo un po' più vicino probabilmente mi ingloberebbe. "Va tutto bene?" Mi sussurra.
Annuisco.
"Due minuti!" Annuncia il tecnico, sollevando le dita. Lo studio si mette in fermento, lo vedi proprio il cambiamento. Un attimo prima sono tutti lì che parlano, l'attimo dopo si muovono tutti: ordinano, sistemano cose, si preparano. Scorgo David in fondo alla stanza, dove non inquadreranno, appoggiato con una spalla al muro. Mi fa cenno con le dita che è tutto okay.
Inspiro ed espiro, la mano di Tom apparentemente appoggiata a caso dietro di me sullo schienale. Non può accarezzarmi la schiena, così cerca metodi sostitutivi per confortarmi.
"Quattro secondi... tre... due... " il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.
Subito dopo la sigla ci siamo noi in studio.
L'inquadratura è concentrata su Patrice che saluta il pubblico e dà il benvenuto a questa puntata speciale di TRL, che s'intitola King of Kingz - Ghetto Tribute. Un notevole sforzo di fantasia; mi chiedo che cosa sarebbe venuto fuori se avessero lasciato l'incombenza di trovare un nome a questa trasmissione ad un branco di scimmie lobotomizzate. "Anis Moahamed Youssef Ferchichi, in arte Bushido, era uno dei rapper più amati della Germania," Patrice scandisce il suo nome con voce partecipe ma introduce l'argomento come se fosse una cosa da niente. Come se stesse presentando l'ultimo singolo di Anis piuttosto che una trasmissione in suo onore dopo la sua scomparsa. Non gliene frega niente, ma finge il contrario.
Blatera per ore sulla grave perdita del mondo della musica con aria contrita, come se avesse perso un caro amico oltre che un grande artista di fama nazionale. Dio, e dire che ero davanti alla televisione, l'ho visto quando ha detto in diretta nazionale "Se avete qualcosa da risolvere, tu e Fler, risolvetevelo fra voi". Io so che quest'uomo non provava per Anis il minimo rispetto, ma dalle sue parole adesso non lo direbbe nessuno.
Devo fingere di non odiarlo, o di non odiare quello che la trasmissione rappresenta in realtà: un enorme occasione per fare su quintali di ascolti. Devo ricordarmi perchè mi trovo qui, su questo divano, così mi inumidisco le labbra e faccio finta di ascoltarlo con interesse. "E adesso il live di Zeiten Ändern Sich tratto dal 7 Live DVD, poi di nuovo in studio con la sua crew e con gli altri numerosi ospiti di oggi," la regia fa una carrellata dello studio e poi sfuma sulle prime note della canzone.
Il tecnico ci fa cenno che il video è partito. Patrice perde tutta la sua aria solenne e si mette a parlare con la truccatrice che lo ha raggiunto immediatamente; io, invece non riesco a staccare gli occhi dal monitor.
E' un colpo. Uno di quelli forti al cuore, che non ti aspetti e per il quale non sei preparato. Io vedo Anis sempre: nei miei ricordi, nei miei pensieri, nelle foto e in ciò che di lui vive ancora dentro la mia testa, però non ho più guardato un solo filmato da quando gli hanno sparato. Se l'ho fatto vivere è stato solo dentro di me. Quando lo vedo su quello schermo, quando compare sotto il cappuccio di quella felpa grigia e lo vedo muoversi - Dio, muoversi - il cuore mi si stringe così tanto che non lo sento più neanche battere. Per i primi minuti del video c'è solo il palco, e il fumo, e lui è tutto coperto ma non mi serve niente per riconoscerlo: le spalle, le braccia, la linea dritta dei fianchi.
Inspiro, perchè il mio cervello è impazzito. Una parte di me grida che è vivo, che è lì, e se è lì dev'essere vivo per forza. Il resto di me si ricorda che ha chiuso gli occhi dicendomi di non volersene andare. Il video è un montaggio del live e di alcuni momenti del backstage, quindi c'è Anis che canta - ed è bellissimo, e preso, e la folla si agita al suo comando - ma c'è anche Anis che scherza, e gioca con gli altri ragazzi. Ridono. E mi rendo conto che forse ho sbagliato anche solo a pensare di poter stare qui. Vorrei alzarmi e correre perchè proprio mi sembra di non farcela. Vederlo là dentro, voler allungare una mano e toccarlo e non poterlo fare è devastante. Tom mi accarezza un braccio e mi tira un po', vuole che smetta di guardare.
"Bill, girati," mi dice. E io lo faccio, perché la voce di Tom ha un potere particolare. Quando lo faccio, ed incontro i suoi occhi, Tomi sorride. "Va tutto bene. Io sono qui."

Patrice accoglie il rientro in studio, spiegando di nuovo brevemente la situazione perchè - mi pare di capire - siamo anche andati in pubblicità. E' difficile stare dietro a tutto quello che succede quando non sei inquadrato. David ci ha raggiunti sul divanetto durante la pausa, mi ha detto di calmarmi anche lui, devo avercelo scritto in faccia che non sto proprio benissimo. Secondo la scaletta, adesso dovremmo commentarlo questo video e per un attimo sono felice di non fare parte della crew. La parola tocca a Saad che era già pronto lì a parlare.
"Abbiamo appena visto nel video uno dei vostri show," sta chiedendo Patrice, con lo sguardo intenso puntato su Saad. "Che tipo era Bushido sul palco?"
"Atze era una forza della natura," risponde Saad, e un po' sorride. Io so che lui mi odia, ma so anche che voleva bene ad Anis. In quel momento capisco che se fa male a me stare qui, probabilmente fa male anche a lui. "Non stava fermo un momento, a volte era devastante. E fuori dal palco era anche peggio."
"Ti ha inseguito con un carrello," commenta Patrice.
Saad ride, ridiamo un po' tutti. "In realtà lì non si è visto," spiega, indicando il monitor,"ma poi ha cominciato a ridere e non ha smesso per dieci minuti. Era un bambino."
Patrice annuisce, condividendo l'ilarità generale. Guarda la sua cartelletta con le sue belle domande infilate una dietro l'altra. "Bushido fonda l'Ersguterjunge," la regia inquadra Fler che ha sul viso un'espressione indecifrabile, "nel 2004, giusto?"
Segue un coro di assenso generale, si parlano addosso e io li trovo carini. Seguo la discussione con interesse stavolta, non mi capita spesso di sentirli parlare di lui tutti quanti insieme. "E io leggo qui che avete fatto uscire moltissimi lavori fra album, sampler e singoli vari."
"Cinquantasette, dall'apertura a oggi," annuisce Chakuza, spostandosi sul divanetto. Appoggia la gamba destra in orizzontale sull'altra e ci gioca sopra col microfono.
Patrice annuisce a propria volta, accarezzandosi il mento con una mano. Non fa una piega.
Ed io mi preoccupo, perché dai conduttori imperscrutabili non sai mai cosa aspettarti.
Trattengo il respiro quando apre bocca, ed appena lo sento parlare capisco di avere avuto ragione a farlo.
“Ed in tutti questi anni di collaborazione non avete mai dubitato del suo operato o delle sue scelte? Mai nemmeno un contrasto?”
Ci sono cose che senza l’ausilio visivo non si capiscono. Il senso della sua frase… non sarebbe lo stesso, se il monitor di fronte a noi – quello oltre le telecamere, quello che ci mostra la messa in onda – non rimandasse il riflesso del mio volto.
Sono io la scelta della quale avrebbero dovuto dubitare.
Mi mordo un labbro e provo a non fissare la telecamera perché ho dannatamente paura di cominciare a piangere e non voglio farlo di fronte a tutti. Cerco la mano di Tom, di nascosto, strisciando sul divanetto, e la trovo immediatamente, come se mio fratello non avesse fatto altro che aspettare quella stretta da che ci siamo seduti.
Chakuza si agita subito, si inumidisce le labbra e riporta il microfono alla bocca.
“Noi non-”, comincia incerto, ma Saad lo ferma con un colpo di tosse, e Chakuza torna subito al proprio posto, in silenzio.
“Naturalmente,” dice con estrema tranquillità, “di fronte a certe cose ci ritrovavamo spesso un po’ spiazzati,” annuisce, “ma Bushido da noi non è mai stato in discussione. E perciò,” conclude deciso, guardandomi dritto negli occhi, “nessuna delle sue decisioni lo era.”
Io ricambio la sua occhiata e trattengo a stento le lacrime quando lo vedo annuire nella mia direzione. Vorrei piangere per un milione di motivi diversi che non c’entrano niente l’uno con l’altro. Ed ho voglia di alzarmi in piedi e ringraziare Saad, ma anche di prenderlo a pugni fino a fargli dimenticare da che parte è il cielo e da che parte la terra, perché una concessione come questa sarebbe stata molto più utile quando Anis era ancora vivo e respirava e dell’approvazione poteva farsene qualcosa. Adesso è sepolto a chissà quanti metri sotto terra, e che mi venga concesso un posto quando lui non c’è è del tutto inutile.
Ma immagino che siano anche queste leggi del Ghetto. Probabilmente, se Anis non fosse morto, io questo posto non l’avrei avuto mai.
“Naturalmente,” ripete Patrice, annuendo per l’ennesima volta come sapesse esattamente di cosa Saad stia parlando. In realtà non ne ha la più pallida idea, perché su una cosa quest’uomo aveva ragione, quando invitava Bushido e Fler a vedersela fra loro: la televisione non è il posto adatto per risolvere queste questioni. La televisione non c’entra niente, con queste questioni. E quindi Patrice non ne sa niente e non ne capisce niente. “E non vi ha stupito nemmeno la sua uscita a TRL?” chiede senza il minimo filtro – la telecamera mi inquadra di nuovo ed io lancio un sospiro stremato mentre colgo con la coda dell’occhio David agitarsi nel backstage – “Insomma, non è una cosa tanto comune, vedere un uomo di quasi trent’anni che espone in questo modo la presunta omosessualità di qualcuno.”
Sento Fler sopprimere a stento una risatina. È senza microfono, ma non può proprio risparmiarsi di sputare un “Ma se non facciamo altro dalla mattina alla sera?” che Sido blocca con un’occhiataccia e per il quale io invece mi ritrovo a ridacchiare a bassa voce. Ridacchia anche Chakuza, ma lui al contrario di me cerca di mantenersi serio perché forse non ha ancora realizzato quanto tutto ciò sia una farsa. La sua espressione tesa nel tentativo di non lasciarsi andare all’ilarità è tenerissima.
Patrice si comporta come non l’avesse nemmeno sentito. Il suo sorriso di circostanza è una delle cose più odiose su cui mi sia mai capitato di posare gli occhi. Ed il fatto che, in questo preciso istante, sia rivolto proprio contro di me, è ancora più irritante.
“E tu come l’hai preso, quell’episodio?” chiede, dando finalmente voce a ciò che tutti stanno pensando.
Questo ragazzino, com’è che si ritrova qua in mezzo a parlare di un rapper morto ammazzato?
Questo ragazzino è qua perché quel rapper lo amava. E se l’è visto morire fra le braccia, cazzo.
Scorgo appena David che mi fa cenni da dietro una telecamera, ma se lo guardassi probabilmente coglierei della disapprovazione, nei suoi occhi. O il tentativo di impormi dei limiti. In questo momento, non ne sento affatto il bisogno. Stringo la mano di Tom e parlo.
“In realtà quando disse quelle cose a TRL stavamo già insieme,” rivelo candidamente.
Osservo con un certo divertimento la consapevolezza farsi strada negli occhi di chi non c’era ancora arrivato. Patrice, per primo, e poi il regista, l’aiuto-regista, i cameraman, truccatori, parrucchiere e via dicendo.
Il conto è semplice. Ci arriva anche chi non è tanto bravo in matematica.
“Quindi…” esplicita per la folla il nostro conduttore, a disagio, “tu eri ancora minorenne, quando la vostra storia è cominciata.”
…mi rendo improvvisamente conto di ciò che ho detto, nel momento in cui realizzo che, se da un lato ho ottenuto ciò che volevo – zittirli tutti dicendo qualcosa che decisamente non si aspettavano – dall’altro è probabile che io possa aver detto anche qualcosa che probabilmente avrebbe fatto meglio a stare nascosto.
La pacca che David si dà sulla fronte la sento fin da qui, nonostante il brusio del pubblico di fortunati che è stato ammesso in studio. Tom stringe ancora la presa sulla mia mano.
“Bushido non ha fatto niente di sconveniente, finché mio fratello non ha compiuto diciott’anni,” dice, e sta mentendo, naturalmente, ma in questo momento non è un problema.
“E non trovi sia piuttosto sconveniente parlare di ciò di cui ha parlato Bushido a TRL, dato che allora Bill aveva solo diciassette anni?” chiede Patrice, spostando la propria attenzione su di lui.
L’Ersguterjunge tutta, dal divanetto, si mette in agitazione. Ho come l’impressione che metà del gruppo – in particolare Kay, sta scalciando come un puledro imbizzarrito – vorrebbe alzarsi e pestare quest’uomo dimenticandosi completamente della televisione.
Saad li tiene tutti fermi usando semplicemente la propria stessa calma. Li vedo tutti, si voltano a guardarlo uno per uno, e quando vedono che sta zitto e buono cominciano a tranquillizzarsi anche loro.
Vorrei essere altrettanto bravo a gestirmi.
Mi faccio forza, comunque. Tom non risponde, all’ultima domanda di Patrice, ed ha ragione a non farlo.
“Anis…” riprendo quindi io, lo sguardo basso, “era una persona a cui piaceva stupire gli altri. Era tremendamente egocentrico, perciò era naturale che, dovendo scegliere un modo per farlo capire al mondo, avrebbe scelto il più fragoroso.” Perché Anis era davvero così, lo penso ma non lo dico ad alta voce, era rumore. Non ci s’infila nella vita degli altri col silenzio, non si diventa la vita degli altri rimanendo in disparte. “Io non ne ho saputo niente, finché non ho visto la trasmissione in tv.”
Patrice annuisce e mi si avvicina.
“E quando l’hai visto, come hai reagito?”
Scrollo le spalle.
“Ho riso,” e ride l’intero studio, “No, davvero,” rincaro la dose, sorridendo a mia volta, “mi sono perfino chiesto per quale motivo fare la richiesta pubblica, visto che già in privato ne avevamo a sufficienza,” aggiungo con un sorriso serafico, così che tutti la prendano per la battuta che, in parte, non è per niente, “Però alla fine ci sono arrivato. Era il modo che aveva scelto di dirlo al mondo.”
Patrice sorride bonario, tornando a spostare l’attenzione su mio fratello.
“E tu, invece? Come l’hai presa?” gli chiede, inarcando curiosamente le sopracciglia.
Tom le sue sopracciglia le aggrotta e si dà quell’aria seria e sicura con la quale in genere affronta tutti i drammi nella propria vita – ed anche nella mia.
“Quale delle due cose?” chiede di rimando, “Bushido che richiede un pompino pubblico o il suo stare con mio fratello?”
Patrice ride.
“Il suo stare con tuo fratello,” risponde.
Tom annuisce piano e dosa le parole, stringendomi più forte la mano.
“È stata una scelta di mio fratello, e in quanto tale meritava rispetto.”
Ricambio la sua stretta e sorrido fra me. Tomi sta dicendo un sacco di bugie, ma le sue scuse sono sincere.
“E su questo andiamo in pubblicità,” avverte Patrice, rivolgendosi gioviale alla camera, “A fra poco col resto della storia di Bushido e dell’Ersguterjunge. Restate con noi!” e le telecamere vanno in stand-by.
Sembra che lo stacco pubblicitario sarà piuttosto lungo, perché quando Eko chiede se può andare in bagno gli dicono di sì e non aggiungono di far presto. Lo vedo scivolare via dal divanetto mentre Chakuza si alza per sgranchirsi le gambe e Saad, invece, si rilassa contro i cuscini, lasciando andare un respiro di pura tensione. Chaku fa per venire da questa parte, ma guarda oltre la mia spalla e si ferma, perciò guardo anche io e vedo che c’è David che si sta avvicinando minaccioso. Mi faccio minuscolo ed attendo la strigliata.
“Io non ho parole!” lo sento sibilare tra i denti, “Volete darvi un contegno? Tom, tu sei sempre il solito porco, e tu, Bill…” sospira e scuote il capo, “…cerca di non esporti troppo, d’accordo?”
Si allontana scuotendo il capo ed io faccio per voltarmi a guardare Chakuza per fargli cenno che sì, ora può avvicinarsi, ma non lo trovo dove l’avevo lasciato e vedo che sta girellando come un avvoltoio attorno al divano su cui sono seduti Sido e Fler. Sido sta dicendo qualcosa sul non parlare a sproposito, sembra un padre severo, e Fler si disinteressa di ciò che dice con la stessa espressione annoiata di un bambino disubbidiente. Lo vedo alzarsi in piedi e raggiungere Chakuza dopo aver lasciato Sido a parlare da solo, e vedo che, appena lo raggiunge, Chaku si volta immediatamente e si ferma a guardarlo.
“Ma allora eri davvero ubriaco!” gli dice prendendolo in giro, io ripenso all’uscita di Fler di prima e mi viene di nuovo da ridere, ma mi trattengo.
“Non sono ubriaco!” risponde Fler, tirandogli un calcio contro uno stinco, “Era una battuta, e almeno tu potevi ridere! Ho fatto la figura del cretino!”
“Ah, che strano…”
Il loro dialogo sfuma nel brusio dello studio e s’interrompe del tutto quando l’aiuto-regista ci fa segno di riprendere posto.
Quando finisce lo stacco pubblicitario mi accorgo che mi batte forte il cuore. Realizzo che ho paura delle altre domande che potrebbe pormi Patrice e cerco di ripassare mentalmente tutte le altre occasioni in cui Anis ha parlato di me o io ho parlato di lui. Ce ne sono tante e sono tutte potenzialmente imbarazzanti, o almeno, sono state tutte precedute o seguite da cose che potrebbero potenzialmente essere imbarazzanti se le raccontassi.
La scelta della camicia che ho indossato ai Comet nel 2007, per esempio. Quando tutti si sono chiesti per quale motivo gli ultimi due bottoni fossero sganciati e mi si vedesse tutta la pancia. Anis mi aveva letteralmente imprigionato nel camerino ed ero riuscito ad uscirne solo un minuto prima del red carpet. A riabbottonare il tutto con discernimento non avevo nemmeno provato – il mio discernimento aveva smesso di esistere nel momento stesso in cui Anis mi aveva posato le mani addosso.
Oppure la volta in cui gli chiesero se fosse serio nei miei confronti e lui rispose che sì, le sue intenzioni erano molto serie, mi avrebbe portato ad Amsterdam e mi avrebbe sposato e poi saremmo partiti per una lunga luna di miele. La sera prima avevamo litigato per chissà che motivo idiota – non è vero, li ricordo tutti, i motivi dei nostri litigi, volevo invitare Tom a mangiare da noi e lui aveva protestato dicendomi che era già abbastanza stanco dopo una giornata di lavoro per non sentirsi in vena di tollerare anche mio fratello, ed io l’avevo presa malissimo – e insomma, Anis non era davvero tipo da scuse, però sapeva lo stesso come farsi perdonare, e quello era stato il suo modo.
Ed a cercare, a grattare appena un po’ la superficie dei miei ricordi, ne trovo a migliaia, di aneddoti simili. E d’improvviso mi rendo conto che mi hanno chiamato in questo posto per affondare le mani nella mia testa e buttare la mia vita su un palco, davanti ad una telecamera, molto più di quanto non sia già stato fatto con me fino ad adesso.
E mi fa piacere ricordare Anis per i suoi fan. Però non so se voglio davvero dividerlo col resto del mondo, in questo momento.
Mi salva un miracolo, è evidente, perché so che, se fossimo tornati in studio ed avessimo ricominciato a parlare di me, non avrei potuto frenarle ancora, le dannate lacrime. Ed invece, dopo la pubblicità, non si torna subito in studio, parte un filmato. Guardiamo tutti nel monitor e vedo una cosa che decisamente non mi aspettavo. Davanti a me c’è un Anis che ho visto solo su YouTube e in qualche foto a casa di sua madre, una delle volte in cui mi sono ritrovato da quelle parti con lui. È magro e incasinato, più magro e incasinato di quanto fosse quando stava con me. Non è fisicamente piccolo, però lo sembra.
È un Anis talmente lontano dal mio tempo che quasi mi stordisce.
È l’Anis che conosceva Fler.
Nel filmato stanno tutti e due su un palco. O meglio, si danno il cambio: uno dei due sta sul palco, l’altro scende e passeggia lungo l’intercapedine che separa il palco dal pubblico. Tutti tendono le mani, tutti vogliono toccarli, sia Fler che Anis cantano con una rabbia ed una passione che Anis non ha mai mostrato all’Ersguterjunge. In effetti, ora che ci penso, anche nelle sue canzoni più cattive, Anis non sembrava mai arrabbiato. Solo amareggiato, deluso, il più delle volte semplicemente tronfio e fiero del proprio successo. La rabbia era una cosa distante, perché anche quando se la prendeva con l’Aggro Berlin era più derisorio che infuriato.
Su quel palco, invece, all’Aggro Berlin c’era ancora. Ed Anis cantava con rabbia. Lui e Fler cantavano insieme gridando al vento che la Germania non se li meritava, che la Germania non li capiva, che la Germania poteva anche andare a farsi fottere, loro i soldi li avrebbero fatti comunque, ed alla fine sarebbero diventati re e l’avrebbero governata tutta.
Li guardo nel video e mi sembrano così simili che quasi mi confondo. Cantano le stesse cose. Con la stessa voce. Con la stessa furia. È un Anis che non mi appartiene affatto, questo; lo trovo bellissimo, ma non ne avrò mai alcun ricordo. Mi volto impercettibilmente a guardare Fler e lo trovo con lo sguardo azzurrissimo fisso sul monitor. Si morde un labbro, non sembra agitato né a disagio, è solo… concentrato. Come non volesse perdersi un attimo di ciò che sta guardando.
Chi, invece, sembra davvero parecchio a disagio, è Sido. Ho come l’impressione che quest’uomo tutto vorrebbe tranne che trovarsi qui. Che è un po’ una sensazione che ci accomuna tutti, d’accordo, ma noialtri – io, Fler, Saad, Chakuza – lo sappiamo perché ci troviamo qui davvero. Per nessuno di noi questa è solo una trasmissione. Ci stiamo facendo gratuitamente del male perché è così che funzionano i lutti, qualsiasi cosa sia ciò che hai perso: ti ci immergi, lasci che ti ricopra tutto come un velo. Ne risorgi solo dopo. È un processo lento. Noi ci siamo nel mezzo.
Sido, con questo, c’entra poco. Eppure è qui e mi sento un po’ orgoglioso, per Anis.
Il filmato si conclude e noi torniamo in studio, Patrice non perde tempo a recuperare la propria cartellina e leggere ad alta voce. “Settembre duemilatre,” racconta con aria partecipe, “il successo di Bushido è appena all’inizio ed ancora nessuno immagina che, a solo un anno da questa data, lascerà l’Aggro Berlin per fondare la propria etichetta.”
Si prende una pausa ad effetto, la sfrutta per muoversi verso il divano su cui stanno seduti Sido e Fler. La telecamera stringe sugli occhi di Fler, il pubblico da casa non può vederlo ma io sì: sono ancora fissi sul monitor, che non è spento, è solo in pausa, precisamente sull’ultimo fotogramma di Anis prima della fine del video. Sembra uno sguardo perso, a guardarlo in televisione, ma io lo vedo che non è perso: Fler cerca gli occhi di Anis con i suoi. Mi sento disturbato.
Il fatto è che Fler è qualcosa di cui Anis parlava spesso, ma mai davvero. A toccare l’argomento con lui si ricevevano occhiatacce infastidite, tanto per cominciare, oppure una risata sprezzante, e sempre la solita solfa: un traditore, un codardo, uno stupido, ecco cos’è Fler.
Io non so.
Anis lo conosco- lo conoscevo: l’unico motivo per il quale provava della rabbia era per le cose che non era riuscito a trattenere abbastanza a lungo. Per suo padre, ad esempio. Per la storia fra Eko e Valezka, quand’era finita.
Credo che, quando Anis ha lasciato l’Aggro Berlin, l’abbia fatto sperando che Fler l’avrebbe seguito. Forse è questo, il tradimento di cui parla.
Ma io posso solo immaginarlo, perché Anis con me di questo non ha mai parlato davvero.
“È, questo, qualcosa che non si è mai veramente capito, nel passato di Bushido. Un po’ la parte oscura-”
“L’Aggro Berlin non è la parte oscura del passato di Bushido.”
Quando Fler parla, interrompendo Patrice, non se l’aspetta nessuno. Nemmeno il conduttore, che si volta a guardarlo come se, invece di averlo contraddetto, l’avesse preso a insulti senza un motivo. Ma è bravo, Patrice, a gestirsi gli ospiti, si muove con sicurezza: si riprende subito e si volta verso di lui, appoggiandosi al bracciolo del divano con aria complice, come un confidente navigato.
“Prego, prego,” incita con un cenno del capo. Sido lancia a Fler un’occhiataccia, ma Fler non la vede – o la ignora volutamente, non saprei. I suoi occhi sono cupi. Anche Anis aveva momenti del genere. E non lo si capiva più.
“L’Aggro Berlin non è stato un periodo oscuro,” ribadisce, e parla come non si trovasse davvero qui. Non guarda Patrice, non guarda la telecamera, continua a fissare l’immagine di Anis nel monitor. Non posso fare a meno di pensare che forse è proprio con lui che sta parlando. “Semmai, è stato il suo periodo d’oro. Eravamo giovani, ma la fama non ci aveva ancora istupiditi. E non cantavamo per spalarci merda addosso, cantavamo perché avevamo qualcosa da dire,” sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo. Lo guardiamo tutti, è un momento molto particolare. Mi sembra che Fler stia mettendo di fronte alle telecamere qualcosa di perfino più privato rispetto a quello che ho messo io. “I soldi danno alla testa solo ai deboli, comunque,” conclude scuotendo il capo, “è questo che non gli ho mai perdonato.”
Il nostro conduttore annuisce comprensivo. Mi chiedo perché non poggi una mano sulla sua spalla, s’intonerebbe perfettamente con quest’immagine melensa che vuole dare di sé, dell’uomo che sa tutto e che comprende tutto. Se io fossi davvero la principessa di qualcosa, l’avrei già messo a morte. Siccome mi sa che non lo sono, mi mordo un labbro e resto zitto.
“Sembra ci fosse proprio un bel rapporto, fra voi.”
Fler è preso in contropiede, non sa che dire, torna a guardarlo per la prima volta da quando siamo tornati in studio. “…ci conoscevamo da molto tempo…” butta lì, come servisse a spiegare.
“E come hai preso le accuse che ti sono state rivolte? Di averlo ucciso tu, intendo.”
Spalanchiamo gli occhi. Tutti, ma proprio tutti. Perfino Tom, che questa vicenda l’ha seguita solo marginalmente, si sente in dovere di dimostrare il proprio sgomento dischiudendo le labbra. Dopo quello che ha detto Fler, Dio, dopo quello che ha detto adesso, non puoi fare una domanda simile. È una scorrettezza tale che, stupidamente, penso che quest’uomo nel ghetto non resisterebbe un giorno. Lo farebbero fuori tempo niente. Devi capirlo subito, quando sei in quell’ambiente, cosa puoi dire e cosa non puoi dire.
“Puttanate,” boccheggia lui, e vedo Chaku agitarsi sul posto. Lo capisco, anche a me sta salendo un nervosismo assurdo. Vorrei prendere e alzarmi. “Se qualcuno ci crede ancora, quel qualcuno è un idiota,” rincara la dose, evidentemente ferito.
“Eppure,” continua Patrice, perfettamente conscio di aver trovato terreno fertile, “chi ti accusa parla di un movente piuttosto chiaro, e ce l’hai quasi confermato adesso. Ed eri lì, la notte in cui è successo, no?”
Vorrei davvero prendere e alzarmi. Le mani so menarle anche io. Ho le unghie lunghe. Di sicuro gli lascerei addosso qualche sfregio che ricorderebbe per un bel po’.
Invece si alza Fler, e nel suo sguardo c’è tanta fierezza e indignazione che arrivo a sentirmi inadeguato e sporco e meschino pure io che ormai alla sua colpevolezza non ci credo più da tempo.
“Sono puttanate,” ripete deciso, “come questo cazzo di programma,” e, senza una parola di più, si allontana verso il backstage.
Patrice non cerca neanche di fermarlo, un po’ di dramma era esattamente ciò che voleva, e visto che non mi ha ancora visto piangere – e non gliela darò questa soddisfazione, a questo figlio di puttana – provare con Fler era la cosa più veloce e più sicura. In sala cade il silenzio e Patrice sorride prima di voltarsi verso la telecamera e scusarsi col gentile pubblico per questa scena assolutamente imprevista ed alla quale cercheranno tutti di porre rimedio durante lo stacco pubblicitario.
Prima di andare in pausa, però, Sido chiede la parola. Prende il microfono che Fler ha lasciato sul divano, ed è calmo ed educato, addirittura cortese. Lo guardo bene in viso e mi chiedo se sia veramente questo l’uomo contro il quale Anis urlava tanto, nelle sue diss. Ha un aspetto incredibilmente innocuo.
“Fra le etichette discografiche,” comincia pacatamente, “è esattamente come fra gli esseri umani. Arriva un momento in cui smetti di capirti e non puoi più coesistere con l’altro,” scrolla le spalle. Anche lui parla con aria assente, però è una distanza diversa da quella di Fler. Continuo a pensare che quest’uomo non c’entri niente, con tutto questo, però è una presenza rassicurante, in un certo qual modo. “Ma Fler non ha ucciso nessuno,” dice deciso, guardando dritto in camera, “Fler c’è solo finito in mezzo. Ed è stato così un po’ per tutti noi, perciò io eviterei domande di questo tipo, da qui fino alla fine del programma.”
La pubblicità parte prima che Patrice possa rispondere.

Mi rendo conto di essere andato in stand-by solo quando vedo tornare Chakuza e Fler insieme. Fler ha addosso un’aria talmente scazzata che penso potrebbe esplodere da un momento all’altro. È palese che non ha nessun motivo di stare ancora in questo posto, e neanche nessun desiderio. Non ho idea di come abbia fatto Chaku a convincerlo a tornare dentro. Non ho idea neanche di dove sia andato a ripescarlo. Non mi interessa più niente, in tutta sincerità anche io sono decisamente stufo. Posso crogiolarmi nel mio lutto anche a casa, ho lasciato in mezzo le fotografie, posso ricominciare da lì. E invece mi tocca star fermo.
Mi consola solo il fatto che mancano meno di venti minuti alla fine della trasmissione, il che significa che probabilmente faranno un paio di domande a caso a qualcuno che decisamente non sono io ed alla fine mi permetteranno di andare a casa, dove dormirò fino a dopodomani, lo giuro.
Sono spossato.
Patrice riaccoglie il pubblico, che applaude, e non può proprio risparmiarsi un commento sul ritorno di Fler. “Le acque si sono calmate,” dice con un sorrisetto stronzo. Fler sbuffa, infastidito al massimo, ma non aggiunge niente.
Io sto quasi per rilassarmi contro lo schienale del divano, quando Patrice ricomincia a parlare.
“Fino ad ora abbiamo esaminato la parte più professionale e pubblica della vita di Bushido,” racconta serio, “ma Bushido era soprattutto un uomo. Con degli affetti, degli interessi ed una vita privata. È anche di questo che parleremo adesso con Bill Kaulitz, sicuramente la persona che, in quel senso, lo conosceva meglio.”
Ed io mi sento morire.
Lancio un’occhiata a David, che s’è pietrificato accanto ad una telecamera. Le domande private non erano proibite? Finché le cose le racconto io, d’accordo, ma che quest’uomo s’intrufoli nella mia vita, nel mio rapporto con Anis, nella mia cazzo di storia, questo no, non lo posso accettare. Non lo posso tollerare.
Non lo reggo.
David scuote lentamente il capo, non sa che pesci prendere. Aveva fatto firmare ai produttori un contratto, io lo so, David è sempre attentissimo a queste cose. Vedo già nei suoi occhi i meccanismi del cervello che si mettono in moto, lui che pensa a come risolvere, a chi fare causa, a chi togliere in tribunale perfino le mutande, ed io continuo a pensare che Patrice nel ghetto non sarebbe sopravvissuto un giorno. Penso questo, lo guardo e basta.
“Bill,” chiede comprensivo, “te la senti di parlarne?”
Non so che dire. No che non me la sento, mi pare ovvio. Non so perché non ho pensato a quest’eventualità, quando ho deciso che volevo venire ed aprirmi il petto in due. Non so perché non ho pensato che al mondo non bastasse vedere il mio cuore, che preferisse di gran lunga afferrarlo fra le dita e strapparlo via. Io lo sapevo che sarebbe finita così. Solo che la prospettiva di affondare un po’ fra i ricordi con una giustificazione valida per poterlo fare mi ha annebbiato la vista.
Tom mi guarda preoccupato. Cerco di nuovo David nel backstage, ma è scomparso. Mi prendo un secondo per avercela con lui, deve essere colpa sua, in qualche modo.
Sospiro.
“Suppongo di sì…” concedo distrattamente, con un mezzo sorriso. Sul divanetto dell’Ersguterjunge vanno tutti in tensione, come stessi per sputtanare chissà che.
In effetti è vero.
“Tu ed Anis…” mi salta il cuore in gola e spalanco gli occhi, “Posso chiamarlo così, sì?” non rispondo perché mi manca il fiato, ma no, testa di cazzo, non puoi chiamarlo così, non puoi chiamarlo così perché lo fai per pietismo in virtù di una libertà che non ti è mai stata concessa. Non commuovi nessuno, Patrice, ficchi le mani dove non devi, solo questo. “Com’è che vi siete conosciuti?”
Il mio sguardo si perde nel vuoto per qualche secondo. Poi stringo le mani in grembo – ho lasciato andare Tom molto tempo fa e non intendo tornare a chiedergli aiuto proprio adesso – e deglutisco, sperando di rimandare il mio cuore al proprio posto.
“Una festa,” racconto a bassa voce, “lui era ancora sotto contratto alla Universal. Chiacchierammo un po’, e…”
“Fu lui a provarci con te?”
Sollevo lo sguardo e lo omaggio di una smorfia infastidita.
“Assolutamente no,” dico, velenoso, “Non capisco cosa impedisca di pensare che sia stato io a provarci. È esattamente così che è andata.”
“E lui ti ha subito fatto sapere che anche da parte sua c’era dell’interesse…”
Comincio seriamente a chiedermi che razza di storia sia girata alle nostre spalle nello show business, perché ciò di cui sta parlando Patrice non c’entra niente con la nostra verità.
“Sono stato io ad insistere,” spiego asciutto. Non so perché non sto piangendo. Forse perché sono più arrabbiato che triste, in questo momento. “Anis s’è innamorato di me solo perché io, il suo amore, me lo sono guadagnato. E questo è quanto.”
Patrice annuisce tranquillamente e si siede sul bracciolo del mio divano. Io faccio fatica a non scostarmi disgustato.
“E dimmi, nella vostra vita privata-”
“La nostra vita privata” lo interrompo con un’occhiata glaciale, “è appunto la nostra vita privata.” Sorrido un po’. “Vuoi chiedermi com’era quando si svegliava alla mattina? Se era dolce con me? Se mi tradiva? Com’era a letto?” sbuffo e scuoto il capo, mi vanno un po’ di capelli davanti agli occhi ma li tiro dietro un orecchio con decisione. Non sto piangendo e voglio che lo vedano tutti. Voglio che lo capiscano tutti: Anis mi manca, ma non lo rimpiango. Non ho nessun motivo di rimpiangere niente. “Lui era perfetto,” dico fieramente, fissando dritto negli occhi Patrice, “è tutto quello che dovete sapere.”
Lui si tira impercettibilmente indietro. Vedo Tomi che ghigna soddisfatto, al mio fianco, mentre il pubblico si scioglie in un applauso scrosciante che non era previsto, dato che, teoricamente, non lo era neanche questa mia uscita.
Mi rilasso contro lo schienale e guardo Chakuza. Mi fa un cenno d’approvazione, una cosa piccolissima, china appena il capo e sorride. Gli sorrido di rimando, mentre ascolto distrattamente Patrice riassumere ciò che è stato fatto e detto durante la serata e salutare il pubblico ricordando l’orario di TRL del giorno dopo.

Non aspetto neanche un secondo. Appena ci danno il segnale di libero, mi alzo in piedi e tolgo il microfono. Non guardo nessuno e non vedo nessuno: voglio solo uscire da qui il più presto possibile, infilare in macchina e poi chiudermi in casa con le mie foto, i miei ricordi e il mio Anis che con le stupide insinuazioni di Patrice non ha niente a che spartire.
Imbocco il corridoio, incurante del fatto che, alle mie spalle, Chaku e Tom mi stiano chiamando. Trovo David che sta già litigando com'era prevedibile. Urla e strepita, minaccia ripercussioni legali su ogni fronte. "Il ragazzo è provato," sta dicendo e punta vagamente il dito nella direzione dalla quale provengo, finendo per indicarmi davvero senza volerlo. "Avevamo concordato per delle domande molto più generiche."
"Signor Jost, il signor Kaulitz si è dichiarato in grado di rispondere," gli risponde una donna ben vestita e pettinatissima. Ha la coda così tirata dietro la testa che dà l'impressione di smontarsi se solo le si togliesse l'elastico. Purtroppo quello che dice è vero. Il contratto sarebbe passato in secondo piano se Patrice fosse riuscito ad ottenere la liberatoria direttamente dalle mie labbra. E lo ha fatto, prendendomi in contropiede in diretta.
Nonostante questo, mi viene da sorridere stupidamente di fronte a David che mi chiama affettuosamente il ragazzo. Non posso essere il Signor Kaulitz per lui, neanche quando si parla di affari legali, non quando la prima volta che ci siamo incontrati avevo undici anni e lui mi superava ancora in altezza. Quello è durato poco, comunque.
Ad ogni modo sono stanco, l'ho già detto, e di ridere davvero non ho molta voglia.
"David, lascia stare," dico e lui si volta. E' così furioso che ci mette due secondi a capire che lo sto chiamando e gli ho chiesto di smettere. "Voglio andare a casa."
David si riprende e non discute. Qualunque disaccordo tra band e manager si discute in privato, è la prima regola.
E' così che ci ha insegnato a non fare capricci davanti a nessuno, ad obbedire ai suoi ordini per poi - in caso - protestare anche violentemente sul tourbus. E' per questo che la stampa non ha ancora avuto modo di sapere quanto io sia capace di battere i piedi e quanto si lamentino anche le due G, che passano per due tipi tranquilli.
David, difatto, non discute. "Va bene. Tra cinque minuti usciamo, allerto la security."
Mi sforzo di sorridere. "Grazie."
Il mio manager annuisce e si allontana, senza dimenticarsi di indicare la donna ben vestita e annunciarle decisissimo: "Avrà notizie dai miei avvocati."
Io mi stringo a Tom e sospiro. Se dio vuole è finita: niente più tributi, niente più inquadrature strettissime sui miei occhi. Non sono pentito - non ho la forza per esserlo - ma sono contento di essermi ripreso il mio Bushido e di potermelo riportare a casa. Ve l'ho fatto vedere, ma ora basta.
"Bill..." la voce tesa di Chakuza mi risveglia dai miei pensieri. Apro gli occhi e gli faccio cenno di continuare. Sta per parlare, ma David ci raggiunge di nuovo e quindi non ne ha il tempo materiale.
"E' tutto a posto, andiamo." E poi aggiunge: "Niente autografi, niente foto. Non vi fermate. Vi voglio fuori da questo posto il più in fretta possibile."
Sono perfettamente d'accordo, quindi annuisco. Tom e Chakuza scivolano al mio fianco immediatamente, imitano perfino i miei passi. Sorriderei se fossimo altrove.
Vedo Fler con la coda dell'occhio e mi pare che ci segua.
David ci fa uscire da dove siamo entrati ma la situazione è totalmente diversa. Quando ci affacciamo sulla porta si scatena il delirio: c'è un mucchio di gente in più. Hanno transennato ulteriormente e le ragazze scalpitano, chiamano il mio nome e quello di mio fratello. Qualcuno batte le mani e mi si solleva il sopracciglio in automatico.
David apre la fila e cammina spedito, dettando il passo a noi che gli stiamo dietro. Prima di uscire, abbiamo assunto la solita formazione: una delle guardie del corpo mi sta incollata addosso, l'altra è con Tom che scalpita - anche lui - e, per qualche strana ragione vorrebbe camminare più avanti con me.
Appena metto piede fuori, localizzo con un'occhiata le altre guardie della security; anche questo me l'ha insegnato David: devo sempre sapere chi mi può aiutare e dove trovarlo. Ironico che da lì a due minuti saperlo non mi servirà assolutamente a niente.
Facciamo soltanto cinque metri. Non c'è modo di arrivare alla macchina senza passare attraverso il corridoio umano transennato. Mi sforzo di tenere la testa alta e un'andatura non troppo sostenuta. Mi secca apparire scostante.
Le cose vanno fuori controllo un attimo prima che io - chiunque di noi, credo - me ne accorga.
Quando il pubblico grida, tu senti solo un vociare indistinto; alle volte ti arriva chiaramente il tuo nome e qualche frase imbarazzante, sì, ma per il resto sono solo grida.
Le urla di qualcuno che viene buttato a terra e spintonato, i suoni di una rissa insomma, non li puoi distinguere.
Ecco perché quando la transenna va giù è già tutto iniziato e tu non lo sapevi. Quando il ferro tocca terra con quel rimbombo di campana è già perfino tutto finito.
Da qualche parte alla mia sinistra volano offese. Io mi guardo intorno spaesato e l'unica cosa che mi preoccupa è che Tom si trova proprio da quella parte.
Guardo in quella direzione e la mia guardia del corpo fa lo stesso. Sull'errore umano ci puoi sempre contare, alla fine.
La rissa, in realtà, è solo davvero una rissa ma lo capiamo quel secondo troppo tardi. Quello è il secondo che ci mette la transenna vicino a me a cadere.
Mi volto di nuovo e lo vedo, l'uomo col passamontagna armato di coltello. Lo vedo così bene che penso: è una lama di dieci centimetri, sono morto.
Poi non capisco più niente. Sento correre, sento il mio nome e poi mi buttano a terra. Il grido di dolore che ne segue non è mio, però. Ho solo battuto una spalla, e neanche tanto, non ho fiatato.
Quando riapro gli occhi sono disteso a terra e Tom sta gridando: "Lasciatemi andare, cazzo!"
Il mondo ci mette più di qualche secondo a ritrovare un senso. La prima cosa che noto è che si sono zittiti tutti. Non è che stanno in silenzio, ma non gridano più; c'è come un mormorio.
La seconda cosa che noto è che ho le ginocchia immerse in una pozza di sangue. E che a seguirne la traccia collosa trovo Peter che non si muove e ha gli occhi chiusi. Peter che sembra morto.
"Chaku..." lo dico piano, perchè so che se mi esce di bocca poi è vero. Alla fine però urlo, perchè il sangue è sempre lì. "CHAKU!"
Gattono fino a lui e non me ne frega niente di niente. Del sangue. Della gente. Del brusio e delle mille voci che mi sembra di riconoscere. Non me ne frega.
Lo guardo e sta fermo, disteso sulla schiena. Lo guardo e ogni secondo c'è più sangue di prima. Mi ritrovo a pensare: non anche lui! Non anche lui!
E sento il panico che mi prende alla gola. Non ho materialmente la forza per prendere in considerazione l'idea che qualcuno gli abbia infilato un coltello nello stomaco, che stia morendo. Che perderò anche lui.
E' tutto come tre mesi fa. Tutto, tutto uguale. Il rumore di fondo, la gente che urla, il sangue. Il rosso, sulla maglietta bianca che si tinge ad una velocità spaventosa. Lo afferro e me lo tiro addosso, in ginocchio lì dove sono. "Chaku..." le lacrime che ho trattenuto di fronte a quel figlio di puttana di Patice escono fuori adesso. Mi ci soffoco mentre lo chiamo ininterrottamente. "Peter, Dio mio rispondi!"
Mi dondolo e dondolo lui. Una parte di me mi dice che è già morto, l'altra mi dice che non può esserlo e io non ascolto nessuna delle due e mi convinco che se rimaniamo tutti fermi non cambierà niente. Non morirà. Si fermerà tutto, anche il sangue.
Mio fratello continua a gridare e poi arriva Fler. "Bill spostati adesso," mi dice. La sua voce è tesa e netta e autoritaria. Non l'ho mai sentita una voce così, con quel tono particolare. Invece sì, penso vago. E' la voce di Anis, lui parlava allo stesso modo.
Io però continuo a stringere Peter perchè se mi muovo, se cambio qualcosa, il sangue riprenderà ad uscire. E lui a morire. "SPOSTATI!" Lo urla stavolta, e me lo strappa dalle mani, mi spinge via. Io cado all'indietro e c'è mio fratello pronto a recuperarmi al volo.
Sto piangendo così forte che non sento nemmeno le mie parole. So di pronunciarle, ma non le sento. "E' vivo? Fler?" Chiamo, lui non si gira. "FLER! Non si muove... Tomi, non si muove.. non si muove."
Tomi mi stringe, ho le sue mani sullo stomaco e mi appoggio contro il suo petto. Non è un abbraccio tenero, mi stringe forte perché sa che mi getterei di nuovo in avanti. Tom non dice niente, non lo dice e io penso che se non parla è perché non può consolarmi. E se non può consolarmi allora vuol dire che è morto. Peter è morto.
Fler solleva la testa, si guarda intorno con rabbia. Quei suoi occhi azzurrissimi quasi lampeggiano. Quando dice: "Qualcuno chiami una fottuta ambulanza," non guarda nessuno eppure tutti si sentono tirati in causa.
L'ambulanza arriva dopo pochissimo. Qualcuno doveva averla già chiamata, oppure sono stati molto veloci. Non so. I paramedici scendono dall'automezzo uno dietro l'altro come le squadre speciali della SWAT nei film americani. E anche Fler è un film americano perchè è lui a dire tutto, a fare tutto. "Ferita da arma da taglio sull'addome, il coltello probabilmente era seghettato, avrà bisogno di... non lo so, almeno quattro punti, ed assistenza immediata," dice ad uno dei medici mentre issano Chakuza su una barella. E la sua voce è di nuovo in quel modo, netta e secca. Il medico annuisce e Fler ha il viso tirato. Si china sulla barella, su Peter e sussurra: "Stai tranquillo, Atze, ne vieni fuori. Non preoccuparti."
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- Il dramma delle relazioni a distanza, di avere un fratello poco conciliante e di due esseri umani che sono probabilmente la peggiore accoppiata della storia delle relazioni sentimentali. O forse no.
Note: Questa storia nasce ormai… un paio di settimane fa, sì, dopo aver visto l’ormai celeberrimo episodio 51 della THTV. Tab mi ha accolta appena sveglia strillando che Bill era bellissimo, donnissima e lo voleva assolutamente subito con Bushido. Quando ho visto anche io l’episodio mi sono ritrovata d’accordo, perché, insomma, è così piccolo e carino *______* che viene proprio voglia di ficcarlo fra le braccia del signor Ferchichi e metterli lì a ferirsi a vicenda *-*
Sì, lo so, è un’altra Billshido semi-triste ._. Il punto è che, quando dico che il mio fandom ispira dolore, non è che lo dico così a cavolo, lo dico perché è vero -.- Io volevo che questa fosse una storia fluff, ed in effetti era cominciata bene in questo senso è_é però poi s’è diluita nel dramma ed in una certa riflessione sui rapporti di coppia a distanza che, insomma, non sono mai cose esattamente lol, perciò alla fine, per quanto la storia in sé si concluda bene, immagino possa essere un po’ pesante, da leggere. I tatini non fanno che ferirsi quasi per tutto il tempo ;_;” *abbraccia i tatini*
Il titolo gliel’ha dato Tab. Il Salutandotiaffogo, invece, io; ma era di Tiziano Ferro XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
POOL SIDE MANNERS
salutandotiaffogo

Bill si rigirò fra le lenzuola e sorrise ad occhi chiusi nell’accorgersi che la pelle non sfregava contro la fresca morbidezza del cotone, ma contro un calore familiare e un po’ ruvido, avvolto attorno al suo corpo esattamente come una coperta, ma molto più dolce. Sollevò le mani, le palpebre sempre abbassate, e le portò a sfiorare il petto della persona distesa al suo fianco – e tutta attorno a lui. La resistenza ostinata dei muscoli sotto i polpastrelli lo fece mugolare di piacere, così come allo stesso modo lo fece mugolare l’abbandono arreso delle gambe dell’altro quando le sue cercarono spazio fra di loro per un intreccio scomodo ma di cui sentiva assolutamente il bisogno.
Bushido rise, e fu allora che il ragazzo si decise ad aprire gli occhi.
- Da quando sei sveglio? – chiese, strisciando fra le sue braccia per raggiungere le sue labbra.
- Non ne ho la più pallida idea. – rispose lui, ridendo ancora, - Un paio d’ore?
- E non mi hai svegliato? – insistette lui, gli occhi già brillanti nell’attesa di una di quelle frasi tremendamente sdolcinate delle quali in genere ridi, quando te ne parlano gli altri, ma che ti scaldano il cuore quando sono rivolte a te.
- Be’, veramente ci ho provato. – rispose invece Bushido. Bill rise di cuore e si ricordò perché stava con lui. Le frasi sdolcinate non erano proprio di suo gusto. – È che non sei veramente una persona svegliabile. Soprattutto quando ti tengono in piedi fino a tarda notte.
Bill si mosse contro di lui, facendo le fusa come un gatto.
- E chissà di chi è la colpa, mh?
Bushido sorrise e roteò gli occhi.
- Mia, vostro onore, ma ho avuto la complicità della vittima.
Bill rise ancora e gli si strinse contro, posando il capo sulla sua spalla.
- Spiegare la tua presenza sarà un disastro.
Bushido si irrigidì sotto di lui, e Bill aggrottò le sopracciglia.
- …non credo ce ne sarà bisogno, piccolo.
Il moro si ritrovò a stringere così forte i pugni da piantarsi le unghie nei palmi. Fino a farsi male.
- Sei arrivato ieri sera.
- E devo ripartire fra tre ore.
- Non è possibile! – si lamentò lui, rivoltandosi sul materasso e guardandolo negli occhi, - Sei arrivato… dieci ore fa! Ed abbiamo dormito per le ultime quattro! Non puoi andartene, Anis, ti prego…
Bushido gli sfiorò una guancia con due dita, sorridendo appena.
- Non sarei neanche dovuto venire, piccolo. Ho le riprese per il video del nuovo singolo.
Bill gli si abbatté addosso, sospirando pesantemente.
- Quella canzone fa schifo. E quell’uomo è viscido.
- Ma… - rise lui, - Ma se è uno zucchero! Ti ha anche regalato una caramella, quando-
- Appunto! – tornò a guardarlo Bill, mugolando scontento, - È tremendo! Che razza di uomo regala una caramella ad un ragazzo?!
- Un uomo che scambia il suddetto ragazzo per la nipotina della mia cugina bianca?
- Tu non hai una-
- Ma cosa pensi che gli importi? – rise ancora Bushido, divertito oltre il legale, arricciandosi su se stesso, - Ha un milione di anni, perché deluderlo?
Bill mugolò e si ripiegò contro il suo collo, abbracciandolo stretto.
- Che razza di ore sono…?
- Molto molto tardi, piccolo. Siete abituati a svegliarvi sempre quando la gente normale va a fare il riposino pomeridiano?
Bill scrollò le spalle.
- Più o meno. – si allungò verso il comodino e recuperò il cellulare, scalciando un po’ le lenzuola per muoversi più liberamente e componendo a memoria il numero di Tom. – Tomi? – chiamò pigolando, - Sììì, lo so, avevo sonno da morire… c’è la TV, per caso? Mmmhn. Mandali via. Scendo fra una mezz’ora.
Chiuse la conversazione e si voltò a guardare l’altro uomo, che lo fissava di rimando con aria critica.
- Tu- - cominciò, ma Bushido non lo lasciò finire, poggiandogli un dito sulle labbra.
- No, Bill. – rifiutò nettamente.
Lui si divincolò dalla stretta e ricominciò a parlare.
- Hai detto tre ore, no? Ci muoviamo, facciamo colazione tutti insieme e poi ti accompagno in aeroporto!
Bushido scosse il capo.
- Hai dimenticato dei pezzi. Ci muoviamo, facciamo colazione tutti insieme, io tollero tuo fratello che, se va bene, mi fissa come fossi un assassino e, se va male, mi prende a insulti, e poi mi accompagni in aeroporto dove dovrò sopportare anche le tue lacrime. È così che andrà.
- Anis, ti prego
- No, Bill, sono io che ti prego!
Si fissarono per qualche istante, e Bill trovò surreale che stessero a tutti gli effetti litigando ma avvinghiati come non volessero lasciarsi andare mai più.
- …cosa ti costa?
Bushido fece una smorfia. Gli costava eccome, e Bill lo sapeva. Gli costava la fatica di non tirare qualcosa di molto doloroso in faccia ad un fratello scostante che non credeva fosse davvero compreso nel pacchetto Kaulitz e che invece lo era senza via di scampo. Gli costava starsene immerso in un mondo non suo, un mondo che gli era del tutto ostile e che continuava – giustamente – a vederlo come un intruso ogni volta che si mostrava in giro. Gli costava, soprattutto, resistere alla tentazione di mandare tutto a fanculo e restargli accanto quando lo vedeva piangere. Prendere tutto – il nuovo album, il video, il singolo e perfino Karel Gott – buttarlo nel cesso e tirare lo sciacquone. Solo per restargli accanto.
Ma costava altrettanto a Bill osservarlo rinunciare a dei momenti preziosi in cui avrebbero potuto semplicemente stare insieme, solo perché si sentiva a disagio in mezzo ai suoi amici. Solo perché suo fratello faceva lo stronzo. Solo perché ad Anis non piaceva vederlo piangere.
Alla fine, l’uomo cedette. Grugnì infastidito e si mise seduto. Bill commentò solo con un sorriso.
*
- Oh. Capisco. – furono le prime parole di Tom quando li vide avanzare lungo il bordo della piscina. Bill sorrideva lievemente stringendo la mano di Bushido, e fondamentalmente, in quel preciso istante, che suo fratello fosse un isterico geloso era una cosa che gli interessava solo in via marginale. Poteva tollerarlo.
Anis non sembrava dello stesso avviso, però, e si premurò di farglielo sapere cercando di divincolarsi dalla sua stretta. Bill gli lanciò un’occhiataccia.
- Anis, non siamo al liceo e quella non è la ragazza che ti veniva dietro e dalla quale non vuoi farti vedere mano nella mano con me. È mio fratello. Piantala.
Bushido sospirò e roteò gli occhi.
- È palesemente la ragazza che veniva dietro a te, ecco perché non voglio che ci veda mano nella mano. – lo prese in giro con un mezzo ghigno.
- Piantala col twincest, amore, posso uccidere per molto meno. – lo avvisò con un sorriso serafico. Bushido grugnì e lasciò perdere.
- Allora ho fatto bene a mandarla via davvero, la tv. – commentò il rasta addentando un sandwich dalla dubbia farcitura. – Come cazzo avresti fatto ad arrivare fino a qui tu, eh, tunisino?
Bushido strinse con forza le dita attorno a quelle sottilissime di Bill, facendogli quasi male.
- Pagando, naturalmente, Kaulitz. – rispose tagliente, - Di tasca mia. Non lasciando che a saldare il conto fosse la mia casa produttrice. Ma mi pare perfino superfluo specificarlo.
- E allora perché lo fai? – ritorse supponente il biondo, mandando giù un sorso di succo di frutta.
Bushido ringhiò. Bill gli strinse un braccio attorno alla vita.
- Ci calmiamo tutti quanti? – chiese con un sorriso zuccheroso, - Tomi, Anis andrà via fra qualche ora, saresti molto gentile se potessi-
- Io non sono gentile. – lo interruppe suo fratello, accavallando pigramente le gambe.
Bill fece una smorfia.
- Potresti essere buono con me, allora? – insisté il moro, accomodandosi su una delle sedie e spingendo Bushido a fare lo stesso.
Tom concesse un gesto di vaga approvazione e tornò ad affondare il naso nell’enorme bicchiere di succo di frutta.
- Grazie mille, Tomi. – concluse Bill con lo stesso sorriso di prima. Bushido guardò altrove, aggrottando le sopracciglia. Quel sorriso lo irritava a morte. Era un sorriso condiscendente, tenero ed arreso, e Bill lo usava solo con Tom. Era come se, ogni volta che mostrava quel sorriso, Bill stesse ribadendo il concetto fondamentale che Tom si gloriava di rinfacciargli ogni volta che se lo trovava fra i piedi: lui è mio ed io sono suo, ci apparteniamo in un modo che tu non potrai mai neanche lontanamente arrivare a comprendere. E ci sono cose di lui che saranno sempre e solo mie. Non potrai mai nemmeno sfiorarle.
Quel sorriso era una di quelle cose.
Bushido lo odiava.
- Anis, ti vanno queste robe…? Non mi piacciono per niente… - mugolò Bill, facendogli scivolare sotto il naso un contenitore di plastica pieno di roba fritta vagamente somigliante a patatine, - Sono dolci. – specificò il moro, - Mangiano certe schifezze, da questa parte del mondo…
Bushido scrollò le spalle ed allungò una mano verso il cesto della frutta posato nel centro del tavolo, recuperando un’arancia ed andando alla ricerca di un coltello per sbucciarla.
- Quindi molli il lavoro per venire a scopare oltreoceano, tunisino? – ricominciò prevedibilmente Tom dopo qualche secondo, piluccando dal proprio contenitore ricolmo di frutta mista in pezzi.
- Il mio lavoro, se permetti, sono fatti miei. – replicò seccamente Bushido, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo.
Tom scrollò le spalle.
- Be’, sai com’è, fino a ieri Bill si lamentava che eri così tremendamente impegnato da non poterlo nemmeno chiamare al cellulare… evidentemente invece non fai un cazzo tutto il giorno, tu.
- Tom, senti- - cominciò, già irritato, ma Bill lo fermò pressandogli quelle dita incredibilmente sottili tutte attorno al polso, e rivolgendogli un’occhiata da cucciolo ferito, scuotendo appena il capo.
Bushido sospirò e tornò a stendersi contro lo schienale della sedia, sbucciando l’arancia. Tom sorrise trionfante.
- Sei fortunato che non ci sia David da questa parti. – riprese il rasta, passando a divorare il secondo sandwich, - Altrimenti avrebbe chiamato la sicurezza per farti buttare fuori. Non lo sai che abbiamo riservato tutta l’area VIP? Non ci potresti nemmeno stare, qui.
- Sono con tuo fratello, nel caso ti fosse sfuggito. – specificò l’uomo, mandando giù uno spicchio del frutto.
Tom sogghignò.
- Uh, già, è vero. Sai, trovo ancora difficile abituarmi al pensiero che ormai non sei più solo tu che sbavi dietro al culo di mio fratello, e che ora la cosa è reciproca.
- Cristo santo! – strillò, battendo arancia e coltello sul tavolo, - Mi sono rotto i coglioni di-
- Anis, ti prego. – lo fermò ancora Bill, mordendosi un labbro con aria sofferente, prima di rivolgersi al fratello, - Tomi, te l’ho chiesto come favore personale. Ti scongiuro. Ti prometto che dopo faremo qualcosa di bello io e te da soli, appena Anis sarà andato via.
Tom si alzò in piedi, gettando sulla tovaglia quanto restava del suo sandwich mangiucchiato.
- Fate il cazzo che vi pare. – rispose con una scrollata di spalle, prima di sfilare la maglietta e dirigersi tranquillamente verso la piscina a qualche metro da loro.
Bill si voltò a guardare il proprio uomo e, riflessa nei suoi occhi, trovò tanta di quella disapprovazione che ci si perse dentro.
- Scu-
- Non ci provare nemmeno, a scusarti. – tagliò corto l’uomo, recuperando l’arancia e ricominciando a tagliarne via spicchi, - È una tua fottuta colpa, questa situazione. Continua a dargliele tutte vinte e vedrai dove andremo a finire.
Bill si morse l’interno di una guancia, forzando un sorriso mite.
- Lo so, Anis. È per questo che mi scuso. Cercherò di sistemare la situazione appena sarai andato via. Promesso.
Bushido scosse il capo e sospirò, esausto.
- Prometti a me e lui due cose diverse, piccolo. – commentò con un mezzo sorriso, - Così è perfino peggio.
Bill si ripiegò contro la sua spalla, socchiudendo gli occhi.
- Non voglio litigare, Anis… è bello averti qui, non ci vedevamo da… tipo un mese.
Lui sospirò ancora, passandogli un braccio attorno alle spalle.
- Sì, all’incirca. – concesse con un cenno d’assenso. – Ti mancavo?
Bill sorrise contro la sua pelle, inspirando il suo profumo.
- Come l’aria.
- Ma sei ancora vivo.
- …non fare lo stronzo, adesso.
Bushido rise, lasciandogli un bacio sulla testa.
- Mi mancavi anche tu. – ammise a bassa voce.
- Sì, in effetti ti vedo sciupato… - commentò Bill con una risatina, - Si vede che la mia assenza ti devasta.
Per qualche secondo, Anis non disse niente. Poi strinse la presa della mano sulla sua spalla e lo guardò.
- È vero. – rispose, - Mi devasta.
Bill arrossì, perché c’erano volte in cui i filtri di Anis non si limitavano ad essere sottili come sempre, ma andavano oltre, sparivano e basta. Erano quei momenti in cui aveva l’impressione di potergli leggere nel cuore. Ed era spaventosa la quantità di affetto che riusciva a vederci dentro.
Distolse lo sguardo, perché era sempre difficile reggere gli occhi di Anis quando lo guardavano con quella purezza. Paradossalmente, era molto più facile gestirlo quando era affamato ed eccitato, che non quando era così tranquillo. Era troppo sincero. Era un sincerità che non poteva che farti piacere, d’accordo, ma feriva anche, perché era assoluta. Era unica. Era tagliente.
Era come se cercasse di entrargli dentro al corpo, ogni volta che lo guardava così. Come se stesse cercando di procurargli una ferita per intrufolarsi dentro di lui.
- Mangi regolarmente? – chiese per deviare il discorso, chiedendosi se fosse normale per un diciannovenne chiedere una cosa simile al proprio fidanzato trentenne.
Bushido rise.
- Le pizze a casa di Chaky contano come pasti regolari?
- …vecchie di quanti giorni? – chiese con una punta di disgusto, abbattendosi contro la sua spalla. Spalla che Bushido scrollò, facendolo saltellare tutto fino a confondergli le idee.
- A saperlo, piccolo. – ammise, inclinando un po’ il capo.
Bill sorrise lievemente e si accoccolò contro di lui. Tom riemerse dalla piscina proprio in quel momento, ed avanzò a bordo vasca fradicio e luminoso del riflesso del sole che batteva attraverso le gocce d’acqua sulla sua pelle liscia e ambrata.
- Prendetevi una stanza. – commentò acido, afferrando un accappatoio ed usandolo come un asciugamani prima di gettarlo a casaccio sulla sedia e tornare verso la piscina, per appropriarsi di una sdraio.
Bushido non avrebbe commentato l’uscita, se non avesse sentito chiaramente Bill ridacchiare contro di lui.
- ‘Cazzo ridi, Bill? – borbottò deluso, - Tuo fratello è uno stronzo.
Il ragazzo scrollo le spalle, spalmandoglisi addosso.
- Era una battuta carina.
- Solo nelle vostre teste contorte.
- Ma dai… - cercò di rabbonirlo con un sorriso sereno, - Era come dire che siamo molto appassionati.
- No, piccolo, era come dire “mi fate schifo, toglietevi dai piedi”.
- Vuoi insegnarmi a capire il mio gemello, Anis?
Bushido sospirò.
- Vorrei insegnarti a non farti prendere per il culo, testone che non sei altro. Ma è una battaglia persa in partenza. Almeno con lui.
Bill scrollò le spalle. Non aveva ancora toccato cibo.
Bushido si ritrovò per la prima volta a chiedersi se fosse troppo teso perfino per mangiare.
- Che ore sono? – si sentì chiedere da quella vocina estenuata e debole che anticipava sempre i loro addii.
- Molto tardi. – biascicò senza nemmeno guardare l’orologio. Lo fece Bill per lui.
- È vero… - confermò tristemente, - Andiamo a prepararci?
Anis scosse il capo.
- Io vado a prepararmi, cucciolo. Tu resti qui.
- Io ti accompagno.
- No.
- Io. Ti. Accompagno.
- No-oh.
Bill mise su un broncio delizioso, incrociando le braccia sul petto.
- La pianti di fare il bambino? – lo rimproverò a mezza voce, inarcando un sopracciglio con aria inquisitoria.
Bushido sospirò.
- Promettimi che non piangerai.
Bill sorrise.
- Promesso.
*
Bill era talmente teso che, Bushido ne era sicuro, se solo avesse provato a sfiorarlo sarebbe andato in mille pezzi. Infilò lo spazzolino da denti nel beauty case e poi infilò quest’ultimo nello zaino, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa che potesse avere scordato.
Bill stava seduto sul letto e Bushido si chiese se esistesse un modo per piegarlo in quattro ed infilare nello zaino pure lui, visto che aveva l’impressione che l’unica cosa che avrebbe rimpianto, una volta rimesso piede in Germania, sarebbe stato il suo corpo.
Bushido non era mai stato tipo da grandi riflessioni, eppure con Bill si ritrovava a volte a provare sentimenti che non avevano il minimo senso. Ad esempio, in quel momento: Bill era lì, a due metri da lui. Gli sarebbe bastato allungare un braccio e l’avrebbe toccato.
Eppure gli mancava. Non si sentiva abbastanza vicino. Era come trovarsi già dall’altro lato dell’oceano e invece, a voler esagerare, stava appena dall’altro lato del tappeto. E non era nemmeno vero, perché in realtà sul tappeto ci teneva i piedi quasi per intero.
- Bill? – lo chiamò a mezza voce, e lui tirò su il capo come si fosse svegliato in quel momento.
- Preso tutto? – chiese con un sorriso appena accennato, stringendo i pugni attorno alle ginocchia rigidamente piegate. Sembrava una bambola di plastica.
Gli si avvicinò, lasciando cadere lo zaino per terra e sedendosi sul letto accanto a lui.
- Lo sai che mi mancherai? – chiese, poggiando una mano sulla sua e percependola fredda e tesa sotto i polpastrelli, - Sul serio.
Bill si morse un labbro.
- Devi per forza-
- Devo per forza. – lo interruppe, annuendo brevemente. Con Bill era sempre tutto molto difficile. Concedergli qualcosa poteva essere davvero incredibilmente pericoloso, se poi ci si lasciava sfuggire il controllo.
Si piegò su di lui, baciandolo lentamente, come a voler stiracchiare il tempo. Magari, se si muovevano a rallentatore loro, anche le lancette non avrebbero avuto tanta fretta di fare il giro del quadrante.
Bill sollevò le braccia a cingergli il collo, e Bushido mugolò di disappunto perché, anche a non volergli concedere le cose, Bill sapeva bene come prendersele. Quando Bill sollevava le braccia in quel modo, quando lo stringeva al collo, quando si alzava sulle ginocchia e poi lo scavalcava con una gamba, sedendoglisi in grembo, non era mai per un paio di coccole e non era mai per un blando saluto.
- Bill, è-
- Arriverai in tempo. – lo rassicurò lui, prendendogli entrambe le braccia e conducendolo finché non gli concesse un abbraccio, - Promesso.
Bushido scansò il pensiero pericoloso – no, piccolo, non ci arriverò perché non ci voglio nemmeno arrivare – e chiuse gli occhi, stringendosi contro il suo corpo magrissimo, premendoselo addosso come a volerselo marchiare sulla pelle, solo per sentirsi ripetere dai propri sensi, per l’ennesima volta, che in realtà non ne aveva bisogno, perché Bill era sempre lì: le ossa appuntite del suo bacino, la curva incredibilmente flessibile della sua schiena, le spalle piccole e strette, il collo sinuoso ed elegante, la linea dura della mascella, la morbidezza surreale delle sue labbra.
Non ho nessun motivo di sentire la tua mancanza, amore, perché ti ho addosso sempre.
Ed invece no, ho tutti i motivi del mondo di sentire la tua mancanza, amore, perché non ci sei mai.

Lo aiutò a venir fuori dai jeans e da quell’assurda maglia da donna che s’era messo addosso prima di scendere di sotto, e poi si stese sul letto, e lasciò che fosse Bill a fare il resto. Gli piaceva quando Bill lo spogliava, perché lo faceva sempre con timore. E con una certa concentrazione. Era buffo, si metteva addosso un’espressione infantile veramente carinissima. Bushido lo osservava ed a volte non poteva fare a meno di afferrarlo per la nuca e tirarlo verso di sé per baciarlo ed avere una scusa sensata per chiudere gli occhi, così da non dover ridere.
Quella volta non lo fece perché in realtà di voglia di ridere ce n’era davvero poca. Lo tenne stretto per i fianchi mentre Bill gli sfilava i pantaloni e poi si spingeva contro la sua erezione, lasciandola scivolare contro la propria, pressandogli entrambe le mani sugli addominali, per reggersi dritto. Bushido ringhiò, lo prese per un polso e portò la mano alle labbra, lasciando un bacio su ogni polpastrello. Bill lo guardò e sorrise, e poi premette le punte delle dita contro le stesse labbra che lui dischiuse, accogliendole dentro la propria bocca, accarezzandole con la lingua e perdendosi nei mugolii di risposta di Bill.
Lo lascò andare con un sorriso furbo, baciando un’ultima volta le punte delle dita prima di seguirne il cammino lungo il proprio petto e il proprio ventre. Poi le osservò scomparire sotto il corpo di Bill e, quando lo vide chiudere gli occhi e schiudere le labbra, perdendosi in un’estasi solitaria del tutto priva di suono, seppe che si stava preparando per lui.
Lo sollevò per i fianchi perché voleva vederlo. Voleva osservare quelle dita affusolate entrare ed uscire del suo corpo, prepararlo alla sua presenza. Non che bastassero, in genere – Bill aveva ancora un mucchio di difficoltà a tenerlo dentro senza dover buttare fuori tutta l’aria che aveva in corpo, per fargli spazio – ma cazzo se erano belle.
Quando Bill sfilò le dita, Bushido non aspettò neanche un attimo per prendere il loro posto. Se lo lasciò scivolare addosso godendo della resistenza del suo corpo, mentre Bill stringeva i denti e tornava a premere le mani contro il suo ventre, cercando di imporgli un ritmo meno frenetico, paralizzando il tempo quando si tirava su, arrivando fino al limite, prima di aiutarlo a riprendere il suo corso lasciandosi ricadere verso il basso, prendendolo dentro fino all’ultimo centimetro.
Bushido lo strinse forte alla vita, si augurò di lasciargli dei segni evidenti, segni tali che non avrebbe più potuto alzare le braccia in concerto, perché con quelle micro magliette che metteva ogni volta si sarebbe ritrovato seminudo e tutti avrebbero visto. Segni viola talmente prepotenti, contro quella pelle bianchissima, che nessuno avrebbe potuto equivocare.
Sei mio. Quando non ci sei. Quando non ci sono. Lo sei sempre.
Bill si spinse contro di lui, una volta, due volte, più forte e più veloce, accarezzandosi distrattamente fra le cosce, come non ne avesse davvero bisogno perché la cosa che lo faceva godere non erano le mani, non erano le carezze, non era neanche la sua stretta, la cosa che lo faceva godere era il suo cazzo, piantato dentro di lui così in profondità da sconvolgergli il corpo e la testa, tanto in profondità da togliergli il fiato, la capacità di pensare, di far battere il cuore, di provare dolore, perfino di esistere. Restava solo il suo corpo a muoversi. Avanti. E indietro. Avanti. E indietro.
Bushido venne con un gemito soffocato, mordendosi un labbro e scattando in avanti, per un secondo completamente impossibilitato a controllare le proprie funzioni motorie, proprio mentre Bill stringeva con più decisione la mano attorno alla propria erezione pulsante e pompava un paio di volte, aiutandosi a raggiungere l’orgasmo e venendogli addosso, gettando indietro il capo.
Se ne accorse in quel momento, Bushido. Se ne accorse quando Bill tirò indietro la testa, perché vide una lacrima cadergli lungo la guancia. E si chiese per quale dolore stesse piangendo il suo ragazzo. Però a lui non disse niente.
*
Bill non gli si era ancora arricciato addosso. Erano seduti di fronte al gate già da una ventina di minuti e dovevano aver scambiato in tutto tre o quattro parole – qualcosa tipo “quanto manca?”, “un po’” – dopodiché erano rimasti immobili, ognuno sul proprio scomodo seggiolino, a fissare il tabellone luminoso delle partenze sulla parete di fronte a loro.
Che Bill non gli si arricciasse addosso ad una mezz’ora scarsa dalla propria partenza era disturbante, strano e triste. A Bushido non piaceva.
- Potresti almeno salutarmi. O intendi tenermi il muso finché non sarò salito sull’aereo, solo perché mi sto rifiutando di restare?
Bill gli lanciò un’occhiata infastidita. Una delle numerose cose che avevano in comune – uno dei numerosi motivi per cui non avrebbero mai dovuto stare insieme, ed anche uno dei numerosi motivi per i quali invece non riuscivano a stare l’uno lontano dall’altro – era l’incredibile fragilità dei loro momenti di calma. C’erano, sì, c’erano momenti in cui riuscivano a stare tranquilli. Ma duravano generalmente poco ed erano seguiti da interi giorni di agitazione tali da portarli a litigare per un niente. Senza un perché. Per il gusto di farlo. O forse neanche per quello.
- Non ho il diritto di essere triste? – chiese il ragazzo, stringendo le mani sulle ginocchia.
- Sì che ce l’hai. – ritorse lui, serissimo, - Ma non è un tuo diritto esclusivo, Bill. Se credi che a me faccia piacere-
- Io non credo che a te faccia piacere! – disse Bill, voltandosi di scatto a guardarlo. Poi si fermò, sembrò riflettere sulla possibilità di restare in silenzio o continuare a parlare, e Bushido vide i suoi occhi colorarsi dei toni opachi dell’incertezza e poi diventare liquidi e brillare per un secondo, prima di spegnersi, scendendo a fissare le punte delle anonime scarpe da tennis che indossava. S’era arreso. Arreso al litigio. – Credo non te ne freghi un bel niente. – disse infatti.
Bushido digrignò i denti.
- Sono venuto fino a qui dalla fottuta Germania, Bill! – gli rinfacciò Bushido, tirando distrattamente un calcio allo zaino posato sul pavimento fra le sue gambe. Era assurdo trovarsi in quel momento a ripetere quelle cose. Era il tipo di litigio più rodato che possedessero. “A te non frega niente di me – e per dimostrare che ho torto ti faccio arrabbiare”. “Non è vero, m’importa – e per dimostrartelo ti faccio del male”. Era una cosa talmente automatica che a volte Bill non aveva più nemmeno bisogno di dargli la frase di partenza, per cominciare ad urlare. Si ritrovavano a litigare furiosamente l’uno da una parte del divano e l’altro all’angolo opposto senza neanche aver bisogno di un motivo per farlo.
- Potresti rimandare le riprese del video e restare un po’… - disse Bill, ma il tono della sua voce non era speranzoso. Quella non suonava nemmeno come una richiesta. Era solo il ripetersi di un copione già scritto.
- Resterei, lo sai, ma non posso. – c’era da annoiarsi.
- Non vuoi. – c’era da smetterla, da smetterla davvero di continuare a prendersi in giro così.
- Bill, piantala di dire cazzate. – c’era da smetterla davvero.
Se io ti amo e tu mi ami, qual è il senso di questi discorsi? A cosa serve farsi del male in questa maniera del cazzo? A cosa serve inciderti addosso una ferita ogni volta che ci vediamo, solo per vedere che sono ancora in grado di farti male? Solo perché se ti faccio male vuol dire che ti importa ancora? Perché dovrei farlo, se già lo so che t’importa? Perché devo farti del male se tutto quello che voglio è un bacio e sentirmi ripetere che ami me solo me fino a quando non dovrò salire su quel fottuto aereo e sarò costretto a dimenticarmelo?
- Lasciamoci, Anis.
Bushido sollevò gli occhi. Prima sulle poltroncine di fronte alla sua. Non guardava nessuna delle persone lì sedute, ma almeno un paio di viaggiatori in attesa si sentirono molto disturbati da quello sguardo, e cominciarono ad agitarsi sul posto. Così Bushido guardò un po’ più in alto, sul tabellone delle partenze. Mancava un quarto d’ora all’inizio delle operazioni d’imbarco, più o meno.
Mentre Bill rimaneva zitto e immobile al suo fianco, Anis riavvolse il nastro della memoria a partire da due giorni prima. Da un colpo di testa e da un volo transoceanico. Dall’arrivo in un aeroporto sconosciuto e dal viaggio in taxi fino all’albergo. Dal sorriso sconvolto e felice di Bill e dalle sue braccia strette attorno alle spalle. Dal calore della sua pelle e dalla morbidezza incredibile del suo corpo. Da quanto gli fosse mancato stare dentro di lui. Dai suoi occhi brillanti mentre veniva sotto le sue spinte. Dalle sue mani serrate attorno alla sua stessa eccitazione.
Lasciarsi.
Perché?
A parte il dolore degli addii, a parte le incomprensioni di fondo, a parte il suo fottuto fratello impossibile, a parte la sua arrendevolezza, a parte gli impegni, a parte la nostalgia, a parte i litigi, a parte le ferite, a parte le difficoltà oggettive di portare avanti quella relazione assurda…
…ce l’avevano, loro, un motivo per lasciarsi?
- È a te che non frega un cazzo di questa relazione, Bill. – scoccò velenoso, senza preoccuparsi di tenere bassa la voce, - È a te che non frega un cazzo dei sacrifici che faccio. Se prendo un dannato aereo e rinuncio a due notti di sonno per raggiungerti, tu non puoi limitarti ad essere felice, no! – ghignò cattivo, recuperando lo zaino da terra e tirandoselo in spalla, mentre si alzava in piedi, - Tu, cazzo, tu devi cominciare a pretendere l’assurdo! Devi pretendere che io resti, anche se fino a un’ora fa stavi dicendo a quello stronzo di Tom che appena me ne fossi andato saresti stato tutto a sua disposizione!
Bill abbassò lo sguardo e rimase seduto, come pietrificato. Nemmeno respirava.
- Vuoi lasciarmi, Bill? – lo rimproverò alla fine, cupo, - Per me va bene. Ma non dire “lasciamoci” e soprattutto non dare a me la colpa. Prenditi le tue responsabilità e dimmi che vuoi lasciarmi, vaffanculo.
Bill strinse le mani in grembo e Bushido capì che piangeva solo dal tono di voce, quando parlò.
- Non capisci un cazzo. – lo sentì rantolare esausto, - Non capisci un cazzo di niente. Dovrei lasciarti anche solo per questo, stronzo supponente che sei. – sollevò lo sguardo, fissandolo finalmente negli occhi, lunghe strisce di kajal a rigargli le guance, - Ti senti tanto adulto, eh? A dirmi “prenditi le tue responsabilità”… ma cazzo, la responsabilità di questa storia è tua, stronzo! Sei tu che mi hai fatto innamorare, sei tu che hai insistito, sei tu che sei così come sei, ed io non posso smettere di provare queste cose, e non posso lasciarti, stronzo, perché ti amo!, ma mi fai male, Cristo, come faccio ad evitare di fartelo pesare, me lo spieghi?!
Tornò ad abbassare lo sguardo, ficcando entrambe le mani nell’enorme borsa che si trascinava dietro, alla ricerca di un qualche fazzolettino col quale ripulirsi il viso. Bushido si passò una mano sugli occhi. Si sentiva esausto. La sua non era una stanchezza da insonnia. Non era il jet lag e non erano neanche i litigi, a sfiancarlo così. Era, probabilmente, l’impossibilità fisiologica di rendere felice Bill. Renderlo felice sempre.
Sei mio quando ci sono e quando non ci sono. Ma non sei mai felice. Perciò, che tu sia mio comunque non è abbastanza.
Gli si inginocchiò di fronte, cercando i suoi occhi. Non li trovò perché erano ancora persi dentro il borsone, alle ricerca del famoso fazzolettino che, fra le lacrime che gli offuscavano la vista, sembrava completamente introvabile. Gli passo un pollice su una guancia, imbrattandosi tutto, e non gli importò. Così come non gli importò di non riuscire a fare nient’altro che allargare la macchia di trucco contro la sua pelle arrossata.
- Avevo ragione, non saresti dovuto venire… - disse in un soffio, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso, - Hai visto che hai pianto?
Bill rilasciò un singhiozzo stremato, stringendosi nelle spalle.
- Giuro che non volevo piangere. – si lagnò, distogliendo lo sguardo, - Avevo promesso, non volevo piangere. Ma tu volevi litigare, accidenti a te. Perché vuoi sempre litigare?
Bushido scosse il capo. Non aveva una risposta.
- Non lo so. – confessò a bassa voce, - Ogni tanto è solo… succede. Forse preferivo che piangessi per un litigio che non perché stavo andando via. Piangi sempre, quando vado via…
- Perché vai via! – motivò Bill, stringendo i pugni attorno alla borsa. – Mi sembra un motivo più che valido!
Bushido inarcò le sopracciglia, sollevandosi un po’ per riuscire ad abbracciarlo. Erano in una posizione ridicola. Bill seduto sul seggiolino e lui piegato in quella maniera assurda. Però il corpo di Bill era caldo e tremava ancora un po’. I suoi respiri spezzati s’infrangevano contro la pelle del suo collo dandogli i brividi.
Cinque minuti all’imbarco. Queste cose succedevano sempre a cinque minuti dall’imbarco.
- Scusami. – concesse in un sospiro, stringendoselo contro, - Anche se non posso dirti che smetteremo di litigare. O che sarà più facile. Non posso neanche dirti che ci proverò, perché non so se voglio provarci, a rendere le cose più semplici.
Bill scosse il capo, serrando le dita attorno alla sua maglietta.
- Ma io non voglio che cambi. – mugolò fra i singhiozzi, - A me piace così, Anis. A me piaci così. È così che ti ho scelto, è così che ti voglio. Tu… - gli lasciò un bacio distratto sulla guancia, - tu non devi cambiare. Però non puoi neanche pretendere che lo faccia io.
“Il volo LH7833 per Berlino, Germania, è in partenza dal gate numero 8. I passeggeri sono pregati di avvicinarsi per facilitare le operazioni d’imbarco.”
Bill strinse la presa attorno alla sua maglietta. Lo rilasciò subito dopo.
- Lo so che devi andare… - disse in un sospiro, - …e so anche che vorresti restare. Davvero.
Bushido sorrise contro la sua tempia, accarezzandogli gentilmente la nuca.
- Non sai quanto. – rispose con un ghigno.
Bill rise – una risata estenuata, ma almeno sinceramente divertita.
- No, so anche quanto. – lo corresse, strusciandoglisi casualmente addosso.
Rise anche Bushido.
- Sei tremendo. – commentò con finto disappunto, separandosi da lui.
Bill non piangeva più.
- Vedi? – disse il ragazzo, indicandosi gli occhi, - Ti sto salutando e non sto piangendo! Sono adulto.
Bushido annuì.
- Sono orgoglioso di te. – concesse, scompigliandogli i capelli.
Le sue lamentele – “non riuscirò mai a rimetterli a posto senza lacca, Anis!” – lo accompagnarono fino al gate. Ed anche un po’ dopo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Bill e Bushido si preparano per andare alla festa di Halloween che David ha organizzato a casa propria, ma qualcosa li fermerà lungo il cammino...
Note: Questa storia – scritta per il primo concorso di Fidelity, l’Halloween Fest – è nata dal desiderio del tutto assurdo di far dire a Bill che voleva chiamare sua figlia Samhain XD Non chiedetemi perché, visto che un motivo non esiste non saprei cosa dirvi. So che l’idea mi piaceva ed ho voluto buttarla giù. Era nata per essere una shot breve, fluff, abbastanza divertente, ed alla fine è di una tristezza sconcertante. Questo, suppongo, perché io credo che sia Bill che Bushido vivano la paternità in modo molto… sentito, ecco. Perciò, che dire, si sono fatti un sacco di film pucciosi. E poi arriva la madre e… ;_; Prima o poi riuscirò a dar loro dei figli. <- ha già plottato tre o quattro storie in cui accade.
Gli obblighi per il contest erano la zucca (e c’è XD) un colore (ed ho usato il nero della piuma e dei vestiti di Bill), la presenza di Halloween (…che mi pare sia palese XD) e la contestualizzazione della città (con Berlino, ho fatto il meglio che ho potuto XD). Spero di non aver toppato XD
Mi è piaciuto scrivere questa storia, nonostante odi farmi del male scrivendo. E me ne sono fatta XD Non c’è niente di più doloroso, per quanto mi riguarda, delle illusioni che si spengono nel nulla. Questa storia ne è schifosamente piena. Però la vita è anche questo, punkt. Per una Billshido felice aspetterò il prossimo schizzo d’ispirazione =P
PS: Un grazie e un enorme bacio a Nai per il betaggio.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SAMHAIN

La serata era cominciata – e proseguita – così bene, che Bill stava seriamente cominciando a sentirsi fiducioso rispetto al mondo che lo circondava. Generalmente, quando usciva con Anis l’universo intero sembrava mettersi di mezzo per ostacolarli – Tom si faceva prendere da uno scoppio di gelosia acuta, David ricordava improvvisamente che il giorno dopo avevano delle interviste e non poteva andare a letto tardi, la madre di Anis pretendeva il figlio a cena, Chakuza si spaccava la testa contro un armadio e si doveva correre tutti in ospedale e così via discorrendo – perciò era davvero raro perdersi in tutta quella piccola serie di normalissimi gesti che compongono una normalissima serata fra fidanzati e be’, sì, godersela. La doccia mentre lui si fa la barba, asciugare i capelli mentre lui si veste, vestirsi mentre lui si lamenta che si sta facendo notte, raggiungerlo in salotto, i baci, gli “andiamo”, perdere tempo sulla soglia indecisi fra uscire e rituffarsi in camera da letto…
Decisamente non erano cose che potessero godersi tanto spesso. Perciò Bill era felice. Ed il fatto fosse la notte di Halloween lo rendeva solo più emozionato.
Halloween in Germania non era esattamente fra le feste più sentite – troppo americana, troppo confusionaria, non ce lo mandi il tuo bambino a bussare alle porte di ogni casa di Berlino, si sa mai cosa ci trovi dietro quando ti aprono – ma a Bill i travestimenti erano sempre piaciuti, perciò aveva letteralmente obbligato David ad organizzare una festa nel mega-appartamento che aveva comprato quando anche loro si erano trasferiti nella capitale. Qualcosa di semplice, giusto una cinquantina di persone, solo gli amici più intimi, il loro staff, la crew, qualche imbucato, cose così.
Ed Anis, naturalmente. Anis che, come da fantasia sessuale ricorrente, aveva provveduto ad avvolgere in cinquecento strati di tessuto dalle tonalità oscillanti dal blu notte all’azzurro cielo, prima di sentirsi rivolgere uno scocciato “Bill, da cosa cazzo sarei vestito?” cui aveva reagito con un sospiro rassegnato, prima di rispondere “Da tuareg, anche se ti manca il fascino, il mistero, la sensualità-”, “Il cammello,” aveva concluso Anis chinandosi a baciarlo sulle labbra, e la questione s’era chiusa lì.
Bill s’era vestito da principe – o almeno quella era stata la sua intenzione iniziale, ma quando aveva cominciato ad aggiungere borchie su borchie, reti su reti e chili di trucco su chili di trucco, Anis s’era giustamente voltato a guardarlo ed aveva commentato che dovrebbe essere vietato travestirsi da Bill Kaulitz ad Halloween. Se non a tutti, almeno a Bill Kaulitz stesso.
“Non sono travestito da me stesso!” aveva obiettato lui, offesissimo, mostrando con cipiglio fiero la lunga piuma nera che pendeva dal cappello a tesa larga, “Sono un principe! Un bellissimo principe!”.
“Con seri problemi di orientamento sessuale,” aveva sghignazzato Bushido, dandogli una pacca sul sedere.
“Esistono anche i principi gay,” era stata la sua secca e lapidaria risposta. Anis non aveva ribattuto – anche perché, se poteva esistere un re del ghetto, di sicuro poteva esisterne anche un principe. E se era gay il re, figurarsi il resto della famiglia reale.
Erano usciti nel gelo di fine ottobre avvolti in tanti di quegli strati di lana che i loro costumi neanche s’intravedevano, sotto. Tutto ciò che restava erano i pantaloni azzurrissimi di Anis, quello sciocco turbante che Bill gli aveva calcato sulla testa e la piuma nera del ragazzo, che ondeggiava libera lungo la sua schiena, fra le scapole magrissime e appuntite, mascherate appena un po’ dalla forma dal giaccone imbottito.
Stavano ancora camminando verso casa di David – a pochi isolati dalla loro – quando l’avevano sentito. Nella perfetta indifferenza generale – un ghiaccio, quello del popolo tedesco, che Anis riusciva a comprendere solo marginalmente e solo perché in Germania aveva sempre vissuto, e che a Bill invece non era mai appartenuto, probabilmente perché a Bill non importava moltissimo del proprio luogo di provenienza, preferiva divertirsi a conquistare il mondo piuttosto che restare attaccato alle proprie radici di sfigato campagnolo senza speranze.
L’avevano sentito, comunque, il pianto di un bambino. E non avevano potuto ignorarlo.
Anis aveva guardato Bill, Bill l’aveva fissato di rimando e poi s’erano annuiti a vicenda ed avevano cominciato a perlustrare la zona con gli occhi. L’avevano trovato accanto a un cassonetto dell’immondizia, come in ogni classico del genere. Non particolarmente nascosto, per la verità, era solo lì, dove non è che ti aspetti esattamente di trovare una culla addobbata di giocattoli come un albero di Natale prematuro, che custodisce al proprio interno un bambino frignante bianco e lucido di lacrime, una piccola perla, però più rumorosa.
Bill si avvicinò col timore che Anis gli aveva visto usare solo nei confronti delle cose fragili. Il timore col quale approcciava il proprio fratello quando lo vedeva triste, ad esempio. O quello col quale si avvicinava a lui dopo un brutto litigio – quando aveva paura di perderlo.
Sorrise rassicurante, stringendosi a lui mentre si chinavano a sbirciare all’interno del passeggino.
- Ma è piccolissimo… - fu il commento del ragazzo, esalato appena fra uno sbuffo di fiato condensato e l’altro, - Avrà un paio di mesi…
Per la verità il fagotto di copertine, peluche e sonagli era un po’ troppo grassoccio per essere davvero così piccolo, ma all’uomo non sembrò il caso di farlo notare al proprio compagno che, sempre più esitante, allungava una manina bianca e ghiacciata verso la creatura, probabilmente nel tentativo di sincerarsi della sua effettiva esistenza.
- Anis… - mormorò Bill sfiorando la guancia del bambino ed ottenendo in cambio un pianto ancora più dirotto ed un sacco di agitazione sotto le coltri di lana, comprensiva di braccina agitate e gambette scalcianti, - che facciamo? Non possiamo mica lasciarlo qui.
L’uomo si morse un labbro e cercò di riflettere, mentre Bill lasciava scivolare le dita lungo la guancia del bambino ed andava a cercarne la piccola mano – ora esposta al freddo della notte – fino a farsi catturare da quei salsicciotti paffuti che continuavano ad aprirsi e chiudersi convulsamente alla ricerca di qualcosa da stringere.
- Forse dovremmo portarlo alla polizia… - cercò di suggerire facendo leva sulla parte più razionale di sé e cercando di ignorare il proprio cervello che, alla vista di Bill che pasticciava col bambino piangente, aveva già fatto le valigie da tempo. – Magari i suoi genitori lo stanno cercando, non sembra… un bambino abbandonato.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- Che esperienza hai tu, esattamente, circa i bambini abbandonati? – protestò animatamente, rimboccando le coperte attorno al corpicino ancora scosso dai singhiozzi, - E poi, che vuol dire? Se non sono chiusi in un sacchetto di plastica allora non possono essere stati abbandonati? È accanto a un dannato cassonetto dell’immondizia! Che altro ti serve?!
In realtà a Bushido non sarebbe servito altro, teoricamente. Solo che pensava anche ci fosse una bella differenza fra il rimanere colpiti da un bambino piangente e solo nella notte ed il prendersene la responsabilità.
Non era una cosa loro, di lui o di Bill. Era una cosa che gli era capitata fra le braccia.
Triste quanto vuoi, ma non da prendere sottogamba.
Gli occhi di Bill, comunque, urlavano “teniamolo”, e Bushido dovette farsi violenza per non ricordargli che non si stava affatto parlando di un cucciolo o di qualcosa di altrettanto semplice trovato per strada.
Sospirò profondamente e scrollò le spalle. Era una tipica situazione in cui, qualsiasi cosa fosse uscita dalle sue labbra, sarebbe stata quella sbagliata. Perciò preferì stare zitto e lasciare che Bill si esibisse in una delle proprie attività preferite – fingere di saper risolvere i problemi proponendo soluzioni al limite dell’assurdo, alle quali tutti poi sottostavano perché… perché lui era Bill e non esisteva davvero qualcuno capace di resistere a quelle labbra, quegli occhi e quelle sopracciglia, quando si atteggiavano in un determinato modo.
- Facciamo così, Anis… - sorrise infatti il ragazzo, posandogli distrattamente una mano sul braccio, in corrispondenza del tatuaggio col nome di sua madre che, quando veniva chiamato in causa, come in quel momento, risvegliava sempre la parte più tenera, più morbida e più drammaticamente scema della sua personalità, - Stanotte lo portiamo a casa, così almeno si scalda un po’. Domani mattina, con calma, ci ragioniamo su e vediamo se è il caso di portarlo alla polizia o procedere diversamente.
Sarebbe stata una soluzione perfettamente razionale, e Bushido sarebbe stato perfino d’accordo, non fosse stato per il piccolo particolare che lui amava Bill e, siccome lo amava, lo conosceva anche. Conoscerlo, nella situazione specifica, implicava leggergli dentro, però. E nel fondo degli occhi di Bill c’era ancora lo stesso urlo di pochi minuti prima. Teniamolo.
Sospirò.
- D’accordo. – concesse estenuato. D’altronde, erano comunque quasi le undici di sera ed aveva i suoi dubbi che portare il pargolo alla polizia avrebbe sortito effetti immediati. – La festa? – chiese quindi, estraendo già il cellulare dalla tasca del cappotto per avvertire chi di dovere che non si sarebbero presentati.
Bill inarcò un sopracciglio e lo fissò con curiosità.
- Che c’entra la festa? – chiese, con aria perfettamente ignara.
- …ci andiamo o no? – esplicitò lui, facendo scattare il flick del cellulare per invitare chiaramente Bill a rispondere “no, naturalmente torniamo a casa”. Bill non colse l’invito.
- Ovviamente sì. – rispose, disincastrando le ruote del passeggino dai sacchetti di plastica sparsi per terra, - Anzi, diamoci una mossa. Congelerà, se continua a stare qua fuori.
Bushido annuì e si mise al suo fianco per accompagnarlo lungo le poche vie che ancora li separavano dall’appartamento di David, dove, dato l’orario, tutti dovevano già aspettarli da almeno una buona mezz’ora, se non di più. A quel punto, riflettere sulla propria condizione di uomo asservito sarebbe stato deleterio ed inutile: poteva solo immaginare il putiferio che sarebbe scoppiato quando, alla festa, tutti i loro amici e conoscenti avrebbero posato gli occhi sul nuovo membro temporaneo della loro famiglia. Più che lanciarsi a peso morto sul materasso dell’autocommiserazione, gli conveniva restare attento e vigile e badare che Bill non perdesse troppo la testa.
*
David Jost era una persona estremamente semplice da capire, come tutte le persone puntigliose ed ordinate. Solo persone come lui potevano svolgere un mestiere come il suo con tanta bravura, perché per riuscire a governare quattro scalmanati in odore di successo ti serve comunque mantenere una certa rigidità. Uno schema mentale molto solido, insomma, qualcosa cui aggrapparti quando ti svegli al mattino e ti trovi immerso nel caos di un gruppo di adolescenti fuori di testa che sbraitano incolpandosi vicendevolmente per l’estinzione del latte all’interno del frigorifero, e tu non puoi fare altro che guardarti intorno, renderti conto di esserti addormentato sulla tastiera del computer e sperare di non avere i segni dei tasti su tutta la faccia, perché rimproverare dei ragazzini in quelle condizioni di certo non aiuta a renderti autoritario e serio.
A Bushido erano bastate un paio d’ore per inquadrarlo. Quando, spinto da un Bill in palese ansia da approvazione, s’era presentato all’ufficio del manager per ufficializzare la loro relazione, Jost aveva ascoltato ciò che aveva da dire e poi gli aveva posto tre semplicissime domande.
Numero uno: ci tieni davvero a lui?
Numero due: sai in cosa ti stai cacciando?
Numero tre: sei proprio sicuro di volertici cacciare?

Aveva incassato i suoi tre sì di risposta, aveva annuito e poi, semplicemente, aveva agito.
Tempo una settimana, il mondo sapeva che la relazione che migliaia di fangirl avevano immaginato per mesi era semplicemente diventata realtà. Tempo un’altra settimana, il fuoco fatuo della morbosa curiosità dei paparazzi s’era un po’ attenuato ed era tornato ai livelli – altissimi, ma tutto sommato normali – sui quali si attestava in qualsiasi altro periodo dell’anno.
Se le cose si erano svolte così pacificamente, Bushido sospettava lo si dovesse unicamente a quell’uomo. La sua metodicità era qualcosa di incrollabile ed incredibilmente utile.
Bushido, perciò, si fidava di Jost. E, entrando nel suo appartamento, si disse che non aveva niente di cui preoccuparsi, non sarebbe stato da solo a fronteggiare la palese follia di Bill – che aveva continuato a chiacchierare di stanzette con le pareti rosa o celesti per tutto il tempo della strada – e la giustificata curiosità del resto dei loro amici.
Jost, grazie a Dio, non lo deluse.
Stava appollaiato su una sedia a fianco di un’enorme zucca intagliata che sovrastava tutti gli ospiti di almeno una spanna. Non poteva essere vera, ma era bella come lo fosse. Non era palesemente fasulla: non era lucida né eccessivamente liscia e plastificata. Era, invece, opaca e piena di bitorzoli. Ed emanava anche un buon profumo.
Bushido e Bill fecero il loro ingresso all’interno dell’appartamento del manager che l’orologio aveva appena finito di scoccare l’undicesimo rintocco, e la zucca fu in effetti la prima cosa che Bushido vide. Fu anche la prima cosa che vide Bill, naturalmente, e fu per questo che squittì di gioia e batté le mani e per un secondo – un solo secondo – Bushido ricordò che era un ragazzino e sperò potesse essere infantile proprio in tutti i campi: compreso quello delle decisioni avventate.
La verità, però, era che Bill fosse sì un tipo da decisioni avventate, ma anche uno che quella stessa decisione, una volta che l’aveva presa, la portava avanti fino alle sue estreme conseguenze.
Anis pregò semplicemente che quella di Bill non fosse ancora una decisione. E sollevò una mano per salutare.
Tom, che aveva aperto loro la porta, li squadrava dalla soglia con un’espressione indecifrabile sul volto.
- …non capisco da cosa siete travestiti. – confessò alla fine, inclinando un po’ il capo, - Una famiglia di immigrati, tipo? – chiese, puntando il dito verso il passeggino. – Bill, ma dove l’hai trovata questa bambola? Dio mio, è così realistica che fa impressione… - mugolò con orrore mal dissimulato, lasciandosi andare perfino ad una smorfia.
Bill distolse gli occhi dalla zucca e li portò sul proprio fratello.
- Non è una bambola. – precisò candidamente, - È un bambino vero.
Il silenzio, che era ovvio crollasse su tutti loro dopo una rivelazione del genere, fece esattamente ciò che Bushido si aspettava. L’uomo si ritrovò quindi ad osservare Bill e suo fratello squadrarsi con aria incerta mentre, tutto intorno, i vari invitati – poteva perfino intravedere l’immancabile cappellino di Chakuza qualche metro più in là – si voltavano a spiare la scena.
In tutto questo, l’unico suono che sentì fu quello della sedia sulla quale David stava appollaiato. La sentì strisciare contro il pavimento per molti lunghissimi e sfiancanti secondi e poi fermarsi. L’uomo li guardava entrambi. Lui e la zucca sembravano guardarli con lo stesso cipiglio carico di… non era esattamente disapprovazione. Qualcosa più sul tipo del “ma esattamente, per quale motivo siete così stupidi?”. Una cosa più da padre rassegnato e bonario che non da uomo giudicante.
Già il secondo successivo, la perfetta illusione di silenzio che avevano vissuto s’era dissolta come una bolla di sapone e tutti gli invitati s’erano raggruppati attorno al passeggino per sbirciare all’interno. Il bimbo dormiva tranquillo, per niente disturbato dal vociare che riempiva la stanza. Bill osservò le sue guanciotte tonde prendere colore mentre il pancino si alzava e si abbassava al ritmo un po’ accelerato del suo respiro, e Bushido sorrise.
David si fece strada attraverso il capannello di invitati con un semplice colpo di tosse. La marea si aprì come di fronte a Mosè e lui poté guardare all’interno del passeggino, per poi scrutare le espressioni dei nuovi arrivati ed incrociare le braccia sul petto.
- Prima di tutto, Tom, - disse, rivolgendosi al rasta, - chiudi la bocca. Non ti hanno mica appena detto di averlo partorito. – sospirò pesantemente mentre Tom, imbarazzato, obbediva, e poi tornò a guardare Bill. – L’avete trovato da qualche parte, vero?
Il moro annuì, stringendosi lievemente nelle spalle.
- Era vicino ad un cassonetto. – spiegò sommessamente, in un tono che utilizzava solo col proprio manager, lui che in genere era tutto un’esplosione di esuberanza o, al limite, di scazzo cronico. – Non potevamo lasciarlo lì.
David annuì e si voltò a guardare Bushido, una domanda palese e silenziosa negli occhi.
Bushido scrollò le spalle e scosse il capo, arreso. David tornò a guardare il proprio cantante e fece la domanda di cui Anis aveva più paura in assoluto.
Ma avrebbe dovuto aspettarsela. David era un tipo da domande. Se non sai, non puoi gestire.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese a bruciapelo, come fosse un’informazione ordinaria, qualcosa di cui hai giusto bisogno per organizzarti la giornata, ed invece si stava parlando di organizzare un’intera esistenza. La loro, quella del bambino, tutte.
Bill si morse un labbro.
- Non potevamo lasciarlo lì… - ripeté con meno decisione. Bushido osservò la sicurezza vacillare nei suoi occhi e ricordò per quale motivo Jost riusciva ancora a stare dietro a quei ragazzi nonostante tutti gli anni passati e le confidenze condivise, cose che in genere trasformano i rapporti lavorativi in rapporti affettivi. Con lui non era successo, lui era riuscito a mantenere con i ragazzi un rapporto affettivo completamente avulso e parallelo a quello lavorativo. Era questo l’unico motivo per il quale ancora riusciva a portare un po’ di sale in quelle zucche.
David annuì a prese atto.
- Intendete tenerlo? – precisò dunque, e Bill sbiancò, terrorizzato.
- David, non mi sembra il caso- - cercò di intromettersi Bushido, che sì, non aveva alcuna voglia di ritrovarsi una responsabilità simile fra capo e collo così all’improvviso, ma non aveva nemmeno voglia di stare ad osservare il proprio ragazzo sciogliersi in un mare di lacrime perché si rendeva conto di essersi perso in fantasie poco raccomandabili nell’illusione di una notte stregata come quella.
Il manager, comunque, lo zittì con un cenno del capo.
- È una cosa importante. – spiegò a mezza voce, senza il minimo astio e senza neanche un pizzico d’irritazione, solo con competenza: da bravo amministratore di vite altrui. – Intanto, c’è da pensare alla denuncia. Poi, se pensate ci sia la possibilità di tenerlo, avviare le pratiche per l’adozione. Quando e se la madre dovesse ripresentarsi, naturalmente andrebbe tutto a quel paese, ma in caso contrario si dovrà formalizzare il tutto e-
- David, ma Cristo santo, non lo vogliono mica tenere, il moccioso! – sbottò Tom, scioccato, piantando una mano sul fianco e sporgendo un po’ l’anca in una posa molto simile a quelle tanto tipiche di Bill.
David inarcò un sopracciglio e tornò a guardare il Kaulitz minore.
- Bill? – lo chiamò, palesemente alla ricerca di una conferma o di una smentita rispetto alle parole del fratello.
Bill continuò a mordersi il labbro.
Bushido sospirò.
- Sarà il caso di pensarci domattina, David. – disse infine, stringendo con un braccio Bill attorno alle spalle, - È quasi mezzanotte, ormai, e siamo venuti qui per festeggiare. Il bambino, semplicemente, non potevamo lasciarlo lì. Al resto penseremo domani. D’accordo?
David lo guardò ed annuì sbrigativamente. Nei suoi occhi c’era ancora soltanto efficienza.
- D’accordo. – confermò, - Era solo per prospettarvi ogni possibilità. – poi sorrise, addolcendo lo sguardo e stendendo i lineamenti del volto, - Ma possiamo sicuramente farlo anche domani mattina. – concesse sereno.
Bill forzò un sorriso poco convinto, Tom sbuffò e si mosse verso il tavolo colmo di drink e stuzzichini e Bushido realizzò coscientemente di aver appena evitato al mondo una crisi isterica del proprio ragazzo.
Il mondo avrebbe dovuto cominciare a pensare ad un adeguato compenso nei suoi confronti.
- Ehi… - mormorò, rivolgendosi al ragazzo quando la folla si fu dispersa, - È tutto a posto, sì?
Bill ridacchiò nervosamente.
- Sì, certo. – annuì, - È che non mi aspettavo che gli altri la prendessero così seriamente.
- Così seriamente, Bill? – ritorse con un sorriso incredulo e vagamente ilare.
Bill esitò incerto.
- Lo so che un bambino è una cosa seria, Anis. – sospirò profondamente, - Solo non mi aspettavo che… va be’. – si arrese alla fine, scrollando le spalle, - Meglio trovare un posto silenzioso dove metterlo.
Bushido annuì e lo osservò allontanarsi a sguardo basso verso David, che ciarlava allegramente con Tobi accanto alla zucca. Bill richiamò l’attenzione del manager tirandogli la maglia – un gesto infantile che Bill ripeteva spesso con chiunque e che Bushido sospettava fosse stato generato dai vestiti extralarge di Tom, che imploravano per essere tirati – e poi Bushido li vide sparire insieme lungo il corridoio.
- Atze. – si sentì quindi chiamare, e quando si voltò trovò a guardarlo Chakuza, o almeno ciò che in una vita passata doveva essere stato Chakuza e che in questa era, invece…
- …da cosa sei travestito, Chaky?
- Uh? Da Peter Pan.
…un Peter Pan con un berretto da baseball calcato fin quasi sotto le orecchie.
Scoppiò a ridere senza ritegno e ringraziò Dio di avergli dato un amico naturalmente ridicolo, perché in situazioni come quelle ci si ricordava sempre che cose simili erano davvero indispensabili.
- Non mi prendere per il culo, Atze, ci ho messo due secoli a sceglierlo… - borbottò Chakuza, incrociando le braccia sul petto.
Bushido continuò a ridere, cercando invano di fermarsi.
- Scusa, scusa… - concesse quando infine gli riuscì di porre un freno a quello scoppio d’ilarità, - È che… è una calzamaglia, quella, Chaky?
- Era nel costume!!! – si giustificò lui, arrossendo furiosamente e macchiando di rosso quella tondissima faccia bianco latte.
- E non c’era anche un cappellino, assieme al costume? – inquisì, indicando il berretto con un cenno del capo.
- Sì, ma che cavolo, c’era una piuma sopra! Volevo far contento Bill perché sembrava tenerci a tutta questa storia dei costumi, ma ho ancora una dignità. – spiegò seriamente, annuendo. Poi si interruppe un secondo e fece una cosa che Bushido aveva imparato ad interpretare come segno di guai: assottigliò gli occhi. Quando Chakuza assottigliava gli occhi era perché stava per farti una domanda scomoda. E stava per fartela a bruciapelo, scorrettamente, di modo che non potessi proprio evitarla. – E tu? – chiese infatti, inarcando un sopracciglio inquisitore.
Bushido sospirò.
- Io… sono vestito da tuareg. – rise sfibbiando il cappotto e lasciandoselo scivolare lungo le braccia, prima di appenderlo alla spalliera di una sedia.
Chakuza ridacchiò scuotendo il capo.
- Non era quella la domanda. – precisò con un’occhiata dubbiosa.
Bushido scrollò le spalle e sospirò ancora.
- Non lo so se ho ancora abbastanza dignità per dirgli no su questo punto. – rispose guardando altrove, visibilmente in imbarazzo.
Chakuza gli allungò una poderosa pacca in mezzo alle scapole.
- Ti ha ridotto uno straccio, Atze. – commentò divertito, - Ma si tratta sempre di un bambino. Non vostro, oltretutto.
- Sì, sì! – esalò lui con tono lamentoso, alzando gli occhi al cielo, - Credi che non ci abbia pensato? È assurdo, ci è capitato fra le mani meno di un’ora fa e lungo la strada Bill è riuscito a farsi tanti e tali film da confondermi.
- …confonderti in che senso? – inquisì Chakuza, sospettoso.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente lui, - In tutti i sensi, temo. È che mi piacerebbe-
- Alt, alt! – lo fermò l’uomo, agitandogli le mani davanti al viso, - Fermati. Stai per dire una cosa di cui potresti pentirti fra qualche minuto.
Bushido si morse un labbro e rimase in silenzio.
Jost, nel mentre, era tornato in salotto. Da solo. Bill doveva essere rimasto con il bambino.
- È questa la cosa che mi spaventa. – disse alla fine, allungandosi a recuperare una lattina di birra dal tavolo poco distante, - Forse invece non me ne pentirei.
*
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
David era andato via da dieci minuti ed era da quando s’erano ritrovati costretti a spogliarla e cambiarla – visto che aveva ricominciato a piangere e non aveva smesso fino a quando non avevano capito che il fastidio era nel pannolino, e perciò dovevano eliminarlo – che Bill non faceva che pensare a quel particolare.
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
Fu per questo che, quando Tom, certo di trovarlo ancora lì, entrò in camera e si gettò sul letto accanto a lui, le prime parole di Bill furono proprio quelle.
- È una femminuccia, dovrò trovarle un nome.
Tom rise e si stese per tutta la lunghezza del materasso, allargando gambe e braccia e tirandolo per un lembo della maglia traslucida che, in teoria, doveva rappresentare la camicia del bellissimo principe che era.
- Cos’è, le hai sbirciato sotto la gonna? – chiese suo fratello quando ebbe ottenuto ciò che desiderava, cioè che lui gli si distendesse praticamente addosso, poggiando il capo contro la sua spalla ed una mano sul suo petto.
- No, scemo. – borbottò Bill, pizzicandolo attraverso la maglia, - Le ho cambiato il pannolino. – Tom inarcò un sopracciglio, dubbioso. – Be’… David le ha tolto il pannolino e l’ha avvolta in un telo di lino ripiegato in quattro… e poi l’ha fissato con una spilla da balia.
Il rasta scoppiò a ridere, passandosi una mano sugli occhi.
- Quando penso che quell’uomo non potrebbe essere più gay di com’è, ecco che lui mi contraddice! – commentò divertito. Bill lo punì con un altro pizzicotto.
- Non essere cattivo con David, la piccola aveva bisogno di essere cambiata! - ...ed io non avrei saputo dove mettere le mani per farlo, pensò distrattamente ed un po’ amaramente, ma evitò di dirlo ad alta voce. – E comunque da cosa diavolo saresti vestito? Mi sembrava di essere stato chiaro, costume obbligatorio!
Tom roteò gli occhi.
- Sono vestito da me stesso! – spiegò annuendo.
- Ma non puoi vestirti da te stesso! – protestò Bill, incredulo.
- Be’, tu l’hai fatto. – scrollò le spalle suo fratello.
Bill sbuffò.
- Ma perché lo dite tutti? Sono vestito da principe…
Tom ridacchiò e gli lasciò un bacino sulla tempia, stringendolo un po’ per le spalle.
- Non cambiare discorso, comunque. – lo riprese teneramente, - Stavamo parlando della bambina.
- Oh, sì. – annuì lui, - È femminuccia, - ricominciò immediatamente, - perciò-
- Non puoi tenerla, Bill. – lo interruppe seccamente Tom, stringendo un po’ di più la presa sulla sua spalla. – Non è tua.
- …be’, chi l’ha fatta non la voleva. – ritorse lui in un mugugno triste.
- Magari l’ha solo persa. – cercò di farlo ragionare il biondo.
- Ma non si perdono i bambini, Tomi! – sbottò, sollevando di scatto il capo per guardarlo negli occhi. Tom non lo evitò.
- Si perdono tante di quelle cose, nel mondo. – rispose con una scrollatina di spalle, - Comunque non puoi tenerla lo stesso. Non sei in grado. Guarda in faccia la realtà.
Bill tornò ad affondare il naso nel suo petto, giusto per ribadire ulteriormente che, in quel momento, di guardare in faccia la realtà non aveva proprio nessunissima voglia.
- Bill… - lo richiamò suo fratello. Il moro rispose con un mugolio indecifrabile e Tom sospirò e continuò a parlare. – Presente quell’enorme zucca che c’è in salotto? – chiese dal nulla, con tono divertito, - Ecco, pensa se ti dicessi: prendi quella zucca ed abbine cura fino all’anno prossimo. La voglio ritrovare nelle stesse precise identiche condizioni fra trecentosessantacinque giorni. Sarebbe una responsabilità mica male, eh? – Bill non rispose. Strinse la presa delle dita attorno alla sua maglietta e si limitò a sospirare. – Pensa tu con un bambino. Il bambino non deve neanche rimanere nelle stesse precise identiche condizioni, no, deve crescere, diventare più forte, imparare cose nuove. Tu ti stanchi di tutto dopo una settimana, Billi-
- Sarebbe diverso! – protestò finalmente lui, agitandosi furiosamente, - Non sarei solo, tanto per cominciare, e poi non potrei mai stancarmi di un bambino, non è mica un hobby del cavolo, è… - si morse un labbro, - …sarebbe una cosa mia e di Anis, capisci? L’abbiamo trovata insieme, sarebbe una cosa tutta nostra…
Tom rise sommessamente e lo circondò anche con l’altro braccio, stringendoselo contro.
- Tu stai facendo un mucchio di capricci, ma non sei proprio in grado di agire da persona responsabile. Una persona responsabile avrebbe preso il passeggino con tutti i sonaglini e, per prima cosa, l’avrebbe portato in centrale. Magari in ospedale, in alternativa, ma di certo non qui. E non fantasticando su quanto sarebbe bello tenerselo in salotto, quello stesso passeggino. – gli spiegò, coccolandolo lentamente, le dita fra i capelli ed il mento contro la fronte. – Né tu né Bushido avete fatto niente del genere. E questo dimostra che non siete ancora pronti per fare i genitori. – scrollò le spalle, - Prima o poi lo sarete. Ma adesso la bambina ha bisogno di un papà che sappia effettivamente come cambiarle un pannolino, non credi?
La bambina pensò bene di dargli ragione ricominciando immediatamente a miagolare scontenta, agitandosi fra le copertine. Bill si mise seduto e sbirciò all’interno del passeggino.
- Ma farà continuamente così…? – chiese sovrappensiero, allungando una mano ad accarezzarla su una guancia e sorridendo appena quando la vide calmarsi al suo tocco.
Tom si sedette al suo fianco.
- Non che io abbia un’esperienza particolarmente ricca, quanto a bambini, ma mamma si lamentava sempre dei bambini piagnoni, ricordi? Perciò probabilmente sì, fin quando non crescono, piangono.
- Mh. – annuì lui, vagamente triste.
Tom gli mise una mano sulla spalla.
- È che hanno solo questo modo di farsi capire. – spiegò con un sorriso.
Bill sorrise di rimando e si ripiegò contro di lui, alla ricerca di un altro po’ di coccole.
- Secondo te cos’è che sta cercando di dire adesso? – chiese a mezza voce, continuando a guardare la piccola.
Tom sospirò.
- Credo che le manchi qualcuno, Bill. Credo anche che a te manchi qualcuno come lei, ma… insomma. Lei dovrebbe venire prima, no?
Bill si morse un labbro ed annuì.
*
Si svegliò con la lieve risatina di Anis nelle orecchie e sorrise a propria volta, schiudendo gli occhi.
- Dormivi? – gli chiese l’uomo, sedendosi accanto a lui e facendogli passare un braccio attorno alla pancia, tirandoselo contro.
- Nnho… - mentì, mugolandogli addosso e stendendo il capo sulla sua spalla.
Anis rise ancora, fra i suoi capelli, e gli lasciò un bacio sulla tempia.
- Ho visto uscire tuo fratello e non te e mi sono un po’ preoccupato… - confessò, lanciando un’occhiata alla bambina profondamente addormentata nel passeggino.
- Deve essere andato via appena mi sono appisolato… - ipotizzò Bill, stringendosi nelle spalle. Poi lo guardò: - Appisolato, non addormentato, c’è differenza.
Bushido rise e scosse il capo, intenerito.
- Allora, oltre ad esserti appisolato, cosa stavi facendo?
Bill sorrise.
- La guardavo.
- …la?
- Già. – annuì entusiasta, - È una femminuccia. Dovremo trovarle un nome.
Bushido rise ancora, stavolta contro il suo collo, e lo strinse più forte.
- Se fai così, Bill, sarà difficile lasciarla andare.
Bill intrecciò le dita con le sue, mugolando mentre le labbra dell’uomo tracciavano una scia di calore un po’ umido lungo il suo zigomo.
- Non dobbiamo per forza. – protestò debolmente, chiudendo gli occhi.
- E invece sì. – gli sussurrò l’uomo, baciandogli la nuca, - Anche se eri bellissimo mentre la accarezzavi, per strada.
- Ed io muoio dalla voglia di vedertela prendere in braccio, Anis… - mugolò Bill, cercando di rivoltarsi nella sua stretta per baciarlo sulle labbra.
L’uomo lo lasciò muoversi e rispose al bacio perdendocisi dentro, Bill lo sentì abbandonare ogni resistenza in punta di lingua, mentre lasciava che l’abbraccio e le carezze sciogliessero ogni esitazione. Da qualche parte nella testa di Anis, Bill lo sapeva, c’era un mondo speciale in cui quella bambina era già loro e trotterellava felice per casa alla ricerca di un giocattolo o di qualcosa da mordicchiare. Quel posto, Bill lo conosceva bene. C’era anche nella sua, di testa.
Era orribile che l’unica realtà nella quale fosse proprio impossibile trovarlo, fosse anche l’unica realtà che contava qualcosa.
Si separarono l’uno dall’altro senza fare neanche un suono, restando per qualche secondo a respirare e basta, fronte contro fronte.
- Come la chiameresti? – chiese Anis senza aprire gli occhi.
Bill aggrottò le sopracciglia.
Il condizionale feriva un po’.
- Samhain. – rispose d’un fiato, stringendo le braccia attorno al suo collo.
Bushido sbuffò una mezza risata.
- Sarebbe?
- Celtico. – rispose Bill con un sorriso, - È la notte di Halloween in celtico.
- E pensi che sarebbe un nome adatto, per una bambina?
Il moro scrollò le spalle, abbandonandosi più comodamente contro di lui.
- Tu pensi che saremmo due genitori adatti, per una bambina?
Bushido strinse la presa attorno alla sua vita. Poi sospirò.
- Torniamo a casa?
*
C’era ancora molto freddo ed era decisamente molto tardi, ma Samhain s’era svegliata e, per la prima volta da quando l’avevano trovata, sembrava di buonumore. Appena aveva aperto gli occhioni aveva trovato Bill a fissarla dall’alto con una tenerezza disarmante, e non aveva avuto paura. Bill aveva sorriso. “Ciao stellina…” le aveva detto, “sei sveglia?”. Lei non aveva risposto, naturalmente, ma aveva afferrato un sonaglino a caso ed aveva cominciato a mordicchiarlo con quelle gengive rosa ed infantili, sbavando copiosamente sia sul giocattolo che sul telo di spugna che David aveva steso sulle coperte.
Bill e Bushido erano scesi per strada una decina di minuti dopo, nelle orecchie ancora le raccomandazioni del manager – controllare il pannolino, darle del latte tiepido come prima cosa appena tornati a casa, tenerla al caldo, coccolarla – e s’erano avviati sulla stessa strada che avevano percorso al contrario per arrivare da David.
Samhain stringeva fra le mani il sonaglio, Bill stringeva fra le mani il manubrio del passeggino e Bushido stringeva fra le mani le spalle fragilissime del proprio ragazzo.
Né Bill né Bushido – e probabilmente nemmeno Samhain – se ne accorsero, quando passarono di fronte al cassonetto dell’immondizia che li aveva visti unirsi. Era già nascosto sul fondo della mente, l’avrebbero riportato alla luce l’indomani mattina, quando tutto non sarebbe più stato magico e perfetto come in quell’istante ed avrebbe improvvisamente assunto toni più cupi e seri.
Davanti al cassonetto, però, ci passarono comunque. Ed anche quella seconda volta sentirono qualcosa.
- Karen!
L’urlo di una donna.
Si fermarono istantaneamente, stretti tutti l’uno all’altro, e si voltarono verso la fonte di quell’urlo: un corpo magro e slanciato, una donna bionda e pallida con un paio di enormi occhi celesti, avvolta in un cappotto beige ed affiancata da un bambino paffuto biondo anche lui, che stringeva per un polso.
- Oh mio Dio, Karen! – ripeté la donna, avvicinandosi a loro e tirando il bambino per il polso per un metro circa, prima di chinarsi e prenderlo in braccio per velocizzare le operazioni di spostamento, - Grazie a Dio!
Bill serrò automaticamente le dita attorno al manubrio. Bushido fece lo stesso con le sue spalle.
Era la madre.
Piangeva.
Era la madre.
La osservarono chinarsi sul passeggino e sfiorare la bambina con affetto e timore, come a volersi sincerare fosse ancora tutta intera, mormorando paroline dolci fra un singhiozzo e l’altro mentre il piccolino, accucciato accanto a lei, prendeva a piangere a propria volta, scosso dai suoi singhiozzi.
Samhain la imitò presto.
Bill si morse una guancia.
- I bambini… piangono molto spesso, Anis. – commentò a mezza voce, mentre si allontanava impercettibilmente dal passeggino, lasciandolo andare. Bushido non lasciò lui.
I due osservarono la donna riprendersi lentamente, smettere di singhiozzare e rimettersi in piedi, le mani strette saldamente attorno a quelle minuscole della bambina.
- Karl m’è scappato di mano… - spiegò la donna, asciugando le lacrime del bambino con un fazzoletto di carta, - C’era molta confusione e l’ho perso, ho dovuto rincorrerlo, non potevo lasciarlo andare via così, solo che quando sono tornata qui Karen era scomparsa e… - si morse un labbro, - Grazie a Dio siete tornati qui… grazie a Dio. Scusatemi. Grazie.
Bushido annuì lentamente. Bill si nascose contro di lui senza neanche un po’ di vergogna.
Quando la madre e i bambini furono spariti dietro l’angolo, i primi singhiozzi cominciarono a riempire l’aria, sovrastando il rumore dei tacchi dei passanti contro il marciapiede ghiacciato. Bushido li soffocò tutti uno dopo l’altro contro il proprio cappotto, stringendosi addosso Bill come il bambino fosse stato lui.
- Anis… - mormorò il ragazzo, andando alla ricerca di calore nell’incavo del suo collo, - Samhain…
- Va bene così, cucciolo. – lo rassicurò accarezzandogli la nuca, - Saremmo stati due genitori fantastici.
Bill annuì freneticamente contro la sua pelle, incapace di frenare le lacrime.
Prima o poi lo sarebbero stati davvero. In ogni realtà possibile.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Così si presenta oggi, apro la porta e lui è lì, appoggiato allo stipite, che mi fissa con un sorriso furbo da bambino monello che mi fa venire voglia di lasciargli addosso baci a stampo finché non gli vengo a noia."
Note: *si guarda intorno con aria sospettosa* Sono le tre e mezza del mattino, ho sonno e non posso andare a dormire, sono stanca, triste, depressa e sto per pubblicare senza il permesso di Tab, ma se restavo a ciondolare per casa senza un perché ancora cinque minuti sarei impazzita, perciò tanto vale fare qualcosa di utile e metter su questa gioiosa vaccatina, visto che domani comincia la round-robin e non voglio andarle di mezzo al primo giorno.
*sospira* Che dire? In realtà ho voglia di scrivere questo spin-off dalla prima volta che ho letto Eine Kugel Reicht °_° Va’ che tempismo, mh? È la meraviglia. Ma è che l’idea del Bu che insegna a Bill come usare la pistola era semplicemente troppo patapuccia per lasciarla andare ç.ç *ama* La triste verità è che, morte a parte, il Billshido di EKR è davvero un Billshido felice. Cioè, cazzo, loro erano felici, prima che lo stronzo morisse ;____; *getta odio immeritato random sul Bu che se è morto non l’ha fatto certo di propria spontanea iniziativa*
Comunque ._. Spero vi sia piaciuta <3 :*
PS. Il titolo viene da una canzone dei Nightwish. Mai sentita, ma mi piace il suono delle parole. E poi lo dice Bill nella shot.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THIS MOMENT IS ETERNITY

Se dovessi provare a descrivere quanto è bello in questo momento, neanche ci riuscirei. Anis non è una persona cupa, anzi, ride spesso, ma ci sono dei momenti in cui vedi che non sta solo ridendo, no, dietro c’è tutto un universo che sta nella sua testa e che è ciò che l’ha portato a sorridere in quella maniera. Sono i momenti in cui capisco che non ha fatto altro che pensare a me per ore, fino ad avere nella mente un’idea più che chiara di ciò che avrebbe dovuto dirmi, e quando ride così io so che lo fa perché ha progettato qualcosa di assolutamente meraviglioso e non vede l’ora di dirmelo.
Così si presenta oggi, apro la porta e lui è lì, appoggiato allo stipite, che mi fissa con un sorriso furbo da bambino monello che mi fa venire voglia di lasciargli addosso baci a stampo finché non gli vengo a noia.
- Principessa. – mi saluta con un cenno del capo vagamente simile ad un inchino, mentre io mi lascio contagiare dal suo sorriso e mi scosto dall’uscio per farlo passare. – Hai qualcosa da mangiare? Non ho ancora toccato cibo oggi.
Vorrei dirgli che non ricordo di aver comprato niente di commestibile, ma lascio perdere quando lo osservo infilarsi risolutamente in cucina ed uscirne subito dopo con una fetta di prosciutto che pende dalle labbra ed un bicchiere di succo d’ananas in una mano.
- Non so da quanto fossero in frigo… - lo avverto con una risatina.
Lui scrolla le spalle.
- Il sapore non è male. – mi rassicura, mandando giù il prosciutto. – A casa di Chakuza abbiamo preso tante di quelle intossicazioni epiche che mi sa che ormai ho l’intestino di ferro. – conclude bevendo d’un fiato anche il succo e dandosi un pugnetto sull’addome come a dimostrarmene la resistenza.
Penso che ho davvero un po’ paura di casa di Chakuza, me ne parlano tutti come di un posto molto pericoloso. A dare un po’ di corda ad Eko ti racconta di certi incontri ravvicinati con scarafaggi multiformi, nel bagno, da lasciarti agghiacciato. Non so, ho come l’impressione che quell’appartamento non vedrà la mia persona tanto presto.
Nel mentre, Anis si stiracchia soddisfatto ed il secondo dopo mi si abbatte addosso, strizzandomi in un abbraccio che sa di voglia e di una certa nostalgia stupida e pure molto tenera.
- Sono distrutto. – borbotta, - Voglio andare in pensione.
- Non sei ancora abbastanza vecchio. – lo rassicuro, visto che so che è esattamente quello che vuole sentirsi dire.
Lui ride e si china a baciarmi stringendomi per la vita, ed io sono già lì che allungo le mani cercando di eliminare lo stupido giubbotto che ancora lo avvolge per arrivare a toccare qualcosa di caldo, qualcosa di buono, qualcosa di suo, quando lui si allontana ridendo ancora, in uno sbuffo che riesco a soffocare fra le labbra solo in parte.
- Aspetta, aspetta. – mi dice facendo sfoggio di una pazienza che, dipendesse da me, schiaccerei sotto le scarpe per poi schienarlo sul letto, - Ho altri programmi per oggi.
- Io no! – biascico cominciando a spingerlo verso la camera da letto, piantandogli entrambe le mani sul petto. Lui ride e scuote il capo ma non protesta, indietreggia mentre lo spingo e continua a guardarmi come se fossi una cosa bellissima e inspiegabile. Adoro quando lo fa.
Impatta contro il letto e ci si lascia schienare davvero, mi fiondo entusiasta su di lui e sfilo via il dannato giubbotto che è peggio dei vestiti, perché è ruvido e freddo dell’aria della notte. Faccio per lasciarlo ricadere per terra ma lui mi ferma - “aspetta, aspetta!”, sempre ridendo, è meraviglioso il suono che fa – lo prende fra le mani e lo adagia con cura sul pavimento. Poi nota il disappunto nel mio broncio ed allarga le braccia – “okay principessa, riprendi da dove hai lasciato” – ed è tutto ciò che ho bisogno di sentirmi dire, afferro la maglia e la tiro via, resisto all’impulso di baciarlo ovunque solo perché devo disfarmi di tutti gli altri vestiti – i miei, i suoi, sono solo barriere inutili – e solo quando ci sono finalmente riuscito mi sistemo meglio sul suo grembo e mi struscio come un gatto contro la sua pelle, mi nutro del suo calore, lo sfioro ovunque ed ovunque mi lascio sfiorare. E lui continua a ridere. Ed è stupendo. Sono arrossito fino alla punta dei capelli e mi sento una liceale, ma in questo preciso istante non me ne frega un accidenti.
Mugolo un po’, rimettendomi seduto e incrociando le braccia sul petto.
- Ma non stai facendo niente! – mi lamento, imbronciandomi di nuovo.
Anis ride e solleva le mani a cingermi i fianchi, passa il pollice sul tatuaggio a forma di stella e lo disegna distrattamente, dandomi i brividi ovunque.
- Te l’ho detto che avevo altri programmi. – mi prende in giro con un sorrisino stronzo, ed io inarco un sopracciglio.
- E non li puoi cambiare? – chiedo, e sottolineo la richiesta spingendomi col bacino contro di lui.
Grazie a Dio Anis ha sempre reazioni corporee molto prevedibili, perciò mi prendo giusto un secondo per esultare interiormente quando vedo il suo sorriso cambiare colore e mi ritrovo all’improvviso rivoltato sul letto con tutto il suo peso addosso e le labbra schiacciate con forza contro il collo.
Lo abbraccio stretto, mugolando compiaciuto e sorridendo trionfante, visto che lui non può vedermi. Lui ride ancora – mi ride dritto sulla pelle – e borbotta “sarai la mia rovina, principessa”, ed io penso che mi va benissimo, perché lui è già la mia.
Non passa molto prima di ritrovarmi le sue mani ovunque, e rido divertito bisbigliando “non eri stanco…?”, mentre lui mi morde sul collo per mettermi a tacere. E d’accordo, penso io, non dico altro, da qui in poi solo mugolii, anche perché so che gli piacciono. E mugolo. Mugolo mentre mi sfiora e mi bacia e mi accarezza piantandomi le mani addosso di prepotenza, scrivendomi sul corpo l’intensità del suo desiderio, un desiderio che gli pulsa fra le gambe con una furia incontrollata, lo stesso desiderio che accolgo dentro di me fra i suoi, i miei, i nostri sospiri, il desiderio che lui spinge con forza fino in fondo al mio corpo, fin dove fa male e fin dove mi fa godere di più, il desiderio che mi costringe a piantargli le unghie nella schiena e i denti nella spalla, il desiderio per cui ansima contro la mia pelle, lo stesso desiderio per cui ansimo anche io. Il desiderio per cui vengo fra le sue dita è lo stesso per cui lui viene dentro di me. Siamo identici. Siamo uno. Siamo perfetti e questo momento è eterno.
Riprendo a respirare lentamente, fra le sue braccia, schiacciato fra il suo corpo e il materasso. Inspiro il suo odore, quello un po’ acre del suo sudore che si mischia all’odore del tabacco ed a quello del dopobarba. Rimango semplicemente immobile, gli occhi chiusi, e so che finirei per addormentarmi se lui non si riscuotesse e si mettesse seduto sul letto al mio fianco. Non si copre, non ha il minimo senso del pudore. Gli getto addosso il lenzuolo solo perché, in caso contrario, non riuscirò mai a smettere di guardarlo.
- Allora, questi grandi piani che avevi? – sbotto, cercando di darmi un tono mentre mi sistemo a mia volta, coprendomi come posso e ritrovandomi immediatamente addosso le sue mani che tirano via le coperte un po’ per infastidirmi ed un po’ perché gli piace fissarmi.
- Ah, già! – e gli ricompare sulle labbra il sorriso giocoso col quale è arrivato, mentre si sporge oltre il mio corpo e recupera il giubbotto da terra, posandoselo in grembo, - Hai dei peluche?
Inarco le sopracciglia.
- …quando sono venuto a vivere qui, Tomi mi ha obbligato a portarmi dietro i regali delle fan, c’è uno scatolone da qualche parte… - rifletto, - Tipo sull’armadio, controlla. Perché, comunque?
Anis annuisce ma non risponde. Si alza in piedi ed io distolgo lo sguardo perché altrimenti da questa situazione non uscirò mai vivo, ma lo osservo comunque tirarsi dritto sulle punte per raggiungere lo scatolone in cima all’armadio e poi tirarlo giù, rovistando all’interno. Ne tira fuori un paio di slip e cinque o sei reggiseni di cui non ricordavo l’esistenza. Li tiene su due dita, inarca le sopracciglia e un po’ mi prende in giro, un po’ è infastidito dalla loro presenza.
- Buttali via! – protesto imbarazzato, e lui ride e li rimette a posto. Dopodiché comincia sistematicamente a tirar fuori ogni singolo peluche mi sia stato regalato nell’ultimo anno, e li sistema ordinati sul pavimento, a ridosso della parete, proprio di fronte al letto. Uno accanto all’altro, come un plotone d’esecuzione.
Comincio giustamente a temere.
Lui rimira il lavoro soddisfatto ed io gli tiro addosso i pantaloni sperando indossi almeno quelli. Li ignora felicemente, lasciandoli ricadere a terra per poi voltarsi e tornare a sedersi accanto a me sul letto, prendendomi fra le braccia e costringendomi a sedermi praticamente addosso a lui. Non che mi dispiaccia, ma palesemente non uscirò vivo da questa situazione.
- Allora, principessa, stasera ti insegno una cosa che, in quanto mio compagno, devi saper fare per forza.
Io dovrei preoccuparmi, ma mi ha appena detto che sono il suo compagno, perciò decido che me ne frego, qualsiasi cosa sia la farò.
- Cosa? – chiedo curiosamente mentre mi sistemo contro di lui cercando di non scatenare imprevedibili reazioni a catena né nel mio né nel suo corpo.
È lì che lui si allunga verso il giubbotto, lo riporta vicino e fruga un po’ nelle tasche. E poi riemerge con la Heckler. Io la guardo con un po’ di timore perché generalmente evita di tirarla fuori in mia presenza. È una cosa tremenda, mi ricorda pezzi di lui che preferirei ignorare del tutto – e che per contro non posso ignorare affatto. Perché sono il suo compagno, appunto.
- …Anis, tu non vuoi, vero, che io-
- Userai i peluche come bersagli. – annuisce tranquillamente lui, - Non preoccuparti, ti aiuterò io, le prime volte.
- Anis, io non posso sparare ai peluche! – cerco di tirarmi indietro, ma lui ride, posa la pistola e mi stringe in un abbraccio fermo e deciso, soffiandomi sul collo.
- Calmati. – dice a bassa voce, - Sono solo pezzi di stoffa. Non sono neanche tuoi. E poi devi saperlo fare.
Il suo fiato sulla pelle non è veramente sostenibile. Cerco di distrarmi.
- Sentiranno gli spari…
Torna a sollevare la pistola.
- Vedi questo? – dice, indicando una specie di cilindro sulla punta, - È il silenziatore. Sai cosa significa? Che, quando spari, si sente solo una specie di psiuh.
Rido un po’ perché il suono che ha fatto è abbastanza ridicolo. All’improvviso, mi viene voglia di sentirlo, questo psiuh. Allungo una mano, il palmo bene aperto, ed Anis sorride e mi consegna la pistola. Naturalmente, è pesante da morire. La mia presa fa schifo e sia la mia mano che la pistola cadono sul materasso. Anis ride ed io mi imbarazzo furiosamente, distogliendo lo sguardo.
- Riprendila, dai. – annuisce incoraggiante. Io obbedisco. La tengo con due mani, me la rigiro fra le dita. È fredda ed enorme e così dannatamente impersonale che vorrei gettarla via.
- Fosse mia, le metterei un po’ di teschi qua e là… - rifletto a mezza voce, - È così spoglia…
Anis ride di cuore, la sua risata vibra tutta attraverso il mio corpo ed io mi ritrovo a pensare senza un perché che mi piace amplificare la sua voce. Dovrebbe parlare solo attraverso di me.
- Avanti. – riprende lui, stringendo le mie mani fra le sue e puntando la pistola verso il primo peluche della fila, una specie di topo deforme con le ali viola. – Spariamo a lui. È brutto, vero?
Lo osservo.
- È un insulto al decoro, direi.
Anis annuisce.
- Ora lo togliamo di mezzo. Uno psiuh e resterà solo un mucchietto di ovatta. Ci sei? – annuisco e mi concentro, aggrottando le sopracciglia. Anis ride ma so che lo fa perché mi trova tenero. Le sue risate hanno toni così differenti e precisi che, una volta imparate tutte a memoria, potrebbe anche solo ridere senza dire una parola per tutto il resto della sua vita, e lo capirei comunque.
Socchiudo gli occhi. Non intendo prendere la mira. Lascio che lo faccia Anis, dietro di me. Premo l’indice sul grilletto e lui preme il proprio sul mio. Pressa più forte di me.
Fa davvero psiuh. È un suono talmente ridicolo, e il topo viola si sfalda con una facilità così sciocca che non so, per un secondo dimentico di stare maneggiando una pistola e scoppio semplicemente a ridere. Così, piegandomi pure un po’. Anis si abbatte contro la mia schiena e ride a propria volta, lasciandomi un bacio su una vertebra a caso, ed io riapro gli occhi e vedo la pistola enorme fra le mie mani piccolissime fra le sue che invece sono grandi e forti e sono felice di una felicità molto molto stupida. Che forse non dovrei provare. E che però è qui e mi riscalda tutto.
- Bene! Abbiamo tolto di mezzo il topo viola. – commenta entusiasta Anis, - Passiamo al prossimo. – e punta contro il successivo.
- Ma no, è un gattino… - mi lamento io, mugolando infelice, - È carino, lasciamolo per ultimo!
- Vero. I belli sempre per ultimi, prima li si scopa, poi li si ammazza. L’arte della guerra. Sei un talento! – mi prende in giro lui, baciandomi sul collo. Io rido.
- Quell’altro. – dico, indicando un drago con due orribili occhi rossi e pallati, - Mi inquieta, posso sparare a lui?
Anis sorride compiaciuto.
- Provi da solo? – io annuisco. – Se fai centro, un bacio in premio.
Psiuh.
Il drago è illeso, in compenso la carta da parati non può dire lo stesso.
Il bacio in premio, però, visto che sono la principessa, lo prendo comunque.
Genere: Comico.
Pairing: Bill/Bushido, David/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash.
- Bill ha avuto un'idea geniale: una collaborazione Bushido/Tokio Hotel che possa soddisfare le fangirl molto più di quanto non facciano i flirt pubblici. Il problema è che questa stessa idea finisce per rivoltarsi non solo contro chi l'ha avuta, ma pure contro tutti gli altri. Buongusto delle fangirl lettrici a casa compreso ._."
Note: Questa storia nasce in un modo molto perverso – come perfettamente intuibile dalla tematica, immagino. Nasce, precisamente, con me che, in crisi d’astinenza da Billshido, mi piego a leggere una Billshido/Torg AU decisamente opinabile che non vi linko perché ci sono cose che vanno tenute nascoste alle masse no matter what. Nella storia in questione, Bill era un gioioso allievo un po’ ribelle che finiva in punizione, sorvegliato dal prof di storia – vi lascio indovinare chi fosse. Tom e Georg erano due giocatori di football e l’unica loro utilità era rotolarsi fra i documenti del povero prof di storia di cui sopra – povero non perché fosse in sé sfigato, ma perché non puoi mettere Bushido a fare il prof e non aspettarti che io ci rida su. E anche parecchio.
Comunque. Niente, m’è venuta voglia di infilare Bill in una divisa da scolaretta XD La colpa è del crossdressing. Perciò di Sar@. La colpa del crossdressing è sempre sua. La colpa del Tost – e quindi del conseguente inserimento di Tom che ha dato da solo un perché alla fic – invece, è di Yul, che si lamentava (come al solito) che nessuno le scrive mai fic sulla coppia che piace a lei. Toh XD
Insomma, come vedete io sono completamente innocente °_° La colpa è tutta di altri XD Ma spero comunque che queste cinque paginette di follia vi siano state gradite <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
FOREPLAY

Tom lo stava guardando come fosse pazzo già da una decina di minuti abbondanti e, sinceramente, la cosa cominciava a farsi un puntino irritante. Bill incrociò le braccia sul petto e sporse un broncio molto offeso, aggrottando le sopracciglia e dardeggiandolo con un’occhiata risentita.
- Be’? – borbottò, - Che hai da fissarmi così?
Tom deglutì e si sistemò meglio sul divano.
- …non avrei affatto dovuto dirtelo. – concluse annuendo lentamente per darsi ragione da solo, - Avrei dovuto continuare a lasciarti nella tua ignoranza, perso nel tuo idillio amoroso col tuo rapper dal cuore di panna, così non avresti mai saputo che…
- …che tu te la fai col mio manager.
- Che è anche il mio manager. – precisò piccato. – Sì, comunque. Non l’avresti mai saputo e non saremmo mai arrivati a questo punto.
Bill batté un piedino a terra e si espresse nel migliore dei suoi bronci da diva insoddisfatta.
- Non mi pare di averti mai dato fastidio, fino ad ora! Ed è un mese che lo so! – si premurò di fargli sapere, fissandolo astioso.
- Ed infatti m’era sembrata troppa grazia! – strillò Tom, scattando in piedi e prendendo a muoversi ossessivamente intorno al divano, - Non lo farò, Bill.
Bill si tirò indietro, i tratti del viso che denunciavano un profondo sgomento – la bocca spalancata, il cipiglio oltraggiato, gli occhi liquidi e brillanti – e lo puntò col dito.
- Come puoi…!
- Non lo farò! – ripeté più duramente Tom, - Ma poi, che utilità potresti ricavarne?!
- Be’, almeno non sarei solo!
- Ma che vuol dire, io non sarei mica lì con te!
- Non fisicamente, ma spiritualmente sì!
- Ma è follia!!! E poi perché, se tu vai a sputtanarti col tuo uomo, devo farlo anche io col mio?!
- Per gemellarità! Che gemello di merda sei?!
- Un gemello che ci tiene alla propria dignità!
- Ti fai David, che dignità può esserti rimasta da difendere ancora?!
Tom ringhiò e concentrò sulla punta della lingua tutto l’astio ed il fastidio di cui si riteneva capace.
- La dignità di uno che per scopare non ha bisogno di infilarsi in un costume e fingere di essere una cosa che non è!
Bill serrò le labbra, risentito.
- Non è un costume! – precisò poi, indicando l’enorme sacchetto di plastica trasparente che giaceva immobile ai suoi piedi, - È una divisa. E quale migliore occasione di utilizzarla, se non questa? È l’unico momento in cui possiamo rischiare di beccarli insieme!
- Io non scoperò con David nella stessa stanza in cui tu stai scopando con Bushido, Bill!
- Ma chi te l’ha chiesto?! – continuò ad urlare lui, sempre più sconvolto, - Dobbiamo solo andarci insieme, poi prenderemo ognuno una stanza!
Tom roteò gli occhi.
- Lo sapevo io. – mormorò con la furia depressa di un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, - L’avevo detto a David. Ai Tokio Hotel non serve una collaborazione con Bushido. È pericoloso dare a quei due l’opportunità di stare insieme anche per lavoro. Sarà un dramma.
Bill trasalì.
- Vuoi dire che hai provato a sabotare il mio magnifico piano fin dall’inizio, Tomi?!
Suo fratello lo guardò e non ebbe neanche la forza di deprimersi oltre.
- Sapevo che doveva essere una tua macchinazione malvagia. – disse invece, tornando a lasciarsi andare sul divano. – Bill, non puoi essere serio. Quei due stanno lavorando, e sono peraltro gli unici lo stiano facendo. Se andiamo a romper loro i coglioni, il nuovo album dei Tokio Hotel non vedrà la luce né oggi né domani né mai. E tu non vuoi che questo accada, vero?
- Ovvio che non voglio! – protestò Bill, disgustato da tanta sfacciataggine, - Che domande. Però per un giorno non andrà mica tutto a puttane!
- Ma perché, Dio mio, perché non puoi aspettare che finiscano di registrare?! Già Bushido è una frana, in sala di registrazione, David sarà isterico, ci presentiamo noi conciati… così! – sbraitò, indicando a propria volta il sacchetto di plastica con un dito, - Sarà la fine!
Bill roteò gli occhi e si preparò ad usare il proprio asso nella manica.
- Tom. Seriamente. Da quando hanno cominciato a lavorare, tu hai più scopato? – Tom fece per aprire la bocca ma Bill lo fermò puntandogli un ditino perfettamente smaltato sulle labbra. – A-ha! – lo rimproverò bonario, - Sii sincero.
E Tom deglutì. Deglutì perché sapeva perfettamente che, quando Bill ti chiedeva di essere sincero, era perché conosceva già la verità. Perciò l’avrebbe saputo all’istante, in caso di menzogna. E le rappresaglie sarebbero state multiformi e spaventose e più variegate di una coppa di gelato fruttato in cinque o sei gusti diversi.
- …no. – si decise a rispondere mestamente alla fine.
- E non ti manca? – chiese Bill, avvolgendolo in un abbraccio improvvisamente comprensivo e simpatetico.
- …sì. – singhiozzò Tom, che già vedeva profilarsi l’Apocalisse all’orizzonte.
- E non vuoi ricominciare a farlo?
- …mh. – annuì, lasciandosi andare contro la sua spalla e chiudendo gli occhi nella speranza di riaprirli poi ed accorgersi di essersi appena svegliato da un orrendo incubo.
Naturalmente non accadde.
- E allora indossa la tua divisa, Tomi… - ghignò Bill, separandosi da lui, - Prima che ti rifili la mia.
Tom guardò in basso al sacchetto e vide le gioiose piegoline di una gonnella alla marinaretta sbucare fuori dalla chiusura in alto. Deglutì ancora e si chinò a raccogliere i pantaloni.
*
David Jost ed Anis Mohamed Youssef Ferchichi erano due uomini molto simili, in svariati ambiti della loro esistenza. Non avere avuto un padre per la maggior parte della loro vita li aveva resi abili a sbrogliare le situazioni complicate per fatti propri, senza creare problemi e capendo sempre in anticipo quale fosse la strada più giusta da intraprendere.
Per tale motivo, era bastato loro guardarsi negli occhi due-minuti-due per capire che, dalla strampalata eppure convincente idea di Bill – io ed Anis siamo sempre in giro a flirtare! Diamo soddisfazione seria alle fangirl! Baciamoci! O forse è meglio incidere un brano insieme?, e naturalmente la scelta era caduta sulla seconda ipotesi – si sarebbe potuto cavare fuori qualcosa di sensato solo a patto di sedersi amabilmente al tavolino e scrivere.
“Scrivere” significava semplicemente che Anis avrebbe dovuto sedersi al suddetto tavolino e buttare giù la solita fiumana di parole non necessariamente dotate di senso ma possibilmente non troppo orrende da sentire una dietro l’altra. Per quanto riguardava David, invece, dal momento che era palese che Bill non si sarebbe mai e poi mai davvero deciso a dare un perché alle idee sparse che spiaccicava un po’ ovunque su qualsiasi superficie disponibile, gli sarebbe toccato sedersi a propria volta e cercare di buttar giù qualcosa di abbastanza poppeggiante da non preoccupare nessuno ma non abbastanza smorto da uccidere di noia i loro fan.
Fu in questa situazione – chinati entrambi su un foglio di carta a scrivere alacremente come ai tempi della scuola – che li colse un lieve ticchettio alla porta dell’ufficio nel quale si erano rintanati per scrivere – o per pomiciare indisturbati, come aveva insinuato Natalie facendo sfoggio di incredibile quanto fuori luogo ironia.
David sollevò gli occhi per posarli su un paio completamente diversi dai suoi – più scuri e più grandi e con delle ciglia da Maybelline che, dannazione, ma si truccava? – ma macchiati della stessa incredula curiosità.
Bushido si premurò di dare voce ai pensieri di entrambi alzandosi in piedi e battendo un pugno contro il tavolo.
- Ma chi cazzo rompe i coglioni?! – disse l’uomo dirigendosi a passi veloci verso la porta, mentre David gettava uno sguardo al foglio e motivava quell’astio con le lunghe ed arzigogolate linee d’inchiostro che il rapper aveva tracciato sul quadernetto, per poi cancellarle invariabilmente e pure con una certa furia.
David osservò l’uomo pararsi di fronte alla porta e spalancarla con tanto impeto da potere arrivare a scardinarla senza problemi.
- Non è il momento di- - iniziò, ma le parole gli morirono in gola quando, di fronte ai suoi occhi, si parò esattamente l’ultimo spettacolo che potesse aspettarsi di vedere in una situazione come quella. Forse in un sogno, forse ad Halloween, forse in un universo alternativo avrebbe potuto accettare come normalità vedere Bill vestito come una scolaretta, ma non – assolutamente non – quando stava cercando di scrivere una canzone. Per lui, peraltro.
- Buonasera, signor Ferchichi… - cominciò Bill, stringendosi pudicamente nelle spalle e piegando un po’ le gambine per guardarlo dal basso come una lolitina un po’ scema, - io e Tomi siamo qui per le ripetizioni… se anche il signor Jost è in casa.
Nella mente di Bushido si formarono tutta una serie di giustificatissime domande. Signor Ferchichi?, tanto per cominciare. E poi, a seguire, ripetizioni? In casa? Signor Jost?
- Che succede? – riecheggiò alle sue spalle la voce del manager, e l’uomo, non riuscendo a trovare parole adeguate per spiegare cosa stesse guardando, si limitò a farsi da parte e lasciare che Bill e Tom si stagliassero contro la soglia della porta in tutto il loro – presunto – splendore.
Se già Bill poteva definirsi uno spettacolo inquietante – in molti sensi, peraltro – con quell’indecente gonnellina blu a piegoline che non riusciva a coprire neanche tutti i boxer e la maglia leggera che si fermava ondeggiando proprio sull’orlo del tatuaggio sull’inguine, Tom era addirittura straniante: s’era infilato dentro una divisa da damerino svogliato – camicia semiaperta, cravattino allentato, mani mollemente abbandonate nelle tasche dei pantaloni chiari – che lo rendeva… perfino conturbante. Più di quanto già non fosse di solito, almeno.
- …oh. – fu il commento del manager.
Bushido lo guardò.
- Oh? – chiese, inarcando un sopracciglio e puntando i gemelli con un dito, - Questa ti sembra una cosa da “oh”? Non da “Cristo santo” o da “siete indecenti” o chessò io?
David deglutì e si ritrovò costretto ad abbassare lo sguardo, mentre Bill ghignava in maniera così cattiva da fare paura.
- Sì, be’, sapevo… - deglutì, - …sapevo delle divise, ecco.
Bushido lo guardò. Bill rideva. Tom fissava il proprio gemello ed il proprio manager con una curiosità venata appena dall’ebetismo tipico di chi non sta capendo un accidenti di ciò che si sta verificando di fronte ai propri occhi.
- Sarebbe a dire? – chiese il rapper, impaziente, senza riuscire a tornare a guardare Bill, che nel mentre aveva incrociato le braccina dietro la schiena e stava ondeggiando felice da un piede all’altro, facendo frusciare la gonna.
- Sarebbe a dire, - cinguettò appunto il moro, palesemente divertito, - che erano nel suo armadio. Gliele ho rubate.
L’invocazione di Tom – un “David…?” che probabilmente sentì solo Bushido, tanto era basso e tremolante – era quanto di più vicino al lamento disperato di un condannato a morte che l’uomo avesse mai sentito.
- Stavo… - motivò il manager, furiosamente imbarazzato, - …aspettando il momento giusto per tirarle fuori… - sollevò gli occhi sul proprio ragazzo, - Ma non erano per te e per Bill, erano per… te e me…
Bill continuò a sorridere trionfante come avesse capito tutto perfettamente fin dall’inizio e anzi fosse stato lui a manovrare i desideri del manager apposta per obbligarlo a comprare due divise da scolaretti di modo che poi lui potesse sgattaiolare felicemente in camera sua e rubargliele.
Bushido si chiese ragionevolmente come avesse potuto passare tanto tempo con quell’uomo senza capire le oscenità che gli vagavano per la testa.
Tom, semplicemente, scattò in avanti con un ringhio furioso e strillò un “Ma io ti ammazzo! Tu volevi infilarmi in una gonna!” che sarebbe stato sicuramente il preludio di una morte certa – visto che Jost stava a capo chino e non sembrava intenzionato a difendersi – se Bushido non avesse allungato una mano e fermato il Kaulitz assassino arpionandolo per la collottola e riportandolo letteralmente coi piedi per terra, borbottando con una certa competenza “Adesso ci calmiamo e facciamo le persone serie, ok?”.
Tom continuò a ringhiare oltraggiato fra le sue mani, mentre Bill, naturalmente, ignorava il suo invito a calmarsi tutti e, soprattutto, tornare tutti sani maschi etero – cosa che non sarebbe guastata, visto come si finiva a trentasei anni, scivolando su quella china – preferendo saltellare felice per la stanza fra incredibili sollevamenti di gonna e planare disinvoltamente sul tavolo, accavallando le gambe e rovesciando uno zainetto pieno di libri sulla superficie che, fino a pochi secondi prima, ospitava il lavoro di tutta una settimana, ora inesorabilmente disperso sul pavimento.
Jost rimase immobile seduto al proprio posto con gli occhi bassi, cosa di cui Bushido gli fu anche in parte grato, visto che, da quell’angolazione lì, si doveva avere una panoramica di un certo sederino davvero niente male. E il sederino era suo, ringhiò interiormente Bushido.
No, tornare sani maschi etero sarebbe stato parecchio difficile.
- Io e Tomi abbiamo problemi con certe equazioni… - disse Bill, angelico, aprendo un libro d’inglese a caso e puntando il dito su qualcosa che doveva probabilmente essere una qualche coniugazione di un qualche verbo che, di numeri, non ne vedeva implicati neanche per sbaglio.
- Bill, potresti almeno essere meno palese. – commentò Bushido, mentre Tom si liberava dalla sua stretta ed andava a schiantarsi contro un divano, lanciando alternativamente occhiate d’odio a Jost, al fratello e perfino a lui che, in tutto quel disastro, era l’unica persona veramente incolpevole.
Il moro aggrottò le sopracciglia, offeso, ed accavallò le gambe in un’imitazione di Basic Instinct così perfetta – mutande a parte – che avrebbe potuto valergli l’Oscar.
- Domani c’è un compito in classe… - raccontò ritrovando immediatamente il proprio entusiasmo e ignorando per contro la sua protesta, - Vero, Tomi?
“Tomi” grugnì.
- Tomi?
- Sì, sì. – confermò il rasta con un vago gesto della mano, tornando a fissare il proprio manager con aria omicida.
Bushido roteò gli occhi e poi si volse implorante verso David, alla ricerca di un po’ d’aiuto e, chissà, di una camicia di forza. Magari nell’armadio aveva anche quella. Si ritrovò di fronte uno spettacolo ancora più agghiacciante dell’imitazione di Sharon Stone: David Jost stava raggomitolato sulla propria sedia, con la testa fra le mani, e mugolava indistintamente “è la fine, è la mia fine” ondeggiando pure un po’.
- Signore dammi la forza. – sospirò il rapper esasperato, per quanto si rendesse perfettamente conto dell’inutilità di stare lì ad invocare l’inesistente rompicoglioni che, apparentemente, si divertiva a rendere le loro vite un inferno in terra. – Bill, hai veramente bisogno d’aiuto per studiare o vuoi solo rompere i coglioni e sabotare la tua band?
Bill s’infuriò e gli sollevò il libro a un palmo dal naso.
- La matematica! – borbottò offeso.
- Questo – puntò il dito Bushido, scostandosi il libro di dosso, - è inglese.
Bill tirò il manuale a sé e lo guardò con un certo interesse. Poi scrollò le spalle e tornò a spiaccicarglielo in faccia.
- Potrebbe spiegarmi l’esercizio numero ventuno, signor Ferchichi?
Dal momento che Bill non sembrava disposto a ragionare in tempi utili – posto lo fosse mai stato, naturalmente – Bushido sospirò e si voltò verso Tom, che quantomeno sembrava ancora in sé. O meglio: era fuori di è, ma aveva ragione ad esserlo. In tutta onestà non avrebbe saputo immaginare in che modo Tom potesse aiutarlo a sistemare la situazione, ma era un tentativo da fare comunque.
- Tom, - disse conciliante, - so che sei arrabbiato-
- Io non sono arrabbiato. – ringhiò il biondo, assottigliando gli occhi come quelli di un gatto, - Io sono perfettamente lucido. Io lo ucciderò. Lo legherò al letto, lo avvelenerò e così morirà fra atroci dolori mentre io incido sulla sua pelle le fottute piegoline della fottuta gonna che voleva farmi indossare.
Al sentire quelle parole, il mugolio indistinto di David si fece più forte. Bushido cominciò a temere seriamente per la vita di tutti in quell’angusto studiolo. Principalmente per la propria, oltretutto. Ne sarebbe uscito vivo solo Bill, come la sottospecie di angelo della morte che in effetti era.
Sospirò.
- Tesoro. – chiese poi al proprio ragazzo, fissandolo intensamente, - Ti senti mica trascurato, ultimamente?
Bill lo fissò con sincera incredulità.
- Sì. – rispose quindi, annuendo compunto.
Tom ringhiò e David sollevò il capino – gli occhi veramente colmi di lacrime. Bushido si chiese se fosse possibile consolare con un abbraccio un uomo di quell’età, ma poi decise che non sarebbe stato il caso di abbracciare qualcuno di fronte a Bill neanche se quel qualcuno avesse avuto dodici o tredici anni. Anzi, forse sarebbe stato peggio.
Indicò con un vago gesto della mano il bizzarro abbigliamento del suo ragazzo.
- Questi… - disse, abbracciando con lo sguardo camicetta e gonnellina, - sono un sintomo del tuo disagio?
Bill continuò a fissarlo con incredulità.
- Sì. – rispose ancora, sempre annuendo compunto.
Bushido incrociò le braccia sul petto e meditò.
- Vuoi mica scopare? – chiese infine, come illuminandosi d’immenso.
Bill sollevò la gonnellina dall’orlo ed inarcò un sopracciglio come se la risposta fosse implicita in quel movimento.
Bushido annuì e poi sorrise, scuotendo il capo, divertito. Si chinò verso di lui, stringendolo alla vita con un braccio fino a trascinarlo in piedi e schiacciarselo contro, fissandolo negli occhi ad un centimetro dal suo viso.
- E non bastava chiedere…? – gli soffiò addosso, osservando compiaciuto gli effetti del proprio respiro sul suo corpo – il rossore delle guance, gli occhi improvvisamente luminosi, la lingua a saettare fra le labbra per inumidirle nella speranza di ricevere un bacio.
Bill sollevò una gamba e la insinuò fra le sue.
- Allora forse è meglio se mi porta di là, signor Ferchichi… e studiamo anatomia.
Bushido rise.
- Questa era orribile, Bill.
- Sì, è vero. – rise anche il ragazzo, stringendosi nelle spalle, - Comunque io volevo anche aiutare loro due, eh. – borbottò accennando col capo sia a Tom sempre seduto sul divano a ringhiare che a David sempre seduto sulla sedia a piangere, - Non siamo mica gli unici che hanno smesso di scopare causa lavoro.
Bushido scosse il capo.
- Hai fatto più danno che altro, mi sa. – commentò come se gli altri due non fossero presenti e non potessero sentire. La reazione di Tom fu incassare ancora di più la testa fra le spalle ed intensificare la quantità d’odio fuoriuscente dagli occhi.
David guardò Bushido con aria persa.
- Non vorrete veramente andarvene… - piagnucolò indecentemente, deglutendo terrorizzato.
Bushido scrollò le spalle.
- Sei un uomo piacevole, Jost, ma, che dire?, Bill ha decisamente bisogno di una mano.
- O anche due. – rincarò il moro, annuendo freneticamente in un frusciare di capelli che Bushido si ritrovò controvoglia ad immaginare stretti in due graziosi codini legati ai lati della testa.
Mentre trascinava il ragazzo in una stanza adiacente, pensò d’altronde che magari, prima di farlo, il tempo per un po’ di foreplay si sarebbe pure trovato.
Né Bill né Bushido avvertirono le urla provenire dall’altra stanza, quando Tom portò a termine la propria vendetta. Non sembravano, in ogni caso, segnali della morte di nessuno.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst (lievissimo), Slash.
- "Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì."
Note: …*l’amore la sommerge* Dio quanto mi mancavano ;___; Bill e Bu, vivi, felici ;O; *muore* Sono in iperventilazione, al momento, perché l’ho riletta alla ricerca di correzioni da fare per pubblicarla, e mi è pure piaciuta. Miracolo & sconvolgimento emotivo *annuisce*
DAVID!!! X’D *progetta grandi cose per lui* No, davvero, non ho niente da dire è.é Però questa cosa andava scritta. Punto. XD
PS: Il titolo è rubato all’ennesima canzone del Bu e significa “quest’unico desiderio” <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DIESER EINE WUNSCH

Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì. Che non sono i suoi occhi normali, perché in genere Bill quando ti guarda in maniera normale non ti fa paura. È quando dà alle sue occhiate quell’inflessione cucciolosa ed amorevole e apparentemente innocua che mira a scioglierti il cuore per assoggettarti al suo volere, che tu cominci a tremare. Ma tremare davvero.
Perciò, quando lo vidi entrare nella stanza, timido e timoroso e tutto occhi, io tremai, e cercai di farmi minuscolo sulla poltrona in pelle marrone, quasi per sparirci dentro.
Naturalmente non c’era alcuna possibilità che una cosa simile avvenisse. Eravamo solo io e lui nella stanza, lui non parlava ancora ma io sapevo perfettamente che l’avrebbe fatto da lì a poco, e che quello sarebbe stato l’inizio della fine. E non c’era niente che potessi fare se non prepararmi al peggio e sperare di contenere i danni.
Che sarebbero stati enormi.
Lo seppi con certezza nel momento in cui si sedette – senza avere ricevuto alcun invito in proposito, s’intende – e si dedicò per qualche secondo alla complicata operazione di torturarsi le dita, prima di sollevarmi addosso quelle pozze castane e schiudere le labbra per garantire una via di fuga a cinque minuscoli sussurri – l’inizio della fine, appunto: sai, David, Anis ed io…
- No. – risposi pacatamente, sistemando dei documenti sparsi sulla scrivania. Avrebbero tranquillamente potuto essere carta straccia o fogli bianchi, non era importante: ciò che importava era darsi un tono e, soprattutto, dare ad intendere a Bill fossi indaffaratissimo e non fossi perciò disposto ad ascoltare le sue follie.
Lo vidi combattere per un secondo fra la possibilità di mantenere l’espressione da cucciolo o mettere su un broncio molto indispettito. Probabilmente non sapeva quale fra i due potesse avere, a lungo andare, maggiore effetto sul sottoscritto. Sperai imboccasse la strada sbagliata.
Lui si mantenne cucciolo ed io imprecai contro il mio cattivo karma.
- Non sai neanche cosa stavo per dirti… - mugolò dispiaciuto, sorridendo appena in un modo lieve e lontano da diva delusa dalla vita.
Io finii di rassettare le inutili scartoffie e mi chinai verso di lui, guardandolo severamente.
- Non ne ho bisogno, Bill. – spiegai, - Hai nominato Bushido. Qualsiasi cosa sia, non può che essere un disastro, visto che saremo in giro per la Germania per tutta la prossima settimana. – mi fermai un attimo. – In tour. – precisai poi, nel caso l’avesse dimenticato.
Bill annuì freneticamente, un sorriso un po’ più fiducioso a farsi strada sul suo volto.
- È proprio per questo che pensavo che magari Tom avrebbe potuto trasferirsi nel tourbus di Georg e Gustav e-
Lo fermai con un cenno della mano, guardandolo negli occhi con la fissità di un pazzo.
- Cioè tu vuoi mandare tuo fratello da Georg e Gustav per tenere Bushido nel tuo tourbus. – esplicai con aria assente, - Vuoi distruggere ciò che resta dei Tokio Hotel, Bill?
Lui inarcò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, palesemente colpevole.
Niente da dire riguardo le capacità quasi schizofreniche di Bill di cambiare umore ogni qualvolta se ne presenti la necessità. E io ci casco come un cretino, sempre.
- Bill, non puoi chiedermelo. – cercai di farlo ragionare. Sarebbe stata la guerra. Io non potevo permettermi di dare all’unico chitarrista che accettasse di suonare nei Tokio Hotel un’occasione per mollarli definitivamente e diventare un uomo del ghetto come desiderava. Soprattutto perché, se fosse diventato un uomo del ghetto in quel periodo, come minimo avrebbe scatenato una guerra fra bande nel tentativo di massacrare di botte Bushido e tutta la sua compagnia. Il che mi avrebbe portato a dover organizzare un funerale che non ero davvero sicuro di voler organizzare – anche se avrebbe risolto un mucchio di problemi alla base.
- Ci vediamo così poco, David… - rispose semplicemente lui, riprendendo a torturarsi le dita, - È davvero troppo poco. È riuscito a ritagliarsi una settimana libera. Lo capisci, David? Tu lo sai perfettamente quanto costi una settimana di libertà. – tornò a guardarmi, improvvisamente serio. Nei suoi occhi, una luce matura che mi spaventò non poco. – Per favore. Solo questa volta.
Sospirai.
- Naturalmente dovrò vedermela io, con tuo fratello. – borbottai irritato, ricominciando ad affastellare fogliame di fronte a me, sperando, chissà, di creare una pila e nascondermi agli occhi dei miei impegni.
Bill ridacchiò lievemente.
- Ancora con me non parla. – disse a bassa voce, e non aggiunse altro.
Feci un vago gesto con la mano.
- Sparisci. – buttai lì, disperdendo la pila di inutili fogli e cercando di capire cosa farne, - E digli di venire solo all’ultimo momento! – aggiunsi mentre Bill letteralmente scattava in piedi, scavalcava la scrivania e mi saltava addosso, affogandomi nei propri capelli.
Non riuscii a scollarmelo di dosso per tutta la successiva mezz’ora, ma non posso dire che mi dispiacque.
Mi dispiacque moltissimo ciò che fui costretto a fare dopo, però.
Entrai in camera di Tom che lui già subodorava guai. Tom ha questo talento particolarissimo per le situazioni di pericolo: quando sa che nel giro di poco tempo potrebbe succedere qualcosa di brutto per se stesso o per suo fratello, scatta sull’attenti e dà il via alle manovre di fuga. Chessò: fugge alle Maldive, o torna a casa a Loitsche o si dà alla macchia. In ogni caso, scompare e si tira fuori d’impaccio.
Quella volta arrivai in anticipo – se sia stata fortuna o sfortuna non saprei dirlo – e lo trovai nel bel mezzo di una frenetica preparazione di borsone per la notte.
Guardai lui. Il borsone. Di nuovo lui.
- Dove stai andando? – chiesi in tono casuale, come fosse una normale curiosità di manager.
Lui deglutì e rispose con la stessa falsa neutralità.
- Da Andi. – disse annuendo, - Mi andava di cambiare aria, per un po’. Almeno fino all’inizio del tour.
Annuii.
- Perfetto. – concordai, - Mi sembra un’ottima idea. Ma prima dobbiamo parlare.
E lì Tom naturalmente cominciò ad andare fuori di testa. Probabilmente non immaginava cosa stessi per dirgli di preciso, ma dalla curva delle mie sopracciglia doveva averne intuito la generica gravità. Fui per un attimo orgoglioso di lui, ma tornai subito in me.
- Tu non ti arrabbierai. – ordinai tranquillamente, puntandolo con un dito.
Tom aggrottò le sopracciglia.
- David, non dirmelo neanche.
Sospirai.
- Devo prepararti al-
- Non dirmelo neanche!!! – ripeté, strillando come un indemoniato, - Non dirmelo, cazzo, no!
- Tom, calmati! – cercai di fermarlo afferrandolo per le braccia, prima che cominciasse a lanciare tutto intorno il contenuto del borsone. Lui mi ignorò.
- Dimmi che viene stasera. Cazzo, dimmi che sta con lui stasera perché io stasera non ci sono, David. Posso sopportarlo, se sto a chilometri di distanza!
- Tom… - sospirai pesantemente, spingendolo con tanta forza da mandarlo seduto sul letto. Non ne servì molta, in realtà. Tom è piuttosto gracile, ed anche quando è davvero arrabbiato la sua forza non aumenta, perché con la rabbia Tom ci si svuota del tutto. - …tuo fratello ci tiene moltissimo. – partii, sperando che questa fosse la via giusta.
Non lo era, naturalmente, ma non me ne stupii più di tanto. Qualcosa nel mio karma era decisamente storto.
- Non me ne frega un cazzo di ciò a cui tiene lui! – sbraitò furiosamente, cercando di rimettersi in piedi. Glielo impedii.
- Si vedono poco.
- Potrebbero non vedersi mai!
- Bushido ha faticato per prendersi una settimana di ferie.
- Poteva risparmiarselo! – si fermò. - …quale settimana?
- Tom, tu non ti arrabbierai.
- Io. Sono. Già. Arrabbiato. – e lo disse con freddezza. Con una specie di furia immobile che mi diede i brividi. Guardandomi negli occhi, lo disse, senza evitare i miei neanche per un secondo.
Sospirai ancora.
- Starai nel tourbus con Georg e Gustav.
- No.
- Solo per una settimana!
- No, Cristo!
Scattò nuovamente in piedi e non fui abbastanza veloce da fermarlo. Me lo trovai che mi fissava dai dieci e passa centimetri di cui mi stacca in altezza, ed il fuoco che bruciava nei suoi occhi nocciola aveva veramente qualcosa di inestinguibile che faceva paura.
Non mi stupì che Tom non volesse parlare con suo fratello. Probabilmente quello sguardo era l’unica cosa che si sentisse davvero in obbligo di risparmiargli. Più degli insulti o delle incomprensioni o della mancata accettazione.
- Qualsiasi cosa tu possa dire o fare, Tom, non cambierà la situazione. – mi sforzai di dire seccamente. Lui aggrottò le sopracciglia ed il suo sguardo si fece distante. Io non stavo parlando solo del tour e lui l’aveva capito.
- Ho bisogno di… - biascicò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte. Poi si rese probabilmente conto del fatto che ripetere la stessa lagna di sempre – ho bisogno di tempo per abituarmi, la colonna sonora delle ultime settimane – sarebbe stato completamente inutile, e lasciò perdere. – Tanto devo per forza accettarlo, no? – ringhiò cattivo, - Bill ha sempre ragione, alla fine dei giochi.
Sospirai e scrollai le spalle.
- Bill è innamorato.
Tom ringhiò ancora e non rispose. E meno male, perché non so cosa avrebbe potuto dirmi con precisione, ma immagino piuttosto bene che sarebbe stato qualcosa di davvero poco piacevole.
Viste le premesse, avrei dovuto aspettarmi che la cosa potesse solo peggiorare, da quel momento in poi. Ed infatti me lo aspettai. Tornai da Bill, lo rassicurai sul fatto che suo fratello non avrebbe compiuto una strage ma che gli sarebbe convenuto comunque stargli alla larga se non voleva mettere alla prova la propria fortuna e poi mi preparai ad accogliere Bushido in casa mia. Più o meno.
Con Bushido avevo avuto pochi scambi ridotti al minimo, fino a quel momento. Il periodo di tempo più lungo mi fosse capitato di condividere con lui era stato quando, asfissiato dalle lamentele di un Tom sull’orlo di un crisi isterica per la preoccupazione, m’ero diretto all’infausta Villa Gialla degli Orrori e mi ero eretto contro la porta per poi sgonfiarmi subito dopo nel ritrovarmi davanti una donnina alta un metro e venti che mi invitava ad accomodarmi e chiedeva al padrone di casa, all’interno, se mi sarei fermato a cena.
Bushido non mi chiese se mi andasse di mangiare con loro. Aspettò che lanciassi uno sguardo un po’ incerto a Bill – accucciato in un angolo del divano in una tuta palesemente ottomila taglie più larga di quella che gli sarebbe servita – e poi mi fece strada all’interno della villa.
Restai solo per il tempo della cena e, per qualche strano motivo, Bushido mi convinse. Non dovette fare nulla di particolare – nulla più che sorridere e… suppongo indossare una camicia bianca sotto un maglione blu. Ma questo non deve necessariamente essere reso noto. – ma lo fece. Andai via che mi sentivo bene.
Ciò non toglieva che Bushido rappresentava la fonte primaria dei miei problemi, in quel momento. Non potevo prenderlo alla leggera.
Allora non immaginavo che sarebbe stata una maledizione dura a morire. A ripensarci adesso è quasi divertente. Quasi.
La partenza era fissata per le quattro del pomeriggio. Erano le due e Bill stava saltellando, chiaro segno che Bushido sarebbe arrivato a minuti. Osservai il minore dei Kaulitz specchiarsi in qualsiasi superficie riflettente lo circondasse e poi decidere che doveva necessariamente andare in bagno a darsi una risistemata. Sparì nel corridoio e sentii i suoi passi frenetici muoversi ticchettando sul pavimento e poi la chiave girare nella toppa.
Suonò il campanello in quel preciso istante e la casa venne avvolta nel silenzio.
Deglutii profondamente e mi diressi verso la porta. Quando la aprii, mi trovai di fronte Bushido in posa plastica, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite ed una mano in tasca. Il solito sorriso brevettato. Il maglioncino e la camicia.
Mi diedi dell’idiota.
- Tu. – notificai, cercando di mantenere un’impassibile freddezza che non mi facesse sembrare uno stronzo irritato – perché non lo ero – ma neanche gli desse a intendere che lo trovassi simpatico – perché così non era.
Il sorriso sul volto di Bushido si allargò e lo vidi rimettersi dritto in una posa che non dovesse necessariamente ricordare quella di una foto da poster, prima di farsi avanti, trascinandosi alle spalle una valigia di dimensioni – ringraziando il cielo – piuttosto contenute.
- Non sono qui per te, Jost. – mi prese giovialmente in giro, - Anche se possiamo organizzarci.
Mi allontanai, aggrottando le sopracciglia. Alle mie spalle, risuonò la voce di Bill.
- Anis! – lo sentii sillabare in tono di rimprovero, - Che dici?!
Bushido mi staccò gli occhi di dosso e li portò su Bill. E per un istante potei capire esattamente per quale motivo Bill fosse disposto ad andare perfino contro l’altra metà di se stesso, per tenersi attaccato a lui. Lo si vedeva chiaramente nei loro sguardi che in fondo – ma neanche troppo in fondo – ne valeva semplicemente la pena.
- Vieni qui. – rise Bushido, giocosamente.
Bill gli si catapultò fra le braccia. Quando lo sentii mormorare “un’intera settimana! Puoi crederci?”, ritenni più opportuno farmi da parte. Tom andava aiutato a preparare valigie che non voleva assolutamente essere costretto ad usare.
*
Bushido era, invero, un uomo molto discreto. Non si sarebbe detto, e in effetti forse “discreto” non è la parola più adatta per descriverlo. Probabilmente era solo… opportuno, ecco. Era la grande differenza che correva fra lui e Tom, una differenza motivata principalmente dallo scarto d’età che li separava. Bushido aveva imparato a memoria pregi e difetti della propria posizione e della propria personalità, e li usava con discernimento e disinvoltura. Tom no. Tom era un bambino che si agitava a casaccio. Proprio per questo motivo, creò molti più problemi lui che non l’uomo, durante il passare della lunga settimana di tour che ci accompagnò in giro per tutta la Germania.
Bill non si accorse di nulla. Un po’ perché, quando scendeva dal palco, si catapultava nel tourbus e da lì non usciva fino al giorno dopo. Un po’ anche perché le manovre contenitive a base di birra pizza e cazzeggio sul tourbus di Gustav e Georg sortirono i loro positivi effetti e Tom riuscì non dico a rasserenarsi ma almeno a svagarsi un po’.
In ogni caso, non successe nulla di irreparabile. Bill uscì da quella settimana come trasfigurato. Mi piaceva vederlo in quel modo. Era raro vederlo così felice, prima di Bushido.
- Non sei proprio una completa e totale dannazione. – gli dissi una mattina, preparando il caffè sul loro tourbus. Bill dormiva felicemente, mi aspettavo lo facesse anche lui e mi stupii non poco quando invece me lo vidi apparire accanto in maglietta e pantaloncini.
Lui rise, palesemente divertito.
- Non sapevo mi considerassi una dannazione. – commentò distrattamente, mentre si allungava a recuperare dei biscotti dal ripiano.
Risi anch’io.
- È difficile considerarti un miracolo, visto lo sconvolgimento che porti.
Scrollò le spalle, aprendo il frigorifero e mandando giù circa mezzo litro di latte direttamente dal cartone.
- Tu sei uno bravo a sistemare le cose, vero, Jost? – chiese, senza aggiungere niente al mio precedente commento.
Inarcai le sopracciglia, inclinando lievemente il capo.
- Quando serve. – risposi vagamente, tornando a concentrarmi sul caffè.
Lui annuì.
- Perfetto. – rispose con una mezza risata ed una scrollatina di spalle, - Allora non hai nulla di cui preoccuparti, sistemerai anche me.
Lo fissai, ancora un po’ intontito dal sonno, mentre recuperava una tazza, versava il latte rimanente e vi lasciava piovere sopra una cascata di biscotti, spezzettandoli distrattamente a colpi di cucchiaio prima di tornare verso le cuccette.
- …non si mangia in zona notte! – fu tutto ciò che riuscii a dire. Passai naturalmente ignorato.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Violence.
- "Io mi chiamo Tom Kaulitz e in questa storia di me non sentirete parlare."
Note: Come nelle migliori tradizioni del rap, questa è una collaborazione. D'accordo, tutta la serie lo è, ma questa one-shot è proprio scritta a quattro mani. E' una Tabata feat. Liz, ecco.
Dunque, Gegen Meine Willen è stato un po' il mio dramma personale. Amavo l'idea di dare voce a Tom, l'ho amata un po' meno quando poi mi è toccato scriverla. Tom mi dà dei problemi e forse me li dà perché è una voce totalmente estranea a tutta la serie. Tomi è fuori dal ghetto; ed è un personaggio totalmente esterno. Come dice lui stesso: non c'entra niente. Ma potevano mancare il suo giudizio, la sua rabbia, il suo supporto ma, soprattutto... la sua versione della morte del Bushido?! XD. Prima che mi dimentichi, ho creato un gioioso schemino della timeline di EKR, così potete vedere la porzione temporale coperta da ogni singola fanfic. Enjoy.
Liz, in queste note, vuole aggiungere che ama Tomi!
E basta.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GEGEN MEINEN WILLEN

Io mi chiamo Tom Kaulitz e in questa storia di me non sentirete parlare.
Forse vi hanno abituato a sentire il mio nome affiancato a quello di mio fratello ma la mia presenza, negli eventi che seguono, non è rilevante. Io con Bushido e con Bill non c'entro niente. L'Esguterjunge e l'Aggro Berlin erano e sono rimaste per me soltanto due etichette che sfornavano buona musica. Del loro incontro, del loro stupido fidanzamento e della catastrofe che ne è conseguita io non sono che uno spettatore, e neanche uno dei più attivi. Non sono mai stato d'accordo con Bill per le scelte che ha fatto e i fatti, alla fine, mi hanno dato ragione. La sua storia con Bushido è durata un anno. Adesso, qualche mese dopo la sua morte, Bill è un mucchio di cocci rotti che non sa rimettersi insieme.
Ovviamente, l'inizio di questa storia non coincide col momento in cui essa è iniziata per me. Bill e Bushido stavano già insieme da un sacco di tempo prima che io venissi a saperlo, ma dei mesi che hanno preceduto la mia scoperta della faccenda non mi interessa. Anzi, non voglio proprio saperne niente. Bill ha cercato tante volte di raccontarmi, ma non gliel'ho mai permesso.
Non voglio sapere come sia stato possibile che uno come Bushido sia finito a farsela con mio fratello. Non voglio sapere cos'ha provato Bill a baciare - o qualsiasi altra cosa - un altro uomo. Io voglio bene a Bill e lo accetto per quello che è. Ma i dettagli no, grazie.
Dunque, ricordo molto bene il giorno in cui tutto questo è iniziato per me. Me lo ricordo per due motivi precisi: il primo è che non vedevo mio fratello da una settimana; il secondo è che se tuo fratello ti dice, tutto in una volta, che è omosessuale e si scopa il tuo cantante preferito, te lo ricorderai a vita. Ve lo assicuro.
Io e Bill abbiamo appuntamento in questo ristorante che io adoro, ed è una specie di RoadHouse americana dove servono bistecche grosse come cavalli. Dovrei sapere che quando Bill si offre di pagare e acconsente a pranzare in un posto del genere deve farsi perdonare qualcosa ma in quel momento non ci penso. E non ci penso perché Bill è appena tornato da chissàdove. Non ha voluto dirmi dove andava quando è partito sette giorni fa, e nonostante mi telefonasse quattro volte al giorno, tutti i giorni, si è sempre rifiutato di dirmelo. Così, quando lo trovo già seduto ad un tavolo in quel cazzo di ristorante, non vado a pensare che abbia prenotato e mi offrirà il pranzo perchè nasconde qualcosa. Cioè, lo penso, ma me ne frego.
Bill se ne sta seduto in un angolo dell'enorme sala del ristorante. Sta giocando distrattamente con la forchetta, facendo le righe sulla tovaglia. E' un po' nervoso, lo vedo da come ciondola i pedi. Sorrido perchè quando è solo Bill non ha la minima percezione di se stesso ed è bello da guardare. Non è in posa. Rimango accanto ad una colonna, seminascosto e lo osservo mentre gioca con una ciocca di capelli e poi se la sistema dietro un orecchio. Col fatto che sono sette giorni che non lo vedo, mi batte forte il cuore.
A me batte sempre forte il cuore quando non ho Bill accanto a me, mi manca l'aria; e non perchè io lo ami in quel senso, o puttanate simili. E che penso che per un lungo periodo di tempo non ce l'ho avuto sotto gli occhi e non avrei potuto farci niente se gli fosse successo qualcosa. Ho paura. E quando posso rivederlo, toccarlo e abbracciarlo di nuovo tiro un sospiro di sollievo, perchè a quel punto niente può più andar male. In realtà sì, ma non è questo il punto.
Che poi non è proprio un pensiero cosciente, è più una sensazione. Dal momento che non abbiamo mai davvero bisogno di parlare, il mio rapporto con Bill è fatto di sensazioni. Io percepisco quello che prova in qualche modo che ovviamente non so spiegare, ma c'è. E' lì.
Ed è lo stesso tipo di capacità che permette a lui di sentire che io sono arrivato. Difatti si gira e mi sorride. "Tomi!"
Faccio finta di non essere così estremamente felice di vederlo che lo stritolerei in un abbraccio e non lo lascerei più andare. Lo voglio intensamente ma Bill se n'è andato senza dirmi dov'era diretto - in altre parole: mi ha mollato a casa come un cretino - quindi sarò felice di vederlo, ma non lo coccolerò come ho intenso desiderio di fare. Si merita almeno una punizione. Quando si alza e mi si stringe addosso, però, tutti i miei buoni propositi vanno alle ortiche. Il mio fratellino è qui, non è finito in un fosso senza un rene. Non. Importa. Nient'altro. Lo stringo fortissimo e gli piazzo un bacio sulla guancia, tanto nel ristorante non c'è quasi nessuno e poi non me ne frega un cazzo. Bill non è nemmeno passato da casa quando è sceso all'aeroporto. Mi ha dato appuntamento direttamente qui. Io non ho avuto modo di sdarmi in smancerie, quindi lo faccio adesso. E chi se ne frega.
"Dove sei stato?"
"Tomi!" Miagola lui e sbuffa, tornando a sedersi.
"Non cominciare. Sei stato via una settimana," dico imitandolo. "Avresti almeno potuto avvertirmi."
"L'ho fatto," risponde. "Ti ho detto che andavo via."
"Ah beh allora!" Commento sarcastico. La cameriera ci porta i menu e io lo apro, sfogliandolo distrattamente. "Potevi essere chissà dove!"
"Non sono andato molto lontano," mormora. Sollevo gli occhi e vorrei essere arrabbiatissimo, ma lo fa anche lui e mi stende. Bill quando vuole è un maledetto bastardo, conosce tutti i miei punti deboli. E lui che mi fa gli occhioni è un punto debole. Questo perché Bill sa che mostrarsi incredibilmente fragile e delicato fa leva sul mio senso di protezione.
"D'accordo, non fa niente," cedo alla fine, scuotendo la testa. "Se avevi bisogno di levarti dalle palle per un po', non sarò certo io a dirti che non potevi farlo; però mi hai sempre detto dove andavi. Anzi, ci andavamo insieme."
Si morde un labbro e abbassa di nuovo lo sguardo, quindi sospira.
"Volevo dirtelo, Tomi, davvero. E' solo che è successa una cosa e io dovevo rifletterci sopra."
"Che cos'è successo?"
Lui sorride. "Prima mangiamo, va bene?"
Lo fisso negli occhi e cerco di trovarci la risposta che mi serve. Non posso leggere nella testa di mio fratello, ovviamente, ma sono bravo a cogliere le sfumature delle sue espressioni. Per esempio, adesso so che è nervoso e preoccupato, quindi teme la mia reazione. Qualsiasi cosa sia successa, forse non è grave in generale, ma di certo avrà un forte impatto su di me. Comunque so che non devo metterlo sotto pressione. "Va bene," dico. "D'altronde mi stavo giusto preparando la salsa prima che tu mi chiamassi dall'aeroporto."
"La salsa senza di me?" Chiede oltraggiato lui, spalancando gli occhi e poi scoppiando a ridere.
Rido anche io e poi ordiniamo.
Mi faccio portare un piatto di carne bello sostanzioso perchè so che mi aspetta qualcosa di assurdo. Bill non ha mai fatto un colpo di testa simile, di andarsene senza lasciare tracce. Deve passargli qualcosa di grosso per la testa. Lui, comunque, mangia almeno quanto me. Segno che gli serve coraggio, o che sta prendendo il tempo, il che un po' mi fa ridere e un po' m'innervosisce. E' quando arriva il dolce che gli chiedo: "Allora?"
Lui annuisce e butta giù il pezzo di cheescake. Si pulisce la bocca e poi si tortura le mani. "Sai tutte quelle cose che mi dicono sempre?"
"Quali cose?"
"Su di me, sul fatto che io sia..." si stringe nelle spalle.
"Gay?" Concludo per lui e, quando annuisce, aggiungo: "Stai ancora dietro a quello che dicono? Fregatene. Lo sappiamo che non-"
"Lo sono." Mi fissa.
Sono ancora a metà della frase precedente, ho la bocca aperta, la mano in aria che si agita. "Cosa?" Mi esce fuori una specie di lamento strozzato, come se mi fosse rimasto incastrato un pezzo di pane in gola. Tossisco, mi batto anche. "Come?"
"Io sono gay," sussurra.
D'accordo, mi aspettavo che fosse una cosa grossa; ma non così grossa. Cioè, cosa diavolo significa che lui è gay? Lui non è gay. E' mio fratello! "Bill che cosa stai dicendo? Sei... sicuro?"
Lui sorride, un po' imbarazzato. "Tu cosa ne dici?"
"Non lo so!" Mi agito. Lo so che mi agito e non vorrei. Inizio a muovere le braccia ovunque quando sono agitato, sembro un pazzo. "Magari credi di essere gay. Magari è una fase, poi ti passa. Insomma, quelle cose lì. Siamo adolescenti, no? Sei solo confuso."
Scuote la testa. Dio, la scuote. Dovrebbe dirmi Sì, hai ragione Tomi. Dev'essere come dici tu e invece scuote la testa. "Ci penso da tanto sai?" Sbatte gli occhioni. "Non è una cosa che ho scoperto l'altro giorno. E poi sono successe delle cose. Volevo dirtelo subito ma..." sospira. "Avevo paura che non l'avresti presa bene."
Vorrei chiedergli quali cose sono successe, ma non lo faccio.
Bill aveva paura di non essere compreso. Da me. Scherziamo? Io sono il suo gemello. Il solo fatto che abbia anche solo vagamente pensato che non avrei capito è un fatto gravissimo che cancella tutto quanto il resto. Io sono Tom Kaulitz. Io sono suo fratello gemello. Qualunque cosa mi dica, io sono con lui. Lo vedo che tiene gli occhi bassi e si guarda le mani. "Ok, ok non importa. Bill, guardami." Mi affretto a dire. E lui alza la testa. "Senti, va bene. Insomma, non è niente di che, d'accordo? Io ti voglio bene lo stesso."
Lui mi guarda.
"Dico davvero," annuisco. Sto mentendo spudoratamente. Io non voglio che mio fratello sia gay. Ma non voglio neanche che pensi che non lo accetterò per quello che è perchè, cazzo, non è così. E' Bill, lo accetterei in qualunque modo. "Non ha nessuna importanza. Io... sono contento che tu me lo abbia detto."
Mi fissa ancora per un po' e poi sorride. Il suo sorriso, quello bello, chiaro e solare che illumina tutta la stanza. Quello di mio fratello. "Grazie Tomi, sapevo che avresti capito."
Eh, capito un cazzo.
Non faccio neanche in tempo a recuperare quel poco di cervello che avevo e che mi ha letteralmente disintegrato con questa splendida bomba, che me ne tira subito un'altra. "Io sono... innamorato di una persona."
Ok, questa è più difficile. Insomma, voglio dire, è la solita storia: finchè il discorso si fa in generale, non ci sono problemi. Gli omosessuali? Io non ho nessun problema con gli omosessuali. Io sono una persona con la mente aperta. Però se penso che c'è uno che vuole mettere le mani addosso a mio fratello, mi viene voglia di spaccargli la faccia; se poi penso che Bill mi sta dicendo che quelle mani addosso le vuole, mi viene da spaccare la faccia anche a lui. E non posso. No, Tom, non puoi proprio, mi dico. Bill ti sta confessando la cosa più importante della sua vita e tu non puoi mollarlo lì così solo perchè il tuo cervello fatica ad ingranare.
"D-davvero?" Butto lì, cercando di essere disinvolto. Mi verso un bicchiere d'acqua che basterebbe ad annegarmi. "E' qualcuno che conosco?"
Lui annuisce. Un po' sorride, ma è nervoso. Comunque lo sa che la situazione non è ancora esattamente stabile. Mi sembra che stiamo entrambi camminando su un tappeto di uova, neanche troppo sode. "... Sì."
A questo punto ci sono due opzioni.
O si tratta di Andi, e giuro su mia madre che se ha toccato Bill più del dovuto prima che io gli dessi la mia benedizione lo faccio a pezzi. Oppure è Georg, che fino a ieri non era gay; ma non lo era neanche mio fratello. E se Bill dice che lo conosco, e non è Andi, allora non può essere che Georg, che con quella piastra per capelli un po' di dubbi me ne ha sempre fatti venire. E per quanto sia il mio migliore amico non uscirà vivo dal tourbus.
Ovviamente non mi fermo neanche lontanamente a pensare che forse - forse - magari i due non hanno affatto circuito mio fratello. Non me ne frega niente di questa possibilità. Nè Andi nè Georg dovevano permettersi di... permettersi di cosa? Andare con mio fratello se mio fratello voleva? Cristo, che casino. "Chi è?"
"Prometti che non ti arrabbierai?"
Quindi è Andi. "E' Andi?" Lo ammazzo. Probabilmente gli andava dietro da anni, avrà giocato sul fatto che Bill dice di non fidarsi delle fan perché amano la maschera pubblica e non lui. Lo avrà intortato con le cazzate, Andi è bravo a parlare. In effetti non ha mai veramente detto di essere gay, ma lo abbiamo sempre pensato tutti, aspettavamo solo che trovasse il coraggio di uscire dall'armadio. Certo poteva evitare di uscirci a braccetto con mio fratello! Che cazzo!
Eppure era chiaro, si comportavano allo stesso modo. E alla fine che Bill sia davvero gay non è poi questa novità sconvolgente. Ok, non l'ho presa bene, ma cioè... non è come se me lo dicesse Gustav, per dire. Che poi è il motivo per cui non penso si tratti del mio batterista. Gustav non potrebbe mai essere gay. E' Gustav!
Intanto, mentre sono perso nel mio delirio, mi rendo conto che Bill mi sta parlando e lo guardo, seguo il labiale dal momento che i miei pensieri stanno coprendo la voce. "No, non è Andi," dice.
"Georg?" Sbraito allora. Tutto ciò non è davvero possibile. "Dio Mio, come puoi essere innamorato di Georg? Non si ama nemmeno lui, guarda come va in giro!"
"Cosa c'entra Georg? Non sapevo che fosse gay," commenta lui.
"Non lo è!" Replico. "O almeno non lo so, chi se ne frega! Non è Georg?"
"No."
A quel punto mi trovo un po’ spiazzato. Se non è né Andi né Georg, direi che non so proprio di chi si possa trattare e che io lo conosca, sinceramente, mi pare un po' improbabile. Continuo a guardare mio fratello in attesa di delucidazioni. Lui si morde nervosamente un labbro. "Tom, prometti davvero che non ti arrabbierai?"
"Perchè dovrei farlo?"
"Perchè è un po' più grande di me," risponde.
"Un po' quanto?"
"Un po'," insiste. Allunga un braccio sul tavolo a cercare le mie dita e le stringe. "Ma è davvero una persona fantastica."
D'accordo, questa persona fantastica verrà investita dall'Escalade, alla guida della quale ovviamente ci sarò io. Chiunque egli sia. Che poi, se ci penso, l'unica persona che racchiude in sé tutte le caratteristiche - gay, che io conosco, più grande di Bill - è David. E io voglio sperare, per il mio manager soprattutto, che non sia lui perché altrimenti scorrerà il sangue. E no, non sarò io a tirargliele. Pagherò qualcuno più grosso e più incazzato di me. Offenderò delle madri a nome suo, se necessario.
Solo che Bill non mi dà il tempo. Non mi dà il tempo di chiedergli se si tratta del nostro manager, non mi dà il tempo di prepararmi. Apre la bocca e lo dice.
"E' Bushido."
In quel preciso istante le lettere che compongono il nome del rapper più famoso della Germania non trovano un senso nella mia testa. Bill deve aver cambiato discorso mentre ero perso tra le mie paranoie. "Cosa c'entra Bushido?"
"E' lui," dice. "Mi sono innamorato di lui."
Mi vengono a mente le cose che Bushido ha detto a mio fratello nelle varie interviste. L'ultima, neanche tanto tempo fa, era assolutamente indecente. Solo che questo fa parte dello spettacolo, è il suo modo di fare. Sono dei gran coglioni all'Eguterjunge: Bushido tratta Kay-One come se fosse il suo cagnolino da compagnia...
"E' per via di quello che ha detto?" Chiedo. A volte Bill è così ingenuo che-
"Siamo andati a letto insieme."
"Cosa?"
A quel punto mi aspetto da lui qualunque cosa, prima fra tutte quella che neghi. Che rida e mi dica che mi sta prendendo per il culo. Bill può essere una merda, quando vuole. Può tirarti scemo e farti lo scherzo più stronzo del mondo e poi continuare a ridere anche quando tu ne hai avuto abbastanza e preferiresti piantarla lì. Ci sono certe volte che ti viene da picchiarlo da quanto fa il cretino. Però questa volta proprio non ride, neanche un secondo. "Bill, cosa cazzo stai dicendo?"
"E' successo tre mesi fa."
"Tre mesi... tre mesi fa?" Sono fuori di me, solo che non sono mai stato il tipo da urlare. Batto un pugno sul tavolo che ribalta sia il mio che il suo cucchiaino. "Tre fottuti mesi fa? Cosa aspettavi a dirmelo? Chi cazzo lo sa?"
"Nessuno," poi ci ripensa. "David."
"David," mi sento scemo a ripetere tutto quello che sento ma se dicessi quello che mi passa per il cervello, finirei per litigare con lui. Che poi, cazzo, ci voglio litigare. Ho tutto il diritto di litigare con lui perchè se ne sta lì seduto, dopo una settimana che non lo vedo, dopo tre mesi di puttanate in cui mi ha nascosto una cosa del genere. Vaffanculo, Bill. "Avresti dovuto dirmelo."
"Non volevo dirtelo finché non era una cosa sicura."
"Perchè avete intenzione di sposarvi?" Esclamo sarcastico. "Oppure stavi solo aspettando che ti scopasse per dirmelo? Come funziona fra voi?"
Bill serra le labbra in una linea sottilissima, lo vedo stringere il tovagliolo con forza; però non ho voglia di ragionare. Non ho proprio un cazzo di voglia di rimanere seduto a questo tavolo e razionalizzare quello che Bill si è premurato di farmi sapere tutto quanto insieme.
Allontano con forza la sedia dal tavolo e mi alzo senza dirgli una parola. Lo sento vagheggiare alle mie spalle ma non mi volto. In questo preciso istante non voglio saperne niente di lui. Capita di rado che non m'importi di Bill ma quando succede è una cosa violenta. Esco dal ristorante senza guardare in faccia nessuno e raggiungo la macchina.
Apro la portiera quasi scardinandola e so di avere lo sguardo fisso del pazzo. Sto per fare qualcosa che mesi fa pensavo impossibile. Recupero il porta-cd, che fra l'altro è nero con dei disegni tribali, una roba che poteva regalarmi soltanto mio fratello, e comincio ad estrarre ogni singolo cd di Bushido che possiedo. Tutti. Gli originali, i masterizzati, le B-side, qualunque cosa contenga anche una sola delle sue canzoni. Li getto a terra di fronte all'Escalade, velocemente ma con soddisfazione. Ogni volta che ne cade uno sull'asfalto sento un moto di gioia sadica. Ora come ora penso che sono stato un cretino, in quel preciso momento penso che questa è la cosa più vicina a Bushido su cui posso passare sopra con la macchina.
Risalgo in auto e vedo Bill in lontananza uscire dal ristorante. Sento che mi chiama, ma io sono troppo impegnato a disintegrare i cd del suo fottuto amante con le ruote della mia Escalade. Sono talmente incazzato che sto andando avanti e indietro con la portiera ancora aperta.
"Tom!" Mi si piazza davanti al cofano, col rischio che metta sotto anche lui.
"Bill, levati di lì"
"No."
Lo metto sotto, penso esattamente questo. Ora premo l'acceleratore e lo metto sotto. Fine di Bushido. Fine di mio fratello. Ma, soprattutto, fine di Bushido che si fotte mio fratello. Faccio pure per mandare avanti l'auto e lui piazza entrambe le mani sul cofano. "Tomi, aspetta!"
Stringo le mani intorno al volante, inspiro ed espiro. Poi ringhio perchè tanto l'ha sempre vinta lui. "Che cos'altro devi dirmi?"
Fa il giro dell'auto, tenendoci sopra una mano e guardandomi dritto negli occhi. Quindi sale, si chiude dietro la portiera ed espira. "Non volevo che andasse così."
"Così come? Con te che sei gay e ti scopi Bushido?"
Lo vedo stringere le mani a pugno e la cosa un po' mi sorprende perchè di solito Bill scatta e basta, non ragiona. E' isterico. Si fa sempre come dice lui e basta. Questa volta no però, e il fatto che non si comporti come il solito Bill mi innervosisce perchè è come se volesse dimostrarmi che sta facendo la persona adulta, mentre io no.
"Tom, è una cosa importante," prova a dire. Alza lo sguardo su di me e ha quegli occhioni da cerbiatto di nuovo. "Lo so che ci sei rimasto male, e mi dispiace."
"Non abbastanza," ritorco.
"Che cosa avrei dovuto fare?"
"Dirmelo."
"Mi dispiace," ripete. "Ma sapevo che l'avresti presa così. E poi non ero sicuro.. è stato tutto un casino."
"E' stato?"
"E'. E' un casino," precisa. Poi sospira. "Non volevo tagliarti fuori, avevo soltanto bisogno di tempo."
"Tempo per trasformare uno rapper perfettamente normale in una checca," esplodo. E lo sguardo che mi lancia è così assurdamente incredulo che per un istante mi viene quasi da ritirare tutto. Poi penso che mio fratello se la fa con Bushido - Bushido, capite? - e la rabbia mi prende alla gola di nuovo. "Che cazzo! Sei infettivo!"
"Io... cosa?"
"Fino a qualche mese fa, a quello piacevano le ragazze!"
"Quello, come lo chiami tu, ha dichiarato di voler far sesso con me di fronte a milioni di spettatori," mi ricorda. "O te lo sei dimenticato?"
"Scherzava, Cristo! Faceva parte del personaggio!"
"Quel personaggio già veniva a letto con me quando diceva quelle cose, come la mettiamo?" Mi urla contro. "Io e Bushido stiamo insieme da molto prima!"
Rimango pietrificato. Il mio bel mondo dorato si frantuma in tante piccole schegge e su ogni scheggia c'è il viso di Bushido, serissimo. E lì tutta la rabbia che ho dentro esplode, o lo farebbe se non me ne andassi. Tutto si concentra in un'unica lunga sequenza di follie: il mio mito non è un mito proprio per un cazzo, e mio fratello è frocio, e io non l'ho saputo finché ormai non era troppo tardi. Tardi per cosa non lo so, ma di certo è tardi. E io sono incazzato nero. "Scendi."
"Cosa?"
"Scendi, porca puttana!" Grido. "O oltre ad essere un maledetto frocio, hai anche perso l'udito?"
Bill fà come gli ho detto. Scivola giù dall'Escalade e chiude la portiera, quasi delicatamente. Non mi fermo a guardarlo perchè so che mi fermerei. So di avergli detto delle cose orrende, so che dovrei scusarmi, ma non voglio. E' il mio momento di ribellione.
Se sta male, sono contento.
Le cose, comunque, non migliorano nei mesi successivi. Bill sembra non essersela presa affatto per quello che gli ho detto e vuole a tutti i costi che accetti questa relazione. Credo che lo faccia perchè, in effetti, non è mai succeso che uno di noi due prendesse una decisione senza l'approvazione dell'altro. Quando voglio qualcosa chiedo sempre a Bill cosa ne pensa e, se a lui non sta bene, allora non sono più tanto sicuro di volerla.
Forse sono arrabbiato anche per questo: io non voglio che lui si faccia scopare da Bushido, eppure questo non gli impedisce di sparire ogni volta che può e passare giorni interi murato vivo in casa di quell'uomo. Vuole che io sia felice della sua scelta, lo vuole disperatamente, ma se io non lo sono non sembra aver comunque intenzione di rinunciare a Bushido.
Questo dovrebbe darmi un'idea di quanto ci tenga, naturalmente, ma è chiaro che in quel momento non me ne frega niente. Per me Bill sta solo facendo una grandissima stronzata e si ostina a non darmi retta per il solo gusto di farlo. E se pensa che cambierò idea, si sbaglia.
Le cose continuano ad andare sempre peggio, principalmente perchè io non voglio che migliorino. Non voglio che lo porti a casa. Non voglio che me ne parli. Non voglio vederli insieme. Più Bill prova a parlarmene, meno voglio starlo a sentire. E lo so che sto facendo gratuitamente lo stronzo ma mio fratello deve farsi perdonare ancora un mucchio di cose, prima fra tutte il fatto che David lo abbia saputo prima di me.
Questo non mi va giù. Bill è mio fratello, avrei dovuto saperlo per primo. Dentro di me sono ancora convinto che se lo avessi saputo prima, avrei potuto impedire questa catastrofe. Perchè è così che la vedo io: come un disastro naturale di proporzioni epiche. E mi sono anche convinto di come sono andate le cose: Bill è finalmente venuto a patti con la propria sessualità e Bushido se n'è approfittato. Lo ha blandito con due moine, lo ha fatto sentire il centro del mondo - e Dio solo sa se Bill è egocentrico - e gli ha fatto due o tre regali, solo per portarselo a letto, ovviamente. Magari si è anche vantato con quelli della sua crew.
Le donne nel mondo del rap non contano un cazzo (okay, Bill non è una donna ma è come se lo fosse perchè se mi viene a dire che è lui a farsi Bushido, allora ho un problema molto più grave), io lo so. Mia madre odia il rap per questo, dice che le donne vengono trattate come pezzi di carne. E ora quel pezzo di carne è mio fratello. E io dovrei lasciarglielo così, senza dire niente? Già immagino quando Bushido si stancherà di lui e lo scaricherà così come lo ha tirato sue e di mio fratello non rimarrà che un mucchietto di pezzi rotti sul pavimento.
Bill non va a letto con la gente se non s'innamora prima. Quindi adesso ho un fratello innamorato di uno che se lo scoperà finchè non gli sarà venuto a noia. E poi tanti saluti, torna da dove sei venuto. E poi toccherà a me rimetterlo insieme, e mi dirà che è stato un cretino, che avrebbe dovuto capirlo. E io non potrò dirgli sì, è vero, sei stato un cretino. Dovrò consolarlo e basta; tenermi per me i miei 'te l'avevo detto'.
E poi Bushido ha quasi 30 anni: è indecentemente troppo vecchio per Bill.
Non so neanche per quale motivo odiarlo di più: se perché mi ha deluso profondamente come idolo o perché per farlo ha usato mio fratello. Vorrei dirgliele tutte queste cose e Bill deve captare una volta di più il vorticoso roteare dei miei neuroni perché una mattina entra in camera mia e ha sulle labbra il sorriso tirato che esce sempre quando fra di noi c'è una tensione irrisolta e lui non sa come reagirò.
La sera prima abbiamo litigato selvaggiamente, con tanto di piatti e padelle che volavano da tutte le parti, finchè io non l'ho insultato come non avevo mai fatto prima. Come un bambino di otto anni mi sono attaccato alle cazzate e gli ho dato della troia, insinuando che con ogni probabilità se la fa un po' con tutti quelli della crew, non solo con Bushido.
Sono geloso del tempo che passa con quella gente, in posti in cui io non posso essere. Non so quello che fa, non so quello che gli succede e non voglio farmelo dire. E' una situazione di merda.
Lui a quell'affermazione si è morso soltanto un labbro e mi ha mormorato che lo sapevo che non era vero. E infatti lo so. Bill non lo farebbe mai. L'ho detto solo perchè sono incazzato. Mi sento in colpa per le parole che mi sono uscite di bocca ma non ho intenzione di cedere, nè di ritrattare.
Però, quando entra nella mia stanza e mi dice che vorrebbe che ci incontrassimo - io e Bushido -, che se ci parlassi capirei che sto sbagliando, alla fine cedo. Cedo perchè mi sento in colpa e perchè in fondo voglio proprio parlarci con questo pezzo di merda. Voglio chiudere questa storia e riprendermi mio fratello.
Secondo la mia logica, Bushido non ha alcuna ragione di esistere vicino a mio fratello perché è un uomo e perchè è Bushido. E se potrò, un giorno, venire a patti col fatto che sia un uomo, non potrò mai venire a patti col fatto che sia Bushido.
Dal momento che lui è il King of Kingz e io sono solo il gemello della sua stramaledetta fidanzata, devo incontrarlo a casa sua. La casa di Bushido è una specie di reggia color giallo limone e ovviamente non ci vive da solo. Dentro ci trovo tutta la crew - fino a qualche tempo fa incontrarli era un mio sogno, ora farei ben a meno di loro - e ci trovo mio fratello che fa la sua figura, in piedi dietro Bushido, come si addice alla donna del capo.
Questa cosa non inizia affatto bene.
Bushido è seduto su una poltrona di pelle e mi guarda, non sembra nè divertito nè incazzato. E' perfettamente a suo agio, e la cosa è irritante. Mi chiedo come ho fatto a voler comprare tutti i suoi cd. Rimpiango di essere stato a due sue concerti. Lo odio.
Bill semba nervoso, si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e poi mi fa cenno di sedermi su un'altra poltrona. Questo salotto sembra l'interno di una tenda araba. Alchè il fatto che Bushido sia mezzo tunisino acquista improvvisamente un senso. Ci sono cuscini ovunque, anche per terra, e un basso tavolino con sopra un narghilé. L'idea di mio fratello vestito da odalisca mi balena nel cervello e mi viene voglia di vomitare.
Si siede sul bracciolo della mia poltrona e mi sorride. "Grazie per esser venuto," sussurra.
Io non gli rispondo, intanto una cameriera entra e ci serve dei pasticcini e del té, credo.
Non che abbia voglia di mangiare. L'ospitalità è comunque notevole. Quindi mi arrabbio di più. Bushido si sporge e mi tende la mano: al polso ha un orologio che costa all'incirca come la mia auto; si vede che gli piace sfoggiare le sue cose. "Tom, è un piacere rivederti."
"Non posso dire altrettanto."
Vedo Bill irrigidirsi. "Tom," sibila.
Bushido alza una mano. "No, va bene. E' normale che ce l'abbia con me," esclama.
E riesce a farsi odiare in maniere che non credevo possibili. Sento una linea netta che separa me da tutti i presenti e all'improvviso credo che avrei dovuto portarmi dietro Gustav e Georg. E magari anche Andi. Mi piacerebbe far sentire Bill come mi sento ora io: messo da parte. Vorrei che provasse questo. Adesso ha gli uomini del suo uomo a spalleggiarlo, vorrei vederlo al mio posto. Vorrei ridere. "Serviti pure," mi indica il vassoio dal quale gli altri della crew stanno prendendo cibo senza problemi. Incontro lo sguardo di Eko Fresh che ha in bocca due pasticcini e ne tiene un terzo in mano. Mi guarda come un topo appena sorpreso a rubare del grano. Chakuza gli dà una di quelle pacche sulla schiena che penso gli abbia smontato i polmoni.
Tutto questo è assurdo. Io non dovrei essere qui. Bill non dovrebbe essere qui. E tutta questa gente dovrebbe essere su un palco a cantare. Invece mangiano i pasticcini tunisini.
Ad ogni modo, non m'interessa se Bushido mi offre da mangiare o fà il grand'uomo in casa sua. Non ho intenzione di farmi incantare. "Che intenzioni hai con Bill?"
"Tom!" Bill scatta isterico.
"Mi hai detto che dovevo parlarci, giusto? Bene. Allora voglio sapere questo," mi volto di nuovo verso Bushido. "Che cosa credi di fare con mio fratello?"
"Io amo Bill," mi dice lui, senza scomporsi di una virgola.
"E ti aspetti che io ci creda?"
Bushido scrolla le spalle. "No e neanche m'interessa," risponde. "Non ho nessun bisogno che tu mi approvi, Tom. Se ho accettato di discuterne è solo perché Bill ci teneva ma so già che qualunque cosa io ti dica, tu non sarai d'accordo."
"Hai la coda di paglia."
"No, ho 30 anni mentre tu ne hai 19, e so molte più cose di te." Mi guarda, forse per vedere come reagisco, ma io tengo duro. Alla fine sospira. "Senti lo so che ce l'hai con me perchè mi vedi come una minaccia, ma ti assicuro che non lo sono."
"Bill non è roba per te."
"Lascialo decidere a lui," replica.
Ci guardiamo a lungo, in silenzio. Con la coda dell'occhio vedo gli altri che sono rilassati quanto lui, con i loro pasticcini e il loro té, ma sono pronti a scattare ad un suo cenno. Vorrei menare le mani, non l'ho mai fatto in vita mia ma mi viene voglia di farlo adesso, solo che lui non me ne dà la possibilità. Rimane serio e controllato. Mi usa il tono da paternale.
"Tu vuoi bene a tuo fratello e vorresti proteggerlo. Lo capisco questo, ma non c'è niente al mondo che mi spingerebbe a fargli del male."
"Stronzate!" Esclamo, stringendo le mani a pugno. "Cosa succederà quando ti stancherai di lui?"
"Tomi, adesso basta!" Esclama Bill.
"Non lo farò," mi guarda dritto negli occhi. Ignoriamo entrambi Bill, come se non esistesse e una parte di me neanche troppo nascosta sa che questo significherà danno tra qualche minuto. Bill odia essere ignorato. "Puoi arrabbiati se vuoi, va bene, è un tuo diritto, ma non ti aspettare che le cose cambino semplicemente perchè sei venuto qui a battere i piedi. Tu non sei mai stato un ostacolo."
"Anis!" Grida Bill.
"Oh sarò un ostacolo eccome, stronzo," a quel punto sbotto perchè se qui c'è qualcuno che gli romperà le palle, e gliele romperà anche bene, quello sono io. Nessuno mi porta via mio fratello, nemmeno i miei che divorziano, figuriamoci un mezzo-tedesco saltato fuori da due stradine luride a cantare cazzate. E divento anche razzista, già che ci siamo. "Scommettiamo che le dichiarazioni che hai fatto sono passabili legalmente?"
Mi alzo, si alzano tutti. Bushido no, però.
"Avanti fà pure," mi dice.
"Adesso basta!" Bill esplode e usa tutta la voce che possiede, ed è tanta. Ci guarda entrambi, e ha lo sguardo di nostra madre quando è veramente molto arrabbiata. "Tom, non ho bisogno che tu mi difenda, davvero, soprattutto quando non sono minacciato. Ti ho chiamato per ascoltare non per offendere. E Anis-"
Bushido lo anticipa. "Bill ha ragione. Non ci siamo comportati da persone civili. Tom, vogliamo ricominciare da capo?"
Cala il silenzio e la crew è un po' vagamente allibita. Credo che Bill non abbia mai urlato da quando è qui. Non di fronte a loro, le loro facce mi dicono questo e anche altro. Questi qui non hanno idea di che vipera diventi mio fratello quando vuole, altro che geisha servizievole.
Bill mi guarda così male che mi viene praticamente naturale non provarci nemmeno ad essere conciliante. "No, non vogliamo," rispondo. "E ora che ho fatto i conti, so che potrei denunciarti per molestie sessuali ai danni di minore, stupro, plagio mentale. La lista è molto lunga," pausa. Lo guardo negli occhi e perdo definitivamente la testa. "Pedofilo di merda."
A quel punto c'è una stasi. A ripensarci ora è una roba da film ed è divertente, in quel preciso momento lo è un po' meno. Solo che non ci penso perchè comincio a dubitare di me stesso, soprattutto, comincio a credere che forse anche questo gruppo di mangiatori di pasticcini tunisini potrebbe effettivamente essere pericoloso. Si ferma il tempo, quindi, e anche il vento. L'aria. Il respiro di mio fratello.
Bushido mi lancia uno sguardo che non riesco a decifrare. "Toglietemelo da davanti," esclama. Quindi si solleva dal divano e, con la coda dell'occhio, vedo Chakuza fare altrettanto. Lui solo. Bushido prende mio fratello per un fianco e se lo tira dietro. Incrocio il suo sguardo e vedo che abbassa gli occhi. Bill, che cazzo...
Solo qualche mese fa, mio fratello e io ci spalleggiavamo a vicenda. Ora arriva Bushido, gli fa conoscere le gioie del sesso, e mio fratello non vede altro. Sono qui per cercare di farlo rinsavire e quello nemmeno ha le palle di guardarmi mentre stanno per massacrarmi.
In realtà non mi massacrano, Chaku mi tira solo una sberla sulla nuca e mi spinge in avanti con quella. "Fidati, è meglio se la chiudi qui, per oggi," mi dice, con quella voce roca.
Mi butta praticamente fuori di casa e io, come un cretino, rimango sulla porta di quell'orrenda casa gialla per almeno due ore. Spero che mio fratello esca e mi raggiunga. Ogni minuto che passa fisso sempre di più lo sguardo su quella porta, neanche potessi aprirla col pensiero. Cazzo, è la dentro. Ha lasciato che mi buttassero fuori. Vaffanculo. E' rimasto lì. Bill è là dentro con quell'uomo, a fare chissà cosa. Uno che lo tratta come se fosse roba sua. "BILL, VAFFANCULO!" Lo urlo forte, senza rendermene conto. Mi spavento da solo con la mia voce.
La cosa si chiude lì, per un po'. Sono così arrabbiato e geloso e deluso e mille altre cose che non mi va di parlare con Bill. In realtà mi va, ormai mi capita così raramente di vederlo - lavoro a parte - che quando rimane in albergo con noi invece di raggiungere Bushido, vorrei sommergerlo di parole e raccontargli tutto, però non lo faccio. Non lo faccio perchè ho un orgoglio e non lo faccio perchè so che ci sta malissimo. Bill odia non potermi parlare. Lo vedo che ci prova di continuo ma io faccio in modo che le mie risposte siano sempre più scostanti. Ormai un po' ci provo gusto a vederlo abbassare gli occhi tristi. Ti sta bene.
Ti sta bene un paio di palle, mi manca da matti.
Quando esce a volte lo seguo finchè non lo vedo entrare in qualche albergo o in qualche discoteca e allora lì mi fermo, davanti all'entrata. Quando si danno appuntamento in un locale, non è mai Bushido ad aspettarlo. Bill dice il suo nome al buttafuori, quello controlla sulla lista e poi, puntualmente, Chakuza esce e se lo viene a prendere. Questa cosa mi fa girare le palle, lo tratta come una fottuta groupie. E lui che gli va dietro come un cagnolino.
Quando esce lo fa dopo ore. A volte non esce nemmeno e io dormo in macchina. David dà di matto quando torno perchè sono impresentabile. Scusa se non me ne frega niente di come mi stanno i capelli quando mio fratello ha palesemente perso la testa e nessuno sembra rendersene conto.
Una di queste sere, comunque, quando arrivo di fronte all'ennesimo locale sono già troppo ubriaco per rendermi conto che non ha senso raggiungere l'entrata del locale e farmi ridare Bill. Non ha senso perchè Bill ci và di sua spontanea volontà là dentro, e non ha senso perchè io sono solo e loro sono parecchi di più. Quella sera mio fratello non lo vedo nemmeno dipinto, non vedo neanche Bushido però. Quando torno a casa ho un occhio viola, ma so per certo che anche un paio di loro ne ha una copia identica. E qualche graffio, forse.
La telefonata che temo da quando mio fratello si è messo con Bushido arriva alle due di notte di quasi sei mesi dopo, in uno di quei momenti in cui sono pacificamente adormentato e il problema di Bill non è più tale. Ci siamo visti oggi ed era così bello e felice che per un po' mi sono dimenticato che è fidanzato col capo dell'Ersguterjunge e che è così innamorato che si respira già aria di convivenza. Quando il telefono squilla, io sono stranamente in pace con il mondo.
Poi arriva la voce spezzata di mio fratello, e mi prende il panico.
"Bill?"
Solo fottuti singhiozzi.
"Bill che succede? Stai bene?"
"E' morto," mormora. "Tomi, è morto."
"Chi? Bill che cosa stai dicendo?" Mi alzo dal letto, portandomi dietro il cellulare. Cerco a tentoni la luce sul comodino e cerco di capirci qualcosa.
"Anis..." e quel nome è appena un sussurro. Bill lo dice piano piano, e mi sembra quasi di vederlo - ranicchiato come poi lo troverò dopo - che mormora quelle quattro lettere come se a dirle troppo forte si avverasse qualcosa. "E' morto. Dio, è morto ed è qui. Me lo porteranno via, Tomi..."
Mi vesto mentre lo sento scoppiare in lacrime, i suoi singhiozzi sono rochi e violenti, e mi si spezza il cuore. "Adesso, ascoltami," cerco di superare il sibilo del suo respiro. "Dimmi dove sei."
"E' morto, Tomi."
"Bill, dimmi dove sei."
"A casa."
Non sento altro, sono già in macchina. Guido come un pazzo, infilo un rosso dopo l'altro e rischio quasi di ammazzarmi ad un incrocio ma non me ne frega niente. Voglio essere lì prima che arrivino i medici perchè non sapranno come trattarlo. Devo essere lì quando caricheranno Bushido sull'ambulanza. Devo essere lì e prendere Bill al volo quando cadrà. Parcheggio sotto casa quando anche i medici lo stanno facendo. Salgo con loro, appena dietro l'ultimo ma sono io ad aprire loro la porta. Chi è lei? Sono il fratello. Non gli serve altro, non importa al momento.
Quando raggiungo la stanza da letto, per un attimo non vedo assolutamente niente. Voglio dire, il letto, il pavimento, la finestra, è tutto lì ma non ha senso. Il vetro è rotto, il parquet, le coperte, tutto quanto è coperto di sangue. "Bill!"
Bill non alza lo sguardo. E' ranicchiato in posizione fetale contro il fianco di Bushido che è disteso sul letto, le gambe e le braccia che pendono. Ha lo sguardo rivolto al soffitto. I medici sciamano alle mie spalle, mi spostano senza guardarmi due volte e si avventano sull'uomo che è così assurdamente immobile in mezzo alla frenesia di questa stanza.
"Si sposti, per favore," dice uno dei paramedici.
Bill risponde: "No," poi guarda la donna che gli ha appena parlato e aggiunge, "Non portatelo via."
I medici non lo ascoltano, sono in due e si sistemano accanto al corpo. Bill cerca di mettersi in mezzo perchè continuano ad allontanarlo, così lo abbraccio. "Vieni via," gli mormoro premendogli il naso contro una guancia. "Bill, ci sono qua io."
"No," ansima. Non sembra sicuro di quello che dice, sembra che non sappia nemmeno dove si trovi e il mio cuore si spezza ancora un po'. "No..."
Lo tiro via, lui guarda solo Bushido che appare e scompare dietro ai medici che si muovono intorno a lui. "NO!" E' un grido rauco e violento, i medici non si voltano neanche. La freddezza con la quale ignorano il suo dolore fa male anche a me. So che devono farlo, che non avrebbe senso per loro girarsi ora. Che Bill deve strillare e loro devono ignorarlo, ma quando si piega in due contro il mio braccio che lo regge e scoppia di nuovo a piangere, li odio perchè non stanno facendo niente, perchè Bushido è morto e Bill sta male; e io non posso impedire che succeda. Bill si lascia andare in terra, sono costretto ad andargli dietro. Lo costringo a voltare la testa e lo schiaccio contro il mio petto. Fa resistenza ma poi rinuncia e mi si preme contro. "Tomi..."
Io continuo a guardare. Cerco di capire perchè gli girano ancora intorno, perchè provano e tentano e provano ancora. Il respiro è lievissimo, ma c'è. Lo sento dire ad uno dei medici, ma è solo un sussurro. Un sussurro soltanto. Non lo dicono a Bill. Io non glielo dico, perchè Bushido non sembra respirare. L'aria che esce dalle sue labbra è così poca che è come se non ci fosse. Non c'è. E' meglio che Bill non lo sappia. Soltanto dopo David mi dirà che Bushido è morto in ambulanza mentre lo portavano all'ospedale, che il più debole dei respiri c'era ancora quando sono arrivato io.
Io e Bill siamo seduti in terra, lui fra le mie braccia, e io gli accarezzo i capelli e penso che Bushido abbia aspettato che arrivassi. Non voleva lasciarlo solo.

*

Le lacrime di mio fratello non si sono ancora asciugate – nel senso che la traccia c’è ancora, la vedo distintamente che spicca appena un po’ più scura sulla sua pelle arrossata – quando mettiamo piede nell’appartamento di Bushido. La casa è enorme esattamente come l’ultima volta che ci sono stato, ma solo oggi riesco a comprenderne veramente le dimensioni. Quando ci sono stato io era pieno di rapper e pasticcini. Oggi è vuota, ci siamo solo io e Bill e l’eco di tanti di quei ricordi che non riesco a ignorarli nemmeno io, anche se mi danno il voltastomaco e mi fanno un male cane.
Non riesce ad ignorarli neppure mio fratello, però. E per lui è peggio, quindi sto zitto. Sto zitto tutto: non parlo e non penso neanche.
Malgrado tutto, comunque, Bill si muove con disinvoltura. È chiaro che non ci vede – perché a piangere così non vedi a un palmo dal tuo naso – ma non sbatte contro niente, va dritto per la sua strada con una sicurezza invidiabile. Lo guidano i piedi. Lo guidano i ricordi. Forse, qua dentro, c’è ancora qualcosa di Bushido. Ed è quello che lo guida.
- Tomi… - mi chiama debolmente, ed io stringo lo zaino nero fra le mani e gli vado dietro deglutendo appena, mentre mi guardo intorno, terribilmente a disagio. Non abbiamo nemmeno acceso le luci perché tanto Bill non ne ha bisogno ed io seguo lui, e non mi serve vederlo, per farlo.
Bill apre una porta e si ferma sulla soglia. Lo vedo che trattiene il respiro. Ho paura che possa soffocare perciò tiro giù un respiro tale che spero valga per due, e l’errore è quello perché il loro odore, qui dentro, è fortissimo. C’è il profumo di Bill, su tutto, e c’è la colonia di Bushido che lo segue e lo completa e si intreccia senza creare nessun fastidio.
Mio fratello è immobile e non respira, io respiro per due e ho gli occhi pieni di lacrime.
Distrattamente, penso che ogni volta che abbraccio mio fratello i nostri profumi si intrecciano allo stesso modo. E capisco perché mio fratello non vuole respirare. Perché l’amore è anche questo, profumi che s’intrecciano. Anche io ho desiderato smettere di respirare l’odore di Bill, quando lui si è allontanato da me. È per questo che Bill adesso non vuole più respirare l’odore di Bushido.
Gli poso una mano sulla spalla e lui lascia andare un singhiozzo che spezza l’incantesimo. Se non l’avessi toccato, penso che avrebbe potuto continuare a non respirare per sempre. Ma si sgonfia tutto, appena lo sfioro, e lui è già così piccolo che quasi scompare, perciò per non annullarsi del tutto alla fine a respirare è costretto per forza, e lo fa.
- Sì. – annuisce, come a rassicurarmi, - Di qua. – e mi porta verso una cassettiera che non è né grande né piccola ma non c’entra assolutamente niente con l’arredamento minimale della camera da letto. Il legno è più chiaro e un po’ rovinato e ci sono dei decori floreali che stonano eccome con il legno liscissimo e scuro del letto dallo scheletro quasi invisibile e i comodini sottilissimi. David – che è l’unica persona io conosca con un minimo di gusto, in generale – non sarebbe d’accordo con una scelta stilistica simile. Mi chiedo cosa ci faccia un mobile del genere in questa stanza, e Bill indovina la mia domanda e sorride appena, sfiorando lievemente la superficie un po’ ruvida e impolverata del ripiano colmo di portagioie che, in effetti, c’entrano poco pure loro. – È di sua madre. – illustra intenerito, - C’è un po’ di roba di sua madre sparsa per casa.
Annuisco, anche se non so bene a cosa. Non mi sento a mio agio perché non c’entro niente con questa casa e con questo buio e con queste serrande abbassate, né tantomeno con questa cassettiera ed i suoi portagioie. Bill mi sta aprendo davanti un mondo che non volevo conoscere – che non dovrei affatto conoscere.
Apre un cassetto e passa una mano fra le magliette ordinatamente piegate una sull’altra. Ne viene fuori un buon profumo di cotone appena lavato, e sono quasi sicuro che là dentro ci sia pure una di quelle bustine di granelli che tengono lontane le tarme. Non mi stupisce, la cassettiera sembra vecchia. È lavanda, ecco. È un buon profumo.
Bill tira fuori una maglietta dopo l’altra ed io apro lo zaino e tendo le braccia, tenendolo fermo davanti a lui. Mio fratello scuote il capo. No, queste non le porta via. Queste vuole tenerle un po’ fra le dita e basta.
Ogni maglietta si prende un pezzo di ripiano – Bill le drappeggia con cura sui portagioie così sembrano un po’ gonfie, così c’è dentro qualcosa che somigli a un po’ di vita – e quando lo spazio finisce Bill impila le nuove magliette sulle vecchie. E ci sono miriadi di disegni e colori che io ho visto solo ai concerti e nelle apparizioni pubbliche, ma che per Bill hanno un sapore e un significato tutto diverso.
Non fa niente di melodrammatico, mio fratello. Non schiaccia il viso contro il tessuto e non piange fino a sputare i polmoni. Sta lì a guarda le magliette. Il profumo arriva lo stesso e le lacrime scendono lo stesso, ma non c’è bisogno di esibire niente. Il dolore è già abbastanza vivo così.
- Cosa vuoi prendere…? – chiedo un po’ timoroso, poco dopo.
- Non lo so ancora con certezza. – confessa in una breve risatina che è un singhiozzo mascherato. Chiude il primo cassetto ma non posa le magliette, ed apre il secondo. Io mi giro mentre tutto il resto della biancheria di Bushido viene prelevato e riposto meticolosamente sul legno chiaro del mobile. Mio fratello guarda tutto con una sorta di soddisfazione e vorrei dirgli che sono solo vestiti, ma dubito servirebbe a qualcosa, com’è sempre servito poco in genere qualsiasi cosa gli abbia detto a proposito dell’uomo che amava.
Dell’uomo che amava, Dio. Quanto tardi l’ho capito? Quanti sorrisi di Bill mi sono perso? Ed ora mi ritrovo solo con le sue lacrime.
Quando torno a guardarlo, sulla cassettiera non c’è più niente. In compenso, ogni capo d’abbigliamento è stato spostato sul letto. Il letto è grande e li contiene tutti meglio, perciò non c’è niente che si accavalli su nient’altro e Bill può guardare tutto in un’unica volta, godendosi lo spettacolo. Si morde un labbro e quasi sicuramente si sta chiedendo perché non può portare via qualcosa. E si sta anche rispondendo che non gli servirebbero a niente, perché lui il suo amore non lo vuole nascondere, no, vuole sfoggiarlo. E vestiti simili non potrebbe indossarli comunque. Ecco perché a un certo punto lo vedo voltarsi nuovamente verso la cassettiera e scoperchiare un portagioie in legno nero, per scoprirne i tesori.
Stringo lo zaino fra le mani e mi chiedo se ci metteremo dentro qualcosa. Bill infila le mani fra i gioielli e ne tira fuori un bracciale di brillanti che luccica anche al buio. Se le pietre fossero solo un po’ più grandi ci si potrebbe specchiare dentro, e invece sono piccole e piuttosto discrete. È un gioiello piuttosto femminile. Mi chiedo se ce l’abbia lasciato Bill. Dall’ansia con la quale Bill lo stringe fra le dita e poi lo lega al polso, però, intuisco piuttosto facilmente che no, non è suo. Bill non tratta i suoi gioielli con quest’urgenza, perché sono la sua normalità. Il bracciale è di Bushido.
Fruga ancora un po’, mentre io ripiego lo zaino desolatamente vuoto sul braccio.
L’indice di Bill riemerge addobbato da un piccolo cerchietto opaco che intuisco appena nel buio.
- Cos’è? – chiedo curioso, e sul viso di Bill si apre un sorriso che è il primo sincero e pieno che gli vedo fare da quando… da mesi.
- Sapevo che l’avrei trovata… - commenta trasognato, rimirandola da ogni angolo, - È la sua fede.
- La fede…? – per un attimo, mi attraversa la mente un pensiero completamente idiota: si sono sposati? Vedo Las Vegas e costumi ridicoli, un finto prete drogato di caffè che si regge in piedi per forza di volontà mentre loro, completamente ubriachi alle cinque del mattino, si scambiano una promessa che vale molto più di quanto non stiano dicendo. Vorrei quasi dirlo a Bill, magari riderebbe. Lui non me ne dà il tempo, comunque.
- È stato sposato, in passato. – rivela tranquillo, - Non era facile che si decidesse a parlarne.
Faccio una smorfia.
- E tu ti metti addosso un anello che prova che un tempo era di qualcun altro?
Bill sorride.
- Non capisci. – dice, - È la parte di lui che non dava a nessuno, invece. L’ha data solo a me. – ed infila l’anello all’anulare sinistro. Adesso capisco, comunque, perciò annuisco compitamente.
A questo punto, però, mi sento inutile. Oltre a fare da pubblico mentre mio fratello si riappropria di ciò che di Bushido gli è sempre appartenuto – e che non poteva prendere perché, finché Bushido era in vita, non ne aveva bisogno – io ed il mio zaino vuoto non serviamo assolutamente a niente. Siamo fuori posto e fuori fase e fuori tutto.
- Questo…? – chiedo, sollevando lo zaino all’altezza del viso.
- Sì, qui ho finito. – annuisce Bill, e si avvia verso il letto. Sfila le federe dai cuscini e me le passa. – Queste. – dice spiccio, mentre volteggia veloce dal letto alla cassettiera per riporre i vestiti. Spoglia il materasso dalle lenzuola. – Anche queste. – io metto tutto dentro senza una parola, appallottolando ogni cosa. Mio fratello si sposta ed apre il cassetto del comodino a destra. Mi passa un orologio. – Il tempo. – dice piano. Un pacchetto di preservativi ed una confezione di lubrificante. – Questi. – ed arrossisce. Io non chiedo e non abbasso lo sguardo, non posso. Un pacchetto di sigarette quasi vuoto. – Questo. – si alza, fa il giro, apre l’altro cassetto.
Una pistola.
- La Heckler.
Deglutisco. La nascondo fra le lenzuola.
Bill sospira e si guarda intorno, le mani sui fianchi, un cipiglio critico ad aggrottare le sopracciglia.
- Ho fatto un disastro… - commenta fissando le magliette gettate alla rinfusa nel primo cassetto, assieme ad altra biancheria che in realtà stava nel secondo. – Tu sei più bravo a riordinare.
- …anche tu sai piegare le magliette. – borbotto.
Lui annuisce.
- Non voglio. – singhiozza poi. – È pieno lo zaino?
Non c’entrerebbe altro neanche volendo.
- Sì.
- Andiamo?
- Sì.
Quando Bill si chiude la porta alle spalle il profumo scompare e mi sembra un po’ di riuscire a riappropriarmi dello spazio e del tempo. Della giusta dimensione, insomma. In quella stanza l’aria non era viva, era ghiacciata in un passato in cui viva era stata.
La casa è ancora avvolta nell’oscurità. Le serrande sono abbassate e le tende tirate. La poca luce che filtra si perde inevitabilmente prima di poter essere in qualche modo utile. Brancolo nel buio ed anche mio fratello, ora che ha perso il motivo per stare qui, non sembra stare molto meglio.
Stiamo qui immobili a non capire cosa fare di noi stessi almeno fino a quando non gira una chiave nella toppa della porta d’ingresso. Bill si volta a guardarla con uno scatto isterico e la luce nei suoi occhi parla di un’intimità violata troppo presto e del tutto impunemente.
La porta si spalanca su cinque uomini che parlano animatamente fra loro. Litigano, direi. La luce si accende e l’espressione di Bill si addolcisce solo quando, fra i presenti, riconosce Chakuza. L’espressione di Bill si addolcisce perché negli occhi di quell’uomo ritrova un po’ dell’intimità di cui gli altri quattro non fanno parte – come potessi dimenticare il modo in cui Bill l’ha abbracciato quando è arrivato all’ospedale. Come potessi dimenticare il modo in cui gli si è attaccato al collo, ai vestiti, al petto, alla vita, per non cadere. Io ero lì per tenerlo e Bill si attaccava… a uno sconosciuto. Come potessi dimenticarlo.
Abbasso lo sguardo e mi mordo un labbro. Bill fissa i cinque. Chakuza solleva gli occhi mentre sta dando del coglione ad Eko Fresh. E strilla “Cristo!”, tirandosi indietro spaventato.
Bill lascia andare un sorriso timido un po’ sperduto. Io lo guardo solo per un attimo e poi mi concentro sui nuovi arrivati. Saad fissa mio fratello come fosse un prodotto di scarto di un’operazione necessaria. L’operazione necessaria era Bushido. Finché c’era Bushido, si teneva anche lo scarto. Adesso quei suoi occhi così spaventosamente verdi stanno dicendo che non c’è proprio più nessun motivo di tenere le scorie. Qualcosa di simile vedo riflessa negli occhi di Nyze, mentre in quelli di Eko Fresh c’è solo una leggera ansia ed in quelli di Kay One un’incredulità un po’ confusa.
Chakuza è solo stupito. E intenerito, credo.
- Bill… - sussurra incerto, abbozzando un sorriso, - Mi hai spaventato! Che… che ci fai qui?
Mio fratello sorride ancora e si stringe nelle spalle. Io mi stringo contro lo zaino come se fosse una cosa mia, perché ho paura che se lo portino via. E se Bill non potrà avere queste cose nel suo letto, stasera, me ne farò una colpa finché vivrò.
- Sono venuto a… prendere delle cose che avevo lasciato. – spiega mio fratello, senza perdere la calma, - Immaginavo che sareste venuti a ripulire, non volevo portaste via per sbaglio anche qualcosa di mio.
Chakuza annuisce comprensivo e Saad avanza nell’ingresso borbottando che, ora che ha preso tutto, può anche andare. Bill lo vede muoversi deciso verso il corridoio e gli saetta negli occhi la consapevolezza che, se entrerà in camera di Bushido, capirà che ha rovistato fra le sue cose.
La pistola, penso come in loop, oddio, la pistola.
- Dovrebbe esserci ancora un po’ di birra, in frigo. – dice Bill all’improvviso, facendosi avanti con un coraggio tutto nuovo, - Vi va di bere qualcosa?
Saad rotea gli occhi.
- Come se mi andasse di bere con te!
- Saad! – lo riprende Chakuza. Teoricamente sta un gradino più in basso di lui, ma credo questi siano i momenti in cui l’età conta di più. Sai meglio cosa fare. Smussi gli angoli. Penso con un po’ di tenerezza a Bushido che è morto a trent’anni e gli angoli li smussava benissimo, tanto che fra un angolo e l’altro è riuscito a far passare pure mio fratello. Che sarà pure sottile, ma resta ingombrante comunque.
Il libanese ringhia qualcosa di indistinto, ed Eko gli va vicino.
- Coraggio, Atze, è solo una bevuta.
Bill non perde quel cipiglio serio e fiero neanche per un secondo.
Mio fratello si muove fra il salotto e la cucina con la disinvoltura del padrone di casa. Mi fermo a riflettere sul fatto che questo pavimento gliel’ha insegnato Bushido, metro dopo metro. Bill se n’è appropriato un passo dopo l’altro, nel modo più naturale possibile. Questa è anche un po’ casa sua. La sta lasciando con uno zaino pieno di odori e simboli. Una fede non sua al dito e una pistola nascosta che vale molto molto molto più di una promessa di matrimonio.
A me dispiace un po’ non esserci stato mentre il suo amore si consumava. Sono qui mentre consuma il suo lutto, comunque. Non è la stessa cosa, ma ci sono. Ci sono e Bill lo sa. Per me è okay.
Scivoliamo fuori dall’appartamento mezz’ora e cinque bottiglie di birra dopo. I cinque cavalieri di Bushido stanno sul divano e non sanno davvero da che parte girarsi. Bill aveva un obiettivo semplice, loro devono passare al setaccio una quantità oscena di metri quadri di casa. E ciò che cercano, probabilmente, neanche lo troveranno. Perché viene via con noi. E quando loro se ne accorgeranno, noi saremo già al sicuro a casa.
Ci dormirà, con quella pistola sotto il cuscino, mio fratello. Così potrà difendersi e un pezzo di Bushido gli resterà sempre addosso. Sotto la testa. Ancorato al dito. Legato al polso. Dentro e tutto intorno a lui.
Sono quasi orgoglioso del mio cucciolo. S’era scelto un brav’uomo, in fondo.
*
Quando squilla il telefono, nel dopocena stanco e nervoso che precede la notte di sonno che, domani, ci condurrà a TRL – non solo Bill, anche io. Suppongo vogliano qualcuno di molto scenografico per reggergli la mano, ed io rispondo in pieno a tutti i requisiti. Sono scenografico e gli reggo la mano con un qualche perché. – la prima cosa che penso è che non ho fatto in tempo a finire di essere geloso di un uomo che posso subito cominciare ad essere geloso di un altro.
So che Chakuza non ha intenzioni di questo tipo, con mio fratello, ma Bill… Bill non ha nessuna voglia di allontanarsi dal mondo di Bushido, e sospetto sarebbe in grado di attaccarsi a qualsiasi cosa, pur di non cedere. È per questo che ci sono notti in cui ho semplicemente smesso di aspettarlo. Quando va male – ma proprio male – lui va da Chakuza.
- Pronto? – rispondo svogliatamente, andandomi a trincerare in camera mentre Bill, che fino a due secondi fa stava guardando The Notebook spiaccicato contro la mia spalla, frana sul divano con un mugolio di disapprovazione. “Tomi…?”, mi chiama. “Torno subito”, rispondo. Dall’altro lato della cornetta, la voce roca di Chakuza si esprime in una risata quasi dolce.
- Sta bene? – mi chiede curioso.
- Non è una brutta serata. – rispondo io, chiudendomi la porta alle spalle. – Forse è anche un po’ emozionato.
- Capisco. – annuisce, ma c’è una nota di nervosismo, nella sua voce, che inquieta anche me.
- Hai chiamato per un motivo specifico, - chiedo sbrigativamente, - o volevi solo fare conversazione? No, perché in questo caso hai sbagliato gemello.
- Potresti smettere un istante di stare sulla difensiva? – protesta lui, quasi annoiato, - Vengo in pace, sai?
Io sbuffo come un bambino viziato e mi viene un po’ da ridere perché io e Bill siamo davvero – ma davvero – gemelli.
- Va bene, smetto di ringhiare. – concedo, - Quindi, parliamo del tempo o…?
- Parliamo della trasmissione di domani. – mi informa lui, atono e pure un po’ offeso, come se fossi io il cretino colpevole di non averlo capito subito. – Bill può sentirmi?
Dovrei cominciare a preoccuparmi, immagino.
- …no, ma… che problema c’è per domani?
Chakuza tira fuori un sospirone paziente. Io comincio ragionevolmente ad irritarmi.
E poi la butta lì.
- Sarò sincero con te, Tom. – ma anche no, vorrei dire. Solo che sarebbe troppo da irresponsabile perfino per uno come me. – Dal momento che non è stato Fler ad ammazzare Bushido, non abbiamo più il controllo della situazione. Non sappiamo chi sia stato né perché.
Trattengo il fiato.
- Che… - annaspo confusamente, - che mi sono perso? Non dicevate che la polizia l’aveva lasciato andare per mancanza di prove ma che eravate certi… voi eravate certi!
- Sì, lo so. – concede lui con la stessa pazienza di prima. Dovrei ringraziarlo per questo, immagino. – Adesso però siamo certi che non sia stato lui, e questo significa che sono cambiate le carte in tavola. Chiunque abbia premuto il grilletto quella notte, potrebbe avere un altro movente. – si interrompe un secondo, come aspettasse di lasciarmi digerire tutte le informazioni. - …o un altro obiettivo. Quella a TRL sarà la prima uscita pubblica di Bill, e… insomma. – conclude quindi con un mezzo sospiro.
Bill. Bill. Il pensiero mi esplode nel cervello all’improvviso e mi devasta. Mi devasta, Cristo. Bill. Il mio fratellino. Bill.
- La security, abbiamo… - ansimo, agitato, - noi siamo protetti e… - mi fermo. Chakuza non avrebbe chiamato, se avesse ritenuto la security abbastanza per proteggere Bill. - …cosa pensi di fare?
- Crediamo che i momenti più pericolosi saranno all’entrata e all’uscita degli studi. – espone lui, freddo come un generale, - All’interno non può arrivare nessuno, senza autorizzazione, ma in mezzo alla folla è tutto molto più semplice. – fa pause strategiche all’interno del discorso, perché sa che io con tutta questa roba non c’entro davvero niente. Avevo un bel coraggio a fare la voce grossa con Bill parlando di dinamiche di crew e di cose che ero certo lui non sarebbe mai riuscito a capire, ma io? Ero davvero diverso da lui? Mi sembra che Chakuza stia parlando di cose assurde, eppure la paura che provo è reale. È reale perché Bushido c’è morto davvero, per queste cose assurde. – La security terrà indietro la gente. – riprende, - ma non si aspetta davvero un attacco violento. Dovremo fargli muro intorno, renderlo un bersaglio meno isolato. Chiunque voglia colpirlo, dovrà prima incontrare noi.
Io. Non so. Che dire.
- S… sì. – tiro fuori a fatica, - Okay, io che devo fare? – cerco di prendere coraggio così, dandomi un perché, un motivo di esistere in mezzo a tutto questo casino, perché non ci sto a guardare mio fratello che va via, non di nuovo, non sul serio, non così. – Chaku, che devo fare?
- Tu devi scortarlo all’entrata. – risponde lui, un po’ meno freddo di prima. – E sarai da solo, perché noi non possiamo arrivare con te.
Mi sento come quando, da piccolo, Bill aveva la febbre e mamma doveva badare ai bambini degli altri per tirar su qualche soldo. Doveva badare ai bambini degli altri e non poteva davvero badare anche ai propri, perciò, tenerissima com’è sempre stata, mi tirava da parte e mi diceva “Tom, tu sei il fratello maggiore, devi prenderti cura di Bill. Devi fare in modo che stia bene e non gli accada niente, mentre io sono impegnata. Okay?”. Ed io mi facevo grande e gonfiavo il petto perché allora combattevo contro una febbre ed un broncio triste e sapevo di poterli gestire tranquillamente con un abbraccio e qualche caramella. Adesso sto combattendo contro qualcosa di molto più grande e non è cambiato niente: sono il fratello maggiore e devo gestirlo per forza.
- Va bene. – dico con sicurezza, annuendo al mio riflesso spaurito che mi fissa dallo specchio sulla parete di fronte, - Me ne occuperò io. Non ci saranno problemi. – sospiro perché adesso che l’ho detto sto meglio. Mi sento svuotato. Ma quando ti senti svuotato va bene, è un’occasione per riempirti di nuovo. Io devo diventare tutto coraggio. Per Bill. Posso farlo. – Chakuza, ma voi chi? – chiedo alla fine, più che altro per capire esattamente con quali dei cavalieri di Sua Maestà dovrò avere a che fare domani.
Lui fa una pausa, ma stavolta non è una pausa per me. È per se stesso. Come stesse cercando di fare mente locale.
- …io e Fler. – risponde alla fine.
- Fler! – strillo io, agitando il braccio non impegnato e reggere il telefono, - Chakuza, se per caso ‘sto stronzo è veramente quello che ha ammazzato Bushido e si sta infiltrando per far fuori anche mio fratello, e tu ci stai cascando come una pera, giuro che di te non rimarranno neanche le ossa! – vorrei anche capire cosa sto dicendo. Penso di essere arrabbiato e basta, perciò sparo cavolate. Io devo fidarmi del Chaku di Bill. Devo farlo per forza, non posso sbagliare di nuovo.
Chakuza ride, giustamente. Io non rido con lui solo per imbarazzo.
- Molto intimidatorio, davvero. – mi prende in giro, anche se non riesco a sentirmi offeso, - Ad ogni modo, Fler è uno dei nostri, adesso. Garantisco io per lui.
Sospiro e roteo gli occhi.
- Ah, be’, se garantisci tu… - Bill mi chiama dal salotto. “Tomi!” pigola con quella sua vocetta estenuata. Credo che il film sia finito, per carità, quando finisce The Notebook Bill non è felice se non mi scarica addosso almeno due ore di lacrime. – Senti, devo andare… - avviso Chakuza dall’altro lato della cornetta, - Un’ultima curiosità: come diavolo hai avuto il mio numero?!
- Uh? – sembra stupito, - L’ho chiesto al vostro manager, naturalmente. – spiega in breve, - Che ti aspettavi?
Eh, non lo so che mi aspettavo. Dovresti dirmelo tu cosa aspettarmi, Peter Pangerl detto Chakuza.
Peter Pangerl, poi. Che razza di nome è per un gangsta rapper?
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest (accennato), Slash.
- La relazione più pubblica dello showbiz tedesco è, in realtà, un affare molto privato. Tanto privato che Bill e Bushido, quando stanno nello stesso posto, devono pure stare almeno a una decina di metri di distanza l'uno dall'altro. Maledicendo ogni centimetro di quei metri - e le due zoccole che si sono avvinghiate al suo uomo - Bill ci racconta dei lati positivi e di quelli negativi della sua situazione sentimentale. Posto che i primi esistano e che i secondi abbiano importanza, naturalmente.
Note: Il mio coefficiente di inutilità aumenta di giorno in giorno. È una cosa scioccante XD L’ispirazione per questa vaccatina emoangst di quattro pagine, comunque, è arrivata guardando un video di Bushido con due groupie. È in realtà un video piuttosto divertente – le due sono due zoccole fatte e finite, ma il Bu è più o meno comico. Per quanto possa essere comico un uomo circondato da figa che sa ne beccherà pure un bel po’ durante la notte. – ma ovviamente io guardandolo ho ringhiato perché la situazione in sé è irritante da morire XD I motivi sono illogici e irrazionali e stupidamente innamorati, quindi ve li risparmio u.u Però ne è venuto fuori Bill, con una prepotenza che aveva dell’assurdo. Ed io ho ritenuto opportuno dargli soddisfazione è_é
Il twincest non era volontario. Giuro O_O” Ma tanto ormai ho smesso di chiedermi perché i miei personaggi agiscano in un modo piuttosto che in un altro. È palese che non hanno motivi -.-“
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
EIN GANZER MANN

Le troie sono due. Accucciato sul divano, stretto al proprio fratello come se da lui dipendesse la sua capacità di rimanere ancorato al mondo reale, per non scivolare in una rabbia irrazionale che – lo sa – sarebbe semplicemente l’inizio della fine del mondo, Bill le guarda. E le conta.
Le troie sono due. Una bionda ed una mora, come a dire: una per ogni gusto, senza possibilità di rimanere insoddisfatti. La classica cosa che farebbe oltremodo felice Tom, Bill sa anche questo, ma Tom stasera è gentile e gli sta attaccato come una patella allo scoglio, perché comprende che, se si allontanasse anche lui, poi Bill resterebbe senza ancore. E la rabbia di cui sopra comincerebbe a scorrere libera, tracimerebbe gli argini, gli saetterebbe fuori dagli occhi, e poi valla a riprendere. Valla a fermare. Non sopravvivrebbe nessuno perché, a costo di far fuori tutto l’intero locale, Bill cancellerebbe ogni traccia di quell’umiliazione inferta inconsapevolmente.
Le troie sono due e stanno attaccate ad Anis – a Bushido, Bushido, in pubblico è Bushido. Ed anche quando lo fa incazzare è Bushido. Anis è un nome per altre occasioni. Occasioni di cui al momento non gli interessa ricordare l’esistenza. Comunque gli stanno attaccate nello stesso preciso e identico modo in cui lui sta attaccato a Tom, ma ci sono delle piccole differenze.
Tanto per cominciare, le troie sono appunto due. Lui è uno solo. Uno solo e pure un po’ troppo magro qui e là per ricordare anche vagamente una sola di loro. Oltretutto, sono simili solo le pose: le troie abbracciano Anis perché vogliono essere scopate; Bill abbraccia Tom perché se non lo abbracciasse scoppierebbe a piangere di gelosia.
Le due troie – che sono comunque sempre ancora due, cazzo, è solo, Bushido? Non c’è qualche altro gangsta rapper cui attaccarsi per spogliarlo con gli occhi e anche con le mani, se capita? – si avvolgono attorno al suo corpo come fossero nate apposta, incastrandosi perfettamente e riempiendo di morbidezze le asperità un po’ spigolose del corpo magro del suo uomo. Il fatto che Anis fosse muscoloso ma magro l’ha sempre fatto impazzire, prima di questo momento: adesso lo odia e basta perché si rende conto che un corpo così è un corpo fatto apposta per essere toccato. E coperto. Da altri corpi. Altri corpi che non sono il suo, però, tant’è vero che lui ed Anis quando fanno l’amore non scopano, no, collidono. Ed è bello tanto quanto fa male.
Bill si agita sul posto e suo fratello stringe la presa attorno alle sue spalle.
- Calma, Billi… - ed è un tono da domatore, che lo farebbe infuriare, in qualsiasi altra occasione. Stasera no, però, perché ha davvero bisogno di essere domato.
Bill si lascia andare alla stretta ed abbassa gli occhi. Le palpebre scendono appena, c’è qualcosa che gli solletica le ciglia ma non la lascerà cadere. Non ha motivo di piangere. Non ha proprio nessun motivo di piangere.
Annuisce.
- Sto bene. – sputa fuori in un mezzo singhiozzo.
Tom gli sorride teneramente e stringe ancora un po’ la presa.
- Posso partire con le classiche rassicurazioni di rito?
Bill lo guarda senza capire, arricciando un po’ il naso. Tom ride a mezza voce e si china a lasciargli un bacino sulla punta.
- Punto primo: non sta facendo niente di male. Punto secondo: sono loro le troie. Punto terzo: sai che non significa nulla. Punto quarto: sai anche che preferirebbe stare qui piuttosto che dov’è.
Bill si costringe ad un sorriso e spera che Tom non noti la forzatura.
Si rifiuta di ribattere “il problema è che non c’è. Vorrebbe, forse, ma non c’è. Quindi, se anche vuole, non m’interessa”.
Come seguisse il copione mentale di Tom, comunque, o come se volesse dimostrare qualcosa a Bill, Anis mostra segni di insofferenza. Si districa dall’intreccio di corpi morbidi, si allunga verso il tavolino, afferra il bicchiere col drink colorato. Sta lì, si china a parlare con uno dei suoi, agita la mano – il ghiaccio tintinna ripetutamente contro le pareti di vetro, Bill sente solo quello – esita un po’ prima di tornare a poggiare la schiena contro i cuscini del divano.
Per un attimo, Bill s’illude che si alzerà in piedi ed andrà via. Sarebbe meglio non vederlo più per tutto il resto della serata, che non continuare a vederlo così.
Le illusioni non si avverano ed Anis – sempre Bushido. Come le troie sono sempre due – torna composto. Come ubbidendo ad ordini superiori, le troie tornano ad avvolgerlo nelle loro spire. Bill le vede sorridersi l’un l’altra con aria maliziosa, mentre fanno scivolare le mani sul suo petto.
Bushido ride e scuote il capo. Recupera le mani di entrambe e se le scosta di dosso.
- Sono troppo appiccicose, vedi? – dice Tom, che sta fissando la scena col suo stesso occhio critico, - Le sta mandando via.
Ed invece no, Bill lo sa. Non le manda via. Bushido non le manda mai via. Se sia una questione di apparenze o di orgoglio o di uniformarsi al resto della crew – perché, ora che si guarda in giro, le vede, Bill, le vede le troie: sono ovunque, pure sugli altri – Bill non lo sa. In fondo, non ha paura. Non è nemmeno arrabbiato.
Per qualche motivo, però, Anis l’ha ferito. Senza volere e senza coltello. Quando ne parleranno – stasera o domani. Magari mai. – Bill si lamenterà ed Anis capirà perché, ma non saprà di che scusarsi perché non avrà effettivamente nessun motivo per chiedere scusa. Dirà “mi dispiace” e sarà un “mi dispiace” generale, di quelli che dicono “non vorrei che la situazione fosse così schifosa, ma lo è. Non dipende da nessuno di noi due, è così e basta, piccolo, dobbiamo rassegnarci”.
Bill lo sa.
Ma vorrebbe qualcuno da incolpare. Vorrebbe poter incolpare Anis.
Quasi lo fa. Ma poi una delle troie solleva una gamba – ed è indecente, indossa un paio di short bianchi inguinali che dovrebbero essere vietati da qualche legge, e Bill è quasi sicuro lo siano – e la lascia ricadere con navigata distrazione fra quelle di Anis, sfiorandolo voluttuosamente col ginocchio e con tutta la lunghezza del polpaccio fino alla caviglia, per poi tornare indietro e posarsi lì, innocente, sorridente, soddisfatta.
Tom stringe la presa sulla sua spalla. Bill ha un “troia” che trema pericolosamente sulla labbra ed una lacrima che trema pericolosamente sulle ciglia.
Anis si alza di scatto e la troia finisce letteralmente schienata sul divano.
- Saad! – chiama Anis, con rabbia, teso come una corda di violino. Indossa una maglia larghissima, le maniche sono lunghe, scendono quasi a coprire il dorso delle mani. Sarebbe tenero, se il tessuto non gli si tirasse maliziosamente sulle spalle tornite e nervose. Siccome lo fa, non è tenero: è solo sexy.
Saad arriva subito, guardandosi intorno come a chiedersi dove sia il problema. Anis indica le troie. Le indica tutte e due. Saad guarda Bushido e chiede a lui dov’è il problema. Ed Anis fa un gesto con la mano. “Falle sparire”.
Bill non sorride perché non ha nulla di cui sorridere. Il nervosismo di Anis gli dice solo che lì, con lui davanti, essere toccato da quelle donne lo infastidisce. Ma non gli dice come potrebbe essere se lui non ci fosse.
Non gli dice com’è quando lui non c’è.
Non risolve proprio niente. Ed è la classica cosa che non si risolverà mai, oltretutto.
Le troie scompaiono. Da due a zero. Tutto intorno, gli altri membri della crew si fanno toccare, accarezzare e baciare. Alcuni perfino scopare attraverso i vestiti – è davvero impossibile non notare quelle anche perfettamente rotonde e quei seni sodi che ondeggiano mentre, nella penombra, le ragazze si spingono avanti e indietro sui grembi dei loro ospiti. Bushido rimane seduto sul divano. Non ci sono più troie. Resta Saad, per qualche secondo, proprio là accanto. Si china verso il suo King, gli posa una mano sulla spalla, Bill può immaginare la sua voce nasale un po’ preoccupata, “è tutto okay, Atze?”, ed Atze dice sì, gli dice che può andare. Saad lo fa, ma non perché sia tranquillo. Lo fa perché Bushido gliel’ha ordinato.
D’altronde, non c’è proprio niente di cui stare tranquilli. Bushido, seduto sul divano, resta solo e immobile, le mani incrociate di fronte al viso, la fronte pressata contro il dorso, i gomiti sulle ginocchia. Non guarda niente e nessuno. Bill vorrebbe che guardasse lui, così potrebbe fargli un cenno del capo, una qualsiasi cosa che servisse a rincuorarlo, perché vederlo in quelle condizioni – frustrato, nervoso, accigliato – non è davvero possibile, non senza sentire una fitta orribile nel centro del petto. Ma Bushido non lo guarda, Bill fa cenni al vuoto e con la fitta nel centro del petto dovrà imparare a conviverci, punto.
- Sei contento? – chiede Tom, ed il tono della sua voce è dolce e sollevato. Lo stringe ancora alla spalla, ma non è una stretta contenitiva. Lo sta abbracciando e basta. – Le ha mandate via. Come un vero uomo.
Bill abbassa gli occhi e scuote il capo.
- Forse un vero uomo se le sarebbe tenute. – e scopate. Ma non lo aggiunge perché fa insopportabilmente male.
- Che razza di veri uomini conosci? – ride Tom, allungandosi a recuperare la birra.
- Non lo so. – ammette Bill con un sospiro, - Forse non ne conosco nessuno.
- O forse ne hai un’idea completamente distorta. – lo corregge suo fratello. – Vedi, è per cose come queste che io non voglio relazioni. Perché poi dovrei togliermi le donne di dosso.
- E non lo faresti?
- È proprio il fatto che lo farei, ad infastidirmi.
Bill vorrebbe ringhiare, perché il tono di suo fratello stavolta è quasi di rimprovero. Come se gli stesse rinfacciando qualcosa. È un tono che non ammette repliche, e Bill si ritrova a replicare quasi controvoglia, solo per contraddirlo.
- Non lo so, dovrei dispiacermi per lui? Magari dirgli “tesoro, non importa, fa’ ciò che vuoi e fatti scopare come preferisci da chiunque si dimostri interessato”?
Tom gli scocca un’occhiata davvero poco comprensiva, e manda giù un paio di sorsi di birra. Così, schiacciato com’è su di lui, Bill li sente scivolare lungo la sua gola e poi giù fino allo stomaco. Abbassa lo sguardo.
- Vedi la situazione dalla sua prospettiva. – lo incita Tom. – Vorrebbe avere addosso te. Non può. Potrebbe avere addosso qualche troia. Non la vuole. Tu saresti felice?
Bill mugola e si arriccia ancora di più nella propria posizione.
- Ti odio quando mi dai torto.
Tom ride di gusto.
- Ma non ti sto dando torto. Sto dicendo che avete ragione entrambi.
Bill si astiene dal fargli notare che è come dire che il bicchiere può essere sia mezzo pieno che mezzo vuoto, dipende dalla prospettiva in cui lo guardi. Tom ha una visione un po’ comune della realtà. Un po’ troppo chiara. Avere una visione chiara della realtà non è un bene, perché la realtà non è davvero chiara. La realtà somiglia alle luci blu degli afterparty: ti sembra di stare vedendo qualcosa, ma in realtà è un’ombra. Stai guardando qualcos’altro, ma la tua mente e le luci ti prendono in giro.
Il problema non è mai stabilire se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Il problema è che il bicchiere è mezzo. Non è intero. Non c’è tutto. Che ci sia qualcosa dentro è del tutto indifferente, alla fine.
Ed è un po’ così anche per la loro relazione. Che si muove nell’ombra degli afterparty e nell’ombra della loro camera da letto. In silenzio. Che nessuno lo sappia. Che nessuno la veda. Che nessuno ne senta neanche l’odore.
È già qualcosa averlo, quell’amore? Dovrebbe vedere il bicchiere mezzo pieno ed accontentarsi?
È sempre un amore a metà. Bill può accontentarsi, ma è sempre un amore monco.
Bill sospira e guarda suo fratello che sorride, e non può fare a meno di sorridere a propria volta. Non è la prima volta che si ritrova con un amore a metà. Ormai, può quasi dire di esserci abituato. Anis non è Tom e Tom non è Anis, ma per Bill sono incompleti entrambi, ognuno nel proprio modo speciale.
Tom intreccia le dita con le sue e gli lascia un bacio sulla tempia.
- Ti sei un po’ calmato? – chiede premuroso.
Bill annuisce.
Dall’altro lato del salottino, Anis è tornato semplicemente Anis. Ha sciolto le dita, s’è alzato in piedi e s’è grattato stancamente la nuca, prima di richiamare Saad ed avvertirlo con poche parole del fatto che sta andando via. Saad s’è lamentato vagamente, ha risposto probabilmente con un “resta un altro po’, Atze, che risolvi andandotene via a mezzanotte?!” che Anis ha volutamente ignorato.
Bill lo osserva chinarsi a recuperare la giacca, e si separa da Tom. Lo fa perché sente sottopelle che Anis sta per guardarlo.
Ed in effetti Anis lo fa. Gli lancia un’occhiata ed un sorriso ed un saluto con la mano. Sono cose che può fare pubblicamente. Sono gesti che la gente interpreta come prese in giro o come i cavalli di battaglia di una falsa relazione che fa arruffare le penne a un sacco di ragazzine in tutta Europa. Può permetterseli. Bill può permettersi di ricambiarli, perché la gente li interpreta come gentilezze di cortesia.
Ammantano la loro relazione di bugie per poterla vivere il più sinceramente possibile. È un paradosso al quale Bill ha dovuto abituarsi. Bill ha dovuto abituarsi a così tante cose che ne ha perso il conto e non potrebbe elencarle neanche volendo. È orrendo perché ci sono dei momenti in cui si chiede se ne sia valsa davvero la pena.
Gli occhi di Anis, scuri e profondi nonostante le luci basse gli permettano appena di intuirli, gli ripetono che sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, giorno dopo giorno. Sì, sì, sì.
Bill freme sul divano e contro il corpo di suo fratello.
Anis esita nell’andare via. Continua a guardarlo.
Tom ride.
- Vuoi andare con lui? – chiede divertito, - Ti copro io.
Bill si trattiene dal saltare istantaneamente in piedi solo perché vuole prendersi il giusto tempo per ringraziarlo e dargli un bacino.
Mentre Tom sfila dalla tasca il cellulare per chiamare David ed avvertirlo che farà bene a predisporre una sicurezza adeguata, se non vuole che il Billshido si ritrovi sputtanato in copertina entro domani, Bill si allontana verso Anis. Lui lo guarda, capisce che lo sta seguendo e si lascia andare ad un sorriso, prima di voltarsi e fargli strada verso l’uscita.
Non si guardano. Non si sfiorano.
Ad osservarli da lontano, sono solo due che vanno via.
Il punto è che stanno andando via insieme. Il bicchiere è pieno. Solo per un attimo.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Lemon, Slash.
- "Anis è una sensazione. I ricordi non contano, ma la sua presenza resta. Ce l’ho sempre qui, attaccata alla pelle, come fosse una cosa viva. Come se lui fosse ancora vivo. E non me lo sono tatuato addosso ma lui c’è rimasto lo stesso."
Note: Prima di tutto vorrei ringraziare Tab, perché se non mi avesse dato una direzione questa storia sarebbe rimasta ferma a metà della prima pagina senza speranza di concludersi neanche fra un milione di anni ^^ Ed invece tutti i concetti delle sensazioni striscianti li ho ripresi da lei, li ho ampliati e li ho ficcati qui semplicemente perché… non lo so, rincorrevo l’idea da un po’, credo. Con Tab abbiamo parlato spesso di scrivere spin-off sui ricordi di Bill, ed alla fine non so come l’idea del sogno ha cominciato a farsi strada nella mia testolina pervertita, e questo è ciò che n’è venuto fuori. Mi rendo conto che non è una PWP XD Non è neanche una morte, però! XD È un po’ una roba a metà. Come il sogno di Bill =P
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SLEEPING WITH GHOSTS

Chaku è appena andato di là a dormire. So che non voleva perché di solito aspetta che io mi sia addormentato, così può posarmi una coperta sulle spalle, augurarmi una buona notte silenziosa e scivolare calmo nel suo letto ripetendosi che anche per stasera ha salvato la Principessa dal tracollo emotivo.
Stasera però il sonno non arriva. Sono già le quattro del mattino e Chaku è andato a letto solo perché ho insistito nel fargli notare che la sveglia alle sette sarebbe passata del tutto inosservata se non fosse andato immediatamente a riposarsi. Non che in genere la cosa basti a farlo rassegnare, di solito quando dico cose simili mi rimpinza di birra e a quel punto il sonno viene come conseguenza naturale, ma stasera i miei occhi erano troppo vispi e svegli, credo, per dargli ad intendere ci fosse una possibilità di mandarmi in stand by.
Non ce n’è. Lo so. Stasera non sono proprio riuscito a salvarmi dal tracollo emotivo.
Il salotto – o almeno, questa stanzetta minuscola che Chaku fa passare per salotto, cosa che mi fa ridere molto se penso alla villa gialla di Anis ed alle mille sale che la componevano come una reggia – è scuro e silenzioso attorno a me. Il plaid scozzese che mi sono tirato su fino al naso non è fisicamente in grado di scaldarmi ed io non so se sia perché c’è freddo o perché lo sento e basta.
Alla fine, immagino non faccia molta differenza. Le sensazioni sono quelle, il corpo non mente mai. Se alla mia pelle manca il calore di un abbraccio, se mi manca la pressione di dita che conoscevo a memoria e che non potrei mai confondere con quelle di nessun altro, allora è semplicemente così che sto ed è quella la mia verità. L’unica che conti. Poco importa se in genere dopo tre settimane dalla chiusura di un rapporto si ha già dimenticato tutto e si va alla ricerca di un altro.
Il mio rapporto non s’è chiuso. Il mio rapporto è morto.
Anis è morto.
A volte questo pensiero non c’è. O c’è ed io non me ne rendo conto. Ma se non lo vedo posso almeno fingere che non ci sia, perciò diciamo che non c’è. A volte la realtà è più forte dei miei ricordi, perché comunque la realtà è un po’ così: fastidiosa ed invasiva. E c’è David che mi dice cosa devo fare e mi chiede come sto, e c’è Tomi che mi spintona qua e là per negozi e poi mi piazza davanti al DVD di The Notebook dandomi un motivo valido per piangere ancora, e ci sono Georg e Gustav che fanno i pagliacci e c’è Andi che mi chiama per descrivermi la nuova sfumatura di platino dei suoi capelli e c’è mamma che mi compra i regali e me li manda via posta o me li porta di persona, e naturalmente quando sono tanto triste da non farcela più c’è Chaku che non mi rifiuta mai una birra ed un posto sul divano, perciò sì, il più delle volte ce la faccio e provo pure a dirmi che sono forte e non sto affatto male.
Di notte, però, capita che mi ritrovi senza niente da fare e con nessuna voce nelle orecchie. Nessuno che mi distragga, nessuno che mi indichi dove andare a sbattere la testa per mandare la memoria in coma e staccarle definitivamente la spina. Perciò resto così, come adesso, avvolto da una coperta inutile che non è calda la metà dell’abbraccio che non avrò più, e fisso il soffitto come se da lì dovesse venire una qualche risposta, e mi ritrovo terrorizzato all’improvviso quando comprendo che la risposta che aspetto non arriverà, semplicemente perché non esiste.
E perché i morti non parlano, ovviamente.
Tranne che nella mia testa. L’ultimo luogo dove sono sicuro di poter ritrovare la voce di Anis sempre, e non nelle sfumature metalliche di un lettore musicale, ma nella sua completezza. In tutto lo splendore dei toni cupi di quando era triste, di quelli più acuti della sua risata da bambino mai cresciuto e in quelli ruvidi e caldi di quando era eccitato e mi sussurrava nell’orecchio sapendo che mi avrebbe ridotto ad un mucchietto di voglia da rigirarsi fra le mani.
La cosa peggiore è che non sono davvero memorie, non sono cose riconducibili a momenti ben precisi. Di quelli ne ho pieno il cervello. Di lui esausto buttato sul divano dopo una giornata intensa che mi chiede per piacere di parlare a bassa voce, per fare un esempio. O di lui che squittisce – e lo faceva davvero, un suono acuto e pungente come la risata dei bambini insopportabili, ma che sulle sue labbra era dolce tanto quanto tu eri impreparato a sentirlo – di fronte a qualcosa di particolarmente buono da mangiare. Aprire gli occhi e trovarlo addormentato al mio fianco con le braccia e le gambe larghe fino ad avermi rubato tanto di quel materasso da costringermi a rotolargli addosso. E dargli una gomitata in pieno petto mugugnando che proprio non sa dormire in coppia, mentre lui mi chiude le braccia attorno alle spalle e mormora “dormi e basta” direttamente sul mio collo. Che poteva esserci freddo da morire o un caldo intollerabile ma fra quelle braccia si stava bene comunque, regolavano la temperatura dell’aria attorno a me.
Questi sono ricordi. Sono contestualizzabili. Mi basta chiudere gli occhi e non guardare divani cibi letti eccetera, per non pensarci. Mi basta concentrarmi abbastanza su un foglio di carta e su tutto lo schifo che ci voglio gettare sopra, per dire.
Con le sensazioni è più difficili, perché le sensazioni non sono contestualizzabili. Quelle, bastarde, strisciano sopra e sotto la pelle, ed una volta che le hai provate diventano parte di te, ti scorrono dentro e non hanno neanche bisogno di azionare un interruttore per risalire a galla.
Soprattutto, quando ce la fanno, non le puoi fermare. Non basta chiudere gli occhi. Restare da solo le amplifica. Circondarsi di voci rumori e suoni le rende solo più urgenti. Non scappi. Che tu sia solo su un divano o in mezzo a una folla vociante, sei solo tu e l’eco della tua voglia che ti si arrampica addosso e ti colonizza il cervello.
Anis è una sensazione. I ricordi non contano, ma la sua presenza resta. Ce l’ho sempre qui, attaccata alla pelle, come fosse una cosa viva. Come se lui fosse ancora vivo. E non me lo sono tatuato addosso ma lui c’è rimasto lo stesso. Lì, dove non l’ho mai messo. Dove è arrivato da solo. Nel posto che s’è guadagnato in mezzo al mio petto. In realtà, andandosene non ha lasciato un buco: perché non è mai andato via.
La coperta scivola via alla terza volta che mi rigiro sul cuscino del divano di Chaku che ormai ha preso la mia forma. Mi ci sono scavato una tana a forza di premerci contro le ossa, è diventato un po’ il mio posto qua dentro. È strano che casa di Chaku mi ricordi tanto Anis, perché casa di Anis era un palazzo maestoso e questo è un trilocale che sembra una topaia, ma a pensarci capisco subito che il collegamento è diverso: non è una questione di ricordi, sono appunto le sensazioni. Qui c’è l’odore di Anis. C’è l’odore della sua presenza, che è rimasta attaccata alle pareti. Chissà quante volte è venuto qui a passare una serata in compagnia, o per recuperare Chaku prima di andare da qualche parte o chissà che altro. E il suo odore s’è imposto su queste pareti, su questi cuscini e pure sulle particelle di ossigeno, tanto che lui ora è ovunque.
Un po’ ho paura di realizzare che potrebbe essere uscito da me. Potrei avercelo portato io respirando, muovendomi, rigirandomi sul divano.
Chino il capo ed annuso la pelle della mia spalla.
Anis è ancora lì, lo sento. È denso e scuro com’era da vivo. Se chiudo gli occhi abbastanza forte sento la pressione dei suoi polpastrelli, ed è calda e dolce, premurosa. Me lo vedo che si china su di me e borbotta “Ma perché ti sei addormentato sul divano?”, e per un attimo mi chiedo che cosa ci faccia qui, visto che teoricamente non dovrebbe – potrebbe – esserci, ma poi guardo la curva apprensiva delle sue labbra serrate e scuoto lentamente il capo. “Non lo so”, rispondo, “guardavo la tv”, ed è una bugia ma mi secca rispondergli che pensavo a lui, lo so che gli dispiacerebbe sapermi ancora triste e debole.
Lui scuote il capo rassegnato e si china, è in ginocchio proprio qui accanto, se mi sporgo solo un po’ lo sfioro con le labbra, ed ho davvero voglia di farlo ma mi sento stanco e pesante, perciò mi limito a guardarlo, così è lui che deve chinarsi. Lo fa dondolandosi appena sui talloni, un movimento oscillatorio un po’ infantile, si china e me lo sento sulle labbra. Si allontana quasi subito ed io assaggio il suo sapore, o ciò che ne resta, direttamente dalla mia bocca. D’improvviso mi rammarico di non averlo baciato più a fondo.
“Torna qui…”, mugolo pietosamente, ma Anis si rimette in piedi facendo leva sulle ginocchia e guida la mia mano a recuperare la coperta da terra.
“Mi fai spazio?”, mi chiede poi, ed io mi raggomitolo tutto diventando un pallina minuscola, così lui, che a dormire in due non ha mai imparato, può prendersi tutto lo spazio che vuole.
Crolla accanto a me ed i cuscini sbuffano, fanno puff, si gonfiano e si sgonfiano sotto di noi. Anis ride divertito ed io mi sciolgo. Mi sciolgo da me stesso e mi sciolgo su di lui, ed è una sensazione così nostalgica e liberatoria che mi viene quasi da piangere, perciò pigolo un lamento a caso mentre mi adatto nuovamente alla superficie dura del suo petto e del suo ventre.
“Che c’è, piccolo? Cos’è che ti manca?”, chiede, e mi prende in giro. Mi manchi tu, stupido, mi manchi da morire. Mi uccide non poterti seguire. Ma tu ora sei qui, quindi va bene.
Mi sollevo pressando le mani sulle sue gambe. Lui tende i muscoli per non farsi male ed io li sento gonfiarsi sotto di me e per un secondo vorrei ricadergli addosso e basta, ma so che me ne pentirei, perciò finisco di mettermi seduto e lo bacio. Cerco le sue labbra con una voracità che credevo di avere perduto, e lui mi risponde con un’ansia che non credevo possibile, sento la pressione delle sue braccia forti attorno alla vita, mi tira verso di sé ed è tutto un concentrato di calore e fermezza mentre io sono debole e mi arrendo una dieci cento mille volte ai tocchi della sua lingua e delle sue dita, mentre s’insinua sotto la maglietta leggera ed oltre l’orlo dei pantaloni ed io mi ricordo che lo faceva sempre, non sopportava di avermi così vicino e tollerare i vestiti, erano di troppo, sempre, sono di troppo anche i suoi ma per qualche motivo non riesco a trovare abbastanza lucidità mentale da toglierglieli e basta, perciò lascio che sia lui a guidarmi, come ha sempre fatto, e va bene così.
Si separa da me con una risatina divertita ed io me la sento trillare nelle orecchie. Rispondo con un sorriso perché mi fa felice vederlo felice. Tutto qua.
“Sei morbido…” mi dice contro un orecchio.
“Sei tu.”, rispondo io in un singhiozzo, e lui ride ancora. Non credo che capisca. Non credo che realizzi.
Nemmeno io credo di capire o di realizzare. È lui. Dio, è lui.
Scende a sbottonarmi i jeans ed io ridacchio.
“Non sei cambiato affatto”, lo apostrofo, baciandolo sulla punta del naso.
“E perché avrei dovuto?”, borbotta lui, aiutandomi a sollevarmi un po’ per liberarmi dai pantaloni il minimo indispensabile per mettermi le mani addosso, “Non ho mica fatto niente, di recente. Una noia mortale”. E mi viene voglia di prenderlo a pugni ed invece mi abbatto contro di lui e rido, rido, rido piano per non svegliare Chaku e per non svegliarmi neanche io, presso il naso contro la sua spalla e sento l’odore pulito e fresco del cotone – conosco questa maglietta, la B rossa sul davanti, non dovrei pensarci, la ignoro – Anis mi fa scorrere una mano lungo la schiena e l’altra davanti s’infila oltre l’orlo dei boxer e prende a giocare col mio corpo, che risponde subito. Dio, ne ho sentito così tanto la mancanza… così tanto…
Stringo le braccia attorno al suo collo e mi lascio solleticare dalla barba un po’ ispida, ansimando forte sulla sua pelle.
“Ti piace, piccolo?”, bisbiglia lui baciandomi sotto l’orecchio.
“Sì…”, sì che mi piace, vorrei di più ma mi piace, faccio per muovermi e scendere giù, cercando a tentoni la zip dei suoi jeans perché lo voglio davvero, non mi sembra possibile poterlo toccare ancora ed allora lo voglio tutto, ma non capisco perché quando tocco non tocco niente, le mani vagano a vuoto, c’è solo aria; apro gli occhi e lui è ancora qui che mi sorride e mi accarezza, ed io stringo i denti e contraggo i muscoli sperando di non venire ancora, non ancora, non ancora, ti prego, lo voglio sentire dentro, prima, ma lui bisbiglia “lascia perdere, piccolo, lascia perdere” e mi bacia ancora, ed io lo sento che è fisico e vero, non è solo aria, ma le mie mani non toccano più nulla, non c’è più nulla da toccare e non c’è più nulla da sentire, eppure le labbra sono lì, le mordo con forza mentre mi libero contro la sua mano, ed è allora che riesco a toccare qualcosa, qualcosa che è duro e consistente ed umido – umido? – e nudo – nudo? – ed apro gli occhi e lui non c’è.
Lui non c’è.
Ed io non sono seduto, sono ancora disteso.
E la coperta è ancora per terra.
E le mie mani stanno toccando me stesso.
Ho il fiatone e mi sanguina un labbro. Mordevo me stesso. Toccavo me stesso. Lui non c’era. Non c’è mai stato. Dormivo o sognavo ad occhi aperti o qualsiasi cosa fosse – lui non c’era. Non c’era. Non c’è.
Mi alzo in piedi di scatto e non so come faccio ad arrivare fino al bagno senza inciampare nei pantaloni che cascano o nella coperta aggrovigliata sul pavimento. Arrivo fino al bagno e mi abbatto contro il water, stringo forte le dita attorno al bordo della mezza vasca che lo fiancheggia e svuoto il niente che mi tengo dentro, perché stasera non ho neanche mangiato. La bile è acida e amara contro il palato, ha un sapore orrendo che mi fa venire voglia di vomitare ancora di più.
Sono amare pure le lacrime, vaffanculo a loro. Perché? Perché lo faccio? Perché mi prendo in giro? Perché non posso semplicemente mandare via o buttare giù o lasciare indietro o tirare avanti o qualunque sia la banale espressione che si usa per dire che rivoglio la mia vita, merda, la rivoglio sana, non voglio guardarmi allo specchio e ritrovarmi ogni volta disperso in un milione di pezzi…
Io non so come fare a ricompormi, non ne ho la più pallida idea… ho sempre lasciato che fosse Tomi a rimettermi insieme, e non capisco perché non ci riesce proprio stavolta che ne avrei più bisogno in assoluto…
- Bill? – la voce di Chaku è assonnata e confusa, all’inizio, ma poi lo sento muoversi dietro di me e capisco che sta cominciando a ragionare. La seconda volta che mi chiama, infatti, è più deciso. – Bill. – ripete, raggiungendomi in due passi ed accucciandosi accanto a me, - Che hai? Stai male?
Annuisco perché non ho la forza neanche di mentire.
- Cos’è? Lo stomaco? – chiede lui, lanciando un’occhiata poco convinta all’acqua torbida nel water, - Vuoi che ti prenda qualcosa? – ma tanto non c’è niente che possa farmi bene. – Bill?
Mi trascino sul pavimento verso di lui e mi schiaccio contro il suo petto. Che è caldo e si muove un po’ ansiosamente al ritmo del suo respiro.
- Bill…?
- Ho bisogno… - faccio fatica a parlare e mi nascondo contro di lui perché mi sento terribilmente in imbarazzo, - …posso stare un po’ così?
Lui annuisce appena e mi circonda con un braccio, mentre con la mano libera recupera un pezzo di carta igienica e si sporge verso la vasca, aprendo il rubinetto ed inumidendolo per poi passarmelo sulle labbra.
- Non riuscivi a dormire? – mi chiede, palesemente perché il silenzio s’è fatto insopportabilmente pesante.
Scuoto il capo. Dormivo ed il mio corpo andava fuori controllo. Vorrei non dormire mai più. Vorrei che non calasse più il sole.
- Sicuro di non volere usare il mio letto? – chiede ancora lui, imbarazzato e a disagio. – È davvero più comodo ed ho… - esita, - ho cambiato le lenzuola stamattina, se questo ti preoccupa e-
- Non sono preoccupato. – mando giù un po’ di saliva. Mi brucia la gola. – Non possiamo rimanere un po’ così e basta?
Chakuza si arrende. Smette, probabilmente, di cercare di scavarmi nella testa. Tanto sa che, se volessi dirgli qualcosa, gliela direi.
Restiamo immobili finché alla luce artificiale del bagno non si aggiunge quella del primo sole che filtra dalla finestra in alto. Non sembra meno artificiale dell’altra, ma io non sono neanche più tanto sicuro che riuscirei a distinguerle.
Genere: Comico, Romantio.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Quando viveva con Tom, difficoltà di convivenza era un'espressione senza senso, per Bill. Adesso che vive con Anis, però, qualcosa è decisamente cambiato...
Note: XD Bushido è evidentemente in grado di farmi fare cose inumane (per i miei standard) se riesco a tirare fuori in tre ore complessive una shottina di sette pagine solo per festeggiare degnamente il suo compleanno <3 You Give Love A Bad Name, omonima di una canzone dei Bon Jovi che probabilmente avrò pure ascoltato ma non ricorderei neanche se ne andasse nella mia vita – è da ieri che provo a canticchiarmela in mente ma vengono fuori solo pezzi sconnessi >_< - nasce da un’idea estemporanea di Tab: “me lo vedo il Bu che tormenta Bill non rispondendogli se lo chiama con un nome diverso rispetto a quello che sta pensando”.
Da qui, ovviamente, io non potevo che impazzire e decidere di… scrivere un breve trattato sulla difficoltà della vita di coppia, evidentemente X’D *dramma umano* Ovviamente, non poteva che essere felice, perché… be’, tutti voi penso sappiate quanto io sia attaccata alle Billshido felici che (quasi) nessuno mi scrive u.u E perciò mi tocca provvedere da sola. *piange*
(Avviso al popolo: il Bu sta lentamente invecchiando – dico lentamente perché sennò poi Sara si arrabbia XD – ha bisogno di Billshido felici. Scrivetegliene! XD)
Ovviamente io amo questa storia u.u Perché m’è venuta dal cuore e perché è stata una storia molto emotiva (nel senso che proprio andavo con l’emozione… non la mia, però XD) e fresca, comunque. E spero sia piaciuta anche a voi *_*v
PS: Karima e Bijoux, ovviamente, non esistono, sono mie e di Tab. <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
YOU GIVE LOVE A BAD NAME

La parola “convivenza”, per Bill Kaulitz, aveva sempre avuto un significato molto positivo. Per non dire idillico, appagante o vantaggioso. Questo perché la parola “convivenza” era sempre stata sinonimo di Tom. E Tom era sempre stato sinonimo di “fratello che si diverte tanto a fare il figo pubblicamente quanto ad essere fondamentalmente un cucciolo inzerbinito nel privato”.
Bill era un despota. Lo era perché era un tipo preciso e perché sapeva esattamente cosa voleva dalla propria vita, perciò doveva sapere esattamente anche cosa voleva dalle proprie giornate. Minuto per minuto, dettaglio per dettaglio. E perciò era un despota. Tom, per contro, era tanto rilassato quanto attento alle sue esigenze – un po’ come se le esigenze di Bill finissero per essere in qualche modo anche le sue – quindi le loro personalità si completavano, intrecciandosi ed incastrandosi con una precisione tale da dissipare qualsiasi dubbio sulla loro gemellarità pure in chi li guardasse anche solo per sbaglio.
Quando Anis, dopo un lungo, lento e logorante corteggiamento durato – quanto?, tre anni? – aveva finalmente ottenuto il permesso di: in primo luogo, avvicinarsi alla sua persona; in secondo luogo, invitarlo a prendere qualcosa al primo pub disponibile; in terzo luogo, infilarsi nelle sue mutande; ed infine devastare l’intera sua vita travolgendolo come un dannato ciclone e lasciandolo sul ciglio dei suoi vent’anni innamorato perso e senza via di scampo – ed il come sarebbe rimasto per sempre un mistero, viste le premesse del loro rapporto – Tom aveva provato ad avvertirlo.
“Guarda che lui non è me”, gli aveva detto con la schiettezza tipica dei loro discorsi, “mica ti farebbe da servetto come faccio io solo perché sono palesemente troppo stupido per dirti no”.
Bill, dall’alto della propria innocente presunzione – cavolo: un uomo di quasi trent’anni lo amava; e non per scherzo né per sesso, Anis era stato dannatamente chiaro sul punto quando aveva preteso che la smettesse di flirtare con l’universo mondo perché la cosa lo faceva sentire stupido. Proprio così aveva detto. – l’aveva liquidato con un rapido cenno della mano ed un sospiro tronfio e pure un pochino strafottente.
“Tu non lo conosci”, aveva risposto con aria sognante, “è stupendo. Farebbe qualsiasi cosa per me”.
La prima cosa di cui Bill aveva dovuto prendere atto, per contro, non appena aveva accettato la proposta di convivenza di Anis ed aveva messo piede nell’enorme casa gialla che l’uomo possedeva a Berlino, era stata che sì, forse Anis avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, ma nel concetto di “qualsiasi cosa” non rientrava, ad esempio, liberarsi del proprio orrido siamese dal pelo scuro con alle spalle circa mille anni di vita e sul muso uno sguardo cattivissimo. E che palesemente lo odiava.
La Bestia – Bijoux sul libretto dei vaccini, ma Bill non trovava che fosse un nome adatto ad un mostro artigliato che gli rovinava sistematicamente giubbini, magliette, pantaloni e qualsiasi altra cosa e poi gli rubava i gioielli per portarli nella cesta e farne Dio solo sapeva cosa – aveva preso a detestarlo dal primo giorno che s’era sistemato nella villa. A partire dalla prima mattina, quando, dopo una notte estenuante di sesso in cui aveva preteso di battezzare ogni stanza con la propria presenza – distruggendo Anis, ma era un problema secondario – s’era risvegliato col suo orrendo sedere proprio sulla faccia. Ed aveva conseguentemente lanciato un urlo tale da far saltare in aria il gatto, Anis, il letto ed anche la cameriera che dormiva nella stanza accanto.
La Bestia non era comunque l’unico nemico col quale dovesse combattere in quella casa che, a dispetto dei desideri del proprietario, decisamente non lo voleva fra i piedi. Per dire, Karima – la cameriera, appunto – lo odiava anche lei. Palesemente. Aveva cominciato a fissarlo con l’occhio torvo fin da quell’urlo spacca timpani ma giustificatissimo, e non aveva mai smesso. Insomma, non era colpa di Bill se continuava a propinargli cibo evidentemente immangiabile e non era fisicamente in grado di stirargli un paio di jeans senza che facessero la piega sul davanti come i pantaloni degli avvocati! Bill avrebbe avuto ogni diritto di detestarla, lei no, perché lui non le aveva mai fatto niente.
Alla fine, riflettendoci, Bill aveva capito cosa stava dietro all’odio smodato che le due femmine di casa – Bestia e cameriera – nutrivano nei suoi confronti: arrivando, aveva risucchiato completamente l’attenzione di Anis, e per quelle due megere egoiste non ne era più rimasta. Il gatto veniva accarezzato e portato in giro sulle spalle solo per sette o otto ore al giorno e la cameriera veniva ascoltata solo quando parlava, non anche quando magari avrebbe voluto parlare ma non lo faceva. Bill immaginava potessero essere questi i motivi di tanto odio, perché lui, per proprio conto, si sarebbe offeso enormemente se Anis avesse smesso di portarlo in giro tenendoselo appiccicato addosso, o se avesse smesso di indovinare dai suoi occhi quando avrebbe voluto dire qualcosa anche quando non lo faceva.
Nel mezzo di quel complotto, comunque, Anis non aveva reso le cose semplici: quell’uomo aveva una quantità di abitudini semplicemente disgustose che avrebbero impossibilitato chiunque a tollerarlo. Quella dello stecchino perennemente ficcato in bocca, per esempio, non era una posa da gangster: pure in casa, Anis girava sempre mordicchiando quell’orrendo bastoncino di legno. Il che, per dire, rendeva impossibile a Bill baciarlo quando desiderava in preda all’ispirazione. Era una cosa che uccideva l’erotismo, ecco!
A domanda, Anis rispondeva che “lo aiutava a non fumare, da quando aveva deciso di smettere”. Bill aveva scorso rapidamente la cartella di immagini che aveva salvato nel portatile ed aveva stabilito che no, la scusa non reggeva: Anis portava il coso in bocca fin dai tempi dell’Aggro Berlin.
“Da quanti anni è che stai cercando di smettere di fumare, scusa?!”, aveva chiesto esasperato un giorno, mostrando ad Anis una delle foto come prova schiacciante della sua menzogna.
Lui aveva risposto con un ghigno compiaciuto e soddisfatto.
“Hai una cartella di foto mie sul pc?”, aveva chiesto, evitando la sua domanda con abile mossa e mettendolo in imbarazzo per le successive sei ore.
Altra orrenda abitudine: le pantofoline celesti. Indecenti senza possibilità di scampo. Ed a questo si aggiungevano altre miriadi di cose – mangiare occasionalmente verdura, ascoltare anche quell’orrore di musica rap che già avrebbe dovuto bastargli produrre, andare in giro in pantaloncini, mettere il gel nei capelli nonostante fosse passato di moda da almeno sette anni – che Bill palesemente sopportava solo perché era abbastanza innamorato da calpestare il proprio onore e la propria dignità di uomo, perché altrimenti avrebbe fatto le valigie al secondo giorno con tanti saluti e arrivederci e la speranza di non vedersi davvero più.
Tutto questo strazio era comunque abbastanza normale se paragonato alla peggiore delle abitudini di Anis. L’unica che – sospettava – dovesse essere vietata perfino da qualche parte nella costituzione, nonché nella carta dei diritti umani.
Anis, tanto per cominciare, aveva troppi nomi per essere un uomo solo. C’erano i tre dell’anagrafe – Anis Mohamed Youssef – poi c’era il nome che gli aveva dato la strada – Sonny Black – il nome che s’era dato lui – Bushido – ed infine il titolo onorifico – King of Kingz.
Anis, soprattutto, si divertiva a tormentarlo, con quella storia dei millemila nomi. Fosse anche solo per il fatto che, quando gli aveva chiesto se Bill fosse un diminutivo, durante una delle loro prime uscite insieme, s’era sentito rispondere “no, nostra madre ci ha chiamati Bill e Tom perché voleva due nomi brevi”. Ed Anis s’era messo a ridere così di gusto che Bill aveva quasi temuto per il suo cuore, i suoi polmoni, la sua sanità mentale e, soprattutto, il precario equilibrio del bicchiere di martini fra le sue mani. Che, cadendo, avrebbe potuto finire sulla giacchettina color perla che aveva fregato a David in occasione dell’uscita. E non sarebbe stato saggio bruciarla per eliminare le prove del proprio furto.
In sostanza: Anis l’aveva preso in giro per secoli su quanto avere un nome di quattro lettere fosse poco tedesco e poco umanamente concepibile in generale, e quando Bill aveva provato a fargli notare che pure il suo ne contava solo quattro – ed oltretutto aveva un accento situato in un posto assurdo ed una s sibilata che doveva essere vietata dalla grammatica tedesca – s’era sentito rispondere che per lui la cosa non valeva perché dopo aveva altri pacchi di nomi per completare la brevità di quello con cui era venuto al mondo. Soprattutto, comunque, lui non era tedesco ma tunisino: perciò, le regole grammaticali potevano anche fargli una sega.
Surreale, sì, ma, in qualche contorto modo, perfino sensato.
Da quel momento in poi, Anis aveva cominciato a tormentarlo. Usando la scusa dei cinquecento nomi e quella per la quale i bravi amanti dovrebbero essere telepatici – “non valeva, per te e tuo fratello?”, vaffanculo a lui e pure alle illazioni twincest – gli aveva proposto un gioco: “quando mi chiamerai, non ti risponderò e non ti darò nemmeno retta se non l’avrai fatto col nome che stavo pensando in quel preciso istante”.
All’inizio era sembrata una cosa spensierata e divertente. Lo chiamava “Anis” e lui non rispondeva, ma quando si aggrappava alla sua schiena e cominciava a strusciarglisi contro si ammorbidiva immediatamente – anche se forse “ammorbidire” non era il termine più adatto.
Col passare del tempo, comunque, la situazione s’era fatta più pesante. Primo perché i suoi strusciamenti avevano perso effetto, secondo perché Anis aveva effettivamente cominciato ad offendersi quando Bill non indovinava il nome e terzo perché, nonostante litigassero ormai almeno una volta al giorno per quella questione, l’uomo s’era deciso a non lasciare perdere per nessuna ragione al mondo.
Il che poteva presentare delle difficoltà di tipo logistico non indifferenti.
Tipo: è il ventotto settembre, il tuo uomo fa il compleanno, avete già scopato a sazietà nella fascia oraria dalle mezzanotte del giorno prima alle sei del mattino della giornata odierna e quindi il tuo regalo può dirsi già abbondantemente consegnato – ed il Rolex che presenterai a cena è solo un surplus dettato dalla tua enorme magnanimità e dal fatto che Anis indossa degli orologi oggettivamente osceni – però hai comunque intenzione di organizzargli una festa.
Hai già prenotato un intero piano del Matrix, invitato tutti i tuoi amici e ti sei perfino assicurato che vengano i suoi, hai una torta di compleanno di dimensioni stratosferiche che arriverà alle dieci spaccate e il tuo problema principale – quando dovresti stare fermo davanti allo specchio a cercare di capire come essere così fottutamente bello da incollarti addosso gli occhi del mondo, in primis i suoi – è che ancora non sai se il tuo uomo ha progettato altro.
Perché ovviamente tutto ciò dovrebbe essere una sorpresa.
Ecco, in questi casi il giochino del non-ti-parlo-se-non-indovini può essere alquanto fastidioso.
Naturalmente, come tutti i giochi, anche questo ha le sue regole. Nello specifico: se Bill non indovina al terzo tentativo, perde il diritto di fare la domanda.
È per questo motivo che il moro deglutisce e riflette profondamente, mentre Anis gioca coi gladioli a qualche passo da lui, prima di provare per la terza fatidica volta.
La serra, sotto il sole delle due del pomeriggio, è calda e luminosa, ed un raggio di luce si riflette contro uno degli ammennicoli di metallo con i quali Anis gioca all’allegro giardiniere di tanto in tanto, colpendo Bill in un occhio come uno spillo. Dovrebbe prenderlo come un segno del destino e stare zitto, ma deve comunque chiedere, in qualche modo, perciò si fa forza, si stringe nelle spalle e va avanti.
- …Sonny? – prova timoroso. Le spalle di Anis si scuotono in una risata leggera, mentre qualche foglia secca viene tranciata e cade ai suoi piedi.
- Sbagliato. – lo prende in giro l’uomo, voltandosi ed appoggiandosi al tavolo da lavoro, lanciandogli un’occhiata furba. – Ed ora come facciamo?
Bill mette su un broncio fenomenale e ricorda con rammarico i tempi in cui viveva con Tom che, a questo punto, si sarebbe già sciolto in una pozza di amore fraterno e steso per terra ai suoi ordini.
Per un attimo, accarezza l’idea di farla comunque nonostante tutto, la dannata festa: e non invitarlo, il bastardo. Perché tanto è palese che non se lo merita. Poi ricorda che il suo uomo compie trent’anni, che deve essere paziente perché quando s’invecchia si diventa pure più ostinati e che, soprattutto, maggiori sono le possibilità che Anis si ubriachi maggiori sono anche le possibilità che possa strappargli qualche promessa tipo licenziare la cameriera o sopprimere la Bestia. Deve necessariamente portarlo alla festa.
- Amore… - prova quindi, rilassando i tratti del viso ed avvicinandoglisi con fare cuccioloso, per poi annodargli le braccia dietro al collo e gettarsi a peso morto su di lui, aderendo perfettamente al suo corpo, - Ho davvero bisogno di parlarti, potresti per favore smetterla con questo giochino ed ascoltarmi? E magari anche rispondermi?
Anis si china verso di lui e fa finta di baciarlo. Schiude le labbra e lo sfiora, e Bill è lì lì per pensare “vittoria!” e lasciarsi baciare quando l’apocalittico stronzo si tira indietro e ride ancora con quella risatina infantile che è tanto dolce quando viene espressa in un momento appropriato quanto odiosa quando invece è espressa in momenti come questo.
- Se vuoi che Amore rientri nella lista dei nomi possibili, dillo… e comunque non stavo pensando a quello, riprova.
- Eh, ma che cazzo! – strilla Bill a quel punto, separandosi da lui con uno scatto repentino. Anis non fa neanche la fatica di provare a trattenerlo e, ricominciando a ridere felicemente, ritorna ad occuparsi dei gladioli. Indispettito da tanto disinteresse, Bill intreccia le braccia sul petto. – Anis, è importante.
- No, non era nemmeno Anis.
- Stronzo!!!
- …e nemmeno “stronzo”. Per il futuro: non penso mai a me stesso in questi termini, perciò non ti conviene sprecare tentativi così, no?
Afferrare le cesoie e staccargli la testa, a questo punto, sarebbe una punizione ancora troppo blanda. Non basterebbe ad esprimere tutto il disappunto che riempie Bill fino alla punta dei capelli. E che sta per farlo esplodere.
Anis, per contro, tranquillo come un moccioso deficiente, taglia via dal vaso il gladiolo più bello e trotterella felice verso l’uscita della serra.
- Dove pensi di andare?! – chiede Bill con aria furibonda.
- Tu, piuttosto… vuoi rimanere qui tutto il giorno? – risponde divertito l’uomo. Per quanto la sua possa dirsi una “risposta” solo lavorando alacremente di fantasia.
Bill lo insegue macinando il pavimento sotto le scarpe, tanta è la forza rabbiosa con la quale avanza. È costretto a darsi una calmata solo dall’inizio della rampa di scale, che deve percorrere necessariamente con grazia ed eleganza, se non vuole ruzzolare giù e spaccarsi l’osso del collo al primo passo falso. Per un altro attimo la sua mente si perde in pensieri mortiferi e pensa che, se cadesse adesso, rotolerebbe addosso ad Anis ed almeno sarebbero in due a spaccarsi l’osso del collo. Della serie “morirò, ma ti porterò via con me!”. Sarebbe molto epico. Anche molto in linea con la sua personalità.
Ma il suo uomo fa sempre trent’anni e lui lo ama comunque, perciò deve sforzarsi di essere carino e gentile.
Proprio a questo scopo, invece di lanciarsi in avanti e buttarlo giù per le scale, si lancia in avanti con più moderazione e lo aggancia alle spalle, stringendogli le braccia attorno al collo e le gambe attorno al bacino. Anis esita e tentenna solo per un secondo, prima di sistemarselo contro la schiena, reggerlo sotto le cosce e continuare a scendere le scale – stavolta per due.
- Aniiiis… - mugola Bill, - senti, davvero…
- Cos’è che vuoi mangiare stasera, Bill? – no! Niente! Non potete mangiare qui, stasera! Panico! – Rispondi, tanto tu di nome hai solo questo.
- No, è che pensavo… non credi che-
- A che nome sto pensando adesso?
- …non mi va di giocare. – dice Bill a bassa voce, poggiando il mento contro la sua spalla ed abbassando lievemente le ciglia.
Anis sospira e lo porta fino in salotto, dove si china per aiutarlo a scendere sul divano. Una volta atterrato sui cuscini, Bill si accoccola contro un bracciolo e Bushido, dopo aver riposto il gladiolo sul tavolo, gli si siede a fianco, battendosi poi un paio di volte la mano sulle ginocchia in un chiaro invito ad avvicinarsi.
Bill non lo coglie. In compenso, si presenta la Bestia – alla quale non deve sembrare vero di trovare il grembo del padrone sgombro di altri ospiti, e che perciò ne approfitta per prenderne possesso, mentre Bill soffia irritato e si arriccia anche attorno ad un cuscino, oltre che attorno al bracciolo, già che c’è.
Bushido sospira ancora, teatralmente. Afferra la gatta per la collottola e la rimette per terra, ripetendo a Bill l’invito ad avvicinarsi.
- Sarai tutto pieno di peli… non voglio venire.
- Ma non sei mica allergico…
- Non voglio venire lo stesso.
Bushido fa per avvicinarsi e Bill si fa piccolissimo nel proprio angolo. A quel punto, all’uomo non resta che alzarsi ed andare via, Bill lo sa. In genere, quando fra loro si arriva ad un punto morto simile, Bushido si allontana ed attende che gli sbollisca la rabbia, e le cose si risolvono in questo modo.
Bushido, effettivamente, si alza. Ma non va via.
Si spiega davanti a lui, inginocchiandosi proprio di fronte al divano – mentre la gatta, dalla propria cesta nell’angolo, lo fissa con disapprovazione – e lo guarda seriamente.
- Mi perdoni? – chiede, senza neanche informarsi sul perché dovrebbe essere arrabbiato.
E questo è anche più irritante.
Bill sferra un calcio all’altezza della sua spalla, ma Anis è svelto a tirarsi indietro ed evitarlo con un “woah” di pura sorpresa.
- Lo sai perché sono arrabbiato?! – strilla inviperito, alzandosi in piedi mentre Bushido lo scruta in un misto di stupore e irritazione, - Eh?! Lo sai?!
- Per il gioco! – risponde Bushido, alzando a propria volta la voce e piantando le mani sui fianchi.
- No! – risponde Bill, imitando la sua posa e sporgendo un fianco, - Perché, nonostante io ti avessi chiesto di essere serio, hai continuato a rompere i coglioni! E questo è ben diverso! Ma a te non importa dei perché, tu chiedi scusa solo per farmi stare zitto! – constata amaramente, voltandogli le spalle e dirigendosi speditamente in camera da letto.
Bushido gli va dietro e lo afferra per un polso, bloccandolo sul posto.
- Ehi, ehi, adesso calmati, okay? – chiede, tirandoselo vicino e stringendolo in un abbraccio a caso. Dopo quasi un anno, Bill gli abbracci di Anis li conosce tutti a memoria. C’è quello caloroso ma amichevole, c’è quello delle donne – che è sempre uguale, sia sua madre o la moglie di suo fratello o la nuova fidanzata di Chakuza, non cambia – c’è quello di un attimo prima che ti chieda di fare l’amore, c’è quello consolatorio, ce ne sono un sacco, perché Anis è bravo ad abbracciare e ci mette sempre dei sentimenti diversi.
Adesso, però, Anis non ha la minima idea di come dovrebbe abbracciarlo – dovrebbe farlo come se gli dispiacesse davvero, ma non gli dispiace, perciò è impossibile – e quindi sembra solo… un abbraccio a caso. Del tutto inutile.
Bill si separa da lui con uno strattone secco e deciso.
Anis rimane immobile e non riprova ad abbracciarlo. Bill lo osserva mordersi incerto il labbro inferiore e sospira, dandogli le spalle e ricominciando a camminare verso la camera da letto. Una volta lì, si lascia andare sul letto con un soffice sbuffo d’aria che gli riempie i polmoni del profumo buono delle lenzuola lavate di fresco, e chiude gli occhi, stringendo le dita attorno al cuscino.
Rimane immobile fino a quando al profumo del cotone non si sostituisce il profumo di Anis.
- Oggi è il mio compleanno e tu sei stato irritante tutto il giorno. – lo rimprovera cupamente l’uomo, distendendosi al suo fianco e fissando il soffitto. Il gladiolo è sul comodino, Bill riesce a intravederne i petali oltre il suo corpo.
Socchiude gli occhi ed aggrotta le sopracciglia.
- Non è vero.
- Sì che è vero. – comincia ad elencare lui, - La prima cosa che mi hai chiesto stamattina era se dopo tutto il sesso che avevamo fatto stanotte avrei finalmente licenziato Karima. Poi ti ho chiesto di farmi il caffè e-
- Ma non lo so fare!
- …non hai nemmeno chiesto a Karima di farlo al posto tuo. Te ne sei andato in bagno e ne sei uscito solo quando-
- I miei capelli avevano bisogno di cura! – si lamenta lui, sconcertato, - Me li hai tirati, stanotte!
- E tu non ti sei lamentato, mentre lo facevo…
- Ma perché non era il momento adatto!
Rimangono interdetti a fissarsi, e questi sono i momenti in cui Bill pensa con terrore che ci sono cose di Anis alle quali non riuscirà mai ad abituarsi. Ma proprio mai. E questo lo spaventa, perché vuol dire che probabilmente ci sono anche delle cose di lui alle quali nemmeno Anis riuscirà mai ad abituarsi. Ed è triste, è orrendo e fa paura, perché lui Anis lo ama e sa che Anis lo ricambia, perciò il solo pensiero che potrebbero davvero arrivare a lasciarsi per un’incomprensione come questa è semplicemente troppo per-- per…
- Sei veramente arrabbiato? – chiede Anis, scivolandogli sulla guancia col dorso della mano tatuata.
Bill socchiude gli occhi ed annuisce lentamente.
- Mi dispiace. – ripete Bushido. – E stavolta so anche perché. – aggiunge con un mezzo sorriso.
Bill si scioglie in un mugolio esausto e gli salta letteralmente addosso, stringendolo attorno alla vita e nascondendo il volto contro il suo petto. Bushido lo accoglie con la solita risata bambina, ma sentirla tremare fin dentro al cuore è molto più dolce che sentirsela arrivare come una dimostrazione di scherno.
- Sei stancante… - commenta, sollevandosi a baciarlo sul tatuaggio sul collo.
- Tu, invece, sei facile da gestire come un tavolino richiudibile dell’IKEA. – risponde Bushido tirandolo più in alto per rubargli le labbra, - Ma ti amo lo stesso.
Bill gli sbuffa qualcosa in bocca ma non protesta quando Anis gli si stringe contro e ribalta le loro posizioni sul materasso.
- Ehi, ma io ti devo ancora chiedere una cosa. – si ricorda quando le labbra di Bushido scendono a lambirgli il collo.
L’uomo lo guarda e sorride pericoloso.
- Se indovini il nome a cui sto pensando adesso, okay.
Bill ringhia, ma non è veramente irritato. Aggrotta le sopracciglia e mette su il broncio d’ordinanza, ma si ferma un secondo a scrutare nelle profondità degli occhi di Anis e poi si scioglie in un mezzo sorriso un po’ stupito e un po’ divertito.
- Ma non stai pensando a nessun no-
Non riesce a terminare la frase perché Anis ride e lo bacia prima che possa. Bill ride con lui, si ridono fra le labbra per un sacco di tempo, fino a quando qualcosa non scivola fra i capelli di Bill e va ad incastrarsi dietro la conchiglia del suo orecchio.
- Cosa…? – biascica confuso. Il gladiolo gli solletica lievemente una tempia. – Serviva a questo?
Bushido ride.
- Per la verità pensavo che avresti potuto accorciarlo e sistemarlo per bene all’occhiello del completo che pensavi di mettere stasera.
Bill lo fissa.
- Il…
- Sì, l’hai lasciato appeso là. – suggerisce Bushido, indicando l’anta aperta dell’armadio dalla quale pende una cruccia che regge il gessato grigio che pensava effettivamente di indossare quella sera per la festa. – Oltretutto, non hai un fratello molto bravo a nascondere i segreti. – continua l’uomo con una mezza risata, - O meglio: dovresti dirgli che non si chiama in casa d’altri strillando “Il Matrix è una figata e tu sei un Dio ad aver prenotato proprio lì!”… almeno se non si è sicuri di chi ci sia dall’altro lato della cornetta.
Bill grugnisce un lungo lamento indispettito. I pensieri mortiferi ritornano, ma stavolta cambiano obiettivo ed anche modalità – sarebbe divertente provare a soffocare Tom con una delle sue odiose magliette. O con uno dei suoi dread. O, chissà, magari fargli lo scalpo.
- Allora lo sapevi già… - mugugna nascondendosi contro il suo collo.
- Già. – conferma Bushido baciandolo su una guancia e stando attento a non rovinare il fiore.
- Ecco perché non ti interessava la domanda… - borbotta ancora lui, - Ma perché mi hai chiesto cosa volessi mangiare, se lo sapevi?!
Bushido ghigna.
- Per infastidirti, mi sembra ovvio!
- …Anis!
L’uomo si alza in piedi e fa per dirigersi verso il salotto.
- Dove credi di andare?! Anis!
- Non è questo il nome. – scrolla le spalle, senza fermarsi, - Solo un tentativo rimasto!
- Ehi… ehi!!! Non puoi andartene così! Anis! Stronzo!!!
Titolo originale: id.
Autrice: bleepbloopbanana
Genere: Introspettivo, Romantio.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Violence (lieve), Slash, Traduzione.
- Bushido viene picchiato e deve consolare Bill. ...cosa c'è di strano in questo?
Note: Ma ciao *_* Mi era così mancato il fluff di Banana T___T A voi no? E poi il suo Bushido è La Tenerezza ed Il Lol, sul serio X’D Ha questo vizio di perdersi senza rimedio all’interno della propria testa, che è un groviglio, ammettiamolo, ed è semplicemente delizioso X3
Tradotta in due giorni – il secondo dei quali ha visto una sessione di traduzione cominciata all’una e un quarto e terminata mezz’ora dopo circa – soltanto perché so che Fedy non vuole pubblicarsi addosso. Ed io invece voglio la terza PWP del ciclo di Leatherpants, perciò, figliola, ora non hai più scuse XD Pubblica!
E voi amate questa storia palesemente amore e lasciate tanti commenti, che poi Banana li vuole tradotti u.u
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PAINKILLER

Bushido sputa la birra dalla propria bocca alla lattina dalla quale l’aveva presa, quando la porta della sua camera d’albergo si apre per mostrargli un Bill Kaulitz dall’aspetto semplicemente esausto. Tossisce e sputacchia un po’ intorno e poggia velocemente la lattina sul tavolo prima di fare qualcosa di ancora più imbarazzante tipo riversarsene il contenuto addosso.
- Bill. – dice mandando giù un altro colpo di tosse e cercando di mostrarsi composto, - Questa sì che è una sorpresa.
Ciò che realmente vorrebbe dire è “cosa cazzo ci fai qui?” e “chi diamine ti ha fatto entrare?”, ma conosce già la risposta, almeno alla seconda domanda. Le sue bodyguard sono affezionate a Bill quanto lo è lui, e non altrettanto brave a nasconderlo, purtroppo.
- Voleva esserlo. – Bill entra nella stanza e chiude la porta con un colpo di tacco. – Non avevi alcuna intenzione di dirmelo, vero?
- Non dovresti avere un concerto a Parigi in questo preciso istante? – è una patetica scusa per evitare il discorso, e Bushido si giustifica con se stesso dicendosi che stava giusto cominciando a stare meglio e Bill ha rovinato tutto sorprendendolo e tirandolo fuori da quello stato di grazia. Si volta un po’, quanto può prima di sembrare uno col collo deforme, di modo che il largo livido viola che corre dalla guancia alla mandibola non sia così evidente.
Bill gira attorno al divano fino a fronteggiarlo e Bushido si chiede se sia il caso di sollevare distrattamente una mano e coprire il livido ala vista. Poi nota il tremito praticamente invisibile del labbro inferiore del proprio amante e butta il pensiero fuori dalla finestra.
- Non fare così. – sospira, afferrando Bill per la cintura ed avvicinandolo a sé finché le loro ginocchia non cozzano le une con le altre, - Sto bene.
Una mano perfettamente curata si solleva ad accarezzare l’aria sopra la sua pelle; Bushido la cattura e la porta alle labbra.
- Non sembra che tu sia bene.
- Sembra peggio di com’è. – prova a convincerlo, e quando le sopracciglia corrugate di Bill non si distendono Bushido maledice il non avere mai imparato come si rassicurino le persone. Bill lo fissa negli occhi nello stesso modo in cui faceva sua madre quando voleva capire se stesse mentendo o meno, e ci vuole un gran sforzo da parte sua e più di un po’ di forza d’animo per riuscire a reggere quello sguardo. Quando Bill prende fra le dita l’orlo della sua camicia, Bushido neanche prova a fermarlo.
Il rantolo strozzato che fuoriesce dalle labbra di Bill quando nota la grande macchia violacea sul suo petto lo fa trasalire. La mano di Bill si sposta sulle labbra e i suoi occhi si spalancano saettando dal suo petto al suo viso, e Bushido decide di provare di nuovo con la cosa del conforto.
- Davvero, non è così grave. – si schiarisce la gola e poi si dà un colpetto al livido, come per provare la veridicità di ciò che sta dicendo. – Visto?
Bill serra le labbra e sfiora gentilmente il gonfiore. Il livido è così ampio che tutta la sua mano bene aperta non riesce a contenerlo tutto, anche se spiega le dita. È calda e soffice sotto il suo palmo, e Bill fa scivolare la mano in ciò che può essere inteso solo come una carezza. Il contrasto fra le sue dita pallide e lunghe e la pelle scura del suo petto fa tremare qualcosa dentro Bushido.
- Come l’hai scoperto?
Bill lo accarezza con cautela, i polpastrelli che scorrono appena sulla sua pelle, e Bushido capisce improvvisamente cosa intende la gente quando parla di farfalle nello stomaco. Anche se, da ciò che sta sentendo volare là sotto, scommetterebbe sul fatto che ci sia qualche enorme uccellaccio, piuttosto che farfalle.
- David ci ha mostrato il filmato. E ci ha fatto tutta una enorme paternale sulla sicurezza sul palco. – risponde quietamente Bill, e Bushido si prende un momento per pensare “cazzo, c’è un filmato?” prima di fissare l’attenzione sui lineamenti tesi e lo sguardo stanco di Bill. C’è qualcosa che non torna nell’immagine; è tutto un po’ sfocato, e ci vuole un po’ perché la sua mente non così lucida si rimetta in moto abbastanza da capire cosa. Potrebbe darsi un cazzotto da solo per non averlo capito prima.
Bill non sta sorridendo.
Lo tira a sé, fra le proprie braccia ed immediatamente sul proprio grembo, baciandolo appena apre la bocca per dar voce ad una lamentela. Sente dolore su tutto il corpo, e la sensazione delle labbra di Bill sulle sue rende tutto ancora più intenso, ma il modo in cui si dimena e cerca di scappare è così dolce che Bushido non può che stringerselo contro con più decisione. Bill è sempre un ottimo anestetico, pensa mentre cerca di trattenere la propria lingua dal ricadere e immobilizzarsi.
La birra e gli antidolorifici lo fanno sentire un po’ stordito, che era esattamente ciò che voleva, ma rendono anche difficile baciare con la bravura che lo contraddistingue di solito. Al momento sospetta fortemente di stare sbavando un po’ ovunque nella bocca di Bill, ma dai soffici suoni compiaciuti che il ragazzo emette Bushido intuisce che la cosa non deve infastidirlo granché.
Bill si separa da lui con uno schiocco bagnato, e la sua espressione inebetita gli fa gonfiare un po’ il petto con orgoglio. È una bella scossa al proprio ego, sapere di potergli ancora rubare il fiato anche se è mezzo ubriaco e mezzo sedato. Si sporge per catturare ancora quelle belle labbra fra le proprie, ma Bill scuote il capo e lo spinge indietro.
- Ti è venuto addosso… - sospira, e sembra così disperato che Bushido quasi non riesce a riconoscerlo. – Ti ha… buttato a terra, e avresti potuto battere la testa e procurarti una commozione cerebrale-
Bill si interrompe con un suono strozzato e Bushido ha ancora abbastanza raziocinio da capire che non è proprio il momento di dirgli che in effetti la commozione se l’è procurata davvero. Gli strofina le braccia, invece, tracciando con la punta del naso la via fino alle sue clavicole, mentre Bill continua a parlare.
- A che cosa ti servono le guardie del corpo, comunque, se non possono proteggerti? Che cosa intendono fare la prossima volta che uno psicopatico prova a farti fuori? Lo… l-lui poteva spezzarti l’osso del collo-
- Ehi. – Bushido batte le palpebre, - Mi ha solo preso alla sprovvista. In un combattimento vero, quello stronzo non avrebbe avuto la minima possibilità contro di me.
Bill lancia una lunga occhiata al livido sul suo petto, che sembra starsi fottutamente espandendo.
- Ovviamente non hai visto tutto il “filmato”. – borbotta Bushido, offeso da una tale palese mancanza di fiducia nella propria prestanza fisica, - Altrimenti mi avresti visto dargli un cazzotto dritto in faccia. – uno, o anche due, tre, o una dozzina, pensa fra sé, ma giudica poco saggio dire a Bill che la security ha dovuto preoccuparsi più di tenere lui lontano dal ragazzo che non viceversa.
- Sei comunque ferito. – sussurra Bill, e tutto ciò che trattiene Bushido dall’uscirsene con un qualche commento sarcastico è la traccia di dolore che scorge nei suoi occhi.
- Sì. – dice invece, - Capita. Mi dai un bacio per farmi stare meglio?
Lo dice quasi per infastidirlo, e si sorprende quando invece viene fuori come una richiesta speranzosa ed intimidita dal bisogno. Bill affonda quegli adorabili denti sporgenti nel proprio labbro inferiore e, quando si avvicina, Bushido si aspetta una leccatina da gatto sulla guancia, di quelle che Bill gli concede quando ha voglia di giocare piuttosto che di farsi scopare. L’esitante strofinarsi delle sue labbra contro il livido affiora confusamente nella sua consapevolezza offuscata e, quando sente quelle labbra tremare, la sua pelle pizzica.
- Bill… - comincia, e si lascia andare ad una pausa insopportabilmente lunga quando lui guarda nella sua direzione, colmo di aspettativa. Cazzo, non ha la minima idea di cosa dovrebbe dire. La sua definizione di “conforto” è una virile pacca sulla schiena e un gioioso “non stare a pensarci”, ma qualcosa gli dice che non è esattamente il tipo di frase che Bill potrebbe prendere bene. Scarta dozzine di risposte nella propria mente e Bill continua a guardarlo, e si schiarisce la gola quando lo osserva chinare lievemente il capo, aspettando palesemente una qualche parola da parte sua.
Per un attimo accarezza l’idea di ripetere “sto bene”, ma Bill non gli ha già creduto la prima volta e non c’è nient’altro che ripeterlo ancora possa fare, se non farlo sembrare più ubriaco di quanto non sia in realtà. Potrebbe dire “avresti dovuto vedere quell’altro”, ma la curva delicata delle labbra tese di Bill gli suggerisce il ragazzo non sia dell’umore di prendere bene un po’ d’ironia. La sua mente palesa l’opportunità di un “ti amo”, ma Bushido scarta immediatamente l’ipotesi. Non lo dice così spesso, ma quando lo fa è perché lo intende, ed usarlo come una distrazione renderebbe quella frase qualcosa di disgustoso, qualcosa cui rifiuta di esporre Bill.
- Cosa? – Bill comincia a dare segni di affanno, e Bushido suppone non sia qualcosa di così ingiustificato, considerando che è rimasto lì seduto a fare “uuuh” per chissà quanto. – Che c’è? Stai bene?
- Sì. – riesce a gracchiare alla fine, - Adesso sì.
Fanculo le parole, decide quindi. Sono inutili quando può dire con un bacio tutto ciò che vuole esprimere e tutto ciò che Bill vuole sentire da lui. Perciò è questo, quello che va – intreccia una mano ai suoi soffici capelli neri e pressa la bocca sulla sua più soffice, sigillando la sua risposta.
Non c’è niente che abbia un sapore più dolce dell’arrendevolezza di Bill, e Bushido lo ricompensa con un bacio profondo quando lui riesce finalmente a rilassarsi fra le sue braccia. Lo ascolta mormorare nella sua bocca qualcosa che ricorda vagamente un “non possiamo”, ma la sua mente semplicemente si rifiuta di registrare espressioni come “non possiamo” o “non dovremmo”.
Sfila a Bill la gialla e la getta da qualche parte dietro al divano. Urta qualcosa che, dopo l’impatto, cade a terra con un tonfo, ma è troppo impegnato a sbucciare Bill della camicia ed a posare baci umidi e succhiotti sul suo petto per interessarsene. Bill gli si agita in grembo quando i suoi denti si chiudono attorno ad un capezzolo, e squittisce quando lo morde reprimendo il bisogno di grugnire di dolore.
I pantaloni richiedono qualche manovra in più per essere sfilati, e Bushido riesce a farli scendere fino alle ginocchia di Bill prima di arrendersi. Bill sta già ansimando e si sta già lasciando andare a quei soffici mugolii che gli piacciono tanto, e Bushido non riesce a smettere di toccarlo, stregato dal modo in cui gli si agita contro e poi cerca di fermarsi per paura di fargli male.
Vuole veramente ma veramente scoparselo, a quel punto, vuole rovesciarlo sul divano ed affondare nel suo corpo e farlo venire, ma le sue spalle e più o meno tutta la parte superiore del suo corpo strillano di dolore al solo pensiero. Improvvisa velocemente, ed è quasi sul punto di chinarsi e prendere l’eccitazione già mezza gonfia di Bill fra le labbra quando la sua mascella si unisce alla brigata anti-sesso e finisce per pressare il viso contro un ventre piatto e pallido, lamentandosi.
- Cosa? – sussulta Bill, - Oddio, cosa c’è che non va?
“Non penso che potremo fare sesso, perché ho paura di stare per svenire” non sembra una risposta accettabile, perciò Bushido non fa altro che sollevarsi e baciarlo ancora, rammaricandosi di non aver preso qualche antidolorifico in più così da poter rispondere con un “niente” senza dover per forza mentire. Bill si tira indietro con violenza ed evita un ulteriore tentativo di distrarlo con un bacio piegandosi di lato.
- Ti fa male? Oddio, ti sto seduto addosso, ovvio che ti fa male-
- No. – la parola viene fuori in un colpo di tosse e Bushido si ritrova terrorizzato di fronte all’espressione orripilata del viso di Bill. – È solo che… che… torna qui.
Riesce a riprendere Bill proprio quando lui è sul punto di saltare via e non può reprimere un grugnito di dolore quando il ragazzo atterra dritto sul suo petto. Bill soffia come un gatto e si rialza in piedi, con la tipica espressione di uno che non sa se dovrebbe affrettarsi a fargli le coccole o colpirlo sulla testa.
- Piantala!
- Sto bene. – insiste Bushido, provando a baciarlo ancora e ringhiando quando si ritrova rudemente rifiutato, - Sto bene e ti voglio, e se tu smettessi semplicemente di continuare a muoverti-
- Non sono venuto qui per il sesso!
- Ma visto che sei qui…
Bill rimane immobile sul suo grembo e lo guarda dall’alto in basso con più serietà di quanto Bushido sia in grado di sostenere già da sobrio, figurarsi adesso.
- Volevo semplicemente assicurarmi che tu stessi bene.
- Sto bene. – replica, - Sei qui.
- Ero spaventato. – ammette Bill, sistemandosi al suo fianco e spostando tutto il proprio peso sulle ginocchia, - Quando ho visto cosa è successo ho pensato- …a cosa sarebbe potuto accadere…
- Non è successo niente. – Bushido sospira e lo bacia dolcemente per impedirgli di protestare. – Stanotte resti qui. – non è una domanda, ma Bill risponde comunque con un altro bacio. Dura una lunga serie di minuti e ne passano un po’ anche a strofinare naso contro naso e viso contro viso, e poi Bill sfila i pantaloni e si distende sullo spazioso divano, spostandosi fino al bordo per fargli spazio.
Bushido si sistema cautamente al suo fianco e sistema il capo di Bill sotto il proprio mento; la sensazione del respiro di Bill sulla pelle del suo collo lo fa già sentire assonnato.
- E domani, puoi giocare a fare l’infermierina. – mormora fra i suoi capelli, ghignando sul sorriso che Bill cerca di nascondere.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Slash, Violence.
- Il circolo vizioso di un desiderio indecente e inesauribile.
Note: Okay XD È un disastro e me ne rendo conto da sola, perché non è abbastanza densa e non è abbastanza spiegata, suppongo. Probabilmente le manca qualcosa, il punto è che io non saprei cos’altro aggiungerci, perciò, insomma, penso resterà un figlio nato a metà, così. Non che sia incompleta XD È conclusa, ma probabilmente non me la sono gestita bene.
È figlia di un bisogno, questa storia. Fondamentalmente del mio bisogno di buttar fuori un po’ di cattiveria. Puntualmente mi capita, e quindi escono cose come questa, che sono sullo stesso filone di cattiveria gratuita di storie che conoscete benissimo e che per certi versi sono un po’ il mio segno distintivo nel fandom, perché le oneshot così, un po’ crude, un po’ disilluse, sono una cosa che sento molto mia. Questa è più piccola e meno, forse, consistente rispetto alle altre, ma batte su un tema che mi è caro, è che è quello della sostituzione affettiva.
Tra l’altro il fandom è un po’ fissato sull’idea del “vado con Bushido perché non posso avere mio fratello”, volevo provare a ribaltare i ruoli e vedere che ne veniva fuori.
A voi decidere se ho fatto bene o male XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
TEUFELSKREIS

Tom è bellissimo. Tom è un maschio. Tom mi prende come un maschio.
Questi sono i tre motivi per i quali mi lascio scopare da mio fratello, punto. E lo faccio, oh, sì, lo faccio, ma non c’entra l’amore e non c’entra neanche l’attrazione fisica. Soprattutto, non c’entra il piacere, perché non è ciò che vado cercando.
Cercherò di essere chiaro, anche se so che maggiore è la chiarezza maggiore è anche la schiettezza. E maggiore è la schiettezza, maggiori sono le possibilità di tirarti addosso l’odio universale. Nessuno vuole sentirsi dire la verità. Io, però, la dico lo stesso, perché sono costretto a mentire così spesso e per così tante cose, nell’ambito privato e professionale della mia vita, che trattenermi anche di fronte allo specchio mi sembrerebbe allucinante, oltre che molto stupido. D’altronde, le confessioni uno può farle solo così: in solitaria. Se non vuole vedersi sfumare attorno la felicità come un miraggio, s’intende.
Io voglio bene a Tom. Sarebbe impossibile non volergliene, per me, per tutte le ragioni che vado sbandierando in giro e che sono completamente sincere, perché voglio bene a Tom in maniera così assoluta da non potere mentire a riguardo.
Gli voglio bene così tanto da potere mentire a lui, però.
Tom, oltretutto, è un ragazzo delizioso. Te ne accorgi quando lo vedi, quando gli parli, perfino quando entra nella stanza; tutto intorno a lui brilla perché Tom è positivo in maniera quasi insostenibile. Ride sempre, è sempre pronto a fare qualcosa, sempre pronto a mettersi in gioco. È una persona meravigliosa. E con me è sempre gentile.
È del tutto impossibile non volergli bene, davvero.
Ma non mi piace. Non è la persona che sogno la notte. Non è la persona che vorrei mi stringesse, anche se da lui mi lascio stringere.
Mi lascio stringere per tre motivi, che sono quelli di prima.
Tom è bellissimo, ed io non mi concedo mai meno del meglio.
Tom è un maschio, ed è un maschio ciò che voglio, anche se non è lui.
E Tom mi prende come un maschio, soprattutto. Mi prende e mi fa male esattamente come un maschio.
Esattamente come farebbe lui.
Ma lui non lo fa.
Per lui esisto solo come una specie di complemento d’arredo, una cosa che può usare finché gli torna comoda ma smette di avere un’incidenza nella sua vita nello stesso momento in cui gli toglie gli occhi di dosso.
E perciò, siccome lui non mi prende, io mi faccio prendere da Tom.
Non sarei potuto andare da nessun altro, questa è la mia scomoda verità. Io non sono davvero così sexy. Nessun maschio mi salterebbe addosso nel vedermi andare in giro come vado di solito quando sono in casa o quando vago per strada in incognito. Nessun maschio mi salterebbe addosso neanche se mi trovasse nudo sulla soglia della propria camera, temo. Perché io non sono veramente sexy, io sono una maschera di inchiostro creata ad uso e consumo di ragazzine innamorate di un’idea che con me non c’entra niente. L’idea di un mistero.
È sempre stato così. Fin da quando ero minuscolo, ho sempre desiderato che le persone – tutte – mi trovassero in qualche modo attraente. Disturbante, forse, d’accordo, ma io volevo addosso gli sguardi. Era quello il mio obiettivo principale. E non ho mai fallito, in questo senso.
Non era una questione di sessualità. Era una questione di orgoglio. Io ero io e dovevo essere riconosciuto come tale da chiunque. Oppure non ero niente.
Questo è rimasto, per me. David, poi, mi ha limato e perfezionato e reso più accessibile, vendendo di me un’immagine che batteva sul sesso, perché è questo che si vende oggi, ma io non sono davvero sexy. Non lo sono mai stato. Strano. Non sexy. Io. Non sexy.
Avessi anche solo provato ad andare da Georg o da Gustav, avrei preso probabilmente tutte le botte che in questi anni mi sarei meritato per motivi vari ed eventuali e che loro, per bontà e spirito di sacrificio, non mi hanno mai rifilato.
David non era un’opzione, naturalmente.
Se fossi andato da Andreas, mi avrebbe sgamato con la velocità di un fulmine.
Da Tom potevo aspettarmi esattamente la stessa cosa, ma Tom, contrariamente ad Andreas, non è in grado di dirmi no. Ed è esattamente su questo che ho fatto affidamento fin dalla prima volta.
“Tomi, non puoi dirmi no. Non puoi rifiutarti. Ne ho bisogno. Ho bisogno di te, Tomi, ho bisogno di sentirti adesso”.
Una recita perfetta.
E no, non me ne vergogno, vaffanculo, e neanche me ne pento.
Perché ne avevo bisogno davvero. Non di lui, forse, ma lui era tutto ciò che avevo, in ogni caso. Ho imparato presto, facendo questo mestiere, il valore della rassegnazione, dell’accontentarsi di ciò che già si ha. Dell’inseguire il sogno, sì, ma solo fino a quando il sogno non mostra la chiara intenzione di ucciderti. A quel punto, chini il capo e mandi giù.
Io ho chinato il capo. Ho mandato giù Tom.
Non era il sapore che cercavo, ma non era nemmeno un brutto sapore, in realtà.
*
Mio fratello non mi capisce, quando gli grido di spingere più forte. Quando mi aggrappo spasmodicamente alle sue spalle, quando stringo le cosce attorno ai suoi fianchi, quando mi abbatto con violenza su di lui, quando chiudo i denti sul suo collo e mordo come volessi spezzarlo in due, lui non mi capisce e si spaventa. Mi chiede se c’è qualcosa che non va, se mi sta facendo male, se non mi sento a posto.
Io vorrei semplicemente che mi sfondasse. Così, senza pensieri. Che mi spaccasse dentro. Che si facesse sentire fino nello stomaco, nei polmoni, nella gola, nel cervello. Vorrei solo questo.
Perché non so quante volte ho immaginato che al suo posto potesse esserci lui. E, nelle mie fantasie, lui sarebbe esattamente così. Violento e cattivo. Mi farebbe male. Mi farebbe male fin dentro.
È questo ciò che vorrei.
Tom riesce a darmelo solo se lo imploro.
Per me non è un problema. Implorare, dico. Ho implorato anche lui, ma lui, al contrario di Tom, mi ha spezzato il cuore. E questo è successo solo perché io sono il classico stupido che quel muscolo inutile te lo mette in mano anche quando non lo chiedi. Soprattutto quando non lo chiedi.
Io, lui, non ho avuto neanche bisogno di conoscerlo, per mettergli in mano il mio cuore. Dall’alto della mia colossale idiozia mi sono convinto di interessargli davvero. Non per i flirt televisivi o le dichiarazioni gettate al vento quando non ero lì, e nemmeno per gli abbracci e le occhiate languide quando c’incontravamo sul palco.
Ho confuso le luci scure che gli danzavano negli occhi durante gli afterparty per dichiarazioni. Ho confuso il tocco casuale della sua mano in mezzo alla folla per un attestato di desiderio. Ho confuso la gentilezza di un passaggio a casa per un invito a chiedere di più.
Ho confuso il niente col tutto, in poche parole. Ed è una cosa che capita spesso, quando t’innamori senza speranza.
Io non so esattamente di cosa sono innamorato. Se del fatto che lui mi piaccia o se del fatto che m’ero illuso di piacergli anch’io. Non so nemmeno se sia lui il mio obiettivo, non so se trovo attraente la curva della sua schiena o la linea delle sue braccia o la forza delle sue mani o l’intensità del suo sguardo, non lo so. Ci ho perso gli occhi a furia di guardarlo, quello sì, me lo sono impresso nella mente come un marchio a fuoco, anche, riconoscerei il suo profilo fra mille solo perché ormai lo conosco a memoria, d’accordo, ma non so se sia amore.
È una spinta violenta, è irrazionale, mi prende e mi strazia, quando mi assale non va via se Tomi non la butta fuori a calci facendosi strada di prepotenza dentro il mio corpo.
Se questo è amore, fa schifo davvero.
Io, comunque, ho implorato. Ho implorato perché non mi riportasse a casa, ho implorato perché mi tenesse con lui e gli ho rubato un bacio che è stata l’unica cosa che sono stato in grado di prendermi prima di vedermi letteralmente scaraventato fuori dalla BMW col fiatone, i capelli scomposti ed il gelo umidiccio del marciapiedi a filtrare attraverso il tessuto leggero dei jeans estivi.
Ho sbagliato, a prendermi quel bacio.
Su ciò che non sai puoi fantasticare.
Quello che conosci lo usi come termine di paragone, purtroppo.
E Tom ci prova, ma le sue labbra non sono mai abbastanza calde. I suoi fianchi non sono mai abbastanza forti. Le sue spalle abbastanza larghe o la sua pelle abbastanza ruvida.
Non c’è davvero niente in lui che possa ricordarmi ciò che voglio. Io chiudo gli occhi e inghiotto, inghiotto, inghiotto, perché il sapore non è quello ma almeno è un sapore. Perché posso accontentarmi, in fondo, e quando Tom spinge abbastanza forte un po’ ci credo. Stringo forte le palpebre e ci spero. Che ci sia lui fra le mie cosce, che ci sia lui sul mio petto, che ci sia lui fra le mie dita.
Odio dover aprire gli occhi sul respiro mozzo di mio fratello, le mani perse fra i suoi capelli e le gambe indolenzite intrecciate alle sue. Odio aprire gli occhi ed accorgermi che è un falso. Che mi sono dato a un falso. Mi sono concesso a un falso. Mi sono svenduto a un falso.
Io non ho idea di cosa passi per la mente di Tom quando mi scopa.
Io non lo voglio sapere.
Non è affar mio.
Ed è il motivo per cui non gli dico cosa passa per la mia quando imploro una spinta più profonda.
Lui è solo mio, almeno nella mia testa. Tom non deve vederlo. Non deve neanche immaginarlo, oppure io lo perdo. Perdo entrambi. Perdo lui che mi scivola via dai sogni e perdo Tom che mi scivola via dal cuore.
Certi segreti vanno custoditi. Certi segreti fanno semplicemente troppo schifo per essere rivelati.
*
Sono un caso disperato, me ne rendo conto.
- Stai bene, cucciolo?
Il mio è proprio un classico caso di circolo vizioso.
- Sì.
Senza uscita. Perché io non voglio trovarla.
- Sei pallido…
La mano di Tom scende dalla mia fronte alla mia guancia, e la stringe lievemente fra le dita prima di chinarsi a baciarmi sulle labbra.
Tom mi bacia perché questo è il suo modo di scusarsi per avermi fatto male.
Io mi lascio baciare perché questo è il mio modo di perdonarlo per non avermene fatto di più.
- Sto bene. – lo rassicuro tirandomi seduto. In realtà ho tutti i muscoli indolenziti e mi fa un po’ male la schiena. Oggi Tomi è stato quasi bravo. Mi chino su di lui e gli sfioro una guancia con le labbra. – Ti amo… - mormoro ad un millimetro dalla sua pelle, e lui si irrigidisce. – Grazie.
Tom si copre gli occhi con l’avambraccio.
- È la prima volta che me lo dici mentre non lo stiamo facendo. – commenta secco, le labbra tese.
Io sorrido.
- Volevo dirti qualcosa di carino. – spiego tranquillamente.
- Io non sono stato carino. – constata lui abbassando il braccio e portando una mano a sfiorare i segni rossi che mi ha lasciato sui polsi mentre li teneva stretti sopra la mia testa, esattamente come gli avevo chiesto. – Guarda qui…
Io sollevo i polsi per guardarli più da vicino. I segni delle dita sono un po’ troppo sottili per ricordarmi i suoi, ma…
- …sono belli. – annuisco con un sorriso. – Così mi resterai addosso fino a domani, no?
Lo sto prendendo in giro. È una cosa orrenda. Sono una persona orrenda.
Tom sorride appena, socchiudendo gli occhi.
- Io ti amo, Bill. – confessa alla fine, sedendosi al mio fianco e sporgendosi a baciarmi sulle labbra.
È tenero.
- Anche-
- No. – mi ferma lui, scuotendo il capo, - Io ti amo. Perciò… va bene. Okay? Non chiedermi più di farti male, io… l’ho capito. D’accordo.
Abbasso lo sguardo, perché non ho altro da fare. Perché mi sento in colpa e mi sento anche felice, ma non riesco a stabilire le quantità, la misura della gioia e la misura della tristezza. È tutto confuso.
- Posso farti male a modo mio. – continua Tom, chinandosi sul mio collo e stringendone teneramente la pelle fra i denti, - Se me lo permetti.
Ed è esattamente quello che non voglio. Non voglio che sia il modo di Tom. Non voglio che sia Tom. Non m’interessa che sia Tom, io voglio un fratello da cui farmi perdonare, non voglio un innamorato che assecondi i miei capricci. Io volevo un pupazzo vuoto che mi si spingesse contro nel letto e poi volevo braccia calde che mi consolassero una volta che il desiderio fosse sparito e mi fosse rimasta in corpo solo la voglia di piangere e urlare. Io non volevo perdere Tom.
Io volevo Bushido, cazzo, cazzo, io volevo Bushido, vaffanculo, e lo voglio ancora.
Mi separo da lui e scivolo sul materasso, fra le lenzuola, rimettendo i piedi a terra.
- Ci vediamo domani. – borbotto senza guardarlo, recuperando i vestiti e dirigendomi svelto verso la porta.
Tom non aggiunge niente. Posso sentirmi addosso il suo sguardo smarrito e mi fa male tanto che vorrei morire adesso.
È tutto sbagliato.
Sono tutto sbagliato.
La mia recita perfetta s’è sfaldata fra le mie mani e non mi resta neanche la polvere. Non mi resta niente. Da questo disastro io non uscirò più.
E forse adesso un po’ mi vergogno, sì. E mi pento, anche.
Scritta con Ross.
Genere: Comico, Demenziale.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Language, Slash.
- Bushido sente le persone cantare. Bushido sente le cose cantare. Bushido sente suo cugino cantare. Il problema è uno e uno solo: tutto cerca di convincerlo ad andare a letto con Bill Kaulitz.
Note: Allora… cioè, che io e Ross siamo fuori neanche come balconi, ma come mutande stese, mi pare sia pacifico XD Cioè, non siamo normali. Ma voi invece lo siete, perciò vi meritate un minimo di spiegazione, mi pare logico. Per quanto logica possa essere io adesso, visto che mi sono addormentata alle quattro del mattino.
Allora. Eli Stone è un adorabile telefilm dell’ABC che ha cominciato ieri la propria trasmissione italiana su Fox. La storia è quella di Eli, appunto, che un giorno, all’improvviso, comincia ad avere delle strane visioni. Cori di bambini che cantano, appunto, e simili demenziali amenità. Il nostro lavora come socio anziano in un importante studio legale, e da quando una visione di George Micheal che canta nel suo salotto lo coglie la sua vita non è più la stessa. Le sue visioni hanno lo scopo di indicargli quale caso sia più giusto patrocinare *annuisce* Chiaro, no?
Ora, nel telefilm dietro c’è un motivo. Ma io e Ross, nel nostro delirio di ieri sera, mentre guardavamo e commentavamo lo show, abbiamo deciso amabilmente di ignorarlo perché la semplice e sola idea che la gente (e le cose!) attorno a Bushido potesse cantare per rivelargli che il suo destino era scoparsi Bill Kaulitz era… semplicemente troppo bella per non buttarla giù.
E così è nata questa follia. Ne abbiamo scritto un pezzo l’una fino alla fine, perciò non posso neanche stare qui a dire cosa è mio e cosa è suo. È tutto un gioioso delirio. E quando la madre di Bu chiede a Bu di seppellire i mocassini sull’Himalaya, è una gioiosa citazione del telefilm, in cui Eli va appunto a spargere le ceneri del padre sul suddetto monte XD
E questo è quanto, suppongo.
Per la neurodeliri: lo facciamo apposta. Non siamo veramente pazze. Non abbiamo bisogno di assistenza. E non siamo sotto l’effetto di nessuna droga. È solo che sentiamo le persone cantare :D…
PS: Il titolo è la parodia del famoso "I see dead people" di SestoSensiana memoria *annuisce*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I SEE SINGING PEOPLE

Io sono un rapper.
Io sono un rapper, ed in quanto tale ascolto musica rap.
Ascolto solo musica rap, perché mi tocca pure tenermi informato. Su cosa va al momento. Sugli argomenti di discussione più attuali. Sull’invenzione di nuove parolacce. O sugli insulti che i miei più cari ex-compagni mi inviano tramite canzoni di dubbio gusto.
Io sono un rapper ed ascolto rap. Solo musica rap.

Qualcuno mi spieghi perché, in questo momento, in una stanza che dovrebbe essere insonorizzata e soprattutto vuota a parte me, un coro di bambini vestiti come piccoli 50 Cent più magri e meno cazzuti stanno continuando a cantare gospel sulla mia situazione sentimentale.

Chiudo gli occhi una volta, due, tre. Ma se posso impedire a quei piccoli cretini di inquinare la mia retina con sdilinquenti immagini da chiesa battista, una cosa che non posso fare è impedire alla loro musica da strapazzo di sfondarmi il cervello. Solo musica rap, cristo, solo musica rap! Che cazzo è 'sta roba, ma soprattutto, chi cazzo li ha fatti emigrare qui?

Mi riprendo il dono della vista e li punto: li sfido. Loro, nella beata ingenuità che solo dei piccoli incoscienti coristi possono avere, cantano, ballano e ridono. Di me, è palese.
M'infilo le cuffie e sparo al massimo il nuovo successo di Sido, che cazzo, sarà pure un coglione con i controfiocchi, ma la musica - lui!, mica i coristi! - la sa fare. Mi perdo nelle prime note dissonanti e gongolo con calma quando m'accorgo che no, la voce non è quella di Sido e che no, non è nemmeno una sola voce. Ma smetteranno mai di cantare? E perché le cuffie non funzionano? Cazzo!

Sbatto le cuffie con rabbia sulla sedia e quando mi rigiro, è silenzio. Ed è il vuoto, perché i piccoli 50 cent hanno deciso che l'America è il paese dei sogni - mica la Germania, pezzenti! - e se ne sono andati via.

Chiunque sia stato la pagherà cara.

- Saad! - urlo dal corridoio. - Piccolo pezzo di merda, Saad! Dove cazzo li hai ficcati i tuoi bambinetti coristi? -
Il volto stravolto di mio cugino si affaccia dallo sgabuzzino. - E' un modo per chiedermi se ho qualche ragazzo per te? Mio dio, Atze, sei disgustoso! -

Ma che… - Coglione! - gli sbraito dietro. Rientro nella stanza, come pronto a lottare. Ma non c'è niente. Il vuoto.
… ho bisogno di una scopata. E' più che evidente.

Okay, cerchiamo di riassumere.
Fino a stamattina, io ero una persona assolutamente normale, per quanto normale possa essere uno con le mie origini, il mio modo di vedere la vita e la mia fedina penale. Però – giuro – sono pulito da mesi. Neanche un po’ d’oppio. Cioè, niente di niente. Ho tenuto chiunque lontano apposta, mia madre continuava a rompere perché la smettessi di andare in giro come uno zombie ed io ho promesso, niente droghe, mai più, grazie mille e arrivederci.
Non sono sotto l’effetto di niente.
Per la prima volta da quando sono uscito dal tunnel, rimpiango l’ecstasy. Almeno quella avrebbe potuto spiegare i fottuti bambini.

- Atze, mi dici che cazzo ti prende? – chiede quella merda di mio cugino che evidentemente non capisce che sono completamente rincoglionito ed ho bisogno solo di una camomilla molto potente.
- Niente! – sbotto istericamente, - Sono… nervoso. Per stasera. – butto lì.
In realtà non sono affatto nervoso. Non è certo uno stupido premio – cosa sono? I Comet? Me ne frega così poco che nemmeno mi ricordo! – a rendermi nervoso.

No, ciò che mi rende nervoso sono i bambini.
I bambini che cantavano di Bill Kaulitz.

… ma soprattutto, perché parlavano di una stramaledetta sciarpina argento?

Saad mi fissa con l'espressione vissuta che gli ho già visto addosso troppe volte nella mia breve vita: è lo sguardo truce di chi compatisce e vorrebbe contemporaneamente picchiare con tutte le sue forze il proprio migliore amico - o cugino, quel diamine che è - perché si fa di droga.

L'ha pensato persino lui.

Questo vuol dire che il mio comportamento non è normale. Non che non ci fossi già arrivato da solo, cazzo! - Non mi faccio di droghe. - dico io. Lui mi fissa e butta lì un come no che è tutto il contrario di quello che vuole intendere.

Sottolineo il tutto con le sopracciglia, spalancando gli occhi. - Non adesso! - Medito per un istante tutte le mie possibilità, che a ben pensarci, non sono molte. O mi faccio e non me lo ricordo. O sono sonnambulo e mi faccio (e non me ne ricordo, quindi magari questo si riduce alla prima categoria). Oppure sono pazzo - questo mi piace. Non è una cosa che puoi controllare, no?, non è colpa mia se io sono… pazzo! Ha. Pazzo. Suona bene. Venderei un sacco di dischi, cazzo.

Se solo riuscissi a pensare a qualcos'altro che non sia musica gospel. Magari i pazzi hanno mercato pure in quel genere.

Saad mi fissa. Ancora. … magari non sono pazzo. - Saad, mi hai fatto ascoltare musica dei Tokio Hotel mentre dormivo, per caso? Perché sai che io non la ascolto, quella roba, merda. -

Saad continua a fissarmi, e io comincio a sentirmi un tantino inibito. Come se dovessi masturbarmi di fronte al mondo, con tutti che mi fissano. Non sono fuori di testa!

- Atze, tu sei completamente pazzo. -

- Non sono pazzo! – strillo inviperito. Poi mi rendo conto che, con un atteggiamento del genere, non faccio che dargli ragione.
Cerco di calmarmi.

Io non sono veramente pazzo. Io sono… turbato da… qualcosa che devo aver visto. Qualcuno deve avermi fatto scivolare sotto il naso un video dei Tokio Hotel per qualche motivo che non comprendo. Io non me ne sono accorto, perché io a queste vaccate non ci bado, ma il mio cervello deve evidentemente aver captato qualche messaggio subliminale in sottofondo – ecco perché piacciono a tutti! Si spiega la più grande truffa della musica tedesca da tempi immemorabili! – ed ora il mio inconscio me lo ripropone perché…
…perché sono pazzo. Non c’è dubbio. È così.

- Atze, datti una calmata. – dice Saad, un po’ scazzato e un po’, pare, sinceramente preoccupato, - Cos’è, vuoi un po’ di birra? Qualcosa di più forte? Te la prendo. Basta che non mi chiedi una canna, perché ho promesso a tua madre-
- Non mi serve una cazzo di canna e neanche del cazzo di alcool, e soprattutto, vaffanculo, da quando fai promesse a mia madre, tu?!
- Ehi, ehi! – mi ferma lui, alzando le mani sulla difensiva, - Adesso non ricominciare a delirare. È stato un caso, lei era preoccupata e-
- Ed ha affidato la mia vita nelle tue mani?! Bella mossa! E bella fiducia nei miei confronti, soprattutto! E vaffanculo! – concludo la mia arringa con un ringhio frustrato.
Non ce l’ho veramente con mio cugino. Sono solo pazzo.

E terrorizzato.
Perché io stasera dovrò coesistere nello stesso ambiente con Bill Kaulitz, e venti bambini travestiti da 50 Cent fino a cinque minuti fa stavano cercando di convincermi a infilarmi nelle sue mutande.
E questo fa paura. Punkt.

… poi tutto ricomincia.
E quando dico tutto, intendo il glorioso coretto che m'ha accompagnato in questa pericolosa discesa nella psico-autoanalisi, lungo la china dell'ormai persa sanità mentale, dritto nel burrone della perdita del senno e infine a mollo nel torrente del trucco per vendere dischi (perché dire pazzia non mi piace più, ho deciso).

E' veramente Saad quello che sta ballando?

E' veramente mio cugino quel coso che si muove in maniera disorganizzata nel bel mezzo della sala d'incisione canticchiando canzoni che non gli ho mai sentito nemmeno bisbigliare a bassa voce, causa immediata radiazione dall'albo?

E' veramente lui, sangue del mio sangue, che mi sta dicendo di scopare Bill Kaulitz?, perché va bene la pubblicità e va bene il sesso che fa bene al cervello, ma qui si sta decisamente esagerando.

- Lo scoperaaai. - canticchia lui, imperterrito nonostante la mia espressione che dovrebbe comunicare tutto tranne che approvazione, ciondolante nella sua tunichetta da corista. - Davveeeroooo. - si muove convulsamente e ancheggia prima a destra e poi a sinistra, saltellando aritmicamente su entrambi i piedi.

… io sono pazzo. E mio cugino è stonato.

Lancia un mi sulla già detta battuta dello scoperai e io mi sento in dovere di fermarlo. Perché è chiaro che a nessun uomo dovrebbe essere concesso di vivere in un simile stato. Non ballando in quel modo, per la miseria!

Perciò, mi avvicino. Perché io sono un cugino che tiene ai propri cugini, mica come quegli stronzetti di quarto grado con il latte sul mento che si pungolano dai rispettivi seggioloni e gareggiano sugli strilli… okay, mi avvicino. … la demenza senile precoce quel cazzo che è non è contagiosa, vero? Stendo un dito davanti a me e faccio per toccarlo leggermente quando lui smette di muoversi - grazie! - smette di cantare - grazie! - e mi fissa.

… dove ha messo la tunica?

- Tua madre mi ammazzerà. - dice poi.

E al mio povero uccello in subbuglio all'idea di scopare, non ci pensa proprio nessuno?

Allora, premettiamo che effettivamente sono mesi che non mi concedo una sana scopata. E che ciò vuol dire che, se fossi pazzo, probabilmente il motivo sarebbe questo.
Purtroppo, essere un rapper molto figo ti dà un sacco di occasioni, ma anche fare uscire tipo due album all’anno non è tanto facile, e le occasioni te le ammazza tutte. Perché se devi vomitare diciotto canzoni in una settimana non puoi anche permetterti di vomitare alcool post-sbronza. Devi rimanere perfettamente lucido e concentrato.
Il che significa che la figa la vedi solo da lontano.
Al massimo in tv.
E le seghe sono cose pietose.
Perciò sì, niente sesso.

Ma questo non è abbastanza per giustificare un Saad cantante.
Finché rappa, d’accordo. A cantare non è capace. Mai più.

- Okay, Anis. – riprende lui. Ed io mi irrito, perché quando mi chiama per nome vuol dire che sta entrando in modalità paternale. Ed io non ho bisogno di un altro padre, mi basta quello che rompe mensilmente i coglioni per un aiutino economico, vada a fanculo pure lui e le scelte di vita palesemente sbagliate di quella povera santa di mia madre. – Tu adesso ti calmi, d’accordo? Noi stasera siamo in diretta nazionale e tu non puoi assolutamente permetterti di farci fare una figura di merda, chiaro? Non esiste.
- Senti, fino a prova contraria eri tu quello che ballava e cantava e mi istigava a scoparmi Bill Kaulitz, okay?! – abbaio in un impeto di furiosa irrazionalità.

Mi rendo conto solo dopo del dramma che mi sono appena procurato.

- Io stavo facendo cosa…? – chiede Saad, giustamente sbigottito.
Io, perdio, arrossisco.
Non mi capitava da secoli. Sicuramente non da quando ha cominciato a crescermi la barba.
- Niente!!! – cerco di mettere una pezza, agitandomi nervosamente da un lato all’altro della stanza.
Mio cugino mi segue, sempre più allucinato.
- Atze, a te ‘sto gioco con Kaulitz ha dato alla testa. – commenta, cercando di calmarmi con qualche pacca bene assestata sulla schiena, - Ma tu ti devi calmare, quello non è veramente femmina, c’ha la sorpresa nelle mutande. Non te lo puoi fare.
- Ma io non voglio farmelo!!! – sbraito, gli occhi fuori dalle orbite e le mani nei capelli.

- Io non ne sarei così sicuroooo! – cinguetta qualcuno appena entrato nella stanza.
Sollevo lo sguardo.
Chakuza – canotta nera e jeans extraextraextralarge d’ordinanza – balla il tip tap.
Con le scarpe con la suola di ferro e tutto. Ticchetta amorevolmente per la stanza agitando le manine ed un bastone da passeggio con la testa di un’anatra argentata in punta che, sinceramente, non ho la minima idea di dove abbia recuperato.
- A te piace l’idea! – continua a cinguettare, mentre Saad si traveste improvvisamente da Fred Astaire – smoking e papillon e tutto, ommioddio – e si unisce a lui nelle danze.
La cosa sconvolgente, a questo punto, mentre Saad ricomincia a cantare per aggiungere che la sorpresina nelle mutande di Bill potrebbe essere l’unico motivo per il quale gli vado dietro, è un’altra, però: Chakuza non ha più i propri vestiti, non ha più le scarpe da tip tap, non ha più il bastone, ma in compenso è vestito come Ginger Rogers in Cappello a Cilindro.

Sento il bisogno fisico di vomitare.

E' allora che fuggo. Perché quando qualcosa cerca di farmi vomitare - e non è l'alcool o un'influenza, che già mi sta sul culo, per carità -, quando qualcosa mi spinge sull'addome e sullo stomaco a quella maniera, allora o è un cadavere, o sono i miei amici che si sono improvvisamente rivelati per quella che era la loro vera natura.

E non mi interessa nulla se il bastone con la testa da papera era grazioso.

Spalanco la porta dello studio, inciampo sullo zoccolo del muro e quasi rovino per terra, ritirandomi in posizione eretta con uno scatto improvviso di reni. Poi corro via. La voce di Chakuza - leggermente più effeminata di quella di Saad, e sicuramente meno stonata - ancora m'insegue fino all'androne. - Non potrai farci nullaaa, perché so che lo desideriii. -

Spintono due o tre persone senza curarmi di loro e continuo a fuggire a rotta di collo lungo una via qualsiasi di Berlino.

Poi inciampo in una ragazzina pseudo-emo e la trascino a terra con me, perché se proprio si deve cadere - come dice Saad - meglio cadere con una figa in mano. Beh, non proprio letteralmente parlando, potrei sembrare un poco inopportuno. Comunque il proverbio finiva con e quando ti rialzi, se non te la sei già fatta, ricordati che il sesso verticale fa miracoli per la schiena. Lo so, è un po' lungo, ma non ho mai pensato di poter esaurire il sesso in un proverbio.

Forse il classico Scopa e vivi. Oppure Scopare fa bene alla salute.

- Ma tu sei Bushido! - squittisce la ragazzina. Mentre ci rialziamo, la fisso. E' così bassa e tozza che anche a voler fare sesso verticale, un'ernia del cazzo non me la toglie nessuno. - Ommiddio, ho sempre voluto un tuo autografo! -

- Eh. - dico io. Non so se ce la faccio. Mi guardo alle spalle per scorgere eventuali presenze inopportune. Niente: a quanto pare Fred Astaire è rimasto a farsela con Ginger. Ma perché scopano tutti, qui?

- Ho sempre sognato di incontrarti! Tu sei così uomo… -

- Ah, gra -

- e vorrei scoparti così tanto. - 'ca puttana. Ritiro tutto sulla stazza.

Alzo gli occhi dal foglietto e improvvisamente lo vedo. E' Bill Kaulitz con una gonna troppo corta per coprire i boxer e una camicetta troppo stretta per coprirgli i capezzoli e una voce troppo sexy per poterla ignorare.

Lui sorride e inizia a ballare, indicandosi. - You want me, me, me, in the morniiiing! - va bene che i Blues Brothers non sono mai stati il simbolo dell'eterosessualità, ma qui ci esagera. E perché nessuno si volta? Perché nessuno appare sconvolto quanto lo sono io?

Io lo sono. Sconvolto, intendo.

Per questo urlo. Un sacco. Urlo fino a far sparire Bill Kaulitz e far ricomparire una ragazzina in lacrime. E poi fuggo via. Da mia madre. Sperando che pure lei non decida improvvisamente di trasformarsi in Tom Kaulitz arrapato, perché questo sarebbe troppo. Persino per me.

Mamma, la santa donna, mi accoglie col cipiglio preoccupato che ogni madre dovrebbe avere nel vedere un figlio turbato quanto sono io in questo momento.
Mi permetto un attimo di complesso d’Edipo irrisolto per dichiararle amore imperituro, e le salto al collo, abbracciandola stretta.
- Mamma. Sono felice di vederti.
- Anis…? – mi chiama lei, giustamente turbata, almeno quanto me. – Sei sicuro di stare bene?
- No. – rispondo sinceramente, - È una giornata di merda.
- Anis! Il linguaggio!
- Sì, scusa. – sospiro esausto, svaccandomi lungo disteso sul divano e lanciando via le scarpe che, non so per quale miracolo, evitano di sfondare lo schermo del televisore, - Sono distrutto. Dammi qualcosa di buono da mangiare.
- Ma cosa posso prepararti così all’improvviso? – si agita tutta lei. Io sorrido tranquillo, perché tanto so che se ne uscirà con qualche meravigliosa genialata delle sue. – Dovrei avere ancora un po’ di couscous di ieri, vado a prendertelo. Ma si può capire cos’hai?

No, mamma. Non si può capire. Fortunatamente per te, almeno tu non puoi.

- Niente, ma’. – borbotto massaggiandomi la nuca, - Sono agitato per stasera perché-
- Perché tu lo sai, oh-oh, lo sai! Che Bill Kaulitz ti farai!

Mi tiro a sedere con uno scatto repentino.
- Mamma?! – strillo.
- Che c’è? – risponde lei, terrorizzata, quasi nascondendosi dietro al piatto di couscous, - Anis, sei pallido come un cencio…

Il che, suppongo, visto che tendenzialmente sono pure scuro di pelle, non dev’essere un buon segno.

- Scusa, m’era sembrato che dicessi qualcosa…
- Qualcosa? Tipo che?
- Tipo…
- Oh-oh-oh! Tu puoi negare ma lo sai! Che Bill Kaulitz alla fine di stasera ti farai!
- MAMMA!!!
Mia madre salta indietro, impallidendo, mentre io scatto in piedi con una velocità fulminea della quale la mia schiena risentirà in futuro, lo so.
- Anis… sono molto preoccupata per te.

Anche io sono molto preoccupato per me. Molto molto preoccupato per me.

- Senti… - riprende con tono dimesso, posando il couscous sul tavolino, - Ho una cosa per te. Pensavo avresti potuto indossarla stasera. – suggerisce sorridendo timidamente e sparendo in corridoio.
Giuro che se mi porta il bastone con l’anatra muoio qui.

La sento trafficare nello sgabuzzino e mi permetto di distrarmi un attimo. Un piccolo secondo che non dovrebbe nuocere alla mia psiche, chiaramente già stravolta da un Bill Kaulitz travestito da donna e dai miei amici improvvisamente passati al lato oscuro.

Lascio vagare gli occhi piano, dolcemente, fino a che questi non si posano in tranquillità sull'acquario di mia madre. Personalmente, ho sempre amato quei pesci. Riescono a rilassarmi nei momenti più difficili. Anche adesso sono assolutamente -

Ehi.

Perché tutti i pesci si affannano vicino al vetro? Strano, non gliel'ho mai visto fare dai 30 anni che sono qui - non che siano sempre gli stessi chiaramente. I pesci rossi si agitano in maniera convulsa, poi improvvisamente s'immobilizzano.

Hanno formato una scritta. Dice Bushido.

Mi passo stancamente una mano sugli occhi. Questo è troppo. Forse stanotte ho scopato e non me lo ricordo, motivo per cui io sono enormemente stanco… e… adesso è un cuore.

Chiudo gli occhi. - Solo un secondo tesoro! - urla mia madre dal retro. Vorrei tanto averla qui. Anche se cantasse canzoncine sconce su me e Bill. Parlando del diavolo, spuntano i pesci rossi. Quando riacquisto la vista, i pesci hanno scritto Bill. Beh. Messaggio abbastanza chiaro.

Si muovono di nuovo, sempre più convulsamente.

Quello è il disegno di un pene?

- Fottuti pesci rossi del cazzo! - tuono saltando sulla sedia e precipitandomi verso l'acquario. Poi butto una mano dentro la vasca nel disperato tentativo di disperderli, d'evitare che mia madre veda questa tragedia erotica che sembra una farsa da quanto è inopportuna.

- ANIS! - strilla per l'appunto lei, che nel frattempo è riemersa dallo sgabuzzino. - Per l'amor del cielo, Anis, cosa stai facendo?! -

- Mamma, posso spiegare…! - dico subito io togliendo il braccio dall'acqua e alzandolo davanti al mio viso: non si sa mai cosa potrebbero fare, delle madri in lutto per i loro pesci rossi. - E' che cercavo di… -

Lei alza una mano. - Non dire niente! Ho già visto abbastanza. E' chiaro che tu hai la febbre, Anis. - deglutisco. Sì, magari posso usarla come scusa, se ci aggiungo un paio di innocui funghetti. Credo di averne ancora un paio sotto il letto. - Comunque, volevo darti questi. - apre la scatola davanti al mio naso, che io mi preoccupo di storcere immediatamente, data la puzza, e mi mostra un paio di mocassini.

- Che? -

- Erano di tuo padre. Lui avrebbe voluto che tu li portassi nei momenti più importanti della tua vita, per ricordarti che eri speciale. - sì cazzo, ci posso credere. Con questi mocassini, a ricordarti in maniera speciale del fatto che sei sfigato ci pensa la tua sola immagine. Molto gentile. Mia madre tira su col naso. - Ha anche detto che… -

- Che? -

- …ti farai Bill Kaulitz perché!, pepperepè! -

- MAMMA! - urlo.

- Gesù! Anis, se non ti metti a letto ti ci porto di peso. -

Chino la testa a mo' di scusa. - D'accordo. Dicevi? -

- Tuo padre vorrebbe che dopo averli indossati e dopo che lui sia morto, tu andassi a seppellirli sull'Himalaya. -

La fisso intensamente. Fisso i pesci rossi. Il pene è sempre lì. Inequivocabile.

- Col cazzo. - rispondo io. Che se non altro, rimango in tema. Amen, sia fatta la tua fottuta volontà.

Afferro i dannati mocassini e mi trasferisco in quella che è stata camera mia almeno fino a quando non ho cominciato a fare avanti e indietro dalla galera. Getto la borsa che mi trascino dietro da stamattina sul letto e cerco di tranquillizzarmi.
Dunque, devo cambiarmi.
Sono quasi le sette di sera. Dovrei già essere bello che vestito e pronto per andare, ma la mia vita mi odia.
Mi lascio andare pensoso sul letto.
I mocassini mi guardano dallo zerbino.

Aspetta. Mi guardano?

- A-A-A-Anis! – E MI PARLANO ANCHE! – Non puoi sfuggire al tuo destino, devi seguire ciò che ti dico: fa-fa-fa-fa-fatti Bill Kaulitz! Fatti Bill Kaulitz!

Okay.
I mocassini di mio padre mi parlano.
Cantano.
E mi chiedono di farmi Bill Kaulitz a ritmo di Stayin’ Alive.
Se chiamo mia madre adesso, minimo rischio un duetto. E non voglio nemmeno pensare ai pesci.

Infilo le scarpe ai piedi con la risolutezza dell’uomo che non deve chiedere mai, poi sfilo i vestiti – sì, dopo aver infilato le scarpe. Ebbene? Se i pesci di mia madre possono essere un pene, io posso infilare i vestiti con l’ordine sbagliato. Vi sfido a fermarmi. – e mi rivesto.
Sono un figo.
Il mondo mi odia ancora, ma almeno andrò incontro al mio esaurimento nervoso con stile.

Saluto mia madre e scendo difilata, Saad mi aspetta con la macchina giusto qua sotto, in perfetto orario.
- Atze! – mi chiama premuroso, - Ti sei un po’ ripreso?
No, dovrei rispondere, ma posso lasciare da parte i valori del guerriero e mentire, per stasera.
- Tutto okay. – dico con un sorriso smagliante, - Ero solo un po’ agitato. Adesso sto bene.
- Perfetto. – dice lui, rimettendo in moto appena mi richiudo lo sportello alle spalle, - Che roba sono quelli? – chiede, indicando le mie calzature.
- Mocassini. – rispondo seccamente.
- Fan cagare. – commenta, annuendo a se stesso, - Si può capire perché li hai messi?
- Dovevo farli stare zitti.
Saad mi fissa come il pazzo che sono.
Lo ignoro. Sono contento che lui ignori me, mentre ci dirigiamo silenziosamente verso gli studi di VIVA.

Ovviamente qua fuori c’è un casino da manuale. Stuoli di ragazzine che mi si vorrebbero fare – ed a questo punto mi chiedo: ma mi ascoltano solo le fan dei Tokio Hotel? No, perché vorrei saperlo. Cioè, ce ne fosse una maggiorenne. Una sola. Mi accontenterei! E invece no, tutte ragazzine che puzzano ancora di latte. Ed ascoltano me. Ma perché? Io non dovevo manco cominciare a flirtare in diretta con Kaulitz. Mi sono condannato a morte da solo.
Mi fermo a fare qualche autografo perché, se non sorrido e faccio il carino, minimo Mirko mi ammazza e poi mi licenzia. O mi licenzia e poi mi ammazza, dipende dalle clausole che regolano il suo contratto. Mi premurerò d’informarmi, ne va della mia vita.
Arriva dal nulla una tizia che mi chiede cose random su quale sia il segreto del mio successo.
Cazzo ne so, tesoro, io sono l’ultimo a capirlo.
Comunque una scopata me la farei anche con questa. Si vede che ho proprio bisogno.

Blatero cose random e poi la stronza mi sgancia la bomba: “quale star fra quelle presenti oggi non vedi l’ora di incontrare?”.

E questa è una fangirl.
Io glielo leggo negli occhi.
Lei vuole sentirsi dire che voglio incontrare Bill. E come lei lo vogliono tutti gli altri.
È una congiura.
Fanculo.
- Personalmente, non vedo l’ora di incontrare Bill. – annuisco e cerco di darmi un tono da figo, anche se mi sento uno straccio, - Ho l’onore di presentare il Best Band award, stasera. Spero che vincano i Tokio Hotel, così potrò dare a Bill un bell’abbraccio ed un bel bacio!

E quello non ero veramente io. Cazzo.
Ma non è che questa strana possessione ha preso anche me?

Sospiro. Per lo meno non ballavo.
La stessa cosa non si può dire della giornalista, che si mette improvvisamente sulle punte e lancia paillettes a destra e a manca.
- Bill’s heeeere, there’s nooooothing to feeeear! – mi rassicura in una perfetta imitazione di Celine Dion. Ed io vorrei tanto mandarla a fanculo, ma mi rendo conto che se lo facessi poi ovviamente andrebbe in diretta nazionale e mi meriterei un gioioso licenziamento in tronco che, al momento, preferirei evitare.
Tanto è palese che ‘ste stronzate le vedo solo io.

Giungo sano e salvo all'interno della sala della premiazione, e incautamente penso che è da ben cinque minuti che nessuna apparizione arriva per funestarmi l'esistenza. Poi capisco che il parlare è vano - così come il pensare - quando davanti ai miei occhi compare il mio incubo peggiore. Che non ha bisogno di subdoli travestimenti o di un acquario per palesarsi in tutta la sua malvagia essenza.

Bill Kaulitz è vicino. La fine, pure.

Lo osservo con gli occhi spalancati e la bocca a prendere aria, mentre Saad al mio fianco s'irrigidisce leggermente e mormora qualche imprecazione fra i denti. Se solo riuscissi a pensare qualcosa di coerente, se solo capissi da quale lato pensa di attaccarmi adesso, mentre sguaina quel sorriso porco che non gli ho quasi mai visto fare - sempre al suo gemello, mai a me, oltretutto -, se solo fossi sano di mente.

Ma non lo sono.

Quindi pianto bene i piedi per terra e aspetto. Sono pronto.

- Ehi Bushido! - assottiglio gli occhi.

- Bill… - mormoro. La sua tattica è più sottile del previsto: non si limita alla pura sfacciataggine, no, lui deve crogiolarsi in quella lenta lussuria di cui è portatore.

- Va tutto bene? - chiede lui, perplesso.

Ti piacerebbe che non fosse così. Come è in realtà, cioè. Ma io sono un uomo, sono un duro, posso spingere all'infuori il petto e - Bacialooooo. Cosa aspetti su bacialooo. - trilla in quel momento un bottone della mia camicia. Lo affetto e lo strappo, calpestandolo con tutta la rabbia con cui non posso calpestare Bill.

- Perfettamente. - ringhio. Tom prende Bill per un braccio e lo trascina via, quasi spaventato. E' da tuo fratello che devi scappare, cocco, non me. Non. Da. Me.

- Atze, veramente. Finirai per spaventare qualcuno, a queste premiazioni. -

- Sciocchezze. - ribadisco io, garrulo per aver sconfitto il nemico. Finché dura. - Sto benissimo. - il bottone è ancora sotto il mio piede, sconfitto. Lo sento mugugnare, ma non mi faccio impietosire. Questo fino a che il mio mocassino non mi ringhia contro. - CAFONE! - strilla la calzatura. - Non capisci che gli fai male? -

Tolgo il piedi di soprassalto, e mi chino per raccogliere il bottone che, povero, piange e singhiozza un poco. Mi fa tenerezza. - Cavoli. Scusami signor bottone, io -

- Sono una LEI! - strilla la bottona. Cioè, no. La bottone. Il… vabeh. - Mi scusi per averla… uhm. Calpestata. - sussurro avvicinandomi a lei. Il bottone, cioè, la bottona sorride e poi, insieme ai mocassini, ricominciano a cantare. - You CAN always get what you waaaaant! - Questo è troppo. Prendo la bottona e la lancio nel primo cestino che trovo. Quanto alle scarpe, temo che dovrò tenermele. Se non altro la canzone è decente.

Quando salgo sul palco per premiare la miglior band, vedo il volto di Saad. E anche quello di Chakuza. Sembrano preoccupati. In effetti, sarei preoccupato pure io, se non fossi… beh. Me stesso. Mi schiarisco la voce, giocherello un po' con quel dannato trofeo, guardo la mano che ha stretto la mano di Bill Kaulitz tre minuti prima, e poi guardo il foglio. Cazzo! Cazzo.

- Tu-tu-tu-TU non ti puoi fermareeee. - trilla il premio. Quasi lo lascio cadere per terra.

- Ehm, Tokio Hotel! - dico. E li vedo arrivare dalle poltroncine. Lo vedo avvicinarsi sempre di più, e mi fisso i bottoni. Tacciono, muti. Persino i mocassini si sono azzittiti.

Quando Bill mi travolge e m'abbraccia come se fosse pieno di sentimenti verso di me, penso al peggio. Però l'abbraccio non diventa una morse letale, né i suoi capelli si attorcigliano attorno al mio collo. Faccio per staccarmi quando una voce mi colpisce l'orecchio, delicatamente. - Vorrei che tu mi scopassi. - dice Bill.

Io lo lascio andare, quasi cadere. Lui continua a fissarmi con sguardo provocante: probabilmente nella realtà sta solo facendo qualcosa - non dico di normale - ma da Bill Kaulitz. Mi volto verso Saad e Chakuza per dell'aiuto, ma è inutile. Già ballano e gorgogliano sulle poltrone.

- Vorrei leccarti tutto. -

Ossignore.

- Non sai da quanto tempo sogno le tue mani dentro di me… - sussurra in quella voce flautata che non dovrebbe rivolgere a me. Signore, perché mi fai questo, cazzo? Io avevo solo chiesto un po' di figa.

Bill emette un gemito decadente e io mi sento inevitabilmente mancare. Tutto pulsa, persino i miei pantaloni. - Dio, Anis, t'immagino così grosso sotto i boxer… - geme, avvicinandosi di nuovo a me. Io indietreggio. E indietreggio.

- Sì, Anis, ha… non vorrai fuggire da me, vero? -

- Invece sì! - strillo. - Cazzo, sì! -

Una mano sulla spalla mi ferma: io mi volto. E' Tom. - Tutto bene? - chiede lui.

Io annuisco, in mancanza d'altro. - Credo di sì. Credo… di sì. -

Bill mi fissa con aria attonita. Lo capisco. D'altra parte, mi fisserei con aria attonita anche io.

Al momento penso solo che vorrei essere seppellito qui ed ora. Ci manca solo che si mettano a cantare pure i miei occhiali da sole e-

- Hai richiesto la nostra presenza, noi ti mostriamo riconoscenza! Se stanotte la tua retta via seguirai, nelle mutande di Bill Kaulitz probabilmente finirai!

Afferro i fottuti traditori e li scaglio lontano.
- Non vi ho chiamato io, okay?! – strillo furioso.
La Germania intera mi guarda. E probabilmente ride di me.
Ho appena sfracellato un paio di occhiali D&G sulla moquette di un palco da premio adolescenziale e perché? Perché nelle assurde visioni che mi perseguitano, i dannati occhiali cantavano filastrocche che non saprei se definire presagi o maledizioni.
In ogni caso, mi fanno un terrore fottuto.

Bill Kaulitz, dall’alto di questa sua tenuta indecente da zoccola piena di catene e con stivali sadomaso, mi fissa e mi sorride. Io lo so che tu lo sai, brutta strega nero-dipendente. Io lo so che è un fottuto sortilegio. L’hai fatto per farmi impazzire! Confessa!
- Forse è meglio se ti rilassi un po’… - mi dice Tom, dandomi una pacca sulla spalla.
Io cerco di riacquistare il controllo, ma tanto non l’ho mai avuto. Che cerco di riacquistarlo a fare?

Il resto della premiazione si svolge come da copione, eccezion fatta per le Monrose che mi cantano una canzone facendo un paio di mossettine sexy, e la cosa potrebbe anche starci, se la canzone non ribadisse fondamentalmente il concetto già espresso dalla mia mente bacata fin da stamattina, cioè che devo farmi Bill Kaulitz.
Comincio a pensare di trovarmi in un film. Uno di quelli in cui devi trovare la donna del mistero e salvarla o esploderà il mondo, chessò, tipo nel Quinto Elemento. Io sono il fottuto Bruce Willis e Kaulitz è la mia Leeloo. Sono così sfigato che non ha nemmeno tette. È il male.
Quando anche Sido, al momento di esibirsi, invece di prendermi a parolacce mi invita a scoparmi Bill, capisco che è il momento di darci un taglio.
- Ti preferivo stronzo! – urlo, nello sgomento generale, mentre abbandono la sala.
Me ne frego dello sgomento generale.
Lo sgomento generale gli fa una sega, al mio sgomento interiore. Fanculo.

Mirko mi arpiona mentre faccio per abbandonare l’edificio. Il mio povero manager è stravolto dal mio comportamento. Posso capirlo, ma non m’interessa provare a farlo.
- Dove staresti andando, tu?! – mi sbraita in faccia.
- A dormire. – rispondo serafico, nulla più può farmi del male, - Credimi, ne ho bisogno.
- No, ti dico io di cosa hai bisogno. Ti prendi un calmante, ti fai dare una botta in testa così magari ritorni normale, presenzi al fottuto afterparty che VIVA riprenderà per intero e poi – la sua voce muta all’improvviso, gorgheggia felice e gli spunta un’arpa in mano, - ti scopi Bill Kaulitz!

Non esiste.
Non puoi dirmelo così in scioltezza.
L’arpa non ti giustifica.

Faccio per fuggire, ma lui mi viene dietro e mi afferra per una spalla. Lo guardo: è tornato normale.
- Hai capito bene quello che ti ho detto, Anis? – mi riprende severamente.
Vorrei dire no, perché non ho ancora capito per quale motivo dovrei volermi scopare Bill Kaulitz – a parte il fatto che ho un’erezione insopportabile in mezzo alle gambe da quando mi ha toccato, chiaro, ma è tutta suggestione, ci scommetto. Vero che lo è? Vero, vero, vero? – ma mi limito ad annuire contrito.
In fondo, non è colpa di Mirko, se sono pazzo.
Non voglio rovinargli la carriera.

Torno indietro mogio mogio. Sono mortalmente depresso.
Chakuza mi accoglie con un drink non meglio identificato. L’afterparty è già iniziato da un bel po’.
- Atze, ripigliati, su. Te l’ho corretto un tantino. – sorride, facendomi pure l’occhietto.
Esattamente ciò di cui avevo bisogno. Alcool e droghe.
Morirò.

Kaulitz, stretto fra il fratello e il manager dall’altra parte della sala, masturba una fottuta cannuccia con quelle labbra da zoccola che si ritrova, ed io percepisco la mia sudorazione prima azzerarsi e poi riprendere in fiotti continui che mi si rovesciano lungo la schiena.
Alcune goccioline scendono dalla fronte lungo le tempie.
- Scopateloscopateloscopatelo. – canticchiano.
Non morirò. Continuerò a stare così per sempre. Ma io voglio morire. E' un desiderio fisico, ormai, oltre che una chiara necessità mentale.

Lui sta lì, chiuso in un angolino, come il lottatore di boxe che aspetta l'ultimo secondo prima di tornare alla carica e distruggerti con un destro ben… no. Cristo, parliamo di Bill Kaulitz. Nemmeno la Madonna potrebbe dotarlo di una qualche forza fisica. Però ci sono ben altre armi di cui potrebbe dotarlo.

- Atze! - mi chiama una voce. Saad mi chiama, a voler essere precisi. Io non sono sicuro di volermi voltare. Non ne sono sicuro per niente. Perché non so più cosa aspettarmi dalla vita, tutto qui.
Alla fine, mi volto. Perché non si può passare tutta la vita a credere che gli oggetti parlino, giusto?

- EHI! - sbotta il mio mocassino. Io lo zittisco sbattendo il piede per terra. Quando alzo lo sguardo, di fronte a me non c'è nessuno. Ma proprio nessuno nessuno. Nemmeno l'aria, a voler esagerare.

- Atze, siamo quiiiiii. - mi chiama la voce, nuovamente alle mie spalle. Mi rivolto.

Eh, beh. Vorrei non averlo fatto. Potrei anche scoparmi il mocassino, davvero. Tutto pur di non vedere questo.

Mirko mi saluta con la manina mentre è impegnato in una strana quanto poco sicura posizione, un'anca tutta sbilenca quasi a voler sembrare… sexy. Signore. Mi dovrò mica scopare lui, adesso? Non ho nemmeno la forza per rispondere al saluto e… quello è David Jost?

Vorrei poter avere una macchina fotografica, perché è chiaro che questo non mi capiterà mai più. In realtà, non sta accadendo nemmeno adesso. E' tutto frutto della tua immaginazione, è tutto frutto della tua immagina -

Il coretto riparte. Solo che questa volta a muoversi a ritmo c'è tutta la mia crew. Quando cazzo ci sono arrivati, qui?, ma soprattutto, chi cazzo è che li ha convinti a vestirsi tutti così?

Giusto. La mia immaginazione.

David Jost, che sembra essere il capo corista, ondeggia e gorgheggia. Quest'uomo avrà un contrappasso terribile quando morirà. O forse l'ha già avuto, e i Tokio Hotel sono la sua punizione divina. Bene, penso: siamo in due.

Ad un certo punto, il coro si spacca in due ali. Saad e Chakuza ammiccano al sottoscritto come prima di un matrimonio. David è ancora fermo al centro: alza le sue mani al cielo, punta gli indici verso l'alto, e poi scatta verso il basso, ad indicare Lui.

Lui che è rimasto solo, nella mia fantasia, dietro il coro che s'è appena rotto, lui che beve assorto masturbando la cannuccia, lui con quelle labbra da zoccola, lui che mi fissa come se fossi un invasato.

Ehm.

Il coro non canta. Più eloquenti di così si muore, cazzo. Mi sento come una principessa controllata a vista durante la prima notte di nozze. Mi chiedo di chi sarà il sangue sul lenzuolo, al mattino. Di sicuro, ci saranno tutte le mie lacrime.

Mi avvicino a Bill e lo saluto. Lui mi saluta di rimando. E poi inizio a parlare.

- Senti, io devo assolutamente scoparti. Ci sono le voci che me lo dicono da tutto il giorno, i bambini di 50 Cent, mio cugino, Chakuza, i pesci, i mocassini, i giornalisti, le fan, i bottoni, il premio, gli occhiali, Sido, il mio manager, tutti, capisci?!, tutti, quindi io mi ti devo fare, devo per forza. d'accordo? Va bene? E' un problema? -

Bill Kaulitz mi osserva e sorride. Pacato. - D'accordo. - dice.

Vorrei urlare. Ma non lo farò. Perché so che da qualche parte, io ho ancora una dignità mentale.

Se non altro smetteranno di cantare.

Il bottone del colletto starnutisce.



Cazzo.
Titolo originale: id.
Autrice: Little Muse.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Language, Lemon, Slash, Traduzione.
- Storia di un irrefrenabile desiderio e di una relazione riluttante.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNFURL

Il posto è affollato.
A Bill, generalmente, il posti affollati piacciono; i posti stretti ripieni di persone sono spesso quelli in cui si sente più a proprio agio, è per questo che adora tanto la città ed è per questo che adora tanto stare sul palco. Persone vuol dire pubblico, e lui lavora bene col pubblico. Ma tutto ciò che vorrebbe adesso sono gli orsetti gommosi e la Pay-Per-View che lo aspettano in hotel.
È abbastanza sicuro di non aver mai sollevato gli occhi dal proprio drink negli ultimi dieci minuti circa, ed in realtà l’ha appena sorseggiato da quando ha raggiunto il fondo ricco di sedimenti della bevanda. La conversazione che Tom e Georg stanno portando avanti lo interessa appena, ma non abbastanza da impedirgli di contare i secondi prima che sembri abbastanza ragionevole chiedere di nuovo a David se può andare via. Estrae il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans a fissa il display luminoso. Gli occhi ci mettono un po’ a focalizzarlo. Le uniche luci che rischiarano il patio nel quale si trovano adesso sono deboli lanterne ciondolanti (piuttosto precariamente, secondo lui) non troppo in alto sopra le loro teste. Il classico stratagemma che i padroni di casa utilizzano per rendere un ambiente invitante, finendo poi per raggiungere l’obiettivo opposto. Bill s’è seduto lì solo perché anche Tom l’aveva fatto. Ha il sospetto che la decisione del suo gemello abbia qualcosa a che fare con la vicinanza della piscina e della grande quantità di donne che la circondano. Ma non chiede.
- È presto. – lo informa Tom, poggiandogli una mano sul polso e spingendolo ad abbassare il cellulare. Non si era neanche accorto che suo fratello lo stesse guardando. – Rilassati.
- Voglio andarmene. – lo informa di rimando Bill, come se Tom non lo sapesse già. Si solleva un po’ per riporre il cellulare al proprio posto.
Tom lo guarda comprensivo, ma scuote il capo.
- Un’altra mezz’ora, più o meno. – ricorda a Bill, lanciando un’occhiata oltre le porte ed osservando le persone in eccesso riversarsi in cortile. È più affollato, dentro. Forse è per questo che Tom ha deciso di rimanere fuori, suppone Bill. – Credo che David stia facendo la guardia all’uscita.
- E dov’è Gustav? – chiede Bill; è una cosa stupida sulla quale concentrarsi, non gli interessa neanche, in realtà, ma gli dà una buona scusa per arrabbiarsi. – Il minimo che potrebbe fare è rimanere infelice qui con noi.
- Ehi, non è così male. – protesta Georg, sollevando il proprio drink, - Open bar. Vedi il bicchiere mezzo vuoto.
Bill sente lo sguardo che Tom gli lancia senza neanche bisogno di vederlo davvero, giusto per assicurarsi non sia nelle sue intenzioni mettersi a litigare con lui solo per aver fatto ironia su qualcosa che Bill ritiene serio. Ma Bill non può davvero prendersela con Georg. Non è mai stato particolarmente sensibile riguardo cose simili. Tende a scherzare per tirarsi fuori dalle situazioni poco piacevoli; una tattica che ha insegnato anche a Tom, con suo gran dispiacere. Almeno, comunque, il suo gemello sembra ancora in accordo con lui, stasera. Ancora qualche drink, però, e Bill non potrà più contare granché su questo.
- Non mi va di ubriacarmi. – è tutto ciò che dice. Quando beve diventa frivolo, e fa cose stupide quando è frivolo. Preferisce tenersi stretta la propria lucidità mentale. Si accontenterà del suo unico piccolissimo rum e coca, grazie mille. – Voglio solo tornarmene in albergo.
- Ce ne andremo presto. – lo rassicura Tom, sollevando la bottiglia di birra fino alle labbra. È di buona qualità, una marca che Bill sa suo fratello non sia abituato a bere, ed infatti lo vede sussultare un po’ mentre la manda giù. – Prova a divertirti. Non ti ucciderà.
- Infatti, non siamo così male come compagnia, no? – chiede Goerg, e Bill cerca di sorridergli.
- Immagino di no.
- Sicuro di non volere un altro drink? – inquisisce Tom, indicando il suo bicchiere ormai quasi vuoto. Bill s’è ritrovato a succhiare solo cubetti di ghiaccio ogni volta che ha provato a tirare su un po’ di liquido con la cannuccia, negli ultimi dieci minuti. – Te lo vado a prendere.
Bill forza con decisione un sorriso per questo, perché Tom sta diventando disgustosamente gentile nei suoi confronti, ma rifiuta, ticchettando distrattamente con le unghia sul bicchiere. Non che non voglia farsi un giro all’interno del locale, o almeno, non è solo questo il problema. È che proprio non vuole bere altro. Vuole andarsene.
Bill ridacchia e saltella involontariamente sulla propria sedia quando il cellulare che ha appena riposto comincia a vibrare violentemente, solleticandolo in posti strani. Tom gli lancia un’altra occhiata stranita e Bill tira timidamente fuori il telefonino, poggiandosi una mano in grembo ed osservando il display. Un nuovo messaggio.

Bel party, mh?


Bill inspira pesantemente e fissa le tre parole, corrucciando le sopracciglia. Tom lo sta ancora guardando, ma lui non ricambia lo sguardo né spiega niente. Piuttosto, preme il pulsante per chiudere il messaggio e ripone il cellulare al proprio posto. Quando Bill solleva lo sguardo su lui e Georg, Tom lo fissa ancora, sorseggiando la birra direttamente dalla bottiglia, ma non gli chiede quale sia il problema.
Georg ha ricominciato a parlare, nel frattempo, e Tom lo segue annuendo. Bill guarda la bocca di Georg, ma non lo sta ascoltando. Vuole davvero andare via.
Il telefono vibra ancora e Bill salta di nuovo, stavolta infastidito. Con un sospiro esasperato, lo riprende fra le mani. Tom sta guardando lui più di quanto non ascolti Georg, adesso. Un altro nuovo messaggio.

Ti trovo bene.

Bill esita, il pollice sopra il pulsante per cancellare, stavolta. Deglutisce. Dovrebbe premerlo. Invece, sospira ancora e clicca Rispondi, allontanandosi di parecchio dal proprio giudizio.

Dove sei?

Non gli piace l’idea di essere osservato, anche se la cosa non lo sorprende affatto. Tiene il telefono fuori dalla tasca, stavolta, in attesa della risposta. Che arriva velocemente.

Al bar.

Bill guarda di traverso il cellulare, cercando di lanciare un’occhiata anche a ciò che lo circonda e notando come gli occhi di Tom seguano la traccia dei suoi, perplessi. Il bar è all’interno, vicino al centro della casa, in cucina. Bill sta già per scrivere la domanda che gli ha appena attraversato la mente, quando arriva un nuovo messaggio a coprire il proprio testo sullo schermo.

Sei sempre bello.

Bill rotea gli occhi per la previsione e si sposta a disagio sulla sedia. Odia che cose come questa siano ancora in grado di fargli sentire le farfalle nello stomaco, e scaccia via la sensazione, comprimendola sul fondo del proprio corpo con una facilità che deriva dalla pratica, mentre stringe le labbra fino a renderle sottili come linee. Ed arriva un altro messaggio.

…e ti ho visto entrare ;)

In realtà la cosa comincia ad irritarlo un po’. O molto. È fastidiosa ed insensibile. Non è più come un anno prima, quando era divertente. Il messaggio successivo arriva velocemente.

Dove sei?

A quel punto, Bill spegne il telefono, pressando un pollice rabbioso contro il pulsante finché lo schermo non si oscura e tutto ciò che può vedervi riflesso è la sua espressione tesa che lo fissa di rimando. Getta il cellulare dentro la borsa bianca ai suoi piedi e torna ad affondare nella poltrona con uno sbuffo, portandosi dietro il bicchiere e ricominciando a succhiare cubetti di ghiaccio. Sono ancora dolci di rum.
Tom sembra in attesa di qualcosa, ma Bill si limita a scuotere il capo, chiudendo le labbra attorno al blocco congelato.
- Voglio andare via. – ripete, la lingua intirizzita dal freddo. – Non stiamo neanche facendo pubbliche relazioni. Qual è lo scopo di tutto ciò?
- Be’, allora vai a fare pubbliche relazioni. – suggerisce Tom, ma è l’ultima cosa che Bill abbia voglia di fare. Ciò che vuole fare è prendere David a pugni in faccia.
Rimane seduto lì, esattamente come ha fatto fino a quel momento, le braccia incrociate sul petto mentre fissa il vuoto di fronte a sé e Tom e Georg parlano fra loro, cercando di coinvolgerlo ogni tanto per ottenere solo di vederlo ricadere nuovamente nel silenzio dopo due parole. Sa che sta facendo preoccupare Tom, che suo fratello pensava lui avesse superato questa cosa, ma non riesce a dispiacersene.
Anche Bill pensava di averla superata.
La suoneria di Samy Deluxe del cellulare di Tom lo tira fuori dai propri pensieri, e guarda in alto per osservare il fratello portare il telefono all’orecchio.
- Sì? – lo sente dire, per fermarsi subito dopo in ascolto della persola dall’altro lato della cornetta. – Sul patio. – risponde dopo un momento, lanciando un’occhiata alle porte. – Non lo so. – abbassa il ricevitore dalle labbra e fa un cenno a Bill. – Perché il tuo cellulare è spento?
Bill scrolla le spalle. Ha le sue ragioni.
Tom smette di guardarlo.
- …sì, siamo pronti. Bill ci ha fatto impazzire. – solleva un piede e gli tira un calcetto giocoso. Bill risponde con un altro calcio, un po’ più forte, ma viene ignorato. – Quindi possiamo…? Sì. Sì, okay. Okay. Stiamo arrivando. – Tom abbassa il telefono ed interrompe la chiamata prima di riporlo in tasca, poggiando la birra sul tavolo di fronte a sé. – David dice che possiamo andare. Saki ci sta aspettando di fuori.
- Dove? – chiede Bill, alzandosi ansiosamente in piedi.
- Qui di fronte. – risponde Tom, richiamando l’attenzione di Georg con un cenno del capo. – Manda un messaggio a Gustav, così possiamo andarcene da qui.
- Ma avevi il cellulare in mano fino a poco fa! – protesta Georg, mettendosi in piedi a propria volta e recuperando comunque il proprio telefono dalla tasca. Bill li segue, sistemando la giacca ed abbassandosi per riprendere la borsa.
- Pronti? – chiede Tom ad entrambi, ma guarda solo Bill. Lui annuisce e lascia che sia suo fratello a fare strada attraverso le porte, all’interno della causa ed in mezzo alla folla degli ospiti presenti alla festa. I membri dello staff dell’etichetta e vari artisti parlottano e si muovono attorno a loro, tutti i suoni diventano uno e ronzano nelle orecchie di Bill. Le persone si fondono in un’unica entità, e per una volta questa sensazione non è eccitante, solo opprimente. Non vede l’ora di raggiungere la porta. Improvvisamente si ricorda del perché si sia unito a suo fratello nel cortile sul retro.
Bill non realizza che il modo più veloce per uscire da quel posto è passare per la cucina, almeno fino a che non ci si ritrova dentro. Tom non sapeva che portarlo in quella direzione era un errore. Bill tiene il capo chino, felice di stare stretto fra suo fratello e Georg, che chiude la breve fila dietro di lui.
Non vuole sollevare lo sguardo, davvero non vuole. Ma sente i suoi occhi addosso, scavano dentro di lui, e solleva la testa, lanciando un’occhiata al di là della propria spalla proprio mentre stanno per raggiungere la porta sul lato opposto della stanza.
Ci sono un sacco di persone affollate attorno al bar, ma una sola lo sta fissando.
Bill si ferma bruscamente, senza pensare davvero a cosa stia facendo, e Georg gli sbatte addosso.
- Cosa cazzo…? – butta fuori, spintonandolo un po’ e cercando di convincerlo a muoversi. Bill lo guarda, poi guarda di nuovo in avanti, verso la figura di Tom che si allontana velocemente.
- Devo, uh… devo tornare indietro un attimo. – dice a Georg, mentre ancora guarda Tom farsi strada fra la gente.
- Devi tornare indietro un attimo? – gli fa eco Georg, incredulo. – Dopo tutta la merda che hai detto fuori? Pensavo non vedessi l’ora di uscire!
- Infatti. – annuisce Bill. Torna a guardare il bassista. – Dì a Tom che non ci metterò molto. – aspetta che Georg scuota il capo e si muova oltre lui con un sospiro, prima di concedersi un’altra occhiata in direzione del bar. Sta facendo una cosa stupida, una cosa molto stupida, sta facendo ciò che ha evitato di fare per tutta la sera, ma non può semplicemente vederlo e passare oltre senza dire niente.
Sarebbe maleducato, se non altro.
Anche se è lui che si sta per intrufolare nella festa di qualcun altro, lo sguardo intenso che gli focalizza addosso fa sentire Bill come una preda. Un tempo adorava potersi arrendere sotto quegli occhi nel modo in cui non poteva arrendersi nei confronti di nessun altro che conoscesse. Adesso, si ritrova ad odiarli.
Perché non può più farlo.
- Ehi, bellezza. – dice Bushido quando Bill si ferma di fronte a lui, un sorrisetto a tirargli le labbra. Bill si fa minuscolo, a disagio per il nomignolo. – Che piacere incontrarti qui.
- Sapevi che ci sarei stato. – replica Bill, incrociando le braccia sul petto come una barriera.
- Già. – Bushido guarda in basso, verso la mano con cui stringe la birra. – Non pensavo che mi avresti parlato, comunque.
- Infatti non era nei miei piani.
Solleva di nuovo il capo per guardarlo.
- Ma lo stai facendo.
- Sì, be’. – Bill abbassa gli occhi, sollevando una spalla e scrollandola, sperando di sembrare a proprio agio. Non vuole guardare Bushido, ma lui sembra non avere nessun problema nel guardarlo a propria volta. Attentamente.
- Come va?
La parola bene è lì pronta per uscire, ma Bill la sopprime in favore di un “okay” decisamente più accurato.
- Tu?
Bushido imita la sua scrollata di spalle, prendendolo un po’ in giro. Ma la sua risposta è più onesta.
- Di merda.
Qualcuno diretto all’ingresso sbatte contro Bill e lo costringe a muoversi un po’ in avanti. È un modo molto poco elegante di ricordarsi che la stanza è piena di persone, tantissime persone. E quando l’attenzione di Bill torna a focalizzarsi su ciò che gli interessa di più, trova una mano posata sul proprio fianco destro, che lo tiene fermo. Sia lui che l’altro uomo fissano quella mano per un secondo, mentre Bushido lascia scorrere gentilmente un pollice sopra il tatuaggio che fa capolino dall’orlo della maglietta e dei pantaloni di Bill, prima di tirarla via.
Bill deglutisce e decide saggiamente di ritirarsi d’un passo. Perciò lo fa. Se non lo facesse, potrebbe avvicinarsi ancora.
Bushido si schiarisce la gola, distogliendo finalmente lo sguardo dalla figura di Bill, e lui si chiede vagamente se l’altro si sente anche solo un po’ a disagio come si sente lui.
- Penso che ti stiano aspettando, ragazzino.
- Probabilmente sì. – concede Bill, chiedendosi perché semplicemente non si decida ad allontanarsi e andarsene. Ma il perché lo sa. Non sono stati così vicini in mesi e la sensazione che sta provando è sia familiare che eccitante. Gli è mancata. Gli è mancato lui. Vorrebbe riuscire a parlargli e rendere di nuovo le cose semplici com’erano un tempo, per riuscire a restare nella stessa stanza senza danzarsi attorno. Anche se è sempre stata un po’ la loro specialità.
Bushido solleva lo sguardo, ma non su di lui – oltre la sua spalla. Ridacchia un po’, e c’è del biasimo nei propri stessi confronti, in quella risata.
- Decisamente sì. – dice, sollevando un sopracciglio in direzione della porta.
Bill si volta per trovare Tom che li fissa. Quando i suoi occhi trovano quelli del fratello, lo richiama con un rude cenno del capo. Bill serra le labbra e scuote il capo. Non è dell’umore di accettare la proiettività di suo fratello, anche se non può veramente biasimarlo per questo. Tom solleva un sopracciglio e si volta, scomparendo in mezzo alla folla.
- Merda. – mormora Bill. Conosce troppo bene suo fratello per illudersi che gliela dia vinta così facilmente.
- C’è qualche problema?
Bill torna a voltarsi verso di lui. Gli occhi di Bushido gli stanno nuovamente addosso.
- Sta andando a chiamare Saki.
- Ah, sì, la babysitter. – Bushido solleva la propria birra, come stesse facendo un brindisi in onore della guardia del corpo. – Quasi mi manca trovare sempre nuovi modi per dirgli di non rompere le palle. Salutamelo.
Bill torna a fissare la porta. Tom non è ancora tornato. Prima di pensare troppo a cosa sta facendo, chiede “Te la senti di evitarlo adesso?”.
Il sorriso soddisfatto svanisce dalle labbra di Bushido per la prima volta quella sera.
- Bill…
- Per parlare. – taglia corto lui, prima che l’altro possa protestare.
Bushido fa scorrere un pollice contro l’etichetta sulla bottiglia di birra.
- Non penso sia una buona idea.
- Perché? – chiede Bill con una smorfia insolente, anche se il perché lo conosce benissimo. È quasi una sfida. Bushido sospira e posa la birra, sporgendosi a stringergli nuovamente un fianco. Le sue dita sono ruvide e bagnate per la condensa sulla bottiglia. Bill lascia andare un ansito involontario mentre l’altro lo tira verso di sé fino a posizionarlo fra le proprie ginocchia.
- Perché non lo è. – dice a bassa voce, sfiorandogli il collo ad ogni respiro. Sfiora la guancia di Bill con la punta del naso, strofinandolo lungo la linea della sua mascella e poi lasciandolo andare. Torna a sedersi, i gomiti sul tavolo del bar. Allunga una mano verso la birra, ma Bill è più svelto e la prende prima che possa raggiungere la bottiglia, intrecciando le dita con le sue e tirandolo.
- Vieni con me. – ordina Bill, voltandosi e cominciando a camminare, felice di non incontrare nessuna resistenza quando lo fa. Non ha la minima idea di dove stia andando, ma suppone che le scale siano il posto più sicuro e privato possibile in una casa come quella. È lì che si dirige, trascinando Bushido dietro di sé e facendo strada ad entrambi attraverso la folla. È bello sapere di avere ancora tanto potere sul tuo ex quanto ne ha lui su di te.
Raggiungono finalmente le scale e Bill comincia a salire, spingendosi fra gli ospiti. Sta ancora stringendo la mano di Bushido, ma più mollemente. L’altro lo sta seguendo di sua spontanea volontà, adesso, per tutta la strada fino al primo piano, di fronte alla prima porta a destra.
Quando Bill la apre si trova di fronte un bagno e rotea gli occhi, uscendone e richiudendosi la porta alle spalle.
- Hai almeno la più pallida idea di dove stai andando?
- Non so neanche di chi sia questa casa. – risponde Bill, provando la porta successiva. Si apre su una camera per gli ospiti, e Bill si ritrova ad esitare sulla soglia. Bushido è ancora immobile dietro di lui, aspetta che si muova così da poter entrare entrambi. Le sue mani, una delle quali ancora stretta alla sua, si posano sui suoi fianchi e lo aiutano a fare un passo in avanti. Si lascia spingere. Una delle mani lascia la sua vita e Bill sente il click che annuncia la chiusura della porta. Lascia cadere la borsa per terra.
Una guancia si posa sulla sua spalla e lui si appoggia di schiena al petto dell’altro uomo. Il naso di Bushido si fa strada fra i suoi capelli, mentre le sue mani scivolano lungo i suoi fianchi per stringerlo nuovamente alla vita.
- Dannazione, profumi di buono.
Bill può sentire quelle parole caracollare giù lungo la sua schiena e farsi strada fino alle punte dei suoi piedi.
Rimangono immobili in quel modo per molti minuti, ondeggiando un po’ avanti e indietro. Bill solleva una mano e la posa sul collo di Bushido, chiudendo gli occhi.
- Cominceranno a chiedersi dove sei.
- E tu lasciaglielo fare.
Bill sente un sospiro sulla pelle.
- Per quanto mi piaccia fare arrabbiare tuo fratello, li starai davvero facendo preoccupare.
Bill scrolla le spalle.
- Tom sa che sono con te.
- Appunto.
- Da quando ti frega qualcosa di ciò che pensa Tom? – chiede Bill, sfilandosi le scarpe.
Un altro sospiro, e le braccia che lo stringono gli si chiudono addosso con più forza.
- …se non ti trovassi più, io mi preoccuperei.
Le sue labbra si posano sulla nuca di Bill, e lui trema quando continuano a scivolare lungo lo scollo della maglietta.
- Che stai facendo?
- Mi hai trascinato tu fino a qui – cosa pensi stia facendo?
- Non ti ho trascinato fino a qui per questo.
- Certo che no.
I suoi denti gli si chiudono attorno al lobo dell’orecchio e Bill riesce a recuperare abbastanza lucidità da allontanarsi da lui e sfuggire alla sua stretta. Bushido non molla la presa e Bill ricade all’indietro contro il suo petto.
- Ehi, chi è che ha scaricato chi altri? – chiede Bill.
- È irrilevante.
- Be’, non per me. – Bill spinge più forte e Bushido lo lascia andare, guardandolo poi attraversare la stanza fino a raggiungere l’altro lato del letto. Bill si muove silenziosamente per un po’, raccogliendo i pensieri. Improvvisamente realizza che è per questo che ha portato Bushido in questa stanza. È passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta in cui s’è concesso di sentirsi arrabbiato per questa storia, e non è mai riuscito a dirigere la sua rabbia contro l’unica persona che la meritasse. Torna a guardarlo, braccia incrociate. – Intendo, non mi toccavi quando stavamo insieme ma vuoi farlo adesso?
- Ti ho toccato un sacco quando stavamo insieme. – protesta lui, piuttosto offeso, come se Bill avesse insultato la sua mascolinità o qualcosa di simile.
Bill sbuffa ma non dice niente. Non può davvero contrastarlo su questo punto. Il fatto non si siano spinti fino ad un rapporto completo non dà torno a Bushido.
Bill vorrebbe chiederglielo. Vuole chiederlo fin da quando è successo. Vuole sapere esattamente perché fra loro è finita, cosa ci sia di sbagliato in lui e se, tanto per cominciare, è davvero colpa sua, ma chiedere avrebbe come unico effetto il rendere ufficialmente noto lui sia una ragazzina. Cazzo.
- Senti, piccolo. – comincia Bushido, infilandosi le mani nelle tasche e dandosi un’aria abbastanza rilassata da far venire a Bill voglia di gridare. – Io sono il tipo d’uomo… a cui non piace attaccarsi troppo. Tu vuoi scopare, e questo è okay. Ma questo non è tutto ciò che vuoi. – Bill apre la bocca, ma Bushido prosegue prima che lui possa dire niente. – E questo va bene. Funziona per te, d’accordo. Ma non funziona per me. Lo sapevi fin dall’inizio, d’altronde, no?
- E tu sapevi che a me non andava bene fin dall’inizio. – replica Bill, - Quindi perché sei stato con me?
Rimangono a fissarsi per un momento, e Bill è abbastanza sicuro che stiano entrambi aspettando che l’altro ceda per prima. Si rifiuta di essere lui a cedere. Fortunatamente, non deve: Bushido sospira e gira attorno al letto, avvicinandoglisi lentamente. Ed ecco di nuovo quella strana sensazione, quella che lo fa sentire come una preda, e Bill si allontana di un passo. Bushido sorride furbo e si ferma di fronte a lui, allungandosi per stringerlo alla vita.
- Perché non potevo impedirmelo. – spiega, avvicinandosi abbastanza da permettere a Bill si sentire il suo respiro sulle labbra, ma non di più. - …perché tu mi hai lasciato fare?
Questa domanda lo sconvolgerebbe, se fosse ancora in grado di prestarle attenzione. Ma Bushido è così vicino che lui non riesce a registrare niente oltre alla mano che gli posa sul collo, alle dita che gli toccano la mascella, alle labbra che sfiorano le sue. Perché lo sta lasciando fare anche adesso?
- …perché non potevo impedirtelo. – confessa alla fine. E, apparentemente, è la risposta giusta, perché le labbra di Bushido scendono improvvisamente sulle sue, e la mano che lo stringe al collo lo spinge vicino quasi fino all’impossibile. Bill si dice che non può impedire al sospiro vagamente imbarazzante che sfugge alle sue labbra di andare dove vuole, così come non può impedirsi di rispondere al bacio. È più facile decidere di non poter controllare le cose. È quasi un sollievo.
Non cerca di fermare niente di quanto sta accadendo. Non cerca di fermare le mani di Bushido mentre scendono sul suo sedere e lo tirano su. Non cerca di fermarsi quando il suo corpo viene steso sul letto della stanza degli ospiti di un produttore esecutivo a caso. E non ferma Bushido quando si stende sopra di lui. È una posizione familiare, ma in qualche modo sembra decisamente differente. Sta per succedere dell’altro, lo realizza chiaramente anche se è ancora accecato dal desiderio, e qualsiasi cosa sia, Bill intende lasciarlo accadere. È abbastanza sicuro che lascerebbe accadere qualsiasi cosa in assoluto, in questo momento.
- Nessuna promessa, ragazzino. – ansima Bill contro la sua bocca, lasciando scivolare una mano decisa sotto la sua maglietta.
Bill scuote il capo e solleva le braccia per aiutare Bushido a sfilargliela.
- Non mi interessa.
Ed è vero. Se si trattasse di chiunque altro forse gli interesserebbe, domani forse gli interesserà, ma adesso lo vuole e basta. È stufo di controllare ogni cosa e Bushido è troppo bravo a reggere il comando al posto suo. Bill deve ancora capire perché si senta così bene quando glielo lascia fare, ma è stufo anche di provarci. Se non c’è riuscito per tutto il tempo in cui la loro strana relazione s’è tenuta in piedi, perché dovrebbe continuare adesso? E comunque, per ora… è okay. Per ora, nemmeno vuole sapere di più.
- Merda. – dice Bushido all’improvviso, scostandosi da lui abbastanza da lanciare un’occhiata al resto della stanza.
- Cosa? – chiede Bill, imbarazzato ed anche un po’ intossicato di desiderio. Se Bushido si fermerà troppo a lungo, lui riprenderà a pensare, e non ha alcuna voglia di farlo.
- Il lubrificante.
Un’improvvisa fitta di paura lo scuote tutto. Inizialmente, deriva solo dal realizzare che sta davvero per lasciarsi scopare dal proprio ex. Ma poi Bushido scende a baciarlo sul petto, mordicchiando uno dei suoi capezzoli, ed allora l’ansia per la situazione si scioglie e viene rimpiazzata dal terrore puro che non c’è nulla che possano usare e che, per questo, forse dovranno fermarsi per davvero. Grugnisce, spostando una mano sulla sua nuca e trattenendolo fermo.
- La mia borsa. – ansima, colpito da un’immediata ispirazione. La bocca di Bushido rilascia il suo capezzolo abbastanza da mormorare un “mh?”, ma continua a leccarlo. Le dita di Bill si stringono contro il suo collo. – C’è… la cosa idratante dentro.
Bushido ride contro il suo petto, accarezzandolo dolcemente sui fianchi nudi.
- Molto mascolino.
Bill solleva la testa del cuscino per lanciargli un’occhiataccia.
- Vuoi farlo o no?
Gli occhi di Bushido si fanno più cupi, ed ogni traccia di giocosità scompare mentre scivola lungo il suo corpo per divorare nuovamente le sue labbra, più rudemente di prima, come stesse cercando di dimostrargli qualcosa. Bill lo prende per un sì.
Poi Bushido si allontana, così bruscamente che Bill si sente quasi disorientato prima di realizzare che sta semplicemente abbandonando il letto per cercare la sua borsa, ancora afflosciata sul tappeto davanti alla porta. Bushido afferra gli orli della propria maglietta, sfilandola con un gesto veloce e gettandola di lato sul pavimento. Poi si china accanto alla borsa e comincia a rovistare all’interno, prima di estrarre una bottiglia e tenerla fra le dita, mostrandola a Bill in attesa di una conferma.
Lui scuote il capo. Uomini.
- Fondotinta.
Bushido lo lascia ricadere nella borsa e ricomincia a scavare. Il tubetto successivo è quello giusto, e Bill annuisce. L’altro si rimette in piedi e torna vicino al letto, fermandosi quando lo raggiunge e gettando la bottiglietta sul materasso accanto a Bill. Poi comincia lentamente a sbottonare i pantaloni, sostenendo lo sguardo dell’altro mentre lo fa. Non c’è niente che Bill non abbia già visto prima, quando li lascia cadere, ma si sente adesso molto più vergine di quanto non sia mai stato. Quando Bushido non lo bacia e si limita a pressarlo col proprio corpo sul materasso, Bill è quasi abbastanza lucido da avere paura.
Spinge via la sensazione quando l’uomo ricomincia a toccarlo.
Può sentirsi addosso la sua erezione mentre lo bacia, a separarli ci sono solo i suoi jeans aderenti, ed inarca la schiena, piagnucolando un po’.
Bushido sorride sulle sue labbra.
- Lo vuoi.
Bill tira su col naso, un po’ esasperato. È eccitato, lo sa già, non ha bisogno che Bushido glielo ripeta. Più parole sono coinvolte nel processo, maggiori sono le possibilità di rimettersi a pensare. Perciò allunga una mano verso il basso ed avvolge le dita attorno all’erezione prominente dell’uomo, muovendole avanti e poi di nuovo indietro. Questo gli fa guadagnare un mugolio strozzato, e Bill sorride soddisfatto.
- Sta’ zitto. – ordina, ripetendo il movimento e baciandolo ancora.
Bushido grugnisce e comincia a maneggiare maldestramente la chiusura della sua cinta. Ha avuto un mucchio di problemi le prime volte che s’erano ritrovati a pomiciare, ma Bill è felice di notare che ricorda molto bene come scioglierla adesso, rilasciando le fibbie rapidamente tanto quanto Tom si vanta sempre di saper fare coi reggiseni delle ragazze. I pantaloni di Bill sono spariti assieme ai suoi boxer, gettati senza cura sul pavimento assieme a tutti gli altri indumenti, prima che lui abbia il tempo di pensarci, e subito dopo un’erezione si sta strofinando contro la sua e questo è semplicemente fantastico.
- Sì… - esala, spalancando le cosce il più possibile per facilitare il movimento.
- Dio, sei così… - Bushido si china per leccarlo lungo il collo, - Cristo, non hai idea di quanto sei bello in questo momento.
È carino, decide Bill. Sentirsi desiderato, anche se non si sente amato. Essere comunque voluto in qualche modo. Perciò lascia che il suo commento sia spingere i fianchi verso l’alto. Questo sembra far scattare qualche scintilla, perché Bushido comincia immediatamente a cercare la crema idratante.
- Ti voglio scopare. – dichiara, come se si aspettasse una protesta da parte sua.
Bill non protesta affatto.
Lascia che le sue dita ricoperte di lubrificante scendano giù lungo la sua coscia, fino alla sua apertura, così come ha lasciato accadere tutto il resto stasera. Lo incoraggia, anzi, spostandosi verso il basso quando cominciano ad accarezzare in cerchio l’anello di muscoli.
Bushido solleva il capo e si disinteressa per un attimo di ciò che sta facendo.
- Vuoi farti male? – lo avverte, - Stai fermo.
Bill obbedisce, per quanto faccia quasi male restare immobile. Hanno già fatto qualcosa con le dita, prima, ma non si sono mai spinti oltre. Sa di poterne prendere almeno due, anche se è passato un bel po’ di tempo, ed aspettare non è esattamente una cosa che gli venga bene fare. Bushido si sta comportando in maniera fottutamente meticolosa e, nella sua frustrazione, Bill ci mette diversi minuti a capire che lo sta anche torturando un po’.
Torna ad afferrare il suo membro, deliziato dai suoni che sente provenire dalla bocca dell’uomo.
- Di più. – comanda, lasciando una scia di baci sulla linea della sua mascella.
Bushido mormora qualcosa sulle dive impazienti, ma si spinge contro la stretta di Bill ed aggiunge un altro dito. Lo piega dentro di lui, in ciò che Bill riconosce essere una ricompensa, e Bill lancia un gridolino, sollevando involontariamente i fianchi dal materasso ed allentando la stretta.
- È lì, mh? – sospira Bushido, chinando il capo per catturare le labbra di Bill fra le sue. Si fa strada a forza con la lingua, stavolta, leccando quella di Bill con lo stesso ritmo col quale spinge le dita dentro di lui.
Mesi fa, questo sarebbe stato abbastanza. Avrebbero continuato in questo modo fino a venire entrambi. Ma stanotte Bill vuole di più, e sa di non essere il solo. Perciò tira Bushido verso di sé tornando a stringere attorno alla sua erezione, finché quest’ultima non batte contro la mano che ancora si spinge dentro al suo corpo.
Non ha bisogno di dirlo ad alta voce. Le dita di Bushido si ritirano e Bill si lamenta momentaneamente per la perdita, prima di sentire il tubetto di crema idratante che viene nuovamente aperto. Dannazione, quella merda è pure costosa, oltre che francese, e dovrà ordinarne ancora dopo stanotte.
Ma quando sente Bushido afferrarlo per i fianchi e spingersi in avanti, la punta della sua erezione che si fa strada dentro di lui, non può impedirsi di disinteressarsene completamente.
È grande, e questo è il suo primo pensiero. Più grande delle dita, decisamente. Non è tanto il fatto che sia doloroso, quanto che gli sembra semplicemente troppo. Si sente teso più di quanto il suo corpo non possa sopportare, come un palloncino un attimo prima di scoppiare. È la pressione, ed un dolore lancinante.
E poi Bushido si sposta. Lo colpisce nello stesso modo in cui l’hanno colpito le dita, un movimento verso l’alto, e la pressione non diminuisce, ma si intensifica in un’esplosione di bianco e caldissimo piacere. Le sue unghie affondano nelle spalle di Bushido, probabilmente lo graffiano. Bill si sente mugolare, ma è un suono lontano. Loro sono lontani. Tutto ciò che importa è come si sente adesso, il modo in cui il suo stesso pene pulsa ogni volta che Bushido si spinge più a fondo.
- Oddio. – mormora Bill prima che la bocca dell’uomo torni a coprire la sua, - .
- Cazzo, sei così stretto. – Bushido ringhia, spingendo ancora, sollevandolo un po’ per aiutarlo a venirgli incontro, come se già non lo facesse più che bene.
Bill si stringe attorno a lui per zittirlo; se Bushido grugnisce, non parla, e questo è esattamente ciò che vuole.
- Ti fa quasi pensare che non l’abbia mai fatto prima, mh? – sussurra Bill contro il suo orecchio, sarcastico, stringendo ancora. Bushido si spinge di nuovo contro di lui, e Bill getta indietro il capo, contro il cuscino, dimenticando di essere stizzito.
- Non mi stavo affatto lamentando. – lo prende in giro, entrando quasi per tutta la sua lunghezza e poi uscendo di nuovo. I fianchi di Bill prendono vita propria. Non s’è mai sentito così. È quasi un’esperienza extracorporea, eppure allo stesso tempo si sente incredibilmente presente. È come essere sotto l’effetto di qualche droga. E non è mai stato sotto l’effetto di una droga, ma suppone che la sensazione potrebbe essere simile a questa.
Una mano larga si chiude attorno alla sua erezione e questo, combinato con il resto, è quasi abbastanza da costringerlo a venire proprio in quel momento, ma vuole durare. Stringe ancora la presa sul membro di Bushido, inavvertitamente stavolta, e l’uomo sospira di piacere.
- Dio, dimmi che stai venendo.
Bill non può neanche pensare di prendere in giro la disperazione che Bushido sta mostrando, perché se la sente addosso.
- Sì. – ansima, un po’ perché il piacere lo stordisce ed un po’ perché sta effettivamente per venire. Manca davvero poco. Può già sentire i primi tremiti pulsare alla base del suo pene, può sentire i testicoli contrarsi, e sarà intenso, è una certezza.
E poi, siccome non vuole arrivarci da solo, si stringe ancora attorno all’asta che lo sta penetrando. La bocca di Bushido si apre in un urlo silenzioso, e Bill lo sente immobilizzarsi per un istante; può sentire anche la sua eccitazione contrarsi dentro di lui, prima di rilasciare l’orgasmo all’interno del suo corpo, e rimane fermo esattamente nel punto in cui Bill ha bisogno che stia. Si inarca e viene, il liquido cola lungo il suo ventre. Ricade indietro sul letto, si sente ipersensibile ed assonnato, respira a fatica. Il petto di Bushido gli pesa addosso ed i suoi fianchi sono collassati sui propri; si regge solo sugli avambracci.
Sta guardando in basso, verso di lui, e la sua espressione è stranissima. È abbastanza per fargli venire voglia di un po’ di tenerezza, perciò solleva una mano e la poggia sulla sua guancia, seguendone la linea con un dito fino al labbro inferiore. Gli occhi di Bushido si chiudono per un momento, come stesse cercando di godersi quel contatto il più profondamente possibile. Bill sta per sollevare esitante il capo per un bacio, ma poi lo sguardo di Bushido scompare e Bill lo sente tirarsi indietro e fuori da lui.
Bill sussulta nel rendersi conto di quanto vuoto si senta all’improvviso. Era troppo all’inizio, ma adesso si sente troppo vuoto senza. Se sia effettivamente solo una questione fisica o no, non gli è chiaro.
Bushido gli volta le spalle adesso, sta seduto sul bordo del letto e sta indossando i pantaloni; Bill si sente fastidiosamente nudo e non c’è nulla con cui coprirsi. Non hanno neanche disfatto il letto. I suoni della festa che vengono da sotto stanno cominciando a risvegliare i suoi sensi, e lui deglutisce. Tom sarà furioso.
- Dovresti tornare di sotto. – lo avverte Bushido, come riuscisse a sentire ciò che sta pensando. O forse la realtà sta cominciando a farsi pressante anche per lui.
- Sì. – annuisce Bill, fissando la sua schiena tesa. Ha come la sensazione che Bushido stia cercando di non guardarlo.
- …e dovrei anche io.
La frase ha un’inflessione strana, ma Bill si limita a dire nuovamente sì. Non crede che Bushido si stia riferendo alla festa.
L’uomo si alza in piedi e si china a recuperare la maglietta e le scarpe, facendo scivolare la maglia a maniche lunghe sopra la testa. Si volta a fronteggiare Bill ancora una volta dopo un attimo, gli occhi nervosi che si agitano attorno a lui che resta ancora disteso sul letto. Esita e poi dice semplicemente “Ci vediamo in giro, piccolo”.
Bill è abbastanza sicuro che non fosse ciò che voleva dire davvero, ma è comunque ciò che ha detto alla fine, per qualche ragione.
- Sì. – annuisce, - Certo.
Sente la porta aprirsi e poi richiudersi, ma tiene gli occhi bassi. Si arriccia su un fianco, senza recuperare i propri vestiti. Si sente disfatto e scomposto, e sta anche cominciando a ricordare perché non si lascia andare fuori controllo tanto spesso. Gli fa sempre desiderare di tornare indietro e fare l’esatto contrario.
Un tale livello di vulnerabilità dovrebbe essere illegale quando non c’è nessuno con cui puoi condividerlo.
Titolo originale: id.
Autrice: Cynical_Terror.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Lemon, Slash, Traduzione.
- E' partito tutto con uno scherzo. Ma non sta ridendo più nessuno.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
INVITATION
Capitolo 1

Bill siede da solo nella propria camera d’albergo, arricciato sul letto con addosso solo il pigiama, e fissa con aria assente il televisore.
- Sono solo, grandioso… - mugugna, raccogliendo l’orlo del pantaloni che usa per dormire. L’hanno lasciato di nuovo lì, o meglio, è stato lui a rifiutare di uscire con loro. Si sente come una pezza usata, lo sa perfettamente, ed è stufo di discoteche, alcool e ragazze che si fanno carine solo per lui.
Avevano programmato di non uscire, quella sera. Avevano bisogno di un po’ di pausa dalla frenesia del tour, avevano semplicemente bisogno di un po’ di calma. Quella sarebbe stata la prima serata, dopo una settimana, in cui non ci si aspettava da loro che dovessero trovarsi da qualche parte. E, davvero, Bill era emozionato fin nel profondo dalla prospettiva di annoiarsi fino alle lacrime.
Avrebbero guardato un film e poi Tom aveva promesso che sarebbe rimasto un po’ con Bill per lavorare a qualche canzone. Bill aveva un sacco di idee, frasi e pezzetti di melodie che volteggiavano nella sua testa, ma non poteva fare niente senza che Tom rimanesse al suo fianco a provare accordi sulla chitarra.
Ma ovviamente, come al solito, niente era andato secondo i piani. Tom aveva incontrato una bionda sorprendentemente carina dopo il concerto. A Bill non era sembrata particolarmente diversa dalle altre, ma Tom aveva insistito col dire non avesse mai visto niente di simile. Lei era diversa, meravigliosa, e cazzo, lui aveva bisogno di una scopata. Ed aveva altre tre splendide amiche nel proprio appartamento, perché non organizzarsi per andare un po’ in giro per club, quella sera?
David aveva acconsentito, se non altro perché meritavano un po’ di libertà.
Bill sospira e fa zapping, fermandosi su una stupida commedia americana doppiata in tedesco. Osserva le loro bocche muoversi in maniera completamente diversa rispetto alle parole che sente.
Fare un giro dei club con un fratello sbronzo ed un gruppo di fangirl eccitate non era affatto l’idea che Bill aveva di una pausa. Preferisce di gran lunga restare seduto da solo nella propria camera, ed è esattamente ciò che sta facendo. E sono solo le dieci. Lo aspetta una lunga notte.
Normalmente, Bill sarebbe uscito con gli altri, avrebbe sorriso e si sarebbe ubriacato abbastanza da divertirsi un po’. Avrebbe fatto finta di ignorare il fatto che a Tom non fregava un cazzo del fatto lui ci fosse o meno. Non è mai stato bravo a fare da spalla, perciò Tom finisce sempre per fare coppia fissa con Georg, nei club, lasciando Bill e Gustav per i fatti loro.
- Mi sono rotto. – dice Bill. Dà un calcio al piccolo beauty case poggiato ai piedi del letto, e percepisce la propria frustrazione infiammarsi mentre la borsetta cade sul pavimento, spargendo intorno a sé il proprio contenuto. Si accovaccia sul materasso ed osserva il disastro. Fra le bottigliette di smalto e gli eyeliner sparpagliati per terra, c’è anche una piccola busta argentata, brillante del riflesso del televisore.
Sospira pesantemente mentre la fissa.
È stasera, giusto?, pensa, raggiungendola e trattenendola fra le dita. È indirizzata a lui, ma lui ha già capito molto più di quanto la busta in sé non dica. È tutto uno scherzo. La apre, per tirarne fuori il piccolo invito di compleanno.
- Ventotto settembre. – mormora, - Stasera.
È la festa per il compleanno di Bushido, e Bill è invitato.
- Naturalmente non mi ha invitato davvero.
L’invito era arrivato nella cassetta della posta più di una settimana prima, e s’erano fatti tutti una bella risata in proposito. Bushido continuava ad infastidire Bill da un sacco di tempo, ma era solo uno scherzo, anche se a Bill non sembrava poi così divertente. Tom aveva aperto la busta di fronte all’intera band, deridendo le poche frasi scritte a mano con le quali si richiedeva la presenza di Bill all’evento.
- Stupido Tom. – borbotta Bill, aggrottando le sopracciglia. Anche se Tom odia Bushido, lo odia davvero, deve essersi divertito un mondo a sbattergli tutta l’intera faccenda sul viso. Bill s’era sentito in imbarazzo già per l’invito, e s’era sentito ancora più a disagio perché, grazie a Tom, adesso tutti sapevano.
“Dovrei andarci solo per farlo arrabbiare”, pensa Bill. Ma ovviamente gli è stato impedito di muoversi. Come se ci avesse davvero pensato su, poi, come se…
- …avessi bisogno di farmi dire cosa posso o non posso fare. – ringhia ad alta voce. È improvvisamente furioso, e si alza in piedi, scavando sul fondo della valigia, incasinando la stanza mentre getta i vestiti qua e là sul pavimento. Riesce finalmente ad afferrare un paio di jeans ed un pullover nero a costine. Vestiti normali.
Li indossa, senza neanche starci a pensare mentre stende un po’ di trucco leggero; poco sugli occhi ed il lucidalabbra. Inforca un enorme paio di occhiali da sole, ridicoli per la notte, ma indispensabili, ed un morbido cappellino fatto a maglia sopra i capelli lisci. Getta un’occhiata a se stesso nello specchio e decide: è fottutamente bello, anche vestito così informalmente.
Senza pensare a ciò che sta facendo né a dove sta andando, chiama una macchina e sgattaiola dietro Saki all’ingresso dell’hotel. Lui non sembra neanche vederlo, è troppo impegnato a flirtare con la receptionist.
Bill accende una sigaretta proprio appena la BMW nera appare di fronte all’albergo. Lascia che l’autista scenda ed apra la portiera per lui, e gli passa il piccolo invito.
- Mi porti qui. – dice, salendo sulla macchina. All’interno, il fumo lo fa tossire, intrappolato sul lussuoso sedile posteriore. Attraverso il vetro oscurato che lo separa dell’autista, può ancora vedere l’invito argentato, tenuto su fra due dita per una breve ispezione. “Non pensare”, si dice mentre la macchina si mette in moto.
*
La macchina si ferma appena fuori dal club. C’è la fila, davanti alla porta d’ingresso, ed è lunga fino alla fine della strada. Bill deglutisce.
“Il programma è entrare, farmi scattare qualche foto, evitare Bushido e comportarmi esattamente come se non mi fossi mai divertito così tanto prima”, pensa. L’autista si gira e lo guarda attraverso il vetro.
- Chiamerò io. – dice Bill, - Qui faccio da solo.
Apre lo sportello e prova a respirare. È uscito da solo e, davvero, non dovrebbe essere così nervoso. Non c’è Tom, non c’è David e non c’è nessun’altro stronzo che possa permettersi di dirgli cosa fare.
E cosa dovrebbe fare adesso? È stato invitato e, che sia uno scherzo o meno, sa di essere in lista. China il capo: è nervoso; qualcuno potrebbe riconoscerlo. Si dirige verso l’inizio della fila.
Il buttafuori lo guarda dall’alto in basso.
- Invito? – chiede bruscamente.
Bill sorride, realizzando di aver lasciato la busta all’autista.
- Bill Kaulitz. – si limita a dire.
L’uomo inarca un sopracciglio e Bill abbassa lievemente gli occhiali. Gli occhi dell’altro si spalancano e la corda di velluto che blocca l’entrata viene spostata per lui.
- Da questa parte, Signore. – dice l’uomo, e Bill entra nel locale scuro, ridacchiando dentro di sé. È stato tutto molto semplice, ed in qualche modo si sente come un bimbo cattivo. Se solo gli altri sapessero dov’è… se solo lo sapesse Tom…
All’interno del club, Bill si sente quasi a casa. È uguale a qualsiasi altro club abbia frequentato di recente, scuro, rumoroso, pieno di corpi danzanti. Non riconosce nessuno nella folla, ed una sorta di eccitazione nervosa lo scuote tutto in un brivido. È davvero per conto proprio.
“È il momento di confondersi nella folla”, pensa. Confondersi nella folla è una parte del suo lavoro, è un professionista in questo. Scivola in mezzo alla calca, appare nelle foto, parla con qualche ragazza. Si sente uno scemo mentre stringe alla vita una ragazza e mentre ride assieme a lei, quando lei realizza chi è che la sta stringendo.
Firma un po’ di autografi, sbocconcella un po’ di stuzzichini e non gli importa affatto quando sempre più persone cominciano a notarlo. I fotografi all’interno del club, assoldati per documentare l’evento, si compiacciono enormemente di spingerlo a mettersi in posa per loro. Lui lo fa, sfila gli occhiali e il cappello e li ripone nella larga borsa che porta sulle spalle.
L’ultima cosa che poteva aspettarsi era di divertirsi, eppure sta succedendo. Prima ha individuato Bushido e la sua crew in un angolo della stanza, e tutto ciò che riesce a pensare è che, finché staranno lontani da lui, lui continuerà a divertirsi.
Dopo l’ennesimo incontro con una fangirl ridacchiante, Bill decide che ha bisogno di un drink. Si avvicina al bar, spintonando la folla ed atterrando finalmente di fronte al barista per ordinare un cosmopolitan. Mentre si appoggia al bancone, in attesa del proprio drink, qualcuno picchietta sulla sua spalla.
Si volta, ed i suoi occhi si allargano un po’. Riconosce quell’uomo immediatamente. È Chakuza, un amico di Bushido, che lo produce, in effetti.
- Cazzo, non posso crederci! – dice Chakuza.
Bill sorride.
- Uhm. Ciao.
Chakuza non sorride di rimando, e Bill si sente vagamente a disagio. È più alto di lui, ma si sente veramente minuscolo mentre Chakuza ghigna nella sua direzione.
- Cosa cazzo stai facendo qui? – chiede l’uomo.
- Io… - Bill arrossisce, - Non sono stato invitato?
- Era un fottuto scherzo! – dice Chakuza. Sta rendendo Bill nervoso, fissandolo direttamente negli occhi mentre gli parla. – Uno scherzo, no? E tu… e tu vieni sul serio?
- Be’, mi avete mandato un invito. – replica Bill.
Chakuza sta per dire qualcos’altro, qualcosa di spiacevole, Bill può quasi sentirlo, ma poi Bushido appare improvvisamente dietro di lui e lo spinge di lato. Bill resta a bocca aperta e lo fissa; si sente in trappola. Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe mai riuscito ad evitare Bushido per tutta la sera. Avrebbe dovuto sapere che gli sarebbe toccato comunque almeno parlargli.
Avrebbe preferito continuare ad avere a che fare con Chakuza.
- Stai indietro, Atze. – dice Bushido a Chakuza, il tono basso e profondo. Guarda Bill e solleva un sopracciglio, chiaramente divertito dalla sua presenza, - Non è passata l’ora di andare a letto?
- Non ho un orario per andare a letto. – scocca Bill, immediatamente infastidito dal tono conciliante dell’uomo.
Lui ghigna in risposta.
- Non mi hai portato un regalo? – Chakuza grugnisce in sottofondo, e Bushido si avvicina di più a Bill, - Mh?
Lui scrolla le spalle, rifiutandosi di indietreggiare mentre Bushido si avvicina ancora.
- Ti offrirò un drink.
- Open bar. – dice Bushido. – Che ne dici di regalarmi la tua compagnia?
Il suggerimento lo fa arrossire, e gli attorciglia lo stomaco in una maniera strana. Bushido odora di sigaro, alcool e muschio. Bill cerca di comportarsi come non si sentisse intimidito – ed invece lo è.
- Um. – è la sua risposta.
Non ha veramente una scelta. Bushido si allunga oltre la sua spalla, afferra il drink di Bill e lo accompagna verso il privè. Bill non può scappare, il braccio di Bushido pesa sopra la sua spalla e Chakuza gli cammina stretto a fianco dall’altro lato, intrappolandolo.
Il primo impulso appena si avvicina al tavolo è di voltarsi e fuggire via, ma Bushido urla agli altri di mettersi in piedi per lasciarlo passare. Bill china il capo e si precipita all’interno, senza riuscire ad ignorare le occhiate degli uomini che lo circondano.
Bushido lo segue, sedendoglisi accanto. Presenta Bill ed il suo drink, e Bill arrossisce follemente, all’improvviso consapevole di quanto femminile sia il proprio cocktail, soprattutto paragonato alle birre di tutti gli altri. Chakuza scivola al suo fianco, dall’altro lato, e Bill smette istantaneamente di pensare al proprio drink. Può sentire il respiro di quell’uomo sul collo, stanno tutti strettissimi attorno al tavolino.
- Signori, - dice Bushido, - Bill ha deciso di graziarci della propria presenza.
Allarga quelle braccia muscolose e ne avvolge una attorno alle spalle di Bill, che si tende mentre l’uomo lo stringe.
- Ovviamente non sa come interpretare gli scherzi. – dice Chakuza, stridulo. Gli altri ridono e Bill può solo stringersi nelle spalle, umiliato, e fissare il tavolo, ricoperto di cicche di sigarette, bicchieri vuoti, cellulari e, Bill nota, anche un po’ di preservativi ancora sigillati. Deglutisce pesantemente; perché ha dovuto fare il cretino e scappare dall’albergo?
- Ti stai divertendo? – chiede Chakuza.
Bill solleva appena il viso.
- Molto. – riesce a rispondere.
- Così circondato da maschi, non mi riesce difficile crederlo. – ribatte l’uomo.
Questo fa ridere l’intera tavolata, e Bill vorrebbe semplicemente arricciarsi in una palla e morire. Bushido grugnisce al suo fianco, palesemente poco compiaciuto da ciò che sta accadendo, e tutti smettono all’istante di ridere.
- Siate gentili col mio ospite. – dice serio.
Bill scuote il capo e cerca di sorridere.
- Sto bene.
- Assolutamente. – dice Bushido, lasciando finalmente la presa sulla sua spalla.
Chakuza batte il proprio bicchiere contro il tavolo, guardando Bill con occhi pieni di disgusto.
- Frocio. – sputa fuori, la sigaretta che si agita un po’ troppo vicina al viso di Bill. Lui semplicemente abbassa il capo.
- Porta il tuo “frocio” fuori di qui. – dice Bushido, strappandogli la sigaretta dalle mani. Chakuza lo fissa da sopra la testa di Bill, e c’è della tensione, Bill può sentirla. Bushido annuisce brevemente e Chakuza cede, corrucciato. Si mette in piedi e spinge chiunque stia sulla sua strada verso l’uscita del privè.
- Qualcun altro ha dei problemi? – chiede Bushido. Nessuno dice niente e Bill manda giù velocemente il proprio drink, solo per trovarsi qualcosa da fare.
- Al ragazzino serve un altro drink. – dice l’uomo che sta seduto adesso accanto a Bill, - Cosa bevi? – si mette subito in piedi, perciò Bill non può dire no.
- Um. Un Cosmo. – mormora.
- Un che?
Per qualche ragione, Bill è più imbarazzato adesso di quanto non sia stato per tutto il resto della serata.
- Prendigli uno shot. – dice Bushido, - Prendine per tutti, e dì al barista di continuare a mandarne.
L’uomo annuisce e Bill si schiarisce la gola.
- Non lo so… - mormora, allontanandosi lievemente da Bushido. Ha paura del calore che si sprigiona dal suo corpo. – Forse dovrei andare…
- Non puoi andartene adesso, non abbiamo ancora tagliato la torta! – dice un altro uomo.
Bushido sogghigna.
- Uno shot.
Bill sente un piccolo sorriso farsi strada sul proprio volto, e sospira.
- Okay, ma solo uno.
*
Un’ora dopo, Bill è completamente andato, del tutto fuori di sé. Lo sono tutti, in realtà, e Bill ha anche smesso di interessarsi di ciò che gli altri potrebbero pensare di lui. E comunque, sono stati tutti dannatamente gentili, da quando Chakuza è andato via.
Bill ride senza nessun motivo e si stende accanto a Bushido, rubando uno shot ad uno dei suoi nuovi amici, e quasi cade in grembo all’uomo mentre manda giù il drink. Non sa nemmeno cosa ha bevuto.
Bushido lo aiuta a tirarsi dritto e Bill scivola indietro contro il divano, ghignando.
- Il ragazzino continua a bere. – dice uno dei nuovi amici. Bill gli solleva contro il medio senza nessuna ragione e tutti ridono.
- Vi sta battendo tutti. – commenta Bushido, fumando il sigaro.
Bill si sente orgoglioso e, con aria presuntuosa, biascica “Voi tutti… mi fate una sega”.
Questa battuta si guadagna la risata più fragorosa della serata, e Bill sente perfino qualcuno battergli una pacca sulla spalla. Li ha fatti ubriacare tutti, li tiene per le palle, questo è certo. Sa di essere carino, sa come battere le ciglia ed anche come sporgere le labbra. Funziona sempre con le piccole fangirl che si presentano ai loro concerti, ed è eccitante sapere che funziona anche con uomini più maturi capaci di intimidirlo.
Si rimette seduto, guarda Bushido.
- Ehi. – dice, allungando una mano. – Dammelo. – vuole il sigaro di Bushido.
L’uomo lo allontana dalla bocca.
- Vuoi succhiare questo, mh?
Bill scopre che gli piacciono i riferimenti sessuali del discorso, lo fanno sentire accaldato, più caldo di quanto non riesca a farlo sentire l’alcool. Annuisce, la mano ancora tesa, ma Bushido la spinge via e mette da sé il sigaro sulle sue labbra.
All’inizio il sigaro si limita a colpire le labbra di Bill.
- Apri. – dice Bushido. Bill ride ed il sigaro s’infiltra nella sua bocca. Aspira profondamente, inspirando il fumo, e l’attimo dopo si ritrova piegato in due a tossire come se dovesse sputare i polmoni.
I ragazzi ridacchiano e Bushido tira indietro il sigaro.
- Non devi mandare giù. – lo rimprovera.
Gli occhi di Bill si riempiono di lacrime e lui si passa una mano sopra le labbra. Guarda in alto, oltre Bushido, e si accorge che Chakuza è tornato e sta in un angolo, accigliato.
- È ora di tagliare la torta. – annuncia. Guarda Bill, ma a Bill non potrebbe interessare di meno. Si appoggia contro la spalla di Bushido.
- Falla portare qui, stiamo comodi. – dice Bushido. Chakuza va via e torna qualche minuto dopo, mentre tutti i partecipanti alla festa si avvicinano e mettono via i propri drink per la torta.
Bill ricorda improvvisamente perché si trova lì. È il compleanno di Bushido. È in un locale con Bushido ed è per i fatti propri.
Sta diventando tutto confuso; vede le candele accese, osserva il fuoco macchiare la sua visuale. Vuole toccarlo. Presto si mettono tutti a cantare. Bill poggia la testa contro la spalla di Bushido e si unisce al coro. Canta più forte di tutti, ride mentre lo fa, e guarda Bushido soffiare sulle candeline e spegnerle tutte insieme.
Bushido soffia anche contro il suo collo, ed una delle sue mani gli stringe una coscia. Qualcosa che assomiglia molto al fuoco brucia la sua pelle dalla coscia allo stomaco.
Bill si china più vicino a Bushido, incapace di frenarsi. Il filtro fra giusto e sbagliato è scomparso, lavato via dall’alcool. Si sono sempre infastiditi a vicenda, c’è sempre stato uno strano modo di provarci, fra loro. È sempre stato lì. L’ha sempre fatto sentire a disagio, gli faceva sudare le mani, ma anche…
Si avvicina ancora e sussurra roco “Buon compleanno” direttamente contro il suo orecchio.
*
È molto tardi. Esausto, Bill guarda appena lo schermo del proprio cellulare, incapace di processare le informazioni che gli sta dando. Tom gli ha inviato più di dieci messaggi di testo e ne ha lasciato uno anche in segreteria. Il telefono continua a cinguettargli di controllare i messaggi.
Bill lo ripone nella borsa.
Scuote il capo, aguzzando la vista. È in una camera d’albergo, in un piccolo salotto. Si lascia andare contro lo schienale del divano; ci sono persone sulla soglia della stanza. Stanno andando via, salutando, abbracciandosi, alcune si baciano. Bill non ricorda com’è arrivato lì, ma non è molto spaventato.
La sua mente è del tutto alla deriva e si sente come stesse dormendo, può sentirsi affondare più in profondità in qualcosa di così pesante ed invitante. Ma poi qualcosa tocca il suo viso e lui apre gli occhi. È Bushido.
- Non ce l’hai una casa?
Bill ride.
- Nessuno mi vuole a casa.
Bushido rimane sospeso sopra di lui e per un secondo Bill pensa che sia pronto per girarsi e andarsene. Ma si siede accanto a lui, troppo vicino.
- Ah, sì? E pensi che qualcuno ti voglia qui? – Bill lascia ricadere il capo contro la sua spalla, - Mh?
Bill ride ancora, stavolta proprio sul suo collo.
- Ti ho portato un regalo. – biascica.
- Stai giocando con me, piccolo? – la voce di Bushido e un po’ divertita, un po’ cupa e inquisitoria.
Bill si arrabbia e lo scosta indietro, improvvisamente pieno d’emozioni ed energia.
- Non sono piccolo! – quasi grida. Bushido sembra troppo sorpreso per muoversi. Bill si sposta verso l’uomo più maturo, poggiandogli le mani sulle spalle. – Non sono piccolo. Vaffanculo. – inspira un po’ del profumo di Bushido e poi non può più fermarsi, pressa il naso contro il suo collo e, semplicemente, inala.
Bushido ringhia e lo rimette seduto.
- Piccolo. – sibila, scandendo bene ogni lettera. Gli si appoggia contro e Bill può sentire quanto lui sia grande. Non solo alto, è tutto il suo corpo ad essere fitto di muscoli, e forte. Il peso di Bushido è quasi insostenibile. Non c’è più nessun flirt, non è uno scherzo. Chi è che l’ha portato così lontano?
Bill trema e dice “no”, soffice come un respiro.
- No? – chiede Bushido. Lo sta deridendo, lo diverte spingerlo in questo modo. – Cos’è che mi hai regalato? – pressa con forza una mano sul suo inguine e stringe piano. Bill è già eccitato. – Questo?
Bill squittisce e chiude gli occhi.
- No.
- Io non sto giocando. – dice Bushido.
Bill si sente male, gli duole lo stomaco, e può ancora respirare il profumo di Bushido, può ancora sentire il suo calore. È eccitato e disgustato in egual misura mentre Bushido si pressa contro di lui, strofinandosi forte contro il suo petto ed il suo ventre. Il suo peso lo domina completamente.
Bushido lo afferra per i fianchi e Bill geme, cercando di spingerlo via. Non ha mai avuto nessuno così addosso, mai.
- Sai solo parlare. – dice Bushido, guardandolo dritto negli occhi. Il suo alito puzza di tequila.
- Tu mi vuoi. – sospira Bill. La stretta dell’uomo sui suoi fianchi si fa più forte, e Bill ansima. Cerca di sfuggire alla presa di Bushido, alla ricerca di un po’ d’aria e di una via di fuga da quel calore. Ma Bushido la pensa diversamente. Lo afferra, afferra i suoi polsi e lo tiene fermo. Bill gli scivola in grembo, aggrappandosi alle sue spalle.
Tutto il suo corpo impazzisce di calore quando sente l’erezione di Bushido contro il sedere. Senza pensare si muove contro il rigonfiamento nei suoi pantaloni, solo un po’, e Bushido lo spinge in avanti, stringendogli i polsi, facendogli male, e poi, finalmente, baciandolo.
Nessuno l’ha baciato in più di due anni, e tutto ciò che Bill può fare e affondare in quel bacio e mugolare. È un bacio duro, bagnato e doloroso. È tutto ciò che Bill non vuole, ma lo costringe a contorcersi in grembo a Bushido, come una puttana.
L’uomo lo allontana da sé e ringhia.
- Voglio scoparti.
Bill scuote il capo e Bushido lo bacia ancora, famelico. Bill ha paura, ma tutto ciò che fa è strusciarsi contro l’erezione di Bushido, sentendosela crescere fra le gambe. Annaspa, e le mani di Bushido scivolano lungo la sua schiena fino alle sue natiche.
- Hai paura? – chiede l’uomo, stringendone una fra le dita.
Bill scuote il capo, le labbra un po’ umide.
Bushido stringe ancora, un dito a scorrere lungo le pieghe, seguendo le cuciture dei pantaloni di Bill.
- Mmh. Stai tremando. L’hai mai preso prima?
Bill scuote nuovamente il capo, ridotto ormai ad un tremolante mucchietto d’ossa nel grembo di Bushido.
Lui ride.
- Sei completamente ubriaco, vero? Sì che lo sei. Dovrei approfittarmi di te, piccolo?
- Fottiti. – balbetta Bill.
Bushido risponde spostandosi su di lui. Bill sospira, improvvisamente colpito da un’idea. Dimenandosi, ritaglia una via di fuga oltre la stretta dell’uomo e rotola sul pavimento. Oscilla e poi si aggrappa alle ginocchia di Bushido, allontanandole l’una dall’altra. Bushido non oppone molta resistenza. Lascia che Bill gli cada fra le gambe. Lui si curva in avanti e posa una guancia contro il suo inguine. Volta il capo e si strofina contro di lui, compiaciuto del calore che se ne sprigiona e dalla sua durezza. Non pensa a cosa sta per fare. È passato direttamente dalla paura alla determinazione. Mostrerà esattamente a Bushido quanto è adulto e quanto capace può essere.
- Cazzo. – sibila Bushido. Bill si aggrappa alla lampo, tutto si sfuma e Bushido gli accarezza una guancia. Non riesce a far scendere la zip e grugnisce.
- Lo vuoi, vero? – chiede Bill, - Hai detto che lo volevi.
Bushido ride, ma la risata viene fuori strozzata. Prende Bill per i capelli e lo tiene fermo.
- Era uno scherzo.
- Non ti credo. – dice Bill. Stringe con più forza la zip, la forza verso il basso e poi pressa il viso contro i suoi boxer. Può sentire l’erezione bollente di Bushido attraverso il tessuto; è dura. Bill le lascia sopra un piccolo morso attraverso gli indumenti. Bushido impreca, la mano stretta con più forza sui suoi capelli, ma Bill è troppo ubriaco per sentire davvero dolore. – Vuoi che lo faccia?
Strofina le mani contro i fianchi dell’uomo e sfiora con le labbra il rigonfiamento al di sotto dei boxer.
- Posso farlo. – dice, - Se vuoi che lo faccia. – si china a succhiare distrattamente la punta della sua eccitazione e mugugna. Non ha neanche mai pensato di fare una cosa simile prima, e questo lo fa tremare. È troppo spaventato per tirare fuori il suo membro e succhiarlo davvero. In qualche modo, spera ancora sia tutto un gioco e che Bushido non scoprirà il suo bluff.
L’uomo lo allontana da sé e lascia andare i suoi capelli. I suoi occhi sono pericolosi; Bill lo osserva infilarsi una mano nei boxer e tirarne fuori il proprio cazzo, direttamente sulla sua faccia. Quella cosa è enorme, e Bill fa una smorfia. Bushido si limita a ridere, tenendo stretto il proprio pene fra le dita e spingendolo verso Bill.
Lui trasale, osservando il prepuzio che si tira indietro per mostrarne la testa già bagnata. Non può farlo. Non può.
- Prendilo in bocca. – ordina Bushido, - Cosa c’è? È troppo grande? Non sei abituato a vederne di queste dimensioni? Non ne hai mai succhiato uno prima, piccolo Bill? Mmh?
Bill chiude gli occhi e si spinge in avanti, le labbra a sfiorare appena la punta.
- No. – ammette, pressando le labbra contro di lui.
Bushido sbuffa e pressa due dita contro la sua fronte. Bill le può sentire lì, è come se cercassero di marchiarlo. Bushido spinge dolcemente e Bill squittisce – completamente fuori di sé a causa dell’alcool – prima di ricadere seduto indietro. Rotola su un fianco, abbracciandosi stretto, e tutto diventa scuro e silenzioso.
Bushido si china accanto a lui e solleva il suo corpo arreso. Bill non si sveglia e Bushido lo rimette disteso sul divano.
- Stupido ragazzino. – mormora prima di lasciare la stanza.

Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Commedia, Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Cosa sto facendo? Non voglio veramente farlo."
Note: Sì, fa parte della saga ed è mia ma non c’è sesso XD Sono scioccata quanto voi. In realtà questa storia è nata davvero solo perché sia io che Tab volevamo vedere Bill alle prese con qualche disastro simile. È un Bill piuttosto tenero. E Bushido è tipo… la perfezione. *sguardo sognante* Tab l’ha odiato, continuava a dire che era felice morisse D: Ditele che è una donna orribile, mi raccomando.
E sì, lo so, Bill che parla della propria morte è ingiustamente è gratuitamente crudele. È Tab che mi insegna ad essere cattiva con le fangirl. Prendetevela con lei u.u
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NATURAL DISASTER

La casa di Anis mi ha sempre messo un po’ di paura.
Prima di tutto perché, oltre ad essere spaventosamente gialla, è anche spaventosamente grande. La odio proprio concettualmente, perché è una stupida casa da single straricco. Una casa da rimorchio, ecco. Quella che, quando la ragazza di turno si avvicina, provoca gridolini isterici e oh, mio dio, hai anche la terrazza? E me lo vedo lui, che sorride e risponde non è una terrazza, e poi le porta su, all’ultimo piano, e c’è la serra con il soffitto in vetro completamente apribile, come un’enorme finestra sul cielo.
No, dico, una serra.
Che se ne fa un rapper di una serra?
Neanche la cura lui!
Però gli piace, dice che dentro ci si trova bene e che ogni tanto gli piace fare crescere le cose. Vallo a capire.
Comunque sia, odio questa casa e ne ho pure paura. Poco da fare.
Ogni tanto, però, mi ritrovo a passarci giornate intere completamente da solo. Non è neanche così inusuale: ultimamente, poi, col fatto che passiamo a Berlino la quasi totalità del nostro tempo, è questione quasi quotidiana. Non ce la faccio a stare tutto il giorno appresso a Tom, non ce la faccio perché per Tom ogni occasione è buona per ricordarmi che odia il mio uomo ed odia il fatto che io ci stia insieme.
Visto che, per quanto mi riguarda, parlerei di Anis tutto il giorno, le occasioni per Tom si moltiplicano all’infinito, e la cosa è… frustrante.
Perciò, visto che non ci vuole niente ad afferrare Saki e strillare “scortami”, lo faccio spesso. Di solito qui c’è sempre Karima ad attendermi. Anche se ha sempre qualcosa da fare – e ci credo: questa casa è enorme e lei la governa praticamente da sola – trova sempre un po’ di tempo per farmi il tè al gelsomino, ed è una cosa fantastica. Anche perché di solito poi ci mettiamo a parlare e vengono fuori cose meravigliose tipo “quella volta che il signor Ferchichi si ritrovò un gatto in balcone e per poco non si ammazzò cadendo di sotto nel tentativo di recuperarlo prima che s’infilasse nella serra”, o altre amenità simili.
Il mio uomo, ovviamente, non si degna di farsi vedere prima delle otto di sera, minimo. Mi chiedo cosa se ne faccia di questa casa – cosa se ne faccia di tutti i suoi appartamenti, in genere – se poi ne usa solo le camere da letto, per dormire o altro, dipende. Dovrebbe imparare ad usare gli ambienti in maniera più creativa. Che so… dormire in salotto, o sul tavolo della cucina. Così tutte le stanze avrebbero un loro perché.
Oggi, quando sono arrivato, la casa era desolatamente vuota. Ho lasciato scivolare le chiavi sulla consolle all’ingresso, ho buttato in un angolo la borsa ed ho improvvisamente realizzato che è venerdì: ciò significa giornata libera di Karima e… per Anis non lo so, lui è sempre pieno di impegni, non ha un giorno libero neanche a pagarlo. Che poi lo pagano per tenersi impegnato, quindi mi pare pure normale.
Mi sono aggirato con aria da zombie per le stanze che conosco – vale a dire l’ingresso, il salotto e la cucina – poi sono andato a spalmarmi sul suo letto in camera, ho rotolato fra le lenzuola, ho disfatto tutto, combinato un casino epocale e poi, sorridendo come un bambino, sono tornato nella sala e mi sono gettato sul divano a peso morto, andando alla ricerca del telecomando per accendere la tv e vedere se per caso beccavo qualcosa di interessante – lui. Me. Nena. E così via.
Alla fine, mi sono rassegnato. Il vuoto regnava incontrastato ovunque e l’unica cosa interessante che ho scoperto dalla televisione è che VIVA non ci passa più spesso quanto prima. In compenso, ha i Killerpilze in rotazione continua, e ciò è oltremodo irritante. Dovrò parlarne con David.
Rimango accucciato sul divano, le adidas a strisciare con una certa crudele lentezza sulla pelle nera e – precedentemente – immacolata del cuscino, e proprio quando mi sembra di cominciare a sentire le voci nella testa per la noia – tipo: c’è mio fratello che continua a ripetermi “te l’avevo detto, che ti avrebbe trascurato!” – ricordo un particolare fondamentale e importantissimo che potrebbe cambiare la mia giornata.
Ultimamente, Karima s’è fatta prendere da una certa mania salutista che non so sinceramente da chi abbia preso – posso solo pensare all’unica, singola e mai ripetuta volta in cui David è passato di qui per riportarmi a casa ed Anis l’ha invitato a restare per cena.
No, la cosa va raccontata. A parte il fatto che mi sono sentito enormemente orgoglioso del mio uomo, per come in due-sorrisi-due sia riuscito a stregare David al punto che dopo cena ha accettato anche di andarsene a mani vuote, cioè senza il sottoscritto. Ma poi quest’uomo che in teoria mi ha quasi cresciuto ha fatto in dieci minuti più capricci di quanti ne faccia io in una settimana intera. E non vuole mangiare carne, e la salsa è troppo piccante, e nella pasta non ci saranno mica dei fegatini, perché io non li posso mangiare!
Insomma, la povera Karima gli ha dato da mangiare una ciotola di biada, tipo, e lui le ha fatto un sorriso talmente enorme e grato che credo l’abbia turbata nel profondo.
Perciò ha deciso che in questa casa si mangia solo lattuga.
Ora, se qui ci vivesse David, la cosa sarebbe pacifica: lui e Karima continuerebbero a ruminare erbacce e si amerebbero per tutto ciò che resta delle loro vite. Purtroppo, però, in questa casa orribile ci vive Anis, che è tutto meno che vegetariano, e quando torna a casa in genere è così affamato che bisogna ringraziare non ci mangi me e la cameriera crudi e vestiti per come siamo.
Si può immaginare bene che per un uomo impegnato come lui tornare a casa e trovare una vasca di roba verdognola e umidiccia non sia esattamente il ritratto di una cena perfetta. Certe volte guarda Karima con occhio triste, chiedendosi dove sia finita la brava cuoca tunisina cipolla-friendly che credeva di conoscere.
E poi, una o due notti fa, me l’ha confessato. Stavamo arrotolati sul suo letto, io stavo cercando di convincerlo a scoparmi ancora ma con scarsi risultati – anche Anis ha i suoi limiti, c’è da dirlo – e lui ha grugnito un dissenso random e poi ha detto “Ho fame. Mi mangerei un vitello. Karima mi affama. Voglio del kebab”. Così, tutto di seguito. I punti neanche c’erano, li aggiungo io per facilità di pensiero, perché mi dà fastidio ammettere che qualcuno oltre me possa pensare senza punteggiatura.
Ed ecco che ogni mio problema si risolve. So cosa fare!
Balzo in piedi senza spaccarmi in due per un motivo che posso imputare solo al sacro fuoco dell’amore che mi sostiene – altrimenti la mia schiena non avrebbe retto, posso giurarlo – e mi fiondo in cucina. Questo posto che mi è totalmente alieno. Io non cucino mai. Io faccio cucinare mio fratello, e non perché sia bravo, ma perché non voglio prendermi responsabilità in questo senso.
Vengo colto da un momento di panico.
Cosa sto facendo? Non voglio veramente farlo.
Poi mi torna in mente il mio Bu senza virgole e con tanta fame e sospiro.
Dunque, il manuale delle ricette di Karima dev’essere qui da qualche parte. Lei lo tira fuori solo in occasioni speciali, per piatti inusuali o che comunque non prepara da tempo, ma fortunatamente ha appuntato anche un sacco di ricette più semplici, più che altro perché quando è solo Anis lo usa per cucinare le uova coi piselli in tegame, per dire. Ha bisogno delle spiegazioni passo dopo passo.
Mi guardo intorno. La mensola. Ci sono tutta una serie di gioiosi libri. Mi avvicino con aria sprezzante e godo internamente nel non aver bisogno dello sgabello su cui Karima si arrampica di continuo, per arrivare a vedere i titoli sulle costine. In mezzo a un sacco di roba inutile, una copertina in pelle marrone un po’ logora mi colpisce, ed io sorrido. Ecco qua la mia Bibbia per le prossime due ore.
Tiro giù il volume e lo apro sul tavolo con una certa sacralità. Non posso credere che ci sia la ricetta per il latte e biscotti – comprensiva di conteggio preciso dei secondi per i quali il singolo biscotto può stare a mollo senza sfaldarsi – o quella per montare la moka, eppure ci sono. Se non fosse ridicolo sarebbe tenero. Prendo nota mentalmente di sfottere Anis fino alla morte per tutto ciò e passo avanti.
La ricetta del kebab ovviamente c’è. È verso la fine – ricette di livello avanzato, leggo scritto sulla pagina che le precede – e già ad una prima occhiata so che non le sopravvivrò. Intanto, già qua mi dice che ho bisogno di una cinquantina di fette di carne. Ora, non esiste. Sarò già fortunato a trovarne due. Facciamo che cerco di moderare le quantità degli ingredienti, ecco.
Corro verso il frigorifero giallo come la casa che domina incontrastato la cucina dall’alto dei suoi quasi tre metri d’altezza, e mi fiondo nel reparto carne – che poi è un cassetto accanto al reparto salumi, che è un altro cassetto.
In effetti, sono piuttosto fortunato: ben tre bistecche attendono solo che io le trasformi in qualcosa di commestibile.
Per un attimo mi chiedo se le bistecche vadano bene, come tipo di carne. Non ne sono proprio sicuro, qua la figura – sì, ci sono le foto, fissate alla pagina con le puntine da disegno rosse a pallini neri, come le coccinelle – sembra completamente diversa, ma comunque. Scrollo le spalle: in fondo è l’unica carne che c’è.
La ricetta ora dice che devo insaporirla con le spezie e marinarla.
Marinare non so nemmeno cosa significhi, sinceramente. Dovrei metterla a mollo in acqua salata?
Be’, le spezie, prima. Apro uno stipetto e tiro fuori tutto ciò che mi sembra possa corrispondere alla descrizione. Origano, menta, peperoncino, cannella… coriandolo? Che razza di nome è coriandolo, per una spezia? Ma poi, dovrò metterle tutte insieme?
La ricetta non è così specifica. Forse Karima sapeva che Anis non ci avrebbe mai messo su le mani, perciò non l’ha resa Bushido-friendly.
Mi piace questo modo di appellarmi alle cose.
Questa ricetta non è Bill-friendly, comunque. Ma è ciò che Anis vuole, perciò lo preparerò.
Dunque, afferro un pentolone da uno dei ripiani sotto il lavello, lo riempio d’acqua, spargo un po’ di sale e ci butto dentro le tre fette di carne. Fanno splash e si posano sul fondo senza ribellarsi. Annegano, ed io spargo sopra le ceneri di questo funerale. Origano, menta, peperoncino, cannella e pure coriandolo, che in realtà me l’aspettavo più simpatico, e invece e una roba fatta di palline inquietantissime.
A questo punto, suppongo vada cotta. Lancio un’occhiata a caso al ricettario e vedo un “un’ora e mezza circa” che immagino sia il tempo di cottura. Sinceramente, il tutto mi fa un po’ senso, perciò decido che basta così: accendo il fuoco sotto la pentola, ci metto su un bel coperchio e chiudo il tappo in alto, così il vapore non fugge via, e poi abbandono la cucina. Tornerò a controllare quando sarà scaduto il tempo.
Nel mentre, vagolo un po’ per casa. Questo posto è noiosissimo, quando non c’è nessuno in giro. Tanto per cominciare, c’è un silenzio di tomba, e questa cosa è inquietante. Continuo ad aspettarmi che salti fuori qualcuno random da un angolo, brandendo un coltello o qualcosa di peggio. È spettrale. Il fatto che qui intorno sia tenuto d’occhio da qualcosa come dieci o quindici guardie del corpo non mi rassicura minimamente.
Saltello in salotto e mi riapproprio del divano. Il telefono, dal tavolino alto qui a fianco, mi guarda e mi fa l’occhiolino. Potrei chiamare Tom, ma suppongo che litigheremmo. Potrei chiamare Anis, ma poi capirebbe che sono qui e vorrei fargli una sorpresa. Magari chiamo Chaku. No, e se poi è con lui e glielo dice? Be’, potrei sempre aprire la telefonata strillando “Non dirgli assolutamente che sono io!”, ma poi succederebbe come l’ultima volta, che lui sarebbe costretto a rintanarsi in un angolo e tutti si metterebbero a sfotterlo dicendogli che se ha una donna deve presentarla alla crew come tutti gli altri. E così poi lui dovrebbe dire che ero io e, a parte rovinare la sorpresa, Anis s’incazzerebbe pure, perché quando va in modalità è-mio-e-nessuno-lo-tocca io posso anche dirgli che Chaku è adorabile ma non ci combinerei mai niente, lui non mi ascolta comunque.
Insomma, non mi resta che annoiarmi. Annoiarmi e aspettare che il mio kebab – che, visto l’amore che ci ho messo nel prepararlo, non potrà che risultare buonissimo – sia pronto.
Un’ora e mezza.
Magari, se metto la sveglia nel cellulare, posso farmi una dormita…
*
Mi sveglio presto. Nel senso che la suoneria del cellulare non è ancora suonata. Lo so perché l’orologio piccolo tondo e giallo che fa da indicatore è ancora lì sul display. Quando suona, scompare. E invece è ancora lì. E io sono già sveglio. Il mio orologio biologico è molto ingiusto, nei miei confronti.
Poi realizzo di botto che il mio orologio biologico sta cercando di salvarmi la vita. Lo realizzo nel momento stesso in cui sento un fischio dannatamente spaventoso provenire dalla cucina e svegliarmi del tutto.
Salto giù dal divano e corro verso il mio povero kebab. Il tappo della pentola salta – è come un’esplosione, batte contro il soffitto e poi cade a terra, io strizzo gli occhi terrorizzato.
- Cristo! – rantolo in un impeto di frustrazione, mentre cerco di avvicinarmi alla pentola senza finire ustionato dagli schizzi d’acqua o abbrustolito dal fumo. Acqua, per la verità, ne è rimasta ben poca, e s’è trasformata in una brodaglia rappresa e schifosa che fa un puzzo infernale. La carne s’è carbonizzata quasi tutta, e le uniche cose che riesco davvero a distinguere sono le palline di coriandolo, ancora perfettamente sferiche, solo un po’ tostate, mescolate a granelli e fogliette di ogni tipo di schifezza.
Mi viene da vomitare.
Allungo una mano e faccio girare la manopola del fornello, spegnendo il fuoco.
Oddio, non so che fare.
Provo a prendere la pentola dalle maniglie, ma mi rendo conto anche a qualche centimetro di distanza che sono incandescenti. Dio, farò del male a Karima per tutto ciò. La sua ricetta era tutta sbagliata e troppo complicata da seguire, e vaffanculo!
Non so come mettere a raffreddare questa cosa.
Dio, è così calda che ho paura si possa sciogliere.
Ma l’acciaio inossidabile sarà pure… inscioglibile? Ma esiste, la parola?
Dio. Dio, dio, dio. Mi odio così tanto, cazzo.
Rifletto un po’. Mi viene da piangere, merda. Non ci riesco, a riflettere.
Penso solo al frigo. È mezzo vuoto, il giorno della spesa è domani, non c’è quasi più niente. Ci sarà lo spazio per una pentola. Apro lo sportello e vedo che, in effetti, c’è un ripiano completamente vuoto. È quello dei dolci, sta in alto, più vicino al freezer. Magari è pure più freddo. Magari, se la metto lì, si rinfresca più in fretta, ed avrò pure il tempo di pulire tutto questo disastro prima che Anis torni. Magari la scampo.
Dio. Voglio piangere.
Prendo la pentola con due strofinacci umidi e la metto là in alto. È una cosa tremenda. Stavo per morire! Stavo anche per fargli esplodere la casa, ma soprattutto stavo per morire! Già me lo vedo, tutto in nero al mio funerale, con un completo sobrio e semplice, le scarpe nere e lucide ed una camicia scura, senza cravatta, un cappello a tesa larga calato sul viso. Bellissimo! Ed io in una stupida bara a farmi mangiare dai vermi. Non posso credere di avere quasi privato il mio Bu della mia presenza, è una cosa indecente.
Piagnucolo un po’ mentre esco dalla cucina e vado di nuovo verso il telefono. Ho dannatamente bisogno di parlare con qualcuno. Accarezzo l’idea di chiamare comunque Tom, senza un perché, non m’interessa che mi rimproveri o mi prenda in giro, ho voglia di sentire un essere umano che mi parla. Potrei chiamare Anis e dirgli di venire subito, ma fare la solita figura del cretino che non sa come risolvere i guai in cui si caccia, e sinceramente non voglio che sia questa l’idea che ha di me. Non voglio che pensi di non potermi lasciare solo a casa senza che io combini qualche danno, anche se è vero che se mi lascia solo a casa ne combino.
Mentre sto qui ad accarezzare la cornetta di questo stupido e vecchio telefono d’epoca che non sono neanche sicuro funzioni, perché quando è in casa Anis va in giro col cordless ed usa solo quello, sento uno strano frizz frizz proveniente dalla cucina. Ho appena il tempo di sollevare il capo e dirmi “oddio, ancora no, ti prego”, che sull’intera villa cala un buio pesto e sconvolgente.
- Oddio… - mugolo terrorizzato, portandomi una mano sul petto, - Oddio… - cerco di muovermi senza urtare niente, ma non è facile perché i mobili non ricordo esattamente dove sono, sono troppi, perciò sbatto un po’ ovunque e domani avrò tanti di quei lividi che cominceranno tutti a pensare Anis mi picchi, ne sono sicuro.
Raggiungo la cucina e cerco di capire se sia successo qualcosa di irreparabile o se sia solo un guasto momentaneo, quando poso il piede su qualcosa di umido e scivoloso e casco a terra di schiena.
- Merda… - cerco di muovermi. Sono praticamente immerso in una pozza d’acqua. Mi sono infradicito tutto. Mi fa male la schiena ed anche il sedere, vaffanculo. Non so cosa sia successo ma di sicuro è una cosa tremenda, qui è tutto bagnato ed io non so più dove sbattere la testa, e la voglia di piangere non è più nemmeno una voglia, perché sto piangendo davvero. Coi singhiozzi e tutto. È tremendo. Sono un cretino.
Mi sollevo sui gomiti e, già che ci sono, mi bagno pure lì. Questo fottuto frigorifero non voglio neanche provare ad aprirlo. Che esploda pure, se vuole. Fanculo lui e tutto il resto.
Mi trascino stancamente fino all’angolo più lontano della cucina, e se non divento un disgustoso ammasso di schifezze devo ringraziare solo Karima che passa lo straccio due volte al giorno. Mi raggomitolo contro la parete e chiudo gli occhi, perché tanto non vedo niente ed in ogni caso, anche se vedessi qualcosa, non mi andrebbe di guardarla.
Resto così non so per quanto tempo. Posso sentire solo i miei singhiozzi e i miei respiri strozzati. Sono esattamente il bambino per cui mi piace farmi passare. Non esiste un Bill Kaulitz più maturo, sono una stupida maschera da palcoscenico. Non c’è niente di maturo o di adulto, in me, e non ho la minima idea del perché Anis mi trovi attraente o possa desiderare di stare con me, difendermi o mettersi nei casini mentre lo fa. Non me lo merito. Non mi merito niente. Faccio schifo.
Quando sento le chiavi girare nella toppa e la porta aprirsi e poi richiudersi, vorrei davvero chiamarlo. Ma un po’ mi vergogno, un po’ ho paura di ciò che potrebbe dire, un po’ proprio non mi riesce di smettere di piangere, perciò rimango qui a singhiozzare come un deficiente e neanche mi muovo, anzi, stringo ancora più le ginocchia al petto, fino a scomparirmi dentro.
Un interruttore scatta a vuoto. Una volta, due volte.
- Ma che…?
La voce di Anis mi fa saltare in cuore in gola. Mi sento soffocare e tossisco un po’.
- Chi c’è? – chiede lui, il tono fermo e deciso col quale immagino sia pronto ad affrontare qualsiasi devastazione.
Ma eri pronto per una devastazione simile, Anis…?
- Sono io… - piagnucolo disperato, stringendomi nelle spalle, - Sono in cucina…
La gomma delle suole delle sue scarpe da tennis striscia sulle piastrelle in marmo misto e si muove velocemente nella mia direzione.
- Bill? – chiede dolcemente, - Piccolo, ma dove sei? Da quando se n’è andata la luce?
- Non se n’è andata… - continuo a piangere, mentre lui prova a far scattare l’interruttore della cucina, anche stavolta senza successo, - L’ho fatta andare via io… - motivo confusamente, raggomitolandomi a palla.
Lui ridacchia, un po’ incerto.
- Non sei affatto così brutto. – cerca di consolarmi, - Ma mi dici dove sei?
- Qua in fondo! – strillo istericamente, sollevando il capo e battendolo forte contro qualcosa che non voglio identificare. – Ahi… - mugolo, - Mi va tutto storto, è un disastro…
- Okay, senti, calmati. – dice lui, conciliante, - Vado a prendere una torcia. Non ti muovere.
E chi ci pensa. Rimango in silenziosa attesa del suo ritorno, e sollevo lo sguardo solo quando sento la luce giallastra e calda della torcia scivolarmi curiosamente sul corpo.
- Cazzo, piccolo, ma che è successo…? – chiede lui, fissandomi sgomento dalla porta della cucina, - Ma stai bene?
- No. – rispondo a bassa voce, tornando ad abbassare lo sguardo.
La torcia mi abbandona. Vaga intorno al mio corpo, davanti al frigo, sui fornelli.
- Non dirmi che hai provato a cucinare… - esala lui, senza fiato e senza muoversi.
Io non rispondo.
- Bill, dai. – mi richiama pazientemente, - Vieni qui. Su.
- No! – ripeto ancora, più deciso.
Non so cosa sto facendo. Mi sento una merda e basta.
Anis sospira ed evita la pozzanghera, raggiungendomi ed accucciandosi al mio fianco, stringendomi immediatamente fra le braccia. Mi ci sciolgo senza pensare, affondando nella felpa che ha il suo profumo ed è morbidissima, al contrario della merda che mette Tom e che mi irrita sempre il viso.
- Mi dici cosa è successo? – chiede dolcemente.
- Tu volevi il kebab! – rispondo ansioso, aggrappandomi con forza alla sua maglia.
- Aha. – annuisce, - Okay, è colpa mia?
- …vaffanculo.
Anis ride fra i miei capelli. Capisco che stava scherzando. Non è che non lo sapessi, ma la sua risata mi conforta, un po’.
- Senti, è tutto okay. Ci sarà stato un corto circuito. Adesso tu mi reggi la torcia e lo sistemiamo, d’accordo?
È carino che abbia usato il plurale. Voglio dire, io non sarò mai e poi mai in grado di riparare un guasto all’impianto elettrico, non so neanche cambiare le lampadine, voglio dire, non sono nato per fare cose simili!, ma è lo stesso carino che lui provi a farmi sentire parte di questa cosa.
- Ti tengo la torcia… - annuisco piano, rimettendomi in ginocchio e poi in piedi, mentre lui continua a sorreggermi come avesse paura di vedermisi sfaldare fra le mani.
Lascia la cucina e torna qualche secondo dopo con una cassetta degli attrezzi.
No, vorrei ripeterlo: una cassetta degli attrezzi.
C’è qualcosa che non sappia fare?
- Vieni qui, dai. Diamoci una mossa. – dice spiccio, afferrando quei millemila quintali di frigorifero e spostandoli come niente.
- Ma… è pesante… - commento annichilito.
- Ha le rotelle, sotto. – risponde lui con un mezzo sorriso, chinandosi sul pavimento. – Aspetta. – borbotta, - La maglia è nuova, non la posso distruggere così. – la tira via con un gesto accorto e immediato, e me la tende educatamente, - Reggi?
Prendo la maglia e gli pianto la torcia addosso.
- Sì, ma non negli occhi. – sorride lui, riparandosi dalla luce - Tanto vuoi guardare più in basso, no?
Arrossisco e gli punto effettivamente la torcia sul petto.
- Ma la smetti di fare il cretino? – ride ancora, ed io non posso fare altro che seguirlo. – Puntamela qui sulla presa. – ordina poi, tornando serio. Io ubbidisco e lo sento mugugnare. – Eh, infatti, guarda, è perché s’è bagnato tutto. Magari dentro non s’è neanche bruciato. Il salvavita in teoria dovrebbe scattare prima. Mi passi il cacciavite a croce?
- Il che…? – chiedo, un po’ disorientato. Mi fa stranissimo sentirlo parlare così. L’uomo del ghetto, voglio dire. Ma com’è che non lo prendono a calci dalla mattina alla sera, quelli della crew? Io lo farei. Chakuza, che è un peluche, in confronto mi sembra un vero uomo di strada, al momento.
- Lo riconosci subito. – dice lui senza scomporsi, - Ha il manico rosso e giallo, è praticamente fosforescente.
Facilmente individuabile al buio. Sono ufficialmente sconvolto.
Lui stacca la presa, la apre, la tasta un po’.
- Sì, è bagnato ma non è andato in corto. – si volta e mi sorride. Io non lo vedo, perché la torcia è di nuovo puntata altrove, visto che la presa e gli addominali sono troppo vicini per puntare una ed ignorare gli altri, però lo sento lo stesso. – Siamo stati fortunati. – decreta alla fine, - Questa la lasciamo asciugare tranquilla ed ora riattacchiamo la luce. – annuisce e si rimette in piedi. Io me lo ritrovo improvvisamente a due centimetri dal mio corpo, mezzo nudo, lievemente sudato e coi pantaloni fradici d’acqua.
Non so come faccio a resistere alla tentazione di schienarlo e farmi scopare ora e subito.
- Passato lo spavento? – chiede, inclinando lievemente il capo.
Io annuisco senza neanche respirare.
- Perfetto. – annuisce anche lui, - Aspetta qui, vado a riattaccare l’interruttore principale.
Fa per muoversi e lasciare la cucina. Lo afferro per la cintura e lo tengo fermo.
La torcia cade a terra, per un qualche miracolo non si rompe e rotola oltre il suo corpo, proiettando le nostre ombre sulla parete di fronte.
Non dico niente. Socchiudo gli occhi. La sua ombra si china sulla mia e poi mi sento addosso le sue labbra.
- La luce può aspettare. – sussurra contro il mio collo.
Sorrido e mi lascio sollevare sul tavolo.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: PWP, Lemon, Slash.
- "Non hai idea di cosa sta succedendo. E non hai idea di cosa mi stai facendo."
Note: Gh. Sinceramente non so che dire. In realtà mentre scrivevo ero abbastanza terrorizzata, perché il POV di Bushido in questa storia mi atterrisce – per ovvi motivi che non sto qui a rivangare per preservare la sanità mentale di noi tutti. Al momento c’è Tab che mi dice cosa dovrei tendenzialmente scrivere in queste note, e siccome il mio cervello al momento è vuoto più o meno come quello del Bu alla fine di questa storia – ma io non ho fatto niente di zozzo, il che è deprimente – seguo ciecamente i suoi ordini.
Dunque. Questa storia è nata perché in Ersguterjunge Bushido parla delle volte in cui ha rifiutato Bill e l’ha rimandato a casa. Parla della perseveranza di Bill e di come andasse premiato per la sua cocciutaggine. È questo è semplicemente troppo bello, era troppo romantico perché io non desiderassi scriverci su, metterlo in chiaro, parlarne. Perciò l’ho fatto, con una gioiosa PWP – che è ormai il mio segno distintivo all’interno di questa saga XD (Morte -> Tab; Sesso -> liz. Eros e Thanatos, praticamente).
Spero che Bill non vi mandi troppo in WTF, ma d’altronde è un Bill che avete già un po’ intravisto in Driving Bill Kaulitz: il Bill di prima, quello felice. *piange*
Karima non è siciliana. Mi dicono di specificarlo dalla regia. Avrebbe potuto esserlo, ma Bu è uno che ci tiene a che le cose siano fatte per bene u.u Perciò Karima è tunisina come lui.
Comunque tutto ciò è schifosamente triste. E il fatto che io non riesca a risparmiarmi i riferimenti alla morte anche nel porno è TREMENDO. Odiatemi.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CHAINED TO YOU

Questa serata si conclude come si concludono tutte le mie serate da una quantità di settimane così enorme da risultare quasi disturbante, se ci penso.
Io non sono una persona molto paziente. So esserlo, certo, quando ne riconosco l’utilità – o quando preferisco così – ma tendenzialmente la mia pazienza si esaurisce nel momento stesso in cui, dopo aver detto no, mi trovo ad ascoltare nient’altro che una richiesta più insistente di prima.
Se dico no è no. Ed è sempre stato così.
Per un qualche motivo che non comprendo, i miei no non hanno alcun effetto su Bill.
E questo è disturbante.
Mi aspetta sotto casa come al solito; stringe fra le mani un sacchetto di plastica e sta tutto avvoltolato in una specie di piumino dentro al quale il suo corpo magro e ossuto si perde senza speranza. Mi avvicino con un sospiro poco convinto.
È stata una giornata pesante e non ho voglia di dire no a nessuno.
Negare è sfiancante. Per negare devi motivare il tuo rifiuto. Accettare è molto più semplice, basta un mezzo sorriso.
Quando arrivo al suo fianco, stringendo in mano le chiavi di casa, so già che non sarò in grado di negare alcunché.
- Immaginavo che saresti tornato tardi… - sorride lui, serrando le dita attorno alle maniglie del sacchetto, - Avevi le registrazioni per quel video… - lo vedo che si sforza, mi viene quasi da ridere. – Reich…
- Sì. – taglio spiccio, infilando le chiavi nella serratura e facendola scattare poco dopo, - Quello. – preciso con un ghigno, sapendo che non ricorderà mai a memoria il titolo. Mi chiedo se abbia mai ascoltato la mia musica, o se tutta questa storia che si trascina da eternità non sia solo ciò che resta di un fratello che mi idolatrava e di qualche flirt un po’ troppo spregiudicato in televisione.
Nonostante la luce gialla dei lampioni renda l’aria della notte quasi fosforescente, lo vedo per un secondo illuminarsi di qualcosa di più puro del neon.
- Reich mir nicht deine Hand! – conclude con un sorriso, - Era questa, giusto? Mi avevi parlato di un video in riva al mare…
Sinceramente stupito, inarco un sopracciglio.
- Già. – annuisco aprendo la porta, - Be’?
Lui deglutisce e sembra ricordarsi solo adesso perché è qui. Solleva il sacchetto all’altezza del viso.
- Ti ho portato qualcosa da mangiare. – dichiara tranquillo, - Spero che ti piacciano gli hamburger.
- A chi non piacciono? – chiedo retorico, facendogli strada in casa.
Karima si affaccia dalla cucina. Dalle sue spalle arriva l’odore sottile e insinuante del soffritto di cipolle appena messo sul fuoco.
- Buonasera, signor Ferchichi. – mi saluta educatamente, - Il signor Kaulitz si ferma per cena? – chiede poi, salutando con un cenno del capo Bill al mio fianco.
- Sì. – annuisco io, rimpiangendo già qualsiasi cosa meravigliosa stesse preparando, mentre il mio buongusto abdica in favore di Bill, - Ma non c’è bisogno di preparare. Bill ha portato qualcosa.
Questa donna, che conosco da anni, sorride in un modo che mi fa un po’ paura, annuisce e si ritira in cucina per tirar giù la padella dal fuoco. Io sospiro ancora – perché ci sono volte in cui mi sento molto una pedina di qualcosa che non mi piace affatto – e faccio strada a Bill all’interno della casa, per quanto mi renda conto sia ridicolo, visto che ormai la conosce fin troppo bene.
- C’era freddo? – mi chiede all’improvviso, mentre sistemo i panini – una quantità industriale – sul tavolo di fronte a noi.
Sollevo lo sguardo.
- Cosa? – ribatto, vagamente confuso.
- …dove avete girato. – precisa con imbarazzo palpabile, giocando nervosamente con un paio di fazzolettini di carta sottilissima tirati fuori dal sacchetto, - Era in riva al mare, perciò ho pensato… forse faceva freddo.
Non so davvero cosa dovrei rispondere.
- Avevo il giubbotto. – dico alla fine. Non so se sia la risposta giusta, perché non ho la minima idea di cosa mi abbia chiesto.
- Ah. – annuisce Bill, e scosta la sedia dal tavolo per accomodarsi di fronte alla distesa di panini. – Tu quali preferisci? – chiede ancora, esitando nello scegliere la propria cena, - Ne ho presi di tutti i tipi, ce ne sono con le cipolle, coi cetriolini, senza niente, e poi col pollo, col manzo, credo, col vitello, forse uno col pesce ma non ricordo, è che non so che-
- Uno qualsiasi andrà bene. – lo fermo, sedendomi al suo fianco un po’ stordito, - Sei la solita macchinetta. – commento con un mezzo sorriso.
Lui aggrotta le sopracciglia ed io mi mordo un labbro. L’ho offeso.
- Tu, invece, sei il solito pezzo di ghiaccio. – ritorce. Il suo tono è glaciale almeno quanto mi accusa di essere, e le parole suonano come stilettate in un posto che non saprei identificare, ma fa un po’ male.
Forse è questa l’abitudine. Quando sei affezionato ad un sorriso e quello, all’improvviso, si spegne.
E tu non hai neanche capito che in realtà ti piaceva.
Scrollo di dosso i pensieri molesti, perché devo cercare di ricordarmi che qui si sta parlando di me e di Bill Kaulitz, non di una coppia da fotoromanzo. Queste idee malsane non dovrebbero neanche sfiorarmi.
- Vuoi litigare? – chiedo stancamente. Spero che risponda no, perché io non voglio.
Bill sospira.
- No. – risponde mesto. Bravo bambino. – Ma potresti essere un po’ più gentile, magari.
Sbuffo un mezzo sorriso e mi allungo verso di lui. Non ho la minima idea di cosa sto facendo, dev’essere il sonno. Gli passo una mano fra i capelli – sono morbidi e tiepidi – e poi la lascio scivolare sulla sua spalla – appuntita e spigolosa – stringendola con una sorta di affetto mal dissimulato.
- Sono esausto. – ammetto, dirigendo la stessa mano che l’ha toccato verso i panini, per recuperarne uno a caso, - Tu che hai fatto, oggi?
Lo osservo soffermarsi un attimo sul mio volto, come incuriosito dalla mia espressione. La mia espressione dev’essere piuttosto stupida, perché lui si mette a ridere. Non è fastidioso – non completamente, ma…
- Ti ho fatto una domanda, potresti anche rispondere. – protesto, aggrottando le sopracciglia.
- Sì, certo. – dice lui, spegnendo la risata e scacciando via una piccola lacrima di divertimento dagli occhi, - Sono stato un po’ in giro. Nulla da fare. Una noia. Ho giocato con Tomi.
- Il ritratto perfetto della giornata di un bimbo diligente. – dico con un sorriso, addentando il panino e rendendomi conto di avere in effetti un certo appetito.
- Be’, poi sono scappato e ho preso la cena. – completa lui, scrollando le spalle, - Non tanto diligente.
- Bill. – sospiro, mandando giù il… sarà pollo? Non riconosco il gusto. Potrebbe non essere neanche carne, per ciò che so o che m’importa. – Il tuo manager sa perfettamente che sei qui, così come sa perfettamente che sarai a casa prima di mezzanotte. Come Cenerentola.
Bill s’arruffa tutto come un pulcino, quando è arrabbiato.
È quello che fa anche adesso.
- Ci tieni tanto a guadagnarti la fiducia di David? – scocca a bruciapelo, - Fai sempre quello che dice lui!
- Ma non lo faccio perché lo dice lui. – preciso sorridendo, - Quello è il tuo compito.
- Be’, nemmeno io faccio le cose perché le dice lui. Anzi, - sospira pesantemente, - in genere, quando le dice, non le faccio e basta.
Ridacchio.
- E quindi sei qui per una sorta di ribellione adolescenziale nei confronti della tua figura paterna del momento?
Se lui può arruffarsi, posso anch’io.
Bill si morde l’interno di una guancia ed abbassa lo sguardo, offeso. Improvvisamente, me lo rivedo com’era due giorni fa, in questo stesso salotto, mentre cercava di convincermi a lasciarlo dormire con me. Allora dissi qualcosa di molto simile – qualcosa di molto stupido tipo “sei qua solo perché ti sei fatto un film che con la realtà non c’entra niente”. Non si dovrebbero mai dire cose simili a qualcun altro, perché in fondo non puoi sapere niente che cosa gli gira per la testa.
Un sentimento è un sentimento.
Ciò che provi non smetti di provarlo se ti dicono che non è reale.
Questo vale per Bill e purtroppo vale anche per me.
- Ora che ci penso… - commento distaccato, cercando di darmi un tono e farmi forza: se riesco a rimandarlo a casa anche stasera, magari non si ripresenta più. – È giusto l’ora della nanna. Se ti chiamo un taxi adesso, magari arrivi a casa in orario.
Scatta in piedi con la furia di un cucciolo in pericolo di vita. Non ha la minima idea di come difendersi, ma lo farà finché ne avrà la possibilità.
- Posso restare a dormire qui. – propone pacatamente, stringendo una mano attorno al bordo del tavolo, come volesse aggrapparvisi per non volare via.
A causa di cosa, non lo so, visto che sono tutto meno che forte come un uragano.
- No che non puoi. – nego risoluto.
- Hai milioni di stanze! Non devo stare per forza da te!
- Sì, e poi finisce come, quand’era?, la settimana scorsa? Devo ricordarti come mi sono svegliato?
Bill arrossisce ed abbassa lo sguardo.
- Non posso fidarmi di te. – continuo, - Non se t’intrufoli in camera mia nottetempo e cominci a… Bill, avanti, siamo seri. – scuoto il capo, il pensiero confonde anche me. Quella notte s’è stretto al mio corpo come non volesse più lasciarlo andare. Mi ha baciato, e d’improvviso ho realizzato quanto pericolosa fosse questa relazione, e quanto ancora più pericolosa potrebbe diventare se si concretizzasse in qualcosa di serio. Non posso lasciare accadere niente di simile. Io non sono un pazzo e non sono un suicida. – Torna a casa. – sollevo lo sguardo su di lui e non ci metto molto a capire che fra un po’ scoppierà a piangere. Mi avvicino, sfiorandogli una guancia con due dita. – Sei piccolo e molto molto avventato. Non hai idea di cosa sta succedendo.
E non hai idea di cosa mi stai facendo.
Lui solleva una mano e stringe con forza le mie dita fra le sue. Ho fatto male a toccarlo. Ho fatto malissimo.
- Non mandarmi via. – sussurra avvicinandosi ancora, fino ad aderire completamente al mio corpo, - Io non sono un problema. Cazzo, io ti amo.
Non so come faccio a trattenere il lamento di puro dolore che mi nasce in gola.
Io non so come governarlo.
Non so come fermarlo.
Non ho idea di come dovrei gestirlo, questo ragazzino così stupido.
So che fino ad un secondo fa il suo corpo era premuto contro il mio solo perché lui lo voleva. Adesso, però, adesso che me lo stringo contro, lo voglio anche io.
Io non sono bravo a mentire.
A me le menzogne non piacciono.
La verità è importante al punto che me la sono scritta addosso.
Lo bacio senza la minima delicatezza, perché nessuno di noi due la vuole. Non sono io. Quello che si contiene e quello che rimane impassibile e quello che non tocca e quello che nega e quello che rifiuta. Non sono io. Questa cosa fredda non sono io.
Il corpo di Bill è così caldo che riscalda tutto.
Lo sento sotto le dita, mentre le lascio scivolare sotto la sua maglietta, e lo sento sulla pelle del mio collo, dove il suo viso si posa alla ricerca di un riparo dall’imbarazzo, e dove le sue labbra si fermano, incerte su cosa fare. Così imparo la sua forma: la linea dritta dei suoi fianchi, la curva morbida della sua pancia, le colline e le valli della sua spina dorsale. La magrezza delle sue braccia e la pelle un po’ ruvida sui tatuaggi. La fragilità della sua nuca e l’impeto della sua eccitazione, premuta forte contro la mia in una sfida senza vincitori che è solo la dimostrazione fisica del nostro desiderio.
Lo spingo indietro fino al tavolo, buttando giù i panini per terra, e penso distrattamente che Karima domani mi maledirà in tunisino finché non mi verrà la nausea per le mie stesse radici.
Bill ride contro il mio orecchio.
- Ops.
Rido anche io.
- Sei una peste. – commento baciandolo in punta di labbra, un attimo prima di liberarmi dell’ingombro della sua maglietta.
- Ehi… - biascica imbarazzato, stringendosi a me come ad una coperta, - Li hai fatti cadere tu…
Le mie mani sfidano l’orlo dei suoi jeans e lo sconfiggono, passando oltre. È morbido e dolce, Bill, e fa dei mugolii deliziosi quando scendo a stuzzicarlo fra le natiche.
Mi piace il suono. Ne voglio ancora.
I pantaloni che indossa sono così stretti che mi rendono i movimenti difficili. Lui se ne accorge e sbuffa, agitato.
- Tirali via! – biascica ansiosamente sulle mie labbra, mentre le cerca per un altro bacio.
Obbedisco su tutti i fronti, i pantaloni scompaiono ed il mio movimento si fa più libero. Posso stuzzicarlo anche fra le gambe. La morbidezza delle sue cosce si chiude attorno al mio polso, mentre lo sfioro per tutta la lunghezza della sua erezione, prima di afferrarlo saldamente alla base e cominciare ad accarezzarlo con più decisione.
Bill si aggrappa con forza alle mie spalle. Poi cambia idea e mi si stringe al collo, come non si sentisse sicuro di restare in piedi, se non può avvolgersi completamente attorno a qualcosa. Alla fine, lascia andare un mugolio di pura frustrazione e, mentre io sto quasi abituandomi all’idea di stare facendo una sega ad un maschio che non sono io stesso e che è Bill Kaulitz, stringe i pugni attorno alla mia maglietta e la solleva furiosamente, tirandomela via di dosso.
- Non è giusto che stia così solo io… - borbotta scendendo e mordicchiarmi nervosamente le spalle ed il petto.
Io lo trovo tenero, non posso farci niente.
Lo afferro sotto le ginocchia, mettendolo seduto sul tavolo ed interrompendo i suoi lamenti con un altro bacio, mentre mi sistemo fra le sue gambe ed i nostri bacini collidono, azzerando la mia capacità di pensiero razionale.
- Fai piano… - sussurra lui ad un millimetro dalle mie labbra, ed io sorrido divertito, perché non ho ancora cominciato a fare niente.
Lo sento tremare sotto le mie mani. Non so se sia nervoso perché non si fida o perché l’aspetta da tanto tempo che non vedeva l’ora. In ogni caso, sono nervoso anche io. Ed il motivo proprio non lo so. So, però, che non devo perdere la calma. Né la lucidità.
Perché qua io potrei tranquillamente lasciarci il cervello.
E non è proprio il caso.
La logica stringente del mio raziocinio si scontra contro i baci di Bill. Che sono peggio di qualsiasi droga io abbia mai provato – e credo non me ne sia sfuggita nemmeno una – perché mi sento completamente fottuto nel momento stesso in cui lui artiglia i miei pantaloni e li sbottona, e quelli, totalmente dimentichi della mia volontà, proprio non ci pensano a restare su, e si lasciano ricadere inermi a terra.
Il tessuto che ci separa adesso è niente.
Anche del mio cervello non resta più niente.
Cerco di pensare. Cerco di riportare alla memoria la planimetria del mio appartamento. Quanti metri ci separino dalla camera da letto – chilometri, se ricordo ancora la disposizione delle stanze. Chilometri, la maggior parte dei quali su scale. Ma poi: ci sono dei preservativi, in casa? Be’, quelli dovrebbero esserci. C’è del lubrificante? Mi sembra già più improbabile.
- Bill… - faccio per chiamarlo, e non so se essere felice o triste o completamente rincoglionito e basta, - Non c’è-
- La mia borsa. – mugola lui, come la ricordasse solo in quel momento, stendendosi lungo tutta la superficie del tavolo per raggiungerla dov’è, agganciata allo schienale di una sedia.
Dio mio, è bellissimo.
Ma cos’ho guardato, fino ad oggi?
Scendo sul suo petto e gioco con un capezzolo, lingua e denti. Bill chiude gli occhi e ferma il braccio; poi si fa forza, recupera la borsa e la lascia ricadere con un tonfo accanto a noi. Io non mi separo da lui neanche per un secondo, e lui continua a lanciare mugolii che mi mandano fuori di testa, mentre cerca qualcosa sul fondo di un borsone che sembra profondo come quello di Mary Poppins.
Alla fine, riemerge con un tubetto in plastica bianca che si posa sulla pancia. Lo prendo tra le mani e lascio un bacio sopra al suo ombelico, mentre lui torna a cercare i preservativi e li trova immediatamente.
Mi allontano da lui, eliminando i restanti indumenti di troppo, ed indosso il preservativo.
Lui mi guarda come mi vedesse per la prima volta.
- Problemi? – chiedo sarcastico, inchiodandolo al tavolo fra le mie braccia.
Lui si copre il viso con entrambe le mani, ma riesco a vedere il rossore sulle sue guance, nonostante tutto.
- È bellissimo! – butta lì velocemente, in un singhiozzo imbarazzato che è semplicemente una delle cose più carine del mondo.
Rido a bassa voce e mi avvicino a lui, cercando a tentoni il tubetto di lubrificante che ho lasciato da qualche parte sul tavolo.
La sua morbidezza accoglie prima i miei polpastrelli, che la accarezzano in lungo e in largo, cercando di lubrificare il più possibile, e poi le mie dita. Non ho la minima idea di cosa dovrei fare, cerco di pensare a cosa preferirei fosse fatto a me ma non riesco molto bene nell’impresa. Mando un indice in avanscoperta, Bill ansima contro il mio collo e mi chiede di non fermarmi. Lo tocco piano, non mi sembra una cosa strana, mi sembra strano non averlo fatto prima.
- Ancora… - bisbiglia dopo un po’, - Ancora, ti prego…
A me sembra presto, per ciò che chiede. Mando in avanscoperta anche il medio, ed in effetti era presto, perché lo sento irrigidirsi a disagio tutto intorno a me, e le sue unghie si chiudono con forza sulla mia pelle.
- Tutto okay? – chiedo soprapensiero, mentre lo bacio su una guancia.
Lui annuisce.
- È un po’ ingombrante. – risponde, - È un po’ come te.
Per un attimo, mi preoccupo.
Sta parlando di due dita.
Non so davvero come potremo arrivare a sopravvivere a questa notte.
Lascio il suo corpo e lui mugola contrariato, spingendosi contro di me come a voler cercare di recuperare ciò che lo riempiva.
- Aspetta, aspetta… - sussurro fra i suoi capelli. Ho come l’impressione che dovrò essere io a imporre il passo successivo. Dannazione. Così sembra colpa mia.
Sono pensieri stupidi, comunque.
Mi spingo lentamente contro la sua apertura e, come immaginavo, la resistenza è ostinatissima.
- Non ti fermare. – ordina lui, trattenendo il fiato.
Io scuoto il capo e lo stringo a me.
- Puoi mordere, se vuoi. – annuisco deciso.
Bill schiude le labbra e poi le richiude attorno alla mia spalla.
Io aspetto. Poi mi muovo.
I suoi denti si conficcano nella mia carne con tanta forza che la sento strapparsi e cedere. Ma non è il mio turno di provare dolore, perciò non dico una parola.
Rimango fermo per qualche secondo, e faccio una fatica disumana perché qua dentro si sta bene da impazzire. Bene proprio da morirci senza rimpianti. Ho voglia di sentirlo mugolare ancora, vorrei sentirgli chiamare il mio nome, ma tutto ciò che sento sono respiri spezzati e la difficoltà di un bambino di abituarsi a qualcosa di troppo difficile.
- È davvero come te… - lo sento ansimare alla fine, già esausto.
Riprendo a muovermi con un sospiro di sollievo, e lui non riesce neanche a lamentarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – sospiro baciandolo, - Sei bellissimo, lo sai?
Ha le lacrime agli occhi ed è bellissimo davvero.
- Sì, lo so. – trova le palle di rispondere, e d’improvviso penso che lo amo anche io. Che non me ne fotte un cazzo di niente, posso tenerlo fra le braccia anche se è maschio ed anche se tutto ciò si tramuterà in un disastro enorme.
Posso perfino andarne orgoglioso.
Ne vado orgoglioso, cazzo.
- Oddio. – si lamenta quando le mie spinte si fanno più potenti, - Ti manca molto?
Ghigno un po’.
- Che domande…
- Scusa! – biascica, - È che non so… fa un po’… non me ne sto pentendo! – si affretta a precisare, - …cosa devo fare…?
Tu niente, penso con fin troppa naturalezza, faccio io.
E lo faccio davvero. Ricomincio ad accarezzarlo fra le gambe, e le mie spinte e le mie carezze diventano un movimento unico. Vanno a ritmo coi suoi sospiri, coi suoi mugolii strozzati e con le spinte del suo bacino incontro al mio. Per un attimo sorrido, perché questo sì che è senso musicale.
Affondo con forza, così in profondità che ho paura di spaccarlo in due, ed è allora che lui rilascia un mugolio completamente diverso dai precedenti, e la sua stretta si fa più forte.
- Lì… - implora a mezza voce, - Era lì…
Annuisco e mi nascondo contro il suo collo. Non so se sono imbarazzato o ho solo voglia di lui. Comunque il suo collo è un buon rifugio, mentre torno a spingere ad un ritmo più serrato, cercando di colpire di nuovo il punto che l’ha fatto godere. I suoi lamenti scompaiono. Si fanno richieste. Ed io, a sentir dire certe cose da questa vocetta da bimbo mai cresciuto, perdo pure il senso del limite. Spingo con violenza, ma lui non protesta. Continua a riempirmi le orecchie, così, più forte, ancora, Dio, Anis, e quando lui lo dice, davvero, quando dice il mio nome, scarico una spinta che mi stordisce, come mi stordisce l’orgasmo mentre si schianta contro il preservativo e lascia me in stato di semicoscienza, completamente abbandonato contro il suo corpo.
La mia mano attorno alla sua eccitazione è umida.
Sorrido trionfante. Lui lo nota e mi dà uno schiaffo sulla nuca.
- Sei tremendo. – decreta alla fine, serrandosi attorno a me come il disastro che è.
Io mi riservo il diritto di non rispondere. Ed anche di non pensare.
Quando il sangue tornerà a circolare naturalmente nelle mie vene, e quando l’ossigeno tornerà ad arrivare al cervello, forse capirò per bene l’immenso casino in cui mi sono appena cacciato. Un immenso casino che sono le dita magre ed agili di Bill che disegnano il tatuaggio sul mio collo. Un immenso casino che sono i suoi capelli a solleticarmi il naso. E le sue gambe ancora attorno ai fianchi.
È un immenso casino che realizzerò dopo.
Adesso, devo solo ritrovare la camera da letto.
Genere: Introspettivo, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Sono grato di essere dentro di lui, adesso. Perché altrimenti non saprei proprio cosa farmene, di me stesso."
Note: Fermo restando che neanche altri mille anni di Billshido canoniche riuscirebbero a redimermi per aver fatto questo al Bu XD c’è un motivo per cui questa storia è nata; il motivo è che, nel fandom inglese, ho beccato una Billshido reverse in cui, a mio parere, oltre ad invertire i ruoli, l’autrice ha invertito pure i caratteri: a sentire parlare Bill sembrava di sentire Bushido, e viceversa.
Io mi sono incazzata XD perché sinceramente non comprendo per quale motivo uno, solo perché sta sotto, dovrebbe diventare una femminuccia; o un altro, solo perché sta sopra, debba improvvisamente trasformarsi in un supermacho. Per me non esistono, cose del genere XD Perciò volevo semplicemente scrivere qualcosa in cui Bill potesse stare sopra rimanendo Bill e Bushido stare sotto rimanendo Bushido. Ora, non so se qualitativamente la storia sia valida, ma quanto a caratterizzazione mi sembra che la cosa sia riuscita secondo i piani. È già qualcosa *annuisce*
Tendenzialmente avrebbe dovuto essere una PWP. Sì, ridiamo tutti insieme. *sospira*
PS: Grazie a Tab per il titolo. E per il supporto morale. Lo so che è stata dura. Ti amo tantissimo per questo <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THINGS YOU SHOULDN'T SAY NOR DO

Non so chi abbia detto che il sesso è una questione di fiducia. Io, comunque, ci credo fermamente. Ci credo come in una fede, perché il ragionamento è lo stesso: come non puoi sapere se Dio esista, puoi solo crederci, non puoi neanche essere sicuro che la persona cui dai la tua fiducia non la tradirà; è una cosa in cui credi e basta.
È ironico che io non creda in Dio ma creda nella sacralità del sesso.
Questo, suppongo, è anche il motivo per cui io e Tom finiamo sempre per litigare, quando parliamo di cose simili. Lui non crede nella sacralità proprio di un bel niente, tantomeno in quella di una scopata da una notte e via. Per me, invece, è importantissimo. Ecco perché, nonostante ciò che sicuramente gradirebbero le fangirl, mai e poi mai potrei andare a letto con mio fratello: lui non darebbe alla cosa il giusto peso ed io ne uscirei fuori irrimediabilmente ferito. Sinceramente, perdere un fratello per un fraintendimento di base sarebbe troppo stupido anche per me, che di sciocchezze ne faccio sempre un’enormità, perciò no, grazie.
Io ho passato… no, be’, non tutta la mia vita, ma sicuramente gli ultimi cinque-sei anni della mia esistenza a cercare la persona con la quale avrei potuto fare sesso senza per questo sentirmi violato, privato di qualcosa di mio, usato e poi dimenticato. Avrebbe potuto essere una persona qualsiasi – perché non sono mai stato veramente maltrattato da nessuno che si sia trovato a stare con me – ma le sensazioni, o almeno, la pretesa di sentire a fiuto chi avrebbe potuto essere la persona giusta e chi no, mi hanno sempre frenato.
Avrebbe potuto essere una persona qualsiasi – è stato Bushido.
Nessuno può davvero chiedermi di spiegare perché; un perché, quando tutto ciò che senti in presenza di quella persona speciale è un brivido unico e caldissimo che ti scuote lungo tutta la spina dorsale, non esiste.
Io l’ho sentito subito.
Guardavo la TV, quell’uomo stava dicendo che avrebbe gradito il sottoscritto lo soddisfacesse in modi che in genere non chiedi neanche alla tua ragazza, se non è lei a proporteli, ed in tutto questo – mentre Tom smadonnava oltraggiato al mio fianco – io rabbrividivo e lo fissavo. Del tutto sconvolto.
Non era una sensazione piacevole, cazzo, no. C’era, da qualche parte dentro di me, forse, anche qualcosa di simile all’orgoglio ferito ed all’onore incrinato, ma Dio: quell’uomo voleva un pompino. Da me. Io avevo diciassette anni e tutto ciò che pensai in quel momento fu che sarei morto alla sola idea delle mie labbra serrate attorno al suo cazzo.
Deglutii a vuoto, con forza, e non riuscii a scrollarmi di dosso quella sensazione di ansioso disagio per tutta la settimana successiva.
E poi lo incontrai.
Sarò sincero, Anis non è una persona facile da gestire. Non lo è quando lo conosci abbastanza da guadagnarti il diritto di chiamarlo per nome, e non lo era a maggior ragione quando quel diritto ancora non l’avevo, e tutto ciò che potevo fare era chinare il capo, evitare imbarazzato il suo sguardo e chiamarlo Bushido. O non chiamarlo affatto.
Fu ad un party organizzato dalla Universal – allora era ancora sotto contratto lì. Lui non mi avvicinò, mi fissò con un ghigno sprezzante per tutto il tempo. Io dovetti resistere all’impulso di saltargli addosso con intenzioni poco chiare, e nel frattempo dovetti anche cercare di badare a Tom, che minacciava di azzannarlo alla giugulare con intenzioni, contrariamente alle mie, piuttosto evidenti.
Alla fine lo avvicinai io. E tutto ciò che feci fu salutarlo.
Capii subito che non se lo aspettava, lo capii dal modo in cui mi guardò, aggrottando le sopracciglia e cercando di trovarmi un senso piantandomi addosso quegli occhi spaventosamente scuri. Ed espliciti. Solo che non erano espliciti nel senso che mi sarei aspettato.
Non ci trovai dentro nessuna proposta sessuale.
Piuttosto, un infastidito “ma toglierti dalle palle, no?”.
Ecco, io sciocchezze ne faccio tante. A me le sfide piacciono.
La mia risposta, perciò, non poteva essere che una: no.
*
Bushido era quella persona speciale. Ovviamente, non mi bastava sentirmi attratto da lui come da una dannata calamita, per capirlo; però è indubbio che l’attrazione abbia giocato un ruolo fondamentale, in tutto questo. L’attrazione, un po’ di fortuna e la mia innata capacità di flirtare disinvoltamente quando ne riconosco la necessità.
Tom è sconvolto da tutto ciò.
Sì, be’, tutti sono sconvolti da tutto ciò.
La sola idea di stare con l’uomo che ho visto in televisione dovrebbe ripugnarmi, visto soprattutto quello che è il mio ideale di relazione sentimentale.
Fortunatamente, Anis è uno che, come me, ha ben chiara la differenza – enorme – che passa tra il pubblico e il privato. È uno che, come me, lo schermo che separa TV da vita reale lo sente fisico e spessissimo sotto le dita. È uno che, come me, quando entra in scena mette su una maschera di comodo che non è falsa ma neanche completamente vera. È uno che, come me, mostra solo pezzi di se stesso. Così che, se vuoi sapere com’è nella sua interezza, devi scoprirlo da solo.
Io e lui ci somigliamo in maniera veramente assurda. Quando l’ho capito – e ce ne ho messo, di tempo: sei mesi di frequentazione praticamente giornaliera; sei mesi ad asfissiarlo con la mia presenza, sei mesi di subdoli ricatti morali per farmi portare in giro, agli studi, perfino a cena fuori! – ma quando è successo è stato come una rivelazione. Una di quelle cose che si dice debbano succedere solo nei film, e invece no, la vita reale ne è piena.
Sono andato da Tom e gliel’ho detto. È lui. Lui chi?, ha chiesto giustamente mio fratello.
La mia persona speciale.
La faccina sgomenta di Tom è stato il premio per il mio coraggio: ho riso fin quando perfino il pensiero di stare con Bushido è sembrato all’improvviso meno stupido e più sensato che mai.
E dopo l’ho detto a lui. Sei tu. Sono cosa?, ha chiesto giustamente Anis.
La mia persona speciale.
Io la sua reazione la ricordo benissimo. Ha sospirato ed ha sorriso, scuotendo il capo con rassegnazione, come se lo aspettasse da sempre.
Ed era così, io lo so.
Cos’è che vuoi?, mi ha chiesto.
Un bacio, ho risposto.
Il primo di una lunga serie.
*
Io tendo a rendere tutto fin troppo romantico. È perché ho del mondo una visione molto realistica; una visione in cui fondamentalmente la vita non è che ti offra piaceri e gioie ad ogni piè sospinto. Perciò, quando succede, tanto vale goderteli e chissenefrega se sembri melenso mentre ti commuovi o cose simili. Non sono cose che capitano spesso.
Ogni cosa che succede, ogni cosa che concedi, ogni cosa che prendi, ha una sua importanza sentimentale della quale devi prendere atto.
L’importanza sentimentale del sesso sta nel fatto che, fondendoti completamente con la persona che ami, rubi un po’ di lei. E lasci un po’ di te. E lo stesso succede dall’altra parte: ti viene sottratto qualcosa, e qualcos’altro che prima non era tuo ti resta dentro.
Per questo dico che è questione di fiducia.
Amare, provare amore, quello è semplice: è un bisogno; è lì e non puoi ignorarlo, perché è come aver sete o fame. Ma amare, fare l’amore, è una cosa totalmente diversa.
Per quello la fiducia serve.
Quando ho detto ad Anis che volevo fare l’amore con lui, io ho preso la mia fiducia e gliel’ho messa fra le mani. E d’improvviso non m’importava più del dolore, delle complicazioni, dello sgomento di Tomi né di nient’altro oltre a noi. Il mio mondo era lui. Io iniziavo e mi concludevo in lui. E forse questo è troppo romantico, ma io sono così, punto.
Comunque, avevo ragione. Anis non ha mai tradito la mia fiducia, ed a questo punto penso proprio che non lo farà mai. Io non mi sbaglio, in genere, sulle persone. Tom è ancora qui, dopo tutti questi anni, d’altronde, no?
Perciò gliel’ho chiesto. Ad Anis, non a Tom.
Devo dire, comunque, che mi aspettavo una risposta simile.
- No.
E non aggiunge altro – non ne ha bisogno.
Io sospiro e roteo gli occhi.
- Perché no? – chiedo seccamente, accucciandomi sul letto in una posa palesemente scazzata e chiusa al dialogo. Il che è in qualche modo divertente, visto che sto a tutti gli effetti dialogando.
Anis inarca le sopracciglia e, per un secondo, sembra accarezzare l’idea di scattare in piedi, recuperare la propria maglietta e mollarmi qui, nudo, senza una spiegazione di più.
- Perché no. – conclude subito dopo.
Se fosse andato via, avrebbe chiarito meglio il punto.
- Sarebbe a dire? – insisto, incrociando le braccia sul petto.
- Sarebbe a dire – precisa lui, facendomi il verso, - che io non mi faccio scopare. Ed in ogni caso, questa questione della fiducia è ridicola.
Faccio una smorfia.
- Potresti evitare di ridicolizzare ciò in cui credo?
Lui sospira e scuote il capo. Probabilmente ha realizzato di aver optato per la scelta di parole meno azzeccata.
- Intendevo dire, Bill, che non hai bisogno di scoparmi per sapere che mi fido di te. Mi fido di te, te lo assicuro.
Aggrotto le sopracciglia.
- Vedi? Non cogli il punto. – mi lamento esasperato, - Non è che se non ti fai scopare allora non ti fidi di me. Scopare non c’entra. Il punto è che io voglio scoparti ma tu non ti fidi abbastanza da lasciarmelo fare!
- Okay, troppe parole. – mi ferma lui con un cenno annoiato, - Semplifica.
Io sospiro ancora.
- Voglio scoparti perché l’idea mi stuzzica, non perché voglio una prova di fiducia. Ma, se tu non mi lasci fare, evidentemente non ti fidi.
Anis mi guarda con un’ostilità che mi ricorda tanto le sue prime occhiate, quelle di quando era ancora Bushido ed io il ragazzino deficiente nei confronti del quale poteva prendersi tutte le libertà che voleva, tanto sapeva perfettamente che non avrei reagito.
- Magari la cosa non stuzzica me, ci hai pensato? – chiede astioso, le labbra sottili e tese come linee.
- Aha. Quindi i tuoi bisogni hanno una validità, i miei no. – inclino il capo, - Molto carino, da parte tua.
- Fanculo, Bill. – risponde schiettamente, come sempre, - I tuoi bisogni per me sono fondamentali, e lo sai, altrimenti non staremmo qui a discuterne. Però non puoi costringermi a fare una cosa simile con un ricatto morale.
Sorrido compiaciuto. Per certi versi, la questione sta andando a parare esattamente dove volevo io: sulle questioni di principio.
Le questioni di principio sono stupende. Non sono come i preconcetti e le paure, perché quelli sono istintivi e incrollabili. Le questioni di principio, invece, sono cose di cui ti convinci: puoi smantellarle una dopo l’altra, mattone su mattone, fino a lasciarne solo macerie.
Basta essere solo un po’ cattivi.
- E con uno fisico?
Vedo il terrore farsi strada nei suoi occhi.
- Spero di aver capito male. – scocca infastidito, cercando di recuperare un po’ di controllo.
Sorrido ancora.
- Dipende da ciò che hai capito. Se hai capito che non mi scoperai minimo per i prossimi vent’anni, allora hai capito bene.
Non si sconvolge né spalanca gli occhi, proprio perché aveva capito davvero.
- Bill. – cerca di ragionare. Poi, evidentemente, cambia idea. – Sei una merda.
Arriccio le labbra in una smorfia di disappunto.
- Non sei per niente carino.
- No che non lo sono. – ammette lui, lasciandosi andare di spalle contro la testiera del letto ed andando alla ricerca delle sigarette sul comodino, - Non lo sono mai stato e, cazzo, non intendo certo diventarlo. Se ti piaccio, ti piaccio perché sono io. Ed io non sono carino.
…lo odio, quando fa così.
La verità è che siamo davvero uguali. Perciò usiamo anche gli stessi trucchi. Certe volte mi sembra di parlare con un altro Tom, o un altro me stesso, che poi è la stessa cosa, solo più scuro e più sexy.
Come faccio io a non dargliela vinta, se usa la tattica del prendimi-come-sono-o-non-prendermi-affatto? È la stessa cosa che pretendo da lui. Non posso negargliela.
Mi raggomitolo in un angolo del letto, le ginocchia al petto ed il broncio più lungo della mia intera esistenza. Lui, ancora adagiato fra i cuscini e contro la testiera, sorride trionfante, mandandomi brividi caldi lungo le braccia e le gambe, facendosi sentire fin dove fa più male. Che è una cosa che odio, perché se c’è una cosa che Bushido sa fare è rendersi attraente ai miei occhi. Ma mi dà fastidio che lo faccia, perché Anis di solito non ne ha bisogno.
Adesso sono sotto scacco. Non posso parlare, perché se lo facessi mi lamenterei, e se mi lamentassi lui riderebbe di me. Non posso muovermi, perché se vado via lo lascio vincitore e non guadagno proprio un bel niente. Non posso fare proprio un cazzo.
Lui, rilassatissimo, recupera finalmente la dannata sigaretta e la fuma con evidente soddisfazione. Il bastardo.
- Stasera usciamo. – mi avverte poi, atono, andando alla ricerca del telecomando, - Niente di drammatico, non andare in paranoia. È il compleanno di Cassandra. Devi venire.
Mi mordo un labbro.
Quando rispondo il “no” che si merita, non lo faccio con la consapevolezza che potrei sfruttare la situazione a mio vantaggio. Dico no solo perché non mi va assolutamente di dirgli sì.
Però – anche se sono uno stupido – ci arrivo anche io. Dopo un po’, ma ci arrivo.
Sollevo lo sguardo cercando di non fargli notare che adesso so. Lui mi fissa di rimando, piuttosto seccato per il mio rifiuto.
- Cass ti sta simpatica.
- Ma non mi va di uscire.
- Non sei per niente carino.
Sorrido.
- No che non lo sono.
Anis mi guarda. No, Bushido mi guarda. Questi occhi glieli ho visti addosso quando Sido mi ha regalato la sua maschera come augurio di pronta guarigione per la cisti. Qualche tempo dopo lo incrociammo in un pub, e Sido si fece avanti chiedendomi come stessi, nel palese tentativo di irritarlo. E lui si irritò eccome. Non so come riuscimmo a sfuggire alla polizia, quella sera.
Questo sguardo è pericoloso.
È lo sguardo che mette su quando sente arrivare una sconfitta campale. È lo sguardo che precede il momento in cui decide che no, non si farà sconfiggere affatto. E mena le mani.
È Bushido che mi guarda.
Io ho davvero paura di Bushido.
Mi chiedo distrattamente dove sia Anis, in questo momento, ed è proprio in questo momento che Anis appare. Scuote il capo e si gratta la testa con aria confusa, sospirando pesantemente.
- Non voglio litigare. – sussurra un po’ stancamente, - Non voglio affatto litigare. Siamo stati bene, oggi. Stavamo bene, fino a mezz’ora fa.
Sorrido tristemente, perché lui è così. Lui non se ne accorge. Se stai male, glielo devi dire. Da solo non lo capisce.
- Forse non stavamo così bene come pensavi.
Lascia andare un lamento contrito e scivola sul materasso, raggiungendomi e stringendomi fra le braccia. Sento il suo respiro contro il collo e per un attimo penso seriamente alla possibilità di lasciar perdere. Mettere giù l’orgoglio e la voglia ed il pensiero che potrei ma lui non mi lascia fare e questo è ingiusto, e lasciare semplicemente perdere.
Bushido mi costringerebbe a lasciar perdere, ecco.
Fortunatamente, io sto parlando con Anis.
- È importante, vero?
Sollevo il capo così repentinamente che gli do una testata sul naso.
- Ah… e cazzo, Bill! – borbotta lui, massaggiandosi con due dita.
- Scusa! – biascico ansiosamente io, rivoltandomi ed inginocchiandomi fra le sue braccia, - Oddio, non volevo, ma… dici sul serio?
- Non ho ancora detto niente. – precisa lui con una mezza smorfia, - Non farti i viaggi.
Inarco le sopracciglia.
- Anis… - chiamo lamentoso.
- Okay, okay, sì, d’accordo! – concede lui, scuotendo il capo e stringendomi un po’, - Quanto sei insistente, Cristo.
Non so.
Dovrei realizzare qualcosa d’importante, credo. Questo, forse, dovrebbe essere uno di quei momenti d’epifania di cui parlavo prima, no? Quelli che t’investono come un’illuminazione e quando ti lasciano ti cambiano profondamente.
E invece sono qui che lo guardo negli occhi e riesco solo ad essere stupidamente ed infantilmente felice del fatto che lui stia facendo questa cosa e la stia facendo per me.
È una cosa stupida davvero, perché anche la stessa questione della fiducia e tutto… sembra lontanissima. Sono solo felice come se mi avesse portato un regalino inatteso.
È una cosa stupidissima.
Si china a baciarmi, e per un attimo rido perché sta prendendo l’iniziativa. È comico, in effetti. Però eravamo troppo vicini, Anis non sa stare così vicino senza baciarmi. Tutto questo è fantastico proprio perché Anis è l’unica persona che voglio dentro. Ed è l’unica persona dentro alla quale voglio stare.
In senso figurato e non.
Le sue mani scorrono per tutta la superficie della mia schiena, ampie e calde. Mi conta le vertebre, lo fa con una tenerezza tutta sua, esitando dove sono più spigolose e scendendo poi lungo le curve come stesse correndo giù per una collina.
Per un attimo scende a stuzzicarmi fra le natiche. Io mugolo, non so se sto mugolando perché è bellissimo o perché sta andando tutto nel verso sbagliato e non sono in grado di prendermi una cosa neanche quando mi viene offerta. La mia stupidità è epocale.
Anis si separa da me e scivola sulle ginocchia, fino a distendersi a pancia sotto sul materasso.
- Avanti. – dice alla fine. È secco, ma non infastidito. La sua voce, lievemente attutita dal cuscino, suona dolce alle mie orecchie.
Gattono al suo fianco, guardandomi intorno con aria effettivamente terrorizzata mentre lui slaccia i jeans e li scalcia ai piedi del letto, sfilando anche i boxer con una sorta di rassegnato stoicismo che trovo carino. Però a lui non piace essere carino, perciò non glielo dico.
Mi allungo oltre il suo corpo, raggiungendo il comodino e recuperando preservativi e lubrificante. È stranissimo trovarmi in questa situazione. Non ho neanche idea di che sensazione dia al tatto, un altro uomo. Conosco me stesso, ma non il corpo degli altri. Non nel modo in cui sto per conoscerlo adesso, comunque.
Anis respira tranquillo sotto di me. Sento il suono. Percepisco il lievissimo movimento del suo corpo. La curva della sua schiena è decisa e muscolosa. Sospiro mestamente – non credo di meritare tutto ciò – mentre mi sistemo fra le sue gambe.
Lui non ha bisogno che gli dica niente, si solleva un po’ e si regge sui gomiti. Non sembra avere alcuna intenzione di nascondersi contro il cuscino.
Io l’ho fatto, per la nostra prima volta.
Socchiudo gli occhi e non nego che vorrei proprio chiuderli del tutto, mentre lo preparo.
Sono un disastro. Non ci sto mettendo neanche un po’ di… lui in genere quando lo fa è così…
…sono un disastro.
Anis sorride.
- Sei piuttosto tenero. – dice, rilassandosi lentamente sotto le mie dita.
L’ho detto ad alta voce?
È normale dire le cose e non accorgersene?
Indosso il preservativo arrossendo furiosamente. Sono così agitato che probabilmente verrò in tempi da record. Mi sto odiando profondamente. Non avrei mai dovuto chiedergli niente. Stavamo molto meglio prima.
- …è piacevole. – sussurra lui. Ha socchiuso gli occhi. Dio.
Mi si stringe qualcosa dalle parti del petto.
Qualcos’altro sul bassoventre.
Mi avvicino.
- Scusami, non so se-
- Andrà bene. – mi rassicura con un cenno del capo, - Fai come vorresti che lo facessi io a te. Andrà bene.
Il suo corpo non mi accoglie volentieri. Oppone una resistenza che mi si stringe tutta intorno e mi costringe ad un mugolio che non è affatto diverso da quelli che faccio quando le posizioni sono invertite.
Anis lo prende come un vero uomo.
In silenzio.
Aggrotta appena le sopracciglia, è l’unica cosa che cambia rispetto a prima. Continua a non chiudere gli occhi.
Solo quando comincio a muovermi colgo dei segnali di disagio a cui non posso non badare, per quanto facciano pure un po’ male. Stringe le mani attorno al cuscino. Ogni tanto si morde l’interno della guancia.
Gli occhi non li chiude mai.
Cerca i miei.
Non è una posizione comoda. Non riesce a vedermi bene. Mi chino sulla sua schiena e mi avvicino, così da dargli una mano a guardarmi più comodamente. Lui mi sorride, ed è un sorriso un po’ stronzo.
- Non sei malaccio. – scocca con una mezza risata.
Io metto su un broncio terribilmente inappropriato. Lui ne ride e per me è okay.
- Adesso però muoviti, mh? – sbotta qualche secondo dopo. Io rido e mi chino a baciarlo, spingendomi un po’ più a fondo. – Comunque, se ti aspetti che strilli di gioia…
- …potresti, per favore… - ansimo io, cercando di resistere all’impulso di mordermi un labbro, - …evitare di distruggere questo momento?
Anis ride ancora e finalmente chiude gli occhi. Se l’avesse fatto prima, l’avrei odiato. Ma ora era… semplicemente il momento giusto.
- Continua. – chiede a bassa voce.
Io mi stringo a lui così tanto da sentirmi fondere sulla sua pelle. Il suo sudore ed il mio si mescolano insieme, mentre lo sento muoversi lentamente contro il materasso in cerca di soddisfazione per il proprio desiderio. Neanche ci provo, ad aiutarlo: sono confuso come un bambino il primo giorno di scuola, sarei perfettamente in grado di combinare qualcosa di irreparabile, se solo provassi a prenderlo in mano.
Sono grato di essere dentro di lui, adesso. Perché altrimenti non saprei proprio cosa farmene, di me stesso.
Tutto ciò che sento, nei secondi successivi, sono i miei mugolii che aumentano d’intensità. Anis sembra un altro. È triste, penso all’inizio, averlo costretto a fare una cosa simile. È bellissimo, comunque. In ogni caso, non è mai stato tipo da urlare. Ringhia quando viene contro le lenzuola bianche, ma è una cosa che fa sempre, quando viene. Non è cambiato niente. Quando vengo io, lascio andare uno strillo un po’ acuto e poi gli mordo una spalla, nel tentativo di sentirmi meno stupido e di odiare meno la mia voce. Anche questa è una cosa che faccio sempre.
Non è cambiato niente.
Non è bellissimo?
Non è cambiato niente.
Scivolo fuori dal suo corpo e mi lascio andare esausto al suo fianco. Non ho idea di quanto sia durato. Per un secondo, ho voglia di guardare l’orario, ma poi mi rendo conto che non l’ho controllato prima, perciò anche a saperlo adesso sarebbe inutile.
Quando realizzo lo squallore intrinseco di ciò che sto pensando, smetto di farlo.
Anis respira tranquillamente accanto a me. Non sembra particolarmente turbato, ma non apre neanche gli occhi. Spero di non aver combinato niente di tremendo. Mi avvicino. Che faccio, gli chiudo il naso come si fa ai bambini piccoli per farli svegliare?
- Dimmi che stasera vieni al compleanno di Cass. – biascica senza aprire gli occhi, sistemandosi meglio fra le lenzuola.
Arrossisco come un deficiente, senza nessun motivo.
- Ah… sì. – annuisco, accoccolandomi al suo fianco, - Certo.
Anis sorride. Due secondi dopo, sta già ronfando come un gatto contro la mia spalla.
Io non ho sonno.
Cerco di capire cosa dovrò indossare stasera e nel mentre sorrido senza un perché.
Suppongo sia lo stesso motivo per il quale sono arrossito prima, comunque.
Genere: Comico.
Pairing: Bill/Bushido, Tom/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Language, Slash.
- Bushido, i gemelli Kaulitz ed un supermercato. E' tutto ciò che dovete sapere XD
Note: Chiedo scusa, non volevo davvero scriverla XD E non ho altro da dire XD
(No, in realtà devo creditare: la scena delle ciliegie è un tributo ed è volutamente ripresa dal quarto capitolo di This Hour’s Duty, di Majestrix e Little Muse, tradotto da Tabata. Il ritorno sotto mentite spoglie del Generale PornoSoft!Bu <3)
(Ah: l’ispirazione principale, non c’è bisogno di dire da dove l’ho presa, no? Basta dire THTV XD)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CANDYGASM

Bushido non aveva esperienza coi ragazzini. Tutto ciò di cui aveva esperienza era Bill Kaulitz che, seppure fosse facilmente indicabile come ragazzino senza possibilità d’errore, era comunque un ragazzino piuttosto atipico. Nel senso che da un ragazzino normale non ti aspetti che ti si presenti davanti con una camicetta nera così frufru da essere pure oscenamente sexy e l’espressione più maliziosa del mondo, chiedendoti se ti va una birra e magari chiacchierare un po’.
In realtà avrebbe dovuto capire in quel momento che quello sarebbe stato l’inizio di una lunga serie di problemi, se non legali – perché, Dio, quella notte Bill era stato molto più che consenziente – sicuramente gestionali e pure… sentimentali? Be’, sì, potevano anche essere definiti così.
Perché quando un ragazzino ti chiama piagnucolando nel mezzo della notte per avvertirti che gli manchi e tu, senza neanche una parola di più, salti dentro ai tuoi vestiti, poi dentro la tua macchina, e lo raggiungi, sì, c’è del sentimento dietro.
Quando il giorno di Natale il suddetto ragazzino ti prega praticamente in ginocchio di pranzare con la sua famiglia, e tu accetti, allora c’è ben più di un sentimento, dietro. Soprattutto se a quello stesso pranzo porti pure tua madre. Nonché tuo cugino.
Quando, infine, il solito ragazzino ti chiede di accompagnare lui e suo fratello a fare la spesa in qualità di scorta personale, nonostante in genere sia tu quello che ha bisogno della scorta, e tu, sorridendo come un deficiente, carichi entrambi i pargoli e ti dirigi felice al centro commerciale, allora non si tratta più neanche di sentimento. La parola giusta la conosci, è quella cosa spaventosa che comincia per A e che un buon rapper non dovrebbe provare se non nella sua spensierata accezione sessuale, ed invece eccoti lì che obbedisci silenziosamente e ne ricavi pure una certa gioia.
La verità dei ragazzini è che sono ingestibili: Bill sarà pure stato un ragazzino atipico, ma era ingestibile lo stesso. E, accoppiato a suo fratello, era una calamità ambulante.
Era questo tutto ciò che Bushido riusciva a pensare, alla soglia dei trent’anni, completamente smarrito di fronte ad un enorme espositore ricolmo di caramelle e dolciumi vari, mentre i gemelli Kaulitz, di fronte a lui, mettevano a soqquadro ogni singolo ripiano alla ricerca dello zuccherino perfetto.
- Bill… - chiamò a bassa voce, stringendo ansiosamente le dita attorno al manubrio del carrello, - Non è per fare il rompiballe, ma non ti pare di stare un po’ esagerando?
Bill fluttuò luccicando dall’espositore al carrello e liberò le braccia dall’enorme ingombro di caramelle già afferrate.
- Bu, non puoi capire quanto ti amo. – buttò lì a mo’ di calmante momentaneo, - David non ci avrebbe mai accompagnati! Solo tu sei stato tanto coraggioso!
O imbecille, commentò fra sé.
Ma forse coraggioso andava bene lo stesso.
- Senti, ma riuscirete a mangiarli?! – chiese, piuttosto incredulo, mentre ficcava una mano in profondità nel carrello e tirava fuori un pacchetto di caramelle gommose e trasparenti il cui materiale di fabbricazione era probabilmente vietato per legge nella maggior parte dei paesi della Comunità Europea. – Vi faranno male…
- Scherzi? – sbottò Tom, apparendo al suo fianco e riversandogli addosso una cascata di liquirizie di ogni tipo, - Georg va al cesso regolarmente solo se lo rimpinziamo di dolciumi. Vorrei vedere te con un bassista stitico in giro per casa.
Bushido si lasciò andare ad una smorfia infastidita, aiutando il Kaulitz maggiore a rovesciare le liquirizie nel carrello.
Anche Saad era stitico, da piccolo. Sua madre risolveva con un clistere, però, mica imbottendolo di veleno colorato.
- Oddio, quelle. Le voglio assolutamente. Ah… oddio. Uuuh…
Sconvolto e annichilito da versi per i quali in genere si compiaceva – perché li ascoltava fra le lenzuola, non in un supermercato a mezzogiorno – si voltò verso Bill, e lo trovò a fissare con aria innamorata un pacchetto di caramelle gialle zuccherate a forma di banana, sul ripiano più alto.
- Aaaah, Bu, le voglio! – strillò il ragazzo, attaccandosi al suo braccio e cominciando a tirarlo con aria furiosa.
- Bill, ma Cristo! – lo rimproverò lui, inorridendo profondamente, - Ma datti un contegno, cazzo, sembrava stessi per venire! – aggiunse a bassa voce.
- Ma quelle caramelle sono orgasmiche, Bu, le stravoglio! Banane!
- Dio, ma sei un doppio senso vivente… - commentò, cercando di frenare la corsa di Bill.
- Se non mi vuoi aiutare, le prenderò da solo. – concluse seccamente lui, dirigendosi deciso verso l’espositore e cominciando a scalare i ripiani, mentre Tom strillava “Ommioddio, gelatina di frutta!” e spiccava letteralmente il volo verso uno scaffale poco distante.
Bushido inspirò profondamente. Poi si rese conto che, in fondo, se si trovava lì a sottostare alla palese e dilagante schizofrenia di due gemelli pericolosi quanto identici, era stata una sua libera scelta. E i veri uomini non rimpiangono mai le libere scelte. Accettano il loro carico di drammi personali con orgoglio e stoica sopportazione, ed alla fine ne escono vittoriosi.
Allungò una mano ad afferrare Tom prima che si schiantasse contro le gelatine, e l’altra a recuperare Bill prima che si schiantasse contro il pavimento.
- Ragazzini. – spiegò seriamente, trattenendoli fermi accanto al carrello, - In genere, per favori più leggeri chiedo soldi e sesso per periodi di tempo varianti dai dieci anni ai successivi trenta. Ora, con voi non posso, perché tanto per cominciare avete meno soldi di me ed oltretutto scopo già uno di voi due, e ne so abbastanza da capire pure che non ne voglio un altro. Perciò, adesso ci diamo una calmata e cerchiamo di fare una spesa decente, okay?
Bill lo fissò con sincero ed offeso sgomento.
- Sei David! – esclamò, puntandolo con un dito, - Sei tremendo! Non posso credere di scoparti! Sei orrore!
Bushido mugolò del dolore vario ed eventuale e si passo una mano sulla fronte, fra i capelli cortissimi e sul collo, implorando perché lo spirito del guerriero lo sostenesse in quel momento di grave difficoltà.
- Bill, sto solo cercando di non vederti morire giovane e brufoloso per eccesso di zucchero nel sangue. – scoccò cattivo, sapendo esattamente dove mirare per far male.
Bill, infatti, si arricciò disperato attorno al gemello, mugolando “Mi maltratta! Tomi, fai qualcosa!” ed obbligando Tom a gonfiare quel – misero – petto che si ritrovava, in una pallida imitazione di galletto da combattimento che, al più, poteva farlo ridere.
- E tu, specie di scopettone con palesi problemi igienici, dì una sola parola e giuro che con le liquirizie ti ci tappo i buchi. Tutti.
Tom trasalì e si arricciò a propria volta contro Bill, di modo che i due gemelli Kaulitz smisero di essere due e si ridussero ad una palla di emorabbia.
- Ma chi me l’ha fatto fare… - sospirò Bushido, scuotendo il capo e cercando di riprendere il controllo della situazione. – Ora, tanto per cominciare, a voi servono decisamente dei vegetali. Perché siete stupidi, questo è evidente. Perciò, vegetali e pesce. – elencò compitamente, annuendo come a darsi ragione da solo e compiacendosi pure un po’ per il magnifico sfoggio di self-control che stava esercitando.
- Verdura?! – squittì Bill, slacciandosi dal gemello e balzando come un capriolo sulle ruote anteriori del carrello, - Ma è verde!
- Verde, fresca, buona e salutare. – aggiunse Bushido, annuendo ancora. – Non tutta la verdura però è ugualmente valida o piacevole. Prendiamo ad esempio il radicchio, il radicchio-
- Bu, piantala immediatamente, ma che schifo! – inorridì Bill, saltando giù dal carrello ed avvicinandosi a lui con aria che avrebbe potuto identificare come minacciosa, se Bill stesso non fosse stato un fuscello pure di qualche centimetro più basso di lui.
- Ma tu hai mai mangiato in maniera normale?! – chiese a quel punto, dirigendosi spedito verso il reparto ortofrutticolo, - Che so… pasta, carne, insomma, alimenti umani e commestibili!
- Le caramelle sono commestibilissime! – protestò Bill.
- Ed aiutano Georg ad andare di corpo! – precisò Tom.
- E voi due siete due deficienti, altro che verdura! – commentò Bushido, resistendo a stento all’impulso di ficcarli entrambi nel carrello e soffocarli con i sacchetti di dolciumi.
- E poi la pasta la mangiamo. – aggiunse Bill, riflessivo, - Tomi fa un sugo che è spettacolare!
Bushido lo sferzò con un’occhiataccia sarcastica.
- Tu cucini? – chiese, alla volta del rasta.
- Sì, e sono un Dio anche fra i fornelli! – attestò quello, gonfiandosi d’orgoglio, mentre Bushido cercava stoicamente di non scoppiare a ridere per quanto suonavano buffi insieme gli appellativi di dio del sesso e dio massaia.
- E sentiamo, - borbottò incredulo, - di cosa sarebbe composta, questa salsa?
- Mah, è variabile. – rifletté seriamente Tom, - Dipende da quello che c’è in casa. Comunque il ketchup è l’ingrediente base.
- Perfetto. – annuì Bushido, chinandosi a recuperare delle ciliegie da una cassa di frutta, - Il ketchup non è nemmeno cibo. Cominciamo bene.
- Ma va’! – protestò Bill, - Ha un buon sapore, è energetico e nutriente!
- Non sai neanche cosa voglia dire nutriente… - sospirò Bushido, rigirandosi le ciliegie fra le mani per constatarne la qualità e lo stato di maturazione, - Non parlare a vanvera. Toh, assaggia questa. – concluse, ficcandogli una ciliegia in bocca e sporcandosi con un po’ di succo quando Bill la morse. – Buona, mh? – chiese con un sorriso, ripulendosi le dita con la lingua.
Bill spalancò gli occhi e sembrò genuinamente entusiasta, mentre ruminava la propria ciliegia.
- È dolce… - commentò, - Ma c’è il semino! – borbottò, sporgendo le labbra per mettere in mostra il piccolo nocciolo pallido e lucido di saliva.
Bushido sospirò pesantemente ed allungò una mano, attendendo che il semino rotolasse dalle labbra di Bill al suo palmo, per poi avvolgerlo in un fazzoletto di carta e metterlo via.
- Ma questa roba è noiosa… - commentò a quel punto Tom, evidentemente frustrato perché a lui non era toccata nessuna ciliegia da prendere in bocca.
- Non è noiosa, è diversamente divertente. – precisò Bushido, - Per esempio, le ciliegie sono divertenti da mangiare… - sorrise compiaciuto, agitando due ciliegie, reggendole per il picciolo fra due dita, ed osservando gli sguardi di Bill e Tom incollarsi alle sfere rossastre e brillanti come ipnotizzati. – Oh, questo è divertente, per dire.
- Ehi! – sbottò Bill, interrompendo all’improvviso il movimento rotatorio della propria testa ed allungandosi ad afferrare le ciliegie, - Che fai, prendi per il culo?!
- Non in senso stretto, purtroppo. – si lamentò Bushido con un sospiro.
- Porco.
- Almeno tu staresti zitto. Con in bocca la tua caramella preferita.
- Porco!!! E Tomi?!
- Non infilare tuo fratello così a caso nei discorsi sessualmente espliciti, Bill… - mugolò lui, affranto.
Tom, sentendosi chiamato in causa ma non avendo seguito il discorso, pensò bene di strillare ed indicare un punto a caso nel vuoto.
- Oddio, Bill: il bancone dei gelati!
- Ehi, ehi! – li riprese Bushido, un secondo prima che i due sgattaiolassero verso il bancone, rotolanti e uggiolanti come cuccioli. – Avevamo detto del cibo umano!
- Ma hai problemi pure col gelato? – inquisì curiosamente Tom, - Ma che infanzia tremenda hai avuto?
- Niente di particolarmente esaltante, in effetti. – borbottò lui, cupo.
Bill sferrò un ceffone al fratello, mandandogli all’aria il cappellino.
- Come osi dirgli una cosa simile?! – strillò oltraggiato, - Non lo sai che suo padre maltrattava sua madre ed era un ubriacone e se n’è andato via quando lui aveva tre anni, per poi ripresentarsi solo ventitré anni dopo e solo perché lui era diventato famoso?! Sei un mostro!
- Grazie, Bill. – sospirò Bushido, - Ora, se qualcuno aveva intenzione di comprare la mia biografia, potrà tranquillamente risparmiarselo. Comunque! – riprese con tono imperioso, - Cerchiamo di non divagare. Concentriamoci. Focalizziamo l’obiettivo e-
- Già! – annuì Bill, entusiasta, - Focalizziamo l’obiettivo! Tipo: devo comprare del lubrificante.
Tom lo fissò a metà fra l’incredulo e il disgustato.
- Ma non puoi mica mangiarlo! – obiettò saggiamente, gesticolando come un moccioso.
- Mi auguro che non ci pensi nemmeno, a mangiarlo. – aggiunse Bushido con l’ennesimo sospiro, - Che dovresti fartene, Bill?
Bill modulò le labbra in un’espressione imbronciata e perplessa.
- È per Mister VibraBu… ha finito la sua scorta giusto ieri.
Il primo istinto di Busido fu quello di infilarsi nel carrello e nascondersi sotto i quintali di caramelle ancora stipati al suo interno.
- Bill! – strillò inviperito.
- Cos’è un VibraBu? – chiese invece Tom, curioso, ficcando a caso le mani nel carrello e riemergendo con un pacchetto di zuccherini alla fragola, - Perché io non ne ho uno?
- Non ne hai uno perché Mister VibraBu è unico, solo e mio! – sbottò Bill, offesissimo, afferrando il pacchetto di caramelle alla fragola e cominciando sistematicamente a trangugiarne il contenuto.
- Se ne sei così geloso dev’essere bello. – concluse Tom, facendo sfoggio di invidiabile intuito, mentre Bushido si passava una mano sugli occhi e pregava il solito dio sordo dei dannati guerrieri per un po’ d’aiuto. – Cos’è?
- È il vibratore che mi ha regalato Bu per quando non c’è e non può provvedere da sé. – spiegò compitamente Bill, mandando giù caramelle a manciate, - È viola, traslucido, fortissimo e con le palline dentro. – sorrise sognante, - Ed è anche enorme, oltretutto! – aggiunse annuendo e continuando ad ingurgitare caramelle, - Anche se non come l’originale, c’è da dire.
Bushido smise di pregare per un po’ d’aiuto e meditò di convertirsi ad una qualche fede che prevedesse la possibilità di richiedere una morta istantanea e non dolorosa.
Non gliene venne in mente nemmeno una.
Si voltò a guardare Tom, sperando avesse una reazione normale – tipo inorridire, saltare in aria, ricoprire il proprio gemello di disappunto o di liquirizia o cose simili – ma ovviamente il fottuto dio doveva averlo abbandonato per sempre, perché Tom reagì in maniera completamente diversa: si voltò a guardarlo con una lentezza esasperante, assottigliando gli occhi come quelli di un gatto e – Bushido poteva sentirlo sottopelle – anche affilando gli artigli. Che teoricamente possedeva il fratello. Ma insomma, metaforici!
- …davvero così grande? – chiese il rasta con un sorriso che non gli piacque proprio per niente, e così Bushido ribatté nell’unico modo possibile.
- Io non ti scoperò! – stabilì perentorio.
La cassiera a qualche metro da loro, la mamma con figli nel reparto a fianco e la nonnina che comprava frutta secca lì vicino lo guardarono come fosse un mostro.
Anche Tom.
- Perché lui sì e io no?! – strillò inviperito, strattonandolo infantilmente per la maglietta.
- Ossignore! – urlò Bushido, nascondendosi terrorizzato dietro Bill, per quanto si potesse fisicamente verificare una situazione simile, - Bill, fai qualcosa! Cristo, tuo fratello sta flirtando!
- Sì, ma lo fa solo perché vuole le caramelle. – sospirò Bill annoiato, liquidandolo con un flemmatico cenno della mano, - Non badargli, non ti ama quanto ti amo io.
Il punto era Bushido non fosse più tanto sicuro di che caramelle andasse cercando il maggiore dei Kaulitz.
- Comunque! – concluse Bill, battendo felicemente le mani, - Al lubrificante posso pure rinunciare, per oggi, tanto stasera ti fermi a dormire da noi, giusto?
Vagamente offeso dal fatto Bill non sentisse il bisogno di lubrificarsi per lui, Bushido cercò di protestare in maniera più o meno razionale.
- Visti gli ultimi sviluppi della giornata, non mi sembra un’idea saggia… - azzardò incerto.
- Perfetto, quindi resti a dormire da noi. – annuì Bill, - Allora Mister VibraBu non servirà! Tomi, se vuoi puoi provarlo.
- L’originale?
- Mister VibraBu! L’originale è mio!
- Uffa, sempre il solito egoista, tu! Sei pronto a dividere tutto: casa, vita, morte, buttarsi dal balcone, perfino i vermicelli gommosi, ma quando si parla di uccelli…
- Signore… - s’intromise la voce della cassiera, distogliendolo dallo spettacolo inumano, indecente ed inascoltabile dei gemelli Kaulitz che si litigavano il suo cazzo in mezzo alla fila di casalinghe a fare la spesa, - È tutto qui? C’è altro?
Bushido scosse lentamente il capo, cominciando a passare i pacchi di caramelle sul nastro trasportatore.
- Bene, fanno trecentosettantadue euro e quarantacinque centesimi. – sorrise la donna, conciliante, mentre Bill e Tom lasciavano indietro i sacchetti colmi di dolciumi per continuare ad accapigliarsi qualche metro più avanti.
Bushido infilò le mani nelle tasche ed aprì il portafogli.
Sollevò lo sguardo, depresso e deprimente, e si lasciò andare ad un sospiro distrutto.
- Accettate carte di credito?
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: PWP, Slash.
- "Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male."
Note: Awh. Okay, è palese che io mai e poi mai riuscirò a staccarmi da questa serie XD D’altronde, perché dovrei? È solo una delle più belle fanfiction abbia mai letto, per quanto Tab possa ostinarsi a pensare che EKR non meriti tutto questo affetto. EKR merita questo ed anche di più. Anzi, decisamente meriterebbe di più, ma è questo che io so dare ^^ E poi per la storia canonica c’è già Tab che lavora alla grande (credetemi, io so: moriremo tutti); io, più che sovvenzionare con del porno gratuito, non posso è_é/ Perciò è quello che faccio u.u
Insomma: missing moment breve e senza pretese che esplicita una fantasia comune a me e Tab XD È venuto forse peggio di come speravo, ma c’è una frase che penso con molta immodestia di amare nel profondo: “Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male”. Questo è semplicemente l’amore. Punto. u//////u”””
A parte questo, ho fatto un gioioso richiamino all’originale per quanto riguarda il darsi del Bu (ma detta così è tremenda, mi rendo conto), e mi sono vagamente auto-citata nel momento in cui faccio dire a Chakuza quel “Tu sei pazzo, Atze” che sì, dovrebbe proprio ricordarvi il Saad di Augenblick XD Ma se non l’avete riconosciuto non vi odierò *-*;;;
Ahm. Vediamo. La questione della verità tatuata addosso! È il gioioso ideogramma che il nostro s’è marchiato sulla mano destra. Grazie alla sempre utilissima Sara, adesso so che è un ideogramma cinese e sta per “verità”. Awh awh awh tutte in coro per il Bu con principi morali <3
Ed ora vi mollo, prima che le note diventino più lunghe della lemon “XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
AFFIRMATION

Mezz’ora fa il letto era caldo di noi. Era caldo del mio corpo teso e sfatto sotto le sue mani, ed era caldo del suo, forte ed ostinato sotto le mie. Ad Anis piace quando dormo da lui. Succede di rado, perché casa sua finisce sempre per essere casa della crew, ma quando succede lui si esalta.
Dal momento che io sono un dormiglione, non mi sveglio mai prima di lui. Quando apro gli occhi, è sempre perché ho già le sue mani addosso.
Alle volte perfino dentro.
Mentirei, se dicessi che all’inizio non mi abbia turbato. Credo di aver fatto un salto di tre metri e di averlo pure schiaffeggiato, nell’incoscienza del dormiveglia, la prima volta che l’ha fatto.
Poi però è entrata in gioco l’abitudine – e soprattutto mi sono reso conto che questo modo appiccicoso e bruciante di desiderio che ha di porsi con me, non è altro che il suo modo di fare l’amore.
Lui non si esaurisce col sesso.
Io sono suo. Sempre. Soprattutto quando non scopiamo.
Adesso, la sua parte del letto è fredda; la mia, invece, è calda solo del mio scazzato rigirarmi fra le lenzuola. Che poi, mi sento assurdo quando penso cose simili: io non ho una mia parte del letto. Questo è solo lo stupido letto matrimoniale della stupida camera in cui dorme quando non sta con me. Dovrei odiare questo fottuto posto. E invece il suo profumo è ovunque.
Dal soggiorno arrivano le risate sguaiate di Saad. Eko si sta lamentando di qualcosa, sento la sua vocetta noiosa che si muove come in un flusso sotterraneo sotto le risate.
Anche Anis sta ridendo. Però la sua voce la sento nel petto, e mi scuote.
Mezz’ora fa, c’era la sua voce ovunque. Le sue mani ovunque.
Ed io, adesso, sono qui: nudo solo e disperatamente vuoto.
Mi sfioro da sopra le lenzuola.
Anche se chiudo gli occhi e provo a immaginare lui, le mie mani fanno schifo, come sostituto.
Piccole, magre, fragili. Gli artigli, poi.
Io amo le mie mani, cazzo. Prendere ad odiarle solo perché non mi scivolano addosso bene come le sue è… disturbante. Ecco. Non dovrei pensare queste cose.
Penso che dovrei scivolare silenziosamente fuori da questa stanza, ficcarmi in bagno e farmi una bella doccia per calmare i bollenti spiriti. Magari, se una doccia non basta, anche due. O una sega, Dio, qualsiasi cosa.
Mi stendo a pancia sotto, arrotolo il lenzuolo fra le gambe ed abbraccio il cuscino. Resto a pensare un po’. L’odore di Anis sta svanendo, il mio stupido profumo se lo sta mangiando tutto. Odio profumare così tanto, anche se ad Anis piace. Ciò che piace a me dovrebbe venire sempre prima, ed io vorrei essere inodore ed insapore, così da annusarmi e sentirmi addosso lui quando ci separiamo.
Invece, quando lui va via io resto solo io e non sono niente.
E dovrei veramente smetterla di pensare.
Sospiro, faccio per alzarmi, rimango seduto a fissarmi le punte dei piedi.
Dal fondo del corridoio sento un “’cazzo fai, Atze?” che mi costringe ad un ghigno irritato, perché io odio questo stupido nomignolo che si scambiano a vicenda. Non posso usarlo, perché ci sono cose che non potrò mai fare. Anche se un giorno questo mondo stronzo che s’è scelto o gli è capitato – non so – dovesse accettarmi, ci sono determinate cose che io non sarò mai e non potrò mai fare.
Sono giusto ad un centimetro dalla sponda del letto – cercò già con gli occhi le scarpe sul parquet – quando la serratura scatta e la porta si apre.
Vado nel panico.
Cristo.
Non sanno che sono in casa.
Anis non lo dice mai.
Io in genere resto buono zitto e tranquillo finché non vanno via.
Oddio.
Chi cazzo è?
Afferro il lenzuolo e lo porto a coprirmi di scatto, così di scatto che mi sfugge dalle dita e mi do da solo un pugno sul mento.
Sono ridicolo.
Ed infatti, chiudendosi la porta alle spalle, Anis ride.
- Solite seghe mentali di primo mattino, Bill? – chiede sarcastico, muovendosi perfettamente a proprio agio dalla porta al letto e lasciandosi ricadere con un tonfo sul materasso accanto a me.
Guardo altrove, imbarazzato.
- Sono quasi le undici. – mormoro incerto, - Il primo mattino è passato da un pezzo.
Si china e mi bacia sulle labbra, senza preavviso e senza un perché.
È una cosa che, Dio, adoro di lui. Mi tocca sempre. Come volesse lasciarmi un’impronta addosso.
- Non contraddirmi. – dice poi. Il tono è rude, ma sorride. – O almeno, se vuoi farlo, contraddicimi sulle cose importanti. Non sull’orario.
- Non mi stavo facendo le seghe mentali! – mi giustifico mentendo. È un giochino stupido, lui sa sempre quando mento. S’è tatuato addosso la verità mica per caso: ha un talento per riconoscerla.
Mi si spinge un po’ contro, pretendendo centimetri di materasso. Io mi scosto borbottando, finendo dalla sua parte e lasciandolo distendersi sulla mia. Ne prende possesso con tutto il corpo, allarga le braccia, allunga il collo, stira le gambe e tende la schiena. La camicia si stringe sul suo petto, i bottoni tirano un po’. Vorrei staccarli a morsi, uno dopo l’altro.
- Mi dispiace di essermi interrotto, prima. – sospira, socchiudendo gli occhi sul cuscino, - Non potevo lasciarli fuori dalla porta.
- Certo che no. – mugugno, guardando altrove. – La crew prima di tutto.
- Be’, per te la famiglia viene prima di tutto, no?
- La tua famiglia è tua madre. Non avrei niente in contrario se aprissi a tua madre, anche se nel mentre stiamo facendo sesso. – mi fermo, lui ride di cuore. – Cioè! – mi agito immediatamente, - Ovviamente ci fermeremmo! Avanti… hai capito.
Si rimette seduto e si allunga, afferrandomi con un braccio attorno al collo e trascinandomi verso di sé.
- Ho capito che sei geloso come un adolescente in calore. – spiega annuendo, - Cosa che peraltro sei. Spiegami chi me l’ha fatto fare.
Mi lascio andare ad un ghigno cattivo.
- La tua irrefrenabile libidine e il mio culo da ragazzina?
Sul culo da ragazzina lascia uno schiaffo che è una provocazione e un pegno d’affetto.
- Forse. – sorride furbo, - Per quanto debba ammettere che anche quello che hai davanti non mi faccia particolarmente schifo… - continua, insinuando una mano sotto al lenzuolo, fra le mie cosce.
Rabbrividisco ma mi lascio andare contro il suo petto, incapace di protestare.
- Non hai decenza. – sospiro sul suo collo, - Come fai a dire cose così palesemente…
- …dillo, su.
- …be’, gay!
Anis mi ride fra i capelli, il suo respiro arriva fino al mio orecchio e lo accarezza.
Sono eccitato come non mai, lui mi accarezza lentamente. Io chiudo gli occhi.
- Per quanto tu possa continuare a truccarti, piccolo, resti un maschietto. Sto toccando con mano la prova, al momento. – ride ed io rabbrividisco ancora. È vero, non ha decenza. – Ora, se io sono venuto a patti con la tua virilità, perché tu non ci sei ancora riuscito?
Perché forse mi piacerebbe essere donna.
Forse, se fossi donna, le pretese che ho su di te sarebbero legittime.
Forse nessuno mi guarderebbe come fossi un fenomeno da baraccone.
Forse quelle teste di cazzo dei tuoi amici mi avrebbero già accettato un casino di tempo fa.
Potrei prenderti dentro senza sensi di colpa. Potrei accoglierti come meriti.
Ed invece ti ritrovi con un surrogato di sesso. Con un maschio. Con uno che ti complica la vita.
Ma sono contento che resti.

- Io e la mia virilità stiamo benissimo. – protesto a denti stretti. La sua carezza si fa più decisa, ora mi stringe con sicurezza fra le dita. – Dio, continua… - sospiro, stendendomi meglio sopra di lui, per rendere i suoi movimenti più agevoli.
- Ho voglia di scoparti adesso, piccolo. – dice fra una carezza e l’altra, scendendo a lambire un lobo con le labbra, - Ti va?
- Ci sono quelli, di là… - mugugno lamentoso. In realtà sto pensando che non me ne frega un cazzo. Allargo le gambe e ruoto il bacino, sedendomi direttamente addosso a lui, proprio sopra la sua eccitazione.
- …ti va. – risponde lui per me, ridendo contro il mio collo e baciandomi sulla nuca, umido e caldo, proprio sul tatuaggio del simbolo dei Tokio Hotel. Questo mi fa sorridere, perché in fondo anche io ho un mio mondo al quale lui non appartiene ed all’interno del quale sarebbe stonato come un bucaneve ai tropici, però la cosa non lo mette a disagio come mette a disagio me.
Sospiro e mi lascio andare contro di lui. Vorrei pregarlo di smettere di accarezzarmi, o verrò subito ed odio venire quando non l’ho ancora sentito dentro, ma capisco in fretta di non avere bisogno di chiedergli niente: il ritmo delle sue carezze diminuisce e poi si ferma del tutto, mentre sbottona i jeans e vaga con la mano verso il comodino, alla ricerca dei preservativi.
Lo afferro e lo riporto verso di me.
- Piantala coi convenevoli. – sbotto a un centimetro dalle sue labbra, - Voglio sentirti mentre vieni.
Lui rilascia un sospiro improvviso e più profondo degli altri. Gli vedo brillare negli occhi una luce che è soddisfazione, orgoglio e desiderio. Una mistura che conosco bene, perché è la stessa che illumina me.
Mi spinge in avanti. Cado in ginocchio sul materasso e poi mi piego, piantando i gomiti nella gommapiuma per non scivolare col viso fra le lenzuola. Lui mi morde il collo e si sistema dietro di me, stuzzicando la mia apertura con la punta della sua erezione, già lievemente bagnata. La strofina lentamente avanti e indietro, forzandomi appena e ritirandosi subito dopo, cercando di lubrificare l’entrata nel modo più naturale possibile.
Questa frizione è così tesa ed erotica che mi mozza il respiro.
Cerco di mugolare a bassa voce e stringo le mani attorno alle lenzuola.
- Fatti sentire anche tu, però. – sibila ad un centimetro dal mio orecchio.
Scuoto il capo con una nettezza che è resa ridicola dalla mia ansia.
- Ci sono quelli, di là. – ripeto con più decisione.
Anis sorride ed entra dentro di me in un solo colpo, secco e deciso. Mi mordo un labbro per non urlare. Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male.
- Anis… - mormoro in un lamento spezzato, strizzando forte le palpebre mentre mi chiudo attorno a lui, sentendolo mugolare di piacere contro la mia schiena. Tirargli fuori dalla bocca lamenti simili è oltremodo eccitante ed emozionante. Non te li aspetti, da uno come lui, ma quando si tratta di darsi Anis si dà e basta. Smette perfino di pensare.
Lo sento pompare velocemente dentro il mio corpo; stringe forte i miei fianchi tra le dita, e d’istinto capisco che è troppo preso per occuparsi di me. Scendo a sfiorarmi fra le gambe e lui sospira compiaciuto, sporgendosi per guardarmi.
- Cristo, sei bellissimo quando ti tocchi… - si complimenta con voce roca, baciandomi la nuca.
Sorrido e continuo a farlo, ma sono un completo disastro. Non riesco ad andare incontro alle sue spinte, ogni volta che lo sento battere dentro di me vorrei soltanto spingere e urlare, ma devo trattenermi perché cazzo, va bene fare sesso con gli altri di là, ma dare anche spettacolo no; e perdo il ritmo, e mi confondo, ed Anis ride dietro di me e mi dà un bacino sullo zigomo.
- Impiastro… - mormora, mordendomi la spalla e scendendo a sfiorarmi fra le gambe, - Devo fare tutto io?
Per dimostrare che anche io sono ancora in grado di fare qualcosa, contraggo i muscoli attorno a lui. Anis sorride e mi tira per il mento con la mano libera, baciandomi profondamente per attestare un assenso che non ha veramente bisogno di esplicitare. Però i suoi baci mi piacciono, perciò lo accetto con tutti i sentimenti.
- Oddio, Anis… - lo chiamo, cercando di reggermi in ginocchio senza tornare a cadere in avanti. Spero che lui continui a tenermi per la vita, o avrò poco da tentare in ogni caso, - Sto venendo… più forte… dai… - non so neanche cosa sto dicendo, è imbarazzante da morire. Cerco almeno di tenere la voce bassa. Oddio, spero che non ci senta nessuno.
- Piccolo… - spinge, spinge, accarezza e spinge, - Non ti sento…
- Anis…
- Cazzo, dillo forte!
Ed io lo urlo, cazzo, lo urlo e vaffanculo al resto, Anis, vaffanculo la crew, Anis, vaffanculo il non essere soli e l’ostinazione a non accettarmi e le umiliazioni che mi riservano quando non posso sentire ed anche i contrasti e le diffidenze, Anis, Anis, Anis, chiudo forte gli occhi e lui viene dentro di me, mi spingo contro il suo bacino e lo seguo col battito di cuore successivo.
Mi lascia andare ed io, prevedibilmente, cado in avanti. Meno prevedibilmente, lui mi segue, stendendosi su di me. Non pesa. È dolce.
- Non ti allontanare subito… - mormora. Sento le sue ciglia contro il collo, è una sensazione stupenda. – Abbiamo tempo.
- Non ne abbiamo. – rido a bassa voce, - Quelli sono ancora di là. – preciso.
- Sai che è insopportabile, quando lo dici? – ride, stringendomi alla vita. Poi sospira e scioglie le braccia, allontanandosi da me e rimettendosi in piedi. – Faccio subito. – commenta, abbottonando alla buona i jeans ed uscendo velocemente dalla camera.
Incuriosito, metto su un mezzo broncio che mi dispiace lui non possa vedere e mi avvolgo nel lenzuolo, alzandomi a mia volta in piedi e spiando attraverso la porta dischiusa ciò che avviene in soggiorno. C’è una bella visuale, piena e completa, da qui. Saad, Chakuza ed Eko stanno seduti sul divano, l’aria fra lo scazzato ed il forzatamente disinteressato. Eko ha le braccia incrociate ed un’espressione furiosa a stravolgere i tratti del viso, ma quell’uomo è così naturalmente divertente che non posso fare a meno di lasciarmi andare ad una risatina stupida.
Non dicono niente, si limitano a guardarlo mentre lui, controllatissimo, si china a recuperare una bottiglia di birra aperta e ne beve un sorso, tenendola saldamente per il collo.
Manda giù, la ripone sul tavolo e inarca le sopracciglia.
- Cosa? – chiede gelido, guardando tutti in generale e nessuno in particolare.
- Cosa, chiede lui. – borbotta Saad, alzandosi furiosamente in piedi, - Stavamo-
- Per concludere. – completa con aria assassina e sorriso sereno. – A domani?
Saad lo manda a fanculo. Eko scuote il capo e lo segue, borbottando qualcosa sull’amore che è una fregatura e basta. Chakuza non può fare a meno di ridacchiare. “Tu sei pazzo, Atze”, commenta – è una cosa che dice spesso – ma non mi sembra lo faccia con cattiveria. I rapper, comunque, valli a capire.
Sento battere la porta di casa meno di due secondi dopo.
Anis beve un altro sorso di birra.
- Finalmente soli, eh? – ghigna divertito, facendomi un cenno col capo per informarmi che sa esattamente che lo sto spiando da quando è andato via.
Sorrido, apro la porta e lascio cadere per terra il lenzuolo.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Language.
- Bill prova a mettere in pratica una delle proprie fantasie sessuali ricorrenti. Purtroppo per lui, nessuna delle persone in essa coinvolte sembrano essere disposte ad aiutarlo.
Note: Rotfl. Allora, prima di tutto sputtaniamo un po’ la Tab: questa storia è interamente una sua colpa ed un suo parto, io mi sono ritrovata controvoglia (ah, sì?) ad esserne l’esecutrice materiale, ma i credits per l’idea vanno tutti a lei u.u Si parlava gioiosamente di casalinghe e di ciò che le soddisfa, quando io ho strillato che tutto ciò faceva molto Billshido (non chiedetemi perché: ultimamente tutto ciò che penso o guardo fa molto Billshido); la sua risposta è stata “è vero, e potrebbe anche essere IU”. Allucinata, le ho chiesto in che assurdo modo avrei potuto rendere Bushido credibile come giardiniere, in una IU, e lei ha risposto “ma col foreplay, ovviamente!”.
Dopodiché, giuro, ha scritto i dialoghi. Praticamente tutti. Non ha neanche senso che vi quoti i pezzi precisi, perché sono davvero la maggioranza. Solo quelli con Tom all’inizio e la scena sul divano alla fine non hanno battute inventate da lei. Tutto il resto è furto autorizzato u.u
Sowieso. Spero che la fic vi sia piaciuta *-*;;; E lo so, sono detestabile perché continuo a perdermi nelle vaccate invece di scrivere ciò che dovrei ._. Mi fustigo abbastanza da sola, voi amatemi e basta, ‘kay? çOç
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CLICHÉ

- Io non sono d’accordo.
Bill scoccò un’occhiata annoiata al proprio fratello, e mise su un broncio al quale – lo sapeva – nessuno era mai in grado di resistere. Era a causa di quel broncio che si muovevano i mari e i monti; era a causa di quel broncio che neanche i vertici della Universal riuscivano a negargli qualsivoglia follia e che David piangeva amare lacrime nel sopportare i suoi innumerevoli capricci.
Era, infine, a causa di quel broncio, che suo fratello e Bushido avrebbero obbedito. Come sempre.
- Tom, se tu non fai il marito trascurante, la fantasia non ha senso. – spiegò pacatamente, intrecciando le braccia sul petto e sporgendo un’anca con fare civettuolo.
Tom si passò una mano sulla fronte, rilasciando un sospiro esasperato.
- Bill. Io sono tuo fratello e ti voglio un bene immenso. Ma tu non puoi davvero chiedermi di far parte delle tue fantasie sessuali.
Bill inorridì dalle punte dei piedi a quelle dei capelli, tirando un cazzotto schifato ed offeso contro la spalla del proprio gemello.
- Ma sei completamente scemo?! – strillò oltraggiato, - Non ti ho chiesto niente del genere, cazzo! Sei un pervertito! Ti ho solo chiesto di fare finta di essere mio marito ed uscire di casa dicendo che neanche stasera saresti tornato a cena per una riunione!
- E questo, se non l’hai capito, - strillò a propria volta Tom, mettendosi letteralmente le mani fra i capelli come un marito isterico, - è farmi diventare una parte delle tue fantasie sessuali!!!
- Ma non ti ho mica chiesto di-
- Non azzardarti neanche a dirlo perché giuro che ti faccio del male, Bill!!!
Il moro ringhiò e si trincerò prepotentemente dietro un muro di silenzio, sopracciglia aggrottate, bronci spinti fino all’inverosimile e piedini battuti nervosamente per terra.
- Bill…?
Mutismo.
- Bill!
Niente.
- …
Ostinazione.
- E va bene, va bene, Cristo!
E poi il classico sorriso che si apre all’improvviso e ti fa ricordare perché in effetti la gente lo trovi carino.
Tom si affrettò a raggiungere la porta, lanciando improperi ad ogni passo, mentre Bill lo inseguiva agitando una ventiquattrore stupidamente vuota e strillando “tesoro, non dimenticare la borsa!”.
Fuori dall’elegante villetta con giardino che i gemelli avevano recentemente comprato per le vacanze, tutto sembrava perfetto: il sole splendeva picchiando senza ritegno i passanti per le strade, gli uccellini cinguettavano rendendo i suddetti passanti isterici e, più in generale, i passanti soffrivano moltissimo, mentre a Bill la situazione pareva ad un passo da un idillio. E tutto ciò perché, in mezzo alle azalee, sporco di terra e sudato come un bue attaccato ad un aratro – nonché ugualmente furioso – Bushido stava piegato sulle ginocchia, e zappava.
- Awh… - si lasciò sfuggire il Kaulitz minore, mentre Tom roteava gli occhi ed afferrava la valigetta, chiedendosi se per caso non potesse usarla per fare del male a Bill, o a Bushido, o ad entrambi.
- Ehi, guarda che Marito Trascurante è ancora qui. – scoccò acido, - Potresti almeno avere la decenza di non fare gli occhi dolci al giardiniere in mia presenza! – si lamentò mentre Bushido, ignaro, continuava a zappare un buco possibilmente senza fondo.
- Tom, non infilarti senza permesso nelle mie fantasie sessuali! – lo rimbrottò Bill, spingendolo con una certa fretta verso il cancello.
- Ehi! E com’è finita con Moglie Depressa perché Marito Trascurante non torna a casa per cena?! Era la mia battuta madre!
- Sì, sì. – lo liquidò con un breve cenno della mano, - Mi mancherai tantissimo.
Tom mugolò un’offesa a caso e si fiondò letteralmente fuori dalla loro proprietà, inveendo contro l’ingiustizia divina che, potendo scegliere fra dargli un fratello e dargli una piaga, aveva scelto la seconda opzione.
Gongolando nel profondo, Bill tornò dentro casa e stabilì che una casalinga annoiata non poteva assolutamente uscire in giardino a controllare l’operato del giardiniere senza un drink in mano, perciò cominciò a rovistare fra stipetti e scaffali alla ricerca di qualcosa con cui generare un cocktail, ma fu costretto ben presto a rendersi conto del fatto che la minaccia di David – ripulire casa dagli alcolici prima che si trasformasse in un martini-dipendente – s’era tragicamente trasformata in realtà.
Ripiegò su una tristissima aranciata che non sarà stata alcolica ma almeno era allegra e colorata, e trotterellò felice all’esterno, cercando con gli occhi la figura di Bushido accoccolato fra i fiori, trovandolo ancora lì immobile a fissare perplesso il buco per terra.
- Rodriguez! – strillò poi, con evidente soddisfazione, - A che punto sei?
Osservò Bushido rabbrividire istericamente e si chiese perché mai, dal momento che dovevano esserci minimo quaranta gradi all’ombra e, per inciso, lui non era all’ombra.
- Ma guarda tu cosa mi tocca fare… - biascicò l’uomo, alzandosi faticosamente da terra e cercando di ripulire il povero paio di jeans che, pur non rappresentando magari il top della moda moderna, di sicuro non meritavano d’essere trattati come pezze, dal momento che nessuno dei suoi capi d’abbigliamento costava in genere meno di un centinaio di euro. – Sto piantando le azalee, signora, proprio come voleva lei. – flautò a quel punto, cercando di raccattare un sorriso che fosse anche solo lontanamente convincente.
Non lo fu abbastanza.
- Sei un completo disastro. – commentò infatti Bill, passando con velocità schizofrenica dal sorriso compiaciuto alla smorfia insoddisfatta che caratterizzava i suoi scazzi, - Possibile che tu non capisca?! Non è divertente se non sei spontaneo e sincero!
- Bill, cazzo! – si lamentò a quel punto, gettando per terra la zappa e piantando le mani sui fianchi, - Non mi viene bene la parte del giardiniere messicano! Che poi, non ho capito, perché doveva essere messicano?! Io sono tunisino! Il colore della mia pelle non è uguale a quello di un messicano! Sei razzista!
Bill mise su un broncio terribilmente infantile e terribilmente baciabile, ma Bushido si sforzò di ignorarlo perché ne andava del proprio onore.
- Ma sei stato tu a scegliere! – si giustificò il ragazzo, incrociando le braccia sul petto.
- Eh, be’, scusa, ma tra Rodriguez il Giardiniere Messicano e Richard il Postino, questo era il male minore! Abbi un po’ di pietà!
- Allora, – continuò Bill, petulante, - visto che era il male minore, fai almeno lo sforzo di calarti nella parte!
Ringhiando incomprensione, Bushido si chinò e recuperò la zappa, stringendola furiosamente fra le dita.
- Non vedi che sto zappando?
- Sì, ma non sei sessualmente attraente! – si lamentò Bill, gesticolando ampiamente come a voler dimostrare tutta l’enfasi del proprio disappunto.
- Ma Gesù, Bill, sono sudato, unto e sporco di terra, e se alzo un altro vaso di azalee mi viene l’ernia! – ansimò Bushido, ormai sulla via della pazzia senza ritorno, - Non posso anche essere sessualmente attraente! Questo cliché è una cazzata!
- Sei vecchio! – strillò a quel punto il ragazzo, deluso e sfiduciato, - E non ci stai mettendo alcun tipo di sentimento. Non ho parole per descrivere la tua crudeltà!
Bushido roteò gli occhi e fece tremare la zappa fra le mani, meditando sulla possibilità di piantarla in mezzo alla fronte del proprio amante e chiudere lì la lunga lista dei suoi problemi – una lista che cominciava con Bill e che con lui si chiudeva pure, ma Bill era molto lungo, perciò occupava parecchie voci.
- Guarda… - suggerì ad un certo punto Bill, meditativo, - Prova un po’ ad annaffiare, va’.
Rassegnato e depresso, Bushido si chinò a recuperare l’annaffiatoio a forma di papera gialla che aveva trovato in garage quando Bill gli aveva chiesto di metter su quella pantomima ridicola, e fece per annaffiare le azalee.
- Così? – chiese esitante, lanciando un’occhiata incerta ed un po’ imbarazzata al ragazzo al proprio fianco.
- Gesù, Anis! – urlò Bill, sollevando le braccia in un gesto di puro sconcerto, - Con la canna dell’acqua! Cristo! Come vuoi che mi venga qualcosa di sessualmente appetibile in mente, se usi l’innaffiatoio?! A forma di papera, poi! Sembri mia zia, cazzo!
- Dio mi venga in aiuto!!! – implorò l’uomo, del tutto fuori dalla grazia del suddetto Dio – e non solo perché non ci credeva – gettando in aria l’annaffiatoio e facendo per muovere qualche nervoso passo attorno alle azalee, - Ma ti pare normale farmi questo, Bill?! Cazzo, m’ero fatto tutto un filmino stupendo, noi due soli in casa, la musica, magari l’incenso, il picnic sul pavimento in salotto, sesso per ore… - si fermò sfiduciato, le braccia molli lungo i fianchi ed un’espressione di pura disperazione ad addolcire i tratti del viso, - E invece rompi con questa storia del giardiniere! Dico, ma non ti basto io per eccitarti?!
- Evidentemente no! – ribatté Bill, piccato.
- Be’, dovrei!!! – insistette Bushido, offeso al limite della sopportazione.
- Tu sei un uomo tremendo! – protesto Bill, andandogli dietro mentre lui riprendeva a girare in tondo, cercando di smaltire lo scazzo, - E non mi capisci mai! Vanifichi tutti i tentativi che faccio per mantenere questa relazione sessualmente intrigante!
- Ma vaffanculo, Bill! – sbottò l’uomo, afferrando un guanto e tirandoglielo contro, sperando che fargli del male fisico lo aiutasse a sentirsi meglio, - Se non sono sessualmente intrigante al naturale, puoi sempre mollarmi e andartene a cercare uno migliore!
- Non posso credere che tu stia dicendo cose simili!!! – ribadì Bill, rilanciandogli dietro il guanto, - Lo vedi? Lo vedi come sei?! Finiremo per passare le nostre giornate a guardarci negli occhi, annoiandoci a vicenda! E la nostra relazione finirà solo perché tu non hai un minimo di fantasia creativa! – non contento della già consistente marea di cazzate vomitate fino a quel momento, Bill si chinò ed afferrò il papero annaffiatoio, lanciandolo e colpendo Bushido sul naso, - Ecco! – biascicò infantilmente, - Lo sapevo che non eri serio! Io non t’interesso per niente! Stai cercando di farti lasciare perché non vuoi che si dica di te che mi hai spezzato il cuore, e vuoi fare passare me per il cattivo di turno!
Bushido si fermò in mezzo al giardino e si voltò a guardare Bill come fosse un assassino beccato sul fatto.
- …tu! – sbraitò, afferrandolo per le spalle e mettendolo letteralmente seduto su un sacco di terra per farlo star fermo, - Tu sei completamente pazzo, lasciatelo dire! – lo rimproverò aspramente. – Tanto per cominciare! io sono venuto qui col preciso intento di rendere la nostra relazione sessuale più viva e di fare tutt’altro che guardarci negli occhi! Secondo poi, sei tu che non capisci mai quanto mi sforzi per te! E mi chiami, e vengo! E ti lamenti, e ti ascolto! E vuoi essere accompagnato qua e là, e ti seguo! E vuoi essere difeso quando Saad dice che sei un deficiente, e ti difendo, nonostante Saad abbia evidentemente ragione! Al limite, quindi, sei tu che non tieni a questa relazione, e che cazzo!
- Non capisci niente!!! – strillò istericamente Bill, forzando la stretta delle sue mani e rimettendosi in piedi, - Sei tu che… che non sai fare il giardiniere! Non sono io pazzo! E tu poi non è vero che vieni sempre, e poi… - si fermò un attimo, reprimendo un piccolo singhiozzo che, nonostante tutto, Bushido non poté fare a meno di notare, - …e poi sei una merda, ecco, e vaffanculo, e vattene via, non voglio più vederti! – concluse, prendendolo letteralmente a pugni sul petto, prima di allontanarsi verso casa con l’aria incerta e ciondolante di chi vorrebbe camminare con disinvoltura ed orgoglio ma non ci riesce perché ha gli occhi pieni di lacrime.
Con aria vagamente allucinata, Bushido osservò Bill sparire oltre la porta di casa e poi la suddetta porta sbattere alle sue spalle. Si grattò confusamente la nuca, sospirando e cercando di capire cosa sarebbe stato più giusto fare per cercare di difendere il proprio orgoglio – almeno in parte – senza lasciar morire Bill per eccesso di autocommiserazione.
Alla fine, come sempre, mise da parte l’orgoglio e lo seguì all’interno della villetta.
- Bill… - mormorò con un sospiro, cercandolo con gli occhi nel salottino collegato all’ingresso e notandolo subito, arricciato com’era sul divano, - Bill, ehi… calmiamoci un attimo, ti va? È tutto a posto…
- Non è tutto a posto! – piagnucolò Bill, nascondendo il viso fra le braccia incrociate sulle ginocchia e dando prova di essere un puzzle umano, - Non ci hai messo neanche un po’ di buona volontà, sei stato un disastro. – insistette tra un singhiozzo e l’altro.
- Bill, cerca di capirmi anche tu… - biascicò l’uomo, sedendosi al suo fianco pur senza osare toccarlo, - Io non faccio il giardiniere! Io pago fior di quattrini uno stuolo di giardinieri che sistemano le azalee per me!
- E quindi – borbottò Bill, tirando su un paio d’occhioni luccicanti e dal trucco ormai irrimediabilmente compromesso causa lacrime, - vorresti pagare uno stuolo di giardinieri anche perché sistemassero me al posto tuo, magari?!
- Bill! – lo richiamò lui, sconcertato, - Ma come ti è saltata in mente, ‘sta storia?!
Bill tornò ad affondare fra le proprie braccia con un mugolio straziato.
- Non lo so… - spiegò, la voce attutita e triste, - Certe volte sei così insensibile! Credi che ti basti un letto, per esaurire il tuo compito? – singhiozzò con forza, - Sei barbarico! Non lo sai che la sessualità va continuamente stimolata?! Non lo leggi Vanity Fair, tu?! Non t’impegni! Non mi stuzzichi! E prima o poi dovrò trovarmi un giardiniere per davvero! E-
- E finiscila, dai. – sorrise Bushido, avvolgendolo in un abbraccio un po’ rude ma decisamente caldo, - Non sei stanco? – gli lasciò un bacino sulla tempia, - L’ho capito che ci sei rimasto male. Mi dispiace. Non credevo fosse così importante per te.
Bill reagì esattamente come si aspettava, srotolandosi immediatamente dal proprio abbraccio per arrotolarsi di conseguenza nel suo, stringendosi al suo petto e mugolando un misto di frustrazione, offesa e sollievo che, muovendosi in piccoli brividi sopra la pelle di Anis, raggiunse le sue labbra e lo costrinse ad un sorriso intenerito.
- Sei stupidissimo. – lo offese gratuitamente Bill, rovinando per sempre una maglietta che un tempo, prima di Rodriguez e del mascara, era stata bianca, - Ma non è proprio possibile avercela con te…
- Sì, perché sono un uomo paziente e amorevole. – annuì lui, cercando una posizione più comoda sul divano, - Anche se in realtà dovrei essere io a lamentarmi, adesso.
Bill lo pizzicò su un fianco.
- Glissiamo sulle scuse? – chiese piagnucoloso.
- Be’, io mi sono scusato. – precisò Bushido, - Quindi, al massimo-
- Se mi chiedi di scusarmi, ti pianto!
- …al massimo, glissiamo sulle tue, dicevo. – annuì compunto, stringendolo a sé.
Bill sorrise e si spinse in avanti per baciarlo a fior di labbra.
- È vero. – annuì dopo essersi separato da lui, - Sei un uomo paziente e amorevole.
Bushido sospirò e scosse il capo, rassegnato.
- Magari ora però mettiamo in pratica almeno una parte del piano, eh? – chiese, con lo stesso tono lamentoso usato da Bill poco prima.
Il ragazzo lo fissò senza capire.
- Intendi?
Bushido sorrise. E sfilò la maglietta.
Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Violence.
- La routine delle sere di David è molto semplice. Torna a casa, cena, fa una doccia, guarda la TV. Poi risponde al citofono e fa entrare Bill, preparandosi ad ospitarlo per la notte.
Note: Prima di tutto, credit vari ed eventuali.
- A Yul per il secondo concorso sulla JostFic che mi ha ispirato la storia.
- A Tab perché mi ha costretto a scriverla XD
- Ai Depeche Mode, perché la citazione all’inizio è tratta da Personal Jesus (album: Violator), e la storia è ispirata alla canzone. Intesa in modo più positivo rispetto alle intenzioni originali (dannato gruppo emodepresso!).
- A Sara per la traduzione del testo di Beichte che appare in quella meraviglia di quote che è “Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello” (perché se c’è una cosa che Bill sa fare, ecco, quella è scrivere), ed – ovviamente – ai Tokio Hotel per la canzone in sé.
- A Juccha per il titolo >*< E per il concetto sul provare a dire “ti amo” solo per sentire l’effetto che fa. Ti lovvo <3
Per il resto, non ho molto da dire. Anzi, non ho niente da dire. Riesce ad essere – in modi del tutto assurdi – una storia semplicissima ed anche una delle più difficili che io abbia mai provato a raccontare. Un disastro, insomma ._.”
Per quanto mi riguarda, la trovo molto affascinante. Ma forse mi sto facendo ammaliare dall’emoangst XD Grazie per aver letto fino a qui (e grazie a Yul, lei sa perché XD). Grazie a Misa, grazie alla Lemmina, grazie a Nai. Baci :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNDEAD UNWASHED UNHOLY

Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who’s there

- Stavolta con quale dei due hai litigato?
Bill mi passa davanti, sfrecciando veloce verso il soggiorno. Si lascia alle spalle la porta aperta, il fruscio dei propri capelli e l’odore familiare delle proprie lacrime. Lo so che in teoria le lacrime non dovrebbero avere un odore, ma l’odore di quelle di Bill si sente sempre, ed è riconoscibilissimo. È il trucco che si scioglie. Che cola lungo le guance. È l’odore del sangue che esce in una singola goccia quasi asciutta sulle sue labbra – le morde sempre con una violenza inaudita, quando cerca di smettere di piangere. È l’unica persona che conosco che, per smettere di piangere, sopprime il dolore più grande con un dolore più piccolo. Non ha senso. Niente di lui ha mai avuto senso.
Lo osservo fermarsi davanti al divano, passare velocemente le dita sotto le ciglia e sulle guance e poi voltarsi finalmente a guardarmi. Sul suo viso non c’è quasi più traccia di niente. Cerca sempre di ripulirsi, prima di voltarsi verso di me.
- Posso restare da te stanotte? – chiede con un’incertezza solo mal simulata. Lo sa lui e lo so io che non dirò di no. E lo sappiamo entrambi semplicemente perché ci aspettavamo questo momento.
In realtà non ho neanche bisogno di chiedergli con quale dei due abbia litigato, posso intuirlo piuttosto facilmente solo osservandolo: ha il borsone in spalla. Il borsone è una vecchia borsa Adidas di quelle che in genere si usano per la palestra. Come faccia Bill – che è notoriamente più pigro di un bradipo – a possedere una cosa simile, va oltre la mia capacità di comprensione. Comunque, quando deve dormire fuori è sempre con questa cosa – piena fino all’orlo di cianfrusaglie che per la maggior parte neanche usa – che si muove. Senza, non esce neanche di casa.
Quando Bill dorme fuori, è perché ha litigato con Tom.
In genere, però, litigare con Tom non basta per presentarsi qui.
Quando Bill litiga con Tom, prepara il borsone e va da Bushido. Bushido è il suo… ragazzo? Uomo? Compagno? Non so. Non riuscirò mai a trovare un appellativo che non suoni stonato. Comunque è suo. È da lui che va a stare, quando litiga con Tom.
È quando litiga anche con Bushido, che viene da me.
*
La situazione di Bill è complicata. E non è affatto buona.
Ogni volta che ci penso non lo faccio con l’indifferenza dell’estraneo che osserva una situazione all’interno della quale non è affatto coinvolto. Io lo faccio con apprensione. Io sono davvero terrorizzato per Bill.
Ma d’altronde, sfido chiunque: la situazione di Bill preoccuperebbe anche un estraneo, anche uno che ne avesse appena sentito parlare, pure distrattamente, pure per sbaglio, pure origliando per caso una conversazione sull’autobus. Ed io – che questo ragazzino me lo sono cresciuto, un po’ – non posso fare a meno di andare in completa paranoia, ogni volta che ci penso.
Per inciso: ci penso ogni volta che Bill me ne dà l’occasione. Cioè ogni volta che piomba a casa mia. Cioè ogni volta che litiga con Bushido. Cioè ogni volta che litiga con Tom.
Cioè sempre.
La situazione di Bill è sempre stata complicata, da che lo conosco, e questo semplicemente perché la situazione di Bill è sempre stata legata indissolubilmente alla situazione di Tom. E la situazione di Tom non è complicata, la situazione di Tom è un dannato disastro.
Quando li ho conosciuti, i gemelli erano due ragazzini piccoli e stupidi. Il mio non è un giudizio impietoso, è un giudizio il più obiettivo possibile – ed è dato comunque con molta tenerezza di fondo. Troppa, temo.
Erano molto stupidi nel senso che erano convinti – fermamente convinti – il mondo stesse aspettando solo loro. Non avevano la più pallida idea dei sacrifici che si sarebbero ritrovati a compiere. Forse per questo accettarono di immergersi fin sopra la testa in un mondo che, dietro le quinte, non conserva niente dei glitter e delle paillette di cui ricopre la scena: erano disposti a tutto. E basta.
Ciò che mi ha sconvolto – ciò che mi ha dato la spinta finale, ciò che mi ha convinto a sceglierli fra tutte le enormi masse di ragazzetti alternativeggianti che già allora affollavano i palchi delle periferie – è stata l’abnegazione totale che provavano l’uno nei confronti dell’altro.
Bill e Tom sono sempre stati così. Strani.
Era una base buona dalla quale partire per fare soldi, ecco.
Io non ero un poveraccio. La mia non era una vita triste. Non andavo stancamente avanti nel tentativo di sbarcare il lunario giorno dopo giorno. Non avevo bisogno di una trovata pruriginosa che andasse a battere proprio lì dove i pensieri cattivi di tutti si fermano e si schiantano contro il muro del buonsenso.
Io stavo solo facendo il mio lavoro. Non avevo alcuna intenzione di venire a conoscenza di un segreto tanto grande. Non volevo essere partecipe di una cosa tanto spaventosa. Non volevo neanche fomentarla, lo giuro.
Non mi sento davvero in colpa, perché penso fosse inevitabile che fra Bill e Tom scoppiasse una cosa simile. Attaccati per com’erano, era solo questione di tempo. Certe cose rimangono sopite solo se la vita che uno si ritrova a vivere rimane sempre piatta ed immobile. Se sei circondato solo ed esclusivamente da persone che ti vogliono bene, se hai una madre devota che ti supporta, se hai un patrigno benevolo che ti sostiene, se hai degli amici intelligenti che scorgono oltre la superficie il bravo ragazzo che sei, non hai alcun bisogno di aggrapparti con tanta foga a tuo fratello.
La vita dei gemelli, però, non è rimasta piatta ed immobile. A tredici anni, Bill e Tom sono saliti su una trottola che non si è ancora fermata. E gira, gira. Non c’è mamma, non c’è papà, non ci sono amici. Sono solo Bill e Tom.
A qualcuno dovevano pure aggrapparsi, se non volevano volare via.
Hanno scelto di aggrapparsi l’uno all’altro. Era inevitabile. Non è stata colpa mia. Io ho solo favorito le condizioni, ma loro avrebbero potuto opporsi strenuamente – come Bill sta ancora cercando di fare, come Tom si ritrova a tentare di fare sempre più stancamente – e non sarebbe accaduto niente.
Siamo ad un passo dalla rovina.
E non sto parlando dei Tokio Hotel.
Sto parlando di Bill e Tom. Del ragazzino magrissimo che stringe una borsa enorme al fianco e mi chiede se può dormire a casa mia. Dell’altro ragazzino – uguale, identico, speculare – che sta tutto solo in un enorme appartamento, qualche isolato più in là, e probabilmente sta spaccando qualcosa. Perché è così che Tom reagisce al dolore, Tom distrugge.
Tom, ogni tanto, prova a distruggere anche suo fratello.
È per questo che Bill scappa. È per questo che fugge da Bushido.
Bushido.
Ogni tanto penso alla sua presenza in tutta questa storia e provo molta compassione per lui. Mi ritrovo quasi immerso in una sorta di empatia immotivata e pure un po’ pericolosa.
È che so cosa vuol dire avere a che fare coi gemelli.
È che so cosa vuol dire avere davanti Bill che piange e non vuole dire perché.
È che so cosa vuol dire avere addosso lo sguardo arroventato di Tom quando viene a riprenderselo.
Bushido fa quel che può. Anche lui non ha colpa di niente.
È questa storia, che è tutta una follia.
È ciò che ci sta dietro che non ha senso.
Immortale, sporco e sacrilego.
Io so di non avere motivi per avercela con me stesso.
Però quando ce l’hai con qualcuno in genere non stai neanche tanto a domandarti perché. Purtroppo.
*
Facciamo il punto della situazione.
Bill sta dormendo nel mio letto. Gli ho messo le sue lenzuola – un coordinato di cotone bianco finissimo del quale s’è letteralmente innamorato la prima volta che è venuto a passare la notte qui – gli ho sprimacciato il cuscino, gli ho posato accanto quell’orrore di peluche cui non rinuncerebbe neanche se fosse sposato e l’ho calmato abbastanza da fare in modo che potesse chiudere gli occhi senza che il semplice movimento lo portasse a piangere ancora.
Per le prossime cinque o sei ore, Bill starà bene. O meglio: non starà – non sentirà nulla, non avrà nulla di cui preoccuparsi, rimarrà avvolto nel sonno e nel silenzio senza pensare a niente.
Il suo cellulare è posato sul tavolino di cristallo basso proprio davanti al divano sul quale sto seduto adesso. È l’una. Bushido chiamerà al massimo fra un quarto d’ora – lo fa sempre.
Mentre aspetto, posso chiamare Tom. È quello che faccio sempre io.
- Pronto?
La sua voce è venata da una sorta di speranza un po’ infantile e demotivata. La speranza che ti trascini dietro, quella che sai di non dover continuare a nutrire ma conservi comunque.
Bill non lo chiama mai, ma Tom non fa che aspettare.
- Sono io. – rispondo in un sussurro, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa della mia camera da letto.
La speranza di Tom vola via in un sospiro. Nel sospiro stanco col quale pronuncia il mio nome.
- David. È lì?
Annuisco, anche se lui non può vedermi.
- Dorme. – preciso, - Cos’è successo?
Tom sospira ancora, ma è un sospiro diverso.
Lo so che è difficile, Tom. Lo so.
- Niente. – sbotta lamentoso, - Abbiamo litigato. Almeno adesso so che è lì e non devo preoccuparmi.
Mi lascio andare ad una risatina divertita.
- Sì, lui è al sicuro. – confermo, - Tu come stai?
Posso immaginarlo scrollare le spalle e lasciarsi andare di peso sul divano – lo fa davvero, sento lo sbuffo d’aria e lo scricchiolio della pelle sotto di lui.
- Così. – borbotta, - Domani lo riaccompagni tu?
- Domani ci vediamo direttamente agli studi. Non farmi brutti scherzi.
Ridacchia.
- No, tranquillo. – mi rassicura, - Allora adesso vado a dormire.
- Ecco, bravo. – lo rimbrotto spiccio, - I mocciosi come te a quest’ora dovrebbero essere già a letto da un pezzo.
Non protesta, neanche mi risponde. Quando parla di nuovo, non si sta rivolgendo a me.
- David, quando si sveglia digli che… - si ferma, cerca le parole. Dev’essere tremendo. Forse, dentro di sé, fa la prova. “Digli che lo amo”. Giusto per vedere come suona sulla punta della lingua. - …va be’. Magari poi glielo dico io.
È questa la cosa che temo, Tom. È questo ciò che teme anche Bill.
Che tu possa dirglielo veramente.
*
Non ho quasi neanche il tempo di chiudere la conversazione con Tom, che il cellulare di Bill squilla. Generalmente, non faccio che allungarmi verso il tavolino, recuperarlo e rispondere a Bushido che s’informa sulla salute del proprio ragazzo, uomo, compagno o quel che è. Davvero, per me è imbarazzante starci a pensare. Sarà che siamo praticamente coetanei, sarà che fra noi non s’è mai davvero creato un rapporto – neanche di conoscenza, Bill è talmente geloso della loro relazione che è quasi più difficile incontrarsi adesso rispetto a quando lui era solo un collega, e neanche mio – sarà che be’, pur non sapendo niente so tutto ciò che c’è dietro – a lui, a Bill, a Tom, ecco, proprio tutto – ma insomma. Non lo so. Comunque preferisco evitare di parlare con lui, quando posso.
Il problema è che capisco la sua preoccupazione, ecco. Quando Bill litiga con qualcuno lo fa come se, da quel momento in poi, ritenesse implicito un addio. Bill litiga, cioè, e va via di casa sbattendo la porta e senza salutare, esattamente come fai quando la vista della persona che ti sta davanti ti è così insopportabile che il solo pensiero di rimanere a subirla un secondo di più ti nausea e ti ferisce a morte. Quando Bill imbocca la porta si ha sempre un po’ paura che non torni.
Giustamente, Bushido a lui ci tiene. E se ne sente responsabile, se non altro perché è stato chiaro fin dall’inizio Bill si stesse mettendo completamente nelle sue mani, senza riserve. Perciò chiama.
Io lo capisco fin troppo bene per negargli una rassicurazione. Perciò vinco l’imbarazzo ed il disagio, rispondo al dannato cellulare e gli dico puntualmente di stare tranquillo, che Bill dorme, lo informerò della sua chiamata e lo farò rintracciare l’indomani mattina appena sveglio.
È sempre così.
Stavolta no.
Mi allungo verso il tavolino ma sento uno scalpiccio di piedi nudi sul parquet dietro di me, perciò mi fermo e mi volto a guardare. Bill – maglietta e boxer, i capelli sciolti e scomposti lungo le spalle e gli occhi ancora rossi di pianto – corre fino al cellulare, lo afferra e lo porta all’orecchio in un gesto tanto veloce da sembrare unico.
- Anis? – risponde ansioso, stringendo l’apparecchio fra le mani con una violenza inaudita, - No, sono da David. Sì, lo so. Lo so, scusa. No, non dicevo sul serio. Ti giuro che… non dicevo sul serio.
È la prima volta che li sento parlare. Cioè, in realtà sto sentendo solo Bill, ma è una prima volta anche questa. In genere, quando parlano al telefono, Bill si nasconde. Che sia per sfuggire alle ire di Tom – che ogni volta che riesce anche solo a subodorare un qualche contatto fra lui e Bushido comincia a comportarsi come un pazzo assetato di sangue – o per proteggere in qualche modo un’intimità che, negli ultimi mesi – anche a causa della Universal ed anche a causa mia – è stata talmente pubblicizzata da non conservare d’intimo neppure il nome, non lo so. Comunque sia, si nasconde.
Evidentemente, stavolta aveva troppa fretta per pensarci.
…o, più semplicemente, non c’è Tom nei paraggi.
Sospiro, abbandonandomi contro lo schienale del divano, mentre Bill continua a sciorinare scuse in un singhiozzo continuo.
Il problema non è l’intimità resa pubblica, no. Il problema è Tom. Come sempre.
*
Bill chiude la conversazione con un sospiro stremato, e si lascia andare seduto accanto a me. Si piega in avanti come accartocciandosi su se stesso, e quando capisce che, continuando ad avvolgersi in questo modo, cadrà dal divano, tira su le gambe e si accuccia nell’angolo più lontano del sofà, stringendo le ginocchia al petto come un bambino piccolo.
- Voleva passare a prendermi. – mi informa atono, - Gli ho detto di restare a casa. Tanto ci vediamo domani. Non mi va proprio di vederlo adesso.
Sorrido lievemente.
- Ma se gli hai appena detto che non volevi lasciarlo e ti sei scusato per aver litigato qualcosa come tremila volte?
Bill si stringe nelle spalle, evitando il mio sguardo.
- Non mi va lo stesso di vederlo. – borbotta, - Scusa, lo so che dovrei dormire. Non ci riesco.
Annuisco.
- Ha chiamato tuo fratello. – lo informo con falso disinteresse, - Era preoccupato.
Bill aggrotta le sopracciglia, contrariato, e stringe con più forza le braccia intrecciate sotto le ginocchia.
- Mio fratello continua a sbagliare i tempi. – asserisce cupo, - Dovrebbe smetterla. Se sapermi in giro lo preoccupa tanto, perché non la pianta di costringermi ad andarmene?
Bill non sa – o non si rende conto. O non vuole capire – che l’intenzione di Tom è del tutto diversa. Bill non sa che Tom rinuncerebbe a qualsiasi cosa, per convincerlo a rimanere con lui per sempre. Bill non lo sa. Bill non se ne rende conto. Bill non vuole rendersene conto.
- Voleva che ti riferissi qualcosa. – dico, quasi lasciando sospesa la frase, solo per osservare la sua reazione. Bill solleva il viso e mi guarda: gli occhi spalancati e luminosi, le labbra socchiuse, sul volto un misto di ansia, felicità e paura che renderebbe chiaro perfino al più stupido che cosa sta aspettando di sentire. – Non mi ha detto cosa, però. – Bill abbassa lo sguardo. Si morde un labbro. Sospira pesantemente. – Ma ha aggiunto che te l’avrebbe detto lui stesso. – concludo.
Anche Bill conclude, sì. Di respirare.
Gli poso una mano sulla spalla.
- Ehi. – cerco di richiamarlo, preoccupato, - Stai bene?
Lui annuisce ma non risponde.
È un terrore giustificato, il suo. È anche il mio terrore. È il terrore di tutti tranne che di Tom, che si sta gettando contro questo disastro a testa bassa, neanche fosse l’unica soluzione possibile.
Bill – io. Bushido, forse, perfino lui – sa che è solo questione di tempo. Che prima o poi Tom dirà o farà qualcosa di talmente inequivocabile che, a quel punto, non potremo fare più niente per nasconderlo. Non ci saranno luoghi in cui scappare né bugie da orchestrare ad arte. Saremo solo noi di fronte al disastro. Con la speranza di sopravvivere. Con la certezza di soffrirne.
Bill ha paura. Bill ha ragione.
Tom, però, è innamorato. E chi potrebbe dire che ha torto?
*
Quand’ero più giovane, io volevo fare lo psicologo. Credevo di avere un vero e proprio talento per capire le persone. Credevo fosse un dono. Ne andavo perfino orgoglioso, perché mi aveva aiutato tanto in svariate occasioni della mia vita – non ultima il divorzio dei miei genitori, per non parlare di quello che ne seguì.
Credevo fosse un dono e lo credevo per davvero.
Naturalmente mi sbagliavo. Capire gli altri è evidentemente una punizione per un qualche tragico errore in una vita precedente. Quando capisci gli altri – cosa si muove nelle loro teste, i dolori che agitano le loro anime, le ansie che bloccano il battito dei loro cuori – ti precludi per principio qualsiasi possibilità di odiare qualcuno. Di riconoscergli una qualche crudeltà gratuita priva di movente. Di percepirne le assurdità.
Giustifichi tutto. Comprendi tutto. Assolvi tutto.
Io, purtroppo, non mi sono fermato a comprendere le ragioni di Bill, no. Per quanto sia sbagliato e controproducente – nonché vagamente irrazionale – comprendo anche le ragioni di Tom. Tom che, forse, è quello che ha più ragione di tutti – ma tutto il mondo contro. Anche se solo in prospettiva.
Tom è sempre stato così, per dire la verità. È per questo che insisto col fatto che dovevamo aspettarcelo. Tom non è cresciuto negli intenti, è cresciuto solo in intensità. Cioè quello che prova oggi è identico a ciò che provava ieri. Il problema è che è dannatamente più intenso. Mille volte più intenso. Perché fra ieri ed oggi ci sono state mille notti di silenzio. Mille notti in cui ha potuto semplicemente rimanere a pensare.
Pensare fa male.
Tom ha una fama che non gli rende giustizia. A lui piace passare per un puttaniere, davvero, gli piace un sacco. Forse gli piace proprio perché, se lascia che il mondo pensi il suo unico interesse sia portarsi a letto le groupie, allora il mondo non sospetterà mai nemmeno per sbaglio che il suo interesse reale sia un altro. A volte la mente usa meccanismi simili – sciocchi, subdoli, sostanzialmente inutili – per illuderti di stare facendo tutto il possibile per proteggerti.
In realtà sei nudo sotto un fuoco incrociato di domande sempre più pressanti.
Tom, alle domande su suo fratello, risponde né più né meno che come un innamorato. E lui lo sa.
Bill ha cominciato ad accorgersene, finalmente.
Noialtri… all’inizio l’abbiamo presa perfino con un certo orgoglio. “Guarda come l’abbiamo istruito bene. Guarda con che scioltezza risponde. Guarda che bel lavoro sta facendo. Guarda come s’ingrazia le fangirl”. C’era davvero di che essere orgogliosi.
Però, chiaramente, quando abbiamo visto che continuava a ripetere le stesse identiche cose pure in privato, abbiamo cominciato a nutrire seri dubbi sull’artificiosità di quanto aveva detto – nonché diversi altri dubbi su quanto avesse appreso dai nostri insegnamenti, ovviamente.
A lungo andare, l’ha capito pure Bill. Bill che, per contro, continua a non capire un accidenti di se stesso. O forse io sbaglio, vedo cose che non esistono e traggo conclusioni affrettate dal poco che conosco.
Ma, sinceramente, ne dubito.
Se mi sbagliassi, ovviamente, Bill non scapperebbe costantemente di casa per evitare proprio quella rivelazione lì. Quella che cambierebbe le vite di tutti.
Se mi sbagliassi – se non fosse esattamente come penso – Bill non avrebbe scelto Bushido nel disperato tentativo di porre Tom di fronte ad una sfida insostenibile – “non vorrai davvero cominciare ad odiare me, che sono tuo fratello, e lui, che è uno degli artisti che rispetti di più in assoluto?” – nella speranza di tenerlo a bada ancora per un po’ – fallendo miseramente, ma non poteva sospettarlo.
Se mi sbagliassi, nessuno dei drammi che ho già prefigurato così chiaramente nella mia testa avrà mai luogo, e Bill sarà autorizzato a darmi del cretino senza aspettarsi rappresaglie punitive, quando glielo racconterò.
Il punto, però, è un po’ diverso.
Il punto è che, se io mi sbagliassi, non si spiegherebbe un accidenti di ciò che sta succedendo.
Tom, a volte, picchia suo fratello. Io capisco perché lo fa. Bill dice di no, ma mente. Tom fa così, prende e gli tira un pugno. È la furia repressa, la gelosia, il senso di mancanza che avanza rispetto al senso di un’appartenenza che si sfalda giorno dopo giorno. Vedo arrivare Bill a notte fonda con certi lividi che fanno paura. E, se io mi sbagliassi, questa rabbia non avrebbe senso. Queste fughe notturne da un lato all’altro dalla città, queste fughe che si concludono qui, nel mio letto, a piangere sul cotone bianco finissimo, non avrebbero senso. Bushido non avrebbe senso – non avrebbe il minimo senso, davvero.
Ho provato a chiederlo a Bill. Ho provato a capire se se ne rendesse conto.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con tuo fratello?”, e lui ha risposto “mi fa male”.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con Bushido?”, e lui mi ha risposto che quando stanno insieme si sente al sicuro.
Lui forse non lo capisce. Lui forse si rifiuta di capirlo.
Io non ho rifiutato mai niente. Io capisco tutto sempre troppo bene. Troppo, troppo bene. Tanto bene che a volte rinuncerei volentieri al privilegio.
Il punto è che a scappare all’infinito non perdi niente. Bill tiene fra le mani Bushido – che s’è ritrovato letteralmente addosso un’anima da salvare. Scommetto che dev’essere dura, durissima – e tiene sulla corda suo fratello. Tom sta impazzendo e Bushido sta perdendo la testa.
Bill non ha nessuna colpa, di tutto questo.
Non ha neanche fatto niente per fermarlo, però.
E questo è un dannato problema. Per tutti.
- Bill. Adesso dovresti proprio andare a letto.
Bill si morde un labbro e stringe ancora di più le ginocchia al petto.
- Posso restare a dormire qui…?
- Stai già restando a dormire qui.
Scuote il capo.
- No, dico… qui. Sul divano. Dico con te.
Sospiro.
A quanti altri sarebbe capace di aggrapparsi pur di sfuggire all’amore della persona che ama?
- Vai a dormire. Nel letto ci sono le lenzuola che ti piacciono tanto.
*
I Kaulitz sono sempre stati strani.
I Kaulitz sono sempre stati anche un po’ stronzi, devo dire.
Quando sei come Bill e Tom – quando, cioè, hai un te stesso che ti completa in tutto e per tutto – è facile rinchiuderti in una sorta di bolla in cui, oltre all’altra metà di te, non esiste nient’altro. Perciò tutto il resto perde importanza. Tutto il resto non conta. Tutto il resto – pure se è un manager chiaramente in apprensione che cerca da una mattina di capire che diavolo di fine abbiano fatto il suo cantante ed il suo chitarrista – è zero.
Stamattina, Tom mi ha fatto lo scherzetto. Sinceramente me lo aspettavo: la serata di ieri minacciava di essere stata ben più scombinata rispetto a quanto riuscissi ad immaginare – e Bill era davvero troppo troppo triste per non denunciare qualcosa di veramente grave. Sapevo che Tom non si sarebbe sprecato a muovere il culo e venire a lavorare, così come sapevo con certezza che nemmeno Bill l’avrebbe fatto, a meno di tirarlo giù dal letto con la forza e spedirlo in bagno a calci.
Chiaramente, Bill ha passato l’intera mattinata a mordicchiarsi le labbra e telefonare a Bushido. Con la furia del pazzo, davvero. Neanche le labbra fossero Tom stesso e Bushido l’unico che sapesse dove trovarlo.
Tom non ha risposto al cellulare. Non ha risposto a casa. Non ha risposto e basta.
Alle undici e mezzo, Bill ha recuperato la borsa ed ha detto che andava a controllare, senza neanche salutare. È andato da solo. Per la verità avrebbe dovuto chiedere il permesso – o chiedermi di seguirlo – ma non l’ha fatto – nessuna delle due cose – e m’è sembrato assurdo insistere di fronte alla palese realtà per la quale voleva e doveva andare da solo.
Non s’è più fatto sentire, da allora.
Verso l’una ho detto a Georg e Gustav di prendersi il resto della giornata libera. Dubbiosi, loro hanno obbedito, se non altro perché sapevano non ci fosse altro da fare.
Adesso, alle due meno un quarto, io guardo Dave, Dave guarda me e poi sospiriamo in sincrono. Lo facciamo come se fossimo abituati ad assurdità di questo tipo, ma in realtà è una maschera che ci siamo costruiti addosso nell’eventualità che scene simili si fossero davvero realizzate. Cosa che non era mai successa, fino ad ora.
Prendo le chiavi dell’Audi e mi fiondo verso l’ascensore, macino metri di moquette, divoro la strada, arrivo di fronte casa dei gemelli, annullo le distanze spaziali ed in due secondi sono davanti alla porta dell’appartamento. Suono, nessuno risponde. Tiro fuori il mazzo cumulativo dalla tasca del giubbotto. Cerco il doppio delle chiavi. Ce l’ho? Ce l’ho. Apro.
Bill è seduto sul divano.
Inequivocabilmente solo. Inequivocabilmente immobile. Inequivocabilmente disperato.
Mi avvicino, guardandomi intorno con aria smarrita.
- Bill… dov’è Tom?
Fa spallucce.
- Bill?
- Non c’era. Non lo so. Se n’è andato.
Annuisco.
Potrebbe essere una cosa momentanea. Potrebbe essere uscito a comprare le sigarette – solo? Senza Saki, David? Quanto lo ritieni stupido? – potrebbe tornare da un momento all’altro. Magari mi sono davvero sbagliato, ho montato un casino sul nulla ed in realtà non è successo niente. Magari torna.
- Ha lasciato un biglietto?
Tremo, nel chiederlo. Tremo perché in realtà i gemelli sono sempre stati pure un po’ melodrammatici, nelle loro manifestazioni, e quindi non mi stupirebbe – non mi stupirebbe affatto – una bella lettera d’addio con tanto di confessione finale.
Bill, però, scuote il capo.
- No. – risponde con una voce talmente lontana e spaventosa da non sembrare neanche la sua.
Mi siedo al suo fianco e gli poggio una mano sulla spalla. Non so se per consolarlo o per avere una prova della sua presenza fisica accanto a me. Non è importante. Bill serra le labbra e sopprime un singhiozzo, ma non dice una parola di più.
Siccome capisco sempre tutto troppo bene – accidenti a me – capisco anche questa volta. Bill si sta pentendo non so quanto – non lo sa neanche lui, temo – di tutte le fughe ed i litigi degli ultimi mesi. Si sta pentendo di essere sfuggito alla confessione di Tom, così come di averne ignorati uno dopo l’altro tutti i segnali. Si sta pentendo di non aver reagito alle botte e si sta pentendo di essersi nascosto fra le braccia di un uomo che, poverino, non ha la minima idea della cosa dalla quale Bill lo accusa di proteggerlo – o almeno credo. Si sta pentendo di essere venuto a dormire da me. Invece di tornare qui. Da Tom. Che voleva solo sentirgli dire “Va bene, Tomi. Dimmelo. Lo accetterò comunque. Ti accetterò comunque”.
Tom, dal canto proprio, è stato gentilissimo. Bill non voleva sentire la sua confessione? Ebbene, non l’ha sentita. Né ad alta voce né affidata alle premure di un foglio troppo scarno per contenere davvero tutto ciò che la motivava.
Io lo so cosa si sta dicendo Bill in questo momento. Si sta ripetendo in una cantilena parole che ha scritto da sé. Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello. Era anche quella una confessione, anche se con intenti tutti diversi. Quando l’hai scritta, te lo aspettavi? Lo sapevi già? Lo sospettavi, almeno?
Bill, ancora al mio fianco, si accartoccia su se stesso come fa sempre quando il peso della situazione che sta vivendo sembra del tutto insostenibile ed ingiusto. Stavolta – rispetto alle mille volte in cui l’ha fatto per capriccio – non ha nemmeno torto. Mi chino su di lui e cerco di abbracciarlo. Non è facile, perché lui non vuole essere abbracciato.
- C’è qualcosa che posso fare? – chiedo, quando il senso di colpa torna a pungere fortissimo sotto le ciglia.
Bill scuote il capo. Poi si ferma e dischiude le labbra.
- Voglio vedere Anis. – bisbiglia confusamente, - Però non voglio chiedergli di venire. Lo chiami tu per me?
Per un attimo, non so che fare. Vorrei sinceramente rispondere “non mi pare la soluzione migliore, Bill”. Poi, però, cambio idea. Bill è scappato fino ad adesso, anche se non era giusto lo facesse. Adesso che, però, anche Tom s’è deciso per la fuga, a Bill non si può proprio più togliere il diritto di niente.
Se vuole scappare in eterno, che lo faccia.
Se vuole provare a rialzarsi dalle proprie macerie, io lo aiuterò.
Se vuole dare a tutti noi una possibilità per cercare di risolvere questa situazione, io sono d’accordo.
Lentamente, allungo un braccio verso il tavolo. Recupero il cellulare. Cerco in rubrica il numero di Bushido.
- Pronto? – risponde lui, un po’ incerto.
- …salve. – deglutisco io, dopo un attimo di confusione. Non so mai come parlare, quando si tratta di lui. – C’è un problema… - lo informo vagamente, - Potresti venire qui a casa di Bill?
Lui non focalizza immediatamente. Di sicuro ha trovato strano che io mi riferissi a questo appartamento come “casa di Bill”. Lo capisco, l’ho trovato strano anche io. L’ha trovato strano anche Bill, che ora si raggomitola contro il mio fianco e comincia a piangere nel modo silenzioso e disperato dei dolori assoluti, stringendo un lembo della mia maglietta come avesse paura di scivolare giù dal divano.
Bushido lo sente.
- Arrivo fra dieci minuti. – mi informa spiccio, prima di chiudere la conversazione.
Poso il cellulare e mi volto verso Bill – adesso sì, adesso vuole essere abbracciato; tende le braccia, singhiozza pesantemente… adesso vuole un abbraccio.
Lo accontento. Lo so che non sono quello che vuole. Né quello che gli serve.
Al momento, però, non è importante.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Anis Mohamed Youssef Ferchichi è totalmente pazzo. Ecco perché.
Note: È una cretinata che mi ha ispirato ieri sera una chiacchierata su MSN con Lost White XD Parlavamo dell’eroismo del Bu e lei mi ha detto che, se lui fosse stato davvero un eroe, sarebbe andato fino in Messico a rapire Bill per il suo compleanno XD Da qui è nata una gioiosa battuta che faceva più o meno così:
Bu: *con aria eroica* Andiamo!
Bill: *con aria preoccupata* Aspetta, Bu, devo prendere il beauty…
Bu: *scioccato* Sono in volo da ventiquattro ore e tu pensi al beauty?! D:
Ovviamente poi la battuta me la sono completamente dimenticata e, una volta arrivata alla fine, mi sono accorta che non c’entrava più niente con quello che era venuto fuori “XD Io sono palesemente fuori come un citofono (cit. Tab <3).
Comunque. Questa storia è il fluff. Ed io la amo per una serie di ragioni idiote, tipo il fatto che l’ho scritta in un’ora “XD
Il titolo è preso da una canzone del Bu u.u Significa “momento, attimo, istante”. <3.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
AUGENBLICK

- Atze… tu sei completamente pazzo.
Bushido non saprebbe come giustificarsi. Cosa dire o cosa fare. Pertanto, non dice e non fa niente, a parte restare a fissa le punte di un paio di mocassini marroni che – ricorda solo in questo momento – Bill odia. Non avrebbe dovuto metterli. Potrà cambiarsi nel bagno dell’aereo, magari?
- Ma mi spieghi cosa diavolo ti sei messo in testa?! – Saad continua a parlargli nell’orecchio come se lui lo ascoltasse davvero, - Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido scrolla le spalle e recupera da terra lo zaino che ha preparato in fretta e furia. Lo apre, rovista metodicamente all’interno, cerca il sacchetto con le scarpe, lo trova. Le nike beige. Non ricorda se a Bill piacciano. Almeno non sono gli altri mocassini, quelli neri: Bill li odia perfino più di quelli marroni, dice che lo fanno sembrare frocio.
Quando Bill dice cose del genere, la faccia di Bushido si trasforma sempre nell’espressione fisionomica di un punto interrogativo. Non sa se dovrebbe chiedersi prima “ma cosa ci faccio io con lui?” o “cosa ci fa lui con me?”. In genere, non ha tempo di chiedersi un bel niente: Bill ride del suo sgomento e lo bacia con forza. Bushido ama i baci di Bill perché non somigliano affatto a quelli delle femmine.
Ed in effetti questo dovrebbe turbarlo, forse.
- Anis, Cristo santo, è un viaggio di ventiquattro fottute ore! E tu hai una biografia ed un singolo in uscita fra una settimana, cazzo, Mirko andrà fuori di testa! – continua Saad, rosso come un pomodoro. Bushido ridacchia: suo cugino è pallido come una mozzarella, e quando si arrabbia è una delle cose più comiche del mondo. – Non avrai intenzione di cambiarti le scarpe adesso?! Perché vorresti cambiarti le scarpe?!
- No… - mormora, posando nuovamente il sacchetto nello zaino. Sono le prime parole che dice da quando sono partiti da casa, - No, non le cambio. – specifica.
- Okay. – annuisce Saad, palesemente esasperato, - E tutto il resto?
- Quale resto?
- Il resto delle cose che ho detto!!!
Bushido scrolla ancora le spalle perché non se le ricorda.
- Andrà tutto bene. – butta lì a mo’ di rassicurazione.
Saad scuote il capo e sospira pesantemente.
- Atze… - ripete con aria rassegnata, - Tu sei completamente pazzo.
*
Alle dieci a trentacinque di sera del trentuno agosto, Bushido siede su uno scomodo seggiolino dell’aeroporto di Madrid ed aspetta l’aereo dell’una e venti, quello che lo porterà a Città del Messico.
Ha cambiato le scarpe, ma non sull’aereo, perché l’hostess continuava a guardarlo male. Avrebbe voluto urlarle che non se l’era scelto lui l’aspetto da terrorista talebano, poteva anche risparmiarsi, la stronza, di farlo sentire così fottutamente a disagio. Per qualche motivo, sembrava pronta a saltargli addosso e stordirlo con un colpo in testa al primo movimento sospetto. Alzarsi per andare in bagno sarebbe stato un movimento sospetto, forse, perciò Bushido è rimasto seduto al proprio posto, senza scomporsi, fissando il vuoto e, ogni tanto, l’odiosa hostess, nel disperato tentativo di far passare il tempo.
Cambiare le scarpe è stata la prima cosa che ha fatto una volta sceso a Barajas. S’è infilato nel bagno degli uomini, ha sfilato i mocassini ed ha resistito all’impulso di buttarli nel cestino della carta straccia. Ha recuperato le nike, le ha indossate, ha deciso che non stavano bene coi jeans che indossava e che comunque faceva troppo caldo per tenerli ancora, perciò ha tolto anche i jeans ed ha infilato i pantaloni neri corti al ginocchio.
La maglietta blu ci stava sopra uno schifo. Ha messo via anche quella e ne ha recuperata una bianca. S’è chiesto se avesse portato altro, in caso si fosse sporcato in qualche modo ed avesse sentito il bisogno di cambiarsi, ma poi ha scrollato le spalle, s’è dato del cretino ed è tornato in sala d’aspetto.
Mentre attende, l’eco della voce di suo cugino riaffiora alla sua memoria, e si rende conto che, in effetti, di tutta la miriade di stronzate che Saad ha detto a Berlino, qualcosa ha registrato.
Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido non ha una giustificazione, per questo. Se suo cugino glielo chiedesse di nuovo, in questo momento, risponderebbe “Bill al telefono sembrava triste”.
È felice che suo cugino non sia lì per chiederglielo.
*
La conversazione fra lui e Bill s’è svolta più o meno in questi termini.
“Che fai?”, ha chiesto Bushido.
“Dopodomani faccio il compleanno”, ha risposto Bill.
“Lo so”, ha ribattuto lui, “Non c’è bisogno che me lo ricordi”.
Bill ha sospirato.
“Non si sa mai”.
Bushido ha aggrottato le sopracciglia e, per nessun motivo in particolare, ha guardato l’orologio.
Probabilmente ha deciso in quel momento. Comunque non se n’è accorto.
Il respiro di Bill s’è fatto un po’ più affrettato.
“Mi manchi…”, s’è sentito sussurrare piano, ed è stato come sentirselo scivolare sulla pelle.
Ha deglutito con forza.
“Ti senti bene, Bill?”, ha chiesto, vagamente preoccupato.
“Mi manchi e basta”, è stata la secca risposta del ragazzo, “Sono solo, sai? Tomi non dorme in camera con me, oggi”.
“Che tragedia”, ha risposto con un mezzo ghigno.
Bill ha ridacchiato.
“A te manco?”.
Bushido s’è inumidito le labbra.
“Sì.”
“Vorrei che fossi qui, adesso”.
Fruscio di lenzuola. Respiri affaticati.
“Anche io, piccolo”, ha annuito, facendosi scorrere addosso una mano ed immaginando fosse quella di Bill.
Probabilmente aveva già deciso, prima di quel momento. Ma è stato con quella fantasia in mente che ha prenotato il biglietto aereo, tre quarti d’ora dopo.
*
Jost ha un momento d’esitazione, quando sente la sua voce al telefono.
- Disturbo? – chiede educatamente Bushido, cercando di trovare un cantuccio riparato dalle millemila voci dei turisti che affollano l’aeroporto di Città del Messico.
- No, non… Bushido? – chiede David con aria scioccata, ed Anis può immaginarlo perfettamente stringere isterico il cellulare fra le dita, come fa sempre quando qualcosa di totalmente inaspettato arriva a sconvolgere la sua tranquillità.
- Già. – ridacchia, - Senti, una cosa veloce: volevo solo sapere dove alloggiate, così-
- Ma dove sei? – è la naturale domanda del manager, più motivata da un certo amore per l’efficienza e la praticità che non da pura sorpresa.
- Al momento, all’inferno. – risponde Bushido con uno sbuffo esasperato, - Allora? Prendo un taxi o mandi qualcuno a prendermi?
David sospira.
Ed ha un altro momento d’esitazione quando se lo ritrova davanti, di fronte all’uscita passeggeri dell’aeroporto.
- Dio santo… - commenta impietoso, - Sei uno straccio. Da quando sei in volo?
- Per come mi sento adesso, suppongo che dovrei rispondere “da quando sono nato”. – borbotta, - Non hai detto niente a Bill, vero?
David sorride, aprendogli lo sportello della macchina.
- Sono un uomo molto romantico.
*
Il JW Marriot è un hotel a cinque stelle ma fa schifo. È organizzato male, incasinato e, già a guardarlo da fuori, non sembra molto altro che un blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti. Bushido odia gli alberghi pseudo-moderni come questo: a lui piacciono le regge; non è Re mica per niente.
Comunque, all’interno di questo osceno blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti, c’è Bill. Tanto basta per ignorare l’orrore estetico che suscita e passare oltre.
Jost si muove perfettamente a proprio agio fra gli intricatissimi corridoi della struttura, e saluta gente a caso, spandendo sorrisi a destra e a manca come dovesse vendere i Tokio Hotel ad ogni messicano che incontra. Bushido crede che il piano base sia questo, ma cerca di non pensarci perché gli viene troppo da ridere.
- A Bill verrà un colpo. – commenta il manager, indicando una stanza in fondo al corridoio.
- Non se lo aspetta? – chiede Bushido con un mezzo sorriso.
David lo guarda enigmatico.
- Tu te lo aspetteresti, da te stesso?
Bushido guarda altrove.
In effetti no.
*
Le prime parole che sente entrando nella suite, sono di Bill.
- David, finalmente sei tornato! – si lamenta, con la solita voce piagnucolosa di quando qualcuno gli fa un torto assolutamente idiota che lui però prende come peccato capitale, - Tomi è uno stronzo, non mi ha fatto il regalo!
- Bill, voi non vi fate mai regali. – cerca di calmarlo David, mentre Bushido comincia a sentirsi talmente fuori luogo che preferirebbe rifare tutti i corridoi al contrario e perdersi in quello schifo d’albergo altre centomila volte, piuttosto che entrare e salutare come si deve.
- Ma i diciannove anni sono diversi! – strilla Bill, Bushido ancora non può vederlo ma sa che deve avere addosso l’espressione più carina del mondo. – Sono gli ultimi prima dei venti! Da qui in poi smetterò di crescere e comincerò ad invecchiare! È drammatico!
- Come sei insensibile. – borbotta Tom, stravaccato su un divano che, per come lo vede Bushido, dall’angolo ombroso in cui aspetta il coraggio di farsi notare, varrà almeno il doppio di quanto non valga il chitarrista stesso, - Non dire queste cose a David, che poi si sente un rottame.
Anis sospira e stringe i pugni.
Prima o poi dovrà buttarsi e basta, no?
- Già. – concorda entrando finalmente nel salottino, - Io, per dire, mi sento ancora nel pieno delle mie forze.
Il silenzio cala glaciale su tutte le tre stanze che compongono la suite.
Tom spalanca gli occhi e sul suo viso nasce un sorriso irridente che costringerebbe Bushido ad arrossire, se non avesse dimenticato come si fa anni ed anni addietro.
Lentamente, come in un vecchio film romantico, Bill porta una mano alle labbra e singhiozza con forza.
- Sorpresa. – dice Bushido con un mezzo sorriso, - Neanche io ho portato un regalo. Posso restare lo stesso?
Bill si alza in piedi con un movimento fulmineo che, considerata la sua abilità pressoché nulla nel gestire le proprie reazioni corporee, è comico all’inverosimile. Si sbilancia, sembra sul punto di cadere, Bushido fa per sorreggerlo ma non ne ha bisogno, perché Bill si mette letteralmente a saltellare su una gamba, recupera l’equilibrio e poi gli corre fra le braccia, saltandogli addosso con tanto impeto da lasciarlo quasi steso a terra.
David – Bushido lo nota appena – fa un cenno a Tom, che borbotta qualcosa sull’andare a rompere le palle a Georg, e poi i due abbandonano la stanza senza una parola di più.
Bushido stringe le braccia attorno alla vita sottilissima di Bill.
Bill singhiozza.
- Oddio, come hai fatto… - pigola contro il suo collo. Non è una domanda, perché Bill non cerca mai risposte, da lui. È una constatazione sconvolta.
- Avevi voglia di vedermi, no?
Bill lo pizzica forte dietro la nuca.
- E tu no? – chiede lamentoso.
Bushido si scosta un po’ e lo bacia sulle labbra.
- I diciannove anni ti donano. Sei carino.
Bill arrossisce come una liceale e scuote il capo, tornando a nascondersi contro il suo petto.
- Non ho chiuso occhio, stanotte, devo essere impresentabile.
Bushido gli fa scorrere una mano sotto la maglietta, sulla schiena, sul ventre, sulle braccia. Non è un atto sessuale, ha solo voglia di sentirlo sotto i polpastrelli. Bill fa lo stesso, ma Bill è più romantico di lui, perciò non lo fa con le mani ma con le labbra. Lo bacia sotto un orecchio, lungo il profilo della B tatuata sul collo, sul mento, sul pomo d’Adamo.
- Io ti trovo bene. – commenta Bushido, stringendolo tanto forte da avere quasi paura di romperlo.
Bill non si lamenta.
Ogni tanto Bushido dimentica quanto Bill sia forte. Ricordarlo in questo modo è effettivamente molto bello.
- Questo posto, comunque, fa schifo. – riprende il controllo Bill, separandosi da lui e tirandolo per una mano verso il letto, - Toh, senti. – borbotta, spingendolo sul materasso, - Ti pare morbido?
Bushido piomba sul materasso con un tonfo sordo e comincia a ballonzolarci su in un gesto che fa ridere Bill in maniera incontrollata.
- Non è malaccio.
È morbido davvero.
Bill sbuffa.
- A me non sembra.
Bushido gli lascia scivolare una mano lungo il braccio – dalla spalla in giù – e poi lo stringe delicatamente per il polso.
- Non l’hai provato per bene. – argomenta, tirandolo verso di sé.
Bill sorride e si lascia trascinare.
- Convincimi. – concede.
Qualche ora più tardi, quando si sveglieranno, Bill lo accoglierà con una battuta che Anis non dimenticherà tanto facilmente.
Tu dovresti vendere materassi.
La cosa lo riempirà d’orgoglio, di divertimento e di tutta un’altra serie di cose che non è necessario dire ad alta voce.
Per il momento, la sua testa è piena solo di Bill e di un tanti auguri che, più che detto, va mostrato. In fondo, è per questo che è volato fino in Messico, no?
“Atze…”, borbotta Saad nella sua testa, prima che lui riesca finalmente a dimenticarlo del tutto, “Tu sei completamente pazzo”.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: PWP, Slash.
- "Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Non stasera."

Note: Colpa di Tab XD In realtà le avevo detto millemila secoli fa che le avrei spinoffato Eine Kugel Reicht, semplicemente perché io amo da impazzire quella storia, nonostante il finale letteralmente strappacuore (piango ogni volta che la rileggo, è una cosa straziante ;_;). Ieri sera ero lì che mi lamentavo perché non sapevo cosa volessi scrivere e mi dibattevo tristemente fra la rape ed una roba tenero-lollosa, e non mi veniva di scriverle perché avevo passato le ultime due ore a vagolare nella cartella immagini di Bushido, cosa che era risultata nei miei ormoni in enorme disordine… perciò Tab ha risolto il mistero, annunciandomi che avevo voglia di scrivere porno.
Era vero °_° E questo è l’allegro (?) risultato XD Il titolo viene da una canzone stupenda dei Savage Garden che, ora che ci penso, è molto Billshidica. Testo qui.
Spero che questa mezz’oretta di lettura vi sia piaciuta! XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GUNNING DOWN ROMANCE

Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Io so quando Anis è in vena di chiacchiere. So quando è in vena di cazzate, so quando è in vena di relax, so quando è in vena di tenerezze. Lo so perché i suoi occhi sono scuri e incomprensibili solo per chi non li guarda con la dovuta attenzione ed il dovuto rispetto.
Per me è sempre tutto molto chiaro.
Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Non stasera.
- Piccolo, questa casa è un casino più del solito. – butta lì con un ghigno affamato che mi fa correre brividi caldi lungo tutta la schiena.
Io mi inumidisco le labbra e faccio un passo verso di lui. I miei piedi mostrano un’incertezza che non vorrei possedere, fermandosi a metà del movimento e facendomi inciampare comicamente sulla punta degli stivali.
Anis ride e la sua risata mi scivola sulla pelle come lava bollente. In questi momenti mi viene voglia solo di chiudere gli occhi e lasciarmi scivolare sulla prima superficie disponibile.
Il pavimento.
Una parete.
Il letto.
Lui.
- Passata una bella giornata? – continua a parlare. Il tono è malizioso, non è quello che utilizzeresti per una conversazione casuale. Non fa che confermarmi ulteriormente le sue intenzioni. Me le confermano la sua voce ed anche le sue dita, quando afferra con studiata lentezza il risvolto della giacca e se la sfila di dosso, posandola con disinteresse sul divano.
Lui sa che lo trovo sexy.
Lo sa che, quando gioca a fare il padrone della situazione, io gli impazzisco dietro.
Fortunatamente, così come lui sa tutte queste cose, io so che mi desidera da matti. Questo mi consola un po’, e mi aiuta a superare gli angoscianti momenti d’attesa durante i quali mi accerchia, prima di sbattermi sul materasso.
Gli piace farmi sentire desiderato.
Gli piace perché, quando lo fa, io non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
- Così. – rispondo, cercando di eliminare qualsiasi traccia di ansia nella voce. A giudicare dal suo sorriso consapevole, non mi riesce bene. – Un po’ noiosa.
- Che cosa disdicevole. – commenta, avvicinandosi come un predatore. È scuro e misterioso e pericoloso e, quando vuole, come adesso, anche sinuoso come una pantera. Mi mordo un labbro. – Questa giornata va migliorata. – conclude, chinandosi su di me.
Non annulla la nostra distanza, però. Non è molto più alto di me, ma riesce sempre a mantenere quei due, tre centimetri di spazio fra le nostre bocche, che se solo provo a contarli davvero mi sento morire dentro.
Aspetta.
Io capisco cosa vuole.
Sollevo le braccia e le stringo attorno al suo collo. Mi tiro su e gli sfioro piano la bocca con la mia. Asciutto e timoroso. Dio solo sa se vorrei divorarlo qui seduta stante, ma ogni gioco ha le sue regole, e le regole di questo gioco Anis le ha decise molto tempo fa.
Mi sbuffa una mezza risata sulle labbra, stringendomi alla vita senza la minima gentilezza. La collisione dei nostri bacini genera nella mia testa una reazione tale che vedo le scintille, e mi lascio sfuggire un mugolio per metà sofferente e per metà talmente soddisfatto che ho quasi paura lui possa pensare mi basti così.
Poi mi rilasso: forse potrebbe bastare a me, ma di sicuro non basta a lui.
- Sei sexy quando sei così eccitato. – commenta a voce bassa contro il mio orecchio, mentre lascia scivolare una mano giù lungo la mia schiena, fino a stringere forte una natica. Mentre lo fa, mi spinge con maggiore decisione contro il proprio bacino, ed io sento la forza prepotente della sua erezione premere contro la mia.
Lo voglio. Adesso. Subito. È già tardi.
Mi attacco alla sua maglietta con l’urgenza ed i lamenti di un bambino capriccioso, strattonandola qua e là senza neanche capire esattamente da che lato tirarla per togliermela di torno.
- Pazienza, bimbo. – aggiunge in un’altra risata, scendendo a leccarmi voluttuosamente il collo, mentre una sua mano, quella non impegnata a stringermi il sedere come fosse una cosa sua, scende in lenta esplorazione della mia pancia e s’infiltra agile ed esperta oltre l’orlo dei jeans, alla ricerca della mia dolorosa erezione.
- Dio, sì… - ansimo, abbandonandomi contro la sua spalla, già a corto di fiato, - Bu…
- Mmmh… - mugola lui, soddisfattissimo, accarezzandomi dal basso verso l’alto, - Sì?
Vuole farmelo dire. Gli piace il suono di quella parola, penso. Posso capirlo, a ma piace quando lo dice lui.
- Scopami… - sussurro piano, tirandomi indietro abbastanza da poterlo baciare ancora.
Lui ride e stringe di più la presa attorno al mio cazzo, ed io per poco non mi lascio cadere per terra davvero.
- Stanotte ti scoperò finché non ne potrai più. – ringhia direttamente sulle mie labbra, artigliando l’orlo della mia maglietta e tirandolo su fino a sfilarmela dalle braccia.
Penso distrattamente che la possibilità che dica “adesso basta” sembra lontana come la fine del mondo, e corro con le mani ai bottoni dei suoi jeans.
Troppi vestiti inutili. Troppi, Dio, troppi.
Mi afferra sotto le cosce, prendendomi in braccio e muovendosi velocemente verso la prima parete disponibile, addosso alla quale mi schiaccia, prima di chiudermi addosso le labbra come una trappola. Chiudo gli occhi e mi lascio andare contro il muro, cercando di respirare senza riuscirci in maniera particolarmente convincente. Le sue labbra divorano centimetri di collo, petto, pancia, non so neanche come faccia ad essere ovunque contemporaneamente. Quest’uomo ha un dono.
Sospiro con forza, piantandogli le unghie nelle spalle, e mi infastidisce sentire sotto i polpastrelli il tessuto morbido in cotone. Preferirei di gran lunga la grana liscia e calda della sua pelle. E la resistenza ostinata dei suoi muscoli tonici.
Ricomincio a tirare la maglietta, ma lo faccio evidentemente dal punto sbagliato. Non lo so, non viene via, la stronza. Anis ride ancora e si allontana un attimo, lasciandomi andare, per esaudire il mio desiderio.
Nel mentre, per tenermi al mio posto, mi schiaccia con più forza contro il muro. La tensione del mio desiderio sta cominciando a farsi fastidiosa. Anche la sua, ci scommetto.
- Anis… - lo chiamo, ma esce fuori un’implorazione davvero vergognosa. Però pregarlo non mi dispiace. Lui, almeno, ascolta sempre. E fa anche i miracoli. Non è male, come Dio personale.
- Piccolo, se mi chiami così non mi trattengo. – mi avverte, fissandomi negli occhi con aria assassina.
Ci sono momenti in cui mi guarda e non riesco a sentirmi al sicuro. Non riesco a sentirmi a mio agio. Non voglio. Mi fa sentire come un pezzo di carne. Un pezzo di carne vivo e fottutamente bello.
- Non farlo… - sussurro piano contro la sua guancia, lasciandogli addosso una scia di baci umidi che si fermano e muoiono sulle sue labbra, come sempre, come tutto, come le mie proteste quando si ostina ad ignorare il mio bisogno per concentrarsi sui miei capezzoli, come i miei mugolii quando finalmente torna ad accarezzarmi fra le gambe, come l’ansito di pura sorpresa che mi coglie all’improvviso quando sento la punta della sua erezione stuzzicare insistentemente la mia.
Mugolo rocamente, spingendomi verso il basso, nel tentativo di procurarmi un po’ di sollievo con qualche strusciatina. La verità è che niente di quanto potrò provare così sarà anche solo lontanamente paragonabile a quello che sentirò quando lui sarà dentro di me, quando mi si spingerà contro con tanta forza da darmi l’impressione di volermi spaccare in due, quando toccherà quel punto segreto che ogni volta mi fa urlare come un pazzo, aggrappandomi al suo collo e ai suoi fianchi per non cadere dal letto in preda ad una spaventosa vertigine.
Anis è perfetto per me. Non è troppo. Non è appena giusto. È perfetto.
La prima volta che l’ho visto nudo, mi ha fatto una paura bestiale. Stava lì, di fronte a me, evidentemente compiaciuto, e mi si mostrava come la nostra fosse una competizione. Io, buttato sul materasso fra i cuscini, pallido, smorto e livido dalla paura per com’ero, mi sentivo veramente miserevole. Lui, dritto in piedi accanto al letto, liscio e teso, si stagliava in tutta la sua fottuta odiosa perfezione contro le mie tende bianchissime. Era il contrasto più eccitante che mi fosse mai capitato di guardare.
Quella notte, Anis ha osservato il mio sguardo perso posarsi addosso ad ogni centimetro del suo corpo, ed ha ghignato soddisfatto quando mi sono fermato vergognosamente proprio lì dove guardarlo era più piacevole, a causa della voglia indomabile che mi bruciava nei lombi non appena sfioravo l’idea.
“Non preoccuparti”, mi ha detto piano, salendo sul materasso al mio fianco, “se ti piace, non può farti male”.
Io ho chiuso gli occhi e l’ho ricordato esattamente come l’avevo visto contro le tende: le braccia rilassate lungo i fianchi, la linea tonica della schiena, le gambe leggermente divaricate, il suo profilo appena intuibile nel buio.
Se ha fatto male, non lo ricordo più.
Adesso non m’interessa.
Anis è perfetto per me. Non fa male neanche per sbaglio. Mi piace, mi piace e basta.
Mi si schiaccia contro ed io rilascio un sospiro che al dolore somiglia soltanto, mentre lo sento farsi strada dentro di me. Rude, veloce, come fosse arrabbiato. Riesce a mantenere ritmi simili anche per mezz’ora, ed è una cosa alla quale non riuscirò mai a rassegnarmi, perché dovrebbe essere fisicamente impossibile.
Ma non me ne frega niente: finché posso sentire la sua pelle contro la mia, finché posso sentire il calore assurdo della sua voglia dentro di me, finché lui è mio ed io sono suo in questo modo così speciale da farmi male al cuore, a me non interessa più niente.
Gli mordo forte una spalla mentre vengo contro la sua mano, sporcandogli la pancia. Ho voglia di scendere e leccare ogni centimetro del suo addome, giocare a nascondino contro il suo ombelico e poi prenderlo tutto in bocca fino in gola, fino a sentirmi stordito, ma Anis mi afferra forte per la vita e mi si stringe contro una, due, tre volte, fino ad esplodermi dentro, ed io respiro direttamente dalle sue labbra, senza pensare a nient’altro. Così accompagno gli ultimi tremiti dell’orgasmo, ed assieme alle sue spinte viene meno anche la voglia.
Lo abbraccio con una tenerezza che in genere non mi appartiene.
Rimango ad occhi chiusi e stringo le gambe attorno al suo bacino, quando lo sento muoversi piano per portarmi in camera da letto.
Appena tocco il materasso – fresco contro la mia pelle sudata e bollente – realizzo che non ci vedevamo da una settimana. E capisco la sua urgenza, i suoi occhi da predatore ed anche il mio desiderio folle.
Anis mi lascia scivolare una mano lungo la guancia, e la posa sulla curva del mio collo, attirandomi a sé per un altro bacio.
- Ci riposiamo un po’? – chiede con aria stupidamente tenera, aiutandomi ad accoccolarmi sul suo petto.
Sarà una notte sfiancante, penso, mentre sento le sue braccia stringersi possessivamente attorno alle mie spalle ed alla mia vita.
- Sì. – annuisco, continuando a guardarlo senza nemmeno battere le palpebre.
La seconda volta sarà più dolce. Lo è sempre.
La terza sarà una dichiarazione mancata. Lo è sempre.
Alla quarta non arriveremo, crolleremo addormentati l’uno fra le braccia dell’altro. Come sempre.
Le regole del gioco sono sempre le stesse. Anis le ha decise tanto tempo fa. Io le ho sottoscritte e continuo a farlo con ogni bacio che poso sulle sue labbra.
Finché possiamo – il più a lungo possibile – giocare è tutto.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico, Triste.
Pairing: Bushido/Bill, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Hurt/Comfort, Incest, Language, Lemon, Rape, Slash, Violence.
- Primo settembre 2009. E' il compleanno di Bill e Tom. Il minore dei gemelli Kaulitz, comunque, si ritroverà a ricevere un regalo inaspettato e decisamente poco piacevole. A raccogliere ciò che resta, però, un aiuto ugualmente insperato. E da qui, come sempre accade, niente sarà più come prima.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
L’asfalto ha un sapore amaro e polveroso. Ti si appiccica alla lingua e lo senti più forte perfino del gusto ferroso del sangue.
Quando, oltre al sapore del sangue, hai in bocca anche quello dell’asfalto, sai che è la fine. Hai toccato il fondo. D’istinto, anche se non hai mai provato prima una sensazione del genere e quindi non puoi esserne sicuro al cento per cento, sai che sta per avvicinarsi il momento in cui ti lasceranno andare.
Lo sai, o ci speri, comunque.
Ti lasciano davvero, fortunatamente.
- No, ma… è anche venuto! Ma che schifo!
- Lo volevi proprio, eh? Ti è piaciuto sentirtelo su per il culo, è vero?
- Ma lo sapevate che la troia oggi faceva vent’anni?
- Ma dai?
- Allora è perfetto! Tanti auguri, Kaulitz!
- Piaciuto il regalo?
Il regalo sa di sangue e d’asfalto.
È anche salato come una lacrima.
Ed amaro come la vergogna.
No, non ti è piaciuto. Avresti preferito continuare a goderti la nuova versione del Monopoli che t’ha regalato Tomi.

CRASH AND BURN
love is the light scaring darkness away

1. BLOODSTAINED
La BMW aveva esattamente una settimana e tre giorni. Le ore non avrebbe saputo indicarle. Probabilmente, se avesse saputo come si sarebbe evoluta quella serata, ne avrebbe preso nota.
Come uomo era assolutamente convinto le macchine fossero una netta affermazione di potere. Lui non era l’ultimo arrivato nell’industria musicale. Aveva alle spalle anni di gavetta e sacrifici difficilmente immaginabili. S’era meritato la fama che aveva. L’amore dei fedelissimi e l’odio delle masse di idioti.
La macchina andava cambiata, di tanto in tanto. Quando perdeva smalto. Quando diventava troppo nota. Quando diventava troppo pubblicizzata. Quando Bill Kaulitz se la faceva uguale, per dire.
La BMW aveva esattamente una settimana e tre giorni. Una settimana e tre giorni avevano anche gli interni in pelle bianco panna.
Le gomme tagliavano la strada con flemmatica calma. Il movimento della vettura era sicuro ed elegante, silenziosissimo. Oltre i finestrini c’era solo la notte, con la sua aria pesante carica di segreti. Per strada non c’era nessuno.
Quando Bushido accostò ed aggrottò le sopracciglia, cercando di distinguere la sagoma scura che arrancava strisciando sul marciapiedi, non capì subito di chi si trattava. A giudicare dalla magrezza spaventosa e dalla morbida onda dei capelli lungo le spalle e davanti al volto, ipotizzò potesse trattarsi di una prostituta. Da quelle parti succedeva spesso: un ladro o un cliente fuori di testa o le minacce di un protettore insoddisfatto, e le ragazze morivano sull’asfalto polveroso macchiato di sangue, con un coltello ficcato in profondità fra le viscere.
Spense il motore ed uscì velocemente dall’auto, attraversando in pochi passi il paio di metri che lo separava dalla figura ormai immobile, rannicchiata sul marciapiedi così strettamente da somigliare più che altro ad un mucchio di cenci, e si chinò, poggiando una mano sulla spalla della ragazza, sibilando un “ehi” un po’ incerto che sperò ricevesse risposta il più presto possibile.
Lei rispose con un mugolio incomprensibile, accucciandosi ancora di più e scostandosi neanche l’avesse minacciata con una torcia.
- Stai male? – le chiese, alzando un po’ il tono di voce, cercando di afferrarla più saldamente per le spalle senza scuoterla troppo, - Senti, se vuoi ti do un passaggio in ospedale, ho la macchina qui. – suggerì subito dopo, stupendosi della consistenza ossuta e forte delle braccia della ragazza sotto i palmi.
Lei si voltò impercettibilmente. I capelli le coprivano quasi tutto il viso. Erano scompigliati, sporchi ed appiccicati alle guance a causa del sangue, delle lacrime e della maschera pastosa di trucco ormai disciolto attorno agli occhi.
- Cosa è successo? – continuò a parlare lui, più nel tentativo di mantenerla sveglia mentre cercava di capire come trascinarla in macchina senza frantumarla, che per fare conversazione. – Ti hanno ferita? Picchiata? Dimmi qualcosa…
La ragazza rilasciò un altro lamento sofferente, portando una mano al braccio sinistro, che ancora Bushido stringeva saldamente fra le dita. Si accorse solo in quel momento che probabilmente dovevano averglielo fratturato.
La lasciò immediatamente andare.
Nel movimento, però, una scarica di dolore la scosse dal braccio al collo, costringendola a gettare indietro il capo in un urlo lancinante.
Non era una prostituta.
Non era una ragazza.
Bushido lasciò istantaneamente la presa e Bill ricadde a terra, battendo una spalla contro l’asfalto e riprendendo a mugolare dolorosamente, contorcendosi su se stesso.
- Cazzo… - biascicò in segno di scusa, chinandosi nuovamente su di lui e tirandolo su, facendogli passare un braccio dietro al collo, - Ma chi cazzo ti ha ridotto così? – chiese, consapevole che Bill non avrebbe risposto, impegnato com’era a mordersi un labbro per non piangere ancora, - Ma cazzo… - ripeté in una lamentela confusa, lanciando sguardi allarmati dal corpo tremante che teneva fra le braccia alla macchina malamente parcheggiata qualche metro più in là. – Okay, senti. – disse infine, - Ti tiro su e ti porto in macchina. D’accordo? – Bill mugolò ancora e dischiuse appena gli occhi, rilassandosi faticosamente contro di lui, - D’accordo. – annuì Bushido stringendolo a sé e rimettendosi in piedi.
Gli interni in pelle bianco panna avevano una settimana e tre giorni.
Le macchie sul sedile posteriore, dove l’aveva adagiato sulla colonna sonora dei suoi lamenti disfatti, non sarebbero più andate via.
*
- Lei è un parente?
Bushido guardò Bill abbandonato su una sedia in sala d’aspetto, avvolto in una coperta che lo faceva sembrare ancora più sottile di quanto non fosse. Gli occhi chiusi ed i capelli davanti al viso, era immobile come una statua di cera. Sembrava che neanche respirasse. Aveva voglia di avvicinarsi e mettergli una mano davanti al naso, giusto per verificare fosse ancora vivo.
- Se non è un parente, può restare qui fuori ma non entrare con lui. – disse l’infermiere dalla voce tremendamente nasale che lo fronteggiava al di là del banco dell’accettazione.
- Sono suo fratello. – rispose, senza staccare gli occhi di dosso dalla figurina apparentemente addormentata sulla poltrona.
L’infermiere sollevò un sopracciglio.
- Fratello? – chiese, palesemente divertito.
Bushido fece strisciare una banconota da cento euro sul banco e socchiuse gli occhi.
- Fratello. – concluse l’altro, annuendo. – Sarete ricevuti in pochi minuti.
Annuì a propria volta e tornò alle poltrone, sedendosi al fianco di Bill, ancora immobile sulla propria.
- Sei ancora vivo? – chiese spiccio, chinandosi su di lui.
Bill dischiuse gli occhi. Il suo sguardo era adesso molto più lucido e consapevole di quanto non fosse quando l’aveva trovato. Stringeva il braccio sinistro così vicino al corpo da dare l’impressione che quel braccio neanche ci fosse.
Non disse una parola.
- Senti, mi rendo conto che io devo essere più o meno l’ultima persona al mondo tu abbia voglia di avere intorno in un momento come questo… - commentò imbarazzato, guardando altrove, - Magari se mi dai il numero del tuo manager o di tuo fratello, li chiamo. O li chiami tu, se te la senti.
Bill scosse il capo. Bushido si ritrovò a pensare con una certa rabbia che se Bill Kaulitz s’era messo in testa di costringerlo a fargli da balia per tutto il tempo, era proprio fuori strada: un conto era la facciata da spasimante che propinava alle fangirl; un altro conto era la naturale cortesia che gli riservava nei backstage; cosa completamente diversa era definirsi un suo amico o chissà che altra follia.
- Va bene. – disse, sforzandosi comunque di non mostrarsi irritato, - Allora… be’, non posso lasciarti solo.
Bill scrollò le spalle.
- Non fare il grand’uomo. – lo riprese lui, aggrottando le sopracciglia. Odiava quando i ragazzini non si comportavano da ragazzini. Se c’era una cosa che la strada gli aveva insegnato, era che devi imparare in fretta qual è il tuo posto ed adattarti il prima possibile a comportarti nel pieno rispetto delle gerarchie. Poi puoi anche provare a mutare la tua posizione, ma non puoi comportarti da boss quando sei uno sgherro, così come non puoi comportarti da sgherro quando sei il boss.
Bill sorrise amaramente – una risata sofferta che si mischiò ad un lamento difficilmente equivocabile – e si morse un labbro.
- Certo che… - ringhiò, e furono le sue prime parole, - il tuo atteggiamento è cambiato parecchio, quando ti sei accorto che ero Bill Kaulitz.
Bushido strinse i pugni.
Quel ragazzino voleva costringerlo a completare l’opera già iniziata da altri, evidentemente. Stupidi mocciosi in vena di suicidio.
- Chi credevi che fossi? – continuò Bill, senza mai guardarlo negli occhi.
Si strinse nelle spalle.
- Una prostituta.
E Bill rise forte. Così amaramente che Bushido non riuscì a risparmiarsi l’imbarazzo ed il senso di colpa.
- Considerando come mi hai fatto cadere a terra prima, una puttana vale più di me, evidentemente. – prese nota Bill, annuendo compitamente, - Bene.
- Potresti per favore non essere intollerabile? – sbottò lui, tremendamente infastidito, - Fino a prova contraria, ti sto aiutando. E non mi hai ancora detto cosa ti è successo!
Bill ghignò e guardò altrove, trincerandosi nuovamente fra le maglie di un silenzio che Bushido non era affatto sicuro di volere dipanare. In fondo, lui non aveva proprio niente a che fare con quel ragazzino palesemente fuori di testa. Il lavoro è lavoro, la vita privata è un’altra cosa e lui avrebbe tranquillamente potuto lasciarlo dove l’aveva trovato senza sentirsi minimamente in colpa. D’altronde, quante centinaia di volte era successo a lui? Pestato a sangue e lasciato a lamentarsi in un angolo di strada – ed aveva solo sedici anni, cazzo – e se non ci fosse stato Fler a recuperarlo non sarebbe mai sopravvissuto abbastanza da raccontarlo.
Ognuno dovrebbe avere una persona che vada a raccoglierlo per strada, ecco.
Non era scritto da nessuna parte che quella persona, per Bill Kaulitz, dovesse essere lui. Aveva un dannato fratello che era tutta la sua vita e così via blaterando cazzate, no? Ed allora perché non si comportava come tale?! Perché non voleva chiamarlo?! Perché cazzo stava tirando proprio lui in mezzo a-
- Il dottore vi sta aspettando.
Bill si alzò prima di lui e gli crollò rovinosamente addosso meno di un secondo dopo, regalandogli anche una gomitata in pieno stomaco che si sarebbe volentieri risparmiato.
- Ma Cristo… - borbottò, afferrandolo per la vita un attimo prima che rotolasse sul pavimento senza nemmeno un lamento di dolore, - Si può capire che cazzo hai?!
Bill digrignò i denti e cercò di recuperare un equilibrio, senza riuscirci.
- …non riesco a camminare bene. – scollò alla fine, guardando altrove.
Bushido cercò di scrutare a fondo nei suoi occhi, alla ricerca di una motivazione. Una motivazione qualsiasi per rispondere a tutte le domande che aveva in testa. Perché eri fuori da solo? Che ti è successo? Perché vuoi che resti? Perché fai così?
Non trovò nulla.
Lo afferrò più saldamente dietro le spalle e sotto le ginocchia e si tirò in piedi, sollevandolo fra le braccia.
Bill rispose con un ringhio di stupore e fastidio.
- ‘Cazzo fai?!
Bushido non lo degnò di uno sguardo.
- Se non sei in grado di fare un passo, figurarsi cinque metri da qui alla porta. Ti aiuto.
- Non ho bisogno di nessun cazzo di aiuto.
- Certo. È evidente. Avrei dovuto lasciarti sul marciapiedi.
- Sarebbe stato molto meglio!
Non riuscì a resistere e lo pizzicò con una certa forza sul fianco.
- Taci, o ti faccio cadere a terra da qua, sai?
Bill, ancora mugolante per il dolore al fianco – nonché a tutto il resto – decise saggiamente di restare in silenzio mentre Bushido lo portava in sala visite – stupendosi davvero coscientemente di quanto fosse leggero, dato che, quando l’aveva portato in macchina, nella confusione del momento, non se n’era quasi neanche accorto – e lo adagiava con una certa cura sul lettino.
Il dottore arrivò in pochi secondi. Indossava già i guanti di lattice e la cosa lo fece sentire strano. Come rendersi conto in un attimo di cosa stesse effettivamente succedendo.
L’uomo – basso e dall’aspetto ordinario, piuttosto rassicurante, coi suoi lineamenti tondi e la pancia prominente che s’intravedeva sotto il camice e la camicia a righine gialle – li squadrò stranito. Prima Bill, sul quale lasciò scivolare un’occhiata incerta e piuttosto consapevole. Poi lui, alla vista del quale le sopracciglia si inarcarono fin quasi a sfiorare l’attaccatura dei capelli.
- Dunque… - cominciò incerto. Lanciò un’altra occhiata a Bill, ma lui non disse niente, perciò tornò a voltarsi verso Bushido. - …cos’è successo?
Lui si ritrovò a scrollare le spalle.
- Non me l’ha detto. Credo che l’abbiano picchiato. Il braccio… forse è fratturato.
Bill provò a muovere il braccio sinistro, ma non ci riuscì – almeno, non senza ringhiare di dolore.
Il medico gli si avvicinò e lo toccò con una certa competenza, sistemando gli occhiali sul naso.
- Lei è qui perché…? – chiese, mentre lo esaminava, rivolgendosi palesemente a Bushido.
- …l’ho trovato. – rispose lui, in mancanza di qualcosa di meglio.
- Dovrò informare la famiglia.
- No. – rispose nettamente Bill.
Il medico lo guardò con una certa curiosità. Anche Bushido.
- Lui va bene. – precisò Bill, senza abbassare lo sguardo.
- Lui va…? – cominciò il medico. Poi si lasciò andare ad una mezza risata. – Non esiste. – disse poi, - Deve darmi il numero di un parente.
Bill sospirò e si voltò a guardare Bushido.
- Fallo di nuovo. – ordinò secco.
Bushido spalancò gli occhi.
- Fare cosa?
- Quello che hai fatto all’accettazione, fratellone. – spiegò con un mezzo sbuffo esasperato.
Bushido sospirò a propria volta e mise mano al portafogli, chiedendosi quanto avesse intenzione di fargli sborsare quel ragazzino prima dell’alba.
- Capisco, lei è il fratello. – lo prese in giro il medico, accettando senza un commento la banconota, - Bene, signor Kaulitz. – proseguì poi, mettendo in chiaro ciò che Bushido aveva già subodorato, cioè che sapesse perfettamente con chi stava parlando. – Si stenda. Quanto a lei… - continuò, rivolgendosi a Bushido, - aspetti fuori.
Anis annuì ed abbandonò nervosamente la stanza, senza riuscire a scrollarsi di dosso la sensazione di terrore che gli avevano trasmesso gli occhi di Bill un attimo prima che uscisse.
Il medico lo raggiunse mezz’ora dopo. Abbastanza da concedergli il giro dell’edificio in cerca di una finestra, una sigaretta di rito ed un caffè dal sapore semplicemente osceno che gli aveva messo addosso una nausea talmente forte da costringerlo a cercare un bagno per poi chinarsi sulla tazza e scoprire che non ne sarebbe mai venuto fuori niente, perché non era nello stomaco, il problema.
Era nervoso.
Non riusciva a capire perché.
O meglio, sì, ma non poteva crederci.
- Il braccio non è fratturato, si tratta solo di una lieve contusione. Comunque, il ragazzo è stato violentato.
Per un attimo, credette di aver sentito male.
Aprì la bocca come per chiedere delle spiegazioni, ma la richiuse subito dopo.
- Non se n’era accorto?
Scosse il capo.
- E lui non gliel’ha detto.
Annuì.
Il medico sospirò.
- Senta, non so in che rapporti siate, ma-
- Ci siamo incontrati stasera. – si affrettò a spiegare, improvvisamente agitato. - …non penserà che io-
- No, no. – lo tranquillizzò il dottore, infilando le mani nelle ampie tasche del camice, - Intendevo solo dire che farebbe meglio a riportarlo immediatamente dai suoi familiari. Sperando che loro riescano a fargliene parlare. A me l’ha detto a bassissima voce, e se non l’avessi capito al volo non l’avrei mai saputo, perché subito dopo ha cominciato a negare insistentemente e non c’era verso di esaminarlo. – sospirò ancora, - Ho dovuto sedarlo. Sono intervenuto come ho potuto e dobbiamo ringraziare che gli effetti della violenza non siano stati particolarmente devastanti. – un mezzo sorriso stanco, - Una fortuna nella sfortuna.
Bushido si trattenne a stento dallo stringere i pugni e presentare agli occhiali del dottore le nocche della sua mano destra. Non c’era un’espressione che detestasse più di “una fortuna nella sfortuna”. Non è “una fortuna nella sfortuna” la magra consolazione che il cazzo dello stronzo che ti ha violentato non ti abbia perforato il colon o chissà che altro. Non è “una fortuna nella sfortuna” il fatto che un povero stronzo – quale lui, cazzo, era per non essersene accorto prima – ti trovi per strada e ti trascini in macchina per portarti all’ospedale. E non è “una fortuna nella sfortuna” essere ancora fottutamente vivi e dover fronteggiare una visita e delle domande dopo una cosa del genere.
È un bene che tu non abbia subito un’emorragia, è un bene che ti abbiano trovato ed è un bene essere ancora abbastanza presenti a se stessi da sostenere una conversazione. Ma non è una cazzo di fortuna.
- Capisco. – si limitò ad annuire, perplesso e un po’ scosso.
- Comunque, può portarlo a casa. Dal momento che è maggiorenne, ho già consegnato a lui tutto ciò che dovevo consegnargli, comprese le ricette. Per l’analisi del DNA che dovrà presentare alla polizia per la denuncia ci sarà da aspettare un po’, e… signor Bushido?
Tornò a guardare il medico solo perché mai – mai in tutta la propria vita – gli era capitato che qualcuno lo chiamasse “signor Bushido”.
- Sì?
- È molto scosso. – disse l’uomo con una certa gravità.
“Grazie mille”, pensò lui, annuendo compitamente, “non l’avrei mai immaginato”.
La sala visite era identica a come l’aveva lasciata, ed in effetti non c’era alcun motivo per il quale avrebbe dovuto trovarla differente. Tranne, forse, che ora sapeva qualcosa in più sul ragazzino che l’aveva quasi preso a parolacce come ringraziamento per averlo salvato.
Anche Bill era identico: lo aspettava – per motivi incomprensibili, visto che non aveva detto che sarebbe tornato – seduto sul lettino e con un’espressione rabbiosa a stravolgere i tratti del viso.
- Bill… - lo chiamò piano, avvicinandosi a lui.
Il ragazzo sollevò gli occhi nei suoi ed inarcò le sopracciglia.
- …te l’ha detto. – constatò, stringendo la presa delle dita attorno al lenzuolo di carta sul lettino, - Non aveva alcun diritto di farlo. Non dovevi saperlo. – si fermò un attimo, mordicchiandosi il labbro inferiore, - Guai a te se ti azzardi a dirlo a qualcuno. Nessuno-
- Tuo fratello, tanto per cominciare. – cominciò ad elencare Bushido con calma, appoggiandosi sulla branda accanto a lui, - Poi i tuoi genitori, i tuoi amici ed il tuo manager. Queste sono tutte le persone che devono saperlo. Se contavi di dirlo a meno persone rispetto a quelle in questa lista, stavi sbagliando.
- Non hai nessun diritto di-
- Lascia perdere. – lo interruppe con un mezzo sorriso, - Sono in vena di farmi dire che non ho diritti quanto tu di sentirti rimproverare.
Bill intrecciò le dita in grembo, abbassando lo sguardo.
- Allora non farlo. Non rimproverarmi.
- Non lo stavo facendo. – rispose Bushido con una scrollata di spalle, - Dai, vieni. Ti riporto a casa.
Bill non rispose. Ridiscese faticosamente giù dal lettino e si mise al suo fianco, seguendolo verso l’uscita.
- Certo che… - disse poi, quando furono nei pressi della macchina, - è ironico che a trovarmi sia stato proprio tu. Fra tutte le persone che avrebbero potuto… tu.
“È ironico sì”, pensò amaramente Bushido, “ma non per i motivi che immagini”.
Gli aprì la portiera e Bill scivolò silenziosamente sul sedile del passeggero, lanciando sguardi allarmati alla fodera del sedile posteriore, attraverso lo specchietto retrovisore.
- Te la ripagherò. – disse ansioso, mordicchiandosi l’interno di una guancia.
Bushido scrollò le spalle, accomodandosi alla guida.
- Non ho esattamente bisogno della tua carità, Bill. – precisò inarcando le sopracciglia e mettendo in moto.
- Certo. – ghignò lui a propria volta, - L’uomo musicalmente più influente di tutta la Germania, no? Era questo che diceva Vanity Fair. Dal secondo al primo posto in meno di due anni. A cosa ti servono i soldi di uno che sta ancora fermo al terzo?
Bushido gli lanciò un’occhiata risentita, sospirando e tornando immediatamente a guardare solo la strada.
- Intendevo dire che va bene così. – precisò, - Non devi sentirti in colpa per il sangue.
Bill scrollò le spalle.
- M’infastidisce pensare che non andrà più via. – spiegò, e Bushido ebbe chiaramente la sensazione che non stesse affatto parlando della tappezzeria della sua automobile, ma di qualcosa di profondamente diverso e ben più importante.
- È successo anche a me. – disse quindi, stringendo la presa delle dita attorno al volante.
Bill non capì. Gli sollevò addosso uno sguardo incerto e non disse nulla.
- Sono stato violentato anche io. – specificò quindi, senza ricambiare l’occhiata.
Era la prima volta che ne parlava. In… quasi quindici anni. Non era doloroso come aveva sempre pensato sarebbe stato. Suonava strano, questo sì, ma più che altro perché a rivedersi com’era adesso in quella situazione sentiva come una sorta di senso d’impossibilità che, ad un certo punto, gli bloccava perfino i ricordi. Ma niente di più, ecco. Era strano e basta.
Forse pizzicava un po’ sotto le ciglia.
Forse.
- …non voglio parlare di questa cosa. – deglutì Bill, incerto, - Cioè, mi dispiace, ma-
- Non sei molto gentile, ti pare? – ribatté lui, atono, concentrato sull’asfalto in rapido scorrimento sotto le ruote, - Ti parlo di una cosa così intima e tu mi rispondi che non te ne frega niente?
Le labbra di Bill divennero sottili come due linee, e Bushido lo scorse con la coda dell’occhio chinare il capo e socchiudere le palpebre. Aveva un occhio gonfissimo.
- Non intendevo… non l’ho detto in quel senso. – disse a bassa voce, - Non volevo offenderti.
Bushido sospirò.
- È successo mentre ero in prigione. Avevo sedici anni. – raccontò senza inflessioni particolari, - Per la verità quella volta non passai molto tempo dietro le sbarre. Un paio di giorni, al massimo. Nel 2005 ci sono stato per molto più tempo, ma per una faccenda completamente differente. – scrollò le spalle, - In ogni caso, una notte basta. Stavo in cella con questo tipo che avrà avuto il doppio degli anni che avevo io allora… - una breve occhiata, - …più o meno come me e te adesso, suppongo. Era stato gentile con me, tutto il giorno. Mi aveva detto che mi avrebbe protetto lui. Così, quella notte, mi spiegò cosa avrei dovuto fare io per garantirmela, quella protezione.
Bill rilasciò un sospiro talmente sofferto che per un secondo Bushido si sentì perfino in colpa.
- Mi… dispiace.
Un’altra scrollata di spalle.
- Quando il giudice mi ha posto la scelta fra la detenzione ed i lavori forzati, non ci ho pensato due volte. – ghignò, - Quel tizio mi offriva una protezione che non potevo permettermi.
Bill si fece minuscolo sul sedile e Bushido fermò la macchina.
- Lo capisci cosa sto cercando di dirti?
Il moro si strinse nelle spalle, concedendogli un sorriso amarissimo.
- Sinceramente? No.
- Sto cercando di dirti, Kaulitz… e sinceramente mi stupisco di dover mettere i sottotitoli proprio con te, che passi per uno intelligente… sto cercando di dirti che passa. – si interruppe un attimo ed osservò una mezza risata sfiduciata ed assassina nascere sul volto del ragazzo. L’assassino divenne lui. Lo afferrò saldamente per il mento e gli tenne stretta la mandibola fra due dita, per impedirgli di ridere davvero. – Ora fa male. Ed è uno schifo. E brucia. E ti stai chiedendo perché. Ma fra qualche tempo tutto questo non significherà più niente. Ti resterà per sempre una traccia dentro, ma tu non smetti di vivere perché uno stronzo ti ha fatto del male, okay?
Bill non rispose. Si limitò a guardarlo con aria contrita e supplichevole finché non ebbe finito. Non si mosse neanche per chiedergli di lasciarlo, e Bushido dovette farlo dando per scontato lui desiderasse essere lasciato. Cosa della quale in realtà non era sicuro, perché era abituato ad avere a che fare con persone che chiedevano esplicitamente ciò che volevano. Il ragazzino, però, non chiedeva niente. Addirittura, ti chiedeva di fare il contrario rispetto a ciò che gli sarebbe servito.
Non avrebbe dovuto lasciarsi travolgere in quel modo. Avrebbe dovuto fare il suo dovere da onesto cittadino – tralasciando il piccolo particolare della sua fedina penale tutt’altro che indicativa in quel senso – e poi sparire. Sarebbe stata la cosa migliore da fare.
Rimise in moto, diretto verso la via che Bill gli aveva indicato prima di partire, e non fece una piega quando, naturalmente, Bill cominciò a parlare.
- Erano in tre. – raccontò, senza singhiozzare né lamentarsi, - Conoscevano… mi conoscevano.
- Tutti ti conoscono, Bill.
- No. – scosse il capo lui, risoluto, - Questi mi conoscevano davvero. Sapevano anche la mia data di nascita. Mi hanno fatto gli auguri per il compleanno, e… - Bill s’interruppe e gli lanciò un’occhiata. Dovette accorgersi del suo disagio. Sorrise brevemente: - Non importa se tu non mi fai gli auguri. – lo rassicurò conciliante, - Mi hai già fatto il regalo, almeno.
Bushido ridacchiò, scuotendo il capo.
- Scusa, Bill. – sentì il bisogno fisico di dire, - Ho fatto casino, stasera.
- Mi sembra che l’abbiamo fatto entrambi. – rispose seccamente lui, - Perciò possiamo saltare i convenevoli? Io… sono contento che tu non mi abbia lasciato su quel marciapiede.
- Ed io sono contento di essere rimasto con te per tutto il tempo. – rispose con naturalezza, rendendosi conto solo a frase ultimata che sì, era vero.
Bill rimase un po’ in silenzio, giocando con la punta dei piedi sul tappetino di fronte al sedile.
- A me non sembrava di conoscerli, sai? – continuò poco dopo, quasi soprapensiero, - A te non dà fastidio? Sapere che c’è gente che conosce tutto di te… quando tu non sai niente di loro.
Bushido scrollò le spalle.
- È una controindicazione della fama. – spiegò seccamente.
- Sì. – annuì Bill con un mezzo sorriso, - E, come tutte le controindicazioni, fa schifo.
Bushido rise. Bill con lui.
L’atmosfera in macchina era surreale, ma in qualche modo era come se la carrozzeria li trattenesse in una dimensione parallela dove una scena simile non sembrava per nulla assurda. Perciò ridacchiarono per un po’, consolandosi a vicenda col suono di quella risata.
- È qui. – disse a un certo punto Bill, indicando un ampio portone in legno scuro che Bushido suppose fosse casa sua, - E mentirei se ti dicessi che mi va di tornare.
- Avanti. – borbottò l’uomo, fermando la macchina accanto al marciapiedi, - Prima o poi dovrai comunque andare a dormire. Ed io non intendo certo portarti a casa mia!
Bill rise ancora, coprendosi la bocca con una mano.
- Non avevo intenzione di chiedertelo. E poi devo… assolutamente parlare con mio fratello.
Bushido annuì.
- Devi proprio. – concordò con un sicuro cenno del capo. – Quanto alla tappezzeria… - commentò poi, mentre Bill scendeva faticosamente dalla vettura, - Ogni tanto fa bene ricordarsi dell’esistenza delle macchie. – annuì, lanciando un’occhiata ai sedili posteriori, - Le macchine sono più belle, quando sono vissute.
Bill sorrise amaramente e fece per muoversi verso il portone, ma si fermò dopo qualche passo, stringendosi incerto nelle spalle e voltandosi a guardarlo.
- Bushido. – lo richiamò seriamente. Lui si sporse dal finestrino, osservandolo dal basso verso l’alto, le sopracciglia inarcate in segno di curiosità, - Io sono… - cominciò con evidente difficoltà, - mentre loro… intendo, mentre lo facevano, io… - si fermò ancora, stringendo le dita attorno all’orlo della maglia con una forza tale che le nocche divennero pallidissime. - …non importa. – concluse quindi, scuotendo il capo, - Grazie di tutto.
Ed in un battito di ciglia era scomparso.
Quella avrebbe potuto essere la fine della storia.
Ma non fu così.

Titolo originale: id.
Autrice: bleepbloopbanana
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Language, Fluff, Traduzione.
- L'amore è un campo di battaglia e le parole "piacevole convivenza" sembrano formare un ossimoro. In ogni caso, questi due sembrano non desiderare altro.
Note: La mia prima traduzione Billshidoooooooo *_*!!! *muore* No, okay, ricomponiamoci e cerchiamo di essere seri. Allora, questa storia mi ha colpita per due ordini di motivi: prima di tutto, l’ho letta dopo una cosa orribile che mi ha uccisa XD ed alla quale suppongo ruberò l’idea per cercare di dare alla cosa un senso ed una dignità, perché l’idea stessa che nel mio fandom esistano robe simili mi dà i brividi di disgusto u.u Il secondo motivo è che Bill e Bu in questa storia sono amore ;_; Isterico!Bu all’inizio ha rapito il mio cuore fin da subito (e spero di averlo reso efficacemente ._.) e poetaintrance!Bu sul finale s’è guadagnato in una volta il mio amore imperituro XD (Come fosse difficile per me amarlo. Ehm). È carinissimo anche Bill XD Quando strilla “se non è l’una è l’altra, perciò se non vuoi parlare vuoi scopare” è il bene XD *abbraccia Billi*
Ovviamente, l’eroe della situazione resta Junior. Da questo momento so come si chiama il piccolo amico di Bushido. *ama profondamente*
Grazie per aver letto XD E spalate amore sulla storia *_*!!! *si dissolve in una nube di coriandoli*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ANY WAY AT ALL

Bushido si rifiutò di guardare ancora l’orologio. Fissò ostinatamente lo sguardo sul televisore, schiacciando convulsamente i tasti col pollice mentre saltava da un canale all’altro. Gli occhi facevano quasi male, tanta era la forza che metteva nel cercare di non spostarli sul quadrante dell’orologio appeso al muro di fronte.
Stava disteso sul costoso divano in pelle nera con una certa rilassatezza forzata; ad un occhio poco allenato sarebbe sembrato perfettamente a proprio agio nel proprio lussuoso attico, ma uno sguardo più attento avrebbe facilmente rilevato la sottile tensione che tirava ogni singolo muscolo. Era aggressivamente rilassato, pronto a muoversi al primo cenno di necessità.
Le immagini tremolanti che scorrevano sullo schermo del televisore cominciavano a dargli il mal di testa, e le spalle gli dolevano per il modo in cui cercava di tenerle bloccate al loro posto, ma Bushido ignorò il bisogno di spostarsi in una posizione più confortevole. In verità, aveva intenzione di non muoversi affatto; era sicuro che i suoi occhi traditori si sarebbero incollati ai luminosi numeri verdi dell’orologio alla prima occasione favorevole.
Le dita lunghe e scure si contrassero attorno al telecomando, sintomo del disperato bisogno di una sigaretta. Si maledisse silenziosamente per essersi preparato in tempo per ricevere Bill proprio l’unica volta in cui lui decideva di presentarsi in ritardo. Non c’era la minima possibilità di concedersi una sigaretta veloce prima che arrivasse, adesso – non dopo essersi costretto a passare mezz’ora in mezzo a vari prodotti il cui scopo era fornire un’igiene orale superiore, per il bene del proprio schizzinoso amante.
Bill non gli aveva mai detto di trovare fastidioso il sapore delle sigarette, ma Bushido non era abbastanza ottuso da lasciarsi sfuggire il lieve arricciarsi del suo naso ogni volta che si baciavano, così come non poteva ignorare il modo in cui Bill si premurava di lavare e stuzzicare col filo interdentale i propri denti ogni volta che restava a dormire da lui. Avrebbe quasi potuto sentirsi offeso, se non avesse saputo che essere ossessivo riguardo al proprio aspetto faceva semplicemente parte della natura di Bill – ogni capello doveva essere al proprio posto, quando usciva di casa, e qualsiasi capello non lo fosse era così solo perché era stata sua cura scombinarlo in quel preciso modo. Bushido poteva capirlo; anche la propria immagine era importantissima, per lui, ma si trattava più di una questione di atteggiamento, che non di aspetto fisico in sé.
Non gli era mai interessato tanto dell’aspetto dei propri denti o di quale fosse il sapore della sua bocca, prima. Fumare era un vizio nel quale indulgeva quando lo stress si trasformava in una fastidiosa emicrania, ed il caffè non era niente più che una necessità, considerato il lavoro che faceva. Usare il colluttorio non era mai stata una priorità, e non lo sarebbe mai diventata se non fosse stato per un certo sensuale cantante dai capelli scuri.
Alla fine, era stato il cauto silenzio di Bill a decidere per lui. Era abituato ad ascoltare Bill lamentarsi per qualsiasi cosa – ed era ancora più abituato ad ignorarlo, quando lo faceva – ma il fatto che lui stesso non menzionasse nemmeno il problema gli aveva dato da pensare. Per come la vedeva lui, poteva anche sprecare un paio di minuti a spruzzarsi del liquido verde in bocca, per la felicità del proprio amante. Non era come, per esempio, cominciare a bere succo d’ananas per rendere il proprio sperma più saporito o chissà che.
Bushido tossì repentinamente, e qualsiasi molesto pensiero circa i tre cartoni del suddetto succo a riposare silenziosi nel minibar accanto alla vodka furono prontamente ignorati.
La porta si aprì con uno scatto secco proprio quando gli occhi di Bushido riuscirono a ribellarsi e piantarsi sul display dell’orologio. Le tre e quarantotto del mattino. Bill non era mai arrivato così tardi, prima di quel momento. Cercò di rilassarsi e si sedette più comodamente sul divano per osservare una massa di vestiti che avrebbero potuto contenere un corpo, così come non contenerlo affatto, attraversare la porta, per poi andare a sbattere contro un mucchio di riviste che erano state accidentalmente lasciate accanto alla porta.
- Ma lo pulisci mai questo posto? – domandò Bill con aria accigliata, liberandosi delle proprie numerose giacche e sfilando gli enormi occhiali da sole, così da poterlo fissare con appropriato disappunto.
- Brontolare, brontolare, brontolare. – Bushido non poté impedire ad un ghigno di distendergli le labbra, - Tu non fai mai altro?
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo.
- Tu hai sbagliato lavoro, piccolo. – Bushido lo raggiunse oltre lo schienale del divano, afferrandolo per una mano e portandoselo vicino, - Dovresti fare la casalinga. Sarebbe perfetto per te.
- Sì, be’, tu- - Bushido lo interruppe con un bacio umido ed aperto. Una volta che cominciavano a lanciarsi frecciatine potevano andare avanti per ore, e per quanto la cosa potesse rappresentare un intrattenimento piacevole, la maggior parte delle volte, per quella sera aveva piani migliori.
Si separarono con un soffice schiocco, e Bill si leccò le labbra, spezzando la luccicante linea di saliva che ancora li univa. Bushido lo condusse attorno al divano e riprese a baciarlo appena gli si fu seduto accanto, mormorando dolcemente fra le sue labbra ogni volta che il piercing lo sfiorava.
- Anis… - ancora poco abituato al suono del suo nome di battesimo che scivolava fra quelle labbra morbide e piene, Bushido si tirò indietro e sussultò. Bill roteò gli occhi di fronte alla sua reazione e sospirò fra le sue labbra. – Pensavo…
- Non ti strapazzare troppo.
Bill lo pizzicò vendicativo su un braccio e Bushido schioccò un bacio divertito sul suo broncio offeso.
- Ascoltami. Tom stava-
- Tuo fratello non è esattamente l’argomento di discussione che preferisco al momento. – si lamentò Bushido, stendendo il capo sullo schienale del divano ed accarezzandogli una guancia, cercando di ignorare il pensiero del suo iperprotettivo gemello. Percepì Bill irrigidirsi fra le sue braccia prima di scostarsi da lui, e dischiuse gli occhi per osservarlo serrare furiosamente le labbra.
- Non vuoi mai parlare di niente.
Riuscì a stento a trattenersi dal bisogno di roteare gli occhi di fronte a quella palese esagerazione.
- Non alle tre del mattino, lo ammetto.
- Bene. – dichiarò Bill, alzandosi repentinamente in piedi e piegandosi per sciogliere il nodo degli stivali, prima di lanciarli attraverso la stanza. Batterono contro al muro con un debole tonfo, e le sue sopracciglia si inarcarono. Si inarcarono anche di più quando le pallide e magre dita di Bill cominciarono a sbottonare la camicia, e gli sarebbero scomparse sotto la frangia, se ne avesse avuta una, quando Bill lasciò scivolare la camicia lungo le spalle e si dedicò a sbottonare i propri pantaloni.
- …che stai facendo? – non che mi dispiaccia, rifletté Bushido, fissando con un certo apprezzamento il suo petto bianchissimo.
- Mi sto spogliando. – replicò bruscamente Bill, sfilando la cintura con tanta forza che Bushido dovette tirarsi indietro per non finire frustato in pieno viso. Lo sguardo di Bill gli confermò che quella doveva essere l’idea originaria.
- Questo posso vederlo da me. – disse lentamente, combattendo contro se stesso nel tentativo di mantenere il tono condiscendente che Bill odiava tanto, - Ma perché?
- Be’, se non è una cosa è l’altra, no? – Bill scivolò fuori dai propri jeans e li lanciò dietro al divano, - Non vuoi parlare, perciò devi voler scopare.
- Ehi, datti una calmata, adesso. – si chinò in avanti e fermò le sue mani prima che potessero liberarsi anche dei boxer, cercando di tenere a mente che Bill non aveva parlato per insultarlo. La piccola parte della sua mente che continuava ad insistere cercando di convincerlo che quello fosse invece lo scopo primario delle sue parole venne brutalmente zittita.
- Non voglio scopare. – disse calmo, - Junior è un po’ stanco, oggi.
Il suo tentativo di fare dell’umorismo si perse immediatamente quando Bill si liberò della sua stretta e lasciò scorrere nervosamente le mani fra i capelli.
- Allora cosa? – la disperata confusione nella sua voce lo spaventò un po’, e fece per alzarsi dal divano, ma Bill lo fermò con un rigido cenno del capo. – Non so che- - la voce gli rimase imprigionata nella gola, e Bushido rimase immobile in sbigottito silenzio mentre Bill si copriva il volto con le mani, prima di lasciarle ricadere lungo i fianchi lasciando delle chiare linee di pressione sulle guance arrossate.
Gli sbalzi d’umore di Bill non erano niente di straordinario. Piuttosto, erano diventati quasi una routine. Poteva spaziare dalla felicità alla rabbia in un battito di ciglia, e dalla rabbia all’eccitazione in ancora meno. Si potrebbe pensare che la celebrità possa rendere immuni agli accessi d’ansia ed all’insicurezza, ma ogni tanto lo stress lo pressava davvero troppo. Bushido, comunque, era abituato a tutto questo, e sapeva come gestirlo quando si ritrovava in quelle condizioni. Infatti non fu il cambiamento repentino a sorprenderlo, ma le parole che uscirono dalla sua bocca.
- Cosa vuoi? – la voce di Bill s’era abbassata fino a diventare un sussurro, mentre lui lasciava scorrere con una certa violenza le mani fra i capelli lisci lungo le spalle. I suoi occhi erano lontani ed era ovvio non si aspettasse una risposta. In ogni caso, fu ciò che ottenne.
- Te.
Quasi ebbe voglia di guardarsi intorno alla ricerca di chi avesse parlato, prima di riconoscere che si era trattato della propria stessa voce e di capire che le sue labbra si stavano ancora muovendo.
- Voglio te e basta.
Bill abbassò le mani e contrasse le labbra in una smorfia frustrata. Bushido non si interruppe per sentirsi offeso dal fatto quella palesemente non fosse la risposta che il cantante stava cercando.
- Disteso sulla schiena. Piegato sulle ginocchia. Anche sdraiato sul tavolo, qualche volta, te lo ricordi? – Bill aggrottò le sopracciglia e Bushido realizzò che avrebbe dovuto fermarsi prima di rovinare tutto, ma qualcosa che aveva tenuto dentro troppo a lungo non ne voleva proprio sapere di restare ancora nascosto. Stava forzandosi una via di fuga dal suo cuore attraverso la sua gola, ed il sapore delle parole era un po’ dolce ed un po’ amaro sulla lingua.
- Voglio te. Mentre dormi, mentre mangi, mentre ti lamenti, in ogni modo in cui posso averti. – si sentiva come sospeso in una realtà alternativa. Doveva essere qualcosa del genere, oppure un parassita alieno aveva fatto in modo di scavarsi una via all’interno del suo cranio per prendere il controllo del suo corpo, perché non riusciva ad immaginare altro che potesse giustificare l’uscita di una tale quantità di merda dalla sua bocca.
Dall’espressione di Bill, la possibilità non sembrava neanche tanto distante dalla verità.
- Ti voglio quando mi sveglio al mattino e quando vado a dormire alla sera e ti voglio anche per ogni secondo in mezzo. – la sensazione che stava provando era simile a quella del soffocamento, e Bushido si prese un secondo per lamentarsi con se stesso per aver mangiato la pizza vecchia di un giorno per cena, quella sera.
- Ti voglio quando sono arrabbiato, anche se lo sono a causa tua. Ti voglio quando sono ubriaco, perché sei il migliore dei sedativi, e ti voglio quando sono sobrio perché sei la più terribile delle droghe.
- Ti voglio… - la pressione sul petto stava cominciando a farlo sentire stordito, ma non riusciva a fermarsi, - Ti voglio tutto il tempo.
- E quando ti avrò, quando finalmente ti avrò, vivrò nel terrore del giorno in cui ti perderò.
E lì si fermò. Rimase a bocca aperta quando il flusso di parole s’interruppe. Fece per chiuderla, ma realizzò che era troppo secca per riuscirci. L’increspatura fra le sopracciglia di Bill non s’era distesa, e per un secondo il dubbio s’impadronì di lui e si chiese se per caso non avesse fatto altro che rendersi ridicolo.
- E mi avevi detto di non essere un poeta. – un paio di mani calde strinsero le sue, mentre Bill gli si sistemava facilmente in grembo. Bushido fissò la sua espressione impassibile e strofinò i suoi palmi umidi, sentendolo nascondere un tremito voltandosi.
- Io… - Bill deglutì e Bushido notò lo sforzo che dovette impiegare per reggere il suo sguardo. Il ragazzo si fece improvvisamente silenzioso, e Bushido riconobbe quel momento come il precursore di uno dei suoi soliti immensi discorsi per i quali poteva andare avanti per minuti interi senza neanche respirare. Si aspettava qualcosa di simile, e rimase sconvolto e pietrificato quando Bill lo smentì.
- Anche io voglio te.
Non dovette riflettere sul significato di quelle parole. La sua mente era già piena di ciò che lui per primo aveva voluto dire con quelle stesse parole, e lo sguardo serio negli occhi di Bill non fece che confermargli che anche lui intendeva lo stesso.
Le sue labbra soffici e carnose si strofinarono lievemente contro l’angolo della sua bocca, prima di coprirla completamente, e Bushido si ritrovò incerto fra la possibilità di continuare a tenere lo sguardo fisso in quello di Bill oppure chiudere gli occhi e lasciare semplicemente che fosse il suo corpo a sentirlo. Il lento abbassarsi delle palpebre del suo amante decise per lui, ed i due si avvicinarono, serrando le labbra insieme e respirando l’uno l’aria dell’altro.
I loro nasi si sfiorarono e si strofinarono l’uno contro l’altro, e Bushido batté giocosamente la fronte contro quella di Bill, permettendo al sorriso che gli era rimasto intrappolato negli occhi di risalire fino alle labbra. La lingua di Bill continuò a sfiorare la sua, e Bushido sentì la nuca riscaldarsi quando il piercing tintinnò contro i suoi denti. Lasciò scivolare lentamente una mano lungo la serica curva della schiena di Bill, giocando con la sua lingua nel tentativo di distrarlo.
La mano inanellata di Bill bloccò la sua prima che potesse raggiungere il suo sedere, ed il ragazzo lo allontanò con un sorrisetto che Bushido non faticò a definire sadico.
- Non pensarci nemmeno. – ghignò Bill fra le sue labbra, e Bushido non riuscì a trattenere un’espressione vagamente triste. Lo strinse a sé, tenendolo forte fra le braccia, e con altrettanta forza lo baciò.
In qualsiasi modo possa averti, Bill. Qualsiasi modo davvero.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Storia di una relazione e del malinteso più enorme e fustrante di tutti i tempi XD
Note: Okay, io amo questa storia XD Prima di tutto, il titolo: in realtà la canzone di Bushido da cui è tratto e di una tristezza immonda XD Ma tutte o quasi le canzoni di quell’uomo sono di un deprimente colossale, perciò non c’è niente di cui stupirsi °-° Comunque sia! In realtà all’inizio voleva essere usato in modo molto lol e basta, però alla fine la storia stessa è un po’ più seria di quanto avessi preventivato (sebbene io la trovi comunque molto divertente e basta XD). Comunque vuol dire “quando un gangster piange”. Capite, è ridicolo X’D
Comunque è_é Dicevo, a me questa storia piace tanto, anche perché è un concentrato di cose che amo. C’è perfino un po’ di sano adorabile twincest fasullo! XD Non è la cosa più carina del mondo, Tomi che bacia Billi sul neo sotto il labbro? *____* *abbraccia i gemelli*
Okay, basta, c’è Yul che è curiosa di leggerla XD Spero vi sia piaciuta :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
WENN EIN GANGSTER WEINT

Ho smesso molto tempo fa di credere che la vita potesse essere un insieme di certezze. Anzi, in realtà non l’ho mai creduto, perché fin da piccolo ho sempre saputo che nella vita la certezza è proprio l’ultima cosa che uno possa aspettarsi. È certa solo la morte, dicono alcuni, ma potrei avere da ridire. Se così fosse, io sarei morto qualcosa come un centinaio di volte. Il fatto io sia ancora in piedi dimostra piuttosto chiaramente che no, nella vita non c’è proprio niente di certo, e neanche nella morte.
Per dire, all’asilo tutti i miei compagni di classe avevano una mamma ed un papà. Alcuni papà o alcune mamme erano andati via di casa e vivevano altrove, ma continuavano ad esistere, prendevano i loro figli nel weekend e li portavano al parco, facevano loro splendidi regali eccetera eccetera. C’era anche un bambino il cui padre non c’era più, perché era morto. Ma prima di morire c’era stato. Ed il bambino ne parlava sempre come un eroe.
Mio padre, invece, non era proprio mai esistito. Il tunisino che mi aveva dato il colore della pelle, i lineamenti duri e rozzi e gli occhi scuri da arabo, nonché il nome più lungo che ricordi d’aver sentito a memoria d’uomo, svanì come uno sbuffo di fumo prima che io venissi al mondo. Mia madre non me ne ha mai parlato meno che rispettosamente – in un estremo tentativo di non riempirmi d’odio fin da piccolo, suppongo – ma la cosa non aiutò: penso di essere nato arrabbiato.
Comunque sia, mio padre non c’era. I padri degli altri, sì. Eppure io un padre avrei dovuto averlo. Ero nato, no? Ero vivo. Un padre doveva esserci. E invece non c’era. Prima certezza svanita.
Seconda certezza che mia madre aveva cercato di inculcarmi a forza nella testa: il mondo è un posto buono. Tempelhof non era male, a guardarla in cartolina. Lei mi portava lungo il canale di Teltow, mi mostrava le papere e rideva quando mi arrabbiavo perché non mangiavano le foglie che tiravo nell’acqua. Era il suo modo per farmi vedere che c’era anche qualcosa di bello, in giro per il mondo.
Poi però in prima la signora Keller – una donna talmente stronza e razzista che, al suo cospetto, pure il vecchio Adolf sarebbe sembrato un chierichetto – mi disse che dovevo, appunto, fare il bigliettino della festa del papà. Ritagliare il cartoncino con tanto di fottuto bordo a zigzag, scrivere ich liebe dich papa, ricoprire di colla, spargere la porporina e disegnare una pipa da colorare di marrone.
Sollevai lo sguardo, la troia mi guardava talmente schifata da far venire la nausea perfino a me. Le dissi “ich habe keine papa” e cercai di non mostrarmi furioso com’ero. Ero uno scricciolo alto un metro e ribollivo rabbia come una pentola a pressione. Lei batté due grosse ed arcuate dita smaltate di rosso sul cartoncino bianco e rispose che dovevo fare esattamente quello che facevano tutti gli altri miei compagni di classe. “Perciò fai il tuo biglietto della festa del papà, Anis”.
Pronunciò il mio nome con un tale disgusto che cominciai ad odiarlo. Anis non sarebbe stato tanto male come nome per un rapper, ma quando cominciai a rappare lo odiavo già così tanto che di pseudonimi me n’ero scelti altri due.
Vedete, non è certo neanche il nome, nella vita di un uomo.
Risultato: non avere nessuna certezza è proprio uguale ad averne troppe; non ti stupisci più di niente.
Quando Bill Kaulitz è entrato di prepotenza nella mia vita – in maniera molto più consistente rispetto a quanto non fossi già entrato io nella sua, peraltro – perciò, io non mi sono affatto stupito.
*
Cassandra fa girare il ghiaccio del proprio drink, giocando con la cannuccia rosa. Le lunghe unghie trasparenti terminano con una french bianca che mi ricorda Bill. Accidenti a me.
- Quindi il ragazzino torna domani dopo… quanto? Una ventina di giorni?
Ventidue, per la precisione. E comunque, per le relazioni appena cominciate, anche solo una settimana è già tantissimo.
- Sì, all’incirca.
Lei ride e beve un sorso del proprio Martini.
- È così palese che non vedi l’ora, Bu… sei comico da morire!
Aggrotto le sopracciglia ed affondo nella mia virilissima Berlinerweiße.
- È tutto a posto. Doveva lavorare.
- Certo. – ride lei, - È anche ligio al dovere, questo ragazzino. Mamma mia, scommetto che riuscirà nell’impresa nella quale hanno fallito tutte tranne una.
- …sarebbe?
- Farsi sposare, è ovvio! – conclude con una risata, trattenendo un cubetto di ghiaccio fra i denti.
- Prima di tutto, in Germania il matrimonio omosessuale non è consentito…
- Non ancora. – cinguetta lei, - Ma le unioni civili sì!
- Secondo poi, - proseguo ignorandola, - non parliamo di matrimonio. Io ho chiuso. Anzi, non sono mai stato sposato.
- Questo puoi negarlo in pubblico, ma non davanti a chi ti conosce! – mi fa notare in una mezza risatina tronfia, mandando giù un altro po’ di Martini.
Non posso che chinare il capo. Ha ragione.
- In ogni caso, sembra delizioso. – aggiunge con una scrollatina di spalle, - È stato uno zucchero, quando ci hai presentato. E poi ha degli effetti adorabili sulla tua personalità. Ti rende tenero! – faccio per organizzare una protesta dettagliata, dal momento che mi sta assalendo una nausea non meglio identificata, ma lei mi zittisce con un rapido cenno del capo. – Perciò, vedi di non rovinare tutto. Gli uomini rovinano sempre tutto.
- Mi conosci come un tipo che rovina le cose? – chiedo sarcastico, svuotando il boccale.
- Sì! – annuisce lei con una risata allegra, - E comunque, per quanto buono e bravo tu possa essere nei tuoi sogni, sei sempre un uomo.
O quello che ne resta.
*
È assurdo che a dirlo sia io e mi rendo conto possa sembrare uno sciocco espediente per togliersi responsabilità di dosso, ma è vero: è stato Bill a gettarsi fra le mie braccia. Io non avevo pianificato niente del genere. Mi ero limitato a constatare fosse una persona migliore rispetto a quella che pensavo, fine.
Vivere per strada ti insegna un sacco di cose utili – io, per dire, so aprire le macchine per ripararsi dalla pioggia, e senza far scattare l’allarme! – però ti riempie pure di pregiudizi. Ogni tanto mi ritrovo a guardare gli altri con un sorrisetto superiore sul viso, ripetendomi che non valgono niente perché non hanno vissuto esattamente quanto ho vissuto io.
Certe volte ho ragione, altre volte no.
Per quanto riguarda Bill, ero davvero convinto fosse un ragazzino viziato completamente incapace di venire a patti con i sacrifici che non solo il mondo della musica, ma il mondo stesso impone. Ad esempio, quando nel 2006 cominciò a girare quel gossip riguardo il fatto io l’avessi fatto piangere… be’, no, la notizia in sé era falsa perché non avevamo mai davvero fatto un’intervista a due ed io non gli avevo mai chiesto quello che si diceva in giro gli avessi chiesto – non del tutto, almeno – ma quando scherzai sul fatto del pompino mi sarei aspettato che piangesse davvero. Non mi avrebbe stupito, proprio per niente. Era piccolo, sembrava molto, molto montato e per giunta si vedeva lontano un miglio che nel suo entourage lo tenevano sotto una campana di vetro e con molti morbidi cuscini sui quali adagiarsi, perciò diedi per scontato potesse essere un’eventualità plausibile. Neanche mi sentii in colpa, voglio dire, prima o poi qualcuno doveva pur farlo piangere.
Ci incontrammo poi non mi ricordo a che premiazione. Gli chiesi senza mezzi termini se gli fosse passata l’offesa. Non so se fosse sincero quando quel giorno mi guardò, inarcò le sopracciglia e disse che non aveva nulla da farsi passare perché nulla era mai effettivamente cominciato. In ogni caso, la sua sincerità non era il punto. Mostrarsi così tranquillo e disinteressato, nonché disponibile a parlare con me senza schiaffeggiarmi o cavarmi gli occhi, era quello il punto. Era quello il suo merito.
Insomma, il ragazzino, come Cassandra ama chiamarlo, non era poi tanto male. Offrirgli una birra mi sembrò il minimo. Speravo lui la prendesse, non so, come un armistizio. A Tempelhof per firmare gli armistizi ci facevamo favori a vicenda. Una birra era un modo elegante per sottintendere lo stesso concetto, no?
Chakuza me lo disse appena tornai dal bar. “Che fai, Atze, ti metti a discutere coi ragazzini? Guarda che è un problema, non si scollano più”.
Scrollai le spalle e guardai altrove.
Purtroppo, fra me e Bill non è mai stato così semplice. Intendo: ci siamo incollati a vicenda.
*
Dicevo, comunque, fu Bill a saltarmi addosso.
Letteralmente.
Niente di sessuale, chiaro, ma mi saltò addosso lo stesso. Altra premiazione, altre vittorie schiaccianti, altri premi fioccati a destra e a manca per tutti quanti. Per me, per loro.
Erano i Comet del 2007. E no, non sto parlando del modo indecente in cui mi premiò, perché dare la colpa a quello sarebbe troppo semplice. Con quello, Bill dimostrava solo di aver recepito più che bene la lezione e di essere stato indottrinato a dovere. I litigi tirano, ma mai quanto le supposte relazioni. Lo faceva già con suo fratello… farlo con me probabilmente era perfino meno pericoloso, nonché meno straniante.
Non mi prese di sorpresa, non quello, a quello mi adattai subito.
Fu il dopo, che cambiò tutto. Fu un afterparty noioso e stantio dal quale mi allontanai presto, per fare un giro intorno al locale. Fu il momento in cui tornai all’ingresso per rientrare, recuperare la giacca ed avvertire che stavo andando via. Fu la soglia che superai e fu la luce che mi investì e che mi costrinse ad alzare lo sguardo. Su di lui. Che mi rovinò addosso.
- Merda… mi scusi… - biascicò mentre cercava di rimettersi dritto sui piedi. Non trovavo difficile reggerlo – era leggerissimo. Comunque, era divertente che non mi avesse riconosciuto.
- Già ubriaco a quest’ora? – lo schernii con un mezzo ghigno sul quale lui spalancò quegli enormi occhi color cioccolata, confondendomi. Le parole di Chakuza cominciarono a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Nei miei pensieri annoiati e distorti, lo stronzo sorrideva pure. Ma sopra tutto c’erano gli occhi di Bill. “I ragazzini si appiccicano”.
- Non sono ubriaco… - mormorò lui, strascicando le parole, - Ti cercavo.
Non avrei potuto essere più confuso di quanto già fossi, perciò il senso di smarrimento non aumentò. Si fece più ansioso, però.
- Per dirmi…?
Bill si strinse nelle spalle.
- Non lo so. – biascicò, - Prima c’eri, poi non c’eri più. Volevo capire dove fossi andato.
Inarcai le sopracciglia, incerto.
- Perché?
Lui abbassò lo sguardo e si morse un labbro.
- Ti va di fare una passeggiata? – mi chiese invece di rispondere.
- …non hai un altro trentenne a cui chiedere di accompagnarti in giro? Chessò, il tuo manager?
- Non voglio andare in giro con David. – si lamentò con una smorfia. Poi tornò a guardarmi e trasse un sospiro così enorme che il suo petto piccolissimo si gonfiò al punto che temetti potesse scoppiare. – Senti. – balbettò, improvvisamente più lucido, - Non so dove ho trovato il coraggio di chiedertelo. Probabilmente io non ti piaccio, però… è solo un giro, okay? Nulla di compromettente.
Ovviamente mi terrorizzò. Non starò certo qui a negarlo. Non capita tutti i giorni che un ragazzino palesemente ubriaco venga a chiederti una passeggiata notturna. A me, per dire, non era capitato proprio mai. Comunque, non c’era veramente un motivo per il quale dovessi negargli il piacere della mia compagnia – o per il quale dovessi negare a me stesso il brivido caldo di quegli occhi addosso – perciò accettai. Non mi preoccupai neanche di recuperare la giacca. Non faceva neanche freddo.
Bill rimase perfettamente in silenzio, per tutto il tempo. La notte era tiepida e piacevole. C’era una luna stupenda. Lo ricordo perché la sua pelle brillava.
Io non avevo nulla da dire, perciò, piuttosto che riempire i vuoti con stupide battute o frasi fatte, imitai il suo esempio. Lasciai che la passeggiata andasse come doveva. Quando ritornammo nei pressi del locale, suo fratello Tom lo stava aspettando, caracollando nervosamente da un lato all’altro dell’ampio ingresso del club, con quella sua strana camminata da papera. Bill lo vide ed accennò un saluto. Tom lo imitò, ma la sua mano si fermò a mezz’aria quando capì che al suo fianco c’ero io. Lo osservai guardarci interdetto per un lunghissimo minuto, prima di scoppiare a ridere scuotendo il capo e rientrare nell’edificio.
Quando tornai a guardare Bill, era arrossito in maniera indecente.
Supposi dovessero essersi detti qualcosa senza parlare. Ripetevano spesso di essere in grado di farlo, durante le interviste.
- Penso di dover andare. – mi salutò con un breve cenno del capo, - Anche se non mi hai risposto.
Inclinai il capo.
- Dev’essermi sfuggita la domanda. – ammisi.
Probabilmente la mia espressione rifletteva in pieno ciò che stavo pensando. Cioè che mi sentivo molto stupido. In ogni caso, quando Bill tornò a guardarmi, non poté trattenere una risatina che, in teoria, avrebbe dovuto infastidirmi – ma non lo fece.
- Ti ho chiesto se ti piaccio. – rispose a bruciapelo, incrociando le braccia dietro la schiena.
Deglutii.
Probabilmente io non ti piaccio, però…
Sì, lo ricordavo.
Cercai di sorridere.
- Non si fanno domande simili senza rispondere per primi. – cercai di difendermi strenuamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Che vigliacco sei! – rise, dandomi un colpetto sulla spalla, - La mia risposta, comunque, era implicita nella domanda.
Ridacchiai.
- Come sei enigmatico.
- Dunque? – chiese lui, ansioso, lanciando uno sguardo all’ingresso del locale, dal quale Tom era tornato ad affacciarsi sporgendo solo occhi e naso, come una talpa curiosa di esplorare la superficie.
Sospirai.
- Dipende da cosa vuoi sentirti dire. – risposi roteando gli occhi, - Cerchi una dichiarazione d’amore?
Bill arrossì furiosamente e si coprì gli occhi con una mano.
- Possiamo uscire insieme qualche altra volta? – chiese a bassa voce, - Voglio sapere solo questo.
Sorrisi e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, porgendoglielo.
- Lasciami il tuo numero. – risposi, - Ti chiamo io.
*
Sarebbe stato un modo molto figo e molto fascinoso per chiudere la storia, suppongo. Ricordo che rimasi qualche giorno a pensare al numero che mi aveva lasciato, chiedendomi se non potesse trattarsi di uno stupido scherzo da adolescente risentito. Non sarebbe stato impossibile. A diciassette anni, io, appena lasciato il liceo, ero andato a trovare la Keller e l’avevo presa in giro più o meno allo stesso modo. A quei tempi avevo scoperto le gioie del sesso già da qualche anno, ma ero in grado di padroneggiare davvero la questione solo da poco. Il sesso era più che altro un passatempo, ma come vendetta avrebbe potuto dimostrarsi perfino più piacevole.
Andai a trovarla a scuola, all’uscita. Una canottiera ed un paio di jeans strappati addosso – stavo scontando la mia condanna per vandalismo imbiancando i muri di Berlino, in quel periodo. “Frau Keller”, la salutai con un cenno del capo. Lei sussultò – stava assicurandosi che i bambini raggiungessero tutti le macchine dei loro genitori senza intoppi. Appoggiato alla rete del cortile, le braccia incrociate ed il petto gonfio di un orgoglio storto e meschino, io la guardavo, sorridendo sfacciatamente.
Non mi riconobbe. Ciononostante, il colore della mia pelle non sembrò più essere un problema, per lei. Io non mi sprecai a dirle chi fossi nello specifico. Mi presentai come un suo ex allievo, inventai un nome tedesco per confonderla un po’ e, nel complesso, ci provai così spudoratamente da farmi quasi schifo da solo. Il suo petto grasso e flaccido si sollevava ansioso seguendo il ritmo incontrollato nel suo respiro, ed io la guardavo come volessi mangiarla.
Le diedi il mio numero di cellulare. Le dissi di chiamarmi.
Quando mi chiamò, le rispose Fler. Minacciandola di morte. O qualcosa di simile, al momento non ricordo. Fler aveva molto estro, per queste cose. Ricordo comunque con certezza che la chiamò vecchia pervertita. Non riesco ancora a pensarci senza ridere come un pazzo, nonostante tutto.
In ogni caso, fissavo il numero di Bill Kaulitz e continuavo a ripetermi “magari lo chiamo e risponde suo padre che minaccia di denunciarmi. Oppure suo fratello che minaccia di denunciarmi. Oppure il suo manager che minaccia di denunciarmi”.
Alla fine lo chiamai perché il pensiero si stava facendo ossessivo. Continuavo a sognare denunce. Dovevo porre fine a quel circolo vizioso.
Oltretutto, ero vagamente curioso di capirci qualcosa, se non si trattava di uno scherzo.
Ero curioso di…
…be’. Bill Kaulitz è Bill Kaulitz. Non mentivo e neanche esageravo, quando dicevo che, se me l’avesse chiesto, non avrei pensato per più di due secondi alla possibilità di andare a letto con lui. Di cosa fossi curioso è abbastanza intuibile.
Comunque, mentre stavo lì ad arrovellarmi e prospettare lunghi procedimenti legali che si sarebbero conclusi soltanto con una lunga serie di zeri su un assegno, ascoltando con panico sempre crescente il tu-tu nella cornetta del telefono, Bill rispose.
Sospirai di sollievo, e non fu per la mancata denuncia, temo.
- Pronto?
- Ce ne hai messo di tempo a rispondere, Kaulitz.
- …credevo non mi avresti più chiamato.
Suppongo siano le tre battute più abusate della storia del cinema.
In ogni caso, fra noi cominciò così.
Zero certezze. Bill Kaulitz, comunque, aveva già cominciato a stupirmi.
*
Seguì un breve periodo di allegria alla Heidi. Sapete, l’entusiasmo dell’inizio di una relazione. Quello che ti esplode dentro indipendentemente da quanto tu possa rimanere a riflettere sulla possibilità di restare coi piedi per terra eccetera. Non esiste, questa dannata possibilità. Quando t’innamori, voli. Fine.
Tra l’altro, venne fuori che il fratello, all’afterparty, non mi stava platealmente prendendo in giro: rideva perché, già da qualche mese, Bill gli riempiva la testa di “dovrei dichiararmi o no?”. Quando ti senti approvato, voli anche più in alto.
Io e Bill volammo altissimo. Per un bel po’ di tempo.
La mia lunga e lenta agonia è cominciata nel maggio di quest’anno. Con tutti i problemi che Bill ha avuto alla gola – la cisti e tutto il resto – non è stato facile trovare un po’ di tempo per incontrarsi. I paparazzi assediavano l’ospedale, i suoi appartamenti, perfino casa di sua madre. Non c’era proprio modo. Perciò, quando mi ha chiamato al telefono – la voce ancora un po’ rauca ed affaticata – e mi ha detto “posso uscire, ci vediamo?”, mi sono messo a ringraziare un po’ tutti gli dei possibili. In questi casi non importa se ci si creda o meno.
Perciò arrivo sotto casa di Bill e lui è lì che brilla letteralmente. Non so, non era truccato e sembrava femmina quanto me, aveva i capelli appiccicati al viso e schiacciati da una cuffia di lana assolutamente improponibile – soprattutto vista la stagione – un paio di enormi occhiali a coprire metà del viso ed il colletto della giacca tirato su fino al mento. Ma era stupendo.
Non ci penso neanche un secondo, lo afferro per la giacca e me lo tiro contro. Lui mugola un qualcosa tipo “ci vedranno tutti”, io lo zittisco nel modo che entrambi preferiamo per fermare la sua logorrea, lui mugola ancora ma un qualcosa di diverso. Sorrido soddisfatto, lo trascino fino alla macchina, lo porto a casa mia. Lui ridacchia per tutto il tempo, mi racconta cose assurde sulla sua convalescenza per minuti interi, “lo sai che mi hanno infilato in una camicia da notte che era tremenda? A pois, ti rendi conto?! Ero orribile” ed io che sorrido ancora come un deficiente e penso che ad immaginarlo a me sembra una fantasia sessuale niente male anche in una camicia da notte a pois, che dire, sono gusti, e lui parla parla parla ed io sono felice davvero, al punto che quando me ne rendo conto mi do del cretino da solo per non averlo capito prima. Arriviamo sotto casa, lo prelevo quasi di peso, salutiamo la portinaia con un educato cenno del capo, corriamo su per le scale e mi fiondo sulla sua bocca appena varcato l’uscio, chiudendomi la porta alle spalle con un calcio tale da scheggiarla. Ed io sono lì che penso “Dio quanto mi sei mancato” e non so se darmi del deficiente o fustigarmi o godermi il momento, ma lui è lì, sotto di me, sul mio letto, che si fa spogliare e miagola e mi chiama per nome ed io impazzisco, quando mi chiama per nome, e poi a un certo punto lo dice.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Ti amo”.
Dovrebbe essere vietato – assolutamente vietato – dirlo in una situazione simile.
Mi ritrovo seduto sul materasso, di fronte a lui. Indossa solo i boxer ma non ho più nessuna voglia di saltargli addosso. La mia camicia s’è persa non so dove e neanche mi interessa. Lo guardo negli occhi e lui mi fissa di rimando.
Allungo una mano, gli sfioro una guancia, lo bacio sulle labbra e rispondo.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Anch’io”.
Gli si apre sul viso un sorriso fantastico.
A quel punto, se io fossi stato un vero uomo, mi sarei preso ciò che mi spettava e l’avremmo finita lì. Non nel senso che ci saremmo lasciati, nel senso che probabilmente avrei dato il via ad una lunga e soddisfacente relazione sessuale e sentimentale e saremmo stati tutti felici per sempre e bla bla. Ma io non sono veramente un uomo, sono un cretino. È palese. Sono un cretino che si lascia influenzare dalle chiacchiere di un’amica che fa paura, perché dannazione, se una che si chiama Cassandra viene da te e ti dice che rovinerai tutto, tu le credi. Se non le credi sei un pazzo suicida, ecco.
Perciò – Dio, mi rivedo con una chiarezza sconcertante – eccomi lì che lo guardo con l’aria dell’amante appassionato ma dolce e gentile e gli dico “Bill, non devi dimostrarmi niente. Se non sei ancora pronto, aspetterò”.
E lui che sorride.
Tenero come un cucciolo.
Ed annuisce.
Lì ho capito – per la seconda e definitiva volta nella mia esistenza – che, certezze o non certezze, è uguale. Tanto la vita ti smerda comunque.
*
Da quel momento, ho dato per scontato che Bill me l’avrebbe fatto sapere, una volta che fosse stato pronto. Cioè, non mi servivano dichiarazioni pubbliche o altre cose simili tipo “Bu, sono pronto a darti la mia verginità”, mi sarebbe bastato, non so, che mi si arrampicasse addosso mentre guardavamo la TV, o anche solo un accenno, qualsiasi cosa purché fosse un indizio. Anche un indizio fraintendibile! Dopo mi sarei scusato, ma almeno sarei riuscito, non lo so, ad infilargli una mano nelle mutande o convincerlo a farlo a propria volta! Non lo so.
Non sono neanche sicuro di riuscire a spiegarmi. Voglio dire, io lo amo. E lo desidero, cazzo. Per certi versi, pretendere una concessione era un mio diritto. Era un suo dovere darmela, no?
Invece niente.
Lui passava i pomeriggi da me – ed io gli morivo dietro, giuro. Una cosa indecente. Non poteva neanche lavarsi i denti senza che io mi ritrovassi a fissarlo con aria ebete dalla soglia del bagno. Povero ragazzo, devono pure essere stati momenti d’imbarazzo incredibili. Lavava i denti, asciugava lo smalto soffiandoci sopra, pettinava i capelli, sistemava la maglietta, qualsiasi cosa mi faceva venire voglia.
Ma lui non diceva niente. Non si faceva avanti, cazzo. Ogni tanto lo sorprendevo a guardarmi con le sopracciglia aggrottate ed un broncio adorabile sul volto, sembrava ce l’avesse con me. Io mi chinavo a baciarlo – perché non so resistere a quelle labbra – e poi gli chiedevo quale fosse il problema. Lui distoglieva lo sguardo e scuoteva il capo. “Niente”, rispondeva. Non ho fatto che pensare ai suoi “niente”, per tutto il tempo che è stato in tour in America. Probabilmente gli davano fastidio i miei sguardi. Non lo so, a me non avrebbero dato fastidio, anzi, sarei stato felice che lui mi guardasse nel modo in cui io guardavo lui, ma… be’, ho detto che l’avrei aspettato. Devo farlo, no?
No?
*
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Il Berlin-Schönefeld è, come al solito, un incredibile e spaventoso casino. Mi guardo intorno e mi chiedo chi me l’abbia fatto fare. Andarlo a prendere all’aeroporto, Dio. Probabilmente non mi lasceranno neanche portarlo con me. Non avrebbe senso. Io, se fossi in Jost, non lo lascerei andare a casa con Bushido.
In ogni caso.
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Questa è una delle frasi che ricordo con maggiore insistenza, dei miei diciott’anni. È stato un periodo abbastanza incasinato – incasinato più o meno come questo aeroporto, sì – c’era la droga, c’era la fottuta prigione, c’era Fler, c’erano un sacco di cose alle quali ogni tanto penso con rabbia, perché mi hanno rubato tempo, ogni tanto con gratitudine, perché mi hanno reso ciò che sono, ed ogni tanto con tenerezza, perché ero proprio un piccolo imbecille.
Appena finito di scontare la pena per vandalismo, non potendo tornare a scuola, andai a cercare lavoro un po’ ovunque. Cominciai cercando di impiegarmi come operaio da qualche parte. Andavo, facevo il colloquio, lasciavo il mio recapito, incassavo con un sorriso il mio “le faremo sapere” e poi smadonnavo come un posseduto quando arrivava la lettera di rifiuto. Se si sprecavano a farmela arrivare.
Ma sto tergiversando.
Ciò che intendevo dire è che mi capita spesso di sentirmi esattamente in questo modo, quando sto con Bill. Non credo che sia colpa sua – o meglio, non credo che lo faccia apposta. È un senso di disagio che mi prende all’improvviso, quando sono particolarmente frustrato o stanco. Vedo lui, così giovane, così tenero, così… stavo per dire spensierato, ma in realtà Bill non è spensierato, è solo luminoso. Anche quando ha qualche grana per le mani, non perde la sua brillantezza.
Mi sento inadeguato. Solo a volte.
Fortunatamente, poi, succede sempre l’unica cosa che è davvero in grado di farmi sentire a posto con me stesso e con questa relazione. Bill arriva. E mi sorride. Io guardo le sue labbra e i suoi occhi e so che sta sorridendo per me. E tanto mi basta.
- Bentornato… - lo saluto, mentre lui mi vola fra le braccia ridacchiando come un deficiente.
- Non credevo che saresti venuto! – cinguetta aggrappandosi al mio collo e sollevandosi quei due centimetri che gli mancano per arrivare a baciarmi, - Sei fantastico… - mugola piano, abbandonandosi contro di me.
- Sono passato solo a salutarti. – spiego con una scrollatina di spalle, - Immagino tu sia stanco.
- Un po’ sì. – medita con un mezzo broncio pensoso, - Però se vuoi possiamo stare un po’ insieme.
Lancio un’occhiata a Jost.
- Siamo sicuri che… - accenno un po’ titubante, indicandolo con un cenno del capo.
- Portatelo via. Dove vuoi. L’importante è che sparisca. – è la stanca risposta dell’uomo, mentre si allontana senza uno sguardo di più.
Una risatina divertita si unisce a quella di Bill, e Tom abbraccia suo fratello come fosse una coperta, come fa sempre quando lo deve salutare per un lungo periodo di tempo – il lungo periodo di tempo, in genere, scatta già dopo due ore.
- Non badarci. – dice il biondo, riferendosi a Jost, - Durante i tour fa sempre così, va in overdose. Poi torna ad amarci più di prima, ma non penso avrà nulla in contrario a liberarsi di Bill per un po’.
Bill solleva gli occhioni su suo fratello ed espone un broncio adorabile.
- A te non mancherò? – pigola querulo, incrociando le braccia sul petto.
Tom ride e gli lascia un bacio proprio sul neo che ha sotto al labbro inferiore.
Io guardo e deglutisco e probabilmente dovrei essere infastidito. Probabilmente. Ma comunque non lo sono. I Kaulitz li prendi come sono. Ciò significa che o li prendi entrambi o non ne prendi nessuno.
- Adesso molla il mio ragazzo, Atze, prima che la gente cominci a pensare sia il tuo. – ridacchio infilando un braccio fra loro ed attirando Bill a me.
- Ma lui è mio. – ghigna furbo Tom, facendogli l’occhiolino.
Bill ride e mi si spiaccica addosso.
- Ho abbastanza amore per entrambi. – conclude con un sorrisino.
Ed io forse sono davvero un cretino, ma a me basta.
*
Neanche il tempo di entrare in casa, che già Bill mi sta guardando come se l’avessi offeso personalmente. Ripercorro con la memoria gli ultimi istanti: okay, non gli ho aperto lo sportello della macchina, sono entrato prima di lui, non gli ho tenuto spalancato il portone e… ma queste cose non le faccio comunque mai!
- È tutto a posto? – chiedo incerto, guardandolo storto.
Bill sbuffa.
- Un bacio? – chiede con aria scazzata, sporgendo il viso.
Cerco di sorridere e lo bacio lievemente sulle labbra.
- Tutto qui?! – borbotta non appena mi separo da lui.
Scrollo le spalle.
A volte non capisco davvero a che gioco stia giocando.
Lui si passa una mano sulla fronte, fra i capelli, sul collo. Seguo il movimento delle sue dita come ipnotizzato e mi mordo le labbra.
- Non so perché, - riprende, - ogni volta che devo parlare seriamente con te mi tocca ubriacarmi per prendere coraggio, oppure esasperarmi abbastanza da non badare alla paura.
Spalanco gli occhi.
- Bill?
- Insomma, cos’è? Ti fa schifo che io sia maschio? È per questo che non vuoi scoparmi?! Oppure sono le relazioni serie a frenarti? Cazzo! – batte una mano sul tavolo, fissandomi rabbioso, - Se l’avessi saputo, non ti avrei mai detto che ti amavo! Vaffanculo!
Questo ragazzino dev’essere fuori legge. Sono convinto che sia illegale.
Sul serio.
- Rispondimi, almeno!
- Aspetta, aspetta, Bill… - mi faccio avanti, prendendogli le mani e stringendole nello stesso momento, - Sono confuso. Quando ti ho detto che avrei aspettato finché non fossi stato pronto…
- Io ho pensato che fosse un modo per dirmi che tu non eri pronto! – sbraita, cercando di liberarsi, - Impreparato, io! Ma ti venivo dietro da mesi, Cristo, non vedevo l’ora di infilarmi nelle tue mutande! Ma quanto cretino puoi essere?!
- Bill! – lo rimprovero, sinceramente sconvolto, - Adesso datti una calmata!
- Non mi calmo neanche per un cazzo. – sibila lui, occhi bassi ed espressione serissima. Si sporge in avanti e neanche mi bacia, m’invade. La lingua e le labbra ed i denti e quel piercing tremendo. – Capito l’antifona?
C’è poco da fare.
Uno si dice tante cose. Che non può stupirsi, che non ha certezze, che tanto è sempre così, nulla può veramente darti una scossa e farti sragionare.
È stupendo che io abbia trovato Bill. È l’unico che ci riesce.
Lo afferro per i fianchi, schiacciandolo contro il muro e spostando immediatamente le mani sulle sue natiche, saggiandone la consistenza attraverso il tessuto ruvido dei jeans. Lui ansima quando i nostri bacini si scontrano, e tira indietro il capo, cercando le mie labbra.
- Ragazzino… - gli sussurro addosso, prima di accontentarlo, - Quando ti ho chiesto se non ti sentissi ancora pronto, intendevo esattamente ciò che stavo dicendo. – sorrido. Lui tira fuori la lingua e mi lecca le labbra. Io le schiudo ed il piercing mi batte sui denti. È il suono più erotico che abbia mai sentito. – Non presumere troppo, quando ti parlo. Hai idea da quanto tempo volessi infilarmi io nelle tue mutande?
Bill sorride a propria volta e mi stringe le cosce attorno ai fianchi, issandosi fino a superarmi di qualche centimetro. Guarda in basso, verso di me, un sorriso aperto ad increspargli le labbra e gli occhi semichiusi che mi fissano con bramosia.
- Hai ragione. – mormora, piegandosi per baciarmi ancora, - Abbiamo solo perso un sacco di tempo.
Lancio un’occhiata alla porta della camera da letto. Saranno quattro metri, da qui.
Valuto la situazione.
Oh, be’.
La moquette, in fondo, è morbida e pulita.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill, David/Tom (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Tom è a casa, sta cercando invano di rispettare la promessa che ha fatto a David, ripassando un po' di accordi ed esercitandosi alla chitarra. Anche Bill, teoricamente, dovrebbe esercitarsi: ma c'è Bushido con lui, sul divano, e perciò il cantante sembra avere di meglio da fare. Tom, però, non ci sta. E l'arrivo di David pone le basi per una sfida fra fratelli che non porterà nulla di buono (tranne che per le fangirl u.u).
Note: In realtà questa storia è il mio modo (personalissimo, forse troppo XD) di festeggiare il terzo anniversario dall’uscita del singolo di Durch Den Monsun <3 L’inizio del delirio, lo sbarco del male sulla terra, l’avvento dell’Anticristo eccetera eccetera è_é Non a caso, gli accordi che suona Tomi all’inizio sono proprio di quella canzone ^^ Avevo promesso ad Ana che avrei scritto solo ed esclusivamente dei Tokio Hotel, oggi, senza infiltrazioni Bushidiche varie ed eventuali, ma… cosa devo dirvi? ;_; Io più passano i giorni più amo quell’uomo. È contro la mia volontà (più o meno). Poi, da quando ho scoperto che il Tost si adatta al Billshido con una naturalezza disarmante, è trionfo. *piange*
Ciò detto… il fatto dell’intercalare dei gemelli è vero XD Dicono continuamente “und, um”. E lo dice anche Bushido, ho le prove video XD
A parte questo, nulla da dire. Per il titolo (ed anche per la forzatura morale a scrivere XD) si ringrazia Yul. Dannata istigatrice XD Ma ti lovvo lo stesso <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UND, UM…

Mi… do… mi…

- E insomma, io ero là e lui davanti a me che mi guardava come se gli dovessi dei soldi. Sul serio, non sto scherzando!

Do… mi…

- E poi, e poi?
- Niente, io mi avvicino, freddissimo, tranquillo, voglio dire, io con lui ho chiuso, non avevamo nient’altro di cui parlare… e Fler mi guardava come se si aspettasse delle scuse o chissà che, perciò l’ho ignorato e mi sono semplicemente seduto.

Do… la minore… sol…

- E lui che ha fatto?
- Eh, all’inizio ha provato a fare il figo. Sai com’è, piccolo, di fronte a me si sentono tutti un tantinello in soggezione. – sorriso stronzo e fascinoso, toccatina a caso sulla coscia, mio fratello squittisce, ci casca e lo fa pure apposta – Quindi eravamo lì, io bevevo una birra, lui mi guardava male, intorno c’era tutta la mia crew che stava sull’allerta contro la sua crew, und, um

Le corde della chitarra stridettero con tale forza sotto le sue dita, che Bill e Bushido, comodamente spiaccicati l’uno addosso all’altro sul divano dell’appartamento berlinese dei gemelli Kaulitz, si voltarono a guardarlo con aria sconvolta. Bill trovò anche opportuno fargli notare quanto fosse fastidioso parlare col proprio uomo e dover sentire in sottofondo lui che palesemente non sapeva suonare e si limitava a fare casino con quello strumento diabolico.
- Questo è inaccettabile! – ringhiò Tom posando la chitarra lateralmente con tale indisposto scazzo che non si preoccupò neanche che potesse rovinarsi, cosa che in genere rappresentava il primo punto della sua lista di drammi personali.

Ma da quando c’è Bushido, no.
Da quando lui e Bill stanno insieme, sono loro il primo punto della mia lista di drammi personali.


Bill lo omaggiò di un’occhiata da cucciolo smarrito e innocente, ed inclinò il capo come a dare maggior forza al proprio stupore.
- Cosa sarebbe inaccettabile, Tomi? – pigolò poi, mentre Bushido, rendendosi probabilmente conto di quanto aveva detto, si limitava ad un ghigno estremamente divertito, allungando un braccio dietro la schiena di suo fratello.
- Questo tizio – disse Tom indicando Bushido, - ci copia.
Bill inarcò un sopracciglio.
Bushido rise.
Tom li odiò entrambi.
- Farebbe cosa, scusa? – chiese ancora suo fratello, sempre più innocente.
- Ma l’hai sentito o no?!
- Oh, sì… - mugolò compiacente Bill, lanciando un’occhiata di pura lussuria al proprio uomo, che rispose con un sorriso divertito e compiaciuto, - Lo stavo ascoltando molto attentamente.
- Ma che schifo. – commentò Tom con un vago gesto della mano, mentre Bushido scrollava le spalle come a dire “eh, che ci vuoi fare, è così carino che gli si perdona tutto”. – Comunque, se lo stavi ascoltando tanto attentamente, avrai senz’altro notato che ha detto undum! – disse, pronunciando l’intercalare così velocemente che sembrò una parola unica.
- Undum…? – biascicò Bill, portando un dito alle labbra e lanciando un’occhiata maliziosa ad Anis, dando a Tom l’esatta misura di quanto gl’interessasse quel discorso: zero. – Sarebbe?
- Und, um! Il nostro intercalare! – spiegò Tom, gesticolando come un bambino isterico.
- Pensi di essere l’unico ad usarlo in tutta la Germania? – gli chiese il fratello, distendendosi letteralmente sul petto di Bushido, con tale naturalezza da dargli il voltastomaco.
- No che non ero l’unico! – borbottò Tom, cercando di recuperare una parvenza di razionalità, - Eravamo in due, io e tu!
- E adesso anche Bu.
- Non chiamarlo Bu!
- È il mio uomo e lo chiamo come mi pare e piace!
- Okay, okay, ragazzini, diamoci un taglio. – li interruppe Bushido, agitando bonario le mani, in una perfetta imitazione di un vecchio padre benevolo, - Chiedo scusa, Tom, non volevo appropriarmi di una cosa vostra. È che a passare tanto tempo con le persone si assumono anche le loro abitudini. – si giustificò con un sorriso conciliante.
- Be’, cerca di non farlo più. – biascicò il rasta, incrociando le braccia sul petto e ritrovandosi controvoglia costretto ad abbassare lo sguardo ed arrossire, sentendosi drammaticamente in difetto di fronte al sorriso sereno dell’uomo, - Ed ora mi avete anche rovinato il pomeriggio! Dovevo studiare, l’avevo promesso a David! Per inciso, Bill, anche tu avevi promesso…
- Sì, ma io ho di meglio da fare… - miagolò sensualmente suo fratello mettendosi in ginocchio sul divano e circondando il collo di Bushido con le braccia.
Tom roteò gli occhi, sempre più disgustato.
- Be’, per me puoi fare quello che cavolo vuoi. – mentì, - Ma non puoi permetterti di rovinare i miei piani!
Bill scrollò le spalle, senza staccare neanche per un secondo gli occhi da quelli di Bushido, che nel mentre stava facendo scivolare le mani sotto l’orlo della sua maglietta, per vagare con dita falsamente distratte sulle punte di tre stelle tatuate in uno dei punti più perversi in assoluto che un maschio adulto omosessuale potesse immaginare.
- Potevi sempre andare in camera tua, a studiare. – commentò più per interesse personale che per preoccupazione nei suoi confronti.
- Non posso certo lasciarvi soli qui! L’ultima volta abbiamo dovuto rifoderare il divano!
Bushido rise di cuore, gettando indietro il capo e dando a Bill l’opportunità di chinarsi sul suo collo, per attaccare voracemente con le labbra la pelle sensibile sul pomo d’Adamo.
- Scusa, Atze. – lo apostrofò Bushido, incapace di trattenere un mugolio di piacere, - Non volevamo sporcare.
- Già. – ridacchiò Bill, scendendo a mordicchiargli il colletto della camicia, strattonandolo qua e là come un cucciolo affamato, - Ci siamo fatti un po’ prendere la mano.
- Voi due. Siete. Disgustosi. – li indicò Tom, inorridendo come una scolaretta e vergognandosene profondamente.
- Avanti piccolo, sta’ un po’ tranquillo… - rise Bushido, afferrando Bill per i capelli ed allontanandolo in un gesto che, più che mirato a fermarlo, sembrava bene intenzionato a trascinarselo vicino per un uso di quella bocca che fosse meno stupido che non rovinare i colletti delle sue camicie, - Non vedi che tuo fratello si turba?
- Io non mi turbo!!! – strillò Tom, dirigendosi speditamente verso il divano e prendendo posto accanto all’intreccio di braccia e gambe che erano diventati suo fratello e Bushido, - Cerco solo di porvi un freno, prima di dover costringere nuovamente David a giustificare le spese di tappezzeria di fronte alla Universal!
Bill si voltò a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Cosa diavolo staresti combinando, Tom? – chiese acido, aggrottando le sopracciglia.
- Vi tengo d’occhio! – rispose lui con naturalezza, stringendo ostinatamente le braccia sul petto.
Bushido sorrise e scosse il capo, facendo per scrollarsi Bill di dosso.
- Coraggio bellezza, non possiamo certo dare spettacolo di fronte a tuo fratello. – si giustificò, quando Bill gli si aggrappò addosso e cominciò a mugolare che non voleva essere scaricato perché gli piaceva sentirsi addosso la pressione nei suoi pantaloni, - Non che il voyeurismo mi disgusti particolarmente, ma non è il caso. E piantala di parlare dei miei pantaloni. – sorrise affascinante, chinandosi a lasciargli un bacino sulle labbra prima di posizionarlo sul cuscino come un peluche.
Bill si raggomitolò e divenne una palla di rabbia.
- Ti odio. – ringhiò, voltandosi a guardare Tom, che resistette al suo attacco psichico e rispose con un grugnito gemello ed ugualmente furioso.
La porta all’ingresso fece tlack e poi sbam in quel preciso istante.
- Ragazzi! – cinguettò la voce gioviale di David, facendosi strada attraverso il corridoio fino a loro, - Come vanno gli esercizi? Vi ho portato il gelato!
Il volto sorridente del loro manager si affacciò alla porta del soggiorno, scrutando l’ambiente con grandi occhioni azzurri pieni di devota fiducia.
- Oh. – fu costretto a commentare David quando si rese conto di ciò che aveva sotto gli occhi, - Vi vedo… distratti.
In realtà, “distratti” non rispecchiava efficacemente la situazione nella sua interezza. Bushido, seduto sulla sponda più distante del divano, sollevò una mano e lo salutò piuttosto comicamente, con un breve cenno del capo. Bill, palesemente calato nella parte da reginetta tragica che tanto gli piaceva metter su quando qualcuno rovinava i suoi piani, neanche diede segno di accorgersi della sua presenza. Tom, per contro, lo investì con la classica occhiata luccicante con la quale, in genere, si accolgono i salvatori.
David deglutì.
Non era una bella situazione di partenza.
Entrò nella stanza, poggiando il sacchetto con le vaschette di gelato sul tavolo e guardandosi intorno con aria smarrita.
- …interrompo qualcosa? – chiese timidamente, infilando le mani in tasca per darsi un tono.
Bill sollevò lo sguardo solo per fustigarlo con un’enorme quantità d’odio.
- Si stava cercando di trombare, ma evidentemente è impossibile.
David resistette stoicamente a portare una mano al petto e lasciarsi andare ad un gh di sofferenza, mentre tutti nella stanza si voltavano a guardare il cantante con aria sconvolta e scioccata. Anche Bushido, la cui espressione allucinata era perfino più divertente del solito.
D’altronde, come dargli torto? Probabilmente la sparata di Bill aveva messo a disagio pure il gelato.
- …okay, ho capito. – annuì il manager, mentre Tom si agitava sul divano come un’anima in pena, - Brutto momento. Allora io andrei… il gelato è qua.
- No! – strillò a quel punto il rasta, scattando in piedi ed andando letteralmente a prelevare David dal centro della stanza, per trascinarlo, tirandolo per un polso, fino al divano, - Perché non resti ancora un po’?
David gli lanciò un’occhiata poco convinta. Tom la ignorò e procedette nell’esposizione di un sorriso talmente gioviale – e talmente falso – che avrebbe rassicurato perfino un cieco, solo grazie alle onde positive che da esso di spandevano.
Bill mugolò un lamento disgustato e Bushido rise divertito, guadagnandosi in cambio un pizzicotto che non sembrò né turbarlo né infastidirlo più di tanto.
- Be’, visto che insisti tanto… - borbottò David, accomodandosi meglio contro i cuscini, - Allora… - iniziò incerto, - Come procedeva il pomeriggio, prima che arrivassi? – Bill fece per aprire bocca, ma il manager lo fermò con uno sbrigativo cenno della mano, - La tua opinione l’ho già sentita, Bill. Bushido?
L’uomo si strinse nelle spalle e si accomodò a propria volta in una posa speculare a quella di David, mentre Bill decideva che poteva ancora fare qualcosa per infastidire il mondo intero e quel qualcosa era stendersi letteralmente addosso al proprio uomo e cominciare a molestarlo sessualmente sotto gli occhi di tutti.
- Stavamo… aspetta, Bill… - cominciò il rapper, preso un po’ alla sprovvista dai movimenti chiaramente piccati del proprio ragazzo, - Stavamo chiacchierando un po’ e purtroppo abbiamo disturbato Tom, che si stava esercitando…
- Oh… - annuì David, sorridendo orgoglioso alla volta di Tom, - Allora stavi studiando sul serio. Bravo ragazzo.
- Sì, perché io quando faccio una promessa la mantengo. – disse il biondo, orgoglioso, mentre Bill tirava fuori la lingua e stabiliva il modo perfetto per irritarlo ancora di più, portando una mano dietro la schiena di Bushido ed infilandola sotto la maglietta per accarezzarlo lungo i fianchi.
- Anche io mi stavo esercitando! – protestò Bill, issandosi sulle braccia per poi lasciarsi ricadere morbidamente in grembo ad Anis, - Bu, diglielo anche tu!
Bushido rise, un po’ imbarazzato, ed annuì alla volta del manager.
- Se parlare a macchinetta può dirsi esercizio, allora ne stava facendo tanto. – confermò con una scrollatina di spalle, mentre Bill protestava strusciandoglisi addosso come uno scoiattolo isterico.
Tom sentì il fastidio crescere e montare dallo stomaco al cervello, costringendolo ad ammutolire ed aggrottare le sopracciglia, furioso. Odiava quando Bill usava il sesso per metterlo in soggezione. Sapeva che per lui era difficile avere a che fare col pensiero lui fosse sessualmente attivo. Ed usava questo suo disagio per farlo sentire stupido e piccolo e infantile. Lui non aveva mai usato il sesso con le groupie per fare del male a Bill, ma Bill usava il sesso con Bushido per fare del male a lui, e questo non gli andava giù. Neanche un po’.
Ghignò malefico, stendendosi improvvisamente all’indietro e impattando quasi subito con la schiena contro il petto tonico di David.
La sensazione – quella pressione dura e compatta contro la sua schiena – pur non potendo dirsi spiacevole, di sicuro lo turbò più del necessario, ma smise di pensarci nell’istante esatto in cui gli occhi di Bill si posarono su di lui e, oltre quelle macchie castane brillanti, Tom poté scorgere precisamente tutto lo sgomento che lo stava cogliendo.
Il suo sorriso si allargò, mentre si sistemava meglio addosso al manager che, per contro, un po’ stupito e un po’ infastidito, lo afferrava per le spalle nel tentativo di scrollarselo di dosso.
- E tu, invece? – chiese Bushido, mentre cercava di non soffocare sotto la stretta di Bill che, dopo le manovre del gemello, s’era fatta insopportabilmente pesante, - Come mai sei passato da queste parti?
- Be’… - rispose David, mentre Tom gli si arrampicava letteralmente addosso e gli infilava rudemente un ginocchio fra le gambe, rischiando peraltro di porre fine alla sua vita da uomo per ripicca, - Ho la tendenza a non fidarmi dei ragazzi, e- Tom, che diamine stai combinando?!
- Niente! – biascicò il rasta, infilandogli una mano sotto la maglietta con aria corrucciata, mentre Bill mormorava un acidissimo “lo so io, che sta combinando”, - Continuate a parlare!
David fissò entrambi i gemelli con aria inquisitoria, lasciandosi poi andare ad un sospiro stremato e rassegnato, scuotendo il capo.
- Insomma. – continuò, mentre Tom raggiungeva il suo scopo ed infilava una seconda mano sotto la sua maglietta e Bill, per contro, scendeva a sbottonare i pantaloni di Anis, - Non mi fido, e come vedi faccio bene. Perciò sono passato a controllare. Ma non sapevo ci fossi anche tu.
Bushido annuì comprensivo, schiaffeggiando una mano di Bill ed ottenendo come unico risultato che lui usasse l’altra mano per procedere a slacciare la cintura.
- Sì, mi rendo conto. Io non sapevo che dovessero studiare, Bill non me l’ha detto. Se l’avessi saputo, non sarei mai venuto a disturbare.
David sorrise complice, osservando vagamente confuso Tom armeggiare con la fibbia dei suoi jeans.
- Apprezzo l’intenzione. Ma non c’è proprio modo di governarli. Tom? – il ragazzo sollevò lo sguardo, fissandolo con un broncio terribilmente ostinato e terribilmente carino, - Non ti chiedo di fermarti, tanto sarebbe inutile, ma ti dispiacerebbe fare più piano? Mi stai slogando un’anca.
Tom mugugnò un assenso incomprensibile e lanciò un’occhiata a Bill, che nel mentre stava sfilando l’ingombrante cintura autoreferenziale di Bushido per gettarla per terra. Decise che non era il caso di fermarsi ancora e slacciò il terzo bottone dei jeans di David, esprimendosi in un mugolio soddisfatto quando riuscì a completare l’operazione senza problemi di sorta.
- Sì, vedo. – annuì Bushido. Bill sollevò lo sguardo e lo piantò nel suo. Bushido non fece una piega. Bill sospirò e gli infilò una mano nei boxer. – E qui ti volevo. – borbottò l’uomo afferrandolo per il polso e tirandolo via con uno scatto talmente repentino che Bill mugolò di dolore. A quel punto, anche Tom fermò la propria incuriosita esplorazione dei pantaloni di David, e si voltò per osservare la scena.
- Ma sei duro, l’ho sentito! – si lamentò il moro, prendendo a saltellare sul divano mentre Bushido si rimetteva in piedi.
- E tu non hai decenza, tuo fratello ha ragione. – lo rimproverò il rapper, dandogli un buffetto sulla fronte, - Questo può andare bene, ma solo in privato. Perciò… - argomentò, sollevandolo per i fianchi e caricandoselo in spalla come un sacco di patate, - se volete scusarci. – concluse, rivolgendo un breve cenno del capo a David e Tom, prima di voltarsi e dirigersi verso la camera di Bill.
Tom osservò suo fratello allontanarsi penzolante sulla schiena di Bushido. Si scambiarono uno sguardo allucinato da un lato all’altro della stanza, e stabilirono silenziosamente che avrebbero chiarito dopo.
Stremato, Tom si lasciò andare contro lo schienale del divano, sospirando pesantemente.
David scosse il capo e sospirò a propria volta, risistemando i pantaloni e sospingendo Tom verso un punto meno critico del divano, prima di accostarglisi con aria premurosa.
- Non devi spiegarmi niente. – lo rassicurò con un mezzo sorriso, - Ho capito cos’è successo. Ora stai meglio?
Tom mugolò un lamento sofferto e distolse lo sguardo, mortalmente in imbarazzo.
- Penso che mi farebbe bene un po’ del gelato che hai portato. – biascicò. David fece per alzarsi ed andare a prenderlo, ma Tom lo trattenne vicino a sé, afferrandolo per un braccio. – No. – disse con aria implorante, - Resta. Devo scusarmi.
David sorrise teneramente, lasciandogli un buffetto sulla guancia.
- No, non devi. Ti ho detto che ho capito. So che Bill può essere… fastidioso, quando vuole.
- Sì, lo è. – mugolò Tom, accucciandosi contro di lui, - Certe volte mi sento davvero preso in giro.
David rise, ed attraverso il suo petto il suono vibrò e si espanse dentro il corpo di Tom, dolce e rassicurante come un abbraccio.
- Non ti sta prendendo in giro. È solo che vorrebbe la tua approvazione.
- Questo non è il modo giusto per ottenerla!
- Sì, ma tu gli hai spiegato quale sarebbe, il modo giusto?
Tom mugolò ancora e si nascose più profondamente contro la sua maglietta.
- Possiamo non parlarne? – implorò pietosamente.
David sorrise e lo abbracciò con dolcezza.
- Prima o poi dovremo farlo comunque. Ma non è necessario farlo adesso. – poi indicò il gelato, - Lo vuoi ancora?
Tom guardò l’uomo, poi le vaschette, poi ancora l’uomo.
Scosse il capo.
- Preferisco stare così un altro po’.
Genere: Erotico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, PWP, Slash.
- Per Bill non è un momento facile. La gola gratta e non riesce a cantare come vorrebbe, e per di più il tour americano si sta dimostrando molto più pesante del previsto. Ecco perché, dopo gli show canadesi, pretende una vacanza. E, quando la ottiene, torna a casa per passarla in santa pace. Ma accadrà qualcosa che sicuramente non poteva prevedere.
Note: E ce la fece XD Questa storia – scritta in quattro giorni nella maniera più scombinata possibile, ovvero partendo da tre quarti – è stato un gioioso parto, come sa chiunque abbia continuato a vedere fra i miei nick su MSN messaggi minatori che incitavano ad ignorarmi perché stavo producendo del porno. E giuro che all’inizio voleva essere solo questo, del giocoso porno, ma non so perché io ho questa mania delle strutture che… uff XD
Si ringraziano tantissimo Tab e Yul che hanno sofferto con Bill seguendo in diretta il copincolla della lemon XD Billi ve ne sarà per sempre grato. Un po’ meno alla Tab, che a un certo punto ha sbottato “Bushido, te prego, daglielo!”. Ma sono cose che nelle PWP succedono, e poi Bill lo voleva XD
Grazie anche a Misa, che l’ha betata <3
A parte questo, l’H1 esiste davvero ed è bello da far schifo. Quando io e Misa saremo ricche e fighe ci trasferiremo ad Amburgo e lo compreremo, e faremo un mucchio di soldi. *ama* Se volete guardarlo, sul sito ufficiale ci sono delle gioiose foto.
Quanto alla fantomatica pausa di cinque giorni tra il Canada ed Hollywood… true story. Il canon è canon u.u Niente da fare u.u
PS: Il titolo è stato gentilmente offerto da Tab <3 Il sottotitolo, invece, dall’omonima canzone di Bushido XD *una donna ossessionata* Significa “hai coraggio?”.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LUSH
Hast Du Mut?

Ogni tanto, se ne rendeva conto da sé, si trasformava in un rompiballe di dimensioni cosmiche. Era grato a chiunque riuscisse a continuare a sopportarlo, in quelle occasioni, perché erano proprio i momenti in cui essere lasciato solo gli sarebbe dispiaciuto di più. Era una classica reazione allo stress. Quando cominciava a diventare una piaga, tutti sapevano che doveva essere successo qualcosa di spiacevole. O doveva sentirsi poco bene.
Tom l’aveva sempre capito – perché lo conosceva da una vita – e da qualche anno aveva cominciato a capirlo anche David. Bill supponeva che per entrambi si trattasse di un sacrificio dovuto. Che gli volessero bene e perciò sopportassero stoicamente senza lamentarsi troppo.
A Bill dispiaceva diventare insopportabile.
A volte, però, succedeva e basta.
- Sarai soddisfatto, adesso. – sospirò teatralmente suo fratello, affossandosi il più possibile al proprio posto vicino al finestrino, sull’aereo diretto a Berlino di quell’undici febbraio duemilaotto, - Una bella vacanza e pure un viaggio transatlantico. Dio, quanto ti odio.
Bill ridacchiò a bassa voce e gli regalò un biscotto di quelli che aveva ordinato alla hostess poco prima. Tom lo mandò giù direttamente dalle sue mani, come un cagnolino, e Bill rise ancora.
- Scusami. – biascicò il moro, - È che ho mal di gola. Sono un po’ stanco. Avevo bisogno di una pausa.
Suo fratello lo fissò con aria allucinata.
- Dopo due sole date, Bill?
- Erano due sold out! – protestò lui, ostinato.
- E allora? – sbottò Tom, scrollando le spalle, - Mica cantare per più persone è più faticoso. Non dovevi preparare da mangiare a tutte le millequattrocento ragazze che c’erano…
Bill sospirò e scosse il capo, mangiando un biscotto e buttandolo giù con un po’ di tè.
Non si aspettava certo che Tom lo approvasse. Suo fratello lo sentiva perfettamente, fin dentro, ma aveva pure tutti i diritti del mondo di avercela con lui.
In ogni caso, ormai era su quell’aereo. Non aveva alcuna intenzione di tornare indietro. Voleva soltanto prendersi qualche giorno di pausa. Fra il Canada ed Hollywood, in fondo, c’erano cinque giorni di stacco. Non aveva neanche costretto David a manovre particolarmente esasperanti – sebbene il sospiro che il manager aveva lanciato quando l’aveva informato dei propri progetti potesse essere interpretato come “esasperato” con una possibilità di errore dello zero virgola uno percento.
Aveva voglia di respirare un po’ l’aria di casa. Poco importava l’avesse lasciata non più di una settimana prima.
Forse, l’aria di casa gli avrebbe fatto passare quel fastidioso mal di gola che continuava a grattargli sulle corde vocali ogni volta che apriva bocca per cantare.
*
Non avrebbe resistito ad un’altra serata di fronte alla TV, in attesa del ritorno di Tom.
Due giorni dopo il suo arrivo ad Amburgo, assieme al mal di gola che si ostinava a restare dov’era, era questa l’unica altra certezza che Bill potesse vantare.
- Dovresti uscire di più. – gli disse suo fratello con aria distratta mentre, molto più attentamente rispetto a quanto si preoccupasse di lui, sistemava il berretto sulla testa, - In fondo, siamo tornati perché tu potessi rilassarti un po’. Ed invece stai tutto il tempo qui tappato in casa…
Bill, pigramente accucciato sul divano in perfetta tenuta da scazzo casalingo, scrollò le spalle senza rinunciare neanche per un secondo ad uno zapping tanto noioso quanto inutile.
- Avanti, fatti bello ed esci con me. Stasera andiamo al Funky Pussy!
- Ma quel locale è sempre pieno solo di ragazze! – borbottò Bill inorridito.
Tom spalancò gli occhi e ritenne opportuno perfino voltarsi a guardarlo con aria sconcertata.
- Bill, certe tue uscite mi turbano profondamente.
- …non in quel senso, cretino! – strillò, arrossendo d’impulso, - Intendo che è imbarazzante essere circondato solo da femmine…
Tom dischiuse le labbra come per dire qualcosa, poi sembrò ripensarci ed infine lasciò ricadere le braccia lungo il corpo in un plateale segno di resa.
- Bill, non aggiungere altro: peggiori solo la situazione.
Il moro aggrottò le sopracciglia e si raggomitolò con maggiore ostinazione sul divano, incrociando le braccia sul petto e mormorando un “fottiti” che suonò più come un lamento che come un’offesa.
- Billi, cucciolo, ti prego, non litighiamo. – mugolò pietosamente Tom, piegandosi a dargli un bacino sulla guancia, - Fai quello che vuoi, per me è ok. Non dovrei far tardi stanotte, - aggiunse poi, allontanandosi spedito verso la porta, - ci rivediamo appena torno. – e lo salutò lanciandogli un altro bacio, prima di uscire.
Rimasto solo, a Bill non rimase che sprofondare fra i cuscini e fissare con aria ebete la propria faccia perfettamente tirata a lucido che stava passando proprio in quel momento in TV sotto forma del video di 1000 Meere.
- Odio VIVA… - mugugnò dolorosamente, tirandosi in piedi e cominciando a zompettare a piedi nudi in giro per l’appartamento, con l’aria di un fallito che non avesse la minima idea della direzione da dare alla propria vita.
Cosa che, in effetti, poteva rappresentare abbastanza bene lo stato di cose di quel momento.
La gola proprio non funzionava come avrebbe dovuto.
E lui probabilmente stava un po’ perdendo la forza di combattere. O la voglia di provarci.
Entrò in bagno e si fermò di fronte al lavandino. Sciacquò velocemente il viso e ciò che vide quando tornò a guardarsi allo specchio non gli piacque affatto.
- Bill, sei un cesso. – si disse impietoso, toccando il proprio riflesso su una guancia. – Dovresti davvero seguire l’esempio di Tomi. Metterti in tiro ed uscire. Sia mai che ti venga un po’ di coraggio per fare della tua vita qualcosa di buono.
Sospirò e socchiuse gli occhi.
Be’, rimanere in casa a parlare da soli, da che mondo era mondo, non aveva mai aiutato nessuno.
*
Forse fu per questo che, seguendo la frenesia di dieci minuti assolutamente folli, si truccò, si vestì di tutto punto, indossò un paio di occhiali scuri e si fiondò fuori di casa, alla disperata ricerca di un taxi che lo portasse da qualche parte.
Qualsiasi parte andava bene, in effetti, purché fosse movimentata. E non fosse il dannato Funky Pussy, ovviamente.
Il tassista sembrava averlo riconosciuto. Da come continuava a guardare nello specchietto retrovisore, per cogliere uno spicchio del suo viso, Bill poteva dire con certezza quasi assoluta si stesse chiedendo se fosse il caso di domandargli un autografo per la figlia.
- Dove la porto…? – chiese timoroso.
Bill apprezzò che lui non lo chiamasse “signor Kaulitz”. Odiava quando gli sconosciuti lo apostrofavano in quel modo. Era una delle poche cose che odiasse davvero della fama – l’impossibilità di godere del calmo e freddo anonimato del quale usufruiva chiunque, perfino il più immeritevole degli esseri umani. Tutti tranne lui sembravano aver diritto ad un po’ di pace.
Gli sarebbe bastato che almeno le persone che era costretto ad incontrare fossero abbastanza educate da risparmiargli la tortura, evitandosi l’uso del suo cognome. Lui non li conosceva, d’altronde. Non poteva rispondere con un “Sì, grazie mille, signor Vattelappesca”. Si sentiva incredibilmente in difetto rispetto a chi usava il suo cognome per rivolgersi a lui senza presentarsi prima.
- Non lo so… - rispose con un sorriso di circostanza, - Ho voglia di svagarmi un po’, ma non sono un gran frequentatore di discoteche…
- Be’… - rifletté il tassista, mettendo in moto, - l’H1 è un bel locale. Mia figlia mi raccontava di esserci stata qualche weekend fa…
- No, la prego, - ridacchiò Bill, - non mi dica che è un locale per ragazzine.
Il tassista rise a propria volta, per nulla offeso.
- Mia figlia ha venticinque anni. – precisò, - Comunque è un bel posto e non è frequentato da gente… fastidiosa. Se capisce cosa intendo.
Che meraviglia, educato e pure attento alle esigenze delle celebrità in fuga dalla fama.
- Sì. – annuì Bill compitamente, - Grazie mille, allora. L’H1 sarà perfetto.
*
L’H1, in effetti, era perfetto per un mucchio di motivi diversi. Bill cominciò a ringraziare l’anonimo tassista nel momento in cui mise piede nell’ampio, oscuro e sensuale ambiente del locale, ed in pratica non smise più.
Le luci – cupissime, viola ed azzurre, salvo quelle giallastre che illuminavano i gradini che portavano alle varie zone del bar – rendevano l’ambiente misterioso e riservato abbastanza da garantire a chi stesse abbastanza lontano dalla pista da ballo un meraviglioso paio d’ore di solitudine. Le zone, poi, erano tutte perfettamente ordinate e differenti le une dalle altre. Così che chi voleva sfondarsi d’alcool intrecciando conversazioni futili con i vicini si dirigeva al bar, chi voleva perdersi nel movimento ipnotico di un paio di dischi house andava in pista e chi preferiva stare semplicemente seduto a godersi il proprio essere lì per nessun motivo particolare aveva tutta una lunghissima serie di poltrone in pelle nera aderenti al muro dall’aspetto invitantissimo.
Oltretutto, il club sembrava frequentato solo da over-30. Non c’era la benché minima possibilità che lo riconoscessero.
Bill afferrò una birra al volo al bancone e poi si diresse speditamente verso la fila di poltrone, mirando ad una che sembrava particolarmente comoda e cercando di raggiungerla prima che gli venisse soffiata da sotto il naso.
Si accomodò, portò la bottiglia alle labbra, bevve un lungo sorso di birra ghiacciata, si guardò intorno e si sentì perfettamente soddisfatto di se stesso.
Dopodiché, una voce stranamente familiare lo costrinse a voltarsi e realizzare d’improvviso di essere un enorme improponibile cazzone.
- Bill Kaulitz…?
Bushido stava seduto sulla poltrona accanto alla sua. Doveva averlo osservato durante tutte le sue precedenti manovre, senza staccargli gli occhi di dosso, solo per ridere di lui.
Dio.
Perché doveva essere così drammaticamente stupido? E sfigato?
Come diavolo aveva fatto a non riconoscere Bushido proprio lì accanto, mentre sceglieva con cura la poltrona da occupare?!
- Ciao… - abbozzò incerto, perché in realtà, nonostante i numerosi quanto brevi incontri che avevano preceduto quel momento, non è che avesse ancora ben capito come fosse conveniente comportarsi con quell’uomo. A volte sembrava il ritratto della dolcezza e dell’educazione. L’attimo dopo lo sentivi che diceva all’amico di turno in quali e quanti modi sarebbe riuscito a farti urlare di piacere, se fossi stato una femmina.
Era disorientante.
- Credevo fossi in America… - commentò lui giusto per amor di conversazione, mentre rispondeva al saluto con un cenno del capo.
- Sì, be’… sono tornato per un po’. – rispose Bill, ancora un po’ impaurito, - Avevamo una pausa, sai…
- E tu, - rise Bushido, fissandolo con un sopracciglio inarcato, - quando hai qualche giorno di pausa, invece di restare a goderti la vita in America, torni in questa topaia?
Bill abbassò lo sguardo, a disagio, e si strinse nelle spalle.
- Be’, questo posto non è così male… - si giustificò blandamente, tornando a cercare rifugio nella birra.
- E come mai sei qui tutto solo? – continuò a prenderlo in giro Bushido.
Era odioso.
- Potrei chiederti la stessa cosa. – rispose acido, in un improvviso moto di spirito.
Bushido rise come avesse fatto una battuta, e la cosa non lo offese come avrebbe dovuto.
- Avevo voglia di festeggiare. – rispose.
- Di solito, non si festeggia in compagnia? – ritorse Bill, profondamente insoddisfatto dal tono e dall’andamento della conversazione.
Bushido scrollò le spalle.
- Suppongo che ci siano delle cose che valga la pena viversi in solitudine.
Bill deglutì, mordicchiandosi un labbro.
- Sì. Sono d’accordo. – annuì discretamente.
Bushido lo scrutò brevemente – un’occhiata calda ed intensa che Bill sentì addosso con una pesantezza quasi fisica.
- Te ne prendo un’altra?
- …cosa?
- La birra. L’hai già finita. Ne vuoi un’altra?
Bill rimase per qualche secondo immobile, un po’ interdetto. C’era decisamente qualcosa di diverso – un divario enorme – fra la discussione che stavano intrattenendo prima e quella che avevano appena intrapreso. Sì, si rendeva conto da sé di rasentare il ridicolo, nel notare differenze simili fra una presa in giro e l’offerta di una birra, ma…
…no, non c’era nessun ma.
Era solo la presenza di quell’uomo che lo inquietava e lo stordiva.
E l’ambiente, anche. Così… lo notava solo in quel momento, che strano, ma… le poltrone appartate, le luci basse, la musica a volume altissimo che ti confondeva anche se non volevi ascoltarla, per non parlare di tutti i profumi mischiati che riempivano l’aria rendendola greve e difficoltosa da mandar giù, davano al posto un tocco d’intimità che, pur non essendo completamente spiacevole, lo metteva a disagio.
Scrollò le spalle.
- Va bene. – concesse, - Ma sappi che non ti riuscirà di farmi ubriacare.
Bushido sogghignò, facendo un cenno al barman che, in pochi secondi, fece arrivare fra le loro mani due bottiglie piene e ghiacciate.
- Perché mai dovrei farti ubriacare, Kaulitz? – chiese insinuante.
Bill non sapeva se lo stesse ancora prendendo in giro o meno, ma quello suonava comunque come un flirt. Pure abbastanza spudorato.
Avrebbe dovuto esserci abituato – Bushido flirtava con lui praticamente ogni volta che gli capitava a tiro – ma la situazione in cui si trovavano in quel momento era così lontana dalla ribalta televisiva che Bill non poté fare a meno di dirsi che, se in altre occasioni aveva bollato quei flirt come pubblicità da dare in pasto ai media, in quel momento non c’era proprio niente da pubblicizzare, e nessun paparazzo da nutrire.
Probabilmente lo stronzo voleva solo giocare, pensò cupo, aggrottando le sopracciglia. Era molto da lui, in fondo: ghignare e mostrarsi figo e superiore e prenderlo per il culo a parole per evitare di doverlo fare davvero. Era un tratto che gli aveva sempre dato fastidio, della sua schizofrenica personalità: se lo voleva, perché non cercava di prenderselo e basta?
Mandò giù un sorso di birra.
Calmati, Bill. Calmati. Non vuoi davvero che Bushido ti prenda e ti porti a casa propria, per poi scoparti. Non lo vuoi.
No?

Disconnesse le sinapsi del proprio cervello quando si rese conto che pensare stava diventando a tutti gli effetti più pericoloso che agire senza farlo. Chi l’avrebbe mai detto.
In ogni caso, non era disposto a cedere neanche di un punto. Non di fronte ad uno che era palesemente un codardo, peraltro.
- Per portarmi a letto, è chiaro. – rispose quindi con un sorrisino spavaldo, - Tanto è ovvio che, se non fossi ubriaco perso, non ci starei mai.
Bushido rise, estremamente divertito, e fece tintinnare la propria bottiglia contro la sua.
- Un punto per te, Kaulitz. – si complimentò, - Ma ammetto che il mio obiettivo è costringerti ad un sì da sobrio. E senza giornalisti che possano far pensare ad un’accettazione di convenienza.
Spalancò gli occhi e quasi si soffocò con la propria stessa saliva.
Andava bene giocare, ma… quell’uomo stava giocando su un livello tutto diverso dal suo.
Forse.
- Be’, allora siamo a posto. – mugugnò imbarazzato, tornando a cercare conforto nell’alcool, - Tanto non accadrà mai.
- Che bello, ogni tanto, sentirti parlare ancora come il ragazzino che sei! – commentò l’uomo, evidentemente divertito, - A sentirti in genere, con tutte quelle cazzate seriose sull’anima gemella e la castità forzata e tutto il resto, si fatica proprio a capire quanti anni hai.
Bill scrollò le spalle.
- Che non si capisca la mia età va bene. Non posso lamentarmi. Non posso lamentarmi neanche se la gente non capisce il mio sesso, figurati.
- Ah! Che tu sia maschio, è una certezza matematica.
Gli lanciò un’occhiataccia, infastidito.
- Intendi?
- Che sei uno stronzetto sfacciato. – mormorò Bushido appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sporgendosi fin quasi a sfiorare il suo profilo con le labbra, - Quindi, forse sei un po’ zoccola, ma resti comunque maschio.
Saltare oltraggiato in piedi e poi schiaffeggiarlo sarebbero state le cose più giuste da fare. Avrebbero chiuso il conto – presumibilmente per sempre – gli avrebbero ridato un po’ di dignità ed un po’ d’autostima, e magari avrebbe avuto anche qualcosa di divertente da raccontare a Tomi quando fosse tornato dal suo consueto giro di scopate, quella notte.
In ogni caso, non aveva voglia di fare niente del genere.
Diede la colpa alla birra, alla musica ed all’aria pesante. Non si fermò a pensare neanche per un secondo che la cosa potesse essere imputabile alla vicinanza di Bushido, all’odore forte e deciso del suo dopobarba, al suono piacevole che producevano le sue parole a così pochi centimetri dalla sua pelle o al suo sguardo talmente intenso e scuro da pietrificarlo.
Era molto, molto più comodo e facile dare la colpa alla birra, alla musica ed all’aria pesante.
- Be’, insomma. – sorrise vittorioso Bushido, raddrizzando la schiena e poi mettendosi in piedi, - Buona fortuna per il resto dei concerti in America e buon divertimento per il resto della serata. Per oggi, io ho concluso.
Così dicendo, accennò un saluto con la mano e fece per abbandonare il privè ed uscire dal locale.
Bill saltò in piedi e lo richiamò con una velocità tale che ebbe quasi un capogiro.
- Aspetta! – disse, quando riuscì a recuperare abbastanza presenza di spirito.
- …cosa? – chiese un po’ incerto Bushido, voltandosi interdetto a guardarlo.
Bill si morse un labbro, piantò una mano sul fianco e cercò di darsi l’aria più navigata che poté.
- Non mi porti con te?
*
Non c’era proprio che dire: era andato alla ricerca di una serata diversa dalle altre, una serata che gli desse indietro tutta la propria forza ed il coraggio di combattere, ed aveva trovato Bushido. E non solo: si era fatto allegramente prelevare, infilare in una BMW che, non fosse stata sinonimo di uno dei momenti più confusi e tormentati della sua vita, avrebbe amato al punto da svendersi per salirci su – ed in effetti era un po’ ciò che stava facendo – ed infine aveva accettato di rimanere lì, accucciato sul sedile del passeggero a rimirarsi la french, nel più assoluto silenzio, mentre Bushido guidava verso casa propria.
- Non sapevo che abitassi ad Amburgo… - borbottò atono, giusto per spezzare quel silenzio insopportabile, - Credevo fossi di Berlino.
- Ed infatti lo sono. – annuì serenamente lui, concentrato sulla strada, - Ma sono diventato ricco molto prima di te, perciò ho già cominciato ad espandere i miei possedimenti in tutta la Germania. Un giorno, conquisterò il mondo.
Bill rise a bassa voce, coprendosi le labbra con una mano.
Bushido lo squadrò dall’alto in basso, un po’ risentito.
- Era una battuta, potevi anche fartela, una bella risata.
- Non parlarmi come se fossi uno che non ride mai. – si lamentò Bill, aggrottando le sopracciglia, - Non lo sono.
- Be’, abbiamo passato le ultime due ore insieme e ti ho visto fare solo sorrisini storti e qualche ghigno. Ho le prove che ho ragione.
- Non parlarmi nemmeno come se fossi un mio amico. – aggiunse il moro, piccato, - Non lo sei.
Bushido roteò gli occhi e lanciò un mugolio annoiato.
- Sei un ragazzino impossibile. Dovrei riportarti a casa tua e basta.
- …dopo essere arrivati fino a qui?
- Fino a qui è circa a tre isolati dal tuo appartamento, come mi hai fatto notare dieci minuti fa, quando ci siamo passati davanti, perciò non blaterare.
- …è passato davvero così poco tempo…? – chiese Bill, sinceramente stupito, - Cazzo, mi sembrava fossero passate ore
- Questo perché sei un bimbo noioso e provare ad intavolare una conversazione con te è assolutamente impossibile. – commentò Bushido, annuendo compitamente.
Bill gli tirò uno schiaffetto contro la coscia, lamentandosi di quanto trovasse assurdo che continuasse ad offenderlo e chiamarlo “bimbo”, ma se ne pentì subito dopo.
Dio, non dai uno schiaffo sulla coscia ad uno che ti sta portando a casa propria! Non se vi conoscete appena e vi siete incontrati due ore prima!
Bushido, comunque, non ne sembrò particolarmente turbato, e continuò a guidare tranquillamente, senza scollare gli occhi dalla strada nemmeno per un secondo.
Si fermarono di fronte ad un condominio che, più che richiamare alla mente i sobborghi di Tempelhof, sembrava un ordinato ospizio per vecchi ricconi. Palazzi bassi, bianchissimi, con i balconi pieni di fiorellini ed un ampio e pulito cortile interno, con un’enorme aiuola ed un’altrettanto enorme palma piantata proprio nel centro.
- Una palma…?
- Lasciamo perdere. – borbottò Bushido, mentre gli faceva strada verso la propria palazzina, - Ho dovuto affrontare l’ira funesta di un centinaio di casalinghe frustrate, solo per aver detto incautamente che tenere una pianta esotica in un cortile ad Amburgo avrebbe potuto non essere un’idea poi così geniale. – sospirò pesantemente, aprendo il portone e tenendolo fermo finché Bill non fu entrato all’interno dell’ingresso, - Dovresti vederla come si agita quando c’è vento. Una cosa tremenda.
Il moro annuì trasognato, un po’ confuso dal fiume di parole e, soprattutto, dall’immagine mentale di Bushido che litiga con le massaie durante una riunione di condominio particolarmente accesa.
- Ma che diavolo ci fai in un posto simile…? – biascicò divertito, mentre salivano le scale diretti al primo piano.
- Ci vivo. – rispose Bushido con una scrollatina di spalle, - Cinque o sei mesi all’anno. È qui che vengo a comporre.
- Tu componi?! – strillò, fermandosi in mezzo alle scale e voltandosi a guardarlo come fosse stato un alieno.
- Aha, molto divertente. – borbottò Bushido dandogli un buffetto sulla fronte ed oltrepassandolo fino a raggiungere il proprio pianerottolo.
- No, sul serio… - si affrettò a raggiungerlo Bill, facendo gli ultimi gradini quasi in un unico salto, - Credevo che quelli come voi si mettessero a cantare direttamente sulla base…
- Quelli come noi sono artisti normali che scrivono la musica sulla quale cantano ed anche i testi che ci mettono sopra. – precisò Bushido, armeggiando con le chiavi alla ricerca di quella giusta, - Il che è molto più rispetto a quanto si possa dire di quelli come voi. – buttò lì in un’offesa che, per quanto bruciasse, era pure abbastanza giustificata, visto che, in effetti, il tono con cui l’aveva rimbrottato fino a quel momento era abbastanza incredulo da motivare la sua rabbia.
- Scusami, non volevo insinuare tu fossi un incapace… - borbottò, in un blando tentativo di recuperare i punti persi, - È che un po’ l’ho sempre pensato, e… - sollevò lo sguardo. Bushido lo fissava a propria volta, estremamente critico. - …ok, la pianto qui.
- Molto, molto meglio. – concluse l’uomo aprendo la porta ed invitandolo ad entrare. – E questa è la mia modesta dimora. – commentò tronfio, mostrando l’interno dell’appartamento con un ampio cenno del braccio, mentre si richiudeva la porta alle spalle.
Bill si guardò intorno, stringendo con forza i pugni dentro alle tasche dei jeans.
La modesta dimora di Bushido constava di un ingresso fuso con un salotto di dimensioni stratosferiche, un soggiorno che si poteva intravedere da una porta aperta sulla sinistra con tanto di cucina incorporata, una porta chiusa che si apriva probabilmente su una camera da letto che non avrebbe avuto nulla da invidiare alle altre stanze e… be’, da qualche parte doveva pure esserci un bagno.
- Modesta, eh? – chiese divertito, avvicinandosi al divano ed accarezzandone la superficie scamosciata color panna.
- Dovresti vedere quella a Berlino. – ribatté lui con un ghigno furbo mentre si sfilava la giacca e gli porgeva una mano per prendere la sua.
Bill tolse il giubbotto di jeans e glielo consegnò, continuando a vagare per quell’enorme stanza, soffermandosi a scrutare con un misto di invidia ed ammirazione tutti i particolari dell’arredamento.
- Mi sento improvvisamente molto povero. – commentò con un mezzo sorriso, fermandosi innamorato di fronte ad un gigantesco tavolo rotondo in marmo nero striato bianco.
- Lo prenderò come un complimento. – rise Bushido, poggiando le due giacche sopra una poltrona ed avvicinandosi a lui, - E, quando verrò a trovarti a casa tua, ricambierò.
Bill si voltò a guardarlo, inarcando supponente un sopracciglio.
- Chi diavolo ti fa pensare che ti inviterò mai a casa mia?
Bushido ridacchiò.
- Il fatto che mi ti sei praticamente offerto su un piatto d’argento meno di un’ora fa…? – suppose, reggendogli il gioco.
Bill rise e si sporse verso di lui, ammiccando divertito.
- Ma questo non significa che debba considerarti tanto importante da portarti a casa… - gli sussurrò addosso, senza smettere di guardarlo negli occhi, - Forse la zoccola non sono io, no…?
Bushido indietreggiò ed il suo sguardo cambio colore e consistenza.
Se le atmosfere avessero potuto fare rumore, spezzandosi, in quel caso sarebbe stato come sentire venir giù una casa. Tutto un palazzo.
Quel crollo, Bill quasi se lo sentì sulla testa.
- Ragazzino, cerca di non esagerare. – disse duramente l’uomo, sporgendosi a guardarlo con rabbia. Bill si strinse nelle spalle, sulla difensiva. – Va bene anche giocare pesante, ma quando si comincia a fare sul serio stai attento. Pensavo di portarti qui, darti da bere qualcosa, fare ancora un po’ il simpatico e poi riportarti a casa. Non costringermi a saltare la parte della simpatia. So essere davvero poco piacevole, quando voglio.
Sarebbe stato facilissimo, a quel punto, chinare il capo e scusarsi. Sarebbe stato facilissimo e probabilmente sarebbe stata anche la mossa giusta. Bastava fare qualche piccola rinuncia qua e là. Bastava rinunciare ad occupare la serata in attesa del ritorno di Tom. Bastava rinunciare a prendersi la ragione con la forza. Bastava rinunciare al ricordo della sensazione che aveva provato all’H1 quando Bushido l’aveva guardato a lungo e intensamente, prima di offrirgli un’altra birra.
Bastava rinunciare a quel po’ d’orgoglio che era riuscito a raccogliere a fatica durante tutta quella sfiancante serata.
Bastava rinunciare alla vittoria, in fondo.
Sarebbe bastato rinunciare a tutto questo, obbedire da bravo bambino e fare come al solito: sottomettersi. Accettare. Annuire. Sì, sì, sì.
Ma dannazione.
Non era andato in giro da solo per Amburgo mettendo a rischio la propria stessa incolumità, e non era arrivato all’H1, e soprattutto non aveva passato le ultime due ore a flirtare con Bushido per ritrovarsi poi fra le mani il solito noioso ed insopportabile niente.
Si appoggiò morbidamente al tavolo, puntando le mani sul tavolo ed accavallando sensualmente le gambe, e poi si concesse un mezzo sorriso storto e intrigante.
- Che delusione… - sussurrò carezzevole, inclinando lievemente il capo, - Mi porti qui, mi dai ad intendere che riusciremo a cavarne qualcosa di più di qualche blanda promessa televisiva… e poi ti ritiri con un nulla di fatto? – ridacchiò brevemente, sbattendo le ciglia, - Ti ho proprio sopravvalutato, Bushido.
Lui gli fu addosso in meno di un secondo. Non lo sfiorava neanche, ma la sua sola presenza era talmente ingombrante che per poco Bill non si sentì mancare il fiato.
Bushido lo fissava, qualche centimetro più in alto di lui, e gli respirava addosso.
Era furioso. Glielo si leggeva negli occhi.
- Kaulitz, che cazzo vuoi?
Soddisfatto, Bill lo fissò di rimando ed allargò il sorriso.
- Speravo potessi dirmelo tu.
Gli occhi dell’uomo si fecero sottili e brucianti come tizzoni ardenti, tanto che Bill dovette farsi violenza per non distogliere lo sguardo.
Si stava mettendo nei guai. Si stava mettendo nei guai e la cosa non riusciva a dispiacergli completamente. E non era neppure tanto ubriaco.
Però almeno il mal di gola sembrava sparito.
Forse perché non aveva ancora avuto modo di pensarci.
- Non mi provocare, Kaulitz… - sussurrò rocamente Bushido, sollevando una mano e lasciandogliela scorrere sul ventre fino al petto, da sopra la maglietta.
La sua pelle era talmente calda che Bill ne percepì perfettamente addosso la temperatura, nonostante il cotone. Gli diede i brividi.
- Magari è esattamente questo, quello che voglio. – rispose in un ansito scomposto, sporgendosi ancora verso di lui fino ad insinuare una gamba fra le sue, stuzzicandolo in uno strofinio discreto ma continuo e, soprattutto, terribilmente ben mirato.
Bushido si inumidì le labbra ed afferrò con malagrazia un lembo della sua maglietta, tirandola su tanto in fretta da rischiare di strappargli via anche le braccia, assieme all’indumento.
Avrebbe dovuto sentirsi offeso e maltrattato.
Appena l’ingombro della maglia si ritrovò dimenticato sul pavimento a qualche metro da loro, tornò semplicemente a guardare Bushido negli occhi a distanza così ravvicinata da poter sentire i loro stessi respiri incontrarsi a metà fra le loro bocche ed attorcigliarsi l’uno con l’altro.
Sollevò le braccia e cominciò a sbottonare la camicia dell’uomo. Così lentamente che si infastidì da solo.
Bushido, però, non si lamentò. Lo lasciò fare e procedette per proprio conto all’esplorazione della sua pelle – la morbidezza della pancia, la consistenza un po’ più ruvida dei pettorali e l’attrito evidente dei suoi capezzoli induriti sotto i polpastrelli – mentre Bill continuava a guardarlo negli occhi – oh, non avrebbe rinunciato neanche per un minuto a quello sguardo di fuoco – e a respirargli sul viso.
In quel momento, si sentiva perfetto.
Si sentiva sexy.
Il mal di gola non contava.
Lo sbattimento del viaggio e l’ansia da prestazione prima dei concerti erano nulla.
Il senso di frustrazione, piccolezza e disagio che aveva provato mettendo piede in America, scomparsi.
Era tutto perfetto, tutto meraviglioso. Tutti gli ingranaggi giravano per il verso giusto.
- Meglio chiuderla qua. – disse Bushido, cercando di allontanarsi, ma Bill lo trattenne vicino, stringendo con forza il colletto della sua camicia.
- Non voglio chiuderla qua. – ansimò, allentando la presa e lasciando scivolare lentamente l’indumento lungo le spalle e la schiena dell’uomo, per poi scendere a sbottonare anche i jeans, scoprendo quei pochi ma preziosi centimetri di pelle del ventre non nascosti dai boxer.
Non avrebbe mai detto di potersi sentire tanto attratto da un corpo maschile. Forse dipendeva dal senso di potenza che si sprigionava inarrestabile dalle spalle larghe e dalle braccia possenti di Bushido. Forse, semplicemente, le proporzioni e la consistenza e la sensazione al tatto dei suoi muscoli tesi e nervosi erano tanto piacevoli da non lasciare più spazio per pensare razionalmente al fatto lui fosse un uomo e non fosse perciò normale essere attratto da una cosa simile.
D’altronde, s’era sempre ritenuto un esteta.
Ed il corpo di Bushido era bellissimo.
Irresistibilmente attratto dalla sua pelle scura – e da quel profumo ossessivo che sembrava avere effetti magnetici su di lui – si chinò sul suo petto. Nessuna idea in mente, nessun piano su cosa fare una volta che fosse arrivato a sfiorarlo con le labbra, ma il punto era proprio quello: sfiorarlo; cogliere il suo sapore, anche solo per un attimo. Il resto l’avrebbe deciso poi.
Bushido, però, lo trattenne per le spalle e si allontanò di qualche centimetro, impedendogli di raggiungere il suo scopo.
- Lo ripeto, è meglio chiuderla qua. – disse cupamente, - Il giochino sta andando troppo oltre. Basta, d’accordo?
- Ma cazzo… - si lamentò lui, cercando di forzare la sua presa, - Io lo voglio! Ed a quanto mi sembra di capire… - aggiunse con un ghigno, strofinando ancora una volta il ginocchio contro il suo inguine, - anche a te l’idea piace…
- Fammi il piacere. – sbottò Bushido, lasciandolo andare ed allontanandosi nervosamente di qualche passo, - Tirerebbe a chiunque, in una situazione simile. Non prendiamoci per il culo.
- Peccato. – continuò a stuzzicarlo lui, ansioso di non perdere l’occasione, - Mi sembrava un ottimo programma per la serata. Come ti ho già detto, io lo volevo.
- Ma per favore! – ringhiò Bushido, incredulo, - Vuoi per favore piantarla con questa commedia del ragazzino infoiato?
- Non so se si è capito, ma sono veramente eccitato, stronzo che non sei altro! – strillò lui a propria volta, piantando con più forza le mani sul tavolo, - Se ti dico che lo voglio è perché lo voglio e basta, Cristo!
- Cortesemente! – continuò a rimproverarlo Bushido, tornandogli vicino ed afferrandolo per una spalla, per poi sbatterlo disteso sulla superficie ghiacciata di marmo, - Cosa cazzo vorresti, tu?
In un impeto di coraggio del quale non avrebbe saputo neanche spiegare l’origine, Bill spalancò le gambe e si strusciò contro di lui.
E quello, Dio, gli fece perdere la testa.
Bushido grugnì un lamento frustrato e gli si piegò addosso, mordendogli il collo come una bestia affamata e spingendosi così profondamente contro di lui che Bill non riuscì a trattenere un gemito di puro piacere, e piegò il capo per offrirsi più apertamente.
- Voglio te. – sussurrò eccitato, afferrando una mano dell’uomo e portandola alla propria eccitazione, ancora fastidiosamente prigioniera dei jeans.
Bushido rilasciò un sospiro esasperato e si rimise dritto, scuotendo il capo come a volersi liberare dai cattivi pensieri. Poi gli sbottonò i jeans e li tirò giù assieme ai boxer in un movimento fulmineo e quasi doloroso.
Bill lo guardò inarcando le sopracciglia, incerto sulle sue intenzioni.
Lui rimase qualche secondo interdetto a fissare la sua erezione. Era evidente non sapesse che farsene – ed era anche giusto.
E poi fece esattamente l’ultima cosa che Bill si sarebbe mai aspettato, come a voler dimostrare che se è vero che certi stereotipi sulla cultura rap sono smaccatamente veri, ce ne sono altri che sono invece, be’, più flessibili.
Si chinò, serrò gli occhi e lo prese in bocca.
Tutto.
Bill si sentì mancare il fiato. Ansimò alla ricerca d’aria, non ne trovò e si aggrappò con forza alle spalle dell’uomo – ancora chino su di lui – come se potesse aiutarlo a riprendere a respirare. Bushido, però, non fece niente del genere: cominciò a muoversi avanti e indietro lentamente ma inesorabilmente, senza interrompersi neanche per un secondo. Per lui sembrava normale stare lì e non prendersi neanche un attimo per respirare. Bill non stava succhiando un cazzo, ma non riusciva a farlo lo stesso.
Dio. Ecco a cosa serve cantare ininterrottamente per quaranta o cinquanta secondi.
Stravolto, rovesciò il capo all’indietro e prese ad ansimare furiosamente, mentre Bushido lo stringeva con sicurezza per i fianchi e gli impediva di muoversi, dettando il ritmo e la potenza delle spinte, ora più lentamente, ora più velocemente, finché Bill non si sentì praticamente esplodere, cercò di trattenersi, peggiorò solo le cose ed, infine, venne.
Bushido si scostò subito, infastidito, e sputò per terra i residui del suo orgasmo.
Bill si coprì il volto e rimase steso sul tavolo, incapace perfino di pensare, figurarsi di muoversi.
- Cazzo… - mormorò l’uomo, passandosi una mano sulle labbra.
Il ragazzo lo sentì distrattamente allontanarsi spedito da lui, verso qualcosa che riconobbe essere la stanza da letto solo quando sollevò lo sguardo e vide che, in effetti, la porta precedentemente chiusa non lo era più, e dall’interno della stanza proveniva una luce.
Con estrema fatica, raccolse i pochi brandelli di lucidità sopravvissuti ai dieci minuti precedenti, e si rimise in piedi.
*
In camera da letto, la luce bassa e giallastra dell’abat-jour si rifletteva sulla pelle scura dell’uomo, dandole un colore sensuale ed illuminandola un po’ come il sole del tramonto. Era una visione talmente sexy che, per un secondo, Bill non si sentì in grado di attraversare la soglia e dovette fermarsi a riprendere fiato.
Bushido stava pigramente disteso sul proprio letto, i jeans ancora sbottonati ed una mano sulla fronte. Il petto si sollevava e si riabbassava al ritmo del suo respiro, in un movimento ipnotico dal quale Bill aveva difficoltà a separarsi. Era rassicurante, a proprio modo. Pensare che fino a qualche secondo prima quel petto si alzava e si abbassava a diretto contatto con la sua pelle era…
…no, era ancora troppo. Scosse il capo e si costrinse a superare quel momento di stallo, dirigendosi a passo incerto verso il letto e sedendosi su una sponda, sfiorando appena le gambe dell’uomo coi fianchi.
Bushido sollevò lievemente il braccio e lo investì con un’occhiata infastidita e pungente, senza però commentare in alcun modo la sua presenza.
Bill deglutì e si strinse nelle spalle.
- Mi hai-
- Ti ho succhiato il cazzo.
Cristo.
- Perché l’hai-
- Perché ti tirava, ed è stato a causa mia. Non potevo lasciarti in quel modo.
- Avresti potuto-
- No, non avrei potuto.
Arricciò le labbra, offeso.
- Potresti farmi finire, una volta o l’altra?
Bushido scrollò le spalle.
- Perché mai? Tanto sono sempre gli stessi discorsi, volta dopo volta.
- …non credevo avessi esperienza con gli uomini.
Bushido lo guardò ancora, inarcando le sopracciglia e sollevandosi sul materasso, puntando i gomiti nella gommapiuma. I suoi addominali si contrassero brevemente e poi tornarono a rilassarsi, e la differenza fu minima al punto che Bill temette di averla sognata.
- Maschi, femmine… - disse l’uomo a bassa voce, - Non c’è veramente differenza. È superficiale pensare possano essercene.
- Secondo me è superficiale il contrario. – protestò Bill, aggrottando le sopracciglia, - Maschi e femmine sono differenti. Non puoi equipararli in nome di un’uguaglianza ipocrita.
Bushido ghignò, vagamente divertito.
- E la differenza che vuoi sottolineare, nello specifico, quale sarebbe?
Bill trovò il coraggio di sporgersi in avanti. In qualche modo.
Il cuore gli batteva nel petto con tanta forza che probabilmente era stato proprio lui a trascinarlo.
- I maschi… - ansimò faticosamente, - sono più orgogliosi delle donne. Non accettano regali, se ricevono un favore lo ricambiano.
Bushido rise di gusto. La sua gola vibrò ed il suo petto si scosse e Bill si sentì di nuovo come stesse per soffocare.
- E questo sarebbe un ragionamento da maschio? Cioè secondo te ogni uomo ricambia il favore ad ogni donna dalla quale si fa fare un pompino? Cielo, sei veramente molto più piccolo di quanto pensassi!
Bill abbassò lo sguardo, arrossendo come una liceale. Non avrebbe neanche saputo quantificare quanto si sentisse inetto e imbarazzato e fuori luogo, in quel momento. Nonostante ciò che aveva appena fatto, Bushido sembrava così a proprio agio, disteso per metà sul materasso, la pelle lucida sotto la luce artificiale e quel ghigno stronzo sulle labbra, oh, così dannatamente sexy, che per un secondo si chiese lui cosa diamine ci stesse a fare in quel posto.
Strinse brevemente le dita attorno al lenzuolo arricciato ai piedi del letto, e poi spostò la mano in avanti, lungo la gamba dell’uomo. La sua carezza, lentissima, strisciò contro il tessuto ruvido dei jeans, riscaldandogli il palmo in maniera quasi dolorosa.
Bushido lo guardò e non mosse un muscolo. Di questo, Bill gli fu immensamente grato.
- Cosa stai facendo con quella mano? – chiese incolore.
Bill non rispose. Si morse un labbro e si congelò sul posto, interrompendo anche la carezza – senza però scostarsi di un centimetro da lui.
- Ragazzino, mi era sembrato di essere stato chiaro, prima. – aggiunse l’uomo, ancora immobile.
- Be’, non lo sei stato. – borbottò Bill incerto, - Cazzo, se è no è no, ma almeno dillo chiaro. Se mi fai un pompino e poi te ne vai in camera da letto, per me non è no.
Bushido sospirò e si scrollò la sua mano di dosso, piegando mollemente una gamba.
- Se dico questo benedetto no, te ne vai? – chiese, inclinando lievemente il capo con aria strafottente.
- …io voglio… - cominciò Bill, ma si rese conto di non riuscire a continuare quando sollevò gli occhi su di lui. Non riusciva a capire la sua espressione. Non riusciva a capire il suo modo di ragionare. Non riusciva a capire cosa stesse sentendo. Non riusciva a capirne nulla, i suoi occhi erano specchi torbidi e non riflettevano proprio un bel niente. – Voglio-
- Non ho ancora capito se t’interessa una scopata random o una scopata con me, davvero. Sei un ragazzino misterioso.
- Non sono un ragazzino.
- Lo sei. Sei piccolo, stupido e infoiato. Come tutti i ragazzini. – sospirò ancora, regalandogli un mezzo sorriso superiore. – Avvicinati.
L’invito arrivò così improvviso che Bill non lo capì. O meglio: percepì la successione delle lettere, quel komm hier che aveva ormai indissolubilmente legato all’erotismo – dannata canzone sessualmente esplicita – ma non riuscì a rendersi conto delle conseguenze di quella richiesta.
Bushido voleva si avvicinasse.
Bushido stava sorridendo come volesse prenderlo in giro.
E lui l’avrebbe lasciato fare, oh, sì, prendimi pure in giro purché tu mi prenda in qualche modo.
Strisciò sulle lenzuola tiepide, avvicinandosi impaurito. Non aveva neanche problemi ad ammetterlo con se stesso: si sentiva azzerato. Nella possibilità di pensare, di agire autonomamente, di realizzare qualsiasi cosa, di rifiutare qualsiasi cosa.
In balia del respiro che gonfiava il petto di Bushido.
- È divertente vederti così incerto proprio al dunque. – commentò divertito lui, - Non sembri più neanche lo stesso ragazzino coraggioso di qualche minuto fa.
- Non sono incerto.
Non sono neanche mai stato un ragazzino coraggioso, però.
Accorciò le distanze fino a lasciare solo un centimetro di spazio fra le loro bocche. Sperò che quel centimetro bastasse al proprio respiro per continuare ad uscire naturalmente, ma non successe. Il problema sembrava alla base – nei polmoni. Immobili. Congelati. Come lui.
Bushido sorrise, sollevando una mano e prendendogli il mento fra le dita. Lo girò da un lato e dall’altro, lentamente, di pochi centimetri, come volesse controllare la qualità della sua pelle o della linea della sua mascella. Come stesse per comprarlo.
Dio. Si sentiva così umiliato. Dannazione.
Socchiuse gli occhi. Bushido rise a pochi millimetri dalle sue labbra. E poi i millimetri sparirono tutti.
Baciarlo era stranissimo. Aveva le labbra morbide.
Non l’aveva ancora baciato, da quando s’erano incontrati. Era un po’ assurdo, soprattutto a pensare che le sue labbra avevano già- Dio, perché penso una cosa del genere proprio in questo momento, Cristo santo, cosa c’è che non va in me?!
Cercò di ritrarsi – per un motivo che non gli era veramente chiaro – ma Bushido rise ancora e lo trattenne vicino. Gli lasciò scivolare la mano lungo il collo – il palmo bene aperto perfettamente aderente alla sua pelle accaldata – e lungo la spalla, e poi giù fino a cingerlo saldamente per i fianchi.
- Aspetta… - mormorò Bill, ma Bushido scosse il capo e lo strattonò senza particolari riguardi sul materasso, rovesciando le loro posizioni fino a sovrastarlo.
Il viso affondato nel cuscino, Bill sbottò uno sbuffo di fiato un po’ impaurito, un po’ sorpreso ed un po’ qualcos’altro che non si sentiva tanto pronto ad ammettere.
Dietro di lui – riuscì a coglierlo solo con la coda dell’occhio – Bushido lo guardava dall’alto, incomprensibilmente serio. Sentì le sue mani liberargli i fianchi, e poi una di esse posarsi sulla nuca e scendere lentamente lungo il disegno della sua spina dorsale, fino alla base.
Avrebbe dovuto rimettere la maglietta, prima di entrare in camera.
Eppure, in qualche modo, era piacevole. Quella carezza era perfino… rilassante. Stringendo le dita attorno al lenzuolo, sentendolo arricciarsi e staccarsi dagli angoli con uno scatto secco, Bill cercò di immaginare una realtà perfetta in cui esisteva solo quella carezza.
Bushido scivolò con le mani sotto il suo inguine, lo afferrò saldamente alla vita e lo costrinse a piegarsi.
- Oddio! – si ritrovò a strillare sorpreso, aggrappandosi al cuscino come stesse cercando di salvarsi da un uragano.
Bushido rise di gusto, piegandosi su di lui e sfiorandogli il collo con la lingua.
- Non ti spaventare. È che se non sporgi un po’ il sedere sarà difficile andare da qualche parte, stasera.
Bill arrossì come un deficiente e si nascose ancor più in profondità nella piuma d’oca. Alla fine di quella serata, probabilmente, sarebbe stata la cosa che avrebbe ricordato meglio.
Quella, e la pressione dell’erezione di Bushido ancora serrata dentro i pantaloni, proprio contro alle sue natiche.
- E questo come lo sai? – chiese, mimando un ghigno superiore e rendendosi conto già da sé di quanto apparisse ridicolo, nella situazione contingente.
Bushido, infatti, per l’ennesima volta, rise di lui.
- Se t’interessa tanto, sono stato in prigione.
Diosanto. Ed io sono qui nel tuo letto.
- Paura?
- No. – si affrettò a rispondere, - Figurati.
Bushido rise ancora, mordendogli un lobo e tirandolo lievemente verso di sé.
- È stato solo per poco, comunque. Ma si imparano tante cose.
- Non sono sicuro di volere sapere quali…
- Be’, sono quelle che mi permetteranno di farti meno male possibile, stanotte. – sibilò lui, improvvisamente incattivito, - Perciò zitto e mosca. E mostra un po’ di gratitudine.
Bill deglutì e si morse un labbro, nascondendo il viso fra le mani.
- Hai imparato ad essere gentile…? – chiese quasi implorante, in un mezzo singhiozzo stremato.
- E da chi avrei dovuto imparare? – rise Bushido, slacciandogli lentamente i pantaloni, - Lì nessuno lo è mai. Allarga le gambe. – Bill ubbidì. – Ecco, bravissimo. – commentò l’uomo, regalandogli una carezza in premio sul fianco mentre gli lasciava scivolare i jeans lungo le cosce.
Bushido si separò da lui per un solo secondo, liberandolo dall’ingombro dei pantaloni, e poi tornò a schiacciarglisi addosso, piegandosi sulla curva della sua schiena fino a sfiorargli un orecchio con le labbra.
- Farai tutto ciò che ti dirò…? – bisbigliò, la voce roca e carezzevole.
Avrebbe dovuto scappare il più lontano possibile senza nemmeno guardarsi indietro. E chiamare la polizia!
Annuì.
Bushido sorrise.
- Bravo. – si complimentò, slacciandosi la cintura. Bill la sentì tintinnare per qualche secondo, e la rivide dopo poco sul pavimento.
La cosa successiva che sentì, fu l’erezione bollente di Bushido contro una natica. Il calore. La durezza. Si sentì soffocare e gli venne da piangere nel realizzare quanto fosse a propria volta eccitato.
Doveva decisamente esserci qualcosa di sbagliato in lui.
Bushido sospirò, prendendosi un attimo per riflettere, come non sapesse cosa farsene del suo corpo tremante fra le braccia.
Oh, Bill avrebbe saputo cosa suggerirgli.
Aveva solo bisogno di essere toccato.
- Bushi-
- Shush. – lo zittì lui, rude, - Fammi pensare.
- Ma Cristo. – singhiozzò Bill, al limite della sopportazione, cominciando ad agitarsi, - A cosa cazzo devi pensare?!
- Ad un modo per non spaccarti in due, deficiente che non sei altro. – lo rimproverò Bushido con uno schiaffo neanche troppo discreto sul sedere, - Cazzo. Ecco perché non vado mai con gli uomini. Senti come sei asciutto! – si lamentò, facendogli passare due dita fra le natiche, stuzzicando rudemente la sua apertura e costringendolo a mordersi una guancia per non lanciare un urletto facilmente equivocabile, - Come faccio a farlo passare qua dentro?
- A-Adesso… - ansimò sconvolto, cercando di riacquistare la funzionalità delle gambe per impedir loro di tremare, - cerca di non vantarti troppo. Cosa sarà mai? – sbottò con presunzione, cercando curiosamente di coglierne almeno un’occhiata.
Bushido rise di un divertimento talmente sfacciato che Bill non poté fare a meno di arrossire ancora.
- Se vuoi, voltati e guarda. – lo invitò con disinvoltura, - Ma poi non dire che non ti avevo avvertito.
Bill aggrottò le sopracciglia e raddrizzò la schiena per potersi voltare più facilmente.
- …Dio. – mormorò alla fine, incapace di staccargli gli occhi di dosso, - Lasciamo perdere? Non sono convinto che possa-
- Entrerà, cretino. – rise ancora Bushido, afferrandolo per il collo senza fargli male e riportandolo a piegarsi sul cuscino, - Non è così grosso. Basta che non cominci a spaventarti.
- Oddio, non posso credere di-
- Piantala di fare il moccioso. – lo rimproverò ancora lui, più duramente, - Se sono sopravvissuto io, sopravvivrai anche tu. E non farmi dire una parola di più sull’argomento.
Bill socchiuse gli occhi e trattenne il fiato. Lo rilasciò solo quando fu certo di poter riprendere a respirare senza tossire.
- Okay… - sussurrò dispiaciuto, - Scusa, non volevo.
Bushido sorrise e lo strinse dolcemente alla vita, accarezzandogli la pancia e scendendo giù a stuzzicare distrattamente la sua erezione.
- Lo so. – lo rassicurò, - Cerca solo di rilassarti. Andrà tutto bene. Proverò a fare in modo che ti piaccia. – disse, afferrando il suo pene alla base e cominciando ad accarezzarlo lentamente.
Bill mugugnò qualcosa e si spinse contro di lui, sistemandosi proprio contro la sua eccitazione più per fortuna che per reale intuito.
Fu un’ottima mossa.
Quel calore e quella consistenza stuzzicavano i suoi sensi fino a confonderlo. Si sentiva immensamente stupido, immensamente spaventato e, ciò che contava di più, immensamente libero.
Si sentiva bene.
Bushido si piegò su di lui ed aderì perfettamente contro la sua schiena. La sua pelle, liscia ed asciutta, provocò un attrito piacevolissimo contro quella già lievemente imperlata di sudore di Bill, che rabbrividì e si morse un labbro e, nello stesso momento, realizzò che probabilmente era arrivato il momento. Che quell’inaspettata – e mai tanto desiderata – vicinanza forse voleva dire proprio quello. Che c’erano.
Serrò le palpebre spingendosi contro il cuscino con un’ansia quasi dolorosa, ma Bushido non fece niente per molto tempo. Bill sentì il rumore di un cassetto che si apriva, di una mano che rovistava all’interno e poi vari suoni di pacchetti di carta e plastica che venivano scostati prelevati aperti e nel mentre le dannate dita di quell’uomo stavano strette attorno al suo cazzo e non si fermavano neanche per sbaglio.
- Okay, piccolo, ci siamo. – annunciò alla fine Bushido, fermando la mano per indossare il preservativo. – Mi dispiace di non avere niente con cui aiutare, ma di solito con le donne non mi serve.
Bill ansimò una risatina divertita.
- Si bagnano tutte appena ti vedono…?
Bushido rise con lui, dandogli un buffetto su una guancia.
- Ovvio. Ma in genere sono semplicemente delle troie.
- Un punto anche a te per l’onestà! – rise ancora Bill, scuotendo il capo, - Adesso siamo pari.
Bushido sbuffò e gli baciò la nuca, scostando lateralmente i lunghi capelli umidi di sudore e soffermandosi divertito a giocare con la lingua sul suo tatuaggio.
- Senti, farà male. – lo avvertì, vagamente apprensivo, - Non c’è proprio niente che ti obblighi a farlo, perciò se vuoi-
- Cristo! – ringhiò Bill, spingendosi contro di lui, - Non ti sembra un po’ tardi per discorsi simili? Piantala con le cazzate ed usa un po’ di saliva! Lo insegnano tutti i porno!
Bushido rise sonoramente, premiandolo con qualche carezza extra fra le cosce.
- Ma guardati. Che peccato che queste ammissioni tu le faccia solo in privato!
- Potresti evitare di prendermi per il culo? Mi ammazzi la voglia. – protestò lui, offeso.
Bushido rise ancora e Bill pensò che non capiva più se quell’uomo continuava a tenerlo lì – il culo per aria e completamente nudo – per scoparselo o per ridere di lui. In ogni caso, la cosa cominciava a farsi frustrante.
- Infelice scelta di parole, Bill. – disse l’uomo, premendosi contro di lui e stuzzicando la sua apertura con la propria erezione. Bill mugugnò, combattuto fra il desiderio di ritrarsi e quello di avvicinarsi ancora. Alla fine mandò a quel paese il buonsenso e si spinse verso il suo corpo. Bushido indietreggiò subito, - Ehi, ehi, aspetta! – ridacchiò, - Capisco l’impazienza, ma non vuoi veramente farlo in questo modo. Fidati.
- Sai che c’è?! – strillò Bill, a un passo dal dare fuori di matto, - C’è che mi sto rompendo i coglioni! – si lamentò, mentre Bushido mugugnava un “mh-hm” e si leccava una mano, - Non ne posso più di tutte queste prese in giro! Non sono un ragazzino e non sono un deficiente, quindi se hai intenzione di scoparmi scopami, altrimenti vai a fanculo e- ah! – le parole gli morirono in gola, strozzate dalla pressione umida del pene dell’uomo che, lentamente, forzava la sua apertura, costringendola ad aprirsi al proprio passaggio.
Annaspando alla ricerca d’aria, scosso dall’interno da un dolore che non ricordava di aver mai provato tanto intensamente, allungò una mano e strinse con forza la testiera del letto, afferrando con la mano libera il cuscino e cercando di sottrarsi ad una spinta che improvvisamente sembrava molto meno desiderabile rispetto a qualche secondo prima.
- Aspetta, aspetta, Bill… - mormorò Bushido, chinandosi su di lui ed accarezzandogli il collo con le labbra ed i capelli con una mano, mentre con l’altra lo teneva fermo per i fianchi, - Se adesso cominci a fare così, è la fine…
- Non- - ansimò sconnessamente, - Non ti muovere… - lo implorò, strizzando gli occhi, - Aspetta un attimo…
- Sì, sto fermo. – annuì Bushido, strofinando teneramente una guancia contro la sua e pungendolo con la barba in un movimento che, stranamente, non risultò affatto fastidioso. – Vai piano. Rilassati.
Bill rilasciò un singhiozzo strozzato e piegò il capo lungo la spalla, cercando di riprendere a respirare normalmente. Rilassarsi, diceva lui. Come fosse possibile, con un affare di quelle dimensioni piantato su per il culo! Avrebbe tanto voluto dirglielo, dirgli di stare zitto e sparare meno cazzate, ma faceva ancora troppo male, era ancora troppo strano e, soprattutto, la sensazione della sua voce carezzevole contro la pelle era ancora troppo consolatoria, e lui ne aveva ancora troppo bisogno per privarsene.
- Che devo fare, Bushido…? – piagnucolò indecentemente, passandosi una mano sugli occhi.
- Prima di tutto, non chiamarmi per nome e non parlare con quel tono, altrimenti impazzisco. – sussurrò lui contro il suo collo, - Già non è facile mantenere il controllo, non mettermi ulteriormente alla prova.
Bill ridacchiò – e come riuscì a trovare abbastanza fiato per farlo fu effettivamente un mistero.
- Penso di poterlo prendere come un complimento.
- Be’, lo era. – annuì Bushido, - Ora… - sospirò, - Fosse per me ti direi di rimanere così teso, cazzo, sei così stretto che… - si interruppe e scosse il capo. – Siccome però sono un uomo buono, ti consiglio di cercare di rilassare i muscoli.
- Senti, non è veramente possibile!
- Sì che lo è. – sorrise l’uomo, tornando ad accarezzarlo lentamente fra le gambe, - Cerca di seguire la sensazione più piacevole, non quella più dolorosa. Chiudi gli occhi, se vuoi. Tanto, l’importante è che lo spettacolo più bello me lo goda io.
- …piantala… - ansimò Bill, arrossendo furiosamente, - Stai diventando melenso…
- Sto cercando di metterti a tuo agio! – rise ancora Bushido, - E poi sto aspettando che tu mi dica che posso ricominciare a muovermi. Tra l’altro: fallo presto.
Bill biascicò una protesta imbarazzata e tornò a nascondersi contro il cuscino.
- Basta che continui con quella mano… - sospirò deliziato, mentre Bushido continuava a masturbarlo, - Muoviti… - concluse con un mugolio d’approvazione, abbracciando il cucino per accomodarsi meglio.
Bushido deglutì – la sua gola era talmente vicina alla sua schiena che poté sentire il pomo d’Adamo scivolare contro una vertebra, prima verso il basso, poi verso l’alto – e si spinse lievemente contro di lui, rilasciando un sospiro di piacere a diretto contatto contro la sua pelle. Il suo fiato era caldissimo ed umido. Bill si sentì rabbrividire fin dentro al petto, e strinse con maggior forza il cuscino, mordendosi le labbra.
Bushido riprese a muoversi con meno delicatezza, rispetto a prima, e Bill dovette rivedere in toto tutto ciò che pensava di aver acquisito come esperienza con i film porno. Non era vero, non diventava piacevole dopo un po’, non smetteva di fare male e se la mano di Bushido si fosse fermata lui non avrebbe avuto più nemmeno un motivo valido per restare lì a sottomettersi a quella tortura.
Ma la mano c’era.
E non si fermava.
Non si fermò durante le spinte, non si fermò mentre aumentavano d’intensità e velocità, non si fermò mentre Bushido si abbatteva contro di lui e gli stuzzicava un lobo coi denti, non si fermò nemmeno quando Bill sentì l’erezione dell’uomo contrarsi e poi rilassarsi in un’unica volta, rilasciando un orgasmo che si infranse come un’onda anche dentro di lui, e che poi provò in prima persona quando la mano si strinse e lo accarezzò più velocemente, dalla base alla punta, una, due, tre spinte secche, fino a che non venne.
Si lasciò andare contro il materasso con un verso gutturale al quale Bushido rispose con una mezza risata interrotta ogni tanto da ansiti sconnessi e pure palesemente soddisfatti. Rimase nascosto contro il cuscino – preda di un imbarazzo che giudicò piuttosto normale, vista la situazione – finché Bushido, dopo essersi lasciato ricadere al suo fianco, non allungò una mano a scostargli i capelli dal viso.
- Allora? – chiese l’uomo, anche lui vagamente imbarazzato, - Com’è stata, come prima volta?
- …che razza di domanda!!! – strillò Bill, afferrando il cuscino e schiacciandoselo contro il viso, - Sei un porco! Vuoi sentirti dire “oh, Bushido, sei stato uno stallone!” o che?!
- Ma lo dicevo per te! – rise Bushido, così divertito che fu costretto a piegarsi su se stesso e stringersi la pancia fra le braccia.
Bill borbottò qualcosa di incomprensibile e tirò giù solo un angolo del cuscino, spiando Bushido – ormai di nuovo placidamente disteso sul materasso – oltre il muro di piume e cotone.
Dannazione. Avrebbe dovuto smetterla di trovarlo così attraente.
- È stato traumatico… - rispose alla fine, strascicando penosamente le parole, - Però non lo dimenticherò mai, ecco…
- Oddio. – sospirò Bushido, roteando gli occhi, - Doloroso fino a questo punto?
Bill scosse debolmente il capo.
- Mi è piaciuto… - corresse, abbassando lo sguardo.
Bushido gli lanciò un’occhiata sorpresa.
- Non ti conviene ripeterlo. – lo avvertì alla fine, con un sorriso malizioso.
Bill arrossì ancora e se ne vergognò profondamente. Poi provò a muoversi e realizzò con una chiarezza piuttosto urtante che non ci sarebbe riuscito per un lungo periodo di tempo.
Sollevò nuovamente lo sguardo su Bushido.
- Senti…
- Sì. – rispose lui, senza lasciarlo terminare.
- …non sai neanche cosa volevo chiederti…
Bushido rise, afferrando il lenzuolo ai piedi del letto e portandolo a coprirli entrambi.
- Sì, puoi restare a dormire qui. – precisò, scrollando le spalle.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- Anche questa parte del discorso è sempre uguale?
Bushido lo fissò con manifesto divertimento, pizzicandogli una guancia.
- No. – rispose, - Ma a questo punto mi sembra stupido negarlo: mi farebbe piacere se restassi.
Bill si morse un labbro e risistemò il cuscino sotto la testa.
*
Lo risvegliò uno scheiße che avrebbe potuto tranquillamente ricondurre a David quei giorni in cui restava mezz’ore intere a battere contro la porta nel tentativo di svegliarlo, non fosse stato che, purtroppo per lui, l’amnesia del giorno dopo aiutava solo gli ubriachi – e neanche sempre – e quindi lui ricordava piuttosto bene tutto ciò che era successo la sera e la notte precedente.
Bushido compreso.
Aprì gli occhi e l’uomo era lì, impegnato a rovistare in un armadio che sembrava un ritratto dell’Apocalisse per quanto era incasinato, e che gli fece correre brividi di pura paura lungo tutto il corpo.
- Buongiorno… - accennò timidamente, provando a sollevarsi sui gomiti e realizzando con un certo orgoglio di non soffrire di particolari dolori addominali, contrariamente alle proprie aspettative.
Bushido lo guardò per un attimo come fosse stato un incubo diventato realtà. Poi sorrise lievemente e tornò a rovistare sul fondo dell’armadio.
- Stavo per lasciarti le chiavi di casa. – commentò, esaminando da vicino una camicia rossa inaspettatamente normale, - Non ti risvegliavi più.
- Ho sempre un po’ di difficoltà, al mattino… - biascicò imbarazzato, guardando le lenzuola. – A proposito, che ore sono…?
Bushido scrollò le spalle.
- Non ne ho la più pallida idea. – rispose sinceramente, gettando via la camicia rossa e recuperandone una se possibile ancora più normale, grigia.
Proprio in quel momento, come avesse sentito proprio il bisogno di informarlo dell’orario, il suo cellulare prese a squillare insistentemente dal fondo della tasca dei suoi jeans.
I suoi jeans.
Rotolò fuori dal letto e li cercò ovunque, per ritrovarli sotto una poltroncina di cui aveva ignorato l’esistenza per tutta la sera precedente. Rovistò nelle tasche e tirò fuori il cellulare. Ed improvvisamente capì perché il telefono avesse tanta voglia di ricordargli che ore fossero: lo stava chiamando suo fratello.
- Tomi, scusa! – piagnucolò rispondendo, prima ancora di lasciare all’altro il tempo di rimbrottarlo come avrebbe meritato, - Avrei dovuto avvertire!
- Avresti dovuto sì, testa di cazzo patentata che non sei altro! – lo rimproverò lui, bene intenzionato a non fermarsi di fronte alle sue scuse, - Non che io sia contrario a sapere che anche tu sei in grado di goderti la tua cazzo di vita, ma si può sapere dove cazzo sei?! Cazzo!
Troppi cazzi in una sola frase.
Ne aveva già avuto abbastanza per la notte!
- Scusami, mi sono fermato a dormire fuori…
- Questo lo vedo da me, grazie al cazzo! Non ci sei!
- Tomi, ti dispiacerebbe per favore essere meno volgare…?
- Fottiti tu e pure la volgarità! Muovi il culo e torna a casa, abbiamo un aereo fra tre ore e non intendo cercarti per tutta Amburgo, ma se dovrò lo farò, ed in aeroporto ti ci trascinerò per i capelli! – strepitò Tom, furioso, - E questa è una minaccia! – concluse, sbattendogli il telefono in faccia.
Bill sospirò e ripose il cellulare nella tasca dei pantaloni, accucciandosi sulla moquette accanto al letto e massaggiandosi le tempie.
Bushido lasciò finalmente andare la risata che aveva trattenuto per tutta la durata della conversazione e si avvicinò a lui, accucciandosi al suo fianco – in una posizione piuttosto comica, c’era da ammetterlo – e scompigliandogli teneramente i capelli.
- Drammi in vista?
Bill scrollò le spalle.
- Credo fosse solo un po’ preoccupato. E probabilmente ha dormito sul divano per aspettarmi. Dormire sul divano lo indispone. – sospirò, - Anche aspettarmi. – concluse, alzando gli occhi al cielo.
Bushido rise ancora.
- Poteva pure chiamare.
- Nah. Da me pretende che non lo faccia, quando sta via. – ammise con un sorriso.
- Be’, allora vestiti, dai. – sospirò l’uomo, rimettendosi in piedi, - Ti accompagno a casa. E poi devo scappare.
- Usato e gettato via! Mi spezzi il cuore!
Bushido rise e lo tirò su per un braccio.
- Adesso non fare la liceale tradita. – spiegò compitamente, - Ho da fare, stasera ci sono gli Echo e devo andare a riscuotere del favore pubblico.
- Questo spiega perché sei così in tiro… - commentò Bill, adocchiando gli ordinatissimi pantaloni e l’ordinatissima camicia che indossava, - Ti andrebbe di spiegare a mio fratello che si può fare rap ed anche vestire come persone normali, di tanto in tanto?
- E non fare nemmeno il furbo. – borbottò Bushido, tirandogli il mento in un modo che illuse Bill del fatto lui volesse baciarlo, e che per contro lo portò a ritrovarsi deluso e vagamente offeso quando si accorse che niente del genere sarebbe accaduto.
- Be’. – mugugnò cupamente, - Io stasera ho un concerto dall’altro lato dell’Oceano eppure sono qui a perdere tempo. Potresti pure essere gentile.
Bushido rise e recuperò dall’armadio una cravatta che girò attorno al collo e cominciò a maneggiare con poca abilità.
- Sono stato gentilissimo. – gli fece notare, - Ma ora ho altro da fare. Per esempio capire come diavolo si annoda questo cappio.
- Ci sono un sacco di cose che non so di te… per esempio, non sapevo che indossassi cravatte… - disse Bill, recuperando i boxer ed infilandoli saltellando sui piedi per avvicinarsi a lui.
- Infatti non lo faccio! Ed ho perfettamente ragione a non farlo! Ma stasera è importante ed il mio manager mi blatera nelle orecchie da giorni su… - sospirò, - Lasciamo perdere. Mi strozzerò e basta.
- Aspetta… - biascicò Bill, infilandosi fra Bushido e lo specchio, - Faccio io…
- Sai come fare? – chiese lui, spalancando gli occhi.
- Certo che sì! – mentì. In realtà aveva solo voglia di sentire il suo calore addosso, ancora per un po’. Ma insomma, era una persona intelligente, sarebbe pure riuscito a fare un dannato nodo ad una dannata cravatta.
Abbozzò un nodo e rimirò il proprio lavoro.
Be’, la cravatta era un disastro.
Bushido, comunque, stava bene.
Arrossì.
- Non mi pare sia proprio perfetta… - ci tenne a precisare l’uomo, ammazzando quella flebile atmosfera vagamente romantica che era riuscito a fatica a ricreare. – Ma… - continuò sorridendo, stringendolo alla vita e portandoselo vicino per baciarlo e ricostruire con quel bacio qualcosa di ancora migliore, - …va bene così. Al limite, me la faccio aggiustare da qualcuno una volta lì.
Lo lasciò andare ed andò alla ricerca delle scarpe, come nulla fosse stato, uscendo dalla stanza e lasciandolo solo davanti allo specchio, senza forza nelle gambe e con le guance bollenti come brace.
Bill trattenne a stento un grido deficiente.
Poi scosse il capo, si guardò intorno, recuperò i vestiti e chiese gentilmente dove fosse il bagno.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Language, Slash.
- L'elaborazione del lutto passa per varie fasi. Durante quarantotto tragiche ore, Tom Kaulitz non solo sarà costretto ad affrontarle tutte, ma costringerà anche i propri innocenti coinquilini a passare attraverso il suo stesso calvario. Il problema? Be', che ovviamente non è morto nessuno :D
Note: La storia di questa fanfiction è interessante XD No, davvero: di solito non lo penso, dei vari iter che descrivo nelle post-fazioni – mi limito a sproloquiare senza senso perché io amo sproloquiare senza senso – ma stavolta è stato come se il mondo intero stesse da un lato cospirando perché io scrivessi questa fanfiction e dall’altro lato perché invece non lo facessi XD
Mi spiego meglio: era il ventisei marzo di quest’anno. Nonostante i concerti del 1000 Hotels Tour fossero stati tutti annullati e rimandati a data da destinarsi, io arrivavo a casa della mia neechan, a Padova, e lei mi mostrava tutti i poster che, nei mesi, aveva accumulato per me. Fra di essi, ce n’era pure uno di Bushido, vi giuro, enorme e bellissimo <3 In realtà, la mia ossessione per Bushido – un’ossessione tutta fangirlante, perché la musica che fa non mi piace affatto – era già cominciata qualche mese prima, sempre a causa della neechan. Potete averne un assaggio nelle note finali di The Point Is, che è stata, in effetti, la prima BushiBill che ho scritto, anche se in realtà è una twincest sotto mentite spoglie.
Comunque sia, è stato in quel momento che ho cominciato a pensare di utilizzare nuovamente Bushido in una storia. Anche se allora non lo dissi a nessuno – e sì che ero circondata di fangirl che magari avrebbero preferito lo facessi: così avrebbero potuto uccidermi lì ed il problema si sarebbe risolto XD
Qualche settimana dopo, da casa di mia zia (era il primo aprile, e la data non è casuale XD) vidi su un fansite sui TH una falsa news che parlava di come Bill, risvegliatosi dopo l’intervento, avesse deciso di dichiarare al mondo il proprio amore per Bushido, e di come i due avessero deciso di lasciare entrambi lo showbiz per trasferirsi alle Maldive e vivere in pace la loro nuova vita da sposini.
La mia reazione poteva essere una sola: prima tormentare tutte le fangirl spacciando il link ovunque per vantarmi di come la “mia coppia” fosse diventata canon XD e dopo scriverci su.
C’è da dire che qui sono pure cominciati i problemi, perché non appena ho cominciato a rivelare in giro il mio piano malefico le fangirl hanno cominciato sistematicamente ad odiarmi (soprattutto la mia neechan, che ha fatto di tutto per, alternativamente, impedirmi di scrivere questa storia o impedirmi di mettere le mani su qualsiasi cosa stessimo scrivendo insieme per evitare potessi far degenerare anche quelle XD).
È così, comunque, che la trama di questa storia comincia a prendere forma.
Per poi degenerare completamente.
Avevo tenuto conto di tutti i fattori: dell’innamoramento di Bill, di un Bushido credibile e lontano dagli eccessi cui il proprio ruolo nel business musicale lo obbliga (non per altro, è solo che ci sono degli elementi, nella storia di vita di Anis, che portano tranquillamente a credere lui sia molto diverso da come appare in video), di una sorta di bonaria collaborazione fra i vari membri della band per preservare la felicità che il frontman sta provando…
Avevo pure provato a tenere conto di Tom (nel senso che sapevo che il suo ruolo in questa storia sarebbe stato quello del fratello geloso), ma davvero, non immaginavo neanche lontanamente che poi la sua gelosia potesse sfociare in questo XD E “questo”, per inciso, non è un affetto di tipo incestuoso – almeno, non nella mia visione del Kaulitzest – ma di sicuro non è qualcosa di molto normale, ecco XD
Maneggiare Tom mi ha divertita tanto, ma in realtà non posso dire di essermi divertita meno con gli altri. Ho messo in atto una situazione totalmente inedita, cercando di rivedere le “solite” caratterizzazioni che di solito impongo a questi personaggi, senza stravolgerle (perché se le uso spesso un motivo ci sarà! XD) ma anche rinnovandole, e concedendomi anche qualche caduta melensa di tanto in tanto – e chi conosce la mia produzione sa che comunque non succede tanto spesso XD
Credo che, al di là del mero fangirling, siano questi i motivi per i quali questa storia mi piace tanto. Questi, ed anche il fatto che è comunque una fanfiction piuttosto comica, già a partire dal titolo: quella dello “spring, spring!” è una formula lollosa che io e la neechan usiamo spesso, parodiando la strafamosa Spring Nicht originale, e so che lei mi odierà per questo, perché aveva giurato che non avrebbe mai letto questa fanfiction, ma questo è esattamente il tipo di titolo che suppongo potrebbe farle cambiare idea XD
Comunque sia, spero che, cadute melense e momenti emoangst gratuiti a parte, questa fic piaccia anche a voi :)
In conclusione (e sarebbe pure ora), questa storia non può che essere dedicata a quattro persone: alla mia neechan, perché non la leggerà mai XD, a Meg, perché il mio Bushido le piace <3, a Yul, perché mi ha offerto appoggio incondizionato ed è una mia fangirl *_* ed a Sara, perché ha cominciato a odiarmi dal primo momento in cui le ho detto che l’avrei scritta, visto che sapeva pure che alla fine le sarebbe toccato leggerla X3
Ovviamente, un ringraziamento speciale va fatto alla splendida Misako, perché se l’è sorbita in anteprima e l’ha pure betata <3 E ci tengo a specificarle che, se questo ringraziamento non era ancora nel documento quando gliel’ho mandato, era perché non ero ancora sicura che le andasse davvero di betare una BushiBill XDDDD :*
Grazie per aver letto fin qui (se davvero l’avete fatto! XD) ed alla prossima <3
PS: La canzone che Bill cita quando dice “questa non è casa mia, è casa loro” è veramente una canzone degli Smiths XD E si intitola There Is A Light That Never Goes Out. Ovviamente è una delle cose più emo che esistano, ma è anche molto bella <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
BITTE, SPRING, SPRING!

- …e quindi stiamo insieme.
Bill amava dare di sé l’idea di essere un tipo tremendamente egoista. Il classico carro armato che si prende le proprie soddisfazioni a tutti i costi, facendo valere la propria influenza sulle persone su cui ha una certa presa ed asfaltando senza riguardi tutti gli altri, pur di ottenere ciò che vuole.
In realtà, Bill aveva fatto propri con incredibile diligenza tutti gli insegnamenti che Jost gli aveva propinato da quando avevano cominciato a lavorare insieme.
Nello specifico, aveva trovato particolarmente gratificante – ed aveva perciò preso alla lettera ed imparato a memoria – il primo dei suoi personalissimi comandamenti: sei la colonna portante del gruppo. Ciò che farai si rifletterà inevitabilmente sulla reputazione della band. Perciò, qualsiasi cosa tu decida di fare, è alla band che devi renderne conto per prima.
Già. Mentre per Georg e Gustav non esistevano leggi – cosa che sembrava, per certi versi, gratificarli parecchio – e per Tom ne esisteva solo una ma orribile – niente al mondo ti salverà mai da chitarra e solfeggio almeno due volte a settimana – le leggi di Bill sembravano scritte apposta per nutrire il suo già spropositatamente pasciuto ego.
Per questo motivo, Bill non avrebbe mai imbastito una relazione con qualcuno senza prima darne notizia al gruppo.
Il caso di specie non faceva eccezione.
La notizia di quella che a tutti gli effetti era la prima “relazione seria” di Bill dai gloriosissimi tempi in cui era inequivocabilmente eterosessuale e sognava di sposare Linda e riempire la propria madre di nipoti, fu accolta nel loft di Amburgo con sgomento ed incredulità.
Com’era semplicemente ovvio accadesse.
- Bushido…? – articolò confusamente Tom, scrutando il proprio gemello con aria scioccata dal divano in cui era affondato quando lui, entrando in casa, aveva chiesto a tutti di sedersi – e ora gli sembrava di capire profondamente perché – dal momento che aveva da dare loro una grande notizia.
- Anis. – precisò Bill, aggrottando le sopracciglia, - È così che si chiama. Te lo ripeto da settimane.
- Ma è Bushido! – rimarcò Tom, con aria sempre più sconvolta, prendendo a gesticolare animatamente.
Bill sospirò come se avere a che fare con lui fosse la prova più straziante che gli fosse mai capitato di affrontare, e poi scosse lievemente il capo, voltandosi a guardare David, che rimaneva impassibile sul proprio sgabello, il portatile aperto ed acceso sulle ginocchia ed una sigaretta a pendere mollemente dalle labbra.
Il manager si prese il tempo di aspirare ed espirare il fumo un paio di volte, prima di dire qualcosa.
- Potrebbe essere tuo padre. – commentò quindi con un sorriso sarcastico.
- Ha solo trent’anni! – protestò Bill offeso, - Un padre piuttosto precoce, non credi?
Gustav ridacchiò a bassa voce, mentre nella mente di Tom le parole “solo”, “trent’anni” e “padre” assumevano consistenza fisica e si mettevano a palleggiare felici coi suoi neuroni.
- Be’. – riprese il manager, scrollando le spalle, - Sarete sicuramente la coppia più strana si sia vista dai tempi di Beyoncé e Jay-Z…
- Paragone più che azzeccato! – aggiunse Georg divertito, dando finalmente a Gustav la scusa per accasciarsi sul divano e ridere fin quasi a soffocarsi.
- …ma congratulazioni comunque. – concluse Jost, prima di accodarsi allegramente alle risate degli altri due.
Bill li fissò tutti e tre con malcelato disgusto, prima di scuotere teatralmente la setosa massa di capelli che gli scivolavano lungo le spalle e ritirarsi in camera propria.
Accucciato sul divano, con stampata addosso un’espressione di puro smarrimento che mal si intonava al clima ilare che pervadeva l’appartamento, Tom rimase immobile a scrutare il vuoto con aria assente, come fosse in trance ed anche bene intenzionato a restarci il più a lungo possibile.
- Dio mio, Bushido! – riprese David, asciugando una lacrima di divertimento puro dall’angolo di un occhio, - Niente male come prima storia pubblica! Prevedo grossi scossoni in casa!
- Io sono turbato! – ritorse Gustav, deciso a proseguire il gioco fin quando fosse stato possibile, - Conosciamo tutti quanto ambiguo sia il rapporto di Bill con suo fratello… non trovate quantomeno sospetto che sia andato a mettersi proprio con un rapper?!
- Per carità! – rispose David, ormai sul punto di rotolare giù dallo sgabello, stringendo fra le braccia il pc per impedirsi di lasciarlo rovinare a terra, - È il contrario, è Bill che fa presa solo su quel determinato tipo di persona! Bushido non è neanche il peggiore potesse capitargli, in realtà!
Georg si accasciò moribondo sul divano, rotolando contro Gustav e coinvolgendolo in una danza dell’ilarità che aveva dell’inquietante.
Tutto ciò che Tom riuscì a fare fu continuare a fissare il vuoto ed esalare uno sgomento “Ma è Bushido” che, oltre a rimarcare quanto aveva già fatto notare ad un fratello che, di fronte al suo shock, s’era rivelato del tutto insensibile, costrinse i suoi coinquilini a voltarsi verso di lui e prendere coscienza del fatto in quella catatonia risiedesse evidentemente un problema di una certa consistenza.
- Tom… - mugugnò David, riponendo il pc al sicuro sul tavolo, - provaci, almeno, a prenderla bene.
- Ma… è Bushido! – ripeté lui, ricominciando a gesticolare come un bambino di tre anni.
Georg roteò gli occhi.
- Eccolo che comincia…
- È Bushido! – rimarcò nuovamente Tom, - Bu-shi-do!
- Tooom… - riprese il manager, spegnendo il portatile, - Niente paranoie, su! Doveva pur succedere, prima o poi, che tuo fratello si mettesse con qualcuno!
- Ma Bushido non è qualcuno, è Bushido!
Evidentemente non c’era molto altro da dire. O da spiegare. David, Gustav e Georg emisero un sospiro simultaneo che tanto diceva su quanto fossero abituati a scene di simile follia, e poi il batterista commentò che era quasi certo il nome del rapper non fosse mai stato ripetuto tante volte come quel pomeriggio, e che quindi, probabilmente, al fianco di Anis al momento c’era il Kaulitz sbagliato.
Gustav decisamente non poteva capire. Lui non correva il rischio che, tipo, sua sorella andasse a mettersi con Axl Rose! Nessuno di loro poteva capire, perché in effetti nessuno di loro aveva una sorella in pericolo!
Tecnicamente, neanche lui, ma era una questione di insignificanti dettagli.
Si sollevò dal divano, mentre ancora Georg rantolava gli ultimi strascichi della risata che la precedente battuta di Gustav gli aveva indotto, e si diresse cautamente verso la camera di Bill.
- Lascia perdere… - lo ammonì Jost, inarcando le sopracciglia, - Non ne ricaverai niente di utile.
Tom non gli concesse risposta di alcun tipo e sparì lungo il corridoio.
Ristette più di un paio di secondi di fronte alla porta, prima di decidersi finalmente a bussare.
- Bill… - chiamò a bassa voce, scollando le lettere con manifesta difficoltà, - Posso entrare?
I passi di suo fratello si mossero veloci sul parquet, e poco dopo Tom si ritrovò di fronte il suo viso, mestamente sorridente.
- Certo che puoi entrare… - mormorò Bill, scostandosi dall’uscio per farlo passare e richiudendosi la porta alle spalle quando lui fu in camera, - Non ce l’ho con te, mi dà solo fastidio che l’abbiate presa per una barzelletta, perché proprio non lo è.
- Io… - deglutì faticosamente, - non l’ho presa per una barzelletta.
Oh, no. Non avrei proprio potuto prenderla più seriamente di così.
Bill si espresse in un sorriso minuscolo e poi lo invitò a sedersi sul letto, facendolo a propria volta.
- Avanti. – disse infine, strizzando maliziosamente le palpebre, - Chiedimelo.
Tom abbassò lo sguardo e boccheggiò confusamente per qualche secondo.
- …l’avete fatto…? – chiese infine, con aria dubbiosa.
Bill scoppiò a ridere divertito, dondolandosi giocosamente sul materasso.
- Non dovresti porre domande di cui non vuoi veramente sapere la risposta! – gli fece notare, e Tom non poté che annuire di fronte all’incontestabile veridicità di quell’assunto. – Fammi le domande giuste, Tomi. – sorrise suo fratello, sporgendosi lievemente verso di lui, - Quelle importanti.
Tom annuì ancora. Si sentiva incredibilmente stupido: a vagare per la testa, c’erano solo domande idiote. Da quanto tempo? Perché così in fretta? Perché proprio lui?
Perché non potevi restare per sempre il mio adorato fratellino perfetto in eterna attesa del vero amore? Quello che fa battere il cuore e piangere e ridere come mai prima? L’amore perfetto, il più importante di tutti?
In quel modo sarebbe stato più semplice. Uno più importante di me non sarebbe mai arrivato, e…

Scosse il capo, mentre Bill ridacchiava debolmente.
- Non essere vigliacco, Tomi. Prometto che la risposta non ti ucciderà.
Io al posto tuo non ne sarei così sicuro.
Sospirò profondamente e socchiuse gli occhi.
C’era solo da buttarsi.
Spring, spring, Tomi.
- Lo ami? – chiese tutto d’un fiato, anche se non era proprio sicuro di voler sapere la risposta.
Sul volto di Bill si aprì finalmente il primo sorriso davvero felice della giornata.
- Sì. – rispose tranquillamente, arrossendo pure un po’.
Tom digerì l’informazione ed annuì.
Superata questa…
Posso sopravvivere davvero a tutto.
- E lui ti ama? – continuò quindi.
- Dice di sì. – cinguettò Bill, stringendosi nelle spalle.
- E lo dimostra, anche?
Bill non rispose. E non ce ne fu neppure bisogno, perché il suo sorriso era già, da solo, abbastanza eloquente.
- Io proprio non capisco. – esalò infine Tom, scuotendo il capo e grattandosi la fronte, - Come cavolo fa a piacerti un tipo che ha detto in diretta nazionale che gli sarebbe piaciuto farsi fare un pompino da te?!
Bill ridacchiò a bassa voce.
- Anis è un tipo un po’ rude… - giustificò con aria sognante, - Non mi fa passare nessun capriccio, sai? Mi contesta apertamente quando crede che sbagli e non mi tratta come un moccioso cretino incapace di prendersi le proprie responsabilità. E poi non si fa scrupoli a prendermi in giro. A volte prende e mi chiama “bella figa”, per dire. Ammazzerei chiunque altro ci provasse, ma lui…
- Ti piace che ti maltratti, riassumendo? – cercò di chiarire Tom, interrompendolo con una smorfia schifata.
- Mi piace che si sia schietti e sinceri con me, Tom. – precisò Bill, guardandolo dritto negli occhi. Sorrideva ancora. – E questo dovresti saperlo anche tu.
Il biondo sospirò, abbassando lievemente le palpebre.
- Ok. – annuì alla fine, - La domanda è cretina ma devo fartela lo stesso: c’è qualcosa che io possa fare per cambiare questa situazione?
Bill rise divertito, gettando indietro il capo.
- Tomi… - lo richiamò appena, trascinando la risata.
- Sì, sì, ok. – lo fermò lui, agitando una mano, - Almeno non mi sfottere. È difficile, per me…
- Tom, avanti! – mugolò lui, abbattendosi contro una sua spalla e strusciandoglisi addosso come un gattino impaziente, - Non c’è proprio motivo di essere geloso! Eri e rimani mio fratello. – lo rassicurò, - Eri e rimani la persona più importante per me. – Tom sorrise ed annuì lievemente, lasciandogli un buffetto sulla guancia in risposta del quale Bill rise piano. – Ti vedo un po’ troppo scosso, però. – continuò il moro, dubbioso, - Forse è meglio se vai a farti una tisana, no? Vuoi che te la prepari io?
Tom scosse mestamente il capo, cercando di sorridere con più sicurezza.
- Magari vado a bere qualcosa con Georg. – rispose, - A te va di uscire?
Bill inclinò lateralmente il capo, con una smorfia pensosa.
- Penso che passerò la nottata al telefono. – confessò infine, lasciandosi andare disteso sul letto mentre Tom si alzava.
Il rasta ridacchiò a bassa voce, poggiando due dita sulla maniglia della porta.
- Povero Andreas! – ironizzò, lasciando la camera fra le risatine di Bill.
In corridoio, appoggiato in posa plastica alla porta della propria camera, antistante a quella di Bill, Georg – le braccia incrociate sul petto ed una coreografica cascata di liscissimi capelli castani a ricadere sul viso – sembrava stesse aspettando proprio lui e non avesse fatto altro da che era venuto al mondo.
- Georg! – lo richiamò Tom, simulando spavento con un saltello indietro, - Che, siamo finiti in un vecchio western? Ti mancano solo stivali e stellina da sceriffo…
Il bassista lo omaggiò con un ghigno di puro scherno e si separò dalla parete, andandogli incontro.
- Evita di fare il grand’uomo con me, signor “ma-è-Bushido”, che fino a poco fa stavo ridendo di te mentre davi di matto. – lo prese in giro, afferrandolo poi con un braccio attorno al collo e trascinandolo impietosamente verso un posto più sicuro in cui parlare.
La cucina, scelta appositamente in quanto uno dei pochissimi luoghi protetti da quattro mura in quella casa completamente priva di spazi chiusi, era effettivamente deserta. Due bottiglie di birra attendevano ansiose sul tavolo che loro le afferrassero, le stappassero e ci dessero dentro con le confessioni da Veri Uomini.
Anche se, in quel caso, le confessioni dei Veri Uomini sembravano più le lamentele di un fidanzatino tredicenne tradito.
Tom era sempre stato consapevole del fatto il suo rapporto con Bill in quel senso non fosse normale. Erano sempre stati troppo attaccati, troppo gelosi, troppo possessivi, sì, perfino troppo morbosi per potere anche solo pensare di vivere quanto li legava – che in fondo non era che un affetto puro al punto da fare paura – in modo sereno e rilassato.
Non s’erano neppure mai veramente innamorati di qualcuno, però.
Ed ecco che sorgeva il problema.
- Allora? Com’è andata?
A Georg non piaceva prestarsi a quel gioco di insistenze e domande infantili. Più che altro, era della parrocchia “esponi il problema e datti da fare per trovare una soluzione”. Indugiare sul dramma fine a se stesso lo infastidiva. Ma si piegava: in fondo, è questo quello che fai quando vuoi bene a una persona, no? Ti pieghi alle sue regole. Giochi per farla felice.
Avrebbe dovuto farlo anche lui con Bill. E farlo sul serio. Non dire “d’accordo” e poi rifugiarsi in una bottiglia di birra per esprimere tutto il proprio disappunto.
- Dice di amarlo. – borbottò guardando malinconicamente la superficie in fòrmica del tavolo.
Georg sghignazzò.
- Sarà vero. Lo conosci tuo fratello.
Tom annuì distrattamente, appoggiando il mento sul palmo della mano e lasciandosi poi andare con uno sbuffo contro il tavolo.
- Non so che fare. – ammise in un sospiro, socchiudendo gli occhi.
- Perché dovresti fare qualcosa? Non mi pare ci sia nessuna donzella in difficoltà… ed anche quando, tu in genere sei quello che le mette in pericolo, le donzelle, non quello che le salva.
Tom si concesse uno sbuffo ed una risatina divertita, e Georg si sollevò dalla sedia sorridendo vittorioso come faceva sempre quando aveva l’impressione di avere arginato un disastro che altrimenti si sarebbe dimostrato ingestibile. Circumnavigò il tavolo e in due passi gli fu accanto, schiacciandogli con forza una mano sulla spalla.
- Avanti. La mia parcella è una birra. Andiamo?
*
Passando attraverso il salotto e dirigendosi a passo spedito verso la porta, tintinnando neanche fosse stato un campanellino sotto vento a causa dell’incredibile quantità di orridi accessori argentati che indossava, Bill si premurò di informare il mondo – ovvero suo fratello, il suo manager ed i suoi due compagni di band – che stava uscendo con Anis.
Seguendo il proprio fratello con lo sguardo, tutto ciò che Tom riuscì a fare fu scattare in piedi e, sfoggiando un’aria talmente innocente da risultare perfino fastidiosa, chiedere se poteva uscire con loro.
Mentre Georg e Gustav scoppiavano prevedibilmente a ridere, David e Bill si voltarono a guardarlo, sollevando un sopracciglio e sfoggiando peraltro incredibile simultaneità.
Fu il manager a parlare per primo, incrociando le braccia sul petto e sbuffando pesantemente.
- Cos’è, Tom? – si informò acido, - Stai passando al contrattacco?
Tom lo investì con un’altra occhiata carica di studiatissima innocenza, e scrollò le spalle.
- Conoscendo il tipo, mi pare il minimo preoccuparmi per Bill. – rispose con noncuranza.
- Bill starà benissimo. – lo apostrofò duramente suo fratello, arricciando le labbra in una smorfia infastidita, - E starà ancora meglio quando Tomi la smetterà di preoccuparsi.
- Non cominciate a parlare in terza persona, è straniante. – li fermò David, frapponendo simbolicamente le mani lungo l’immaginaria scia di elettricità purissima che collegava i loro occhi, - Tom, lascia andare tuo fratello. E, per inciso, Bill: il fatto io non stia osteggiando la relazione fra te e Bushido-
- Si chiama Anis. – lo interruppe acido il moro, - Ed io ho diciott’anni! Non potresti comunque osteggiare un bel niente!
- Oh! Punti di vista. – scoccò Jost con un sorrisino spaventoso, - Dicevo, il fatto io ti permetta di uscire con Bushido – rincarò, - non deve farti pensare di poter andare impunemente in giro come non fossi tu. Cercate di essere discreti.
Bill scrollò le spalle e, con un ultimo sbuffo da diva insoddisfatta, si trascinò all’esterno dell’appartamento, premurandosi anche di sbattere ogni sfortunata porta incontrasse lungo il proprio cammino.
- Non eravamo d’accordo che non avresti fatto niente per salvare la damigella in pericolo? – scollò laconico Georg, grattandosi la pancia dal divano sul quale era sprofondato, senza staccare gli occhi dal video di LaFee che passava su Viva.
- Non eravamo d’accordo affatto. – grugnì Tom, dirigendosi speditamente verso la propria camera, - È una delle situazioni più del cazzo che abbia mai vissuto.
David lanciò un’occhiata eloquente a Georg, che rispose con un terrorizzato “Ah, no! Io ho già dato ieri!”. La stessa cosa fece con Gustav, il quale neanche lo degnò di una risposta verbale: si limitò a sollevare un sopracciglio in seguito al quale David non poté che sollevare entrambe le mani e mugolare “Ok, ok, ho capito!”, riponendo le armi.
- Pare che dovremo semplicemente aspettare che gli passi. – rifletté a bassa voce. – Perché ho come la vaga impressione che non sarà così semplice?
Georg e Gustav si lanciarono uno sguardo complice ed ugualmente rassegnato, di fronte al quale David eruppe in un sospiro di resa che sarebbe suonato deprimente pure se la situazione non fosse stata tragica come in effetti era.
Tom uscì dalla propria camera, vestito di tutto punto, non più di due minuti dopo.
- Io esco. – annunciò bellicoso, e non aggiunse altro.
Quando fu andato via, David impiegò più di un paio di minuti della propria esistenza semplicemente a rimirare il vuoto, come se questo riponesse nelle pieghe del proprio silenzio il segreto per risolvere tutti i guai che Bill aveva portato con sé riscoprendosi capace d’amare qualcos’altro oltre alla propria messa in piega per la prima volta dopo eoni.
- Contare sul vostro appoggio sarebbe ridicolo, vero? – mugolò infine alla volta del proprio batterista e del proprio bassista, i quali, nel frattempo, avevano approfittato del suo momento di silenzio per darsi ad un’entusiasmante partita di Mario Kart.
I due scoccarono un laconico no simultaneo e tornarono a perdersi nelle sbuffanti nuvolette bianche che uscivano dagli improponibili veicoli dei protagonisti del videogioco, senza più calcolarlo. David sospirò ancora, si alzò in piedi, afferrò una giacca a caso e si preparò a salvare la reputazione di Tom da un disastro pubblico.
*
Più che altro, gli sembrava strano non essere ancora stato riconosciuto.
Insomma: quel posto era ben frequentato. C’erano perfino un paio di ragazze, giovani “promesse” della Universal, con le quali avrebbe potuto giurare d’essere stato a letto – più o meno: in genere non è che ricordasse proprio i lineamenti, già dopo qualche minuto, ecco.
Tutta l’attenzione del locale, comunque, sembrava essersi focalizzata sul piccolo e relativamente appartato tavolinetto al quale avevano preso posto suo fratello e Bushido non appena erano arrivati – dopo di lui. Nonostante fossero partiti prima. Ignorare l’irrazionale rabbia gelosa che da questa consapevolezza derivava sembrava a dir poco impossibile.
D’altronde, non è che potesse proprio lamentarsi del fatto nessuno lo calcolasse: anche la sua, di attenzione, era puntata su quel tavolinetto. Anche se non per la stessa curiosità morbosa che pervadeva gli altri avventori del locale.
…be’, forse un po’ sì.
Ma era preoccupato! Ecco. Era solo preoccupato!
Una cameriera bionda gli si avvicinò e gli chiese con fare amichevole se fosse pronto per ordinare, domanda alla quale lui rispose con sincerità, se non altro perché la sua testa era talmente impegnata a registrare ogni singola azione di Bill e Bushido che non aveva proprio altri neuroni liberi da utilizzare nell’ideazione di una menzogna. E perciò: no, non sono pronto. E in realtà non voglio niente, sono qui solo perché ero preoccupato per mio fratello.
La ragazza lo squadrò come fosse stato un alieno. Lui non vide i suoi occhi, ma se li sentì scorrere addosso, così stupiti e perplessi com’erano. La cosa lo infastidì, ma be’, supponeva potesse essere una reazione normale.
- Ci porti due birre, per favore. – ordinò quindi la lamentosa voce di Jost, che Tom non stentò a riconoscere malgrado non riuscisse a staccare gli occhi dall’idillico quadretto amoroso del tavolino nell’angolo.
- Sì, signor Jost. – rispose la ragazza, con aria sommessa, dileguandosi in un secondo.
David si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte alla sua e si passò una mano sugli occhi.
- Portarlo nel locale che frequentiamo di solito, che mossa geniale! – scollò con palese fastidio, - Non sono ancora riuscito a capire se tuo fratello stia cercando di scaraventarci di peso sull’Olimpo del gossip o se stia semplicemente provando a gettarci tutti in una fossa dalla quale sarebbe troppa fatica anche solo provare ad uscire.
- Mh. – borbottò lui.
- Ovviamente, non hai sentito una parola. – notificò piatto David, inarcando le sopracciglia.
- Mh. – ripeté lui atono.
La cameriera tornò indietro, posando due boccali di birra nel centro del tavolo, e poi scomparve così com’era riapparsa, lasciandoli nuovamente da soli.
- Tom… - lo chiamò David, vagamente infastidito. – Tom, Cristo santo! – sbottò quindi, visto che lui continuava ad ignorarlo, afferrandolo per una spalla e costringendolo fisicamente a notarlo, - Non stanno facendo un cazzo! – lo informò sbigottito, - Vuoi piantarla di guardarli e starmi a sentire? Ti sei almeno accorto che sono arrivato?!
- Ma sì… - mugugnò Tom, attaccandosi alla propria bottiglia con aria offesa, - Certo che me ne sono accorto… solo che Bushido stava-
- Cosa? – chiese acido David, - Stava porgendo a tuo fratello la ciotola dei salatini? No, perché questa è l’unica cosa che gli ho visto fare da quando sono qui, e decisamente non è qualcosa che possa mettere Bill in pericolo di vita. A meno che tuo fratello non sia così idiota da strozzarsi con un’arachide, cosa della quale in effetti mi preoccuperei anche io, se solo non fossi così dannatamente infastidito da-… Tom, hai di nuovo smesso di ascoltarmi?!
Il rasta si limitò a roteare gli occhi, staccandoli nuovamente da Bill e Bushido e decidendo di voltarsi radicalmente dall’altro lato, dando la schiena ai due e tornando a concentrarsi solo sulla birra.
- Parli troppo. – fece quindi notare al proprio manager, - Non ho bisogno che tu mi dica tutte queste cose. Lo so perfettamente anche io che quello che sto facendo è assurdo.
- Ed allora, Dio mio, vuoi spiegarmi per quale accidenti di motivo lo stai facendo?! – si lamentò David, esasperato, - Passi pure il fatto che lo pedini quando esce di casa, ma dire alla cameriera quelle cose… che poi, col cazzo: in realtà, il fatto che pedini tuo fratello non passa affatto. – rifletté, aggrottando le sopracciglia, - Perché diavolo lo pedini?!
- Ma che vuoi che ne sappia… - borbottò Tom annoiato, scuotendo il capo.
- Oh, no. – lo fermò David, deciso, - Con me non funziona quest’atteggiamento. Non sei più un dodicenne.
- E questo significa che non posso più fare cose irrazionali? No, perché se stai dicendo questo, ti assicuro che il mio cervello non è d’accordo. – rimbrottò acido il ragazzo.
- Infatti non stavo dicendo questo. – sospirò rassegnato David, - Puoi pure comportarti in maniera irrazionale quanto vuoi, caro mio, ma a diciott’anni nessuno può salvarti dalla responsabilità delle tue azioni. Tutto qua.
Tom rispose con uno sbuffo infantile, poggiando il mento sul palmo della mano.
- Che vuoi che ti dica? – sbottò, - Posso dirti una qualunque cosa ti faccia stare tranquillo, tanto non cambia la realtà dei fatti. – lo sferzò con un’occhiataccia impietosa, mordendosi un labbro. – Vuoi che ti dica che non sono geloso? Che approvo questa relazione? Che non m’interessa ciò che Bill fa e può andare con chi vuole? Scegli tu. Io ripeto.
David lo fissò sbigottito, restando per qualche secondo con le labbra dischiuse, senza sapere che dire. Tom occupò quei momenti continuando a sorseggiare la birra, forzandosi violentemente a non voltarsi e tornare a guardare suo fratello che flirtava col suo uomo come se la cosa non dovesse avere conseguenze enormi sulla propria sanità mentale.
- Tom, parliamone seriamente. – cominciò David, conciliante, intrecciando le dita sul tavolo con aria professionale, - Quanto ti ha turbato questa cosa?
- Un casino, mi sembra ovvio! – strepitò Tom, posando un po’ troppo rumorosamente la bottiglia, - Altrimenti non starei qui a spiarli, ti pare?
- Perché ti rifiuti ostinatamente di capire ciò che ti dico? – mugolò disperatamente David, - Sto cercando di capire se davvero non ti aspettavi che succedesse.
Il ragazzo lo guardò dall’alto in basso, dubbioso.
- Non ne avevo idea, altro che “non aspettarselo”.
David raddrizzò le spalle, lasciandosi ricadere le mani, ancora intrecciate, in grembo.
- Secondo te com’è che Georg e Gustav l’hanno presa con tanta ironia? – chiese, adesso sinceramente stupito, - E com’è che io non ho afferrato tuo fratello per le spalle per inchiodarlo al muro e punirlo corporalmente per il guaio in cui si stava cacciando?
- Che ne so?! – quasi strillò Tom, improvvisamente più agitato di quanto già non fosse, - Perché siete di mentalità molto aperta?!
- …perché, Tom… - spiegò il manager, visibilmente confuso, - Bill e Bushido si frequentano da mesi, e tuo fratello non ha fatto che parlarne con aria adorante da quando lo conosce…
- Appunto! E questo mi ha dato già abbastanza fastidio da permettermi di… David? Perché mi guardi così?
- Tu sei ridicolo. – asserì l’uomo, incrociando le braccia sul petto, - Non so a che gioco stai giocando, ma non me la fai. Oh, no. Stai cercando di dirmi che tutto il preavviso che tuo fratello ti ha dato non è stato comunque sufficiente per elaborare questo lutto?!
- Bill non mi ha dato nessun preavviso! – corresse lui, stringendo convulsamente fra le dita il collo della bottiglia, - Preavvisarmi sarebbe stato dirmi quando l’ha conosciuto che pensava fra di loro potesse succedere qualcosa! Così io avrei preso le dovute precauzioni e-
- E cosa? L’avresti chiuso in casa? L’avresti costretto a farsi suora? O avresti cominciato a pedinarlo fin dal primo giorno?
- Non lo so, cazzo! – grugnì Tom fra i denti, battendo un pugno sul tavolo, - Non lo so.
- Probabilmente sì, mi avresti seguito fin dal primo giorno. Apposta per mettermi in imbarazzo, suppongo.
Tom sollevò lo sguardo. Bill si stagliava, in tutta la sua altezza, contro le luci al neon azzurrognole che venavano le pareti del locale. La scenografia gli dava un’aria spaventosa, quasi da fantasma vendicatore. I suoi occhi brillanti di rabbia e le gote arrossate di vergogna non lenivano in alcun modo quell’aspetto terrificante.
- Bill, ascolta… - cercò di rabbonirlo David, sollevandosi in piedi ed andandogli incontro, mentre Bushido, dal tavolino poco distante, osservava il tutto con una mano sulla fronte ed un’espressione incredibilmente preoccupata a deformare i tratti del viso.
- Portatelo via, David. – sibilò il moro, irritato, - Forse dovresti crocifiggere lui al muro. – scoccò seccamente, lanciandogli un’occhiata che avrebbe fatto sentire colpevole pure un santo.
- S… - balbettò il manager, - Ehi, adesso calmati…
Bill, però, già non lo ascoltava più. Gli aveva dato le spalle e si stava dirigendo verso il proprio tavolo con noncuranza.
- Cazzo. – mugugnò David, afferrando Tom per un braccio dopo aver frettolosamente lasciato una banconota da dieci sul tavolo, - Avanti, muoviti! – lo incitò brutalmente, trascinandolo verso l’uscita, - Non posso neanche dargli torto, stavolta! Bel casino hai combinato! Sarà un miracolo se su Bravo finiranno loro col loro idillio e non noi con le nostre cazzate!
Tom si lasciò trascinare senza opporre neanche un minimo di resistenza.
- Non volevo… - borbottò a mezza voce, fissando la strada buia mentre il vento gelido dell’Amburgo invernale gli sferzava il viso, ghiacciandolo, - Davvero…
- Certo, certo. – sbottò David con una smorfia, - Raccontalo ad uno che non ti ha sentito vaneggiare per le ultime due… che dico, ventiquattro ore, Tom!
Il rasta non aggiunse neanche una parola. Se non altro perché, in effetti, quelle scuse improvvisate così, propinate a David perché non avrebbe mai davvero avuto il coraggio di rivolgerle a Bill, sembravano false pure a lui che le aveva partorite – e che, diavolo, le pensava davvero, in un certo senso.
Continuò a farsi trascinare. Fino in macchina, fino in casa, fino in camera.
Alle tre del mattino, rinunciando del tutto al proposito di dormire, con Bill ancora disperso da qualche parte con Bushido e quell’orrendo miscuglio di gelosia, preoccupazione e senso di colpa a gravargli sul petto, fu lui stesso a trascinarsi fino al divano del soggiorno, sul quale si lasciò cadere di colpo, pesantemente, e dal quale prese a fissare la parete vuota di fronte a sé, quasi senza neanche battere ciglio.
*
Il campanello squillò alle quattro.
Tom lo benedisse.
E poi scattò in piedi, perché se avesse aspettato che squillasse ancora, probabilmente, avrebbe pure lasciato che si svegliassero tutti. E sentirsi addosso pure gli sguardi colmi di disapprovazione di Georg, Gustav e David, oltre quello che sicuramente avrebbe imbrattato gli occhi di suo fratello, non era affatto una prospettiva piacevole da affrontare.
Quando aprì la porta, però, si accorse che suo fratello non lo stava disapprovando affatto.
In effetti, totalmente ubriaco com’era, suo fratello doveva essersi a malapena accorto di lui.
- Bill… - bisbigliò incerto, mentre lo osservava rotolare mugugnante addosso a Bushido, che lo tratteneva sicuro con un braccio sotto le spalle e l’altro attorno alla vita.
Già. Perché suo fratello non era neanche solo.
- Ehi. – ridacchiò divertito Bushido, - Te lo sei perso per strada.
No, è lui che ha perso me.
O forse hai ragione tu ed io sono solo un enorme cretino.

- …grazie per averlo riportato… - esalò, rendendosi conto da solo di quanto suonasse ridicolo da dire, e ringraziando anche interiormente per la sbronza di suo fratello, che, almeno, gli avrebbe impedito di ricordare che stavano parlando di lui come fosse stato un cucciolo smarrito.
- Nnhooo… - borbottò Bill, nascondendo il viso sul collo dell’uomo che lo reggeva, - Ti ho detto che volevo andare a casa tua… questa non è casa mia, è casa loro
Bushido roteò gli occhi, cercando di rimetterlo in piedi, visto che, mentre parlava, aveva pure preso a scivolare inesorabilmente verso il pavimento.
- Scusalo. – disse a Tom, - Non è stato attento a quello che mandava giù. È veramente una fogna, quando ci si mette. – borbottò, - E, ovviamente, - aggiunse, con una nota di esasperazione nella voce che a Tom suonò incredibilmente familiare, - in macchina ha preteso di ascoltare gli Smiths. Senza offesa, eh, ma tuo fratello ha dei gusti musicali veramente di merda.
- …già… - deglutì lui con difficoltà, - glielo… glielo dico sempre anch’io…
Bushido rise apertamente e poi gli consegnò suo fratello fra le braccia.
Prevedibilmente, Bill già dormiva.
- Grazie… - ripeté Tom, abbassando lo sguardo su di lui. Aveva i capelli arruffati, russava e gli stava rotolando un rivolino di saliva giù per il mento.
- Piantala di ringraziare. – scrollò le spalle Bushido, - Non potevo mica portarmelo a casa in queste condizioni, dai. Lo affido a te, so che è in buone mani. Salutamelo, quando si sveglia. – concluse con un sorriso conciliante, prima di sollevare una mano in segno di saluto e ripartire alla volta delle scale quasi di corsa.
*
- Tomi…
Quando Bill mugugnò il suo nome, alle prime luci dell’alba del giorno successivo, Tom aveva appena cominciato a prendere sonno. Non gli ci volle molto per riscuotersi e sollevare il capo dal cuscino sul quale l’aveva posato, piantando un gomito nel materasso e poggiando il mento sulla mano, per osservare suo fratello dall’alto.
- Mio Dio, sto una merda… - si lamentò il moro, disincastrando con difficoltà un braccio dalle lenzuola e portandoselo sulla fronte, dove lo lasciò ricadere a coprire gli occhi, miagolando sofferenza, - Ma che diavolo è successo…?
- Ti sei ubriacato, ieri… - lo informò lui, deglutendo a fatica, - Perché…
- Sì. – lo fermò Bill, annuendo lentamente senza poter fermare una smorfia di dolore a increspargli le labbra, - Ok, ho ricordato. Cristo, ho un mal di testa atroce…
- Vuoi che vada a prenderti un bicchiere d’acqua?
Bill sollevò la mano dagli occhi, lanciandogli uno sguardo dubbioso.
- Lascia perdere… - borbottò alla fine, voltandosi su un fianco ed arrotolandoglisi addosso, - Tomi, perché ti sei comportato in quel modo, ieri?
Tom si mordicchiò un labbro, scivolando lentamente con un dito lungo il profilo pallido ed ossuto del viso e del collo di suo fratello.
- Sei un po’ caldo… - sussurrò, guardando altrove.
- Non cambiare argomento… - lo rimproverò Bill, afferrandogli un fianco fra le dita e minacciando di pizzicarlo a morte. – Rispondi. Non capisco proprio come tu possa essere così vigliacco, avendo un fratello coraggioso come me.
- Che vuoi che ti dica? – rimuginò Tom, scrollando le spalle, - Devi esserti preso tu tutti i geni buoni.
- Il coraggio non è genetico, cretino. – ritorse lui, pizzicandolo davvero, anche se molto più leggermente di quanto la sua minaccia non avesse lasciato intendere, - Vuoi rispondere o no?
Tom si lasciò andare ad un sospiro rassegnato, sbuffando un mezzo sorriso.
- Ero preoccupato per te. – concesse brevemente.
- Ah-ha. Guarda che qui ci sono solo io, eh. Puoi parlare liberamente. – lo rassicurò Bill, ridacchiando piano.
- Forse è proprio a te che non voglio dirlo. Non ci hai pensato? – scoccò, stringendo la presa sulla sua guancia ed evitando il suo sguardo.
Bill si separò lievemente da lui, inarcando le sopracciglia.
- Mi stai facendo un male cane, Tom.
- Oh. – si riscosse lui, lasciandogli il viso, - Scusa.
- Non quello. – rispose suo fratello, afferrandogli la mano con la propria e riportandosela sulla guancia, - Parlami.
Parlargli. Come se quello che aveva da dire fosse così semplice da sputare fuori. Come se quello che aveva da dire fosse giusto, tanto per cominciare. Come se avesse davvero qualche diritto di sentirsi così…
…preoccupato triste solo ansioso e tutto il resto…
- Ho paura che mi mancherai. – sussurrò, abbandonandosi contro di lui, nascondendo il viso sul suo collo, - Anzi, in realtà ho solo paura di perderti del tutto. Perché, per mancarmi, mi manchi già.
Bill sbuffò una risatina intenerita, stringendolo forte per le spalle.
- Guarda che io sono qui e non intendo muovermi.
- Certo, per ora. – sibilò lui, affondando il capo più in profondità, spingendosi contro la sua pelle, - Ma pensa se questa storia con Bushido dovesse andare avanti. Magari fra qualche mese davvero sentirai casa sua come se fosse più casa tua di questa, e vorrai andartene. – sospirò, scuotendo lentamente il capo come a farsi più spazio fra la sua spalla e il suo mento. – Che poi il problema non è neanche davvero Bushido. Probabilmente non sarà lui, ma prima o poi andrai via davvero. Con lui o con qualcun altro.
- Tomi…
- Io no. – lo interruppe ansioso, tornando a sollevare lo sguardo su di lui, - Io non andrò mai via con nessuno. Tu lo sai questo. È come se avessi addosso… uno di quei dannati collari con il guinzaglio che si allunga. Mi allontano, mi allontano, faccio pure il giro del quartiere, se voglio, ma è qui che torno. Sempre. Perché sei tu che lo reggi, quel guinzaglio. – si fermò un secondo, cercando di decifrare una risposta nei suoi occhi confusi e ancora lievemente velati di sonno. – Capisci cosa sto cercando di dirti?
- …a grandi linee. – rispose Bill, passandogli dolcemente una mano fra i capelli. – Però, sinceramente, al momento quello ubriaco sembri tu.
Tom sospirò profondamente, lasciandosi andare di nuovo contro di lui.
- Lo sapevo. Non hai capito.
- Ehi… - sussurrò suo fratello, sollevandogli lievemente il mento con due dita, - Guarda che ho capito. Davvero.
- Sì, certo… - si limitò a biascicare lui, scuotendo piano il capo e sospirando ancora. – Sono stanco. Ti spiace se dormo un po’?
Bill tornò a distendersi sul materasso, facendogli posto, e Tom gli si arricciò addosso esattamente come aveva fatto lui stesso pochi minuti prima.
- Tomi… - lo richiamò poco dopo, accarezzandogli lentamente una spalla, - Sai che io mi sento così ogni volta?
Lui sollevò lo sguardo, incontrando quello vagamente triste di suo fratello.
- Come?
- Ogni sera che incontri qualcuno, prendi e te ne vai… - spiegò Bill, stringendosi imbarazzato nelle spalle, - Io penso che potrebbe essere quel momento. Che “lei” potrebbe essere la ragazza giusta, che tu possa innamorarti e andartene. Davvero, lo penso ogni volta.
- Ma che stai dicendo…? – ritorse Tom, con una smorfia, - Sai che questo è impossibile, io non mi innamoro mai.
- Tu… - sbuffò lui, contrariato, - ti ostini a parlare sempre come se potessi prevedere il futuro, quando in realtà non puoi farlo! Guarda me: avevo tutto un programma, la ragazza dei sogni, quella che mi avrebbe amato per com’ero e non per ciò che mostravo in pubblico, una ragazza dolce e carina con la quale potessi condividere tutto, con cui potessi giocare a Monopoli fino allo sfinimento ogni notte, e mi sono ritrovato con… con Bushido! A lui il Monopoli neanche piace! – borbottò, gesticolando convulsamente, mentre Tom ridacchiava divertito. – Del piano originale è rimasto solo l’amore. – aggiunse poi, teneramente. – Tu non hai neanche idea delle migliaia di forme sotto le quali l’amore ti si può presentare. Una mattina ti sveglierai e ce l’avrai accanto. E magari non sarà neanche una di quelle bombe supersexy che ti ostini ad immaginare tu. – lo redarguì, con un cipiglio serio piuttosto comico, - Magari sarà Georg, chessò! – sbottò, ridacchiando a propria volta, - O comunque l’ultima persona che ti saresti aspettato, ecco.
Tom rise più apertamente, arruffandogli dolcemente i capelli.
- Con questo vuoi dire che…?
- Che non sei il solo ad avere paura. – rispose Bill, sorridendo lievemente, - Tom, noi siamo nati insieme, abbiamo sempre vissuto insieme, e quando penso alla nostra morte, lo sai, penso che anche in quel momento saremo insieme, come sempre. Tu sei in assoluto la persona più importante, per me. Senza di te, io non avrei senso.
Il rasta sorrise, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.
- Questo non cambierà mai. – continuò Bill, stringendoglisi addosso, - Perciò, io potrò pure vivere in un’altra casa, amare altre persone ed avere dei figli o chessò io, ma noi non ci lasceremo mai.
Nel sospiro stremato che Tom gli rilasciò sulla pelle, accompagnato da un sorriso sereno e disteso che era il primo degli ultimi due giorni, sembrò svanire tutta la tensione e l’angoscia delle ultime ore. Svanire davvero: come non fosse mai esistita.
- Certo che è buffo. – borbottò il biondo, accomodandosi meglio sul materasso ed accogliendo Bill sul proprio petto.
- Cosa? – rise l’altro, sistemandoglisi addosso, - Che sia bastato così poco per tranquillizzarti?
- No. – ritorse lui, ridacchiando ironico, - Che tu abbia parlato di figli. Sto cercando di immaginare alternativamente te e Bushido incinti, ma è uno spettacolo disgustoso! – rispose, ridendo sguaiatamente.
Bill lo fissò, orripilato.
- Ma tu fai veramente schifo! – strillò, salendogli a cavalcioni e cercando di soffocarlo con un cuscino.
- Probabilmente, comunque… - sospirò Tom fra le risate, liberandosi del cuscino e trattenendo Bill per i polsi, - sarebbe un buon padre. – concluse, sorridendo serenamente.
Bill sorrise di rimando, scendendogli di dosso ed adagiandosi nuovamente fra le coperte.
- Tomi? – lo chiamò poco dopo, incerto.
- Sì? – lo incitò a continuare lui, recuperando il lenzuolo e coprendo entrambi.
- Questo significa che domani posso invitarlo a cena? – chiese a mezza voce, dubbioso.
Tom si prese un secondo per riflettere.
- Adesso non esageriamo. – borbottò alla fine, scuotendo il capo con decisione. – Buonanotte.
- Ma sono le-
- Buonanotte, Bill.
- Uffa. Sei sempre il solito codardo guastafeste. – sbuffò il moro, incrociando le braccia sul petto prima di scalciare come un puledro imbizzarrito e voltarsi su un fianco, rubandogli tutta la coperta.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Onesided.
- "Conosco gli stereotipi della musica rap, ci banchetto dalla mattina alla sera. Se mai è esistito un gay-rap, qualcuno ha avuto la grazia e la decenza di affondarlo prima che diventasse ricordabile. Per un rapper non va bene essere omosessuale. Va bene circondarsi di ragazzine sculettanti e mezze nude, vestirsi comodo e fare sfoggio del denaro che possiede.
Trovare adorabile Bill Kaulitz non rientra nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon rapper.
Peraltro, trovare adorabile Bill Kaulitz, a trent'anni, non rientra neanche nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon uomo."

Note: Tanto per cominciare, io non sono una fan del Billshido u.u” Però il BushiBill onesided mi stuzzica a livelli indicibili *____* Perdonatemi se ogni tanto scappo dal seminato e travalico ogni limite imposto dalla decenza per gettarmi in queste cose oscene e senza ritegno XD Non ci posso fare niente, è la mia anima fangirlante (fangirlo su ogni livello del reale, e anche su svariati livelli dell’irreale *annuisce*) che mi impone di farlo. Io non ho colpe u_u
L’idea di scrivere questa fanfiction nasce dopo la visione di due video su YouTube. In uno dei due video, Bushido (la cui musica odio, ma che ritengo adorabile XD) ammetteva di trovare Bill carino. Nell’altro, Gülcan (donna diabolica!) faceva in modo che, durante una puntata di Viva Live in cui erano presenti i Tokio Hotel, alla vigilia degli EMA, lui e Bill si mettessero a dialogare del più e del meno al telefono, ripetendosi reciprocamente quanto si stimassero l’un l’altro XD (con qualche incursione di Tom, che però preferiamo ignorare ù.ù). Dopo aver visto questi due video, non si poteva pretendere che io restassi impassibile XD E poi è stato bellissimo terrorizzare Ana strillando “Scriverò una BushiBill onesided in cui Bushido sarà il confidente di Bill *____*!!!”. Insomma, dovevo farlo, prima o poi! XD
Piuttosto, devo rivedere il mio rapporto col personaggio di Tom -___- A parte il fatto che, ormai, in qualunque fanfiction lo infili, metto in bocca ad un altro personaggio una spudorata dichiarazione d’amore. È terribile, devo smetterla, un uomo che parla pubblicamente del proprio uccello come di un pennarello non si merita dichiarazioni d’amore tanto accorate -.-“ Ma comunque ormai mi sto affezionando ad un tipo di caratterizzazione di questo ragazzo sempre più morbosa e ossessiva çOç Da Mindless Self Indulgence (che non potete ancora leggere, perché sta partecipando ad un concorso – tifate per me!), continuando con Wide per concludere con questa, è stata una china discendente verso l’abominio çOç Tra l’altro in questa fanfiction è particolarmente odioso. È talmente stronzo che gli altri sembrano tutti vittime, pure se poi non lo sono o.o *picchia Tom*
Ovviamente (neanche a dirlo!), siccome è una fanfiction piuttosto anticonvenzionale, per il fandom in cui è inserita, e siccome è un enorme ed abominevole ammasso di seghe mentali più o meno gratuite, io la amo. T_T”. Spero piaccia anche a voi <3 Per scriverla ci ho messo tutto l’impegno di cui sono stata capace X3 Baci :*
PS: Descrivendo il primo incontro fra Bushido e Bill, mi sono limitata ad ipotizzare una puntata di Viva Live in cui fossero stato semplicemente invitati sia lui che i Tokio Hotel. Ana poi mi ha fatto capire che non è detto sia esistito un momento del genere XD Che ricordava di qualche occasione in cui i ragazzi erano stati tutti insieme, ma erano i Comet, ed io preferivo non fosse una premiazione. Siccome è anche giusto che il cervello di Ana non funzioni perfettamente, alle due del mattino (momento in cui ha letto la storia… XD), perdonate entrambe se ci sono imperfezioni simili, e limitatevi a fingere che sia successo u.u Che poi, accidenti, è una fanfiction!!! *strilla*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE POINT IS

- Credo che prima o poi dovesse semplicemente… succedere, ecco.
Bill è nervoso. Lo vedo dai suoi occhi – quando è agitato fa sempre in modo di non guardarti mai fisso. È come se avesse paura che, guardandoti troppo a lungo, potesse aiutarti ad arrivare a scoprirlo in posti che non vorrebbe mai venissero alla luce. È una delle cose che trovo più affascinanti, di lui. Il fatto che, se pure si lasci sfiorare con entusiasmo, Bill Kaulitz non si lasci mai afferrare del tutto.
Immagino che avrei dovuto semplicemente saperlo.
Ma mi rendo conto da solo di pretendere troppo. Un po’ perché io sono l’antitesi perfetta della sensibilità – e infatti mi stupisce che lui, che per contro di sensibilità ne ha fin troppa, mi abbia scelto come confidente personale – e un po’ perché non puoi pretendere di aspettarti qualcosa da qualcuno quando, in realtà, di quel qualcuno non sai niente.
Però è un discorso che fanno un po’ tutti, quando rimangono scottati da una delusione amorosa, no? Recriminano.
Io, su di lui, non ci riesco.
Resto solo io. E Tom, ovviamente.
Anche se non so se, in tutta onestà, riuscirei mai ad avercela con lui.
In fondo, per essere stati scelti come proprietà esclusiva di Bill Kaulitz, non si può davvero incolpare nessuno.
- Cos’è che è successo esattamente, Bill? – domando atono. Stavolta sono io a distogliere lo sguardo, mentre lui mi fissa con insistenza, un attimo prima di tornare a rifugiare gli occhi in un angolo di appartamento che non lo stia giudicando – vale a dire tutti gli angoli meno quello del divano sul quale sto seduto.
Dà un po’ fastidio ammettere di stare giudicando qualcuno. Non pensavo sarebbe mai accaduto. Voglio dire, mi piaceva credermi più figo di certe cose. Superiore a certi comportamenti. Migliore di tutti gli altri, da un certo punto di vista.
Per chiunque creda ancora nelle proprietà salvifiche dell’amore, ho un messaggio: evidentemente non avete capito un cazzo.
- Lo sai. – borbotta lui, stringendosi nelle spalle, - Ne abbiamo parlato.
- Hai detto che era venuto fuori l’argomento. – correggo io, - Anzi, no. – quando arrivi al punto di doverti correggere da solo, sai di stare andando fuori di testa. – Hai detto che Tom sembrava nervoso. Che questo ti inquietava. Che credevi di sapere cosa ci fosse dietro e che avevi paura di scoprire che sarebbe successo qualcosa. – aspiro una boccata dalla sigaretta e lui storce il naso. Odia che mi mostri così impassibile di fronte ai suoi drammi personali. Ultime notizie, piccolino: devo. – Sono ufficialmente un confidente da aggiornare. Se non mi dai notizie fresche, sono del tutto inutile.
Bill fa un’altra smorfia, roteando gli occhi.
- Troppo puntiglioso. – si lamenta, - Quello che è successo lo sai già. Era nell’aria.
Solo un tipo come te potrebbe credere che una cosa simile potesse davvero essere nell’aria. Quando, a galleggiare nell’aria, ci sono molecole velenose, non si respira più, Bill. E tu invece respiri, respiri eccome. Ed anch’io. Quindi no, non era nell’aria. Perché, se lo fosse stato davvero, staremmo tutti all’altro mondo già da un sacco di tempo.
- Sarà. – concedo, con un vago gesto della mano.
Bill segue gli sbuffi di fumo grigiastro nell’aria di fronte al mio viso, e sorride appena. Un sorriso a bassa frequenza. Non fossimo così vicini, neanche lo vedrei.
C’è da dire che Bill vive un po’ tutta la sua vita, a bassa frequenza. Così che, quando fa qualcosa di appena più rumoroso, finisce per sconvolgere il mondo.
- Il punto non è questo. – mi apostrofa severo, allungando due dita e pretendendo una sigaretta, che concedo malvolentieri perché odio guardarlo fumare. – Il punto è un altro. Voglio dire, cose simili le puoi provare? E, se non ti piacciono, gettarle nel dimenticatoio e dirti, “va be’, è stata un’esperienza, mai più, grazie”? – scuote il capo, si dà le risposte da solo. – No che non lo puoi fare. Io con Tom devo continuare a viverci. Io a Tom voglio bene, non posso dimenticare e passare avanti, non posso ignorare che è cambiato qualcosa. Che razza di affetto sarebbe, il mio, se pretendessi di tenere Tom in gabbia contro la sua volontà?
Ora sono io a scrollare le spalle. Pure un po’ incerto, se vogliamo.
Il fatto è che non so bene cosa rispondergli. Anche se, in effetti, sfido chiunque a trovare una risposta plausibile, in questa situazione.
- No che non puoi provarle e basta, certe cose. – ribadisce lui, più convinto. – No che non puoi dimenticare. – fa una pausa, sospira. – Tu che ne pensi, Anis?
Penso che siamo fottuti, piccolo. Entrambi.
*
Ho conosciuto Bill Kaulitz da Gülcan. Ero ospite su Viva Live e non sapevo che ci fossero anche i Tokio Hotel. Stavo cercando di evitare la tortura che rappresenta la voce di quella donna tremenda, quando ti trapana i timpani per urlarti nelle orecchie che adora la tua musica e altre cazzate varie che dimenticherà – e dimenticherai – al più presto, e perciò, avendo sentito il suo chiacchiericcio insopportabile sollevarsi da un angolino riparato del backstage, stavo orientandomi nella direzione opposta, quando sentii una voce completamente diversa dalla sua sollevarsi e coprirla. Quella voce sottile, ma decisa ed entusiasta, aveva chiamato il mio nome.
Mi voltai, e Bill stava agitando una mano nella mia direzione. Non l’avevo mai visto dal vivo, prima di quel momento.
Lo trovai adorabile.
Conosco gli stereotipi della musica rap, ci banchetto dalla mattina alla sera. Se mai è esistito un gay-rap, qualcuno ha avuto la grazia e la decenza di affondarlo prima che diventasse ricordabile. Per un rapper non va bene essere omosessuale. Va bene circondarsi di ragazzine sculettanti e mezze nude, vestirsi comodo e fare sfoggio del denaro che possiede.
Trovare adorabile Bill Kaulitz non rientra nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon rapper.
Peraltro, trovare adorabile Bill Kaulitz, a trent’anni, non rientra neanche nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon uomo.
Ma io lo trovai adorabile, sollevai una mano e risposi al saluto. Lui sorrise e mi salutò con più fervore. Questo diede modo a Gülcan di accorgersi della mia presenza, e la vidi voltarsi nella mia direzione, spalancando la bocca in un urletto concitato ed eccitato.
Terrore.
Feci segno a Bill che magari potevamo parlare dopo, feci dietro-front e mi rifugiai nel bagno degli uomini, augurandomi che, almeno lì, la pazza si decidesse a non entrare.
Ovviamente mi illudevo.
*
Quel giorno, io e Bill non riuscimmo affatto a parlare. Quando lui venne rilasciato dal diavolo in shorts e zeppe perché potesse venirmi a scovare in bagno, fu raggiunto dal suo gruppo, che non gli si scollò di dosso per tutto il tempo. Ricordo ancora lo sguardo che avevano sul viso Tom, Georg e Gustav quando provai ad avvicinarmi. C’era una tale ostilità, nei loro occhi, che mi fece paura.
In seguito, Bill mi spiegò che si trattava di “certe cose” che scrivevano alcune loro fan su noi due. Fanfiction. Ero a conoscenza del fenomeno che li riguardava, ma dannazione, non pensavo di farne parte. Comunque sia, Bill mi disse che i ragazzi erano piuttosto aperti, sull’argomento, ma solo se la cosa restava in famiglia. Ed io non ero “famiglia”, decisamente.
Non so che effetto mi fece scoprire che esistevano effettivamente delle storie in cui fra me e lui succedeva qualcosa. In ogni caso, non dovetti trovarlo poi così strano, perché mi passò addosso senza sconvolgimenti particolarmente memorabili.
Probabilmente anche perché, quando Bill me ne parlò, avevo già fatto i conti da tempo con l’attrazione che provavo per lui.
In ogni caso, cominciammo a vederci. Frequentando sempre gli stessi ambienti, è più o meno inevitabile incrociarsi di continuo. Ci si scambia i numeri, ci si saluta ogni tanto, poi ci si dice “magari usciamo a bere qualcosa” e lo si fa davvero.
Ci vuole davvero poco ad abituarsi alla presenza di una persona. A considerarla una parte più o meno importante della propria vita.
Io e Bill siamo sempre usciti da soli. Il motivo è che, pur andando incredibilmente d’accordo – io lo stimo e lui stima me, il rispetto reciproco che proviamo nei confronti l’uno dell’altro ha gettato le basi per qualcosa che non sarebbe strano chiamare amicizia – ci rendiamo entrambi perfettamente conto del fatto che non ci sentiremmo a nostro agio nel frequentare le nostre rispettive comitive. Intendiamoci: non è particolarmente strano se Bill Kaulitz frequenta Bushido, ma sarebbe quantomeno inusuale vederlo andare in giro con tutta la crew di gangsta rap tedesco al gran completo. E non è particolarmente strano se Bushido frequenta Bill Kaulitz, ma sarebbe quantomeno poco ortodosso vederlo andare in giro con un gruppetto di spensierati adolescenti germanici.
Ovviamente, di tutto questo io sono enormemente felice. Dal momento che Bill mi piace, ed anche tanto, è stupendo che possa passare un po’ di tempo da solo con lui, senza che per lui questo sia un peso.
Era naturale, però, che prima o poi le cose cambiassero. Se non altro perché pretendere che tutto rimanga immobile così come ti piace sarebbe per lo meno egoista, da parte di una persona. Perché ciò che per te è stupendo in un determinato modo, può non esserlo per un altro.
Che poi era esattamente quello che stava succedendo a Tom, anche se ci abbiamo messo tutti un bel po’ di tempo, per capirlo.
Io, per esempio, ho cominciato a capirlo anche prima di Bill. Perché, col passare del tempo, ho osservato gli sguardi di Georg e Gustav cambiare, farsi da ostinatamente ostili a distrattamente indispettiti, per poi lasciare il posto ad un’abitudine annoiata e vagamente infastidita, che si dipingeva nelle loro pupille quando passavo a prendere Bill al loft.
Ma gli occhi di Tom non sono mai cambiati. Gli occhi di Tom hanno continuato a fissarmi con violenza, per tutto il tempo. Non so se avete mai visto gli occhi di un cane bastonato, per dire. Tutto il linguaggio del corpo del cane, quando viene bastonato, viene utilizzato per far capire all’uomo che lo bastona che l’animale s’è sottomesso, e non intende provare ad attaccarlo. Questo perché il cane sa perfettamente che, se continuasse a ringhiare, riceverebbe in cambio solo altre botte. Ma gli occhi del cane, quelli no. Sono l’unica cosa che in lui rimane immutata. Brillante ed assassina.
Gli occhi del cane urlano vendetta.
Quando Tom ha capito che non avrebbe potuto impedire a Bill di frequentarmi, perché non aveva una minima ragione valida per chiederglielo, s’è comportato proprio come un cane bastonato. Ha abbassato le orecchie e nascosto la coda fra le zampe, ma ha continuato a guardarmi come stesse cercando di dirmi che, se solo avesse potuto, mi avrebbe azzannato al collo e sbranato vivo.
Quando anche Bill se n’è accorto, io e lui eravamo già piuttosto in confidenza. Ci frequentavamo almeno da un paio di mesi, ci vedevamo spesso e parlavamo a lungo. Parlare con Bill è stupendo, perché nel dialogo è talmente aperto e disponibile che tu non puoi proprio fare a meno di sentirti a tuo agio. Non è il tipo da farti pesare le cazzate che dici, pure quando ne dici tante, e ti ascolta con attenzione. Quando ha un’opinione diversa dalla tua, non te la impone come una legge, non ti getta addosso ultimatum intimandoti di cambiare idea se non vuoi vederlo uscire dalla tua vita.
Penso sia cresciuto così grazie alla lunga palestra alla quale l’ha sottoposto Tom, che di cazzate, alcune per divertimento ed altre perché le pensa davvero, ne dice tante. Comunque sia, Bill è una delle poche persone famose al mondo col quale si possa avere un vero scambio di idee. È per questo che, quando lo conoscono, le persone più grandi di lui ne rimangono affascinate.
Bill venne da me un giorno e mi disse che c’era qualcosa che non andava in Tom. Che stava cambiando. Che lo sentiva diverso.
Ed io semplicemente pensai che si stesse avvicinando il momento della verità.
*
Quando fra due persone c’è un rapporto particolare, lo vedi a distanza. Ovviamente, non è qualcosa di plateale. O meglio, è qualcosa di plateale, perché non ci vuole una sensibilità particolare per notarlo, ma non è qualcosa di platealmente esibito, ecco.
I gemelli Kaulitz non esibiscono niente, proprio per un cazzo. Se siete convinti che, sul palco, quando si strusciano l’uno contro l’altro e si lanciano occhiate languide per far strillare le ragazze, stiano esibendo qualcosa, siete fuori strada. Quello che fanno sul palco è solo lavoro. Al più, un gioco innocuo del quale hanno deciso insieme regole e modalità, molto tempo fa.
No, quello che realmente li lega si vede quando sono lontani da fan e telecamere. Quando nessuno li guarda eppure loro non si staccano l’uno dall’altro neanche a tranciare con le tenaglie il filamento invisibile che li unisce. Detto così può sembrare stupido, ma non lo è affatto.
Per la maggior parte del tempo, Bill e Tom neanche si sfiorano.
Ma non lo fanno semplicemente perché non ne hanno alcun bisogno.
Il loro collante è nascosto in profondità nei loro corpi. Sta in una fisicità essenziale ma appassionata, in quella parte non materiale di loro che è rimasta la stessa, divisa in due entità. Un organo particolare che è solo loro, e di nessun altro.
Quello che c’è nella testa delle ragazzine, dunque, non è completamente folle. Come ogni fantasia, nasce da qualcosa di molto concreto e spaventosamente reale. Tra Bill e suo fratello questa cosa c’è sempre stata. Come tutti gli altri, le ragazzine l’hanno percepita e hanno cominciato a fantasticare.
Certo, c’è anche da dire che sia Bill che Tom erano stati molto bravi a mantenere la cosa sotto controllo.
Prima che arrivassi io.
*
Devo in qualche modo assumermi la responsabilità della rabbia di Tom e della confusione di Bill, a questo punto. Se adesso siamo in tre a stare uno schifo, è solo colpa mia. Sarebbe stato giusto aspettarsi da me quella dose base di saggezza che aiuta gli adulti a non mettersi a giocare coi ragazzini, visto che si sa che, quando succede, la situazione si tramuta sempre in un disastro, ma che dire?, non ce l’ho fatta.
Sarebbe bastato tirarsi indietro al momento giusto. Non vedere Bill così spesso. Non incoraggiarlo a confidarsi.
Se fossi stato più saggio, Tom non avrebbe sentito in pericolo il suo territorio – perché Bill è il suo territorio. Se fossi stato più saggio, Tom non sarebbe uscito da ogni grazia divina – perché evidentemente è questo che gli fa la paura di perdere Bill. Se fossi stato più saggio, Tom non avrebbe mai sentito il bisogno di piantare paletti attorno ai suoi possedimenti – perché è in questo senso che va interpretato il suo gesto.
Se fossi stato più saggio, Tom non avrebbe mai baciato suo fratello.
*
- Stavamo suonando. Lo facciamo spesso, lui suona ed io canto. La maggior parte delle canzoni nasce così. A me non veniva in mente niente, perciò stavamo giocando un po’ con Monsun. E poi è successo. All’improvviso. Ha posato la chitarra, mi ha guardato, si è sporto verso di me e mi ha baciato. Si è allontanato solo per un attimo, non ha avuto il tempo neanche di riaprire gli occhi, e io non avevo ancora avuto il tempo di chiudere i miei. Mi ha detto “Volevo provare da tanto tempo”. È una cosa stupida, vero? È una giustificazione. Non ha senso giustificarti quando baci tuo fratello, non c’è motivazione che tenga, è comunque un errore. Dovresti almeno avere la decenza di stare zitto. Tom non ha alcuna decenza. Io lo so che è successo solo perché è geloso. Perché ha paura che possa scappare da lui. Perché lui senza di me non può stare. Lo dice spesso. Io so che è la verità. Però a me è piaciuto. Tom ha le labbra morbide, sai? E un buon sapore. Ed è dolce. Ed io… non lo so, mi sembra che questa cosa stia dentro di me da tanto tempo. Non mi sembra strano. Dovrebbe sembrarmi strano? Tom è sempre stato “il mio grande amore”, in un certo senso. Il fatto è che solo ora mi sembra di capire in quale senso. Prima non era così, eppure non è cambiato molto, adesso. È buffo, no? È una contraddizione così stupida… talmente stupida che non so proprio come affrontarla. Ma il fatto è che devo. Io Tom l’ho sentito sulla lingua. L’ho sentito bene, lo so che non è più la stessa cosa neanche per lui. Me lo sono sentito addosso. Lo so. Però, anche se lo so, non so cosa fare. Te l’ho già detto, è comunque un errore. Qualsiasi cosa decida, sarà sbagliata in ogni caso.
Prende fiato. Ne ha bisogno. Anche io.
- Tu che ne pensi, Anis?
Penso che tu avresti potuto prenderla meglio.
Penso che io avrei dovuto prenderla peggio.
Penso che siamo fottuti, piccolo. Entrambi.
*
Tom, a differenza di Bill, è molto aggressivo. E indisponente. Penso che questo dipenda soprattutto dal fatto che, a molti livelli, Tom sia molto più bello di suo fratello. Ha un aspetto più sano. Ha un aspetto più maschio. Ha un aspetto più sensuale. O meglio, la sua sensualità si esprime in maniera più diretta rispetto a quella obliqua di Bill. È più ingombrante, più lampante, più assoluta. Non devono piacerti “determinate cose”, per farti piacere Tom Kaulitz. Tom Kaulitz ti piace comunque, perché quando è nei paraggi l’odore del testosterone si sente a miglia di distanza. Poi, magari, se sei maschio anche tu, non desideri automaticamente di scopartelo. Ma lo rispetti o lo invidi, non c’è via di scampo. Non potrebbe mai rimanerti indifferente, e lui lo sa.
Tutto questo si traduce in una sicurezza in sé stesso e nelle proprie facoltà che ne fa un ragazzo veramente intollerabile. Un tipo che, quando ti parla e ti guarda, sta invariabilmente pensando di essere migliore di te. E non si preoccupa di fartelo sapere.
Mi aspettavo una sua visita.
Dopo aver rimesso in chiaro cosa gli appartiene, era semplicemente il passo successivo.
- So che sai tutto. – annuncia sorridendo, accavallando le gambe sulla poltrona della quale s’è impossessato. Ha un atteggiamento simile con tutto, vedo. Non poteva limitarsi a sedersi, no. Le cose su cui poggia le mani diventano sue, le ingloba, stampa loro addosso un attestato di proprietà. È inquietante.
- Cos’è che dovrei sapere? – chiedo io, fingendo ingenuità mentre mi seggo di fronte a lui sul divano.
- So che mio fratello ti ha raccontato ogni cosa. – risponde lui, senza neanche incrinare il sorriso presuntuoso che gli increspa le labbra.
- Te l’ha detto Bill?
- Non ne ha avuto bisogno. Io lo conosco, so che l’ha fatto.
Sorrido a metà. Fa un po’ male sentirlo parlare così. Fa sempre male realizzare che c’è qualcuno che capisce la persona che ami meglio di quanto non faccia tu.
- Cosa sei venuto a fare qui, Tom?
La mia è una domanda legittima. Tom sa che mi piace Bill. Lo sanno tutti, Bill incluso. Lo sanno tutti perché io non l’ho mai nascosto. E perché, anche se non mi sono mai azzardato a toccarlo, dal mio comportamento è sempre stato palese. Ed è altrettanto noto che a Bill piace la mia compagnia, piaccio io come persona e probabilmente mi vuole anche un po’ di bene, ma in quel senso proprio non mi ricambia.
Quindi, cosa cazzo voglia ancora Tom Kaulitz da me è un quesito che ho tutti i diritti di porre. E per il quale avrei ragione di pretendere una risposta.
Lui si mette comodo, allungando le gambe davanti a sé e stendendosi meglio sulla poltrona. Ne copre praticamente ogni centimetro. È incredibile, non ha bisogno di trovarsi in casa propria per essere nel suo territorio. Il suo territorio si muove con lui. È ogni luogo nel raggio di dieci metri dalla sua persona.
- Mio fratello tiene molto al tuo parere. – mi informa, sorridendo tranquillamente e intrecciando le dita dietro la nuca. – Tu, però, sei una persona normale. E non puoi capire cosa c’è tra noi. Come tutti gli altri stronzi, ti limiti a giudicare, pensare che l’incesto faccia schifo e inorridire di conseguenza. Per di più, lui ti piace…
- Tom. – lo interrompo io, deglutendo forzatamente. È orribile sentirsi messo alle strette da un diciottenne. Uno schifo. – Vai al punto.
- Il punto è molto semplice. – mi sta minacciando. La cosa tremenda è che, per farmi sentire in pericolo, non ha neanche bisogno di rendersi fisicamente aggressivo. – Tu azzardati a frenarlo con qualche giudizio moralista del cazzo, - sorridere in questo modo è più che sufficiente per spaventare qualcuno. – azzardati solo a provarci, a portarmelo via, e sei un uomo morto.
*
- Devo scusarmi per una marea di cose.
Bill sta sorridendo debolmente e sta fissando con insistenza il pavimento. Tiene le mani strette a pugno e abbandonate in grembo e respira lentamente, agitato.
- Mi dispiace di averti coinvolto in questa cosa. – mormora inquieto, - Lo so che è uno schifo. So che è una cosa pesante. Non avrei dovuto parlartene, avrei fatto meglio a sbrigarmela da solo, o a parlare direttamente con Tom. – sospira pesantemente, battendo le palpebre solo quando ricorda che deve farlo. – Non si possono caricare gli amici con problemi simili, è ingiusto.
Sono grato del fatto che usi la parola “amico” nei miei confronti.
…no, non sono grato. Ne sono felice.
E mi accorgo da solo del fatto che la mia è la stessa felicità di chi ha deciso che è già un miracolo avere dalla vita quel poco che ti permette di sentirti gratificato, quindi tanto vale entusiasmarsi anche per le piccole cose.
- Mi dispiace anche per la piazzata di Tom. – continua arrossendo, - Non so di preciso cosa ti abbia detto, ma posso immaginarlo. – ridacchia lievemente, sciogliendo i pugni e portando le mani a serrare le ginocchia, - Immaginavo anche che qualcosa di simile potesse succedere, ma non ho potuto fare niente per fermarlo. Mi dispiace davvero…
- Piantala di scusarti. – sospiro io, accomodandomi meglio contro lo schienale del divano, - Ti fa piacere che Tom sia venuto a farmi una scenata. Avanti. Siamo due persone intelligenti e non siamo due sconosciuti. Non prendiamoci in giro.
Si mordicchia incerto un labbro, lanciandomi un’occhiata imbarazzata.
- Hai ragione. – ammette alla fine, - Quando mi ha detto che era venuto a parlarti mi ha fatto felice. Ma avrei comunque preferito risparmiarti una cosa simile. So che mio fratello può essere…
- …un mastodontico rompicoglioni?
- …fastidioso. Ecco.
- Sì, anche fastidioso può andare.
Ridacchiamo sottovoce, le mani di Bill si rilassano e parte della tensione che si è accumulata sulle sue spalle scivola via con la stretta che scompare. Quando torniamo a guardarci, stiamo entrambi sorridendo più serenamente.
- Anis, non ho la più pallida idea di cosa dovrei fare. Tu che ne pensi?
Penso che mi piacerebbe darti una risposta, piccolino. Mi piacerebbe che i miei trent’anni servissero a qualcosa, di tanto in tanto, e mi dessero davvero la saggezza per aiutarti a venir fuori da tutto questo, ma la verità è che non posso. E non solo perché l’ho tacitamente promesso a Tom. Non solo perché ho paura delle conseguenza che una mia risposta netta potrebbe avere su di voi, su di noi, su tutti quanti.
Non hai la più pallida idea di cosa dovresti fare? Non sei l’unico.
- Certe situazioni non hanno una soluzione. – ammetto, stringendomi nelle spalle. – Una cosa come questa non la risolveremmo neanche se avessimo a disposizione due vite per pensarci su. A volte… - sussurro, spostando lo sguardo verso un punto meno luminoso dei suoi occhi, - ti tocca semplicemente vivertela fino in fondo e vedere dove va a parare. – sorrido, cercando di risultare rassicurante, ma non so quanto mi riesca. – Tanto non c’è niente di irreversibile. Se qualcosa va storto, se ti fai male, ci sarà comunque qualcuno che ti vuole bene pronto ad aiutarti a riprenderti.
Bill sbuffa una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Parli come me quando voglio farmi coraggio.
Io inarco le sopracciglia, stupito.
- Cioè? – chiedo curioso.
- Dici cose stupide. E convincenti.
*
Non so se lo rivedrò. È uscito da casa mia cinque minuti fa ed ho già come la sensazione che tutti gli ultimi mesi della mia vita siano stati un’allucinazione. Che lo sia stato lui. Che lo sia stato perfino Tom, nonostante la pelle d’oca che ancora provo al ricordo di ieri sera sia un segnale spaventosamente fisico della sua concretezza.
Non so neanche cosa succederà fra lui e Tom. Uscendo, Bill mi ha ringraziato per i consigli, dicendo di aver capito. Lo invidio, perché per quanto mi riguarda non ho affatto capito cosa gli ho consigliato. Ho il timore di averlo spinto fra le braccia di suo fratello, e se così fosse mi dispiacerebbe. Non perché l’incesto in sé mi faccia particolarmente schifo, al contrario di quanto possa pensare Tom. In una qualsiasi altra situazione, sì, probabilmente starei già vomitando per il disgusto, è vero. Ma c’è Bill in gioco, qui. Niente che abbia a che fare con la sua persona potrebbe mai essere percepito dai miei sensi come qualcosa di disgustoso. È così che funziona il mio corpo. È così che funziona da quando l’ho conosciuto.
No, non è per qualche bigotta ragione morale che mi dispiacerebbe aver consigliato a Bill di provarci, con Tom. È l’inevitabile certezza che soffrirà. Che soffrirà da cani. E che, quando questo accadrà, cercherà un capro espiatorio per non arrivare ad odiarsi.
Quando questo accadrà, il capro espiatorio non sarà Tom.
Sarò io.
È questo che mi dispiace.
Che, fra vent’anni, quando questa follia sarà finita, e Bill e Tom saranno tornati ad essere due fratelli normali, e dei Tokio Hotel sarà rimasto un ricordo vivo solo nelle loro teste e in quelle di qualche giovane madre di famiglia ancora affezionata alla propria adolescenza, sarò io ad essere odiato. Quello che rimarrà di me nella testa di Bill, sarà l’immagine del bastardo che l’ha convinto a fare l’errore più grosso della sua vita. Quello che rimarrà di me nella testa di Tom, sarà l’immagine del bastardo che non ha fatto niente per fermare la catastrofe in divenire. Se, malauguratamente, la cosa dovesse venire fuori, e dovessero arrivare a conoscersi i dettagli in pubblico, quello che rimarrà di me nella testa di ogni singola fottuta persona che abiti questo merdoso paese, questo merdoso continente e questo merdoso mondo, sarà l’immagine del vecchio stronzo che ha rovinato la vita di due giovani, innocenti ragazzini.
E perché, poi?
Perché di uno dei due era innamorato.
Bella fregatura.
Cosa ne penso, mi chiede lui. Penso che potrei demolire l’intero palazzo a cazzotti, al momento. Penso che è stato orribile osservare la persona che amo innamorarsi di qualcuno che considero imbattibile. Penso che mi consola che questo qualcuno, almeno, lo ricambi.
Cosa penso.
Che sono fottuto.
E che spero di esserlo solo io. Punto.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Drabble.
- Chiudere gli occhi e cercare di non pensare alle conseguenze alle volte non è l'atteggiamento migliore da adottare.
Note: Scritta poco dopo l’apparizione del famoso video che mostra Tomi fare quello di cui si parla in questa drabble. Ho sentito dire cose tremende da ogni parte, nel corso di questa faccenda. La mia opinione è che naturalmente il torto sta da entrambe le parti, come sempre in ogni ambito della vita, ma solo una delle due parti è comprensibile a livello umano. E quella parte è Tom. Ma naturalmente non saranno le petizioni di un paio di bimbeminkia infoiate a salvarlo dalle sue responsabilità oggettive :D
(Lezione di vita gratuita: amare un personaggio dello spettacolo non vuol dire millantarne la perfezione in ogni campo, ma riconoscerne i difetti e continuare a mantenerlo caro al proprio cuore nonostante essi.)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
HITTEN
3. Don't wanna see what happens next (Arcade Fire)

David si massaggia entrambe le tempie, respirando piano e profondamente, come avesse estremo bisogno di rifornire il cervello della maggior quantità d’aria possibile, per permettersi di pensare efficacemente.
- Era solo uno schiaffo, mh? – dice tetro, e Tom abbassa lo sguardo, mordendosi l’interno di una guancia. – Ti avevo chiesto di essere sincero, Tom, per prepararci bene. E ora viene fuori che l’hai inseguita per tre metri, l’hai buttata per terra e hai comunque continuato a pestarla anche dopo che era caduta?
Il ragazzo non sa che rispondere, perciò non dice niente. Per un secondo ha voglia di lasciarsi andare e chiedere a David se lui ci sia mai passato. Se si sia mai sentito in trappola. Se non abbia proprio mai avuto voglia di non pensare alle conseguenze e tirare un bel cazzotto sul naso a qualcuno che lo stava infastidendo o perseguitando o che continuava a sparare cazzate solo per il gusto di metterlo in difficoltà.
Vorrebbe dirlo davvero, ma non sa se lo aiuterebbe, nella posizione in cui è. Perciò resta in silenzio, e così come non ha pensato alle conseguenze nel momento in cui è sceso dalla macchina ed ha pestato Perrine – perfino con soddisfazione, cazzo, e lo rifarebbe – non ci pensa nemmeno adesso, chiude gli occhi e si scusa. Ma piano, a bassa voce.
- David, per favore. – quasi singhiozza Bill, allungando una mano a stringere la sua senza muoversi dal suo fianco, - Pensaci tu.
David sospira, e anche lui vorrebbe chiudere gli occhi e smettere di pensare a qualsiasi possibile conseguenza. Solo che non può.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash, Incest.
- "Non c’è nulla di equilibrato, in questo."
Note: Prima twincest che scrivo da tempi immemorabili, il fatto che io l’abbia plottata e poi abbia avuto voglia di scriverla e che sia infine riuscita a scriverla davvero è palesemente la risultante di una serie di miracoli che si sono compiuti contemporaneamente indipendentemente dalla mia volontà. Ogni tanto gli astri si allineano e succede anche questo.
In realtà è il regalo di compleanno per la mia adorata Meg :*** E infatti il prompt me l’ha dato lei in occasione dell’OTWMeme. È palese che userò quella lista di prompt come enorme sacchetto dei numeri della tombola dal quale attingere quando ho un compleanno in arrivo e non so cosa regalare al festeggiato XD Il prompt era “impossibilità di un rapporto di coppia”.
Titolo rubato a un verso di Heavy Cross dei Gossip.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
MAKE UP ALL THE RULES

Naturalmente, Tom non ricorda la prima volta che ha visto Bill. Sarebbe assurdo avanzare una pretesa del genere, Bill non è qualcosa in cui è inciampato per strada mentre stava camminando, Bill non era una possibilità che s’è poi trasformata in realtà col passare del tempo, Bill non è arrivato, Bill c’è sempre stato. C’è sempre stato come ci sono sempre certi tipi di malesseri fisici, quelli cronici, come l’emicrania. Magari passi qualche anno ignaro della loro esistenza, e poi all’improvviso esplodono e diventano tutto ciò cui tu riesca a pensare, condizionano la tua intera esistenza e, per dire, se già non stai granché bene quando ti svegli, eviti di uscire con gli amici, perché sai che poi si andrà in posti affollati e rumorosi, sai che puoi anticipare i segnali del tuo corpo e sai già che la serata potrebbe non finire bene.
Ecco, Bill era una cosa così – una specie di dramma. Essendoci sempre stato, Tom aveva imparato a contrastarlo nei modi migliori, aveva trovato da sé tutte quelle piccole medicine che potevano consentirgli in qualche modo di arginarlo, di evitare che diventasse un problema troppo ingombrante.
Fin da quando sono stati piccolissimi, Tom ha passato la propria vita a fissare paletti. Mentre suono, cerchi il più possibile di non toccarmi. Puoi avvicinarti, puoi sfiorarmi, se proprio devi, ma cerchi di non toccarmi. Mentre mangio il mio panino preferito, non mi riempi le orecchie di cazzate, ho bisogno di concentrarmi, per godermelo. Mentre stiamo guardando un film insieme, anche se piangi, non ti soffi il naso rombando come una trebbiatrice, o ti trebbio i capelli. E via così. È importante, quando condividi la tua intera esistenza con qualcuno come Bill – qualcuno che si appropria di tutto ciò che tocca per il semplice fatto che tutto ciò che tocca diventa suo – imporgli limiti simili, confini che non possa attraversare, regole entro le quali possa muoversi. Non può giurarci, per ovvi motivi, ma è quasi certo di aver imposto limiti a Bill perfino quando stavano entrambi nella pancia della loro madre.
Altrettanto naturalmente, niente di tutto questo è mai servito, perché a Bill basta un niente per prendere tutte le regole che faticosamente lui gli ha costruito attorno e passarci sopra, con la grazia di un elefante. Gli basta davvero pochissimo, un sorriso, un tocco lieve sul braccio, giocare distrattamente con le sue nuovissime ciocche bionde, masticare annoiato un chewing-gum o torturare fra le labbra un orsetto gommoso. Gli basta questo e tutte le sue regole svaniscono come un soffio nel vento, si perdono, si dissolvono, non lasciano nemmeno una traccia, come non fossero mai esistite.
E così Bill ha cominciato ad infrangere tutte le sue leggi, una ad una, dalle più stupide alle più importanti.
Quando, una notte, s’è infilato nella sua cuccetta, s’è stretto con forza contro il suo corpo e poi l’ha baciato lievissimo e appena umido sulle labbra calde e un po’ tremanti, Tom ha capito che, da quel momento in poi, cercare di arginarlo ancora sarebbe stato impossibile. Bill s’era preso tutto anche se gli era stato esplicitamente vietato, cosa avrebbe potuto fermarlo adesso che Tom s’era lasciato prendere senza nemmeno opporre un minimo di resistenza?
Ogni tanto ci pensa, e si chiede se lui e suo fratello stiano insieme. Se baciarsi, accarezzarsi, fare l’amore come può fare l’amore solo con Bill, possa significare anche “stare insieme” nel modo normalmente inteso dalla maggior parte della popolazione mondiale – amare solo una persona, desiderare di condividere gioie e dolori solo con quella persona, sempre con quella persona, finché si ha vita nelle ossa e nei muscoli. Ogni tanto se lo chiede, si chiede se quello che condivide con suo fratello sia un rapporto di coppia.
Si risponde presto da solo di no. Sarebbe impossibile. Un rapporto di coppia prevede una sorta di parità fra le due parti. Prevede compromessi, equilibrio, bilanciamenti, scambi equivalenti.
Bill prende, Tom concede.
Non c’è nulla di equilibrato, in questo.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Bill/OFC, Tom/OFC, Bill/OFC/Tom, OFC/OFC.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Underage, Het, Threesome, Incest, Femslash, What If?.
- Bill e Tom sono due gemelli normali. E non hanno mai avuto un rapporto strano. Fino ad ora.
Note: Così si conclude questa storia per la quale provo del sincero affetto, per il semplicissimo motivo che è molto bello cimentarsi in qualcosa di nuovo e scoprire di essere in grado di soddisfarsi comunque <3 Badate bene, non penso che questa storia sia perfetta e continuo ad essere quasi sicura del fatto che le sarebbe servito più spazio per essere un racconto valido, ma per ciò che è, per come si muove, per come l’ho raccontata e per cosa ci ho messo dentro, ne sono soddisfatta. È una bella sensazione e spero che anche voi l’abbiate provata leggendo <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LIEBESKETTE
CAPITOLO 1
LOVE WILL TEAR US APART

Bill e suo fratello Tom non hanno mai avuto un rapporto strano. Bill e suo fratello Tom sono sempre stati due ragazzi piuttosto normali, nonostante tutto, a prescindere dalla fama, dalle ovvie stravaganze che questa comporta ed anche dalle ovvie stravaganze derivate dal corredo genetico di una madre con un tale spiccato senso artistico da renderli entrambi un paio di piccole opere d’arte da rimirare da ogni lato fin da piccoli. Bill è sempre stato un tipo eccessivo – il trucco, i vestiti, l’atteggiamento – Tom è sempre stato un tipo estremamente sicuro di se stesso – la sfacciataggine, la supponenza, il menefreghismo – ma il loro rapporto è sempre stato più o meno normale. Due gemelli sono legittimati a prendersi certe libertà, quando – appunto – sono gemelli. Due gemelli possono anche dormire insieme, due gemelli si leggono nella mente, due gemelli ridono fra loro senza neanche dire ad alta voce la battuta che hanno pensato nello stesso esatto momento, due gemelli si sfiorano e vanno in giro appiccicati l’uno all’altro senza che questo causi sgomento da parte di nessuno. Due gemelli possono fare tutto ciò e possono anche tirarci su dei quattrini, questo è sempre stato sottinteso. Bill – che è sempre stato un tipo molto schietto – una volta s’è ritrovato a dire ad alta voce che, se lui e suo fratello non avessero fatto parte di una band, probabilmente sarebbero diventati due puttane e non sarebbe stato difficile trovarli in un angolo di strada ad offrirsi insieme per la gioia di qualche quarantenne allupato in aria di twincest omosessuale. Questo non perché ci fosse qualcosa di strano nel loro rapporto, ma perché i gemelli Kaulitz si assomigliano in maniera illegale e sono entrambi due pigroni la cui unica scintilla si risveglia nel momento in cui si ritrovano al centro dell’adorazione altrui. Non basta loro adorarsi vicendevolmente, la cosa è più complessa, più ampia, più universale. Bill e Tom non hanno l’istinto della zoccola, ma non hanno neanche due veri e propri talenti – Bill canta, ma insomma, Tom suona, ma insomma – e perciò quella sarebbe stata semplicemente l’unica strada possibile, se non avessero fatto musica: usare il loro rapporto per guadagnarci sopra. È quello che fanno anche adesso, in modi forse meno perversi, ma nemmeno poi tanto.
Quindi, Bill e Tom non hanno mai avuto un rapporto strano. Bill e Tom sono solo fratelli.
Al momento, però, Bill e Tom hanno due problemi parecchio urtanti. Primo fra tutti: il loro rapporto che non è mai stato granché strano, sta improvvisamente diventando parecchio strano. Secondo e ultimo: Bill e Tom tendono ancora ad essere solo fratelli, ma non sono gli unici fratelli. E, per quanto questo possa essere relegato nel giusto angolino buio cui appartiene per la maggior parte dell’anno, adesso non è proprio possibile ignorare quest’esistenza coordinata di tre Kaulitz adolescenti in giro per il mondo.
Sospirando profondamente, Bill si accomoda fra i cuscini del divano, stringendo l’enorme borsa Prada fra le mani e disegnando ghirigori insensati con la punta di uno stivale sulla tela perfettamente nera della valigia immobile e stesa per terra ai suoi piedi. È piena da scoppiare, per una sola settimana è decisamente eccessiva. Tom – che sta seduto proprio lì accanto e guarda il cellulare con aria incredibilmente interessata, in attesa di chissà cosa, poi – ne ha una identica posata sul pavimento nello stesso modo, ma lui è giustificato dal fatto che ha portato la giusta quantità di vestiti, sono le loro dimensioni a prendere tutto lo spazio possibile. I vestiti di Bill, invece, sono tutti minuscoli. Micro magliette, micro pantaloni, tutto piccolissimo e sottile. Però sono una quantità indecente. Non riuscirà nemmeno ad indossarli tutti, in sette fottuti giorni.
- Sono già le quattro? – chiede in un soffio. Tom non lo degna di uno sguardo.
- Quasi. – risponde però, - Hai fretta di andartene?
Bill scrolla le spalle.
- Prima andiamo, prima torniamo.
Tom si lascia andare ad un mezzo ghigno vagamente infastidito. C’è sempre stato dell’astio, fra Bill e Jörg, dettato non tanto dal risentimento nei confronti del divorzio che i gemelli hanno smesso di provare già da tempo – c’è un limite alla quantità d’odio che un essere umano può sostenere; c’è un limite anche alla quantità di tempo per il quale quel sentimento può perdurare, prima di devastarne il portatore – quanto piuttosto per una normale incompatibilità di carattere: Bill è tutto e tutto insieme, Jörg è poco e poco per volta. Jörg va più d’accordo con Tom di quanto non riesca ad andare d’accordo con Bill solo perché Tom è generalmente meno rompiballe del fratello, tutto qui, ma suo padre non piace neanche a lui. Gli vuole bene, sì, perché è suo padre, ma non è una persona che frequenterebbe se non gli fosse legato da quel vincolo biologico.
- Non sei contento di rivedere Edel? – chiede, invece di lasciarsi andare al solito “Bill, cerca di essere paziente, con papà. E non rovinare a tutti la vacanza”.
Bill si sposta a disagio sul divano. No, non è contento di rivedere Edel. Edel ha – fa rapidamente i calcoli – quindici anni. Edel è il motivo per cui i suoi genitori si sono lasciati. Edel è sua sorella, d’accordo, ma è una sorella di cui non sentiva per niente il bisogno. Edel, oltretutto, è una persona che lui non vede da anni. Doveva averne circa cinque, lei, quell’unica volta, e lui ne aveva appena otto. Tutto ciò che ricorda è una bimbetta paffuta e pallida vestita di rosa, con una disordinata matassa di capelli biondi sulla testa e degli occhi così simili ai propri da fare quasi paura. Non della stessa tonalità ambrata, però, e non con lo stesso taglio: i suoi, così come quelli di Tom, sono gli occhi di Simone; è una cosa che la figlia di Jörg non può vantare.
Se è contento di rivedere Edel? No che non è contento. L’unica cosa che lo farebbe contento, al momento, sarebbe sedersi ad un tavolino – o anche rimanere su quel divano, perché no? – guardare suo fratello negli occhi e chiedergli cosa diavolo stia succedendo fra loro. Perché stare vicini ultimamente sia così difficile. Cosa ci sia nel fondo dei suoi occhi quando lo ritrova a fissarlo dalla propria cuccetta, in piena notte. Se nel fondo dei propri ci sia la stessa cosa, ecco, questo vorrebbe proprio chiederlo, a Tom: io ci vedo la fame, nei tuoi occhi. La fame e il bisogno e il desiderio e la voglia. E non dovrebbe essere così. Però tu nei miei vedi la stessa cosa? Perché se così dovesse essere…
Lo squillo del cellulare di suo fratello lo distoglie dai suoi pensieri appena in tempo per non impattare contro qualcosa di decisamente troppo grosso e scomodo e brutto da poter essere affrontato così, alla luce del giorno. Un conto sono le mani che scivolano con finta casualità sotto le lenzuola quando è buio e nessuno le vede, un conto sono pensieri come quelli. Per pensare devi starci con la testa. Bill non può coscientemente accettare una realtà del genere. Quello è solo suo fratello. Solo suo fratello.
Tom risponde al cellulare e scambia qualche parola con Jörg. Annuisce ogni tanto, Bill segue il movimento del suo profilo e cerca invano di concentrarsi su qualsiasi-altra-dannata-cosa. Ci prova con tutte le proprie forze, cerca di pensare a suo padre, cerca di pensare alla sua compagna, cerca di pensare alla loro figlia che poi è sua sorella e fissa al centro di tutti i suoi pensieri quello per il quale, almeno, per tutto il resto della settimana lui e Tom non avranno mai occasione di ritrovarsi da soli da qualche parte.
Ti ho sconfitto, attrazione fatale, pensa prendendosi un po’ in giro, niente mani che vagano, niente occhi che bramano, niente labbra che esitano appena. Niente di niente.
Tom interrompe la chiamata e sospira.
- Sarà qui fra poco. – lo avverte quindi, - Raccogli le tue cose.
Bill solleva la borsa e tira un altro piccolo calcio alla valigia.
- Ho già qui tutto quello che mi serve. – te compreso. È un non-detto che si sente benissimo nell’aria, che parla attraverso i suoi occhi fissi in quelli del gemello, ed infatti Tom lo guarda ed inarca entrambe le sopracciglia, piegando le labbra in una smorfia infastidita.
- Non mi guardare così. – risuona la sua voce profonda nell’eco fastidiosa dell’enorme stanza vuota in cui David li ha mollati già almeno un paio d’ore fa, - Non qui.
Bill, oltraggiato, si tira indietro e guarda altrove.
- Non stavo pensando a niente. – gli dice, l’irritazione appena dissimulata nel tono offeso.
- Sto nella tua testa. – risponde candidamente Tom, scrollando le spalle e fissando a propria volta un punto a caso sulla parete di fronte, - Lo so a cosa stai pensando.
Le labbra di Bill diventano sottili come linee, mentre lui stringe le dita attorno ai manici della borsa in un gesto improvviso e violento.
- Tom-
Il cellulare del gemello squilla ancora e la loro conversazione si interrompe bruscamente, così come bruscamente era virata su quell’argomento. Tom ne è contento, perché la sola idea di potersi ritrovare a dover rispondere ad una domanda mirata di Bill lo terrorizza. Cosa diavolo potrebbe dirgli, d’altronde? Non so com’è, non so perché, ma ultimamente solo a guardarti mi viene voglia di spingerti contro la prima parete e baciarti fino a perdere il senso del tempo, dello spazio, della misura – Dio santo – della decenza? Non sono argomenti che uno dovrebbe affrontare col proprio fratello gemello. Punto e basta.
- Papà è qui sotto che ci aspetta in macchina. – dice a Bill, dopo aver chiuso la telefonata. – Andiamo.
Bill annuisce in silenzio. Non osa alzare lo sguardo. Lo lascia lì, piantato sulla punta dei propri stivali, anche quando escono in corridoio, prendono l’ascensore ed escono dal retro dell’albergo, seguiti a ruota dalle guardie del corpo, che li lasciano solo quando si infilano nell’Audi nera di Jörg, scivolando oltre lo sportello e sul sedile posteriore silenziosi e circospetti come ladri.
- Ragazzi. – li saluta loro padre con un sorriso, cercando i loro occhi nello specchietto retrovisore. Bill risponde con un sorriso piccolissimo, Tom solleva una mano e la agita appena, ma la sua espressione – oltre gli enormi occhiali a mascherina che coprono quasi metà del suo viso – non cambia di un millimetro. – Siete stanchi?
- Non particolarmente. – risponde Bill con una scrollatina di spalle, mentre le guardie del corpo finiscono di caricare le valigie nel bagagliaio della macchina e sollevano un pollice in direzione di Jörg, per informarlo del completamento delle operazioni. Jörg annuisce distrattamente e riavvia il motore, mentre osserva gli uomini entrare nelle auto di scorta ed imitarlo.
- In caso, - suggerisce ingranando la marcia ed immettendosi nel traffico di Amburgo, verso l’autostrada, - schiacciate pure un pisolino. C’è ancora tempo, prima di arrivare a casa. Ci saluteremo per bene quando saremo lì. Nicole ed Edel non vedono l’ora di rincontrarvi.
I gemelli pensano simultaneamente che sarebbe bellissimo poter dire che la stessa cosa vale anche per loro. Ma Bill ha solo voglia di sentire addosso le mani di Tom, in questo preciso istante, e Tom ha solo voglia di sentire sotto i polpastrelli la consistenza burrosa della curva morbidissima della pancia di Bill.
Bill e Tom sono due gemelli normali. Si stanno preparando ad una settimana di vacanza in casa di loro padre Jörg e, per la prima volta da quelli che sembrano secoli – e dieci anni, nella vita di un adolescente, sono effettivamente dei secoli – stanno per rincontrare la famiglia in favore della quale sono stati abbandonati.
Bill e Tom sono due gemelli normali. E non hanno mai avuto un rapporto strano. Fino ad ora.

Genere: Commedia, Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bill/David, Tom/David, Bill/Georg, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Underage.
- Bill ha fatto a pugni con un paio di bulli a scuola e Tom è rimasto fuori fino a tardi con Andreas: e seguito di tutto ciò, i gemelli finiscono in punizione e si ritrovano a dover passare una notte in casa da soli quando Simone e Gordon vengono invitati a cena fuori. Quando litigano, però, tutto precipita. E precipita anche Bill: in una realtà completamente diversa dalla propria, governata da un misterioso sovrano che manipola i luoghi e i tempi e che, soprattutto, tiene prigioniero suo fratello. Riuscirà Bill a salvarlo, o rimarrà imprigionato nel labirinto senza riuscire a trovarne l'uscita prima delle tredici ore al termine delle quali Tom verrà trasformato in un goblin?
Note: Punto primo: mi scuso enormemente perché, se non avete visto Labyrinth, questa storia probabilmente vi sembrerà una menata pure noiosa con un qualche significato nascosto (c’è è_é lo giuro! è_é) ma assolutamente dimenticabilissima. Lo è *annuisce* Ma io la amo perché, se invece avete visto Labyrinth, ci troverete dentro tante di quelle citazioni che vi verrà da ridere continuamente. Questa non è veramente una fanfiction, è un ridicolo tributo! XD
Ciò detto, il Tost ed il Biorg sono molto forti in questa storia o_ò Per quanto riguarda il Tost, sapevo che ci sarei caduta. Il Biorg invece mi ha preso in contropiede ma l’ho amato parecchio o_ò Il Bu si limita ad essere ridicolo, però insomma, almeno becca i baci =P
E sì, l’omino baffuto è Eko Fresh. Sono spiacente, ma lui era perfetto, punto XD
Poi, be’, insomma, non ho molto altro da dire. Scritta per il terzo contest della Jost Fiction, alla fine avrebbe voluto essere molto più erotica però non ce l’ho fatta XD Era decisamente decisamente underage ed un po’, lo ammetto, mi fa senso, a questi livelli. Quattordici anni sono davvero troppo troppo pochini per farsi mettere le mani addosso da un re dei goblin trentenne ;_;” Chiedo perdono a Tomi che si struscia, povero cuore. Comunque la scena era puccina! XD Mi sa che sono andata un po’ fuori tema, ma Yulin e Tabata mi perdoneranno. Al limite, mi creano un premio apposta. So che lo vogliono anche loro. Questa storia è FOLLE XD
Comunque tendenzialmente sarebbe una Bost. <- wtf. *muore*
Ora basta, sono le cinque del mattino e scrivo ininterrottamente da quasi sei ore. Credo che andrò a morire nel mio letto, per ciò che resta di questa notte assurda. Grazie della lettura e spero non vi siate annoiati troppo <3
PS. Quando ho scoperto che labirinto, in tedesco, si dice allo stesso modo che in inglese, volevo morire. Perché ho già una Labyrinth, fra le mie storie.
Fortunatamente, il tedesco ha degli articoli che con gli articoli inglesi non c’entrano un beneamato. Grazie WordReference -.-“
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DAS LABYRINTH
“Will I hold you again?” (The Space Between – Dave Matthews Band)

Simone, bellissima nel proprio vestito in raso nero, aderente e lungo e liscio e splendido – e Bill avrebbe tanto voluto rubarglielo, tagliuzzarlo qua e là e farne una maglietta niente male da indossare sopra la maglia a rete – rimase ferma sulla porta un paio di minuti abbondanti, squadrando entrambi i propri figli con un cipiglio serio e severo.
- E non si esce. – precisò, - Siete in punizione.
Bill mugolò.
- È Tom che è tornato tardi ieri notte, non io… - disse affranto, arrotolandosi in un angolo del divano mentre suo fratello si inorgogliva ripensando alla precedente nottata, passata con Andreas a fingersi diciottenne per rimorchiare a Magdeburgo.
- Tu devi ancora finire di scontare la tua pena per la rissa, Bill. – gli ricordo Gordon, avvolto in un completo da sera che lo faceva sembrare solo più ridicolo del solito, e già in genere lo era parecchio.
- Ma non è stata colpa mia! – ricordò il ragazzino, agitandosi fra i cuscini, - Sono stati quegli stronzi a-
- Un’altra parola, Bill, - minacciò sua madre con un sorriso bellissimo, fiero e mortale, - e ti aggiungo un’altra settimana alla punizione. D’accordo?
Il ragazzo sbuffò ed afferrò la copertina abbandonata in mezzo al divano, avvolgendocisi stretto col preciso intento di non lasciarne neanche un centimetro al fratello.
- Fate i bravi. – commentò un’ultima volta Simone, già in procinto di uscire. – Torneremo prima di mezzanotte. – e così dicendo abbandonò la casa, seguita a ruota dal proprio compagno.
Bill lanciò un’occhiataccia a Tom, per proprio conto ancora perso nei ricordi della sera precedente e ghignante e felice come se tutto fosse perfettamente perfetto attorno a lui.
- Io ti odio. – sibilò maligno, riportando l’attenzione del fratello su di sé. Lui lo guardò stralunato, come lo stesse vedendo in quel momento per la prima volta.
- Billi…? – fece, spalancando gli occhioni castani ed allungando una mano incerta verso di lui.
- Niente Billi! – strillò il ragazzo, richiudendosi a palla nell’angolo, - È tutta colpa tua! Se ieri non avessi deciso di fare il cretino e restar fuori con quell’altro deficiente fino alle dannate tre del mattino, oggi saremmo fuori a divertirci!
- Be’, io sì. – precisò il biondo, sistemando dietro un orecchio una ciocca di quei suoi disordinati capelli dalla forma improponibile, - Tu no, Bill, perché come ti ha detto mamma prima sei ancora in punizione.
- Non capisco perché solo io sono stato messo in punizione per la rissa! – si lamentò ancora il moro, incrociando le braccia sul petto, - Sei stato coinvolto anche tu!
- Be’, sei stato tu a cominciare… - rifletté Tom, inarcando le sopracciglia, - Io sono solo venuto a ripescarti prima che ti spaccassero qualche osso. – annuì con convinzione.
- Non mi avrebbero spaccato nessun osso. – ringhiò Bill, furioso, - Li stavo riducendo tutti in poltiglia. E comunque il punto non è questo, il punto è che sei uno stronzo e ti odio!
Tom sospirò e sollevò gli occhi al soffitto, come in cerca di un qualche aiuto da parte delle divinità dei piani alti – visto che quelle dei piani bassi avevano già interferito notevolmente sulla sua vita dotandolo di un gemello cattivo.
- Bill, fai il bravo. – suggerì pazientemente, - Niente rotture di palle, ho Lancillotto in ostaggio.
Il ragazzo spalancò gli occhi, oltraggiato.
- Tu hai… - annaspò, stringendo le dita come tenaglie attorto alla coperta, - hai preso Lancillotto!!! Sei senza cuore!!! Ridammelo!!!
- È in un luogo sicuro. – lo prese in giro il biondo con un mezzo ghigno, - Ma lo riavrai solo se riuscirai a passare questa serata con me senza farmi impazzire, fratellino.
Bill mugolò scontento e si raggomitolò ancor di più nel proprio angolo, frugando fra i cuscini alla ricerca di qualcosa. Tom lo osservò incuriosito, inclinando lievemente il capo.
- Cosa stai combinando? – chiese dubbioso, sporgendosi verso di lui.
- Cerco Labyrinth. – borbottò in risposta Bill, riuscendo finalmente a mettere le manine artigliate sulla sua personalissima bibbia foderata di rosso ed aprendola ad una pagina a caso sulle ginocchia. Quale pagina fosse non era importante: aveva letto e riletto quel libro tante di quelle volte che ormai lo conosceva a memoria, perciò era perfettamente in grado di riprendere il filo del discorso qualsiasi fosse la pagina su cui posava lo sguardo.
Tom sbuffò e roteò gli occhi.
- Non potresti, per una volta nella tua vita, mettere via quel coso e stare un po’ con me, visto che ultimamente ci vediamo pochissimo? – si lamentò pigolante.
- Questo perché tu e l’altro deficiente siete sempre in giro a rimorchiare. – borbottò Bill senza staccare gli occhi dal libro.
- Be’, tu potresti venire con noi. – ritorse Tom in un borbottio irritato.
- Tomi, non ha senso dire che vorresti uscire con me per andare a rimorchiare, dato che è implicito che quando si rimorchia si sta con altri… - gli ricordò il moro soprappensiero, già perso fra le righe.
Tom ringhiò e si alzò in piedi di scatto, muovendosi con rabbia lontano dal divano.
- E va bene, fai un po’ quel cazzo che vuoi. – lo rimproverò, - Io vado di sopra a chiamare Andi, sperando che anche lui sia stato messo in punizione. – biascicò lamentoso, dirigendosi verso le scale, - E torturerò Lancillotto per ripicca, sappilo!
Bill sospirò ed annuì. Suo fratello sapeva bene che qualsiasi ferita inflitta al corpo di Lancillotto si sarebbe poi miracolosamente trasformata in una ferita molto più grave al suo, di corpo, e dal momento che Bill era ragionevolmente convinto che suo fratello non ci tenesse poi così tanto a ritrovarsi la punta di un anfibio su per il culo, era piuttosto tranquillo riguardo la sorte del suo orsacchiotto favorito.
Continuò semplicemente a leggere, avvolgendosi nella coperta e lasciandosi trascinare dalla fiaba.
Da sopra, arrivava in un’eco indistinta la voce di Tom che, furioso, strillava nella cornetta quanto fosse orribile avere un fratello gemello, quanto ancora più orribile fosse avere Bill come fratello gemello e quanto invece sarebbe stato meraviglioso che lui e Andreas fossero stati fratelli, magari non gemelli, ma comunque imparentati; sarebbero stati sicuramente molto più complici e si sarebbero divertiti molto di più e bla bla bla… Bill si chinò in avanti, recuperando una scarpa da terra e lanciandola con forza in aria, fino a colpire il basso soffitto sopra di sé, provocando un inquietante rumore contro l’intonaco.
- Vuoi stare un po’ zitto?! – borbottò offeso, - Non riesco a concentrarmi!
La risposta di suo fratello alle sue lamentele fu, ovviamente, continuare a parlare più forte.
Bill serrò la mascella e socchiuse le palpebre, scontento. Tom era arrabbiato ed a lui dava fastidio, quando lo era. Primo, perché la sua rabbia se la sentiva nello stomaco – una delle tante controindicazioni della gemellarità, supponeva. Secondo, perché Tom si arrabbiava davvero solo per cose che riguardavano lui, probabilmente perché, in un certo senso, riteneva che solo lui fosse un argomento tanto serio da meritare rabbia. In tutti gli altri ambiti della vita, Tom era sempre o quasi sempre allegro e spensierato, ma quando si parlava di Bill se la prendeva ogni volta come lo stessero ricoprendo di offese mortali.
Bill odiava essere oggetto d’odio. Perché sentiva il bisogno fisico di odiare a propria volta, quando succedeva.
E lui non voleva affatto odiare Tom.
- Re dei Goblin, Re dei Goblin… - sussurrò quasi a prendersi in giro da solo, perfino sorridendo un po’, - ovunque ti trovi adesso, porta via questo ragazzo, lontanissimo da me… -
“È insopportabile, Andi…”, sbraitò Tom dal piano di sopra, “Certe volte penso che sarebbe stato meglio se non fosse mai venuto fuori, lo stronzo”.
Bill abbassò lo sguardo, incassando la testa nelle spalle.
Quello aveva… fatto male.
- Desidero proprio che i goblin ti portino via… - esalò in un sussurro estenuato, - All’istante.
Dal piano superiore non venne più alcun suono. Non il chiacchiericcio furioso di suo fratello e nemmeno il suo muoversi circolarmente avanti e indietro per la stanza, strisciando sul pavimento con le suole di gomma delle scarpe da tennis. Immaginò dovesse aver chiuso la conversazione ed essersi messo a letto. Tom poteva restare sveglio per giorni e giorni, quando era felice, ma quando si arrabbiava o si intristiva si spossava subito ed era capace di dormire per sempre. Almeno finché non fosse sbollita la rabbia.
Bill sospirò e richiuse il libro, lasciandoselo scivolare giù lungo le gambe per poi recuperarlo e posarlo sul cuscino accanto a sé. Si avvolse meglio nella coperta – c’era un freddo incredibile, in casa, e fuori pioveva a dirotto. Sperò che sua madre e Gordon avessero portato con loro un ombrello – e cominciò a salire pigramente le scale.
- Tomi… - chiamò già a metà della rampa, - Senti, facciamo pace prima che tu ti addormenti e mi tenga il broncio fino alla fine dei secoli…?
Dalla stanza continuò a non giungere alcun suono. Anche la luce era spenta, non filtrava niente da sotto la porta.
Bill deglutì, riportando alla memoria le frasi pronunciate mentre stava ancora rannicchiato sul divano.
Non era veramente possibile che…
- Tomi… - chiamò ancora, aprendo la porta e fermandosi sulla soglia, - Tomi, stai bene…?
La stanza era vuota. Vuota, buia e silenziosa. Dal balcone aperto, il temporale invadeva la casa, bagnando il letto e i mobili e il pavimento e infrangendo col frastuono dei tuoni il silenzio irreale dell’ambiente. Bill deglutì e si strinse nella coperta, raggiungendo la finestra e richiudendola col gancio, mentre abbandonava la stanza e si muoveva lungo il corridoio, alla ricerca del fratello.
Naturalmente, Tomi non era da nessuna parte.
Il cuore stretto in una morsa e tutti i muscoli contratti, Bill tornò in camera e si guardò intorno.
- Tomi, non mi sto divertendo… - mugugnò, sperando solo che suo fratello si ricordasse di essere un epocale cretino ed avesse voglia di ricordarlo anche a lui, magari strisciando fuori dal letto con un urlo per spaventarlo. O qualcos’altro di altrettanto stupido, purché – dannazione – fosse ancora lì da qualche parte.
Una voce ridacchiò alle sue spalle, e Bill si voltò di scatto per trovarsi di fronte… niente. Il buio della stanza e nient’altro.
- C’è nessuno…? – chiese con aria incerta, avanzando verso il luogo dal quale la voce era arrivata e guardandosi intorno con aria circospetta.
Una voce diversa, più roca, ma dallo stesso timbro stridulo della prima lo raggiunse nuovamente alle spalle. Bill fece per voltarsi ma non ne ebbe il tempo: a metà della torsione si accorse di un’ombra – qualcosa di piccolo e peloso – che scompariva dietro il letto. Ed altre risate. Risatine inascoltabili, spaventose, cominciarono a fioccare da ogni angolo della camera, e mentre Bill si metteva al centro, avvolto dalla coperta come dovesse schermarlo contro i mali del mondo, qualcosa di pesante sbatté più volte contro il vetro della finestra – thud thud thud – accompagnato da un battito d’ali che gli diede i brividi e gli annodò lo stomaco. Bill girò sui tacchi e vide un’enorme civetta bianca battere con forza contro le imposte, pressando le zampe artigliate sul legno come a volerle spalancare. Una volta, due volte, tre volte, e poi la finestra cedette sotto il peso dei colpi, aprendosi. Bill si coprì istintivamente il capo, piegandosi un po’ su se stesso mentre l’enorme uccello attraversava la stanza fermandosi dal lato opposto.
Quando Bill riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, il battito d’ali era cessato. Si voltò a guardare verso il punto nel quale avrebbe dovuto trovarsi il volatile, ma la civetta non c’era più. Al suo posto, però, c’era un uomo.
Doveva essere alto più o meno quanto lui, ma sembrava incredibilmente più… vecchio probabilmente non era la parola giusta, perché in realtà sembrava anche incredibilmente giovane. La sua era un’età indecifrabile, ma la sicurezza che si sprigionava dalla sua persona e soprattutto da quegli occhi azzurrissimi che gli teneva puntati contro – con una sfacciataggine che lo turbava – parlava di una saggezza acquisita con anni… secoli di vita.
Era una saggezza strana, comunque.
Era spaventosa. Quegli occhi erano spaventosi.
Bill si avvicinò, muovendosi quasi contro la propria volontà.
- Tu sei… il Re dei Goblin… - disse senza fiato, stringendosi la coperta attorno alle spalle.
L’uomo chinò il capo in segno d’assenso, sorridendo lievemente, quasi fosse solo divertito dalle sue esitazioni.
- M-Mio fratello… - disse Bill, deglutendo appena.
- Ciò che è detto è detto. – rispose l’uomo, rimanendo immobile contro la porta, le braccia incrociate sul petto.
È successo davvero, si disse Bill, mordendosi un labbro, per colpa mia…
- Ti prego… - annaspò, le lacrime agli occhi, - dov’è adesso?
L’uomo sollevò appena il mento squadrato, gli occhi celesti a dardeggiare su di lui ed i corti capelli castani scossi appena dal vento furioso che invadeva la stanza.
- Sai molto bene dov’è. – rivelò severo, senza muoversi di un centimetro.
- Ti scongiuro… - continuò Bill, indifeso e smarrito, - riportamelo.
L’uomo si mosse verso di lui, scuotendo lentamente il capo.
- Bill… - suggerì suadente, a bassa voce, - dimentica tuo fratello.
Il moro spalancò gli occhi.
- Non posso! – strillò, stringendo i pugni, - Non voglio! Ridammi mio fratello!
L’altro non mostrò di essere particolarmente colpito dalla sua disperazione, e si limitò a sollevare una mano.
- Io ti ho portato un regalo… - disse semplicemente, mentre una sfera di luce si concentrava sulle punte delle sue dita fino a concretizzarsi in un globo trasparente. – È un cristallo magico. – rispose con un sorriso furbo alla domanda che Bill non ebbe fiato e coraggio di porre, - Se guardi al suo interno, puoi vedere i tuoi sogni. – si avvicinò ancora, sussurrando, - Quelli più profondi, quelli che non hai nemmeno capito di stare sognando. Però – continuò, separandosi sbrigativamente da lui, - non è certo un regalo da dare ad un ragazzino che si preoccupi di cose futili come un fratello lagnoso.
Bill rimase immobile e silenzioso, in attesa del resto.
- Se lo vuoi, dimentica tuo fratello. – disse infatti l’uomo, sorridendo conciliante.
Il ragazzo si morse nuovamente un labbro, incerto.
- Non posso. – disse poi, - Ti prego, per favore, dimmi-
- Bill. – tuonò l’uomo, mentre la sfera di cristallo si trasformava in un serpente – un serpente, Dio! – fra le sue dita. – Non sfidarmi. – concluse, prima di lanciargli il serpente addosso.
Bill urlò, raggomitolandosi su se stesso mentre percepiva distintamente le spire del rettile avvolgersi attorno al suo collo, ma la sua paura si affievolì e scomparve – ed in breve ne rimase solo il battito un po’ accelerato del suo cuore – quando si accorse che il serpente s’era trasformato in uno scialle colorato ed era poi caduto a terra. Fra le risatine dei goblin alle sue spalle, per le quali neanche si voltò – aveva già capito che non ne avrebbe comunque visto nemmeno uno.
Si rimise dritto e deglutì, stringendo i pugni e cercando di farsi forza.
- Dimmi dov’è. – insistette, - Dimmi dov’è mio fratello.
L’uomo sospirò annoiato e stese un braccio verso la finestra, indicando all’esterno.
- È lì. Nel mio castello. – concesse disinteressato.
Bill seguì il dito puntato e guardò fuori. Il mondo non era più quello che ricordava. Dove avrebbero dovuto esserci la notte e un temporale e le vie scure di Loitsche c’era invece un enorme e intricatissimo labirinto di piante e mura, ed oltre un grande castello che s’intravedeva appena nell’aria rossiccia che avvolgeva tutto e che sembrava infuocata.
Bill lasciò ricadere la coperta – non c’era più nemmeno freddo – e si mosse. Quando si voltò indietro, casa sua era scomparsa. C’era solo un terreno arido e vuoto, qualche sterpaglia, e quell’uomo, che lo fissava sarcastico.
- Torna indietro, Bill. – suggerì con un sorriso strafottente, - Torna indietro finché sei in tempo.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- No! – protestò deciso, - Non posso e non voglio, lo capisci questo?! Lui è mio fratello! – sbottò, tornando a guardare il labirinto ed il castello.
- Be’… - sussurrò l’uomo, - puoi sempre provare a riprendertelo. È un peccato – aggiunse con una risatina, - che tu abbia così poco tempo.
- …poco tempo…? – chiese Bill, confuso e teso.
L’uomo rise, gli occhi sottili e freddi, sempre disturbanti.
- Solo tredici ore. Poi, il tuo lagnoso fratello diventerà uno di noi.
- A-Aspetta… - cercò di fermarlo Bill, ma l’uomo lo zittì ancora con un risoluto cenno del capo.
- Solo tredici ore. – ripeté, - Fai del tuo meglio, Bill. – e scomparve.
*
Faceva caldo. Era incredibile pensare di avere appena lasciato l’inverno in Germania ed essersi ritrovati all’improvviso immersi in un’estate così torrida ed in un posto che non sembrava nemmeno esistere davvero.
Girando attorno all’enorme parete che sembrava circondare l’intero labirinto, Bill si chiese se sarebbe mai riuscito a tornare a casa. O a trovare davvero Tomi.
Si morse una guancia.
Il solo pensare che la sua sparizione fosse davvero una sua colpa gli stringeva il cuore così tanto da fargli male. Non voleva davvero che sparisse. Non voleva affatto che sparisse. E non riusciva a trovare la stupida entrata dello stupido dannatissimo labirinto.
Stava quasi per arricciarsi in un angolino e mettersi semplicemente a piangere – non era un piagnone, non lo era affatto, dava a tutti i bulli del filo da torcere, a scuola, ma lì era diverso, non era scuola, non c’era Tomi, era lontano da casa ed era tutta colpa sua – quando un rumore scrosciante lo colpì. Dove c’era movimento doveva per forza esserci qualcosa a produrlo.
Pregò intensamente che non fosse solo una stupida cascatella a caso e si avvicinò alla fonte del rumore.
Quando vide da cosa era provocato, fu seriamente incerto sulla possibilità di mettersi a ridere o essere felice e basta perché aveva trovato qualcuno.
Un ragazzo dai capelli lunghi fino alla base del collo, forse solo un po’ più corti di quelli di Tomi, e gonfi – doveva avere più o meno la sua età – stava fermo a gambe larghe davanti ad una piccola pozza d’acqua e, semplicemente, faceva pipì.
- Scusa… - disse Bill, titubante, cercando di trattenere le risate.
- Oh? – disse il ragazzo, voltandosi a guardarlo, - Ah, sei tu. – borbottò poi, esaurendo il proprio bisogno e richiudendo i pantaloni, prima di saltare giù dal muretto sul quale era issato e recuperare da terra una specie di diffusore a spruzzo come quelli che la mamma metteva in bagno e cambiava ogni due settimane.
Bill non si fermò a riflettere sul fatto che quell’individuo non fosse stupito di vederlo: aveva altre priorità, al momento. Quando il tizio prese a camminare, il moro si limitò ad andargli dietro.
- Io mi chiamo Bill. - disse incoraggiante.
- Sì, lo so. – rispose lui, con aria annoiata, - Io mi chiamo Georg.
Proprio in quel momento, da una fenditura nel muro venne fuori un minuscolo esserino alato, in tutto e per tutto simile ad un insetto, ma ridacchiante e dalla forma vagamente antropomorfa.
- Queste sono…
- Fate. – concluse per lui il ragazzo, - Quarantasette! – esclamò poi, spruzzando qualcosa sulla fatina ed osservandola cadere a terra, stordita.
- …me le aspettavo più carine. – commentò Bill, scrutando la creatura per terra, - Sembrano mosconi. – continuò con una smorfia.
- Che ti aspettavi? – disse il tipo, acido, - Sono solo fate.
Bill annuì vagamente e poi tornò a concentrarsi sul proprio obiettivo.
- Senti, - disse ansioso, - io devo assolutamente trovare mio fratello. Tu puoi aiutarmi?
- Forse sì, forse no… - rispose quello, sibillino. – Quarantotto! – e mandò al tappeto un’altra fatina. – Cos’è che ti serve?
- Io… - borbottò Bill, confuso, - …dov’è l’entrata?
- Ah, chissà. Sei proprio sicuro di volere andare là dentro? Quarantanove! – e giù un’altra fata.
Bill aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Ma vuoi starmi a sentire?! – protestò infastidito, - Allora, puoi aiutarmi o no?!
Il ragazzo si decise finalmente a fermarsi a squadrarlo con aria disapprovante.
- Tu non mi fai le domande giuste. – rivelò seriamente, piantando le mani sui fianchi.
Bill abbassò lo sguardo e sospirò.
- …come faccio ad entrare? – chiese alla fine, già esausto, passandosi una mano sugli occhi.
Georg sorrise subito.
- Ecco, questa è un domanda a cui posso rispondere! – disse gioviale. – Puoi entrare da lì. – rivelò. E nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, nell’enorme muro di cinta che circondava il labirinto si aprì un pesantissimo cancello.
- …ma… - biascicò Bill, fissando il tutto con aria sconvolta, - Quando ti ho chiesto dov’era l’entrata, tu-
- Devi imparare a chiedere le cose giuste, Bill. – commentò semplicemente il ragazzo, annuendo. – Per esempio… - continuò, accompagnandolo all’interno, - adesso dove pensi di andare? A destra o a sinistra?
Bill guardò entrambe le vie, sporgendosi un po’ per cercare di scrutare il più lontano possibile. Fu inutile: le due strade erano completamente identiche.
- Una vale l’altra. – rispose con una scrollatina di spalle.
Georg inorridì, disgustato.
- È questo il problema con i tipi come te, non date il giusto valore alle cose! Ecco perché tuo fratello è prigioniero!
Bill abbassò lo sguardo, colpevole. Il ragazzo aveva perfettamente ragione.
- Sai cosa ti dico? – continuò Georg, sempre più infuriato, - Non ci riuscirai mai, ad uscire da questo labirinto. Se anche dovessi arrivare al centro, non riusciresti mai a venirne fuori!
- Be’, questo è ancora da vedere! – rispose Bill, sollevando il capo ed aggrottando le sopracciglia, offeso.
Il ragazzo scosse una mano come a scacciare le mosche, deluso.
- Datti da fare, ragazzino, o non ce la farai davvero. – borbottò, prima di lasciarlo lì e tornare a varcare il cancello, richiudendoselo alle spalle senza neanche toccarlo.
Bill sospirò e cercò di farsi forza. C’era poco da fare. A parte cominciare a camminare.
*
Tutto quello che Tom riusciva a fare era stringersi nelle spalle. Era veramente l’unico movimento gli fosse consentito, visto che la corda d’oro che lo stringeva attorno alle braccia non gli permetteva neanche di allontanarle dai fianchi.
Seduto sopra un’enorme poltrona in velluto rosso, reso muto da una fascia stretta con forza attorno alla bocca, il biondo si dibatté un po’ e poi mugolò affranto. Non c’era modo di liberarsi.
L’uomo che lo teneva prigioniero stava seduto su una poltrona del tutto identica alla sua, ma al contrario di lui aveva mani e piedi completamente liberi e, volendo, avrebbe potuto alzarsi ed andare via. Ed invece rimaneva lì immobile a guardarlo con aria furba, posandogli addosso quegli incredibili e freddissimi occhi azzurri mentre l’esercito di creaturine deformi che lo circondavano lo torturava nei modi più assurdi – dal solletico ai pizzicotti – fino a farlo impazzire.
- Hmpf- - si lamentò il ragazzo, cercando di saltare giù dalla sedia. Non gli riuscì nemmeno quello, perché la corda d’oro era assicurata allo schienale della poltrona. Si limitò perciò a lanciare occhiatacce all’uomo che stava seduto di fronte a lui, una gamba posata sul bracciolo della propria poltrona ed un piccolo frustino nero a battere contro lo stivale.
- Tu dovresti imparare il valore del silenzio, Tom. – disse appunto l’uomo, tornando a sedersi composto per guardarlo negli occhi. – È per questo che sei finito qui, no?
Tom si agitò e cominciò un lungo discorso che sarebbe suonato più o meno come un “no, io non lo so perché sono qui e non ho capito un accidenti di questa storia degli gnomi o dei folletti o di qualunque altra cavolata si tratti, è roba per quell’idiota di mio fratello e, a proposito, se vengo a scoprire che tutto questo è opera sua, giuro che lo faccio fuori con le mie stesse mani, e comunque non ho capito bene per quale oscuro motivo dovrei chiamarti Re e perché sto legato a questa stupida dannata sedia con tutte queste creaturine bitorzolute che mi fanno il solletico, voglio dire, è palesemente una violazione dei diritti umani, lo sai che mio padre fa il camionista, eh?, lo sai?, potrebbe passarti sopra col suo camion e di te non resterebbe niente, e dove cavolo è mio fratello, comunque?!”. Sarebbe suonato così, ma naturalmente non poté che suonare invece come un unico e prolungato “hmpf”, visto che la fascia attorno alla bocca teneva fermo anche il mento e gli impediva di articolare suoni comprensibili.
- Sei incredibilmente fastidioso. – commentò ancora l’uomo, inarcando le sopracciglia con supponenza, - Tuo fratello ha fatto bene a mandarti qui.
Tom spalancò gli occhi. L’uomo sorrise.
Il momento successivo vide Tom sconfiggere le leggi della fisica – per quanto si potesse parlare di leggi simili in un mondo popolato di goblin – e tirarsi in piedi. La fisica, comunque, tornò immediatamente a riprendere possesso della realtà, ed in breve Tom si ritrovò in ginocchio per terra, schiacciato dal peso della poltrona e con le braccia strette in una posizione che gli provocava un dolore allucinante alle spalle.
Gli esserini intorno a lui ridevano come stessero assistendo allo spettacolo più divertente della loro intera vita. Ed era probabilmente così.
Anche l’uomo rise – Tom sentì distintamente uno sbuffo fra il compassionevole ed il divertito liberarsi nell’aria e solleticargli fastidiosamente le orecchie – prima di avvicinarsi a lui, afferrare la sedia per lo schienale e rimetterla dritta. Con lui ancora seduto sopra.
- Se hai tutta questa voglia di muoverti, lo farai alle mie condizioni. – disse quindi, chinandosi a guardarlo dritto negli occhi e sorridendo mefistofelico.
Tom non capì esattamente come si svolsero i fatti in successione. Si rese conto solo che, a un certo punto, non aveva più mani e piedi legati. A tenerlo prigioniero era rimasta solo la fascia sulla bocca. Per qualche motivo, comunque, assolutamente contro la propria volontà, stava ballando in tondo con quell’uomo misterioso che cantava you made me believe in magic. E i goblin, intorno, ridevano.
Mentre piroettavano intorno alla stanza, l’uomo fissò gli occhi azzurrissimi in quelli ambrati e luminosi e brillanti di confusione di Tom e sorrise, stringendolo alla vita.
- Se tuo fratello non sarà qui entro nove ore e mezzo… - sussurrò direttamente al suo orecchio, chinandosi su di lui, - …tu sarai mio.
Tom pressò le mani contro il suo petto, ma non riuscì ad allontanarsi.
Deglutì.
*
Nel frattempo, metri e metri sotto il livello del suolo – se un livello del suolo c’era, in quel mondo assurdo – Bill concludeva la propria caduta a precipizio lungo un improponibile tunnel lastricato di mani parlanti.
Palesemente non sarebbe mai arrivato a trovare Tomi.
*
Appena la musica aveva smesso di venare l’aria, Tom era stato gentilmente preso per i fianchi e rimesso seduto al proprio posto – corde d’oro comprese.
Aveva provato a lamentarsi, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un buffetto sulla guancia ed un canzonatorio “slap that baby” che l’aveva fatto rabbrividire fin nel profondo, mentre l’uomo – del quale ancora, per inciso, non sapeva il nome – si chinava su di lui e scrutava qualcosa all’interno di una sfera trasparente.
Spalancò gli occhi quando vide cosa in effetti l’uomo stava guardando.
- Mmnh!!! – strillò, agitandosi convulsamente mentre l’uomo lo tratteneva per le spalle.
- Sì, sì, il tuo fratellino. – sorrise l’uomo, - Che poi è il motivo per cui stai qui, Tom. – il suo sorriso si allargò mentre stringeva la presa sulle sue spalle, - Non ti voleva più ed ha chiesto ai goblin di portarti via… a questo punto, sarebbe perfino meglio se restassi con me di tua spontanea iniziativa, no? – lo prese in giro, sfiorando col naso il profilo della sua guancia, - Piuttosto che sentirti indesiderato…
Tom si irrigidì sotto le sue mani e rimase immobile a guardare l’immagine di Bill che si guardava intorno, smarrito, nel buio.
Magari era davvero Bill che l’aveva mandato in quel posto, ma adesso lo stava cercando. Voleva tornare a riprenderselo.
E quindi no, non si sentiva indesiderato. Assolutamente no.
Scosse il capo.
L’uomo ringhiò e lo lasciò andare, tornando a sedersi al proprio posto e portando la sfera con sé.
- Non sarebbe dovuto arrivare alle segrete. – commentò infastidito, accavallando le gambe. – Georg, comunque, lo riporterà indietro… ed a quel punto, vedendo di dover ricominciare tutto da capo, si arrenderà. – commentò con una mezza risatina.
*
Gli occhi di Bill non ebbero nemmeno il tempo di abituarsi al buio, che subito una candela arrivò a rischiarare l’ambiente. Si trovava in una sorta di grotta, o di qualcos’altro di molto simile. Il tetto era roccioso ed umido e c’erano delle inquietanti catene a pendere immobili verso il pavimento. Deglutì, voltando lo sguardo in giro, e quasi saltò in aria dallo spavento quando, seduto su una tavola a qualche metro da lui, trovò Georg, il ragazzo che aveva incontrato fuori dal labirinto.
- Tu! – strillò, puntandolo con un dito, - Cosa diavolo ci fai qui?!
Georg si tirò in piedi con un sorriso furbo sul volto.
- Sapevo che ti avrei ripescato qua sotto. – lo prese allegramente in giro, - Sei finito in una segreta. Il labirinto ne è pieno. – sorrise ancora, in maniera più sottile e insinuante, socchiudendo gli occhi come quelli di un gatto, - Lo sai a cosa servono le segrete, piccolo Bill?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, infastidito e un po’ spaventato.
- …tu sì? – chiese titubante, guardandolo con diffidenza.
Georg sghignazzò.
- A chiuderci dentro le persone che si vogliono dimenticare. – rivelò il ragazzo, tirando dietro un orecchio una ciocca di capelli. – Fortunatamente, - aggiunse poi, il tono più gioviale ma sempre canzonatorio, - sono venuto a riprenderti! Guardacaso, conosco una scorciatoia per uscire dal labirinto proprio partendo da questa stanza!
- Ma io non posso fermarmi! – strillò ancora Bill, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - Tomi mi aspetta, io lo so! È colpa mia e devo salvarlo! Non posso fermarmi proprio adesso!
- Oh, certo. – borbottò Georg, incrociando le braccia sul petto, - Scemo io a preoccuparmi ed a venire fino a qui per tirarti fuori.
Bill gli lanciò un’occhiata curiosa da sotto le lunghe ciglia scure.
- Eri preoccupato…? Per me?
Georg guardò altrove, agitando una mano.
- Un bel ragazzino come te, tutto solo in questo posto oscuro… - motivò con disinteresse, come fosse normale. – Ora, coraggio, seguimi. Ti porto fuori di qui.
- No! – insistette Bill, - Tu… non capisci. – mugolò, abbassando lo sguardo, - Lui è mio fratello, non c’è nessuno che sia tanto importante quanto lui, e… io questo mondo lo conosco, perché tutti i miei sogni vi appartengono, ma lui… - si morse un labbro, - lui non c’entra niente, non è di qui, sarà spaventato ed io… devo portarlo a casa. Davvero. Devo riportarlo con me. – sollevò nuovamente gli occhi in quelli verdissimi dell’altro ragazzo, - Non ti chiedo di portarmi fino al castello… se non vuoi, va bene, ma… portami almeno fin dove puoi! Dopo me la caverò da solo!
Georg roteò gli occhi, poco convinto.
- Peggiorerà soltanto, da ora in poi. – lo avvisò con piglio serio.
Bill scosse il capo.
- Non m’importa.
Rimasero a fissarsi a lungo, entrambi fermi sulle loro posizioni. Il primo a cedere, però, fu Georg.
- E va bene, - concesse alla fine, sbuffando sonoramente, - vieni con me.
Bill non riuscì a trattenere il gridolino di gioia che nacque spontaneo nel fondo della sua gola, e premette tanto per uscire che lui dovette lasciarglielo fare.
- Sì, ma non entusiasmarti adesso, ragazzino, - disse Georg mentre attraversavano un lungo ed oscuro corridoio, - siamo ancora… - ma si fermò all’improvviso quando in mezzo a loro rotolò una sfera di cristallo perfettamente lucida e tonda, trasparente e liscissima. - …oh.
- Cosa…? – chiese Bill, incerto, notando appena la pallina rotolante.
- Be’…? – chiese una voce gracchiante e sgradevole dal buio. Quando Bill alzò lo sguardo sulla figura, notò che la sfera si era fermata ai suoi piedi e poi aveva preso a volteggiare fino a rimbalzarle in mano. – Che cosa sta succedendo qui?
- …come? – chiese Bill per riflesso, ormai quasi abituato alle stranezze del posto.
Georg rimase immobile e silenzioso, tesissimo. E non sembrò molto stupito quando la figura ammantata si liberò della propria copertura e, da sotto il mantello, venne fuori l’uomo misterioso, lo stesso che aveva rapito suo fratello.
Bill fece istintivamente un passo indietro, prontamente imitato da Georg.
- Niente, mio signore! – si affrettò a difendersi il ragazzo, mettendo le mani avanti.
- Niente?! Niente, Georg?! – insistette l’uomo, avvicinandoglisi con fare intimidatorio, - Lo stavi aiutando!
- No, mio signore, mai! – rispose il ragazzo, - Lo stavo portando all’inizio del labirinto!
- Cosa?! – chiese Bill, oltraggiato, - Come hai potuto?!
- Stai mentendo. – disse l’uomo, piegandosi a guardare Georg negli occhi, - È tradimento questo, Georg, lo sai? Dovrei prenderti ed appenderti a testa in giù nella Gora dell’Eterno Fetore, sai?!
Georg abbassò lo sguardo, colpevole.
- Chiedo perdono, mio signore.
Lui non sembrò badare alla richiesta, tant’è che il perdono non lo concesse affatto. Si voltò però a guardare Bill, avvicinandosi a lui, stavolta, e poggiando un braccio sul muro per poi chinarsi a scrutarlo negli occhi con aria pericolosa.
- Allora, Bill… - disse malizioso, sfiorando quasi il profilo del suo viso con le labbra, - ti sta divertendo, il mio labirinto?
Bill aggrottò le sopracciglia. Quello era lo stesso atteggiamento intimidatorio che usavano con lui i bulli del Gymnasium, nella speranza di obbligarlo ad abbassare la testa. E se lui si trovava in punizione, quella sera, era proprio perché, ad atteggiamenti come quello, reagiva sempre nello stesso modo. Opponendosi.
- È un gioco da ragazzi. – disse con un sorrisetto furbo, inclinando il capo.
L’uomo rise a propria volta, estremamente divertito.
- Un gioco da ragazzi, dici. – annuì, separandosi da lui, - Bene, allora che ne dici di alzare un po’ la posta? – chiese, voltandosi all’indietro verso un enorme orologio, apparso dal nulla. Mosse le dita in un movimento circolare e le lancette, guidate dalla magia, si spostarono in avanti. Una, due, tre ore.
- Questo non è giusto! – protestò Bill, stringendo i pugni.
- Non è giusto, dici? – chiese l’uomo, continuando a ridere supponente, - Mi chiedo quale sia l’idea che hai della giustizia. – replicò, allontanandosi di qualche passo. – E visto che trovi il mio labirinto così semplice da affrontare… vediamo come te la cavi col mio piccolo amico qui dietro. – prese la sfera di cristallo che ancora teneva mollemente in mano e la scaraventò con forza nel buio del corridoio. Subito dopo, scomparve.
Georg deglutì e spalancò gli occhi.
- Oh, no… - lo sentì esalare sconsolato Bill. – No, questo no…
- Questo cosa, Georg?! – chiese Bill, impaurito, appendendosi al suo braccio.
- Non lo senti?! – disse il ragazzo, indicando nel buio, - Gli spazzini!
Bill ebbe appena il tempo di cominciare a sentire lo stridio metallico di un centinaio di lame che sfregavano l’una contro l’altra, che già Georg l’aveva afferrato per un braccio e lo tirava lungo il corridoio, verso il lato opposto, strillandogli di darsi una mossa. Bill lo seguì senza fare storie, voltandosi solo di tanto in tanto e cogliendo appena l’immagine di un gigantesco marchingegno che, velocissimo, abbatteva qualsiasi cosa trovasse sul proprio cammino fra rumori agghiaccianti.
- Merda… - commentò Georg quando arrivarono alla fine del corridoio ed andarono a schiantarsi contro un cancello inoppugnabilmente chiuso, - È la fine! Certo che… la Gora dell’Eterno Fetore prima, gli spazzini poi… ti sta trattando proprio con tutti i riguardi!
Bill ringhiò e tirò un calcio di pura frustrazione contro una parete. Il rumore delle lame era forte, ma non riuscì del tutto a coprire il thud un po’ ovattato che fece il suo piede battendo contro la roccia.
- Oltre questa parete… - disse, lasciandovi scorrere sopra una mano, - È vuoto! Georg! Aiutami a spingere!
Ed era vuoto davvero. Riuscirono a rintanarsi in una specie di antro dopo aver frantumato la friabile parete di finta roccia, giusto un attimo prima che la macchina metallica passasse alle loro spalle, abbattendo il cancello e continuando per la propria strada.
- Ma chi me l’ha fatto fare di aiutarti, ragazzino, me lo spieghi?! – borbottò Georg tirandosi in piedi dopo la rovinosa caduta cui era stato costretto per mettersi in salvo.
- Aiutarmi?! – strillò a quel punto Bill, ricordando il discorso di poco prima con l’uomo misterioso, - Ma se hai detto che mi stavi riportando all’ingresso!
- Questo è quello che ho detto a lui, per distrarlo! – motivò il ragazzo, - Vieni, questa scala dovrebbe riportarci in superficie. – aggiunse poi, indicando una scala a pioli poggiata contro il muro lì di fianco.
- Come faccio a fidarmi ancora di te? – chiese Bill, con tono lamentoso, - Se menti-
- Mettiamola così: - lo interruppe Georg, cominciando la scalata, - che alternative hai?
- …nessuna, in effetti. – ammise il moro, abbassando lo sguardo.
- Infatti. – annuì il ragazzo, già a metà scala, - Ti dai una mossa o no? – osservò Bill annuire e mettersi al suo seguito e sospirò, scuotendo il capo, - Devi capire la mia posizione, ragazzino. – cercò di giustificarsi, nemmeno lui sapeva perché, - Io non sono esattamente quello che si dice un coraggioso. E David mi fa paura.
- David… è così che si chiama.
- Già.
- E ti fa tutta questa paura?
- Lo sai perfettamente che è il Re dei Goblin. Se fossi di queste parti, spaventerebbe anche te. Oltretutto, la Gora dell’Eterno Fetore-
- Oh, che mai potrà fare?! Puzzare?!
- Be’, è dannatamente abbastanza per non essere piacevole, no? Oltretutto, come ci metti piede, sei condannato a puzzare per sempre! Non c’è sapone che tenga! Una vera maledizione. – continuò a lamentarsi fino a che non furono finalmente in superficie. Sbucarono da un vaso nel mezzo di una piazzetta dalla quale partivano molti viali delimitati da siepi altissime.
- E adesso dove andiamo…? – chiese Bill, guardandosi intorno con aria smarrita.
- Ah, no! – borbottò Georg, allontanandosi celermente da lui, - Adesso vai per la tua strada! Ho promesso di accompagnarti solo fin dove avrei potuto! Bene, qui mi fermo!
Bill inarcò le sopracciglia verso il basso, stringendosi nelle spalle.
- …pensavo… che avessi capito le mie ragioni… - commentò tristemente.
Georg sospirò, roteando gli occhi e incrociando le braccia sul petto.
- Le ho capite, le tue ragioni, è solo che-
- Pensavo fossimo diventati amici! – aggiunse Bill, gli occhi pieni di lacrime e le mani strette all’altezza del cuore.
Georg spalancò gli occhi.
- …amici? – chiese con aria stupita, - …non ho mai avuto degli amici…
Bill arrossì un po’, stringendosi nelle spalle.
- Be’, in fondo mi hai aiutato… sai, anche io, non è che abbia tutti questi amici, nel mondo da cui provengo… e tu sei stato… be’, abbastanza gentile. – sospirò, - Perciò sì, ti considero un amico.
Georg annuì lentamente e si prese qualche secondo per riflettere.
- Oh, insomma. – concesse alla fine, - D’accordo. Proviamo ad andare di là.
Bill si lasciò andare ad un urletto di gioia, ma la sua felicità durò poco. Esattamente fino al momento in cui Georg si ricordò di essere un vigliacco.
Appena girato l’angolo, i due vennero infatti investiti da un suono spaventoso – l’ululato di sofferenza di un essere probabilmente altrettanto spaventoso – e Georg ci mise un secondo a girare sui tacchi e dirigersi verso un punto a caso purché fosse il più lontano possibile da lì.
- Ma non avevi detto che eravamo amici?! – si lamentò Bill, cercando di artigliarlo prima che sparisse oltre l’angolo.
- No, ragazzino, l’hai detto tu! E comunque, io non sono amico di nessuno: sono amico solo di me stesso, come tutti.
- Ma non è giusto!
- No, non lo è.
- …ma è così.
E quello decisamente era qualcosa di nuovo imparato sulla giustizia.
*
L’essere probabilmente spaventoso che aveva ululato fino a far scappare Georg, in realtà non era affatto un essere spaventoso. Bill se ne accorse non appena raggiunse la fonte dell’urlo e la spiò da dietro una siepe: si trattava di un ragazzo, probabilmente un po’ più piccolo di lui, sicuramente molto più basso ed anche più tarchiatello. Biondo e pallido.
Ma ululava effettivamente come una bestia.
Il problema era la bestia non fosse lui, bensì le creaturine che lo circondavano: goblin, indubbiamente, ed armati – tenevano in mano lunghi bastoni che ospitavano in punta degli esseri se possibile ancora più rivoltanti dei loro proprietari, piccoli, glabri e rosa, e con enormi bocche dotate di spaventosi denti aguzzi. I goblin usavano quelle armi vive per torturare il povero ragazzo, che pendeva dal ramo di un albero a testa in giù e continuava ad urlare il proprio dolore fra un “lasciatemi andare” e l’altro.
Georg poteva essere un codardo, ma Bill decisamente della codardia era l’antitesi.
- Se solo avessi una pietra da lanciare… - si ritrovò a borbottare, mordicchiandosi un labbro e guardandosi già intorno alla ricerca di un sasso.
Quel mondo magico e spaventoso lo stupì una volta di più: i sassi cominciarono in effetti a rotolare verso i suoi piedi, neanche li avesse evocati con un rito voodoo. Sorridendo un po’, si chinò a raccoglierne uno e lo lanciò in mezzo al gruppetto di goblin, centrandone uno sull’elmo. Il caos che da ciò si generò lo divertì parecchio e si concluse, dopo una serie di impacciati movimenti degli esserini confusi e spaventati, con la fuga dei suddetti esserini impazziti. Per dove, non voleva saperlo.
Il ragazzo continuava a sbraitare.
Bill decise che fosse il momento giusto per tirarsi fuori dal proprio nascondiglio.
- Uhm… ciao. – disse salutandolo timidamente con la mano, - Io sono Bill e-
- Sei stato tu a farli scappare? – ringhiò burbero il biondino, sempre a testa in giù.
- Er… sì, ho usato dei sassi che-
- Io mi chiamo Gustav. – lo interruppe ancora il biondo, annuendo, - Ti dispiacerebbe…?
- Oh, sì! – annuì Bill, dirigendosi verso la radice dell’albero, dove aveva già avvistato il nodo che teneva tesa la corda, - Faccio subito! – annunciò impettito, sciogliendo il nodo ed osservando Gustav cadere a terra di testa il secondo successivo, producendosi in un ululato di dolore dei propri. – Oddio! Oddio, scusami! – disse preoccupato, avvicinandosi di corsa al corpo riverso in terra, - Ti sei fatto molto male?
- No, figurati… - rispose quello, ironico, - Be’, comunque sto meglio di prima. – ammise, prima di concedergli un sorriso, - Grazie.
Bill sorrise di rimando, stringendosi un po’ imbarazzato nelle spalle.
- Senti, Gustav, io dovrei arrivare al castello. Ne ho assolutamente bisogno. Non è che tu sapresti indicarmi la strada da prendere?
Gustav lo guardò per qualche secondo con aria genuinamente curiosa, prima di stringersi nelle spalle.
- Non ne ho la più pallida idea. – ammise alla fine, - Quelle, comunque, potrebbero essere un indizio. – disse, indicando con un cenno del capo due porte.
- Queste prima non c’erano… - borbottò Bill, scontento, - Qui tutto continua a cambiare senza un senso!
- Perché non è detto che ciò che vedi sia esattamente come sembra, Bill. – rispose Gustav con un sorriso sornione.
- Sì. – annuì Bill, - Sto cominciando a capirlo. Come credi si possano aprire, queste porte?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, vagamente divertito.
- Be’, ci sono delle maniglie, in fondo. – rispose.
- …e quindi? – chiese di rimando Bill, per nulla illuminato dalla rivelazione.
Gustav sospirò e lasciò scivolare un dito lungo il cerchio metallico della porta a destra.
- Le maniglie esistono per bussare, no?
*
Tom cercò di divincolarsi, ma la presa dell’uomo non si ammorbidì neanche un po’. Oltretutto, il ragazzo sospettava che continuare ad agitarglisi in grembo in quel modo potesse non essere il modo migliore per risolvere la questione: la situazione era equivoca, il sorriso e gli occhi di quell’uomo erano equivoci e, soprattutto, ciò che sentiva premere contro il sedere, oltre la stoffa dei jeans che indossava, era talmente equivoco da rasentare addirittura l’esplicito.
L’uomo gli sorrise, gli occhi stretti come due fessure e brillanti come la luce stessa del giorno.
- Sei un ragazzino davvero vivace… - commentò, sfiorandogli distrattamente una coscia, - Forse, quando sarai mio, dovrò chiamarti David.
*
Al di là della porta c’era qualcosa che somigliava moltissimo ad un bosco ma era molto più scuro, spaventoso e misterioso di tutti i boschi che Bill avesse visto in vita propria.
Non che, in effetti, ne avesse visti tanti: odiava la natura, odiava gli insetti ed odiava tutto ciò che in generale i salutisti adoravano – compreso il frinire dei grilli e l’aria pura di montagna, anzi, il frinire dei grilli gli dava il mal di testa e l’aria pura lo costringeva a giornate intere passate a letto con la febbre a quaranta; comunque, in quella foresta non c’era proprio niente di simile ai boschi che aveva visto. Non c’era luce, non arrivava neanche un po’ di sole filtrato attraverso le foglie, e l’aria era pesante ed umida come quella di una palude.
- Non credo sia stata una buona idea entrare qua dentro… - commentò Gustav alle sue spalle.
- Non avrai mica paura? – chiese Bill, di rimando.
- Paura, io? – rise Gustav, infilando le mani nelle tasche, - Assolutamente no. È solo che-
Silenzio.
- …è solo che? – chiese Bill, continuando ad esplorare l’ambiente circostante e tentando di trattenere le copiose smorfie di disgusto che affioravano alle sue labbra ogni volta che si bagnava toccando qualcosa di umido e marcio. Dalle sue spalle non giunse alcuna risposta. Si voltò a guardare. – Gustav…? – ma dietro di lui non c’era più nessuno.
*
Su uno scenario completamente differente, Georg si stava dibattendo fra le sterpaglie e le rocce nude di un bosco morto e deserto, borbottando fra sé. Quel ragazzino impossibile che non si rassegnava mai non aveva fatto altro che metterlo nei guai in milioni di modi diversi, e quella stupida faccenda dell’amicizia continuava a tormentarlo senza lasciarlo in pace neanche un secondo.
Quando sentì distintamente la voce di Bill invocare il suo aiuto, tutto ciò che riuscì a pensare fu “Arrivo!”. E non fu neanche abbastanza intelligente da tenerselo per sé, anche se desiderò vivamente di averlo fatto quando, voltandosi per ripercorrere la strada al contrario e raggiungere il ragazzo in pericolo, vide che non c’era nessun ragazzo in pericolo, ma solo David, espressione seria e braccia incrociate sul petto, che lo scrutava con aria severa.
- Dov’è che stai andando, Georg…? – chiese l’uomo, irridente.
- …naturalmente a recuperare il ragazzo per riportarlo all’ingresso del labirinto. – mentì, mordendosi un labbro, - Come da programma.
- Ah, davvero? – chiese David, insinuante, - Perché sai, avrei detto che invece tu stessi correndo in suo soccorso.
- Io? – rise lui, cercando di darsi un tono, - Ma che idee. Dopo gli ordini che mi avete dato…
- Già. – annuì il re dei goblin, - Sarebbe veramente molto stupido, da parte tua, disobbedirmi ancora.
- …già. – concordò il ragazzo, abbassando lo sguardo.
David sorrise.
- Cosa c’è, Georg? – lo prese in giro con un sorriso cattivo, - Non mi dirai che provi qualcosa per lui? Che ti sei fatto irretire da quello stupido ragazzino?
- Assolutamente no! – protestò lui, - Io non-
- Perché – precisò l’uomo, piantandogli il frustino nel petto, - non penserai davvero che un ragazzino carino come quello potrebbe interessarsi minimamente ad un rifiuto vigliacco come te, vero?
Georg abbassò lo sguardo e voltò le spalle.
- No, mio signore. – annuì alla fine.
David sorrise ancora.
- Allora…
- Vado a riportarlo all’ingresso del labirinto. – biascicò Georg, dando all’uomo le spalle e cominciando a muoversi in direzione di Bill, - Come da programma.
David annuì. Poi lo fermò, richiamandolo.
- Aspetta. – disse, mentre una sfera di cristallo appariva fra le sue mani, - Portagli questo. – ordinò, lanciando il globo. Quando giunse nelle mani di Georg, s’era già trasformato in un frutto.
- …che cos’è, mio signore? – chiese timidamente, senza sollevare il capo.
- Un presente, naturalmente. – rispose lui, sereno.
- …voi non gli fareste del male, vero? Perché io… non credo che potrei farlo.
David ringhiò e gli si avvicinò con fare minaccioso, puntandolo nuovamente con il frustino.
- Tu gli darai quel frutto, Georg, o io ti spedisco a calci nella Gora dell’Eterno Fetore, senza pensarci su neanche un momento! – lo minacciò bruscamente, - Sono stato chiaro?
- …sì, mio signore. – annuì il ragazzo, riprendendo la strada verso il proprio obiettivo.
- E… Georg? – lo richiamò un’ultima volta David, prima di sparire, - Se mai lui dovesse baciarti… ti trasformerò in un principe.
- …davvero…? – chiese lui, incredulo.
L’uomo rise.
- Oh sì, eccome. – rispose, - Anche alla Gora dell’Eterno Fetore servirà un principe, no?
*
Bill non era mai scappato strillando, da che era venuto al mondo. Be’, forse da piccolo, di fronte a qualche orrendo insetto palesemente nato per attentare al suo sistema nervoso in primo luogo ed alla sua vita in secondo, ma da quando aveva cominciato più o meno a capire cosa significasse diventare grandi, correre dei rischi e prendersi la responsabilità delle proprie azioni, Bill non era mai scappato strillando di fronte a niente.
All’interno di quel bosco, però, aveva trovato delle creature talmente spaventose – non c’era altro modo per definire quegli enormi uccelli canterini che continuavano a staccarsi teste ed arti vari ed eventuali a vicenda con lo scopo di usare le suddette parti del corpo per i più diversi tipi di sport – che fuggire strillando era diventata l’unica alternativa possibile.
Fu così che rincontrò Georg: intrappolato contro una parete rocciosa e circondato dagli uccelli canterini – che dovevano aver preso piuttosto male il suo staccare tutte le loro teste e lanciarle lontano per guadagnare qualche secondo di vantaggio nella fuga – stava già cominciando a chiedersi quanto fosse doloroso morire per mano di uno stormo di pennuti quando una corda discesa dall’alto lo colpì sulla testa. Sollevò lo sguardo e lì c’era Georg.
- Afferrala! – disse spiccio il ragazzo, mostrandogli la corda ben assicurata contro uno sperone.
Bill non se lo fece ripetere due volte e, per quanto le sue doti fisiche fossero decisamente scarse, la paura irrazionale che provava in quel momento – paura di perdere la vita, di non ritrovare Tomi, di non riuscire a tornare a casa – ebbe un effetto più che benefico sulle sue doti di scalatore, perché meno di un minuto dopo si ritrovava in alto, lontano dai pennuti, a stringere le braccia attorno al collo di un Georg mortalmente imbarazzato.
- Sei tornato! Sei venuto ad aiutarmi! – strillò commosso, saltellando sul posto, - Sapevo che non potevi essere del tutto cattivo! – e, così dicendo, in maniera del tutto naturale e inaspettata, sporse le labbra verso la sua guancia.
- No! – cercò invano di trattenerlo Georg, - Cosa fai?! Non baciarmi! – ma fu del tutto inutile: quando le sue labbra sfiorarono la guancia liscia del giovane, sotto di loro si aprì un baratro e scivolarono per metri e metri, rotolando fra le sterpaglie, fino ad una parete rocciosa che dava su una disgustosa palude di melma.
Riuscirono a salvarsi solo perché Georg ebbe la prontezza di spirito di afferrare uno spuntone che fuoriusciva dalla parete, prima di cadere nella palude, e Bill riuscì a frenarsi un attimo prima di franargli addosso.
- …oddio… - si lamentò, cercando di non respirare quando il puzzo incredibile che si sollevava dall’acqua raggiunse le sue narici, - Ma che posto è questo?
Georg deglutì.
- La Gora dell’Eterno Fetore.
- Dio mio, è veramente disgustoso! – commentò Bill, tirando su il ragazzo finché non si fu assicurato allo stretto corridoio di pietre che costeggiava la fiancata dello strapiombo.
- Dobbiamo… uscire immediatamente da questo posto. – lo avvisò il ragazzo, cominciando a spingerlo lungo il sentiero, - Certo che, anche tu, dovevi proprio baciarmi?!
- Aaah, poche storie! – rise Bill, - Tanto lo so che sei tornato indietro per aiutarmi! E perché siamo amici!
- Nella maniera più assoluta, no! – precisò lui, adirato, - Sono tornato indietro solo per darti questa! – borbottò, ficcando una mano in tasca ed armeggiando alla ricerca di qualcosa. Sfortuna volle che il suo armeggiare, però, avesse luogo proprio mentre la pietra sulla quale si trovava si decideva a porre fine alla propria vita, sfaldandosi in mille pezzi. Nel momento in cui Bill se ne accorse ed allungò un braccio per aiutarlo, anche la sua pietra cedette, ed in breve si ritrovarono entrambi a cadere verso il basso, strizzando gli occhi per la paura di finire proprio in quell’acquitrino disgustoso dal quale proveniva l’olezzo pungente che impregnava l’aria.
- Oh… cazzo! – sbottò invece la persona sulla quale caddero.
Bill sollevò lo sguardo, cercando di riprendersi dalla caduta.
- …Gustav! – disse, saltando anche al collo di quest’ultimo ma evitando inappropriati baci, visto che quello che aveva rifilato a Georg sembrava essere il motivo della loro presenza in quel luogo osceno, - Ma allora sei ancora vivo!
- Dannazione, sì che lo sono! – biascicò il biondo mentre si tirava in piedi, - Sono caduto in una dannata trappola, in quella foresta! – poi il suo sguardo dardeggiò su Georg, che si stava a propria volta risollevando a qualche passo da lui. – E quello chi sarebbe?
- Lui è Georg, - lo presentò Bill con un sorriso, - è un amico anche lui!
- La vogliamo piantare con questa storia degli amici?! – si lamentò il ragazzo, spolverandosi i pantaloni. – Piuttosto: là c’è un ponte. – dichiarò, indicando un punto qualche metro più in là, - Probabilmente porta all’uscita.
Bill annuì ed i tre si incamminarono verso l’unica via di salvezza cui potessero pensare, ma una volta giunti di fronte al ponte, appena provarono a metter piede sull’instabile asse di legno che lo componeva, una voce tonante li fermò.
- Altolà. – disse la voce, e da dietro un albero venne fuori un uomo altissimo e dalla pelle scura, ricoperto di tatuaggi, - Non potete passare. – disse, frapponendosi fra i tre disperati e la libertà.
- Oh, balle! – ringhiò Georg, facendosi avanti e dimenticando perfino di essere un vigliacco, in virtù della puzza, - Noi dobbiamo uscire di qui! Non si respira!
- Nessuno passa di qui senza il mio permesso. – precisò l’uomo, - Il mio nome è Bushido e sono il guardiano di questo ponte. E quelli sono gli ordini.
Gustav gli si parò davanti. Doveva essere alto più o meno la metà dell’uomo, e non era largo nemmeno il doppio.
Bill li osservò prendersi a cazzotti per molti minuti. Perfino con un certo divertimento.
*
Un attimo prima di abbandonare la palude – dopo una scenetta delirante quanto deliziosa durante la quale, dopo aver stabilito di essere entrambi ugualmente bravi a fare a botte, Bushido e Gustav s’erano autoproclamati rispettosamente l’uno il fratello di sangue dell’altro – Georg aveva accarezzato l’ipotesi di prendere il frutto e buttarlo nella melma. Questo l’avrebbe probabilmente condannato a qualcosa di perfino più spiacevole della Gora, ma almeno gli avrebbe impedito di fare del male a Bill.
La voce di David, risuonando nella sua testa, gli aveva consigliato di non compiere gesti avventati, però. E così lui non ne aveva compiuti.
Dopodiché, era venuto fuori che Bushido non solo sapeva come uscire dalla Gora, ma, a quanto diceva, anche come giungere al castello. Bill non era stato per nulla in grado di trattenersi: gli era saltato al collo, l’aveva ricoperto di baci un po’ ovunque, aveva raccontato la triste storia del suo fratellino rapito ed il danno era stato fatto. Bushido promise di portarli tutti al castello entro il sorgere del sole e li obbligò ad una marcia serratissima attraverso un bosco molto più fitto ma, per fortuna, anche molto più luminoso di quello in cui Gustav era sparito ore prima.
Dalla propria stanza del trono, David osservava tutto questo continuando a stringere Tom fra le braccia, pressandoselo addosso in un’esplicita tortura.
- Guarda quanta pena si dà per te… - commentò, sfiorandogli una guancia con due dita, - per un fanciullo così piccolo come te… - aggiunse, con un sorriso pericoloso, - Ma presto tutto questo finirà. – annuì compiaciuto, - Non appena Georg gli darà il mio regalo, Bill dimenticherà tutto… anche di te.
Sotto il bavaglio, Tom avrebbe voluto mordersi un labbro; ma non ci riuscì.
*
- Sì, però io sto morendo di fame. – si premurò di far sapere al mondo Gustav mentre incedeva fiero al fianco di Bushido, che gli ricordava quanto fosse in effetti poco virile andare in giro borbottando cose simili.
- Un guerriero soffre in silenzio. – disse l’uomo, seriamente, e Bill si ritrovò a chiedersi quando fosse diventato un guerriero; se per caso le botte a scuola facessero di lui un guerriero; e soprattutto… se davvero valesse tanta pena un fratello che, chiacchierando al telefono col proprio migliore amico, parlava di quanto migliore sarebbe potuta essere la sua vita se lui non fosse esistito affatto.
Il suo stomaco brontolò proprio nel mezzo di questi allegri pensieri, e Bill rilassò le spalle, sconsolato.
- Ho fame anche io… - borbottò incerto, - Ma non possiamo fermarci.
Georg si fece avanti con un paio di colpi di tosse per schiarirsi la voce.
- Bill… io avrei… - sospirò, prima di tirar fuori dalla tasca una bellissima pesca dal profumo squisito, - questa. – sussurrò, porgendogli il frutto.
Bill spalancò gli occhi – le voci di Gustav e Bushido, ancora impegnati a discutere della mascolinità dell’appetito, erano ormai lontane.
- Georg! – disse entusiasta, - Tu sei un salvavita! – e, così dicendo, addentò la pesca.
*
E poi fu come precipitare in un sogno.
Un incredibile senso di spossatezza lo colse, e riuscì appena a cogliere l’immagine di Georg che si allontanava biascicando “cosa ho fatto…?”, prima di lasciarsi ricadere esausto contro un albero e scivolare lungo il tronco fino a terra, mentre miriadi di bolle di sapone – ognuna con dentro un sogno diverso – lo circondavano e gli annebbiavano la vista.
Nella più grande, nella più bella, nella più luminosa di tutte c’era una chiassosa festa danzante, decine e decine di invitati a ridere e divertirsi, e Bill poteva vedere anche un altro se stesso, no, non era un altro se stesso, era proprio lui, là, in mezzo a tutta quella gente, completamente vestito di bianco e luccicante come una stella, farsi strada fra le miriadi di persone mentre da un lato all’altro della stanza rimbalzava l’immagine di quell’uomo, David.
Stretto fra le sue braccia, suo fratello. Sembrava completamente incosciente: i suoi occhi – solitamente così luminosi – erano vuoti e spenti, la sua bocca piena era coperta da un bavaglio e le mani erano assicurate dietro la schiena con una corda d’oro zecchino.
David lo cullava teneramente, danzando con lui e stringendolo alla vita, pressandoselo contro, e suo fratello non reagiva; David lo sfiorava con la punta del naso e con le labbra ma non lo toccava mai sul viso, anche se tutto il resto del suo corpo era così vicino a quello di suo fratello da confonderli quasi l’uno per l’altro.
Bill annaspò: non voleva vedere Tomi in quelle condizioni, non voleva vederlo fra le mani di quell’uomo, non a causa sua, doveva salvarlo, doveva assolutamente salvarlo, e poi David scomparve e Tomi con lui, e quando Bill sentì la presenza di quegli occhi di ghiaccio contro il collo e si voltò a guardare, David era tornato ma Tomi non era con lui.
- Dov’è- - provò a chiedere, spaventato, ma l’uomo gli posò un dito sulle labbra. Non gli ordinò di stare zitto, ma fu come l’avesse fatto: il fiato volò via e ciò che rimase del suo raziocinio lo seguì quando le braccia forti di David si chiusero attorno alla sua vita e lo strinsero violentemente.
E poi fu lui a danzare.
*
Quando si risvegliò era molto confuso. Aveva una pesca marcia fra le mani – la gettò via con disgusto non appena vide venirne fuori un vermicello dall’aspetto orrendo – e si trovava in un luogo mai visto prima – una discarica colma di oggetti, cianfrusaglie di ogni tipo confuse e mescolate fra loro fino a non riuscire a distinguere cosa fosse cosa in precedenza.
- Vuoi scendere dalla mia schiena?! – disse una vocetta nasale proveniente dal mucchio di cianfrusaglie sotto di lui. Bill si lasciò scivolare a terra e, quando si voltò, si ritrovò di fronte un ometto dalla faccia vagamente allungata – gli ricordava un po’ un topolino – con dei ridicoli baffetti sotto il naso. – Be’? – disse l’ometto, - Cos’hai da fissare?
- Io… non lo so… - rispose sinceramente Bill, passandosi una mano sulla fronte, - Io credo… stavo cercando qualcosa…
- Oh, eccome se stavi cercando qualcosa! – annuì l’altro, rovistando in una borsa che portava a tracolla lungo un fianco, - Ecco quello che cercavi! – disse, tirandone fuori il suo orsetto, - È il tuo Lancillotto, giusto? – chiese con un mezzo sorriso.
Bill prese l’orsacchiotto fra le mani e sorrise a propria volta.
- Sì, è lui, è… che assurdità, avevo dimenticato di stare cercando proprio lui… - aggiunse con una risatina.
L’omino annuì.
- Dunque, già che ci sei… - suggerì, scortandolo verso una tenda, - perché non dai un’occhiata qua dentro e vedi se per caso c’è qualcos’altro che ti interessa?
Bill lo seguì e, quando oltrepassò la soglia dell’ambiente, vide finalmente la prima cosa familiare su cui posasse gli occhi da ore: la propria camera. Perfettamente identica a come l’aveva lasciata: i letti, il disegno di Topolino sulla parete, e tutti i giocattoli della sua infanzia al loro posto. Stringendo al petto Lancillotto, in un impeto di commozione, si gettò sul letto e chiuse gli occhi. Poi si rigirò sul materasso e, quando fu di nuovo supino, tornò a guardare il soffitto.
- È stato solo un sogno… - si disse, rimettendosi seduto fra le lenzuola, - Lancillotto, puoi crederci…? È stato tutto solo un sogno… - scese con un saltello giù dal letto e si diresse verso la porta, per controllare se sua madre e Gordon fossero tornati.
Ma quando mise la mano sulla maniglia, non ebbe neanche il tempo di girarla che la porta si spalancò sullo stesso omino baffuto di prima.
- Resta qua dentro, ragazzino, non c’è proprio niente per te, là fuori. – disse l’omino annuendo e chiudendosi la porta alle spalle, - Tutto ciò che ti serve è qua dentro. – continuò, scortandolo verso la sedia di fronte alla scrivania ed aiutandolo a sedersi, - Vedi? Tutti i tuoi giocattoli, tutto ciò che per te abbia avuto un valore, è qui dentro. C’è anche la Barbie Sirena che hai perso, la ricordi? Ecco qui. – aggiunse, consegnandogli la bambola fra le mani, mentre lui squadrava il tutto con aria assente. C’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che non riusciva a capire, che non riusciva a ricordare, eppure sembrava importante, perché era come gli mancasse un pezzo di cuore.
Lasciò scorrere lo sguardo sulla scrivania e gli occhi si posarono su un libro dalla copertina morbida e rossa. Labyrinth. Lo conosceva, era il suo libro preferito, lo sapeva praticamente tutto a memoria. Lo aprì ad una pagina a caso e cominciò a leggere automaticamente, ad alta voce.
- Con rischi indicibili… - disse in un sussurro, - e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin, per riprendere… - s’interruppe e spalancò gli occhi, - …per riprendere il ragazzo che tu hai rapito! Tomi! – saltò in piedi, ricordando, - Mio fratello! Io devo salvare mio fratello!
- Bill! – strillarono due voci conosciute, ed il ragazzo sollevò gli occhi proprio mentre, tutto intorno a lui, le pareti di quella stanza finta cedevano mattone dopo mattone, rivelandosi inconsistenti come farina, sfaldandosi senza nemmeno un tocco.
Bushido e Gustav si affacciarono fra le macerie, tendendogli ognuno una mano.
- Ci chiedevamo dove fossi finito! – disse il biondo, mentre l’uomo più alto lo aiutava a riaffiorare in superficie, - Siamo quasi arrivati al castello!
- Davvero?! – s’illuminò Bill, speranzoso.
Bushido sorrise trionfante.
- Ebbene sì! – disse orgoglioso, indicando poco distante, - Siamo alle porte della città di Goblin.
*
Non fu difficile entrare all’interno della città – la guardia non guardava proprio un bel niente, anzi, dormiva in piedi, e per scostare le porte bastava spingerle; più difficile fu farlo in silenzio, dal momento che, appena giunti di fronte al cancello, Bushido aveva cominciato a strillare oltraggiato chiedendosi dove fosse finita la cavalleria se, dopo aver bussato più e più volte, nessuno veniva ad aprire e bisognava, in sostanza, fare tutto da soli. Ci volle una grande inventiva – e che Bill prendesse una mira un po’ particolare per i propri baci – per riuscire a far tacere il valoroso guerriero abbastanza a lungo da introdursi all’interno della cittadina.
Fu qui che vennero improvvisamente attaccati da un enorme robot gigante, dall’aria antica ma piuttosto funzionale. Sembrava più che altro un’armatura indossata da un essere veramente gigantesco, ma il punto non era tanto cosa fosse quanto più il fatto che possedesse un’ascia e, in quanto possessore di tale arma, andasse temuto.
Bushido gli diede della caffettiera e lo sfidò a duello. Questo lo irritò molto.
Sarebbero probabilmente finiti tutti molto ma molto male, se in quel momento, dalle mura superiori, non fosse arrivato Georg, correndo come un pazzo e gettandosi addosso al robot per poi afferrarne la testa metallica fra le mani e scardinarla con la forza di un vichingo, gettandola a terra.
A manovrare il bestione era in realtà una bestiolina: un goblin dall’aspetto piuttosto ridicolo. Georg prese fra le mani e scardinò con la forza di un vichingo anche lui.
- Ed ora tocca a me! – disse il ragazzo, prendendo possesso dei comandi del robot, - Vediamo come si guida quest’affare.
A guidarlo non riuscì affatto; in compenso, fu tanto bravo da incastrare l’ascia fra due pietre sopra le testa del robot, e continuò a maneggiare convulsamente tutti i pulsanti, le manopole ed i timoni che gli capitarono sottomano, finché l’enorme armatura non si accasciò priva di vita su se stessa, vittima di un banalissimo quanto ridicolo corto circuito.
Georg venne fuori stremato dalle lamiere, e la prima cosa che fece fu lasciarsi cadere a terra.
La seconda, cercare gli occhi di Bill, che si inginocchiò immediatamente al suo fianco.
- Non chiedo il tuo perdono. – disse il ragazzo, abbassando lo sguardo, - Non mi vergogno di averti dato quella pesca. Erano gli ordini di David, ed io ti avevo avvertito di essere un codardo. Oltretutto, non ho nessun interesse nelle amicizie, e-
- Ma io ti perdono. – disse Bill con un sorriso.
Georg tornò a guardarlo, gli occhi liquidi e persi.
- …davvero?
Bill annuì.
- Certe volte, le cose giuste sono giuste davvero.
*
All’interno del palazzo regnava il silenzio più totale. Di David – e di Tom, naturalmente – non c’era nessuna traccia. Entrare era stato perfino troppo facile, un po’ come se David si aspettasse davvero il suo arrivo ed un po’ anche come se avesse la certezza che comunque non sarebbe mai riuscito a trovarlo.
Mancavano ormai pochi minuti allo scoccare della tredicesima ora. L’unica via da seguire era una scala che partiva dalla sala del trono – immersa nel caos come fosse stata abbandonata in fretta e furia – e si perdeva in alto, chissà dove.
Bill si morse un labbro.
- Non possono che essere andati di là. – rifletté ad alta voce.
- Bene, allora. – disse Bushido, già sul piede di guerra, - Che stiamo aspettando?
Bill si voltò a guardare quegli strani compagni di viaggio che, nel bene e nel male, fra bassi ed alti di vario genere, gli erano stati accanto, e sorrise.
- Mi avete permesso di arrivare fino a qui, e per questo vi sarò sempre riconoscente… - disse sereno, - Ma questa è una cosa che devo fare da solo.
Georg si irrigidì.
- Ma… - provò a protestare, ma Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Se è così che devi farlo, - disse serio, annuendo nei confronti di Bill, - allora è giusto che tu lo faccia così. Sei un valoroso. E te la caverai egregiamente.
Bill sorrise ancora.
- …per qualsiasi cosa dovesse servirti… - disse Georg, abbassando timidamente lo sguardo.
Bill annuì.
- Conterò sempre su di voi.
*
La scala si perdeva nel nulla. In una distesa di macerie scomposte che un po’ facevano da pavimento ed un po’ volteggiavano minacciose nell’aria, quasi volessero caderti sulla testa da un momento all’altro.
Quasi proprio volessero ricordarti quello che la vita in fondo è sempre: un pericolo costante, quello di venire schiacciati da qualcosa di troppo grosso rispetto al peso che si può reggere.
Suo fratello, imbavagliato e privo di conoscenza, volteggiava proprio assieme ad una di quelle macerie, a qualche metro da lui. Fra Bill e il suo obiettivo, però, c’era ancora David.
L’uomo lo fissava incattivito, gli occhi sottili come quelli di un gatto e le braccia rigide lungo i fianchi.
- Ridammi mio fratello. – disse fermamente Bill, senza perdersi d’animo.
David ringhiò, facendoglisi più vicino.
- Non sfidarmi, Bill. – sibilò ad un centimetro dal suo volto, - Sono stato molto generoso, fino ad adesso, ma posso essere anche altrettanto crudele, quando voglio.
- Generoso, tu…? – ritorse Bill con un sorriso stremato, - E quand’è che lo saresti stato?
- Sempre! – replicò David girandogli intorno come un predatore, adirato, - Hai voluto che rapissi tuo fratello, l’ho rapito! Mi sono fatto sempre più terrificante vedendo quanto ti facevi piccolo e spaventato ogni volta che mi vedevi, ed ho sovvertito l’ordine del tempo, di un intero mondo!, solo per seguire esattamente i tuoi desideri, Bill. – si fermò di fronte a lui, sollevando una mano e sfiorandogli teneramente una guancia. – Non lo vedi…? Sono sfiancato dal mostrarmi sempre proprio come tu mi desideri, Bill.
Rosso d’imbarazzo, messo a disagio da un tocco che non avrebbe mai immaginato così caldo, Bill deglutì. Quell’uomo gli offriva un sogno, non aveva fatto altro che offrirgli il suo sogno perfetto da quando aveva messo piede nel suo mondo…
…ma suo fratello era lì a causa sua. E Tomi era troppo importante – troppo più importante del resto – per dimenticarlo. O per preferirgli uno stupido sogno. I sogni potevano tenergli compagnia durante la notte, ma per tutto il resto della sua vita sapeva che, se avesse dovuto scegliere qualcuno cui affidarsi completamente, quel qualcuno non sarebbe stato il re dei goblin, ma il proprio fratello.
Socchiuse gli occhi e poi li riaprì con decisione, cercando di ignorare le sensazioni che la mano di quell’uomo provocava in lui scorrendogli lungo la pelle del collo.
- Con rischi indicibili e traversie innumerevoli, - cominciò a recitare, - io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin. – deglutì, - Per riprendere il ragazzo che tu hai rapito. La mia volontà è forte come la tua, ed il mio regno altrettanto…
- Bill, non farlo. – lo interruppe l’uomo, stringendo la presa della mano attorno alla sua spalla, - Lascia solo che io ti domini, e potrai avere tutto quello che desideri. Io ti darò tutto quello che desideri.
Bill chiuse gli occhi ed andò avanti.
- …il mio regno è altrettanto grande.
- Non hai che da temermi! – ringhiò David, stringendo fino a fargli male, - Temermi, amarmi e fare tutto ciò che ti dirò. Ed io diventerò il tuo schiavo.
Bill si concesse un mezzo sorriso, prima di riaprire gli occhi. Ed andare ancora avanti.
- Il mio regno è altrettanto grande. – ripeté. – Tu… - sospirò, - tu non hai nessun potere, su di me.
E poi fu di nuovo come precipitare in un sogno. Però al contrario.
*
Spalancò gli occhi sul buio del proprio salotto, ansimando forte. C’era qualcosa che decisamente non andava nei suoi pantaloni ed era del tutto assurdo sentirsi così eccitati dopo un sogno simile, ma aveva poco da fare se non prenderne atto e rendersi conto di non essersi mai mosso da quel divano. Probabilmente neppure per provare a fare la pace con Tomi, come dimostrava il libro di Labyrinth ancora aperto a metà sulle sue ginocchia.
Posò il libretto sul cuscino accanto a sé, stiracchiando le gambe e soffrendo con le sue povere giunture che, piegate per tutto quel tempo, sembravano essersi completamente raggrinzite, e sembravano anche bene intenzionate a non sgranchirsi in tempi brevi.
Zoppicando un po’, si avvolse meglio nella coperta e si diresse verso le scale, chiamando suo fratello.
Si incontrarono sul pianerottolo, e si guardarono a lungo. Ad entrambi, però, basto un solo secondo per capire che era successo di nuovo.
- Bill, ma che razza di sogno hai fatto…? – commentò suo fratello con un mezzo sorriso incredulo, - A parte il fatto che c’era gente assurda, permettimi di protestare: mi hai fatto rapire dal re dei goblin! – rise, - Peraltro… un pervertito mica da poco.
Risero insieme per molti minuti, seduti sulle scale. Lì, ancora intenti a commentare i dettagli del sogno, li ritrovarono Simone e Gordon quando tornarono, a mezzanotte precisa. In perfetto orario.
*
Quando, in rapida successione, i gemelli conobbero Georg e Gustav, Simone disse che sembrava quasi che il Destino si stesse preparando a fare qualcosa di veramente grande per loro.
Nessuno si stupì quando David Jost, inviato dalla Universal, propose ai ragazzi un contratto per il loro primo disco. Nessuno si stupì perché era davvero un sacco di tempo che quella Simone diceva che i suoi figli erano davvero destinati a qualcosa di enorme.
Era giusto non stupirsi. Ma quello era il motivo sbagliato.
Bill continuava a dire di averlo visto in sogno, tutto quello.
E Tom gli dava man forte dicendo che l’aveva visto anche lui.
Quando, un giorno, dal nulla, Bill sorrise furbo al proprio benefattore e gli disse “tu… non hai nessun potere, su di me”, David Jost non capì. Si offese pure, in realtà. Non che chiedesse di avere chissà che potere sui loro corpi e sulle loro anime, ma non era mica tanto gentile quel frugoletto coi capelli neri come petrolio e sparati in aria come schegge di vetro, che si presentava così dal nulla a dirgli “tu non sei nessuno”.
David non capì e si offese.
Geog e Gustav non capirono e si chiesero se per caso Bill non avesse intenzione di sabotare la band prima ancora che riuscissero a produrre il disco.
Tom, però, scosse rassegnato il capo e gli sorrise, complice. Questo, per Bill, era più che sufficiente.
Genere: Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: OC.
- Durante i concerti dei Tokio Hotel, Bill Kaulitz ha l'abitudine di invitare una ragazza dal pubblico a salire sul palco per cantare con lui una parte di una canzone. Ogni tanto, però, le cose vanno esattamente nel modo più inopportuno possibile.
Note: Questa storia è gloriosamente dedicata principalmente a Gra e Fae, la prima perché ha partorito l’idea e la seconda perché ci ha seguite nel plottaggio folle che ne è poi derivato XD Vi amo, donne <3
Io, palesemente, amo questa storia. Riesce ad essere a mio parere compiuta nonostante la brevità indecente. Cosa ancora migliore: la brevità indecente era condizione necessaria per partecipare alla V Minidisfida del sito Criticoni *_* C’era un limite massimo di 2000 parole e sono riuscita a scrivere tutto senza sforare. Sono molto commossa. E Victor è, tipo, uno dei personaggi originali più carini che abbia mai partorito XD Grazie per la lettura e grazie altrettanto se vorrete lasciare un commento <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
INSTANT KARMA

Dunque, io a Martha voglio bene, eh. D’accordo, okay, magari non la amo, ma voglio dire, ho diciott’anni, amo solo la mia Wii, è l’unica cosa al mondo per la quale sarei disposto a rischiare la vita, perciò non rompetemi le palle se dico che non la amo, anche se lo so che lei mi adora. È che lei ha sedici anni, è normale che veda solo me nel mondo, esattamente come io vedo solo la Wii. Intendo, rientra nell’ordine naturale delle cose, non c’è niente per cui io debba sentirmi in colpa, anche perché, ammettiamolo, con lei sono delizioso. Tipo, quando è venuta a casa mia con suo fratello minore e mi ha chiesto di prestare al mostriciattolo la Wii così da farci lasciare un po’ in pace, io l’ho fatto, anche se, mettendo su due piani limonare con lei ed impedire a quel poppante di distruggermi la consolle, avrei decisamente preferito la seconda opzione. Però sono un ragazzo adorabile e non ho fatto storie.
Stavolta il sacrificio è stato anche emotivamente più pesante, volendo metterla in termini che a Martha piacerebbero moltissimo. Insomma, quando si è presentata al mio cospetto con due dannati biglietti già acquistati e quegli enormi occhioni verdi spalancati, mugolando “Avanti, Victor, è solo un concerto! Ti prego, accompagnami!”, io non me la sono sentita di dirle no. Anche se odio visceralmente i Tokio Hotel – non per altro: ne parlano tutti senza un effettivo perché – il loro cantante mi fa impressione e, per il resto, non potrebbe fregarmene di meno di passare otto ore fra fila e concerto in mezzo a vagonate di preadolescenti in minigonna e top che sperano di farsi vedere dal loro amore sul palco.
Okay, d’accordo, forse la questione delle minigonne e dei top – in mancanza di una Wii con cui giocare mentre aspetto che lo strazio si concluda – ha influito sulla mia decisione, ma posso ragionevolmente dire con una certezza di circa il 90% di aver accettato principalmente perché voglio bene a Martha e sono un bravo ragazzo. Oh.
Al momento siamo schiacciati fra la transenna e il resto del mondo. La maggior parte delle mie ore di dramma umano s’è già consumata, intorno a me le ragazze hanno pianto, si sono strappate i vestiti di dosso, hanno avuto un orgasmo spontaneo quando il chitarrista con dei capelli che Tarzan preferirebbe alla solita liana ha spruzzato loro addosso dell’acqua da una bottiglietta e, soprattutto, hanno lanciato sul palco ogni genere di suppellettile, dai reggiseni alle mutandine ai peluche passando per pacchetti di caramelle, lettere avvolte in buste profumate e confezioni formato famiglia di preservativi – che il suddetto chitarrista ha raccolto con evidente compiacimento e infilato in una delle tasche di quegli enormi sacchi che indossa al posto dei jeans con un sorrisetto che non lasciava presagire proprio niente di buono a livello generale.
L’incubo Burtoniano che regge il microfono nel centro del palco adesso sta parlando. Io sono riuscito, dopo circa un’ora, ad identificare le frequenze della sua voce ed escluderle dalla mia capacità di percezione sonora, quindi non lo sto a sentire. Le ragazze intorno a me strillano e saltellano, Martha mi si attacca al braccio brillando di fanatismo ed io sbadiglio sonoramente, grattandomi pigro la nuca.
E poi accade.
L’incubo Burtoniano comincia a zompettare, coordinato come uno struzzo al pascolo, dal un lato all’altro del palco. Si china ed osserva il suo pubblico con aria critica. Non ho idea di cosa stia facendo. Mi fa pure un po’ impressone, in realtà. Sta palesemente scegliendo una vittima. Al che comincio a chiedermi: ma non è che il mega-pacco di preservativi se lo dividono, i due gemelli mica-tanto-gemelli? No, perché la cosa apre prospettive inquietanti. Nel senso: l’incubo Burtoniano scopa? Cioè, no. non è possibile. E se lo fa, con chi o cosa? Non voglio saperlo.
Insomma. A un certo punto si ferma e comincia a squittire. Non è un suono cui sono preparato, intendo, non è la sua voce, perciò lo intercetto. Squittisce, fa squit, proprio, e si ferma. E lo vedo che comincia a gesticolare. Prima richiama l’attenzione di uno degli addetti alla security e poi gesticola. Nella mia direzione.
Mi rifiuto. Mi guardo intorno. A parte Martha, sono circondato da cessi. Questo mi fa venire in mente una cosa che la stessa Martha mi ha detto, cioè che l’incubo Burtoniano tira sul palco solo esseri dalla forma vagamente antropomorfa ma che non puoi mai spacciare per reali esseri umani. Mostri, in sostanza. Ho accanto un essere che risponde in pieno alla descrizione, è alta un metro e un tappo, ha degli insopportabili capelli rossi e crespi sparati per aria, è pallida come un cencio e ricoperta di efelidi. Dev’essere lei l’obiettivo. È lei. È lei, vero?
Vengo prelevato da due mani maschili grandi quanto due cerchioni d’auto, non più di tre secondi dopo. Non sono esattamente un fuscello – okay, d’accordo, magari non sono neanche tutto questo fulgido esempio di robustezza, però insomma – ma vengo sollevato lo stesso con una facilità impressionante. La cosa successiva di cui mi rendo conto è che sono sul palco. Cioè, sul palco. Plano sulle tavole e gli anfibi fanno un rumore intollerabile, lo sento nonostante la musica, che continua miracolosamente.
L’incubo Burtoniano mi fissa. E così mi fissano pure tutti gli altri: mi fissa il chitarrista – che per questo suo fissarmi perde una serie infinita di note, me ne accorgo anch’io che la canzone non la conosco – mi fissa il bassista – che però di note non ne perde – e mi fissa anche il batterista, e come mi fissano loro mi fissa anche tutto il resto del mondo e buona parte dell’universo, comincio a sospettare. Mi auguro stia guardando anche Dio, e non gli sia sfuggita la pesante imprecazione che gli ho telepaticamente inviato.
L’incubo mi fissa, appunto, e ha smesso di cantare già da un pezzo. Ha uno sguardo allucinato che mi fa una paura bestia. “Bill!” lo chiama la liana vivente a qualche metro da noi, e l’incubo si riscuote all’improvviso e riprende lentamente a cantare. Non sembra granché convinto. Mi fissa con aria inquisitoria e non so cosa stia cercando di dirmi. Io non capisco nemmeno perché sono qui, cazzo, io dovrei trovarmi là sotto, in mezzo al pubblico, cosa sto facendo qua sopra, cosa?!
Mi si avvicina qualcuno, da dietro. Panico. Non mi sento al sicuro, su questo palco. È il bassista che mi sibila “canta”, e lo sibila in tono accusatorio, come fosse ovvio e naturale che ogni persona vivente conoscesse le parole di questa stracazzo di canzone melensa che stanno suonando. Non ho idea di cosa vogliano da me! Cantare? Ma cosa?! Io non lo conosco, questo testo, e soprattutto non voglio cantare col nipote di Burton in vacanza-studio in Germania!
Dolore e sofferenza. Resto qui in piedi nel centro del palco come un citrullo. Intorno a me si sviluppa una realtà alternativa in cui io non esisto: vengo ignorato, l’incubo riprende a muoversi per tutto il palco con la grazia di un elefante sulle punte, fingendo di cantare cose che io non sento perché ho ripreso a fare selezione all’ingresso in fatto di suoni, e, in generale, il mondo – compresa Martha, che non riesco più a vedere – ignora la mia esistenza, riprendendo il proprio normale corso mentre io resto qui, disperato, e non so che fare.
Almeno fino a quando, guardandomi intorno con aria persa, non colgo un uomo sulla trentina che si sbraccia col rischio di slogarsi una o più spalle, cercando di attirare la mia attenzione. Mi muovo con circospezione cercando di raggiungere il backstage senza che nessuno mi noti, riesco ad inciampare ovunque nel tentativo ma mi ignorano tutti lo stesso. Magari sono diventato invisibile e l’unico che riesce a vedermi è il tizio di cui sopra.
Tizio che, peraltro, quando arrivo dietro le quinte comincia a darmi addosso.
- CHI SEI?! – strilla, utilizzando una quantità di decibel palesemente superiore rispetto a quella consentita dalla legge, - PERCHÉ SEI QUI?! COSA VUOI?!
Mi faccio forza per non urlare a mia volta “CAZZO NE SO, ME LO SPIEGHI UN PO’ LEI!”, e mi esibisco in un sorriso gentile e un po’ colpevole che, fossimo in un film, da solo varrebbe un Oscar.
- Io veramente- - comincio, con tutte le buone intenzioni del mondo, ma quello mi zittisce ricominciando a strillare.
- Non mi interessa! – sbraita, agitando le braccia con aria invasata, - Resta qui e sta’ zitto, fatti minuscolo, diventa invisibile!, qualsiasi cosa, non m’interessa, purché tu non rompa le palle!
In questo preciso istante – cioè, mentre lui mi sta ricoprendo d’improperi neanche fossi stato io a salire su quel dannato palco di mia spontanea volontà – lo chiamano.
- Signor Jost! – dicono, - Il concerto è appena finito e… c’è stato un disastro!
Il disastro, vengo a sapere poi, si è compiuto perché, a fine concerto, un gruppo di ragazze ha letteralmente abbattuto le transenne ed invaso la piazzola antistante il palco. Sento urlare parole sconnesse, questo Jost diventa improvvisamente una statua di sale e poi comincia a dare direttive in giro neanche fosse un generale dei marines, e tutto quello che so, dopo, è che mi ritrovo improvvisamente circondato da gente che mi spintona da un lato e dall’altro strillando “in fretta! Più in fretta! Verso il tourbus!”.
Non ho la minima idea di cosa mi stia capitando. Sono perso in un delirio cosmico. Il mio karma si sta ribellando contro di me. Giuro che non volevo affogare il criceto di mia sorella nel cesso, quando ero piccolo. È stato un terribile malinteso.
- Signor Jost! – strillo anch’io quando, nel mezzo del disastro, riesco ad intravederlo, - Io dovrei tornare da-
- Tu vieni con noi! – abbaia, afferrandomi per il cappuccio della felpa e trascinandomi dietro di sé, - Non posso mica passare di fronte all’entrata dello stadio e lasciarti lì!
Non capisco perché non possa, in realtà. E sono lì per dirglielo, anche, quando usciamo nel parcheggio e vedo in che condizioni è effettivamente l’ingresso dello stadio: ci saranno almeno tremila ragazze assiepate l’una sull’altra che strillano e piangono e si contorcono e Dio mio, è uno degli spettacoli più spaventosi ai quali mi sia mai capitato di assistere. Comincio a seguire il signor Jost di mia spontanea iniziativa, giusto per non intralciarlo mentre, palesemente, mi salva la vita.
Quando salgo sul tourbus, mi guardo intorno con aria smarrita. Qui si sta mettendo male, questo è evidente, ma il solo pensiero di tornare in mezzo al marasma mi terrorizza, sono ancora troppo giovane per morire e dubito che l’idea mi stuzzicherebbe anche se avessi una cinquantina d’anni, perciò resto buono e zitto e seguo il consiglio di Jost. Invisibilità. Io non esisto.
Mi seggo in un angolo e lì resto.
Il mondo torna ad accorgersi di me quando siamo già in autostrada. E ci siamo da una ventina di minuti buoni, almeno. L’incubo Burtoniano – uscito adesso dal bagno con un turbante di spugna in testa e una faccia da diva annoiata che ispira violenza come nient’altro al mondo – mi nota. Mi fissa. Mi scruta.
Mi fa una paura boia.
- Tu cosa saresti, esattamente?
Sono le uniche parole che mi dice. Ritengo di avere il diritto di rispondergli “potrei chiederti lo stesso” ma, l’ho già detto, sono un bravo ragazzo. Perciò taccio.
Vengo scaricato dieci minuti dopo ad una stazione di servizio nel bel mezzo del nulla. Jost mi ha consegnato personalmente venti euro e mi ha detto “cerca di arrivare a casa sano e salvo”. Io non ho ancora capito nemmeno chi fosse, quell’uomo.
Mentre sollevo il pollice e vengo caricato in auto da un vecchietto dall’aria viscida e dal sorriso inquietante che mi chiede “dove sei diretto, bel bambino?”, penso solo ad una cosa: non amare Martha è decisamente un motivo valido per mollarla. E mandarla pure a fanculo nel mentre, già che ci sono.
Quanto al resto, penso che non uscirò più di casa. Almeno per, facciamo, i prossimi vent’anni. E fanculo anche al karma.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Tom/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Slash.
- Dopo l'uscita del terzo album dei Tokio Hotel ed alla conclusione di un tour mondiale che avrebbe effettivamente potuto portare risultati migliori, dalla Universal giunge per Bill la possibilità di lavorare ad un album solista. Bill accetta. E il mondo di Tom crolla sotto gli occhi di David Jost - un testimone che avrebbe volentieri fatto a meno di questo ruolo.
Note: Tendo ad essere sempre piuttosto sincera ma poco obiettiva, nelle note finali delle mie storie, perché in genere le scrivo a caldo non appena conclusa la storia. Stavolta è diverso perché, appena finito di scrivere, ho chiuso ed inviato la storia a chi di dovere (dato che partecipava alla quarta Disfida dei Criticoni) concedendomi il tempo giusto di un paio di riletture alla ricerca di errori di battitura. Poi l’ho chiusa con una certa furia e l’ho lasciata decantare un paio di giorni, prima di riprenderla in mano.
Il fatto è che la sensazione, dopo due giorni, è la stessa di due giorni prima. Sono arrabbiata con questa storia e sono arrabbiata con me stessa per questa storia è___é La trama originaria – spero la si intuisca nello schifo – era bellerrima. L’ascesa ed il declino di Bill e dei Tokio Hotel erano un argomento di riflessione intrigantissimo ed avrei davvero voluto analizzare anche il rapporto che legava Bill a Brian, oltre che rendere in maniera di gran lunga più decente la strana relazione dei gemelli.
Purtroppo, il risultato finale non è che una bozza. Ebbene sì, questa è la bozza di ciò che avrebbe dovuto essere. E siccome io sono fisicamente incapace di riscrivere, sono perfettamente consapevole di aver sprecato una buona idea ed una buona trama per qualcosa che ritengo di gran lunga sottotono rispetto alla mia produzione e che ho finito per odiare proprio per questo. Anche perché la scena finale dei gemelli – quella dello strusciamento – era nella mia testa (ed è ancora, ma solo in potenza) veramente ma veramente bella. L’ho sprecata, del tutto. È una cosa abbastanza imperdonabile, ma cercherò di passarci sopra e fine XD
Alla fine, l’unica cosa mi piaccia davvero di questa fanfiction – oltre il concetto che ci sta dietro – è il titolo. Licorice vuol dire liquirizia, e l’ho scelto quando ho scoperto che le foglie di liquirizia hanno proprietà cicatrizzanti. Visto che questa storia parla di una frattura e della sua faticosa guarigione, mi è sembrato appropriato :)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LICORICE

~I grandi eroi, quelli che vengono ghermiti da me, dalla Gloria, non sono mai esseri imperfetti.
Knockin' Hills, di Keiko

Tom non l’aveva presa bene, ma d’altronde nessuno si era mai aspettato che lo facesse, nemmeno per un secondo, perciò la cosa non stupì né David né i ragazzi né tantomeno Bill, che la reazione di suo fratello l’aveva prevista con una precisione così millimetrica da lasciare sconvolti. David, quantomeno, che pure era abituato a momenti di telepatia gemellare che sfioravano il fantascientifico, era rimasto profondamente turbato quando, dopo aver parlato con Bill dei piani dell’Universal nei suoi confronti, il ragazzo aveva sorriso tristemente ed aveva commentato “Tom darà di matto… non sarà mai d’accordo, si chiuderà a riccio e non mi lascerà mai fare senza un’assicurazione”.
Il copione si era dipanato seguendo pedissequamente quella traccia, in effetti: Bill aveva chiesto a David di non dirlo a Tom, di lasciar fare a lui, e David non aveva trovato nulla da ridire, a parte una punta di preoccupazione del tutto giustificata della quale però, col cantante, non aveva affatto parlato. Bill e Tom erano grandi, dopotutto, e si trattava di questioni di lavoro. Avrebbero dovuto adattarsi.
Quando Bill aveva rivelato a Tom che la Universal voleva lanciare la sua carriera da solista, Tom aveva effettivamente dato di matto. David l’aveva saputo per primo perché la prima cosa che il chitarrista aveva pensato di fare era stato mettere mano al telefono, chiamarlo ed informarlo che non se ne parlava nella maniera più assoluta.
“Non puoi rifiutare, Tom, la faccenda non riguarda te.”, aveva risposto lui, cercando di mantenersi serio e impassibile di fronte a quella che era palesemente la furia di un ragazzino ferito, frustrato, deluso e spaventato.
“Senti, David, la faccenda mi riguarda eccome. I Tokio Hotel-”
“I Tokio Hotel non hanno nulla a che vedere con tutto questo.”
“La Universal sta rompendo il cazzo perché l’album e il tour non sono andati bene, ma Bill non è pronto a-”
“Bill”, l’aveva interrotto lui con un sospiro esasperato, “ha già firmato un contratto.” S’era interrotto, dando modo a Tom di respirare pesantemente nella cornetta e cercare, probabilmente, di far spazio nei polmoni per accogliere la notizia. “Individuale”, aveva precisato dopo una lieve esitazione.
“…e quindi è così.”, l’aveva sentito continuare, ma la sua voce era lontana e gelida. Soprattutto, non stava parlando con lui. David sapeva che Bill si trovava lì, proprio al suo fianco, che c’era rimasto per tutto il tempo, e come sapeva questo sapeva che in quel momento stavano parlando fra loro. “Ci molli così?”.
E la voce di Bill era arrivata, lontana e metallica e spezzata.
“No, Tomi. È solo un album. Poi torniamo subito in studio.” E la telefonata si era interrotta.
David aveva evitato di precisare l’ovvio – cioè che dopo un album da solista sarebbe servita della promozione da solista, un tour da solista e dopo, probabilmente, anche un fottuto periodo di riposo da solista, se non volevano perderselo per esaurimento da stress – e si era semplicemente preparato ad affrontare il seguito.
Quando “il seguito” era arrivato, avvolto in un cappotto color crema e decorato di un sorriso sicuro e cordiale, a nessuno era sembrato che per Tom potessero esistere ulteriori motivi per prendersela.
Però era successo. Quando aveva posato gli occhi su quell’uomo, per qualche motivo, Tom se l’era presa di più.
*
Bill si dondolò sulla sedia, stringendo le ginocchia fra le dita intrecciate. Sorrideva ma il suo era un sorriso lontano. Eppure c’era nei suoi occhi la scintilla di chi è felice per davvero. David si chiese per quale motivo, se era davvero così felice, non lasciava che la gioia affiorasse al sorriso.
Si rispose da solo ricordandosi che i sorrisi di Bill tendevano ad essere perfino più sinceri dei suoi occhi.
- Quindi è lui… il mio produttore.
David annuì, sospirando appena.
- Bill, se per qualche ragione-
- Brian Molko… - lo interruppe lui, dondolando ancora un po’, - Hai idea di quanto… non lo so. È una cosa surreale.
- Non è mica la prima volta che lo vedi. – sbuffò il manager, stringendosi nelle spalle.
- No, ma… sapere che dagli studi di registrazione uscirà entro l’anno qualcosa di mio e suo… non è esaltante?
David ridacchiò.
- Solo per un fanboy ossessionato come te, Bill. – lo prese in giro, - Ricordati che è lavoro. Solo lavoro. Lo sai come funziona in questo mondo, non ci sono amici, solo colleghi.
Bill arricciò le labbra in un broncio offeso ed incrociò le braccia sul petto.
- Devi essere sempre così cinico?
- Maturo.
- Vecchio.
David rise e scosse il capo.
- Okay, okay. – concesse alzando le mani, arreso, - L’importante è che tu stia tranquillo.
Anche se non capisco perché non sei felice.
Bill sospirò e stese per bene le gambe, sgranchendosi un po’.
- Secondo te dovrei fargli vedere i testi che ho scritto?
David fece una smorfia.
- Quelli scartati per l’album dell’anno scorso, Bill?
- No, no! – rise il ragazzo, lievemente imbarazzato, - …altri.
- Che non ho visto?
- Mh. – annuì lui.
- Ed io non li ho visti perché…?
Bill scrollò le spalle.
- Conservati per un’occasione speciale.
L’uomo roteò gli occhi e si grattò la nuca. Poi porse la mano.
- Ora posso vederli?
Bill sorrise e ficcò le mani in quel suo enorme valigione d’alta moda che continuava a chiamare borsa. Ne riemerse con un taccuino sgangherato la cui copertina, sotto gli schizzi e i disegni senza senso di cui l’aveva ricoperta, non era più neanche identificabile.
David prese fra le mani quel plico di fogli e ne lesse qualche riga.
- …sembrano buoni. – ammise con non poco stupore. Erano davvero per un’occasione speciale. – Sì, penso che dovresti mostrarglieli, Bill.
*
Tom si stava aggirando attorno alla sua scrivania con la furia di un animale in gabbia. Gli brillavano gli occhi e le labbra erano talmente contratte e sottili da non riconoscersi neanche più sul viso. Praticamente scomparse.
La sua agitazione faceva da contrasto in maniera quasi disturbante con la cupezza priva di espressività di Georg e Gustav, seduti sulle poltrone proprio di fronte a lui. Con loro, David aveva parlato. Sapeva che la situazione non li turbava quanto invece turbava Tom.
Forse era proprio quello, il punto. Tom continuava ad insistere sulla fine annunciata dei Tokio Hotel. Georg e Gustav, però, non ne avevano paura. E non perché non fossero interessati all’eventualità, semplicemente perché non la credevano possibile nel momento specifico.
C’era decisamente un altro motivo, dietro alla rabbia di Tom.
- Le vendite non sono più costanti?
Tom non si era mai interessato del versante economico della carriera dei Tokio Hotel. Gli era sempre bastato, fondamentalmente, avere i soldi per concedersi i propri capricci e fare musica. Lì si fermava il suo raggio d’azione mentale. Lì s’era sempre fermato, almeno.
Adesso che Bill stava chiuso in sala di registrazione con Brian Molko per buona parte delle ventiquattro ore della giornata, però, improvvisamente tutto assumeva importanza più rilevante.
- No, Tom. – rispose David, sistemando sulla scrivania gli ultimi resoconti perché, passandogli alle spalle, il ragazzo potesse dal loro un’occhiata e non capirne comunque un accidenti.
- Che vuol dire questa linea? – chiese il rasta, puntando il dito su uno dei grafici.
- È il grafico dei profitti derivati dalla vendita dell’ultimo album.
- Va verso il basso.
David sospirò.
- Non tanto in basso. È un calo, è fisiologico, prima o poi succede con tutti i dischi. Pensi che, non lo so, Let It Be venda tanto oggi quanto ha venduto nel millenovecentosettanta? – Tom ringhiò e ricominciò ad orbitare attorno alla scrivania. – Oltretutto, il vostro indice di gradimento è stabile. Non sta salendo, ok, ma è stabile. Ti ho rassicurato?
Era buffo ritrovarsi a rassicurarlo per una cosa simile. Il suo compito avrebbe dovuto essere non esattamente quello contrario, ma quasi. In effetti, un calo di vendite dopo l’uscita di un album era fisiologico, ma non quando la linea dei profitti cominciava ad inabissarsi già a metà del tour promozionale. I tempi erano un po’ troppo ristretti. Abbastanza da preoccupare la Universal, almeno. Il nuovo contratto di Bill non era esattamente piovuto dal cielo. Come niente mai piove dal cielo nello show business.
- Voi non dite niente? – chiese Tom, abbattendosi con un salto sulla scrivania e sedendosi praticamente di fronte a lui.
Georg e Gustav non dissero niente davvero.
*
Bill continuava a sorridere in maniera sospetta e David non sapeva come estrarre la verità da quel suo visino da Sfinge.
- Sta andando tutto bene, sì? – chiese, passandogli il Big Mac.
Bill annuì ed addentò il panino con voracità felina. Un morso enorme e giù dritto in gola, come non avesse neanche bisogno di masticare.
- Dio, avevo una fame assurda! – commentò il ragazzo, lasciandosi andare contro la sedia e sospirando sollevato, - Ero chiuso in studio dalle sette del mattino, sai? Allucinante!
David sorrise e sorseggio la propria coca cola.
- Mi racconti un po’?
- Brian è… è fantastico. – partì subito Bill, con aria sognante, - Non so come faccia, mi legge nel pensiero, se io sono lì che mi sto agitando perché non riesco a venire fuori da un verso, lui me lo sbroglia subito! È meraviglioso!
David sorrise ed annuì comprensivo.
- Hai difficoltà a comporre direttamente in inglese?
Bill si strinse nelle spalle.
- Odio quella fottuta lingua. – commentò distrattamente, - Ma Brian è bravo ad usarla.
- E le canzoni che avevi già scritto in tedesco? Gliele hai poi fatte vedere?
- Sì. – annuì Bill, - Ma Brian le ha trovate un po’ infantili. L’idea andava bene, mi ha detto, ma andavano scritte in maniera più consapevole. Sai che ha addirittura ascoltato tutta la nostra discografia per farmi notare che ripetevo le cose un po’ troppo spesso…? È meraviglioso.
David annuì ancora.
- Quindi va… tutto bene, no?
Bill sorrise. Un sorriso piccolo.
Come può andare tutto bene se i tuoi sorrisi sono solo questi? Non sorridevi così, quando registravi con noi. Non sorridevi così a Tom. Questo sorriso è davvero troppo troppo piccolo per contenere la gioia che sei in grado di esprimere quando sei veramente felice.
- Tomi come...?
- È un po’… - esitò, cercando la parola meno allarmante, - turbato.
Bill si morse un labbro.
- Le vendite-
- Non parliamo di questo. – sorrise David, conciliante, - Il tuo panino si fredda.
Bill annuì.
*
Quella rivista scandalistica, Tom gliela gettò sulla faccia. Senza il minimo rispetto.
David annaspò, strinse gli occhi per il dolore assurdo che l’aveva inebetito quando la costina rigida del magazine gli aveva colpito la radice del naso e poi, quando la fottuta rivista ricadde inerme sulla sua scrivania, si ritrovò a fronteggiare un paio d’occhi talmente infuocati da fare male più del dolore stesso.
- Cosa cazzo vuol dire.
E non era una domanda.
David prese la rivista fra le mani, forzandosi di ignorare lo slogan che, già in copertina, attirava gli sguardi su un cerchio fuxia all’interno del quale faceva bella mostra di sé uno scatto che ritraeva Bill e Brian al tavolino di un bar poco distante dagli studi di registrazione. Niente di compromettente, ma David lo sapeva: la roba veramente succosa sta nascosta all’interno, di modo che tu debba per forza comprare per averla.
Pagina dopo pagina, trovò l’articolo. Supposizioni, insinuazioni, basate più che su Bill sulle voci che vedevano Brian in rotta con la propria compagna, slogan offensivi che facevano pressione sulla differenza d’età e sulla palese ammirazione sconfinata che legava Bill all’uomo più maturo.
La Universal avrebbe dovuto muoversi con cautela. Le foto c’erano, ma non erano pericolose come David aveva tenuto. Un abbraccio un po’ tenero e Brian che apriva la portiera a Bill.
Tutto e niente, come al solito quando si parlava di gossip.
- Cosa devo dirti, Tom? – chiese esasperato, stringendosi nelle spalle.
- Devi dirmi cos’è questa merda. E perché è su questo schifo di giornale del cazzo.
Il manager sospirò pesantemente.
- È merda. Ed è questo il motivo per cui sta su questo giornale. Perché è un giornale del cazzo. Contento?
Tom non fu contento, naturalmente.
- Stanno insieme?
- Tom!
- Li hanno visti. Si abbracciano. Perché escono dal cazzo di studio di registrazione? Non dovrebbero.
- Hanno ancora diritto ad una pausa di quando in quando. – protestò lui, aggrottando le sopracciglia.
- Non ce l’hanno, cazzo, no! – ritorse Tom, battendo una mano sulla scrivania, - Devono finire il prima possibile, noi abbiamo un album da realizzare!, e loro perdono tempo al bar, porca troia-
- Tom, calmati! – lo riprese il manager, scattando in piedi e fronteggiandolo da una posizione lievemente meno svantaggiosa, nonostante i numerosi centimetri di cui Tom lo superava in altezza. – Ed, a proposito del prossimo album dei Tokio Hotel-
L’espressione sul volto di Tom lo terrorizzò. Lo vide letteralmente trasfigurare, da furioso a terrorizzato e sconvolto e perso.
- …ci hanno silurati?
Spalancò gli occhi.
- Ma cha cazzo… Tom?! Ma chi ti ha messo in testa quest’idea assurda?
Il ragazzo si morse un labbro, guardando altrove.
- Le vendite-
- La Universal non è sul punto di scindere il contratto, Tom. Dimenticati quest’idea del cazzo e prenditi una vacanza, visto che non avere niente da fare e restare qui ti sta palesemente facendo perdere la testa!
- Non posso andarmene! – sbottò lui, tornando a guardarlo, - Devo… tenerli d’occhio.
David lo fissò, incredulo.
- Non ho idea di cosa tu stia dicendo, Tom. Sono molto preoccupato per te. Parla con Bill, fatti rassicurare, non lo so, qualsiasi cosa. Non puoi essere davvero così geloso.
Ed era quella la parola. Era quello il motivo. David osservò gli occhi di Tom farsi enormi e liquidi e confusi, e se ne rese conto. Finalmente. Il motivo. Gelosia.
- …Tom?
Il ragazzo scosse il capo.
- Io non sono geloso. – rispose seccamente, - Sono preoccupato. Per i Tokio Hotel. Cristo, David, sono la cosa più importante che ho, è naturale mi preoccupi dell’eventualità possano essere silurati!
Il ragionamento filava, tutto sommato.
La falla alla base, però, impediva a David di prenderlo sul serio: la cosa più importante per Tom non erano i Tokio Hotel. Era Bill.
*
Bill non sorrideva neanche più. Il brillio nei suoi occhi restava ma David cominciava a sospettare fosse la maschera che usava per tranquillizzarlo. A guardare Bill negli occhi non si sarebbe affatto detto fosse triste: perché gli occhi erano vivi e ardenti e brillavano in un modo tutto loro, nel modo esaltato in cui brillano quando sei in mezzo ad un progetto cui tieni e che sta andando a gonfie vele.
A guardarlo solo negli occhi, lo si sarebbe detto felice.
Il sorriso, però, s’era spento del tutto.
- Hai parlato con tuo fratello di recente, Bill?
Il ragazzo rise e lo fissò come fosse un nonnetto un po’ scemo che dimentica le cose.
- David, io e Tom viviamo insieme…
- E parlate?
Bill guardò altrove.
- …quanto alto dev’essere il volume della voce perché dal “parlare” si passi al “litigare”? – chiese con aria afflitta.
David scosse il capo.
- Non c’è neanche bisogno di urlare davvero, per litigare, Bill.
Il manager lo osservò abbattersi contro la scrivania e nascondere la testa fra le braccia, sospirando dolorosamente.
- Allora litighiamo. – mugolò, - Non capisco perché, David. Con Brian va tutto così assurdamente bene ed invece con Tom mi sembra di vivere in un disastro. Mi sento male alla sola idea di tornare a casa, perché so che ci sarà lui, là dentro, che mi guarderà come se lo stessi tradendo e… - si interruppe, probabilmente realizzando la portata di ciò che stava per dire. O che forse, fra le righe, aveva già detto. – Noi non siamo tanto normali. – concluse, tornando a rimettersi dritto sulla sedia.
David sorrise conciliante.
- Forse non dovreste realizzare un altro album coi Tokio Hotel, subito dopo il tuo da solista, non credi? – propose esitante, lasciandogli un’amichevole pacca sulla spalla.
Bill spalancò gli occhi.
- Tom mi ucciderebbe.
- E tu prendi e te lo porti alle Maldive, lo infili in una piscina piena più di ragazze seminude che d’acqua e risolvi il problema, no?
Gli occhi di Bill si fecero ancora più grandi, e le sue labbra si piegarono in una smorfia di puro disgusto.
Risolvere il problema? Evidentemente no.
*
David non stava facendo niente di particolare, quando il problema si palesò in tutta la sua enormità. Proprio perché non aveva niente di particolare da fare, anzi, s’era ritrovato testimone involontario di quanto stava accadendo dentro ai gemelli. E pressava per venire fuori.
Girovagava per gli studi senza una meta, alla ricerca di un distributore automatico di caffè che non fosse il solito, dato che era fuori uso, quando notò qualcosa di strano agitarsi in un angolo e gli sembrò di riconoscere quel qualcosa come l’onda morbida e scura dei capelli di Bill.
Ed un mugolio.
Un angolo, un mugolio, i capelli di Bill.
Pregò perché dietro quell’angolo non ci fosse Brian Molko, ma quando si mise a spiare – dandosi a bere la scusa del bravo manager che tiene d’occhio i propri pupilli – ciò che vide gli fece rimpiangere l’altra opzione.
Perché con Bill c’era Tom.
Non stavano facendo niente, ma non era necessario.
Bill era schiacciato contro una parete. Suo fratello era schiacciato contro di lui. Si guardavano.
- Mi stai facendo impazzire, cucciolo. – disse Tom, a due centimetri dalle sue labbra, - Perché mi stai facendo questo?
Bill guardò altrove ma suo fratello non glielo lasciò fare: lo afferrò per il mento e lo riportò occhi nei suoi.
- Non ti sto facendo niente, Tom. – si forzò a rispondere il moro, gli occhi socchiusi, - Sei tu che-
- Non ti ci voglio vedere più, con quel tipo.
- Stiamo lavorando insieme.
- Tu sei mio.
Un attimo di esitazione, un respiro strozzato.
- …lo so.
Tom sospirò e poggiò la fronte contro quella del fratello.
- Le registrazioni stanno andando bene? È un bell’album?
Bill chiuse gli occhi ed aggrottò le sopracciglia, lasciandosi sfuggire un lamento di puro dolore quando Tom si mosse contro di lui.
- Sì. – rispose a bassa voce, stringendo le dita attorno alla maglietta di Tom.
Il rasta annuì.
- Rescindi il contratto. – disse poi, seccamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Tomi-
- Rescindi il contratto. Non voglio che tu finisca quest’album. Non voglio vederlo nei negozi e non voglio neanche vederlo completo. Non voglio sentirlo, non voglio pensare che esista e ti rivoglio con me. Nei Tokio Hotel. Adesso.
Bill scosse il capo.
- Non posso, Tom.
- Tu non capisci. – strinse la presa attorno ai suoi fianchi, pressandoselo contro. – Stanno solo preparando il terreno. Se le vendite del tuo disco andranno bene… - sollevò una mano ad accarezzargli una guancia, - …e lo faranno, cucciolo… - scosse il capo, - se succederà, dei Tokio Hotel non rimarrà niente. Niente di niente. Ti prego, Bill, rescindi il contratto e torna a cantare con noi. Sarà un album meraviglioso, non dovrai pentirtene, ho già un mucchio di idee, ti prego, Bill, ti scongiuro.
Bill deglutì e chiuse gli occhi, sfiorando la guancia di Tom con le labbra.
- Io non lo capisco perché fai così… - sussurrò ad un centimetro dalla sua pelle, arreso ed estenuato.
Tom si mosse contro di lui ed il gemito di Bill diede a David tanti e tali brividi da costringerlo a pressarsi una mano sulla bocca per non rantolare qualcosa.
- Sì che lo capisci, cucciolo. Lo sai perfettamente. Non fartelo dire.
Bill chiuse gli occhi e chinò il capo.
Poi, semplicemente, annuì.
*
Solo in ufficio, David rimase a lungo ad aspettare l’arrivo di Bill. Cercò di capire dove avesse sbagliato, mentre attendeva. Se avesse sbagliato nello scegliere proprio due gemelli come cavallo di battaglia, o se avesse sbagliato dopo, quando li aveva uniti per sempre con un contratto più restrittivo di un accordo prematrimoniale. O se, infine, il suo errore non fosse stato quello di avallare una separazione che in fondo nessuno dei due voleva.
Bill non riusciva a sorridere perché non era per Brian che voleva cantare.
Tom non faceva che pensare alla morte dei Tokio Hotel perché erano i Tokio Hotel l’unica cosa che gli interessava mantenere in piedi. Per Bill, solo per lui. Non per le fan, non per la musica, ma perché era lì che Bill voleva cantare.
Quando il moro entrò in ufficio, si sedette alla scrivania e sciorinò la propria vacua sequela di giustificazioni e lamentele – aveva ragione Tomi, David, io non sono pronto, quest’album non mi convince, non voglio avviarmi come solista, possiamo per favore riportare tutto com’era? Tu puoi, giusto, David? – lui non trovò niente da obiettare. Non perché non potesse: avrebbe potuto rimproverarlo fino alla fine del mondo battendo sull’irresponsabilità palese che dimostrava, sull’impossibilità di fidarsi di lui per progetti alternativi e così via fino a stordirlo di chiacchiere.
Ma lui non aveva voce in capitolo, per quanto riguardava quella decisione.
Lui ne era l’esecutore materiale e lo scomodo testimone.
- D’accordo, Bill. Vedrò cosa posso fare.
Bill sorrise. Sorrise davvero.
- E quello che avete già prodotto? – chiese il manager, inarcando un sopracciglio.
Il ragazzo si strinse nelle spalle.
- Ricicleremo.
E tu, Bill? E Tom? Riciclate il non-detto che continuate a ripetervi da anni o passate al livello successivo?
Evitò di chiederlo. Sospettava che, così esplicitamente, non ne avessero mai discusso neanche gli stessi gemelli. La cosa importante, al momento, era che la frattura si fosse ricomposta. Fosse grazie alle strusciatine dietro un angolo agli studi o grazie all’insistenza di Tom o alla resa di Bill, non l’avrebbe probabilmente mai saputo.
E non era neanche così importante.
Sospirò. Il grafico delle vendite dell’ultimo album dei Tokio Hotel continuava a scendere.
Palesemente non erano i Tokio Hotel, quelli che si sarebbero salvati, alla fine di quella storia.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Tom/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, Slash, Violence.
- Storia breve del turbolento rapporto dei gemelli Kaulitz.
Note: Può non sembrare, ma in questa fic c’è un’attenzione al particolare che è disgustosa. È ambientata fra ieri ed oggi e tutti i tempi combaciano. L’Adolphus esiste davvero – ed è… *O* La cicatrice di Tom c’è sul serio. Bill ha davvero la fissa del lato destro del letto e Tom ha davvero la fissa del lato del telefono – o almeno così dicono. La teoria di Jost – quella che Bill sia “impazzito” e si sia femminilizzato a partire dalla fine del 2005, nasce dal fatto che la neechan mi ha esposto la stessa teoria vedendola nell’ottica delle foto di Tom con Ann-Kathrin. Che risalgono al novembre 2005, appunto. L’idea che ci sta dietro – spero si capisca, perché se no la fic sembra campata per aria XD – è che la “follia” sia scoppiata per gelosia.
Comunque sì, io con i gemelli violenti vado a nozze. E questa è, per certi versi, anche più violenta di Angry Sex. Non so se più bella XD A me, comunque, piace un sacco.
Baci <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
IL LATO GIUSTO DEL LETTO

Lui e Bill avevano un rapporto turbolento, e questo non era un mistero per nessuno. Non avrebbe mai potuto esserlo, d’altronde, dal momento che litigavano giornalmente e, ogni volta, l’eco delle loro urla risuonava con tanta potenza da costringere chiunque all’attenzione. Pure coloro che se la sarebbero volentieri risparmiata, per dire.
Il loro problema era molto semplice: il loro rapporto era sempre venuto prima di tutto il resto; perciò, se avevano qualcosa da discutere, non c’era nessuna ragione che potesse giustificare il rimandare la questione. Sorgeva un problema? Si litigava e si risolveva.
Volavano botte, a volte, ma andava bene così. Ricordava ancora perfettamente una volta in cui s’era presentato da David con una guancia così gonfia da non poter neanche parlare.
“Dio!”, aveva strillato il manager, sollevando sconvolto le braccia in una movenza omosessuale in maniera così lapalissiana che, se non avesse sentito dolore praticamente in ogni parte del corpo, l’avrebbe costretto ad una risata tale da far tremare le pareti, “Dimmi che hai sbattuto contro un camion in corsa e che non è stato Bill a farti questo!”.
Tom aveva ghignato.
“E dovresti vedere le condizioni in cui è lui”, aveva risposto con aria furba.
In effetti, l’occhio nero di Bill era sopravvissuto per circa una settimana, prima di riassorbirsi e sparire.
In ogni caso, si trattava di episodi. Come nascevano, si esaurivano. Ed a tutti sembrava andare bene – per lo meno, a lui e Bill sembrava andare bene. Gli altri si adattavano, come sempre.
Era per questo che, anche riflettendoci per delle ore, non sarebbe mai riuscito a spiegare cosa cazzo fosse intervenuto a cambiare così tanto la loro normalissima quotidianità.
Da un paio di mesi a quella parte – una nullità, confrontata al resto della loro vita, ma abbastanza lunga da rompergli sufficientemente le palle – lui e Bill avevano cominciato a saltare la parte del “risolvere”, in favore di una specie di enorme guerra prolungata la cui intensità mutava giorno dopo giorno, confondendo il mondo intero. Alle volte erano battaglie di lunghi silenzi risentiti, altre volte scoppi d’ira ferocissimi ed irrefrenabili – anche qui con botte e tutto, sia mai farsi mancare un livido, non è corretto di fronte al kit di pronto soccorso che poi si sente trascurato, come commentava stancamente Gustav di tanto in tanto.
Per Tom, in effetti, la questione era un enorme mistero. A sentire David, tutto era cominciato molto tempo prima, intorno alla fine del 2005, quando Bill aveva deciso di farsi crescere i capelli e cominciare a truccarsi come una zoccola pure poco costosa. “Non te ne sei accorto?”, gli sibilava maligno il manager di tanto in tanto, “Assieme ai capelli è uscita la maggior parte del cervello, e ciò che è rimasto è stato atrofizzato dal kajal. Molto semplice!”.
Se solo avesse davvero voluto cominciare quella discussione con David, Tom avrebbe saputo esattamente cosa rispondergli. E cioè che del suo semplice pensava fosse molto inappropriato e basta. Perché con Bill non c’era mai niente di semplice. La sua testa era un enorme e disastroso gomitolo di complessità.
Bill aveva un talento enorme per complicare le situazioni. Gli piaceva rimuginare sulle cose. Perciò prendeva fatti di per sé innocui e riusciva – chissà come – a rigirarseli fra i neuroni così a lungo da trasformarli in apocalittici disastri.
Ed era sempre così.
Era per questo che riuscire a capire perché nello specifico fosse arrabbiato era così difficile. Perché stavi lì a fare l’elenco delle tue mancanze e sapevi con certezza che non avresti mai trovato l’unica che l’aveva definitivamente indisposto.
Sarà stato perché ho mangiato l’ultima caramella gommosa?
Sarà stato perché ho dimenticato di spruzzare il deodorante dopo essere uscito dal cesso?
Sarà stato perché mi stava dicendo qualcosa ed io non l’ho ascoltato?
Sarà stato perché mi ha chiamato ed io non me ne sono accorto?

Avrebbe potuto continuare all’infinito. La lista degli errori non aveva fine, perché ogni piccolezza poteva farne parte. Perché magari c’erano cose di cui tu neanche ti eri accorto ma che lui aveva preso per tremende offese in prima persona.
Bill era così, ormai c’era abituato.
Ma questo non gl’impediva d’incazzarsi come una bestia, quando accadevano cose simili.
Nell’ultimo periodo accadevano fin troppo spesso, c’era da ammetterlo. E Tom stava decisamente cominciando a sentirsi a disagio. Era per questo che poteva dire con certezza che David avesse torto e non fosse cominciato tutto nel lontano 2005: perché prima di allora Tom non s’era mai sentito a disagio con suo fratello. Alla fine del 2005 magari Bill aveva lasciato crescere i capelli ed aveva cominciato a truccarsi da troia. E magari loro due già litigavano e Bill ogni tanto gli allungava qualche ceffone da manuale, d’accordo.
Ma non gli tirava addosso le tazze col preciso obiettivo di spaccargli la testa.
Non lo colpiva con un gancio alla mandibola nel tentativo di scardinargliela.
Non lo prendeva a calci, stendendo quelle chilometriche gambe sul metro scarso che separava le loro cuccette, fino a riempirgli gli stinchi di lividi al punto da rendergli difficoltoso perfino camminare.
La stessa cosa, d’altronde, poteva essere detta di lui. Dal momento che Bill picchiava forte, nemmeno lui si sentiva in dovere di trattenere alcunché. E perciò giù pesanti col tirargli i capelli fino a torcergli il collo, lanciargli addosso il giubbotto stando bene attento a colpirlo con la zip o i bottoni, e tirargli sui fianchi certi calci da impedirgli di indossare pantaloni a vita bassa per settimane, in attesa della scomparsa del livido.
In realtà le botte con Bill non erano mai state “un problema”.
Cioè, lo erano – ovviamente – per chiunque, loro madre in prima persona, ma non per loro: era un’abitudine che avevano consolidato col tempo e… a pensarci era stato proprio lui ad iniziare. Bill aveva sempre avuto questa propensione smodata per il piagnisteo logorroico – nel senso che, quando cominciava a lamentarsi per qualcosa, andare a fermarlo era un’impresa impossibile; la cosa non lo infastidiva particolarmente, quando Bill si lamentava di altri.
Quando si lamentava di lui, però, diventava intollerabile.
Non sapeva perché. Non era convinto di essere un fratello perfetto. Anzi, sapeva di essere sostanzialmente il contrario, il più delle volte.
Però Bill aveva un liebe dich facilissimo, facile esattamente quanto l’hasse dich. Il punto era che sentirsi scivolare addosso il primo era bello come mangiare la nutella dal barattolo a cucchiaiate; quanto al sentire addosso il secondo…
Quello faceva schifo.
E perciò Tom odiava gli hasse dich di Bill. Li odiava con una furia sconcertante, li odiava dal profondo, non li tollerava nemmeno. Nach Dir Kommt Nichts lo irritava da morire soprattutto per quello, ed era, d’altronde, il motivo per il quale non era mai stata suonata dal vivo. Era una canzone d’impatto emotivo allucinante, David non l’aveva ancora perdonato per avere imposto che venisse estirpata dalla scaletta.
Lui non l’avrebbe mai suonata in pubblico.
Quando Bill cantava quella canzone, si ricordava tutti i motivi – i più stupidi, i più insignificanti – per i quali avrebbe potuto odiarlo.
Quella canzone era piena di hasse dich.
Era insopportabile.
Quindi, dovevano avere dodici anni all’incirca, e Bill aveva stabilito che avrebbe passato l’intero pomeriggio a lamentarsi di quanto Tom fosse un fratello orribile perché non s’era accorto immediatamente appena l’aveva visto che qualcosa era andato storto a scuola.
Il “fratello orribile”, quel giorno, aveva beccato un orribile sei – un sei, Dio – in matematica, e quindi aveva altri cazzi per la testa che non le paturnie di un gemello deficiente che magari non s’era sentito considerato come avrebbe meritato e quindi aveva pensato bene di cominciare a rompere le palle per rimettersi al centro dell’attenzione.
Perciò, il “fratello orribile”, quando il fratello lagnoso aveva cominciato, appunto, a lagnarsi, l’aveva menato. Punto.
Le parole per Bill contavano tutto e niente. Le sue erano importanti come lingotti d’oro, le altre – perfino quelle di Tom – valevano più o meno come la merda, perciò discutere con lui era del tutto impossibile. Un ceffone bene assestato e la sua guancia pallida era diventata improvvisamente rosso fuoco, ma – cosa ancora più importante – il fiume in piena s’era fermato.
Da allora era stato un crescendo. A Bill la novità era piaciuta tantissimo, tant’è che ci aveva preso subito la mano. In tutti i sensi, poi. La cicatrice sul sopracciglio destro – trattata dalle fan con un amore pari solo a quello che portavano al tatuaggio inguinale del suo gemello – non era che lo spiacevole ricordo di una cazzo di porta chiusa sulla faccia. Già.
Tom la nascondeva, non perché la trovasse antiestetica – non aveva un vero a proprio senso estetico, in realtà – ma perché mostrarla in giro gli faceva male. Era come quella dannata canzone: la prova provata che fra lui e Bill gli hasse dich fioccassero esattamente come i liebe dich.
E vallo a capire, quale contava di più per suo fratello.
*
In sostanza: gli ultimi due mesi erano stati impossibili, le botte erano volate con una frequenza spaventosa e David aveva quasi cominciato ad insistere perché uno di loro si spostasse nell’altro tourbus con Georg o Gustav, dal momento che quasi non c’era mattina senza che ci si svegliasse con gli strepiti di Bill ed i grugniti di Tom nella testa.
“Dovrete frenarvi, prima o poi. A meno di non volervi massacrare a vicenda”, era stato il secco commento del manager quando entrambi – uniti e compatti come sempre quando qualcuno cercava di separarli – avevano detto “mai e poi mai”.
Tom ebbe modo di pentirsi di quell’ostinato rifiuto – almeno da parte propria – quando la sera del ventisette agosto, tra grandi sospiri ed ostentata esasperazione, David gli disse che lui e Bill avrebbero dovuto dividere la stanza in albergo.
- …David, mi vuoi morto? – si ritrovò a chiedere con aria allucinata, mentre stringeva tra le mani la carta magnetica della camera. – Quello mi ammazza! Oggi è stato intrattabile tutto il giorno, con quei cazzo di pantaloni che continuavano a scivolargli di dosso non faceva che smadonnare e prendersela con me, cazzo!
In effetti, neanche la cintura quella sera sembrava in grado di tenere a posto i dannati pantaloni ricoperti di zip che Bill amava tanto, ed il continuo doverseli tirare su prima che gli cascassero alle caviglie aveva enormemente indisposto suo fratello, come Tom aveva avuto modo di provare sulla propria persona, quando, per chissà che miracolo, era riuscito a schivare la lattina vuota di Red Bull con la quale Bill aveva provato ad ucciderlo dopo una presa in giro un tantino più cattiva.
- Tom. – rispose David con un enorme sospiro stremato, - Avete voluto l’albergo più bello di Dallas? Vi ho trovato l’Adolphus. Non puoi pretendere anche che tutte le stanze siano vuote per il vostro piacere. Anche Georg e Gustav divideranno la stanza. Quindi, se non vuoi dormire con Georg, piantala di rompere i coglioni. – Tom aveva provato a protestare qualcosa, ma David gli aveva alzato addosso uno sguardo semplicemente incandescente, e le parole gli erano morte in gola. – Tom, è stata una giornata sfiancante ed abbiamo la sveglia alle cinque. Devo metterti a dormire con un colpo in testa?
Ci penserà Bill, tranquillo, fu l’amaro pensiero di Tom, mentre suo fratello rientrava dai cinque minuti di sigaretta che l’avevano tenuto lontano in giardino a smaltire nervosismo.
- Andiamo? – gli aveva chiesto Bill senza guardarlo negli occhi, il tono rude e secco che usava quando non voleva assolutamente sentirsi dire no.
Tom quel no gliel’avrebbe detto volentieri per puro sfregio, ma lasciò perdere.
La suite, in effetti, sarebbe pure valsa la pena di dividere il letto con Bill, se solo Bill non fosse stato così scazzato. Tom poteva leggerglielo negli occhi: c’era la luce cattiva e compiaciuta di quando si preparava a fare qualcosa di veramente scorretto.
- Ovviamente io dormo a destra. – aveva dichiarato il suo gemello, lasciando cadere sull’enorme divano in pelle marrone la borsa per la notte e dirigendosi a passo sicuro verso la camera da letto.
Tom l’aveva seguito subito, giusto per curiosità, preparando già sulle labbra il solito “d’accordo” senza sentimento che riservava alle stronzate come quelle. Tanto in genere il telefono stava a sinistra. Quando dormiva, stare dal lato del telefono era l’unica cosa che gli interessasse davvero.
Ovviamente, quella suite era troppo bella per non avere nemmeno un difetto.
Nel caso di specie, il fottuto telefono a destra.
Sollevò lo sguardo su Bill. Bill lo fissò di rimando.
- Non se ne parla. – intimò crudo il moro, scalciando in un angolo le scarpe da tennis e muovendosi svelto verso il letto.
- Bill, non fare lo stronzo. – si lamentò lui, imitandolo e sfilando anche il cappellino, posandolo con cura sul comodino. – Lo so che oggi sei furioso, ma non voglio litigare pure per dormire.
- Nemmeno io. – concordò Bill con un sorrisetto stronzo, - Perciò tu dormi a sinistra e basta. – concluse sfilando la cintura e lasciandosi scivolare i pantaloni lungo i fianchi. – Tanto, chi vuoi che chiami?!
- Non mi interessa, io dormo dal lato del telefono, come sempre, Bill. – rispose lui, sfilando la fascia e le magliette con una violenza tale che quasi si strappò via un paio di dread dalla testa.
Bill lo sferzò con un’occhiata semplicemente furibonda.
- Scusa, perché la tua routine dovrebbe valere più della mia? – chiese, mantenendo un tono falsamente casuale che si contrapponeva in maniera fastidiosissima al suo sguardo bollente, - Anche io dormo sempre a destra. Perché tu dovresti continuare a dormire dal lato del telefono ed io invece non posso continuare a dormire a destra?
Tom roteò gli occhi e scalciò via i pantaloni, rimanendo in boxer ed arrampicandosi sul letto.
Bill gettò lontano la maglietta e, con la movenza di un gatto che si avventasse sulla propria preda un attimo prima di lasciarsela sfuggire dalle grinfie, prese posto sul lato destro del letto, colonizzandolo. Tom, in ritardo di un paio di secondi, sbatté il viso contro le sue mani tese in avanti. Sbatté le labbra, per la precisione. A voler essere ancora più puntigliosi, il cazzo di piercing che indossava. E che, grazie alla botta, gli ferì il labbro superiore.
- Ma Cristo… - sibilò allontanandosi da lui e mettendosi in ginocchio sul materasso, tastando con aria incerta il labbro dolorante, - Cazzo, Bill, ma vaffanculo, oggi mi vuoi veramente fare fuori o che?!
Bill scrollò le spalle, infilandosi sotto le coperte ed arricciandosi attorno al cuscino.
- È solo un taglietto. – sminuì con aria superiore.
- Un taglietto il cazzo.
Gli ci volle un po’, per capire che l’aveva detto sul serio. In genere, cercava di tenere pensieri simili sepolti sul fondo del cervello; soprattutto quando doveva stare a contatto così ravvicinato con Bill, perché mancargli di rispetto in maniera così palese era un po’ come chiedergli di picchiarlo.
Gli ci volle ancora un po’ per capire che non s’era semplicemente limitato a parlare, no. aveva anche allungato una mano. E l’aveva afferrato per la spalla. E scrollato. Fino a rivoltarlo sul materasso come un’omelette, costringendolo a guardarlo negli occhi.
- Come hai detto, scusa? – chiese Bill, gelido e retorico, artigliandogli un polso con le unghia perfettamente laccate di nero.
- Un taglietto il cazzo. – ripeté Tom, senza abbassare lo sguardo, - Non osare mai più comportarti così con me.
- Strano. – ringhiò Bill, strattonandoselo di dosso e scattando a sedere a pochi centimetri da lui, rischiando di mollargli una sonora testata sul naso. E non era neanche sicuro che quella non fosse l’idea di base. – Stavo per dirti la stessa cosa.
E l’aveva schiaffeggiato.
A Tom servì un po’ anche per capire quello. Per qualche strano motivo – forse la stanchezza? – le sue percezioni sembravano rallentate.
Bill l’aveva schiaffeggiato. Con rabbia ed anche con un po’ di disgusto. In pieno volto. Fissandolo negli occhi.
Non era esattamente come tirargli un bicchiere o una qualsiasi altra cosa addosso. Uno schiaffo era diverso, uno schiaffo era esattamente come un hasse dich.
Lo schiaffeggiò a propria volta.
Ti odio anche io. Ti odio, ti odio, Cristo, ti odio.
Ti odio quando mi odi.
Ti odio perché non mi ami.
Cosa ti costa un liebe dich? Cosa?

Non passò molto prima che si ritrovassero annodati sul lato destro del letto, in un groviglio di pugni, calci, schiaffi e parolacce sussurrate a mezza voce contro le orecchie, contro le guance, contro il collo. La pelle di Bill era bollente come l’Inferno. Tom stringeva le mani attorno alla sua vita, percepiva sotto i polpastrelli la loro consistenza ossuta, lasciava scivolare il pollice contro l’ombra di un tatuaggio appena riconoscibile al buio, e tutto ciò che riusciva a pensare era che odiava il suo calore. Che amava il suo calore. Che voleva il suo calore e nient’altro, probabilmente.
Bill provò a sferrargli una ginocchiata fra le cosce, e Tom glielo impedì gettandoglisi letteralmente addosso, schiacciandolo contro il materasso con tutto il peso del proprio corpo.
Il ginocchio di Bill s’infiltrò comunque fra le sue cosce.
Ma non fu… doloroso.
Bill non se ne accorse comunque e, frustrato, fece l’unica cosa che poteva ancora fare: scattò in avanti e gli morse il collo. Con violenza. Con cattiveria.
Con una possessività che Tom non aveva mai sentito prima nei suoi tocchi.
E che però probabilmente c’era sempre stata.
Perché quando Bill gli metteva le mani addosso, lo faceva col preciso intento di prenderlo e stritolarlo fra le dita. Quando Bill gli faceva del male, lo faceva col preciso intento di lasciargli sulla pelle quanti più lividi possibile: per marchiarlo.
E questo Tom lo capì sentendo i suoi denti affondare nella propria pelle. Lasciare l’impronta e premere ancora, come scavando fra i nervi nel tentativo di raggiungere le ossa.
Lo strinse con più forza per i fianchi, spingendo il proprio bacino in avanti.
Suo fratello era eccitato.
Lui lo era stato dal primo momento in cui il suo ginocchio l’aveva sfiorato in mezzo alle gambe.
Bill si scostò da lui e lasciò andare un mugolio d’approvazione, andando incontro alla sua spinta e cercando di riprendere fiato. Riuscì in qualche modo anche a liberare le braccia, e lo strinse con forza attorno alle spalle.
- A me succede sempre… - confessò con voce roca e bassa, spingendosi a propria volta contro di lui, - Quando litighiamo, mi succede sempre. Cristo.
Tom ringhiò qualcosa di incomprensibile, che probabilmente non aveva senso neanche in partenza, e lo strinse dietro la schiena, continuando a spingersi furiosamente sul suo corpo, strisciando sulla sua pelle e godendo della frizione sublime della propria erezione sulla sua.
- Vaffanculo. – gli bisbigliò in un orecchio, leccandolo voracemente lungo il collo, - Allora lo fai apposta?
- No. – rispose cupamente Bill, ansimando in maniera incontrollata, - Sì. Forse. Non lo so. Me ne frega un cazzo. Muoviti.
Era un ordine perentorio e, per quanto in genere gli seccasse darla vinta a Bill, quella volta Tom non aveva alcuna voglia di disobbedire. Ed infatti non lo fece: continuò a stringerselo forte contro, strusciandoglisi addosso e succhiandogli un lobo, mentre Bill gli ansimava in un orecchio e gli lasciava scivolare addosso un paio di mani affamate e confuse, marchiandogli la pelle con le unghia, facendogli male – perché no, quello non poteva mancare, assolutamente, sia mai la cassetta del pronto soccorso si senta trascurata, eh, Gustav? – e continuò a scoparlo senza scoparlo davvero, a lasciarsi scopare senza neanche sfilare i boxer, finché non venne contro lo stesso tessuto ormai bollente e sudatissimo e, stremato, si abbatté contro di lui, immobile.
Bill provvide a se stesso spingendosi ancora un paio di volte contro la sua gamba.
E poi rimasero in silenzio, ancora annodati, l’uno sull’altro, dal lato giusto del letto.
Nessun vittorioso, nessun vinto.
All’esclusiva si poteva anche rinunciare.
D’altronde, Bill era a destra e Tom era vicino al telefono.
Tutti contenti. No?
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Tom/David, Tom/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, Slash.
- Il sesso raccontato da Tom Kaulitz. In tutte le sue possibili sfumature.
Note: Okay, un attimo fa stavo parlando con Yul e lei mi stava graziosamente ricoprendo di immeritati complimenti, poi sono andata a controllare il pollo per la cena e, nella strada fra la cucina e lo studio, al ritorno, ho realizzato che in questa storia Tom è l’uke. Cioè. Ho scritto sette pagine di porno – più o meno – senza accorgermene. No, sul serio, la mia testa ha dei problemi. Gravi °_°
A parte queste facezie, comunque, è una storia cattiva e sporchissima, e perciò ovviamente io la amo XD Credo di aver superato perfino la schiettezza della Favola Storta. Probabilmente perché quella storia era narrata da Bill che un po’, nelle favole, voleva ancora crederci. Qui, invece, pur non essendoci prima persona, la narrazione è talmente… influenzata, diciamo così, dal POV di Tom, che è… insomma, a me sembra quasi squallida XD In realtà non lo è, però lo sembra. Brr. XD
Il twincest s’è infilato a tradimento. Mi sa che c’è qualcosa di serio da parte di Bill per Tom XD Non lo so con certezza perché in realtà questa storia non l’ho pensata. L’ho sentita, scritta e basta XD Comunque tendenzialmente voleva essere una Tost (per Yul, ovviamente), solo che poi, boh. Cioè, Tom è più Tom così. *abbraccia pansessuale!Tomi*
Altro da dire non c’è XD Se non che nelle intenzioni doveva essere più spinta che cattiva. Ha finito per essere, credo, più cattiva (esibita?) che spinta, ma non me ne pento è_é Spero vi sia piaciuta :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
WET DREAM WALKING

Tom adorava i sogni bagnati.
Nell’incoscienza del sonno, poteva quasi sentirsi sorridere, quando ne viveva uno. Adorava la sensazione che gli si spandeva per il corpo, riempiendogli il petto, stirandogli le gambe, arrossandogli le guance, inumidendogli le labbra. Adorava sentirsi pieno e teso al limite.
Una volta David l’aveva svegliato nel bel mezzo di uno di quei sogni, chiedendogli di malo modo se si stesse masturbando.
Ancora rintronato, lui gli aveva sbraitato in faccia che non stava facendo niente del genere, stava solo sognando.
David aveva sgranato gli occhi, sconvolto.
“Sembravi a un passo dal venire, giuro…”, aveva balbettato incerto.
Ero ad un passo dal venire”, aveva confermato lui con uno sbuffo infastidito, tornando a dormire.
Era consapevole del fatto fosse una cosa che nessuno riusciva a capire. Perfino Bill – che viveva i sogni erotici nello stesso identico sporchissimo e splendido modo – se ne vergognava come un ladro. Tom lo sentiva, quando succedeva, ed andava ad infastidirlo apposta, chiedendogliene i dettagli. Bill si nascondeva pudico e gli dava del pervertito.
A Tom quel tipo di piacere non causava il benché minimo imbarazzo. Il sesso gli piaceva in ogni forma. Da solo riusciva ad amarsi bene. Quando scopava con qualcun altro, amava ancora meglio. Ma nei sogni non partiva tutto da lui, nei sogni era amato e basta. Non doveva fare niente, dare niente, pensare a niente.
Bastava prendere. Prendere tutto. Fino in fondo. Ed era stupendo.
Adorava in particolar modo il momento in cui entrava nel dormiveglia e continuava a trattenere le sensazioni del sonno profondo, stringendole quasi fra le dita. Aveva un controllo maggiore del proprio corpo, però, e questo significava una mobilità più consapevole, più mirata. Significava che, se c’era qualcosa di morbido contro cui strusciarsi, lo si poteva fare. Significava inarcare la schiena e sentire la tensione accumularsi e poi sciogliersi di colpo in tutti i muscoli. Significare spingere i piedi contro – cos’era quello? Lo scheletro del letto? Il bracciolo del divano? – e sentire quel misto di dolore e piacere che anticipa i crampi e che si scioglie nell’orgasmo quando non puoi più frenarti.
Significava socchiudere gli occhi con un sorriso soddisfatto. Il sorriso di chi se l’era goduta proprio tutta.
Dalla scrivania, per metà nascosto dallo schermo del computer, David lo guardava con palese divertimento, un sopracciglio sollevato ed il sorriso stronzo col quale condiva ogni commento sarcastico.
- Lo stavi facendo di nuovo. – commentò infatti l’uomo, incrociando le braccia sul petto.
Ancora troppo compiaciuto per potersi davvero arrabbiare, Tom sorrise e si stiracchiò, intrecciando poi le mani dietro la nuca e sistemandosi meglio sul divano.
- Avresti dovuto esserci. – rispose invece, guardando il soffitto bianchissimo, - Il miglior fottuto orgasmo della mia vita.
David sbuffò, socchiudendo lo schermo del portatile ed alzandosi in piedi.
- Sai che questa mania è frustrante?
Tom sollevò gli occhi nei suoi, sorridendo furbo.
- E perché mai?
David sorrise a propria volta, chinandosi a baciarlo sulle labbra.
- Come si fa a competere coi sogni?
*
Inizialmente, David gli era piaciuto proprio per quel motivo. Il sesso era stato la ragione principale della loro relazione. L’unica ragione, per meglio dire.
Era successo casualmente – come sempre: il sesso non è mai preventivato; quando lo è, fa schifo – non avevano né bevuto troppo né voglia di provare qualcosa di nuovo, né soprattutto nulla da dimostrare l’uno all’altro o a chiunque altro al di fuori di loro. Era semplicemente successo che Tom sollevasse lo sguardo su David che prendeva il caffè sul tourbus al mattino, e trovasse sexy la rada barba che gli copriva il mento e le guance.
Era stata la suggestione di un attimo, ma gli aveva impegnato il cervello, tutto, per un sacco di tempo. Aveva finito il latte, s’era alzato dal proprio posto, l’aveva raggiunto, afferrato per la nuca e baciato. Non era mai stato tipo da farsi particolari problemi sul chi baciare e sul perché farlo. Lo faceva e basta. Ricordava di una volta in cui le ragazze al liceo l’avevano costretto a giocare al gioco della bottiglia, ed era casualmente capitato gli toccasse di baciare Bill. Se suo fratello non fosse letteralmente scappato in giardino, abbandonando la festa, lui l’avrebbe baciato e basta. Anche Bill era sexy, quella sera. Era un motivo sufficiente.
David s’era separato da lui dopo qualche secondo di confusione. Il bacio era stato sofferto – David non aveva voluto saperne di abbandonarsi e basta – ma il sapore del caffè sulla sua lingua era piacevole sulla propria, perciò poteva dichiararsi soddisfatto.
- …è vero che i ragazzini sanno di latte. – era stato il commento dell’uomo, quando aveva ritrovato il fiato.
Tom aveva riso e l’aveva baciato ancora.
- Stavolta sapeva di cappuccino. – aveva commentato a propria volta, leccandogli malizioso le labbra, prima di staccarsi da lui e tornare a mangiare biscotti un secondo prima che Bill uscisse dalla propria cuccetta, lamentoso a disfatto come ogni mattina.
La giornata era passata in maniera incredibilmente divertente: David aveva continuato a tempestarlo di occhiatacce stranite per tutto il tempo, Bill se n’era accorto ed aveva a propria volta cominciato a tempestare entrambi di domande apparentemente semplici e intimamente complicatissime, al punto che entrambi avevano ritenuto molto più saggio non rispondere.
Alla fine, Bill aveva messo il broncio. Tom gli aveva regalato un polsino. Bill era tornato a sorridere e tutto aveva ripreso a girare secondo il suo giusto corso.
Tranne le occhiatacce di David, che erano rimaste le stesse fino a sera.
- Si può capire perché mi fissi come se ti avessi violentato? – aveva chiesto quella sera stessa, digerendo faticosamente la pizza coi peperoni che Bill aveva provveduto ad ordinare per cena, - Ti ho solo baciato!
David aveva lanciato un’occhiata allarmata al Kaulitz dormiente contro la spalla di quello che gli stava parlando, e Tom aveva risposto con un ghigno consapevole.
- Dorme davvero. – l’aveva rassicurato, - Tranquillo.
Il manager aveva annuito compitamente, intrecciando le dita sul tavolo, di fronte alla tastiera dell’immancabile portatile, e poi aveva deglutito con palese imbarazzo.
- Tom, quello che è successo stamattina…
Tom s’era alzato, adagiando Bill sul divanetto e dirigendosi verso David. Aveva fatto ruotare la sedia e gli si era seduto in grembo.
- …era solo una pallida introduzione rispetto a quello che succederà stanotte. – aveva concluso per lui.
David non aveva risposto.
S’era limitato a deglutire ancora.
*
Le prime parole che gli aveva detto, ancora attorcigliato a lui su quell’indecenza di letto minuscolo nell’area notte del tourbus che divideva con suo fratello, erano state qualcosa di profondamente maleducato e profondamente stronzo, se ne rendeva conto. Qualcosa tipo “vali molto più di quello che ti pagano per contratto!”. Lo disse ridendo e lesse negli occhi di David un tale senso di mortificazione che per un secondo – uno solo – si sentì quasi perfino in colpa.
- Adesso non prenderla male. – si sentiva scemo a dover fare discorsi simili. Di solito è l’adulto del caso che rassicura il ragazzino del caso, non il contrario. – Intendevo che è stato bello.
- È stato… - aveva cominciato David, incerto, - Tom, ma che cazzo stiamo facendo? Che cazzo stai facendo?
Tom era rotolato su se stesso, piantando i gomiti sul materasso ed inarcando la schiena per guardare David dall’alto.
- Mi piace come scopi. – gli aveva detto, - Avevo pensato che mi sarebbe toccato fare fatica, per prendermi ciò che volevo. Sembravi così riluttante… - aveva sospirato e sorriso, chinandosi a scrutarlo da vicinissimo, - Ed invece poi è stato come se volessi darmi tutto senza chiedere nulla in cambio.
David l’aveva afferrato per i dread, allontanandolo con violenza.
- Il mio cazzo stava su per il tuo culo. Ecco cosa mi sono preso in cambio. – aveva detto con una secchezza incredibilmente fastidiosa.
Tom gli aveva regalato il sorriso più storto della sua intera esistenza.
- Bene. – aveva commentato, - Allora non ti sei preso niente più rispetto a quello che volevo darti.
David aveva deglutito a fatica.
- Tu stai scherzando, mi auguro.
Tom aveva riso forte.
Dall’area-giorno del tourbus, Bill aveva mugolato un “Tomi…” piagnucoloso. Tom s’era sollevato sulle braccia, aveva indossato i boxer e l’aveva raggiunto senza una parola di più.
*
Quando, dopo un paio di giorni, Tom era tornato a pretendere soddisfazione, David s’era mostrato sinceramente stupito. Doveva aver davvero pensato che fosse stato un errore, o al massimo una cosa da una sola volta.
Tom gli si era strofinato contro. Era già duro da impazzire.
- Tom?! – aveva strillato David, guardandosi intorno allarmato, - Dove sei stato, fino ad ora? – aveva chiesto poi, indicando l’orario sullo Swatch che indossava.
- Scopavo. – aveva risposto lui senza pensarci, continuando a strusciarsi contro la sua gamba.
- …con chi? – era stata la sofferta domanda del manager.
Tom aveva sorriso.
- Bionda, figa e buona a niente. Non sono venuto. Provvedi tu?
- Cristo… - aveva sussurrato l’uomo, passandosi una mano sugli occhi, - Tuo fratello?
- Importuna Georg. – aveva risposto lui, salendogli letteralmente addosso, - Vuoi darti una calmata, riguardo a Bill? Quando sarà un pericolo, ti avvertirò.
David aveva sorriso stancamente.
- Come se t’interessasse.
- M’interessa.
- Di Bill. Non che sia un problema per me.
Tom aveva sbuffato.
- Queste sono menate che accetto da mio fratello e basta. – s’era lamentato, zittendolo con un bacio rude e violento, - Perché sì, lui è Bill. Tutto il resto è sacrificabile. Se non ti sta bene, mandami a fanculo e smetti di scoparmi. Per me è okay.
Fortunatamente, David aveva trovato molto più piacevole infilargli una mano sotto i millemila strati di magliette che indossava.
Ecco un altro motivo per cui David gli piaceva tanto: molte domande, ma poche che valessero davvero qualcosa.
*
Quando Bill li aveva scoperti, Tom era riverso sul letto e si stava masturbando. David l’aveva preso da dietro e lo stava fottendo con una violenza squisita. Avevano litigato furiosamente perché David era dell’avviso dovesse tornare prima la notte, mentre Tom era fermamente intenzionato a continuare a fare esattamente il cazzo che gli pareva. Aveva giocato la carta della gelosia, gli aveva detto “non stiamo insieme, David, non ti aspettare fedeltà”, ma era stata una furbata e basta: sapeva che David non stava parlando per gelosia ma solo perché addormentarsi alle cinque del mattino in tour e con il soundcheck fissato alle sette poteva non essere una scelta saggia.
Tom non era tipo da scelte sagge, altrimenti non avrebbe mai cominciato a farsi scopare dal proprio manager.
Non avrebbe saputo spiegare esattamente come dal litigio si fosse passati al sesso, comunque era stata un’ottima scelta.
Stava lì, chino sul materasso, David spingeva da dietro schiacciandolo verso il cuscino e Tom poteva sentire solo gli ansiti di entrambi, il dolore netto alla base della schiena per la posizione scomoda ed il piacere del tutto personale della propria mano attorno al cazzo.
E poi, all’improvviso, aveva sentito il profumo della lacca per capelli.
Bill aveva quel profumo lì. Veniva prima del suo sciccosissimo dopobarba, prima dell’odore pastoso dei trucchi, prima del detersivo neutro che usava per lavare i vestiti, prima dello zucchero appiccicaticcio del lucidalabbra e di quello altrettanto fastidioso delle caramelle che teneva perennemente in bocca.
Bill profumava di donna perché Bill profumava di lacca.
- Oddio…
Quando aveva sentito quell’invocazione disperata, Tom sapeva già che Bill era lì. L’aveva sentito eternità prima.
David non avrebbe potuto dire altrettanto, però. Tom lo sentì pietrificarsi, mormorare un’imprecazione sconvolta e cercare di separarsi da lui. L’aveva afferrato per i fianchi, spingendoselo contro fino in fondo, fino a farsi male.
- Se ti fermi ti ammazzo. – aveva minacciato con un ringhio insofferente. Poi s’era rivolto a Bill, che era ancora fermo sulla soglia della zona notte, gli occhi spalancati e le mani serrate attorno alla bocca, - Bill, ti dispiacerebbe aspettarmi fuori? – aveva chiesto, cercando di recuperare la calma, - Ne parliamo, promesso.
Bill aveva annuito, ancora in evidentemente stato confusionale, ed era scivolato oltre le tende, verso i posti a sedere sul retro del tourbus.
Chiaramente, non c’era stato verso di concludere. David aveva cominciato ad agitarsi come un’anguilla nel momento esatto in cui Bill era sparito, e non c’era più stato modo di convincerlo ad andare avanti. Con un grugnito di disapprovazione, Tom gli aveva dato del buono a nulla e l’aveva fermato quando David aveva fatto cenno di volere uscire per raggiungere Bill.
- Se ci vai tu ora, ti cava gli occhi. – l’aveva avvertito atono, - Lascia perdere, è una cosa fra noi.
David aveva protestato vagamente, ma s’era arreso ed era ricaduto sul letto – il letto di Tom. Faceva strano vederlo lì, ansioso teso e nudo, una mano fra i capelli e le lenzuola buttate svogliatamente addosso. Era abituato a vederlo fra quelle lenzuola quando scopavano, ma così no. Era un po’ troppo intimo, per i suoi gusti.
- Vado di là. – aveva annunciato con una scrollatina di spalle, - Ti dispiacerebbe rivestirti e non farti trovare, quando torno? Probabilmente Bill sarà con me.
David gli aveva alzato addosso uno sguardo infuocato, l’aveva mandato a fanculo, si era rivestito ed era uscito ancora prima che Tom potesse infilare i boxer. Tom l’aveva sentito strepitare “fermati!” all’autista con una tale enfasi che il pover’uomo aveva inchiodato all’improvviso, e dal fondo del tourbus s’era sentito qualcosa rotolare e qualcuno mugolare un piagnucolosissimo “ahi”.
Mentre David abbandonava la vettura, facendo ampi cenni al tourbus di Georg e Gustav – che li seguiva a qualche metro di distanza – perché si fermasse, Tom s’era reso vagamente presentabile ed aveva raggiunto Bill. L’aveva trovato ancora per terra, sulla moquette rossa e impolverata che rivestiva tutto l’ambiente, mentre fissava con aria sconsolata una macchia di gomma da masticare sul pavimento, le gambe ripiegate sotto il sedere e le braccia molli a ricadere lungo le cosce.
- Fatto male? – aveva chiesto con un mezzo sorriso, porgendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.
Bill l’aveva guardato con un misto di insofferenza ed imbarazzo.
- Sono ancora insensibile al dolore fisico. – gli aveva risposto, sbuffando platealmente.
Tom si era seduto tranquillamente su una delle poltroncine attaccate alla parete, ed aveva fatto segno a Bill di accomodarsi sulle sue ginocchia.
Bill aveva obbedito, arrotolandoglisi addosso come faceva sempre quando era mortalmente triste.
- Sai di lui… - gli aveva sussurrato nell’orecchio, sfiorandogli una guancia con la punta del naso, - È sexy. Eravate sexy, sul letto.
- Ti è piaciuto lo spettacolo? – aveva chiesto lui di rimando, sorridendo furbo.
Bill aveva sospirato, scrollando le spalle e distendendosi sul suo petto.
- David sembra forte. È bravo?
- Ti risulta che mi conceda meno del meglio?
- Mi risulta tu sia un pervertito e basta. È bravo o no?
Tom aveva sospirato e l’aveva baciato su una guancia.
- È forte davvero. Se vuoi te lo presto un po’. – aveva commentato con una risatina divertita.
Bill l’aveva schiaffeggiato sul braccio.
- Non parlarne così. Io voglio bene a David.
- Anche io.
- Tu vuoi bene solo a te stesso.
- È vero. – aveva riso Tom, stringendolo alla vita, - Ad entrambe le parti di me stesso.
Bill aveva sospirato ancora, mugolandogli sul collo.
- Cosa ti devo dire, Tomi?
- Non lo so. – aveva risposto lui con un’altra scrollatina di spalle, - Per te va bene?
- Mi stai chiedendo il permesso? – aveva chiesto Bill, ridendo forte.
- Non dirlo come fosse una novità. – s’era lamentato Tom, aggrottando offeso le sopracciglia, - Lo faccio sempre.
Bill gli si era rivoltato fra le braccia, salendogli addosso a cavalcioni ed incrociando le gambe dietro alla sua schiena. I loro bacini si erano scontrati con forza e Tom aveva ricevuto chiarissima la percezione fisica di quanto lo spettacolo di poco prima dovesse avere impressionato suo fratello.
- Io vengo sempre prima? – gli aveva sussurrato Bill, fissandolo cupamente ad un millimetro dal suo viso.
- Prima e dopo. – aveva risposto Tom, lasciandogli scivolare una mano fra le cosce. – Sssh. – aveva sussurrato, quando Bill aveva provato a tirare fuori una protesta, - Ti aiuto e basta.
Bill aveva reclinato il capo contro la sua spalla e Tom l’aveva preso per un “ok”.
*
- Che cosa diamine vorrebbe dire che hai risolto la questione?
Erano state queste le prime parole di David quando, l’indomani – dopo aver dormito in poltrona, con Bill, il suo profumo ed il suo orgasmo addosso – era andato a dirgli che non c’erano più problemi di sorta ed avrebbero potuto scopare allegramente senza preoccuparsi di nessuna ritorsione da primadonna offesa.
- Non esiste, Tom, ci siamo divertiti, è durata quanto è durata, ma tuo fratello-
- Mio fratello non ha problemi in merito.
- Tuo fratello ieri stava davanti alle cuccette e ci guardava come fossimo assassini!
- David, e che cazzo, tu non c’eri, non puoi saperlo!
- C’ero, Tom, Cristo santo, c’ero eccome!
Tom aveva incrociato le braccia sul petto, sbuffando sonoramente.
- Non dentro la sua testa. – aveva risposto piano.
David s’era lasciato andare contro il portatile, abbattendosi letteralmente sul monitor che aveva ripiegato sulla tastiera.
- Senti, Tom, questa faccenda della telepatia gemellare era già poco credibile come stronzata da dare in pasto alle fangirl, se tu pensi che me la beva-
- È la verità. – aveva ribadito lui, piccato. Poi, rendendosi conto che, continuando sulla via dell’ostilità, non avrebbe cavato un ragno dal buco, aveva sorriso e gli si era avvicinato, abbracciandolo da dietro e strofinando il naso contro la sua nuca. – Avanti… non succederà niente, Bill l’ho calmato io… non ti piaceva scoparmi? – aveva riso a bassa voce, leccandogli il collo e godendo del sapore salato della sua pelle, - A me piaceva sentirti dentro…
- Tom, smettila. – l’aveva pregato David, chiudendo stancamente gli occhi.
Lui aveva sorriso più apertamente e gli aveva sfiorato l’inguine.
- Sei già duro. – aveva constatato, concedendosi una risatina. S’era separato da lui il minimo indispensabile per sfilarsi le magliette ed osservarlo ruotare sulla sedia, cedendo al bisogno di guardarlo. – Allora? – aveva chiesto, lasciandosi scivolare una mano lungo il petto, - Vieni o no?
David s’era alzato e l’aveva letteralmente inchiodato alla parete.
- Non puoi permetterti di trattarmi così. – gli aveva sibilato addosso.
Tom aveva riso ancora e gli aveva leccato le labbra.
- Insegnami un po’ di buona educazione. Vuoi?
David l’aveva baciato con tanta forza che Tom s’era ritrovato più volte a sbattere la testa contro il muro, dietro. Ed era stato tutto meno che spiacevole.
*
Fosse stata una questione di abitudine, il gioco non sarebbe durato per più di un mese. Tom era un abitudinario in molti ambiti della propria esistenza: i vestiti, i capelli, la musica, Bill, ma sicuramente non nel sesso. Il sesso doveva variare. Il più spesso possibile. O diventava noioso.
Il problema del sesso per abitudine era anche che provava a convincerti ci fosse qualcos’altro sotto. Prendere una groupie e trasformarla in una scopata regolare sarebbe stato un errore madornale, per esempio, perché la tipa poi avrebbe cominciato a pensare “magari torna perché mi ama”, e quella sì sarebbe stata la fine.
No, il sesso funzionava – ed era bello – proprio quando dietro non c’era nulla.
Era per questo che, a parte qualche raro caso, tra lui e Bill non ce n’era. Perché non c’era sesso, okay, ma c’era tutto il resto.
Con David, invece, di sesso ce n’era proprio tantissimo. Sempre, poi. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Era una cosa divertente e pure abbastanza stupefacente, ricordava di aver commentato la sua iperreattività una volta con una risata ed un “sei molto più arrapato di un adolescente, credimi” che David aveva preso malissimo, peraltro.
Ma non era neanche per la quantità che continuava a tornare da lui. Non era per la quantità, non era per presunta tenerezza, non era per affetto e non era nemmeno per capriccio.
David sapeva farlo sentire amato.
Era una cosa che Bill gli aveva detto spesso, in passato. Gli aveva detto “vedrai, troverai qualcuno che ci riuscirà. Ti farà sentire amato”. Dietro gli occhi di Bill c’era anche un “ti darà quello che non posso darti io” che era una delle poche cose nella sua esistenza che fossero state in grado di farlo sentire triste come se l’avessero frantumato, ma non era qualcosa cui potesse pensare con superficialità – non era qualcosa cui potesse pensare e basta – perciò alla fine aveva smesso.
Aveva smesso anche Bill. Di dirglielo. “Rassegnati, cucciolo, nessuno a parte te può farmi sentire amato, perché nessuno a parte te potrà mai sentirsi amato da me”, gli aveva detto un giorno, e Bill aveva sorriso e scosso il capo, prima di baciarlo timidamente all’angolo della bocca.
Alla fine, però, era successo.
Tom non stava facendo niente per far sentire amato David. Perché non lo amava.
Ma David… David sembrava che neanche ci provasse, ma lo faceva sentire amato comunque.
Era il suo modo di muoversi, il suo modo di guardarlo… non era neanche qualcosa che Tom percepisse con nettezza, la maggior parte delle volte, però c’erano dei momenti ben precisi – quando erano completamente soli, o poco prima di addormentarsi – in cui lo sentiva chiaramente sulla pelle. Per esempio, ogni tanto David lo abbracciava. E non lo faceva per sesso né per abitudine né per chissà che altro motivo, erano lì e lo abbracciava, punto. Gli faceva passare un braccio sulle spalle e lo stringeva a sé. Il che era anche un po’ ridicolo, a volte, visto il divario d’altezza che li separava, ma il più delle volte finiva con l’essere tenero e basta, ecco.
Oppure, era perfettamente in grado di capire quando avesse voglia di farsi scopare con foga e rabbia, piuttosto che con una pigra e rilassante lentezza. O viceversa. Intuiva alla perfezione i suoi desideri e li realizzava senza la minima difficoltà.
Forse era proprio per questo che continuava a tornare. Continuava a raggiungerlo.
Ne sentiva perfino la mancanza.
Durante l’ultimo tour europeo s’erano mossi senza di lui, che aveva da fare in Germania a causa dei preparativi per l’uscita del DVD e poi dell’album, ed in effetti a Tom era un po’ mancata, la sua presenza. Nessuno riusciva a dargli quello che gli dava David. Ed a Bill non poteva chiederlo, perché il solo pensiero di fargli male a quel punto lo nauseava.
A David non doveva chiedere nulla. David dava e basta. David era il suo sogno erotico vivente, merda. E non c’era.
Appena rimesso piede in Germania, la prima cosa che aveva fatto era stata salutare Bill e dirgli che si sarebbero rivisti più tardi. Bill non aveva avuto bisogno di chiedergli niente. Aveva riso e poi dato direttive perché la crew portasse a casa i bagagli.
Tom era talmente esausto che, appena arrivato a casa di David, era crollato addormentato sul divano. Ma non era pentito di trovarsi lì, in quel momento.
- Stanotte dormo qui. – annunciò tranquillamente, balzando in piedi e dirigendosi a passo svelto verso la cucina.
David sollevò un sopracciglio e si accomodò meglio sul divano, accavallando le gambe.
- E tuo fratello? – chiese incerto.
- Anche lui. – rispose naturalmente Tom, rubando una scatola di biscotti dalla credenza, - Lo chiamo più tardi.
David sospirò e scosse il capo.
- Posso chiedere il perché di tale onore?
- Mi va di dormire con te, che domande. – mugugnò fra un boccone e l’altro.
- E tuo fratello? – ripeté David, incapace di trattenere un mezzo sorriso.
- No, a lui non va di dormire con te. – disse Tom, scuotendo il capo.
- Intendo… - spiegò l’uomo, esasperato, - perché deve venire qui?
- Abbiamo passato insieme l’ultimo intero mese! – strillò lui, tirandogli addosso un biscotto, - Come pretendi che ci stacchiamo da un momento all’altro?! Sei ingiusto!
David si tirò in piedi e lo raggiunse, sorridendo rassegnato.
Tom lo allacciò alla vita appena entrò nel suo raggio d’azione.
- Sei tu che sei ingiusto, Tom. – disse David, posandogli una mano sulla nuca ed attirandolo a sé.
Tom ridacchiò e lo prese un po’ in giro, avanzando in cerca di un bacio e ritirandosi subito prima di concederglielo.
- Avanti… non ho mica detto che deve dormire nel letto con noi.
David rise e lo tenne fermo per il mento, prendendosi ciò che gli veniva promesso e che si meritava pure, in fondo.
- Non è quello che dici, il problema. È quello che non dici.
Tom gli saltò addosso, stringendolo alla vita con le gambe.
- Tanto quello che vuoi sentirti dire non te lo dirò mai. – concluse con un altro bacio.
David scosse il capo e, senza una parola di più, lo portò in camera.
Genere: Commedia.
Pairing: David/Dave.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- 12 Agosto 2006. Come ogni anno da quando è cominciata la convivenza con David, i Tokio Hotel si ritrovano tutti sfrattati da casa con direzione Kiel in quanto, quando fa il compleanno, David preferisce essere lasciato solo. Stavolta, però, complice un ritardo imprevisto, le cose non andranno come dovevano...
Note: XD Io non sono normale *sospira* Be’, comunque una gioiosa birthday!fic per Herr Jost ci voleva u.u Io amo le birthday!fic, sono cose pucciose u.u L’idea… Uhm, l’idea nasce millemila settimane fa dalla voglia di scrivere di David che gioca con l’ombelico di Dave °_° (sì, l’ho detto che non sono normale XD). Io comunque mi sono innamorata di questo pairing, già a guardarli sono amabili XD David il figo e Dave l’orsacchiotto. Sono così rovesciabili *_*
La colpa è di Yul u.u che ringrazio per avermi obbligato moralmente a scrivere questa vaccata.
Tanti auguri, Herr Jost, ti amiamo tutti tantissimo ç*ç
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SURPRISE!

I ragazzi non avevano mai capito per quale motivo David, il giorno del suo compleanno, pretendesse sempre l’appartamento libero. Era una routine che si ripeteva da sempre, fin dal secondo anno che avevano trascorso tutti insieme ad Amburgo, e che non aveva mai mancato di bussare alle porte della loro quotidianità, distruggendola.
Di buono, sicuramente, c’era il suo compleanno venisse in agosto, e non rappresentasse quindi un momento di dramma – dobbiamo trovare un posto dove stare, finiremo sotto un ponte, nevicherà, a Bill prenderà una polmonite e Tom di conseguenza morirà di crepacuore! – bensì un sano e liberatorio momento di svago – chi arriva ultimo al primo treno per Kiel porta le borse del mare di tutti! – insomma, in definitiva: non un sacrificio particolarmente pesante.
Ciononostante, dal momento che si trattava comunque di ragazzini, non avevano mai mancato di piantare qualche grana a caso; un po’ per una naturale tendenza a rompere le palle che David non aveva mai gradito – Bill aveva mal di gola, Georg era stitico, Tom aveva la tendinite e Gustav si slogava un polso sempre in concomitanza con l’arrivo del suo compleanno – ed un po’ anche perché trovavano piuttosto fastidioso sia doversi ritrovare sbattuti fuori di casa per un motivo inesistente, sia perché anche a loro avrebbe fatto piacere festeggiare con David il suo compleanno, visto che per l’occasione sembrava sempre chiudersi in casa e restare tutto da solo.
Il dodici agosto del 2006, comunque, i quattro esiliati – cinque, se si includeva nell’elenco il povero Saki costretto per lavoro a seguirli ovunque – si ritrovarono per la prima volta fra le mani un pretesto accettabile per tornare a casa: erano arrivati tardissimo alla stazione ed avevano perso il treno.
- Ma che angoscia… - mugolò Tom, abbandonandosi stancamente su una panchina mentre Saki gli passava una bottiglietta d’acqua, - Quand’è il prossimo?
La guardia del corpo tirò fuori dalla tasca il foglietto con gli appunti che Georg gli aveva affidato il giorno prima, dopo un’intensa sessione pomeridiana di ricerca sul sito delle Ferrovie per scoprire gli orari dei treni, e lo scorse velocemente con gli occhi.
- Fra tre ore. – rispose compitamente, - Salvo ritardi.
Gustav lanciò un gemito di dolore.
- Perfetto. – mugugnò Georg, deluso, - Abbiamo perso una giornata. È già quasi l’una, per arrivare a Kiel ci vuole un’ora e un quarto e noi siamo ancora qui. – si lamentò, sedendosi accanto a Tom ed incrociando le braccia sul petto mentre il rasta gli allungava una gamba sulla coscia per poter espandersi il più possibile e stare così più comodo.
- Be’… - biascicò Bill, saltellando nervosamente accanto a Saki e picchiettando un piede per terra, - Possiamo pure tornarcene a casa, volendo.
- No che non possiamo. – corresse Gustav, squadrandolo diffidente, - È il compleanno di David.
- Sì! – gesticolò animatamente il cantante, - E noi non siamo neanche riusciti a fargli gli auguri, oggi!
- Certo… - precisò Georg, - perché lui ci ha buttati fuori di casa appena svegli. Evidentemente, i nostri auguri non gli interessano tanto quanto averci fuori dalle palle, suppongo. – ridacchiò, mentre Tom al suo fianco gli faceva eco in un ghigno divertito.
Bill sospirò teatralmente e si buttò a peso morto sul fratello, allungandosi per metà sulla panchina e per metà sulle sue ginocchia, mentre Gustav osservava disgustato l’intreccio dei corpi dei suoi tre compagni di band.
- Insomma, non può trattarci così. – continuò a lamentarsi il moro, mentre suo fratello sospirava e cercava senza molto successo di scollarselo di dosso, - Forse ce l’ha con noi per qualcosa…
- Be’, sì… - rifletté Tom, puntandosi un dito sul mento, - Vi ricordate il primo anno che abbiamo passato qui? Eravamo ancora troppo piccoli e lui fu costretto a tenerci pure tutta l’estate… quella volta il suo compleanno fu un po’ noioso, vero?
- Be’, noioso. – borbottò Gustav, offeso, - La mia torta era buonissima.
- La tua torta – precisò Georg ridacchiando, - vide la luce solo dopo che distruggemmo la cucina nel tentativo di prepararla.
- Uh, sì! – rise Bill, stringendosi nelle spalle, - Ricordo ancora la battuta di David… “pensavo di doverlo produrre, il Monsone, non di ritrovarmelo in casa”!
Anche Saki ridacchiò, scuotendo il capo e molleggiando sulle gambe in cerca di una qualche idea.
- Uh, sono un genio! – sbottò ad un certo punto Tom, illuminandosi d’immenso e scrollandosi di dosso in un unico movimento sia Bill che Georg per saltare in piedi, - Compriamo una bella torta multistrato, di quelle veramente enormi, poi un bel regalo tipo… - rifletté, - tipo un karaoke! Adora queste cose oscene, ho visto che ne ha uno nascosto in camera, ma è vecchissimo! E poi torniamo a casa e gli facciamo una sorpresa. – concluse, annuendo come a darsi ragione da solo.
Suo fratello lo guardò come fosse stato un dio appena sceso in terra.
- È un’idea fantastica, Tomi! – cinguettò saltando in piedi a propria volta, - Facciamolo!
Gustav borbottò lamentoso che le sue torte sarebbero comunque sempre rimaste più buone di qualsiasi torta di pasticceria – perfino di una multistrato gigante – ma acconsentì, e lo stesso fece Georg, sollevandosi in piedi e cominciando a seguire i gemelli che già correvano a rotta di collo verso l’uscita della stazione.
Saki sospirò ed andò loro dietro: in fondo, che male poteva esserci in una piccola sorpresa ed in un “tanti auguri” così affezionato?
*
David rotolò sul materasso con un mugolio di pura soddisfazione talmente imbarazzante da rendere il silenzio vuoto che avvolgeva l’appartamento ancora più prezioso del previsto.
Dave, al suo fianco, rise di gusto quando, in quel rotolare, il suo corpo impattò contro il proprio e fu quindi costretto a fermarsi.
- Ti vedo felice… - lo prese in giro, inarcando un sopracciglio divertito.
David rotolò ancora un po’, rovesciandosi a pancia in giù e sollevandosi sui gomiti per guardarlo direttamente negli occhi.
- Lo sono. – rispose con un sorriso sincero, - I ragazzi sono al sicuro, fuori a divertirsi ed io finalmente posso godermi un po’ di pace. Come potrei non essere felice? Ho quasi voglia di riappacificarmi con la mia età!
- Adesso non ti trasformare in uno stereotipo gay. – lo rimbrottò l’altro, - Non è che siccome ti stai avvicinando ai trentacinque il mondo stia per finire.
- …ho detto quasi voglia di riappacificarmi con la mia età, Dave, non c’è bisogno di rinfacciarmelo così! – strillò lui, falsamente inorridito, prendendo poi subito a ridere come un bambino.
- Piantala! – lo rimproverò ancora Dave, allacciandolo al collo con le braccia, fingendo di strozzarlo, - Pensa a me, che sono già entrato nella parte sbagliata dei trenta!
- Maddai, tu sarai bellino anche a quarant’anni… - rispose David, sporgendosi a dargli un bacio sulle labbra, - Con la tua aria da orsacchiotto ed il tuo sorriso tenero… - allungò una mano a pizzicargli il ventre, - e la pancetta, ovviamente! – concluse ridacchiando.
- David!!! – strillò Dave, cercando di sottrarsi alla sua stretta, - Sei un bastardo!
- Ma a me piace, la tua pancetta! – rispose l’uomo, divertendosi a giocare con un dito nel suo ombelico.
In momenti come quello, di anni, non se ne sentiva neanche sedici. Era solo per momenti come quello che accettava di mollare il freno sulle responsabilità che comunque sentiva verso i ragazzi, e lo faceva solo perché, in ogni caso, senza momenti come quello, avrebbe trovato troppo difficoltoso andare avanti e dover continuare a fronteggiare tutto l’enorme casino della propria vita senza impazzire.
Sapeva che prima o poi avrebbe semplicemente dovuto confessarlo agli altri. Lui e Dave stavano insieme da tanto di quel tempo che si stupiva perfino nessuno se ne fosse accorto. Forse era la sua buona stella che vigilava su di lui, forse semplicemente era qualcosa che nessuno aveva voluto capire, in ogni caso il segreto s’era mantenuto intatto durante tutti quegli anni, ma ciò non significava che quella routine schizofrenica di fughe notturne e sfratti improvvisi avrebbe potuto continuare in eterno.
Avrebbe dovuto piegarsi alle regole della convivenza e basta.
Prima o poi.
- David… - mugolò Dave contro il suo collo, - Ti va un piccolo cambio di ruolo…? Lo so che è il tuo compleanno, ma non ti sento da settimane…
Non era sua intenzione fare le fusa, ma uscirono fuori lo stesso.
Be’, si sarebbe piegato, prima o poi. Più poi che altro, comunque.
*
Saltellando felice come una ragazzina, Bill ordinò a Saki di sbrigarsi ad aprire la porta, prima che la torta gelato si sciogliesse completamente.
- Be’, se continuerai a saltare così, - lo rimbrottò Tom, aggrottando le sopracciglia, - ti cadrà prima di avere la possibilità di sciogliersi. Perdio, sta’ un po’ fermo!
Bill ubbidì ma protestò con un mugolio offeso, che dimenticò in un lampo quando finalmente la porta fu aperta e lui poté fiondarsi all’interno dell’appartamento strillando “Daviiiiid!!! Sorpresa!!! Tanti auguri!!!”, rischiando di uccidere quel po’ che rimaneva di una povera torta sballottata da un lato all’altro della città da un quartetto di adolescenti pazzi più guardia del corpo annoiata.
Nessuna risposta giunse da alcuna parte della casa, perciò Bill ritenne opportuno posare la torta sul tavolo della cucina e mettersi a zampettare per le stanze alla ricerca di David, immediatamente seguito dal fratello, curioso tanto quanto lui.
Gustav e Georg si guardarono negli occhi e scrollarono le spalle. Dopodiché, mentre Saki richiudeva la porta e si dirigeva verso il frigorifero per tirare fuori qualcosa da bere, apparecchiarono la tavola in un’imitazione di festività che, nella sua spoglia improvvisazione, era perfino molto carina. Coi piattini di plastica blu ed i sottobicchieri dei Puffi.
- Forse non è in casa… - mugolò Bill con aria depressa, dirigendosi verso l’ultimo posto ancora da controllare – la camera da letto del manager.
- In effetti era un po’ assurdo pensare che passasse davvero tutta la giornata in casa… - annuì Tom, - È il suo compleanno, in fondo. Probabilmente – ridacchiò furbo, - è in giro ad abbordare qualche ragazza, o… - Bill spalancò la porta con una risatina, - …o forse no. – concluse Tom, adocchiando il proprio manager nudo fra le braccia di Dave e deglutendo a fatica, - …o sì? Non lo capisco.
David e Dave si congelarono sul posto, voltandosi a guardare il proprio pubblico con una fissità perfetta per uno scatto pornografico.
Poi, Bill strillò.
- Oddio! – disse, coprendosi il viso con le mani, - David, scusa!!! – quasi pianse, scappando immediatamente in cucina.
- Merda… - biascicò Tom seguendolo. Si fermò dopo qualche passo e tornò indietro. Dave e David erano ancora immobili nella stessa identica posizione e con la stessa identica espressione annichilita sul volto. – Scusa, David, non volevamo… Scusa anche tu, Dave. – biascicò imbarazzato, prima di sparire di nuovo in corridoio.
*
Su uno degli sgabelli della cucina, Bill si mordeva le labbra e, le mani strette in grembo, cercava disperatamente di trattenere le lacrime.
- Ossignore… - mormorò Georg avvicinandoglisi e poggiandogli una mano sulla spalla, - Che è successo? – cercò di ridacchiare, - Era nudo?
- Nudo ed in compagnia. – chiarì per tutti Tom, arrivando in quel momento dal corridoio, - Niente drammi esistenziali, Bill, scommetto che lui sta peggio di te.
- No, non credo! – guaì il moro, coprendosi ancora il viso, - Dio, mi sento così in colpa!
- Sì, e lui probabilmente oltre a sentirsi in colpa per non averci detto niente è anche imbarazzato a morte. Come la mettiamo?
Bill fece una smorfia.
- Ti odio quando sei così razionale.
- È l’unico modo per salvarti dalla psicosi, a volte. – sospirò il rasta, mentre Gustav continuava imperterrito a tagliare fette di torta, sorridendo appena.
- Non ci sto capendo un accidenti. – borbottò Georg, grattandosi la testa, - L’avete beccato a letto con una donna, okay. Dunque? Qual è il problema?
- Il problema… - biascicò a quel punto Dave, apparendo in cucina sotto gli sguardi stupiti dei tre quinti dei presenti e quelli imbarazzati dei restanti due, - è che non era una donna. Ma me.
Georg e Gustav spalancarono gli occhi, mentre Saki optava per una saggia ritirata in bagno.
- …Dave? – mormorò penosamente Georg, deglutendo a fatica, - Cioè tu e David…
- Stiamo insieme. – concluse l’uomo annuendo. – Da un bel po’. David, semplicemente, non si sentiva pronto per dirvelo.
- Sì, be’, - borbottò Tom, incrociando le braccia sul petto, - probabilmente, viste le reazioni, - aggiunse, fissando il fratello, - aveva pure ragione.
Dave sorrise lievemente e si avvicinò a Bill, cercando di consolarlo con qualche pacca sulla spalla.
- È tutto a posto. – disse, - Ce lo aspettavamo. Sappiamo che sarà un po’ dura abituarsi all’idea, ma-
Bill scosse il capo, scattando in piedi.
- Non è dura! – rispose col cipiglio ostinato di un bambino. Afferrò uno dei piattini che Gustav aveva già riempito di torta, prese una forchettina di plastica, un bicchiere di coca cola e, cercando di tenere tutto in equilibrio sulle mani senza rovinare per sempre la preziosa moquette che rivestiva tre quarti dell’appartamento, si diresse speditamente verso la camera di David.
L’uomo stava ancora seduto sul letto, le lenzuola tirate fino ai fianchi ed una mano a massaggiare stancamente la radice del naso.
- Bill… - mormorò con aria affranta quando il ragazzo entrò in camera, ma lui lo zittì con uno spiccio cenno del capo.
- Non è dura da accettare. – asserì serio, sedendosi sulla sponda del letto e posando sul materasso piatto e bicchiere, - Buon compleanno, David. – concluse con un mezzo sorriso.
David guardò lui, poi la torta e poi ancora lui.
Indicò il dolce.
- L’avete comprato per me…?
Bill annuì.
- E farai meglio a mangiarlo in fretta. È gelato. Non vorrai mica vanificare tutti i nostri sforzi…!
David rimase in silenzio ed esitò per un lunghissimo istante. Poi, semplicemente, rise.
- Non sia mai… - sussurrò teneramente, - Grazie mille.
Dalla porta, Tom, Gustav, Georg e Dave sorrisero serenamente, portando ognuno un po’ di ciò che serviva per festeggiare: altri piattini, altra torta, una bottiglia di spumante e qualche pacchetto di patatine raccolto qua e là fra i vari stipetti della cucina.
- Be’, niente male come sorpresa. – biascicò il manager, vagamente imbarazzato, mentre Saki riappariva dalla propria fuga portando in braccio il regalo, - L’anno prossimo, comunque, altro che Kiel. Vi mando alle Maldive, per le vacanze. Così risolviamo il problema alla radice.
Tom ridacchiò e mandò giù una consistente cucchiaiata di gelato al cioccolato.
- Be’, potrebbe essere l’inizio di una piacevole tradizione! – commentò.
Negli anni a venire, David avrebbe avuto modo di pentirsi molte volte di quella proposta.
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack.
- Com'è la convivenza coi gemelli? E, soprattutto, come si fa a sopportare la cleptomania modaiola incipiente di Bill? Ce lo spiega David Jost, un manager che ormai è diventato una vecchia nonna. O forse no?
Note: Questa è la seconda Jostfic che scrivo da quando ho cominciato a fangirlare sui Tokio Hotel XD Nel senso che è proprio la seconda storia che narro in POV di quel pover’uomo bistrattato che è Herr Jost. La prima non potete ancora vederla perché partecipa ad un concorso (strano, da parte mia, eh? XD), ma presto avrete anche lei! Nel mentre, spero vi siate godute questo gioco al massacro che non ha risparmiato proprio nessuno XD e che, sinceramente, io ho adorato scrivere – istigata da Tab e Yul, che sono due fonti di ispirazione come poche al mondo, devo dirlo XD Tutto ciò è infatti nato per colpa di Yul che, un giorno – tipo, l’altroieri – su MSN mi ha mandato queste foto in cui è comprovato che Bill e David o comprano i polsini insieme o se li prestano a vicenda XD Da qui è nato tutto ciò. Non so ancora come sia successo, in realtà, visto che l’avrò scritta in tipo tre ore in tutto XD
Comunque spero abbiate gradito <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CLOTHES

È successo la prima volta circa tre anni fa. Sì, doveva essere appena finito il 2005, o comunque appena iniziato il 2006. Ecco, ecco. Era proprio agli sgoccioli dell’estate del 2005, lo ricordo bene perché Bill era ancora un porcospino ambulante. Un porcospino nella sua versione maschile, intendo. Poi lasciò crescere i capelli e cominciò a trasformarsi in un porcospino versione femminile, ma questo avvenne solo molto tempo dopo.
Comunque ricordo tutto precisamente. Era un agosto piuttosto caldo, e Bill aveva già preso a lamentarsi da un paio di giorni. Dal momento esatto, direi, in cui gli avevo mostrato le bozze per il PS e gli avevo spiegato che, oltre a tenere in mano una bicicletta – “perché, David? Io cado, sulla bici” – avrebbe pure dovuto tenere addosso una giacca a maniche lunghe.
“Perché?!” strillò infuriato in quell’occasione, “Questo fotografo è deficiente! Non voglio averci nulla a che fare! Mi scioglierò in una pozza di sudore, di me non resterà niente, non potrai neanche riprodurmi con la clonazione ed i Tokio Hotel saranno costretti a sciogliersi e tu finirai su una strada!”, profetizzò col tono tragico di una provetta Callas in aria di Medea. Si interruppe solo per riprendere fiato. Poi si voltò verso il fratello, tristemente seduto accanto a lui sul divano con i bozzetti fra le mani, e lo apostrofò duramente: “Vero, Tomi? Diglielo anche tu che ho ragione!”.
Tom sollevò lo sguardo e mi implorò di salvarlo. Io però rimasi in silenzio, sperando in una sua improvvisa prova di coraggio da esibire nel negare a suo fratello la ragione che comunque non aveva.
Ovviamente, le mie speranze si persero in un niente quando Tom sospirò e borbottò “Certo”.
Patetici mocciosi, pensai – piuttosto alterato, devo ammetterlo, perché il caldo stava mangiando vivo pure me e rimanere confinato ad Amburgo con la tabella di marcia più fitta che ricordassi da tempi estremamente lunghi non era certo in cima alla mia lista di modi preferiti per passare l’estate, eppure ero lì a fare il mio lavoro e non mi stavo lamentando. Mi sarei aspettato i gemelli – almeno loro! – fossero disposti a sacrifici di questo tipo, ed invece mi ritrovavo costretto ad ammettere Georg e Gustav fossero molto più razionali e maturi, in quel senso.
Erano i prodromi del disastro, avrei dovuto capirlo che non erano i Kaulitz, quelli ai quali avrei dovuto affidare la band. Purtroppo erano troppo carini – ed anche troppo poco dotati – per stare nelle retrovie a suonare davvero, perciò dovevo arrendermi al mio triste destino e basta.
Comunque sia, li rimproverai entrambi aspramente – mentre Tom mugolava che lui non c’entrava niente e voleva andare in piscina. Così, senza un perché. Non avevo mai ventilato l’ipotesi di portarli tutti in piscina, chissà da dove diavolo doveva aver pescato quell’idea bislacca.
Bill la prese piuttosto male, nel senso che non mi parlò per tre o quattro ore – e sì, è il massimo che Bill riesca a sopportare prima di esplodere – dopodiché si presentò in camera mia col visetto lungo e gli occhi artificiosamente lucidi, mi chiese scusa e, mugugnando come un moccioso di cinque anni, mi disse che per lui andava bene indossare una giacca a maniche lunghe, ma doveva essere una delle mie.
Lo guardai con l’aria di un merluzzo surgelato – anche se, purtroppo, non consolato dalla stessa temperatura corporea.
“Perché?”, chiesi incerto. Mi sembrava un quesito sensato e razionale, ma Bill non fu dello stesso avviso. Nel senso che spalancò gli occhi disgustato e mi strillò addosso che se io potevo permettermi di obbligarlo a morire di caldo dentro una giacchetta senza un perché, allora non dovevo azzardarmi a chiedere il motivo per il quale lui desiderava che la giacchetta succitata fosse una delle mie.
Sinceramente, mi sembrò che non facesse una grinza, come ragionamento; perciò, già stanco ed a corto di pazienza, scrollai le spalle e gli indicai l’armadio. Lui procedette di conseguenza.
Il giorno dopo, alle sette del mattino, nel luogo deputato agli scatti del PS, Georg sbadigliava come un leone marino molto annoiato, Gustav saltellava sul posto per tenersi sveglio, Tom in delirio onirico continuava a chiedermi senza motivo quando saremmo andati in piscina e Bill, serafico, sorrideva coccoloso al fotografo, le braccina innocentemente incrociate dietro la schiena ed il mio meraviglioso giubbotto in pelle nera e bianca e coprire le sue spalle minute da scheletrino in crescita.
Da quel giorno, Bill non ha più smesso di chiedermi vestiti “in prestito”. Le virgolette sono d’obbligo, perché Bill è il tipo di persona che, quando mette le mani su qualcosa, lo fa proprio in tutti i sensi. Qualsiasi cosa gli sia data è persa, poco da fare. Ne vediamo esempi ogni giorno. Non so più quante piastre Georg abbia dovuto ricomprare per sopperire alle indecenti ruberie di Bill. Stessa cosa dicasi per le macchine fotografiche di Gustav: Bill non fotografa quasi mai niente e nessuno, ma ha una passione per gli aggeggi sottili. E Gustav usa praticamente solo accessori elettronici extrasottili. È un miracolo che non gli abbia rubato il cellulare o l’IPod.
Il povero Tom, comunque, è quello che soffre più di tutti. Se è scemo, io non biasimo, perché mi rendo conto che Bill avrebbe tirato scemo pure Einstein, e non mi stupisce, perciò, che ci sia riuscito con Tom che, quanto a materia grigia di partenza, era anche meno dotato. Tom, purtroppo, sì è concesso al fratello – in senso platonico, siamo chiari! – appena nato. Bill non l’ha più restituito a se stesso. È una tragica verità alla quale si deve sottostare.
Chiaramente, in condizioni normali non sarei affatto propenso ad aprire le porte del mio preziosissimo armadio ad una piattola di tali dimensioni, ma Bill non è maturato, è solo cresciuto in altezza: per il resto, il volume delle sue pretese si è espanso proporzionalmente a quello della sua capigliatura, e così ha fatto anche la pesantezza dei suoi capricci. Perciò, dal momento che la sua natura parassitaria ha sopraffatto quel po’ di umano che gli restava in corpo, io non posso fare altro che chinare la testa e concedere.
Ho smesso molto tempo fa di essere un manager. Ormai, sono una vecchia nonna. Perché lo vizio esattamente come fossi una vecchia nonna. Abbastanza disgustoso, sì, ma si cerca di sopravvivere. Pensate a tutti quei poveri maschi di varie razze animali – fuchi, formiche, tarme ed insettame vario – costretti a vivere solo in funzione della regina. Ecco, qui è uguale. Preciso e identico. Solo che la nostra regina ha i capricci di una femmina ed il gancio – nonché il calcio rotante – di un maschio. Perciò si china il capo, ecco. Che altro si potrebbe fare?
Insomma, Bill mi ha rubato tanta di quella roba, da quando lo conosco, che ormai sono rassegnato. Però ci sono momenti in cui un uomo non può arrendersi. Non può chinare il capo. Deve ribellarsi.
Questo è uno di quei momenti.
Sapete, essere un manager di successo ed essere allo stesso tempo omosessuale, nel mio mondo, non è affatto facile. Puoi essere omosessuale ed essere anche solo per questo adorato se sei un attore, se sei un cantante, se sei un modello, perfino se sei un pinco pallino a caso e decidi di spiaccicarti in faccia un metro e mezzo di eyeliner ed un quintale di lucidalabbra per poi andare in giro come una zoccola a farti fotografare solo perché sei carino.
Se sei un manager, però, no. Neanche se il tuo passato – Dio, io ero in una boyband!!! – ti autorizza grandemente in tal senso. Se sei un manager devi essere affidabile, gentile, pratico ed assolutamente etero. Soprattutto se hai a che fare con dei tredicenni. Voglio dire: quale madre – perfino fra le più mentalmente aperte – accetterebbe di mandare i propri pargoli nella grande città spaventosa con un trentenne fighetto e pure omosessuale?
Ma nessuna, è ovvio.
Questa amara riflessione ha un effetto nel reale che ti obbliga semplicemente a prendere le tue precauzioni, se non vuoi finire nel disastro. Nel caso di specie, mi tocca chiedere a Nova un po’ di apparizioni di coppia in pubblico. O qui non basterà la smentita pubblica cui ho costretto la piattola, per zittire le voci di corridoio. Per non parlare di ciò che dicono nelle community.
Insomma, mi tocca uscire, vagabondare un po’ in giro e sembrare per giunta decorosamente figo nel mentre, altrimenti si comincia a dire che stai diventando vecchio eccetera eccetera. Nessuno dovrebbe voler fare il mio mestiere, davvero.
E così si torna ad oggi.
- Bill, ridammi la giacca.
Capisco di avere sbagliato momento nell’istante esatto in cui metto piede in soggiorno. Bill bivacca sul divano come una vecchia matrona romana sul proprio triclinio e, i gomiti accuratamente poggiati sul bracciolo, sistema la french con brevi quanto precisi colpi di batuffolo di cotone imbevuto di acetone.
Il momento è pessimo non perché sia un male che Bill si curi in genere. Solo che, quando gli dai un pretesto per infischiarsene di te, ecco, lui lo fa.
- Bill?
La piattola solleva appena lo sguardo sulla mia persona – affannata, già sudaticcia ed in mostruoso ritardo – ed inarca un sopracciglio sdegnoso.
- Sì? – risponde col freddo distacco di una principessa offesa ma troppo beneducata per risponderti a suon di ceffoni.
- Rivoglio la mia giacca. Quella bianca. Mi serve.
Bill arriccia le labbra in una smorfia pensosa. Lo fa quando vuole darmi ad intendere stia riflettendo. In realtà io so che lui non riflette mai. Al limite, macchina piani malefici.
- Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando. – scolla infine con estrema naturalezza, poggiando lo smalto sul tavolino e rigirandosi sul divano alla ricerca del telecomando.
- Oh, sì che sai di cosa sto parlando. – borbotto io, avvicinandomi minaccioso, - Sto parlando della mia giacca, Bill. Quella che hai rubato un mese fa, sfoggiato ad una quantità indecente di premiazioni, messo in mostra su Youtube il mese scorso e che ora mi serve per uscire.
- Hai tante altre giacche… - commenta annoiato trovando il telecomando, distendendosi pigramente fra i cuscini ed accendendo la TV.
- Ma voglio quella! – strillo io a quel punto, - È mia, la rivoglio, sta bene con questi pantaloni! – affermo con convinzione, indicando i miei meravigliosi jeans Armani neri come la notte.
Lui mi squadra dubbioso per qualche secondo.
- Anche la giacca di pelle nera sta bene su questi pantaloni. – sentenzia infine, convintissimo.
- A parte il fatto che ti sei fregato anche quella, - puntualizzo seccato, - e che mi piacerebbe rivederla fra le mie cose al massimo domattina, ti informo che non sto andando ad un funerale ma ad un appuntamento! Sarebbe carino mettere la giacca bianca!
- Tu non hai una giacca bianca. – corregge lui.
- Sì che ce l’ho! O almeno, ce l’avevo prima che tu me la rubassi!
- Quella giacca non è bianca, è una giacca color perla.
- Bill non ho tempo per questi giochetti da checca alla moda!!! – lo rimbrotto esasperato, - Avanti, dammi la mia giacca!
- A proposito di checche alla moda… - sibila lui, sorridendo falso e viscido come un serpente, - Chi è il fortunato con cui hai un appuntamento?
- Non è un fortunato, è una fortunata, e se non mi ridai la mia giacca immediatamente non ci sarà alcun fortunato perché io sarò costretto a rimanere a casa! Allora?
- …non posso crederci… - sbotta lui, ignorandomi completamente, - Fai ancora la commedia? Quando farai coming out?
- Quando il mio coming out non mi costringerà a rinunciare a ciò che mi permette di essere un omosessuale felice, ovvero belle macchine, bei vestiti e bei locali da frequentare!
- E il sesso?
- Che c’entra il sesso?! E piantala di cambiare discorso, Bill, ridammi la mia giacca!
Lui inarca le sopracciglia e borbotta qualcosa di incomprensibile, accucciandosi con aria da vittima indifesa fra i cuscini a forma di cuore che ha preteso suo fratello gli regalasse come augurio di pronta guarigione subito dopo l’operazione.
- Ma per forza quella color perla…? – biascica lacrimevole.
Io sospiro e roteo gli occhi.
- Una qualsiasi, Bill, ormai non ho più la forza di protestare sulle tonalità. Anche quella nera va bene, dai.
Lui solleva uno sguardo oltraggiato e mi fissa maligno.
- Ma pensavo di usarla per uscire stasera!
- E invece userai- aspetta. Uscire? Stasera? Con chi?
- Con Tomi!
- Non se ne parla!
- Non puoi impedirmelo!
- Posso eccome! E ti dirò di più: lo sto proprio facendo!
- Sono maggiorenne!
- Sei un colossale deficiente! Dov’è che vorresti andare?!
- In giro!
- A cercare un fotografo qualsiasi che sia pronto ad immortalare te o quell’altro cretino del tuo povero fratello in qualche posa compromettente con qualche groupie di poche pretese?! Giammai!
- Ma non volevi la tua giacca? – sbotta a quel punto lui, pentitosi di avere sviato la mia attenzione sui suoi progetti notturni.
- Questo è molto più importante! Bill: ridammi le mie giacche. Tutte.
- Ma così non avrò nient’altro con cui uscire!
- Appunto!
- E io dico a tutti che sei gay!
Inorridisco e gli tiro un cuscino.
- Sei licenziato! – strillo istericamente.
- Non puoi licenziarmi!!! – sbraita lui, cominciando a tirarmi addosso cuscini a ripetizione neanche avesse trenta braccia.
- Ma che diavolo sta succedendo qui…? – annaspa incerto Tom, apparendo sulla porta del soggiorno con i capelli tirati su in uno strano chignon da vecchia nonna francese, i bermuda incastrati sotto l’orlo delle mutande per scoprire le gambe e la maglietta arrotolata dietro al collo a denudare il petto.
Io e Bill ci voltiamo a guardarlo e lanciamo un urlo unico e pure perfettamente sincronizzato.
- Tomi! – comincia Bill, - Come ti sei conciato?!
- Io…
- Tom, sei indecente. – continuo io, rimettendomi dritto ed andandogli incontro con aria disapprovante.
- Ma-
- Copriti subito, sei disgustoso!!! – strillacchia Bill coprendosi gli occhi ed agitandosi come una liceale sbadatamente entrata nello spogliatoio maschile durante le docce.
- Ha ragione tuo fratello, Tom, tira giù maglietta e pantaloni.
- Ma io ho caldo!!! – protesta lui, sgomento, - E sono venuto qui solo per controllare che non vi steste scannando! Perché adesso ve la prendete con me?!
- Perché non puoi andare in giro per casa nudo! – motivo io, mentre Bill, alle mie spalle, annuisce, perfettamente concorde, - Abbiamo paparazzi attaccati con le ventose pure ai vetri delle finestre! Sii un po’ più responsabile!
- Ma c’è un caldo che non si sopravvive!!! Perché non ci porti in piscina?! E perché sei vestito di tutto punto?!
- Esco.
- E perché litigavi con Bill?
- Voglio la mia giacca bianca.
- Ma ha le maniche lunghe!!!
- Sta bene coi jeans.
Tom abbassa lo sguardo sui miei pantaloni, nota la loro peculiare aderenza alle mie gambe e si lancia in un verso inorridito tremendamente simile ad un ew.
Io sospiro e cerco di tornare in me stesso. Insomma, sono un essere umano adulto e razionale. Sono tanto intelligente e tanto figo, posso sicuramente avere la meglio su due ragazzini deficienti senza che questo mi obblighi a perdere la mia dignità così, senza un motivo. Allora…
- …David, se vuoi la giacca te la vado a prendere io. – dice a quel punto Tom con aria serafica, fissandomi come fosse un cucciolo di alieno appena sbarcato sulla Terra e si aspettasse che io diventassi la sua guida spirituale attraverso i numerosi pericoli della vita.
- Nooo, Tomi! – piagnucola Bill dietro di me, senza tuttavia trovare la forza di abbandonare il divano e mettersi in piedi, - Traditore!!!
Tom scrolla le spalle ed io mi commuovo.
Anche lui è capace di prove di coraggio! Anche lui ha un’indipendenza! Un cervello! Un perché! Non è solo una medusa col cervello di un organismo monocellulare!!!
- Saresti molto gentile, Tom. – sorrido bonario, trattenendomi a stento dall’impulso di dargli un affettuoso buffetto sulla guancia.
Lui annuisce e sorride angelico, trotterellando felice in camera del fratello ed uscendone subito dopo con aria afflitta.
Preoccupato, mi avvicino.
- Tom? Dimmi che non è successo nulla alle mie giacche.
- No… - biascica lui, contrito, - Sono ancora tutte là…
…tutte?
- …è che proprio questa giacca bianca non la trovo! – conclude, sollevando improvvisamente uno sguardo cuccioloso e lacrimoso.
- …la mia giacca bianca! Cos’è successo alla mia giacca bianca?! – sbraito furente. Afferro Tom e lo sbatacchio di lato per farmi strada, prima di cambiare idea e cominciare a trascinarmelo dietro per l’elastico delle mutande che sporge dai pantaloni. Mi pianto di fronte all’armadio di Bill, lo spalanco… e la individuo. Immediatamente. Al centro dell’armadio. Perfetta e splendente come la ricordavo. Tenuta in perfetta cura.
- Era qui, razza di deficiente! – sbotto, schiacciandogli uno scappellotto pure piuttosto potente sulla nuca, - Come diavolo hai fatto a non vederla?!
Tom si sporge curioso verso la giacca, come a volerla esaminare da vicino.
- Ma David… - risponde infine, dubbioso, - Questa giacca non è bianca… è color perla!
Bill sghignazza in soggiorno. Non so se sia per questa scena idiota o per l’episodio dei Simpson che sta guardando in TV.
Io mi limito a scrollare le spalle, indossare la giacca e dirigermi con aria stanca verso la porta.
Esco pensando con un po’ di paura al fatto che sembra proprio io non sia l’unica checca alla moda di questa casa.
Sinceramente? Mi fa un po’ rabbia che mi si tolga così il centro della scena!
Genere: Comico.
Pairing: Bill/Tom, Bill/Andreas, Bill/David, Bill/Georg, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Language, Slash, Incest.
- La parola a Tom. Perché vivere con Bill non è affatto facile. Soprattutto se all'improvviso viene fuori che è una zoccola (o no?).
Note: Tanto per cominciare, metà della colpa di tutto questo è di Tab XD Stavamo discutendo di quanto Bushido sia una persona da difendere, perché da attacchi tipo quello di Bill ai Comet dell’anno scorso non è facile difendersi. Voglio dire, se uno tanto carino flirta tanto spudoratamente, tu non solo non hai nessun dovere di rifiutare, ma neanche nessun diritto di farlo.
Perciò, io e Tab abbiamo convenuto Bill fosse un po’ una puttanella, ed abbiamo pensato fosse il caso di mandare, non so, una lettera a Jost per chiedergli di tenerlo legato. Tipo. Ad un certo punto, Tab ha profetizzato che prima o poi la maschera da angioletto in attesa del grande amore gli sarebbe caduta, ed io ho risposto “sì, ed allora verrà fuori che o si faceva il gemello, o si faceva Bushido, o si faceva l’amico d’infanzia, o si faceva il bassista o si faceva il manager”. Tab ha risposto “più probabili l’amico d’infanzia ed il manager. Ma è anche probabile che la risposta possa essere: mi sono fatto tutti”.
Da qui (sul serio XD) è nata questa storia tremenda senza senso e senza utilità XD Che però mi ha tenuta impegnata nel lol per un buon paio d’ore, e perciò io ringrazio u.u Tra l’altro l’idea iniziale non era neanche proprio così, ma non ci posso fare niente se è degenerata XD Allungandosi peraltro in maniera spropositata.
Comunque! Spero vi abbia divertito ;_; Io voglio bene a chiunque sia arrivato a leggere fino a qui.
PS: Nel testo c’è una citazione piccolissima ad un videogioco della Lucas Arts non so quanto noto a voi ma che ha segnato la mia intera infanzia XD Se lo riconoscete, un premio a scelta! (e sì, potrete richiedere una fanfic. E sì, se siete la neechan, potrete richiedere il capitolo di Unendlichkeit).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I DOLORI DEL GIOVANE KAULITZ
ovvero: drammi genetici e sentimentali del criceto figo

Io, lo ammetto, ho dei problemi a stare lontano da mio fratello.
Non so da cosa dipenda: forse sono solo preoccupato per lui, perché vedete, mio fratello è tremendo, si fa detestare così facilmente che c’è davvero da avere paura a lasciarlo andare in giro da solo, è simpatico come una puntura di zanzara, proprio. Oppure, non so, forse c’è dietro qualcosa di più egoistico, qualcosa tipo il bisogno fisico di stare vicini che sbandieriamo così efficacemente lui nei testi delle canzoni ed io nelle interviste. Non lo so, davvero.
Resta il fatto che, quando mio fratello va via, io comincio a stare male.
Per fortuna, poi, mio fratello ritorna.
*
Nel caso specifico, ritorna facendo irruzione in camera mia proprio mentre io mi accoccolo fra le lenzuola ed affondo il capo nel cuscino.
- Tom! – strilla con aria isterica, lanciando in aria la propria valigia ed osservandola con soddisfazione attraversare la stanza e planare elegante sulla mia pancia, uccidendomi. – Che ci fai a letto a quest’ora?
Sollevo lo sguardo sul comodino.
La sveglia fa servizio d’informazione pubblica: sono le due e mezza del mattino.
- Cercavo di dormire. – rispondo quindi con sincerità, scrollandomi la valigia di dosso e lasciandola ricadere per terra.
- Ma come?! – continua a sbraitare lui, in tutti gli ottanta milioni di decibel che può raggiungere la sua voce quando è infuriato, roba che David comincerebbe seriamente ad amarlo, se replicasse con la stessa intensità durante i concerti, - Torno dalla mia settimana di vacanza e tu mi accogli così?!
E il punto, in fondo, è proprio questo.
Mi sollevo a sedere sul materasso – mentre Bill piomba al mio fianco con la grazia di un elefante ubriaco – e socchiudo teatralmente gli occhi, passandomi una mano sulla nuca e preparandomi ad un flashback illustrativo.
Arriva un momento in cui, molto semplicemente, mio fratello si rompe i coglioni. Capita più che altro alla fine di un periodo molto stressante – una malattia scema che l’ha perseguitato per qualche settimana, per dire, oppure una lunga serie di date in giro per il mondo – ma può capitare anche così, all’improvviso, senza perché. Sono i classici momenti che Georg etichetta sbuffando come “sindrome premestruale”, guadagnando in cambio qualcosa di molto doloroso da parte di Bill, tipo un calcio nelle palle o qualcosa del genere. In realtà non si tratta affatto di sindrome premestruale. In realtà, per quanto possa essere allucinante pensarlo, questo rompersi e cominciare ad odiare tutto è probabilmente la caratteristica più maschile di mio fratello. Il momento in cui la pianta di fare la collegiale saltellando qua e là come un coniglietto impazzito ed entusiasta e ritorna ad essere l’orango tango scazzato e burbero che, in fondo, è sempre stato.
Comunque. Capita. Mio fratello si rompe i coglioni e pretende una vacanza.
E – io non vorrei che Bravo avesse traviato le vostre menti al punto da convincervi davvero del fatto io e lui passiamo davvero ogni minuto di ogni santissimo giorno della nostra vita l’uno appiccicato all’altro, perciò lo preciso – in genere queste vacanze sono l’oasi della libertà di mio fratello. Nel senso che prende baracca e burattini – dimenticando a casa il burattino più importante, ovvero me, ovviamente – e si dà alla macchia. Scompare. Per un tempo variabile.
Per David, inizialmente, è stato molto difficile venire a patti con questa drammatica verità. La drammatica verità per cui Bill è perfettamente in grado di sparire – ma proprio agli occhi di tutti: perfino dei paparazzi! – senza lasciare una traccia della propria esistenza neanche a cercarla con la lampada UV. S’è dovuto abituare, giocoforza: è già tanto sia riuscito ad ottenere una telefonata giornaliera nella quale ricevere almeno la rassicurazione lui sia ancora vivo ed in salute, da qualche parte nel mondo.
Per David ogni volta è un po’ come vedere il giovane figlio partire per la guerra, penso.
Il che fa di David una vecchia madre, suppongo.
Ma comunque.
Insomma: è una routine, questa delle fughe, alla quale abbiamo dovuto sottostare. Ci costringe ad interrompere i lavori anche quando dovremmo dedicarci anima e corpo a qualcosa di importante – come, per inciso, dovremmo fare ora, visto che pare si abbia un album in uscita l’anno prossimo – ma in fondo se costringessimo Bill a restare non farebbe che vagare da un lato all’altro dello studio di registrazione lanciandoci occhiatacce funeree e scrivendo testi finti che poi ci propina per il solo gusto di sentirci rispondere “no, Bill, Ich hasse Sie non è un’interessante variazione di Nach Dir Kommt Nichts; potresti provare a scrivere qualcosa di più costruttivo?”.
Perciò, insomma, tanto vale lasciarlo libero di andare dove vuole ed approfittarne anche noi per una vacanza. Chi vuole torna a casa. David si rinchiude in un centro benessere a caso e diventa parte dell’arredamento circostante. Io do voce al mio animo profondo di bradipo vampiro e dormo tutto il giorno per uscire solo quando tramonta il sole. A Bill quasi smettiamo di pensare. Sappiamo che sta facendo ciò che vuole e che, almeno, quando tornerà sarà felice.
Il problema è questo. Lui torna sì, ma quando è un mistero.
Almeno, da un paio d’anni a questa parte, ha la delicatezza di informarmi quando va via. Prima mica lo faceva.
Ed in effetti – e qua comincia il flashback, lo sento! Le voci con l’eco, l’immagine sfocata, una musichetta appena accennata in sottofondo! Sarà il sonno – prima di andare via, mi ha avvertito.
“Tomi, non ce la faccio più”, mi ha detto, “ho bisogno di una vacanza”. E sono state le sue ultime parole, prima di sparire.
Oggi, ad una settimana dalla partenza, eccolo qua. Fresco come una rosa. La valigia pesante il doppio rispetto all’ultima volta che l’ho visto – il che significa che domani mattina saremo tutti sottoposti alla tortura del Babbo Bill, che è il modo “simpatico”-leggi-deficiente in cui mio fratello chiama la distribuzione dei souvenir che prende per tutti noi durante le vacanze – i capelli legati in una coda alta dietro la testa ed il viso ancora per metà nascosto da quegli ingombrantissimi occhiali da sole dai quali ormai non si separa più.
- Bentornato, Bill. – mugugno, cercando di accomodarmi meglio fra le lenzuola, - Scusa la mancanza d’entusiasmo, ma è molto tardi e non sapevo che saresti tornato oggi.
- Avresti dovuto immaginarlo. – sbuffa lui, contrariatissimo, ed io per un secondo mi chiedo in virtù di cosa avrei dovuto immaginarlo. Poi mi rispondo da solo: in virtù di niente, è lui che è pazzo.
- Certo. – rispondo con condiscendenza, - Allora, che mi racconti di bello?
Bill mi guarda come se gli avessi dato della troia. Io credo che lo faccia apposta, a farmi impazzire in questo modo. Si diverte. Lo osservo irrigidirsi sul materasso come una statua di sale e fissarmi a metà fra lo schifato e lo sconvolto, il volto segnato da una smorfia tremenda che preannuncia guai.
- Non vi sono mancato? – chiede infatti a bruciapelo, raccogliendo le chilometriche zampe che si ritrova.
Deglutisco.
La sensibilità, Tom. Tuo fratello è sensibile. Ci tiene a sentirsi amato. La sensibilità!
La sensibilità. La dimentico sempre.
Sarà perché è la stronzata che David si/ci/vi racconta per far credere mio fratello abbia uno straccio di buona qualità che sia una. Sono menzogne. Mio fratello non ha buone qualità. È un concentrato di lati negativi. Non ha neanche lati, in realtà! È una circonferenza di punti negativi.
- Ma… sì! È ovvio! – mi affretto a dire, pure un po’ troppo ansioso, probabilmente.
Sì. Decisamente troppo ansioso. Bill fiuta l’inganno.
- Siete degli esseri spregevoli. – commenta con palese disgusto, - Vado via per una settimana e voi neanche sentite la mia mancanza! A quest’ora avrei potuto essere morto! O scomparso da qualche parte! Avrebbero potuto rapirmi!
Sono tentato di rispondere “E invece guarda un po’ che sfiga”, ma mi trattengo.
La sensibilità!, mi ripeto come un mantra.
- Bill… - lo richiamo, cercando di riportarlo sulla via della razionalità, - Se ti fosse successo qualcosa, David mi avrebbe avvertito, non ti pare?
Bill incrocia le braccia sul petto.
No, non gli pare.
- Tu non mi ami affatto.
Oddio. Ecco che cominciamo.
Perché, Dio, perché questi discorsi da liceale tradita deve farmeli sempre a questi orari indecorosi della notte? Lui non è una liceale! Non è stato tradito! Non è neanche femmina!!!
- Bill… - mugugno disperato, - lo sai che… - sospiro, - Oh, avanti. Ti prego.
- No! – protesta lui, attraversando il letto come un cucciolo di leone – con la stessa affamata impazienza – ed accucciandosi accanto a me, afferrandomi per un dread, - Non me lo dici mai!
- Non te lo dico mai perché è quantomeno inusuale sentire un fratello dire ad un altro “ti amo”! – cerco di giustificarmi, borbottando come un vecchio nonno.
- Ma io te lo dico sempre! – ribatte lui, gesticolando animatamente.
In effetti è vero. Ogni volta che torno è tutto una profusione di “kyah, Tomi, quanto mi sei mancato, non mi allontanerò mai più da te neanche per un solo minuto, ti amo da morire!”, con bacini appiccicosi ed abbracci caldi annessi, ovviamente. E non stavo esagerando sul kyah: mio fratello fa un mucchio di versi strani.
- Lo so, Bill. – annuisco. Lui rimane qualche secondo in silenzio a fissarmi, come stesse attendendo qualcosa.
- E dunque?! – mi incita dopo un po’, strattonandomi qua e là, - Lo sai e?
- E niente!!! – sbotto, cercando di porre un freno a questo terremoto ambulante che ho per gemello, - Avanti, Bill, vai a dormire, sarai stanco!
Mio fratello si ritrae come se stavolta non solo gli avessi dato della troia, ma avessi pure detto che va con chiunque e si fa pagare una miseria. Insomma, l’offesa suprema per uno che, come lui, punta al meretricio elitario ed opportunistico.
È talmente disgustato che aspira perfino un “ih” di disapprovazione totale.
Sono perduto.
- Non ti interessa neanche sapere cosa ho fatto! Dove sono stato! Se mi sono divertito! Niente! Sei uno schifo!
Ora, io so di avere ragione. Se lui fosse tornato ad un orario più umano – che so, domattina verso le dieci, per esempio – insomma, se me lo fossi trovato davanti appena sveglio, magari con una cialda in bocca ed i baffi di latte sul labbro superiore, allora sì che sarei stato un fratello devoto ed entusiasta. Sì che mi sarei avvicinato, l’avrei abbracciato, sbaciucchiato, gli avrei detto tutti i “ti amo” del mondo e tutto gli attestati di nostalgia dell’universo. Mi sarei informato, gli avrei chiesto se volesse altre cialde, se mi avesse portato qualche regalo, se so fosse divertito e tutto.
Ma lui non può pretendere che alle – controllo – tre del mattino io possa comportarmi come fossero le dieci. Non può farlo.
La sensibilità!, riecheggia nella mia mente la voce di Jost.
- Scusa, cucciolo. – mugugno affranto, - È che sono un po’ stanco.
- Significa che hai troppo sonno per starmi ad ascoltare? – insiste lui, impietoso.
- No. – cerco di sorridere, - M’è passato tutto. Forza, dimmi.
Mio fratello mi squadra freddamente, dubbioso e cattivo. Inarca il suo affezionato sopracciglio inquisitore e sembra studiarmi dall’alto. Perché mi sono seduto così? Dovrei raddrizzare la schiena. Mi sento un moccioso in attesa della ramanzina! Non è bene. Devo necessariamente raddrizzare la schiena, ma non ricordo più come si fa.
- Va bene. – annuisce Bill alla fine del proprio studio comparato delle mie intenzioni, - Allora, è stata una settimana fantastica! – comincia a raccontare, mentre già tutte le sue perplessità si perdono in un niente e sul suo volto si apre il sorriso isterico ed entusiasta dell’egocentrico che riprende il proprio posto nel mondo: quello centrale. – Ho fatto un sacco di cose e visto un sacco di persone!
- Ah, sì? – lo incito a continuare io, sperando che le sue chiacchiere mi facciano da ninna nanna, - Cioè?
- Be’, allora, tanto per cominciare sono andato un po’ a casa. – rivela, annuendo soddisfatto nei propri stessi confronti.
- Oh! – mi sveglio definitivamente io, - Mamma? Gordon?
- Tutto okay. – mi rassicura, - Ma sono rimasto poco, giusto il tempo di un saluto. In realtà ho finalmente accettato l’invito di Andi. Sai quando ogni estate ci ripete di andarlo a trovare perché si annoia e s’è rotto di dover essere sempre lui a ripescarci in giro per l’Europa? Ecco. L’ho accontentato.
- …capisco. – borbotto, un po’ offeso, - Potevi dirmelo. Vi avrei raggiunti volentieri.
- Ma io non volevo che ci raggiungessi, Tomi. – risponde lui sereno, con l’aria angelica di un putto che abbia appena espresso un parere divino e perciò indifferente al giudizio umano, - E poi io ed Andi avevamo bisogno di un po’ di tempo per parlare.
Sollevo la testa come una gallina in cerca dell’allevatore col mangime.
Qui c’è qualcosa che non torna.
- In che senso parlare?
No, perché, quando si è Kaulitz, si impara a dare il giusto peso alle metafore.
Bill mi regala un sorrisetto malizioso che non mi piace per niente. O meglio, mi piacerebbe pure – perché non c’è niente di più carino di Bill che prova a fare il seducente, visto che ha la capacità di sedurre di un gattino bagnato, ovvero carino quanto vuoi ma opinabilmente sexy – se non fosse che dietro le sue labbra piegate in una smorfia ilare c’è un universo di guai.
- Tu sai, Tomi… che io sono sempre un po’ piaciuto ad Andi.
…e lo so da quando, esattamente?
- E che, insomma, c’è sempre stato del feeling fra di noi.
…ma è il mio migliore amico! Oh! Tu sei mio fratello! Migliore amico! Fratello! Scherziamo?!
- Insomma, com’è, come non è…
- No, aspetta. – lo fermo, agitandomi istantaneamente, - Come sia o come non sia ha molta importanza, se permetti!
- Nah. – risponde lui con una scrollatina di spalle, - Non ce l’ha. Tanto il risultato è sempre quello.
- Ed il risultato sarebbe?!
Bill sorride. Impietoso.
- Pensavo che la prima volta fosse più dolorosa. – commenta invece di rispondere.
Ed io non so se essergli grato per la delicatezza – in fondo, avrebbe potuto dirmelo con molto meno tatto – o tirargli un ceffone e mandarlo a dormire per svenimento forzato.
Alla fine, mi accascio fra le lenzuola.
- Dio mio, Bill…
- E non è mica finita! – mi interrompe lui, raggiante, - Dopo ho chiamato David e gliel’ho detto!
- No, cioè. – borbotto con aria affranta, - Fammi capire: scopi ed invece di chiamare il tuo adorato fratello chiami il tuo manager?!
- Tomi! – mi rimprovera saccente, - David non è solo un manager, per me! È un caro amico! È quasi come un padre! E lui s’è preoccupato subito per me, a differenza di te che stai qui a lamentarti perché non ti considero.
È evidente che dovrei camminare con un traduttore simultaneo, perché Bill, quando parlo, non mi capisce.
- Certo. – concedo, anche perché a non concedere le cose a Bill non si ottiene mai niente tranne una buona dose di botte, se è in vena. – Quindi?
- Quindi lui era molto preoccupato. – racconta serio, - Perciò, per tranquillizzarlo, sono andato a trovarlo alla beauty farm dove sta per ora. E non immaginerai mai cos’è successo!
- Ti ha preso a sberle come meriti? – sbotto in uno slancio di sana e fraterna sincerità.
Bill si tira indietro come se, stavolta, oltre ad avergli dato della troia e pure a buon mercato, avessi aggiunto qualche altra offesa tremenda tipo che per arrotondare i guadagni pulisce i cessi in casa dei Killerpilze. Cioè quasi il massimo dell’affronto.
- David non farebbe mai una cosa del genere!!! – puntualizza allucinato.
E certo. Non farebbe mai una cosa del genere. La sensibilità!, dice lui.
Se qualcuno t’avesse preso a ceffoni come meritavi – papà, Gordon, mamma, David, io – adesso però sarebbe tutto molto più semplice. Forse tu non saresti pazzo. Io starei dormendo, per dire.
- Naturale. E insomma, cos’è successo?
Bill si mette a luccicare.
- È stato così dolce! – cinguetta, - Mi ha guardato da tutti i lati per vedere se fosse tutto a posto…
Tu non hai lati, Bill, l’ho detto prima, sei la circonferenza del Male.
- …mi ha chiesto se avesse fatto male, se fossi triste, se mi sentissi bene, se avessi bisogno di un consiglio…
Ed io, se già prima, con tutta la faccenda della boyband e delle beauty farm, dubitavo dell’eterosessualità di Jost, adesso direi che sono convinto quasi al novanta per cento della sua omosessualità, però. Voglio dire, perché un eterosessuale – quindi con zero esperienza in fatto di sesso con maschi, si spera – dovrebbe chiedere ad un adolescente recentemente diventato omosessuale – perché è questo che sei diventato, fratellino caro, mi auguro tu te ne sia reso conto! – se ha bisogno di consigli? È del tutto innaturale!
- …ed a me è sembrato così carino e tenero che be’, sai, una cosa tira l’altra e pum.
Sento del dolore.
Da qualche parte.
Non saprei dire dove.
Ma c’è.
- Pum? – chiedo stordito.
Bill scrolla le spalle e non risponde.
- Pum?! – strillo io, sempre più alterato, - Pum, Bill?! Ti sei scopato David, Bill?!
Mio fratello alza gli occhi al soffitto e si gratta il mento, pensieroso.
- Tecnicamente, - risponde, - lui ha scopato me.
…Dio mio.
Pum, dice lui.
S’è scopato David! O s’è fatto scopare! O quel che è, non fa la benché minima differenza!
- Comunque… - continua, sempre più deciso ad arrivare fino alla fine, - a quel punto non sapevo più chi chiamare, perciò ho chiamato Georg.
…cosa sentono le mie orecchie!!! Georg!!! Cioè!!!
- Tu odi Georg!
Dal modo in cui mio fratello si ritrae, agli insulti devo avere aggiunto qualcosa di tremebondo tipo che per quanto possa truccarsi non sarà mai bello quanto Strify. No, aspetta. La sua espressione è troppo annichilita per essere Strify. Probabilmente era Luminor. Praticamente l’Insulto Supremo.
- Che sciocchezza, Tom! Non dire mai più una cosa del genere!
Sciocchezze, dice lui! Ma insomma! Si fa scopare dal mio migliore amico e chiama il nostro manager! Si fa scopare dal nostro manager e chi chiama? Il bassista! Cioè, il bassista! Ed io che sono tanto devoto che sto qui a fare, eh?! La bella statuina?! Io! Il fratello che dopo di me non c’è niente e che sono tutto quello che è e tutto quello che gli scorre nelle vene e così via discorrendo! Ma allora è davvero solo fanservice! Ed io che mi ero illuso di- …
Va be’.
- Okay, ho capito. – sbotto, mortalmente offeso, trincerandomi dietro le braccia incrociate ed affondando così profondamente nel cuscino da sentire il legno della testiera del letto spingere dolorosamente contro la spina dorsale. Dannazione a me, a questa schiena tutta per i fatti propri ed a questa cavolo di magrezza sconcertante che rende qualsiasi superficie dura una specie di tortura cinese. Odio il mondo. – Quindi?
- Quindi niente, - continua lui, del tutto indifferente al mio turbamento, - casualmente Georg era proprio da quelle parti, perciò gli ho chiesto se poteva darmi un passaggio per tornare a casa, visto che mi sembrava già di essermi riposato abbastanza.
E vorrei ben vedere.
- Poi, però, mentre eravamo in giro in macchina mi sono messo a raccontare e… - mi lancia un’occhiata un po’ perplessa, ma non si ferma, - Insomma, tu lo sai com’è Georg.
Spalanco gli occhi.
Mi rimetto dritto.
Io non voglio veramente intraprendere questa conversazione.
- Bill, che cazzo mi stai dicendo?
- Insomma! – borbotta lui, finalmente imbarazzato. Che stia cominciando a realizzare il troiaio in cui s’è trasformato la sua vita? – Lo sai! – continua imperterrito, - Si eccita con un niente, ed io gli ho raccontato tutto, e non è che potessi pretendere che lui rimanesse lì tranquillo!
- …Bill, Cristo santo…
- E dopo che lui era rimasto ad ascoltarmi per tutto il tempo non potevo mica andarmene senza ringraziarlo! Perciò mi sono dato da fare e lui alla fine è sembrato pure soddisfatto, nel senso, mi ha detto “si vede che ti stai esercitando molto!”, ed io sono stato tanto felice, Tomi, sai?, perché mi ha fatto un complimento!
Ma ti ha dato della troia!!! Benedetto Iddio!!! Io ti dico “no” e tu reagisci come se ti stessi accusando di omicidio, Georg ti dà della troia e tu sei felice! Ma dico, siamo matti?! Cos’è successo a mio fratello?! Chi sei tu?! Ridammi il mio sfigato Monopoli-dipendente in attesa del grande amore, lurida zoccola sconosciuta!!!
- Bill, sono molto confuso. – cerco di fermarlo, massaggiandomi la fronte.
Dio, pure Georg! Georg! Non so se rendo! Georg!
- Ma non ho mica finito. – mi avverte appena, prima di riversarmi addosso il resto del suo fiume di parole, - Chiaramente non potevo più tornare a casa con Georg. Metti che gli saltava qualche altra strana idea in testa? Va bene una volta, ma due no. Perciò ho cercato di rintracciare Gustav…
- Così potevi fare poker.
- …Tom!!!
No, non c’è un insulto superiore all’essere più brutto di Luminor. Quello era l’Insulto Supremo e basta. Stavolta non ci sono scuse che tengano, è proprio lui cretino.
- Non parlarmi come se l’avessi programmato! Non l’ho programmato!
- Certo che no. Quindi? Da lui come ti sei fatto scopare?
- Non mi sono fatto scopare! – mi corregge. E poi aggiunge: - È che non era in casa.
- Eh, be’. – annuisco io. Tanto può darsi pure che io stia sognando. Uno di quei sogni deficienti che faccio quando mi ubriaco fino a svenire. Spero proprio di essere svenuto. – Potevi chiedere di Franziska, già che c’eri.
- Ma non sarebbe stata la stessa cosa!
- Giusto. Lei è femmina.
- Tom, smettila immediatamente!
Agito una mano in una stanca concessione.
- D’accordo. – annuisco, - Perciò?
- Perciò – riprende lui, abbassando lo sguardo e mugolando accorato, - mi sono messo a girare tutto solo per la città, triste e sconsolato. Nessuno mi amava più e tu non ti facevi sentire, Tomi, renditi conto, ero così depresso!
Tu non sei depresso, tu sei pazzo. Completamente pazzo. Questo dev’essere un sogno, perché a certi estremi non ci sei arrivato proprio mai.
Prima o poi doveva succedere, comunque. Il kajal e le tinture dovevano darti alla testa. Lo dicevo io che le sostanze chimiche potevano raggiungere il cervello attraverso i vasi sanguigni! Ma tu mai che mi dia retta!
- Certamente. Depresso. E quindi?
- Ho vagato un po’ qua ed un po’ la e mi sono fermato in un pub per bere qualcosa. Ed indovina chi ho incontrato?
Tremo.
Ma sul serio.
- Bushido!

- No! – annaspo, emotivamente, psicologicamente e fisicamente distrutto, - Bushido no!
- Eh, era lì, è stato così gentile, sai? Mi ha offerto da bere ed era tutto sorridente! Mi ha anche chiesto di te! Io però gli ho risposto che non lo sapevo perché non ti sentivo da un sacco di tempo e tu mi avevi abbandonato. Perciò lui mi ha abbracciato e mi ha consolato, ed io ho pensato che fosse così gentile e carino che…
- …Bill… - ormai la mia voce è un lamento straziato. Mi vergogno profondamente di me stesso, ancora prima che di lui.
- Insomma, non si può mica rifiutare, quando uno le cose te le chiede con tanta gentilezza!
Gentilezza.
Gentilezza da Bushido. L’uomo che ha dichiarato in diretta nazionale di volersi far fare un pompino da lui e che qualche tempo dopo ha replicato dicendo a chiare lettere che se un giorno Bill l’avesse invitato ad andare a letto con lui non ci avrebbe pensato su più di mezzo secondo.
Giustamente mi viene da chiedere: ma non sarai stato tu a chiederlo a lui? Altroché!
Gentilezza, dice.
Dov’è la sensibilità, David? Eh? Ed alla mia, di sensibilità, chi ci pensa?
- Tomi? Stai bene?
- Bill, non fare domande del cazzo. – biascico, lasciandomi andare di peso contro il materasso e coprendomi gli occhi con un braccio, - Mi hai appena confessato di aver recuperato i tuoi diciotto anni di verginità tutti in tre notti, praticamente. Potrei mai stare bene?
La verità è che sono un uomo tremendamente stupido. Uno fa affidamento sulla fedeltà dei fratelli, no? Poi magari ha la sfiga di avere un fratello stronzo, tipo il mio, che lo illude e gli dice che lo ama, che sono nati per stare sempre insieme, che non si separeranno mai eccetera eccetera. E ci crede! Io ci ho creduto! Uno si fa tutti i suoi bei castelli di carte in testa, ci mette la carta da parati, li arreda, appende i poster, mette i campanellini tintinnanti sulle maniglie delle porte e sparge pouff leopardati in giro per mettere gli ospiti a proprio agio, e poi il fratello stronzo arriva e ti dice tranquillo “ah, comunque, se non l’avevi ancora capito, sono una puttana” e giustamente il castello di carte crolla, con tutti i campanellini e i pouff leopardati, e che cavolo.
Io sono stupido, è questo il mio problema.
Frattanto, al mio fianco, Bill sorride. Poi sogghigna. Poi ridacchia. E infine ride.
Io mi volto a guardarlo.
- Si può sapere perché ridi come un deficiente?
- Perché il deficiente sei tu. – risponde lui, calmissimo, - Ti ho preso in giro. – spiega, - Ti pare mai possibile che possano essere successe cose simili? Mi ero rotto le palle di stare qui e sono andato a Kiel a godermi un po’ di sole. Non si vede che sono abbronzato?
Io, davvero, sono stupidissimo.
Dovrei essere furioso come un toro affamato, ed invece eccomi qui ad un passo dalla commozione.
Sei ancora tu! Stronzo e rompicoglioni! Sei ancora il mio piccolo Billi! Vergine!!!
- Quindi – chiedo per scrupolo, giungendo le mani sotto il mento come neanche Candy Candy, - non hai scopato nessuno?
Mio fratello scrolla le spalle.
- No. – risponde serafico, - Però potrei sempre cominciare da te.
Rabbrividisco e mi tiro indietro.
Ora è un po’ come se l’Insulto Supremo me lo sia ritrovato addosso io.
- Perciò, - ghigna questa specie di Satana cotonato che ho di fronte, - stai attento ad essere gentile con me, da oggi in poi. – e si fa una bella risata liberatoria. Mentre io cerco una qualche corda con cui impiccarmi. – Ricominciamo da capo, ti va? – chiede angelico dopo essersi sfogato, accoccolandosi contro di me. Io neanche perdo tempo ad annuire, tanto so che si fa sempre e comunque come dice lui. – Ti sono mancato, Tomi?
- Sì, Bill. – rispondo istantaneamente, abbracciandolo stretto e lasciandogli pure un bacino sulla tempia, - Tantissimo.
Stupido sì. Masochista no.
Fanfiction a cui è ispirata: Tief Wie Das Meer di Sar@.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest.
- "La vita continua.
È l’asserto di uno che non ha vissuto affatto."

Note: Prima di tutto (di nuovo XD) un ringraziamento accoratissimo a Sara. Quattro pagine possono sembrare una cavolata, ma quando non scrivi niente di tanto lungo da una settimana intera (soprattutto se invece sei stata abituata a farlo per tutto l’anno precedente) suonano tanto come un miracolo inatteso quanto piacevole. Quindi grazie dell’opportunità che mi ha dato semplicemente scrivendo <3
Per quanto riguarda la storia, sono stupita del fatto non cozzi con la costruzione originale di Sara stessa <3 Stupita e felice, perché posso pubblicarla senza sensi di colpa <3 Ed a parte questo non ho veramente niente da dire, perché questa storia è stata quasi un dialogo fra me e Bill. Per cercare di capirlo meglio – d’altronde, è noto: io per conoscere i pg li faccio parlare XD
Unica precisazione: quando parlo del destino unico e dell’ossimoro perfetto, in realtà sto proprio citando In Die Nacht. Non alla lettera, ma diamo a Cotopuzzy quel ch’è di Cotopuzzy XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
“Per Jost non era stato difficile dimostrare la propria paternità della più parte dei testi. Il fatto fossero nati anche da lunghe chiacchierate e confidenze ed appunti di Bill, all’improvviso, non contava più niente.
Tutto sommato, forse, era stato meglio così: del passato non gli era rimasto proprio niente. Se non un’infinita tristezza.”


LIFE GOES ON

Suonava quasi divertente – tanto. Quasi quanto triste – ripensare alle ultime parole che lui e David avevano scambiato. Il posto: un freddissimo atrio antistante la sala del tribunale in cui stava volgendo al termine la controversia legale che l’aveva visto opporsi alla Universal nel tentativo di impedire alla major di rubargli tutto proprio tutto. Il giorno: uno qualunque; non era neanche quello della sentenza: se ne sarebbe riparlato almeno dopo un paio di settimane. E lui aveva comunque deciso che non sarebbe stato presente.
L’atmosfera. Glaciale.
Da qualche parte – nell’angolino rimpolpato di bieco cinismo che Tom aveva scavato di prepotenza proprio accanto al suo cuore – saliva un prurito stupido ed immotivato, che avrebbe voluto obbligarlo a ridere: quell’uomo era stato per lui né più né meno che un padre, fino a quel momento. Ed ecco che si ritrovavano lì, di fronte ad un distributore automatico ronzante in maniera neanche troppo discreta, a fronteggiarsi come due estranei. Con lo stesso senso di disagio appiccicato addosso come una malattia.
David aveva sollevato un braccio, afferrato il bicchierino pieno di caffè dal vano che lo conteneva e poi gliel’aveva porto. Lui aveva accettato con un cenno di ringraziamento – anche parlare sembrava assurdo. Fastidioso, addirittura.
David, però, non doveva pensarla alla stessa maniera. Azionando la macchinetta una seconda volta, in cerca di un caffè che l’avrebbe reso nervoso per un motivo fisiologico – e che quindi sembrava molto più rassicurante del nervosismo irrazionale che lo agitava fin quasi al tremore – aveva deglutito e poi aveva parlato.
Lentamente. A bassa voce. Quasi sentisse il bisogno di riservargli un po’ del rispetto che la Universal stava spensieratamente calpestando proprio in quel periodo.
- In Die Nacht… - gli aveva detto, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi, - non è nella lista, sai?
Non lo sapeva.
La lista delle pretese della Universal lui non l’aveva neanche sfogliata. Alrich Lange, il suo avvocato – un omino nervoso e davvero poco contento di trovarsi nella posizione in cui era – aveva insistito più o meno per tre o quattro minuti, perché fosse più partecipe di quella causa e si rendesse conto del fatto che il diritto al proprio nome su quei testi era qualcosa dalla quale poteva dipendere la sua intera vita. Ma s’era arreso subito, quando s’era accorto che, in realtà, della possibilità di ritrovarsi a vivere una vita da sceicco perso in un dolce far niente che aveva, già in prospettiva, poco di dolce e molto di straziante, non gli interessava poi molto.
Bill voleva cambiare.
Bill voleva andarsene.
Bill voleva solo scappare.
E quindi, non faceva proprio nessuna differenza se la Universal voleva rubargli proprio tutto, fino all’ultima goccia della sua identità. A lui non interessava tenersela.
- Ho pensato che potesse farti piacere tenerla. In qualche modo.
Si era ritrovato quasi senza accorgersene a mordere con violenza il bordo del bicchiere. La plastica aveva ceduto presto sotto la pressione dei suoi denti. S’era spaccata, ed il risvolto arricciato s’era aperto come un fiore, mostrandosi d’improvviso tagliente e appuntito, ferendogli l’interno del labbro.
Se n’era discostato fingendo indifferenza e passando la lingua sulla ferita come a volersi sincerare delle sue condizioni.
Bruciava un po’. Niente di drammatico.
- Grazie. – aveva scollato indifferente.
David s’era concesso un sorriso rammaricato ed aveva scosso il capo.
Era il ringraziamento meno sentito dell’universo.
Probabilmente perché di ringraziare per una cosa come quella Bill non aveva affatto voglia.
Di vedersi in qualche modo riconosciuto quell’amore che non aveva più senso d’esistere, non gli interessava più.
Gli toglievano tutto ma gli lasciavano Tom. Che era un po’ come non lasciargli proprio niente: perché Tom se n’era già andato da un pezzo. O meglio, era stato proprio lui a lasciarlo indietro.

Ma a ragione, Cristo. A ragione.

E così, quella canzone gli era rimasta per le mani.
In Die Nacht.
La prova fisica che qualcosa c’era stato. Qualcosa che l’aveva segnato profondamente. Qualcosa che era stato tutto per lui, per un lunghissimo periodo di tempo. Prima di Melli, prima del successo, prima dei Tokio Hotel, prima perfino della musica: c’era sempre stato Tom. Sotto vesti sempre differenti, e non era stato sempre amore – forse – ma la sua presenza, quella sì, era sempre stata ineludibile.
In fondo non si trattava neanche di una paternità particolarmente onerosa: In Die Nacht era stata solo una traccia nascosta. Una b-side, per di più. Il momento emotivamente più denso di un concerto, a voler essere proprio generosi. Nulla più di questo. Non era stata un singolo. Non era una canzone da spot pubblicitario. Non correva il rischio di diventare una qualche sigla televisiva da reiterare fino alla nausea.
Era una cosa privata. Qualcosa che aveva valore solo per lui.
Davvero solo per lui. E neanche più tanto.
Accucciato in un angolo del divanoletto che era diventato il suo giaciglio in casa di Ross Antony – almeno finché non avesse cominciato a guadagnare abbastanza da pagarsi un alloggio proprio, cosa che suonava perfino ilare, visto che diamine, era Bill Kaulitz e, fino a qualche mese prima, era stato probabilmente uno dei diciottenni più ricchi del mondo – Bill non riusciva effettivamente a pensare ad altro.
A quanto tutto ciò che gli rimaneva in mano fosse sostanzialmente un pugno di niente.
A quanto gli sarebbe piaciuto ritrovarsi davanti almeno per una volta Alrich Lange: per dirgli che, nonostante gliel’avessero spacciato per uno dei migliori del settore, come avvocato faceva proprio schifo.
A quanto, pure, avrebbe dovuto sentirsi fortunato nel trovarsi comunque con un tetto sopra la testa e dei vestiti ancora addosso.
Ma era roba di poco conto. Non c’era nulla che avesse veramente un valore, nel mucchio di certezze spicce che stava recuperando in quei giorni. La vita continua, ti fai degli amici, riprendi a lavorare.
E poi?

La triste verità dei lutti: la ferita non si cauterizza mai. Magari smette di bruciare, ma è lì. La bagni appena e riprende lo strazio. Poco da fare.
Magari lui era presuntuoso a parlare di lutto in una situazione come quella. In fondo, non era morto nessuno. In fondo, anzi, era stato proprio lui ad andarsene, no? A scappare. A mollare tutti senza una spiegazione. Senza neanche una parola.
Ma in realtà qualcosa era morto.
In realtà lui non era la persona che il lutto l’aveva subìto: lui era il lutto stesso.
Era lui che era morto: entrambe le parti che lo componevano, peraltro. Dentro di lui c’era sempre stata una componente di Tom ed una componente di Bill. Bill era ciò che lo rendeva se stesso. Tom era ciò che a quell’affermazione di indipendenza dava valore, perché era il filo che lo legava a suo fratello.
Legati ma non identici.
Due in uno.
Un destino diviso.
L’ossimoro perfetto.
Adesso, però, non restava più niente. Tom era morto d’asfissia: era stato lui stesso a soffocarlo, sull’aereo che lo portava a Parigi, fra le lacrime di disperazione che aveva nascosto dietro al solito paio di ingombranti occhiali da sole talmente fuori luogo da dare perfettamente l’idea di essere solo una maschera. Bill, poi, l’aveva seguito: morto di dolore.
Trovava difficile perfino svegliarsi alla mattina.
Rimettersi in piedi, darsi una ripulita, rendersi presentabile, fare colazione, andare a lavorare, ore di stage fra sconosciuti a volte odiosi a volte cordiali e comunque sempre freddi come marmo, poi tornare a casa, scollarsi di dosso la maschera di scena, cenare, accucciarsi sul divano, piangere un po’, dormire.
E perché?
Anche a pensarci, un motivo non si presentava.

Perché ci sono ancora, in fondo. Respiro. Parlo. Mi muovo.
Ed anche se ogni volta fa così male che preferirei smettere…
…sono ancora qui. Sono qui.


Non era mai stato un cinico – almeno, non prima di scoprire che l’amore era una farsa, tutto, indistintamente, ad ogni grado ed in ogni forma – ma non era mai stato nemmeno un illuso: aveva sempre saputo, o quantomeno sospettato, che la sua vita si sarebbe conclusa in un disastro epico. Un po’ perché fare la rockstar ti impone di pensarla a quel modo – vivi una vita brevissima da stella assoluta, non c’è modo di spegnerti senza che questo provochi un cataclisma mondiale – ed un po’ soprattutto perché la sua vita era davvero Tom. E quando accetti una cosa del genere, ne accetti anche tutti i possibili corollari.
Vale a dire anni e anni di frustrazioni, insoddisfazioni, tristezze di ogni sorta e depressioni feroci.
Vale a dire la scottante certezza d’essere quello sbagliato, proprio come pensano tutti.
Vale a dire, soprattutto, il presentimento di una fine da film drammatico. Separazioni, allontanamenti, litigi furiosi, tradimenti. Cose da cinema.
Ma quando ami tuo fratello, forse, è normale. Quando ami tuo fratello non puoi pretendere una separazione pacifica. Non puoi pretendere un dialogo aperto e maturo. Non puoi pretendere la replica in piccolo del divorzio dei tuoi genitori, insomma: perché già solo il divorzio implica dell’amore precedente. Lì, invece, fra lui e Tom, di amore precedente non c’era proprio traccia. Che non fosse unilaterale, ovviamente.

La vita, comunque, andava avanti. Avanti per davvero.
Fosse anche solo per il fatto che non potevi semplicemente fermarti e decidere di morire – o meglio: potevi anche decidere di farlo, ma la cosa non era poi così automatica – si continuava. Si continuava e basta. Senza liberarsi del dolore né della fatica né di una nostalgia stupida quanto atroce che lo inseguiva come un avvoltoio, ma si proseguiva.
Da Ross e Paul presto non avrebbe più potuto fermarsi – se non altro perché stava per fare il proprio ingresso in quell’appartamento un fagotto tanto piccolo quanto importante, e non era proprio sicuro di volere un bambino fra i piedi nel giro di, uh, per sempre. Probabilmente si sarebbe ritrovato ad accettare l’invito di quel tipo, Laurence du Comb, che sembrava tanto entusiasta all’idea di ospitarlo per un po’. Poteva immaginare perché con fin troppa chiarezza, ma d’altronde era sempre stato piuttosto chiaro riguardo la propria intimità ed i propri gusti.
Dannazione: era stato costretto ad affermarlo perfino in diretta nazionale, vaffanculo. Non era mai esistito nessuno più chiaro di lui, rispetto all’argomento.
Laurence si sarebbe rassegnato e punto.
Lui non poteva continuare a stare in quella casa.
Sarebbe andato.
Era un po’ diventata la sua filosofia di vita, quella, poco da fare. Quando cominci a sentirti scomodo, vai via. Trovati una nuova tana.
Non è detto che le cose migliorino, ma un tentativo puoi sempre farlo, no?

…no.
Perché io non ho un posto mio da quando ho perso le braccia di Tom.
Non ho più una voce da quando ho smesso di cantare.
Non ho più fiducia da quando ho perso quel poco che avevo guadagnato di Melli.
Non ho più niente di mio, tranne questa faccia troppo famosa, un’ambizione smorzata troppo presto ed un amore che amore non era, perché per amare – amare davvero – si dialoga in due. Parli da solo e fai un monologo. Solo un po’ meno squallido di una sega. Ugualmente triste, comunque.

La vita continua.
È l’asserto di uno che non ha vissuto affatto.
Continui a respirare, le cellule del tuo corpo continuano a riprodursi, il tuo cuore continua a battere. Ma sono azioni involontarie. Non pensi, quando le fai. Funzionano in autonomia, come certi muscoli che non hanno bisogno di un ordine per mostrarsi vivi e attivi.
Le funzioni corporee ti tradiscono.
Tu sei morto. E loro respirano al tuo posto.
La vita non continua.
La vita si ferma.
In una boccia di risentimento e nostalgia.
In un ricordo che si blocca a metà perché se solo provi a portarlo a termine ti viene tanto da piangere che non riesci a tollerarlo.
Nel respiro affannoso con cui ti svegli a notte fonda dopo un incubo orrendo.
Nella consapevolezza che indietro non si torna. Che è finito tutto. Tutto, dannazione. Che non riavrai indietro niente.
La vita si ferma.
Si ferma e basta.
È tutto il resto, che ti trascina in avanti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PROLOGUE
ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME

If we belong to each other
We belong anyplace, anywhere, anytime

Erano stati il gruppo tedesco più famoso di tutta l’Europa. Di tutti i tempi. Nel bene e nel male, erano stati uno dei gruppi più famosi dell’intero vecchio continente. Ed erano conosciuti perfino negli Stati Uniti. Avevano fan dalla Russia al Messico, dall’Australia alla Norvegia.
Erano i Tokio Hotel.

“Poco prima della conclusione di quella che doveva essere l’ultima data dello Schrei Tour del 2006, la sicurezza è riuscita miracolosamente a sventare un tentativo di rapimento ai danni di Tom Kaulitz, chitarrista dei Tokio Hotel, band pop-rock famosa a livello internazionale. Si è trattato del terzo attentato ai danni del gruppo in due mesi. Ricordiamo i precedenti episodi, a Nizza ai danni di Bill Kaulitz ed a Lione ai danni di Georg Listing, rispettivamente cantante e bassista all’interno della formazione tedesca.
«A questo punto, non possiamo più ignorare l’ipotesi per la quale ci sarebbe un piano specifico ed articolato, mirante alla distruzione fisica dei componenti di questo gruppo.», ha dichiarato oggi David Jost, manager della band, durante la conferenza stampa indetta questa mattina per spiegare quali sarebbero state le misure da prendere per cercare di risolvere la situazione, «Non siamo più in grado di proteggere questi ragazzi come meritano. È per questo motivo che dichiaro ufficialmente i Tokio Hotel sciolti. I componenti si ritireranno a vita privata. Speriamo in tal modo di preservare la loro sicurezza, che naturalmente viene prima di qualsiasi contratto».
Le reazioni non hanno tardato a farsi sentire. La Universal, casa discografica per la quale i Tokio Hotel lavorano, si è dichiarata contraria a quanto stabilito da Jost, ma disposta a trovare un accordo che soddisfi entrambe le parti. La reazione più violenta è stata sicuramente quella delle giovanissime fan della band, che già da qualche ora assediano gli edifici della casa discografica ad Amburgo, piangendo e mostrando il proprio affetto tramite cartelloni che implorano i ragazzi di ripensarci e non mollare.
Curiosamente, ma comprensibilmente, è proprio dai ragazzi che non si è ricevuto alcun commento. Nessuno dei componenti del gruppo ha ancora detto una parola a riguardo della drammatica situazione della quale è protagonista, e il silenzio stampa che David Jost ricorda continuamente ai giornalisti di aver imposto ai propri protetti sembra destinato a non sciogliersi tanto presto.
Continuate a seguirci per nuovi sviluppi della vicenda.”


Ma non era mai venuto fuori nessuno sviluppo. Il silenzio stampa si era protratto tanto a lungo da diventare per sempre. I giornali avevano parlato di loro ancora per un po’ di tempo, quasi un anno, in effetti, ma dagli articoli pieni di domande di giornalisti sempre più increduli di fronte alla verità dei fatti, non veniva fuori nessuna risposta.
La verità dei fatti era molto semplice: ogni membro dei Tokio Hotel sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Gli sforzi che s’erano fatti per ritrovarne qualcuno s’erano dimostrati del tutto vani. Neanche i membri delle loro famiglie ne sapevano niente – e, se sapevano qualcosa, la nascondevano davvero bene.
Nessuna risposta. Perché non era rimasto nessuno.
Alla fine, dopo due anni trascorsi pigri e lenti sulla Germania e sul mondo intero, dei Tokio Hotel non restava che qualche poster su Bravo e un trafiletto su qualche rivista per teenager, di tanto in tanto. Qualcosa di troppo simile ad un memoriale per non terrorizzare a morte.
Ed era per questo che Tom Kaulitz aveva smesso di leggerli.
- Blitz. Sitz.
L’enorme pastore tedesco si accucciò ai piedi del giovane padrone, protendendo il collo per offrire il capo alle sue carezze distratte. Il ragazzo, magro, alto, avvolto in una pesante tuta in pile di un anonimo grigio scuro e scompostamente seduto sulle scale che, dalla cucina, portavano al giardino sul retro della villetta bifamiliare all’estrema periferia di Londra in cui viveva con “suo fratello”, guardava distratto l’orizzonte, cercando di scorgere il sole tramontare fra gli alberi e le colline della campagna poco distante.
- Dovresti smetterla di parlare in tedesco. – disse appunto quel fratello, raggiungendolo alle spalle e sedendosi al suo fianco, mentre Blitz scioglieva la posa plastica alla quale l’ordine di Tom l’aveva costretto, per corrergli incontro e tentare di rubargli a mezz’aria il panino che stava cercando di passargli.
- Georg. – borbottò Tom, afferrando il panino prima che il suo cane riuscisse ad addentarlo, e lasciandolo perciò con un palmo di naso ad aspettare gli avanzi, lingua penzoloni e sguardo vigile, - Non puoi dirmi di smetterla di parlare in tedesco parlando in tedesco.
- Mi chiamo Frank, Timothy. Ormai dovresti saperlo.
- Certamente, Georg. – annuì Tom, lanciando un pezzo d’hamburger al cane, che corse a ripescarlo dal cespuglio nel quale era finito e poi tornò indietro, accucciandosi nuovamente ai piedi del padrone per sbranare in tutta tranquillità la propria cena. – Comunque sia, non stavo parlando in tedesco. Lo sai che Blitz segue solo un certo tipo di ordini.
- Era ovvio che succedesse. L’hai addestrato in tedesco! Oppure vuoi darmi a bere che le sue orecchie fossero naturalmente predisposte per questo tipo di linguaggio?
- Be’, è un pastore tedesco, in fondo, non un pechinese.
- E se lo fosse stato lo avresti addestrato in cinese, Tom?
Il biondo sorrise, ingurgitando l’ultimo morso del panino e regalando al cane il resto della carne.
Si alzò in piedi, sistemando la tuta perché non cadesse lungo le gambe, ampia com’era, e stringendo il laccio elastico alla vita.
- Tim, Georg, non ti confondere. Stasera siamo a cena dai vicini.
Georg roteò gli occhi, allargando le braccia ai lati del corpo in un gesto rassegnato.
- Sei del tutto impossibile. – commentò infine, alzandosi in piedi a propria volta, - Sono passati due anni, Tom. Abbiamo cambiato cognome. Stato di famiglia. Nazionalità. Lingua. Vita. Non credi che sia arrivato il momento di passare avanti e cercare di dare un valore ai sacrifici che tutti abbiamo fatto, cominciando a vivere sul serio?
Tom sorrise appena, lasciando una carezza affettuosa sulla testa del cane, che subito scattò sulle quattro zampe al suo fianco.
- Dopo tutto questo tempo, Frank, mi rifiuto di credere tu non abbia ancora capito.
Georg sospirò infastidito. Tanto infastidito che il suo sospiro ricordò a Tom più un grugnito che altro.
- Cosa c’è da capire, Kaulitz?
- Blitz. – chiamò il ragazzo, battendo una mano sulla coscia ed osservando soddisfatto il cane avvicinarsi, in perfetta posa di condotta, - Fuss. – ordinò dunque, ed insieme all’animale prese a fare il giro del giardino, senza più degnare Georg di uno sguardo.
- Sai cosa, fratellino? – sibilò quindi lui, a corto di pazienza, - Vai a cagare. – concluse, voltandosi verso la casa e risalendo lentamente i gradini per tornare in cucina.
- Io non ho rinunciato, Georg.
La voce di Tom riecheggiò nel silenzio del tardo pomeriggio primaverile, e quando Georg si voltò a guardarlo lo vide di nuovo immobile a fissare l’orizzonte, il cane seduto sull’erba al suo fianco.
- Ho compiuto diciott’anni senza mio fratello. Senza la mia famiglia. E, di tutte le persone che consideravo amiche, mi sei rimasto solo tu. – si lasciò ricadere a terra, incrociando le gambe per lasciare che il cane potesse accucciarsi fra le sue cosce per una sana dose di coccole. – Ma io non ho affatto rinunciato a riavere tutto. La mia famiglia, il mio lavoro, la mia vita. Perché era quella, la mia vita, Georg. Non questa. – sollevò lo sguardo su di lui, e Georg vi lesse con rammarico la solita deprimente e fastidiosa dose di ostinazione e fiducia in se stesso. – Io non mi fermerò fino a quando non avrò ottenuto quello che voglio. L’unico modo che possa concepire, per non rendere vani i sacrifici che abbiamo fatto fino ad ora, è utilizzare questa opportunità di anonimato per trovare un modo per uscire da quest’incubo. E quando ci sarò riuscito, Georg, i Tokio Hotel torneranno. E stavolta saranno imbattibili.
Georg si passò una mano sugli occhi, sospirando pesantemente.
- Va bene, Tom. – concesse infine, risalendo di un altro gradino verso la protezione offerta dalla propria casa, - La cosa spaventosa è che ti credo sul serio. – Tom si lasciò andare ad una risatina che Georg si forzò ad ignorare, mentre Blitz gli si agitava fra le gambe alla ricerca di un altro po’ di cibo. – Ora, saresti così gentile da tornare al tuo alter-ego inglese e risparmiarmi l’ennesimo rimprovero della vecchia Marge per essere arrivati in ritardo a cena per la milionesima volta, Timmy?
Tom rise ancora, alzandosi in piedi con uno scatto che costrinse Blitz a saltare via ad un paio di metri da lui.
- D’accordo, d’accordo. – annuì, - Dammi il tempo di mettere addosso qualcosa che non puzzi di cane bagnato, e poi ci consegniamo alla sposa di Satana.
- Piantala di parlare così di Marge! – lo rimproverò lui, inorridendo ed osservandolo caracollare allegramente verso la porta dopo aver intimato al cane di restare seduto sul prato senza azzardarsi ad entrare in casa, - È sempre stata buona, con noi! E comunque dovresti smetterla di lasciare questa povera bestia al freddo e al gelo.
- Se permettessi a Blitz di entrare in casa, ci ritroveremmo in due ore in un posto molto simile all’inferno.
- Il che dimostra che sei un pessimo addestratore, Timmy. Pessimo davvero.
- Blitz! Beißt!

Genere: Commedia.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Language.
- "Tu vestito così non esci."
Note: *delira* No, l’orario non vi inganna. Sono davvero quasi le cinque del mattino. *piange* L’insonnia non mi dà tregua. E comunque, questo è il regalo che ho messo su per augurare i migliori ventuno anni possibili alla mia adorata neechan <3
…e, sì, anche per parlare male dei vestiti di Bill ai Comet di quest’anno. Nonché per nominare gratuitamente Bushido senza alcun motivo, ovvio. *ri-piange*
Basta! Ho concluso è_é Grazie per aver letto questa vaccata X’D
E buon compleanno Ana :*******************************
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DURCH DEN GARSTIGKEIT

- Tu vestito così non esci.
Bill sollevò lo sguardo dall’impercettibile imperfezione della scia d’ombretto scuro sotto l’arcata sopraccigliare e lo portò sul riflesso del proprio fratello, proprio lì a fianco, sulla superficie lucida e pulita dell’enorme specchio parietale di fronte al quale stazionava da mezz’ora per gli ultimi ritocchi stilistici prima di andare.
- Tomi…? – si azzardò a richiamarlo, arricciando indispettito le labbra.
Suo fratello gli si avvicinò e si chinò su di lui, finché il suo volto riflesso nello specchio non apparve proprio accanto a quello di Bill.
- Sembri una troia. – spiegò deciso, - Costosa, d’accordo. Ma sempre troia.
Il moro si tirò in piedi, indignato.
- Tomi! – lo rimproverò, intrecciando le braccia sul petto.
- Non dire Tomi! – sbraitò a propria volta il rasta, fuori di sé, - Guardati! Sei disgustoso! Che diavolo sarebbe questa maglia? Che colore è, argentato?! E la sciarpina abbinata, poi…
- Tomi… - mugolò pietoso lui, inarcando le sopracciglia.
- Se ripeti ancora una volta il mio nome, con questa sciarpina del cazzo ti ci strozzo. – concluse secco suo fratello, fissandolo a due centimetri di distanza da lui.
Bill sospirò e scosse il capo.
- Qual è esattamente il tuo problema? – gli chiese a quel punto, inclinando il capo nel modo in cui mostrava al mondo un palese disinteresse falsamente nascosto da un velo di curiosità. Insomma: suo fratello gli stava dicendo che, qualsiasi fosse stato questo famigerato problema, l’avrebbe bellamente ignorato per fare, come sempre, di testa propria.
- Il mio problema te l’ho detto. – ringhiò Tom, sempre più infuriato, - Sembri una troia.
Bill ghignò sadico, inclinando il capo dall’altro lato.
- E…?
- …non c’è nessun e!!! – strillò, - Che e vuoi che ci sia, sembri una troia, è indecente!
Bill scrollò le spalle e tornò a controllare l’ombretto, sistemandolo con la punta del pollice lievemente umettata di saliva.
- …non vorrai mica assistere alla cerimonia di premiazione conciato in questo modo?! – chiese ancora Tom, cercando di scrollare il fratello da quella calma irritante.
- Certo che no, Tomi! Che razza di idea. – sbottò Bill, tirandosi dritto ed allontanandosi dallo specchio per raggiungere la propria valigia ancora aperta sul letto, - Questo è solo per il red carpet. Poi in camerino mi cambio.
- Ah! – s’illuminò speranzoso il rasta, avvicinandosi a propria volta al bagaglio ed osservando Bill pasticciarne il contenuto diligentemente ordinato, - Meno male. E cosa ti metti?
Bill tirò orgogliosamente fuori dalla valigia una magliettina nera che innalzò i livelli di speranza nella buona fede del mondo di Tom fino alle stelle.
E, subito di seguito, gli mostrò un’accoppiata di catene e collari argentati che, per contro, affossarono quella povera speranza maltrattata fin sotto terra.
- Queste! – gioì tranquillamente il frontman, tintinnando tutto mentre si agitava compiaciuto.
- …ma non se ne parla!!! – strillò Tom, sconvolto. – Passino gli stivali sadomaso, passi l’acconciatura da dark-lady, ma le catene proprio no, Bill!!!
Il moro, per contro, sospirò esasperato e rimise tutto in valigia, allontanandosi da lui con fare stanco.
- Dove stai scappando?! – ruggì Tom, saltellandogli frettolosamente accanto.
- In un qualsiasi luogo in cui i tuoi deliri non mi raggiungano, Tomi. – spiegò paziente Bill, senza neanche degnarlo di un’occhiata.
- Ti ho detto di non chiamarmi Tomi! – si lamentò lui, affrettando il passo per frapporsi fra suo fratello e la porta, - È irritante quando lo fai anche quando sai palesemente che mi stai disubbidendo!
- Tu non sei mio padre. – si limitò a fargli notare, quasi distrattamente.
- Sì, ma – grugnì Tom, spalancando le braccia a coprire la visuale della porta dietro di sé, ed osservando Bill fermarsi a pochi passi da lui, - sono comunque quello che ti si porta a letto. – biascicò imbarazzato.
Bill lo fissò sconvolto per qualche secondo, immobile sul posto, il capo lievemente reclinato, come un cucciolo stordito e confuso.
- Sei un impiastro. – commentò alla fine, intrecciando le braccia sul petto, - Non solo ti comporti come un ragazzino, ma dici le cose nel peggiore modo possibile. – sospirò, - Dio, se anche avessi detto “però scopiamo insieme”, sarebbe stato meglio di “sono comunque quello che ti si porta a letto”. Cos’è, una benevola concessione? Sei diventato il filantropo del sesso? Povero Billi che non scopa mai, aiutiamolo a venirne fuori in tutti i sensi?
- …aspetta un po’! – sbottò Tom, sconvolto dal fiume in piena delle rimostranze del fratello, - Stai delirando troppo in fretta!
- Ah! – borbottò Bill, roteando gli occhi, - Ora sono io, quello che delira! Cos’è, Tomi, sei geloso o cos’altro?
Tom aggrottò le sopracciglia e gli si avvicinò minaccioso.
- Insomma. – mugugnò confusamente, afferrandogli i polsi con entrambi le mani e sciogliendo il nodo delle sue braccia strettissimo sul petto, - Ti… ti guarderanno tutti. – mugolò pietosamente.
- Lo fanno sempre. – scrollò le spalle Bill, annoiato.
- Sì, ma stavolta ti si vorranno fare proprio tutti! Ma tutti tutti! E…
- …e?
- …
- Tomi…
- E ci sarà anche lui, ecco! – si arrese il rasta alla fine, confessando il proprio sdegno.
- Ossignore! – esultò finalmente Bill, allargando le braccia ai lati del corpo, - Finalmente ci stiamo arrivando! Ora, Tomi, ripeti dopo di me: visto che ci sarà anche Bushido, non mi va tu sia più bello del solito, perché sono geloso.
- Io non sono geloso! – si difese Tom, ritraendosi terrorizzato, - Almeno, non di Bushido!
- Tu sei mortalmente geloso. – corresse Bill, piegandosi supponente verso di lui, - Soprattutto di Bushido.
- …perché ci flirti!!! – motivò, agitandosi come un galletto in trappola, - Quindi vedi un po’ tu, vestito da zoccola e col tuo tipico atteggiamento da zoccola! Sono terrorizzato, non puoi farmene una colpa!
Bill si lasciò andare ad un sorrisetto soddisfatto, tornando ad intrecciare le braccia sopra il ventre e sporgendosi ancora un po’ verso di lui.
- Ah-ha. – miagolò seducente, - Come sei carino, Tomi!
Suo fratello roteò gli occhi e si voltò, esasperato, verso la porta.
- Oh, insomma, fai quello che vuoi! Vacci pure nudo, in quel cazzo di posto, ed appena vedi Bushido buttati ai suoi piedi e-
Non riuscì a concludere il tragico dipinto, perché Bill lo afferrò saldamente per una spalla, lo costrinse a voltarsi e pressò con forza le proprie labbra sulle sue, soffocando le sue proteste in un bacio famelico e passionale.
- Tomi, sii serio. – ridacchiò poi, separandosi da lui, - Pensi che, con uno come te al mio fianco, uno come Bushido potrebbe mai interessarmi?
Tom rimase a boccheggiare per qualche secondo, cercando di recuperare il fiato che Bill sembrava avergli letteralmente strappato via con quel bacio.
- ...quindi ti piaccio più di lui… - mormorò alla fine, timidamente, vagando a tentoni alla ricerca di una delle rassicuranti ammissioni che Bill raramente gli concedeva.
- Ma è ovvio. – rispose il frontman, ravviando i lunghi capelli dietro le spalle, - Sei uguale a me, perciò sei bellissimo. A confronto, il resto del mondo è un enorme cesso semovente!
Tom lasciò ricadere le spalle e la mascella – ed anche buona parte della propria autostima e di sua sorella là dignità – fissando il fratello con aria sconvolta e afflitta.
- …tu sei il male. – annunciò alla fine, sconvolto, - Pure quando cerchi di fare un complimento a qualcuno, finisci comunque per complimentarti prima di tutto con te stesso!
Bill spalancò gli occhioni bistrati di nero ed arricciò la bocca in un morbido cuoricino color pesca.
- Dici? – mugugnò tristemente. Poi si voltò a guardarsi nuovamente riflesso nello specchio, perdendosi a lungo nella propria immagine. - …è che me lo merito troppo, dai! Cioè, guardami!
Tom scosse il capo e si massaggiò stancamente la fronte, sospirando tristezza e rassegnazione.
- Allora? – insistette Bill, pizzicandogli insistentemente un braccio, - Mi fai uscire così o no?
Tom scrollò le spalle, annuendo distrattamente.
- Tanto non ho niente di cui preoccuparmi. – borbottò, - In ogni caso non guardi al di là del tuo naso. Non ti accorgeresti di nulla neanche se Molko in persona ti s’inginocchiasse davanti e ti chiedesse di sposarlo, figurati. È improbabile che tu mi tradisca con Bushido. Al massimo, con lo specchio. – constatò tristemente.
Bill sorrise malizioso, chinandosi su di lui e sfiorandogli il naso con la punta del proprio.
- Non è così. – miagolò, - È che adoro il modo in cui guardi chiunque mi posi gli occhi addosso anche solo per sbaglio, quando sono così bello. Sembra che tu stia lì a ripetere a tutti quanti “provate solo a pensare e lui, e vi sbrano tutti”.
Tom sospirò, scuotendo il capo.
- Il dramma è non poterli sbranare davvero!
Bill rise e gli si aggrappò al collo, mordicchiandogli le labbra.
- Vuol dire che dovrai accontentarti di sbranare me, quando torneremo a casa, stasera…
Tom spalancò gli occhi e lo fissò, in parte stupito ed in parte un po’ confuso.
Poi lo afferrò per un polso, chiuse in un breve gesto la valigia e prese a trascinare entrambi verso la porta.
Bill, alle sue spalle, rise come un bambino.
- Questo significa che posso uscire anche così. – constatò soddisfatto, - Non vuoi neanche darmi il tempo di controllare se ho preso tutto?
- Giammai! – negò Tom, aggrappandosi furiosamente alla maniglia della porta, - Prima ci muoviamo, prima torniamo!
Bill evitò di fargli notare che l’orario in cui sarebbero tornati sarebbe dipeso comunque dalla durata dello show. Non era importante che suo fratello lo sapesse: il suo scopo, lui, l’aveva raggiunto comunque.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest.
- Anno 2012. Esce Der Letzte Träum, il terzo album in tedesco dei Tokio Hotel. La title-track, sul finale, recita "Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti". Le sue parole si rivelano premonitrici. Nell'anno 2025, i gemelli Kaulitz hanno trentacinque anni ed hanno passato gli ultimi dieci l'uno lontano dall'altro, senza nemmeno vedersi. Il matrimonio di Georg darà loro occasione non solo di rincontrarsi, ma anche di ricordare i motivi per i quali avevano deciso di non rivedersi più.
Note: Sono tornata al twincest T___T!!! Omg T___T!!! Sono commossa T___T!!! In realtà non è che l’avessi proprio abbandonato (è palese che io i fandom non li abbandono proprio mai, possono passare pure anni e magari non ci scrivo più su, ma l’amore resta identico <3), solo che proprio m’era venuta voglia di scrivere di altri tipi di rapporti e dinamiche, perciò, pur non lasciando nel dimenticatoio i gemellini, avevo un po’ trascurato questa parte di fandom.
E in realtà la spinta definitiva per scrivere questa storia me l’ha data Yul, che ad un certo punto in chat mi fa “ma non ti starai un po’ stancando del twincest?”. La mia risposta mentale è stata “omg, no!!!”, e questo è il risultato XDDD
Il desiderio di usare Forbidden Colours (di Ryuichi Sakamoto – piano – e David Sylvian – voce) era nato già tempo prima, solo che, per quanto il testo fosse così disgustosamente e palesemente twincest, non avevo una trama da intrecciarci su. Sapevo solo che mi faceva venire voglia di scrivere dei gemelli che s’erano messi insieme, poi s’erano lasciati ed alla fine si incontravano di nuovo e decidevano di riprovarci. Voglio dire, questa non era una trama, non potevo usarla T_T Così alla fine mi sono messa a ricamarci su ed è venuto fuori questo emostruggimento di palle (cit. Sara <3) del quale non so nemmeno che pensare a parte il fatto che è lungo! XD
A proposito di spropositi: l’idea di una “nuova canzone” (in questo caso Der Letzte Traum – grazie a Meg per la traduzione del titolo ed a Sara per la traduzione dei tre versi che uso nella storia) da intrecciare con le vicende della fanfiction, non è mia. Gli illustri precedenti (le solite note: Sara e Meg, le quali, è ormai evidente, occupano posti speciali nel mio cuore <3 XD) dimostrano pienamente, con le loro storie bellissime, la mia incapacità di usare lo stesso espediente in modo appena decente, ma ho voluto usarlo anche io perché continuavo a ripetermi che sarebbe stato inusuale per dei musicisti rimanere all’asciutto di musica nuova durante tutti quegli anni. Chiedo umilmente perdono ç_ç”
E già che ci sono vi ringrazio tutti, mandando un bacio particolare alla mia Misako di fiducia (i cui betaggi dotati di commento finale sono il bene <3) ed alla Nai (che mi ha aiutato a risistemare a monte delle parti poco chiare <3).
Un ringraziamento speciale (condito da dedica innamorata) a Meg: perché è stata Mezzanotte, la sua storia-paura, a darmi “la forza” (nonché ad obbligarmi moralmente!) per scrivere Forbidden Colours. Grazie <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
FORBIDDEN COLOURS

You remind me
A lifetime away from you
The blood of Christ
Or the beat of my heart
My love wears forbidden colours
My life believes in you once again

Quando ho detto a Georg che non credevo fosse il caso di presenziare al suo matrimonio, ho seriamente avuto paura che impazzisse. Che cominciasse a strillare, salisse in macchina e venisse a prendermi fino a casa, per poi trascinarmi alla cerimonia per i capelli, come tutti i bravi uomini delle caverne.
L’unica libertà da uomo delle caverne che si è preso, in realtà, è stato un grugnito profondo ed infuriato, di quelli che spaventano sempre l’interlocutore, perché somigliano a ruggiti repressi. Quando la bestia reprime un ruggito è perché non vuole farsi sentire dalla preda.
Dopo il ruggito, comunque, è immediatamente tornato al mondo della civiltà. L’ho sentito sospirare profondamente e l’ho immaginato socchiudere gli occhi e passarsi una mano fra i capelli con fare sconsolato. Era il suo gesto caratteristico di fronte ad ogni cattiva notizia, quando ancora vivevamo tutti insieme e potevamo dirci davvero felici.
Con quel telefono in mano, sorridevo impercettibilmente e lo ascoltavo inspirare ed espirare. Lo immaginavo muoversi esattamente come lo ricordavo, ed allo stesso tempo prendevo laconicamente atto di non avere neanche la più pallida idea di come apparisse Georg oggi, dopo tutto quel tempo.
Erano passati dieci anni da quando avevo lasciato Amburgo. E sei dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Poteva non avere più neanche un capello.
Le sue braccia potevano aver perso tono.
Poteva aver completamente cambiato abitudini, modi di fare, espressioni…
- Bill. – mi disse, con aria angosciata, - Non puoi farmi questo.
Era vero, non potevo farglielo. Così come non avevo veramente potuto abbandonare lui e Gustav, durante tutti quegli anni. Come non avevo potuto rinunciare alle telefonate, alle visite inaspettate che pure erano praticamente sparite durante gli ultimi anni – sempre loro da me, mai io da loro. Non potevo rischiare: la posta in gioco era la mia vita. Troppo alta per qualunque giocatore d’azzardo. – così come non avevo potuto rinunciare alle lettere, o anche solo a pensare a loro.
L’unico che ero stato veramente capace di abbandonare era stato Tom.
E, d’altronde, era esattamente in quel modo che doveva andare.
- Lui ci sarà, vero? – chiesi sottovoce.
- Sì. – rispose Georg, senza attendere neanche un secondo, né mostrare la minima incertezza. – Non voglio che riprendiate a parlare, anche se sai come la penso al riguardo. Non voglio neanche che vi notiate a vicenda. – sospirò ancora. – È troppo pretendere da voi che riusciate a coesistere nello stesso ambiente per una giornata?
Risi debolmente.
- Non lo so. – risposi sincero, - Non abbiamo più provato.
L’ennesimo sospiro di Georg raggiunse le mie orecchie risuonando come un’ultima disperata richiesta.
E davvero non potevo rifiutare.
- D’accordo. – annuii, - Se lui può, posso anch’io. Ci sarò.
*
Sarebbe sciocco negare che sono agitato. È un’agitazione inspiegabile, comunque. Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. L’ho saputo fin dal momento in cui Georg ha cominciato a frequentare Karen. Sapevo che sarebbe successo, perché Gustav ha cominciato immediatamente a scherzare sul fatto che, a guardarli insieme, si sarebbe giurato di vederli già sposati.
Gustav non ironizza mai su cose prive di fondamento.
Gustav, per scherzare, ha sempre bisogno di basi solide.
È per questo che non aveva mai scherzato sul twincest, prima di…
Be’. Prima di quello.
E dopo, ecco, non è che ci fosse poi molto su cui scherzare.
Comunque, anche se l’ho effettivamente saputo solo da quando ho cominciato a subodorare aria di fidanzamento, in realtà ho sempre sentito che questo momento sarebbe arrivato, indipendentemente da qualsiasi motivazione esterna. Esterna a me e Bill, dico.
Ecco perché ho sempre saputo che prima o poi ci saremmo rivisti: Bill e Tom sono sempre bastati, come motivo per rivedersi.
Almeno, prima che il nostro mondo si rovesciasse non una, non due, ma ben tre volte. Annaspando, siamo riusciti a sopravvivere alla prima. Siamo usciti malconci dalla seconda. Ma alla terza nessuno sarebbe sopravvissuto. Nessun legame è tanto forte. Neanche il nostro, no. Perché quando recidi volontariamente un’arteria non c’è nulla che tu possa fare, poi, per legarla nuovamente insieme. Anche se fai un bel nodo, cosa risolvi? Il sangue ha smesso comunque di scorrere.
- Sei teso come una corda di violino.
Mi sforzo di sorridere a Gustav, che mi porge un’enorme tazza di caffé annacquato.
- Cos’è questa brodaglia, Juschtel?! – fingo di indignarmi, stringendo la tazza bollente fra le mani. Ad Amburgo fa sempre dannatamente freddo, in inverno.
In effetti, ci sono cose che non cambiano mai.
- Non voglio che resti sveglio tutta la notte. – mi risponde il mio batterista – ex. Ex, Tomi. Ficcatelo in testa, una buona volta.
Sorrido debolmente, spalmandomi sul divano del suo salotto. È stato carino ad ospitarmi, finché Bill non si farà vedere.
- Quando hai detto che arriva? – chiedo distrattamente, sorseggiando il caffé.
Gustav sospira.
- Domani pomeriggio. Credo di avertelo detto circa un centinaio di volte. Il tuo cervello si rifiuta di immagazzinare l’informazione o godi nel farmelo ripetere fino allo sfinimento? – ribatte con un ghigno.
- Niente del genere… - confesso io con un mezzo sorriso che deve sembrare pure parecchio stupido, - Voglio solo essere sicuro.
- Ti scrivo un post-it. – ironizza lui, inarcando le sopracciglia.
Io rido piano. Non voglio svegliare Marlene né la piccola, si meritano un bel po’ di sonno. Ce la stanno mettendo tutta, per organizzare bene il matrimonio di Georg.
Be’, Marlene ce la sta mettendo tutta. Organizzare matrimoni è il suo lavoro, ma ha preso quello di Georg come una missione di vita, c’è proprio da dirlo. Gira come una trottola impazzita da quando sono qui – vale a dire già quattro giorni. La piccola Franziska, invece, ce la sta mettendo tutta solo nella complicata operazione di sfiancarsi, giorno dopo giorno. Anche lei gira come una trottola impazzita: vede ovunque esclusivamente occasioni di gioco sfrenato. Ed è anche giusto, visto che ha solo cinque anni. Comunque anche lei, a proprio modo, si sta preparando: portare le fedi all’altare non è un compito da prendere sottogamba. Nemmeno se hai solo cinque anni, sei carina da morire e il mondo intero sarebbe pronto a perdonarti anche se facessi cose molto peggiori che non capitombolare lungo la navata principale della chiesa perché sei inciampata nel tuo adorabile vestitino da meringa rosa in miniatura.
- Be’, io vado a letto. – annuncia piano Gustav, allontanandosi verso la porta. Io lo saluto con un sorriso e un breve cenno della mano, accucciandomi sotto al piumone.
Gustav s’è sposato otto anni fa.
Né io né Bill eravamo presenti.
Penso che lui non riuscirà mai a perdonarci, per questo. A suo merito va l’essere riuscito a soprassedere ed avere comunque continuato a sopportarci e volerci perfino bene, ma la cosa lo ha rattristato enormemente. Ed il sapere che, invece, per il matrimonio di Georg saremo qui, non deve rendere di certo più facile la cosa.
Ma allora erano passati solo due anni. Era troppo presto. Non potevamo proprio rischiare.
Adesso ne sono passati dieci. Possiamo fare un tentativo.
*
Odio l’aereo. Dio, Dio, Dio, lo odio a morte. Perché sono andato a vivere in Italia? È troppo distante da casa. Mi obbliga proprio a salire su questi inaffidabili pezzi di ferraglia volanti. E d’accordo che il Lago di Como offre un’invidiabile lenzuolo di discrezione sotto il quale nascondersi, ma l’anonimato non vale proprio questo terrore folle.
E dire che dovrei esserci abituato, ormai. Ho preso aerei per più di metà della mia vita, così spesso che suona quasi assurdo io ne sia ancora così irrazionalmente turbato.
Però c’è anche da dire che prima, quando prendevo l’aereo, con me c’era sempre Tom.
Adesso, invece, non c’è nessuno.
Improvvisamente, ricordo che, se sono andato a vivere così lontano dalla Germania, è stato proprio perché contavo di non ritornarci mai più. Il pensiero mi fa un po’ male, perciò cerco di estirparlo dalla mia mente ficcando più a fondo gli auricolari nelle orecchie ed aspettando che la romantica e sottilissima voce di Chris Martin ne scacci ogni traccia.
L’ultimo album dei Coldplay, comunque, fa veramente schifo. Avrebbero dovuto ritirarsi anni fa. Sapevo che collaborare con Kanye West sarebbe stato deleterio. Sono sempre stato contrario alle commistioni stilistiche, se uno fa pop o rock non ha proprio alcun bisogno di mischiarlo all’hip-hop.
Mio fratello lo sapeva bene. Mio fratello conosceva a memoria i miei gusti, intuiva le mie idee e concretizzava la mia ispirazione senza che io neanche dovessi spiegargli cos’avevo in testa.
Era per questo che i Tokio Hotel funzionavano così bene. Perché ci legava una chimica perfetta.
Io inventavo, Tom rendeva plausibile, Georg realizzava e Gustav coordinava il tutto.
Non c’è che dire: un meccanismo inestimabile.
A ripensarci, era semplicemente ovvio andasse tutto a puttane, dopo quanto è successo. I legami così perfetti sono anche fragilissimi. Incrinali anche solo un po’ e si sfaldano. Quattro persone in equilibrio su una bilancia possono crollare al più piccolo scossone. Abbiamo fatto tutti i funamboli per un sacco di tempo, prima di capire che non c’era proprio più nulla da salvare, perché tutto ciò che stavamo cercando di preservare era crollato alla prima incertezza, tantissimo tempo addietro, e noi non ce n’eravamo nemmeno accorti.
Chissà se al matrimonio sarà presente anche David…
…che sciocchezza. È ovvio che ci sarà. Ci saranno tutti, i fantasmi del mio passato.
Dovrò affrontarli. Poco da fare.
Dio, odio gli aerei.
*
- Tomi, mi sta bene il vestito?
Ogni volta che Franziska mi chiama così mi si riempie il cuore. Non saprei dire esattamente di cosa: potrebbe essere gioia, ma è un sentimento di una malinconia tale che proprio non mi riesce di identificarlo con precisione. Fa male solo guardarlo. Solo accorgersi che c’è.
Eppure, avevo un tremendo bisogno di sentirmi chiamare ancora così. Sono stato io a pretendere lo facesse.
Gustav sorride brevemente, solo per un attimo, prima di prendere la piccola in braccio e rimproverarla.
- Non puoi approfittare dell’assenza di tua madre per disobbedirle. – dice serio, - Cosa ti ha detto prima di uscire, stamattina?
Franny abbassa lo sguardo ed arriccia le labbra in una smorfia contrita.
- Di non mettere il vestito del matrimonio…
- E perché?
- Perché si può sporcare…
Gustav annuisce compiaciuto, rimettendola a terra.
- E quindi cosa fai adesso?
- Vado a toglierlo…
- …e lo posi ordinato sul letto. Ok?
Franziska annuisce e si avvia mogia mogia verso il corridoio, le braccia ciondoloni e le spalle incurvate.
- Ti sta benissimo. – sorrido io, facendole l’occhiolino, - Sei proprio bella.
Sono stato un po’ lento con la risposta, ma a giudicare da come si illumina il suo viso non deve essere arrivata troppo tardi.
- La vizi. – constata Gustav, lanciandomi un’occhiataccia mentre si siede sul divano al mio fianco.
- L’ho sempre fatto. – ridacchio io, - Cosa ti fa pensare che, solo perché sta crescendo, io debba smetterla?
- Sei peggio di un vecchio nonno. – sospira lui, alzando gli occhi al cielo. Poi torna serio. E torna anche a guardarmi. – Io devo andare a prendere Bill all’aeroporto, Tom. – annuncia quindi, grave.
Sento la saliva bloccarmisi in gola.
È una sensazione spaventosa: il solo sentire pronunciare il suo nome mi attorciglia le viscere.
È mai possibile amare una persona a questo punto? Il suo ricordo, la sua immagine, la sua semplice idea?
Dopo tutto questo tempo, non è possibile che io lo senta ancora così tanto. Non così profondamente. Non dopo tutto quello che è successo.
Dieci anni, cazzo.
Dieci anni di vita. Be’, più o meno. Non ho vissuto davvero, ma il tempo m’è passato addosso lo stesso. M’è passato dentro. È passato sulla mia pelle, sui miei occhi, sulle mie gambe. È passato sulle piccole rughe d’espressione che ho agli angoli della bocca, è passato sui miei capelli, che ormai sono corti e leggeri come l’aria, è passato sui miei vestiti, che si sono ristretti, accorciati, sgonfiati e sono poi sfociati nell’anonimato più totale.
Ho trentacinque anni, cazzo.
Non posso ancora sentire Bill come se ne avessi venti.
L’amore, a quest’età, non dovrebbe essere ancora lo stesso. Dovrei avere imparato a viverlo diversamente. Dovrei avere imparato, per il mio stesso bene.
Non mi sono mai amato granché, evidentemente.
Non lo faccio neanche adesso.
In realtà, colui che ho sempre amato era un me stesso ugualissimo e diversissimo da me.
Vista in questa prospettiva, la cosa prende decisamente senso. Anche se non dovrebbe.
- Vuoi accompagnarmi? – prosegue Gustav, prendendo il mio silenzio come un invito in tal senso.
- Non credo. – deglutisco con difficoltà.
- …sì o no? – insiste lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
Scrollo le spalle.
- Aspetterò qui. – concludo, cercando a tentoni sul divano il telecomando, - Così puoi lasciare la bambina.
Gustav sospira e si alza in piedi, scuotendo il capo.
- Meno male che vai a stare da David. – borbotta, - Non riesco nemmeno ad immaginare di avervi nella stessa casa. Scommetto che fareste i turni per uscire ed entrare dalle stanze.
Sorrido mestamente. Il ritorno di David dall’Inghilterra mi ha dato una scappatoia non indifferente. Il fatto che fra lui e Bill le cose non siano andate più tanto bene impedisce loro di condividere casa, ma fortunatamente per me le cose sono state diverse.
Suppongo sia stato solo perché io sono rimasto in Germania e Bill, invece, è fuggito in Italia. David non glielo perdonerà mai, credo.
- È probabile. – sospiro alla fine, accendendo il televisore.
- Già. – annuisce lui, - Ma la cosa sconvolgente non è questa: è che non avreste nemmeno bisogno di organizzarvi, per sincronizzare gli orologi biologici. – commenta con un sorriso triste.
Non rispondo, perché non c’è niente da dire.
Franziska trotterella in salotto e si getta sul divano, arrampicandosi immediatamente sulle mie gambe.
- Voglio guardare i cartoni animati di Barbie! – pretende, cercando di scalare le mie spalle per raggiungere la libreria sulla quale sono stipati i DVD, dietro al divano. Io la lascio fare, reggendola per i fianchi ed aspettando che scelga. Gustav mi lancia un’occhiataccia.
- La vizi proprio. – commenta rassegnato. Poi mi saluta ed esce.
*
Appena entro in casa di Gustav, vengo investito dalla certezza fisica della presenza di Tom. C’è il suo odore, lo sento ovunque. Ha saturato l’aria. Non solo è qui, ma sta qui da un bel po’ di giorni.
Mi guardo intorno con aria spaesata, ma i miei occhi sono in febbrile ricerca. Mi spavento da solo, quando succedono cose del genere. Quando comincio ad esaminare l’ambiente perché ho paura che Tom possa spuntare fuori da un angolo senza preavviso, sono veramente… tremendo.
- È andato via. – mi rassicura Gustav, intuendo i miei pensieri, - L’ho ospitato finché non è tornato David. Ora sta da lui. – mi informa, avvicinandosi alla consolle dell’ingresso e sfiorando con lo sguardo il bigliettino che Tom gli ha lasciato prima di andare via: “Sono uscito. Franny è con me. Ti aspetto da David”.
La scrittura di Tom non è cambiata. Ed io comincio a sudare freddo.
- Scappato appena ha sentito l’odore? – scocco sarcastico, indicando il foglietto con un cenno del capo.
Non so perché dico questa cattiveria gratuita. Non so perché sorrido in modo così crudele. Forse ho semplicemente bisogno di farmi un po’ di coraggio, perché proprio non ne ho.
Tremendo. Tremendo. È tremendo. Sono tremendo.
Gustav mi risponde con l’occhiataccia sconvolta e disgustata che merito.
- Bill! – mi riprende con un tono, in effetti, molto paterno, - Che razza di discorsi fai?!
- Sì, lo so, lo so… - mugolo, roteando gli occhi e trascinandomi dietro la valigia.
- No, non lo sai affatto! – continua lui, inviperito, - Ringrazia solo che tuo fratello non sia ancora qui, perché se ti avesse sentito, come minimo, ti sarebbe saltato al collo.
- No. – correggo, sedendomi sul divano e sfiorandone la fodera con una mano. È ancora tiepida. – No, Tom non l’avrebbe fatto.
- Be’, se fossi stato al suo posto, io sì. – commenta acido, scrollando le spalle.
- Gustav… - sospiro io, socchiudendo gli occhi, - noi l’abbiamo deciso insieme, di non rivederci più. Nessuno ha imposto niente a nessun altro. E nessuno ha qualcosa da rimproverare all’altro.
Lui imita il mio sospiro e si massaggia la radice del naso.
- Mi auguro che tu non lo pensi davvero. – sbotta, rassegnato. – Vado a recuperare la bambina. Tu sistemati pure. Il bagno è in fondo al corridoio, le tovaglie nel mobile dietro la porta e… - si interrompe un attimo, incrociando le braccia sul petto.
- Cosa? – lo incito io, inarcando le sopracciglia.
Lui scuote il capo.
- Credo che mi toccherà rifare il letto nella camera degli ospiti. – borbotta, - Ci ha dormito Tom, fino ad oggi.
*
Il sorriso che si apre sul volto di David appena appaio sulla porta mi consola e riesce in qualche modo a debellare ogni singola ombra dei miei pensieri, riempiendomi d’allegria.
- Tom! – chiama eccitato, abbracciandomi, - Che piacere vederti!
Mi fa sempre più impressione rivederlo, comunque. Si sta facendo vecchio. Piano piano, ma sta succedendo. I capelli brizzolati lo rendono affascinante, in qualche modo, gli danno un’aria più affidabile e meno svagata, ma…
…Dio. Quanto mi fa impressione.
- E tu? – chiede poi, ironico, chinandosi verso Franziska, - Ti sei fatta rapire? – ridacchia, prendendo la piccola in braccio.
Lei ride e gli schiocca un bacio rumoroso sulla guancia.
- Tomi non poteva lasciarmi a casa! – spiega professionale, - Ero tutta sola!
- Certo, certo! – annuisce lui, fin troppo entusiasticamente per non essere comico in maniera quasi irresistibile. Tant’è che ridacchio pure io. – Vediamo se in questa vecchia casa è rimasto qualcosa da farti mangiare per merenda. – riflette serioso, introducendoci all’interno del loft.
Io mi muovo lentamente, sistemando il borsone sulle spalle.
Questa casa mi uccide, ogni volta.
È sempre uguale. È sempre lei.
C’è così tanto di noi che fa paura.
…a ben pensarci, è l’unica cosa sia veramente rimasta di noi.
- Allora, come va? – mi chiede David, mentre rimpinza Franny di caramelle alla fragola, - Stai ancora a Loitsche?
- Già. – sorrido, - Gordon non mi lascia andare. – Lui inarca un sopracciglio, fissandomi scettico. – Ok, ok. – correggo, - Sono io che non voglio andare via. – ammetto, sorridendo mestamente.
Lui ride e mi omaggia di una pacca sulla spalla che solo nella sua mente sovraeccitata può sembrare amichevole. Perché in realtà mi fa un male cane.
Solo fisicamente, però. L’entusiasmo di David ogni volta che mi vede è sempre un balsamo.
Di Bill neanche mi chiede.
Un po’ perché sa perfettamente che non ci sentiamo più. Un po’ perché dubito che, anche se fossimo ancora in contatto, vorrebbe sapere qualcosa di lui.
Sono le controindicazioni degli abbandoni.
C’è sempre qualcuno che la prende peggio di altri.
Gustav e Georg sapevano tutto, di noi, e per loro è stato molto più facile comprendere la nostra scelta. Il povero David, invece, è sempre rimasto all’oscuro di ogni cosa. Non lo biasimo, per essere rimasto così deluso. Credo non lo biasimi neanche Bill, in fondo.
È che ogni azione ha le proprie conseguenze.
Ogni tanto, sono così incredibilmente presuntuoso da credere anche che io e Bill lo sappiamo meglio di tutti gli altri.
*
Nostra madre è morta quando noi avevamo ventidue anni. Stavamo vivendo un periodo talmente glorioso che, se ci ripenso, mi sembra perfino irreale. Der Letzte Traum, il nostro terzo album in tedesco, era stato un tale successo in Europa che la Universal inizialmente non aveva nemmeno sentito il bisogno di realizzarne una versione in inglese per il mercato internazionale.
Ciò che non avevano immaginato era che il successo, stavolta, si sarebbe fatto sentire pure in America. D’altronde, comunque, dopo tutti quegli anni di gavetta, era il minimo potessimo aspettarci dalla vita.
Insomma: l’album in inglese l’abbiamo comunque fatto, alla fine. Le vendite di The Last Dream non sono certo state astronomiche, ma di sicuro non sono state indifferenti.
E perciò tutti noi stavamo vivendo un periodo davvero incredibilmente felice. Io e Tomi avevamo perfino comprato un appartamento a Magdeburg. In parte per stare più vicini a mamma e Gordon ma mantenere comunque un po’ di privacy anche durante le vacanze, ed in parte anche per far pesare di più certe rivincite che sentivamo di meritarci in pieno.
L’infarto di mamma è arrivato del tutto inaspettato. Ha svelato una serie di crepe nella sua salute che noi non immaginavamo nemmeno. Che nemmeno Gordon immaginava. Che neanche nostra madre, probabilmente, doveva aver realmente percepito.
Ci spaventò. No. Ci terrorizzò.
Ci pietrificò.
Cercammo comunque di stringerci attorno a lei, ci prendemmo una pausa dal lavoro, ricominciammo a fare la spola da Loitsche a Magdeburg – e non fu piacevole, non fu piacevole affatto, non fosse altro per il fatto che fummo costretti a fare a ritroso la stessa dannata strada di un tempo che avremmo preferito dimenticare. E la situazione contingente non aiutava, proprio no. – fummo dei bravi figli, davvero. Devoti. Responsabili.
Lei è morta comunque.
Il suo cuore era irrimediabilmente provato. Almeno, così ci disse il medico.
Era stata talmente forte, per tutta la sua vita, che a sentirla, come motivazione, pareva del tutto campata in aria. Provata, nostra madre? Era impossibile. La Simone che conoscevamo noi non sapeva neanche dove stesse di casa la fatica. Era instancabile. Frenetica. Sempre vigile. Attiva. Rumorosa e furbissima e incasinata e brillante e splendida. Tutta splendida.
Tom ed io realizzammo che era esattamente per questo che era morta. E fu orribile.
Fu orribile.
Non saprei descriverlo altrimenti.
Non ci ho neanche mai speso su particolari quantità di parole: era morta mia madre. Bastava, per esprimere lo strazio.
A ripensarci adesso, la title-track del nostro ultimo album suona un po’ come l’estrema presa in giro autoironica di una breve quanto fulminante carriera di successo. Der Letzte Traum è una canzone molto positiva – in realtà credo di non aver mai scritto canzoni veramente e pienamente negative, ecco, ma questa lo è particolarmente. Dice che, una volta che hai esaudito tutti i tuoi sogni, e da sognare non ti resta più niente, puoi cominciare a riposarti. Stare tranquillo. Pensare a te stesso e vivere in pace.
Der Letzte Traum, però, si chiude malissimo. Ripete il concetto, ma lo amplia anche.
Forse avrei fatto meglio ad evitarlo. Almeno, non sarebbe suonato così dannatamente premonitore.

Wenn du deine Träumen erfüllt hast
und Nichts bleibt ungeträumt,
ist der letze Traum trauriger (als alle anderen)

Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti.

*
Dopo la morte di mamma, io e Bill diventammo praticamente una cosa unica. Ogni singola persona del nostro entourage, perfino chi era più abituato a vederci agire in perfetta simbiosi, si stupì e, credo, venne perfino turbato dal nostro comportamento.
Avevamo un album che spopolava più o meno in ogni parte del mondo. Quella dannata canzone si sentiva su ogni stazione radio e pure in una o due pubblicità, se non sbaglio. Il video era ovunque. Avevamo un DVD in uscita. Un best of, dannazione. Coi video e le interviste e tutto.
Nostra madre era morta. E noi non riuscivamo a reggere il peso.
Fondamentalmente, ci alternavamo. C’erano momenti nerissimi in cui io o Bill non riuscivamo proprio a mantenere la lucidità. Erano momenti che tutti aspettavano con timore: sapevano sarebbero arrivati, li giustificavano perfino, ma ne erano spaventati a morte, perché spesso e volentieri coincidevano in scoppi d’ira o di pianto piuttosto violenti, ecco. Quindi, per dire, io cominciavo a lamentarmi e spaccare vetri chiuso in camera mia, e Bill manteneva la calma. Interagiva coi giornalisti, si occupava della promozione, ed a guardarlo non avresti notato, neanche cercando in fondo ai suoi occhi, nemmeno la più piccola traccia di disagio.
Poi Bill crollava inesorabilmente, e allora ero io a prendere in mano le redini della situazione, mentre lui si sfogava a modo proprio.
Reggevamo uno per volta i ritmi che già faticavamo a reggere insieme.
Cose simili non sono mai salutari.
Quindi sì, diventammo una cosa sola. Diventammo perfino troppo uniti. Troppo davvero.
Non ci separavamo quasi mai, se non, appunto, per lavoro. Cominciammo a dividere la stanza. Dormivamo, mangiavamo, ci lavavamo ed andavamo perfino al cesso insieme. Come dannati gemelli siamesi, neanche fossimo stati attaccati per i fianchi.
Io, sinceramente, non so chi pretese il primo bacio. Non so neanche perché, in effetti, cominciammo a baciarci. Sì, suppongo potesse avere a che fare con lo stare male, con l’aver bisogno di tornare vicinissimi come quando Simone ci proteggeva dall’universo intero stringendoci nell’abbraccio caldissimo del suo ventre, però insomma, anche a guardarla da questo punto di vista, non mi sembra una ragione sufficiente per rovinarsi la vita.
Eppure è bastata. Non è spaventoso?
Inizialmente, erano baci innocenti a fior di labbra. Semplici rassicurazioni. O consolazioni.
Poi hanno cominciato a farsi più lunghi. Sempre asciuttissimi, ma potevano durare anche delle ore. Ore intere, sì, potevamo stare ore intere nascosti in un cantuccio buio, solo a sfiorarci le labbra. Senza dire una parola.
Davvero: non ricordo chi fu il primo a pretendere di più. So che fu una pretesa, perché ne ho un ricordo estremamente impetuoso – io, Bill, il muro e nient’altro – ma, in fondo, chi sia stato il primo non importa: era comunque solo questione di tempo; non l’avesse fatto lui, l’avrei fatto io, e viceversa.
Fu un errore. Fu l’ostinazione infantile di credere che se fingi di non vedere qualcosa di brutto quella cosa scomparirà davvero.
Una volta Bill me lo disse chiaramente. Mi disse che gli piaceva baciarmi con la luce spenta, perché così poteva sentirmi ma non doveva necessariamente vedermi.
Mi fece male in maniera indescrivibile. Accesi la luce, lo guardai dritto negli occhi e risposi che a me, invece, piaceva baciarlo con la luce accesa, perché io volevo vederlo.
Parlavo e piangevo. Non perché ci credessi davvero. Non volevo davvero vederlo. Ma avevo la netta sensazione stessimo sbagliando proprio tutto, ogni singola tappa di quello che avrebbe dovuto essere un percorso di ripresa ed invece si stava dimostrando una lunga discesa verso la fossa dei leoni.
E, nonostante tutto, mi sembrava che Bill non mi capisse. Mi sembrava di essere solo col mio dolore. Con la mia nostalgia. Con questi desideri assurdi che provavo, che mi tenevano al caldo e mi avvolgevano di tenerezza, ma mi disturbavano così profondamente che non riuscivo neanche a pensarci senza sentirmi male.
Sapevo che Bill stava provando le stesse cose, non dico di no. Dico solo che era troppo preso da quelle per occuparsi anche delle mie.
D’altronde, per me era lo stesso.
Ci consolammo a vicenda per quanto potemmo, fino a quando le carezze e i baci bastarono.
Poi, però, si fecero insufficienti.
Eravamo di fronte ad un bivio: facciamo il passo avanti definitivo e ci distruggiamo irrimediabilmente la vita o proviamo a ricominciare da zero e vedere se cambia qualcosa?
Io non ho deciso. Non volevo farlo. Non avrei saputo come fare.
Io non ho deciso niente.
Bill ha certamente dimostrato molta più lungimiranza di me.
*
Georg e Gustav lo sapevano. Né io né Tom abbiamo mai detto loro nulla, ed in effetti neanche loro hanno mai confermato niente del genere, ma lo sapevano.
Noi lo capimmo quando cominciarono a coprirci. Anche fisicamente. Ricordo un momento preciso che ce ne diede la certezza matematica. Io e Tom, be’, non è che ci stessimo proprio con la testa, in quel periodo. Perfino nei momenti migliori, ragionare lucidamente sembrava un’impresa impossibile. David, in quel frangente, fu efficientissimo: continuava a propinarci vacanze ogni settimana, era sempre riluttante quando si trattava di farci tornare al lavoro e, quando la cosa si rivelava indispensabile, programmava le giornate fin nei più piccoli e insignificanti dettagli, per assicurarsi che non saremmo mai rimasti privi di un supporto che ci aiutasse a sostenere il ritmo. Finché c’era da eseguire ordini, non avevamo che da seguire la tabella di marcia. Era semplice. Scorrevamo l’elenco, segnavamo gli orari, provavamo le risposte e andavamo.
C’erano comunque ancora delle attività in cui potevamo ritrovarci piuttosto liberi di agire in preda all’ispirazione del momento.
E, quando non stai bene, non è mai una cosa buona.
Quel giorno avevamo sostenuto una delle solite interviste preconfezionate con Bravo, ed era andata discretamente. Monotona e tranquilla e rassicurante, come al solito.
Poi, però, ci dissero che c’era da fare un piccolo servizio fotografico per accompagnare l’articolo.
David montò su tutte le furie. Gli avevano promesso che avrebbero usato qualcuna delle foto mai utilizzate che avevano ancora in archivio. Gli risposero che la direzione aveva preteso qualcosa di nuovo, e Sascha annuì con aria professionale, dicendo che comunque si stupiva della sua riluttanza: far vedere alle fan che i gemelli ormai stavano bene era una mossa auspicabile. La mossa giusta.
Lo era davvero, a livello di marketing.
A livello umano, però, era una colossale menzogna, perché noi non stavamo bene affatto. David lo sapeva: per questo quel servizio fotografico lo irritava, sapeva che era quello – il nostro disagio – che sarebbe venuto fuori quasi trasudando fisicamente dalle pagine patinate della rivista. Niente di particolarmente rassicurante.
Ciononostante, fummo costretti a chinare il capo e fingere una propensione alla professionalità che, in quel momento, non sentivamo affatto.
Il titolo di quell’articolo fu qualcosa di estremamente lungo, adolescenziale, melenso e sciocco. Qualcosa del tipo “Alla fine dei sogni, i Tokio Hotel si preparano a ricominciare a sognare davvero”. Insomma: la classica reprise dei versi di una canzone che tutti quanti avremmo preferito relegare nel dimenticatoio e che invece sembrava destinata a perseguitarci ancora a lungo.
Ciononostante, c’era qualcosa di vero.
Io e Tomi, il nostro nuovo sogno, lo stavamo vivendo davvero.
Quella settimana ero io, quello lucido. Tom non stava affatto bene. Doveva aver mangiato – solo perché costretto – forse appena un panino negli ultimi tre giorni. Era debole. Affaticato. Stanco. Crollava di sonno perché la notte non riusciva a riposare correttamente, e veniva dritto dritto da un attacco isterico che l’aveva colto quella stessa mattina e che si era manifestato nel cominciare a chiedere insistentemente di tornare a Loitsche perché aveva qualcosa da dire a Simone. Continuava a ripetere “Lo so che è morta, non sono impazzito, è alla sua tomba che voglio parlare!”, mentre io provavo a calmarlo accarezzandogli le spalle e David cercava ovunque un tranquillante.
Non era una buona giornata. Decisamente.
All’improvviso, mentre posavamo per il fotografo, mollemente adagiati su un pavimento bianco e immacolato, sentii la mano di Tom posarsi sulla mia e stringersi convulsamente attorno alle dita.
Non potei scansarla. Non potevo farlo a Tom. Sarebbe stato buono e giusto, ma non potei.
Ricordo che pensai “oddio, no”. Nessuno avrebbe dovuto vedere una cosa simile. E invece ecco che si preparava ad andare in stampa. Impressa su pellicola per l’eternità.
Sudai freddo e girai intorno a me uno sguardo disperato, solo per notare che Georg e Gustav, che originariamente stavano seduti rispettivamente alla mia destra ed alla sinistra di Tom, s’erano spostati fino a sedersi davanti a noi, schiena contro schiena, in modo da coprire perfettamente l’intreccio delle nostre dita.
Il fotografo, alla fine, scelse quella foto lì ed un paio di mezzibusti per ciascuno da piazzare in trasparenza come sfondi alle colonnine dell’articolo. In sostanza, ne venne fuori un servizio fotografico molto meno disastroso di quello che avevamo pensato inizialmente. Soprattutto, però, niente di troppo pericoloso era uscito dalla nostra intimità. Eravamo salvi, e non solo: eravamo stati salvati. I nostri salvatori erano stati Georg e Gustav.
Quell’episodio valse a farci capire quanto profondamente ci conoscessero e con quanta attenzione e quanta cura ci avessero tenuto d’occhio fino a quel momento. Allo stesso tempo, però, ci fece comunque capire anche quanto grave e pericolosa fosse la situazione in cui c’eravamo andati a cacciare.
Era un incesto.
Tutto ciò che stavamo provando si risolveva in una parola secchissima e dal suono orrendo – per non parlare delle sue implicazioni.
Suonava perfino sbagliato da definire in quel modo, perché non c’era proprio nulla di orrendo, tra me e Tomi. Solo tanta dolcezza, forse troppa, e tanto dolore, sicuramente troppo – ma era la realtà dei fatti. Le definizioni sono comunque sempre troppo concise, troppo dirette e troppo dolorose. Troppo esatte, in fondo. È per questo che fanno tanto male.
In quel periodo ero io, quello lucido. I nostri periodi non avevano mai una durata fissa. Non erano ciclici, non erano regolari, non erano ordinati e non erano affidabili.
Non potevo aspettare che Tomi rinsavisse, perché a quel punto sarei andato in black out io, e…
…se avessi aspettato, saremmo ancora impantanati in quella situazione. Non potevo proprio ritrarmi, dovevo prendere una decisione. Dovevo fare qualcosa.
The Last Dream aveva appena concluso di scalare faticosamente la classifica dei singoli più venduti in Canada, giungendo ad un primo posto che risuonò come una sinfonia alle orecchie di David, quando annunciai che avrei lasciato i Tokio Hotel e la musica.
L’ultimo sogno era finito.
*
Non posso colpevolizzare Bill. Non posso farlo, perché lui mi parlò a lungo, prima di mollare. Cercò di farmi capire, di prepararmi all’impatto, di motivarmi. “Non posso restare qui, Tomi”, diceva dolcemente, abbracciandomi, “Non posso continuare a girarti intorno. Altrimenti, come farai a dimenticarmi?”.
La verità è che non avrei potuto comunque, ed infatti non l’ho fatto. Continuavo a lamentarmi e piangere, ma non prendevo atto di nulla. Ascoltavo le parole di Bill, mi ferivano in profondità, ma non le immagazzinavo. Preferivo concentrarmi sulla sua stretta, sul battito del suo cuore, sulla gentile carezza del suo respiro sul mio collo.
Purtroppo, dal momento che proprio non riuscivo a ragionare correttamente, ricordo poco dei nostri ultimi giorni insieme. Tutti i pochi ricordi che posseggo sono molto dolci ed anche molto tristi, intrisi di una nostalgia potentissima che ha cominciato a farsi strada nel mio cuore già prima che Bill partisse. Non ricordo niente di come la presero gli altri, di come reagirono. So che ci sono stati dei litigi furiosi, dei tentativi di cambiare ciò che era già stato stabilito, so che fu in quei giorni che il rapporto fra David e Bill si incrinò e poi si spezzò irrimediabilmente nel momento in cui il nostro manager fu costretto a sciogliere il contratto ed accompagnare per l’ultima volta all’aeroporto il figlio che non aveva mai avuto ma che, dannazione, aveva voluto con tutte le proprie forze, e che alla fine gli era sembrato perfino di essersi guadagnato.
Rinsavii nel momento stesso in cui Bill si allontanò da me.
Non riuscii a dire o fare niente. Ricordai tutti i discorsi che mi aveva fatto, con una lucidità ed una chiarezza perfino dolorose, e mi resi conto di non poter fermare l’ingranaggio che era stato messo in movimento.
Non ci saremmo mai più rivisti.
*
Cerco di tenere lo sguardo basso. So che Tom è da qualche parte qua vicino, riesco a sentirlo con estrema precisione, ma non so se sono già pronto a fissarlo negli occhi e chiedergli scusa. So che è questo che dovrei fare, ma è sempre stato lui la mia forza, e da quando lui non è più con me sono diventato irrimediabilmente debole. Non sono sicuro che ritrovarmelo davanti possa ridarmi il coraggio che ho perso. Vorrei fosse così semplice, ma non lo è mai.
- Vorrei farti conoscere una persona… - mormora Gustav, richiamando la mia attenzione su di sé.
Sollevo lo sguardo, forzando un sorriso condiscendente, e mi ritrovo davanti una bambina stupenda.
- Oddio… - mormoro emozionato, - Tu devi essere Franziska…
Non ho ancora avuto modo di conoscerla di persona. Ovviamente, l’ho vista in foto, ma Gustav non l’ha mai portata in viaggio, e d’altronde è così piccina che la cosa proprio non mi stupisce. Ieri, tra l’altro, quando loro sono tornati a casa, io già dormivo come un ghiro – anche perché, in realtà, non avevo alcuna voglia di lasciare che Gustav cambiasse davvero le lenzuola di quel letto. E stamattina mi sono svegliato così tardi che…
…be’. Che sono tremendo l’ho già detto.
- Ma sei uno splendore! – sorrido, protendendo le braccia verso di lei. Franziska si ritrae, stringendosi al petto di suo padre, e mi guarda un po’ incuriosita.
- Papà… perché Tomi non mi riconosce? – bisbiglia incerta.
Ci metto un po’ a capire cosa vuole dire. Rimango a fissarla attonito, mentre Gustav la libera dalla stretta, consentendole di scivolare lungo il suo corpo e scappare via in cerca di qualcosa di meglio da fare. Poi mi sorride tristemente, come volesse scusarsi.
- Perdonala. – mormora imbarazzato, - Tu e Tom vi somigliate così tanto che deve essersi confusa.
Io cerco di abbozzare un sorriso, ma mi riscopro molto più turbato di quanto non vorrei.
- Lo conosce bene, lui? – chiedo a mezza voce, abbassando nuovamente lo sguardo.
Gustav annuisce.
- Tom è stato piuttosto presente, devo dire… - poi si blocca un secondo, e si affretta a correggersi, - D’altronde, era normale: vivendo qui vicino…
Sorrido per rassicurarlo e mi sforzo pure di guardarlo negli occhi.
- Non mi sono mai scusato per non essere venuto… al tuo matrimonio, intendo. – mormoro incerto.
Gustav sorride bonario.
- In realtà l’hai fatto circa un milione di volte.
- Be’… non credendoci davvero. – sorrido mesto, stringendomi nelle spalle. – Le altre volte, anche quando mi scusavo, pensavo comunque di aver fatto la cosa giusta, l’unica possibile. E quindi mi dispiaceva, ma non ero pentito.
- …ed ora lo sei?
Sorrido ancora.
Non voglio veramente rispondere a questa domanda.
E infatti non lo faccio.
*
Franny mi sta guardando come fossi un alieno già da una buona mezz’ora. Inarco un sopracciglio e la guardo allo stesso modo anch’io. Lei mi fissa di rimando, sconvolta, e poi suggella la propria disapprovazione con una linguaccia inviperita. A questo punto, non posso proprio fare altro che ridere di cuore ed avvicinarmi per scompigliarle i capelli, tra le sue proteste. Come mi permetto di scombinarli?! Mamma glieli ha acconciati fino a poco prima di arrivare in chiesa!
- Be’? – chiedo curioso, - Che avevi da guardarmi a quel modo?
Lei aggrotta comicamente le sottili sopracciglia bionde, scrutandomi con sospetto.
- Perché prima hai fatto finta di non conoscermi?! – mi rimprovera, offesa.
Oh.
Mi chino su di lei, cercando di sorridere rassicurante.
- Franny, quello di prima non ero io.
- Sì che eri tu! – protesta lei, - Ti ho visto!
- No. – sorrido ancora io, - Non hai visto me, hai visto il mio gemello, Bill. Lui è uguale a me, sai?
- Non mi fare questo scherzo! L’ha fatto pure Theo alla maestra, l’altra volta, ma lei l’ha scoperto e l’ha messo in castigo! Non ti parlo più, sai?!
- Dovresti credere a Tomi. – dice la mia voce da qualche parte alla mia sinistra. Solo che non è la mia voce. Io ci metto un po’, a capirlo, però decisamente non è la mia voce. – Lui è sempre molto sincero.
Franny solleva lo sguardo prima di me. Spalanca gli occhioni azzurrissimi che ha preso dalla mamma e modula le piccole labbra sottili di papà in una “o” di puro stupore, irrigidendosi tutta.
- Siete proprio due! – esulta, mentre sul suo volto si apre un delizioso sorriso sorpreso e divertito, - Siete ugualissimi!
Io mi rimetto dritto ma non mi volto. Mi sembra che lo smoking che indosso mi trattenga fermo, come fossi marmorizzato.
Sarebbe molto più facile, se fossi una statua.
Franziska evita il mio corpo e trotterella felice alle mie spalle, cominciando subito le presentazioni.
- Scusa per prima, credevo che eri Tomi che mi voleva fare uno scherzo! – trilla gioiosa, - Io sono Franziska e tu sei Bill! Vuoi giocare con me?
Bill ride di cuore, eppure a bassa voce, discreto, come avesse paura di farsi sentire da qualcuno, o come avesse paura che la sua risata potesse risultare offensiva per gli altri.
- Magari dopo. – risponde pacato, - Tuo papà ti sta cercando. È vicino al vaso di fiori gialli che c’è all’entrata. Lo raggiungi?
Franziska non risponde. Immagino abbia annuito e si sia messa a correre verso papà per raccontargli la nuova meravigliosa scoperta che ha effettuato, perché sento il tacco basso delle sue scarpette martellare il pavimento marmoreo della navata laterale all’ombra della quale mi sono nascosto, e poco dopo non sento più nulla.
Se non la presenza di Bill da qualche parte accanto a me.
Riempie già abbastanza i miei sensi. Non voglio sentire nient’altro.
- Tomi. Mi guarderai, prima o poi?
Sì. Certo che ti guardo, Bill. Certo che ti guardo.
Mi volto lentamente. Non so di cosa ho paura, ma so per certo che è proprio paura, quella che sto provando. Paura in piena regola. Con i tremori e i sudori freddi. Mi sembra di avere la febbre, e invece no, è solo paura.
- Bill…
Il suo nome è dolcissimo. È la cosa più dolce che esista. Mi riempie la bocca ogni volta che lo pronuncio, ma in questi dieci anni ogni volta era anche uno spillo nel petto. Adesso no. Adesso suona solo come un bel sorso d’acqua fresca.
Bill sorride. Sta fermo solo per un attimo. E poi mi corre addosso, impattando contro il mio corpo e stringendomi fra le braccia con urgenza, mentre io cerco un varco per stringerlo a mia volta e, non trovandolo, mi lascio semplicemente andare contro il suo collo, inspirando il suo profumo, saggiando il tepore della sua pelle con le labbra, sfiorandogli una guancia con le ciglia.
- Amore mio…
E non so chi l’abbia detto. Non percepisco il mio corpo muoversi. Non riconosco le differenze fra le nostre voci. Forse perché semplicemente non ce ne sono più. Magari la distanza ha cancellato anche quelle.
- Dio… - stavolta so chi sta parlando. È lui. Lo so perché s’è allontanato da me e posso vedere le sue labbra modulare le parole. Avrei preferito rimanesse più vicino, ma mi sta bene anche così, alla fine. – Ora capisco perché Franziska mi ha scambiato per te…
- Sì, è sorprendente! – rispondo io, con entusiasmo perfino eccessivo, - Siamo identici! Non so più da… sono decenni che non siamo più così uguali!
Bill scuote lentamente il capo.
- No. – risponde pacato, - È che sorridiamo allo stesso modo. – la sua tranquillità s’incrina, mentre si stringe nelle spalle ed inarca le sopracciglia, guardandomi tristemente. – Sei stato molto male?
Io cerco di mantenere il sorriso. Non voglio incolparlo di niente, davvero. So che ha già provveduto da solo. Lo so, perché lo conosco. Nonostante tutto il tempo passato, io lo conosco ancora benissimo.
- Non pensiamoci. – dico, scuotendo il capo, - Cielo, sei biondo! Non posso veramente stare a riflettere sulla sofferenza, sei biondo!
- Anche tu! – ride lui, coprendosi le labbra con una mano, - Non fare sensazionalismi!
- Per me essere biondo è la norma! – ribatto competente, socchiudendo gli occhi.
Lui inclina lievemente il capo.
- Anche per me. – ammette in un sospiro, - Ormai da cinque o sei anni, credo. Ho tagliato i capelli, li ho lasciati ricrescere del loro colore… sono diventato un perfetto signor Nessuno. – sorride ancora, intrecciando le braccia dietro la schiena. – Non sei fiero di me?
Io inarco le sopracciglia, ghignando sardonico.
- Quello sempre. – ma il mio sorriso si smorza inevitabilmente. – Hai visto? – chiedo poi, deglutendo agitato. – Non ti ho cercato. Sono stato bravo.
Lui annuisce lentamente.
- Non ne ho mai dubitato. – poi si lascia andare ad un sorrisino brevissimo, triste in maniera quasi dolorosa, e si avvicina nuovamente, - Com’è Karen? – si informa, - È giusta per Georg?
Ridacchio divertito.
- Perfetta.
- E Marlene per Gustav?
- Anche lei.
Ride compiaciuto, rilassando le spalle tese.
- Ognuno ha il suo, vedo. – commenta ironico, - E noi due?
Mi stai provocando o stai solo cercando di dirmi qualcosa?
- Noi ce l’abbiamo da sempre.
Il suo sorriso si fa dolcissimo, ed ancora più triste. In questo preciso momento, non so se vorrei cancellarlo o lasciarglielo addosso per sempre. È stupendo e fa male. È la perfetta sostanza di Bill. Bill è fatto di questi sorrisi qui. Da sempre.
- Io sto in una casa che odio. – dice a bassa voce, - La vista è splendida, ma è enorme. È vuota. La odio e basta.
Fingo di riflettere.
- Be’, il mio appartamento a Loitsche è già piccolo per me e Gordon, però la città è molto diversa da com’era prima. È più grande. Magari un appartamento nuovo si trova.
Il suo sorriso si apre ancora un po’. Si fa più luminoso. Decisamente più sostenibile. E infatti sorrido anche io.
- Non pensi che sarebbe uno sbaglio enorme?
Mi mordo un labbro e scuoto il capo.
No, non lo penso. Mai, mai, mai.
Bill inspira e trattiene l’aria nel petto, come volesse provare a farsi coraggio.
- Tomi… davvero pensi che noi potremmo-
- Non ha importanza quello che penso. – lo interrompo, fissandolo dritto negli occhi, - È ciò che voglio. Tu lo vuoi?
Georg appare al mio fianco, le sopracciglia aggrottate ed un broncio estremamente infantile sul volto.
- Posso anche essere contento di questo riavvicinamento, - commenta, incrociando le braccia sul petto, - ma non posso dire “sì” senza il mio testimone di nozze! Tom, ci diamo una mossa o no?
Io e Bill scoppiamo a ridere nello stesso momento, e Georg ci guarda come fossimo improvvisamente diventati viola, inclinando lievemente il capo.
- Non si dice “sì”, Georg. – lo corregge Bill, avvicinandosi a lui per stringerlo in un abbraccio che è al contempo un “congratulazioni”, uno “scusa” e un “ti voglio bene”. Poi si volta a guardarmi. – Si dice “lo voglio”.
Sorrido.
Possiamo farcela.
Forse non è vero che ad un certo punto i sogni si esauriscono. Forse continuano a nascere sempre. Forse proprio non scompaiono mai.
- Be’, andiamo. – sospiro infine, tirando Georg per il colletto dello smoking e strappandolo letteralmente dalle braccia di Bill, - Con tutta la fatica che hai fatto prima di trovare quella giusta, ci manca solo che ti fai abbandonare all’altare perché sei arrivato in ritardo!
Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Language.
- Durante un incidente d'auto, Tom Kaulitz muore. Ed a Bill, di lui, non resta niente, tranne l'ultima litigata che hanno fatto prima che lui uscisse. Non resta niente... o forse no?
Note: Questa storia è in realtà frutto di una cospirazione è_é L’ultimo concorso di Criticoni si è svolto assegnando dei temi a cui ispirarsi per scrivere tramite sorteggio. Chiaramente, a me è toccato prendere ispirazione da Love Is Dead (che sarebbe la versione anglofona della – a mio parere molto migliore – Totgeliebt che dà il titolo alla fanfiction). Assieme a Love Is Dead avevo da ispirarmi a tutta un’altra serie di cose. Happy Ending di Mika (che si adattava al punto che l’ho pure citata in calce alla storia, toh!), un’immagine con un fuoco, un’altra rappresentante il DNA… e poi una serie di cose che non sono proprio riuscita ad inserire, come una citazione di Woody Allen, un’altra di Nietzsche ed Unwritten di Natasha Bedingfield. Comunque ho fatto del mio meglio >.<
Scrivere una deathfic è stato per me motivo di grande sconvolgimento umano ç_ç Spero solo non faccia troppo schifo. È la prima e sicuramente l’ultima che scriverò sui gemelli. Una basta e avanza. Poi ne ho in mente una mollamy, ma è meno deprimente, prometto è.é” Anche se Nai non condivide questo parere. Comunque, spero che abbiate gradito la lettura ^^
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
TOTGELIEBT

This is the way you left me
I’m not pretending
No hope, no love, no glory
No happy handing
This is the way that we love
Like it’s forever
Then live the rest of our lives
But not together

Noi due, Tomi, ci siamo amati a morte, anche se a morire sei stato solo tu. E non è stata colpa mia.
Ci siamo amati a morte, ma tu non sei morto d’amore. Il che vuol dire che non è stata nemmeno colpa tua.
Eppure, io qualcuno dovrò incolparlo. Quando muore una così importante parte di te, hai proprio bisogno di scaricare un po’ di risentimento gratuito su qualcuno. Anche una persona a caso. Basta trovare uno straccio di motivo. Pure fittizio, pretestuoso… purché conservi quel minimo di consistenza che lo renda giustificato.
Ma in Dio non credo. Non posso prendermela con lui.
E tu eri solo, in macchina. Solo e spaventosamente ubriaco.
E non posso prendermela con l’alcool, perché poi senza di lui comincerei a sentirmi perso. Mi hai detto spesso che rasentavo l’alcolismo patologico. Be’, è vero. Ed ho come l’impressione che, da qui in poi, potrò solo peggiorare. Però è curioso che a morire ubriaco sia stato tu, mentre di fronte a me si prospetta probabilmente una lunga, lunghissima ed intollerabile vita.
Monca. Ma vita.
Io non ti ho nemmeno visto morire, Tomi. Io non c’ero. Io ero in camera, al calduccio, in albergo, protetto da tutto. Pure incazzato con te, perché merda, mi avevi lasciato solo. Col mio stupido mal di gola e le mie stupide lamentele e le mie stupide frustrazioni e le mie stupide paranoie. Quella notte, ho cercato nello specchio la tua immagine, non la mia, e non sono riuscito a visualizzarla. Il perché l’ho scoperto solo la mattina successiva, quando David mi ha detto cos’era successo.
David l’ha visto. Lui sì. Oh, no, non il momento in cui sei andato via… però quello immediatamente successivo. Mi ha raccontato com’era
il posto, quando è arrivato. Mi ha detto del fuoco.
Sai che mi sono messo ad urlare? Perché ho pensato che dovesse essere stata una morte orribile. Perché tu, con l’alcool, perdevi la testa abbastanza da incasinarti l’esistenza, ma non da anestetizzarti del tutto rispetto agli stimoli sensoriali che la vita ti imponeva. Perché tu, la vita, volevi proprio viverla. Senza pensieri. Era a questo che ti serviva sfondarti di superalcolici.
Perciò ho pensato che l’alcool dovesse essere stato sufficiente da costringerti a sbandare, ma non altrettanto da lasciarti morire senza soffrire. Ed ho pensato alle tue urla di dolore, all’abitacolo in fiamme, alle lamiere incandescenti e contorte che ti si chiudevano addosso come una gabbia, e mi è sembrato di sentire sulla pelle la stessa sofferenza che avevi provato tu.
Ed era
atroce. Per questo ho urlato.
Ho pianto, invece, perché ti amavo. E mi saresti mancato. Non nel senso comune col quale si intende l’assenza delle persone. Non quella degli arrivederci. Neanche quella degli addii.
Quella delle amputazioni, quella sì.
Delle privazioni ingiuste e dolorose.
Dei vuoti dove prima c’erano pieni e dei pieni che tali non sarebbero stati mai più.
Io ti amavo, Tomi, ma, anche in questo caso, non nel senso comune col quale si intende l’amore. La gente, quando ama, desidera e bacia e tocca. L’amore si
fa, non si pensa e basta. Però, io non desideravo te e tu non desideravi me. Niente baci. Niente sesso. Neanche una fisicità tanto imponente o onnipresente. Una carezza ogni tanto. Un abbraccio per festeggiare. Un saluto prima di un’uscita. Una stretta di mano prima di un’esibizione. E niente di più.
Noi non abbiamo mai fatto l’amore. Non l’abbiamo neanche mai voluto. Ma ci amavamo lo stesso.
D’altronde, in genere, non si ama mai davvero a morte. Ci si ferma sempre un attimo prima. Sul ciglio.
Io, però, non intendo farlo. Perché ti amo tutto. Perché ti amo sempre. Anche adesso, ti amo troppo. Siamo un unico pezzo. Lo stesso sangue. Lo stesso DNA. Più metaforicamente, la stessa pelle, le stesse ossa, gli stessi muscoli. La stessa anima. Se solo ci credessi. E vorrei davvero.
Noi ci siamo amati a morte. Non siamo morti d’amore.
È stato l’amore a morire per noi.

*
La mattina del primo giorno senza Tom fu apatica.
Bill rimase a letto. D’altronde, il materasso era incredibilmente accogliente. Aveva preso la sua forma ed anche il suo calore. Gli si era adattato addosso come uno splendido vestito. E le lenzuola avevano fatto lo stesso, come ricchi drappeggi. Strinse le dita attorno al tessuto per saggiarne la consistenza. Era morbido e liscio. Emanava un profumo dolcissimo. Purissimo. Di pulito intonso.
Doveva essere lo stesso profumo del lenzuolo che avevano messo addosso a Tom, quando l’avevano tirato fuori dalla carcassa dell’auto. Doveva esserlo, prima di impregnarsi delle tracce insopportabili della sua pelle carbonizzata e del suo sangue rappreso.
Lui quell’odore non l’aveva sentito. Non sarebbe mai riuscito a farsene una ragione: dopo tante promesse, non erano davvero morti insieme. Non c’era stato nessun coreografico salto. Nessun ultimo abbraccio. Solo una litigata afona ed uno schianto furioso.
David entrò in camera dopo aver bussato per almeno dieci minuti. Già al secondo, Bill avrebbe voluto urlargli di lasciarlo in pace, ma dalla gola non usciva proprio niente. Gli sforzi ai quali l’aveva sottoposta durante la notte – fra strilli, grida, lamenti e pianti – dovevano averla messa definitivamente fuori gioco.
Poco male. Non aveva più intenzione di cantare, in ogni caso.
- Come stai? – chiese il manager, con aria preoccupata, chinandosi su di lui per misurargli la febbre con una mano sulla fronte. Bill non rispose. – Qui ci vuole un termometro… - aggiunse l’uomo, prima di allontanarsi verso il comò, aprirne un cassetto e tirarne fuori una scatolina in plastica trasparente. – Ecco. – disse, sollevandogli di peso un braccio per infilare il termometro sotto l’ascella, - Vediamo.
Incandescente. Quella macchina doveva essere stata incandescente.
David estrasse il termometro e constatò la temperatura, commentandola con una smorfia preoccupata ed una decisa scossa del capo.
- Ora ti porto qualcosa. – notificò, allontanandosi verso la porta. Si fermò sul ciglio, senza neanche voltarsi a guardarlo. – Senti, Bill, tu non devi fare niente, ok? Tua madre e Gordon sono già in treno, saranno qui nel pomeriggio. Tuo padre invece era in viaggio, quindi non arriverà prima di sera. Si occuperanno di tutto loro. Appena Simone arriva, te la mando qui…
Bill scosse decisamente il capo, affondando il volto nel cuscino.
- …non vuoi vedere tua madre, Bill?
Lui ebbe un momento d’esitazione. Strinse ancora le dita attorno al lenzuolo e si morse un labbro.
Poi scosse nuovamente il capo, più fermamente.
- …d’accordo. – sospirò David, aprendo la porta, - Adesso torno con la medicina. Cerca di non addormentarti.
Certo. Come fosse una possibilità contemplabile.
*
Il secondo giorno senza Tom, fu quello in cui Tom tornò.
Stava lì, seduto sulla propria bara, e guardava il legno come potesse scrutare attraverso la superficie e fissare il proprio cadavere al di sotto.
Simone era stata efficientissima: aveva preteso di essere lei a prendere contatti con l’agenzia funebre, nonché di organizzare il funerale. E questo nonostante David fosse stato più che sollecito nell’insistere sulla possibilità di lasciar fare tutto a lui.
Era un comportamento assolutamente prevedibile, da parte di sua madre. Bill la conosceva alla perfezione. Stare seduta in un angolo a rimuginare nel proprio dolore, semplicemente non sarebbe stato da lei. Avrebbe cominciato a sentirsi inutile, a pensare e ripensare a quanto fosse stato lontano il suo bambino da lei, nel momento in cui moriva, e probabilmente non sarebbe più riuscita ad uscirne. Mettendosi in movimento esorcizzava il senso di colpa e quello di inadeguatezza. Si sentiva dinamica, sentiva di stare facendo qualcosa di buono per il suo piccolo.
Gordon, distrutto – Tom era sempre stato il suo preferito, in fondo – doveva essere rimasto a guardarla con aria attonita per tutto il tempo, ci avrebbe scommesso.
E quanto a suo padre… be’, suonava un po’ triste – un po’ tanto – da ammettere, ma non lo conosceva abbastanza per avanzare ipotesi sulle sue reazioni.
Lui, comunque, non aveva voluto vedere nessuno. Sua madre doveva esserselo aspettato, tant’è che, dopo un vago tentativo di farsi aprire la porta della camera, aveva lasciato perdere per concentrarsi su attività più utili.
Non era stata organizzata nessuna veglia funebre. Andreas, d’altronde, sarebbe arrivato solo l’indomani. Ed, oltre a lui, non c’era nessun altro che avesse il diritto d’essere ammesso a qualcosa di simile.
Restare tutti in piedi attorno ad una bara chiusa, in conclusione, non era sembrato a nessuno particolarmente indicato.
Bill, però, non aveva resistito. Perciò, durante la notte, mentre tutti dormivano – o almeno provavano a farlo – s’era alzato, era uscito dalla propria camera ed era andato in salotto.
E Tom era lì.
Se Bill avesse avuto ancora anche un solo fiato di voce, l’avrebbe esaurito in quel momento. Perché si sarebbe messo a strillare fino a sputare i polmoni. Fortunatamente, la sua voce era già scomparsa due giorni prima, perciò all’interno dell’appartamento silenzioso non si mosse niente. Neanche una molecola d’aria.
Bill rimase immobile sulla porta, a fissare la figura evanescente appollaiata sulla bara. Tom sembrava intento a rimirare le venature del legno, come fossero la cosa più affascinante del mondo.
E invece la cosa più affascinante del mondo era lui.
Era traslucido. Luminoso. Bianchissimo. Sembrava morbido e caldo come un abbraccio, anche da quella distanza. Ed era anche bellissimo. Come sempre.
- Tomi… - lo chiamò, ma la sua non era una voce, era un rantolo disperato. Cacofonico e intollerabile.
Non voglio più dire neanche una parola.
Il fantasma si voltò a guardarlo, lievemente stupito. I suoi occhi erano grandi e candidi, del tutto diversi da quelli che erano stati gli occhi di Tom, eppure, in qualche modo, incredibilmente simili.
- Mi vedi…? – chiese incerto. Poi scattò in piedi, saltando giù dalla bara e facendosi strada a grandi passi verso di lui, come animato da una fretta sovrannaturale, - Tu mi vedi? Bill, mi vedi sul serio?! – insistette, sollevando le mani a cingergli le spalle.
Bill rabbrividì.
- Ti vedo… - sussurrò pianissimo, sforzandosi sinceramente di infrangere il voto appena formulato, - e ti sento anche… oddio, posso toccarti… - singhiozzò, sollevando a propria volta le mani e posandogliele sul petto.
Tom esalò un sospiro sollevato e sorrise, sporgendosi verso di lui ed abbracciandolo teneramente.
Ed era proprio come Bill l’aveva immaginato. Morbido e caldo.
- Sono in giro da quando è successo… - raccontò quasi trasognato Tom, senza separarsi da lui, - Ho provato a parlare con tutti, ma nessuno mi sentiva… e non avevo idea di dove fossi tu…
- Non volevo… - sussurrò Bill, ma poi scosse il capo, - Lascia perdere. – lo esortò, forzando un sorriso, - …non so che dirti. – aggiunse poi, ridacchiando lievemente.
La risatina di Tom gli fece eco, mentre le sue mani gli risalivano lungo le spalle e si posavano, calde e morbide com’erano, sulle sue guance.
- Neanche io so esattamente cosa dire. – borbottò imbarazzato, - Ma io sono giustificato, sono il morto!
- Affatto! – bofonchiò Bill, aggrottando le sopracciglia, - Dovresti avere un sacco di cose da dire, proprio tu che sei il-… - si interruppe, deglutendo faticosamente.
- …il morto, Billi. – sorrise mestamente Tom, - Il morto. – ripeté ancora.
- Sì. – annuì il moro, sbrigativo, abbassando lo sguardo, - Appunto. Tom, com’è successo? – si ritrovò a chiedere, con un’urgenza inaspettata.
Suo fratello non si mostrò stupito da quella domanda.
- Sono andato a sbattere. – rispose seccamente, - Ho perso il controllo. Non sono neanche stato particolarmente sfigato, voglio dire, non è che ci fosse un albero e, guarda un po’, patapum. – ironizzò, e Bill si lasciò andare ad una risata spezzata, mordicchiandosi un labbro per frenare il singhiozzo dirompente che, partendo dal centro del petto, sembrava intenzionato a devastare ogni singola molecola del suo corpo. – Comunque gli alberi erano tutta una serie. – precisò Tom, scrollando le spalle, - Non potevo proprio evitarli.
- Quella stupida macchina… - mormorò Bill, abbassando ulteriormente gli occhi.
- Non parlare così dell’Escalade! – mugugnò Tom, offeso, - Mi piangeva il cuore al solo pensiero di quel gioiellino agonizzante fra le fiamme!
Bill scosse il capo, simulando una smorfia di disapprovazione.
- Tom… - chiese poi, incapace di frenarsi, - Com’è…
- …morire?
Annuì. Non era curiosità scientifica, affatto. Voleva soltanto sapere come s’era sentito Tom. Cos’aveva provato. Voleva provare a replicarlo nella propria mente, ad immaginare di essere stato lui a provarlo. Voleva solo cercare di stargli vicino, in qualche modo.
- Strano. – rispose il biondo, pensoso, - Sentivo come se mi stessi staccando dal mio stesso corpo. E, per un certo periodo, ho sentito freddissimo, e mi sembrava di essere nudo. Stavo accucciato lontano dall’incendio, vicino ad un cespuglio, e sentivo il vento ghiacciato della sera sulla pelle, l’odore acre della plastica bruciata a pungermi il naso, la terra umida sotto i piedi, le foglie che mi pizzicavano le guance e il collo… - scrollò le spalle, appollaiandosi nuovamente sulla bara con un saltello, - E poi è tornato tutto normale. Mi sentivo di nuovo vestito e tranquillo e ho cominciato a camminare. Ho camminato per un sacco di tempo, ho visto sorgere il sole e tutto il resto. Poi ho pensato a casa e mi sono ritrovato sulla bara.
Bill spalancò gli occhi.
- Hai viaggiato attraverso lo spazio? – chiese, incredulo.
- Eh. – sbottò Tom, - In fondo, sono un fantasma. Probabilmente sono in grado di fare un sacco di cose affatto normali.
- Quindi – cercò di sorridere ancora il moro, - non è cambiato niente, rispetto a prima.
- Ehi! – sbraitò il rasta, afferrandogli il naso con due dita e prendendo a tirarlo debolmente qua e là, - Un po’ di rispetto per il tuo fratello maggiore appena deceduto! – lo rimproverò.
Bill si liberò dalla stretta con uno scatto isterico, stringendosi nelle spalle.
- Potresti, per favore, smettere di parlarne con tanta leggerezza? – chiese, con tono quasi implorante.
Tom sorrise teneramente e si appoggiò alla bara con entrambe le mani.
- A che pro? – chiese retorico.
Bill non rispose. Si limitò ad arrampicarsi silenziosamente sulla bara accanto al fratello, raccogliendo le ginocchia al petto e lasciandosi abbracciare piano da Tom, al suo fianco.
- Tomi? – chiese infine, nascondendo il volto fra le ginocchia, - Perché sei un fantasma?
Tom rise lievemente, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla tempia.
- Pensavi che avrei mai potuto lasciarti così?
*
Il terzo giorno senza Tom cominciò con Tom fra le lenzuola.
Bill si rigirò sul materasso con un sorriso lievissimo a increspare le labbra, dischiuse le palpebre e trovò il fantasma di suo fratello disteso al proprio fianco. Lui lo guardava e sorrideva, ed aveva inarcato le sopracciglia nel classico modo che usava per avvertirlo che stava per cominciare a prenderlo in giro fino allo sfinimento.
- Sai che quando dormi sei proprio-
- Non una parola! – biascicò imbarazzato, dandogli una manata sul naso, - Sei proprio maleducato. Non solo ti infili nel mio letto, ma passi anche la notte a spiarmi!
Tom si girò su un fianco, appoggiando mollemente il capo contro una mano.
- Carino. – concluse, - Volevo dire carino.
Bill arrossì ed abbassò lo sguardo, cercando di sorridere.
- Potrei anche abituarmi ai complimenti, eh. Stai attento.
- Oh, andiamo! – sbuffò Tom, rotolando fra le lenzuola, - Tu sei complimenti-dipendente! Sei praticamente psicotico, in questo senso! Non prendermi per il culo. Guarda che l’aldilà davvero non esiste, non ho nessun San Pietro cui tessere le tue lodi perché ti ammetta fra i cherubini.
- Scusa, ma tu che ne sai che l’aldilà non esiste? – borbottò lui, petulante, - Non ci sei ancora stato!
- Bill, non starai mica decidendo di diventare religioso proprio adesso, eh? – sbottò lui, acido, - Guarda che potrei prenderla come un’offesa personale!
- Non lo so… - mugugnò Bill, pensoso, - In fondo, la tua presenza qui dimostra che l’anima esiste davvero, no? E quindi, magari un Paradiso c’è. Farei meglio a prepararmi per l’eventualità, nel caso avessi ereditato anche parte dei geni che fanno di te un idiota e decidessi di porre fine alla mia vita nel fiore degli anni. Tu che dici?
- Dico in primo luogo che sei un coglione. – sibilò Tom, squadrandolo con manifesto fastidio, - In secondo luogo che non sono un idiota e non ho deciso di porre fine e bla bla. In terzo luogo che sei un coglione.
- L’hai già detto.
- In quarto luogo che sei doppiamente coglione. Ed infine che, a mio parere, se il Paradiso esiste per come lo intendo io, non ho bisogno di alcuna preparazione che non sia una scorta infinita di preservativi. Secondo te gli angeli femmina si possono ingravidare? – s’informò curioso.
- La tua ignoranza è abissale. – sospirò Bill, abbandonando il capo contro il cuscino, - Gli angeli sono asessuati. – s’interruppe e sorrise brevemente, stringendosi nelle spalle, - È per questo che le ragazzine danno dell’angelo a me.
- Cosa che dimostra la loro ignoranza abissale, - ghignò Tom, - perché tu sei tutto meno che angelico.
- Sai, Tom? Sei talmente stronzo che credo che gli angeli non te la darebbero nemmeno se potessero scopare sul serio.
- Piccolo ingrato impertinente! – lo rimproverò il biondo, salendogli a cavalcioni e cominciando sistematicamente a tentare di assassinarlo mediante il solletico. Bill rise e si contorse fra le braccia del proprio fratello, cercando di liberarsi dalla sua stretta. Quando ci riuscì, entrambi si lasciarono cadere spossati sul letto, ridendo ancora come due bambini.
Fu allora che qualcuno bussò alla porta.
- Bill? – chiese una voce preoccupata e familiare.
Tom si drizzò a sedere, fissando l’uscio con aria incerta.
- È Andi… - bisbigliò, mordicchiandosi un labbro. Il piercing sbatteva contro gli incisivi, ma non produceva alcun suono. Bill rabbrividì. – Dovresti farlo entrare… - suggerì quindi, voltandosi a guardarlo tristemente.
Bill scosse il capo, sistemandosi meglio fra le lenzuola.
- Non mi va di vedere nessuno. – si giustificò, nascondendosi dietro al cuscino.
Tom si distese al suo fianco e semplicemente lo guardò, imitando la sua posa intimorita.
- Tomi. – lo richiamò alla fine Bill, sollevando una mano a cingere il tessuto etereo della maglietta bianchissima che il fratello indossava, - Voglio abituarmi davvero. Voglio che tu resti qui per sempre.
Tom si limitò a sorridere.
*
Il quarto giorno senza Tom, Bill si svegliò perché il suo stomaco brontolava.
Tom, sempre disteso al suo fianco, aprì gli occhi nello stesso momento, lo fissò con aria sconvolta e poi scoppiò a ridere.
Bill lo schiaffeggiò senza pietà.
- Bello stronzo sei! – si lamentò, massaggiandosi il palmo della mano, dolorante, - Non so neanche da quant’è che non mangio…
- Un sacco di tempo. – rispose al suo posto Tom, saltando giù dal letto e prendendo a rimirarsi nello specchio. – Dio, guarda che figata, riesco a vederti attraverso il mio corpo!
Bill sorrise lievemente e poi lanciò uno sguardo alla finestra. Oltre le tende sottilissime, le serrande alzate lasciavano intravedere il cielo scurissimo della notte. La sera prima era rimasto a chiacchierare con suo fratello di futilità immani fino ad orari improponibili… era normale che poi avesse usato l’intero giorno successivo per riposarsi.
- Ma tu dormi, Tomi? – chiese soprappensiero, alzandosi a propria volta.
- No. – rispose lui disinvoltamente, - Ma non sono nemmeno stanco. Ti accompagno in cucina?
Bill annuì ed entrambi si diressero verso la porta. Il moro la dischiuse leggermente, sbirciando all’esterno. Il corridoio era buio, e così sembrava anche il resto dell’appartamento.
- Questo mi ricorda quando ero io a sgattaiolare in cucina nottetempo per procurarti schifezze da ingurgitare di nascosto da mamma. – ridacchio Tom, sospingendo delicatamente il fratello fuori dalla stanza.
- Guarda che l’ho fatto anch’io per te. – borbottò Bill, offeso, dirigendosi a grandi passi verso la cucina, - Quando eri ammalato.
- Concorderai che le volte in cui sei stato malato tu superano di gran lunga in numero quelle in cui sono stato ammalato io, spero! – lo riprese suo fratello, allibito, seguendolo.
Bill agitò una mano disinteressata e si fiondò in cucina, attaccando immediatamente il frigorifero, non appena mise piede nella stanza, senza neanche accendere la luce. Si raggomitolò di fronte allo sportello aperto ed utilizzò le proprie ginocchia come ripiano, sul quale preparò un sandwich al salmone. Poi lo divise in due, ficcò la propria metà in bocca, si alzò in piedi e richiuse il frigorifero, voltandosi verso Tom ed offrendogli l’altra metà.
- Buoi? – biascicò, mentre un pezzetto di salmone sfuggiva alle sue labbra e cominciava a pendere da un angolo verso il mento.
Tom fece una smorfia.
- Non so se posso mangiare, e comunque non ho fame. Ma Dio! – esalò sconvolto, - Salmone?! Sono le tre del mattino!
Bill scrollò le spalle e prese possesso di una sedia.
- Ho fame! – motivò tranquillo.
- Ti verrà un blocco intestinale fulminante e ci lascerai le penne.
Bill lo fulminò con un’occhiataccia irritata, inghiottendo l’ultimo boccone.
- Ne parli ancora in maniera fin troppo disinvolta, per i miei gusti. – si lamentò.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – sorrise Tom, sedendosi di fronte a lui, - Tu non riesci neanche a dire che sono morto.
- Non è una colpa. – cercò di difendersi lui, aggrottando le sopracciglia, - Non parlare come se non riuscissi ad accettare… quello che ti è successo. Sono perfettamente consapevole, e lucido, Tom. È solo che non voglio… non me la sento di… - si mordicchiò un labbro, mentre lo sguardo vagava incerto sulle pareti scure della stanza, - …ma io non ho problemi! – argomentò poi, agitato, - Sono triste, ma mi pare anche del tutto normale! A parte questo, io-
- A parte questo, Bill, - sospirò Tom, intrecciando le dita di fronte a sé come faceva spesso da vivo, - io sono ancora qui. E questo non puoi ignorarlo.
Bill deglutì.
- Questo non dipende da me. – rispose gelido.
- Ah, no?
- No. – ribatté. – E mi sono stufato di questa conversazione. Me ne torno in camera, e tu sei esplicitamente invitato a non seguirmi. – concluse. Dopodiché, si alzò da tavola e si diresse frettolosamente verso il corridoio.
- Bill. – lo chiamò piano Tom, prima che riuscisse ad uscire dalla cucina. Lui non poté fare a meno di voltarsi.
- Cosa? – gli chiese, acido.
Tom sorrise e gli porse l’altra metà del sandwich.
- Stai dimenticando questo.
*
Il quinto giorno senza Tom, Bill aprì gli occhi e si rese conto che effettivamente Tom non c’era.
Meccanicamente, strinse le dita attorno al tessuto leggero delle lenzuola e digrignò i denti. Fissò il soffitto con aria persa per molti secondi, prima di saltare letteralmente giù dal materasso e cominciare a vagare come un’anima in pena avanti e indietro lungo la stanza.
Sapeva che Tom era ancora in quella casa. Riusciva quasi a sentirne la voce.
Al di là della porta, in effetti, mille voci s’accavallavano l’una sull’altra. David stava riferendo a Simone le ultime notizie dall’esterno: il funerale andava rimandato ancora. Nel sentire quella parola, Bill non poté fare a meno di chiedersi per quanti giorni quei rinvii dovevano essersi prolungati, perché la risposta di sua madre – una secchissima ed asciutta bestemmia a mezza voce – indicava un nervosismo esasperato che proprio non le apparteneva, e doveva essere stato motivato da qualcosa di incredibilmente grave. David continuò a parlare: l’appartamento era completamente circondato; giornalisti, fan, guardie del corpo, semplici curiosi, non si poteva nemmeno affacciare il naso senza che qualcuno te lo afferrasse e lo usasse per tirarti fuori a forza.
Bill sentì Andreas prorompere in un velenosissimo “E che cazzo”, e poi lo sentì lamentarsi di quanto nessuno là fuori conoscesse la parola rispetto.
- Dovremmo comunque trovare un modo per tirarlo fuori di qui… - continuò il ragazzo, riferendosi evidentemente alla bara, - Non so quanto sia saggio tenerlo in questa casa.
Simone non disse una parola.
- È una situazione del tutto anomala. – sospirò David, confuso, - Sinceramente, non ho la più pallida idea di cosa fare. E Bill si ostina a non uscire…
- Piantatela, tutti e due. – disse a quel punto sua madre, gelida. – Farci prendere dal panico non risolverà un accidenti. – rimase in silenzio per qualche secondo, riflettendo. – La bara rimane. – concluse quindi, - David, cerca di parlare con qualcuno, nel frattempo. Contatta la polizia, i servizi segreti, l’antisommossa, insomma, fai in modo che quell’assembramento di persone là fuori sparisca.
Bill sorrise lievemente. Sua madre era comunque rimasta un toro.
Si appoggiò di spalle alla porta, ritornando a fissare il soffitto e respirando lentamente, come a volersi tranquillizzare.
In realtà non si sentiva agitato. La baraonda dell’esterno non lo turbava minimamente, e l’ansia che coglieva tutti i suoi coinquilini neanche lo toccava.
Però gli mancava Tom. Gli mancava incredibilmente.
Aprì le mani e sfiorò il legno liscio della porta, prima di richiudere i pugni, lasciando che le unghia strisciassero rumorosamente contro la superficie.
- Cucciolo… - bisbigliò la voce di sua madre, dall’altro lato della barriera, - Sto pensando a tutto io. A Tom non mancherà nulla. E neanche a te. Perciò… vedi di essere forte anche tu. – concluse dolcemente, prima di allontanarsi silenziosa lungo il corridoio.
Bill sentì gli occhi pieni di lacrime. Per nessun motivo apparente. E per tutti i motivi del mondo.
Si staccò dalla porta e si lasciò scomparire nuovamente fra le lenzuola.
Il fantasma di Tom non aveva odore. E perciò non aveva lasciato nessuna traccia di sé, né sul cotone, né sul suo corpo, né sul cuscino. Bill si ostinò a premere il naso contro la stoffa, inspirando profondamente, mentre lasciava che fosse lei ad assorbire le sue lacrime, fino a quando non crollò addormentato.
*
Si svegliò a notte fonda. Era appena cominciato il sesto giorno senza Tom.
Non gli servì nemmeno aprire gli occhi, per sentire la presenza del fantasma di suo fratello al proprio fianco.
- Sei un bastardo. – sibilò, ostinandosi a non guardarlo, - Mi hai lasciato solo.
Tom ridacchiò lievemente.
- Sapevi che ero ancora qui.
- Non è vero! – negò Bill, strizzando gli occhi, - Credevo fossi andato via!
Suo fratello gli lasciò scorrere una mano sulla fronte, e poi lungo la guancia, in una carezza lenta e dolcissima. Bill aprì gli occhi.
- Stai mentendo. – sussurrò piano Tom, - Sapevi che ero ancora qui. – ripeté con maggiore decisione, ma senza perdere il sorriso.
- …Tom, perché non sei andato via? – mugolò Bill, inarcando le sopracciglia e voltandosi verso di lui, in cerca di un abbraccio.
- Questo dovresti dirmelo tu! – ridacchiò il biondo, accontentandolo, - Non credo di avere alcuna autorità, in quel senso. Altrimenti, suppongo, sarei sparito ieri, dato che volevo veramente farlo.
Bill sorrise lievemente, stringendosi contro di lui.
- Adesso sei tu che stai mentendo.
Tom ghignò e gli fece una pernacchia.
- Resta il fatto che se non vado via è perché sei tu che non lo vuoi. – ribatté, stringendosi nelle spalle.
Bill abbassò lo sguardo.
- Allora… - mormorò cupamente, - non te ne andrai mai.
- Bill…
- Davvero. – rimarcò, sollevando finalmente gli occhi su di lui. Brillavano di decisione, ed anche di una certa quantità di rabbia. – Non voglio che tu vada via.
Tom sospirò.
- Ma non eri tu quello perfettamente consapevole e lucido e che aveva accettato tutto con estrema naturalezza? – lo rimproverò pacatamente, pizzicandogli una guancia, - Non eri solo un po’ triste?
- Sono mortalmente triste, Tomi. – bisbigliò Bill, liberandosi dalla sua stretta, - Deve esserci un modo per tenerti qui per sempre. Se ti ordino di non andartene, tu non te ne andrai, vero?
- Siamo arrivati agli ordini, adesso? – scoccò Tom, infastidito.
Bill arretrò di qualche centimetro, incerto.
- Io non voglio ordinartelo… non voglio perderti e basta.
- Bill, adesso basta. Questa cosa sta diventando ridicola. Io sono morto.
- Non-
- Sì che lo dico, Bill. – riprese Tom, con più decisione, - Non puoi continuare a nasconderti dietro un dito!
- Sono solo parole… - mormorò il moro, scuotendo il capo, - Per me, non hanno nessun significato…
- Sono parole, ma descrivono uno stato di fatti. – disse suo fratello, cupo. Poi si alzò in piedi, tenendolo stretto per una mano. – Vieni. – ordinò.
- No! – resistette Bill, tirandolo verso il basso, - Dove mi vuoi portare?
- Vieni. – ripeté seccamente Tom, strattonandolo in piedi e trascinandolo verso l’uscita della camera, del tutto indifferente alle sue ritrosie.
- No! Tom, no! Non voglio venire!
Ma le sue proteste caddero nel vuoto. Tom si fermò solo davanti alla propria bara, lo afferrò per la nuca e lo costrinse a guardarla.
- Il mio cadavere sta qua dentro. – disse gelido.
- No! – rispose Bill, coprendosi gli occhi.
Tom lo afferrò con la mano libera per entrambi i polsi, liberandogli il viso.
- Non costringermi a fartelo vedere, Bill. – proseguì, sempre più freddo.
- No! No! Lasciami in pace! No! – continuò a lamentarsi suo fratello, strizzando gli occhi e scuotendo il capo.
- Invece sì. – continuò Tom, - Sono qui dentro. Morto stecchito. Se solo mi vedessi, non mi riconosceresti neanche. Sono carbonizzato. Non ho più capelli. Non ho più ciglia. Le mie mani si sono sciolte per metà. Ho brandelli di vestiti cicatrizzati addosso dal fuoco. I denti scoperti e il naso quasi interamente scomparso. Devo continuare?
- No… - mugolò Bill che, senza più forze nelle gambe, si lasciò andare verso il pavimento.
Suo fratello lo tenne in piedi senza pietà.
- Devi essere forte, Bill. Per la nostra famiglia, per Andreas, per la band.
Della voce di Bill non era rimasto che un brusio di sottofondo. Gli occhi socchiusi, brucianti di pianto, le ciglia colme di lacrime intrappolate e le guance già inondate da quelle cadute, continuava a scuotere il capo e mormorare parole incomprensibili.
- Devi farcela anche senza di me. – continuò Tom, stringendolo teneramente a sé. – Devi farcela per forza, Bill, perché io non ce la faccio a sopportare questo senso di colpa. Non posso pensare che stai così a causa mia, Bill, non lo reggo. Ti prego.
Qualcosa di freddo scivolò lungo la guancia di Tom e scese, scese lungo il suo viso, si gettò a peso morto nel vuoto e piombò sul dorso della mano di Bill. Quella lacrima era talmente gelida che Bill non poté fare a meno di sollevare lo sguardo, per spiare l’espressione del fratello.
- Non posso andarmene finché stiamo entrambi così. – continuò Tom. Il suo viso bianchissimo era bagnato e brillava più di prima. – E finché resto, sto male. Per te e per me.
Bill sollevò una mano, sfiorando il profilo della sua guancia. Una lacrima immacolata e brillante come una pietra preziosa gli inumidì i polpastrelli, e per un secondo anche la sua pelle luccicò tutta, come splendeva Tom.
- …non posso chiederti di portarmi con te, vero? – sussurrò a mezza voce, lasciandosi andare contro di lui.
- Non ti permetto neanche di pensarlo. – rispose dolcemente Tom, stringendolo forte.
Bill si lasciò andare ad un piccolissimo sorriso contro la sua pelle bianca, tiepida e morbida come sempre, e lo strinse a propria volta.
- Allora… - scollò faticosamente, - credo sia arrivato il momento di andare, per te.
Tom sorrise e lo baciò appena sulla fronte.
- Credo anch’io.
*
Il settimo giorno senza Tom, fu quello in cui Tom andò via per davvero.
Bill si svegliò, e non ebbe bisogno di andare a cercarlo, per capire che non l’avrebbe comunque trovato.
Fuori dalla finestra, il sole splendeva alto, e fuori dalla stanza tutti quanti si affaccendavano nei modi più disparati. Sentiva David dare disposizioni perché spostassero la bara. Andreas continuava a gridare a gran voce che non riusciva a trovare lo zucchero, e Georg stava implorando Gustav di andare ad aiutarlo per farlo smettere di strillare. Simone passava e rimproverava tutti indistintamente, continuando a lamentarsi perché non le sembrava che gli impiegati dell’agenzia funebre stessero trattando la bara del suo bambino con la dovuta cautela. Gordon cercava di calmarla, prima di sbottare anche lui che quello decisamente non era il modo giusto di caricare una bara in un ascensore. Jörg si faceva strada in quell’insana follia chiedendo timidamente un caffé, e poi cominciava ad urlare a propria volta contro gli impiegati, obiettando che “era ovvio non riuscissero ad infilarla in ascensore, da che mondo è mondo le bare si scendono a piedi”.
Il moro si sollevò dal letto, raggiunse la porta, la aprì ed uscì dalla camera.
Una quantità infinita di occhi gli si puntò addosso.
Lui ristette un attimo sulla soglia. Poi si portò le mani al viso.
- Oddio. – mormorò incerto, - Devo essere impresentabile.
Non riuscì a contare i sospiri di sollievo che udì in risposta a quella semplice frase.
Andreas si offrì di preparargli le cialde. Simone lo abbracciò ed abbozzò una coda di cavallo alta dietro la sua nuca. David era già in agguato alle porte della cucina, con un termometro in mano. Georg, Gustav e Gordon stavano infine cedendo alle preghiere di Jörg che, constatata l’incapacità degli impiegati, stava cominciando a predisporre tutto perché fossero loro a scendere la bara e caricarla sul carro funebre. Quando lo videro, sorrisero e lo salutarono timidamente, per poi tornare a dedicarsi al loro improvvisato dovere.
Bill sistemò la coda e si diresse pigramente in cucina, cercando invano di sfuggire agli attacchi di Jost ed alle continue domande di Andreas, che non ricordava neanche per sbaglio come si facessero le cialde.
Sembrava che, giocoforza, sarebbe riuscito a trovare un modo per uscirne. Ci avrebbe pensato da sé. O ci avrebbero pensato gli altri per lui.
Sorrise appena, mentre David gli ficcava il termometro sotto un’ascella.
Fidarsi non sembrava un’impresa particolarmente difficile.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Georg/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, Slash.
- La favola personale di Bill. Bella principessa, lupo cattivo e terzo incomodo compresi.
Note: O_O Ho paura di questa storia. Volevo dedicarla alla mia neechan – che ne ha inconsapevolmente tirato fuori una twincest, visto che inizialmente doveva essere una Tom/Georg e basta – ma adesso mi sento quasi in colpa, perché è così… strana… o_ò… e non sono neanche sicura sia particolarmente piacevole da leggere. Voglio dire: scriverla è stato un sonoro spasso XD Perché è delirante e Bill e Tom sono incredibilmente divertenti, ma visto che è così strana e pazza e perversa non so se vi piacerà ç_ç Anche perché probabilmente difetta in approfondimento psicologico dei personaggi. Solo che mentre la scrivevo ho pensato “cavolo, è una situazione talmente assurda! Cosa diavolo vuoi approfondire?!”, e quindi mi sono un po’ lasciata trascinare dove mi portava l’ispirazione XD (ai piedi congelati di Bill, principalmente).
Per compensare tutte le mie incertezze qualitative, affettivamente sono molto sicura: la amo. Perciò sì: la dedico alla mia neechan, perché amo anche lei e… stavo per dire “se la merita”, ma forse è meglio evitare X’DDD E comunque è merito suo se ho visto il video live di Wo Sind Eure Hände che mi ha fatto sbottare “Però, Tom e Georg sono sexy *ç*” e che ha dato il via a tutto questo XD
Grazie mille come sempre a Nai per il betaggio <3 E per il commento migliore in assoluto: “Georg è disgustoso”. <3 Grazie anche a Misako93 per il suo aiuto <3
Questa storia partecipa al concorso twincest indetto da Suzako sul forum dell’EFP *_*; Secondo me andrà MALISSIMO è______é!!! Ma è bello fingersi fiduciose, una volta tanto, perciò speriamo bene *_*”””””
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LA FAVOLA STORTA

Non ricordo se a dirmi la verità sul parto fu un film o un documentario.
Se era un film, doveva essere uno di quei cosi terribili che mia madre si ostinava a guardare, nonostante ogni singola sfumatura del suo carattere stesse cercando di rivelarle la sua profonda essenza di donna da action-movie. Mia madre è sempre stata un tipo incredibilmente forte. Trovavo disgustoso che potessero piacerle film come Nine Months e simili.
Se era un documentario, invece, doveva essere una di quelle cose, anche loro terribili ma in un altro modo, che piacevano a Tom. Tom aveva un’insana passione per le narrazioni in tempo reale. Gli piacevano le storie vere. E quindi, anche tutti quei documentari che seguivano gli avvenimenti dall’inizio alla fine – gravidanze comprese – avevano su di lui effetti che, non fossimo stati entrambi ragazzini, non avrei esitato a definire afrodisiaci. Si accucciava sul divano, organizzando una tana fra i cuscini, e fissava ammaliato lo schermo, una strana luce negli occhi ed una mano – quella che non stringeva istericamente il telecomando, per evitare che qualcuno potesse portarglielo via – a compiere sempre lo stesso movimento lento e flemmatico dalla ciotola dei pop-corn o delle caramelle gommose alla sua bocca e viceversa. Uno spettacolo terrificante. Anche io divoravo pop-corn e caramelle gommose fissando la tv con aria ammaliata, ma avevo almeno la decenza di farlo solo quando Viva passava un video dei Placebo o qualcosa di simile.
Comunque, ricordo che, quando scoprii la verità, di sicuro non ero pronto a fronteggiarla. Perché, di fronte alla consapevolezza che veniamo al mondo immersi in tutti i fluidi corporei più disgustosi che l’organismo umano sia in grado di creare, invece di pensare come una persona matura e dirmi che era semplicemente una cosa fisiologica e non avrebbe dovuto disgustarmi, pensai “Dio-che-schifo!” e sentii il profondo bisogno di andare a vomitare.
Dopodichè, schizzai da mia madre e cominciai a strillare come un idiota, affermando che era inumano che ad un bambino fosse consentito di venire al mondo in condizioni simili e non capivo come fosse possibile lei avesse permesso una cosa del genere. Ero impaurito, sgomento e semplicemente orripilato.
Avevo qualcosa come dieci o undici anni, e da quella esperienza imparai una cosa molto importante – oltre al fatto che dovevo ringraziare di non essere nato donna, così non avrei mai sottoposto in prima persona i miei futuri figli a quella pratica oscena – e cioè che la verità, il più delle volte, fa schifo. Ma non schifo e basta. Schifo. Immensamente. Schifo al livello più puro. E non solo perché ti obbliga a scomode prese di coscienza, ma proprio perché la verità descrive principalmente proprio le cose più disgustose, quelle che uno non vorrebbe mai dover guardare.
Un po’ come la situazione che sto vivendo adesso.
*
Mio fratello adora il sesso.
Io credo che sia malato, seriamente. Perché non è che il sesso gli piaccia e basta, lui non può sopravvivere senza la sua dose giornaliera, come ne fosse dipendente. Anzi, no: lo è proprio. È sesso-dipendente. È una cosa per la quale di solito si va in terapia, no? No. Non per lui, almeno. Per lui, non è altro che un ulteriore attestato di superiorità rispetto agli altri. La sesso-dipendenza lo rende più figo, non più vulnerabile.
Eppure non è che un punto debole, giusto? Lo rende sottomesso a un profumo, alle curve delle ragazze. Ed anche al potere del testosterone.
Già.
Perché a mio fratello piace il sesso.
Indipendentemente dalla persona con cui lo fa.
*
È successo così anche con me, suppongo.
Voglio dire, mi rifiuto di pensare che mio fratello sia innamorato di me. Non può amarmi, è da tutta la vita che faccio l’impossibile per farmi odiare! Lo coinvolgevo nelle risse, lo coinvolgevo nel giro di malelingue che mi circondava, lo coinvolgevo nelle mie beghe sentimentali – o mi coinvolgevo nelle sue – e lo coinvolgevo perfino nei miei pomeriggi dello shopping! No, no, che sia innamorato di me è del tutto impossibile. Il problema, semmai, è il contrario, ma questa è tutta un’altra storia.
Sto solo cercando di dire che, la notte in cui mio fratello s’è intrufolato nella mia stanza e mi ha detto “ti va di giocare un po’?”, firmando la mia condanna a morte, sicuramente non l’ha fatto mosso da sentimenti romantici nei miei confronti, ecco.
Avevamo tredici anni. Era un periodo un po’ confusionario della nostra vita, non riuscivamo a capire se avremmo sfondato nel mondo della musica come desideravamo da sempre, e nel frattempo la vita tra Loitsche e Magdeburg andava sempre peggio, ma mio fratello aveva già avuto numerosi assaggi della “vita sentimentale” degli adulti, se così si può dire. Non l’aveva ancora fatto, ma, come mi diceva spesso, “si stava lavorando una tipa” in quel senso.
La tipa era Greta Vogel, aveva sedici anni e gli moriva dietro da due – cosa che rendeva mio fratello parecchio orgoglioso. Non era bellissima, ma era decisamente disponibile ed entusiasta. Il fatto che Tom le concedesse il lusso di poter dire in giro che stava con lui non era cosa da poco. Ed anche il fatto che avesse continuato a graziarla delle proprie attenzioni per più della settimana di rito che solitamente si identificava con la sua prassi, era una conquista niente male.
Quella sera, Tom si infilò nel mio letto e la prima cosa che disse fu “Ah! I tuoi piedi sono due ghiaccioli!”, inorridendo e spingendosi fino al limite del materasso, rubandomi tutte le coperte.
- Nessuno ti ha invitato. – ringhiai io, cercando di riappropriarmi almeno delle lenzuola e utilizzando i miei cosiddetti “ghiaccioli” per torturarlo.
- Sei una rottura. – disse lui, sereno, lasciando la presa sulle lenzuola perché io potessi ricoprirmi. Poi sorrise malizioso, avvicinandosi con fare da gatto. – Oggi Greta mi ha fatto una cosa stu-pen-da! – annunciò entusiasta.
Io arrossii all’istante, perché non era mai capitato che mio fratello s’infilasse nel mio letto nel cuore della notte, se non per parlarmi di qualcosa che non era sicuro di poter affrontare con la luce del giorno. Nella fattispecie: i suoi progressi dal punto di vista sessuale.
Sapevo istintivamente che “la cosa stupenda” di Greta non poteva essere certo una sciarpa fatta a maglia, perciò sospirai ed evitai di guardarlo, sforzandomi di chiedergli che cosa e mostrarmi interessato.
- Una sega! – rispose lui, la voce quasi stridula per l’emozione, - Non puoi neanche immaginare quanto sia diverso fatto da un’altra persona!
Feci per battere silenziosamente le mani, sempre senza guardarlo.
- Congratulazioni. – scoccai laconico, - Spero solo che, quando salterai alla prossima categoria, non ti venga in mente di organizzare una parata per annunciarlo al mondo. Sai, credo che le ragazze non gradiscano cose di questo tipo.
- Perché fai lo scemo? – chiese lui con una repentina smorfia di delusione, - Sei geloso?
- Che cavolata.
- Sono solo scopate, Bill! Anzi, tecnicamente non lo sono ancora…
- Ah-ha. Sì, questo m’importerebbe se fossi il tuo ragazzo, ma sono tuo fratello e l’unica preoccupazione che ho al momento è che ho sonno e i tuoi piedi sono più freddi dei miei.
- …e la quantità di ormoni della stronzaggine presenti nel tuo cervello ha raggiunto picchi inauditi, vedo.
- Un ormone simile neanche esiste. – mi limitai a notificare, sbadigliando apertamente.
Tom non gradì.
- Sei una merda! – sbottò adirato, - Vengo qui a condividere con te quanto di più prezioso ho al mondo, e tu mi rispondi a pedate in faccia?
- Tecnicamente – gli feci il verso, - non ti ho ancora preso a pedate in faccia… ma se ci tieni tanto…
- Oh, ‘fanculo. – rispose, dandomi le spalle e riappropriandosi nuovamente di tutte le coperte, rimandandomi chiaro il segnale di un fratello furioso ben intenzionato a non tornarsene in camera propria fino a nuovo ordine.
Io roteai gli occhi, sbuffando sonoramente.
Ero geloso a morte.
Non di lui, cavolo!, del fatto che lui fosse così disperatamente avanti rispetto a me. Già solo il fatto fossi tanto imbarazzato da discorsi del genere, mentre lui poteva permettersi di parlarne così apertamente, era indice di quanto fosse precoce in quel senso – e di quanto io, invece, fossi lento. Mi sentivo in soggezione, mi sentivo abbandonato e mi sentivo anche molto stupido, ecco.
Sinceramente, avrei preferito che lui e tutto il suo carico di esperienza si tenessero a distanza di sicurezza da me, finché la rabbia non fosse sbollita. O rischiavo di cavare gli occhi al sangue del mio sangue. Non sarebbe stata una bella mossa.
Purtroppo, non c’era nessuna speranza Tom potesse andarsene a letto con un simile punto di sospensione a gravare fra noi. Lo sapevo, perché il più delle volte – quando non c’era il sesso di mezzo, intendo – anche per me era così: litigavamo, e il peso che mi si gettava sullo stomaco era tanto grande che non riuscivo nemmeno a respirare, figurarsi andare a nanna e fare sogni d’oro.
- Oh. – disse rudemente qualche secondo dopo, richiamando la mia attenzione prima di voltarsi a guardarmi, - Ma ce l’hai davvero con me?
Il modo in cui sottolineò quel “davvero”, mi diede l’esatta misura di quanto trovasse stupida la mia irritazione.
Questo avrebbe dovuto irritarmi ancora di più, ma si limitò a farmi sentire tremendamente in imbarazzo, perciò lo guardai interdetto e boccheggiai alla ricerca di una smentita che non sentivo mia neanche in parte.
- No, non sono così scemo! – sputai tutto d’un fiato, fissandolo con falso disinteresse, - Ho solo sonno.
- …ce l’hai davvero con me!!! – confermò lui, sgomento, spalancando la bocca, - Non ci posso credere!
- Ti ho detto che non è così! – cercai di insistere, ma era come parlare con un muro. Tom aveva trovato il filo di pensieri che più gli piaceva, ed era bene intenzionato a seguirlo fino alla fine.
- Scommetto che è perché non l’hai ancora provato. – rifletté, infierendo inconsapevolmente nella mia già malconcia autostima, - Se lo provassi sarebbe tutto diverso.
- So perfettamente cos’è una sega, Tom. – mugugnai, furente.
Lui scosse il capo.
E poi mi infilò una mano nei boxer.
Ed io strillai. E strillai perché la sua mano era gelida, non perché si trovava nei miei boxer.
Sebbene una parte dell’urlo dovesse effettivamente essere motivata anche da quel particolare, credo.
Tom fece scattare la mano libera e la pressò con forza sulle mie labbra, soffocandomi.
- Sei impazzito?! – bisbigliò ad un centimetro dal mio orecchio, - Vuoi che ci sentano?!
Mi agitai come un’anguilla, cercando di liberarmi – da entrambe le sue mani – ma fu del tutto inutile. Era più forte di me già allora.
- Avanti, avanti… – disse poi, più dolcemente, nel tono basso e pacato che utilizzava sempre quando voleva cercare di convincermi con le buone a prendere parte a qualcosa di assurdo, - È solo per farti provare. Consideralo un gioco. Ti va di giocare un po’?
Mi piace pensare che avrei risposto di no, se avessi avuto la bocca libera. Però mi piace anche pensare che lui non me lo permise, e tenne la sua mano sulle mie labbra per tutto il tempo. Soprattutto, mi piace pensare che l’abbia fatto perché immaginava che, se fossi stato libero, avrei reagito in quel modo, e lui non voleva.
Purtroppo, temo l’abbia semplicemente dimenticato nel lasso di tempo che separò la sega che lui fece a me da quella che pretese gli facessi io subito dopo. Lo pretese perché era eccitato, e perché gli serviva sapere con certezza che io non avrei mai parlato con nessuno di quanto era successo. Se era lui a mettermi in mezzo, c’era ancora qualche possibilità – minima, ma c’era – che potessi essere preso da un momentaneo attacco di saggezza e vuotassi il sacco col primo adulto disponibile – come sarebbe stato giusto e come lui avrebbe meritato. Rendendomi complice di quel crimine assurdo, invece, mi tarpava le ali. Ero finito. Avevo fatto anche io la mia parte, perciò non avrei mai potuto dire niente senza sobbarcarmi anche la mia parte di colpa.
Ed una colpa del genere proprio non la vuoi. Né a tredici, né a sedici, né a diciott’anni.
*
Non successe più niente del genere fino a dopo Ann-Kathrin. Fino a quel momento, infatti, il mio depravatissimo fratello fu libero di praticare l’attività che preferiva – ovvero scopare con qualunque essere di sesso femminile capitasse a tiro e fosse disponibile in quel senso – senza che la cosa dovesse necessariamente turbare l’ordine pubblico tedesco.
Con Ann-Kathrin finì la pacchia. Perché le foto furono pubblicate ovunque. E a David la cosa decisamente non piacque.
Ne seguì un periodo di segregazione che frustrò incredibilmente Tom. Anche perché, come premio per la nostra buona condotta, io, Gustav e Georg eravamo ancora liberi di fare tutto ciò che volevamo – il che risultava principalmente in Georg che, tornando al loft alla sera, si sedeva sul letto di Tom e cominciava a sciorinare sequele infinite di descrizioni di ragazze formidabili – che probabilmente inventava, o delle quali, quantomeno, accresceva le doti – con le quali s’era intrattenuto fino a quel momento. Lui lo faceva per pura e semplice crudeltà, ma Tom non capiva e finiva per cascarci costantemente, infuriandosi come un toro.
Chi ne faceva le spese, però, ero io. Che di cattivo, nella mia vita, non avevo fatto proprio nulla.
Tom si rinfilò nel mio letto, a sorpresa, al terzo giorno di arresti domiciliari.
- Non ce la faccio più! – annunciò, scaraventandomi fino alla punta più lontana del letto con la semplice furia con la quale piombò sul materasso, - Cazzo, Bill, hai i piedi congelati!
- Tom! – mi lamentai io, del tutto sconvolto dall’irruzione, - Che diavolo ci fai qui?!
- Non ce la faccio più! – ripeté lui, afferrandomi per le spalle e riportandomi vicino a sé, a dispetto del fatto che il ghiaccio che avvolgeva i miei piedi ai suoi occhi non fosse mai svanito, - Bill, devi fare qualcosa!
- Senti, ho già provato a parlare con David, ma-
- È del tutto inutile, lo so. – annuì, mordicchiandosi un labbro, - È incazzato a morte.
- Forse perché sei un idiota? Ci hai mai pensato?
- Senti, lo so di aver fatto una cazzata, ma ero ubriaco!
- Be’, ti servirà di lezione. – commentai io, scrollando le spalle disinteressato, - La prossima volta, ci penserai due volte prima di avvicinarti al bancone del bar.
Tom borbottò qualcosa sul fatto del non ricordare di aver mai concesso a David di diventare suo padre, ed io evitai di dirgli che in realtà l’aveva fatto nostra madre al suo posto, concedendogli per contratto la nostra tutela legale.
- Devi comunque fare qualcosa. – mi intimò lui, poco dopo, fissandomi angosciato, - Io non ce la faccio proprio più.
- Non posso portare qui una groupie di contrabbando, Tom! Non ci stanno nella borsa!
- Ma sei sicuro? – chiese lui, con sincero stupore, - La tua borsa è enorme…
- E tu sei un enorme cretino. Avanti, Tomi, tornatene a letto, è palese che sei sconvolto…
- Certo che sono sconvolto!!! – insistette lui, strattonandomi qua e là come un peluche, - Sono tre giorni, ormai! Diosanto!
- Ma fai come tutte le persone normali! – ribattei io, fissandolo sconvolto, - Fatti una sega e mettiti il cuore in pace!
Lui si lasciò andare ad una smorfia di disappunto, cui seguì un sorrisetto malizioso e pericolosissimo, di fronte al quale tremai.
- Sai perfettamente che non è la stessa cosa. – bisbigliò, lasciando scorrere una mano giù dalla mia spalla, lungo il braccio, fino a fermarsi insinuante sui fianchi, per poi scivolare lenta ma inesorabile sul mio inguine. – Solo per giocare. – aggiunse quindi, strofinando la fronte contro la mia, - Ti va ancora di giocare con me, vero cucciolo?
Quella notte non mi stava affatto tappando la bocca. Ma io non riuscii comunque a negarmi.
E successe l’irreparabile.
Il gioco andò un po’ troppo oltre l’ammissibile e sfociò presto nel proibito.
E purtroppo piacque ad entrambi.
*
Mio fratello smise istantaneamente di lamentarsi con David, il quale pensò che il periodo di clausura dovesse avergli fatto bene e decise saggiamente di prolungarlo all’infinito. Penso che si commosse sinceramente, nel momento in cui lo disse a Tom e lui rispose con una scrollatina di spalle ed un responsabile “D’altronde, il lavoro viene prima di tutto!”.
Certo che il lavoro veniva prima di tutto.
Di tutto, ma non delle nottate interminabili che passava nel mio letto.
Mi vergogno molto di quello che successe in quei mesi. Giocavo sporco, io. Mi facevo desiderare. Facevo il prezioso, e Tom mi moriva dietro. Seriamente, non credo di aver mai sentito parlare di un rapporto più storto di quello che si sviluppò fra noi in quel periodo. Neanche nelle soap-opera. Io non facevo che fingere di negarmi e concedermi come una puttanella ben addestrata, e Tom era talmente preso dal suo ruolo di amante fisso appassionato che quasi ci perdemmo davvero, in quella sceneggiata.
Quasi ci credemmo davvero.
Io, soprattutto.
Ma poi successe qualcos’altro. Successe che, in uno dei millemila backstage di Viva Live che condividemmo con Bushido, lui ghignò, guardò Tom e disse “Allora, rubacuori, so che sei segregato in casa da un bel po’! Dì, com’è la vita senza figa?”. Al che David, per evitare un omicidio in diretta e salvare la reputazione del Kaulitz figo, dovette frapporsi fra i due litiganti ed affermare risolutamente che Tom non era affatto segregato e vedeva più figa in quel periodo di quanta non ne avesse mai vista in tutta la sua vita.
Io mi limitai a guardare il tutto da lontano, con aria piuttosto schifata, ed a prendere laconicamente nota del sorriso vittorioso col quale Tom accompagnò le parole di David, che prima di pronunciarle non aveva probabilmente messo in conto il fatto che poi avrebbe dovuto anche renderle una realtà effettiva.
Già da quella sera – dal momento esatto in cui David gli riconsegnò le chiavi di casa – Tom smise di venire in camera mia, e del gioco non restò più nulla.
*
Il che ci riporta a stasera. Alla verità che fa schifo, alla potenza del testosterone ed alla sessuomania imperante di mio fratello. Ed a Georg.
Se avete difficoltà a seguire il processo mentale, non è un problema.
Siamo nel bel mezzo del 1000 Hotels Tour. La nostra tappa bolognese si è appena chiusa e siamo imprigionati in un hotel di periferia, alloggiati tutti in stanze minuscole talmente vicine le une alle altre che, stando in silenzio, ci si sente respirare, e tagliati fuori dal mondo da una pioggia talmente torrenziale che ci fa sentire ospiti della foresta Amazzonica, più che della terra del sole.
Gli alberghi ci mettono tutti di malumore. Non conosciamo quasi mai le zone in cui sono situati ed eludere gli appostamenti di paparazzi appena fuori la porta, in condizioni simili, è praticamente impossibile. Ciò significa che tentare la fuga equivale a tentare il suicidio, per mano loro o per mano di David, se per caso riusciamo a sopravvivere al primo assalto.
Tom, privo di una sana scopata da ben trentadue ore, è effettivamente venuto da me, una o due orette fa. Ha cominciato a saltellarmi intorno come un cucciolo affamato, mugolando in preda agli spasmi del desiderio, ma io ho deciso di concedermi un sano episodio di affermazione personale e l’ho mandato in bianco. Non esiste che io diventi la sua scopata fissa di riserva, e che diamine, sono il suo cavolo di fratello gemello io, mica una groupie!
È andato via mogio mogio, le spalle ricurve ed il passo lento e strascicato di chi spera sempre in un richiamo dell’ultimo momento, ma non gli è arrivato niente.
Dopodichè, ne ho perso le tracce, fino a questo momento.
E “questo momento”, per la precisione, coincide con mio fratello che si scopa impunemente il mio bassista.
E quindi, vedete? Ho bisogno di un sacco di motivi per giustificare una cosa simile. Perciò, la verità fa schifo, il richiamo del testosterone è infallibile e mio fratello è sesso-dipendente.
Oppure io sono del tutto pazzo, e quelle che sto vedendo sono solo folli visioni. Dio, ti prego, fa’ che sia così.
- Dove stai mettendo le mani…? – ansima Georg con una risata volgare, inarcandosi all’indietro e strofinando la schiena contro il petto di Tom, mentre lui fa scorrere un palmo lungo il suo petto, il ventre e giù fino all’inguine.
Mi viene da vomitare.
Non è un sogno e non è una visione. Dio-mio. Cos’ho fatto di male?
Tom ride al suo seguito, e il suono della sua risata è del tutto identico a quello di Georg. Ruvido. Eccitato. Sudato. Osceno. E volgarissimo.
Lo accarezza sapientemente, sembra avere esperienza. Cazzo, sì. L’ha fatta con me, l’esperienza. Avessi saputo che quello che facevamo in camera avrebbe portato alla deflorazione del mio povero, innocente bassista, altro che “no” avrei risposto a quel depravato di mio fratello: un bel calcio nelle palle e risolvevamo il problema alla radice.
Comunque c’è da dire che Georg, dal modo in cui si muove incontro a mio fratello, quasi accogliendolo entusiasticamente dentro di sé, non sembra particolarmente turbato dal fatto di avere un cazzo su per il culo. Il che mi porta a chiedermi per prima cosa in che diavolo di universo parallelo io sia finito, e per seconda cosa – se questo non è un universo parallelo – quanto devo essere stato distratto, negli ultimi mesi, per non accorgermi di niente?
Poi, però, mi fermo un attimo. Cerco di estraniarmi dal momento e chiudo un po’ la porta, quel tanto che basta per distogliere lo sguardo dalla scena senza però farla sbattere contro lo stipite.
E realizzo.
Non avrei comunque potuto rendermi conto di niente. Per lo stesso motivo per il quale nessuno s’è mai reso conto di quello che succedeva veramente fra me e Tom, di notte.
Tom ha l’aria di uno che potrebbe scoparsi chiunque. Ha l’aria di uno che, prima di accettare un no in risposta, insisterà al punto da averla comunque vinta, alla fine. Soprattutto, ha l’aria di uno che, in caso di resa, sarà capace di farti pentire di non aver accettato prima.
La faccia di Georg sta dicendo esattamente questo. Mentre si lecca le labbra e affonda il viso nel cuscino, dimenando il bacino al ritmo delle spinte di Tom, sta dicendo esattamente “Dio mio, per quale accidenti di motivo ci ho riflettuto tanto, prima di dire sì?”.
Sono terrorizzato. So che avevo la stessa faccia, quando al suo posto c’ero io. Lo so per certo. I lineamenti di Georg li sento adattarsi sulla pelle del mio viso. Il suo sorriso me lo sento tirare addosso. La sua lingua sta inumidendo anche le mie labbra.
Siamo uguali. Ma non perché effettivamente ci somigliamo. Solo perché Tom non fa alcuna differenza fra noi due. O chiunque altro.
*
Non dovrei essere così furiosamente incazzato, adesso. Che la verità faceva schifo, lo sapevo già. Che l’immagine di mio fratello che scopava con Georg fosse altrettanto disgustosa non lo sapevo, ma lo immaginavo di certo. Anche che mio fratello non fosse in grado di amare nessuno oltre al proprio uccello, ecco, sapevo anche questo. Non c’è proprio niente di nuovo rispetto a qualche mese fa, o all’anno scorso, o a quando avevo tredici anni.
Il fatto sia così arrabbiato e disgustato dimostra che non sono affatto cresciuto, con gli anni. Sono lo stesso bambino che, di fronte alla verità sul parto, invece di dirsi “è fisiologico” si dice “che schifo, ho voglia di vomitare”. Di fronte alla verità di mio fratello dovrei pensare esattamente la stessa cosa. È fisiologico. È vero, che è fisiologico. Ma ho comunque voglia di vomitare.
*
Mentre Georg si rivestiva e sfotteva Tom per i rumori strani che aveva fatto mentre scopavano, io mi sono nascosto dietro un angolo. Ho sentito Tom scoppiare a ridere, ho sentito Georg scoppiare a ridere, poi li ho sentiti ridere entrambi insieme ed ho trattenuto il respiro mentre il mio bassista usciva dalla camera di mio fratello e si recava fischiettando a bussare insistentemente alla porta di Gustav, al grido di “tira fuori la PSP, voglio spaccare un po’ di auto!”.
Quando è sparito alla mia vista, sono uscito dal mio nascondiglio e sono entrato in camera di Tom. Lui era ancora nudo come un verme, occupava l’intera superficie del letto e non sembrava affatto sorpreso di vedermi.
- Guardone. – mi ha detto, senza nemmeno degnarmi di un’occhiata. Io penso di essere arrossito fino alla punta dei capelli.
- Mi hai visto! – ho strepitato, come se questo potesse suonare come un’accusa nei suoi confronti.
- Non mi è dispiaciuto. – ha risposto lui, scrollando le spalle, - Era eccitante.
Mi sono lasciato andare seduto al suo fianco, afferrando esasperato un lenzuolo per coprirlo almeno dove era più difficile guardarlo.
- Non hai vergogna. – l’ho rimproverato, - Sei malato, pure con Georg…!
- Senti, avevamo entrambi voglia, e comunque non sono cazzi tuoi. Mi ha beccato che mi facevo una sega di fronte alla televisione, e che cazzo, chiunque avrebbe avuto abbastanza pietà di me da concedermi una scopata. – mi ha lanciato uno sguardo accusatore, stringendo le palpebre ed aggrottando le sopracciglia, - O meglio, chiunque tranne te.
Ho sospirato, scuotendo il capo.
- Non so se considerarmi fortunato per essere scampato alla tua furia, o sfortunato per lo spettacolo che sono stato costretto ad osservare.
- Non ti costringeva nessuno. – ha ribattuto lui, issandosi sulle mani per sedersi al mio fianco, - Secondo me ti è piaciuto.
- No. Mi ha dato la nausea.
Lui ha ghignato, con quel sorriso a metà che fa impazzire le teenager e mi manda in bestia ogni santa volta.
- A me no, guarda un po’. Anche se devo ammettere che lui non è bravo quanto te.
Mi si è chinato addosso, sfiorandomi una guancia con le labbra.
- Tipo, baciarlo mi fa un senso assurdo, infatti non lo faccio… - ha continuato inesorabile, riflettendo con serietà perfino eccessiva.
- Per carità. – ho esalato io, pressandogli un dito sulle labbra, - Niente cronache o vomito qui.
Lui ha fatto una smorfia, tirandosi un po’ indietro.
- Non potremmo occupare il tempo in modo meno inutile? – ha chiesto poi, facendomi passare una mano fra i capelli.
- Tipo? – ho chiesto io, sospettoso, allontanandomi di qualche centimetro.
Lui ha sorriso ed ha giocato un po’ col piercing, leccandolo lentamente.
- Mio Dio, Tom, ma sei insaziabile…!
Ha riso e mi ha afferrato saldamente per i fianchi, attirandomi contro di sé.
Il gioco è ricominciato, tranquillo e perfetto come prima che si esaurisse, con la stessa aggraziata semplicità. Almeno, adesso, so perfettamente perché. Non ho più nessun bisogno di sentirmi in colpa.
- Bill, cazzo, fai qualcosa per questi piedi congelati!
…più o meno.
*
Sì, direi che, riassumendo, è di questo che parla la mia favola.
Una favola un po’ anticonvenzionale, c’è da ammetterlo, ma una favola comunque, perché c’è tutto: la bella principessa sfortunata – che sarei io, con tutte le licenze del caso – il terzo incomodo – il mio povero bassista – e il lupo cattivo – mio fratello.
Come tutte le favole, inoltre, anche la mia ha una morale. Molto semplice ed intuitiva, peraltro.
Ed è la stessa con la quale sono partito.
“La verità fa schifo”.
Con una breve aggiunta: ed anche mio fratello.
Genere: Triste, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Hurt/Comfort.
- Scritta prendendo ispirazione da ciò che sta succedendo ora come ora in casa Tokio Hotel. Bill sta male ed il concerto di Lisbona viene annullato. A Tom tocca fare l'annuncio alla folla e, supportato silenziosamente da Georg e Gustav, pure sostenere una conferenza stampa, mentre suo fratello torna in Germania per farsi visitare al più presto da uno specialista.
Note: Questa storia è nata perché l’angoscia mi stava divorando viva, ecco XD Non so perché ho aspettato i vent’anni, per vivere pienamente “passioni” come questa che nutro per i Tokio Hotel, così tipicamente adolescenziali negli intenti e nei modi da sembrare quasi ridicole. Per certi versi sono consapevole che sarebbe stato meglio l’avessi vissuta a sedici. Sarebbe stato più giustificato, forse anche più giusto. Per altri versi, sono piuttosto convinta che non sarebbe stato “bello” come invece è adesso ^^
Insomma, tant’è: Bill sta male ed io sono in pena per lui ç_ç Quando è arrivata la notizia del concerto di Lisbona annullato (e poi, in una spirale di depressione, Madrid, Douai e Ginevra), sono praticamente andata in paranoia °° Suona cretino dirlo, ma insomma! Ognuno ha i suoi motivi per star giù di morale XD
È venuta fuori una specie di dichiarazione d’amore a Tom, alla fine. Come sempre. Il punto è che è stato veramente molto forte. Fronteggiare la massa di ragazzine infuriate e poi quella di giornalisti curiosi… tra l’altro, non so se David fosse o meno coi ragazzi: certo è che durante la conferenza stampa non si vede. O era attaccato al cellulare con Bill che tornava a casa, o era effettivamente con lui. Quello che resta è che Tom è stato molto forte. E mi ha pure commossa, toh.
Sperando che il criceto si rimetta presto (e ci sono buone possibilità che proprio ci diventi, un criceto, visti gli effetti devastanti che ha il cortisone sulle sue guanciotte XD), vi saluto <3
PS: Comunque il fangirling è malefico. Soprattutto quando esercitato sotto stress. Io e Meg ne abbiamo scritto due contemporaneamente sullo stesso argomento XD Oserei dire siano differenti e simili ed anche complementari. Un po’ come i gemelli. Twinfic <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
HOLD ON, BE STRONG

Se la stava facendo addosso. Letteralmente. Sentiva il bisogno fisico di scappare in bagno. E restarci. Il più a lungo possibile.

Coraggio, Tom. Non è mica la prima volta che fronteggi un’orda di ragazze innamorate, deluse e considerevolmente incazzate. Succedeva sempre a Loitsche, no? Succedeva sempre quando le voci cominciavano a circolare troppo diffusamente e tutte le ragazze cominciavano a subodorare di avere davvero solo una cosa le accomunasse tutte: te. Ed allora partivano le spedizioni punitive. Ed era pure peggio di così, no? Lì, ad essere considerevolmente incazzate non erano solo le ragazze, ma anche un buon numero di fratelli maggiori e migliori amici iperprotettivi.
Allora era peggio. Nessuno vuole veramente ucciderti, adesso.
E poi non sarai nemmeno solo. Ci saranno Georg e Gustav, con te. Georg e Gustav sono una buona assicurazione sulla vita, no? Sono forti. In caso di rivolta, ti farebbero scudo col loro corpo, lo sai.
Non c’è proprio niente di cui aver paura.
Coraggio.


Si lasciò andare ad un mugolio preoccupato ed ansioso, scivolando lentamente sulla sedia accanto a quella in cui suo fratello giaceva, raggomitolato in una coperta di lana e totalmente abbandonato contro lo schienale.
- Come stai…? – chiese a bassa voce, sollevando una mano ad accarezzargli una guancia e poi a massaggiargli piano il collo.
La pelle di Bill scottava. La sua, invece, era freddissima.

Magari questa paura fottuta si rivela pure utile per qualcosa, chissà.

Bill piegò le labbra in un sorriso semplicemente stremato, abbandonandosi contro la sua mano e socchiudendo gli occhi sotto le sue carezze.
- Sono stato meglio. – scollò a fatica. E poi deglutì. Tom lo sentì sotto le dita. E deglutì a propria volta. – Mi fa male la gola…
- Bill. – la voce di David suonò ansiosa e freddissima, infrangendo il silenzio del backstage e mettendo in agitazione tutti, - Abbiamo un biglietto virtuale che ci aspetta all’aeroporto. Vuoi che venga qualcuno con te?
Bill scosse il capo, aggrottando le sopracciglia.
- Ho già causato-
- Balle. – lo interruppe Tom, stringendo dolcemente la presa sulla sua nuca, - Non puoi andare da solo. David, vai con lui.
Il manager gli scoccò un’occhiata stupita dalla porta, schiudendo le labbra come per parlare ma restando in silenzio come non sapesse effettivamente cosa dire.
- Tom, dovete parlare coi giornalisti. Io non so se è il caso di lasciarvi soli…
Tom avrebbe voluto rispondere prontamente che sì, era decisamente il caso, perché Bill stava male proprio tanto e lui aveva bisogno di sapere che qualcuno di fidato sarebbe stato con lui per ogni evenienza.
Ma non ne ebbe la forza.
Perché era terrorizzato. Perché avrebbe voluto essere lui a seguirlo mentre tornava in Germania. Perché il solo pensiero che Bill stesse così male evidentemente toccava qualche nervo scoperto del suo corpo. E faceva male.
Fortunatamente, Georg sembrava aver mantenuto quel misero brandello di lucidità che lui aveva immediatamente perso quando aveva capito che Bill non ce l’avrebbe fatta, e che Gustav aveva smarrito conseguentemente quando la cosa era diventata pesante al punto da richiedere il rimpatrio.
- David, possiamo cavarcela. Sappiamo già cosa dire, ci limiteremo a ripeterlo fino alla nausea.
Jost fece una smorfia, avvicinandosi lentamente a Bill e controllandogli la temperatura con una mano sulla fronte, per poi rimboccargli la coperta attorno al corpo, un attimo prima che lui si abbandonasse contro il petto di suo fratello. Che lo strinse a sé mordendosi le labbra, perché era tutto ciò che poteva fare, e tutto ciò che poteva fare era troppo poco.
- Non lo so. Vediamo se almeno con le ragazze possiamo far parlare solo un organizzatore…

Altro che organizzatore.
Quelle vogliono noi.
Se non usciamo, vorranno pure la nostra pelle.


Ed infatti così era stato: per il pover’uomo che aveva ottenuto l’incarico “diplomatico”, non c’erano stati che fischi e boati di disapprovazione.
- Dobbiamo uscire noi. – aveva sibilato Gustav, guardando lo stage da dietro le quinte, senza preoccuparsi di nascondere la nota spaventata che aveva assunto la sua voce.
- Già. – aveva annuito Georg, mentre Tom si perdeva nel respiro un po’ affannoso di Bill, ancora stretto fra le sue braccia, - E voi dovete andare. Appena daremo l’annuncio ufficiale, il palazzetto comincerà a svuotarsi… la cosa potrebbe farsi pericolosa.
- In effetti, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è uno stuolo di ragazzine piangenti che insegue la macchina. – aveva considerato pensosamente l’uomo, dondolando nervoso sulle gambe. – Bill? Te la senti di muoverti?
Bill non aveva risposto. Aveva sollevato lo sguardo su Tom e ne aveva calamitato l’attenzione, fissandolo con una tristezza difficilmente sostenibile. Lui s’era sforzato quantomeno di abbozzare un sorriso, stringendolo con più decisione.
- Vai. Ci mettiamo sul primo aereo appena possibile. – gli aveva sussurrato piano all’orecchio, prima di baciarlo teneramente su una guancia.
Bill aveva tirato le labbra in una smorfia addolorata. Per lui non doveva esistere niente di peggio, probabilmente: mal di gola – con sospetta laringite, giusto perché, quando c’è da infilarsi in una disgrazia, è sempre meglio scegliere la peggiore – un concerto annullato – probabilmente più d’uno, per quanto Tom fosse certo più o meno metà del mondo stesse sperando il contrario, mentre l’altra rideva sadicamente – e, per di più, dover tornare a casa praticamente da solo.
- Vai. – ripeté, consegnandolo letteralmente fra le braccia di David.
Non poteva guardarlo più. Non ci riusciva.
Si alzò lentamente, raggiungendo Georg e Gustav già pronti ad entrare in scena.
Prese un enorme sospiro e si mosse.
*
Io non ce la faccio.
Io non ce la posso fare.


Non riusciva proprio a capire se la quantità enorme di ragazzine che stava fronteggiando li amassero tutti alla follia o li odiassero a morte.
In effetti, non era un particolare veramente rilevante. Si sentiva comunque in pericolo di vita.

Non posso nella maniera più assoluta. Non da solo.
È Bill che parla, in questi casi. Io, al più, dico una cazzata al volo per far ridere tutti.
È Bill quello degli annunci seri. Quello del cuore e del cervello. Quello che spiega le cose come stanno.

Io non ce la posso proprio fare. Sul serio.


- Ci dispiace molto… - cominciò, dondolandosi incerto sulle gambe e torturando la maglietta in maniera del tutto irrazionale, - Bill sta molto male. – e dirlo gli metteva sulla lingua davvero un brutto sapore. Un sapore amaro e pungente. Fastidiosissimo. Aveva la nausea. – Ha perso la voce. – Dio. Dio, Dio, Dio. La sua voce. – In questo momento sta tornando in Germania, per farsi visitare da uno specialista… - il boato che si alzò dalla folla lo terrorizzò ancor più di quanto non fosse già. Georg e Gustav, dietro di lui, respiravano così affannosamente che poteva sentirli nonostante tutto. Era consolante, in un certo senso, sentire un sentimento condiviso in quel modo. Era tremendo, per altri versi, che nessuno potesse condividere il suo sentimento nella sua pienezza. Solo Bill. E Bill non c’era. – Ci dispiace molto, per oggi. Ma torneremo, il ventinove giugno. I vostri biglietti sono ancora validi per quella data.

Lo sono ancora. Anche se in questo momento sto odiando l’Europa intera. E tutte quante voi. E l’Universal, e David, e me stesso ed anche Bill e tutto il mondo a seguito.
Vorrei che questo tour non fosse mai cominciato. Vorrei che Bill non si fosse mai ammalato.
Vorrei essere con lui. Cazzo.


La donna al suo fianco aveva tradotto per le fan. Ulteriori boati. Lacrime a fiumi.

Spero stiate piangendo perché siete in pena per lui.

Aveva preteso il microfono, e salutato tutte un’ultima volta. Non c’era motivo per cui non dovesse credere alla loro buona fede.
Tornando nel backstage, s’era sentito cedere. Di David e Bill non c’era più alcuna traccia. Immaginò suo fratello fosse già in aeroporto. Possibilmente sull’aereo.

Oddio.
Dovrò tornare in aereo senza di lui.


Scosse decisamente il capo. Pensieri come quello erano del tutto fuori luogo.
Gustav gli batté una mano sulla spalla, passandogli frettolosamente accanto.
- Forza. – lo incitò conciliante, - Sbrighiamo questa pratica e torniamo a casa.
*
Gli sembrò di essere in grado di tornare a ragionare normalmente soltanto quando mise piede in casa. C’erano quasi tutte le luci spente, e l’ambiente era avvolto in una cortina di silenzio irreale e spaventosa. Georg e Gustav si ritirarono quasi immediatamente nelle loro camere: erano esausti. Lui, invece, si diresse istintivamente verso la luce.
Davanti al portatile acceso, nel piccolo studio attiguo alla sala, David monitorava qualcosa come dieci forum diversi, mordicchiandosi le labbra con aria perplessa.
Quando lo sentì entrare, sollevò lo sguardo e poi scattò immediatamente in piedi, raggiungendolo sulla porta.
- Meno male. – gli disse, abbozzando un sorriso e stringendogli rassicurante una spalla, - Siete stati bravi. Fermi e concisi.
Anche Tom si sforzò di sorridere, abbassando impercettibilmente lo sguardo.
- È tutto a posto? – chiese poi, indicando il computer con un cenno del capo.
- Solite noie. – sbuffò David con una smorfia, - Niente di irrimediabile.
Lui annuì, inumidendosi le labbra. Era nervoso. Elettrico.
- David…
- Sta bene. – rispose lui, sorridendo, senza nemmeno lasciarlo finire, - Cioè, bene magari è una parola un po’ grossa, ma la situazione non è così drammatica. Certo è che per ora è completamente afono. – aggiunse con un sospiro, - Madrid salta per forza.
Tom annuì meccanicamente. Un movimento così rigido che gli fece male al collo.
- Allora io… vado a dormire… - mugugnò incerto, indietreggiando verso la porta.
- Tom. – lo richiamò David, prima che riuscisse ad uscire, costringendolo a fermarsi, voltarsi indietro e guardarlo. – Tuo fratello… - cominciò, con un sorriso un po’ intenerito ed un po’ irrimediabilmente divertito, - ha preteso che gli facessi vedere il filmato dell’annuncio. Credo che metterlo online sia stato il primo pensiero delle fan, tornando a casa. – rise piano, e rise anche Tom. – Mi ha detto di dirti che è molto orgoglioso di te.
Tom sollevò lo sguardo su di lui, schiudendo stupito le labbra. Ma non disse niente.
- Lo siamo tutti. – concluse David, sorridendo più apertamente. – Buonanotte.
*
Bill dischiuse subito gli occhi, quando sentì la lievissima pressione delle sue dita fra i suoi capelli. Non voleva svegliarlo, solo che la frangia era scesa a coprirgli il viso fino al naso, ed aveva paura che potesse dargli fastidio, e quindi…
…be’, sì, si sentiva molto stupido.
- Scusa. Torna a dormire… - disse, cercando di sorridere tranquillamente.
Bill scosse il capo e non parlò. Non poteva, ma non è che ci fosse davvero qualcosa da dire, in ogni modo.
- Vuoi… - deglutì. Il saporaccio sulla lingua era ancora lì. Forse s’era un po’ attenuato, però. - …posso restare? – si decise a chiedere, torturandosi il labbro inferiore con gli incisivi, - Sai, - aggiunse in una mezza risata imbarazzata, - credo di avere una quantità di coraggio piuttosto limitata. E di averla pure esaurita tutta.
Bill ridacchiò. Pianissimo. Un suono appena percettibile.
Ma si spostò più in là sul materasso, e sollevò le coperte perché Tom potesse prendere posto accanto a lui.
Scivolò sul materasso senza neanche svestirsi, lanciando lontano le scarpe con un calcio disinteressato. Bill mugolò soddisfatto, accoccolandosi contro di lui ed affondando il viso nel suo petto.
Riuscì a prendere sonno solo quando sentì il suo respiro tornare lento e regolare.
Era ancora preoccupato. Ma standogli accanto, in qualche modo, sembrava tutto incredibilmente più facile. Magari, per arrivare alla fine di quella brutta storia, non sarebbe servito poi tantissimo coraggio. Solo qualche abbraccio in più.
…e, probabilmente, un’altra settimana di guance da criceto.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Lemon, PWP.
- Salta fuori che i gemelli sono andati a vivere insieme in un appartamento per due. La produzione pretende un'intervista per parlare apertamente della cosa. A David l'ingrato compito di dirlo a Bill e Tom. Che ne fanno un affare di sesso. E di primaria importanza, anche.
Note: O___O Lo so. Cioè, lo so O_______O È allucinante. È una porcata, è volgarissima ed è assurda O___ò Vorrei anche poter dire “è una PWP”, ma su questo glissiamo, cortesemente. Doveva e voleva esserlo. Non solo è degenerata in una schifezza, ma è degenerata pure in una roba seria. Non ho parole, il mio coefficiente di discutibilità va aumentando di fanfiction in fanfiction. Vi prego solo di non odiarmi e tollerarmi T.T Prima o poi passerà a ricomincerò a scrivere cose vagamente decenti.
Comunque ho una quantità enorme di persone da ringraziare (e con cui scusarmi, per riflesso XD). Quindi: grazie in primo luogo a Bea ed Elisa, che mi hanno mostrato il video in cui Bill e Tom litigano. Video al quale ho reagito sbottando “ma come fa Tom ad essere sexy pure quando litiga?”. Frase che poi è incomprensibilmente sfociata in “devo scriverci su una PWP!”. Intento che poi s’è trasformato in questa fanfiction. E poi la gente mi chiede perché mi ritengo stupida. Voglio dire…!
Grazie anche alla mia neechan, che mi ha fatto un bannerino stupendo <3 Che è stato molto d’incentivo per costringermi a finirla nonostante se ne stesse andando per i fatti propri. E che la leggeva e mi diceva cosa ne pensava, salvandomi dalla paranoia. E devo anche scusarmi con lei, perché nessuno ti farà mai male quanto me è un verso di Konstantine dei Something Corporate. E io non l’avrei mai conosciuta senza di lei. E mi dispiace di averlo usato in questa fic, ma ci stava troppo ç.ç Lo so che serve pure per un’altra cosa ç.ç *si prostra ai piedi della neechan invocando pietà*
Solito ringraziamento a Nai che è evidentemente onnivora (o filolizzica, perché si ostina a leggere tutto ciò che produco nonostante certe volte mi esprima in cagate pazzesche tipo questa). È anche merito suo se la fic ha preso una piega particolare: lei mi ha rivelato che Bill e Tom erano pazzi. Perciò era ovvio che andasse così.
Un grazie immenso anche a Sara: non fosse esistita lei (e non fosse esistito 99 Luftballons), tutta la tirata autocitazionista pseudo-romantica di Tomi non avrebbe mai avuto luogo. Mi scuso anche perché mi pare di aver attinto un po’ ad uno stile piuttosto decadente che ricorda un po’ le sue storie. Spero proprio di non aver toppato niente e di aver rielaborato il tutto per come giusto e doveroso. Comunque la ringrazio, perché le sue storie sono splendide e fonte d’ispirazione perenne e io la amo <3
Con le fangirl (e con l’adorata Meg, soprattutto!) devo scusarmi per la volgarità immane e disgustosa di Bill sul finale X’DDD Ma insomma. Una volta tanto, ci sta pure che non sia solo Tomi, quello zozzo. Oh. Io sono per le pari opportunità!
Ciò detto, ho concluso. Grazie per la pazienza, come sempre la logorrea rischia di ammazzare me e tutti coloro che mi circondano “XD Bacioni ^*^
PS: Mi scuso per eventuali castronerie o errori di battitura, ma ho promesso alla neechan che gliel’avrei fatta trovare pubblicata domattina, perciò non ho tempo per il betaggio >_<
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ANGRY SEX

Tom era rimasto spalmato sul divano in quella sua posa abbandonata e tremendamente caratteristica da quando erano rimasti soli. Quando David era uscito, strillando infuriato che per quel che lo riguardava potevano decidere quel cavolo che volevano, purché si presentassero l’indomani all’intervista con Bravo con qualcosa da dire, Bill s’era immediatamente alzato, ed aveva preso a vagare dal soggiorno alla cucina con aria isterica, digrignando i denti ed ignorando il telefono quando aveva squillato.
Dal canto proprio, neanche Tom aveva fatto qualcosa per sgretolare quella tensione infantile ed ostinata che s’era creata fra loro.
Non aveva fatto niente anche perché dipendeva soprattutto da lui se la situazione era quella.
Avevano litigato come furie, davanti ad un manager del tutto allibito, per una cazzata che aveva assunto proporzioni cosmiche senza un valido motivo. O meglio, per un motivo che Bill trovava validissimo e che Tom non poteva fare a meno di giudicare idiota.
“È trapelata la notizia che siete venuti a vivere qui da soli”, aveva detto loro David, con l’aria pensosa e un po’ scazzata che metteva su quando aveva da ridire con la casa discografica, “La produzione vuole un’intervista. Bravo”.
Bill e Tom avevano prevedibilmente storto il naso e mimato una smorfia di puro disgusto, ritirandosi sul divano come due ricci.
“Lo so, lo so”, aveva continuato il manager, massaggiandosi la fronte, “Non abbiamo alternative, temo. Allora? Che si fa?”.
E poi era precipitato tutto.
Era precipitato tutto perché avevano entrambi sentito proprio il malsano bisogno di ricordare che nonostante la convivenza e l’attaccamento e tutto erano comunque due persone differenti, e perciò avevano sbottato l’uscita contemporanea più triste della loro intera storia.
“Ovviamente confermiamo”, aveva detto Bill.
“Smentiamo tutto”, aveva detto Tom.
David li aveva guardati entrambi con aria curiosa, e loro s’erano voltati l’uno verso l’altro, aggrottando le sopracciglia.
“Tom!”, l’aveva richiamato il gemello, sottintendendo un fin troppo palese non fare il bambino che lui non aveva gradito affatto.
S’era praticamente voltato dall’altra parte, nonostante avesse da tempo passato i cinque anni, lamentandosi che le voci che circolavano su di loro erano già abbastanza fastidiose senza che dovessero per forza metterci il carico da undici annunciando una convivenza con tutti i crismi.
Bill l’aveva presa malissimo.
“Non hai protestato tanto, quando l’abbiamo deciso!”, aveva urlato, tanto per cominciare, per poi proseguire con tutta una sequela di insulti di fronte ai quali perfino David aveva sentito il bisogno fisiologico di impallidire.
David faceva bene a sconvolgersi.
Il problema era che non aveva la più pallida idea del perché effettivo per il quale avrebbe dovuto farlo.
*
La loro relazione era cominciata già da un po’. Almeno, così avrebbe detto Tom, se avesse dovuto ridurre i termini del suo rapporto con Bill su un piano di “normalità”.
La loro relazione era cominciata già da un po’.
In realtà, la loro relazione non era mai cominciata davvero. A meno che non fosse stato concesso loro di mettere il punto d’inizio nel momento esatto in cui erano venuti al mondo. Ma metterla in questi termini suonava un po’ eccessivo anche per loro, che dell’eccesso avevano fatto una politica di vita.
Quindi, “la loro relazione era cominciata già da un po’”. Almeno da quando avevano avuto la sfiga di ubriacarsi entrambi e risvegliarsi da una trance alcolica parecchio agitata nel bel mezzo di un bacio umido e violento che non aveva potuto aspettare neanche una camera da letto, per avere luogo.
Tom avrebbe ancora potuto descrivere con estrema dovizia di particolari il proprio sguardo terrorizzato riflesso in quello ugualmente terrorizzato di Bill. Non è bello riprendere coscienza di te dopo circa tre ore di totale assenza di raziocinio ed accorgerti che se nella tua bocca c’è ancora una sola lingua è unicamente perché la tua è impegnata ad esplorare la bocca di tuo fratello.
L’ubriachezza poi era passata, ovviamente.
Altrettanto però non si poteva dire dei baci.

Seriamente: quanto schifo fanno gli esseri umani? Non riesco nemmeno a guardarlo senza desiderare di…

E “desiderare” era diventato prestissimo “fare”.
Fare era un problema. Era un dannatissimo problema, soprattutto se dovevi condividere la casa con altre tre persone.
Fare era diventato impossibile, nel loft di Amburgo.
Perciò, per fare più tranquillamente, s’erano trasferiti.

Ecco perché David dovrebbe essere irrequieto. Mica per altro.

Vista la situazione, comunque, non c’era da stupirsi se Bill l’aveva presa tanto male, quando lui aveva affermato che, di fronte all’immenso popolo adolescenziale tedesco, avrebbe negato la loro convivenza.
Poteva immaginare perfettamente i pensieri del proprio gemello. Qualcosa di molto simile a “e che cazzo, Tom!”. E basta. Perché non c’era davvero bisogno di aggiungere altro, oltre ad una protesta volgare ed esasperata. Il sottinteso, in effetti, era già fin troppo evidente: non ti chiedo mica di ammettere che scopiamo, stronzo vigliacco che non sei altro, ma almeno non rinnegarmi come fossi una malattia infettiva.
Tom poteva perfino capire la sua rabbia. In fondo, se avesse dovuto avere a che fare con se stesso, si sarebbe detestato da solo. Sapeva di poter raggiungere vette di intollerabilità considerevolmente alti. Era una specie di talento naturale del genere.
In qualche modo, però, non era solo odio ciò che Bill provava per lui. La sua rabbia non faceva che confermarlo.

Fece per alzarsi dal divano e dirigersi stancamente verso la camera da letto, nel tentativo di affogare nel sonno almeno un po’ di quell’angoscia immotivata che l’aveva preso appena aveva capito che avrebbe dovuto ammettere di essersi trasferito in un appartamento per due col proprio fratello, ma non riuscì neanche a compiere un passo prima di essere fermato da una voce tonante, infastidita e che conosceva fin troppo bene.
- Dove credi di andare?
*
Bill sospettava che, anche sforzandosi per mille anni, non sarebbe mai riuscito a capire veramente per quale motivo suo fratello godesse tanto nel farlo infuriare. Eppure erano sempre stati appiccicati, fin dalla nascita. Non si erano mai separati per più di una settimana, a voler esagerare. E non aveva neanche l’alibi dell’“non ti conosco molto bene come persona”, perché accidenti, se esisteva un essere umano in tutto il mondo a poter vantare di conoscerlo, be’, quello era Tom. E sapeva perfettamente cosa lo mandava in bestia, così come sapeva perfettamente quali toni non doveva usare con lui e cosa poteva permettersi di dire senza meritare un calcio nelle palle o meno.
- Dove credi di andare? – gli chiese, trattenendo a stento l’irritazione nella voce, una mano saldamente piantata su un fianco e un piede a scandire il ritmo nevrotico del battito del proprio cuore sul pavimento.
- In camera. – rispose Tom senza cambiare espressione.

Sai anche che voglio litigare. E sei uno stupido stronzo vigliacco, se me lo lasci fare.

- Ti senti a disagio, Tomi? – sibilò, sottolineando il suo nome con una nota sarcastica e pungente che vide riflessa nella piccola ruga che si formò fra le sopracciglia di suo fratello.
- No. Tu invece ti senti particolarmente stronzo?
Non aveva usato soprannomi. Non aveva usato ironia.
Probabilmente voleva solo restituirgli il colpo.

Seriamente: siamo due idioti. Avevamo un rapporto stupendo, prima di imbarcarci in questa follia. Perché abbiamo dovuto rovinare tutto…?

- Sei stato scorretto! – lo rimproverò, andandogli vicino con incedere bellicoso, - Scorretto ed offensivo! Cosa ti costa ammettere che vivi con me? Tanto ormai lo sanno già tutti!
- Mica è normale andare a vivere con tuo fratello quando ci si potrebbe permettere anche due o tre appartamenti per ciascuno. – ritorse lui, guardando altrove.
- Non è normale neanche scopartelo, il fratello con cui vivi. – asserì cupo.
Tom digrignò i denti. Un rumore minuscolo, appena percettibile, eppure spaventoso e densissimo.
Bill si ritrovò coi brividi su tutto il corpo.
- Vado in camera. – annunciò Tom, dopo essersi preso abbastanza tempo per calmarsi ed evitare di vomitargli addosso la sequela di insulti che avrebbe meritato.
- Tu non vai da nessuna parte. – soffiò Bill, ed in due passi gli fu accanto, lo arpionò per il polso e lo trattenne vicino a sé, stringendo tanto da farsi male da solo.
Tom era tesissimo. I suoi lineamenti erano duri e contratti. I suoi occhi brillavano di fastidio. Tremava quasi. Anzi, tremava proprio: il suo labbro inferiore sembrava incerto fra la prospettiva di aiutare la bocca a rovesciargli addosso tutta la frustrazione che stava provando e quella di obbligarla a chiudersi e restare in silenzio.
Bill rimase immobile a guardarlo, senza lasciarlo andare, e Tom si sporse verso di lui.
- Stai passando il segno. – gli bisbigliò addosso, - Non mi fare incazzare, Bill.
Lo affrontò a muso duro, senza spostarsi di un millimetro, nonostante il suo fiato sulle labbra lo avesse completamente terrorizzato. Tom era un ragazzo dolce, ed era anche un ragazzo inoffensivo. Ma Tom sapeva pure farti paura. Tom non aveva bisogno di minacciarti, per farti sentire sotto scacco.
La minaccia di Tom era di tipo incredibilmente fisico. Gli stava dicendo “guarda che non abbiamo più tredici anni. Non sarei più io, a prenderle”. Glielo stava dicendo e non solo non aveva bisogno di dirglielo, ma neanche di farglielo notare in maniera particolarmente smaccata. In fondo, lo stava solo guardando. In fondo, era solo il suo dannato respiro addosso. In fondo, era solo la sua bocca ad un centimetro dalla propria. In fondo, erano solo i suoi occhi a scrutarlo con quella vena di cattiveria priva di scrupoli che può esistere solo tra fratelli, perché solo tra fratelli sei sicuro che anche se tiri la corda un po’ troppo, anche se la tiri tanto da lasciare i segni sulla pelle, prima o poi sarai perdonato. Perché le corde a lungo andare si spezzano, certi legami invece no.
Era un po’ frustrante che Tom potesse avere simili privilegi. Poteva essere scorretto come un fratello e concedersi anche i capricci di un amante. Non doveva giustificare mai praticamente niente.
Poteva dirgli cose come quella.
E passarla liscia.
Come fratello e come amante.
Su tutta la linea, sempre.
Bill strinse le dita sottili attorno al suo polso, più di quanto non avesse fatto fino a quel momento. Vide la decisione di Tom incrinarsi, nello stesso istante in cui un brevissimo segno di dolore gli attraversò gli occhi, prima che lui potesse tornare perfettamente padrone delle proprie sensazioni.
Bill lo osservò con attenzione. Tom si passò la lingua fra le labbra e poi si mordicchiò il labbro inferiore, come volesse resistere all’impulso di spaccargli la faccia, e potesse farlo soltanto investendo la propria aggressività in qualche altra attività.
Il movimento della sua lingua era ipnotico, accidenti a lui.
Tutti gli svantaggi sia dei fratelli che degli amanti.

Ho davvero fatto male a scegliere proprio mio fratello come amante.

Si sporse in avanti, ed erano talmente vicini che le loro labbra si incontrarono praticamente subito. Meglio: un tragitto troppo lungo avrebbe costretto Bill a pensare e pentirsi.
Un tragitto troppo breve, però, non gli dava modo di riflettere abbastanza.
Dischiuse le proprie labbra su quelle di Tom, e cercò la sua lingua con la propria, ma suo fratello non rispose con la stessa sollecitudine. Anzi, si tirò indietro, strattonando violentemente il braccio e liberandosi anche della sua stretta, rimanendo poi a guardarlo con aria infastidita.
- Non sono proprio in vena. – gli disse Tom, stringendosi il polso con una mano e massaggiandolo dolcemente.
- Neanche io. – scollò lui a mezza voce, non prima di aver buttato giù deglutendo un magone non meglio identificato che s’era formato e fatto immenso nella sua gola in quei pochissimi secondi, - Non lo so perché ti ho baciato. – concluse, abbassando lo sguardo sul polso di Tom, sulla cui pelle dorata spiccavano dei segni rossastri che sarebbero probabilmente diventati lividi a breve.

Non lo so davvero, giuro.
Forse perché quando riporto tutto al piano fisico smetti subito di essere arrabbiato con me.
Forse perché voglio fartela pagare.
Forse perché sei sempre bellissimo.

Ma in realtà non so neanche perché abbiamo litigato, Tomi. Non lo so e non m’interessa, perché al momento desidererei solo non averlo mai fatto. Non averti mai chiesto niente. Non aver mai preteso quella dannata conferma. Non aver mai preteso neanche un bacio, da te.
E dire che so di avere ragione…
So che le mie pretese sono legittime. Perché perfino la parola amore è troppo riduttiva per noi, troppo scontata, troppo labile, non abbastanza densa. Tutte le mie pretese sono legittime. Perché dopo di te non viene niente, e tu lo sai.

Però io ti odio quando tu odi me. E non puoi negarlo: ci sono dei momenti in cui mi odi con tutto te stesso.


Sì, forse era proprio per questo che adesso aveva tanta voglia di baciarlo, di accarezzarlo, di spogliarlo. Perché lo odiava. Perché sentirsi odiato da lui lo riempiva di una paura irrazionale e di una quantità di rabbia tale che da solo proprio non riusciva a sopportarla. E per questo giocava anche con la rabbia di Tom. La istigava, la fomentava, la coltivava come una piantina e poi la osservava affacciarsi e germogliare.
Senza nessuna soddisfazione. Ma almeno non era più l’unico a covare sentimenti tanto meschini.
Si sporse ancora, afferrando Tom per il colletto della maglia e tirandoselo vicino, cercando le sue labbra con più prepotenza. Lui combatté, ribellandosi un poco, tirandosi indietro fino a lambire la parete con la schiena, e poi, quando capì che nessuna rivolta fisica avrebbe potuto fermarlo, mentre insisteva a giocare con la sua lingua, riversò tutta la propria rabbia nel loro bacio. Lo afferrò a propria volta per il colletto, tirandoselo contro esattamente come aveva fatto Bill poco prima.
Era un gioco di supremazia.
Un gioco che aveva vinto sempre Tom.
Perché era lui il più capriccioso fra loro due. Era lui il più spaventato.
Era lui il meno… coinvolto, forse?

Vaffanculo. Il solo pensiero mi dà la nausea.
Vaffanculo, vaffanculo, Tom. Se è vero, non te lo permetto.


Si separò da lui, richiudendo immediatamente le labbra sulla pelle sensibile del suo collo, prendendo a succhiarla avidamente, come un vampiro. Pericoloso come una bestia affamata. Tom lasciò andare un lamento che aveva poco di compiaciuto e molto di stupito e sofferente.
Non era affatto delicato.
I suoi modi erano sempre stati bruschi.
Non era lui quello bravo a letto.
Non era lui quello che sapeva sempre cosa fare.
Non era lui quello sempre gentile premuroso buono dolce tutto.
Quello era Tom. Tom sapeva sempre dove mettere le mani. Tom sapeva sempre cosa toccare e quando farlo. Tom era il re.

Non oggi, fratellino.

Lo costrinse a voltarsi, afferrandolo per la vita e schiacciandolo contro il muro, mentre Tom sbottava in un altro lamento improvviso e portava avanti le mani, per frapporle fra il proprio viso e la fredda solidità della parete.
Era leggerissimo.
Davvero leggerissimo.
Gli si gettò addosso, aderendo completamente a lui. Poteva sentire la sua schiena inarcarsi contro il proprio petto. Era una sensazione incredibilmente inebriante: aveva preso il potere dove Tom lo reggeva più saldamente. Stava comandando lui.
Era solo l’illusione di un attimo, e lo sapeva bene, ma era dolce. Dolcissima.
- ‘Cazzo fai? – ansimò Tom, spingendosi contro di lui per allontanarsi dal muro, ed ottenendo come unico risultato soltanto che lui si sentisse ancora più eccitato dalla situazione.
Bill non rispose. Si limitò a scivolare con le mani sotto la sua maglietta, divorando centimetri su centimetri di pelle caldissima, dall’inguine al ventre al petto, e fermandosi a giocare distrattamente con i capezzoli.
- …hai le dita fredde… - borbottò a bassa voce Tom, ansimando pesantemente un paio di volte, prima di riacquistare potere sul proprio respiro. – Smettila.
Suo fratello scosse il capo, chinandosi sulla curva del suo collo ed assaggiando la pelle salata dalla nuca alla sommità della spina dorsale. Sentì Tom rabbrividire sotto le sue labbra, ed inarcarsi ancora di più contro il suo petto, fino a fare aderire completamente i loro bacini.
Fu in quel modo che si accorse della sua erezione.
- Che ti sei messo in testa? – gli chiese ancora. Ma sapeva già che Bill non avrebbe risposto.
Le sue dita continuarono inesorabilmente a marcargli la pelle in un viaggio lento e quasi sfiancante, tornando indietro dal petto fino all’elastico dei boxer, al quale si appesero con falso disinteresse.
Tom rimase in silenzio per un po’, considerando con cura la pressione lieve di quelle curatissime dita addosso alla sua pelle ormai bollente, e poi si lasciò andare ad un ghigno poco divertito e molto infastidito, poggiando la fronte contro la parete.
- Se devi farlo, fallo.
Bill si mordicchiò un labbro.
- Non se tu non mi guardi. – disse a bassa voce. Ed era un sibilo incattivito. Quanto di più lontano dal sesso potesse esistere. Ed anche quanto di più vicino.
Afferrò Tom per le spalle, costringendolo a voltarsi e schiacciandolo di nuovo contro il muro. Affrontò con coraggio tutta la rabbia e la disapprovazione che leggeva nei suoi occhi, ricevendo in cambio solo un’occhiata di schermo che lo ferì davvero profondamente – ma d’altronde, suo fratello era sempre stato un campione nel fargli del male. In ogni modo possibile. Non c’era nessun dolore che potesse essere paragonato a quello che gli procurava suo fratello quando lo feriva consapevolmente.
Lo baciò ancora, senza neanche chiudere gli occhi. Tom invece lo fece. Abbassò le palpebre e si rifiutò di guardare oltre.
Un’altra piccola vittoria.
Un’altra vittoria inutile.
Gli sbottonò i jeans, pressandosi contro di lui e prendendo macchinalmente atto dell’erezione che, alla fine, aveva colto anche lui.
Era più un dato di fatto che una constatazione stupita.
C’era più qualcosa che potesse davvero meravigliarlo? S’era giocato perfino la più minuscola traccia di felicità, innamorandosi – se poi amore era davvero – di quello stronzo di suo fratello?
I jeans di Tom caddero a terra immediatamente – enormi e ingombranti e totalmente inutili com’erano – nel momento stesso in cui Bill lo liberò dalla cintura. Eliminato l’ostacolo dei vestiti, non fu difficile ritrovarsi a breve completamente coperto contro la pelle di suo fratello – completamente nudo.
Era dannatamente eccitante.
Lo stava odiando in quel momento come mai.
Perché era uno stronzo, un bugiardo, un codardo ed un egoista.
Lo desiderava al punto da stare male.
Tom gli sollevò gli occhi addosso e rise apertamente.
- Ed ora che intendi fare? – chiese, sfidandolo.

Bastardo. Tu dovresti sentirti in soggezione. Dovresti sentirti piccolo e stupido.
Sei nudo.
Ed io sto comandando l’azione.
E sto per mettertelo nel culo, brutto stronzo.
Io ti odio, ti odio a morte, ti odio, ti odio…


Lo afferrò per i fianchi, spingendoselo ancora contro. Voleva scoparselo. Voleva essere lui a scoparselo. E voleva che Tom lo guardasse in faccia, mentre lo faceva. Voleva che lo vedesse distaccato e padrone e cattivo ed impietoso. Voleva dimostrargli che poteva esserlo anche lui. Che non doveva passargli neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di essere lui “a comandare”.

Non c’è nessuno che comanda, qui, Tomi.
Neanche io, è tanto ovvio che mi sento quasi stupido.
Non comando neanche io, ma quanto è vero che ti odio e ti amo e ti vorrei morto e solo mio, non comandi neanche tu.


Tom era davvero leggerissimo. Quasi neanche sentiva il suo peso, nonostante fosse lui l’unico a reggerlo, a più di un metro da terra, schiacciato contro la parete congelata. Le gambe intrecciate dietro la sua schiena, Tom aveva piantato le dita sulle sue spalle ed aveva cercato una posizione che non fosse scomoda né eccessivamente ridicola, e poi s’era sdraiato leziosamente contro il muro, osservandolo con un sorriso irridente sulle labbra.
Bill aveva sollevato due dita ed aveva studiato attentamente il suo profilo coi polpastrelli, neanche dovesse premurarsi d’imprimerselo nella memoria in modo quasi fisico – anche più di quanto già non fosse. E quelle stesse dita, poi, le aveva fatte passare attraverso le sue labbra. L’aveva obbligato a leccarle, succhiarle, bagnarle e renderle scivolose e sfuggenti. L’aveva obbligato ad essere lui stesso il garante di ciò che stava per accadere.

Ed allora perché? Perché, anche se sono io ad importi le cose, sembra sempre che sia tu a concedermele?

Lo accarezzò lentamente fra le natiche, stuzzicando con le dita umide la sua apertura, senza però mostrare segno di volerla forzare. L’aveva guardato ancora in faccia, ma Tom era su un altro pianeta: gli occhi chiusi ed il capo abbandonato fra spalla e parete, respirava pesantemente e probabilmente s’era pure reso conto della sentenza che s’era tirato addosso.
Bill lo afferrò per il mento, strattonandolo poco delicatamente verso di sé e costringendolo a guardarlo, mentre, in un gesto quasi unico, lo penetrava sbrigativamente con un dito. Tom si morse un labbro con inaspettata violenza, ma non gli concesse neanche la soddisfazione di un mugolio. Piuttosto, si sporse in avanti e gli afferrò un labbro fra i denti, mordendolo con la stessa violenza con la quale s’era morso da solo.

Il tuo sangue ed il mio sangue hanno esattamente lo stesso sapore.

Non ho intenzione di risparmiarti niente.


Non aspettò neanche che Tom si fosse abituato alla presenza estranea del suo dito nel proprio corpo, prima di sfilarlo senza alcuna dolcezza e sostituirlo con qualcosa di ben più pericoloso.
E sarebbe stato stupendo, per Tom, che il dolore fosse una questione di poco conto. Perché così avrebbe potuto continuare a ricoprirlo di ghigni e supponenza, ed oltre a frustrarlo non avrebbe cambiato niente.
Ma il dolore non era una questione di poco conto.
E perciò Tom urlò.
Urlò e si gettò indietro, sbattendo lievemente la testa, prima di tornare a spingersi in avanti ed affondare il viso fra i capelli di Bill, mentre lui continuava a penetrarlo.

Senza la minima pietà.
Cos’è che si prova, Tomi?
Fa male, vero?


E dire che suo fratello non l’aveva mai fatto soffrire in quel senso. Era sempre stato discreto, delicato, dolce, devoto. Gentilissimo. Era sempre stato capacissimo di anestetizzarlo con mille cure, mille rimedi, mille droghe naturali tutte proprie. Il suo profumo, le sue carezze, i suoi baci, quelle mani caldissime ed incredibilmente talentuose, perfino in quel frangente.
Ma Tom era immune a qualsiasi tipo di sofferenza emotiva. Perché rispondeva alla cattiveria con la rabbia e con altra cattiveria, mai con la tristezza. Era intoccabile.
L’unico modo in cui poteva farlo soffrire, l’unico modo in cui poteva fargli pagare almeno una parte di tutto il dolore che gli causavano le smentite, le battutacce e le groupie che continuava a frequentare in nome di una reputazione che non poteva in alcun modo essere ridimensionata, o “cos’avrebbero pensato tutti?”, era quello.
Male fisico in cambio di male sentimentale.

Non potrei mai dirtelo.
Non capiresti mai.


Continuò a spingersi impietoso dentro di lui. Senza neanche offrirgli il sollievo di una carezza.
Tom, per conto proprio, non ne cercò.
Quando gli si abbatté addosso, ansante, dopo essere venuto, Tom rise pianissimo contro il suo orecchio, prima di baciarlo.
- Me lo sono meritato, eh…? – lo sentì sussurrare.

Non so se ridere o piangere.
Pure se lo sapessi, credo non farei niente del genere.

*
Anche a voler essere particolarmente indulgente con se stesso, Tom non si sarebbe mai perdonato per ciò che aveva lasciato accadesse quella notte. La notte in cui, per la prima volta in assoluto, lui e Bill s’erano concessi di riposare in un abbraccio caldissimo e privo di schermi, non avevano perso solo il candore e l’innocenza del loro rapporto: avevano perso anche l’amore.
Di amore in senso stretto non avevano nemmeno mai parlato, per dirla tutta. Suonava scontato, suonava banale, suonava pure assurdo svegliarsi una mattina ed ammettere ad alta voce qualcosa che in fondo avevano sempre saputo.
Però, da quel giorno in poi, di amore non c’era stata proprio più traccia. Restava l’odio di quando litigavano furiosamente, la gelosia di quando non si dedicavano abbastanza tempo e la frustrazione derivante dal dover vivere i loro sentimenti nel più discreto e perfetto silenzio.
Andando a letto con Bill, Tom aveva perso un fratello. E non aveva guadagnato niente.

Se non è sfiga questa.

Se non è idiozia…


Seduto sul divano accanto a lui, Bill fissava il vuoto con aria assorta. Le sopracciglia aggrottate e le labbra strette in una smorfia di disagio e disappunto, sembrava un bimbetto che avesse appena capito di aver compiuto l’errore più madornale della sua intera esistenza.
Era mortalmente carino.
Sollevò stancamente un braccio, poggiandoglielo sulla guancia e ravviandogli dietro un orecchio una ciocca di capelli scivolata a solleticargli il viso.
- Che c’è? Prima fai le cose e poi ti incupisci? Così uno come fa a rimproverarti?
Tutto il suo corpo si tese, e Bill si raggomitolò ancora di più su se stesso, allontanandosi da lui. Tom si lasciò andare ad una risata breve quanto assassina, prima di scivolargli addosso.
- Fammi un po’ di spazio, va’. Sono tutto dolorante. – borbottò, costringendolo a distendere le gambe per poggiare il capo sul suo grembo. – Non sei affatto bravo. Sei un egoista pure nel sesso. L’avevo sempre sospettato, ma ora ne ho le prove. – si lamentò. Ma sorrideva. E questo era un dettaglio che a Bill proprio non poteva sfuggire.
- …scusa… - sussurrò infatti, mordendosi l’interno di una guancia, probabilmente per non scoppiare a piangere come un moccioso.
Tom scrollò le spalle.
- Se mi prometti che la prossima volta sarai più delicato, te lo faccio rifare.
Anche Bill sorrise lievemente, chinandosi su di lui per rubargli un bacio a fior di labbra.
- Guarda che non mi hai lasciato fare niente… - precisò, tornando a raddrizzare la schiena, - Quello che mi hai “dato”, me lo sono preso io…
Tom rise, sollevando giocosamente una mano a tirargli piano i capelli.
- Presuntuoso pure!
- E tu sei una merda. Lasciami andare, mi fai male! Ma chi cavolo me l’ha fatto fare di accettare quest’assurdità…
Tom piegò le labbra in un ironico sorriso di scherno.
- Nessuno ti farà mai male quanto me. – commentò a mo’ di risposta.

Già. Ed io non sono me stesso quando tu non sei accanto a me, e nella luce della luna restiamo solo noi due, e dopo di te non viene niente, e nella notte… nella notte…
…vero, Bill?


Bill non aggiunse una parola.
Aggiunse solo un bacio. Di quelli che mettono punto e suonano pure come una – l’ennesima – resa incondizionata.
Forse non era neppure così fondamentale parlare d’amore, in fin dei conti.
- …ma sono le tre del mattino! – strillò Bill, scattando in piedi e rovesciandolo violentemente sul divano, - Ma ‘cazzo abbiamo nella testa?! Domani abbiamo l’intervista alle otto! Cristo! Che diremo a David?!
- …wir wollten nur redden?
Bill lo sferzò con una tale occhiataccia che non solo Tom desiderò di non aver mai suggerito quell’ipotesi, ma anche di non aver mai avuto delle labbra per parlare né una mente per ideare pensieri – dementi o sensati che fossero.
- Tom? Comincio a pensare che non dovevo tapparti il culo, ma la bocca.
Tom spalancò gli occhi, rabbrividendo letteralmente dalla punta dei piedi alla punta dei capelli. Dopodichè, si premurò di procurarsi una coperta ed un cuscino decorosamente morbido: quando Bill cominciava ad essere sboccato, era decisamente meglio stare alla larga.

E sia.
Forse non è neppure così fondamentale parlare d’amore.
Forse neppure parlare e basta.
Genere: Introspettivo, Romantico (vagamente).
Pairing: Bill/Tom.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Slash, Incest.
- Tre maggio duemilasette. Una giornata frenetica. Di voci, di suoni, di luci. Ma non abbastanza contatto fisico. E poi...?
Note: Per la mia neechan <3 Anche se faccio la stronzetta, a volte, ti voglio bene. E finalmente hai il tuo regalo di compleanno per intero, oh! XDDDD
Ok, note sensate, adesso X’D Questa fanfiction significa moltissimo per la mia neechan <3 È la prima fanfiction sui gemelli di cui abbia immaginato la trama. Ed in questo momento, se la sua coinquilina pazza non stesse cantando a squarciagola Notre Dame De Paris, starebbe perfino piangendo per l’emozione XD Ed è per questo che gliel’ho dedicata ù_ù Oltre che perché comunque gliela dovevo, visto che gliel’avevo promessa assieme a Lust And Lunacy per il suo compleanno °_° (Cioè, vi rendete conto? Millenni fa!!!). Tra l’altro, quale modo migliore per riallacciare i contatti dopo un gavettone inaspettato, che non dichiararsi amore eterno con una fanfiction? XD
A parte questo, potrebbe avere un seguito. Nel senso che, più che una oneshot autoconclusiva, somiglia molto – troppo – a un prologo. La qual cosa è spa-ven-to-sa. Ma, che dire? Si va dove ci porta l’ispirazione ù.ù Anche se l’ispirazione ci porta verso cose piccole, dolciose e gioiosamente inutili :D
Spero vi piaccia <3 Anzi, lo speriamo entrambe ù_ù!
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ICH BIN NICH’ ICH

Bill sembrava troppo piccolo e troppo sottile.

Durante tutta la giornata non aveva avuto veramente occasione per pensare. Non che, in genere, quella fosse l’occupazione che preferiva in assoluto, ma raramente gli era capitato di attraversare ventiquattro ore di totale assenza di un qualsiasi pensiero razionale che gli attraversasse la testa anche solo per sbaglio.
Fin dall’inizio di quel tre maggio, invece, era stato tutto talmente concitato, veloce e sincopato che lui proprio non aveva avuto modo di concedersi neanche un pensiero piccolo piccolo.
Alle sette del mattino David aveva fatto irruzione nelle loro camere, buttandoli giù dal letto. Erano stati trascinati in bagno uno per uno, neanche avessero avuto tredici anni e si stessero lamentando dicendo di avere il mal di pancia per non dover andare a scuola. Poi erano stati scaraventati su una limousine dai vetri oscurati e da lì erano stati condotti agli studi di Viva per le prove. Spring Nicht. Poi Heilig. A Bill non era piaciuto com’era venuta. L’avevano ripetuta. Poi David gli aveva fatto ripetere per scrupolo Spring Nicht ed a quel punto Bill aveva preteso riprovassero un’altra volta anche Heilig. Alla fine, se Gustav non si fosse fatto sconfiggere da un provvidenziale crampo e Georg non fosse corso in suo aiuto, cominciando a stiracchiarlo come faceva spesso in quelle occasioni, probabilmente avrebbero continuato a provare quelle due canzoni in circolo fino all’orario dell’inizio dello show, e lui avrebbe cominciato ad odiarle.
E non era proprio il caso, visto che soprattutto una delle due minacciava di restare nel loro repertorio fino alla fine dei tempi.
In ogni caso, dopo la frenesia di David – tutta incentrata sul concetto fondamentale per cui “loro erano solo dei ragazzini e perciò del tutto inaffidabili; quindi, se potevano permettersi di provare fino alla nausea, non dovevano prenderla come una fatica inutile ma come una valida occasione di migliorarsi eccetera eccetera” – era arrivata anche la frenesia di Bill.
Certe volte Tom si ritrovava a pensare i comportamenti di Bill fossero l’unica nota stonata della perfetta placidità che contraddistingueva in genere le reazioni dei Tokio Hotel. Sia lui che Georg che Gustav erano sempre piuttosto impassibili, quando si trattava di ricevere notizie, belle o brutte che fossero.
Bill, per contro, non poteva proprio fare a meno di entusiasmarsi sempre troppo. Che fosse in un verso – la massima felicità – o che fosse nell’altro – la fase di depressione più acuta della storia – Bill era sempre molto esagerato. Fino a, be’, sì, sembrare perfino stonato.
Quando pensava cose simili, però, finiva sempre per arenarsi su un punto. Il punto che diceva “Se Bill non fosse così, se non fosse così estremo, se non fosse così ambivalente, se non fosse così intenso, se non fosse così tutto e tutto assieme, non sarebbe dove si trova. Non si ritroverebbe a fronteggiare ogni volta migliaia di persone con la sola protezione della propria forza di volontà e di un microfono”.
Non sarebbe il nostro leader.
Di solito, era questo che pensava.
Quel giorno, però, non aveva proprio avuto tempo per pensare a niente. Bill l’aveva stordito di chiacchiere per tutto il pomeriggio, e quando aveva smesso – per andarsi a chiudere nel proprio camerino, armato di tutto punto per imbrattarsi la faccia come piaceva tanto a lui ed a tutte le loro fan – David era tornato all’attacco: l’aveva legato ad una sedia ed aveva ricominciato a riempirgli la testa con l’importanza di stare bene attenti agli accordi “perché il fatto di essere idolatrati da un sacco di ragazzine di mezza Europa non li dispensava dal cercare di suonare al massimo delle loro potenzialità – ovvero appena decentemente”, di seguire il ritmo, di guardare Gustav “e non solo per ridere sotto i baffi quando gli si vedeva la pancia tremolare sotto la maglietta mentre suonava”, e tutta un’altra serie di informazioni inutili che, se non fosse stato già abbastanza impegnato ad eliminare prima ancora che venissero immagazzinate, avrebbe automaticamente rimosso nel giro di un paio d’ore.
E poi, poi, poi…
…poi era stato tutto così incredibilmente luminoso
Rapido, immediato.
Confuso.
I premi – tanti, tantissimi, troppi, quando mai aveva sperato di poterne vedere tanti tutti insieme…? – le esibizioni, le urla, i complimenti, quella ragazza che per poco non si faceva venire un infarto dopo averlo appena sfiorato…
No, proprio non aveva avuto il tempo di pensare a niente.

Ma neanche di abbracciare suo fratello come avrebbe dovuto e voluto.

Quella degli abbracci, per loro, era sempre stata una prassi quotidiana. E dannatamente importante. Bill passava per quello insicuro, quello bisognoso di contatto fisico, quello “debole”, in un certo qual modo. Ma lui non era diverso. C’erano dei momenti in cui toccare o non toccare suo fratello poteva essere la differenza fra stare bene e stare male.
C’era stata confusione, quella sera.
C’era stato troppo rumore.
Non c’era stato abbastanza spazio per trovarsi.
E infatti non s’erano trovati.

Appollaiato su una sedia a sdraio, sull’ampio balcone su cui dava il salotto del loft, Bill stava avvolto in una delle sue felpe. Era così enorme da sembrare quasi ridicola, addosso a lui. Stava rannicchiato su se stesso, le ginocchia al petto e le braccia a circondare le gambe. Si stringeva nell’abbraccio che non aveva potuto avere. Probabilmente stava lì ad illudersi di potersi sentire completo anche da solo.
Era solo un’illusione, appunto. Perché doveva esserci stato un motivo, se erano nati insieme, e Tom aveva sempre sospettato che sia nel proprio organismo che in quello di Bill fosse sempre mancato un pezzo che invece stava conservato nel corpo dell’altro. E questo era il motivo per cui non potevano davvero stare separati.
Per cui non potevano essere loro stessi, quando l’altro non era nei paraggi.

Da solo, Bill sembrava troppo piccolo e troppo sottile. Fu questo il primo pensiero che gli attraversò la mente, durante tutto l’arco di quella giornata. Ed era un pensiero triste, mentre nella sua testa avrebbero dovuto trovarsi solo pensieri felici.
La semplice idea che anche nella mente di Bill potessero affastellarsi pensieri simili – quando lui, più di tutti gli altri, avrebbe meritato solo di godersi il momento senza pensare a niente di deprimente – lo faceva sentire abbattuto.
Perciò gli si avvicinò, sfiorandogli lentamente la spalla con una mano. Discreto ma, in qualche modo, invadente. Sapeva che a Bill era sempre piaciuto quel tipo di rapporto. Che adorava sentirsi libero di introdursi nella sua vita. Che adorava sapere che anche lui si sarebbe sempre preso la stessa libertà.
Bill sollevò lo sguardo e gli sorrise, facendosi più in là sulla sdraio per lasciargli un angolino per sedersi – e sul quale lui si abbandonò immediatamente, come un peso morto.
- Sono esausto! – annunciò, chiudendo gli occhi e gettando indietro il capo, incontrando quasi casualmente la spalla di Bill e decidendo di restare appoggiato lì a riposarsi. – È stata una giornata intensa, mh?
- Sarebbe l’eufemismo del secolo? – ridacchiò Bill, puntellandosi meglio sulla sedia con le mani, per evitare di cedere sotto il peso di suo fratello, leggero eppure non indifferente – soprattutto per lui, che era così piccolo e magro e sottile.
- Certo che fra te e David non so chi mi abbia fatto passare più guai, oggi. Eri isterico! – sbottò, - Neanche quelli fossero i nostri primi riconoscimenti, o le nostre prime esibizioni… siamo già praticamente dei veterani!
- Dio, fa che non ti senta David. – continuò a ridere suo fratello, strofinandogli addosso la punta del naso, lievemente infreddolita, - Potrebbe sbranarti.
- C’è poca carne da sbranare, comunque. – si limitò a scrollare le spalle lui. Poi rimase in silenzio per qualche secondo, a percepire il sottilissimo movimento che il respiro di Bill causava all’intero suo corpo, e per riflesso anche al proprio che a lui stava così vicino. – Come ti senti? – chiese infine, voltandosi a guardarlo di sottecchi.
- Stanco. – sospirò Bill, - E mi sei mancato.
- …come scusa?! – ironizzò lui, guardandolo adesso più apertamente, - Ma se siamo stati appiccicati tutto il giorno?!
Bill sorrise, enigmatico come al solito.
- Non quando contava di più.
Tutti i sorrisi di Bill sapevano di mistero. Era quello che affascinava tanto chiunque lo guardasse. Era esattamente quello che affascinava anche Tom, pure se lui, in tutti quei misteri, ci stava immerso, felice come un bambino, da quando era nato.
- Hai ragione. – rispose in un soffio, allargando le braccia e girandosi completamente, attirandolo a sé con decisione. La felpa gli scivolò giù dalle spalle, e lui non mosse un muscolo quando Bill tirò giù la cerniera di quella che lui stava indossando e vi si intrufolò all’interno.
- Scusa. – si giustificò a bassa voce, - Sento un po’ di freddo.
Era primavera inoltrata. Non c’era affatto freddo, quella sera.
Non era per il freddo che Bill aveva eliminato quella barriera di acrilico pesantissimo.
- Figurati. – rispose, stringendolo più forte, appena sotto le spalle.
A Tom stava benissimo anche in quella maniera.
Bill si scostò da lui, solo qualche centimetro, pochi secondi dopo. Teneva le mani appoggiate sul suo petto, ben ferme, aperte. Aveva delle bellissime mani, Bill. Erano così eleganti, così calde… Tom abbassò il proprio sguardo su di lui.
- Che c’è? – chiese, lievemente in imbarazzo, notando che Bill lo stava fissando neanche fosse stato una stella cadente – strana ironia.
- Niente. – ridacchiò Bill, strizzando lievemente gli occhi, - Sono felice. – disse semplicemente, prima di annullare quella porzione minuscola eppure quasi insostenibile di centimetri che li separavano e baciarlo lievemente sulle labbra.
Una pressione tanto lieve da sembrare perfino finta.
Ma che era verissima.
- E questo? – chiese Tom con un filo di voce, inarcando lievemente le sopracciglia e sorridendo a metà.
Bill si strinse nelle spalle.
- Un grazie?
Sì.
Forse.

…comunque, a Tom stava benissimo anche in quella maniera.
Genere: Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Rape, AU.
- "Bill è diventato in un istante l’unica forza ed anche l’unica debolezza di Bushido. E se ciò che fa la forza del capo fa la forza anche della banda, allo stesso modo è vero per ciò che rende entrambi deboli."
Note: Aaah, questa storia. *la abbraccia* Diciamo che per certi versi è una cosa che non avrei mai scritto se non sotto determinate circostanze (il non-con per me è una roba che meno ce n'è nel mondo, meglio è, ma qui era necessario), mentre per molti altri è una cosa incredibilmente mia, specie nella struttura che fino a qualche tempo fa usavo solo io e che invece adesso si sono messi a usare tutti quanti perché alternare le parti nel presente e nel passato e differenziarle col corsivo fa figo. Ehm, dicevamo.
No, niente, in realtà il merito principale di questa storia è che mi ha fatto capire che mi piace descrivere le scene di violenza. Non la violenza sessuale, proprio i ceffoni, i calci, i pugni, quelle robe lì, mi diverto un mondo a scriverle. Ora che mi rileggo non so se è proprio un merito, ma tant'è. Enjoy!
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
L’odore dell’asfalto.
Le luci tremule dei lampioni.
Le risate sconosciute che riecheggiano nel vicolo.
L’eco della musica che rimbomba dentro il locale, sembra lontana chilometri. E secoli. Vite intere.
Il dolore acuto che gli squarcia il ventre fin nelle viscere.
Il bruciore delle lacrime fra le ciglia.
Il sapore del sangue sulla lingua.
La scia di silenzio irreale.
L’odore dell’asfalto.

Il profumo di Anis.


ZERRISSEN

Bill non può stare da solo. Il che equivale a dire che Bushido non vuole che stia da solo, non adesso, specie non stanotte, che fuori piove e da qualche parte qualcuno sta pagando il peccato mortale di avergli messo le mani addosso per cercare di indebolire lui.
Chakuza non sa bene come dovrebbe avere a che fare con questo ragazzino. La sua stessa presenza lo confonde, lo ha sempre confuso. Lui è uno con una mente semplice, e ne va fiero. Non che sia stupido, ma le cose complesse lo spaventano, perché hanno sempre risvolti imprevedibili. E così, quando il suo capo, ormai quasi quattro anni fa, ha presentato a lui e agli altri della banda questo ragazzino col visino da donnetta, il corpicino smunto e l’aria di uno che si sente molto fortunato perché non ha capito un accidenti del casino in cui s’è andato a cacciare, fin da subito Chakuza ha capito che la sua presenza avrebbe portato guai.
Non perché portarsi a letto un ragazzino rendesse Bushido automaticamente attaccabile sul piano della credibilità – a chiunque avesse osato mettere in dubbio la sua virilità negli ultimi quattro anni, Bushido ha sempre risposto sfoggiando gli attributi nel modo più violento e crudele possibile, giusto per mantenere le cose il più chiare possibile – ma perché lo rendeva debole.
Bushido è sempre stato un capo assoluto. Lo è sempre stato perché ha sempre avuto quel modo di parlare, quel modo di muoversi, quel modo di spiegarti le cose, quel modo anche di mostrartele, quando nella zucca a parole non ti ci volevano proprio entrare, tale da renderlo il tipo di persona alla quale affideresti la vita senza indugio. In molti non capiscono cosa faccia di un capo un vero capo. Non notano le differenze, si perdono dietro dettagli stupidi quando in realtà l’unica cosa che conta è quella: ci riesce, un uomo, a convincerti che i motivi che ti dà quando ti parla sono sufficienti per svegliarti ogni giorno e andare a prendere e dare ogni sorta di legnate fino a ridurti ad un mucchio di lividi e bernoccoli? Perché se quell’uomo ci riesce, se ci riesce e allo stesso tempo riesce a convincerti del fatto che non c’è niente che a lui importi più del gruppo che avete formato, che è disposto a sacrificare tutto meno la fratellanza che avete stretto, se quell’uomo riesce a darti queste certezze, allora quell’uomo è un capo. Un capo vero.
Bushido ha perso questa spinta nel momento in cui si è innamorato di Bill. Improvvisamente, c’era qualcosa che contava più del gruppo, più della banda, più del loro legame. Più di tutto il resto. E quel qualcuno era Bill. Improvvisamente, anche la banda diventava sacrificabile, tutto era potenzialmente sacrificabile, per il bene di Bill.
Bill è diventato in un istante l’unica forza ed anche l’unica debolezza di Bushido. E se ciò che fa la forza del capo fa la forza anche della banda, allo stesso modo è vero per ciò che rende entrambi deboli.
Bill è sempre stato un pericolo, e Chakuza l’ha sempre saputo, ma non ha mai potuto – né, in fondo, voluto – farci niente, perché era stata la parola di Bushido a imporlo, e la parola di Bushido, be’, quella è sempre stata legge. Solo per loro, però. Non è servito molto tempo perché la voce cominciasse a girare per la città, perché topi che prima trascorrevano tutto il loro tempo nascosti nelle loro fogne cominciassero a sollevare la testa e tirare fuori il naso dalla melma.
Quando le strade capiscono che sei disposto a sacrificare qualcosa, non esitano a strappartelo di dosso. E, in un certo senso, è esattamente quello che è successo.

La serata è di quelle fiacche. Di quelle tranquille. Di quelle in cui Bushido non ha paura a lasciare andare Bill in giro da solo, anche perché non è che sia proprio da solo. C’è suo fratello, con lui. Tom è un bravo ragazzo, col casino in cui Bill s’è andato a infilare non solo non c’entra niente, ma neanche vuole averci minimamente a che fare. È per questo che, quando Bill e Tom escono insieme, non ci sono guardie del corpo intorno. A Bill già non piacciono normalmente, ma s’è forzato a mandarle giù perché Bushido non avrebbe mai ceduto di un punto, a riguardo, ma quando esce con suo fratello non le ammette neanche per semplice sorveglianza discreta da lontano.
Tom è un bravo ragazzo, sì, ma è un bravo ragazzo che si distrae parecchio. Soprattutto, è un bravo ragazzo che però non è tanto bravo a tenere l’uccello nei pantaloni. L’hanno seguito per settimane. Hanno seguito entrambi per settimane, e lo sanno bene.
Tom è l’anello debole. È lui che va sfruttato.


- To’. – dice Chakuza, piazzandogli davanti una fetta di pizza trovata in frigorifero e riscaldata due minuti nel forno a microonde, - Dovrebbe essere ancora buona.
Bill guarda la pizza e poi guarda lui, e cerca di sedersi più comodamente nell’angolo di divano in cui si è rifugiato appena arrivato a casa sua. Si è anche sfilato le scarpe per tirare su i piedi e rannicchiarsi meglio, ma Chakuza non è proprio sicuro al cento percento che si tratti di una posa, o di un modo per starsene più sulle sue. Probabilmente voleva soltanto tirare su i piedi dal pavimento, visto quanto è sporco. Dovrebbe decidersi a dare una lavata in giro, la casa fa vomitare, ma a lui non è che freghi più di tanto, visto che sostanzialmente neanche ci vive, è solo un posto in cui viene a cadere in coma dopo una giornata intera passata a ciondolare per Tempelhof facendo una cosa piuttosto che un’altra. Gli frega poco delle condizioni del pavimento, o della cucina, o di qualsiasi altra cosa, in realtà, perfino delle lenzuola sul letto nel quale dorme. Non è che può stare a pensare all’eventualità in cui Bushido decida di lasciargli il ragazzino per la notte. Il ragazzino si farà piacere anche il pavimento sporco, se vuole restare, altrimenti quella è la porta.
- Ehm… non ce l’hai una cosa più… - gesticola vagamente a mezz’aria, come se i ghirigori immaginari che sta disegnando con le unghie pittate di nero dovessero avere un qualche significato particolare per lui che uno smalto da vicino non l’ha mai visto neanche in confezione. Chakuza lo guarda sbattendo le palpebre un paio di volte.
- Più? – domanda, lasciandosi ricadere di peso sul divano con una fetta di pizza in mano.
- …non lo so. – deglutisce faticosamente Bill, osservandolo mordere la fetta e sbrodolarsi addosso quelli che hanno l’aria di essere circa due litri d’olio ed altrettanti di salsa di pomodoro. – Meno unta, forse.
- Ho solo la pizza. – scrolla le spalle Chakuza, asciugandosi il muso col dorso della mano e anche con una buona porzione di avambraccio, - Assaggiala, è buona.
Bill fa una smorfia incerta e distoglie lo sguardo.
- Mi è passata la fame. – borbotta, prendendo a giochicchiare distrattamente con l’orlo sfilacciato del cuscino che si è tirato in grembo per abbracciarlo nel momento stesso in cui s’è seduto.

La ragazza che hanno pagato trascina Tom in bagno dopo meno di mezz’ora passata a strusciarsi in mezzo alla pista da ballo. Pagano anche un cameriere perché corregga il drink che Bill ha ordinato con uno zuccherino tutto particolare. Sulla lingua non sentirà niente di strano, almeno fino a quando non lo trascineranno fuori. Allora sì che sentirà qualcosa di molto, molto strano in bocca, ma sarà sballato abbastanza da non riuscire a protestare né a sottrarsi a loro.
Bushido recepirà il messaggio. Lo recepirà forte e chiaro.


- Non so, vuoi metterti a dormire? – domanda Chakuza, aggirandosi attorno a lui come un’anima in pena. Non ha propriamente accettato di prenderselo in casa, perché Bushido non gliel’ha chiesto per favore. Non che Chakuza sia arrabbiato con lui per questo, Bushido può prendere e pretendere esattamente ciò che vuole perché è così che gira il meccanismo, ma avere il ragazzino in giro per casa lo mette in agitazione. La sua persona lo confonde, non per altro, è che non ha mai avuto a che fare con una persona che abbia vissuto la sua stessa esperienza, che non è semplicemente essere stato violentato, ma essere stato violentato a causa della persona che ami, ed è profondamente differente perché nel primo caso la scelta è casuale, mentre nel secondo è precisa e determinata; e questa cosa lo agita, perché cosa gli dici a uno così? A uno che deve sentirsi male ogni volta che guarda Bushido negli occhi, per tutta una serie di ragioni che Chakuza non è neanche sicuro di riuscire ad elencare anche se si mette a pensarci? Ad uno che si sveglia ogni giorno accanto al suo uomo e sa che qualsiasi cosa orribile gli sia capitata è stata causata dal semplice fatto di stare con lui, ad uno che sa perfettamente quanto grande possa essere il senso di colpa che si agita dentro lo stomaco del proprio compagno quando pensa a tutta la sofferenza che gli ha involontariamente causato, ad uno che, ogni volta che si guarda allo specchio, non può fare altro che ripetersi che ha passato la boa, indietro non ci tornerà mai, non riavrà mai più quello che ha perso e resterà strappato dentro per sempre, ad uno che sta così, uno come lui, uno come Chakuza, che picchia i ragazzini che non pagano per la droga a sangue freddo, uno che per ordine del suo capo punta la pistola contro la pancia di una donna incinta per convincere il marito a pagare i suoi debiti di gioco, uno che appicca tranquillamente fuoco a un locale per lanciare un avvertimento a qualche commerciante troppo cocciuto, uno così cosa può dire a uno come Bill? Niente può dirgli, ecco cosa. Niente in assoluto.
E vederlo lì col naso appiccicato alla finestra, mentre di fuori viene giù il cielo in scariche di pioggia così uniformi e improvvise da far sembrare che Dio stia prendendo a secchiate d’acqua il mondo per annegarlo da quanto fa schifo, non lo aiuta a sentirsi meno a disagio.
- Dove dovrei mettermi a dormire? – domanda Bill, continuando a guardare fuori.
Chakuza scrolla le spalle.
- Sul divano. – butta lì. Va bene ospitarlo, ma cedergli il letto, anche no.
- Non ho sonno. – ribatte il ragazzino, e continua a fissare la notte.

Gli si avvicinano immediatamente, quando lo vedono ciondolare con la testa. Non possono perdere tempo, la ragazza ha promesso che tratterrà Tom il più possibile, ma non possono fidarsi né di lei, né delle tempistiche dal ragazzo, e naturalmente non possono fidarsi di Bushido: sanno che Bill non vuole guardie intorno quando è in giro col fratello, ma sanno anche che Bushido non è uno che mantenga le promesse che fa. D’altronde, non è mantenendo promesse che diventi il capo della malavita organizzata del quartiere. Non è mantenendo la parola data che prendi il controllo su tutto ciò che abbia un minimo di valore nel giro di chilometri. No, è proprio facendo esattamente il contrario di ciò che giuri e spergiuri, che si amministra il potere. Loro lo sanno bene, perché hanno imparato da lui.
Chi siano non importa. Non importerà a nessuno. Bushido è ancora troppo grande per potere essere battuto da un gruppo di ombre, per quanto organizzate. Non è importante chi sono, non è importante neanche cosa vogliono, quale sia il loro obbiettivo finale. Il punto è che hanno un messaggio da mandare, ed è così che intendono diffonderlo.
Uno di loro afferra Bill per un braccio. Lo trascina in piedi, e Bill gli solleva addosso uno sguardo appesantito dal sonno, dall’alcool e dalla droga che gli hanno fatto mettere nel bicchiere. Aggrotta le sopracciglia, piegando le labbra in una smorfia pesante di disappunto, ma non riesce a dire una parola, perché ha i sensi troppo intorpiditi.
Lo trascinano fuori, nel freddo piovoso della notte. Il vicolo è buio e silenzioso, non c’è neanche un gatto randagio a rovistare nei cassonetti dell’immondizia. Uno preme le mani contro entrambe le spalle di Bill, nel tentativo di costringerlo a mettersi in ginocchio con le buone. Bill mugola come un bambino svegliato nel mezzo della notte da un genitore rompicoglioni, e scuote il capo con forza. Loro non hanno tempo per stare dietro ai suoi capricci, e lo prendono a calci sulle ginocchia finché non crolla sull’asfalto bagnato.
Uno lo afferra per il mento, tirandogli su il viso e osservandolo nella luce fioca che illumina la strada principale e arriva a rischiarare il vicolo solo per metà. È bello, il ragazzino, bello abbastanza da confondere anche il più eterosessuale degli uomini, ma questa non è una questione di sesso, non è nemmeno una questione di piacere, o di una sciocca vendetta che non avrebbe alcun senso di esistere.
È una questione di potere, è una questione di debolezza. Mettere le mani addosso al ragazzino equivale a far sapere a Bushido che sanno bene come e dove colpirlo, se vogliono, e che l’intensità del colpo può variare a seconda di quanto siano incazzati. Equivale a fargli sapere che anche un gruppo di uomini senza volto e senza nome può togliergli qualcosa di caro, e che se non lo fanno stanotte è solo perché per mandare adeguatamente il messaggio serve che Bill torni a casa vivo. Malconcio e rovinato per sempre, ma vivo.
L’ombra più alta del gruppo si avvicina di un passo, maneggia la fibbia della cintura fino a scioglierla e poi apre la zip dei pantaloni. Il suono risveglia qualcosa nel retro della testa di Bill, un segnale d’allarme che alcool e droga hanno tacitato a sufficienza fino ad adesso, ma che ora comincia a pulsare dolorosamente. «No…» biascica il ragazzino, e cerca di spostarsi quando il cazzo duro e teso dell’uomo gli sfiora le labbra. Come unico compenso per il movimento, ottiene uno schiaffo in pieno volto che gli fa girare la testa dal lato opposto così violentemente da fargli male al collo. Spalanca gli occhi nella notte buia e stantia del vicolo riparato da sguardi indiscreti e prova a urlare, ma nel momento esatto in cui spalanca la bocca l’uccello dell’uomo gli si intrufola fra le labbra, premendoglisi contro fino in gola.
La reazione del suo corpo è immediata: Bill si sente soffocare e sente la spinta acida e dolorosa di un conato di vomito che non riesce a risalirgli fino in gola, e gli contrae lo stomaco in uno spasmo insopportabile, reso ancora più doloroso dal bruciore che gli avvampa nell’esofago quando è costretto a mandare giù il rigurgito con un blocco di saliva che scivola giù più duro del cemento. Prova a spostarsi indietro, ma le mani forti di qualcuno gli tengono la testa ben ferma, il collo eretto, la bocca spalancata. Le dita che gli premono con forza sulle guance, per impedirgli di far scattare la mandibola, sembrano volergli scavare sotto la pelle, fra i muscoli e la carne e le ossa. L’uomo che gli sta scopando la bocca si muove veloce avanti e indietro, scivolandogli fra il palato e la lingua e premendosi ogni volta così in profondità che Bill strabuzza gli occhi e si soffoca da solo con l’aria che non riesce a passare, coi rigurgiti che continuano a risalire ad ogni spinta, con le urla che vorrebbe essere abbastanza forte da riuscire a sputare fuori assieme a tutto il resto, e che invece restano lì, confinate in fondo alla sua gola, ricacciate sempre più in basso dalla punta del cazzo dell’uomo, ogni volta che, con una nuova spinta, si introduce più violentemente dentro di lui.
L’uomo viene con un gemito roco e disgustoso, e resta piantato dentro di lui fino alla base, disinteressandosi completamente di quanto lui, a corto d’aria e soffocato dallo sperma che gli scivola giù per la gola, possa dimenarsi nel tentativo di liberarsi. Poi si ritrae, e anche l’uomo che lo teneva fermo da dietro lo lascia libero di piegarsi in avanti, stringersi una mano attorno alla gola dolorante, tossire e, finalmente, vomitare, rovesciando tutto l’alcool che aveva in corpo fra i cassonetti dell’immondizia.
«Meglio» dice uno degli uomini che l’anno aggredito, ridendo divertito, «Così sei più lucido per il secondo round.»


- In questo momento li sta facendo fuori. – dice Bill dopo qualche minuto, voltandosi per rannicchiarsi sul davanzale, senza accennare ad allontanarsi dalla finestra. Solleva le gambe, portando le ginocchia al petto e stringendole in un abbraccio consolatorio, mentre vi appoggia contro il mento. Le sue labbra sono piegate in un sorriso minuscolo che Chakuza non riesce ad interpretare. – Li sta facendo fuori tutti.
- Come fa a sapere i nomi? – chiede lui, stupidamente, e Bill risponde con una mezza risatina.
- Li ha scoperti. – chiarifica, scrollando le spalle, - Che domanda è? Lo conosci da prima di me.
È vero, vorrebbe dire Chakuza, è vero, ma il Bushido che conoscevo io prima che arrivassi tu non avrebbe mai fatto una cosa simile. Non avrebbe mai indagato sulle identità degli stupratori della sua donna per poi andarli ad ammazzare tutti con le proprie mani uno per uno. Non l’avrebbe mai fatto semplicemente perché non si sarebbe mai tenuto stretto una donna abbastanza a lungo da concedere a qualcuno il lusso di pensare che a lui importasse abbastanza di lei per renderla un bersaglio facile.
No, ragazzino, e questo vorrebbe dirglielo proprio, Chakuza, ma non lo fa perché non ha idea di come parlargliene senza che sembri uno scatto d’astio ingiustificato, no, devo fartela proprio, questa domanda, perché Bushido per come lo conoscevo io una cosa così non l’avrebbe fatta mai nella vita.
- Ti va una birra? – gli chiede invece. Bill ci pensa su.
- Me la porti qui? – domanda in un mezzo pigolio incerto.
- Perché non ti allontani da quella finestra, invece? – propone lui con una smorfia infastidita, - Piove. Prenderai freddo. Poi quello s’incazza.
Bill scuote il capo, e Chakuza sospira.
- Va bene, - concede, - te la porto lì.

Il secondo round è lui riverso in terra, con la faccia schiacciata contro un sacchetto di plastica sporco e maleodorante, che piange a dirotto mordendosi la lingua a sangue mentre un uomo lo tiene fermo, di modo che non possa voltarsi a guardare chi lo sta stuprando, mentre gli altri, a turno, lo violentano ripetutamente.
Il secondo round fa male ed è umiliante quanto e più del primo. Bill piange e non riesce a muovere neanche un arto. Ha le gambe anchilosate da quanto a lungo le ha tenute piegate, e le braccia molli ripiegate sotto il petto.
Non smette mai di sentire dolore. Ogni volta che qualcuno si tira fuori e qualcun altro lo sostituisce è una tortura straziante, che gli squarcia le viscere e gli rivolta lo stomaco. Sente le spinte di quegli uomini come un terremoto che gli fa tremare le ossa, e man mano che le sue urla si affievoliscono perché la sua gola, affaticata, comincia a non riuscire più ad emetterne, anche la sua vista si annebbia. Ogni cosa perde la propria fisionomia, i contrasti scompaiono fondendosi in una nuvola confusa e biancastra che gli si agita davanti al viso impedendogli di mettere a fuoco l’ambiente circostante.
Sa che c’è una strada, a pochi passi, una strada trafficata. Sente i passi delle persone, le loro risate, i suoni che le loro automobili producono fermandosi e poi ripartendo, le sgommate che i bulletti del quartiere si concedono per impressionare le ragazze partendo a razzo sui rettilinei sgombri non appena scatta il verde, e si chiede come sia possibile che nessuno lo senta urlare, che nessuno si stia accorgendo di niente, che nessuno lo venga a salvare.
Continua a chiederselo fino all’ultimo istante, quando, drenato dal dolore e dalla fatica, finalmente sviene.


- A me, comunque, ha detto che stanotte non tornava. – butta lì Chakuza. Non è vero, ma ha l’impressione che se non dà al ragazzino un motivo qualsiasi per andarsene a dormire se lo ritroverà sveglio fra i piedi per tutta la notte. E questo non va bene, perché se Bill non si addormenta nemmeno Chakuza riuscirà a farlo. E Bill potrà anche non avere niente da fare, domani mattina, ma Chakuza no, Chakuza ha la sveglia alle sette per andare a controllare una certa situazione in un certo bar dall’altro lato del quartiere, per vedere se può riscuotere un certo incasso, o se magari non è il caso di ricoprire il proprietario di una certa dose di cazzotti e sputi in faccia, giusto per fargli capire che Bushido potrà essere tutto preso nella propria vendetta personale, e il gruppo potrà anche essersi indebolito per la necessità di stringersi attorno alla sua strana principessa ferita, ma comandano ancora loro. E che nessuno se lo dimentichi.
- Non è possibile. – scuote il capo Bill, restando con le spalle poggiate al vetro gelido della finestra.
- Perché? – domanda Chakuza, - A te ha detto diversamente?
- No. – risponde lui, sinceramente, - Ma non mi lascerebbe mai da solo.
- Infatti ti ha lasciato con me. – gli fa notare l’uomo, vagamente infastidito da quel suo considerarlo palesemente non all’altezza del proprio uomo.
Bill gli concede un mezzo sorriso imbarazzato e incerto.
- Non è la stessa cosa. – gli risponde in un sussurro.

Tom esce trafelato, guardandosi intorno con gli occhi sgranati e il fiatone. Ha la maglietta tutta scomposta addosso, i capelli che gli cadono sul viso, infastidendolo, e continua a lanciarseli dietro le spalle con gesti stizziti e nervosi. Lo chiama a bassa voce, prima, poi più forte quando non sente arrivare risposta, e poi lancia un grido quando lo vede raggomitolato contro i sacchetti dell’immondizia sparsi per terra, seminudo, ferito, sanguinante e pesto.
Gli si accovaccia di fianco, guardandolo da ogni lato ma senza azzardarsi a toccarlo. «Bill» mugola disperatamente, «Dio, no, Bill…»
Bill sente solo l’eco della sua voce, ma già quello da solo è in grado di fargli venire voglia di piangere dalla gioia. Non pensa al fatto che Tom ad uscire ci abbia impiegato ore, non pensa al fatto che è stato lui a lasciarlo da solo per primo; sarebbe così facile dargli la colpa di tutto, ma la realtà è che Tom potrà avere delle colpe pratiche, ma il vero motivo per cui si trova in queste condizioni è un altro, e Bill lo comprende alla perfezione, e perciò non riesce a fare altro che sentirsi grato perché Tom, alla fine, è arrivato, e l’ha trovato, e adesso, ancora accucciato al suo fianco, picchia forte sulla tastiera del cellulare, sbagliando numero tre volte perché ha gli occhi pieni di lacrime, per chiamare Anis.


Chakuza sta sonnecchiando sul divano da una ventina di minuti circa, quando sente le ruote della macchina di Bushido pestare l’asfalto e poi fermarsi proprio sotto casa sua. Bill è rimasto appoggiato di schiena alla finestra per tutto il tempo, rannicchiato sui cuscini che s’è sistemato come un nido sul davanzale, e quando sente il rombo del motore si volta a guardare la strada. I fari della BMW gli illuminano il volto per un secondo, prima di spegnersi. È sufficiente perché Chakuza possa vederlo sorridere. È un sorriso piccolo e discreto di quelli con cui le persone dicono a se stesse “visto? Avevi ragione”, anche se da qualche parte avevano cominciato a dubitarne.
Chakuza si alza in piedi e lo raggiunge alla finestra, osservandolo mentre distende faticosamente le lunghe gambe, sgranchendosi le ginocchia doloranti per la posizione in cui sono state costrette a rimanere piegate per ore.
- Non ci ha messo molto. – commenta.
- È un professionista. – annuisce Bill con un sorrisetto, stringendosi nelle spalle.

Il profumo di Anis è ovunque, mentre lo stringe a sé, accarezzandogli i capelli incrostati di sangue, lacrime e sperma, scostandoglieli dal viso per verificarne le condizioni.
«Sei ridotto male, piccolo» gli dice con un mezzo sorriso, lasciando che a rassicurarlo non siano le sue parole – perché su quelle hanno adottato una politica di massima sincerità che Bill è contento di non veder tradita neanche adesso che avrebbe proprio bisogno di sentirsi dire una bugia – ma il tono della sua voce, l’espressione del suo viso, il calore delle sue dita sulla pelle, «Ma ti rimetteremo in sesto, non ti preoccupare.»
Bill annuisce debolmente, mentre Tom impreca da qualche parte alla sua destra. «Mi dispiace, cazzo, non volevo—»
«Tom, non è colpa tua» dice Bushido, spiccio, stringendo Bill per le spalle e da sotto le ginocchia per sollevarlo in braccio, «Non ti preoccupare, lo risolveremo.»
«Non rassicurarmi» risponde suo fratello, soffiando infastidito, «Non rassicurarmi, cazzo.»
Bill si volta appena per guardarlo, e vede che Tom ha gli occhi rossi e gonfi, e lo guarda come se fosse rientrato a casa dopo un viaggio di una settimana e l’avesse trovato sul pavimento in frantumi. Tom lo guarda e non vede lui, vede i cocci di un vaso rotto da una pallonata mentre papà e mamma erano fuori a cena. Lo guarda come non avesse idea di cosa fare per rimetterlo a posto. Bill si morde un labbro per non scoppiare a piangere un’altra volta, ma è controproducente, perché il labbro è gonfio e spaccato e non appena i suoi denti vi affondano riprende subito a fare male e sanguinare.
«Shh, shh, piccolo» sussurra Bushido, stringendoselo al petto, «Non piangere, fa’ il bravo» lo culla come un bambino piccolo, «Sta’ buono, su» e Bill annuisce velocemente, nascondendo il viso contro la sua maglietta e chiudendo gli occhi, provando a sciogliere i muscoli in tensione abbastanza da lasciarsi andare al sonno.


- Grazie dell’ospitalità. – sorride Bill, salutandolo con un cenno del capo. Bushido sorride, soddisfatto come un padre di fronte al figlio che mostra ad un amico di famiglia quanto è beneducato.
- Aspettami in macchina, - gli dice, - c’è Fler. Io arrivo subito.
Bill annuisce, lo saluta con un bacio lievissimo sulle labbra e poi si volta, imboccando la porta e poi l’ascensore, per scendere al piano terra. Bushido resta in silenzio abbastanza a lungo da sentire l’eco del portone del palazzo che si apre e si richiude con uno scatto metallico, e poi la voce di Fler che saluta Bill, quella di Bill che ricambia e il suono un po’ ovattato della portiera del sedile posteriore che viene aperta e tenuta aperta fino a quando lui non è seduto al suo posto. Poi si volta verso Chakuza.
- Cos’hai da fare domani mattina? – domanda con tono pratico. Chakuza sa già dove andrà a parare questa discussione.
- C’è da andare da quel tizio del bar che ha aperto due mesi fa… - prova, ma Bushido scuote subito il capo.
- Mandaci Eko. Tu prendi D-Bo, Kay e Saad. C’è un po’ di pulizia da fare. Ti do gli indirizzi.
- Bu, che palle… - sbuffa Chakuza, roteando gli occhi. Bushido risponde con un sorriso appena visibile, e Chakuza sospira. – Ok, ok, - borbotta, - ci penso io.
Bushido annuisce, e lo saluta con una pacca sulla spalla, dandogli appuntamento all’indomani in serata per farsi dire se ci sono stati problemi o meno. Ma non ce ne saranno, questo entrambi lo sanno già, e la serata la passeranno di fronte a una birra a parlare del più e del meno come se non fosse cambiato niente, quando in realtà è cambiato tutto.
Ma questo Chakuza a Bushido non può dirlo, e non potrà farlo fino a che l’uomo non se ne accorgerà da solo. Ma allora, probabilmente il fatto di averlo indovinato prima di lui non avrà nessun valore, come non avrà nessun valore neanche il fatto che alla fine anche lui l’abbia capito. Sarà solo un rimpianto che entrambi avranno, un danno al quale non potranno rimediare in alcun modo.
A quel momento, comunque, penseranno quando arriverà. Per ora, a Chakuza è passato il sonno, perciò recupera un’altra bottiglia di birra dal frigorifero e si lascia andare sul divano di fronte a un dvd a caso, cercando già un modo per far sparire sei cadaveri domani mattina, perché è l’unica cosa sensata sulla quale è possibile concentrarsi adesso.

Bill si sveglia all’ospedale dopo non sa nemmeno lui quante ore di sonno. Bushido è vigile al suo fianco, gli tiene la mano e non sembra nemmeno stanco, anche se Bill può leggergli negli occhi che stanotte non ha dormito neanche un minuto.
Gli concede un sorriso ferito e provato, e Bushido ricambia con uno dei suoi, uno di quelli che riesce a dargli forza anche senza bisogno che Bushido aggiunga niente.
«Come stai?» gli chiede. Bill inspira, espira, e si rende conto di esserne ancora capace.
«Meglio» risponde quindi. Bushido annuisce.
«Adesso raccontami tutto, dall’inizio e nei dettagli.»
Bill prende fiato, e comincia a raccontare.
Fanfiction a cui è ispirata: Absynthe di Sara.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Spin-off.
- Coraggio, Tom, dimenticalo. Solo per un secondo. E' facile. Uno. Due. Dimenticato. Quattro. Cinque. Fanculo.
Note: Prima di tutto: ci tengo a ringraziare Sara per avermi dato modo, con la sua magnifica opera, di scrivere una storia che amo e che mi è davvero servita. Per riappacificarmi con Tom, soprattutto, che durante tutto il corso di Absynthe avevo cordialmente detestato XD Per motivi ovvi, che chiunque abbia letto la storia comprenderà.
Ciò detto, irrtümlich significa “per errore”. L’ho trovato un titolo adatto per la storia. Straordinariamente, come termine in italiano non è abbastanza forte, ed in inglese sarebbe stato orribile. È proprio vero che certa roba va scritta in tedesco, fertig. No? X’D
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
“Com’è la vita là fuori, Tomi?”.
Tom aveva scrollato un po’ il capo, fissando lo sguardo all’ordinato vialetto di ghiaia.
Aveva scelto l’assenzio, non la realtà.
Si era venduto al fuoco fatuo di una fiamma verde. Aveva perso.
“Mi manchi”.
Bill aveva posato il capo contro la sua spalla e chiuso gli occhi.
“Allora… Portami via”.


IRRTÜMLICH

Forse anche io sono un po’ pazzo. Forse anche io sono un po’ sbagliato. Forse non sono così diverso da Bill. Forse tutte le cose in cui ho creduto per tutta la mia vita in realtà non erano che bugie. Parole vuote che continuavo a ripetermi ed alle quali mi sarei aggrappato fino a quando non mi si fossero sbriciolate fra le mani. Forse in realtà neanche ci credevo davvero, perché adesso che mi servirebbero non riesco più a trovarle da nessuna parte. Forse avrei dovuto essere più sincero con me stesso. Forse avrei dovuto essere più sincero anche con Bill, prima di tutto, perché lui, in qualche modo, è sempre riuscito a tirarmi fuori dalla bocca perfino le cose più orribili, per evitare che mi avvelenassero restando in circolo.
Io invece non sono riuscito a ripulirgli il sangue nemmeno un po’.
L’assenzio che gli correva nelle vene, quello che ha travasato nelle mie, non sono neanche riuscito a diluirlo.
Però io un veleno tanto potente non l’avevo mai visto. Proprio mai.
Ed io non sono un antidoto, Bill avrebbe dovuto saperlo.
Forse sarebbe bastato parlare un po’ di più. Forse ostinarsi a tacere su qualcosa di tanto ingombrante non è stata la mossa più furba.
Forse quello che sto pensando di fare non risolverà proprio un bel niente.
Però in effetti non m’importa. Bill m’importa molto di più.


S’era svegliato con quel pensiero fisso, che non erano neanche le sei del mattino. Fuori era ancora buio in maniera spaventosa, quasi intollerabile, e Tom si forzò a chiudere gli occhi ed ignorare quanto lo circondava, pressando forte il viso contro il cuscino nella speranza di annullare qualsiasi influenza del mondo esterno all’interno del suo mondo ideale.
Un mondo ideale che, composto solo dei ricordi felici della sua vita, contribuiva ad aiutarlo ad alzarsi dal letto ogni mattina senza per questo dover desiderare di scoppiare a piangere come un bambino per un nonnulla.
Il cuscino non sapeva di niente. Non aveva profumo. Non sapeva neanche di pulito, perché la donna delle pulizie che da qualche settimana David si ostinava a mandargli a casa, nella vana speranza che un po’ di contatto umano sereno e rilassato ogni tanto potesse aiutarlo a non sprofondare nel groviglio della solitudine, usava un detergente del tutto asettico.
C’era stato un periodo in cui il suo cuscino aveva saputo solo di donne sconosciute.
Poi c’era stato un periodo in cui aveva saputo solo di Bill.
A seguire, c’era stato un periodo in cui aveva saputo solo di Christina.
E adesso non sapeva di niente.
Avrebbe avuto un bel da fare, David, a tenerlo lontano dalla solitudine: lui non era mai stato così disperatamente solo.

Comunque, non avrebbe dovuto pensare a cose simili così presto al mattino. Soprattutto non alle sei di una giornata qualunque. Una giornata nella quale neanche avrebbe potuto vederlo.
Lanciò un’occhiata furtiva alla sveglia sul comodino. 28 aprile, venerdì, 06:01:08. 09. 10. 11.
Tornò ad affondare nel cuscino, serrando le palpebre contro il cotone tiepido di sonno.

Toglitelo dalla testa, Tom.
Toglitelo dalla fottuta testa.
Nascondilo, accidenti.
Gettalo via. Anche solo per una volta. Anche solo per un secondo.
12. 13.
Dimenticato. 15.
Fanculo.

Si decise a mettersi in piedi, se non altro perché rimanere a letto si stava facendo perfino scomodo. Quasi si sentiva incastrato fra le coperte. Se le scostò di dosso con un gesto repentino e nervoso, scattando a sedere e rigettando indietro la massa di rasta sempre più lunga e intricata che sovente finiva per accecarlo del tutto.
Avrebbe dovuto tagliare un po’ i capelli, ma ogni volta che adocchiava un paio di forbici ripensava a Bill. E questo era del tutto normale, ma anche incredibilmente doloroso.
E dire che lui non era mai stato un grande appassionato di quelle che le persone chiamano “le piccole cose”. Quelle che finisci per notare per forza, e che poi ti accompagnano come parenti scomodi per tutto il resto della tua vita.
Lui non credeva in questo potere. Perché lui non vedeva mai niente.
Ma le forbici lo facevano pensare a Bill più di ogni altra cosa. Più della musica, più dei microfoni, più delle siringhe, più della penna.

E sì, questo era del tutto normale, perché era ciò che Bill aveva voluto.

Da qualche parte dentro di sé, aveva sempre conservato il sospetto per cui in realtà Bill non volesse affatto porre fine a tutto. Bill voleva semplicemente dimostrargli in quanti e quali modi avesse sbagliato. In ogni particolare che aveva volutamente ignorato. In ogni parola che s’era lasciato colpevolmente sfuggire di bocca. In ogni sfaccettatura d’espressione cui aveva risposto con studiato distacco. Lui era colpevole.
Le forbici non erano l’arma del delitto. Erano la sua personalissima ghigliottina.
*
Non avrebbe dovuto trovarsi lì. Prima di tutto, perché quella non era giornata di visita. Non l’avrebbero mai fatto entrare. Non gli avrebbero mai permesso di vederlo. Aveva affrontato un viaggio perfettamente inutile.
Secondo poi, perché non stava bene. Anzi: non ci stava affatto con la testa. E questo poteva portarlo a sciocchezze davvero pericolose.
Terzo infine, perché Bill non lo sapeva. E lui era terrorizzato a morte dalla possibilità di fare qualcosa che avrebbe potuto distruggere completamente tutta la fatica che aveva fatto fino a quel momento per riavvicinarsi a lui. Sempre che poi faticare tanto fosse servito a qualcosa.

Le mura che circondavano la clinica erano alte, ma non tanto alte. Costellate da punte disomogenee e dolorose, anche, ma non abbastanza.

Non si arrampicava su qualcosa da…
…e l’ultima volta in cui l’aveva fatto era stato per lui…

Lanciò un’occhiata impaurita oltre il reticolato che sovrastava la parete in cemento per più di mezzo metro. Attraverso le maglie in fil di ferro, si poteva vedere lo scorrere lentissimo della vita dei ricoverati. Chi solo, chi in compagnia di un infermiere, si godeva il proprio momento d’aria. Tutti gli alberi in boccio. Il profumo dei fiori forte al punto da stordirti. Il profumo di un’aria libera e fresca che tra le pareti dell’edificio potevi sentire solo se ti sporgevi alla finestra – e spesso non potevi farlo.
Da qualche parte, là in mezzo, doveva esserci pure Bill.
E lui avrebbe voluto notarlo per primo, ma non ci riuscì.
Come sempre, gli occhi di suo fratello vedevano le cose molto prima che ci riuscissero i suoi. Molto prima che ci riuscissero anche quelli di tutti gli altri, perché le vedeva semplicemente molto prima che si verificassero. Le sentiva nell’aria. Sentiva lui.
Lo sguardo di Bill attraversò il cortile, dalla panchina sulla quale lui era seduto, e si piantò nei suoi occhi. Le sue labbra assunsero una sfumatura di sorpresa del tutto inedita ed ansiosa, e le mani, prima impegnate a stringere un libro del quale, a quella distanza, era impossibile decifrare il titolo, persero presa, lasciando scivolare il volume sulle sue cosce. Tom lo osservò avanzare, appendersi brevemente alle sue ginocchia spigolose e poi rovinare a terra, sull’erba fresca, ai suoi piedi.
Non riusciva neanche a capire cosa sarebbe stato meglio fare. Ma non era una sensazione particolarmente nuova, anzi. Aveva imparato a conviverci, perché nel tempo aveva capito fosse meglio provare il brivido dell’incertezza che non il gelo tremendo della sicurezza con la quale ti imponi di sbagliare pur di non cedere di un passo al tuo orgoglio.

Bill decise per lui, in ogni caso, come aveva sempre fatto e come avrebbe fatto sempre. Si alzò in piedi, recuperò il libro da terra – chinandosi ordinatamente come nelle pubblicità dei cerotti per il mal di schiena, piegandosi sulle gambe senza inarcare la spina dorsale – lo chiuse e lo ripose con cura sulla panchina, bene in fondo, perché non potesse cadere ancora.
Poi si mosse. Con cautela e circospezione, ma senza dare nell’occhio per l’eccessiva furia con la quale ci si guarda intorno quando si è agitati.
Bill era perfetto, come sempre. Ricoperto della solita maschera di ombretto e mascara. Le solite bugie.
Tom lo osservò sorridere cordialmente ad un dottore che l’aveva fermato, ed intrattenersi con lui per qualche chiacchiera di poco conto. Osservò tutto questo mordendosi le labbra. Perché era appeso al muro di una clinica psichiatrica. Perché stava aspettando suo fratello come un ladro – o un amante segreto. Perché Bill era a pochi metri da lui e quello non era il giorno in cui si sarebbero dovuti incontrare né il modo in cui il loro incontro sarebbe dovuto avvenire, ma sembrava tutto talmente giusto da fare quasi paura.
Negli ultimi anni, non gli era mai capitato di sentirsi così dalla parte della ragione. Dalla parte dei buoni. Dalla parte di Bill.

Suo fratello si liberò del dottore con poche, semplici parole di rassicurazione, e poi riprese a muoversi con sicurezza verso di lui. Solo quando fu veramente vicino, Tom si accorse che l’espressione di Bill era incrinata da una sottile vena di paura. Il suo sorriso non era piatto e plastificato come al solito. Anzi, non sorrideva affatto.
Ma c’era una luce nuova, nei suoi occhi. Una luce che non ricordava di vedere da tanto tempo.
Tanto di quel tempo che non riusciva neppure a rammentarne il significato.

Si aggrappò con forza al reticolato, issandosi fino a superarlo con una buona metà del corpo, e si sporse oltre il muro, tendendo le braccia.
Lo ricordò allora, il significato di quella luce. Lo ricordò nel momento in cui la vide farsi più intensa ed inondare completamente le pupille di Bill. Nel momento esatto in cui anche suo fratello tese le proprie braccia, artigliò con furia la carne appena sotto le spalle – oltre la giacca, oltre i vestiti, perché Bill non aveva bisogno di farlo sanguinare davvero, per farsi percepire sottopelle – e si lasciò tirare in alto, aiutandosi coi piedi piantati con decisione sul cemento, e poi fra le maglie della rete, giù fino a terra, sul lato opposto del marciapiede. Il lato giusto.
Bill era leggero come un lenzuolo e non altrettanto ingombrante.
Bill era anche pesante come una benedizione, e altrettanto spaventoso.
I capelli avevano continuato a crescere, ormai lambivano la base del collo. Erano molto più sottili e meno folti di un tempo, ma lui era ancora incredibilmente carino. Aveva anche preso qualche chilo. Non più di uno o due, ma su suo fratello poche centinaia di grammi avevano sempre fatto la differenza.
Bill si guardò intorno e poi si guardò addosso.
- Non sono in pigiama, ma mi sembra di esserlo. – sussurrò, stringendo le braccia attorno alle spalle, come a volersi nascondere fra di loro.
Tom si morse un labbro. Lo strinse a sé. E lo condusse alla macchina.
*
Non dissero neanche una parola, per tutto il tragitto di ritorno verso l’appartamento. Bill guardava fuori dal finestrino, il cappuccio della felpa con la quale Tom l’aveva coperto – e dentro la quale lui affogava come un cucciolo fra le coperte di una cuccia troppo grande – calato sul viso, per renderlo irriconoscibile di fronte a qualsiasi sguardo indiscreto. Teneva le mani appoggiate al finestrino, le dita bene aperte ed i palmi aderenti alla superficie liscia e fresca, la bocca talmente vicina al vetro da lasciare una traccia di vapore ad ogni respiro.
Tom non aveva fatto che guardarlo per tutto il tempo. Al punto che aveva dovuto forzarsi a fissare solo la strada, da un certo momento in poi, perché continuando a spostare lo sguardo dall’asfalto a Bill trovava sempre più facile distrarsi dal primo e sempre più difficile separarsi dal secondo.
Non poteva credere di averlo fatto davvero.
Un’evasione, Cristo.
David e il dannato contratto che si intestardiva a non voler rescindere lo avrebbero perseguitato per sempre.
Così come il fantasma di aver semplicemente sbagliato per l’ennesima volta.
Quando arrivarono a casa, si sentì quasi obbligato a rompere quell’inquietante voto di silenzio. Se non altro, perché stava cominciando a farsi ridicolo.
- Mettiti seduto. – gli disse, passandogli una coperta ed indicandogli il divano, - Ti faccio un po’ di tè.
Bill però scosse il capo, trattenendo per un istante la coperta fra le dita, per poi spostare la presa più in alto, sulla mano di Tom. Le si era avvicinato di soppiatto, quasi strisciando, e poi l’aveva afferrata con una decisione incredibile, seppure in qualche modo esitante. Spaventata, più che altro.
- Vieni con me? – gli chiese, e Tom annuì. Non si sarebbe sentito in grado di negargli neppure la Luna. Si augurava solo lui fosse ancora abbastanza stordito da omettere di chiedergliela.
La parola successiva, Bill la disse dopo aver passato molti minuti semplicemente seduto in silenzio sul divano, a rigirarsi la mano di Tom fra le dita, fissandola intensamente, come volesse sincerarsi della sua reale presenza.
- Perché? – chiese in un fiato, senza staccare gli occhi dalle sue dita, massaggiandone lentamente le nocche.
- Cosa? – ritorse Tom, inumidendosi le labbra secche per l’agitazione.
Bill sbuffò un sorrisetto in parte divertito ed in parte intenerito, e portò l’altra mano a stringergli il polso, massaggiando lentamente anche questo. Come stesse cercando di riprendere familiarità col corpo di Tom poco a poco, centimetro dopo centimetro. Misurandogli la pelle per provare a scambiarla con la propria.
- Mi hai davvero portato via… - soffiò allora, senza lasciar scomparire neanche una sfumatura di quel sorriso vago eppure incredibilmente dolce.
Tom ne evitò la vista, non avrebbe potuto reggerla oltre.
- Mi mancavi. – spiegò, un lieve tremito nella voce che svelava precisamente la prepotenza della sua ansia.
- Anche tu mi mancavi tanto. – annuì Bill, proseguendo la propria carezza nostalgica su fino al gomito di Tom. – C’erano ancora così tanti giorni, fino al quindici…
- Sì. – sorrise brevemente Tom, tornando a guardarlo, - Non potevo aspettare.
Bill ridacchiò, coprendosi le labbra con una mano, mentre l’altra risaliva il braccio del fratello e si fermava sulla sua spalla, come addormentata.
- Mi trovi bene? – chiese Bill, sfuggendo il suo sguardo e stringendo la presa.
- Tu come ti senti?
- Non ha nessuna importanza. – rispose scuotendo il capo, - Almeno, non quanto ne ha il modo in cui mi vedi tu. Secondo te sto bene?
Tom aggrottò le sopracciglia, mentre la mano di Bill lasciava andare la spalla e si avvicinava al collo, sfiorandone appena la pelle sensibile e un po’ accaldata.
- Sembri stare meglio, tutto sommato.
Bill sorrise dolcemente, strizzando lievemente le palpebre.
- Allora sarà vero. – annuì con sicurezza, aprendo le dita per farle aderire completamente al collo di Tom. Non era una stretta, la sua, e per la verità non era neanche una pressione. Sembrava troppo debole perfino per una carezza, era… era come un respiro. Come un saluto sussurrato. Bentornato, Tomi. Bentornato me. – Tomi… - lo richiamò poco dopo, inspirando profondamente ed abbassando lo sguardo, - Noi non abbiamo mai avuto veramente occasione di parlare, dopo quella lettera…
La punta d’ansia che l’aveva scosso dentro ogni muscolo fino a quel momento si fece più insistente. Risalì fino in superficie, attaccandoglisi alla pelle, dolorosa e crepitante come elettricità.
Deglutì.
- Tu non mi hai disgustato, Bill. – rispose. Sentì il dovere di rispondergli, anche se in quel momento Bill non gli aveva posto nessuna domanda. La verità era che Bill non aveva mai fatto altro che chiedergli sempre la stessa cosa, da quando erano venuti al mondo. Stammi vicino. Non te ne andare. Non lasciarmi indietro. Accettami. Amami. Potevano sembrare richieste diversissime, ma in realtà erano la stessa cosa. Bill non chiedeva “molto”. Chiedeva pochissimo, in fondo. Ma in quel pochissimo che chiedeva, c’era tutto. C’era lui. C’erano loro. C’era un’intera vita. – Non volevo farti sentire rifiutato. Non volevo, ma è successo comunque. È successo, ed io l’ho capito subito, sai Bill? L’ho capito da quella volta che ti trovai nel bagno della Kaiserkeller. L’ho capito… - si avvicinò a lui, lasciando che Bill si ripiegasse sul suo collo, elegante come un cigno, offrendogli riparo come avevano sempre fatto fin da bambini, - L’ho capito, e non sono riuscito a farci niente. Perché mi faceva paura. Mi faceva paura tutto, mi facevi paura anche tu, mi facevo paura da solo. Sono stato così male che ho dimenticato quanto potevi stare male tu.
Bill sollevò entrambe le braccia, aggrappandosi con forza dietro la sua nuca, stringendosi a lui con tanta foga da sembrare volesse scavarsi una via nel suo petto, per raggiungere il cuore e nascondersi lì dentro per sempre. Almeno, in questo modo sarebbero ritornati ad essere un’unica cosa. E magari avrebbero sofferto di meno.
- È stata tutta colpa mia, Bill. Tutto quello che è successo dopo, è stata solo colpa mia. Tu non hai proprio niente da rimproverarti.
Gli baciò lievemente una tempia. Era tutto ciò che riuscisse a vedere di lui, così da vicino. Tutto il resto era semplicemente troppo vicino al proprio corpo perché lui potesse davvero riuscire a distinguerli.
- Sapevo che mi avresti salvato, Tomi. – sussurrò Bill, la voce rotta dalle lacrime, accarezzandogli lentamente le spalle, - Sapevo che l’avresti fatto. Io non ho fatto che aspettare. Aspettavo ogni tua visita sperando fosse quella giusta. Ed alla fine è arrivata. Finalmente sei arrivato. – si separò da lui, solo qualche centimetro, lo spazio minimo indispensabile per guardarlo negli occhi. – Finalmente mi hai trovato.

Tik.
*
Forse Bill ha sempre avuto ragione su tutto. Forse lui ha semplicemente avuto più coraggio di me, ecco. Ha avuto il coraggio di vivere per come voleva. Di viversi per com’era. Mentre io non ho fatto che nascondermi. Non ho fatto che montare un’impalcatura di menzogne, tanto intricata quanto debole. Debole perché nessuna delle viti che la reggevano aveva l’anima d’acciaio. Debole perché viti proprio non ce n’erano, probabilmente.
Forse, se avessi perso meno tempo a cercare la soluzione più facile, avrei potuto guardare in faccia la soluzione difficile e darmi da fare perché si rivelasse quella vincente. Forse, se avessi perso meno tempo a cercare le sfumature della normalità in una vita che di normale non aveva mai avuto niente, sarei riuscito a venire a patti con quanto siamo sbagliati tutti, chi più, chi meno, e sarei riuscito ad essere più felice. Sarei riuscito a rendere più felice Bill.
Forse avrei dovuto semplicemente lasciarmi andare all’unico errore che avrebbe sistemato tutto, invece di inanellare una sequenza sempre più fitta di errori privi di senso, allontanandomi da Bill. Che contava i passi, e non se ne lasciava sfuggire neanche uno. Misurava la lunghezza che ci separava, così come la misuravo anche io, ma se per me era un modo come un altro per mettermi in salvo, per lui era solo un modo in più di affondare in sé stesso. E perciò, quel po’ che ancora ci teneva insieme s’è dissolto.
Forse sarebbe bastato riflettere di meno. Forse sarebbe servito riflettere di più.
Forse, semplicemente, avrei dovuto stare ad ascoltare con più attenzione. Guardarlo sempre, come dicevo di fare, anche se mentivo.
Forse sarebbe bastato cercare di ritrovarci. Io e lui, insieme, come sempre.
Forse possiamo ancora.


Si svegliò con questo pensiero fisso, stringendo convulsamente il lenzuolo fra le mani. C’era un rumore acuto e tintinnante che gli riecheggiava nella mente, e lui ne ricordava perfettamente la fonte, ma decise – una volta di più – di lasciare l’immagine nascosta dietro la solita porta, dove vederla sarebbe stato impossibile.
Prima o poi sarebbe riuscito a fronteggiarla, quella verità.
Prima o poi sarebbe stato abbastanza forte.
Prima o poi l’avrebbe salvato davvero.

Nel frattempo, prova a dimenticarlo.
Solo una volta, non farà male a nessuno.
Solo una volta, ti sentirai meglio.
Solo una volta, lui non lo saprà mai.
O forse sì, ma sarà stata una volta sola.
Una volta sola, dimenticherai in fretta anche questo.
Avanti, Tom. Solo un secondo.
06:01:08. 09. 10. 11.
Fanculo.
Titolo originale: Forever Sacred
Autrice: Lirren
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Death, OC, Traduzione.
- Georg e Gustav si ritrovano a guardare da lontano la piccola folla di persone presente al funerale dei loro più cari amici, e si lasciano andare ai ricordi.
Note: Oddio ç_ç Prima di tutto, ci terrei a specificare che questa fanfiction mi ha portato – forse ingenuamente – a rivedere la (bassissima) considerazione che avevo delle deathfic. Il fatto è che ho sempre creduto (probabilmente a ragione, eh XD) che la maggior parte delle deathfic risultasse inesorabilmente per fare schifo – soprattutto in ambito RPF, devo dire. Forever Sacred mi ha spiazzato, perché è incredibilmente semplice, incredibilmente vera e, a mio parere, anche incredibilmente toccante. Nel momento esatto in cui Gustav confessa ciò che ha fatto, io ed Ana abbiamo avuto la stessa reazione. Prima abbiamo riso, e poi c’è venuta una voglia incredibile di piangere. Anche rileggendo la storia per tradurla, la mia reazione è stata lo stesso, ed è veramente stupenda come cosa.
Spero sia piaciuta anche a voi ^_^ Commentate numerose, perché tradurrò i vostri commenti per l’autrice originale ù_ù Facciamola sentire amata come merita, e vedrete presto anche le altre shottine (tutte adorabili, e fortunatamente molto più allegre e comprendenti i gemelli sotto forma vivente XD) situate nello stesso universo! A presto <3 :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PER SEMPRE SACRO
Forever Sacred

Georg rimase a fissare quietamente il piccolo gruppo di persone che stazionava a qualche metro da lui. Sapeva che c’erano persone che avrebbero preferito lui si trovasse fra loro, ma ciò che stava provando non era qualcosa che fosse intenzionato a condividere con persone che erano, in effetti, relativamente degli sconosciuti. Un lieve suono lo forzò a concentrare la propria attenzione sull’uomo al suo fianco. Gustav stava immobile, tranquillo, gli occhiali da sole a nascondere gli occhi.
- Quanto ancora pensi che durerà? – chiese, tornando a guardare il gruppo.
Gustav scrollò le spalle.
- Mezz’ora, forse. – sollevò il viso a guardare il cielo, - Almeno è una bella giornata.
Georg annuì. L’ultima volta che erano stati lì insieme, sei anni prima, quando avevano sepolto la moglie di Gustav, dal cielo cadeva nevischio. Poteva ancora ricordare l’espressione vuota e desolata sul volto di Gustav, dopo che anche l’ultima preghiera era stata detta. Si era preoccupato così tanto che aveva deciso di passare qualche giorno dormendo sul suo divano, solo per controllarlo. Era stato strano il modo in cui s’erano velocemente riadattati alle abitudini della convivenza, anche dopo più di trent’anni passati lontani, e un po’ di giorni s’erano trasformati in settimane, poi in mesi, fino a quando finalmente era stato Gustav a suggerire sarebbe stato meglio rendere la soluzione permanente.
Georg si guardò intorno.
- Sono sorpreso di non vedere telecamere.
Gustav si strinse nelle spalle.
- Non facciamo più battere il cuore a nessuna teenager, oramai. A nessuno importa di un gruppetto di nonnetti.
Georg si offese.
- Parla per te, nonnetto. Io sono un figo come sempre.
Gustav ghignò leggermente.
- Sì, okay. Continua a ripetertelo, se questo ti fa stare meglio.
Il matrimonio di Georg era durato solo qualche anno, ma nel momento in cui colse in uno sguardo la figura di sua figlia ferma in mezzo al capannello di persone si rese conto di nuovo di non averlo mai rimpianto. Kati era la luce della sua vita, e nessuno era stato più felice di lui quando il figlio di Gustav l’aveva chiesta in sposa. Ricordava ancora come lui, Gustav e i gemelli si fossero ubriacati fino a svenire al ricevimento di notte, e come lui avesse cominciato a piagnucolare e blaterare sull’essere felice del fatto che, se doveva proprio lasciare che la sua piccolina se ne andasse, almeno era consapevole di stare lasciando che andasse ad un buono uomo. Bill e Tom l’avevano preso in giro per questo per mesi.
Pensare ai gemelli lo riportò indietro al presente, ed a controllare l’orologio.
- Sta durando troppo a lungo.
- Hanno quasi finito. – disse Gustav, - Dovremo andare all’appartamento, domani.
Georg annuì.
- Pensi che ci sarà molto disordine?
Gustav grugni piano.
- Non più di quanto ce ne sia da noi. – disse con un piccolo sorriso, - Tu e Bill avete avuto sempre più o meno lo stesso modo di fare confusione.
Georg rise a bassa voce.
- Ricordi quando cominciò a fare i capricci perché il suo flacone di balsamo gli esplose nella valigia, imbrattando tutta la sua biancheria?
Gustav ridacchio.
- Ed andava in giro imprecando e battendo i piedi, lanciando i vestiti ovunque. Ho pensato che avremmo dovuto chiamare Saki, per impedirgli di distruggere la stanza.
- E poi arrivò Tom, gli strappò una scarpa dalle mani e gli sussurrò qualcosa, e non servì altro. Era tornato tutto felicità e sorrisi. – Georg percepì qualcosa di pesante scendergli addosso nel ricordare. Guardò in basso, l’erba ai suoi piedi. – Ti sei mai chiesto se per caso non l’avessero fatto di proposito?
Gustav rimase in silenzio a lungo, e Georg aveva quasi rinunciato all’ipotesi di ricevere una risposta, quando lui finalmente parlò.
- Gliel’ho chiesto, una volta. Be’, non proprio chiesto, più che altro gliel’ho gridato. È successo qualche anno dopo che la cosa era venuta alla luce. Il padre di Elaine stava cercando di obbligarla a smettere di vedermi, dicendole che frequentavo pervertiti ed avevo perso il lavoro come produttore di quella giovane band svizzera perché la madre del chitarrista aveva pensato potessi avere una cattiva influenza sui ragazzi. Ho completamente perso la testa. Sono andato a casa loro ed ho cominciato a gridare e strepitare e accusarli di aver consapevolmente fatto l’amore su quella spiaggia, pur sapendo che c’erano paparazzi tutto intorno, così non avrebbero più dovuto sopportare il peso del segreto.
Georg spalancò gli occhi.
- Wow. E cos’hanno detto loro?
Gustav scrollò le spalle.
- Bill mi guardo con quell’espressione che faceva sempre quando qualcuno diceva qualcosa di completamente ridicolo, e disse che non poteva credere potessi pensare cose simili di loro. Ma Tom, - scosse il capo, - Tom sembrava semplicemente sentirsi in colpa.
Il bassista annuì.
- Bill è sempre stato più bravo a mentire, anche a se stesso. – guardò in alto, verso le nuvole bianche e morbide che passavano sopra le loro teste. – Avresti potuto semplicemente andartene. Loro avrebbero capito. Penso che in realtà se lo aspettassero, da entrambi.
- Non avrei mai potuto perdonarmi se li avessi abbandonati. Sapevamo quello che stava succedendo. – si voltò appena a guardare altrove. – Lo sapevamo, e non abbiamo mai detto niente. Li abbiamo perfino coperti. Se loro hanno sbagliato, lo abbiamo fatto anche noi.
- Pensi che abbiano sbagliato? – chiese lui.
Gustav sospirò.
- Non lo so. Forse. Forse no. Ma che importava? Tutto ciò che hanno sempre voluto era la loro musica e loro stessi. Non hanno mai fatto del male a nessuno, quindi non ho mai visto nessuna ragione valida perché non dovessero avere entrambe le cose.
Per un momento, Georg fu distratto dalla discussione. Guardò avanti, per vedere la piccola folla disperdersi e la propria figlia avvicinarsi al punto in cui lui e Gustav stavano aspettando. Sorrise lievemente, quando lei lo baciò sulla guancia.
- Siete pronti per andare? – chiese lei, mentre si chinava ad abbracciare Gustav.
Georg scosse il capo.
- Vi raggiungeremo presto.
Kati spostò lo sguardo fra loro, visibilmente preoccupata.
- Perché non venite a cena, stasera? Potrei prepararvi il vostro piatto preferito! E i bambini sarebbero felici di vedervi. – disse, voltandosi a guardare suo marito, - Potrebbero anche stare da noi per un paio di giorni, no?
- Kati. – la interruppe Georg, stringendole una mano nella propria, - Stiamo bene. Vai a casa. Verremo a trovarvi fra qualche giorno. Per adesso, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per starcene per conto nostro.
Kati si morse le labbra. Annuì, anche se qualche lacrima cominciava già ad affacciarsi fra le sue ciglia.
- Okay. Ma vi vedremo presto, giusto?
Gustav annuì.
- Date un abbraccio ai bambini da parte nostra. – disse, baciandola sulla guancia ed abbracciando il proprio figlio, prima di indirizzarli con una leggera gomitata verso la macchina che li aspettava.
- Si preoccupa troppo. – si lamentò Georg.
- Non puoi davvero biasimarla. – disse Gustav, - Probabilmente, è la prima volta che deve realmente prendere atto del fatto che tu non sei immortale.
- Hmmm. – mugugnò Georg, voltandosi a guardare il piccolo padiglione che proteggeva dal sole di mezzogiorno una coppia di bare identiche. – Penso che sia arrivata l’ora.
Gustav non rispose, si limitò a cominciare a camminare.
Georg lo seguì, lasciandosi distrarre dalle memorie del passato.
- Ti ricordi quando Kati era ancora una bambina e Bill si mise a giocare con lei subito dopo che Tom le aveva dato da mangiare.
Gustav scoppiò letteralmente a ridere.
- Gli vomitò tutto addosso. Dio, che sguardo aveva.
- Anche Tom. Sembravano entrambi come sul punto di vomitare a loro volta. E c’è stata anche una volta in cui i gemelli le hanno fatto da babysitter. – continuò Georg, ridendo più apertamente, - Subito dopo il divorzio, e fecero il gravissimo errore di lasciare che Kati mangiasse troppe caramelle e bevesse troppa soda. Quando andai a riprenderla, pensai che Bill sarebbe scoppiato a piangere dal sollievo.
- Oh, come se non fosse il giusto prezzo da pagare per tutte le volte che noi avevamo dovuto avere a che fare con lui in overdose da Red Bull. – commentò Gustav seccamente, - Il karma può essere lento, a volte, ma ti raggiunge sempre, in qualche modo.
Le loro risate si spensero nel momento in cui i due si fermarono di fronte alle bare. Georg rimase in silenzio, guardando i contenitori nei quali era conservato quanto rimaneva di due uomini che erano stati per lui una famiglia, per quasi tutta la sua intera vita. Il pensiero di quanto tutto ciò che stava vivendo fosse reale comincio a farsi strada dentro di lui, mentre si ritrovava a fronteggiare il fatto che non avrebbe mai più visto il sorriso luminoso di Tom e non avrebbe più sentito la risata dolce di Bill, mai più. Tutto il dolore ed il cordoglio che aveva trattenuto fin dal momento in cui avevano appreso la notizia di condensò in una sfera nel mezzo del suo petto, rimanendo lì a soffocare i singhiozzi che cercavano di farsi strada con la forza per uscire dalla sua gola.
Lasciò scivolare una mano sulla bara più vicina.
- Non è giusto. – disse, mentre le lacrime cominciavano a scivolare giù sulle sue guance, - Dovrebbero essere insieme. Sono stati insieme dal primo momento in cui sono venuti al mondo. Non dovrebbero stare separati così per tutto il resto dell’eternità. – e la diga finalmente crollò, mentre lui si lasciava andare, appoggiando la testa sulla superficie lucida della bara, singhiozzando.
In un momento Gustav lo attirò a sé, stringendolo fra le forti braccia che l’avevano confortato sin da quando erano piccoli.
- Non lo sono. Shhh, Georg, non lo sono. Non sono soli.
Georg sollevò il capo, ancora tremante per il dolore.
- Che intendi?
Gustav si fermò un attimo, per asciugare le proprie stesse lacrime.
- Non sono soli. Ho pagato un tipo delle pompe funebri perché li mettesse nella stessa bara. L’altra è lì soltanto per conservare le apparenze.
Georg fissò sconvolto l’amico. Poi un piccolo sorriso cominciò a farsi strada sul suo viso, quasi strisciando. Il sorriso si trasformò in una risatina repressa, poi in un singhiozzo divertito, e ben presto Georg si ritrovò ad accasciarsi debolmente per terra, ridendo senza freni.
- Oddio. Oh, mio Dio, Gustav. Posso solo provare ad immaginare la conversazione. – guardò in altu Gustav, che lo stava a propria volta guardando con un sorriso sottile, - I gemelli l’avrebbero adorato.
Gustav ghignò e lo prese per un braccio, aiutandolo a risollevarsi in piedi. Poi tornò a guardare le bare, poggiando una mano sulla più vicina e sussurrando un addio quasi silenzioso, prima di allungarsi a prendere due rose dal vaso che ne conteneva il mazzo. Intrecciò i loro gambi e le passò a Georg.
- Andiamo a casa. Ti faccio un po’ di cioccolata.
- Con i marshmallow?
Gustav annuì seriamente.
- Non sarebbe la stessa cosa senza i marshmallow. – dopodichè si voltò e cominciò a camminare lentamente verso la macchina.
Georg guardò le rose che teneva in mano e si avvicinò alla bara che conteneva entrambi i suoi amici, insieme anche nella morte, nello stesso modo in cui erano sempre stati per tutta la loro vita.
- Ci rivedremo presto. – sussurrò. E poi si allontanò.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Slash, OC.
- "Quando Bill Kaulitz entrò nella mia vita, era una bella giornata di fine primavera." La storia di un ragazzo che non sa chi è, non sa cosa vuole e non sa perché stia combattendo, ma di sicuro è certo che non smetterà di battersi fino alla fine. Perché lui ha ragione. Tutti gli altri torto.
Note: Questa storia mi ha decisamente messa a dura prova XD Un po' perché, quando l'ho cominciata, avevo idea dovesse venir fuori molto – ma molto – più breve e meno articolata. Ma questa è stato lo stravolgimento minore, se devo dire la verità.
Questa storia va più o meno contro tutti i miei principi fangirlanti. È gratuitamente depressa. È del tutto disillusa e neanche vagamente romantica. Ed affronta un argomento molto pesante. Io giudizi non ne do. Spero sia ovvio che qualsiasi parola sia uscita dalla bocca dei personaggi non rispecchia necessariamente il mio modo di vedere le cose. Se non fossi in grado di scindermi dai personaggi di cui scrivo (cosa che faccio sempre, tranne durante le scene di sesso, perché in quelle è più divertente così ù.u") scriverei solo robe piene zeppe di Mary-Sue, e fortunatamente quel periodo l'ho abbandonato anni fa. È una storia che mi piace molto, se non altro perché è totalmente diversa da tutto ciò che ho scritto e letto sui Tokio Hotel da quando ho cominciato a fangirlare su di loro. Mi piace molto anche perché mi piace questo Bill. Adoro i personaggi che mi fa paura affrontare, e lui paura me ne fa eccome X3 E poi mi piacciono molto anche i brandelli di Tomi che si vedono, perché è un Tom molto indifeso, impreparato e sconvolto, completamente diverso dal "solito" che si è abituati ad incontrare nelle fanfiction. Ciononostante, sebbene per la maggior parte del tempo in cui la scrivevo l’abbia non solo amata ma anche apprezzata per come veniva fuori, verso la fine ho, come al solito, cominciato a farmi prendere dalle paturnie XD Il che dimostra che io non dovrei mai rileggere quello che scrivo, perché rischio la depressione.
Per la totalità della sua progettazione – ed anche per buona parte della stesura – è rimasta senza titolo. Un po' come i personaggi originali – che adoro, perché sono tutt'altro che perfetti e compiono un errore di valutazione più o meno ogni venti righe *-* - i quali, alla fine, sono rimasti senza nome. Semplicemente non ne avevano uno, e neanche la storia. Alla fine, non dico che ho dovuto trovarglielo per forza, ma be', quasi. Anche perché, se c'era una cosa che non mi andava, era di lasciarla Untitled "XD Comunque sia, alla fine Mister Bellamy è venuto in mio soccorso – come sempre. Anche se in realtà non si trattava esattamente di lui, ma della sua emanazione pseudo-pubescente-refrattaria-allo-sviluppo-nonostante-l’adolescenza-incombente del 1994 (Dio-mio), anno in cui, presentandosi come Rocket Baby Dolls, lui e quelli che poi sarebbero diventati i Muse assieme a lui, vinsero un contest musicale in quel della loro odiosa contea. La canzone si intitolava Jigsaw Memory, ed era un orrido rigurgito punkettino post-adolescenziale del quale oggi – fortunatamente – sopravvivono solo sette secondi – che io ovviamente possiedo u.u
Comunque sia, jigsaw è un termine adorabile, che in inglese sta ad indicare i puzzle e tutti quegli altri giochini che si compongono. Mi è sembrato un titolo molto adatto per quella che, in fondo, è una storia ricostruita coi ricordi di tre persone.
Oltre che coi puzzle, questa storia ha anche molto a che fare con Somewhere I Belong dei Linkin Park. E non solo perché la stavo ascoltando mentre la plottavo, ma perché mi ricorda incredibilmente il Bill di questa storia. Il fatto sia innamorato di suo fratello è una componente della sua caratterizzazione, sì, ma non la totalità. Dentro di lui non è tanto importante l'incapacità di accettarsi com'è, ma più che altro, come ammette lui stesso, l'incapacità di comprendere che possano esistere persone che, di accettarlo così com'è, non hanno la benché minima voglia. E questo nonostante l'abbia provato sulla sua pelle. In particolare, quando Mike canta "'cause I can't trust no one by the way everyone is looking at me", io lo sento molto Bill, ecco >_<
Un'altra fondamentale fonte di ispirazione, mentre plottavo, è stata la lettura della splendida Heilig, di Sara. Che, se ve lo state chiedendo, con questa storia non c'entra un accidenti di niente XD Ma mostrava un interessantissimo rapporto fra Tom e un chirurgo. Che neanche quello c'entrava un accidente col rapporto che lega Bill al mio, ma mi è stato d'incentivo per provare a vedere la storia da questo punto di vista, ecco tutto. Quindi, un grazie anche a Sara <3 Per questo, e per aver fornito l'utilissima info (l'anno teorico in cui Bill ha fregato la ragazza a Tom XD Che poi, sinceramente: a uno che dice di aver fatto sesso la prima volta a tredici anni, per quanto sia figo, voi credete, quando dice che il fratello gli ha rubato la ragazza quando ne aveva dieci? Bah.) che è servita per sviluppare decentemente il tema del twincest all'inizio della parte di Bill *-* Vedi, Sara? Sei mia complice nel twincest. *ride*
Un grazie anche a Nai, che ha betato – donnina, sei l'amore <3 – ed a Meg che, mentre, come al solito, andavo in paranoia, leggeva e mi rassicurava. Vi voglio bene.
Ovviamente, l'ultimo grazie va a voi, amate lettrici e fangirl <3 Per aver letto. Per aver letto fino a qui XD Per aver letto fino a qui nonostante tutto!!! X'DDDD E per le recensioni che lascerete. Tanto amore ed a presto <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
JIGSAW MEMORY

Quel ragazzino lo conoscevo. Ne sapevo abbastanza di lui – che era famoso, che era ricco, che era desiderato, che era una star – da sapere anche che non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava, ovvero nel mio studio, su una scomoda poltrona girevole in pelle marrone, davanti alla mia scrivania, a parlare di chirurgia plastica.
Curiosamente, sapevo abbastanza di lui anche per intuire che forse il posto in cui era fosse il migliore in assoluto nel quale avrebbe dovuto e potuto trovarsi.
Questo perché, nell’enorme presunzione che spesso e volentieri accomuna i medici – specialmente i chirurghi, è proprio il caso di ammetterlo – credevo di potere intuire i suoi motivi da ciò che sapevo di lui.
Cioè che il suo modo di presentarsi in pubblico era ambiguo e che gli davano della femmina.
Sapevo che non era lì per dare una forma migliore a un nasino a punta in alto che perfino il meno esperto degli esteti non avrebbe esitato a definire perfetto. Sapevo che non era lì per privarsi di un po’ di grasso corporeo, semplicemente perché risultava chiaro anche alla più distratta delle occhiate su quel corpo ci fosse tutto meno che grasso. Sapevo che non era lì per aumentare la propria altezza, perché una lunga lista di modelli si sarebbe messa in fila per ottenere qualcosa di anche solo vagamente somigliante allo slancio atletico e perfetto delle sue cosce o alla perfetta proporzionalità dei suoi polpacci, il cui unico difetto avrebbe forse potuto riscontrarsi nell’eccessiva magrezza, che però ben si armonizzava con tutto il resto del suo corpo.
L’unica altra cosa – oltre quella a cui pensavo – per la quale avrebbe potuto presentarsi nel mio studio, era l’aumento della massa muscolare. Ma avevo l’impressione che la muscolatura ed il suo tono non fossero il primo dei suoi pensieri, vista la sottile eppure evidente pancetta che caratterizzava il suo ventre, e che, più che grasso, sembrava proprio un generale rilassamento di addominali.
I chirurghi sono anche piuttosto perversi, però.
I chirurghi plastici soprattutto.
Io posso dirlo perché lo sono.
Un chirurgo. Un chirurgo plastico. E perverso, anche.
Perciò, quando lo vidi e quando gli parlai, non pensai al tono muscolare. Non pensai neanche per un secondo che quello fosse il tipo d’intervento che gli interessava.
- Coraggio, dottore. Completiamo il lavoro.
*
Quando Bill Kaulitz entrò nella mia vita, era una bella giornata di fine primavera. Una di quelle giornate che ti fan proprio tornare la voglia di stare al mondo, anche se magari fino alla sera prima avresti tranquillamente preferito tapparti in casa, chiudere tua moglie fuori dalla camera da letto e soffocarti di whisky e tranquillanti fino a crepare solo come un cane come ti sentivi di meritare. A volte capita, è inutile girarci intorno, anche se, a buttarla lì con indifferenza, mi rendo conto possa risultare difficile da mandare giù, soprattutto per chi ha aperto questa busta non per leggere la storia della mia vita, ma per capire per quale motivo Bill e Tom Kaulitz siano morti e risorti nel giro di due giorni. Comunque, che a volte capiti è del tutto vero. E buttarla lì con indifferenza è il talento nascosto di ogni medico che si rispetti. È il distacco dalle vite dei pazienti che ti rende così. Spargi annunci di morte come il ragazzo in bicicletta coi giornali, al mattino, e quindi, anche quando la tua vita fa schifo, è con la stessa identica faccia di culo che accogli la notizia.
Semplicemente ci sei abituato.
Ma sto divagando.
La giornata era splendida davvero. C’era un bel sole, non troppo caldo e non troppo distante, un bel cielo terso e tutti gli alberi in fiore. L’aria profumava di buono in ogni molecola. Non c’era verso di sfuggire a quell’odore delizioso, ti perseguitava ed era stupendo lo facesse.
In città trafficate come Berlino, cose simili non succedono molto spesso.
O sei tu che, semplicemente, in genere non sei in grado di notarle.
Comunque, Bill Kaulitz varcò quel giorno la porta del mio ufficio, la zip del giubbotto tirata su fino al naso, un enorme paio di occhiali da sole a mascherargli il viso e un incredibile cappuccio di lana sulla testa.
Bill Kaulitz entrò nel mio ufficio. Si rese riconoscibile. Sorrise.
E mi distrusse la vita.
Cosa per la quale non posso che essergli grato.
*
- Come saprà, signor Kaulitz, le cose non sono così immediate come sembra alla tv. – annunciai gravemente, giungendo le mani ed intrecciando le dita sotto al mento.
Lui mi squadrò attentamente.
- No. – disse, sincero, - Non lo sapevo. Che significa?
- Non possiamo operare indiscriminatamente chiunque. – spiegai atono, stringendomi brevemente nelle spalle, - C’è una prassi da seguire. Bisogna prima effettuare un colloquio con una psicologa. Qualcuno che possa garantire che la sua scelta sia lucida e ponderata, e non il risultato di uno scatto irragionevole.
Bill si concesse un sorriso storto, sbuffando sonoramente.
- Credevo si basasse tutto sul concetto di soddisfazione del cliente. – borbottò senza guardarmi, - Se il cliente non è a posto con qualche particolare del suo corpo, lo si cambia.
Avrei voluto sorridere ed annuire, perché per me in effetti era esattamente quello, il punto della questione. I chirurghi plastici giustificano con quella frase il loro lavoro, in effetti. Glisserò sul fatto che i chirurghi plastici siano praticamente l’unica categoria di medici obbligata a giustificarsi per ciò che fa, e dirò direttamente che, in genere, quando dicono cose simili stanno mentendo.
Il mestiere del chirurgo plastico è parecchio remunerativo. È quella la loro motivazione. È quella l’unica cosa che li spinge a concedere gli interventi.
Ciononostante, fra i chirurghi plastici, ce n’è qualcuno che in questo principio crede davvero. Io appartenevo alla categoria, per esempio. In presenza di pazienti palesemente lucidi, trovavo l’obbligatorietà della visita di valutazione psicologica totalmente inutile. Spesso cose come quelle portavano più problemi che altro. Obbligavano i pazienti a prendere atto di verità che fino a quel momento non avevano voluto neanche prendere in considerazione, quando sarebbe stato molto più semplice dar loro ciò che chiedevano e lasciare che vivessero spensierati, nella perfetta ignoranza delle pieghe più meschine della propria psiche.
Sta di fatto che, in quell’occasione, proprio non potevo rinunciare a quella visita. Mi avvicinavo ai cinquant’anni e stavo vivendo un periodo lavorativo particolarmente soddisfacente. Finire in galera per aver permesso ad un ragazzino di sottoporsi ad un intervento come quello, solo per non aver voluto valutare prima se fosse completamente pazzo o meno, non rientrava nei miei programmi a breve né a lungo termine.
- Per interventi di piccola entità, in effetti, generalmente non obblighiamo il paziente a questa routine. – argomentai, - Ma qui non si parla di un lifting né di una rinoplastica, se ne renderà conto. Si tratta di qualcosa di molto più drastico. Devo assicurarmi che non si tratti anche di qualcosa di cui in futuro potrebbe pentirsi, rinsavendo. – ridacchiai, - Per poi farmi causa.
Bill rise con me, giocherellando distrattamente con una sfilacciatura nella pelle del bracciolo della poltrona.
- Mi creda, dottore, non sto sbagliando adesso. – cercò di rassicurarmi, guardandomi dritto negli occhi, - È la natura che ha sbagliato all’inizio. Il vostro mestiere non è riparare questo tipo di errori?
- Esattamente, signor Kaulitz. – insistetti, alzandomi in piedi per concludere il dibattito, - Ma solo dopo esserci assicurati che lo siano davvero. Ora, se vuole accomodarsi nella sala accanto, la segretaria si occuperà di prenderle un appuntamento con la psicologa del nostro centro.
*
Io e mia moglie c’eravamo conosciuti ad una festa in casa di un amico comune, e c’eravamo innamorati praticamente all’istante.
La cosa non mi ha mai stupito: siamo sostanzialmente identici. Entrambi forti ed orgogliosi, ed entrambi completamente votati ai nostri lavori.
Entrambi degli idealisti, a nostro modo.
Chiacchierammo un po’ e ci rendemmo conto di quanto i nostri mestieri fossero simili, pur nella diversità dei campi in cui operavamo. Alla fine, sia io che lei non facevamo che riparare errori funzionali. Nell’aspetto io, nella sostanza lei.
Fortunatamente, lei non è mai stata il tipo di psicologo che, in virtù di questa differenza fondamentale – quella che separa l’aspetto dalla sostanza, appunto – si creda superiore rispetto al lavoro svolto dagli altri.
Girava tutto intorno allo stesso obiettivo, in fondo: curare la gente.
Questo era tutto quello che avevamo in comune. Può sembrare assurdo basare una storia su queste premesse, ma noi lo facemmo lo stesso, e ci sposammo nel giro di due anni. Nel giro di altri due, sprofondammo poi dall’entusiasmo iniziale all’indifferenza reciproca.
Personalmente, sapevo che sarebbe successo. L’unica cosa di cui parlavamo, sia prima che durante la nostra vita matrimoniale, era il lavoro. Non avevamo hobby in comune – non avevamo hobby – né altri argomenti di conversazione da sfruttare. Trovavo già di per sé una vittoria l’aver evitato di cadere nella classica spirale d’odio che porta le coppie al divorzio dopo un logorante periodo di violenza più o meno esplicita. Pensavo addirittura che avrebbe potuto funzionare come quei vecchi matrimoni in cui semplicemente ti abitui alla presenza dell’altro, ne fai una costante fondamentale della tua vita, un punto fermo, una garanzia, e poi finisce pure col mancarti quando non c’è più.
Ero tutto sommato soddisfatto.
Assunsi mia moglie nel mio studio proprio per cementare quest’unione, e lei me ne fu grata. Tra l’altro, non era prevenuta nei confronti della chirurgia plastica: non partiva dal presupposto di dover convincere i pazienti ad evitarla ed accettarsi a tutti i costi così com’erano. Lei stessa, mi confessò, aveva subito un intervento al seno destro, poco più che ventenne, per regolarne la pendenza e livellarla rispetto a quella del seno sinistro. Quell’asimmetria l’aveva imbarazzata e messa a disagio per anni, e da quando aveva risolto il problema era una donna molto più sicura e serena.
Era la collaboratrice perfetta. Generalmente, quando mi diceva che non pensava fosse il caso di operare un certo paziente, mi trovava d’accordo. Non entravamo quasi mai in conflitto.

Io avevo già deciso che avrei operato Bill Kaulitz.
E lo mandai da lei con la certezza che sarebbe stata d’accordo.

***************

- Bill, devo dirtelo. – si lasciò andare ad un mezzo sorriso tirato e inquieto. Io cercai di ignorarlo ed andai avanti, - Non sono d’accordo con la tua scelta. Non credo che un intervento simile risolverebbe i tuoi problemi, anzi, sono piuttosto sicura del contrario. Devo avvertirti che ne parlerò col dottore e darò il mio esplicito dissenso.
Il sorriso di Bill mi fece male. Mi fece male perché era fisso, immobile, come cristallizzato sul suo volto, innaturale e fasullo come i sorrisi delle bambole. Mi fece male perché non era una testimonianza di rassegnazione, no. Non aveva sempre saputo che sarebbe finita in quel modo. Lui ci aveva creduto, in quella soluzione. Aveva messo il suo corpo nelle mani di uno sconosciuto, e la sua mente nelle mani di una sconosciuta, ed aveva creduto veramente che sarebbero riusciti a condurlo dove voleva.
In quel momento, Bill non stava mostrando tutta la rassegnazione disillusa del ragazzo che, in fondo in fondo, aveva sempre saputo che non ce l’avrebbe fatta. Bill stava mostrando tutta la delusione, e la tristezza, e il disappunto del ragazzino che ci aveva sperato tanto intensamente da concedersi di crederci per davvero, una volta tanto.
Non è facile vedere sorrisi simili. Non è facile, perché sorrisi simili uccidono. Non è facile, grazie al cielo.
- Mi dispiace. – aggiunsi, in uno slancio di cortesia che sapevo perfettamente inutile.
- Non è vero. – commentò lui, senza sollevare lo sguardo. Poi sospirò, e nella poca aria che trattenne nei polmoni sembrò condensare tutto il coraggio che gli mancava e che aveva racimolato attingendo alle scorte che avrebbero dovuto bastargli per l’intera vita. – Dottoressa, io ho bisogno di quell’operazione. Ne ho bisogno davvero. Così non posso più andare avanti, devo fare qualcosa.
- Potresti fare qualcosa di molto meno drastico. – suggerii pacatamente, lasciando scorrere lo sguardo sui taccuini zeppi di appunti che avevo preso su di lui. Ripercorsi mentalmente la sua storia e tutti i suoi racconti, nella speranza che questo mi aiutasse a trovare una soluzione da proporgli. Qualcosa che fosse efficace. Qualcosa che lo aiutasse.
In quindici anni di collaborazione, io e mio marito avevamo discusso praticamente qualsiasi cosa: dal colore della moquette in camera da letto ai luoghi dove trascorrere le vacanze estive. Ci eravamo trovati immediatamente d’accordo così raramente che posso contare le volte sulle dita di una mano. Ma il lavoro è sempre stato diverso. Nel lavoro non ci siamo mai contraddetti. Anche perché sia io che lui abbiamo sempre avuto ben chiara la differenza che corre fra una legittima ricerca di un corpo bello ai propri occhi e la totale follia. Ovvero, per fare un esempio, entrambi sapevamo che le costole fossero dodici per lato. Che toglierne un paio potesse anche starci. E che invece toglierne sei o otto fosse già indice di un problema più radicato di quanto siano le stesse ossa nella colonna vertebrale.
Sapevo che lui voleva operare Bill Kaulitz. Sapevo che Bill Kaulitz voleva essere operato. Sapevo che lo volevano perché erano entrambi convinti fosse la cosa migliore da fare.
Io, però, non potevo permettere niente del genere a nessuno dei due.
- Nient’altro andrebbe bene. – ribatté lui, scuotendo il capo, - Nient’altro avrebbe lo stesso… impatto.
- Non sempre hai bisogno di distruggere una vita, per cambiarla. – feci presente, cercando i suoi occhi. Ma non li trovai, Bill non mi guardava. Ed ho il vago sospetto che, tutte le altre volte, anche quando mi guardava, Bill neanche mi vedesse.
- Per cambiare no, dottoressa. – corresse lui, sorridendo a malapena. – Ma per ricostruire, sì. Io non ho nulla da cambiare. Io devo abbattere. Devastare, spazzare via. E poi ricominciare.
- Questo è solo perché ti sei convinto di non avere altre soluzioni! Credi di non avere altre vie di scampo! – mi agitai io, stringendo i pugni sulla scrivania.
E lui finalmente lo sollevò, quel benedetto sguardo.
Quando una persona è veramente bella, te ne accorgi in momenti come questo. Quando è stravolta dal dolore, dalla preoccupazione, dalla tristezza e dalla paura. Ed è comunque bellissima.
- Io non credo niente, dottoressa. – concluse pacato, intrecciando le dita proprio lì, a pochi centimetri dai miei pugni serrati. – È solo in quest’operazione che credo. – sospirò ancora, socchiudendo gli occhi prima di tornare a guardarmi. – Lei non può fermarmi. – mi avvertì atono, - Se non otterrò qui ciò che voglio, lo cercherò altrove. Prima o poi troverò qualcuno che si faccia convincere dalle mie argomentazioni. – sorrise brevemente, sbuffando una risatina che era tutto meno che divertita, - O che non le chieda affatto.
Aveva ragione.
Quello non era uno studio unico, ne avrebbe trovati altri uguali. Altri che avrebbero risposto no. Altri che gli avrebbero consigliato l’analisi. Altri che non gli avrebbero permesso di uccidersi. Non eravamo una mosca bianca.
Eravamo comunque pochi, però. Anche col prossimo tentativo, avrebbe potuto incappare in un medico cui non interessassero motivazioni e ripercussioni legali – perché magari andava solo alla ricerca di soldi, o sapeva che un intervento del genere su un tipo del genere gli avrebbe dato più notorietà di quanto non avrebbero fatto lustri di duro ed onorato lavoro – un medico che, semplicemente, lo accontentasse.
Bill aveva ragione, io non potevo fermarlo.
Il punto era: nelle mani di chi volevo che si ritrovasse, quando avrebbe riaperto gli occhi e, dopo aver capito cos’aveva fatto, avrebbe avuto solo voglia di morire?
*
Mio marito ha fatto un grande errore a chiedere la mia parte di “confessione” per quanto riguarda tutta questa storia. Io non ho la minima capacità di ricostruzione delle mie memorie, è per questo che riempio taccuini su taccuini con le confidenze dei miei pazienti. So che l’immagine comune che la gente ha degli psicologi prevede una poltrona, un paio di gambe accavallate e un taccuino fittamente decorato di fronzoli in inchiostro nero d’ordinanza, ma la verità è che ben pochi di noi scrivono davvero qualcosa durante le sedute. Un po’ perché i pazienti odiano si prenda appunti sulle loro vite, ed è un atteggiamento che li indispone e li inibisce, ed un po’ perché in generale quasi nessuno dei casi che si presentano in uno studio è veramente complesso al punto da pretendere una ricostruzione scritta.
Hollywood è un’incredibile dispensatrice di menzogne, in questo senso. Non è colpa sua, non è che in calce ad ogni pellicola ci sia scritto “tutto avviene sempre come lo dipingiamo nei film”, anzi. In genere, il messaggio che si cerca di far passare è molto diverso.
Ma le menti umane, le menti umane… sono così facili all’inganno, così naturalmente predisposte al farsi stupidamente irretire dalle realtà semplici ed intuitive… perciò, se in un film vedono una ragazza affetta da un disturbo di personalità multiple recarsi di propria iniziativa da uno psichiatra perché ha appena ripreso conoscenza nel mezzo di un giardino abbigliata come dovesse andare all’opera e vuole giustamente capire cosa diavolo le sta succedendo, faranno la prima associazione mentale utile e crederanno che sia sempre così. Sapessero quanto raramente psicologi e psichiatri hanno la fortuna di essere in grado di aiutare persone con problemi così gravi e quanto spesso capita che, nelle rarissime volte in cui entrano a contatto con soggetti simili, lo facciano solo per un puro caso fortuito, probabilmente si preoccuperebbero molto di più. Perché significherebbe riuscire ad inquadrare la realtà delle loro città per ciò che realmente è: un enorme agglomerato di persone con turbe di ogni tipo, più o meno gravi, in cui più o meno una ogni dieci potrebbe svegliarsi un giorno e scoprirsi serial killer. E nessuna di loro che abbia pensato a mettere al sicuro i suoi concittadini sani, dedicandosi a un ciclo di analisi. Che egoisti.
Ma sto divagando, ed ecco un altro motivo per il quale mio marito ha sbagliato a chiedermi aiuto per questa cosa: la mia capacità di raccogliere i pensieri in un unico filo sensato con un capo, una coda ed uno svolgimento ben definiti mi è totalmente estranea.
Ma lui sembra tenere moltissimo alla completezza di questa stupida cartella clinica. E in qualche modo ci tengo anche io, quindi farò uno sforzo di concentrazione e mi darò da fare coi ricordi.
Dunque. La prima cosa che sento, in genere, dai pazienti, quando chiedo loro perché credono di trovarsi sulla sedia davanti a me, è “perché mi hanno detto di venire qui”. Che è, francamente, la risposta migliore in assoluto un paziente possa dare ad un dottore, credetemi.
Quando la gente va dallo psicologo di propria iniziativa, è sempre piena di congetture ed idee. Così, quando il medico chiede “allora, signora cara, perché pensa di trovarsi qui?”, la signora cara non è mai avara di motivazioni strampalate. “Credo di avere avuto problemi con mio padre, credo che il suicidio della mia cugina di quinto grado avvenuto a migliaia di chilometri di distanza da me quando avevo quindici anni mi abbia sconvolto, credo di avere un conflitto irrisolto col mio barboncino Lulu” eccetera eccetera. Ovviamente, le stesse cose varrebbero anche per un signore caro… se gli uomini andassero veramente in analisi. In genere, però, non lo fanno affatto.
Comunque, avere un paziente “contaminato” è drammatico. Fornire ipotesi del genere è offensivo e fastidioso, nei confronti di uno psicologo, esattamente quanto lo è andare proponendo diagnosi amatoriali, chessò, ad un cardiochirurgo o ad un oncologo. Il bello è che la gente lo fa pure. Si presenta in uno studio medico dicendo “io credo di avere il cancro, dottore”, dimenticando che “dottore” è lì esattamente perché è il suo mestiere stabilire se chi si rivolge a lui abbia veramente il cancro o meno.
Sarebbe tutto molto più semplice e naturale se i pazienti fossero sinceri, nel rispondere alle domande.
Perché è qui, signore?
Perché sto male.
Punto.
Le motivazioni e le cause le cercheremo insieme.
Comunque, in mancanza di una tale spiccia sincerità, è sempre molto meglio sentirsi rispondere “non ho idea del perché sono qui, mi ci hanno mandato”. C’è sempre qualche barriera da abbattere, prima di creare un buon rapporto medico-paziente, ma è molto più facile abbattere le barriere della diffidenza che quelle della presunzione, credetemi.
Negli occhi di Bill, il giorno in cui venne da me, non c’era alcuna presunzione, ovviamente.
Neanche alcuna diffidenza, però. Sul momento, la cosa mi ha un pochino turbato. Già avere a che fare con un altro essere umano, nella posizione di medico, è tremendamente difficile. Se poi non hai la minima idea di cosa aspettarti da lui, le prospettive diventano disastrose.
Fortunatamente, però, poi ho ricordato quanto mi aveva detto mio marito a colazione, quello stesso giorno. “Oggi dovrebbe venire da te un ragazzo particolare. Si chiama Bill Kaulitz. Credo non sia assolutamente preparato per una valutazione psicologica, ma l’ho convinto che superarla sia l’unico modo per ottenere quello che vuole”. “E cos’è che vuole?”, avevo chiesto distrattamente io, addentando un croissant alla marmellata. “Cambiare sesso” era stata la sua lapidaria risposta. Ed io credo di non averlo nemmeno finito, quel cornetto.
Comunque, il fatto mio marito l’avesse convinto che passare quella visita fosse l’unico modo per ottenere l’operazione, giustificava almeno la luce di determinazione quasi abbagliante che si irradiava dai suoi occhi e si spandeva sul suo sorriso sereno.
- Allora, Bill. – cominciai io, conciliante quanto più potei dopo quanto avevo sentito su di lui nel complesso. Chiaramente, il fatto volesse cambiare sesso non era l’unica informazione possedessi sul suo conto. Diamine, era Bill Kaulitz e quella era la Berlino del duemilanove, avrei dovuto aver vissuto sulla Luna per gli ultimi cinque anni almeno, per non sapere chi fosse. – Perché pensi di essere qui?
- Me l’ha detto il dottore l’altroieri. – rispose lui, sorridendo tranquillo, - Spero che sia una cosa veloce.
Io ridacchiai, intrecciando le dita sulla scrivania.
- Lo sarà, se è tutto a posto. – considerai, stringendomi nelle spalle.
Non avevo pregiudizi. Non credevo che, siccome voleva cambiare sesso, dentro di lui dovesse necessariamente esserci un enorme problema psichico. Molte persone lo fanno, credono che solo perché uno non accetta di essere un maschio e dover andare a letto con le femmine – o viceversa – sia pesantemente disturbato. Sono preconcetti un po’ infantili, in realtà. Nella mente di ognuno di noi, durante la crescita, si forma una sessualità che non è solo fisica, ma soprattutto mentale. È quella che ci dice cosa siamo e cosa vogliamo tra le lenzuola. Non solo il fatto di nascere con un pene o una vagina fra le gambe.
Ciononostante, non mi era mai capitato di dover dare il mio consenso per un intervento di quella entità. Intendo, cambiare sesso è una cosa molto piccola, molto banale, in realtà, almeno teoricamente. In realtà, però, praticamente, è un intervento incredibilmente invasivo, debilitante e, soprattutto, irreversibile. Se non pagando il dazio di un ulteriore intervento incredibilmente invasivo, debilitante ed irreversibile. E così via, ovviamente – e questo solo perché, in realtà, nulla è veramente per sempre, fortunatamente.
Comunque sia, non è un intervento per il quale si possa acconsentire a cuor leggero. I rischi che correvamo – Bill come paziente, io come garante, mio marito come esecutore e lo studio come tetto sotto il quale tutto stava avvenendo – erano grossi. Era inevitabile sentire la responsabilità di una cosa simile. Perciò volevo un lavoro fatto bene.
Sciolsi le dita, aprii un cassetto e ne tirai fuori un taccuino nuovo, sulla copertina del quale scrissi il nome di Bill e la data di quel giorno. Dopodiché lo aprii, spianai bene le pagine coi palmi aperti e tornai a guardare il mio interlocutore.
- Dimmi, Bill. Quando hai cominciato a pensare di voler cambiare sesso?
Il sorriso che increspava le sue labbra si smorzò e si spense, mentre lui fissava gli occhi nei miei e cercava di plasmare le mie parole nella propria mente perché acquisissero un senso che, sparpagliate nell’aria gelida fra i nostri visi, sembravano non possedere.
- Come, scusi?
Ecco cosa intendeva mio marito per “non credo sia preparato per la valutazione psicologica”. Probabilmente quel ragazzo aveva pensato si sarebbe trovato davanti ad un mucchio di stupidi fogli ricoperti di macchie a forma di granchio, e che avrebbe dovuto provare a fare di tutto per non rispondermi “ma sono granchi, è ovvio!”, visto che chissà che significato nascosto avevano in psicologia i granchi.
Di sicuro, comunque, non era pronto per parlare.
- È quello che vuoi, no? – chiesi, sorridendo, - Cambiare sesso. Non voglio sapere quando hai cominciato a sentirti donna o quando ti sei accorto che ti piacevano i ragazzi. Queste cose non c’entrano col tuo intervento. – lui mi lanciò un’occhiata perplessa, e perciò mi sentii in dovere di spiegare. – O meglio, c’entrano, ma in una misura che è solo tua, appartiene alla tua sfera privata. – sorrisi conciliante. – Non sei in analisi, Bill, non voglio costringerti a vuotare il sacco su tutta la tua vita. Voglio solo capire se la decisione che hai preso l’hai presa coscientemente, in seguito ad un’adeguata riflessione, o meno.
Provò a sorridere, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore.
- Se anche lei è preoccupata che possa fare causa allo studio, può stare tranquilla. – mugugnò, stringendosi nelle spalle, - Se, dopo l’intervento, non dovessi essere soddisfatto, troverei sicuramente un altro modo per risolvere il problema.
Ridacchiai. Era tipico di mio marito accogliere i clienti con battutine sagaci che poi sarebbero state le uniche cose loro avrebbero ricordato della spiacevole avventura della chirurgia plastica, quando l’intervento sarebbe stato concluso.
- No, non è questo che mi preoccupa, Bill. – lo rassicurai, stappando la penna. – Ogni medico ha come obiettivo primario il benessere dei propri pazienti. È del tuo benessere che mi preoccupo.
- Starò benissimo, una volta che sarò diventato femmina. – ribatté lui, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Forse. – concessi io, annuendo. E poi sorrisi più maliziosamente. – Se lo diventerai.
Lui digrignò i denti. E quello fu il primo successo di quella seduta.
- Sta cercando di ostacolarmi, dottoressa? – chiese frettolosamente, stringendo i pugni.
Io risi, stemperando la tensione.
- No, Bill, calmati. Sto solo cercando di scuoterti un po’. A volte, capita che uno sia talmente ossessionato da una soluzione, che dimentica di guardarsi intorno alla ricerca di altre. Ed ha bisogno di essere un po’ distratto.
Lui sospirò, rilassandosi contro lo schienale della sedia.
- Le ho analizzate tutte, le altre soluzioni, mi creda. Non va bene niente. Va bene solo questo.
- D’accordo. – ammisi io, - Se è davvero così, tu avrai la tua operazione e saremo tutti contenti. Ma per scoprire se è vero, ho bisogno che tu mi racconti esattamente come l’hai presa, questa decisione. È molto importante. Perciò, forza.
Irritato, lui incrociò le braccia sul petto. Non è bello, quando un paziente fa una cosa simile. È un chiaro segno di chiusura al dialogo – spesso anche alla semplice riflessione. Con pazienti così ostili, e tremendamente difficile ragionare.
- Insomma. – borbottò, guardando altrove, - Dottoressa, so esattamente a cosa vado incontro e sono maggiorenne e vaccinato. Vi pagherò profumatamente-
- Pagherai anche per il supporto psicologico.
- Be’, preferirei evitare, a questo punto!
- Bill, non agitarti adesso. – consigliai con una smorfia, - Tra l’altro, non sono neanche completamente sicura tu sappia davvero a cosa vai incontro.
Lui sollevò una mano davanti al viso, il palmo rivolto verso di me, come volesse obbligarmi al silenzio, e portò l’altra a coprirsi gli occhi, massaggiando lentamente le palpebre ed esalando un sospiro stremato.
- Vado incontro ad una vita migliore. – disse a bassa voce, - Qualsiasi sofferenza o disagio debba attraversare per raggiungerla, non sono che passi obbligati. Non ho problemi in questo senso, lo giuro.
- Ed io ti credo. – risposi fermamente. – Ma ho bisogno che me lo dimostri, Bill. Se davvero sei così sicuro, parlamene.
I suoi occhi si risollevarono repentinamente sui miei, e nel secondo successivo lui s’era alzato in piedi in uno scatto felino.
Rimase lì, interdetto, a fissarmi, per molti secondi.
- …non so se voglio. – si lamentò alla fine, stringendo e rilasciando i pugni con aria nervosa.
Mi strinsi nelle spalle, abbassando lo sguardo sulla pagina desolatamente bianca del taccuino.
- Trovala, la voglia, se vuoi quest’operazione. – dissi, con un tono che perfino a me suonò molto più minaccioso di quanto non avrebbe dovuto e voluto essere.
Ma il giorno non era quello, in ogni caso, ed io lo sapevo. Adesso sapeva in cosa sarebbe consistita la sua valutazione. Adesso sapeva cosa avrebbe trovato la prossima volta che fosse venuto. Restava da decidere solo se ripresentarsi o meno.
*
Chiamò in settimana, prese un appuntamento per venerdì dopo pranzo e puntualmente si ripresentò, mostrandosi splendente e sicuro di sé nel momento stesso in cui sfilò cappello ed occhiali da sole, esibendo, oltre all’abbigliamento da teenager alla moda che il copione imponeva, una fluente chioma corvina occasionalmente striata di biondo ed un paio d’occhi castani illuminati da una determinazione che i giorni passati in meditazione sembravano avere perfettamente ristabilito.
- Sono pronto. – mi disse serenamente, sedendosi di fronte a me, - Possiamo cominciare quando vuole.
Io sorrisi, recuperando taccuino e penna e preparandoli per gli appunti.
- Buongiorno anche a te, Bill. – dissi ironica, giocando distrattamente con la fede attorno all’anulare.
Lui arrossì istantaneamente.
- Mi scusi… - biascicò, abbassando lo sguardo ed abbozzando un sorriso incerto, - Sono un po’ impaziente, vorrei concludere tutto il prima possibile.
- Ma sì, me ne rendo conto. – concessi annuendo. – Allora direi che possiamo cominciare. – poggiai la punta della biro sul foglio di carta. – La domanda la sai, non c’è bisogno di ripeterla.
Lui si ritirò sulla sedia, poggiandosi contro lo schienale ed accavallando le gambe, perdendosi per un attimo nei propri pensieri. E poi parlò.
- Lei è mai stata innamorata davvero, dottoressa?
Sospirai, scuotendo il capo pesantemente.
- Bill, questo non è l’atteggiamento giusto. Non è di me che dobbiamo parlare, ma di te.
- Ma è importante! – insistette lui, stringendo infantilmente i pugni, - Ho bisogno di sapere se lei potrebbe capirmi, prima di parlare!
- Ho studiato per anni appositamente per capirti, Bill. Avanti, non fare il bambino.
- Come se per capire sentimenti simili si potesse studiare… - borbottò con una smorfia.
Io sospirai ancora. Sarebbe indubbiamente stato ancora più difficile del previsto.
- Tu sei innamorato, Bill? – ritorsi, sorridendo apertamente.
Sembrava non stesse aspettando altro.
- Io sì, dottoressa, da morire. – cominciò. Ed anche io cominciai a scrivere. – C’è una persona fantastica nella mia vita, che amo tantissimo. È il meglio del meglio che potessi trovare, è una persona premurosa, gentile, divertente, cerca sempre di fare qualcosa per farmi felice… è fantastico poterne parlare così apertamente, di solito non ne ho mai la possibilità, è talmente frustrante! – rise, ed il suo entusiasmo era talmente travolgente che risi anch’io. Non si poteva certo restare indifferenti di fronte ad un ragazzo così carino che letteralmente saltava sulla sedia per esprimere tutta la propria gioia. – L’unico problema è che non sa quello che provo. – riprese, con una smorfia delusa, - Non è facile trovare il coraggio per confessarsi. Scommetto che a lei non è mai successo, è una donna così bella… sembra anche così sicura di sé…
- Bill! – ridacchiai, scuotendo il capo, - Non mi adulare, non ti servirà.
- No, ma non intendevo questo! – rise anche lui, coprendosi la bocca con le mani. – Lei sa che ho un fratello, dottoressa? Un fratello gemello. Omozigote. Siamo praticamente due gocce d’acqua!
- Mh-mh… - annuii, tirando una lunga linea orizzontale sotto gli appunti che avevo appena preso in quello che era diventato lo spazio delle “confessioni sull’amore” di Bill, per separarlo da quello che, invece, sarebbe diventato lo spazio delle sue “confessioni sui parenti”, - Sì, conosco tuo fratello Tom. Ma cerchiamo di non saltare di palo in frasca, ok? Che c’entra tuo fratello con quello che hai detto fino ad ora?
Lui sorrise timidamente, stringendosi nelle spalle.
- È lui la persona di cui sono innamorato, dottoressa. – confessò d’un fiato, reggendo il mio sguardo solo per pochi secondi, prima di lasciarlo morire sulla moquette che ricopriva il pavimento, schiacciato sotto il peso dell’imbarazzo.
La mia mano si fermò a metà della seconda astina, quella che avrebbe completato la prima lettera del nome di Tom.
- Oh. – sillabai incerta, girando attorno a noi uno sguardo intimidito. – Oh.
Bill sospirò, ridacchiando a bassa voce.
- Sapevo che sarebbe successa una cosa del genere. – ammise, intrecciando le dita in grembo.
- Ma non è successo niente… - mi sforzai di rassicurarlo, tirando fuori un sorriso che non rifletteva nemmeno alla lontana il mio stato d’animo.
- Non c’è bisogno di mentire, dottoressa… - mi sorrise lui, agitando una mano davanti al viso, - Lo so che non è una cosa normale. Mi rendo conto che per metabolizzare una cosa simile ci vuole tempo… pensi che io ci ho messo qualcosa come cinque anni! – rise, stringendosi nelle spalle.
Risi anch’io. Molto più nervosamente di quanto avrei voluto.
La verità è che non avevo la minima idea di come prendere quell’informazione. Da psicologa, ero stata abituata a non giudicare mai i desideri dei pazienti, ma solo a cercare di capire se fossero o meno dannosi per loro e per gli altri. E, nei miei quasi vent’anni di carriera, di incesti ne avevo sentiti di ogni tipo. Consensuali o no, non erano mai situazioni delle quali chi ne fosse coinvolto potesse parlare con tanta… allegria, ecco. Bill, però, l’aveva fatto.
E, da quanto aveva detto, cominciava a diventare chiaro un particolare interessante.
Ovvero, che il suo desiderio di diventare donna non fosse legato tanto al fatto di sentirsi tale, quanto al desiderio di farsi percepire in quel senso da qualcun altro.
E non riuscivo a capire se questo fosse un bene o un male, per lui.
- È la prima volta che lo dico a qualcuno. – continuò a raccontare lui, a bassa voce, quasi senza accorgersi di me. – Ho immaginato tante volte quali avrebbero potuto essere le reazioni delle persone, sentendo una cosa simile, e per la verità ero spaventato a morte dalla possibilità di doverlo dire. Poter parlare di Tom come di un ragazzo qualunque, del quale semplicemente mi fossi innamorato, mi sembrava un’ipotesi così remota… alla fine, mi sono convinto a dirlo a lei perché so del segreto professionale…
- Bill, io… - deglutii, rigirandomi nervosamente la penna fra le dita, - …quando dovrò discutere il tuo caso col dottore, dovrò necessariamente dirglielo…
- Oh, sì, ma il dottore va bene! – annuì lui, entusiasticamente, come si fa sempre quando si vuole dimostrare agli altri di essere sicuri al cento per cento di qualcosa che invece terrorizza a morte, - Sembra una persona fantastica. È così gentile e disponibile…
Annuii forzatamente, abbassando gli occhi sul taccuino. Era ovvio che Bill la pensasse così, di lui. Il desiderio che aveva mio marito di portare a termine quell’intervento, trasudava attraverso la sua pelle e ti si attaccava addosso. Bill doveva averlo trovato galvanizzante. In quel momento, ripensando alla sensazione che avevo provato quella mattina, quando me n’ero accorta, io lo trovai spaventoso.
Era possibile che sia lui che Bill stessero prendendo una cantonata terribilmente grande.
- Comunque, - riprese Bill, alzandosi lentamente in piedi, - credo di essermi rassegnato al fatto che ci vorrà più tempo del previsto, a convincerla.
- Tu non devi convincermi, Bill. – mormorai, scuotendo il capo, - Tu devi cercare di capirti meglio. Io posso aiutarti in questo.
Lui annuì, sempre sorridendo. Non una parola di ciò che avevo detto l’aveva toccato davvero.
- Certo, come vuole. – rispose, per rendere ancora più chiaro il suo totale disinteresse, - Prendo appuntamento con la segretaria per una terza visita.
Annuii, salutandolo con un breve cenno della mano, per poi affondarla fra i capelli e massaggiarmi la cute, tornando a fissare il taccuino. Lentamente, cancellai la linea orizzontale con un paio di linee frastagliate e terminai di scrivere il nome di Tom. Poi racchiusi sia lui che tutte le cose meravigliose che Bill aveva detto in due cerchi differenti e li unii con una freccia.
Alla fine, non mi rimase che chiudere il taccuino nel cassetto e precipitarmi dalla segretaria perché mi dicesse per quale giorno aveva preso l’appuntamento per Bill.

***************

- È mai possibile che tu non ne sia ancora venuta a capo?
Fu così che esordii durante una normalissima colazione con mia moglie, qualcosa come tre settimane dopo aver mandato Bill da lei per la valutazione psicologica.
- In genere ti bastano una o due sedute per decidere. – rimarcai, sorseggiando il caffé e fissandola con sospetto. Lei evitò il mio sguardo, affondandolo nel suo tè.
- Non è una caso facile. – commentò, stringendosi nelle spalle.
- Come no? – protestai io, spalancando gli occhi, sorpreso, - Guarda che Bill è un ragazzo semplice, molto più di quanto non possa sembrare…
Lei tornò a guardarmi, con una certa rabbia.
- Stai cercando di insegnarmi a fare il mio lavoro? – chiese astiosa. Io feci un passo indietro.
- Ma no, ovviamente. – affermai, poggiando la tazzina sul tavolo, - Solo che conoscendolo-
- Conoscendolo davvero, - mi interruppe lei, - è molto più complicato di quanto non sembri in apparenza. Il che è tutto dire.
La cosa stava cominciando a farsi irritante.
- Adesso non dire sciocchezze. – scoccai seccamente, - L’ho incontrato ieri fuori dall’ufficio. È impaziente. Se hai intenzione di farlo scappare, dimmelo chiaramente, che mi organizzo di conseguenza.
- Non ho intenzione di farlo scappare. – ritorse lei, senza guardarmi, - Anche se probabilmente te lo meriteresti.
- Come, scusa?!
- Non ti stai interessando minimamente alla sua situazione psicologica! – mi rimproverò aspramente, - E la cosa mi sconvolge, perché non ti sei mai comportato così! Perché vuoi fare quest’operazione a tutti i costi? Potrebbe non essere la soluzione giusta per lui!
- Oh, stronzate! – risposi io, alterato, - Basta parlare con lui due secondi per capire che non vuole altro dalla vita!
- E se questa ti sembra una cosa positiva, devi decisamente rivedere i tuoi canoni di positività!
Scattai in piedi, battendo una mano sulla superficie del tavolo e facendo tintinnare le tazze contro i loro piattini. Il rumore lievissimo della ceramica tremolante pose un veto di silenzio su mia moglie, che si irrigidì sulla sedia ed intrecciò le dita sul tavolo, davanti a sé, fissandomi con un’aria a metà fra lo stupito e lo spaventato.
- Non credevo che saresti mai diventata quel tipo di psicologo. – considerai seccamente, - Quel tipo convinto che l’operazione sia solo l’ultima spiaggia, che ci si dovrebbe accettare come si è e tutte le altre cazzate di quel tipo.
- Non penso niente del genere, infatti. – rispose lei freddamente, - L’operazione non è mai “l’ultima spiaggia”. È giusta o sbagliata. E nel caso di Bill potrebbe essere sbagliata.
Tornai a sedermi, massaggiandomi le tempie con due dita e sospirando pesantemente. Lei continuò a parlare.
- Non sai niente, di lui. Dì un po’, lo sai perché vorrebbe farsi operare?
- Dio mio, è Bill Kaulitz! Avanti! Lo vedi, come va in giro! Hai bisogno d’altro?
- Sì che ho bisogno d’altro. Ed infatti, parlando con lui, l’ho trovato. – si prese una pausa, adocchiando il tè nella tazza e meditando un po’ sulla possibilità di sorseggiarlo o lasciarlo lì. Lo lasciò lì. – È innamorato di suo fratello. O almeno così dice. – sospirò, rilasciando l’informazione proprio sul tavolo, in mezzo a noi, come fosse una bazzecola.
Ci sono dei momenti, nella vita di un uomo, che non si dovrebbe affatto essere costretti a vivere. Prima di tutto perché non li vivi davvero, li subisci e basta. Stai lì immobile, ed osservi la valanga dei tuoi errori abbattersi contro il muro delle tue convinzioni, devastandolo. Scardinando mattone dopo mattone tutte le tue certezze.
Per la verità, sul momento non cambiò molto. Mi alzai dal tavolo, decisi che la conversazione era finita e le annunciai che non avrei accettato altre stupidaggini di quel tipo come motivazioni per fermarmi.
La verità è che non avrei mai voluto sentirmi dire una cosa come quella. Perché una cosa come quella significava che, da qualche parte, stavo sbagliando. Ed anche che, da qualche parte, doveva aver sbagliato pure Bill.
Il problema della chirurgia plastica è che la fiducia che dev’esserci fra medico e paziente non è univoca, ma mutuale. Non è solo il paziente che si mette nelle mani del chirurgo, fiducioso che lui lo farà uscire dalla sala operatoria il più vicino possibile a come si desidera. Anche il medico si fida di chi plasma sotto le mani. Confida che non cambierà idea. Confida che sappia ciò che sta facendo. E confida che sappia cosa vuole.
Bill non voleva un corpo da donna, Bill voleva suo fratello.
Ed era convinto che ottenendo una cosa avrebbe avuto anche l’altra, ma non era detto che andasse così.
Eppure, in quel preciso istante, quando mia moglie mi rivelò la verità, a me non interessò. Io non presi quello che mi stava dicendo per ciò che era – ovvero un tentativo di aiutarmi a capire che avrei dovuto frenarmi e ripensare un po’ a tutto, aiutando anche Bill a fare lo stesso così come stava cercando di fare lei. Io lo presi per una ripicca, un modo stupido di contestarmi gratuitamente, facendo leva su pettegolezzi dei quali tutti parlavano ed ai quali nessuno credeva.
Fu per questo che, quando tre o quattro giorni dopo, lei venne da me e depose le armi, dicendo che non era riuscita ad ottenere niente da Bill, perché lui era ancora fermo sulle proprie posizioni ed a quel punto non c’era nulla da fare se non lasciare che avesse la sua dannata operazione, io la presi come una vittoria.
Quando invece era palese che avrei dovuto prenderla come una sonora sconfitta.
*
Rividi Bill in via ufficiale dopo più di un mese dal primo colloquio che avevamo avuto. L’avevo incrociato decine di volte in corridoio, nei pressi dei bagni o davanti alla porta dell’ufficio di mia moglie, fino a quel momento, ed avevamo perfino scambiato quattro chiacchiere quando ne avevamo avuto la possibilità. Mi piaceva parlare un po’ con lui, c’era uno strano cameratismo fra di noi, una strana affinità. Credo che dipendesse dal fatto che lui voleva una cosa che io potevo dargli, e che, per conto mio, ero più che disposto ad accontentarlo. Comunque, ci sentivamo come due soldati dello stesso reggimento. Ci facevamo forza l’un l’altro, io continuavo a rassicurarlo che non ci sarebbe voluto ancora molto e lui continuava ad annuire e ripetere quella frase da brivido.
Completiamo il lavoro, dottore. Coraggio.
Avevo visto persone diventare l’esatta antitesi di se stesse, in un mese d’analisi praticamente giornaliera. Non era la norma, ma quando accadeva era qualcosa di talmente evidente da surclassare in importanza le decine di casi in cui invece non si cambiava affatto.
Bill, per contro, era un esempio perfetto di immobilità. Aver vuotato il sacco su tutta la sua vita, su tutti i suoi pensieri più intimi e scomodi, non sembrava aver avuto alcun effetto su di lui. Era lo stesso. Forte della stessa determinazione. Ripieno della stessa, combattiva lucidità.
- Stai bene, Bill? – gli chiesi, fissandolo con attenzione oltre la scrivania sulla quale avevo appoggiato i gomiti. E mi resi conto solo in quel momento della nota tenera che aveva assunto la mia voce nel rivolgersi a lui. Il mese di confessioni al quale mia moglie l’aveva sottoposto, piuttosto che aiutarlo a cementare un rapporto con lei, aveva cementato il nostro. E dovevamo aver trascorso insieme in totale qualcosa come non più di tre o quattro ore.
Nella sua testa doveva essere tutto molto semplice. Mia moglie voleva privarlo della felicità, io volevo donargliela.
E quando capii questo, in una serie sconnessa e spaventosa di prese di coscienza, io mi resi conto che avevo davanti un bambino. Un bambino che non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo, di dove l’avrebbe portato la strada che aveva imboccato.

Scrupoli di coscienza.
Per la prima volta, da quando era cominciata tutta quella storia.

Deglutii rumorosamente, picchiettando con nervosismo crescente le dita sul tavolo, mentre Bill sorrideva, si sistemava meglio sulla poltroncina girevole ed esalava un soddisfatto “alla grande!”, accavallando le gambe.
- Dottore, può farmi un favore? – mi chiese, dopo avermi visto sorridere debolmente in risposta al suo attestato di gioia. Io annuii, restando in ascolto senza dire una parola. – Dovrebbe scusarsi con la dottoressa per conto mio. – mugugnò imbarazzato, - Devo essere stato un paziente impossibile.
- Come mai? – chiesi divertito, cercando di rilassarmi contro lo schienale della mia poltrona.
- Sono un tipo piuttosto cocciuto. – ammise lui, stringendosi nelle spalle, - La dottoressa sperava di farmi vedere le cose in un’ottica un po’ diversa rispetto alla mia, ma vede, dottore, io non l’ho mica mai fatto. – confessò seriamente, parlando come non lo stesse facendo specificatamente con me, ma più con un se stesso invisibile che avesse come ruolo quello di starlo a sentire indipendentemente dalla razionalità di ciò che avrebbe detto. – Tipo, quando stavo ancora a Loitsche, non è che il fatto mi truccassi mi sconvolgesse più di tanto, così come non sembrava sconvolgere mio fratello e mia madre, per dire. Però non riuscivo ad entrare nell’ottica di idee che potessero esistere persone per le quali invece la cosa era effettivamente sconvolgente. Quindi mi limitavo a pensare che io avessi ragione e tutti gli altri torto, punto e basta. – feci per interromperlo e rassicurarlo sul fatto che, da quanto mi aveva detto mia moglie, anche io ero portato a pensare che gli stronzi che lo pestavano a scuola solo perché si truccava avessero torto e lui ragione, punto e basta, ma lui mi fermò con un cenno della mano, sorridendo sereno. – Non parlo di quelli che mi mettevano le mani addosso. – precisò tranquillamente, - Parlo di tutte quelle persone che non erano d’accordo col mio modo di fare. Per farle un esempio: Gordon, il mio patrigno, non s’è mai sognato di sfiorarmi nemmeno con un dito, anche quando me lo sarei meritato. E mi vuole bene, sinceramente. Però il fatto che io mi truccassi non gli è mai andato giù. A lui, come a mio padre, per fare un altro esempio. Sanno esattamente cosa c’è dietro, eppure sono nauseati dalla mia faccia truccata. Non me l’hanno neanche mai fatto pesare, se se lo sta chiedendo, ma io so che ne sono infastiditi. – si prese un attimo per respirare profondamente, mordicchiandosi il labbro inferiore. – Io li odio, per questo. – aggiunse poi, impietoso. Il suo tono di voce era talmente freddo che mi sentii congelare la pelle. La sentii raggrinzirsi, tirare e cristallizzarsi. – Nella mia testa, sono stronzi esattamente quanto quegli altri bastardi che mi picchiavano. Ora capisce? Io ho le mie idee, e non le cambio. Per nessuno. Mai.
Ed io capivo. Capivo fin troppo bene che mi ero cacciato in un problema molto, molto più complesso da districare di quanto non consentissero le mie capacità di analisi. Capivo che se mia moglie – che quello stupido lavoro lo faceva da quasi due decadi, e che quindi era molto più abituata a sbrogliare le matasse di quanto non lo fossi io – aveva sollevato le mani, scosso il capo ed ammesso la propria disfatta, io avrei dovuto seguire il suo esempio. Perché adesso non c’era più modo di uscirne senza spezzare il cuore a Bill. O senza distruggere il mio sistema nervoso.
Deglutii ancora, incerto sul da farsi, massaggiandomi la base del collo, dolente per la rigidità cui era stata costretta durante la lunga confessione di Bill.
E poi capii che l’unico modo che avevo per risolvere la situazione era cercare di valutare razionalmente solo i fatti. Mia moglie aveva sbagliato a concentrarsi sul passato, cercando di scioglierne i nodi per aiutare Bill a vedersi più chiaramente. Ed io avevo sbagliato a concentrarmi sul futuro, credendo ciecamente in qualcosa – la felicità perfetta cui Bill agognava – che era solo una possibilità, e neanche delle meno remote.
Il punto era il presente. Perché l’operazione sarebbe stata esattamente quello: una cosa presente. Un adesso. Un subito. E lo sarebbe stata anche la reazione di Bill, così come la risposta di tutte le persone che lo frequentavano, lo amavano e tenevano a lui. Il punto era capire come si sarebbe mosso il presente. Per prevenirne gli scossoni. Ammortizzarne l’impatto. E cercare di proteggerne l’integrità finché non si fosse stabilizzato. Perché solo allora, naturalmente, si sarebbe trasformato nel migliore futuro possibile.
Quindi, feci a Bill l’unica domanda sensata possibile. L’unica che ancora nessuno gli aveva posto ed anche l’unica che avesse un significato. E non minimo. Estremo.
- Bill. Ne hai mai parlato con Tom?
Sperai sinceramente che la risposta di Bill fosse “sì”. Che fosse “sì”, che fosse netta e decisa e che mi rassicurasse sul fatto che sì, erano d’accordo, e che sì, entrambi pensavano fosse la soluzione migliore, e che sì, era già stato deciso che, una volta finito tutto, sarebbero stati felici insieme.
In questo senso, la risposta di Bill fu molto deludente. E altrettanto spaventosa.
Mi guardò come avrebbe potuto guardare un alieno – ovvero con stupore e terrore neanche tanto malcelati – e strinse le labbra in una smorfia ansiosa, rendendole sottili e pallidissime.
- Cosa intende? – chiese incerto, torturandosi le dita.
- Hai detto a mia moglie di volerti operare per poi provare ad avere un futuro con Tom. Ma Tom che dice di tutto questo? Tom che dice dei tuoi sentimenti? E che dice delle tue intenzioni?
Bill si fermò. Per una quantità indefinibile di secondi, sospese tutte le attività. Smise perfino di battere le palpebre.
E poi riprese a respirare con tanta ansia che il suo petto si gonfiò in maniera quasi innaturale; e, buttando fuori l’aria, lui quasi si affogò. E tossì. E chiuse gli occhi, si batté il petto con un pugno e coprì la bocca con un altro.
Quando tornò a guardarmi, i suoi occhi erano lucidi.
- Tom non sa niente. – confessò a bassa voce. – Non gli ho neanche detto di essere innamorato di lui… dottore, come pensa che avrei potuto farlo?! – si ribellò, alzando improvvisamente la voce.
- Non lo so, Bill… - dissi io, scuotendo il capo, - Non mi è mai successa, una cosa simile. Però dobbiamo fidarci l’uno dell’altro, ed io non posso fidarmi di te se scopro che mi menti…
- Io non le ho mentito! – protestò animatamente, sporgendosi verso di me, agitato da una sacrosanta indignazione.
- Mi hai detto di aver considerato tutte le soluzioni possibili. – ricordai io, pensieroso, - Ed ora scopro che non è vero. Le soluzioni possibili includono anche le reazioni di Tom, Bill. Come fai ad agire in sua funzione se non sai nemmeno come reagirà di fronte al fatto compiuto?
- Tom non è il problema, dottore. – sospirò, - Al più, quello che provo per lui è una parte del problema. E poi io conosco mio fratello. – ritorse acido, - Lui non mi abbandonerà.
- D’accordo. Ma vederti rispuntare come una femmina lo porterà automaticamente anche ad innamorarsi di te? Come fai a saperlo?
Lui si tirò indietro, teso come una corda di violino, irrigidendo le mani strette in grembo.
- …non lo so… - articolò incerto, inumidendosi nervosamente le labbra.
Io sospirai, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo.
- Io voglio operarti, Bill. – lo rassicurai, - So che è questo, quello che vuoi, e voglio farti felice, perché il mio lavoro è questo. E perché mi paghi per farlo. Ed anche perché, francamente, credo tu te lo meriti. – sospirò di sollievo, guardandomi con gratitudine, mentre un sorriso lievissimo e tremante gli si apriva sulle labbra. – Sono disposto anche ad ignorare il parere contrario di mia moglie. Ma tu, Bill, devi parlare con tuo fratello.
Tornò a tendersi, allontanandosi impercettibilmente dalla scrivania facendo scivolare le rotelle della poltrona contro il lucido pavimento in marmo nero.
- Non può chiedermelo. – singhiozzò, eppure non c’era un’ombra di lacrime, nei suoi occhi.
- Ti sto proponendo un accordo. – insistetti io, sporgendomi sulla scrivania per diminuire la lontananza che il suo movimento aveva accentuato, - Tu dici tutto a tuo fratello ed io ti opero. Così tu avrai quello che vuoi ed io avrò la sicurezza che, se poi starai male, ci sarà qualcuno a sostenerti.
Era l’accordo migliore che potessi proporre. E Bill lo capì senza che dovessi aggiungere altro.
*
Ovviamente si lamentò. Mi disse che era assurdo pensare lui potesse presentarsi da suo fratello, sganciare la bomba – sganciarle entrambe – e poi pretendere fosse pronto a parlarne e trovare una soluzione – ma che soluzione si poteva trovare, poi, per una storia come quella? – il tutto nel giro di tre giorni scarsi.
Risposi che per me non era un problema, la sala operatoria non sarebbe fuggita alle Maldive e neppure io, perciò si poteva spostare il tutto anche di una o due settimane, così lui avrebbe avuto il tempo per fare tutto senza che il solo pensiero sembrasse troppo ridicolo anche solo per provarci. Bill, però, non fu d’accordo. Pretese che l’operazione rimanesse segnata per il venerdì successivo e promise che avrebbe risolto tutto entro il tempo stabilito. Probabilmente aveva semplicemente paura di poter cambiare idea, arrivato a quel punto. Spesso succede. Per dire, io a trent’anni avevo deciso di smettere di fumare, perché i clienti si aspettavano da me fossi sempre perfetto, e dover curare le unghia ogni sera per liberarle dalla nicotina, così come sottopormi mensilmente a dolorosissime quanto costose sedute di pulizia dentale, sembravano prospettive davvero improponibili, se viste sulla lunga distanza. Perciò, m’ero dato un’ultima settimana di sigarette e poi, giunto a domenica notte, avevo passato qualcosa come sei o sette ore di fronte al posacenere ricolmo di mozziconi a valutare e rivalutare di continuo pro e contro della scelta.
Al mattino, mia moglie era entrata in studio, mi aveva visto placidamente addormentato sulla poltrona ed aveva svuotato il posacenere nel cestino, per poi eliminare il sacchetto.
Io m’ero svegliato e, semplicemente, avevo smesso di fumare.
Ma non avrei rimproverato niente a Bill, se tre giorni dopo avesse chiamato per dire che non intendeva più operarsi. È un altro dei principi su cui si fonda la chirurgia estetica: il paziente è sempre in tempo per cambiare idea, sia prima che dopo l’operazione. Meglio se lo fa prima, perché il “dopo” porta sempre conseguenze poco piacevoli, ma se l’ha fatto Pamela Anderson non c’era alcun motivo per il quale la pratica dovesse essere vietata per chiunque altro.
Bill non chiamò, né disdette in altro modo. Quando lo rividi la volta successiva, era già in sala operatoria. Avvolto in un camice bianco a pallini verdi, stava seduto sul lettino e dondolava le gambe a pochi centimetri dal pavimento, sorridendo ed annuendo mentre mia moglie gli parlava, in piedi di fronte a lui.
- Non sono arrabbiata con te, Bill. – gli disse nel momento in cui entrai discretamente, per non disturbarli, - Anche se non sono d’accordo con la tua scelta, mi fa piacere tu abbia deciso di operarti qui, perché per qualsiasi cosa potrai contare sul mio appoggio.
Bill sorrise ancora, e quando si accorse della mia entrata il suo sguardo si illuminò.
- Dottore! – disse felice, saltando in piedi ed avvicinandosi a ma senza premurarsi d’infilare le ciabatte.
- Scivolerai, se non ti metti le scarpe. – commentai, sorridendo a mia volta mentre lui si fermava ridacchiando al mio fianco.
- Non posso credere che questo giorno sia finalmente arrivato! – esultò, quasi saltellando sul posto per la gioia. Io lanciai un’occhiata veloce a mia moglie, e la vidi che fissava il pavimento, le labbra strette e tese e lo sguardo cupo.
Probabilmente, già allora stava pensando di lasciarmi.
- Torna a distenderti, su. L’anestesista ed i miei assistenti stanno arrivando. – lui annuì con entusiasmo, saltellando a ritroso fino al lettino. – Sarà una giornata lunga. – tornai a guardare mia moglie, che nel frattempo aveva risollevato lo sguardo su Bill, che ancora la cercava in attesa di un sorriso di approvazione. Lei glielo concesse senza esitare e senza nemmeno mentire, abbracciandolo con calore, prima di allontanarsi verso l’uscita. – Non resti? – le chiesi, seguendola con gli occhi.
Lei scosse il capo.
- Non sarei d’aiuto. – si giustificò, stringendosi nelle spalle. – Allora ci vediamo dopo! – disse gioviale, tornando a guardare Bill e salutandolo con la mano. Lui la imitò, lei sorrise ed uscì.
Bill era visibilmente nervoso. Continuava a dondolare le gambe, spingendosi in fondo al lettino per evitare che le punte delle dita battessero contro le piastrelle ghiacciate del pavimento nel movimento, e tormentava con le dita – per una volta prive di smalto – l’orlo inferiore del camice che indossava, stropicciandolo.
- Andrà tutto bene. – gli dissi, mettendogli una mano sulla spalla e spingendolo lievemente perché si distendesse. Lui non oppose resistenza. – Hai parlato con tuo fratello, vero?
Bill annuì, sostenendo il mio sguardo con una punta di imbarazzo.
- È stato liberatorio, sa? – mi confessò a bassa voce, - Tomi era un po’ confuso, ma ne verrà fuori. Ne verremo fuori tutti.
Era così determinato, così sereno, così sicuro di sé, che ogni paura residua di sbagliare svanì del tutto dalla mia mente, e sorrisi anch’io.
- Le devo molto. – riprese dopo un po’, tendendomi una mano che strinsi con calore, - Grazie.
Poi arrivò l’anestesista, un paio di infermiere e il mio socio, che mi avrebbe aiutato per tutto il giorno, viste la complessità e la lunghezza dell’operazione. Bill sorrise a tutti, si lasciò preparare e poi poggiò il capo sul lettino.
- Allora, Bill. – disse l’anestesista, sorridendo tranquilla, - Adesso io ti metto questa bella mascherina e tu conti lentamente da dieci a zero, ok?
Bill annuì, mordicchiandosi l’interno della guancia.
Io sistemai i guanti.
E poi sentii delle urla disumane provenire dal fondo del corridoio e mi voltai repentinamente a guardare, mentre Bill scattava seduto e portava le mani alle labbra, come per coprire un singhiozzo di paura e stupore.
- Tomi! – lo sentii chiamare, nel momento stesso in cui un ragazzo – quanto di più simile e quanto di più differente da lui potesse esistere in tutto il mondo – fece irruzione in sala operatoria, trattenuto a stento da mia moglie, che lo tirava per la maglietta enorme che indossava senza riuscire a frenarlo con particolare successo.
- Non devi farlo! – disse il ragazzo, liberandosi con uno strattone di mia moglie e correndo verso il lettino, per poi afferrare Bill per le spalle, - Non può essere davvero questo, quello che vuoi! Tu sei tu, Cristo santo, cosa c’entra diventare donna?!
- Che vuol dire che io sono io?! – strillò Bill, cercando di divincolarsi, - Prova a chiedere ad una persona qualunque chi sono io e non saprà dirti nemmeno se sono femmina o maschio! Vaffanculo, Tom, non mi serve nessuno che mi faccia la morale, e se non ti sta bene-
- Me ne sbatto il cazzo della morale! – riprese il biondo, stringendolo con più forza, - Ti sei sentito tanto figo, ieri, quando mi dicevi che questa scelta l’avevi presa per merito mio? Sai cosa? La prossima volta, quando decidi di fare una cazzata così enorme, invece di andare in giro facendo sentire responsabili gli altri, crocifiggiti al letto! Così ci risparmiamo tutti un sacco di preoccupazioni!
- Come sarebbe a dire tutti? – boccheggiò Bill, impreparato di fronte a tutto quell’astio.
- Tutti! – ripeté suo fratello, lasciandolo finalmente andare e spintonandolo poco graziosamente con una manata sulla spalla, - Noi poveri coglioni: io, i tuoi migliori amici e quell’altro disgraziato di David!
Bill spalancò gli occhi, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- L’hai detto a tutti… - esalò sconvolto.
- Certo che l’ho detto a tutti! Come pretendevi riuscissi a fermarti, senza che mi aiutassero loro? Se David non si fosse messo a litigare con metà delle segretarie impiegate in cliniche private di questa cazzo di città, staremmo ancora a chiederci dove fossi, stronzo! E se Gustav e Georg non avessero sfondato la sicurezza, io qui sopra non ci sarei mai arrivato! Ma io dico, vaffanculo, dovevi essere del tutto pazzo per pensare che una cosa simile avrebbe risolto ogni problema!
- Ma io sono pazzo, Tom! – lo interruppe Bill, scattando in piedi e cercando di allontanarlo da sé con uno spintone poco convinto, - Sono malato, - aggiunse, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, - sono uno psicopatico, sono un essere orribile, non ho dignità e non ragiono più, Tom, semplicemente non ragiono più! – si fermò un attimo, ansante, mentre suo fratello lo guardava con sgomento sempre crescente. – Tutto quello che speravo era di trovare un sistema per fare in modo che tu mi amassi, almeno un po’… - bisbigliò fra i singhiozzi, portando entrambe le mani a coprirsi il volto arrossato e rigato di pianto, - ma non mi amo più neanche io, Tomi… non mi amo più neanche io… non ne posso più di essere così, non ne posso più di essere sbagliato, voglio diventare un’altra persona… mi odio a morte, cazzo…
Tom deglutì, continuando a guardarlo.
Intorno, tutti noi restammo in attesa di una mossa che spezzasse quel silenzio spaventoso, interrotto solo dai singhiozzi e dai lamenti di Bill. Mi sentivo un intruso, era come se ognuna delle persone presenti in quella stanza stesse spiando quanto di più privato Bill nascondesse nel proprio cuore. Ciononostante, non riuscivamo a muoverci. Forse perché temevamo che un qualsiasi movimento avrebbe distrutto la dinamicità perfetta di quell’attimo. Temevamo che, se avessimo fatto qualcosa, Bill sarebbe semplicemente tornato a nascondersi dentro il suo guscio e Tom non avrebbe più capito niente di lui, e se lo sarebbe lasciato sfuggire dalle mani, perdendolo.
Almeno, questo era quanto temevo io.
Ma nessuno mosse un muscolo, e Tom ebbe il tempo di sollevare le braccia, avvicinarsi al fratello e stringerlo con tenerezza, cullandolo.
- Io ti amo. – gli disse all’orecchio, baciandogli una guancia.
Bill si agitò sul suo petto, senza riuscire a liberarsi ed arrendendosi con un piccolo pugno.
- Non come vorrei. – rispose quindi, tirando fuori dallo stomaco le parole con una fatica immane.
- Ti amo più della mia vita. – rafforzò allora Tom, stringendolo con più decisione. – Più di così non potrei amarti. Più di così non potrei amare nessuno. È tutto quello che ho da darti. – affondò il viso nell’incavo del suo collo, sfiorandone la pelle accaldata con le labbra. – Io ti amo perché sei così come sei. Tu sei un maschio, Bill. Tu sei mio fratello. Se io ti amo tanto, mi spieghi perché dovresti odiarti tu?
Bill non rispose, semplicemente perché una risposta non c’era. Scoppiò a piangere con rinnovata forza, aggrappandosi alla maglietta già umida del fratello e nascondendosi completamente contro di lui, quasi sparendo nei suoi vestiti.
Fu allora che tutti i miei collaboratori furono come risvegliati d’improvviso da una lunga trance, ed abbandonarono in fretta la sala, in perfetto silenzio. Io invece rimasi lì. Serrai le labbra e guardai altrove, per non invadere ulteriormente la loro privacy, ma non uscii.
Il primo segno che ebbi del fatto si fossero mossi, me lo diede Bill. Che mi si avvicinò, mi batté una debole pacca sulla spalla e, quando io sollevai lo sguardo su di lui, mi sorrise.
- Sembra che ci siano errori che non possono essere sanati, dottore. – sussurrò salutandomi.
*
Mia moglie mi lasciò pochissimo tempo dopo. Era ovvio che, quella mattina, qualcosa in quei due fratelli doveva essere morto per sempre. Il fatto che poi il loro legame fosse risorto ed avesse cominciato a muovere qualche piccolo passo zoppicante verso il futuro, non cancellava questa realtà. Ed era qualcosa di decisamente triste. Qualcosa, anche, di cui dovevo accollarmi la colpa.
Lei non riuscì a perdonarmi. Non riuscì a venire a patti col fatto fossimo stati in disaccordo su una cosa così importante. Non riuscì a venire a patti con la mia colpevolezza e, soprattutto, non riuscì a venire a patti col fatto lei non avesse potuto fare niente per fermarmi, mentre inconsapevolmente devastavo la vita di due ragazzini.
Mi sono anche ritirato dalla professione. Lavoro saltuariamente come consulente presso uno studio privato di Berlino, ma non opero più e non vivo neanche in città. Penso siano conseguenze normali di situazioni come quella che ho vissuto.
So che neanche mia moglie lavora più a tempo pieno. Anche se non saprei dire se si sia trasferita o meno. In ogni caso, da quando abbiamo divorziato non la sento più.
Quel giorno, quando Bill fu riaccompagnato in macchina dopo avermi salutato, Tom tornò da me. In un primo momento, credevo fosse tornato per farmi una scenata o minacciare un qualche procedimento legale, ma non era lì per quel motivo.
- Ci sono moduli da riempire? – mi chiese incerto, le mani ficcate a fondo nelle tasche e lo sguardo sfuggente.
- Prego…? – chiesi io, cercando di interpretare le sue parole senza riuscirci.
- Sì, per annullare l’operazione. – spiegò lui, stringendosi nelle spalle, - Spero che la cosa non abbia causato dei problemi alla clinica.
- Oh… no. – deglutii io, disorientato, - Affatto. Non c’è nessun modulo da riempire, potete semplicemente… andare.
Tom annuì, prendendosi un secondo per digerire l’informazione.
- Comunque mi dispiace. – buttò lì, più per educazione che per altro, voltandosi per uscire.
Io non so perché lo chiamai e gli chiesi di fermarsi. Forse perché il sorriso rassegnato di Bill era ancora così fresco nella mia memoria da spaventarmi un po’. Però gli chiesi di fermarsi e gli corsi incontro prima che uscisse.
- Ti senti… - cominciai, inumidendomi le labbra, - …lo so che non sono fatti miei, ma ti senti in colpa per la scelta di tuo fratello? Perché, se ti senti in colpa-
- Penso sia inevitabile. – mi interruppe lui, atono. – So che non dipende solo da me, ma dipende anche da me. Sarà piuttosto dura venirne fuori.
- …pensi che potrai mai accettare quello che prova per te?
Tom si prese un secondo. Ma non per riflettere sulla risposta, piuttosto per squadrarmi da capo a piedi, come chiedendosi se, di quella situazione, avessi capito qualcosa o brancolassi ancora nel buio.
- Credo di sì, dottore. – rispose dopo, sereno. – Lui è mio fratello gemello. Io sono nato per accettare tutto, di lui.

***************

L’unico motivo per il quale non posso tranquillamente affermare di aver amato mio fratello da sempre, è che non si ha prova che i feti possano amare, mentre si trovano dentro l’utero materno. Di un feto si può sapere se è contento – perché ride – o se è irrequieto – perché, in un modo tutto suo, piange – ma non si può sapere se ama. Immagino che la scoperta sconvolgerebbe l’intero mondo scientifico, in caso venisse fuori qualcosa del genere.
Comunque, da quando sono venuto al mondo, pochissime persone hanno superato la soglia di un’indifferenza – la mia – che non dico non dipenda anche da una certa predisposizione personale, ma che è stata soprattutto fomentata dal mondo che mi circondava. Perché quando vivi tra Loitsche e Magdeburg – e non sai, sinceramente, stabilire quale delle due sia peggio – devi per forza corazzarti, almeno un pochino, o rischi grosso.
Comunque, di queste pochissime persone – mia madre, Andreas e Tomi, ed infatti era ovvio me li tatuassi addosso – solo lui ha avuto un’importanza vitale. E quando dico “vitale” non sto esagerando, non sto facendo leva sul romanticismo degli innamorati, che tende ad ingigantire cose infinitesimali per convincere qualcuno di non essere in grado di sopravvivere senza l’altra persona. Tomi è sempre stato la mia aria, il mio tranquillante naturale e, cosa ancora più fondamentale, la mia ispirazione. Se mi serviva un motivo per alzarmi dal letto e cominciare a darmi una mossa, anche nei giorni in cui sapevo sarebbe andato tutto storto, era in lui che lo ritrovavo. In quello sguardo sempre acceso e coraggioso, che sembrava ripetermi di continuo che, in ogni caso, lui ci sarebbe stato. Perciò io potevo stare tranquillo, perché non sarei mai stato solo, e non avrei dovuto affrontare niente senza il suo aiuto, neanche le cose più stupide ed insignificanti.
Questo ha fatto di me un ragazzo viziato, lo so. Quando David si arrende ad un qualche mio capriccio, e comincia a sospirare come un nonnetto, lamentandosi che avrebbe voluto essere presente durante la nostra infanzia, così avrebbe ripreso nostra madre, che palesemente non è stata capace di educarci, io sorrido e passo oltre, perché so che sta scherzando ma so anche che ciò che dice non rispecchia la realtà. Non è colpa di mia madre, se sono viziato. È stato Tom a viziarmi.
L’unica colpa di mia madre, probabilmente, è l’avermi reso troppo libero. Non avermi insegnato con nettezza la differenza fra giusto e sbagliato, l’avermi lasciato impararla da solo, sperimentarla sulla mia pelle per poi farmi un’idea.
Non mi ha posto alcun freno, ed io mi sono innamorato di mio fratello. Perché sulla mia pelle l’idea non suonava male. Perché le carezze di Tom, i suoi abbracci, i baci morbidi che mi lasciava sulle tempie quando piangevo a dirotto e sembravo inconsolabile, non sembravano sbagliati. E sinceramente non sembrava sbagliato neanche il passo successivo – desiderare di sentirmi addosso il suo profumo sempre, desiderare le sue labbra, i suoi occhi fissi su di me, colmi di desiderio come quando guardava le ragazze… a volte ero tremendamente geloso, sapevo che Tom non mi avrebbe mai guardato in quel modo, ed io invece volevo avere per me ogni singola sfumatura del suo comportamento, e sapere che ce ne sarebbe sempre stata qualcuna che non mi sarebbe mai appartenuta mi uccideva.
Non fraintendetemi. Non ho vissuto fuori dal mondo durante tutti i miei infiniti e pienissimi vent’anni. So perfettamente che l’incesto è ritenuto dai più sbagliato.
Però mi pare di averlo già detto. Se anche tutto il resto del mondo fosse contrario a quest’amore, rimarrei della mia idea. Io ho ragione. Tutti gli altri torto.
*
Così, a dieci anni rubai la ragazza di Tom. Oh, so che possono sembrare due cose del tutto slegate, ma non lo sono affatto.
Eravamo davvero molto piccoli. Non c’era niente che facessimo con una ragazza – con una bambina, una bambina come noi – che non potessimo fare anche con nostra madre. Tutta la nostra esperienza di intimità consisteva in un bacio asciuttissimo dato a fior di labbra dietro i cespugli del cortile della scuola, e che era del tutto identico al bacio che davamo a mamma ogni mattina, uscendo di casa. Scommetto che anche per Tom – nonostante lui adorasse farsi gran figo, in quell’ambito – le cose non fossero poi così diverse.
Io ero mortalmente geloso, ovviamente. Karolina era carinissima, molto più carina di me. Realizzarlo non mi stupì. Era un pensiero ridicolo, ma non fuori dall’ordinario: io mi vedevo orribile. Continuai a vedermi così anche negli anni successivi. Il trucco migliorava un po’ le cose, ma non smettevo di vedermi brutto se nello specchio vedevo un me stesso completamente ricoperto d’ombretto e gel per capelli. Mascheravo tutto solo un po’, ma di fondo rimanevo uguale. Non potete nemmeno immaginare quanto mi abbia sconvolto sapere dell’esistenza di fan cui piaccio perfino struccato.
Comunque era così. Karolina era carinissima ed anche molto più interessante di me, e Tom si vedeva con lei ogni pomeriggio.
Sapevo cosa facevano – sapevo che si baciavano sempre sulla bocca – perché un giorno ero andato al parco, seguendoli di nascosto, e li avevo visti.
Quando mi presentai a lei – facendo sfoggio di ammirabile coraggio e faccia tosta, devo ammetterlo – sapevo già come sarebbe finita. Sapevo che l’avrei baciata anche io e sapevo che poi Tomi ce l’avrebbe avuta con me per un sacco di tempo, e che, anche una volta avesse superato l’offesa, quello sarebbe rimasto per sempre una sorta di tabù fra di noi; sapevo che sarebbe stato un argomento intoccabile, perfino quando saremmo diventati grandi e maturi. Rubandogli la ragazza lo pungevo dove si sentiva più sicuro, lo rendevo vulnerabile dove credeva il suo scudo fosse più forte e lo mettevo in ridicolo di fronte agli amichetti fighi di cui ancora, a quell’età, era pieno.
Ovviamente, niente di simile era nelle mie intenzioni.
Volete sapere perché rubai la ragazza a mio fratello? Ve lo dico subito.
Sulle labbra di quella bambina doveva esserci il sapore di Tom. Doveva esserci il sapore di Tom in una sfumatura che non avevo mai sentito – perché era quella delle sue labbra, ed io non avevo mai potuto assaggiarle – e che doveva essere resa ancora più preziosa dal fatto che le labbra da cui l’avrei presa appartenessero a qualcuno che sembrava interessargli più di me.
Era un furto, il mio, sì. Ma era anche una dichiarazione d’amore.
*
Dirlo a Tom non è stato “difficile” in senso stretto. Non ho dovuto faticare granché, per trovare le parole giuste. Un po’ perché per me non è mai stato difficile trovarle, un po’ perché sapevo esattamente cosa dire – quelle parole stavano sepolte dentro di me da tanto di quel tempo che ormai erano diventate parte delle mie cellule – ed un po’ anche perché le parole più giuste, quelle che l’avrebbero aiutato a prenderla bene, non esistevano, in realtà.
Perciò, io sapevo esattamente cosa dire. Il problema, semmai, era trovare il coraggio per farlo.
Quello era sempre stato un problema, fra noi due. Non che non mi fidassi di lui, non che non mi fidassi di lui da sempre, è ovvio. Gli avrei affidato la mia vita. In realtà l’avevo fatto davvero, in almeno un miliardo di occasioni. Già l’essere riusciti a nascere insieme, quando invece, la maggior parte delle volte, uno dei due gemelli finisce per essere fagocitato dall’altro prima del parto, era a mio parere una grande prova di fiducia. Io non mordo te e tu non mordi me. Se possiamo farlo adesso, possiamo farlo anche per tutto il resto della nostra vita.
Tom è sempre stato un ragazzo incredibilmente coraggioso, sincero e leale. La sua onestà, soprattutto nei miei confronti, è qualcosa di abbagliante. Lui è davvero fermamente convinto non possano esistere cose che dovremmo nasconderci a vicenda.
Era superare questo scoglio, gli scrupoli e le paure che la sua onestà mi metteva addosso, la parte difficile.
Tom avrebbe voluto saperlo, se avesse anche solo sospettato che nella mia testa potesse esserci qualcosa di simile. Il problema era, però, che saperlo lo avrebbe ferito. Ed io non volevo ferirlo.
So che suona alquanto incredibile, ma credo proprio Tom non mi abbia mai fatto del male. Consapevolmente, s’intende. Poi, è chiaro che a quindici, sedici anni, quando lo vedevo saltellare da un letto all’altro prima di tornare a svenire accanto a me in hotel, mi sfondavo i polmoni a furia di piangere e soffocare i singhiozzi nel cuscino. Ma questo non dipendeva da Tom, non era un suo problema. Lui non faceva che comportarsi come un ragazzo normale, ero io quello sbagliato.
Avrei tranquillamente potuto mentire, al dottore. Non dire niente a Tom, fingere di averlo fatto e presentarmi comunque per l’operazione. Scommetto che le cose sarebbero andate diversamente. Tanto per cominciare, io avrei davvero cambiato sesso, se avessi deciso in quel modo.
Non l’ho fatto, perché mi sono reso esattamente conto di cosa stesse cercando di dirmi il dottore, mentre mi consigliava di parlarne prima con mio fratello e diceva di voler essere sicuro che avrei avuto qualcuno a sostenermi, dopo che avessi superato l’operazione.
Qualsiasi cosa io abbia fatto, nella mia vita, l’ho fatta col supporto di Tomi. Non ho davvero mai affrontato niente da solo. Il divorzio dei nostri genitori, i trucchi, le tinture e tutte le conseguenze, le delusioni sul piano affettivo e quelle sul piano professionale… perfino la solitudine, ecco, perfino quando mi sentivo mortalmente solo e neanche la sua presenza riusciva a lenire quella sensazione orribile, il fatto lui ci fosse rendeva comunque tutto più facile. Continuavo a sentirmi solo, ma avevo qualcuno che mi tenesse la mano. Non nel modo in cui avrei preferito, ma era comunque un modo. Potevo continuare a fissare e fissare le nostre dita intrecciate fino a convincermi fosse davvero l’unica cosa di cui avessi bisogno. Potevo continuare a fissarlo dormire al mio fianco, e credere fermamente di non desiderare né un bacio né una carezza né il suo respiro sul collo, perché il calore della sua pelle a qualche centimetro dalla mia mi sarebbe comunque bastato.
Non era veramente pensabile io potessi affrontare tutto questo senza di lui. Non potevo e neanche volevo.
Entrai in camera sua senza bussare, come sempre, e lo trovai immerso in un’agguerrita sfida contro il cervello elettronico di qualcosa che somigliava ad un gioco di guerra ma comprendeva anche degli alieni, e sorrisi, vagamente intenerito, mentre lui mi faceva un cenno col capo, mandandomi a sedere sul letto.
Chiuse la partita in pochi secondi e si voltò a guardarmi, chiedendomi se fosse tutto a posto.
Ed io presi tutte le parole che non gli avevo mai detto e le riversai lì, sul pavimento, proprio davanti a lui. Erano quasi fisiche, accidenti. Fisiche almeno quanto lo sgomento che riempì i suoi occhi e sembrò irradiarsi fino a me, lasciandomi impaurito ed incerto a tremare su un materasso che non avevo mai trovato così scomodo.
Lui non disse niente.
Ed io potei capirlo, perché se fosse stato lui a venire da me per dirmi “sono innamorato di te e sto per sottopormi ad un intervento per diventare donna”, nemmeno io avrei avuto qualcosa da dire. E sì che io non ho mai problemi, con le parole.
Deglutii nervosamente, restando ad aspettare ancora un po’ che da lui provenisse un segnale di qualsiasi tipo, ma non arrivò niente. Mio fratello era una statua di sale, ed anche lui sembrava in attesa di qualcosa. Che ritrattassi tutto, probabilmente.
Mi mordicchiai l’interno di una guancia e mi sollevai in piedi, facendo leva con le mani sul materasso.
- Mi dispiace. – dissi senza guardarlo, - Dovevi saperlo.
Feci per uscire dalla stanza, ma Tom mi afferrò per il polso, bloccandomi.
Mi voltai a guardarlo.
- Cosa devo fare? – mi chiese. Non lo fece con insofferenza né con supponenza, la sua era una domanda sincera.
Ma mi spaventò. Perché lui aveva sempre saputo esattamente cosa fare con me. Ed io, in quel momento, ero la persona meno adatta a suggerire.
Scossi il capo.
- Ne hai parlato con David? – riprese lui, inumidendosi le labbra.
- Pensi che me lo lascerebbe fare? – ritorsi con una smorfia.
- No… - rispose lui, guardando altrove senza lasciarmi, - …ma ci va di mezzo anche lui… e Georg, e Gustav… i Tokio Hotel…
- Tanto nessuno capisce che sono un maschio comunque.
- Bill, ti prego…
Scossi il capo.
- Ne ho bisogno. È quello che voglio.
Lui si prese un attimo per riflettere, aggrottando le sopracciglia.
- È colpa mia? – chiese alla fine, stringendo la presa sul mio polso.
- È per merito tuo. – risposi io, separandomi da lui con uno strattone.
*
Poi lo sapete, com’è andata.
Non vorrei si pensasse che la mia operazione sia saltata per vigliaccheria, o perché l’unico scopo della messinscena era fare in modo che Tom venisse a salvarmi sul suo cavallo bianco.
Se ho rinunciato a cambiare sesso è stato per un altro motivo, un motivo ben più profondo, che l’irruzione di Tom mi ha solo aiutato a comprendere meglio.
Probabilmente, ormai ci sarete arrivati anche voi.
Ma io ho davvero bisogno di dirlo. Davvero davvero.
Ma prima serve una piccola premessa, e dal momento che ho incasinato la vita ad un sacco di persone, mi sembra giusto dire la mia. È giusto perché ho bisogno di scusarmi – perché la maggior parte delle persone coinvolte semplicemente tenevano a me, e non meritavano di passare ciò che hanno passato per i capricci di uno stupido adolescente del tutto fuori di testa – ed è giusto anche perché ho il diritto di replicare. Ho il diritto di fare valere le mie opinioni. Anche se erano stupide e dettate da sentimenti orribili, più che da ragionamenti sensati, erano cose mie. Ed avevano una dignità.
Non so se vi è mai capitato di restare fuori casa troppo a lungo, di notte. O di aprire una finestra per far cambiare l’aria al salotto e poi addormentarvi davanti al televisore senza richiuderla e senza coprirvi.
Quando succedono cose simili, il gelo che si attacca al corpo – alla pelle, alla carne, alle ossa – è qualcosa di ultraterreno. Non è una componente ambientale, non è normale freddo. Non è normale, perché anche quando metti le tue calzette di lana e il pigiama più pesante che hai, anche quando ti cali un cappello sulla testa fino a coprire le orecchie, ed anche quando metti i guantini, abbracci una borsa dell’acqua calda e ti avvolgi in quattro o cinque strati di coperte isolanti, quel freddo assurdo non se ne va. E se ti passi addosso una mano, lo senti. Lo senti se ti passi una mano sulle gambe, o sulla pancia, o sul viso. Lo senti anche se hai lo stesso identico freddo attaccato ai palmi.
È un gelo spaventoso. Per quante ore possano passare, finché il tuo corpo rimane immobile, congelato nella notte, fermo al momento in cui quel freddo ne ha preso possesso, non passerà. Rimarrà lì, persistente come una maledizione, a farti compagnia assieme al rumore dei tuoi denti che battono e al terrore di non potertene più liberare.
Scivola via solo con la mattina, quando riprendi a muoverti con più energia. Quando riprendi a comportarti come è giusto che ti comporti.
Quel freddo è la giusta punizione per i tuoi atti sconsiderati. Non è freddo e basta, è la tua condanna. Ti sei esposto alla notte troppo a lungo, e ne paghi le conseguenze. È questa l’unica spiegazione sia riuscito a trovare per quel freddo, riflettendoci a lungo, perché è vero che poi passa solo al mattino, e che le sensazioni che provi quando te lo senti addosso sono quelle di una punizione. Lo sono, perché non fai altro che ripeterti che la prossima volta tornerai a casa prima. O che la chiuderai, quella dannata finestra. Questo è imparare dalle punizioni. Quindi quel freddo lo è, è una punizione.
Le prime volte ti sta anche bene. Ti dici che te lo sei meritato, che dovresti imparare e ricordare e fare tesoro di quella sensazione orribile per evitare di ritrovartela attaccata addosso in futuro. Perciò accetti la punizione… no, non con gioia, ma con una giusta e serena dose di rassegnazione.
Però magari mesi e mesi dopo dimentichi di nuovo, anche solo per una volta, e ricomincia da capo. E d’improvviso, quando stai nel tuo letto e cerchi di trovare la traccia calda che sai il tuo corpo dovrebbe lasciare sul materasso – e che non c’è, per quanto la cerchi semplicemente non c’è – realizzi che in realtà non è affatto giusto quello che stai provando. Che non è affatto giusto ghiacciare in quel modo assurdo per una stupida dimenticanza. Per un errore minimo, che sta compromettendo un’intera nottata di meritato riposo. Perciò ti rompi i coglioni e accendi una fottuta stufa. Lei, minuto dopo minuto, la situazione la risolve. È stata inventata apposta.
Ora, voi immaginate di avere quella sensazione di freddo appiccicoso e pungente addosso da quando siete nati. Di non aver passato neanche un giorno della vostra stramaledettissima vita senza esservi sentiti inadeguati, imperfetti e completamente sbagliati.
Immaginate di amare vostro fratello. Il vostro cazzo di fratello stupendo. La persona più importante che avete, l’unica persona senza la quale sapete che il vostro cuore smetterebbe inesorabilmente di battere, perché sareste voi a fermarlo, causa insopportabile eccesso di tristezza.
Immaginate di essere un dannatissimo maschio e di truccarvi come una dannatissima femmina. Immaginate di farlo da quando siete poco più di un bambino, immaginate di aver sentito più insulti nella vostra vita per questo, per il semplice fatto di usare un ombretto, che non per le innumerevoli volte in cui siete stati effettivamente stronzi col vostro prossimo, al punto da meritare un ragionevole invito ad andare affanculo.
All’inizio sopportate e sopportate. Vi dite “se mi rompono il culo a scuola è perché magari è vero quello che dicono, magari è vero che sono un frocetto e non merito di vivere”. Vi dite “magari se soffro tanto perché vorrei un bacio da mio fratello è perché sono un pervertito, e non poter avere ciò che voglio è la giusta punizione per questi sentimenti sbagliati”.
È ragionevole. È sensato. Ci credete, è giusto, fate i martiri e soffrite in silenzio.
Io l’ho fatto. Dio santo, l’ho fatto per anni.
E poi mi sono rotto i coglioni. Perché avrei potuto essere donna e nascere nella casa accanto rispetto a quella di Tom e la mia vita sarebbe stata perfetta. Erano pochi metri di differenza e qualche stupido centimetro di pelle in meno. Sarebbe bastato che il fottuto spermatozoo di mio padre capisse che non c’era spazio per due bambini nell’utero di mia madre. Nel frattempo, la coppietta dei vicini avrebbe trovato un modo simpatico per passare la serata, e sarei venuto fuori io. Non sarei stato esattamente io, ma forse avrei conosciuto Tom lo stesso. Probabilmente gli sarei piaciuto, i gusti di mio fratello in fatto di donne sono… variegati, ecco. Io avrei saputo tenermelo. Avrei fatto di tutto per tenermelo.
Cristo, ho vent’anni. Avremmo già potuto essere sposati, in teoria.
E così ho pensato, “Sapete cosa? No che non è giusto stare così”. No, cazzo, no che non è giusto stare così male solo perché la mia atavica sfiga ha deciso di ficcarmi in un utero troppo piccolo per due persone eppure perfetto e accogliente in maniera quasi disperata.
Non potevo rimediare a tutti gli errori della Natura. Il mio sangue sarebbe rimasto il mio, così come il mio dannatissimo cognome. Ma potevo cambiare. Quel tanto che bastava per ammazzare Bill Kaulitz e rinascere come un’altra persona. Una persona più giusta. Una persona che avesse più possibilità. Una persona che avrebbe potuto essere felice.
Ci ho davvero creduto. E sì, lo so che sono stato uno stupido.
Ma non perché avrei dovuto trovare un modo per rimanere me stesso ed essere felice comunque.
No.
Solo perché avrei dovuto capire prima che la felicità è l’unica vera utopia dell’essere umano. E rinunciare.
Titolo originale: id.
Autrice: Razzle.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom (lieve).
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Incest e Slash (lievi), Traduzione.
- "Pensavo fosse veramente bellissimo che Tom venisse a trovarmi ogni giorno, è davvero molto dolce a suo modo."
Note: Awh <3 Io giuro che questa storia è adorabile ç_ç Non so se sono stata in grado di renderla efficacemente (e sinceramente ne dubito, lo stile di Razzle è immediato, procede per immagini e frasi secche, è terribilmente difficile rendere in italiano una cosa simile, soprattutto quando vengono ripetuti così spesso i soggetti e i nomi ç_ç), ma in originale è veramente una storia deliziosa. Io l’ho amata <3 Spero che anche a voi piaccia >.< Tom è così tatino… ç_ç!!!
E il titolo di questa storia è amore <3 Per questo non l’ho tradotto (oltre al fatto che… vallo a trovare un sinonimo abbastanza puccio da costituire un titolo XDDDD)
Recensite in tanti, da bravi, che poi traduco le recensioni per Razzle e, se siamo fortunati, mi lascerà tradurre qualcun’altra delle sue delizie *-* <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SUCKER

Note dell’autrice. Allo stato attuale delle cose, questa fanfiction è al 95% generica. Mi sconvolgo da sola, a volte. Betata dalla brillante moblo413.

*

- Non puoi proteggerlo sempre.
Tom è ancora infastidito da questa storia. Dal non essere stato lì quando Bill è stato male.
Non è stata colpa sua. Non aveva proprio nessuna colpa a riguardo, e nessuno si sarebbe mai permesso di dire che qualcosa potesse andare diversamente se Tom ci fosse stato. Ma Tom non era mai stato in grado di scrollarsi di dosso la sensazione che, se fosse stato con Bill, l’insetto avrebbe potuto dover volare un po’ più a lungo. Avrebbe potuto stancarsi troppo. Avrebbe potuto mordere Tom al suo posto, perché Tom era più grande e il suo sangue, ne era sicuro, era più pieno di saporito grasso. Aveva mangiato un cheeseburger, quel giorno. Tom l’avrebbe protetto.
Gordon era bianco come un lenzuolo, quando era andato a prendere Tom nel giardino sul retro. Gordon l’aveva tenuto per le braccia e gli aveva detto che suo fratello s’era sentito male mentre si trovava al parco con Andreas. Era stato morso da un moscerino ed era svenuto. La loro mamma l’aveva portato all’ospedale.
Quando aveva sentito menzionare l’ospedale, Tom era andato nel panico.
Tom aveva pianto e si era spinto contro le braccia di Gordon, strillandogli di portarlo a vedere il proprio fratello. Gordon l’aveva stretto e gli aveva detto di calmarsi. Stavano andando; certo che stavano andando.
Tom aveva pianto come tutti gli altri, ma era corso in macchina, tremando nel suo sedile mentre mormorava qualcosa a sé stesso, singhiozzando senza controllo, la mano pressata contro la bocca.
Gordon aveva provato a confortarlo, tendendo una mano e dandogli qualche pacca sulla spalla, mentre lui continuava a soffocarsi nell’angoscia. Quando erano arrivati al parcheggio dell’ospedale, la mano di Tom era scattata verso la maniglia, ma era stata fermata da Gordon, che aveva bloccato la porta.
- Va bene, Tom, calmati. – aveva detto seriamente, - Anche io sono preoccupato per Bill, ma tu hai bisogno di calmarti. Se entri là dentro così, irriterai tua madre.
Tom si voltò verso di lui e tirò su col naso, un broncio fra le guance rosse brillanti, luccicanti di lacrime. Respirava ancora pesantemente.
- E irriterai Bill. – aveva continuato Gordon, pressando il tasto che sapeva avrebbe funzionato.
Aveva osservato Tom prendere un profondo respiro e trattenerlo, forzando le proprie emozioni a placarsi.
Gordon aveva tirato fuori un paio di fazzolettini dal porta oggetti e li aveva passati al proprio figlio adottivo. Tom aveva costretto il proprio respiro a tornare normale. Non avrebbe irritato Bill.
Naturalmente, una volta in ospedale, sprofondando fra le braccia della propria madre e correndo al capezzale di Bill, aveva dovuto farsi forza per mantenere il sangue freddo. Fronteggiando la realtà dell’aspetto stanco e pallido del proprio fratello, aveva inghiottito un singhiozzo e aveva gettato le braccia attorno al corpo del suo prezioso gemello.
Gli ordini di andarci piano erano stati ignorati, e ci sarebbero volute più di due persone per scostare Tom da Bill. Aveva pianto senza vergogna, quando l’avevano costretto ad andarsene.
Ogni giorno aveva marinato la scuola, uscendo dopo la prima lezione e camminando per mezz’ora fino all’ospedale. Non avrebbe dovuto andare lì, ma le infermiere non avevano cuore di obbligarlo ad uscire, quando lui era l’unica ragione che Bill avesse per sorridere. Giocavano, guardavano la TV e Tom semplicemente teneva la propria mano su quella di Bill per tutto il tempo. Se ne andava alle due e mezza, prima del cambio di turno, e ritornava di corsa a scuola, così sua mamma poteva passare a prenderlo e portarlo nuovamente all’ospedale. Perché, non era forse stato un bravo ragazzo, rimanendo ad aspettare tutto il giorno?
Lui e Bill hanno milioni di diversi sorrisi segreti. Uno è nato durante quei giorni, mentre facevano finta di non essersi visti per ventiquattro ore. Lo usano ancora. Quando la band non sa che sono stati insieme per tutta la notte.
Anche questo è cominciato allora. Mai stare separati troppo a lungo, mai troppo distanti, restare sempre vicino a Bill; non lasciare che si faccia male ancora. Bill dorme troppo scoperto, quindi Tom deve stargli vicino e completarlo, pelle su pelle, incoraggiando gli insetti a prendere lui al suo posto. Si avvicina di più, copre il corpo di Bill col proprio.
Più notti possibile, stringe Bill circondandolo, perché questo è il modo migliore per proteggerlo. Per tenerlo in salvo dalle minacce invisibili che cercano di separarli.
Il resto è stato solo una progressione naturale. Perché lui non avrebbe lasciato Bill scivolare fuori dalle sue braccia.
Titolo originale: id.
Autrice: Bathala.
Genere: Introspettivo, Triste, Malinconico.
Pairing: Bill/Tom (lieve).
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Incest e Slash (lievi), Traduzione.
- Venivano sempre bene in fotografia. O almeno, questo era quello che sua madre ripeteva continuamente. Finché un giorno Bill non torna a casa disperato per la sua foto di classe...
Note: Come si può passare un’intera settimana su una cosine tanto breve?! XD Continuando di questo passo, riuscirò a tradurre tutta la mole di fic che voglio tradurre, tipo, fra tre anni! È un dramma!
Che dire di questa storiellina? È una piccola perla nel fandom slash dei TH X3 Mi ha colpita tantissimo per la sua pucceria ç_ç Non è scritta divinamente o che, ma non mi importa, è così dannatamente carina! E poi è ispirata da fatti avvenuti realmente, la qual cosa mi ha davvero spezzato il cuore ç_ç Prova fotografica.
Mi raccomando, riempite lo spazio recensioni di commenti, così io poi potrò mandarli all’autrice della storia originale X3 Che è una ragazza adorabile, tra le altre cose XD
E a presto con nuove traduzioni e – ovviamente – nuove storie della sottoscritta sui gemelli Kaulitz :D
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SMILE

Note dell’autrice.
(Eccoci ancora qui!) La fic contiene linguaggio colorito e una minima componente omosessuale. Non vi piace lo slash, non leggete. Commenti e critiche sono ben accetti. I flames saranno oggetto di derisione. Non è stata betata, quindi non siate troppo cattivi LOL! Preparate i fazzoletti.
Scritta il dieci febbraio 2007

*

Sembravamo sempre felici nelle fotografie. Questo era, almeno, ciò che mia madre ripeteva sempre. La cosa non infastidiva il “teppista” che era in me. E d’altronde, mio fratello credeva nel “vivere l’attimo”. Potevo sempre vederlo nel suo sorriso, e si trovava sempre riflesso nelle sue fotografie.
Era un giovedì pomeriggio qualsiasi, frequentavamo l’ottavo grado*. Tutto ciò che ricordo è d’essere tornato a casa presto quel giorno, e che non c’era nessuna bella ragazza in vista. La noia mi stava uccidendo, e non c’è niente di cui sorprendersi!
E poi bla bla bla, ho mostrato alla mamma la foto di classe che tutti dovevamo portare a casa. Mia madre amava guardare le nostre foto, credendo fossimo la cosa migliore che le fosse capitata al punto che nessuno dei suoi dipingi avrebbe potuto superare quel capolavoro che eravamo io e Bill – il mio fratello gemello. Non sono la persona più dolce del mondo, ma farei qualsiasi cosa e ogni cosa per mia madre e per mio fratello. Non che lo ammetterei mai, comunque.
Posso sentire l’accorata risata di mia madre trillare nelle mie orecchie ancora oggi. Pensavo tipo “E come si suppone che io possa rimorchiare qualche ragazza se sorrido come un idiota nella mia foto di classe?”. Mia madre continuò semplicemente a ridere, dicendomi che allora avrei fatto meglio a fare pratica davanti allo specchio perché questo è, dopo tutto, quello che piace alle ragazze. Avevo già gli occhi, i capelli e il viso adatti. Mi serviva solo un sorriso perfetto.
Mia madre stava preparando la cena quando sentimmo Bill correre su per le scale verso la sua stanza. Non vidi nemmeno la sua faccia, ma sia mia madre che io sapevamo che c’era qualcosa che non andava. Di nuovo. Mettendo giù il bollitore, mia madre si mosse per seguire Bill in camera sua, ma la fermai dicendo “Me ne occuperò io”. Era uno di quei giorni in cui avevo bisogno di essere il fratello maggiore. È il minimo che potessi fare per mia madre.
Grattandomi la nuca, aprii la porta della camera da letto di mio fratello, terrorizzato all’idea della vista che avrei dovuto affrontare. Vidi qualcosa di peggio.
Bill non era neanche riuscito ad arrivare al letto. Stava nel mezzo della stanza, arrotolato in una palla. Stava piangendo disperatamente, in silenzio, il trucco nero (ombretto? Eye-liner? Quale è cosa?) scivolava giù sul viso arrossato. Era evidente che mio fratello aveva soppresso il bisogno di piangere tutto il giorno. Le vene del suo collo sembravano sul punto di esplodere per il dolore represso.
Onestamente, non sapevo cosa fare, e mi sentivo terrorizzato a mia volta alla vista di mio fratello gemello così a pezzi. Lo sentii ansimare sulla mia spalla nello stesso momento in cui lo strinsi abbracciandolo. Il mio cuore si sbriciolò. E subito dopo realizzai cosa doveva essere successo quel giorno.
- È per la tua foto, è così? Non riesco a ricordare una sola volta in cui tu abbia dimenticato di truccarti per l’occasione.
Bill sollevò il capo dalle mie spalle, mordendosi le labbra. Scosse la testa e guardò altrove.
- Fammela vedere.
Mio fratello si congelò sul posto.
- Avanti, Bill. Dammela.
Le lacrime stavano già ricominciando a formarsi nei suoi occhi, quando raggiunse il suo zaino, lo aprì e ne tirò fuori la foto della sua classe. Siamo stati separati fin dal settimo grado, e mi mancano quei tempi in cui non potevi nemmeno distinguerci nelle foto, prima che cominciassimo ad amare cose diverse. Per essere più sincero, semplicemente mi mancano quei momenti in cui stavamo insieme nelle foto di classe.
Non voglio stare separato dal mio gemello. Come potrei voler essere separato da me stesso?
Bill mi passò la foto e io mi sentii come se qualcuno avesse affondato una spada nel mio petto… e poi l’avesse girata. Mio fratello era stato spinto in ultima fila, col cappello che copriva il suo viso quasi per intero. Potevo leggere, sentire e perfino odorare il terrore che si irradiava da quella sfottuta foto. Ero a conoscenza degli episodi di bullismo e di quelle orribili t-shirt, ma quello era troppo.
Non potevo lasciare che mia madre vedesse quella foto. Assolutamente.
Feci di tutto per non cedere al desiderio di staccare le teste a quelle persone e costringerle a mangiare la propria merda. Circondai mio fratello con le braccia, gettando di lato la fotografia. Nonostante non lo volessi ammettere, era davvero colpa mia. Sin dal momento in cui eravamo stati separati, i ragazzi avevano cominciato a trattarlo male, dato che “il suo fratello figo non era più lì intorno tutto il tempo per proteggerlo”.
- Ascolta, questa foto, - dissi indicando l’immagine offensiva, - non definirà il resto della tua vita. Quei tipi sono solo degli stupidi che non sanno essere fighi e tutto il resto, quindi maltrattano le persone per far credere che abbiano qualche sorta di potere. Lo sai questo, vero? Non puoi lasciarti abbattere da questo.
- È solo che è così difficile stare lontano da te, sai? Non m’importa stare nella tua ombra tutto il tempo, ma ho davvero bisogno del tuo aiuto per tenere lontane queste persone cattive. Mi manca stare con te, ed essere me stesso senza essere minacciato. Non posso esserlo, quando loro sono lì per prendermi.
- Mi dispiace davvero tanto che non possiamo stare nella stessa classe, e mi dispiace tanto di non averti protetto. Farò del mio meglio per esserci più spesso. Se ci pensi, quando saremo famosi tu sarai la star! E tutti ti verranno dietro e ti chiameranno ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette! Intendo, chi se ne frega dei compagni di scuola? Tu hai me, la mamma, Georg e Gustav.
Mio fratello si morse le labbra ed annuì. Mi guardò, con quegli occhi brillanti, pieni di speranza, pregandomi silenziosamente di restare con lui.
- Pensi davvero che diventeremo famosi?
- Certo! Hai me nel gruppo, no? Un giorno, sia le groupie che i ragazzi gay affolleranno il backstage, implorando Tom Kaulitz di concedergli una sveltina.
- Sei pazzo!
Il mio gemello sorrise e rise, nascondendo gli occhi dietro all’alone di trucco nero sulle sue palpebre.
- Sono realista, fratello. – dissi, inarcando le sopracciglia. Bill sospirò, e per la prima volta dopo anni baciai mio fratello sulla fronte, rassicurandolo sul fatto che l’avrei protetto… e sarei rimasto con lui… per sempre.
*
Sollevandomi dal vecchio letto di Bill a casa nostra, a Leipzig, sento mia madre chiamare il mio nome. Cena, penso. Spero veramente che mia madre abbia della Coca Cola in frigo. È già sera, e mi sa che sto su questo letto a sognare ad occhi aperti e ricordare da più di quattro ore.
Sono davvero un bastardo sentimentale. Di nuovo, non che lo ammetterei davanti a qualcuno… ma posso esserlo nel “tempo che passo da solo”, giusto? Eh.
Rotolando verso il mio lato del letto, i miei occhi incontrano un altro paio di occhi castani. Sostengo lo sguardo di mio fratello, chiedendogli silenziosamente a cosa stia pensando.
Bill comincia a cantare a bassa voce, e posso quasi sentire i battiti del suo cuore.
Rimaniamo in silenzio per un secondo, prima che io torni a rompere il silenzio.
- Vuoi tornare alle Maldive per una vacanza, prima che cominci il 2007?
- Tu vuoi che venga con te?
- Ti pare che mi interesserebbe andare con qualcun altro?
Mio fratello si sporge in avanti, baciandomi sulle labbra prima di alzarsi in piedi e vestirsi. Mentre scendiamo le scale per festeggiare il Natale con la mamma e il nostro patrigno, canticchio silenziosamente la nostra canzone, guardando discretamente il mio gemello sorridere con dolcezza... toccando appena la mia mano con la sua.

I'm disappearing slowly - can't stand myself
I can't get you out of myself
No matter where you are - come and save me
I'm not myself when you are not...

Here with me, I am alone
And what is left of me
I don't want to be
The sky outside is skewed
And on the wall your goodbye letter
I'm not myself when you are not with me I don't want to be anymore

I don't want to be anymore

“Ich Bin Nich Ich” – Tokio Hotel


*

Nota.
*In Germania la scuola è organizzata diversamente rispetto all’Italia è_é Non hanno le elementari e le medie, ma un ciclo unico in cui ogni anno è un “grado”. L’ottavo grado di cui si parla dovrebbe corrispondere alla nostra terza media, e il settimo alla seconda.
Scritta in coppia con Ana.
Genere: Romantico, Commedia, Erotico.
Pairing: Bill/Tom, Bill/Andreas/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Lemon, PWP, Slash, AU, Threesome.
- liz scrive: "questa storia nasce un po' anche per prenderci per i fondelli... e prendere per i fondelli pure miles away XD sappiamo che la amate, ma quella fic aveva un'enorme pecca: non era abbastanza zozza!"
ana scrive: "ed e' per questo che veramente la consigliamo a chi ha una mentalità abbastanza perversa"
liz scrive: "e la sconsigliamo anche a chiunque vorrà trovarle significati profondi: vi assicuriamo che non ce n'è"
ana scrive: "l’unica profondità della quale si parlerà sarà..."
liz scrive: "SMETTILA SUBITOOOOOOOH X’DDDDDD"
Note: A sei mesi dalla sua apertura, quello che doveva essere uno spin-off scemotto per festeggiare il Natale in compagnia di Miles Away è diventato prima un concentrato di porno prolungato e poi una puccioseria random con la quale riappacificarsi col fluff in attesa del seguito angst (Perfect Shade Of Dark Blue, che non vedrete su questo archivio perché opera unica di Ana). Per la verità - e qui mi discosto da quella che pare essere l'opinione comune - io mi associo a Tab nel dire che ho tanto apprezzato lo scrivere le parti pornografiche quando mi ha per certi versi infastidito indulgere nell'introspezione XD Voglio dire: la storia era nata, appunto, per essere un porno senza pretese. Come dicevamo nell'intro, un modo per prendere in giro Miles Away. Ha preso una piega più riflessiva, verso la fine, e non me ne pento del tutto, ma mi pare che si sia un po' snaturata, col proseguire. Che sia un po' invecchiata prematuramente. Insomma. MA non me ne pento mica è_é E comunque la threesome resta una delle scene di sesso migliori che abbia mai scritto <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
MILES AWAY CHRISTMAS EDITION
Porn Is What We Aim For
- Capitolo 1 -

Si erano addormentati di nuovo. Cullati dal tepore dei loro corpi e avvolti in quello delle coperte, stavano riposando tranquillamente come non facevano da mesi.
Bill si svegliò per primo, destandosi da quel calore familiare e non poté fare a meno che appoggiarsi ai gomiti per fissare il gemello, che continuava a dormire beato, sdraiato sul fianco con una mano tesa in avanti, la quale fino a pochi momenti prima sfiorava quella dormiente del moro.
Si chinò sopra di lui, lasciando che i lunghi capelli nascondessero i loro visi, come i rami di un salice piangente. Scrutò attentamente il viso di Tom, cercando di capire se in quei due anni fosse cambiato. Invece era sempre lo stesso, naso uguale al suo, il neo sulla guancia destra, il piercing al labbro... soffiò leggermente, facendo sì che le palpebre del rasta si muovessero, indispettite dal lieve solletico. Le vide tremare ancora un po' e poi aprirsi, mostrando quelle iridi che aveva imparato a vedere ogni mattina, ma che solo dopo anni poteva ritrovare senza l'aiuto dello specchio.
- 'giorno... – mormorò Tom, continuando a sbattere le palpebre per togliere i fastidiosi residui di sonno.
Bill si limitò a sorridere per poi chinarsi a baciarlo.
- Buongiorno... – mormorò a sua volta dopo un breve istante.
Tom si mosse per far stiracchiare i muscoli della schiena, mentre Bill si aggiustava meglio, passando una gamba sopra il fratello per sedersi sulle sue ginocchia.
- Mi hai portato la colazione a letto? – chiese Tom, appoggiando le mani sulla schiena di Bill e accarezzandogliela dolcemente.
- No... – ammise l'altro, facendo una linguaccia.
Tom ghignò.
- Vorrà dire che mi accontenterò...- sussurrò semplicemente, muovendo una mano fino al collo di Bill e tirandolo gentilmente giù.
Il moro fece aderire i loro petti appoggiando le labbra su quelle di Tom, rimanendo piacevolmente sorpreso davanti al fatto che suo fratello gli aveva lasciato il via libera davanti alla conduzione del bacio. Solleticò la lingua del gemello col proprio piercing, felice nel sentire i mugugni di approvazione cui Tom si lasciava andare.
Scivolò in avanti, attaccando le labbra al collo del gemello, mentre sentiva le sue mani accarezzargli la schiena da sotto la maglietta e fermarsi sui fianchi.
- Tomi... – sussurrò mentre alzava leggermente la testa, esponendo il collo, che venne immediatamente attaccato dalle labbra del gemello. Sentì i polpastrelli freschi farsi strada oltre i pantaloni del pigiama e l'elastico dei boxer.
- Tom... – ripeté a voce leggermente più alta, cercando di alzarsi e staccarsi dal gemello, ma questo seguì le sue mosse e si mise seduto sul letto, mantenendo la presa salda che si stava pericolosamente abbassando verso il suo fondoschiena.
- Tom! – cercò di farlo sembrare un rimprovero, ma la sua voce smorzata tradiva il suo stato d'eccitazione, che non sfuggì al biondo, che lo attirò verso di sé facendo scontrare i loro bacini, mentre continuava a torturargli il collo.
- Tom Kaulitz! – esclamò quindi, a dir poco sconvolto, sentendo l'eccitazione del proprio gemello sfiorargli l'inguine.
E, finalmente, il biondo si decise a staccarsi dal collo di Bill, guardandolo negli occhi ancora spalancati dalla sorpresa.
E in quel momento sentirono la porta di sotto sbattere.
- Ragazzi! Ci siete? – la voce di Jörg Kaulitz riecheggiò per la villetta.
Bill e Tom la sentirono tanto forte che ebbero come l’impressione che quella sola voce potesse bastare per far tremare i vetri. E le pareti. Fino alle fondamenta.
- Dio mio… - esalò Bill, spaventato al punto da rimanere paralizzato addosso al gemello.
- Cazzo fottuto! – fu invece la più eloquente e pratica esclamazione di Tom, nel momento in cui afferrò Bill per i fianchi, lo rovesciò sul letto – completamente dimentico di tutta la delicatezza usata per “maneggiarlo” fino a pochi secondi prima – e scattò in piedi, impattando contro il pavimento congelato. – Cazzo, cazzo, cazzo fottuto!!! – rafforzò, quasi ballando sulle punte mentre andava alla ricerca di un paio di pantofole calde nelle quali affondare.
Non trovò niente del genere, perciò si accontentò di posare le piante dei piedi sui calzini che aveva abbandonato per terra la sera prima, mentre con gli occhi vagava su ogni superficie visibile della stanza alla ricerca dei propri vestiti.
In tutto questo, Bill era rimasto immobile sul letto, come tramortito.
- Tom, c’è papà… - disse trasognato, fissando il gemello che si affaccendava cercando di trovare qualcosa con cui coprirsi.
- Sì, questo era ovvio, Bill. Cazzo, io so di aver avuto dei vestiti… Bill, dove ho messo i miei vestiti?!
- C’è papà!!! – ripeté il moro, scattando seduto sul letto e portando le mani alle guance, sconvolto.
Tom smise di armeggiare con le lenzuola cercando di capire se per caso i suoi vestiti fossero scappati sotto il letto per eccessivo pudore, e lo guardò.
- Bill. – lo chiamò seriamente, - Io non ho imparato moltissime cose, nella mia vita. Però so con certezza che quando combini qualcosa che non vuoi i tuoi genitori scoprano, la mossa migliore è cercare di fare in modo che non se ne accorgano. Mi segui?
Bill annuì distrattamente, fissandolo come neanche lo vedesse, il labbro inferiore che tremava lievemente.
- Bene. – annuì Tom, fiducioso. – Quindi, adesso ti dirò esattamente cosa devi fare. Tu ti alzerai in piedi, prenderai i vestiti che hai lasciato qui sulla sedia, li indosserai, poi aiuterai me a trovare i miei vestiti perduti e scenderai di sotto. Saluterai papà, lo prenderai a parolacce perché ci ha mollati in Transilvania da soli come al solito, o qualunque cosa tu sia abituato a fare quando lo rivedi dopo qualche giorno, poi aspetterai che anche io scenda e… mi stai ascoltando?
- Assolutamente no. – rispose Bill, sinceramente, scuotendo il capo.
Tom sospirò rassegnato.
- Lo sospettavo. Senti, Bill, non puoi fare così, non ci ha ancora visti, e se non vogliamo che succeda-
- Ragazzi, siete qua dentro? Non ditemi che dormite ancora!
- Cristo santo!!! – e così dicendo, Tom afferrò il lenzuolo arrotolato ai piedi del letto e lo strattonò fino a srotolarlo tutto e coprire interamente Bill ancora disteso immobile sul materasso.
- Tom! – esclamò Jörg, aprendo la porta della camera e inorridendo di fronte allo spettacolo del proprio figlio maggiore in mutande nel mezzo della stanza, - Non dirmi che hai dormito così! C’è un freddo bestiale!
- Allora lo ammetti che è delirante chiederci di venire qui in pieno inverno!!! – si lamentò Tom, cogliendo appieno l’occasione di distrarre il proprio padre dalla sconvolgente verità per la quale non solo lui era in mutande, ma il suo letto sul soppalco era intonso come se nessuno l’avesse mai toccato mentre quello di Bill sembrava il risultato perfetto di un terremoto molto potente.
- Non dire assurdità. – borbottò l’uomo, infastidito da una simile mancanza di rispetto, - Basta solo comportarsi assennatamente, per non sentire freddo. Prendi Bill, per esempio. – disse, indicando il figlio minore con un cenno del capo, - Fa bene a dormire con la coperta tirata su fino al collo! Così non rischia malanni!
Bill annuì decisamente, mentre Tom lo fissava in cagnesco con l’aria di uno che gliel’avrebbe fatta pagare in seguito.
- Comunque sia… - riprese Jörg, agitando una mano come a voler scacciare via la discussione, - Datevi una mossa, vestitevi e scendete per la colazione. Ho una grande notizia da darvi!
Dopodichè abbandonò la stanza con un sorriso soddisfatto, trotterellando felice lungo il corridoio e giù per le scale. Bill e Tom rimasero immobili, ognuno nella propria posizione, a fissare il vuoto.
Poi, Tom si voltò a guardare il gemello in un gesto innaturalmente lento.
- “Bill fa bene a dormire con la coperta tirata su fino al collo”, eh…? – sibilò spettrale, assottigliando gli occhi per fissarlo malevolo.
- Eh, scusa! – si difese Bill, stringendosi nelle spalle, - Non potevo mica dirgli “oh, no, papà, hai frainteso! Non è che mi copro bene perché c’è freddo, è che sotto sono nudo come un verme e non è bello da vedersi”!
Tom sospirò e si lasciò ricadere seduto sul bordo del materasso.
- Be’. – precisò dopo pochi secondi, - Che non sia bello da vedersi non è del tutto esatto, ma…
- Cretino. – lo interruppe Bill, sbuffando, - Ti pare il momento di fare certi discorsi?
Tom tirò fuori la lingua in una pernacchia infantile ed enormemente offesa, prima di sollevarsi nuovamente in piedi.
- Adesso prepariamoci e scendiamo di sotto. – disse, strappando il lenzuolo dal corpo di Bill ed osservandolo divertito chiudersi a riccio mentre gli urlava qualche offesa a caso dopo aver strillato come una ragazzina isterica, - Avremo tempo per riprendere da dove ci eravamo interrotti in seguito. – concluse con un sorriso sornione, afferrando finalmente una maglietta pulita dall’armadio aperto e cominciando a vestirsi.
*
Non importava se li aveva lasciati in Transilvania da soli fino a quel momento.
Non importava se, poi, s’era presentato ben due giorni prima rispetto a quanto avesse detto, interrompendoli sul più bello mentre erano lì lì per darsi il buongiorno più piacevole che potesse esistere.
- Pensavo che una bella settimana di vacanza alle Maldive potesse farvi piacere!
In quel momento, Jörg Kaulitz era semplicemente l’essere umano più meraviglioso in tutto l’intero universo.
- Dici sul serio?! – quasi urlò Tom, spalancando gli occhi e le braccia e scattando in piedi, rovesciando alle proprie spalle la sedia sulla quale poco prima era seduto.
Bill roteò gli occhi, esasperato.
- Mai conosciuto tipo più confusionario… - borbottò a mezza voce, incrociando le braccia sul petto.
- Non sei contento, Bill? – chiese Jörg, incurvando lievissimamente le sopracciglia verso il basso, in una nota di dispiacere che era decisamente raro vedergli addosso.
Bill gli lanciò una breve occhiata, cercando di non mostrare quando la sua preoccupazione lo facesse felice, e sospirò vagamente, tenendolo sulla corda ancora per un po’.
- Be’, non mi dà particolarmente fastidio. – concesse infine, arricciando capriccioso le labbra, - In fondo, Andreas è di nuovo andato in vacanza lì. È un sacco che non passiamo un po’ di tempo tutti e tre insieme.
Finse di non notare l’occhiata sbilenca e decisamente poco compiaciuta che Tom gli scoccò dal metro che lo separava da lui, e sorrise lievemente. Suo padre gradì e gli allungò una paterna manata sulla spalla, ridendo come un bambino soddisfatto della risposta di mamma ai propri capricci.
Sì, be’. Non era certo strano che Bill avesse avuto un rapporto complicato col proprio genitore. A volte era perfino impossibile capire chi fra i due fosse più – o meno – maturo.
- Bene! Allora preparate i bagagli! – gioì appunto l’uomo, tirandosi in piedi dal divano e avanzando con aria vittoriosa verso la propria stanza al pianterreno.
- Eh? – si azzardò dunque a chiedere Tom mentre, senza staccare gli occhi dal padre, si chinava sul pavimento e cercava a tentoni di pescare la sedia per tirarla nuovamente sui propri piedi. – Perché i bagagli? Quando si parte?
Jörg si voltò appena per lanciargli un’occhiata incredula, inarcando le sopracciglia.
- Ma subito, ovviamente!
- Subito?! – strillarono in coro i gemelli, mentre entrambi scattavano di nuovo in piedi, Tom lasciando perdere la sedia che stava cercando e Bill rovesciando a sua volta la propria.
Jörg scoppiò a ridere, probabilmente divertito dalla loro sincronia – qualcosa alla quale non era più abituato da tempo.
- Be’, non subito-subito… - precisò gioviale, scrollando le spalle mentre allentava il nodo della cravatta, - Appena preparerete le vostre valigie!
- …cioè praticamente subito. – sospirò esausto Bill, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e incurvando pericolosamente la schiena. Dopodichè si diresse alla volta delle scale per salire in camera, raccattare le proprie cose e prepararsi a partire.
- Che reazione fredda! – si lamentò a quel punto Jörg, aggrottando le sopracciglia, - E io che sono tornato di corsa dalla mia riunione per darvi la bella notizia…
- Ma no, papà, siamo contenti… - si affrettò a rassicurarlo Tom, passando un braccio sulle spalle di Bill e dandogli qualche pacca affettuosa, - È che… - stavamo per scopare e sarebbe stato bello che riuscissimo a terminare, prima di ricevere questa “bella notizia”... - …così d’improvviso siamo preoccupati di dimenticare qualcosa!
Suo padre lo fissò come fosse stupido – e probabilmente anche lo pensò.
- Ragazzi, stiamo via una settimana! E non andiamo mica in una favela brasiliana! Andiamo alle Maldive, non so se mi spiego!
Dopodiché, borbottando qualcosa di incomprensibile, si chiuse in camera per preparare i bagagli.
- …preoccupati di dimenticarci qualcosa?! – sbraitò Bill, afferrando il fratello per un orecchio e tirando verso il basso.
- Ahi- Ahi!!! Bill!!! È come poco fa, non potevo mica dire la verità!!!
- Potevi stare zitto. – borbottò il moro lasciandolo andare e incrociando brevemente le braccia sul petto prima di scioglierle e cominciare a salire le scale, seguito a ruota dal fratello.
- Però che palle. – commentò il biondo quando furono in camera, appoggiandosi seccato alla porta, - Contavo che avremmo potuto stare un po’ di più da soli…
- Ma come? – ghignò Bill, aprendo ordinatamente la propria valigia sul letto e dirigendosi poi verso l’armadio, davanti al quale si fermò, soppesando le proprie scelte quanto ad abbigliamento da portare, - Non sei stato tu poco fa a causare quasi un terremoto solo muovendoti, tanto eri felice di partire?
- Be’, le Maldive sono le Maldive… - considerò saggiamente il ragazzo, annuendo, - Ma tu sei tu… - bisbigliò poi suadente, stringendolo da dietro e strofinando la punta del naso contro la pelle sensibile del suo collo.
- …Tom! – protestò irritato Bill, stringendo un paio di magliette fra le mani e cercando di divincolarsi dalla sua stretta.
Il ragazzo sospirò infastidito.
- Ma com’è che oggi, ogni volta che cerco di fare qualcosa di piacevole, cominci a chiamarmi per nome per fermarmi? – sbuffò annoiato, - Sarebbe meglio se usassi il mio nome per scopi più… validi…
- Piantala immediatamente. – sbottò Bill, tirandogli una manata sulla testa, - Hai sentito nostro padre, dobbiamo preparare i bagagli in fretta.
- Daaai… - insistette lui, avvicinandoglisi di più, fino ad aderire perfettamente contro la sua schiena, - Mica parte senza di noi… ci aspetta…
- Non possiamo… Tom!!! – cercò di protestare ancora Bill quando il fratello sbottonò la chiusura dei suoi jeans, intrufolandosi con una mano all’interno dei suoi boxer; ma fu una protesta del tutto vana, un po’ perché le mani di Tom erano già arrivate dove dovevano – e Bill non aveva davvero intenzione di fermarle – e un po’ perché Tom non lo lasciò parlare, attaccando le sue labbra con le proprie e forzandole con la lingua, esplorando lentamente l’interno della sua bocca quasi volesse assaporare la sua intera essenza.
- Mmmh… - mugugnò Bill, fingendo di lamentarsi, rigirandosi nell’abbraccio di suo fratello per fronteggiarlo faccia a faccia, - Ma si può sapere cosa cavolo stai cercando di fare…?
Tom mugolò di piacere, sorridendo lievemente mentre tornava ad impadronirsi del suo sesso già pulsante di eccitazione all’interno dei boxer, e nello stesso momento si strusciava contro di lui, cercando di trovare sollievo per la propria erezione, ugualmente dolorosa e ancora costretta dalla chiusura dei pantaloni – fortunatamente abbastanza larghi da non causare traumi.
- Sto riprendendo da dove avevamo interrotto, come promesso… - rispose semplicemente con un ghigno, tenendo gli occhi fissi nei suoi.
- Sei proprio impossibile… - mormorò il moro, provvedendo a liberare anche Tom da ogni costrizione e sfiorandolo a propria volta prima lentamente, quasi con curiosità, dall’esterno dei boxer, e poi introducendosi all’interno, godendo del calore della sua pelle, delle lievi spinte di Tom contro la sua mano in movimento attorno al suo pene, dei suoi sospiri eccitati che s’infrangevano contro le proprie labbra, ancora brucianti dei baci che s’erano scambiati…
- Sei tu che sei fottutamente sexy… - commentò Tom, stringendolo con più decisione alla base ed aumentando il ritmo dei propri movimenti attorno a lui, col risultato che anche Bill si mosse più celermente, spingendolo pericolosamente vicino all’orgasmo, - Dio, mi fai impazzire… - e si morse le labbra, spingendosi un’ultima volta verso di lui, mentre Bill lasciava scontrarsi i loro bacini ormai scoperti ed entrambi venivano l’uno addosso alla pelle accaldata e sudata dell’altro, ritardando un orgasmo simultaneo solo di qualche secondo.
Rimasero fronte contro fronte a cercare di riprendere fiato, dimentichi del mondo intero e concentrati soltanto sulla persona che avevano di fronte. La persona che amavano e che avrebbero voluto stringere in quel modo per sempre.
- Ragazzi! – strillò poi Jörg, salendo le scale come un bisonte imbizzarrito, - State ancora perdendo tempo?!
E Tom ebbe appena il tempo di strillare a propria volta un ennesimo “cazzo fottuto”, prima di buttare il proprio gemello sul letto, rovesciargli addosso il contenuto della sua valigia per coprirlo e nascondersi vergognosamente sotto le proprie lenzuola sul soppalco.
…a trovare una scusa decente per quello scenario imbecille avrebbe pensato poi.
Scritta in coppia con Ana.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia, Erotico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Lemon, PWP, Slash.
- "- Però... tu sei un essere umano, vero?
- Sì...
- E gli esseri umani amano...
- Bill...
- Quindi anche tu ami.
- Hai ragione.
- Visto?!
- Io amo scopare."

Note (di Ana): Augh a voi, qui è Ana che vi parla.
Un'Ana che si sta trattenendo per non scoppiare a ridere come una scimmia in calore (evitiamo di dire che liz ora direbbe che, effettivamente, negli ultimi giorni lo sembro sul serio *notare che ana oramai si offende pure da sola*).
Comunque, questa storia è un regalo di compleanno per LA LEMMINA CARISSIMA AMORA NOSTRA CUCCIOLA DELLE TUE ZIE CHE TI AMANO TANTO TANTO TANTO!
Ora, parliamo di come nasce la storia.
Questa storia doveva essere mia e basta.
O meglio dire, qualche giorno fa ho scoperto che domani è il compleanno della lemmina.
Un unico pensiero: 'devo fare qualcosa...'
E quindi ho iniziato a farmi pale mentali su che tipo di storia scrivere, finché non mi sono ricordata che qualche giorno prima avevo letto l'intervista di Max a Tom, dove il nostro amato 'chitarrista' (scusate ma le virgolette ci stanno) dice di non credere nell'amore. Leggendo quella risposta ho pensato: Sti cazzi che non ci crede, quei due sotto sotto sono sfigati perché comunque sanno che non potranno mai amare nessuno quanto loro amino l'altro... e quindi la storia base nasce da quest'idea.
Prima volevo farla songfic ma dopo avere rotto le palle a mezzo mondo per farmi aiutare a trovare una canzone adatta, ho deciso di non farlo.
E quindi, lunedì alle 22.30 circa mi ero ritrovata con Meg su MSN a dirle 'Mo inizio la storia altrimenti domani sarà una tragedia'.
Inizio a scrivere e, stranamente, il mio 'plot koala' era tanto bravo, infatti la storia procedeva bene... sono arrivata alla scena del bacio e poi... basta, non riuscivo a continuare, anche perché era mezzanotte passata.
Chiudo word, vado a lavarmi, ritorno e becco liz su MSN.
Gioia e tripudio.
Le passo la storia.
E dopo averla letta fa: 'Mi piace... anche se vorrei aggiungerci cose qua e là'.
E io: 'Fai pure, io volevo farla a quattro mani ma tu avevi problemi con la connessione.'
E DDF CI BENEDICA TUTTI QUANTI.
In meno di novanta minuti ha scritto quattro pagine di zozzerie pure.
Perché lemmina voleva una Nc17.
E noi le abbiamo dato una PWP!
Quindi, rifacciamo TANTI AUGURI alla lemmina (<3) e speriamo che la storia sia piaciuta anche alle altre.
E prima che me lo scordi: un GROSSO ringraziamento va a meg e jen che si sono sorbite tutte le mie pippe mentali sulla storia.
Ed un enorme grazie a caratteri cubitali va alla mia neechan, liz senza di te questa storia sarebbe finita in uno schifo, grazie =**
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Il fratello ha sempre ragione

Entrò in casa, sfilando gli occhiali da sole e il giaccone che l'aveva protetto dall'improvviso freddo di Amburgo.
Passò davanti al soggiorno lanciando un'occhiata a Gustav e Georg, entrambi impegnati con l'ennesimo gioco alla playstation. Non si scomodò a salutarli, preferì di gran lunga salire in camera... aveva appena dato un'intervista per Max... un'intervista che gli aveva dato nuovamente modo di pensare ad una certa cosa.
Fece appena in tempo a togliersi le scarpe da ginnastica che suo fratello era già entrato in camera, andandosi a sedere sul proprio letto, posto di fronte al suo.
- Allora? – chiese Bill curioso, incrociando le gambe sul materasso.
Tom lo guardò, inarcando un sopracciglio, - Allora cosa? –
Il moro incrociò le mani davanti a sé e dondolò da una parte all'altra con aria sempre più curiosa.
- Cosa ti hanno chiesto? - insistette.
Tom sbuffò, - Cosa vuoi che mi abbiano chiesto? Le solite cose... –
- Ti hanno chiesto da dove nasce il nome Tokio Hotel? – domandò Bill ironico.
Il gemello lo guardò, strabuzzando gli occhi, - Certo che no! Oramai lo sanno tutti... –
- Allora non ti hanno chiesto le solite cose. – considerò Bill, annuendo convinto. – Quindi cosa ti hanno chiesto?
Tom sospirò, roteando gli occhi esasperato.
- Non penso t'interessi. – rispose vago, scrollando le spalle.
- Ovvio che m'interessa. – borbottò Bill, aggrottando le sopracciglia. – Come prima cosa, sei mio fratello. E come seconda cosa, quando intervisteranno me saprò già che tipo di domande faranno...
- Bill, Max non t'intervisterebbe mai... – commentò lui, spalancando gli occhi.
- Farò finta di non avere sentito. - disse Bill, puntandogli contro un dito, - E non pensare di fregarmi così, non riuscirai a cambiare argomento.
Tom sbuffò di nuovo e si lasciò cadere sul letto, sdraiandosi su un fianco e sistemando il cuscino sotto la testa.
- Le solite domande che fanno a me. Nove domande sul sesso. – spiegò mentre rialzava la testa per togliersi la fascia e il cappello.
- Che genere di domande? – chiese Bill, sorridendo, felice di avere aperto una breccia nella ritrosia del fratello.
- Tanto non te le faranno. – lo rassicurò Tom, chinandosi verso il comodino per posare fascia e cappello prima di tornare a posarsi sul cuscino.
- E con ciò? – proseguì Bill, del tutto determinato ad andare a fondo in quella faccenda.
- Le leggerai nel numero di Max.
- Ma io voglio saperle da te. – spiegò semplicemente lui, alzandosi e andandosi a sedere sul bordo del letto di Tom.
Tom sbadigliò, portando le mani dietro il collo e incrociandole.
- Le solite domande che mi fanno sempre. Che tipo di donne mi piacciono, con quali donne famose mi piacerebbe passare la notte...
- Le gemelle Olsen. – rispose prontamente Bill.
- Ovvio. – constatò Tom. – E la Jolie.
- Cos'altro?
- Niente, ho raccontato cosa mi eccita e cosa non, la durata delle mie relazioni, che non credo nell'amore...
- Cosa?! – gli occhi di Bill si spalancarono dalla sorpresa, mentre il fratello lo guardava senza capire.
- Ho detto che non credo nell'amore. – ripeté il biondo, un po’ confuso.
- Ma non è possibile!
- Certo che lo è. È come la fede... se non ci credi, non ci credi.
- Tom, tu non puoi non credere nell'amore. – argomentò seriamente Bill, piantando le mani sul materasso e dondolando avanti e indietro, una smorfia delusa e mortalmente carina a increspare le labbra.
Il biondo si alzò a sedere, appoggiandosi alla testata del letto.
- Posso essere libero di credere in ciò che voglio? – chiese, un po’ infastidito e spaventato dalla piega che stava prendendo la discussione.
Parlare di “oggetti d’amore” con Bill… avrebbe potuto essere l’errore più enorme di tutta la sua vita.
- Certo Tom… - mugugnò il ragazzo, - Però... tu sei un essere umano, vero?
- Sì...
- E gli esseri umani amano...
- Bill...
- Quindi anche tu ami.
Tom sospirò ancora, inarcando le sopracciglia e fissando il fratello con ironia.
- Hai ragione.
- Visto?! – esordì Bill, soddisfatto.
- Io amo scopare.
- Tom!! – esclamò Bill scandalizzato, colpendo il gemello alla spalla, mentre Tom scoppiava a ridere osservando l’espressione sul suo volto tornare cupa e adirata nonostante appena un secondo prima fosse il ritratto della gioia. – Sono serio! Io so che tu sei capace di amare, perché dentro il tuo petto batte un cuore, come il mio. E, se io sono capace di amare, anche tu lo sei.
Tom scrollò le spalle, ben deciso a non lasciarsi sconfiggere in quel battibecco.
- Tutti sono capaci di amare le caramelle gommose.
- La pianti di sfottere? – ritorse Bill, assottigliando le palpebre finché il suo sguardo non assunse quella precisa sfumatura di risentimento che lo faceva sembrare pericoloso.
Tom lo guardò attentamente, e non poté impedirsi di sorridere, intenerito dalla sua ostinazione.
Se solo Bill avesse saputo…
- Bill, - concesse alla fine, chiudendo gli occhi per darsi un tono mentre parlava, - se dicessi al mondo intero che so amare e che amo una persona, questa persona probabilmente finirebbe in un grosso pericolo e avrebbe tutti contro.
- Quindi ammetti che c'è una persona! – sbottò Bill, vittorioso.
Tom gli lanciò un sorriso enigmatico, tornando a guardarlo.
- E se anche fosse cosi?
Bill non si lasciò distrarre, e proseguì nel proprio interrogatorio.
- La conosco?
Tom annuì, lasciandosi scivolare di nuovo sul materasso.
- E' simpatica?
- Sì, però sa essere mooooooolto pesante.
- Sa che la ami?
- Dubito, ma penso sappia che le voglio molto bene.
Bill si prese qualche secondo per considerare seriamente la situazione.
- Effettivamente – concluse alla fine, - se starnazzi in giro che non credi nell'amore, è ovvio che poi pensi che tu non sia innamorato...
Tom sbuffò una risatina divertita, sistemandosi meglio sul materasso.
- Veramente questa persona sa che so amare. – confessò a mezza voce, sorridendo sibillino.
Bill guardò il fratello, stralunato. Tom sorrise, mettendosi di nuovo a sedere e fissando il proprio gemello negli occhi. La cosa stava prendendo una piega decisamente pericolosa… ma in qualche modo non gli riusciva di pentirsi di ciò che stava succedendo. Bill sembrava così curioso, così emozionato…
…ed era così dannatamente adorabile, accidenti…
- Bill, posso essere io adesso a farti una domanda? – chiese, avvicinando il proprio viso a quello così simile di Bill e domandandosi se anche il fratello lo vedesse bello come lo stava vedendo lui in quel momento.
Bill deglutì incerto, ma annuì lo stesso.
- Come pensi che possa credere nel grande amore, nella ragazza dei miei sogni... – si interruppe appena, per prendere fiato e trovare le parole giuste, - se so perfettamente che non esiste persona al mondo che io ami o possa amare più di quanto ami te?
Sorrise mentre guardava l'espressione di Bill diventare sempre più incredula. Non avrebbe saputo spiegare neanche lui da dove tirasse fuori la forza per sorridere ancora, nonostante tutto… e oltretutto non si trattava di uno dei suoi soliti ghigni da Sex Gott, era un semplice sorriso... riusciva a sentirlo perfino da sé… era innocente.
Hai appena confessato a tuo fratello d’essere innamorato di lui e riesci comunque a sentirti innocente.
C’era di che essere orgogliosi di sé stessi.
Per la terza volta si sdraiò sul letto, le mani dietro il collo e gli occhi chiusi.
Probabilmente Bill ora si sarebbe incazzato.
Probabilmente Bill lo avrebbe preso a pugni.
Probabilmente Bill non gli avrebbe più rivolto la parola.
Probabilmente Tom aveva rovinato l'unico amore della sua vita.
Probabilmente Tom ora sarebbe stato costretto a mollare il gruppo.
Probabilmente Tom sarebbe rimasto senza un gemello.
Ma poi, successe qualcosa che lo stupì.
Insomma, era chiaro che si aspettasse una reazione da parte di Bill. Anche perché Bill decisamente non era tipo da lasciarsi passare addosso le cose senza sbottare un commento.
O uno schiaffo.
Un cazzotto.
Uno sputo in faccia.
…qualsiasi cosa tranne…
Aprì lentamente gli occhi per verificare che ciò che sentiva stesse succedendo veramente.
E – non avrebbe saputo dire se per disgrazia o per fortuna – ne ebbe la prova.
Una reazione da parte di Bill, in effetti, c'era stata.
Un bacio.
Infantile e un po’ sciocco. A fior di labbra. Una pressione lieve, appena umida.
Bill spalancò gli occhi e si ritrasse, tornando seduto dritto e lasciando ricadere le braccia lungo il grembo. Tom lo seguì nel movimento, sedendoglisi affianco.
- Bill… - cominciò, ma non riuscì a finire.
- Non dire niente… - lo fermò Bill, chinando il capo fino a che i capelli non gli ebbero nascosto quasi del tutto il viso, - È imbarazzante da morire…
- Ehi… aspetta… - cercò di sorridere lui, sollevando un braccio a circondargli le spalle sottili, attirandolo a sé in un gesto lento e tenero, - Non mi andare in paranoia, adesso… è tutto ok…
Bill sollevò le mani all’altezza del viso e si nascose dietro di esse, sospirando pesantemente.
- Ma sto bene! – rispose con forza, l’imbarazzo che trasudava da ogni parola quasi come una sensazione fisica, come piccole goccioline d’acqua che, colando giù dai pensieri di Bill, si posassero delicatamente addosso ai pensieri di Tom, rendendoli più dolci, meno confusi… finalmente condivisi. – Non hai neanche idea da quanto volevo togliermi questo peso enorme…
Tom sorrise apertamente, scuotendolo un po’ e sfiorandogli la tempia con un bacio.
- Devo farti i miei complimenti, fratellino… - disse dolcemente, cercando di scostare le mani dal viso di Bill con gentilezza, - Sei stato molto più coraggioso di me.
Il moro si lasciò liberare senza opporre resistenza, sollevandogli addosso uno sguardo da cucciolo ancora un po’ lucido d’imbarazzo e agitazione.
- Ma se me l’hai detto tu per primo… - commentò con una risatina breve.
- Io non ho detto niente. - sbuffò Tom, - Ho lasciato intendere.
- Eddai!!! - disse Bill, pizzicandogli piano un fianco, - Piantala!
Tom ridacchiò, seguendo il fratello nella risata e stringendolo ancora un po' a sé prima di chinarsi su di lui e posare ancora le labbra sulle sue. Cercò di essere delicato. Dolce.
Cercò di non cedere alla vocina insinuante e insistente che, da quando avevano cominciato quel discorso spinoso, non aveva fatto altro che ripetergli che Bill era bellissimo. Stupendo. Una visione. E che avrebbe desiderato toccarlo e baciarlo con tanto impeto che... a ripensarci si spaventava da solo.
Ma quando sentì Bill mugugnare, oltre la parete delle proprie palpebre pesantemente calate sugli occhi, e quando percepì le sue braccia sollevarsi e cingerlo al collo, mentre le sue gambe si ritiravano sul materasso per permettergli di inginocchiarsi sul letto accanto a lui, e quando anche le sue labbra si schiusero, abbattendo ogni barriera ancora esistente fra la possibilità di fare e la concreta certezza del suo corpo accanto al proprio, allora no, non si trattenne più. Lasciò che la lingua di Bill s'insinuasse nella sua bocca, esplorando attentamente ogni centimetro della propria e rispondendo ai suoi tocchi brevi ed eccitati con carezze lunghe, lente, affamate, come non riuscisse a costringersi a lasciarlo andare, neanche per riprendere fiato.
Bill si avvicinò ancora, e fu allora che Tom sentì la sua eccitazione premere contro il proprio fianco, e dischiuse gli occhi, separandosi da lui. Entrambi ansimavano. Entrambi erano talmente imbarazzati che quasi non avevano il coraggio di guardarsi... e ciononostante non riuscivano a staccarsi gli occhi di dosso. Neanche per un secondo.
- Non dobbiamo farlo per forza... - disse a mezza voce, mentre nella sua testa esplodeva un coro di "Dio, fa che non annuisca!". E sorrise, invece, nell'osservare Bill guardarlo con stupore e poi arrossire violentemente, mentre il suo sguardo fuggiva a cercare conforto nella meno imbarazzante visione del copriletto sotto di loro.
- Ma io voglio... - disse il moro, mordicchiandosi nervosamente le labbra. Poi sorrise, tornando a guardarlo, più serenamente. - Sai, Tomi... Io durante le interviste non ho mai mentito.
- ...che intendi? - chiese il rasta, scostandosi appena per poterlo guardare meglio.
Bill sorrise ancora, arricciando appena il naso.
- Quando ho detto che per farlo avrei aspettato la persona giusta... era a te che mi riferivo. Stavo aspettando te.
...semplicemente avrebbe dovuto aspettarselo. Aveva sempre saputo che lui e Bill non erano poi così diversi come al mondo intero piaceva credere, quando li guardavano in foto e si divertivano a commentare che non si sarebbe mai detto fossero davvero gemelli.
Lui e Bill erano un'unica cosa. La stessa dannatissima entità.
Era normale provassero anche esattamente lo stesso dannatissimo sentimento l'uno per l'altro.
Si chinò a baciarlo ancora, costringendolo senza troppi sforzi a distendersi sul materasso, sotto di lui, e ascoltando compiaciuto i brevi gemiti che si lasciò sfuggire nel momento in cui le sue mani si insinuarono sotto la maglietta, raggiungendo i capezzoli dopo aver vagato un po' lungo il ventre e il petto, per saggiare la consistenza della pelle e della carne sotto le mani. Affondò il viso sul suo collo, quasi scavando nella scollatura della maglietta per cercare di raggiungere le clavicole, e grugnendo insoddisfatto quando si rese conto che non ci sarebbe mai riuscito.
Bill ridacchiò lievemente.
- La rovini, così... - disse a bassa voce, scostandosi da lui quel tanto che bastava per afferrare la maglietta dall'orlo inferiore e sfilarla dalla testa, rimanendo a petto nudo sotto il fratello.
Tom lo guardò a lungo, come volesse sincerarsi che fosse reale, tangibile sotto di lui. Lo guardò come un idiota, fino a quando non si rese conto che il modo migliore per verificare la compattezza di quel corpo sotto di sé fosse toccarlo, stringerlo, scivolargli addosso con le labbra e con la lingua, per tastarne il sapore e marchiarsi nella mente perfino l'odore. L'odore, così come tutti i piccoli gemiti che Bill si lasciava sfuggire, e che risuonavano come melodie nelle orecchie di Tom.
- Quando riuscirò a mettere in musica il vero suono della tua voce... - ansimò il biondo, incapace di staccargli le labbra di dosso, - avremo la canzone perfetta.
Bill ridacchiò, un po' imbarazzato, nascondendo il viso nell'incavo della sua spalla e attaccandosi con decisione all'orlo della sua maglietta, tirando verso l'alto per toglierla anche a lui. Tom si lasciò spogliare, separandosi da lui solo per il breve istante che servì alla scollatura della sua maglia di passare oltre il mento, prima che Bill la lanciasse distrattamente sul pavimento a fianco del letto.
- Tomi... - lo chiamò quindi il più piccolo, sollevandosi per abbracciarlo ed affondare col viso sul suo petto, come volesse nascondersi, - Tomi, voglio sentirti di più...
Ed ogni singolo neurone ancora funzionante nella mente di Tom, semplicemente smise ogni attività. Non esplose, non prese a roteare vorticosamente, non scappò dalle orecchie. Si spense. E basta.
Gli si chinò addosso, armeggiando con la cintura dei suoi pantaloni e prendendosi il tempo necessario per sfibbiarla e sfilarla, prima di sbottonare i propri jeans ed avvicinarsi nuovamente a lui, sistemandosi fra le gambe che, nel frattempo, Bill aveva schiuso, appositamente per accoglierlo.
- Dio mio... - non poté risparmiarsi di dire, guardandolo in viso e scostandogli una ciocca di capelli da una guancia arrossata, - Sei stupendo...
Lo baciò ancora, sfilando i boxer aderenti e liberandosi dei propri con ansia crescente.
- L'ultima cosa che vorrei adesso è farti male... - confessò quasi dolorosamente, affondando il viso sulla sua spalla e baciandola con dolcezza.
Bill non rispose. Si limitò a guardarlo con un breve sorriso comprensivo, prima di prendergli una mano e portarla lentamente vicino alle labbra. Mentre Tom ancora si chiedeva cosa avesse intenzione, di certo non aiutato dalla situazione del proprio cervello, ancora drammaticamente fuori uso, Bill baciò lievemente la punta delle sue dita, prima di socchiudere gli occhi e lasciarne scivolare due fra le labbra, avvolgendole con la lingua, inumidendole con la propria saliva e dando i brividi a Tom. Avendo cominciato a suonare la chitarra a sette anni - per non smettere mai più - le sue dita potevano non essere la parte più sensibile del proprio corpo, ma... Dio. La sensazione di Bill attorno a loro, sulla pelle sensibile fra le dita, la lingua gentile e premurosa anche quando scivolava sui calli, era magnifica.
Quando Bill lo lasciò andare, tornando a guardarlo con negli occhi ancora quel misto di imbarazzo ed eccitazione che, fin dall'inizio, l'aveva fatto impazzire, non poté che fissarlo ammirato.
- Magari, se prima cominci con queste... - disse, indicando con un cenno del capo le dita ancora umide di saliva, - poi sarà più facile... - si interruppe un attimo, deglutendo rumorosamente, - ...il resto...
Tom annuì, scivolandogli addosso con le dita, lasciandosi dietro una scia bagnata che fece rabbrividire Bill sotto di lui, prima di raggiungere la sua apertura e soffermarsi un po' all'esterno. Per poi forzarla lentamente, senza fretta, aiutato dalla lubrificazione che Bill era stato in grado di fornire con la bocca poco prima.
Il moro strinse le palpebre e digrignò i denti, lasciandosi sfuggire un gemito di fastidio, più che di vero dolore.
- Pensavo... peggio... - commentò con una risatina, mentre cercava di abituarsi a quella presenza estranea all'interno del proprio corpo.
Intenerito, Tom lo baciò di nuovo, strusciandoglisi addosso nel tentativo di lenire il fastidio facendo scontrare i loro bacini, mentre le loro erezioni si sfioravano fra i loro corpi.
Ma, per quanto piacevole, quello non era abbastanza. Non era abbastanza per sé stesso, che ora che sentiva la calda morbidezza di Bill attorno alle dita non faceva che desiderare di più, e non era abbastanza neanche per Bill, lo sapeva, perché Bill voleva sentirlo. Perciò, sfilò lentamente le dita da dentro di lui, e lo guardò brevemente in viso - i lineamenti un po' contratti per lo sforzo e l'agitazione, gli occhi ancora serrati, quasi con paura... lasciò un bacio su ogni palpebra, scendendo poi lungo il naso per soffermarsi sulle labbra - prima di sistemarsi fra le sue natiche e affondargli dentro in un gesto deciso e sicuro, quasi immediato.
Bill spalancò gli occhi, mordendosi un labbro e tendendogli le braccia. Lui gli si chinò addosso, offrendogli il collo come appigglio e tirandolo su fino a permettergli di nascondere il viso sul suo collo, fra le ciocche di capelli che, libere da costrizioni, scivolavano lungo le spalle e la schiena, mentre continuava a spingerglisi dentro con attenzione, cercando di non forzarlo mentre si abituava.
- Tom... - lo chiamò debolmente Bill, schiudendo le labbra e richiudendole con forza sul suo lobo, mordicchiandolo nervosamente, come volesse scaricare su di lui la tensione derivata da dolore ed eccitazione, e che non riusciva a scaricare in altro modo. Tom lo strinse forte con un braccio, attirandoselo addosso e insinuando una mano nel minuscolo spazio fra i loro corpi, per raggiungere la sua eccitazione pulsante e avvolgerla fra le dita, accarezzandola dal basso verso l'alto mentre sentiva i mugolii di Bill farsi meno spezzati e più, semplicemente, concitati e affamati. Continuò a spingerglisi contro, cercando di adattare i movimenti del proprio bacino con quelli della mano, godendo del fiato di Bill che gli si infrangeva sulla pelle, caldo e profumato di zucchero; e chiuse gli occhi, e non vide più nulla, sentì solo il suo profumo e il suo sapore mentre, dopo un ultimo gemito affannato, Bill veniva contro la sua mano e, pochi secondi dopo, veniva a propria volta colto dall'orgasmo e si liberava dentro di lui.
Stanchi e sconvolti, rimasero stretti l'uno all'altro per un tempo indefinibile tendente all'infinito. Accoccolati sul letto come un'unica cosa, cercando di recuperare il fiato e il ritmo ottimale per respirare senza soffocarsi, continuarono a stringersi ed accarezzarsi a vicenda fino a quando non si sentirono in grado di ridacchiare e ricominciare a parlare.
- Hai visto...? - chiese Bill, scostandosi da lui per guardarlo negli occhi a riavviargli una ciocca dietro un orecchio, - Avevo ragione io.
- ...mh? - mugugnò Tom, ancora confuso e in preda ad un cervello che, più che impigrito dalla lunga sonnolenza, sembrava bene intenzionato a non riprendersi più.
Bill sorrise, sporgendosi in avanti per baciarlo lievemente sulle labbra.
- Lo vedi che anche tu sai amare?
Genere: Introspettivo, Romantico, Comico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Language, Lemon, Slash, OC.
- Le tanto agognate vacanze natalizie sono arrivate, e per i Tokio Hotel è arrivato il momento per un po' di sano e meritato riposo. Ma le cose non potranno andare molto facilmente, se si pensa che già anche solo scegliere la destinazione sarà un problema non indifferente...
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNENDLICHKEIT
Prologo
- The Warmth Carries Us -

Ogni volta che si fissavano negli occhi era una sfida aperta. A reggere lo sguardo l’uno dell’altro, a far valere le proprie ragioni rispetto a quelle appena esposte, o semplicemente a cercare di stabilire che fosse più capace a rimanere immobile senza scoppiare a ridere. C’era sempre qualcosa, nei loro scambi di sguardi, che li rendeva avvincenti come un romanzo. E lasciava qualunque spettatore a fissarli ammaliato come stesse seguendo con interesse la trama e non volesse perdere neanche un particolare per arrivare prima del narratore alla soluzione finale.
Bill e Tom si stavano fissando, in quel momento.
La luce delle loro pupille si incontrava e si infrangeva nello spazio fra i loro visi. Georg e Gustav osservavano attentamente. Conoscevano i gemelli da abbastanza tempo per non stupirsi più di quell’intensità, ma erano comunque troppo preoccupati dal pensiero che l’aria in mezzo a loro sembrava sul punto di incendiarsi, per azzardarsi a esprimere un parere in merito.
- Tropici!
- Montagna!
E quello era il succo della discussione.
- Voglio andare ai tropici!
- Non esiste! Si va in montagna!
- Ma Toooooooooooom! – sbraitò Bill, colpendo il tavolo e facendo echeggiare per la stanza il rumore sordo, provocato dagli anelli pesanti venuti a contatto con il legno duro. – Mi sono ripreso da poco! Ho avuto la tracheite! Devo riposarmi al caldo.
Tom sbuffò.
- La tracheite ti è passata quasi due mesi fa. La montagna ti farà bene, così almeno ti fai un po' di corazza, sei peggio di una femminuccia, ti ammali con un niente! – sentenziò incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo schienale.
- Ma siamo in vacanza! – insistette Bill, cocciuto, - Le vacanze esistono per andare a cercare il caldo anche dove non c’è! Se andiamo in montagna tutto questo non avrà più senso!
Tom si limitò a sbuffare chiudendo gli occhi in un’evidente affermazione di superiorità.
Bill lo fissò, basito dal suo comportamento.
- Geooooooooooorg, aiutami tu! – piagnucolò poi, girandosi verso il bassista, che non ci mise più di due secondi a reagire, alzando le mani e sentenziando:
- Tenetemi fuori dai vostri bisticci, a me basta che ci sia un letto comodo per dormire!
Un ghigno apparve sul viso di Tom mentre osservava il fratello provare a convincere l'ultimo componente rimasto della band.
- Gustaaaaaaaaaaaaaav, almeno tu sei dalla mia parte, vero? – chiese con un'espressione da cucciolo bastonato. Ma nemmeno col batterista ebbe fortuna.
- Bill, lo sai che non sono amante delle spiagge... – motivò infatti il ragazzo.
- Ma diamine! – Bill colpì il tavolo, di nuovo – Voglio prendermi un po' di sole, eccheccazzo!
- Bill, - il moro guardò il fratello che l'aveva chiamato con un tono al limite della sopportazione, - per quel poco di pelle che mostri in giro, puoi prendere la tintarella anche in montagna, e poi con il riflesso sulla neve...
- Tom, dacci un taglio. – si limitò a protestare Bill, fissandolo in cagnesco.
Ricominciarono a guardarsi astiosi, entrambi con le braccia incrociate sul petto e i piedi ben piantati sul pavimento, come mastini pronti a prendersi a morsi.
- Allora? – chiese di nuovo il biondo, dopo qualche minuto di silenziosa sfida.
- Allora cosa? – chiese a sua volta Bill, ben deciso a trascinare quella questione fino all’ultima parola, per non mostrare di essere, in fondo, terribilmente succube dei capricci del fratello maggiore.
Tom si limitò ad alzare le sopracciglia mostrando un'espressione interrogativa.
Bill sospirò e abbassò le spalle.
Poteva tirarla quanto voleva, ma alla fine il risultato sarebbe stato lo stesso.
- Vada per la montagna. – accettò con disappunto, - Ma non pensate che ve la farò passare liscia, traditori fedifraghi che non siete altro!
In coppia con l'armata delle fangirl nella sua interezza è_é
Genere: Comico, Demenziale, Parodia.
Pairing: BrianxMatt, BillxTom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: CrackFic, Language, Slash, RPS.
- Matthew e Brian scendono di casa una mattina, convinti di poter andare a fare una romantica gita in macchina in giro per l'Italia, e invece si ritrovano i gemelli Kaulitz beatamente addormentati sul sedile posteriore. I piani dei due sono rovinati, e fra paesini strani, animali vari ed eventuali, lo zampino del dio del fangirling e tanta umanità varia ed eventuale, se c'è una cosa che non mancherà in questa storia sarà la Demenzialità. Sì, quella con la D maiuscola.
Note: Inserirò un commento quando la storia sarà conclusa ù_ù
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Road Trip
Quando liz se ne esce con idee per scene assurde, Ana dovrebbe fermarla invece di darle corda aggiungendo altre scene altrettanto assurde ogni 10 secondi
…e se poi ci si mette pure la Nai, la cosa degenera oltre ogni limite. Apriti, cielo!


Before you begin… Credetemi, voi avete bisogno di essere avvertiti. Perché voi non volete davvero leggere questo concentrato di demenza gratuita, questo pout-pourri di sconfinata e illimitata idiozia, voi non volete davvero leggere robe che, per quanto sono stupide, somigliano a un anomalo caso di chara bashing innamorato. Voi non volete davvero imbarcarvi in una storia a capitoli così stupida e infinita da non avere un capo né una coda, da non capirci più niente. Non volete davvero, e a dire la verità non volevo neanche io ._. Ma siccome so che, come è successo a me, finirete per finirci invischiati comunque :D precisiamo un paio di cose.
Bill Kaulitz e suo fratello Tom, così come Brian Molko e Matthew Bellamy, non mi appartengono, per quanto la cosa possa essere disgustosamente ingiusta. Io non li conosco, mi limito a venerarli da lontano, e con quello che scrivo non intendo offenderli ma dichiarare loro il mio amore imperituro, per quanto tutto ciò possa sembrare allucinante °_°
Questi quattro, per quanto scriteriati possano sembrare, non fanno NULLA di ciò che narro. Avanti, quello che racconto io è troppo folle anche per loro, credetemi.
E comunque non mi appartengono, si appartengono da soli. Ma la proprietà morale e affettiva è nostra, fangirl <3 Facciamoci sentire! èoé
Ciò detto, io non ho responsabilità. La colpa di questa fanfiction è di Ana. Totalmente. E del dio del fangirling, che deve smetterla di approvarmi, o finirò male.
…sono già finita male, mh?
Buona lettura ç_ç”
(Per inciso, i manager non sono il male ç_ç!!! Sono tutti amabili, io li adoro ._. Alex, Dave, Tom, scusatemi se vi faccio fare sempre parti malefiche çoç Siete dei tatini ç.ç!!!)


PRIMA PARTE
LA PARTENZA
Dove veniamo a conoscenza della cruda verità per la quale i manager sono il male, e dei piani di vacanza estiva di Matthew Bellamy, prontamente mandati all’aria da una gita romantica nell’arcipelago di ew-che-schifo-non-voglio-nemmeno-pensarci.


- Okay… Brian? Mi spiegheresti un’altra volta com’è che ci siamo trovati in questa situazione? – chiese Matthew con aria abbattuta prendendo l’autostrada e accelerando moderatamente per non passare i limiti consentiti dalla legge e, allo stesso tempo, non farsi urlare “lumaca idiota!” dall’orda inferocita di automobilisti italiani in partenza per il weekend.
Brian sorrise gioioso e lanciò un’occhiata tenera ai gemelli Kaulitz addormentati l’uno contro l’altro sul sedile posteriore.
- Oh, Matty… - rispose zuccherino, agitando una mano, - il come è del tutto irrilevante!
- Scusami se dissento! – si agitò Matt, strizzando il volante fra le mani e saltellando sul proprio sedile come se pungesse.
- Non fare così, dai! – lo blandì Brian, accarezzandolo lievemente su una spalla, - Sveglierai i bambini! Avanti, se ti fa piacere ti racconto tutto da capo…
Matthew annuì decisamente, più volte, sterzando a destra per evitare di essere travolto da un camionista in chiaro momento da “devo-essere-dall’altro-lato-del-mondo-in-un’ora-toglietevi-dalle-palle!”.
Brian sospirò e incrociò le braccia sul petto, preparandosi a dire La Frase.
- È stata colpa di Alex… - accennò appena, e questo bastò a Matt perché decidesse di prendere la parola e continuare lui.
- Certo! È sempre colpa di quel diavolo malefico della tua manager! Ora, dico, io non sono nessuno per impedirle di mollare il mio manager che la venerava come una dea!, per mettersi con un tipo uscito dal nulla che si chiama come un formaggio sloveno neanche tanto buono e che guardacaso fa il baby-sitter per una band di adolescenti tedeschi… ma se il rischio dev’essere ritrovarmeli in macchina il giorno in cui ti ho promesso di portarti in giro per l’Italia, addormentati, puliti e profumati come bimbi, affiancati solo da un bigliettino che dice “prendetevi cura di loro fino a quando non saremo tornati, sono bravi!”, allora non ci sto, caro Brian! Alex deve darsi una calmata!
Il frontman dei Placebo sorrise bonariamente, scostando dalla fronte del proprio uomo la frangetta che, nei movimenti concitati che avevano condito lo sproloquio, era ricaduta quasi davanti agli occhi.
- Bravissimo, Matty. Sapevo che non avresti lasciato che mi consumassi la voce. Ma devo dire che nel tuo racconto ci sono delle piccolissime imprecisioni che sarebbe il caso di correggere…
- Sarebbe a dire?!
- Sarebbe a dire che Alex ha lasciato Tom perché Tom ha smesso di essere carino con lei, non perché è un’arpia vampira assetata di sangue e l’ha prosciugato e ora ha deciso che è inutile. Secondo poi, se puoi ricordarti che il cognome di David è uguale al nome di un formaggio, allora puoi anche ricordarti come si chiama per intero. E smetterla di dire che fa il baby-sitter, suvvia, è un manager…!
- Questi fatti sono assolutamente irrilevanti!
- Ecco, vedi? È esattamente quello che ti ho detto io, il come è irrilevante
- Non è il come ad essere irrilevante, sono i dettagli stupidi come le bagattelle amorose fra i nostri due manager e il vero nome di Jost!
- Oh, insomma! – si accigliò Brian, battendo nervosamente un dito sull’interno gomito, - La vuoi piantare di fare tutto questo casino? I bambini si sveglieranno davvero!
I bambini sono due giganti spaventosamente somiglianti ad adolescenti incazzate col mondo!
- …perché diamine il femminile…?
- Perché sono palesemente due donne!
Brian inarcò un sopracciglio.
- Posso capirlo se parli di quello truccato… - disse, indicando Bill con un cenno del capo, - Ma sulla sessualità dell’altro non penso dovrebbero esserci dubbi…
- Hanno entrambi dei lineamenti da donna, quindi sono donne.
- E tu ti vesti da donna, quindi sei donna, e io ho le gambe e un’acconciatura da donna e quindi sono donna anche io?
- Vuoi smetterla di fare precisazioni totalmente inutili?
Brian sbuffò annoiato e cercò di sprofondare nel proprio sedile, gettando uno sguardo distratto alla campagna che scorreva loro accanto.
- …Comunque, - riprese Matt, dopo essersi calmato e aver deciso che no, non era il caso di svoltare per Altopascio, - da dove hai detto che vengono questi Tokio Cosi…?
Tokio Hotel. – precisò Brian con una punta di fastidio, - E sono tedeschi.
- …vedi che sono pazzi?! Sia Alex che quell’altro uomo malefico di Jost! Prendere i suoi protetti e trasferirli dalla Germania a Milano solo per toglierseli di mezzo per poter passare un weekend di passione da qualche parte nell’arcipelago di ew-che-schifo-non-voglio-nemmeno-pensarci!
- In fondo è come se avessero chiesto un favore a degli amici, Matt… - cercò di ammorbidirlo Brian, parlando dolcemente.
- Quando vuoi chiedere un favore a degli amici non lasci il favore sul sedile posteriore della loro auto! E comunque com’è che avevano le chiavi?! Penso che dovrei avere paura! Immagina se- - cominciò, ma non riuscì a finire. Un mugugno lamentoso si sollevò dal retro della macchina, dapprima cupo e basso, poi sempre più acuto, fino ad estinguersi in un soddisfatto mh, e il nuovo giorno – malgrado fossero già le tre del pomeriggio, ma si sa, a quell’ora per i Kaulitz è ancora notte – vide la luce degli occhi castani e perfettamente truccati – nonostante la notte passata – di Bill Kaulitz.
- Che diamine…? – borbottò il ragazzo, ancora stordito dal sonno, guardandosi intorno con gli occhi offuscati. – Tomi…?
- Ungh… - mugugnò il biondo, sollevando appena il capo dalla spalla del fratello, - Noooh, oggi voglio la colazione a letto…
Bill completò la complessa operazione di spalancare gli occhioni proprio nel momento in cui Brian fece capolino dal sedile anteriore, sorridendo felice e radioso per dargli il buongiorno.
- Ciaaao! – cantilenò il leader dei Placebo, agitando una manina smaltata di nero, - Dormito bene?
Il moretto lo fissò.
Lo fissò a lungo.
E poi cominciò a strattonare i capelli del fratello, perché si svegliasse.
- Okay, okay, ho capito, Bill! – si lamentò Tom, svegliandosi a sua volta, mettendosi dritto e agitando le braccia per liberarsi del fratello, - Che cavolo hai?
- Tom. Quello. È… è lui?
- Lui. – articolò confuso,- Lui? Perché, dove siamo?! – strillò Tom, guardandosi intorno e rendendosi conto di non trovarsi nell’albergo nel quale s’era addormentato la notte prima, - Che ci facciamo in macchina?! Chi diav- … Molko…?
- Allora è lui!!! – strillò Bill, arpionando il fratello per un braccio e cominciando a strizzarlo furiosamente, - È lui è lui è lui!!!
Brian rise di cuore, godendo dello sconvolgimento emotivo che aveva provocato nel ragazzo, e si strinse nelle spalle con fare modesto.
- Sì, sono io. E tu devi essere Bill…
- Oddiomio!!! Oddiomio, Tom, mi conosce!!!
Tom continuò a guardare Brian come non riuscisse a credere che fosse vero.
- Sì, ho anche visto un vostro video… tu eri seduto e avevi una macchina da scrivere sulle ginocchia e l’ombretto più ca-ri-no che avessi mai visto! E comunque, chi è il tuo hair-stylist?
- Ossignore! Tom!!! Brian Molko si sta complimentando con me per il mio ombretto e per la mia pettinatura!!! Lo senti?!
- Lo sento, lo sento! – urlò Tom, riprendendosi dallo stato catatonico per risistemarsi il cappellino sulla testa, - Mi sembra incredibile e non capisco ancora che ci facciamo qui, ma mi sembra perfettamente legittimo che cominciate a scambiarvi consigli sul vostro make-up! Figuratevi! – disse, con una punta d’ironia derisoria nella voce. Ironia che Bill non colse, perché si gettò su di lui, urlacchiando come una ragazzina e blaterando “oh, ti adoro quando sei così comprensivo nei miei riguardi!”.
Brian rise di gusto, socchiudendo gli occhi.
- Siete qui perché i nostri manager avevano bisogno di passare un po’ di tempo da soli, e vi hanno affidati a noi. – spiegò pacatamente, - Spero che non vi dispiaccia…
- Dispiacerci?! – gioì Bill, giungendo le mani sotto il mento, - È una cosa fantastica! È una cosa meravigliosa! È tipo il sogno della mia vita che diventa realtà! È… “noi” chi?
Un grugnito adirato si sollevò dal sedile del guidatore, rivelando ai gemelli la presenza di Matt.
- Se conoscete Brian… - disse il frontman dei Muse, trattenendo il fastidio nella voce, e gonfiandosi orgoglioso come un palloncino, - dovete conoscere anche me…
Sia Bill che Tom si sporsero fino a poterlo guardare, e lo fissarono attenti per molti secondi.
Poi tornarono entrambi ai loro posti, e Bill scrollò le spalle.
- È il tuo parrucchiere? – chiese, indicando Matt e riprendendo a guardare Brian, - Sei sicuro di volerti affidare a uno con un taglio simile?
Brian sentì Matt sgonfiarsi facendo esattamente lo stesso rumore di un palloncino, e rise allegramente.
- No che non è il mio parrucchiere, Bill, tesoro, dico, guarda i miei capelli!
- Ehi! – sussultò Matt, ricominciando ad agitarsi, - Non si dice “non è il mio parrucchiere, guarda i miei capelli”!!! Si dice “non è il mio parrucchiere, è il mio uomo e lo amo da impazzire”!!!
- Tom!!! Mi ha chiamato “tesoro”!!! Oddio, è bellissimo! Muoio!!!
- Sì, Bill, sì…
- Amore, non arrabbiarti… dai, dai, “non sei il mio parrucchiere, sei il mio uomo e ti amo da impazzire”…
Elimina quelle virgolette, bastardo!!!
- Oddio, usa le virgolette nella voce!!! Tomi!!! Tomiiii!!!
- Sì, Bill, sì…
- Coooomunque… - la voce di Brian interruppe melodiosa il delirio, mentre una delle sue mani ancora si agitava sulla testa di Matt, accarezzandolo come volesse calmarlo, - Quanti anni avete? – chiese ai ragazzi, gli occhi bene aperti brillanti d’interesse.
- Diciassette! – risposero in coro Bill e Tom, mentre Tom mimava un dieci con le mani e Bill mimava il rimanente sette.
- Aaaawh! – mugolò Brian, - Siete così piccini e carini!!!
- Piccini e carini un corno! – interloquì Matt, fissando con astio un automobilista accanto a lui, evidentemente in vena di botte, - Tu sei piccino e carino! Come fai a dare del piccino e carino a un duo di stangoni di questo tipo?! E per inciso, quello truccato sembra un tuo clone ipervitaminizzato!
- Matt! – sbottò Brian, inorridendo della sua maleducazione, - Ti sembra modo di parlare davanti ai bambini?! Concentrati sulla strada e taci!
Matthew mormorò un’astiosa protesta incomprensibile e mandò a quel paese l’automobilista sfidante, strillando “se hai tanta fretta, passa! E che tu possa incontrare code chilometriche, qualsiasi sia l’uscita alla quale ti stai dirigendo!”.
- Dicevamo… - disse Brian, riportando lo sguardo sui gemelli e scuotendo il capo di fronte alla palese italianizzazione del proprio uomo, - E quand’è che fareste il compleanno?
- Presto! – risposero i ragazzi all’unisono.
- Ossignore, il mio cuore cede! – cinguettò Brian, quasi saltellando sul posto dalla gioia, - Li senti, Matty? Rispondono in perfetta sincronia!
- Sì, sì, certo, è magnifico…
- Ne voglio due uguali!
- Diventa donna e ti giuro che cercherò di darti due gemelli…
- Non mi interessa restare incinto! Sei tu quello che ha i pensieri deviati in questo senso!
- Eh, ma scusa! – sbottò Matthew, trattenendo l’impulso di sfilare un mocassino e lanciarlo in testa a un automobilista palesemente ubriaco davanti a lui (e non perché capisse quanto scorretto fosse lanciare mocassini fuori dal finestrino, ma solo perché i suddetti mocassini Dior avevano appena una settimana di vita e non gli sembrava il caso di mandarli a fare i kamikaze contro una stupida Fiat Panda dell’era paleozoica) – Non pretenderai, chessò, che te li compri!
Lo sguardo innamorato e cuccioloso che Brian gli rimandò indietro fu abbastanza per fargli capire che , decisamente avrebbe gradito che glieli si comprasse.
Lanciò un’occhiata dubbiosa ai gemelli dietro e catturò lo sguardo innocente e gioioso di Bill.
- Voi non siete in vendita, vero? – chiese, sollevando appena un sopracciglio.
- Dobbiamo parlarne con Dave! – pigolarono in coro i ragazzi, inclinando appena il capo e socchiudendo gli occhi per accompagnare un angelico sorriso.
- Oh, che meraviglia!!! – gioì Brian, ricominciando a saltellare sul sedile, - Ci pensi, Matty?! Sarebbe come adottarli!
- …con la differenza che in realtà non avremmo fatto altro che firmare un contratto a vita per possedere le loro anime, le loro menti e i loro corpi. – sentenziò cupamente Matthew, lanciando l’ennesima occhiataccia all’ennesimo automobilista maleducato in cerca di guai.
Sei paia d’occhi gli si fissarono addosso, spaventate.
Brian deglutì.
- Hai un modo orribile di uccidere la poesia della vita! – disse lamentoso, - Tesorini, voi non badategli. Che poi crescete male, andando in giro dicendo che credete negli alieni e che per cantare avete bisogno di tre banane. Non è bello.
I due annuirono simultaneamente, ritrovando il sorriso, e Brian si lasciò andare a tutta un’altra serie di versetti innamorati che Matt non tardò a definire urtanti.
- Ma quanto tempo avete impiegato per imparare a muovervi così in perfetta sincronia? – chiese, col tono di chi è intenzionato a smontare una bella cosa con un inutile sovraccarico di crudele sarcasmo.
- Nove mesi… - cominciò Tom, annuendo deciso.
- …nella pancia di nostra mamma! – concluse Bill, sollevando due dita in segno di vittoria.
Per poco Matt non andò a schiantarsi contro un tipo totalmente pazzo che aveva pensato bene di frenare bruscamente nel mezzo della strada – come lui stesso aveva appena fatto d’altronde.
- Voi due siete gemelli?! – strillò, lanciando loro l’ennesima occhiata sconvolta dallo specchietto retrovisore.
I ragazzi annuirono insieme, mentre Brian lo fissava stupito e commentava “Ma era ovvio, amore, non te n’eri accorto? Hanno lo stesso naso!”.
- Stesso naso un paio di palle, Brian! – sbraitò l’inglese, agitando teatralmente un pugno per aria, - Cioè, sinceramente, a parte questo fantomatico naso, cos’è che vedi di uguale in quelle due facce? Quello truccato è così truccato che per poco non gli si vedono gli occhi…
- Ma i ragazzi non nascono truccati, amore…
- E poi ha i capelli neri!!!
- Le tinte esistono per questo motivo, come entrambi ben sappiamo…
- Per non parlare dei vestiti!
- Amore, nasciamo tutti nudi, eh…
- Ma non importa! – sbottò Matthew, battendo le mani sul volante, - Io continuo a non capire questa situazione! E non capisco che ci facciamo qui! E non capisco per quale motivo i miei piani di passare una bella giornata romantica al mare con te siano saltati, e io sia stato costretto a rendere realtà la menzogna che ti avevo propinato per convincerti a partire-
- Non volevi davvero portarmi in giro per l’Italia in macchina?
Ovvio che no, Brian, io non conosco l’Italia, e non capisco perché questi incompetenti degli italiani continuino ad ostinarsi a guidare a destra quando il resto del mondo civile – il fatto che fosse solo l’Inghilterra non lo toccava minimamente – ha ormai accettato la guida a sinistra come fonte del bene mondiale, ma COMUNQUE tutto questo è secondario, io odio che i miei piani vengano cambiati, e odio dovermi occupare di gente che non conosco, e odioquando mi si ruba del tempo per stare da solo con te, e odio-
- Matt. – lo chiamò Brian, glaciale. Matthew si fermò e lo guardò, un brivido di paura lungo la schiena, - Se continui a blaterare, - sorrise angelico il frontman dei Placebo, stringendosi appena nelle spalle, - odierai anche il mio pugno che si scaraventerà contro la tua faccia senza la benché minima pietà. Ci sei?
Matthew tremò ancora un paio di volte, poi annuì e lanciò un’altra serie di improperi a un paio di automobilisti random, per far capire a Brian che sì, era tutto a posto e lui era ritornato in character.
I gemelli osservarono tutta la scenetta con infantile interesse, e alla sua conclusione si lanciarono un breve sguardo di comprensione e sollevarono entrambi un sopracciglio, in segno di silenzioso ma divertito sconcerto.
Matthew colse il cenno nello specchietto retrovisore e mugugnò.
- In effetti vi somigliate. – confessò, scrollando le spalle, mentre Brian annuiva con decisione.
- E chi è il più grande fra voi due? – chiese Brian, al colmo della curiosità, probabilmente prendendo appunti invisibili per poi costringere una qualche fabbrica sperduta da qualche parte nel meraviglioso mondo della sua mente a crearne due copie identiche per il proprio esclusivo divertimento.
- Io! – disse Tom gioioso, mentre Bill lo indicava, ugualmente gioioso, - Sono più grande di dieci minuti! – proseguì, gonfiandosi orgoglioso come un galletto.
- Oh! E ti prendi cura del tuo fratellino adorato? – continuò Brian, gli occhi ormai ridotti a due pozzi di fangirling.
- Sìsì! – annuirono insieme i gemelli, allargando le braccina e stringendosi amorevolmente a vicenda.
- Awh! E Bill, tesoruccio, tu come ti trovi nei panni di fratello minore? – continuò imperterrito Brian, totalmente dimentico dell’uomo irritato al suo fianco, che peraltro continuava a divertirsi a suo modo minacciando di morte poveri automobilisti in vacanza.
Bill per tutta risposta si lasciò andare ad un risolino dolcissimo, accoccolandosi come una piccola palla di pelo nero riflessato biondo contro la spalla del fratellone.
- Tomi è dolce e tanto tanto paziente! E io lo amo tantissimo!
- Ommamma! – sospirò Brian, brillando estasiato, - Matty, non sono la cosa più canon che tu abbia mai visto?
- Canon?!
I gemelli sorrisero compiaciuti, strizzandosi a vicenda.
- Ce lo dicono spesso anche Gusti, Georg e Dave, anche se non sappiamo cosa significa, ma probabilmente è un complimento! – gongolò Bill, strusciandosi contro la spalla del fratello, mentre quest’ultimo continuava ad annuire convinto.
Brian si lasciò andare a un piccolo applauso d’approvazione, e poi fece per tornare a sedersi composto al proprio posto, ma non ebbe neanche il tempo di girarsi che nel piccolo spazio fra i loro sedili e quello posteriore si diffuse un suono inquietante molto – troppo – simile a un ritornello dei Cradle Of Filth.
Matthew rischiò per l’ennesima volta di causare un disastro di proporzioni enormi, frenando bruscamente.
- Quello era un growl!!! – strillò sconvolto, lanciando occhiate terrorizzate ai gemelli, - Era palesemente un growl!!! Dov’è Dani Filth?! Dovedovedove?! Oddio! Brian! Dovremo disinfettare la macchina! Non voglio che la tappezzeria rimanga impregnata dei rutti di quell’uomo!!!
- …Matt. Calmati. – disse Brian atono, fissandolo come fosse pazzo, - Credo che i bambini abbiano fame.
- …ah. – commentò brillantemente Matthew, mentre i gemelli cominciavano a ballare come bimbi dell’asilo, canticchiando “fame, fame!” sulle note di “ma che bel castello marcondirondirondello”.
- Dovremo trovare qualcosa da dargli… - mormorò Brian, accarezzandosi pensieroso il mento. Poi il suo sguardo si illuminò e sul suo volto si aprì un sorriso vittorioso. – Cos’è che abbiamo trovato in macchina accanto ai bimbi addormentati e al biglietto di Alex e David…?
Matthew rifletté qualche secondo.
- Una specie di valigia?
- Non una specie, Matthew! Una valigia vera e propria! E sopra c’era scritto “da aprire in caso di emergenza”! Sarà sicuramente del cibo!
- Toh. – commentò acido Matthew, - E io che avevo pensato fosse il cambio di pannolino e i vestitini puliti per quando si fossero fatti la pipì addosso…
- Noi non ci facciamo la pipì addosso!!! – si ribellarono i Kaulitz, afferrando i capelli di Matt uno da un lato e uno dall’altro e prendendo a tirare come indemoniati, costringendo il cantante a tutta una serie di sterzate ad alta velocità che gli fecero guadagnare più d’un epiteto ingiurioso dalla fauna automobilistica che lo circondava.
- Suvvia, bambini, state calmi… Matthew, appena trovi un’area di sosta, fermati. È evidente che così non possiamo continuare.
- È evidente sì! – strillò Matt, massaggiando la cute dolorante, - Per questo, appena scesi, li legheremo al guard rail, li lasceremo lì, faremo inversione e torneremo a casa!
- No, Matt, amore, non è questo il piano… - disse dolcemente Brian, socchiudendo gli occhi, e, dal momento che Matthew aveva ripreso ad urlare come un ossesso, ricoprendolo di “non hai capito un accidenti di niente della vita intera, Brian!!!”, lo accarezzò lievemente sul collo e proseguì: - Avanti, vedrai: quando i pancini saranno pieni, i bimbi torneranno tranquilli.
Matthew lo guardò di sbieco, scivolando proprio malgrado contro la sua mano in un gesto morbido e stanco.
- Se non la finisci con questo atteggiamento da mammina… - minacciò lamentoso, - Giuro che ti compro un grembiule con una chioccia disegnata davanti. E poi ti ci imbavaglio.
Dopodichè, ignorando il risolino divertito di Brian e gli infantili gorgheggi dei gemelli, Matt individuò un’area di sosta e accostò, tagliando la strada a un pover’uomo che non chiedeva altro che proseguire diritto come aveva fatto fino a quel momento, e che, seppure incolpevole, ricevette una buona dose di insulti per la sua incompetenza evidente da parte del frontman dei Muse.
Quando la macchina fu ferma, al sicuro nell’area di sosta, col freno a mano ben piantato, solo allora Matthew osò spalancare lo sportello e scaraventarsi fuori dall’abitacolo, come fosse alla ricerca d’aria. Si guardò intorno – i campi coltivati di fronte a lui, brulle colline alle sue spalle, automobilisti indemoniati e disordinati ovunque – ascoltò Brian dire ai bambi- ai gemelli “Mi raccomando, rimanete qua buoni buoni, che noi fra poco torniamo” e desiderò realmente fuggire. Subito. Senza ripensarci.
Notò un autogrill poco distante da dove si trovavano, e pensò di fare una passeggiata a piedi fino a lì per prendere un caffé, magari qualche muffin, una bottiglietta d’acqua e poi mettersi a fare l’autostop – sebbene sulle autostrade italiane fosse inspiegabilmente vietato – per farsi portare al primo aeroporto utile e fuggire, chessò, alle Bahamas… ma il suo piano purtroppo non poté realizzarsi, perché Brian colse il brillio demoniaco e vigliacco nei suoi occhi e lo arpionò per il colletto della maglietta.
Tu vieni con me ad aprire la valigia, Matt. – disse glaciale e inamovibile il frontman dei Placebo, trascinando il proprio uomo disperato e mugolante lungo la strada, come un enorme sacco d’immondizia, - Non posso mica rischiare di rovinarmi lo smalto, se per caso non si apre dicendo “apriti sesamo”.
- Okay. – sbuffò infine Matthew, aprendo il portabagagli e recuperando il borsone che avevano trovato accanto ai ragazzi, - Apriamo questa roba.
La roba, all’interno, era divisa in tre scomparti. Uno, più grande, conteneva delle adorabili tazze da latte a forma di muso di mucca, due cucchiai pezzati bianchi e neri, evidentemente in coordinato con le tazze, due cartoni di latte e un’enorme, mastodontica confezione di corn flakes. “Per quando si svegliano”, recitava la calligrafia spigolosa di Jost, da un foglietto a quadretti tutto spiegazzato.
- Non sono Special K! – si lamentò Brian, sbuffando sonoramente e guadagnando in cambio un’occhiata di disapprovazione da parte di Matt.
Quando la delusione di Brian fu passata, i due si guardarono, ghignando compiaciuti.
Avevano trovato il modo per fermare il growl!
- E qua che altro c’è…? – chiese curioso Brian, adocchiando uno scomparto di media grandezza e forma circolare, all’interno della valigia.
Matthew recuperò il foglietto che usciva da sotto la scatola rotonda riposta nello scomparto, e lesse.
- “Se proprio non riuscite a farli stare zitti”, dice. – recitò atono, rivoltando il foglietto fra le mani, - E nient’altro.
Brian scrollò le spalle a aprì con noncuranza la scatola.
Era ricolma di caramelle gommose.
Entrambi gli uomini rimasero lì a guardare i dolcetti multicolore e multiforma per molti secondi, e infine si limitarono ad annuire comprensivi.
- Questa sarà la chiave della buona riuscita di tutto il viaggio! – gioì Brian, pieno d’entusiasmo. – L’ultimo biglietto dice…?
Matthew lo prese fra le mani e lesse.
- “Da usare solo se davvero non riescono neanche a tenere gli occhi aperti. A vostro rischio e pericolo”… sarà mica una bomba…?
Brian sollevò la tovaglietta che copriva il terzo comparto, rivelando quattro lattine blu e argentate.
- Peggio. – deglutì, - Red Bull.
- Una bevanda energetica?! – strepitò Matthew, inorridendo al punto da fare un passo indietro e rischiare d’essere investito da un bontempone che pensava fosse divertente fare il pelo alle macchine in sosta passando loro accanto a centottanta chilometri orari, - Quei due hanno bisogno di tutto, tranne che di una bevanda energetica!!!
- Mi sa che per una volta hai ragione. – annuì Brian, ricoprendo le lattine, - Ed è per questo che noi non gliele daremo. Mai e poi mai. Adesso prendiamo questa roba e portiamola in macchina, probabilmente fare colazione li calmerà.
Matthew roteò gli occhi, esasperato.
- Brian, amore, per quanto la visione che hai nella tua testa sia spaventosamente simile a quella di due poppanti di sei mesi, quei due giganti non hanno sei mesi! La colazione non li rintontirà al punto da costringerli a dormire, fornirà loro solo più energia, così potranno saltare sui nostri corpi esanimi e ridurci a brandelli!
- Matt-
- E tu sarai pestato dagli stivali coi tacchi di Bill!!!
- MATTHEW, CRISTO! – strillò Brian, afferrandolo per la maglietta e scaraventandolo contro la carrozzeria della macchina, - Adesso datti una calmata! Sono solo bambini! Sono innocenti! Cosa diavolo pensi possano fare?! Sono due angeli! Fino ad ora non ti hanno fatto niente, a parte quando hai dato loro dei piscialletto, eppure tu sei stato scorbutico e isterico dal primo momento!!! Adesso basta!!! Ora torniamo lì dentro, prepariamo loro la colazione e tu ti scuserai per essere stato il mostro che sei stato! D’accordo?!
Brian si interruppe, ansante, stringendo ancora il colletto della maglia di Matt fra le dita.
Lui lo guardò, terrorizzato dal suo sguardo iniettato di sangue, e lentamente posò la mano sulla sua.
- Bri… tesoro… non volevo irritarti tanto… - mormorò dolcemente, cercando di rabbonirlo, - Solo che pensavo di stare un po’ da solo con te ed è andato tutto a farsi benedire… ma hai ragione, hai ragione su tutto, poveri cari, mi sono comportato male con loro… adesso torno dentro e mi scuso, promesso… - gli lanciò una breve occhiata, osservando compiaciuto la furia ormai sparita dalle belle iridi grigioverdi, - Okay?
Brian sorrise, sospirando pesantemente e abbandonandosi contro di lui con tenerezza.
- Sapevo che bastava farti ragionare! – pigolò il leader dei Placebo, mentre Matthew gioiva silenziosamente del pericolo scampato.
- Bene! Mettiamo in pratica i buoni propositi. – asserì l’inglese, voltandosi verso il proprio sportello ancora spalancato, per raggiungerlo e rientrare in macchina, - Ragazzi, volevo dirvi… - cominciò, ma si interruppe quando si rese conto che nessun rumore proveniva dall’abitacolo, il che era assurdo, perché da quel poco che aveva visto gli era sembrato di capire in maniera del tutto inequivocabile che le parole “silenzio” e “Kaulitz” non potessero trovarsi nella stessa frase senza costituire un ossimoro.
- Ragazzi…? – cinguettò Brian, facendo capolino all’interno della macchina, per verificare che fosse tutto a posto, - Oddio, dove sono…?
- …LO SAPEVO!!! – tuonò Matthew, resistendo a stento all’impulso di afferrare la macchina con entrambe le mani, farla roteare sopra la testa e lanciarla lontano (più per evidente impossibilità di compiere l’azione che per altro) – Lo sapevo io, che non c’era da fidarsi! Te l’avevo pure detto! Ma tu no! Tu non capisci! “Sono due angeli”, dici tu!!! Due angeli un piffero, Brian!!! Chissà dove sono finiti adesso?!
Brian uscì dalla macchina e cominciò a guardarsi intorno, apprensivo.
- Oh, ma io li lascio qui! – continuò Matthew, sistemandosi più comodamente sul proprio sedile e rimettendo la cintura di sicurezza, - Eccome se li lascio qui! Che chiamino il loro baby-sitter, se vogliono farsi venire a salvare! Io mi sono rotto! – e così dicendo girò la chiave e mise in moto. – Brian? – chiamò, ma Brian non rispose.
Ma appena Matthew fece per sporgersi dal lato del passeggero, per capire cosa stesse facendo là fuori, immobile come uno stecco in assenza di vento, venne investito da un’enorme quantità di luce brillantissima e dall’immagine del proprio uomo in posa adorante – il viso proteso in avanti, le mani giunte sotto il mento, le gambe unite e dritte, tese come volessero aiutarlo a sporgersi il più possibile verso la scena che stava guardando – che fissava qualcosa che lui non riusciva a vedere.
- Oh, Signore Benedetto… - mormorò, liberandosi nuovamente dalla cintura e riscendendo dalla macchina, - Brian, cosa diavolo…? – ma anche lui non riuscì a continuare. Anche lui, non poté che fermarsi e, semplicemente, restare ad osservare.
Evidentemente, i gemelli Kaulitz erano silenziosamente scivolati fuori dalla macchina mentre loro erano intenti a rovistare fra i bagagli. Evidentemente, aiutati da quei trampoli che avevano al posto delle gambe, erano riusciti a scavalcare sia il guard rail che il muretto che separava la strada dal terreno montuoso. E lì s’erano seduti, in mezzo all’erba e ai fiori di campo, e avevano preso a coccolarsi come leoncini, con fusa e piccoli ruggiti compiaciuti annessi, totalmente dimentichi di tutto il resto.
- Ossignore!!! E adesso chi la paga a quel diavolo di Jost la tassa sul twincest?! Hai idea di quanto sia alta?!
- Maaaaaaatt!!! – strillò Brian, saltellando sul posto, - Ma guardaliiiiiiii!!!
- Disastro! – si lamentò Matthew, portando entrambe le mani ai lati del viso, - Ora chi li smuove più?!
- Ma non voglio smuoverli affatto! – trillò Brian felice, sistemando tutto il necessaire per la colazione in bilico sotto un braccio e organizzandosi per raggiungere i gemelli sul prato.
- Brian! Non ci riuscirai mai! Sei troppo basso per scavalcare il muretto!!!
Ma Brian neanche lo sentiva più. Aiutato da chissà che forza divina – probabilmente dal dio del fangirling, che aveva pensato che unire un Brian Molko alla già tenerissima scena dei gemelli Kaulitz non avrebbe potuto che giovare – era riuscito a raggiungere il prato e ora saltellava come uno stambecco in direzione dei ragazzi, agitando in aria cereali e latte in una pessima e decisamente inquietante imitazione di un’Heidi trentacinquenne maschio, abbigliato con un paio di terrificanti jeans ricoperti di toppe multicolori e una maglietta bianca sulla quale trionfava la scritta “I Love New York”.
- Brian… cosa diavolo stai facendo?! – urlò dalla strada, cercando di riportare la situazione in carreggiata, in tutti i sensi.
- Ooooh, Matty! Smettila di fare il guastafeste! – si lamentò Brian, invece di rispondere, poggiando il necessario per la colazione per terra e prendendo a intrecciare margherite per farne ghirlande con le quali addobbare i gemelli, - In fondo non abbiamo nessuno che ci insegue! Abbiamo tempo! Ah, e… c’è un plaid a scacchi sul sedile posteriore, vieni qui e portalo con te!


OMAKE
Uno stupendo talk-show condotto dalle autrici, con esclusivi collegamenti via satellite in giro per il mondo!
Redatto in stile copione teatrale perché alla liz sinceramente seccava stare lì a scrivere le cose seriamente.


Liz: Buonasera! Siamo qui riuniti per-
Ana: No, neechan, non c’entra… questa è la formula del matrimonio… il matrimonio è più avanti… non spoilerare i lettori…
Nai: Tanto è scema, dico, che ti aspetti…?
Liz: Adesso!!! Non cominciamo. Buonasera cari lettori! Vi presento l’omake! Un omake per il quale fino a dieci minuti fa non avevo il benché minimo straccio di idea, ma fortunatamente poi la mia neechan e la Lemmina mi hanno dato una mano via MSN e adesso so esattamente cosa fare!
Nai: Adesso ho paura.
Ana: No, ma è una bella idea, aspetta che la spieghi…
Liz: È un’idea geniale! Non a caso non è stata mia!
Nai: Tutto si spiega…
Liz: La finisci o no?
Nai: *solleva le braccia e poi si passa due dita sulla bocca come a chiudersela con la cerniera*
Liz: Comunque! Quello che faremo in questo talk-show, da oggi in poi, sarà addentrarci nei meandri misteriosi e scabrosi di questa fantastica storia che siamo sicure avrete amato dal profondo del vostro cuoricino fangirlante…
Ana&Nai: Ma anche no.
Liz: Dico, quando la piantate di sabotarmi è sempre tardi! Bando alle ciance, ecco il primo scoop: uno dei grandi misteri della serie è-
Nai: Quale assurda malattia impedisca a Matthew di capire con uno sguardo che Bill e Tom sono gemelli?
Liz: No. E non parlarne di fronte ad Ana, che lei ne è affetta!
Ana: Allora il mistero potrebbe essere cos’è che spinge i gemelli a comportarsi da decerebrati per i tre quarti della fic – mentre per il restante quarto dormono?
Liz: A parte che questo si scoprirà nel prossimo capitolo, il perché tutti nelle mie fic si comportino da decerebrati per principio è un mistero che non verrà mai svelato. Per esigenze di copione. MA COMUNQUE!!! La vogliamo smettere di dire vaccate?! Sono già dieci pagine, i lettori poi si stufano!!!
Ana&Nai: Ma chi ti vuole?! Fai tutto tu! Prima chiedi e poi ti arrabbi, ma sei normale?!
Liz: Maledizione a me e a quando ho deciso di scrivere questa fanfiction in comunità. Dicevo, uno dei grandi misteri della serie sarà cercare di capire dove diavolo siano finiti Alex e David, scappati in fuga d’amore, e perché l’abbiano fatto. A questo proposito, siamo collegati in diretta con questo luogo misterioso, dove Alex e Dave…
*sullo schermo scorrono immagini idilliche dei due manager che corrono lungo la spiaggia con sottofondo musicale di Asereje*
Liz: REGIA!!! Che c’entra Asereje?! *indica lo schermo* Stanno amoreggiando, serve una canzone italiana degli anni ’60 o peggio!
*la Lemmina dalla regia fa segno di vittoria e mette su Maledetta Primavera di Loretta Goggi, gentilmente suggerita dalla neechan*
Liz: Adesso ci siamo! Alex, Dave, ci sentite?
Alex&Dave: Forte e chiaro!
Liz: Bene! Cosa ci dite di bello?
Alex: *con sguardo sognante* Aaaawh, qua è tutto così meraviglioso! Spiagge chilometriche, sole, hawaiani sexy che ci sventagliano per non farci sudare…
Ana: Quindi siete alle Hawaii!
David: Ovviamente no. Però hawaiani rendeva bene, vero amore?
Alex: Vero amore!
Nai: Bleah!
Alex&Dave: …come sarebbe a dire bleah?
Nai: Io disapprovo! L’ho detto anche alla liz, quando progettava di scrivere questa vac- ehm, questa storia! Alex, è ingiusto che tu abbia lasciato Tom per scappare con- con- con- con un formaggio!!!
Alex&Liz: NON È UN FORMAGGIO!!!
Lemmina (dalla regia): E comunque è un gran bel pezzo di formaggio!
Nai: È comunque scappata con lui!
Alex: *tirando fuori un fazzoletto da talk-show strappalacrime* Ho lasciato Tom perché lui non mi amava più!
Nai: Non ci crederò mai!!! L’ho visto l’altroieri, era un uomo completamente disfatto e-
Liz: Nai, vuoi smetterla di spoilerare i lettori?! Di questo si parlerà nel prossimo omake!
Ana: Ma spiegatemi una cosa… io posso capire che tu, Alex, abbia lasciato Tom, ma dico, sei una donna adulta… fuggire così… senza spiegare niente a nessuno… mollando i gemelli a un paio di genitori snaturati che palesemente non hanno la più pallida idea di come prendersene cura… mi meraviglio di te! E mi meraviglio anche di te, neechan! Perché questa predica la fai fare proprio a me?!
Liz: *scrolla le spalle* Non parlavi da un po’…
Alex: Parli così perché non sai! *morde fazzoletto* Se anche tu avessi avuto Matthew a girarti intorno come un’ape imbizzarrita ripetendo come un pazzo “devi tornare con Tom, devi tornare con Tom, devi tornare con Tom”, anche tu avresti avuto voglia di fuggire in un luogo sperduto e ignoto agli occhi del mondo!
Liz: Aha! Abbiamo scoperto il motivo per il quale i due sono scappati!
Nai: Già. Come al solito Matt ha fatto una vaccata random della quale pagheremo tutti le conseguenze per SECOLI, visti i mille seguiti che volete scrivere di quest’oscenità!
Ana&Liz: Non parlarne come se non c’entrassi niente!
*la Lemmina fa cenno di tagliare dalla regia perché è mezzanotte e quindici e le autrici hanno di meglio a cui pensare che non continuare a dire idiozie a ripetizione*
Liz: La Lemmina ha ragione! È stato un piacere, signore care…
David: Un attimo, dovremmo parlare degli estremi per il pagamento della tassa twincest che-
Liz: ECCO, È PROPRIO ORA DI CHIUDERE!!! Al prossimo capitolo, con nuove, esaltanti rivelazioni!
Nai&Ana: Esaltanti? Avremo mica visto uno show diverso?
Liz: Tacete adesso! Lemmina, sigla!
Lemmina (dalla regia): Tarattattatattà tarattattattà! *copincollata direttamente dalla finestra MSN*

FINE PRIMA PUNTATA
(sul serio)



Dall’autrice… Ed eccoci qui alla fine del primo capitolo :’D Facciamo un po’ di making of, che non fa mai male (anche perché sennò poi rischio di dimenticarlo, e non sarebbe bene X’D). Allora, questa storia, so che morite dalla voglia di saperlo, è nata totalmente per caso, mentre guardavo una buffa gallery su Virgilio, e venivo inondata da decine di immagini lol provenienti da tutta Italia, raffiguranti cartelli stradali idioti et similia XD
Comunque, dopo aver visto tutta ‘sta serie di idiozie, la prima cosa che ho pensato, ovviamente, è stata “Voglio scrivere una fanfiction in cui Brian e Matthew portano i gemelli in giro per l’Italia” X’D Al che mi sono rivolta ad Ana, sperando che, tipo, mi fermasse. Ma lei, essendo il mio seme, non poteva che fomentarmi di più, e perciò invece di fermarmi ha risposto “Posso dare una mano? *_*”, e da lì praticamente la fic è diventata sua X’DDDD Nel senso che io ho dato l’idea e abbozzato la trama, e lei s’è messa a sputare fuori una tale quantità di scenette lol con cui riempire le pagine che, come avrete intuito, da oneshot che era nata la storia è diventata una longfic X’D Una lol-longfic <3
Poi, chiaramente, è degenerata grazie anche al mio cervello e a quello di Nai, c’è da dire X’D Si sono aggiunti dei motivi, s’è perfezionata la trama, sono nate pure le mascotte della storia <3 (che vedrete più avanti XD), si sono aggiunte ALTRE scenette lol e altre persone alle quali devo tanto (la Lemmina, Vale e Bea <3), e alla fine di tutto ciò Road Trip è diventata un’epopea divisa in tanti di quei seguiti e controseguiti che vi confonderete prima di arrivare alla fine di tutto, credetemi X’D Per la gioia vostra e mia <3
(PS: Ci tengo a specificare che scrivo in prima persona perché sono il comandante in capo – altresì detto Führer – dell’armata delle fangirl… ma siamo veramente tante teste dietro questa storia X’D Quindi amateci tutte <3)

Genere: Comico, Demenziale, Parodia.
Pairing: BillxTom, MattxBrian, principalmente, ma ci pieghiamo alle esigenze del lol quando serve XD
Rating: R
AVVISI: Boy's Love, CrackFic, RPS.
- Una raccolta contenente una serie di oneshot demenziali ispirate alle fiabe tradizionali (o della Disney X'D) rivisitate in chiave demenziali con protegonisti Muse, Placebo e Tokio Hotel.
Note: Inserirò un commento quando avrò concluso la storia è_é
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Fairytales Gone Bad
1. CAPPUCCETTO BILL
Storia di una bella bimba (?), di suo fratello e delle loro disavventure nella Foresta del Lupo Cattivo

Before you begin… Questa storia è STUPIDA. Ma proprio stra-stupida come non ne vedete da tanto tanto tempo su questi lidi XD In compenso (dicono) è divertente è_é Voi godetevela e fatemi sapere ù_ù
Comunque né i gemelli né Brian né Matthew mi appartengono, ovviamente XD Niente lucro. Solo tanta idiozia XD Veniteci a patti è_é!
Ah, e Brian e Matthew non hanno alcun legame con Tom e Bill °_° Per carità, non sono legati neanche tra di loro!!! Ma le fic AU demenziali permettono questo ed altro, perciò viva le fic AU demenziali *_*!!!

*

C'era una volta una bambina molto carina che viveva un in bel paese con la sua mamma.
Solo che questa bambina si chiamava Bill.
E in realtà era un bambino. Eggià.
E non viveva solo con la sua mamma, ma anche col suo fratellino gemello, Tom, uguale a lui in tutto e per tutto a eccezione del fatto che Tom, be’, al contrario del fratello Tom sembrava maschio. Infatti, che la piccola Bill fosse in realtà un piccolo Bill, era un segreto; anche perché al piccolo Bill piaceva vestirsi da donna, e quindi sarebbe stato faticoso per mamma e Tom spiegare la situazione, se si fosse scoperto che era un maschio.
Comunque.
Un giorno, la mamma dalla cucina chiamò il piccolo Bill, e il piccolo Bill uscì dalla propria cameretta, scese le scale e la raggiunse.
- Che c’è mamma? – chiese, sorridendo allegramente.
- Piccolo Bill! La tua nonna s’è molto ammalata. – disse la mamma con aria grave, - E perciò ho bisogno che tu vada a trovarla a casa e le porti questi biscotti. – concluse, porgendogli un adorabile cestino di canapa intrecciata ricolmo di ogni ben di Dio.
Il piccolo Bill lo guardò come avesse contenuto scarafaggi e poi, arricciando il naso, afferrò una copertina spuntata dal nulla e se l’arrotolò addosso, crollando sul divano poco distante e accendendo la tv con aria distratta.
- Mammaaaah, - disse, con tono lamentoso, - non mi vaaaah!
La mamma, che ben conosceva il suo pargolo, non si arrese di fronte alla sua ritrosia, e si preparò a sfoderare la sua arma più potente: Tom.
- Ma dai, Bill, amore! – cinguettò allegra, afferrando Tom per il colletto della maglietta (mentre lui non si accorgeva di nulla e continuava a suonare la chitarra – o almeno a provarci – come stava facendo prima che sua madre lo prelevasse), - Ti accompagnerà Tomi!
La reazione di Bill non fu immediata, ma la mamma sapeva di non aver sbagliato i propri calcoli. E infatti gli occhi del suo figliolo cominciarono presto a sbrilluccicare come stelline.
“Uuuuh”, pensò Bill, “se prendiamo la strada del bosco saremo soli… potrò stare da solo con Tomi… potrebbe essere un’ottima occasione per farci le coccole!!!”.
Simone osservò il proprio figlio emanare luce come un piccolo sole, afferrare il fratello per la collottola e trascinarlo gioiosamente fuori casa, dopo aver indossato l’immancabile mantellina rossa che gli aveva regalato tempo prima e grazie alla quale tutti la conoscevano come Cappuccetto Bill, e poi ritornò tranquilla alle faccende domestiche.

*

Una volta che furono nel bosco, i ragazzi presero a dilettarsi con le loro attività preferite: mentre Tom riprendeva a fare del male alla propria chitarra, cercando di suonarla, Bill cominciò a vagolare in giro per la selva, ammaliato dai colori dei fiori e dai mille cinguettii diversi degli uccellini che lo circondavano.
- Tooooomiiiii!!! – chiamò entusiasta, roteando su sé stesso come una principessa Disney, - Guardati intorno!!! Non è bellissimo?!
- Mh-hm. – disse Tom, senza neanche sollevare lo sguardo dalle corde, facendo una smorfia crudele a un accordo nato sbagliato.
Bill gonfiò le guanciotte e aggrottò le sopracciglia.
Detestava essere ignorato! Avrebbe solo desiderato che suo fratello gli regalasse un fiorellino! Che lo guardasse, gli sorridesse, gli porgesse una margherita, sfilasse il cappellino, sciogliendo i rasta al vento come un modello in riva al mare e gli dicesse “Bill, sei il ragazzo più bello dell’universo! I miei occhi vorrebbero essere pieni solo ed esclusivamente della tua immagine! Ti voglio bene!”.
Ma no, Tom era troppo impegnato ad amoreggiare quella sua stupida chitarra, per accorgersi di lui! Cosa diavolo aveva quella chitarra in più di lui, in fondo? Era anche stupida! Aveva bisogno di essere suonata, per produrre quel rumore! Mentre Bill era perfettamente in grado di produrre rumore anche senza essere toccato!
Di quella immensa tristezza si accorse un lupo che passava di lì per caso, avvolto in una camicetta molto fashion, con un paio di jeans attillati anch’essi molto fashion, due graziose orecchiette lupose in cima alla testa e una lunga e morbida coda altrettanto luposa ad uscire con naturalezza da un buco sul sedere.
- Ciao, bella bambina! – disse il lupo, avvicinandosi a Bill e fissandolo con occhi bramosi, - Cosa c’è che non va?
Bill sollevò un paio di enormi occhioni castani truccati all’inverosimile, fissandoli in quelli grandi e grigi e altrettanto truccati del lupo.
- Non sono una bambina! – piagnucolò deluso, - Tutti mi scambiano per femmina solo perché sono carino e gracilino e ho i capelli lunghi e i lineamenti delicati e mi trucco e mi vesto da donna! Ma in realtà io sono maschio!
Il lupo lo guardò da capo a piedi, annuendo comprensivo.
- Be’, per me non fa nessuna differenza. – concluse deciso, - Io mi chiamo Brian, e tu?
- Io mi chiamo Bill! – rispose lui, sorridendo felice perché qualcuno lo stava prendendo in considerazione.
- E come mai piangevi? – si informò il lupo, premuroso.
- In realtà non piangevo, ero solo triste, ma evidentemente l’autrice pensava fosse più carino che tu mi chiedessi questo… comunque!!! È colpa di mio fratello Tom! Lui mi ignora! Continua a suonare la sua stupidissima chitarra e non perde neanche un secondo per dimostrare che tiene a me!
Brian lanciò uno sguardo a Tom, che continuava a tentare di suonare senza molto successo, sbagliando gli accordi e saltando le note, e pensò “oh, come lo capisco! Continua a provarci, povero caro, anche se il mondo è contro di te vedrai che un giorno anche tu strimpellerai bene come il sottoscritto!”.
- Signor Lupo! – strillò Bill, sentendosi nuovamente ignorato, e Brian tornò a dedicargli tutta la propria attenzione.
- Oh, povera bamb- ehm, povero bambino! – disse, giungendo le mani sotto al mento, - Che vita triste, la tua! Ecco, tieni un fiorellino! – e così dicendo gli porse una margherita.
- Yay! – gridacchio Bill, commosso, sistemando il fiorellino fra i capelli, - Grazie!
- E adesso che ne dici di divertirci un po’? – propose Brian, malizioso, avvicinandoglisi con fare ammiccante, da bravo lupo famelico.
Bill, però, non era uno sprovveduto! Era ben cosciente degli effetti che la sua persona poteva avere sui lupi famelici come Brian, e perciò si tirò indietro.
- Ti pare che io sia una sciacquetta qualsiasi?! – disse contrariato, - Io ho una dignità! Io non mi svendo così! Io non-
- Vuoi andare a farlo in un posto più comodo, vero?
- Esatto! – concluse Bill, battendosi un pugno sul palmo della mano come se quella fosse l’espressione che aveva sempre cercato durante tutta la propria vita.
- Allora perché non andiamo a casa da tua nonna? – propose Brian, sospirando di sollievo, - Ci liberiamo della vecchia e avremo il lettone tutto per noi!
- Yeeeh! – disse Bill, e poi entrambi, festanti, cominciarono a correre allegramente verso la dimora dell’ignara nonnina, mano nella mano, saltellando gioiosi con gli uccellini che continuavano a cinguettare felici sulle loro teste.
Nel frattempo, Tom aveva smesso di giocare con la sua chitarra e s’era guardato intorno, notando con estremo disappunto che sua sor- ehm, suo fratello era scomparso.
- Bill, tesorino, dove sei? – chiamò, - Vieni fuori, dai, che mamma mi ammazza se- ehm, che mi dispiacerebbe moltissimo se tu dovessi perderti!!!
Ma nonostante i suoi ripetuti richiami, dal folto del bosco non venne nessuna risposta!
Preoccupato, cominciò a vagare per la foresta, fino a quando non incontrò un cacciatore.
- Signore! – lo chiamò, avvicinandosi, - Scusi, sa, non è che per caso ha visto una bella bambina coi capelli lunghi e un cappottino rosso che vagava da queste parti?
- Un cappottino rosso come questo? – chiese a sua volta il cacciatore, facendo un giro su sé stesso per mostrare a Tom il proprio cappottino in tutto il suo splendore.
- Sì, sì! Esattamente come questo! – disse Tom, entusiasta.
Il cacciatore lanciò un urlo.
- Ommioddio! Ragazzo! Tua sorella è in grave pericolo! – disse, allarmato.
Tom si trasfigurò nell’Urlo di Munch.
- Perché in pericolo?! Cosa può esserle successo?!
- Devi sapere… - spiegò tenebroso il cacciatore, - che in questo bosco c’è un lupo maniaco che attacca qualsiasi cosa sia carina e pucciosa!
- E mio fratello è carino e puccioso!
- …ma non era una sorella?
- …be’, più o meno.
Il cacciatore annuì seriamente.
- Capisco. Il lupo ci andrà a nozze.
- È un lupo pervertito?!
- Il più pervertito che si sia mai visto sulla faccia della terra!!! – annuì il cacciatore, che ormai, visto il cappottino, abbiamo capito essere Matthew Bellamy, rabbrividendo, - Devi sapere che anche io… - cominciò a raccontare, ma Tom lo fermò.
- Non credo di voler conoscere i dettagli… andiamo a salvare mio fratello! – affermò Tom con convinzione.
- Sì! – disse Matt, imbracciando il fucile, - Dove possono essere andati?
- Probabilmente sono a casa della mia nonnina! Bill si sarà diretto lì in tutta la sua innocenza, e il dannato lupastro l’avrà seguito!
- Bene! – disse Matthew, - Andiamo! – ed entrambi si mossero verso la casa della nonna, al limitare del bosco.
Frattanto, Bill e Brian erano già arrivati a destinazione, si trovavano proprio di fronte alla porta di casa e stavano intensamente pensando a un modo per sbarazzarsi della nonna, conquistare l’appartamento e fare i loro porci comodi fino a quando sarebbe loro andato.
- Ma tua nonna che tipo è? – chiese Brian, come fosse interessato a scoprire se era una signora compiacente per organizzare un mènage a trois, sfilando celermente dalle spalle di Bill il cappottino rosso, per dimezzare i tempi una volta che fossero entrati.
- Oh, una signora tranquilla! – rispose Bill, mentre cercava anche lui di spogliare Brian sul selciato, - Una di quelle che preparano i biscotti e quando ti guardano dicono “oh, ti sei fatta proprio una bella signorinella!” – disse il ragazzo con uno sbuffo, liberandosi della propria camicia.
- Ah bene! – gioì Brian, facendosi avanti e puntando minaccioso alle labbra di Bill, - Allora non sarà difficile liberarsi di lei.
Bill rispose con un sorrisetto malizioso e soddisfatto, avventandosi sul lupo e scaraventandolo a terra, per poi arrampicarglisi addosso.
- CHI È CHE FA OSCENITÀ SUL TAPPETINO WELCOME DI CASA MIA?! – ululò all’improvviso un vocione, mentre qualcuno spalancava la porta della casa della nonna.
Fu in quel momento che Bill sollevò lo sguardo e vide la sua amata nonnina.
O meglio.
Era ovvio che fosse la sua amata nonnina, perché aveva la sua vestaglia rosa a fiorellini e i suoi occhialini spessi come fondi di bottiglia e la sua cuffietta celeste e le sue pantofole pelose a forma di coniglio e il suo mattarello in mano.
Ma in effetti quella roba non somigliava granché alla donnina gracilina e bassina che Bill ricordava.
- Nonna! – disse stupito, - Che mascelle grandi che hai!
- È perché non sono tua nonna, razza di deficiente, ma David Jost! – tuonò l’uomo, brandendo il mattarello a mo’ di ascia bipenne.
- E che fine ha fatto la mia nonnina? – chiese il ragazzo, mentre Brian, terrorizzato, cercava di fuggire senza riuscirci, dal momento che Bill lo teneva ancorato a terra con tutto il suo peso.
- Me la sono mangiata! – rispose David con un poderoso rutto, - Quella stronza andava in giro dicendo che sfrutto troppo te e tuo fratello! Avesse almeno una minima idea di quanto è difficile fare il mio lavoro!!!
- Oddio, David!!! Ti sei mangiato la mia nonnina!!! Ora come lo spiegherò alla mamma?! – chiese Bill con gli occhi pieni di pianto, cercando di ammorbidire il manager infuriato.
David però si mostrò completamente insensibile ai piagnucolii di Bill, e si limitò a scoccare uno sguardo crudele a Brian, che rabbrividì fino alla punta della coda luposa che gli era stata data in dotazione per la fanfiction.
- E lui chi sarebbe? – chiese il manager incuffiettato, con tono grave.
- Lui è Bri! – sbrilluccicò Bill, ignaro di tutto, mentre Brian continuava a tremare.
- E cos’è che avrebbe intenzione di fare qui? – proseguì impietoso David, incrociando le braccia sul petto.
- Io e lui volevamo farci tante coccole!!! – continuò a sbrilluccicare Bill, senza neanche un pensiero per la testa.
A quel punto, Brian pensò che fosse il caso di scappare, una buona volta, e così lanciò in aria Bill e scattò in piedi, ma non riuscì ad allontanarsi neanche di un passo, perché David lo afferrò per il colletto della camicia fashion che indossava e lo costrinse a rimanere fermo dov’era.
- TU! Dannato pervertito!!! Cos’è che avevi intenzione di fare al mio protetto?!
- Ma nulla! – si giustificò Brian, sorridendo terrorizzato, - Assolutamente nulla!!! Giuro!!! Ho famiglia e cucciolo a casa, sono un lupo rispettabile io, è il moccioso che ha frainteso tutto!!!
- Ma Bri! – piagnucolò Bill, - Quando ti ho chiesto se poi mi avresti sposato, mentre venivamo qui, hai detto “sì certo”!!!
- Perciò avevi anche intenzione di prenderlo con l’inganno!!! – sbraitò Dave, strapazzando Brian qua e là, - Non sai che certi favori si pagano a peso d’oro?! Bill è ancora vergine!!! E poi comunque c’è una tassa speciale da pagare, perché Bill può essere rappresentato in atteggiamenti sconci solo con suo fratello, dal momento che noi abbiamo delle fangirl da soddisfare!!!
Brian stava per inginocchiarsi e chiedere perdono implorando pietà, ma proprio in quel momento un potentissimo acuto fece tremare tutti gli alberi del bosco e la casa della nonna fin nelle sue fondamenta, e il cacciatore Matt e Tom apparvero davanti ai tre litiganti, strillando “Fermi tutti! Nessuno si muova!!!”.
- Ah! Il cacciatore!!! – disse Brian.
- Ah! Tom!!! – disse David, incapace di sopprimere un altro rutto.
- Ah! Che cappottino adorabile!!! – disse Bill.
- Grazie, anche il tuo!!! – sorrise Matt, facendo un altro giro su sé stesso per mostrare il cappotto.
- David! – strillò Tom, accorgendosi del proprio manager, - Che ci fai qui?! E perché sei vestito come mia nonna?!
- Perché me la sono mangiata! – rispose David, - E comunque, invece di indagare sul mio passato, dovresti ringraziarmi! Ho salvato il tuo amato fratello da questo lupo malvagio!
Nel momento in cui le parole “amato” e “fratello” affiancate raggiunsero le orecchie di Bill, il ragazzo ricominciò a brillare.
- Amato… amato… amato fratello…? – chiese il giovane cantante, come in trance, - Che vuol dire amato…?
Proprio in quel momento, Georg apparve su un albero, vestito da scoiattolo, e accese un enorme riflettore retto con delle stampelle metalliche che arrivavano a terra, tenute in piedi da Dom, Chris, Stef e Steve vestiti da coniglietti pacioccosi, che andò a puntarsi direttamente sulla figura di Gustav, appollaiato su un altro ramo e vestito da gufo tedesco (nel senso che aveva addosso un costume tipico tedesco) con un paio d’occhiali finti sul becco, che sollevò un’ala e recitò candidamente:
- Amata o Amato che dir si voglia: il nome ha origine latina con chiaro significato. Questo nome fu molto usato nel Medioevo, come nome augurale per un bimbo molto desiderato e, appunto, amato. Amata si festeggia il 24 settembre in ricordo di Santa Amata vergine e martire. Amato, invece, viene festeggiato il 13 settembre in ricordo di Sant'Amato vescovo di Sens.
- Ebbene sì, Bill. – disse Dave, cercando di riportare il discorso sul serioso andante, - Tuo fratello in realtà è innamorato di te!
Una strana musica ricordante tanto un TA-TA-TA-TAAAAN! si diffuse nell’aria, e Bill intensificò l’attività sbrilluccicante della propria pelle, arrossendo fino alla punta dei capelli e giungendo le mani come in preghiera.
- Oooooh, Tomi!!! Anche io sono innamorato di te!!! – disse entusiasta, gettando le braccia al collo del fratellone.
- Come posso crederti?! – disse Tom, scuotendo teatralmente il capo e causando un uragano col movimento turbinoso dei rasta, facendo così volare via tutti gli animaletti della foresta sopraccitati, - Tu stavi venendo qui a fare sozzerie col lupo!!! Vi abbiamo visti amoreggiare prima che Dave spalancasse la porta!!!
- Ma no, Tom! – disse Bill, abbracciando più decisamente il ragazzo, - In realtà lui era solo un ripiego perché tu mi ignoravi e non volevi regalarmi un fiorellino!!!
- Ehi… - provò a dire Brian, sentendosi trattato come un uomo-oggetto, ma uno sguardo furioso di Dave, accoppiato a un mattarello roteante incombente sopra la sua testa e la bocca del fucile di Matthew puntata contro la tempia lo zittirono.
- Se è così, Bill… - disse Tom, strusciandosi amorevolmente contro il fratellino, - posso perdonarti! Scappiamo insieme dove nessuno potrà ostacolare il nostro amore!
- Oh, sì! – annuì Bill, entusiasta.
- Fate che sia un posto raggiungibile in elicottero. – puntualizzò Dave, sistemandosi la cuffia sulla testa, - Avete un servizio fotografico, domani.
I due ragazzi annuirono responsabilmente, e poi si diressero mano nella mano verso un luogo sconosciuto, per coronare il loro sogno d’amore.
- Be’, il mio lavoro qui è finito. – commentò Dave con un altro rutto, - E la digestione si prospetta lunga e complicata, perciò buonanotte! – concluse, e si rintanò in casa in un fruscio di vestaglie.
Fuori dalla porta rimasero solo Matt e Brian.
- Adesso a noi, lupastro! – strillò Matthew, piantando il fucile in mezzo agli occhi del lupo, - Finalmente potremo chiudere i conti, e io potrò vendicarmi per quello che mi facesti anni fa, rubando la mia innocenza e-
- Oh, avanti! Falla finita! – lo fermò Brian, scostando il fucile con una zampata e rimettendosi in piedi, pulendo i pantaloni fashion sporchi di terra, - Ti è pure piaciuto, quella volta!
- No che non mi è piaciuto!!! – strillò Matt, diventando rosso come il cappottino che indossava, - E poi… e poi… tu mi avevi giurato che sarei stato l’unico!!! – piagnucolò, - E invece sei sempre in giro ad adescare ragazzini compiacenti!!!
Brian sospirò, si sistemò il colletto della camicia e poi pensò di sistemare definitivamente la situazione sfoggiando il più seducente degli sguardi che aveva in repertorio.
- In realtà, Matthew… - disse sensualmente, avvicinandoglisi, - nessuno dei ragazzini che adesco può essere anche solo lontanamente paragonabile a te… il ricordo di quella meravigliosa notte che passammo insieme è ancora vivo dentro di me… ed è lui che mi spinge a cercare di provare ancora quelle fantastiche sensazioni… ma non riesco con nessuno, perché Matt, solo tu sei in grado di farmi sentire in quel modo…
Matthew lo ascoltò parlare e, molto semplicemente, si sciolse.
- Oh… Brian… come ho potuto dubitare di te…? – disse, con voce rotta dalla commozione, - Adesso ricordo il grande amore che ci univa, e com’eravamo felici insieme…!!!
- Esatto!!! – annuì Brian, abbracciandolo, - Perciò riproviamo ancora quelle meravigliose sensazioni! La mia caverna ci aspetta!
- Sì!!! – disse Matt entusiasta, ed entrambi si diressero a braccetto verso la caverna del lupo.
…e tutti vissero felici e contenti.


*


Dall’autrice… Ossignore santo XDDDD Allora, prima di tutto: ogni riferimento a nomi, cose, città, animali, personaggi famosi e persone reali è assolutamente vol- ehm, non voluto, non previsto e non intelligente >_< Davvero, che nessuno si offenda per questa roba, perché è talmente cretina e insensata che sarebbe assurdo farlo XD
Nata perché la Lemmina un giorno è apparsa su MSN e mi ha chiesto “Dai, raccontami una storia!”. E io, per pronto accomodo, ho tirato fuori questa ROBA XD Totalmente improvvisata in chat, eh ù_ù La versione che avete sotto gli occhi al momento, invece, è la storia trasformata in fanfiction seguendo il “copione” della chatlog (ed è in gran parte copiata da quella XD che dire, era venuta bene XD).
Sono inoltre le prove generali del quartetto vincente Brian/Matthew/Bill/Tom che, prima o poi, vedrete ANCHE in una fic vera e propria ù_ù Della quale ho parlato entusiasticamente con circa la metà dei miei contatti MSN e anche con buona parte del resto del mondo, e che si intitola Teenage Angst, e che scriverò presto, anche se non so quando ._.””””
In ogni caso questa storia non è che la prima di una serie di rivisitazioni di varie fiabe che intendo fare XD Aspettatevi (non tanto) presto anche BiancaBill E I Sette Pseudo-Nani e La Bella Bill Addormentata Nel Bosco, per non parlare di Billerentola e Billahontas XDDDDDD
Stay tuned è_é
PS: Si ringrazia con affetto la neechan per avere trovato il titolo della raccolta nel tempo record di due secondi e mezzo X***** E già che ci siamo ringraziamola anche per gli uccellini cinguettanti, per la tassa da pagare al twincest, per il secondo giro su sé stesso di Matt, per il significato della parola amato/amata e per l’effetto dell’uragano sugli animaletti della foresta X’D Neechan, sei un concentrato di lol <3
Scritta in coppia con Ana.
Genere: Malinconico, Triste, Commedia, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Slash, AU, Angst.
- Bill non vuole ricordare. Tom non vuole ricordare.
Nessuno dei due sente il bisogno di farlo. Perché fa male, fa troppo male, fa male come uno spiacevole ago conficcato in un fianco.
...entrambi, probabilmente, hanno tanto bisogno di ricordare che se non lo faranno scoppierà loro la testa.
Se poi Jorg Kaulitz decide di "dar loro una mano" inconsapevolmente...
Note: Scrivere questa storia è stato in parte veramente facile XD e in parte veramente difficile. E' una storia comunque particolare, nel suo genere, per quanto io resti comunque convinta del fatto che la trama non sia poi così incredibilmente originale come si è detto. Certo, si vedono poche fic del genere sui gemelli, ma dire che sia originale in assoluto... ma comunque questi sono discorsi spiccioli che non valgono niente. Miles Away è una puccina. Credo che la sua forza stia soprattutto nel fatto di essere una storia narrata semplicemente. Direttamente. Senza troppi fronzoli. Quella era, e quella, io e Ana, abbiamo messo giù. Credo sia abbastanza normale sentirti trascinato dentro una storia quando ti sembra che il personaggio stia dialogando con te, parlandoti direttamente. E credo sia successo esattamente questo, fra Bill, Tom e i lettori di Miles Away.
C'è da dire che ho fatto davvero la preziosa, con questa storia XD Dal momento che ero incasinata su più fronti, avrei preferito cominciare a scriverla più avanti, all'incirca verso Novembre. E invece ad Agosto eravamo già lì al lavoro. E per Settembre era tutto finito (missing moment a parte XD). E' stata una cosa un po' strana, e quasi... mah, non so, forse dolorosa °_° E' che, per quanto iniziare i capitoli fosse difficile (perché appunto ero sempre presissima da altro), Ana riusciva sempre in qualche modo a scrivere delle scene che poi mi ispiravano un casino, e io le andavo dietro come una matta, e in ventiquattr'ore in genere i capitoli erano davvero praticamente finiti, rivisitazioni successive a parte °_° E' una cosa quasi inquietante.
Per i missing moment stiamo seguendo una linea un po' diversa. A parte che sono io a rompere le palle per scriverli X'D Riusciamo davvero a finirli in pochissimo perché li scriviamo praticamente insieme su MSN, e poi, essendo vaccate, non hanno bisogno dell'attenzione spasmodica al particolare che invece dedicavamo alla storia madre. Spero solo che al pubblico piacciano altrettanto ù.ù
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Miles Away
- Prologo -

Cerco di concentrarsi sulle nuvole.
Le nuvole avevano un aspetto rassicurante. Bianche, tondeggianti, morbide. Solo a guardarle ci si poteva sentire molto più calmi, più rilassati, quasi felici. Ecco, sì. Sì. Se puntava gli occhi su quella bianca, bianchissima, a forma di patata perfettamente ovale – o pallone da rugby? Non era mai stato un genio dello sport, nonostante il corso di karate che, da piccolo, aveva frequentato con…
…no, meglio non pensarci.
Il suo cervello era già abbastanza sovraccaricato dal pensiero di doverlo rivedere. Non era necessario aggiungere anche il pensiero di lui in quanto lui. Decisamente.
La nuvola, dicevamo.
La patata ovale.
Il pallone da rugby.
Chi per loro, insomma.
Certo che le nuvole erano creature affascinanti…
…cioè, non erano creature. Avrebbe dovuto trovare un termine migliore per definirle.
Mordicchiandosi l’interno della guancia, faticò a trovarne uno, perciò lasciò perdere. Erano comunque cose parecchio affascinanti. Davano tanto l’idea di essere degli enormi cuscini comodi sui quali adagiarti senza pensieri dopo una giornata sfiancante… e invece, se qualcuno avesse realmente provato a distendersi su una di quelle enormi masse d’aria, non solo avrebbe provato tanto di quel freddo che si sarebbe sentito ghiacciare fin nelle ossa, non solo avrebbe corso il rischio d’essere attraversato da parte a parte da una potentissima scarica elettrica, ma invece di ricevere l’abbraccio caldo e confortante dei cuscini di quelle gigantesche finte poltrone si sarebbe anche trovato a galleggiare precariamente nell’aria, in attesa di schiantarsi al suolo.
Le nuvole non avevano pietà.
Esattamente come i ricordi.
I ricordi erano dannatamente uguali alle nuvole. Così amichevoli e dolci quando li intravedevi da lontano affacciarsi fra le pieghe della mente e dei sogni ad occhi aperti… così duri e spiacevoli quando ti decidevi ad avvicinartici e guardarci dentro.
I ricordi, come quasi tutti i bauli antichi delle case delle nonne, possedevano sempre un doppio fondo. C’era quello che vedevi col primo colpo d’occhio, che era quasi sempre delicato e semplice e nostalgico e terribilmente piacevole. E poi c’era quello che sentivi quando allungavi la mano per afferrarlo in un pugno.
E quello era duro.
Spigoloso.
E doloroso.
Sempre, sempre, sempre.
Lasciarsi andare contro una nuvola e lasciarsi andare ai ricordi potevano essere entrambe attività mortali. Praticamente allo stesso livello. Anche se si trattava di morti diverse.
Il segnale che avvisava i gentili passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza si accese, e fu presto seguito dalla voce suadente e vagamente smorfiosa di un’hostess, che informava tutti che l’atterraggio si sarebbe svolto nel giro di una quindicina di minuti, come previsto e in perfetto orario.
Tom ubbidì al segnale e alla signorina, strinse la cintura in vita e si aggrappò distrattamente con le mani ai braccioli del proprio sedile.
Lanciò un altro sguardo alle nuvole e provò ad immaginare come sarebbe stato passarci dentro.


Quando, dopo un quarto d’ora, l’aereo uscì dall’area di turbolenza e si diresse punta in basso verso la pista d’atterraggio, Tom ebbe la sua risposta.
Passare in mezzo alle nuvole faceva schifo.
Esattamente come passare in mezzo ai ricordi.

Genere: Comico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Slash.
- Non fate parlare ad Ana delle sue teorie alle tre e mezzo di notte. Soprattutto quando l'indomani mattina dovete svegliarvi presto. Questo è un consiglio personale. A parte questo, ciò che c'è da sapere sulla storia sta negli avvisi, nella compresenza dei nostri nomi fra le autrici e nell'adorabile banner. Comunque, se proprio voleste qualche informazione in più, è presto detto: Bill è alle prese coi soliti problemi estetici, Tom è alle prese coi soliti problemi sessuali e Jost... be', lui vorrebbe solo dormire. Buona lettura <3
Note (di Ana): Salve, qua è Ana che vi parla sebbene la storia sia di liz.
La ragione per la quale sono io a scrivere le note è semplice: è tutta colpa mia.
Erano le 3.31 di mattina, io e la neechan avevamo appena deciso di andare a nanna ma io mi sono ricordata di doverle dire l'ennesima mia teoria. Questa teoria si basa sugli incisivi di Bill, sul fatto che se sono sporgenti significa che da bambini si è stati abituati a succhiare il pollice e sul fatto che, secondo me, negli ultimi tempi i denti di Bill sembrano decisamente più sporgenti.
E visto che la mia mente non è normale ha pensato a una zozzeria.
E ovviamente anche quella di liz.
E quindi, alle 3.33 invece di dirmi 'buonanotte', liz mi ha detto 'oddio la DEVO scrivere, flashfic, ora, subito, *apre word*'
E ovviamente io sono dovuta rimanere alzata ad aspettarla. Sono le 3 e 49, il mio winamp sta seriamente rompendo il cazzo perchè tra 565 brani random non può continuare a rifilarmi i Tokio Hotel ad ogni secondo brano-.-... dicevo? Ah, ho appena finito il banner (figo, neh?) e spero che liz sia a buon punto perché io dovrei svegliarmi tra *breve calcolo* 280 minuti.
Il bello è che non posso manco dire la mia opinione sulla storia poiché non l'ho manco letta ancora ma conoscendomi l'amerò così come l'amerà liz e quindi speriamo che l'amiate anche voi.
La morale della storia è che le mie teorie sono il male... sebbene spesso risultino vere, come può testimoniare anche meg, infatti durante la premiazione agli Otto il piccolo Bill stava facendo 'ciao ciao' dai pantaloni, non ero scema io, stava succedendo sul serio!!
Che altro dire? Buckteeth in inglese significa denti sporgenti.
E basta.
E speriamo che liz posti in verdana!! (:P *ndliz*)
PS: Non mangiate pizza tirolese a cena, perché poi avrete una sete pazzesca per tutta la notte.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
BUCKTEETH

Era da almeno mezz’ora che Bill si stava fissando nello specchio del bagno, voltando il capo da un lato e dall’altro come stesse andando alla ricerca della più piccola imperfezione del mondo, ben determinato a farla sparire.
Generalmente, che suo fratello si fissasse nello specchio non era qualcosa che lo turbasse più di tanto. Ovvero, era abituato ad osservarlo rimirarsi di continuo, senza pause, per ore intere. Gli piaceva perfino. Bill era molto bello. Quando si fissava nello specchio, Tom poteva vederlo contemporaneamente sia di fronte che alle spalle, il che gli offriva in totale una panoramica niente male. Oltretutto, Bill poteva arrivare a raggiungere livelli di insopportabilità veramente elevati, soprattutto quando si metteva a chiacchierare di cose senza il minimo senso e delle quali a lui non sarebbe fregato un accidenti, se le parole non fossero uscite scivolando tra quelle labbra rosa dal disegno perfetto, che lo facevano impazzire.
Quindi, in genere, era piuttosto felice quando Bill si metteva il cuore in pace e stava semplicemente lì a guardarsi.
Ma in una situazione come quella, proprio no.
Non mentre era riuscito miracolosamente a sgattaiolare in camera sua senza che qualcuno lo vedesse – e cominciasse istantaneamente a sfottere, come quei due bastardi di Georg e Gustav, o a rimproverarlo, come quell’altra piaga di Jost.
Non mentre, saltando alternativamente su un piede e poi sull’altro, era riuscito a spogliarsi integralmente in due secondi, prima di saltare gioioso sul letto in attesa della propria mezz’ora di gloria fra le lenzuola.
Non mentre – dannazione – era nudo come un verme su un letto completamente ghiacciato in una camera d’albergo priva di riscaldamento nella notte germanica da meno cinque gradi centigradi più rigida di ogni fottutissimo tempo a memoria d’uomo!!!
- Bill. – scollò irritato, strizzando un cuscino fra le mani per resistere all’impulso di picchiare qualcosa, - Bill, non è per disturbarti, ma, insomma, giusto per sapere, hai intenzione di scopare, stanotte?
Bill fece una smorfietta inorridita, allontanando gli occhi dal proprio riflesso per guardarlo solo per un attimo, prima di ricominciare le operazioni di osservazione.
- Tom, sei un porco.
- Non è una novità. – ammise lui senza problemi, mettendosi in ginocchio sul materasso, - Bill, per carità, sono eccitato come un mandrillo, vuoi darti una mossa e-
- Sei la causa di tutti i miei problemi, Tom. – lo interruppe allora il moro, sospirando pesantemente e socchiudendo gli occhi, per poi dirigersi verso di lui, spegnendo la luce e chiudendo la porta del bagno al passaggio.
- Anche tu dei miei. – ritorse lui, facendogli spazio sul materasso perché potesse sedersi, - Per esempio, come ti dicevo prima, adesso sono eccitato come un mandrillo e tu-
- Non parlavo di problemi sessuali!!! – strillò a quel punto Bill, afferrando un cuscino e spiaccicandoglielo di prepotenza sul volto.
- …uh? – inquisì curioso Tom, quando gli riuscì di liberarsi, - E di che tipo?
- Cose più… profonde.
Oh.
Oddio.
A volte succedeva, dannazione.
A volte c’erano dei giorni in cui, mah, forse entrava in calore o qualcosa del genere, e ogni volta che guardava Bill l’unica cosa a cui pensava era “sesso ora subito immediatamente” o anche qualcosa di meno articolato come “wah!” o “gh”, quando proprio era al limite, e quindi, magari, quando in quei giorni suo fratello decideva di farsi una sega mentale delle sue, la twintelepatia non funzionava e si ritrovava alla sera con un povero Bill triste perché lui non era stato un fratello abbastanza sensibile da accorgersi di che meccanismo contorto stesse causando turbamenti al suo piccolo cervellino.
Inarcando le sopracciglia verso il basso, gli si avvicinò, poggiandogli le mani sulle spalle e cercando di consolarlo.
- Scusa, non mi sono accorto che avevi dei problemi… lo sai che con me puoi parlare di tutto, avanti!
Bill gli lanciò un’occhiata incerta, stringendosi comunque contro il suo petto.
- Rideresti fino a morire, e allora anche il tuo problema di insaziabile appetito sessuale sembrerebbe una bazzecola…
Tom sospirò, sorridendo lievemente ed abbracciandolo con più tenerezza.
- Non riderò. Promesso. Allora, di che tipo di problema si tratta?
- Mmmh… - mugugnò Bill, guardando altrove, imbarazzato, - È un problema… di natura… estetica.
Silenzio.
Per qualche secondo, solo l’ululato del gelido vento nordico, fuori dalle finestre.
- Bill, Cristo!!! – esplose infine il biondo, lasciando andare il gemello per buttarsi a capofitto fra le lenzuola e cominciare a rotolare con la testa fra le mani, nel tentativo di dare una misura fisica del proprio dolore interiore, - Mi dici di avere un problema, io mi preoccupo al punto da mettere il sesso in secondo piano, in secondo piano, capisci?!, e poi viene fuori, chessò, che stamattina non sei riuscito a sistemare bene le sopracciglia con le pinzette e io, povero fratello allupato innocente, devo subirne le conseguenze?!
Bill aggrottò le sopracciglia, alzandosi in piedi, offeso.
- Sapevo che avresti frainteso. – scoccò freddo, incrociando le braccia sul petto.
- Ma cosa c’è da fraintendere, mi spieghi?! – continuò a strillare Tom, sempre rotolando, - Parli di problemi estetici!!! Quando tu parli di problemi estetici sono sempre cose talmente irrilevanti da farmi dimenticare che sei maschio anche se posso dire di aver visto coi miei occhi la portata della tua virilità!!!
Un secondo cuscino venne afferrato saldamente da due mani perfettamente laccate di nero, e subito dopo utilizzato per bloccare definitivamente i movimenti del maggiore fra i gemelli Kaulitz, mentre il minore si lasciava andare ad imprecazioni del tipo “E soffoca, una buona volta, pezzo di cretino che non sei altro!”.
Quando la situazione fu riportata alla normalità – con Tom che aveva ottenuto la libertà giurando di non riprendere a rotolare e delirare, e Bill che aveva ottenuto l’attenzione del gemello giurando di spiegarsi, in modo da non sembrare necessariamente una femmina in preda ad insicurezza pre-appuntamento, soprattutto visto che di appuntamenti in programma non ce n’era neanche l’ombra – i due tornarono a sedersi sul letto, l’uno accanto all’altro, guardandosi con curiosità.
- Hai presente cosa mi ha detto il dentista quando siamo andati in vacanza da papà la prima volta e lui ha deciso che doveva sottoporci ad un check-up completo perché non gli sembrava che mamma stesse facendo un buon lavoro nel crescerci sani e forti?
- Uh. Ah-ha. – rispose intelligentemente il rasta, annuendo, - Che per i denti davanti sarebbe servito l’apparecchio, perché avevi succhiato il pollice troppo a lungo e sporgevano dall’asse del resto dei denti.
- Appunto. – disse quindi Bill, annuendo a propria volta. – Ora, senti: non ti sembra che i miei denti ultimamente siano un po’… come dire… più sporgenti del solito?
Tom spalancò gli occhi ed anche la bocca, ma per qualche istante non riuscì davvero a parlare, fulminato come si ritrovò dalla palese assurdità di quanto stava sentendo.
- Non dirmi che poco fa in bagno ti stavi fissando i denti per capire se sporgessero di più! – sbottò, sperando che Bill negasse e lo rassicurasse sulla propria sanità mentale.
Ovviamente, Bill non fece niente del genere.
- Be’, sì. – si limitò a confermare, - Ed a me sembra davvero che sporgano di più!
- Santo cielo, Bill. – esalò allora il chitarrista, stremato, massaggiandosi le tempie, - Dormo con te quasi ogni notte, ti fisso dormire fino a quando non prendo sonno anche io e posso giurarti che non hai ripreso il vizio, tranquillo.
Fu allora che Bill abbassò lo sguardo ed arrossì, prendendo a torturare nervosamente un lembo del lenzuolo sul quale era seduto.
- Non pensavo al pollice… - sussurrò quindi, nascondendo il volto sotto la cascata di capelli che gli cadde addosso, quando abbassò ulteriormente il viso.
- Eh? – chiese Tom, inarcando le sopracciglia, - E a cosa diavolo…? Scusa, capisco mangiare le caramelle gommose, ma non mi pare proprio tu stia a succhiarle per tanto tempo da-
- Non pensavo neanche alle caramelle gommose, Tom!!!
- Ma allora cosa?! – riprese a strillare lui, sempre più confuso, - Cosa cazzo stai a succhiare tanto da…
- …
- Da…
- …appunto, Tom. Cosa cazzo.
A quel punto, pure una persona poco riflessiva come Tom avrebbe capito che ad entrambi serviva una pausa per riordinare le idee e riorganizzare i propri pensieri. A Tom sarebbe servita per capire se suo fratello stesse realmente insinuando che i loro giochino notturni potessero essere la causa dei suoi denti storti. Ed a Bill sarebbe servita per capire se davvero volesse andare avanti nella difesa di quella teoria.
- Tu sei un cretino. – disse invece Tom, senza fermarsi a pensare nemmeno per sbaglio, - Quello che ti do da succhiare, neanche te lo meriti!!!
- Che schifo, Tom!!! E comunque, non che per meritare il tuo uccello servano particolari doti, a quanto ne so.
- Non ricominciare con la storia della gelosia! Tu sei tu, le groupie sono le groupie!
- Seh, io sono io, le groupie sono le groupie e tu sei un porco, visto che non riesci a ritenerti soddisfatto né solo con me né solo con loro!
- Ma scusa, è un peccato volere sempre il meglio dalla vita?!
- Ed è un peccato preoccuparsi che i miei denti continuino a crescere ognuno in una direzione diversa fino ad arrotolarsi su se stessi e, chessò, ficcarmisi negli occhi e accecarmi, o perforarmi il cervello?!
- Tu non sei un roditore, Bill!!! – argomentò furiosamente Tom, ormai al limite della sopportazione, - I tuoi denti non continueranno a crescere smisuratamente al punto che dovrai sempre stare a rosicchiare qualcosa, per impedirlo!
- Be’, forse invece qualcosa dovrei proprio rosicchiarla! Così almeno poi non correrei il rischio di beccarmi qualche brutta malattia perché un certo maniaco sesso-dipendente va in giro a darlo a chiunque senza pensieri!
- Io faccio sempre sesso protetto!
- Ma che vai in giro a darlo gratis come fossi un missionario del movimento per i diritti del cazzo è una verità incontestabile!
- Oh, capisco, preferiresti che mi facessi pagare? Magari vorresti pure una percentuale?!
- Magari – strillò una voce decisamente alterata, facilmente riconoscibile come quella del loro manager, David Jost, oltre la porta della camera, - ora la smettiamo di fare i bambini cretini, torniamo ognuno nella propria cameretta e ci mettiamo a dormire, così le persone sane di mente possono fare altrettanto, eh?!
Bill e Tom trasalirono, portando istantaneamente il lenzuolo a coprirsi. Giustamente Tom – che era ancora nudo come quando era venuto al mondo – un po’ meno giustamente Bill, che, per contro, era ancora vestito di tutto punto.
I due attesero in silenzio, aspettandosi di sentire i passi lenti e strascicati dell’uomo allontanarsi lungo il corridoio e poi svanire in dissolvenza quando fosse stato abbastanza lontano, ma non sentirono niente del genere.
- Guardate che sto ancora aspettando! – si premurò allora di informarli Jost, picchiando con una certa insistenza sulla porta, - Non intendo muovermi da qui fino a quando non vi avrò visti ognuno nella propria camera!
Tom sospirò, liberandosi del lenzuolo ed afferrando con malagrazia i propri vestiti sparpagliati sul pavimento, elencando offese irripetibili a metà fra insulti e implorazioni di pietà, mentre si rivestiva.
- Tomi… - mugugnò allora Bill, seguendolo mentre lui raggiungeva a grandi falcate la porta, fermandosi un attimo prima di aprirla, - Senti, mi dispiace, mi sarebbe piaciuto stasera fare qualcosa, ma…
- Ma ti sei lasciato prendere da una paura del cazzo e io adesso dovrò ripiegare sul fai da te!!! – strillò isterico Tom, dimentico del manager oltre la porta, che si premurò di ricordargli la propria presenza battendo ancora un paio di volte col pugno sulla porta, - Sai quanto lo odio, cazzo! – concluse allora il biondo, a voce più bassa, perché nessuno a parte Bill potesse sentirlo.
A quel punto, Bill lo sapeva, c’era solo una cosa che potesse dire per far tornare Tom in sé e mandarlo a letto tranquillo.
- Be’… - sussurrò sensuale, poggiandogli un dito sul petto e scorrendo la linea dei pettorali da sopra la maglia leggera, fino a raggiungere l’ombelico, godendo del respiro di Tom che si faceva affaticato man mano che lui procedeva nella sua discesa, e del suo sguardo ammirato e colmo di desiderio che gli bruciava addosso, - l’importante, però, è che adesso io abbia capito che le mie paure erano infondate. – sorrise sereno, - Sai cosa significa questo, Tomi…?
- …no… - deglutì lui a fatica, - …cosa significa, Bill…?
- …che domani sera avrò tanta voglia di recuperare il tempo perduto. – promise infine, lasciandogli un breve bacetto sulle labbra.
Tom sorrise soddisfatto, evitando di esplodere nel più appropriato “yay!!!” che si stava spandendo dall’interno del suo cervello fino al resto del suo corpo, solo per evitare di causare un’ulteriore dimostrazione di fastidio da parte di David, ancora immobile oltre la porta.
Va bene, per quella notte avrebbe dovuto ripiegare.
Ma sì, in fondo, ancora, la vita valeva la pena d’essere vissuta. Denti storti compresi.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Tom/OC.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Het, Lime, Incest, OC.
- "Ha le labbra rosso puttana. Sapete di che colore parlo, no? E' una tonalità inconfondibile di rosso, acceso, invitante, fa venir voglia di passarci su due dita e sbavarlo sulle guance e sul mento. Soprattutto se si ha una bella pelle liscia e tanto tanto chiara, come la sua.
Questa donna è quanto di più diverso da Bill possa esistere in tutta la Germania, ne sono sicuro.
E poi è femmina.
Ed è esattamente per questo motivo che mi trovo qui, adesso.
"
Note: Questa storia nasce un giorno, per caso. Girovagavo felice per il sito di Criticoni e mi sono imbattuta, del tutto casualmente (alias, la attendevo con tanta ansia che praticamente aggiornavo la pagina ogni dieci minuti), nel bando della seconda edizione della Disfida. Titolo della competizione: red-light district. Richieste: “che sia zozza e che contenga un riferimento al rosso”. È stato qui che ho finalmente deciso di utilizzare in una storia un’espressione che desideravo utilizzare da secoli, alias le famose “labbra rosso puttana” dell’inizio. In realtà non l’ho coniata io, quest’espressione, ma Nai. O meglio, non so se l’abbia coniata lei, ma è stata da lei che l’ho sentita dire la prima volta XD E quindi è lei che devo ringraziare. Per questo, per il sostegno, per l’aiuto e, come al solito, per altre miriadi di cose :*
Assieme a lei, i ringraziamenti doverosi per tutto ciò vanno anche alla mia neechan Ana, alla Lemmina, ad eLe ed a Meggie, che l’hanno letta in anticipo e hanno dissipato qualsiasi dubbio relativo alla resa della storia su carta. Avevo in mente tante di quelle paranoie che avrei potuto morire d’angoscia, se loro non avessero salvato la mia vita T_T Ragazze, vi amo e non vi merito :*
È la seconda volta che uso il nome di una band musicale come titolo per una fanfic °_° La prima volta furono gli Slowmotion Apocalypse, e la fic era anche lì un’RPS. Di quel gruppo non sapevo niente e non so niente neanche tutt’ora. Dei Mindless Self Indulgence, invece, posseggo informazioni più circostanziate. Ovvero so che la bassista, Lyn-z è la moglie di Gerard Way, e che a Brian Molko piace molto (così come il resto del gruppo) (no, chiaramente non ho mai sentito una canzone o.o È ovvio che, quando io parlo di informazioni circostanziate, mi sto chiaramente riferendo a robe inutili derivanti dall’uso smodato che faccio di MTVNews e LiveJournal Community come fonti di fangirlistico diletto XD). Comunque mi sembrava un buon titolo per la fic. Una buona identificazione per Tom. Per questo Tom, dico, che spero non vi faccia arricciare troppo il naso, sebbene in genere non si sia abituati a vederlo ragionare tanto XD Ho voluto cercare di mantenerlo spontaneo e idiota come lo conosciamo, almeno in parte. Spero di esserci riuscita.
La citazione iniziale della storia viene dalla splendida Drain degli X-Japan. È una canzone che amo a livelli incredibili, e che mi ha accompagnata per tutta la stesura. Consiglio è_é Qui c’è il testo.
Vorrei anche ringraziare Wikitravel per avermi salvato dal disastro quando ho creduto che non avrei mai scoperto il nome della strada sulla quale si trovano le prostitute (almeno, uno dei centri più frequentati) a Berlino X’D Stavo seriamente per impazzire. Se c’è qualche errore, chiaramente, è colpa sua e non mia. Io a Berlino mica ci vivo. Mi fido di internet ù_ù *muore*
Ciò detto, ho concluso. Amen X’D Ciu :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
MINDLESS SELF INDULGENCE

Let me drain my feelings out…

Ha le labbra rosso puttana. Sapete di che colore parlo, no? È una tonalità inconfondibile di rosso, acceso, invitante, fa venir voglia di passarci su due dita e sbavarlo sulle guance e sul mento. Soprattutto se si ha una bella pelle liscia e tanto tanto chiara, come la sua.
Questa donna – o è una ragazza? Non riesco a identificare la sua età… probabilmente è a causa del trucco pesante, ma in realtà sono sempre stato una frana in queste cose, per cui potrebbe dipendere senza problemi da una mia incapacità, e non lo saprò mai – questa donna è quanto di più diverso da Bill possa esistere in tutta la Germania, ne sono sicuro. Ha i fianchi morbidi e il seno prorompente, cosce corte e affatto slanciate, gonfi capelli biondi a caschetto – un caschetto da puttana, come il rossetto, di quelli scalati sulla nuca, che rendono i colli sensuali anche quando non lo sono – dita corte e tozze, e le unghie sono mangiucchiate e sporche – scommetto che non vive in questa casa, scommetto che non vive neanche in una casa.
E poi è femmina.
Ed è esattamente per questo motivo che mi trovo qui, adesso.
*
È stato graduale, ma è stato anche dannatamente veloce. Se dovessi quantificare quanto ci ho messo, direi che è stata più o meno una settimana. Ogni giorno di più, e non un po’ alla volta. Profumi, sapori, sensazioni, mi si sono riversati addosso come una valanga, ad enormi ondate.
Non potevo resistere.
Non darò la colpa all’adolescenza, agli ormoni sessuali, al risveglio dei sensi.
Se così stessero le cose, io vorrei scopare mio fratello da quando ho compiuto quindici anni.
E così non è.
Non darò la colpa neanche al trucco e ai vestiti di Bill.
Perché, se fosse per questi oggetti, io vorrei scopare mio fratello da molto, molto prima.
Potrei dare la colpa a mille cose, all’astinenza forzata durante i lunghi periodi di tour – perché davvero non è facile rimediare una scopata a notte quanto ti ritiri spossato alle tre del mattino e l’indomani hai la sveglia alle sette – all’enorme quantitativo di tempo che passiamo insieme, alle influenze esterne, all’atteggiamento talvolta – anche se non poi così tanto – ambiguo di Bill.
Niente di tutto ciò sarebbe vero.
La verità è che qualche mese fa, senza nessun motivo particolare, per una settimana io sono impazzito. Sono impazzito e la mia mente s’è riempita di miraggi.
Miraggi che hanno preso a calci e pugni il mio cervello senza neanche un briciolo di pietà.
Quello che rimane di me, oggi, è questo.
Un diciottenne ubriaco che s’infila nel letto di una ragazza senza nome e senza volto, ma con un corpo talmente definito e femminile che mai e poi mai, neanche durante gli strascichi di sonno o quelli, ancora più confusi, dello stordimento da alcolici, potrà essere scambiato per il corpo del proprio fratello.
Sono pazzo. Sono malato.
È tutto quello che mi serve sapere.
*
Mi piace il corpo di questa ragazza. Mi piace scivolarle fra le cosce, è brava a tenerle aperte, è brava ad accogliermi dentro di lei. Sa perfettamente cosa piace agli uomini.
Probabilmente per il resto del mondo non è così, ma per me è questo che s’intende, quando si parla di “naturalezza” nell’atto di fare del sesso. Non ho mai provato a farlo con un uomo – non mento, non mi sto dando delle arie, è vero che non ci ho mai pensato, prima di Bill – ma dubito che l’intimità di un uomo possa essere la stessa di una donna. Dubito che l’intimità di un uomo possa essere così… morbida e calda e bagnata e accogliente. Lo è perché è nata per esserlo. Lo è perché è lì che ti aspetta da quando è venuta al mondo. Lo è perché anche tu sei lì che la aspetti da quando sei venuto al mondo. E siccome sai che non potrà mai essere diversa da come te l’hanno raccontata i ragazzi più grandi quando eri così piccolo e sciocco da sederti assieme ai tuoi amichetti attorno a loro, come fossero stati guru o capi indiani degni di enorme rispetto, è così che te la aspetti.
Le donne non deludono mai.
Lascio scivolare una mano sulla rotondità dei suoi fianchi e le vengo dentro con un’ultima spinta, mentre lei si inarca e finge di godere, mordendosi il labbro inferiore. Il mio seme si schianta contro il preservativo, e posso quasi sentirlo soffrire, agonizzante. È terribile che non possa rendersi utile. Mi dispiace per lui.
…mi dispiace perché penso che, se scopassi Bill, sarebbe esattamente lo stesso. Dentro di lui, tutti i miei spermatozoi morirebbero inutilizzati.
Mi mordo un labbro anche io, ma lei sa che non è piacere. Lo sa perché conosce il volto degli uomini e sa interpretarne le variazioni. Mi scosto e mi lascio andare sul letto, affondando il viso nel cuscino, che puzza di sudore non mio.
Dopo un po’ me ne pento, e torno a guardarla.
La guardo attentamente, lei guarda me e non dice una parola.
Voglio ricordare bene i suoi tratti, per ritrovarla con facilità la prossima volta che avrò bisogno di lei. Ho faticato tanto, per trovare qualcuno che riuscisse ad assomigliargli così poco anche se nella mia testa tutto sembra somigliargli sempre spaventosamente troppo, che non posso proprio lasciarmela scappare.
*
Ci sono tre parti del corpo che decidono la vita dei maschi. Cuore, cervello e cazzo.
Col cuore fai tutte le cose tenere. Le cose che nascono spontanee e provocano gioia e sollievo in te e in chi ti sta intorno. Funziona con gli amici, ad esempio. Quando scopri che uno di loro ha la febbre ed ordini quintali di pizza e migliaia di DVD e invadi casa sua “con tutto il gruppo” solo per sentirlo lamentarsi che sta male e non vuole rotture di coglioni, mentre già tira calze e magliette sporche sotto il letto con un calcio e dice a tutti di accomodarsi dove vogliono, mentre lui cerca di far partire quel catorcio del lettore.
Col cervello fai le cose delle quali sai potresti pentirti in futuro in caso di errore, e perciò dedichi loro più attenzione. Lo usi quando devi fare i compiti, quando devi parlare con qualcuno in grado di decidere il tuo futuro, o quando devi attraversare la strada e hai la necessità impellente di ricordare che si guarda a destra e a sinistra e poi magari anche il semaforo in attesa che diventi verde. Si usa il cervello per avere un’assicurazione, e poter evitare di sentirsi in colpa nei confronti di sé stessi e degli altri, anche se l’errore alla fine si compie lo stesso. “Eh, è andato tutto storto, ma io non mi sono comportato in maniera avventata, non ho agito rischiando, non ho sbagliato. È stato il mondo a fare casino”. A volte è vero. Altre volte no. Si smette di chiederselo quando si capisce che è più comodo non saperlo e pensare di aver avuto ragione comunque, “solo che…”.
Col cazzo scopi. E questo non ha bisogno di spiegazioni. Purtroppo. A volte vorrei che il sesso fosse una cosa più complicata. Una cosa per la quale bisognasse riflettere, ad esempio, o per la quale fosse necessario provare un certo tipo di sentimento. Una cosa che, se non hai i requisiti base, non possa funzionare. Invece no, il sesso funziona sempre. È una cosa talmente meccanica, talmente animale… a volte non ha bisogno nemmeno di stimoli. In quanto maschio, mi sento una creatura affascinante: a volte mi tira anche quando non sono eccitato. È una cosa stupenda, il cazzo vive una vita propria. Ha richiami e motivazioni tutte proprie. È l’unico vero organo indipendente dell’intero corpo umano. Fosse più difficile metterlo in funzione – soprattutto a una certa età – ci si eviterebbe una tale quantità di casini che, secondo me, se solo noi maschi si provasse davvero a vivere senza per qualche mese, poi non lo si rivorrebbe più indietro.
In genere questi tre organi insieme non funzionano.
Continuano a prendersi a cazzotti a vicenda. Litigano, per dirla in parole povere.
Le donne hanno ragione, quando dicono che a volte i sentimenti “prevalgono” sulla razionalità, così come il desiderio fa con i sentimenti stessi. Perché è proprio una guerra, c’è la parte che vince e avanza vittoriosa fino a raggiungere il proprio obiettivo, e c’è la parte che perde, viene crudelmente massacrata e resta lì per terra in agonia finché non si riprende.
Quando fai qualcosa di carino per qualcun altro, poi te ne pentirai, perché razionalmente non avresti dovuto farlo.
Quando scopi con qualcuno perché sei eccitato e non riesci a vedere a un palmo dal tuo naso, poi te ne pentirai, perché la persona che amavi magari era a casa e tornare a guardarla negli occhi ti farà sentire lurido e stronzo.
Quando fai qualcosa di sensato a dispetto dei tuoi affetti, te ne pentirai comunque, perché magari avrai fatto la cosa migliore per tutti tranne che per te stesso, e te ne accorgerai solo quando sarà troppo tardi, nel momento in cui ti guarderai intorno e scoprirai di aver fatto terra bruciata attorno a te, privandoti delle possibilità di risanare i rapporti ormai persi nel tempo.

È strano.
Bill è l’unico col quale tutte e tre le cose riescano a funzionare contemporaneamente.
*
So che sto scopando.
So che sto scopando perché il seno di questa ragazza ondeggia, pieno, sodo e roseo, senza posa di fronte ai miei occhi.
So che sto scopando perché sento carne viva, umida e calda attorno al cazzo, perché mi sento avvolgere da una sensazione di tensione piacevole e vagamente dolorosa e perché sto sudando e l’odore del mio sudore si mischia con quello del suo, in una fragranza pungente e quasi fastidiosa.
So che sto scopando perché mi infastidirebbe davvero quest’odore, se non lo stessi facendo.
So che sto scopando anche perché lei mi si piega addosso e cerca le mie labbra chiamando il mio nome.
E adesso che so che lei conosce il mio nome, come una rivelazione improvvisa e importante in maniera del tutto immotivata, so anche che è una fan dei Tokio Hotel, o comunque ci conosce. Io non mi sono presentato. Non dovrebbe sapere come mi chiamo, eppure lo sa.
Lei si muove ancora un paio di volte su di me, piantando le mani sul mio ventre per aiutarsi a sollevarsi e ridiscendermi addosso, divorandomi come una belva famelica.
Sfregamento meccanico.
So che sto scopando ma non sto provando niente.
Vengo solo per sfregamento meccanico, perché non sto provando alcun piacere.
Dopo essere venuto resto inerme sul letto, non ho neanche il fiatone. Lei ce l’ha, invece. Ma solo perché s’è agitata come un’indemoniata. Lei non è venuta, glielo leggo sulla faccia perché anche io so leggere la faccia delle donne. E, oltretutto, lei finge bene, ma Bill finge meglio. E io lo interpreto come un libro aperto.
Questa ragazza – Lucrezia? Lavinia? Lorena? Me l’ha detto, come si chiamava. Non stavo ascoltando. Stavo ascoltando e non lo ricordo? – dovrà impegnarsi molto di più, se spera di ingannarmi.
Recupera il ritmo nel respiro e mi si stacca di dosso, affondando nel materasso accanto a me. Una molla ribelle le si conficca nella schiena e lei geme di dolore, si solleva appena dal letto e poi si distende nuovamente, cercando a tentoni una posizione migliore.
Allungo una mano verso i jeans abbandonati sulla sedia accanto al letto e frugo nelle tasche. Ci metto un po’ a trovare sigarette ed accendino, ma quando le trovo ci metto meno di un secondo a portarne una alle labbra ed accenderla. Aspiro lentamente, gustando il sapore del tabacco sulla lingua mentre scivola in sbuffi di fumo giù per la trachea e fino ai polmoni, dove lo trattengo un istante prima di espirarlo.
Bill finge di detestare il fatto che fumi. Finge di aver smesso di farlo e mi rimprovera perché invece io continuo. Finge di non riuscire a tollerarne l’odore, perfino il pensiero. Non ho bisogno di beccarlo a fumare di nascosto per sapere che lo fa. Gli sento addosso la puzza anche da lontano. Nessun altro riesce, il suo alito sa sempre di menta e le sue mani di sapone, e sono sempre fresche come appena lavate.
Questo succede solo perché, appunto, si lava spesso.
Mio fratello non tollera di avere addosso tracce di qualcosa che non sia sé stesso, o meglio, l’idea di sé stesso che pretende di dare in pasto agli altri. E quest’intolleranza, no, non la finge. Ecco perché, ogni traccia che gli resta addosso, lui la cancella con solerzia, prima di tornare a mostrarsi agli occhi del mondo.
Bill non tollera neanche di avere addosso tracce di me.
Usiamo due profumi diversi, e durante le sessioni fotografiche spesso siamo costretti a condividere spazi ristretti o stare appiccicati come sardine, quindi capita che il mio profumo – più forte del suo – gli si attacchi addosso. Questo lo fa soffocare. Quando succede, Bill va a cambiarsi, e se può si fa una doccia.
Io so perché lo fa. Non perché odi me o la mia presenza, ma perché gli interi primi diciott’anni della propria esistenza Bill li ha passati a difendere con forza ciò che è, in una guerra continua intollerabilmente violenta combattuta contro tutto il resto del mondo. Tenere addosso qualcosa che non appartenga alla sua identità per lui sarebbe peggio di una sconfitta plateale.
Ecco perché odia sentirsi addosso il mio profumo.
No, non finge neanche questo.
Anche se a volte vorrei lo facesse.
*
Non saprei, davvero. Non so cosa è scattato nella mia testa il giorno in cui ho pensato per la prima volta che avrei voluto scopare con Bill, che mi sarebbe piaciuto fargli scorrere addosso le mani, saggiare la consistenza della pelle tesa e bianca sotto le dita, percepire il guizzo dei muscoli appena sotto la superficie e la durezza compatta delle ossa in profondità. Qualcosa deve essere successo, anche se non ricordo che l’odore di Bill o i suoi sorrisi o il suo tono di voce fossero diversi, sensuali al punto da abbagliarmi.
Bill ha un modo di fare molto seducente. Non è una cosa chiaramente sessuale, è una cosa generale. Anche se ogni tanto mi diverto a dire che il leader del gruppo avrei dovuto essere io, in realtà so bene che non sarebbe mai stato possibile. Non perché io non sarei stato in grado di trovare il carisma necessario, ma perché Bill brilla di luce propria. Bill ti fissa negli occhi coi propri e riesce a farti credere di stare guardando la cosa più straordinaria dell’universo anche se in fondo sono solo un paio di anonimi occhi castani. Bill ti lancia un sorriso di traverso e riesce non solo a mandarti in paranoia chiedendoti se fosse rivolto a te o a qualcun altro perché, oddio!, non può davvero aver sorriso proprio a te!, ma riesce anche a fare in modo che, una volta che ti adatti al pensiero, tu possa sentirti anche un po’ speciale. Solo perché ti ha considerato. Bill solleva una mano nella tua direzione, anche solo per salutarti, e tu sei costretto a seguire il movimento delle sue dita, perché forzano all’attenzione, ti inchiodano immobile dove sei e ti lasciano solo quando si fermano. La voce di Bill è entusiasta e avvolgente, ti cattura con una sola parola e non mostra mai un’incertezza. Anche quando lo guardi, e pensi che dovrebbe essere commosso, o irritato, o confuso, o chissà cos’altro perché magari è successo qualcosa di destabilizzante ed è assurdo che lui sia così calmo e rilassato, lui non mostra mai un cedimento. Se la sua voce trema, è perché lui l’ha lasciata tremare. Se si incrina, è perché lui ha lasciato che s’incrinasse. Perché voleva scatenare in te qualche reazione e ha premuto il pulsante giusto per generarla.
Non lo fa perché è studiato così. Non del tutto, almeno.
Oddio, non sono ancora così perso da pensare che i suoi siano comportamenti sempre naturali. È ovvio che è cosciente del potere che ha sulle persone. È ovvio che sfrutta il suo fascino a proprio favore. È ovvio che si compiace di sé stesso, quando riesce a rigirarti fra le mani come una marionetta.
Però gran parte di questi atteggiamenti erano già lì quando lui era solo un bambino e non sapeva come comportarsi su un palcoscenico. Erano già lì quando il mondo, di lui, non sapeva niente. Quando il suo nome aveva una certa importanza solo fra le mura domestiche.
Erano già lì, quegli atteggiamenti, erano lì sotto forma di bocciolo. Non erano ancora fioriti, ma c’erano.
Erano abbastanza per tenergli vicino chiunque lo conoscesse appena un po’ sotto la superficie.
…almeno, erano abbastanza per tenergli vicino me.
Sono stato il banco prova di mio fratello così a lungo che non ricordo neanche quand’è cominciata. Scopriva che, sbattendo le ciglia più o meno velocemente, poteva ottenere una qualche concessione in più da mamma? Era su di me che veniva a testare l’effetto delle variazioni sul tema. Scopriva che un broncio più o meno pronunciato equivaleva a un regalo carino da parte di Gordon? Eccolo che ritornava da me per verificare che funzionasse anche con qualcun altro.
E così sempre, così per anni.
Finché erano le palpebre in lento movimento dall’alto verso il basso, finché erano le labbra che si arricciavano in una smorfia offesa, potevo reggerlo. Finché eravamo entrambi bambini, non era un problema.
Ma poi i gesti sono diventati sempre più espliciti, sempre più sensuali. Non per tutti, chiaramente. Ma per la percezione che avevo di lui, sì.
Forse è questo che è successo, il primo dei sette giorni immaginari in cui sono impazzito.
Forse Bill s’è presentato davanti a me ed ha provato una nuova mossa. Un nuovo modo di ravviarsi i capelli dietro le orecchie, o di inumidire le labbra prima di riprendere a parlare. Non lo ricordo. Non lo ricorderò mai, non potrò mai tornare indietro con la memoria e focalizzare quell’attimo, perché sarà stato così simile a milioni di altri che sul momento probabilmente non ci avrò nemmeno fatto caso.
Io no.
Cervello, cuore e cazzo sì.
*
Io non sono un illuso.
Non credo che quello che provo per lui durerà in eterno.
E non sono un romantico.
Non credo che il non poterlo avere alimenterà il fuoco della mia passione per sempre.
So che prima o poi mi stancherò. So che, se riesco a reggere abbastanza bene da oltrepassare quel punto senza far trapelare neanche uno dei sentimenti che sto provando in questo periodo, tutto si sarà risolto per il meglio.
Io so che i desideri incestuosi sono sbagliati. Non perché penso sia sbagliato in sé il desiderio di scoparsi un parente, ma perché credo fermamente che una persona disposta a passare l’inferno sotto il giudizio dell’opinione pubblica solo per una scopata sia completamente pazza.
Io non sono ancora pazzo a quel punto.
Non ho alcuna intenzione di sottopormi ad un calvario.
E non lo faccio solo perché “non potrei sopportare di far soffrire Bill”. Mi interessa di lui, è vero che non vorrei mai farlo star male, ma non è questo il primo pensiero che ho quando penso ai motivi che mi impediscono di portare alla luce questi sentimenti e questi desideri.
Non voglio soffrire.
Non voglio soffrire per niente.
Non voglio soffrire per una scopata del cazzo.
È per questo che non dirò una parola.
E passerà.
Io sono volubile. Tanto quanto una puttana, se voglio.
*
Si allunga verso di me e chiede una sigaretta anche lei. Non riesco a negargliela, perché stavolta le ho letto in viso che era eccitata sul serio, e dal momento che non è venuta – perché venire non è il suo mestiere – posso concederle almeno questa consolazione.
Sono stato molto stupido. So bene come funzionano queste cose. Quando scopi una volta con un cliente random, è impossibile tu abbia un orgasmo. Ma quando le scopate cominciano a diventare due, tre, quattro, cinque, dieci, e si ripetono nel tempo, per giorni, settimane, fino a lambire il compimento di un mese, allora è più difficile. Perché la scopata di una volta diventa una relazione. E la relazione la aspetti, la coltivi, la proteggi, la custodisci.
Le donne hanno un cuore enorme. C’entrerebbe di tutto, se solo si provasse a farcelo stare.
È stata colpa mia.
Non avrei dovuto continuare a scegliere sempre lei.
Ma davvero, ci ho messo così tanto a trovare la negazione perfetta di Bill, che non ho pensato neanche per un secondo di poterne cercare un’altra. Non avrei mai potuto scegliere qualcuno coi capelli neri, o con gli occhi castani, o con un tatuaggio addosso. Per il resto, avrebbe potuto anche essere la sua antitesi, ma quel piccolo particolare mi avrebbe ricordato lui per sempre, e il perché di queste scopate si sarebbe perso nel nulla, vanificando le mie fatiche.
Mi dispiace che ora a pagarne le conseguenze sia lei.
Mi dispiace che in questo momento stia pensando di essere felice, perché è riuscita a fare ciò che nessun’altra ragazza di buona famiglia era riuscita a fare, ovvero accalappiare Tom Kaulitz per i capelli e impelagarlo in una storia.
Mi dispiace di riuscirle a leggere nei pensieri con tanta facilità, come fosse trasparente, perché tutto questo mi fa sentire dannatamente colpevole. E siccome so che il senso di colpa è la stessa cosa dalla quale stavo cercando di fuggire quando ho dato il via a tutto questo, mi sento ancora più stupido e impotente.
È una sensazione veramente fastidiosa.
Mi si allunga addosso ma se ne pente subito. Ultimamente si sta prendendo troppe libertà, lo sa. Il fatto che io non ne sia infastidito la spaventa e le destabilizza, perché non sa cosa aspettarsi da me. La parte razionale di lei non fa che ripeterle che sono solo un cliente, ma quella irrazionale martella come la fottuta pioggia, e continua a stordirla dicendole che le piaccio.
Anche tu mi piaci, Lucrezia o chi per te.
Vorrei davvero dirtelo e vorrei che tu potessi credere anche solo per un istante che fosse vero.
- Sei triste, stasera. – mormora, cercando di sistemarsi meglio sul cuscino.
Mi lascio andare ad un sorrisetto stentato e le rispondo che non vuole veramente sapere cosa mi passa per la testa. Non so neanche io perché rispondo così. È un chiaro invito a chiedermi di più, riesco a capirlo perfino io, nonostante sia stonato come mi avessero lobotomizzato. Avrò pulsioni suicide?
- Tu mettimi alla prova. – risponde lei suadente, e io mi volto a guardarla.
- Ti piacciono i Tokio Hotel, Lucrezia? – chiedo a bruciapelo.
Lei mi fissa con insistenza, senza battere ciglio. Non si chiama veramente Lucrezia, ma continuerà a lasciarsi chiamare così. E se anche la prossima volta dovessi cominciare a chiamarla Lavinia, non si arrabbierebbe – non si stupirebbe neanche. Lascerebbe che io la battezzassi di nuovo di continuo, per sempre. Un nome ha davvero poca importanza, alla fine.
- Sì che mi piacete. – risponde con un risolino da ragazzina, dandomi l’esatta idea di quale sia la sua età e facendomi pentire di così tante cose che mi confondo.
Mi passo una mano fra i capelli e mi pento anche di questo. Le dita restano imprigionate fra le ciocche e devo sfilarle via di prepotenza, facendomi male.
- Quindi conosci anche mio fratello Bill. – proseguo socchiudendo gli occhi, cercando di scrutare le sue reazioni senza che si accorga che lo sto facendo.
Lei annuisce entusiasta.
Chissà se ha una vaga idea di ciò che sto per dirle.
Chissà se se lo aspetta.
Chissà se, anche solo per una volta, una nostra fan ha davvero provato a immaginare come sarebbe stato se tutti i suoi vaneggiamenti a riguardo di una possibile relazione fra me e mio fratello potessero rivelarsi realistici. Di più, reali.
- Mi piace Bill, sai? – le dico tranquillamente.
Dirlo è semplice.
È semplice come il sesso.
Non è piacevole altrettanto, però. È strano, appena le parole mi sono uscite dalle labbra mi sono sentito come privato di un pezzo di me. Un pezzo di qualcosa necessaria alla sopravvivenza, un pezzo di un qualche organo veramente importante, stomaco, polmoni, reni, una cosa del genere. Un pezzo di qualcosa che magari senza quel frammento continuerà a tirare avanti, ma così assillata dagli stenti che avrebbe preferito non sopravvivere affatto.
Lei mi guarda come non sapesse cosa aspettarsi da me, e in effetti non posso darle torto. Rido.
- Non sei contenta? – commento con tono quasi derisorio, - Credevo che a voi fan la cosa piacesse.
Lei fa una smorfia e scivola sul materasso, allontanandosi da me e trattenendo la sigaretta fra le labbra, mentre fissa il soffitto con aria annoiata.
- Non siamo tutte fan del twincest. – spiega atona, - A me piaceva Bill.
Rido ancora, forte, tanto che mi trema la gola.
- Che sfiga! – le dico, battendole una mano sulla spalla. Lei fa un’altra smorfia, per mostrare tutto il disappunto che prova nei confronti della mia mancanza di delicatezza, e poi massaggia il punto dolente con una carezza distratta.
Io non chiedo scusa.
- Anche tu non fai completamente schifo.
So di piacerle. E so anche che se mi sta parlando così è perché l’ho ferita, nel modo lieve e persistente in cui feriscono le cose in cui fingi di non credere, perché sai che l’illusione vera, quella in cui speri davvero, è mortale. Come poche altre cose nel mondo.
Non avrei dovuto parlare.
- State insieme? – chiede, fingendo disinteresse.
- Ti pare possibile? – ritorco con un mezzo sorriso ironico.
- No, ma sinceramente non mi pareva possibile neanche che fra voi due ci fosse realmente qualcosa, quindi-
- Fra noi due non c’è niente. – preciso ansioso, sollevandomi su un gomito e guardandola attentamente, per farle capire che sono serio e non è una frase di circostanza detta per nascondere chissà che segreto scabroso.
David ci ha insegnato subito l’importanza della chiarezza. Quando ha visto che piega stavano prendendo i gusti di una parte del target al quale ci rivolgevamo, ci ha chiamati tutti e quattro in ufficio e ci ha spiegato che sul palco e durante le interviste avremmo potuto fare e dire tutto quello che volevamo, tutto quello che avremmo ritenuto opportuno utilizzare per alimentare l’affetto dei fan e, conseguentemente, anche le vendite. Ma ci ha detto anche che, se non volevamo grane nella nostra vita privata, almeno in quella avremmo dovuto essere sempre molto chiari e precisi, in modo che la gente capisse e pensasse solo ciò che volevamo capisse e pensasse. Senza lasciare spazio alle fantasie o ai giochetti strani.
Mio fratello non ha mai giocato davvero, con me. Per quanto in pubblico possa sembrare che la nostra relazione a volte sfiori i limiti del naturale gettandosi nell’illecito, in privato l’unica cosa illecita sono le sberle che mi tira sulla testa quando mi ostino a comportarmi in qualche modo che lui non approva.
- Mi piacerebbe vivere nella testa delle fan, a volte. – continuo, tornando a distendermi sul materasso, - Entrare lì dentro e vedere che tipo di vita ho. Se è meglio o peggio. Se vale la pena.
- Non ti piacerebbe vivere nella mia testa. Non adesso, almeno.
- Oddio. – ridacchio divertito, - Non andare in paranoia, adesso. Non ti ho rubato Bill, hai ancora delle possibilità. Fingi di non essere una fan dei Tokio Hotel e di amarlo per quello che è e vedrai che avrai fortuna. A Bill piacciono le cose finte, ci si trova a suo agio.
- Tom… - sospira, esalando uno sbuffo di fumo.
- Sì, lo so. – la interrompo, stringendo i denti con uno scatto secco e fastidioso. Sto dicendo cattiverie gratuite. Le sto dicendo perché sono nervoso. Parlare mi ha reso nervoso.
Non avrei davvero dovuto farlo.
- Io avevo un’amica… - dice lei, parlando a bassa voce, come cercasse di recuperare fra i ricordi qualcosa che non riesce ad afferrare pienamente, - Non qui. Ad Augsburg, dove abitavo prima.
- Cazzo… - visualizzo la Germania nella mente, lo faccio con poco sforzo perché Bill sta sempre molto attento ai percorsi dei tour e convince anche me a stargli dietro, - Stavi così lontano? Quando ti sei trasferita?
- Ormai è passato più di un anno. – mi lancia un’occhiata, e io la ricambio, sollevando le sopracciglia, - Non voglio parlare di questo. Comunque sia, lì andavo al liceo e avevo un’amica che era davvero ossessionata dai Tokio Hotel. Andavo spesso a studiare da lei, e la sua stanza mi terrorizzava. Non hai idea di quanti poster aveva attaccati alle pareti.
Rido, e anche lei si prende qualche secondo per farlo.
- Io mi sentivo quasi in imbarazzo nei suoi confronti. In fondo, voglio dire, eravate- siete anche più piccoli di noi di un anno. Era allucinante, per me, che potesse sentirsi così sconvolta da persone che in fondo non erano niente più che coetanei.
Annuisco, aspirando dalla sigaretta ed espellendo il fumo dalle narici.
- È il potere della televisione. – la rassicuro, - Nessuno ci amerebbe tanto se non ci fosse lo schermo in mezzo. La televisione trasforma le cose banali in cose interessanti.
- Bill non è banale. – insiste lei, piccata come l’avessi offesa personalmente.
Sollevo le braccia e le incrocio dietro la nuca, e ci rifletto sul serio.
- No, Bill forse non lo è. – concedo soprappensiero, - Ma io e tu siamo le persone meno adatte per stabilirlo.
- E chi è che dovrebbe stabilirlo? – mi chiede, ridendo con sufficienza. Non si dà per vinta. – Qualche critico musicale del cazzo il cui ultimo ascolto risale a Paganini e che non è in grado di capire che i tempi cambiano?
Rido ancora. In questa ragazza c’è qualcosa di simpatico – oddio, non posso davvero aver utilizzato questo termine nei suoi confronti, povera Lucrezia… - qualcosa che mi impedisce di pentirmi del tutto di averle detto ciò che provo.
- Hai un’idea troppo dolce dei critici musicali. Non hanno davvero bisogno di aver ascoltato Paganini, per spalarti merda addosso.
Lei scrolla le spalle come non le interessasse un accidenti di quanto detto fino ad ora.
- Comunque sia, se ti sei innamorato di lui, non può essere così banale.
Annuisco. Mi fa bene crederlo. Mi fa bene pensare a Bill come ad una persona fuori dal comune, qualcosa che non si ferma a un corpo e una parlantina sciolta, qualcosa anche oltre alla sua presenza. Mi fa bene perché mi rimette al mio posto. Fra quelli che guardano e non toccano.
Mi fa bene, una volta tanto, non prendere ciò che voglio anche a costo di usare la forza.
Penso che, al di là dell’avermi fatto completamente impazzire, l’influenza di Bill su di me sia in qualche modo benefica.
E una cosa del genere la penso ogni volta. Ogni volta riesco a recuperare un motivo più o meno valido per sollevarmi da questo letto, rimettermi in ordine, camminare a testa china fino ad Oranienburger Straße, afferrare un taxi e farmi riportare a casa.
Perciò lo faccio anche oggi.
Non cambia niente l’averlo detto a qualcuno. Non cambia niente anche se faccio il poeta tragico e mi angoscio da solo cercando di capire se qualcosa cambierebbe, per esempio se mi mettessi sulla cima di un palazzo, afferrassi un megafono e lo confessassi al mondo intero.
Lucrezia mi lascia andare senza dire una parola, guardando dal letto i soldi che ho lasciato sul comodino. Sa che tornerò e lo so anche io. So che è piena di domande e lo sono anche io. Sappiamo entrambi che farei meglio a cambiare giro, la prossima volta, così come sappiamo che non lo farò.
Bill ama dire che io generalmente non rifletto.
Siccome mi piace dargli ragione, eviterò di contraddirlo anche in questo caso.
*
Nel momento in cui entro in casa, Bill è seduto sul divano, raggomitolato su sé stesso e sotto una coperta. Si passa le unghia sulle labbra come fa sempre quando è nervoso e vorrebbe mangiucchiarsele ma, per ovvi motivi, non può farlo. Fissa con aria irritata e scontenta il televisore, anche se non sembra vedere realmente le immagini che danzano sullo schermo, davanti ai suoi occhi.
- Tornato. – notifico piatto, poggiando le chiavi sul vassoio d’argento del mobile ad angolo.
- Non fare casino. – mi rimprovera lui, senza staccare gli occhi dalla tv.
- Scusa.
Non mi sto scusando davvero. Lo intuisce, e solo allora si volta a guardarmi, con uno scatto repentino che agita la coda alta dietro la testa. Ha fatto le pulizie, nel pomeriggio. Ha addosso una vecchia tuta, non c’è traccia di trucco sul suo viso né di smalto sulle sue unghie. Probabilmente non è uscito per tutto il giorno. Me lo rinfaccerà alla prima occasione favorevole, ma io so che stare solo in casa gli piace. Gli piace sentirsi padrone di un piccolo mondo del quale può decidere le sorti.
Così come gli piace sentirsi padrone di piccoli sudditi da rigirarsi fra le dita.
- Ti rendi conto di che ore sono?! – mi attacca duramente. Non ha nemmeno bisogno di urlare, gli basta alzare giusto un po’ il tono di voce.
Lascio perdere il piano iniziale – che comprendeva sgattaiolare silenziosamente in camera e dormire fino a quando lo stomaco non mi avesse svegliato, possibilmente dopo un paio di giorni – e mi muovo stancamente verso di lui, lasciandomi ricadere sul divano al suo fianco.
- Potevi andare a dormire. – suggerisco pacato, abbandonando le braccia in grembo e guardandolo dritto negli occhi.
- Non ti ho aspettato sveglio. – si limita ad osservare lui, con aria così sicura che non posso fare a meno di credergli, anche se so che mente. – Non avevo sonno.
Sorrido.
- Neanche io. È per questo che sono tornato tardi.
E ora vorrei poter dire che anche lui mi sta sorridendo. Che si sta abbassando a seguire le regole del mio gioco e che, per una volta, sta giocando con me e non si sta prendendo gioco di me.
Ma in questo momento lui non sta veramente sorridendo. Sta solo ghignando. E lo sta facendo perché non ha idea di cosa mi gira per la testa – o forse sì e non gl’importa – e sono questi, davvero, gli unici momenti in cui mi andrebbe di afferrarlo per le spalle, baciarlo con violenza, sbatterlo su questo divano e dirglielo. Una volta sola, sono sicuro che basterebbe. Non per romanticismo, non perché lo ami e non perché me lo voglio fare. Per cancellargli quel cazzo di ghigno dalla faccia, solo questo.
Ma mi freno.
Rimango sul divano e continuo a ridere come un idiota, fingendo di non possedere questo vantaggio – che, per quanto inutile, è pure sempre un vantaggio. Fingendo di farmi sconfiggere. E di non essere io a dargliela vinta.
Nonostante tutto, sono davvero convinto sia più comodo così.
Passerà. Lo so.
Sono volubile anche io, quando voglio…
Sono volubile anche io.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Fluff, Incest.
- Tom Kaulitz non è una femmina e non è neanche granché sensibile, ma anche lui ha dei momenti in cui si sente trascurato e vorrebbe ricevere delle attenzioni. Peccato che, stavolta, le attenzioni di Bill siano tutte catalizzate da un'altra parte...
Note: Signorine *_____*!!! Questo è stato un attacco di pucceria non normale, mh? O_ò Chiedo perdono per eventuali e plausibilissime carie ai denti -.-
La colpa di tutto ciò, comunque, non è mia, ma di Ana. Che, ne approfitto per specificarlo ancora una volta, è mia. Di mia proprietà. E siccome sono gelosa, be’, non allungate troppo le mani ù.ù Dicevo? Ah, sì, l’idea di base. Stavo gioiosamente rotolandomi nell’ozio sul divano, quando il mio cellulare squilla e leggo un nuovo messaggio. Era Ana che, sbrilluccicando, mi chiedeva una fic in cui Bill cantasse I Wanna Have Your Babies di Natasha Bedingfield. Aggiungendo poco dopo che desiderava che il “mh-hm-mh-hm-mh-hm” che riempie la canzone stessa fosse cantato da Tomi XD Dopo un momento di sconvolgimento totale, mi sono ritrovata a risponderle “ti va bene una flashfic?” XD Risposta alla quale Ana ha replicato dichiarandomi il proprio amore ù.ù A quel punto la fanfiction andava decisamente scritta è____é!!! E così è venuta fuori questa pucceria semi-seria e semi-lol in due paginette word piene <3
Siccome è stupida, tenera e priva di senso, ovviamente io la amo XD E siccome la amo, e devo ringraziare Ana per avermi dato modo di scrivere qualcosa che mi piacesse, è a lei che, ovviamente, la dedico. Anche perché me l’ha richiesta, è il minimo °.° Spero piaccia anche a voi <3 Ciu :****
PS: Il video della canzone (che è adorabile) lo trovate qui <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I WANNA HAVE YOUR BABIES

- Stai di nuovo guardando quel documentario? – domando infastidito, continuando ad accordare la chitarra.
Quando mi metto ad accordare la chitarra, non è mai per motivi pratici. Nel senso che uno si mette ad accordare la chitarra quando poi deve mettersi anche ad usarla, non quando sa che, appena finito, la poserà sul divano o nella sua custodia, dove lei provvederà autonomamente a scordarsi di nuovo.
Io invece no. Accordo la chitarra anche quando non mi serve, semplicemente perché Bill una volta mi ha detto che gli piace osservarmi mentre lo faccio.
Non sono una femmina e non sono neanche sensibile come mio fratello, ma anche io ho dei momenti in cui mi piace ricevere delle attenzioni. Perciò, quando mi sento trascurato, mi metto ad accordare la chitarra, nella speranza che Bill si volti e mi sorrida. È tutto quello che chiedo.
Però ultimamente, da quando abbiamo messo la parabola, Bill è tutto preso dai documentari. Ne guarda decine al giorno, quando non abbiamo nulla da fare. E poi l’altroieri ha beccato per caso un documentario sulla gravidanza e non fa che guardarlo ogni volta che è in programmazione. E siccome è nuovo, e siccome è su un canale satellitare, lo programmano praticamente di continuo. Questa sarà almeno la quarta volta che lo vedo con gli occhi fissi sulla televisione ad osservare ecografie tridimensionali. E adesso sta registrando.
Mi risponde con un mugugno distratto, annuendo lentamente.
- Ma non ti annoi – insisto io, - ad ascoltare sempre le stesse cose?
Lui nega, agitando appena la lunga coda che tiene stretti dietro la nuca i capelli lievemente sporchi – mio fratello adora lasciarsi un po’ andare, quando è in vacanza.
- È interessante. – argomenta, inumidendosi le labbra con fare pensoso.
- Ma che te ne frega, scusa?! – borbotto io, adesso adirato, - Tanto mica rimarrai mai incinto!
Lui si volta a guardarmi, inarcando le sopracciglia.
- Lo so. – risponde gelido. Prende il telecomando fra le mani ed abbassa il volume, sciogliendo le gambe che teneva intrecciate sotto il sedere per poi alzarsi e venire ad accucciarsi davanti a me.
- Sai quando ci siamo messi insieme? – mi chiede, scrutandomi con attenzione.
Io roteo gli occhi. Odio quando comincia a fare discorsi simili. In un modo o nell’altro finisce sempre col farmi sentire tremendamente in colpa. E poi è assurdo usare espressioni come “mettersi insieme” coi propri fratelli. Uno non dovrebbe dire cose simili al proprio fratello.
…anche se è vero che con quel fratello ci si è messo insieme.
- Mh. – rispondo quindi, annuendo vagamente.
- Quando ci siamo messi insieme, - ripete lui, afferrandomi per il mento e costringendomi a guardarlo fisso negli occhi, - il pensiero che ci stessimo imbarcando in una relazione incestuosa non mi ha neanche sfiorato. Questo perché sapevo perfettamente chi eri, sapevo che eri mio fratello e sapevo che questo non cambiava ciò che provavo per te. – fa una pausa, mentre io schiudo le labbra come per fermarlo e non emetto comunque un fiato, rendendomi conto che ciò che sta per dirmi è importante per lui e, di conseguenza, anche per me. – Quello su cui ho riflettuto, invece, è stato il pensiero che questa cosa… la relazione con un maschio… potesse cambiarmi in quanto uomo. – sorride brevemente, sbuffando una risatina divertita. – Non ti nascondo che ho avuto paura… credo sia normale aver paura per la propria virilità, quando ci si mette con uno del tuo stesso sesso. E quindi ho giurato a me stesso che non avrei modificato una virgola di ciò che faceva di me un maschio, anche se mi stavo riscoprendo omosessuale.
- Bill, dove diavolo vuoi andare a parare?! – sbotto contrariato, - Queste cose le so! Lo so che sei un maschio anche se ti trucchi e scopiamo! Che roba, mica ti prendo per una femmina! Non l’ho mai fatto!
Stringe di più la presa sulla mia mascella, ed io mi zittisco istantaneamente, strizzando un po’ un occhio per il dolore. È ovvio che non è una femmina, mio fratello, accidenti a lui.
- Ciononostante, - riprende, come se non avessi neanche parlato, - ci sono cose che proprio non puoi evitare di cambiare, di te stesso. Anche se sei un uomo. Soprattutto quando sei molto innamorato della persona con cui stai, e ti rendi conto che, proprio in quanto maschio, non potrai avere da lui tutto quello che ti darebbe una donna… e neanche potrai dargli niente del genere.
Lo fisso, sconvolto, e in un attimo capisco.
Il documentario.
La gravidanza.
I bambini…
- Bill…
- Questo documentario mi piace. – mi interrompe, sorridendo sicuro, - Anche se purtroppo so che, io e te, un figlio non potremo mai averlo. – sospira silenziosamente, ed io capisco che lo fa solo per il movimento delle sue spalle che, lievissime, scivolano verso il basso, incurvandosi. – È solo che a volte mi piace immaginarlo. E fantasticare. Proprio perché so che… be’, resterà solo un sogno.
Mio fratello è un uomo forte.
Dopo aver parlato, mi lascia andare e si alza in piedi, tornando ad accoccolarsi sul divano davanti alla tv, abbracciando stretto un cuscino. Non vuole consolazioni, da me non si aspetta risposta, neanche una carezza che gli dia sicurezza.
Mio fratello è un uomo forte.
Coraggioso.
E sereno.
Sono tre delle caratteristiche per le quali lo amo tanto.
Mi alzo dalla poltrona e lo raggiungo, accomodandomi al suo fianco. Davanti a noi, i titoli di coda che scorrono verso il basso ci informano che il documentario s’è appena concluso. Bill fa una smorfia, interrompe la registrazione e spegne la televisione, alzandosi in piedi e raggiungendo la mensola sulla quale abbiamo messo lo stereo. Rovista un po’ fra i cd, poi ne prende uno e lo infila nel lettore, giocando un po’ coi tasti fino a raggiungere la traccia che vuole ascoltare. Poi, soddisfatto, torna a sedersi accanto a me e mi lancia un sorrisetto sornione.
Questa canzone non la conosco. Una voce femminile piuttosto ruvida ma sensuale. Non mi pare di averla mai sentita.
Le mie conoscenze della lingua inglese sono scarse, è vero. Perciò le strofe non riesco affatto a seguirle.
Però il ritornello lo capisco anche io.
I wanna have your babies, you’re serious like crazy.
I wanna have your babies, I see ‘em springing up like daisies.

Spalanco gli occhi e mi volto a guardare Bill. Lui mi fissa di rimando, canticchia la canzone e sorride tranquillo.
- Che colpo basso…! – sillabo sconvolto, lanciandogli una manata sulla spalla. Ha poco senso protestare così, però, perché lo schiaffo si trasforma in una carezza senza che io possa fare niente per fermarlo. E gli scivola addosso, supera le scapole e si aggrappa all’altro braccio.
Rido e lo stringo a me.
Non canticchierò assieme a lui. E non mi metterò a fare “lalala” seguendo i coretti della melodia.
Ma un mh-hm-mh-hm-mh-hm posso anche concederglielo, al mio fratellino coraggioso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Lime, OC (in un certo qual modo), Slash, Song-Fic, Threesome, What If?.
- Ipotesi. L'idea base sulla quale ruota il video di Spring Nicht è stata partorita da Tom Kaulitz. Ipotesi. Suo fratello si fa male durante le riprese. Ipotesi. Tom si sente in colpa. Ipotesi. Ed è come la fine del mondo.
Note: Ummamma, mi sembra assurdo scrivere queste note °_° Davvero, non potete capire °_° La trama per questa storia risale a tanti (ma tanti) mesi fa… io e la mia neechan Ana avevamo appena cominciato a fangirlare sui Tokio Hotel, avevamo da poco capito verso chi si orientavano le nostre preferenze XD ed a me è venuta in mente questa idea folle in cui, dopo il video di Spring Nicht, il povero Bill finiva in coma e da lì prendevano il via tutti gli eventi che si sono susseguiti in questa storia >.< Così, candidamente, sono andata da Ana e, sbrilluccicando come una bimba di fronte a un enorme cono gelato, le ho chiesto un modo per mandare in coma Bill *___* (mandando in paranoia lei, che aveva appena capito di amarlo X’D).
Poi, per una cosa o per l’altra, il progetto è stato accantonato. Se non altro perché io sono fermamente convinta che le trame più disparate possono nascere in qualsiasi momento, ma quando verrà il momento di metterle su carta sarà il tuo corpo a fartelo sapere è____é
Il tuo corpo o, come è successo in questa occasione, le circostanze °_° Perché non è normale che io ho questa storia in cantiere e sul forum dell’EFP vedo il concorso di Shian sui doppelgänger °_° Cioè, era come se il dio del fangirling stesse in qualche modo obbligandomi a scriverla °____° È indecente!
E così mi son messa al lavoro. E all’inizio pensavo sarebbe stata una cosa normale… voglio dire, non ho mai avuto il sospetto che me ne sarei uscita facile in cinque o sei pagine, ma di sicuro non sospettavo minimamente le proporzioni di drammone emo-twincest che la mia modesta storiella avrebbe preso °____° Infatti in più punti durante la stesura mi sono fatta prendere da insicurezze allucinanti perché mi pareva proprio che la storia stesse perdendo la verve iniziale per spegnersi nel niente ç_ç”””” Grazie al cielo le varie fangirl cui l’ho mandata in prelettura mi hanno rassicurata sulla resa (e a questo proposito vorrei ringraziare Ana, Meg, Lem, Ele ed anche Nai, che pur non essendo una fangirl dei gemelli è una mia fangirl, evidentemente XD e questo l’ha aiutata a sopportare questo dramma fino alla fine! Preoccupandosene anche °_°), altrimenti in più di un’occasione temo mi sarei arenata ._.
Un ringraziamento enorme anche a Yul, che sul mio archivio, in tag-board, mi ha fatto notare il testo di Use You, di Dave Gahan, dimostrando che lo showbiz fa paura. E siccome era una canzone troppo incest e cupa ed emoangst per non usarla… be’, l’ho usata appunto XD E un grazie a Shian per aver messo su il concorso e avermi di conseguenza obbligato “moralmente” a scriverla XD
Ah, importante: l’idea del video di Spring Nicht non è veramente di Tom XDDDDD (seh, figurarsi -.-) e durante le riprese Bill non s’è fatto assolutamente niente ù.ù
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DOPPELGÄNGER
wide awake on sleepy lust

Una enorme quantità di cavolate sciorinate nei momenti più improbabili – ovvero quando ci si trovava a dover fronteggiare un’intervista con qualche stronzo di conduttore desideroso di affondare quanto prima il fenomeno Tokio Hotel, e quindi ci si sarebbe aspettati da lui la quantità minima di buon senso da permettere al resto del mondo di prenderlo sul serio assieme a tutto il suo gruppo – aveva contribuito a renderlo “lo scemo” fra i gemelli Kaulitz. Non c’era alcun dubbio riguardo quella definizione.
Bill passava per quello intelligente, quello con la prontezza di spirito giusta, con le idee giuste, con l’atteggiamento giusto, con l’educazione giusta, eccetera eccetera. Tanto giusto da meritare un cenno d’approvazione perfino da parte di David – il più spietato fra i loro giudici, malgrado si trovasse fra le loro fila e non indossasse la divisa del nemico.
A Tom… be’, a Tom andavano gli scapaccioni, i rimproveri, gli “è mai possibile?!” ed i “sei disgustoso”. Ma non solo da parte del loro manager, no. Perfino da parte di Bill, di Gustav, di GeorgGEORG!!!, l’uomo la cui sensibilità ed educazione rasentavano quelle di un nerboruto vichingo incazzato e anche particolarmente affamato!
Neanche parlare liberamente di masturbazione e rivolgersi al proprio uccello chiamandolo “pennarello” fosse un crimine. Gli piaceva vedere tutti ridere, quando parlava in quel modo – e succedeva sempre – ma sapeva anche che era solo questione di tempo prima che la lucetta della telecamera si spegnesse, il conduttore li salutasse con un sorriso cordiale e si rifugiasse in camerino a commentare con malcelato disgusto la volgarità di quello coi rasta. Lo sapeva, perché era esattamente quello che facevano i suoi compagni. Primo fra tutti Bill.
In onda, si limitava ad una risata imbarazzata, trattenuta a stento da una mano a pressare forte sulle labbra.
Fuori onda, gli scoccava occhiatacce omicide e sibilava “Quando imparerai l’educazione, sarà troppo tardi”.
Per questo, adesso che stava vivendo il proprio tanto atteso momento di gloria, non poteva fare a meno di andarsene in giro per il backstage, il petto gonfio come quello di un galletto da combattimento – ma appena intuibile sotto l’ampia felpa e il voluminoso giaccone in piuma d’oca che indossava per proteggersi dal freddo – e il naso orgogliosamente puntato verso l’alto. Una camminata da principe.
- Piantala di andare in giro come un cretino.
La voce di Bill, lievemente velata da una punta di acidità, più che altro scherzosa, resa appena incerta da un tremito di freddo, interruppe i suoi sogni fantastici un attimo prima che cominciasse a vagheggiare di una possibile conquista del mondo, raggiungendolo alle spalle come uno sgambetto particolarmente vigliacco.
Ed infatti lui quasi inciampò, fermandosi a metà di un passo e rischiando di perdere l’equilibrio e capitombolare per terra da fermo come il peggiore degli idioti.
Bill si limitò a ridere come faceva sempre quando qualcosa lo divertiva molto ma non voleva darlo a vedere: una risatina piccola e incerta, appena un trillo fra le pieghe del silenzio del backstage, attraverso il quale non passava più nessuno, dal momento che regista ed operatori erano impegnati sul set a mettere a punto gli ultimi dettagli prima di cominciare a girare.
- Non mi dare del cretino. – protestò Tom, voltandosi a guardarlo, - Sarà merito mio se questo video verrà ricordato nei secoli dei secoli come la nostra migliore produzione.
Bill si strinse nelle spalle, arricciando le labbra.
- Per ora, è merito tuo solo il fatto che dieci minuti fa mi sono dovuto lasciare cadere dalla terrazza di un palazzo alto cento milioni di piani. – puntualizzò, strofinandosi le braccia sotto il giubbotto leggero appoggiato sulle spalle. – E non ero preoccupato dalla possibilità che i fili che mi reggevano potessero cedere, tanto quanto dal fatto che ero a maniche corte. Ti rendi conto di quanto freddo c’era?!
- Ero lì accanto a te… - gli ricordò il biondo, squadrandolo come fosse il più irriconoscente dei fratelli e piantando le mani sui fianchi.
- Sì, ma circondato di piuma d’oca. – ci tenne a precisare il moro, inarcando le sopracciglia.
Tom roteò gli occhi, esasperato.
- Ma sei mai contento, tu?! – protestò, andandogli incontro e passandogli un braccio attorno al collo. Finse di stringere come per strozzarlo quando in realtà, al più, quella stretta avrebbe potuto essere interpretata come una carezza affettuosa.
Bill rise ancora. Quella volta diversamente. Quella volta, come quando era semplicemente felice. Rise e si appese al suo avambraccio con le mani, affondando nel piumino con le unghie come a voler raggiungere pelle e carne sotto.
- Lo sarei moltissimo, se mi trovassi, chessò, in albergo, a letto e sotto un piumone caldissimo!
- Sì, certo! – annuì Tom, stringendo ancora un po’, - E magari poi vorresti anche una groupie di quelle più disponibili e una cioccolata calda per quando avrete finito! Te lo dico io, fratellino, tu non hai alcuno spirito di sacrificio!
Ennesima risata.
Però a Tom fece male, perché era la risata imbarazzata di quando erano in onda. Quella nascosta per finta. Quella piena di compassione. E irritazione. E fastidio. Quella di quando diceva una cazzata, e Tom odiava dire cazzate a Bill in privato. Aveva sempre come l’impressione di costringerlo ad allontanarsi da lui, quando lo faceva.
Ma il momento passò, e Bill tornò ad affondargli contro, cercando di riscaldarsi con la sua vicinanza.
- Ha parlato l’asceta! – si sentì in dovere di commentare. E quindi Tom si sentì in dovere di rispondere.
- Devi comunque ammettere che l’idea che ho avuto per il video è stata geniale. – argomentò, trascinando il fratello, senza lasciarlo neanche per un attimo, fino a una rampa di scale, sulla quale prese posto, tirandoselo addosso e lasciando che si sistemasse sul gradino inferiore, fra le sue gambe. Da quella posizione era anche più facile abbracciarlo, considerò con soddisfazione, affondando il mento fra i suoi capelli.
- In effetti è vero. – rispose Bill, pensoso. Le vibrazioni della sua voce raggiungevano Tom attraverso le ossa, su fino alla gola. Era come sentirlo parlare dall’interno di sé stesso, una sensazione magnifica. – David infatti non poteva crederci. – concluse il minore, con aria di superiorità.
- È uno stronzo. – commentò semplicemente Tom, affondando di più fra i suoi capelli, fino a strofinarli contro la punta del naso, gelata perché priva di protezioni, - E anche tu lo sei! Ma io so che l’idea di due Bill in giro per il mondo farà impazzire le fan. Tutti mi ringrazieranno per questo!
- Frena, frena… - lo riprese Bill, senza pietà, aderendo con la schiena al suo petto mentre Tom gli sistemava la giacca sulle spalle, - Guarda che è solo un video…
- E meno male! – aggiunse il rasta, strizzandolo con un briciolo di crudeltà in più, - Già tu da solo sei abbastanza una piaga!
Bill gli scoccò un’occhiataccia di traverso, provando senza particolare successo a liberarsi dalla sua stretta, e Tom ghignò vittorioso.
- Quando avete finito di amoreggiare… - rimbrottò David, mani sui fianchi e corteo agitato di cameramen capitanati da regista ansioso al seguito, - Bill, ci faresti la grazia di portare il culo sul set? Vorrei concludere le riprese di questo video entro il prossimo millennio, se non vi dispiace.
I due si separarono immediatamente, scattando in piedi come scolari appena rimproverati dal professore di matematica. Bill annuì e si avvicinò a Jost, che sorrise ironicamente, cercando di nascondere il divertimento che sempre provava nel vedere che quei due piccoli teppisti erano perfettamente in grado di mandare a cagare senza troppi complimenti la loro stessa madre, ma davanti a lui non si azzardavano ad esalare un fiato neanche per forza.
Questione di educazione troppo permissiva, si disse. Bisogna saper riconoscere quando è il caso di utilizzare il pugno di ferro.
- Sei crudele, Dave! – protestò Tom con una smorfia scema sulle labbra, - Ed io che avrei potuto seguire l’illuminato esempio di Georg e Gustav e rimanermene in albergo a poltrire! Invece eccomi qui, che mi sacrifico per amore di mio fratello, ed entrambi mi trattate di merda, nonostante il merito di tutto questo sia mio!
David agitò una mano e sospirò, come per dire “sì, come ti pare”, e Bill ridacchiò sommessamente, muovendosi assieme al resto del gruppo per raggiungere la scena e concludere, finalmente, quelle riprese.
Erano stati due giorni spaventosi. E Tom aveva bisogno di un caffè.
Dato che conosceva a memoria quel momento – l’aveva ripassato in mente mille volte, se l’era rigirato fra i neuroni come fosse stata una cosa fisica da trattenere fra le mani, Bill su un ripiano di plastica rigida perfetto per imitare il parapetto della terrazza, il materasso doppio davanti a lui, retto da quattro fra i più forti e attenti membri della troupe, lui che fissa i pochi centimetri che lo separano da quel riparo morbido, lui che fa un passo, lui che si lascia andare, lui che finge di cadere, lui che simula un suicidio idiota, “in perfetta sicurezza”, gli avevano assicurato, “questa è l’idea migliore che abbiamo mai sentito!” – decise che poteva anche prendersi una pausa dall’osservazione ostinata del proprio fratellino in azione, e si diresse tranquillamente verso il distributore di bevande in fondo al corridoio.
Inserì l’adeguato compenso all’interno della macchinetta – per quanto adeguato potesse considerarsi un euro per una decina di gocce di liquido nerastro ed insapore, che nulla aveva di anche solo vagamente somigliante al caffé – ed aspettò che il bicchierino si riempisse prima di recuperarlo dal suo scomparto.
Alla fine, pensò, era sempre in quel modo che si risolveva, fra lui e Bill. Lui protestava di essere un genio incompreso, Bill lo prendeva in giro, questa cosa puntualmente lo infastidiva e perciò rispondeva all’attacco con una difesa meschina e sciocca.
Non gli piaceva l’idea di far sentire Bill come qualcosa in meno che adorato. Perché lui lo adorava.
Ma, a volte, quelle stupide battute erano gli unici paletti che riusciva a porgli davanti per evitare che il gemello lo facesse sentire abissalmente stupido.
In fondo, però, era una consolazione vana e di durata brevissima. Lo dimostravano i sensi di colpa che, come al solito, lo presero allo stomaco nel ripensare all’ennesima bastardata che gli aveva propinato.

Non penso davvero che tu sia una piaga…

Sospirò e, sorseggiando distrattamente il proprio caffé, cercò nelle tasche dei jeans un’altra moneta. Faceva effettivamente freddo, nonostante fossero al chiuso. Il sistema di riscaldamento non era abbastanza potente per riscaldare l’intero ambiente, e lo stanzone nel quale stavano girando la scena finale era enorme. Difficilmente lì suo fratello non avrebbe sofferto. Tanto più che era costretto a stare di nuovo senza giacca, solo con la maglietta.
Avrebbe dovuto pensare a un cappottino di pelle anche per il Bill suicida.
Dato che, in quel momento e solo in quel momento, la sua genialità l’aveva abbandonato per dedicarsi ad altro, così che lui non aveva potuto dotare il Bill suicida della giusta protezione contro le intemperie dell’inverno tedesco, si sarebbe fatto perdonare con un bel bicchierone di tè caldo. Era consapevole del fatto si trattasse giusto di un beverone appena aromatizzato, ma era sicuro che Bill avrebbe capito. Ed apprezzato l’intenzione.
*
S’era appunto chinato, molleggiando sui talloni davanti alla macchinetta per osservare il lento scorrere dell’acqua bollente dal beccuccio al bicchiere di plastica, attendendo che si esaurisse, quando alle spalle lo raggiunse un boato.
Non avrebbe saputo descriverlo meglio.
Perché non era un urlo.
Non era un urlo, quella massa di voci così enorme e indistinta e forte, tanto da far tremare le pareti. Non era un urlo, era un terremoto, al più. Scattò in piedi, dimenticando del tutto il bicchiere dentro l’apparecchio, e si voltò. Dall’apertura in fondo al corridoio, all’inizio non venne fuori niente. Soltanto altro vociare indistinto. Meno forte, meno spaventoso. Ugualmente ansioso.
Fra le mille parole, non ne riconobbe che una.

Ambulanza.

Ambulanza? Ambulanza perché?
Ambulanza per chi?

Pietrificato, rimase lì, in mezzo al niente, con la sola compagnia di un distributore automatico ronzante alle spalle.
Poi, David.
O meglio, una voce che ricordava quella di David. Quella di David quando era veramente infuriato, quando lui disubbidiva e trascinava Bill in qualche follia del cazzo, o quando le prove andavano male, o quando durante un soundcheck rompevano le palle a un qualche tecnico del suono o delle luci, o quando Georg si sfondava d’alcool da qualche parte e finiva col provarci con tutte le cameriere che gli capitassero sottomano, o quando Bill aveva un attacco di nostalgia improvvisa e si faceva lagnoso e intollerabile, oltre che assolutamente ingestibile. Una voce simile, ma molto più preoccupata. Molto più agitata. Molto più nervosa.
- State zitti, cazzo, non sento niente! – strillava.
Solo allora, solo quando lo vide mettere un piede in corridoio ed allontanarsi dal set, Tom osò muovere un passo. Lo mosse nella sua direzione, ma David non si accorse di lui. Girò su se stesso e prese a camminare avanti e indietro, come un ossesso, dando indicazioni al telefono per spiegare all’operatore dall’altro lato della cornetta come raggiungere il luogo esatto in cui si trovavano. Il luogo esatto in cui trovare ciò che avrebbero dovuto prendere.
Che doveva essere sicuramente un tecnico. Sicuramente qualcuno che aveva fatto un errore e s’era bruciato. O qualcuno che era caduto e s’era fatto male.
Qualcuno.
Che.
Non.
Fosse.
Bill.

Ma nessuno, nessuno a parte Bill avrebbe potuto giustificare quello sguardo negli occhi di David, quella camminata isterica, quel contorcersi di viscere che Tom stesso sentiva appena sotto lo stomaco, quella paura immotivata, improvvisa, tanto forte e antica e sconosciuta da sembrare un impulso primitivo. Solo Bill.
Solo Bill.
- Bill… - disse a mezza voce. Quasi non si sentì neanche lui.
Ma David, lui lo sentì. Si fermò nel mezzo del corridoio, gli alzò addosso uno sguardo terrorizzato ed allontanò il cellulare dall’orecchio, annuendo un’ultima volta, come l’operatore potesse vederlo.
- Tom. – disse David, sollevando le braccia come avrebbe fatto se si fosse trovato davanti ad una bestia feroce, ed andandogli incontro lentamente, - Calmati.
- Bill! – ripeté Tom, e lo ripeté perché in quel preciso istante si sentiva in grado di pensare solo al suo nome. Non c’era spazio per nessun’altra parola, non esisteva niente.
Nient’altro oltre Bill.
Perché nient’altro poteva giustificare tutto quel dolore.
Si slanciò in avanti, e David lo afferrò per le spalle. Tom non era infastidito dalla propria gracilissima costituzione, ma in quel momento avrebbe desiderato essere un gigante alto più di due metri e largo almeno tre, per sfondare la resistenza dei muscoli compatti di David, forzare la sua stretta e oltrepassarlo, calpestandolo come fosse stato una formica.
Per fiondarsi da Bill.
Per vedere come stava.
- Non è niente di grave, Tom! – gli urlò David nell’orecchio, - L’ambulanza sta arrivando!
- Perché l’ambulanza?! – strillò lui a propria volta, - Cos’è successo a Bill?!
Una lenta nenia di “niente, niente, non preoccuparti, è tutto a posto” prese il posto dei pensieri irrazionali che gli avevano invaso il cervello fino a quel momento. Era irrazionale anche farsi cullare dalla voce di Jost, dal suo tono adesso morbido e rassicurante, da padre, di più, da fratello, ma lo fece lo stesso. Di quelle parole si riempì le orecchie. E la testa. E tutto il resto del corpo, finché non gli sembrò di riuscire a contenere solo quelle.
È tutto a posto.
Non preoccuparti.
Non è niente.

Si sistemerà tutto.

E non sarebbe stato meglio non ci fosse proprio niente da sistemare…?


- Il materasso ha ceduto… - una pausa. Forse David si stava chiedendo se fosse giusto dirglielo. Era sbagliato, ma Tom non glielo disse, perché tanto non sentiva più niente. In quel momento non lo stava davvero ascoltando. Il problema era che il suo cervello non poteva impedirsi di registrare quelle informazioni. – Un angolo è scappato di mano da uno dei tizi che lo reggevano. – E quindi? E quindi cosa, David? – Bill… - Bill cosa, David? – è stato sbalzato via… - E poi? – Ha battuto la testa…
Tom si fermò. Smise di strepitare, smise di agitarsi.
Probabilmente anche di respirare davvero.
Malgrado volesse vedere Bill, malgrado volesse andargli vicino, malgrado volesse toccarlo per assicurarsi fosse ancora tutto a posto, tutto come prima, tutto come una risata tenera soffiata a bassa voce prima di allontanarsi con un cenno di saluto, in realtà lui non voleva davvero guardarlo. Non voleva guardare suo fratello steso per terra in un lago di sangue. Non voleva guardare i suoi capelli bagnati e gocciolanti, non voleva guardare la ferita che probabilmente gli deturpava la fronte o chissà cos’altro, non voleva davvero guardare niente di tutto questo.
Perciò si abbandonò come svenuto fra le braccia di David. E, come sempre, David non lo tradì. Lo resse in piedi. Lo tenne ben stretto.
- Non si è ancora ripreso. Ma l’ambulanza sta per arrivare. Perciò sta’ tranquillo.
*
Nell’ambulanza diretta all’ospedale, con Bill privo di sensi mollemente adagiato su una barella ricoperta di carta immacolata già sporca del sangue che gli infermieri non erano riusciti tempestivamente a tamponare con le garze, non c’era chi avrebbe dovuto esserci.
Non c’erano Simone e Gordon, ancora a Loitsche ed ancora all’oscuro di tutto – perché David aveva pensato fosse più opportuno avvertirli solo quando avessero saputo qualcosa di certo.
Non c’era Jörg, che probabilmente sarebbe stato avvertito da Simone stessa – solo quando avesse saputo e solo quando avesse metabolizzato.
Non c’erano Gustav e Georg, che pure erano stati tempestivamente chiamati ed avvisati, e contro i quali David aveva dovuto minacciare di sguinzagliare l’intera security dell’albergo nel quale alloggiavano perché “smettessero di piagnucolare come mocciosi isterici e tornassero a dormire, che tanto Bill non si sarebbe rimesso in piedi solo per il loro convulso starnazzare notturno”.
Non c’era neanche David, che appena aveva visto Tom abbandonarglisi fra le braccia aveva pensato “merda” ed aveva deciso di rimanere con lui fino a quando non fosse stato necessario, perché tanto, per Tom, i medici non avrebbero potuto fare niente, mentre un buon medico era tutto quello che servisse a Bill.
E naturalmente non c’era Tom.
Tom che, in quel momento, stava semidisteso sul sedile posteriore della macchina di David, che seguiva l’ambulanza come un segugio fedele, a pochi metri di distanza, e fissava il vuoto buio oltre il finestrino, mordicchiando insistentemente il labbro inferiore e facendo occasionalmente tintinnare il piercing quando entrava in contatto coi denti.
David lo adocchiava nello specchietto retrovisore – spostato ad arte perché inquadrasse perfettamente la sua figura, centrato e per intero, come dentro una telecamera – ad intervalli regolari ogni dieci secondi, come volesse assicurarsi non usasse il finestrino per gettarsi in strada e porre fine alla massa enorme di sentimenti e sensazioni fangose che lo stavano ricoprendo e soffocando al punto da impedirgli di parlare se non per monosillabi.
- Va meglio? – gli chiese, stringendo la presa delle dita attorno al volante.
- No. – rispose Tom senza pensarci su più di mezzo secondo.
Non poteva andare meglio.
Sentiva che Bill non si era ancora ripreso.
E sarebbe stato sciocco ed infantile dirlo, oltre che vagamente falso, perché non riusciva davvero a percepire come stesse il proprio fratello, a quella manciata di metri che li separava, chiuso nell’ambulanza come in una scatola di sardine. Però riusciva a sentire benissimo come stava da sé. Riusciva a sentire che stava male, male da morire, male come mai. E si sentiva talmente preoccupato, e deluso da sé stesso, e colpevole, e inutile, e assente, che nella sua testa non c’era proprio spazio per l’ipotesi che le condizioni di Bill potessero essere migliorate, che lui potesse stare un po’ meglio.
Era caduto, aveva perso sangue, era svenuto e non s’era più ripreso, e tutto per colpa di una sua stupida idea.
Della più stupida delle sue idee.

Nessuno s’era ancora premurato di accusarlo. Neanche David, che in genere era sempre propenso a mollargli uno scapaccione sulla nuca ed insultarlo nelle maniere peggiori, s’era azzardato a dirgli una sillaba.
E dire che, per la prima volta in molto, moltissimo tempo, la sua colpa era così palese che a lui quasi veniva da ridere. E l’avrebbe fatto, se non fosse stato così sistematicamente certo che appena avesse schiuso le labbra sarebbe scoppiato a piangere come un idiota.
E non poteva piangere.
No. Nessun diritto di piangere.

*
- Tu aspetta qua fuori.
Si lasciò andare su una sedia in sala d’aspetto, impattando col sedere contro la plastica dura, fino a sentirla scricchiolare sotto di sé.
Avrebbe voluto afferrare David per un braccio e dirgli che quel teatrino di sicurezza, quella pallida imitazione di “è tutto a posto, reggo tutto io, non succederà niente di male”, poteva anche ficcarsela nel culo o usarla per pulirselo, perché era del tutto inutile. Tanto glielo si leggeva negli occhi che era terrorizzato a morte.
Come lo si poteva leggere nei suoi.
- Ci metterò un secondo.
Annuì meccanicamente, voltando lo sguardo intorno a sé. L’ospedale, o almeno la sala d’aspetto, era semivuota. Sembravano esserci più infermieri che pazienti bisognosi di cure.
Complimenti a Jost per la scelta.
L’avrebbe ringraziato per la discrezione in un altro momento. Un momento in cui fosse stato… più razionale.
Doveva essere proprio vero, quello che si diceva della paura. Che la fiuti, la scorgi nei cuori e negli occhi degli altri, e che ti atrofizza i sensi, paralizzandoti.
Tom aveva annuito senza volerlo realmente fare, e aveva rilasciato il capo all’indietro, contro il muro, cogliendo di sfuggita la figura di David imboccare un corridoio e sparire.
La paura poteva anche farti impazzire, e lui sapeva che nel suo caso aveva perfino buone possibilità di riuscirci.
Ne fu certo quando, un momento prima di chiudere gli occhi, vide Bill seduto su una sedia di fronte a sé. Capelli sparati in aria, cappotto di pelle e, stampato sul viso, il sorriso delle grandi occasioni. Quello soffice e tenero di quando si scusava. E sembrava voler dire non lo faccio più, Tomi. Perdonami.
Ma quello non poteva essere davvero Bill.
E, se anche lo fosse stato, Tom si sarebbe premurato di staccargli quel sorriso dalle labbra a morsi, se fosse stato necessario.
*
It’s killing me
To be in this room
I’ve gotta get out
I’ve gotta get out soon

Quando si risvegliò, il secondo di David si era prolungato in un millennio, e lui era tanto vecchio e stanco che avrebbe tranquillamente potuto dire di essere già pronto a morire.
- Dovresti tornare in albergo. – si sentì dire, e perciò spalancò gli occhi e li portò sulla figura del manager, incredulo.
- No! – disse, alzando la voce. E avrebbe aggiunto altro. Avrebbe cominciato a strillare che lui non aveva alcun diritto di chiedergli, no, di obbligarlo ad andarsene, e che si trovava esattamente nel posto in cui avrebbe dovuto trovarsi fin dall’inizio, ovvero al fianco di Bill, dal momento che non poteva essere al suo posto. E avrebbe strillato tanto che perfino Bill l’avrebbe sentito, in qualsiasi posto si trovasse.
Ma David lo conosceva. Abbastanza da provvedere con una mano sulla bocca, per zittirlo appena in tempo.
- Non dare di matto, Tom. È l’ultima cosa che ci serve. – disse il manager, seriamente, sedendoglisi accanto. Continuò a tenergli la mano pressata sulle labbra e, respirando affannosamente contro la sua pelle calda e leggermente sudata, Tom pensò che era ridicolo. Che tutta quella situazione era completamente ridicola. Erano ridicoli loro due, seduti in quella sala d’aspetto bianchissima e semivuota, era ridicola l’agitazione di Saki, che era andato in ambulanza con Bill e che, da quando ne era sceso, non aveva fatto che rimanere attaccato alla barella, col risultato che, adesso che la barella era stata portata in sala per l’operazione d’urgenza, s’era appiccicato al muro più vicino come fosse stato uno di quegli stupidi robottini incapaci di vedere che davanti hanno una parete e non possono attraversala, e quindi continuano a sbatterle contro nella speranza di sfondare le resistenze e passare altrove.
Ed era ridicolo anche lui. Bill.
Era ridicolo che potesse starsene su un lettino, sotto i ferri, incosciente.
Era ridicolo che potesse davvero farlo senza sentirsi in colpa per tutto il dolore che stava loro causando.
Si morse un labbro, e nel movimento sbavò un po’. Se ne accorse, lo trovò imbarazzante e disgustoso, ma David non tolse la mano.
- Saki. – chiamò invece a bassa voce, e la guardia del corpo sembrò come ridestarsi da un lungo sonno, andando loro incontro. – Riporta Tom in albergo. Per carità, fa’ in modo che entri senza che Georg e Gustav lo vedano. – si interruppe, per una breve riflessione. – Scusa se te lo chiedo, ma già che ci sei potresti controllare che quei due stiano realmente dormendo?
Saki annuì, sbuffando un sorriso intenerito e poggiando una mano sulla spalla di Tom.
Che non si mosse.
David lo guardò. Dritto negli occhi. Pochissimi secondi. La pressione delle dita appena un po’ più forte attorno alla mascella.
Dal momento che Tom sapeva che David non l’avrebbe mai abbracciato, e che quello sarebbe stato il contatto più consolatorio che avrebbe ricevuto fino a quando suo fratello non si fosse ripreso – e fino a quando, cioè, quello da abbracciare fosse stato lui – se lo fece bastare. Sospirò ed annuì.
David sorrise e spostò la mano sulla sua spalla, cercando di infondergli quel po’ di forza che gli era rimasta attraverso un paio di pacche decise.
Era ridicolo anche quello, in fondo, pensò Tom alzandosi e seguendo Saki verso l’uscita dell’ospedale. Nel momento in cui l’avesse visto uscire e fosse rimasto solo, David si sarebbe afflosciato su se stesso, avrebbe nascosto gli occhi dietro alle mani ed avrebbe esalato un sospiro tanto stremato e sconvolto che se qualcuno l’avesse sentito avrebbe pensato che non fosse solo un po’ d’aria ad abbandonargli i polmoni, ma la stessa vita. Chissà, probabilmente avrebbe perfino pianto, anche se prima di farsi vedere da qualcuno sarebbe andato a chiudersi in bagno.
- Non ti preoccupare, Tom, andrà tutto bene. – gli disse Saki, quando furono arrivati in albergo. – I medici sull’ambulanza hanno detto che non sembrava molto grave.
Era privo di conoscenza, avrebbe voluto ricordargli Tom, tu l’hai visto. E non di sfuggita, come me. Non hai dovuto accontentarti di un frammento di lui mentre la barella correva veloce per il corridoio fino in sala operatoria. L’hai guardato bene, per tutto il tempo. Come fai ad essere così tranquillo?
- Sì. – disse invece, annuendo come a rafforzare la validità della propria risposta. Sapeva che Saki avrebbe riferito tutti i particolari del suo comportamento a David, una volta che fosse tornato in ospedale, e non voleva preoccuparlo ulteriormente. Era meglio che la persona più vicina a Bill in quel momento non avesse altro che lui a cui pensare.
Le rassicuranti parole di Saki lo accompagnarono fino in camera, mentre si spogliava e si lasciava cadere esausto fra le coperte. Sapeva che non avrebbe dormito, ma era piacevole farsi cullare da qualcosa di morbido. E mentre si girava fra le lenzuola, sistemando il cuscino dietro la testa e fissando il soffitto con aria assente, quelle parole continuarono a girargli per la testa come una canzone un po’ stonata. E giravano, e giravano.
Giravano ancora, quando il telefono sul comodino squillò e lui si chinò a recuperare la cornetta per rispondere.
Forse fu per questo – perché ancora nella sua mente c’era solo la voce di Saki – che il timbro incerto eppure grave di David suonò così strano alle sue orecchie. Così irreale.
- È in coma.
Non doveva essere una cosa affatto grave?
Non doveva risolversi tutto in fretta?
Non doveva andare tutto a posto?

- I dottori sono fiduciosi. Dovrebbe riprendersi. Se… se supera la notte è fatta, dicono.
La progressione dei verbi era interessante.
Dal presente al condizionale in meno di dieci parole.
L’ipotetica finale, poi… il colpo di grazia.
- Tom? Ci sei?
Deglutì, sperò che David lo sentisse e lo prendesse come una risposta. E smettesse di parlare, una buona volta. Perché adesso no, non c’era proprio più niente da dire.
- …d’accordo. Senti, ti richiamo domani mattina. Non uscire dalla tua stanza, per favore. Per favore, Tom. Mi ascolti? Non uscire. Cerca di dormire. Dimmi che cercherai di dormire, Tom.
Schiuse le labbra, ma ne uscì solo un rantolo. Avrebbe voluto essere un sì – un sì, almeno, avrebbe chiuso la questione. Sarebbe stato falso, ma definitivo – ma non fu che un lamento strozzato.
- Ok… - rispose David, sospirando pesantemente. Tom poté immaginarlo passarsi una mano fra i capelli e poi lasciarla scivolare fra gli occhi, a massaggiare l’estremità superiore del naso. – Senti, vi sto rimandando Saki. Starà lui con voi. Se hai bisogno di qualcosa, chiamalo. Non… - Non dirmi di non preoccuparmi per Bill, David, non dirmelo, davvero, perché se me lo dici quant’è vero che sono vivo salto in piedi, ti raggiungo dovunque tu sia e ti azzanno alla giugulare, lo giuro, David, non dirmi di non preoccuparmi per Bill. – A Bill ci penso io. Cerca di riposare.
Tom tirò un respiro – il primo che gli sembrasse vero, per quella sera – ed interruppe la conversazione, rilasciando il capo sul cuscino e lasciando cadere il telefono al suo posto senza alcuna delicatezza.
Seguì il complicato disegno di ghirigori che decorava il soffitto, fino a quando non divenne una serie di macchie scure arrotolate su loro stesse, indistinguibili le une dalle altre. E si rese conto che non era un effetto ottico, no. Erano le lacrime. Quelle stesse che stavano rotolando giù lungo le sue guance, schiantandosi sul cuscino. Erano loro che gli impedivano di vedere bene.
Si morse l’interno di una guancia per non scoppiare in singhiozzi, e cercò di abituarsi allo spettacolo confuso, perché tanto non sarebbe cambiato per tutto il resto della notte.
*
Il primo pensiero sensato che gli attraversò la mente quando si svegliò, fu che il corpo umano è talmente inaffidabile ed infedele da dare la nausea, se solo ci si riflette su. Aveva giurato e spergiurato – be’, non consciamente, ma l’aveva fatto – che non avrebbe dormito. Non avrebbe chiuso occhio. Per quanto potesse sembrare stupido e infantile e melenso e deprimente, avrebbe pianto fino a non poterne più ed anche oltre, per tutta la notte. Questo era quello che s’era detto, fissando il soffitto.
E poi s’era addormentato.
Quel bastardo del suo corpo traditore aveva ceduto alla spossatezza e s’era addormentato.
Si lasciò andare ad un grugnito irritato, rigirandosi sul materasso per cercare di sfilarsi il cuscino di bocca – e come vi fosse finito in quel momento non lo interessava affatto, anche se supponeva potesse essersi trattato di un pallido tentativo di arginare i singhiozzi soffocandoli nel cotone – quando realizzò che il motivo per cui s’era svegliato era il bussare insistente che aveva percepito mentre ancora dormiva. E che continuava ad accompagnarlo anche adesso che era sveglio.
Toc toc.
Non poteva trattarsi di un sogno. Era un suono, era quasi fisico – lo sentiva rimbombare nel cervello come lo stessero prendendo a martellate – doveva essere reale.
Si sollevò a sedere e fissò la porta.
Toc toc.
Potevano essere Georg e Gustav. Magari avevano eluso la sorveglianza di Saki e intendevano torchiarlo finché non avesse detto loro cosa diavolo era successo.
O forse era proprio Saki. Magari voleva assicurarsi che fosse tutto a posto. Magari l’aveva ascoltato piangere per tutto quel tempo e poi, quando l’aveva sentito smettere, s’era preoccupato, e voleva vedere se era ancora vivo.
Oppure poteva essere David. Magari aveva pensato che stare ancora a rotolarsi nell’angoscia sul seggiolino scomodo della sala d’aspetto di un ospedale semivuoto potesse rivelarsi inutile, e dopo aver lasciato il proprio numero per essere contattato in caso di eventuali sviluppi, aveva deciso di tornarsene in albergo, e ora passava di lì per assicurarsi che fosse tutto a posto.
Toc toc.
Toc toc.
Continuo, incessante.
Si alzò in piedi. La moquette che ricopriva il pavimento non era affatto morbida. Era quanto di più fastidioso e pungente avesse mai sentito sotto la pelle. Infilò le pantofole e raggiunse la porta della camera mugugnando un “arrivo” poco convinto.
E poi aprì.
E lui e la persona dall’altro lato della porta sollevarono gli occhi nello stesso identico istante.
E quegli stessi occhi, l’uno nello sguardo dell’altro, riflessero lo stesso identico castano.
- Bill… - esalò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, come fosse già distrutto solo dopo aver pronunciato il suo nome, - Bill, che… che ci fai qui…? – si sforzò di chiedere, ricacciando indietro, giù per la gola, le lacrime che minacciavano di impossessarsi nuovamente dei suoi occhi.
Bill ridacchiò. Una risata che non gli aveva mai sentito veramente addosso. Che ogni tanto aveva immaginato, ma che non era mai realmente appartenuta a suo fratello. Qualcosa di malizioso, qualcosa di subdolo e sottile, qualcosa di… vagamente sgradevole.
Bill ridacchiò e gli posò una mano sul petto, spingendolo con delicatezza all’interno della stanza e richiudendosi la porta alle spalle.
Fu allora che Tom si accorse che quello non poteva essere altro che un sogno. Se ne accorse e quasi sorrise di sé stesso, chiedendosi come avesse potuto sperare, anche solo per un attimo, che quella visione potesse essere reale. Bill era in coma, sdraiato inerte su un letto d’ospedale. E se pure s’era ripreso, se pure aveva riaperto gli occhi, ricominciato a respirare da solo, a parlare normalmente, a sorridere ed a muoversi, di certo non si sarebbe mai potuto trovare lì. Non a quell’ora. Non quella notte.
Non con addosso lo stesso cappotto di pelle del video di Spring Nicht, non con tutto quel trucco, non con i capelli perfettamente in piega. Non con quel sorriso sulla faccia, non con quell’aria da folletto furbo, non senza neanche un segno della caduta, dell’operazione, del ricovero.
- Sto sognando… - disse ad alta voce, mentre Bill lo superava, scendendo a sfiorargli una mano con la propria e intrecciando le dita con le sue per condurlo più velocemente verso il letto, sul quale lo costrinse a sedersi prima di accomodarsi al suo fianco. – Sto sognando, è ovvio…
- No che non stai sognando, Tomi… - lo rassicurò Bill, anche se la sua voce sembrava provenire da molto, troppo lontano, e niente dei suoi gesti o della sua persona ricordava quella di suo fratello… se non il fatto che fossero due dannate gocce d’acqua.
Proprio come nella sua idea geniale.
Due Bill in giro per il mondo.
Anche se, al momento, uno in realtà era inchiodato ad un letto.
- Tu non puoi essere qui. – obiettò Tom seriamente, guardandolo dritto negli occhi.
Bill sorrise e trascinò una sua mano a sfiorargli la guancia.
- Mi puoi sentire…? – gli chiese poi, strofinando il viso contro la sua pelle, come un gattino in cerca di coccole.
E sì, Tom lo poteva sentire.
Lo poteva sentire al punto che mandò a fanculo la consapevolezza si trattasse solo di un sogno e lo strinse fra le braccia con impeto, quasi stritolandolo. Ma era un sogno, e quella era una certezza. Lo divenne incontestabilmente nel momento esatto in cui Tom lo strinse a sé e Bill non mostrò neanche un attimo di incertezza, o una nota di stupore, nel lasciarsi stringere.
Solo i sogni sono così ubbidienti.
Solo i sogni non chiedono mai perché.
- Scusa, Bill… - mormorò Tom contro la sua pelle, lasciandogli scorrere le mani sotto il cappotto, lungo la schiena, sentendo il cotone leggero della maglietta arrotolarsi in sbuffi sotto la pressione delle dita, - Non volevo che andasse così… mi avevano detto che sarebbe stata una scena sicura, da girare… c’erano quattro persone a reggere quel fottuto materasso, non so com’è che-
- Sssh… - lo interruppe Bill, scostandosi da lui solo qualche centimetro, ritrovando subito il contatto nello sfregamento delle loro fronti, e guardandolo negli occhi con affetto, - Non sono arrabbiato con te, Tomi… non è colpa tua… - ridacchiò, arricciando il naso in una smorfia tenerissima, - Come hai potuto pensare, anche solo per un momento, che potessi darti la colpa di quello che mi era successo? È stato un caso, una fatalità… la tua idea era comunque bellissima, sai…?
- Ma tu – riprese Tom, singhiozzando prepotentemente, pur continuando a ricacciare indietro le lacrime, - adesso sei in coma… in coma Bill… e non è neanche sicuro che ti riprenderai… - si interruppe un secondo, mordendosi le labbra, perché di dire ciò che doveva dire non aveva alcuna voglia. Ma le parole scalciavano sul fondo della gola, dove tutte le lacrime s’erano concentrate. Non c’era più spazio per entrambe. Ed allora, meglio che le parole uscissero, perché erano decisamente meno pericolose del resto. – Se tu dovessi morire…
- Non dirlo neanche per scherzo! – rise Bill, divertito, stringendogli le braccia attorno al collo e tornando ad affondare il viso nell’incavo della sua spalla, - Io non morirò! Non sto affatto male, Tom! Che c’è, non mi senti?
- Sì… - annuì Tom, tornando a stringerlo alla vita, - Sì, certo che ti sento, ma-
- Ma cosa? – insistette Bill, separandosi da lui, stavolta più nettamente, e tornando a guardarlo, - Non ti basta? Vorresti sentirmi di più?
Tom deglutì, scrutando le profondità dei suoi occhi cerchiati di nero senza riuscire a venire a capo del mistero di quel sogno così… tangibile. Caldo, profumato e solido sotto le mani.
- Vorrei avere la sicurezza che stai bene… - bisbigliò, scivolando con le labbra sulla sua fronte fino a scorrere anche sul profilo del naso, risalendo con le mani a sfiorare la nuca, come cercasse il segno di una qualche ferita.
Niente di niente.
- Sto bene, Tomi. – disse Bill, accarezzandogli le guance con entrambe le mani. – Posso pensare solo ad un modo per fartelo capire.
Non lo vide avvicinarsi.
Doveva aver approfittato dell’unico momento in cui si fosse concesso di sbattere le palpebre, staccandogli gli occhi di dosso.
Sentì direttamente il calore delle sue labbra contro le proprie. Morbide, sensuali, rassicuranti.
Il modo perfetto per fargli capire che sì, stava bene, e sì, era ancora al suo fianco.
Spaventato, incerto e un po’ intontito, si tirò indietro, senza però riuscire a togliergli le mani di dosso.
- Bill, cosa fai…? – chiese a mezza voce, anche se sapeva che era una domanda del tutto inutile: i sogni non rispondono. Per i sogni non esistono vere domande.
Perché i sogni fanno solo ciò che tu gli ordini di fare.
- Stai tranquillo, Tomi… - gli disse Bill, inginocchiandosi sul materasso di fronte a lui e sporgendosi in avanti per raggiungere ancora le sue labbra, in una serie di baci brevi e veloci, appena umidi, molto infantili, - Era tanto tempo che volevi farlo, vero Tomi…?
Provò a scostarsi, come in una protesta muta, ma Bill non lo lasciò andare.
- No, io… - provò allora a dire, ma Bill non lo lasciò neanche parlare.
- Quando hai saputo che ero in coma hai pensato che non avresti mai potuto farlo, vero Tomi…? – e ancora una cascata di baci, sempre più piccoli, sempre meno incerti, sempre meno contrastati.
- Smettila di parlare così! – disse Tom, socchiudendo gli occhi e stringendo la presa delle dita attorno ai suoi fianchi sottili, stupendosi della straordinaria consistenza della pelle, della carne e delle ossa fra le mani, - Non chiamarmi Tomi, tu non sei Bill…
Bill – l’altro Bill – ghignò. Si alzò e gli si parò di fronte, poggiandogli le mani sulle spalle. Poi lo scavalcò e gli si sedette in grembo, ancorandosi a lui e intrecciando le gambe dietro la sua schiena.
- Se non sono Bill… allora quello che stiamo facendo non è un problema… - gli mormorò sulle labbra, prima di tornare a coprirle di baci.
E Tom si stupì nel ritrovarsi a rincorrerli, quegli stessi baci. Quando le labbra di Bill si allontanavano, erano le proprie a protrarsi in avanti e seguirle. Alla ricerca della loro traccia morbida e calda. Di tutto ciò che di tangibile gli restasse di Bill. Del proprio adorato fratellino steso su un letto in un ospedale bianco, triste e semivuoto, a causa sua.
- Tomi, anche io volevo farlo da tanto tempo, sai…? – disse ancora Bill in un sussurro, leccandogli lentamente le labbra, ancora una volta simile a un gattino, per costringerlo a schiudere le proprie.
E Tom ubbidì.
Perché i sogni fanno solo ciò che ordini loro.
E se l’altro Bill stava facendo quelle cose…
…Tom lo sapeva, che era solo perché era lui ad ordinargliele.
Non capiva se fosse uno strano tentativo di chiedere perdono o… qualcosa di peggio, ma erano ordini precisi. Ordini chiari.
Ordini che lui non si sentiva in diritto – né in dovere – di mettere in discussione.
Perché quello che fai nei sogni resta nei sogni.
Non si riversa nella vita reale.
E perciò, quello che fai nei sogni non diventa mai un problema.
- Scusami, Tomi… - bisbigliò Bill, passandogli le mani sul petto nudo, scivolando lento come lo scorrere delle ore, - Ti ho fatto preoccupare tanto… ma adesso sono qui, non c’è più niente di cui aver paura…

Ma io ho paura di te, Bill.
E ho paura anche di me stesso.
Questo non vale niente…? Proprio niente…?


- Nei sogni no, Tomi. – rispose Bill, sicuro, come lo avesse sentito – e probabilmente era davvero così – forzandolo a distendersi sul materasso.
*
La sensazione umida, pastosa e un po’ appiccicaticcia di un sogno troppo realistico, lo accompagnò per tutta la notte. Per tutta la notte ebbe come l’impressione di muoversi all’interno di un dormiveglia spaventosamente vigile e allo stesso tempo ovattato come da un oceano di bambagia. Anche se riusciva a lanciare uno sguardo da qualche parte alla sua sinistra, sul comodino, per rendersi conto del trascorrere del tempo, ed anche se era sicuro di trovarsi a letto, e cominciava ragionevolmente a credere di non essersi mai mosso, la strana sensazione di aver toccato Bill lo perseguitava come un incubo. O una maledizione.
La sua pelle calda sotto le dita.
Le vene pulsanti sotto i polpastrelli.
I muscoli tesi sotto i palmi.
I movimenti lenti.
Sensuali.
Il bisbigliare dritto al suo orecchio, parole irripetibili, segreti inconfessabili, dichiarazioni impronunciabili. La loro traccia era ancora nella memoria, marchiata come a fuoco vivo.
L’odore del suo sudore, il solletico dei suoi capelli contro la pelle.
La sensazione inebriante provata entrando dentro di lui. Trovandolo accogliente e perfetto come e meglio di una donna. Un incastro ad arte, quasi miracoloso.
Il calore umido del suo sperma fra le dita.
Il richiamo indelebile del sesso ad aleggiare nell’aria attorno a lui come un fantasma. Le particelle d’ossigeno erano intrise di quel richiamo, gli sembrava di aver smesso di respirare aria pura, poteva respirare solo sesso.
Sesso era tutto ciò che c’era stato quella notte in quella camera d’albergo.
Lui. Ed il proprio gemello.
E un sogno finto, come di gesso. Che se lo stringi fra le dita un po’ troppo forte, si sgretola.
*
Passare dal sonno alla veglia con tanta immediatezza, pensò Tom, scattando a sedere sul letto e afferrando il telefono squillante sul comodino, dovrebbe essere vietato. Vietato per legge.
Non poteva esserci niente di peggio di quel dolore sordo sepolto nelle profondità del cervello, e non poteva esserci niente di peggio di quell’intorpidimento diffuso su ogni centimetro del corpo, al punto da renderlo dolente per ogni movimento, e non poteva esserci niente di peggio neanche di quel saporaccio osceno sulla lingua, e di quel raschiare della gola anche solo mentre si cerca di respirare.
Rispose alla chiamata quando lo squillo fu lì lì per farsi intollerabile.
- Tom?
Era David.
Era David ed era felice.
Senza neanche pensarci, si voltò a guardare l’altro lato del letto. Era sicuro che non ci avrebbe trovato niente… era solo per controllare.
E, controllando, scoprì che, in effetti, poteva esistere qualcosa di peggio rispetto ai risvegli bruschi.
Infatti quasi urlò, quando vide che, contrariamente a quanto pensava – speravaqualcuno c’era. L’altro Bill era ancora là. Completamente nudo, coperto appena dal lenzuolo, assopito al suo fianco. Respirava lentamente, profondamente, era un suono così dolce… I capelli scendevano a lambirgli le scapole in ciocche e si disperdevano sul cuscino tutto intorno a lui.
- Dimmi… - ansimò, sperando che David non si accorgesse del suo sconvolgimento.
David non se ne accorse. Perché era davvero, davvero felice.
- Bill si è svegliato! – annunciò esultante, mentre una voce flebile e ancora bassa – Bill! Bill!!! Quello vero! Era lì, parlava, Dio, parlava!!! – esalava un “yeeeh!” festoso, almeno nelle intenzioni, e si lasciava andare ad un risolino divertito. – Sentito? – chiese il manager, cercando di trattenere a propria volta le risate, - Sta bene!
- Bill… - mormorò incredulo, continuando a fissare la copia addormentata al proprio fianco, - Passamelo!
- Meglio se vieni direttamente. – consigliò David, sospirando sollevato, - Vuole vederti. E porta anche Georg e Gustav. Basta che recuperiate Saki dovunque si trovi… non azzardatevi ad uscire da soli, mi hanno detto che sono trapelate delle notizie dalla location del video e c’è già un capannello di giornalisti, qua fuori.
Bill, dall’altro lato della cornetta, lontanissimo eppure incredibilmente vivido, si lasciò andare ad un “che palle” disperato.
Tom sorrise, stringendo il telefono fra le dita.
- Saremo lì in un minuto. – assicurò, interrompendo la chiamata.
Poggiò il cellulare sul comodino e si rivoltò sul materasso.
In teoria avrebbe… avrebbe dovuto chiamarlo? Dirgli di svegliarsi? Che era tardi, che doveva… sparire? Perché i sogni non restano, dopo che gli occhi si sono aperti. I sogni, a quel punto, si dissolvono, se non si sono già dissolti prima.
Allungò una mano verso il suo corpo, ma l’altro Bill lo precedette, mugugnando infastidito ed accucciandosi per un secondo fra le lenzuola, prima di stiracchiarsi e girarsi supino, aprendo faticosamente gli occhi.
Tom non avrebbe saputo che dire.
E infatti non disse niente.
L’altro Bill si voltò a guardarlo e gli sorrise.
- Te l’avevo detto, che stavo bene. – disse ironico, stiracchiandosi ancora ed allungando un braccio sul pavimento per recuperare i boxer.
Tom lo osservò sedersi e schioccargli un bacio sulle labbra, prima di alzarsi in piedi e rivestirsi, cappotto compreso.
- Allora io vado. – disse il sogno, salutandolo con una mano, - Non dimenticare di venire a trovarmi in ospedale. – ricordò ridacchiando, - E comunque ci rivedremo presto.
- Aspetta! – cercò di fermarlo Tom. E avrebbe davvero potuto chiedergli qualsiasi cosa, ma per i sogni le domande sono inutili. Perciò non lo fece. – Ti… ti vedranno tutti, si chiederanno cosa ci faccia tu qui… - bisbigliò incerto, abbassando lo sguardo.
Bill rise allegro.
- Non mi vedrà nessuno. – lo rassicurò.
E poi sparì oltre la porta, richiudendosela delicatamente alle spalle.
*
- Scommetto che in questo momento ti sta odiando perfino Bill. – borbottò Georg, contrariato, battendo nervosamente un piede per terra. – Hai detto tu che aveva voglia di vederci! E invece arriviamo e ci tieni qua fuori per la paternale…
- Non sarà una paternale… - sospirò stancamente David, passandosi una mano fra i capelli, - Ho solo detto che voglio dirvi due parole prima di farvi entrare.
Gustav annuì, battendo due colpi d’incoraggiamento sulla spalla di Georg e fermandolo un attimo prima che ricominciasse a lamentarsi. Annuì perfino Tom, nonostante si trovasse evidentemente perduto da qualche parte all’interno della propria testa, troppo intento a correre come un matto alla ricerca dell’uscita per rendersi veramente conto di cosa stesse succedendo attorno a lui.
- Quando entrerete, non lanciate gridolini idioti. – disse quindi il manager, incrociando le braccia sul petto.
Gustav inarcò un sopracciglio.
- Ma allora vedi che avevo buoni motivi per odiarti?! – riprese Georg, stringendo i pugni, - Seriamente, ti sembra che entreremmo là dentro e-
- L’hanno rasato. – spiegò l’uomo, interrompendo il bassista con voce bassa ma ferma. – A zero. E voi adesso siete felici come mocciosi davanti ad un triciclo nuovo. Perciò no, non mi fido della vostra capacità di giudizio autonoma. E voglio assicurarmi che non farete o direte qualche cazzata, presi dall’entusiasmo. – si fermò qualche secondo, inumidendosi le labbra con la lingua e spostando il peso del corpo da un piede all’altro. – Quando s’è svegliato stamattina ho temuto che impazzisse, scoprendolo. Invece ovviamente è stato bravissimo, ha sorriso e ha detto che non è importante e ricresceranno. Ma è chiaro che sta da cani. Perciò – concluse, risollevando lo sguardo sui propri pupilli e squadrandoli severamente uno ad uno, - sensibilità.
*
Rivedere Bill dopo un avvenimento sconvolgente metteva sempre Tom in condizione di superare il momento e ricominciare a ragionare come una persona normale. Era una cosa provata. Era sempre stato così, fin dalle prime volte in cui era stato possibile osservare il comportamento dei gemelli.
Ad esempio, quando durante una delle prime session di registrazione, Tom non era stato in grado di eseguire decentemente la linea di chitarra di Durch Den Monsun, ed era stato perciò necessario tenerlo in studio fino alle otto passate di sera – dalle dieci del mattino – era stato rivedere Bill che aveva salvato Tom dallo strillare che con quel mestiere di merda non avrebbe voluto avere più nulla a che fare e che, per quanto lo riguardava, avrebbero potuto cominciare a cercarsi un sostituto, perché il Kaulitz numero uno si ritirava.
Era su un meccanismo simile che contava David, quando aprì la porta della camera di Bill e lasciò che Tom entrasse e si precipitasse al suo fianco, seguito a pochi centimetri di distanza da Georg, Gustav e un insospettabilmente bonario Saki.
Come quella volta di tanti anni prima, infatti, gli occhi di Tom si riempirono di uno stupore sollevato e commosso – uno di quegli sguardi che sembravano dire “grazie a Dio esisti tu, almeno, a rendere questo mondo un posto meno schifoso”, e che David aveva osservato spessissimo durante il lungo periodo di frequentazione che l’aveva unito ai gemelli Kaulitz – e le sue labbra si dschiusero in un sorriso sincero e spontaneo, mentre si lasciava ricadere sul letto accanto al gemello e gli afferrava una mano fra le proprie, salutandolo con calore.
Ovviamente, nessuno accennò al cappellino di lana che Bill aveva preteso gli fosse calato sulla testa prima che tutti entrassero, per coprire l’enorme fasciatura che gli avvolgeva il capo.
Piuttosto, la prima cosa che Bill fece, adocchiando i propri amici avvicinarglisi, fu sorridere, stringendosi nelle spalle mentre Georg gli dava automaticamente dell’idiota e, di fronte al suo sguardo offeso e colmo di disappunto, precisava che non solo non aveva idea di cosa cavolo avesse combinato per finire addirittura in ospedale, ma che per giunta non gli andava affatto di saperlo, tanto la sua opinione sarebbe rimasta la stessa: Bill era un idiota e non avrebbe mai dovuto permettersi di tirar loro uno scherzetto simile.
Gustav annuì e rincarò la dose minacciandolo di morte – morte vera, ci tenne a rimarcare – in caso ci avesse riprovato.
Mentre David scuoteva il capo, disapprovando la facilità con la quale i ragazzi riuscivano ad abbandonarsi all’umorismo nero in un momento come quello, Tom eruppe in un singhiozzo stremato che nessuno a parte lui sembrò notare. Bill lo percepì, e infatti tremò appena, dentro alla sua leggera vestaglietta di finto tessuto, ma non sembrò accorgersene davvero. E Georg e Gustav erano troppo impegnati a fingere di non essersi commossi per la ripresa di Bill per accorgersi di una qualsiasi cosa.
Ma Tom aveva singhiozzato. E David l’aveva sentito. E di sicuro non poteva ignorarlo.
Perciò gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, cercando di rassicurarlo.
- È tutto a posto. – rispose meccanicamente il biondo, sollevandogli addosso un sorriso incerto, - Sto bene, sono ancora un po’ scosso.
- Non c’è niente per cui scuoterti… - bisbigliò il manager, sorridendo sereno, - Bill sta bene.
- Sì. – annuì Tom, mordicchiandosi un labbro. – Lo vedo.
Il problema è che non mi sento più tanto in grado di fidarmi dei miei occhi.
Era questo, quello che Tom avrebbe voluto aggiungere. Ma dire una cosa simile l’avrebbe obbligato a delle spiegazioni. Spiegazioni che, nella maniera più assoluta, non si sentiva in grado di fornire.
Perciò tacque. E tornò a guardare Bill, sperando fosse quello vero. Quello sano. Quello che non avrebbe mai potuto sfiorare come aveva sfiorato quel fantasma nella notte.
*
Era sicuro al cento per cento che le vicende ospedaliere di Bill fossero appena cominciate. Forse perché né lui né suo fratello s’erano mai lasciati sfuggire una puntata di Doctor House, e forse perché in show del genere la parola più ricorrente dopo “morte”, in caso di coma, era sempre “riabilitazione”, aveva creduto che da quel momento in poi la vita del proprio fratello sarebbe stata scandita per un periodo interminabile da continue visite mediche e lunghissime sedute fisioterapeutiche, che gli avrebbero impedito la piena ripresa delle attività lavorative per tempi irragionevolmente lunghi.
Invece, la prima cosa che il dottore disse, entrando in camera di Bill con un enorme sorriso sul volto, fu “Molto presto potrà andare a casa! E speriamo di non vederla mai più qui dentro, signor Kaulitz!”.
Tom aveva realizzato di avere addosso un’espressione da perfetto idiota solo quando il fratello s’era premurato di fargliela gentilmente notare.
In seguito, il dottore aveva spiegato che l’intervento era andato perfettamente, che in effetti il coma di Bill non era durato più di tre o quattro ore e che dalle analisi non risultava nessuna complicazione che potesse giustificare un ricovero in ospedale. Perciò, giusto il tempo di risolvere qualche pratica burocratica – “Lei è il padre?”, chiese il dottore a David. “Una specie”, rispose lui. – e in men che non si dica si sarebbe ritrovato a poter riposare nel proprio letto.
Al solo sentire quelle due parole, Bill s’era voltato a guardare il manager con aria supplicante. “Andremo in albergo prima, Bill”, aveva però risposto Dave, con aria vagamente afflitta, “Poi si vedrà”.
Alla fine s’era deciso di rimanere a Berlino, dove si trovavano in quel periodo. Bill aveva sempre saputo che le possibilità di tornare davvero a Loitsche per un periodo di vacanza erano sempre state del tutto nulle, perciò non ne soffrì più di tanto – o almeno, se ne soffrì non lo diede a vedere. In compenso, David si premurò di deglutire a vuoto, afferrare il telefono e chiamare Simone per avvertirla dell’accaduto. Dopo essersi assicurata che fosse tutto a posto, la donna chiese l’indirizzo esatto dell’albergo e disse che sarebbe arrivata al più tardi l’indomani dopo pranzo, e di non muoversi di lì. David la implorò di non portare nessun altro – “qua la situazione è già abbastanza incasinata” – lei annuì e gli assicurò che si sarebbe mossa con discrezione. Poi lo ringraziò ed interruppe la telefonata.
- Verrà? – chiese Bill, speranzoso, sistemando il cappellino che non aveva voluto sfilare dalla testa.
David sorrise.
- Certo che verrà. Domani. Ma adesso devi chiuderti in camera tua… - lanciò uno sguardo afflitto fuori dalla finestra, sospirando mentre constatava che la folla di giornalisti e curiosi per strada non si era affatto sfoltita, - …possibilmente cementandotici dentro… - aggiunse, causando un breve scoppio d’ilarità nei gemelli che lo fissavano dal divanetto ad angolo della sua camera, - E riposare. – concluse infine il manager, tornando a guardarlo seriamente. – Hai decisamente bisogno di riposo. Tom, riportalo tu in camera, d’accordo?
Il biondo annuì, alzandosi in piedi ed aspettando che il gemello facesse lo stesso prima di condurlo in corridoio.
- Finalmente soli! – esultò Bill quando si ritrovarono in corridoio, saltandogli addosso e stringendogli le braccia attorno al collo prima di schioccargli un sonoro bacio bagnato sulla guancia.
- Ehi, ehi… - ridacchiò Tom, imbarazzato, eludendo la sua stretta ed afferrandolo per i polsi per riportargli le mani in un punto che non fosse troppo pericoloso – ovvero abbastanza lontane dal suo corpo da non causargli improvvisi quanto intollerabili innalzamenti di temperatura. – Attento, potrebbe vederci qualcuno…
Bill fece una smorfia contrariata, liberando i polsi dalla stretta del fratello e riprendendo a camminare lentamente verso la propria camera.
- Non ti sei mai preoccupato di cose simili… - si limitò a fargli notare, deluso, piantando lo sguardo sulla moquette rossa che rivestiva il pavimento del corridoio.
- Ma la situazione adesso è diversa… - motivò lui, fissando dritto davanti a sé, - Sei appena uscito dall’ospedale, l’albergo è circondato da giornalisti… non è il caso… dai, lo sai…
Il moro scrollò le spalle, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
- Sarà. – borbottò deluso, guardando altrove.
Tom gli lanciò un’occhiata di sfuggita, mordendosi un labbro. Dio solo sapeva quanto gli costasse rifiutare il contatto con Bill. Sfiorarsi, abbracciarsi, accarezzarsi, perfino scambiarsi qualche bacetto tenero sulla guancia, quando nessuno li guardava, era per loro una routine quasi banale. Erano sempre stati particolarmente appiccicati, fin da piccoli. La cosa non li aveva mai messi in imbarazzo, e oltretutto non si era mai rivelata d’ostacolo per le interazioni con l’altro sesso. Non è che passassero tutta la loro giornata attaccati l’uno all’altro come gemelli siamesi. Ma c’erano dei momenti, momenti particolari, momenti di estrema debolezza da parte di entrambi, momenti di nostalgia, momenti di sfiducia, perfino momenti di felicità o grande emozione, in cui il bisogno di contatto fisico si faceva urgente come fosse stata una sete ancestrale. Immotivata e inestinguibile, finché non fosse stata soddisfatta.
Era così felice di sapere Bill sano e salvo che gli sarebbe saltato addosso fin dal primo momento in cui l’aveva visto.
Ed il problema era esattamente quello.
- Entri un po’? – gli chiese Bill quando furono davanti alla porta di camera sua.
- No, dai, sarai stanco… - cercò di difendersi lui con un sorrisetto stupido, arretrando verso la propria stanza, dall’altro lato del corridoio.
Bill aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Non è che adesso perché sono stato una notte in ospedale in seguito a un incidente del cazzo dobbiamo azzerare i rapporti, eh, Tom?
Tom sbuffò una risatina incredula. Forzata e imbarazzante.
- Ma che idiozia. Non sto azzerando i rapporti! Sto dicendo che domani ti servirà energia…
- Ed esattamente per fare cosa? Per sostenere l’enorme fatica che comporterà stare costretto a letto con mamma che mi sorveglia per impedirmi di alzarmi?
Anche Tom aggrottò le sopracciglia, stringendo i pugni.
- Sono stanco io. – disse alla fine, fissandolo con rabbia. – Non dormo da ieri.
L’espressione di Bill si fece spaurita e confusa, mentre scioglieva le braccia e le lasciava ricadere come morte lungo i fianchi.
- …ah… - articolò con un filo di fiato, - Sì, scusa, dimenticavo che… - abbassò lo sguardo, sorridendo debolmente, - …eravate tutti preoccupati, già…
Una voragine.
Nel centro del petto.
Proprio in mezzo ai polmoni.

- Bill, non è che-
- No, hai ragione. Hai ragione. – disse, sollevando lo sguardo e piantandoglielo addosso. Sereno. Limpido. – Ora che ci penso, ho sonno anche io. Ci vediamo domani.
E in meno di un secondo era oltre la porta. Scomparso.
Almeno alla sua vista.
Sospirò, voltandosi lentamente verso la propria porta per aprirla.
Perfetto.
Sto sbagliando tutto.
Anche l’impossibile.

Entrò in camera e si abbandonò contro il muro, chiudendo gli occhi e godendo dell’oscurità dell’ambiente. Le tende pesanti erano l’invenzione più meritevole di tutta la storia del genere umano.
- Bel colpo, Tomi. – disse la voce di Bill nel buio, - Basso, ma bello.
Spalancò gli occhi e si guardò intorno. Nel nero fisso e compatto della stanza non riusciva a vedere niente, ma la voce l’aveva sentita. Era impossibile da confondere.
- Bill… tu sei…
Bill ridacchiò.
- Sei stato bravo, Tomi.
Quel modo insinuante e malizioso di pronunciare il suo nome…
- Sei di nuovo qui…
Bill si distese sul letto – sentì il fruscio delle coperte sotto il suo corpo in movimento – e raggiunse il lume sul comodino, accendendolo.
Era tutto proprio come la notte prima. Lunghi capelli dritti sulla testa, trucco pesante e cappotto di pelle.
- Ti sono mancato? – chiese ridacchiando.
Tom deglutì, mentre le labbra si tendevano in una smorfia stupita e vagamente impaurita.
- Credevo fossi un sogno. – disse a mezza voce, restando immobile contro il muro.
Bill si lasciò andare ad una risatina divertita, e si alzò in piedi, andandogli incontro.
- Come sto senza capelli?
Il biondo aggrottò le sopracciglia, incerto.
- Ricresceranno. – disse, scostando lo sguardo verso un punto vuoto oltre la figura alta e scura davanti a sé.
Bill rise ancora.
- Vuol dire che sto male. – commentò distrattamente. – Quindi ti fa piacere vedermi così, no?
Tom gli riportò lo sguardo addosso, scrutandolo come volesse misurarlo. O modellarlo.
- …sì. – rispose. Sollevò una mano a sfiorargli una guancia, - Ma anche mio fratello tornerà così. È solo questione di tempo.
- E tu… - insinuò l’altro Bill, malizioso, scivolando col viso contro il suo palmo aperto, - …aspetterai che io sia tornato così bello come mi vedi adesso, per baciarmi…?
L’ennesima smorfia rimescolò i tratti del suo viso, e Tom staccò la mano da Bill privandolo di quel contatto caldo quasi con violenza.
- Io non voglio baciare mio fratello. – si difese ostinatamente, oltrepassandolo e raggiungendo il letto, per sedersi in punta sul materasso.
Bill si voltò a guardarlo mentre compiva il movimento, e con l’ennesimo risolino lo seguì, accomodandosi al suo fianco.
- Sì che vuoi. – gli disse, afferrandogli il mento tra le dita e costringendolo a guardarlo. – Prima lo ammetti, meglio sarà. Per entrambi. – poi il suo sorriso si allargò, assumendo un tono di crudele e impietosa malignità che non gli aveva ancora mai visto addosso. – Anche perché Bill lo vuole esattamente quanto te, sai?
Tom si separò da lui ancora una volta, sfuggendo alla stretta ora lievemente più forte delle sue dita sulla mascella e muovendo qualche passo agitato all’interno della stanza.
- Tieni fuori Bill. – gli disse, senza riuscire a guardarlo, - Di me, dì quello che cazzo vuoi. Ma tieni fuori Bill da questa schifezza.
L’altro Bill rise ancora. Quasi sguaiatamente. Si sollevò dal materasso e lo raggiunse alle spalle, circondandolo con le braccia e posando baci teneri sulla sua nuca dopo aver scostato la coda che teneva stretti i dread.
- Hai ragione. – annuì, mentre Tom si rivoltava contro di lui, lasciandosi abbracciare fronte contro fronte, circondandolo a propria volta con le braccia attorno alla vita, - Di te posso parlare senza problemi. Quello che provi, lo so. Quello che provi, lo sai anche tu. – Tom aprì gli occhi, fissandolo quasi con dolore. – Io sono te, Tomi. – riprese il fantasma, sfiorandogli le labbra con un bacio, - Sono così solo perché è così che tu mi vuoi. Però non sono veramente Bill. E quindi non posso conoscere i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Non più di quanto non li conosca tu stesso. – si interruppe, scivolando con le labbra sul suo collo e fermandosi appena sotto l’orecchio. – Quando dico che anche Bill vorrebbe baciarti, Tom… - sussurrò spietato, mentre lui si paralizzava nel suo abbraccio e strizzava gli occhi, terrorizzato, - …è perché sei tu a sperarlo.

I’m hurting you
With everything I do
It’s too long
Too long in this place

*
Fra tutti coloro che ebbero a che fare con lui in quel periodo, sua madre fu l’unica a capire di cosa realmente avesse bisogno.
- Quando vi ho partorito, ho creduto di aver dato un cervello a ciascuno di voi. Ma, a quanto pare, mi sbagliavo di grosso. Tu che ne pensi, Tom?
No, non di sentirsi attaccato per una colpa – pure ingenua, pure involontaria, ma sempre una colpa – che comunque intimamente sentiva di avere. No.
- Avanti mamma… lo sai che non è stata colpa sua.
Ma di sentirsi difeso da Bill, quello sì. Di ascoltare la sua voce negare risolutamente che una qualsiasi delle conseguenze di quell’errore grossolano e stupido fosse da ricondurre a lui. Non i capelli tagliati, non l’enorme fasciatura da cambiare ogni sera, non la sottile cicatrice che sarebbe rimasta – “ma no, Tom, neanche si vedrà!” – non i brevi momenti di confusione che ancora coglievano Bill a tradimento, quando nessuno se lo aspettava, impedendogli di trovare una parola pure semplice o di ricordare le parole di canzoni che aveva cantato e ricantato fino alla nausea per anni.
Simone sospirò, sporgendosi in avanti, sul letto, per abbracciare Bill. Un po’ goffamente, come sempre succedeva da quando entrambi erano diventati due giganti. Se erano loro ad abbracciarla non sembrava poi così strano. Ma quando era lei ad allargare le braccia e cercare di inglobarli come fossero stati ancora bimbi piccoli, d’improvviso la sproporzione enorme delle loro dimensioni si faceva sentire, rendendo quegli abbracci quasi caricature di abbracci.
Tom li adocchiò distrattamente e nascose un breve risolino dietro una mano, mentre Simone si rimetteva dritta e lo sferzava con un’occhiataccia colma di disappunto.
- Togliti questo cappellino, tesoro. – disse poi accorata, rivolgendosi a Bill e sfiorando il bordo doppio con le dita, - È pesante, non vorrei ti accaldassi troppo…
Lui sorrise tranquillo.
- Fa freddo. Sto bene. – rispose con noncuranza.
Tom lo osservò solo per un secondo. Passato il quale non riuscì, fisicamente, a tenergli ancora gli occhi addosso. Bill era ancora e comunque la cosa più pura che avesse mai conosciuto. Una presenza che nella sua mente non aveva mai nemmeno sfiorato la sensualità. Una cosa… intonsa, virginale.
Dipendeva anche, in parte, dall’idea di sé che suo fratello amava spacciare in giro, probabilmente. La storia del sesso solo con il vero amore. Un amore da attendere con fedeltà. E da coccolare e proteggere con devozione, una volta che fosse giunto.
Cose in cui Tom non credeva. Cose che, dette da chiunque altro, avrebbe ritenuto stupide. Semplicemente perché, da chiunque altro, non avrebbero acquistato la stessa credibilità. Chiunque altro avrebbe buttato lì quelle parole e poi alla prima occasione si sarebbe scopato una tizia qualunque, solo perché gli tirava e non gli andava di ridursi per l’ennesima volta ed una sega in camera prima di andare a dormire.
Ma Bill no. Perché Bill non si limitava a dirlo. E non si limitava neanche a pensarlo. Lui agiva esattamente per come ragionava. Quindi ogni suo pensiero ed ogni parola da esso derivata era pesante come un macigno. Non puoi dare della stronzata ad una cosa che non lo è, e in maniera così palese. Per questo motivo non aveva mai potuto dare della stronzata a ciò che suo fratello diceva, e non era mai neanche riuscito a ritenerlo uno stupido o un ingenuo perché agiva in quel modo, anche se, a livello generale, riteneva stupido e ingenuo quel modo di agire.
Lo stesso, invece, non si poteva dire di lui.
Lui pensava che ciò che faceva con l’altro Bill fosse disgustoso.
Lui pensava che non avrebbe mai voluto coinvolgere Bill in qualcosa di simile, neanche indirettamente, neanche idealmente.
Lui pensava di non voler davvero fare quelle cose.
Ma il suo modo di comportarsi non rifletteva affatto i suoi pensieri. Il suo modo di comportarsi rifletteva in pieno, però, ciò che lui intimamente era. La sua essenza più reale, più concreta. Quella di uno stronzo che quando è stuzzicato da qualcosa fa di tutto per prendersela. Passando sopra qualsiasi regola senza quasi neanche vederla. Fosse per capriccio o per desiderio effettivo, non importava.
Quello dei capricci era un vizio che lui e Bill avevano preso insieme.
Ed in entrambi era ancora evidente.
Ma, Tom ne era sicuro, i capricci di Bill non avrebbero mai potuto essere sporchi come i suoi.
*
We’re counting down
Only seconds now
I gotta hang on
Hang on to you

Per quella settimana non fece che cercare di stare lontano da lui. Non che lo evitasse, anzi. Stare con lui, nella stessa stanza, era l’unica fonte della sua gioia. Sua madre, peraltro, non sembrava pensare davvero che la colpa di quanto successo fosse sua; infatti, appena aveva trovato un momento per appartarsi con lui, l’aveva abbracciato – facendolo sorridere una volta di più – e gli aveva chiesto come stesse, come si sentisse, se gli andasse di parlare. Per questo motivo, non gli aveva impedito di stare con loro in camera di Bill.
Suo fratello aveva avuto ragione, quando gli aveva detto che non avrebbe poi avuto bisogno di una riserva di energia particolarmente grande: Simone, in effetti, l’aveva tenuto ancorato al letto nel solito modo. Non gli aveva impedito di alzarsi. Si era limitata a sconsigliarglielo caldamente.
Entrambi sapevano che uno sconsiglio era ben più pericoloso di una minaccia. Perciò, quando Simone l’aveva detto, incrociando le braccia sul petto e socchiudendo gli occhi, si erano guardati ed avevano sorriso, e Bill si era arreso ancora prima di cominciare a protestare.
Non l’aveva evitato, quindi.
Si era limitato ad evitare di toccarlo.
Anche quando, durante uno dei rari momenti di intimità che il mondo concedeva loro, Bill si sporgeva – per una carezza, un abbraccio, un tocco anche lieve e distratto – Tom si ritirava. Come se suo fratello scottasse. Ma ancora prima di provarne il bruciore.
D’altronde, era molto facile continuare in quel modo. Bastava stringere i denti. Non pensare a quanto di Bill stesse perdendo mentre rifiutava anche solo di sfiorarlo. Concentrarsi sul pensiero che, una volta solo, qualcun altro l’avrebbe fatto star meglio. L’avrebbe consolato.
Qualcuno che da sé aveva plasmato ad immagine e somiglianza della persona per lui più importante.
Della persona che amava.
Che desiderava.
Che avrebbe voluto stringere a sé continuamente, senza pause.
E che non si azzardava neanche a guardare per paura di distruggerla.
- Allora, posso fidarmi? – chiese Simone, poggiando le mani sui fianchi e guardando entrambi i propri figli con aria inquisitoria.
Bill sbuffò e roteò gli occhi, mentre Tom si stringeva nelle spalle, lasciandosi andare ad un sorrisetto che avrebbe tanto voluto essere ironico e distaccato, ma che risultava solo contrito e vagamente colpevole.
- Mamma, a meno che un cataclisma non si abbatta su Berlino, devastandola, sopravvivremo. – commentò il moro, seccato.
- Mi auguro facciate di tutto per sopravvivere anche in caso di cataclisma, comunque! – precisò Simone, ridacchiando, prima di abbracciarli entrambi un’ultima volta e uscire dall’albergo per infilarsi nel taxi che l’avrebbe portata alla stazione.
Bill continuò a salutarla sorridendo finché non la vide sparire oltre la porta d’ingresso. Dopodichè lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e s’incurvò su sé stesso, esalando un sospiro stremato.
- Dio mio, non ne potevo più! – articolò, passando una mano sul cappellino come per sistemarlo.
Tom sorrise.
- Era solo preoccupata, dai…
- Ma sì, lo so… - continuò il ragazzo, mordicchiandosi il labbro inferiore, - Però mi infastidisce che tutti mi trattino come fossi appena tornato dal mondo dei morti. – si lamentò, irritato. – Sto bene, cazzo. In che diamine di lingua devo dirlo?
Suo fratello rise più apertamente, indicando gli ascensori con un cenno del capo e cominciando a muoversi verso di loro, presto seguito dal più piccolo.
- Non è una questione di dirlo in un modo piuttosto che in un altro. – gli spiegò, chiamando uno degli ascensori non occupati, - È che ci siamo tutti preoccupati moltissimo per te. Non puoi pretendere che ora-
- Fino a prova contraria, – sbottò Bill, interrompendolo, - dovrei essere io quello in diritto di avanzare pretese in quel senso. Cioè… - mugugnò incerto, - dovrei essere io quello che dice “non mi sono ancora ripreso, ho bisogno di tempo”. Invece io sto perfettamente, e siete tutti voi che mi guardate come fossi pazzo e mi dite “eh, ma noi abbiamo bisogno di tempo per riprenderci”. Ti rendi conto che è assurdo?
Tom scrollò le spalle.
Se suo fratello avesse realmente voluto avere un’idea del significato più profondo della parola “assurdo”…
…no, probabilmente neanche in quel caso gli avrebbe parlato dell’altro Bill.
Quello andava oltre anche all’assurdo.
Quello era folle.
- Comunque, per certi versi, tu sei tornato indietro dal mondo dei morti. – gli fece notare scherzosamente.
- Eccome. – rise Bill, ammiccante, - Satana in persona mi ha detto che non faccio per lui.
- Sei troppo pure per il demonio, piaga?
- Puoi dirlo forte! Il demonio mi fa una sega.
- Però. Devo dire che dall’oltretomba sei tornato sboccato… - commentò dubbioso, incrociando le braccia sul petto e fermandosi lungo il corridoio proprio davanti alla porta della camera di Bill.
- È la compagnia. – sospirò Bill, scrollando teatralmente le spalle, - L’Inferno non è posto per nobili. – si interruppe un attimo, riflettendo. Poi spalancò gli occhi e lo afferrò per un orecchio, tirando verso il basso. – Ma poi, proprio tu…!
- Ahi, ahi! Bill! Mi fai male!
E fu in quel momento che Tom se ne accorse.
La mano di Bill non scottava affatto. Non era scoppiato un incendio solo perché si erano toccati, la sua pelle non stava bruciando ed era tutto esattamente uguale a prima. Non naturale come prima, non ovvio come prima e non privo di implicazioni come prima, ma ugualmente innocuo.
Si tirò dritto, guardandolo spaesato.
- Ma si può capire che diavolo hai? – gli chiese Bill, lasciandolo e incrociando le braccia sul petto, - Sembri deficiente, da un po’ di tempo.
Tom fece una smorfia, contrariato.
- Avresti potuto dirlo con un po’ di delicatezza in più.
Bill rise.
- Ti va di entrare un po’ in camera e parlare? – gli chiese, sempre sorridendo.
- Mmmh… - mugugnò Tom, lanciando uno sguardo sconsolato alla porta della propria stanza, - È tardi…
Bill spalancò gli occhi.
- Sono appena le dieci, dai… non fare il cretino, Tom! – e così dicendo lo afferrò per una manica e lo trascinò oltre la porta, richiudendosela alle spalle, e fino al letto, sul quale lo scaraventò senza delicatezza.
- Ok, ok! – rise Tom, mettendosi seduto, - Capito l’antifona, ti sono mancato!
Bill arricciò le labbra, imbarazzato.
- Be’, è vero! – ammise, infilando entrambe le mani nelle tasche dei jeans. – Però non è bello che tu mi sfotta con tanta disinvoltura…
Tom sorrise teneramente, battendo piano una mano sul copriletto accanto a sé, per invitare Bill a sedersi. Lui lo fece con un mezzo sorriso.
- Non hai… - cominciò il biondo, incerto, - Non hai pensato che io avessi smesso di volerti bene, vero?
Bill ridacchiò, stringendosi nelle spalle.
- Ho pensato tante cose… - buttò lì, quasi casualmente, guardando altrove.
- Ma non che io avessi smesso di volerti bene, vero? – insistette Tom, sporgendosi cautamente verso di lui.
Bill gli lanciò un’occhiata di sbieco.
- Avrei dovuto? – insinuò a bassa voce.
- Avanti! – si lamentò Tom, inclinando il capo, - Adesso non facciamolo passare per un litigio fra fidanzati! – borbottò. Poi si fermò. Sentì bruciare, da qualche parte della gola. E si disse che il suo corpo non era mai stato tanto esplicito con lui, per quanto riguardava i segnali di pericolo. Mai tanto quanto in quel periodo. – Voglio dire…
- So esattamente cosa vuoi dire. – sospirò Bill, abbassando lo sguardo, - E no, Tomi, non l’ho pensato. David mi ha detto… - lo guardò, un po’ incerto, abbozzando un sorriso imbarazzato, - di quando sono caduto. Di come sei stato. Mi ha… fatto piacere. – si interruppe anche lui, distogliendo istantaneamente gli occhi, - Oddio, che stronzo egoista sono…
- Cazzate. – lo fermò lui, posandogli una mano sulla spalla. – Non sei niente del genere.
Rimasero qualche secondo in silenzio, semplicemente guardandosi.
- Bill, per favore. – disse Tom, dopo un po’, sporgendosi verso di lui fino a sfiorargli la fronte con la propria, - Non stupirti più, la prossima volta che mi preoccupo per te. È… terribile, che tu possa davvero stupirtene.
Bill si mordicchiò un labbro e sorrise.
- Scusa. – biascicò.
Anche Tom sorrise, socchiudendo gli occhi e abbandonandosi più tranquillamente contro di lui, quasi obbligandolo a sostenere il peso di entrambi. Bill, comunque, ci riuscì più che bene. Gli orli dei loro cappelli si sfioravano, producendo un rumore un po’ ovattato. Era quasi divertente.
- Tomi… - lo richiamò Bill dopo qualche secondo, quasi piagnucolando, - Senti, resti a dormire con me, stanotte…?
Tom si separò da lui, spalancando gli occhi.
- Non siamo un po’ grandicelli, per-
- Non è paura del buio. – disse il moro, senza neanche un’incertezza. – Non è neanche nostalgia di casa. Non sono triste. E non sto male. È solo che sei stato… lontano. Solo un po’. – sorrise silenziosamente, un sorriso piccolo e infantile, immensamente tenero. – Vuoi restare con me? Solo stanotte…
In camera, quasi sicuramente c’era già l’altro ad attenderlo. In un abbraccio caldo di passione e fresco di lenzuola pulite. Un altro, con la faccia di Bill, che non gli avrebbe chiesto di dormire insieme, no. Un altro che se lo sarebbe preso. Un altro dal quale desiderava farsi prendere.
…ma non quella notte.
Ridacchiò.
- E va bene. – concesse bonario, - …ma domattina lo spieghi tu a David!
*
Nel buio fitto della camera d’albergo, che neanche un filo di luce riusciva a spezzare, Bill dormiva già da un pezzo, respirando lentamente e profondamente al suo fianco mentre lui continuava a rigirarsi sul materasso in preda a un’inspiegabile quanto insopprimibile angoscia. In parte dipendeva anche da quell’oscurità spaventosa. Lui non riusciva a dormire in un’oscurità talmente tetra. Bill, invece, era il tipo che per addormentarsi pretendeva il buio più totale. O meglio: non che non fosse in grado di addormentarsi ovunque ed a qualsiasi condizione – soprattutto quando era veramente stanco – ma se si trattava di fare le cose con ordine – una doccia lunga e rilassante, un pigiama caldo e morbido, mettersi fra le coperte, leggere un po’ e solo dopo addormentarsi… e non era una successione di eventi che riuscisse a replicarsi tanto spesso, purtroppo – allora pretendeva il buio più profondo.
Tra le lamentele di Tom, quando già entrambi sonnecchiavano pigramente al calduccio sotto le coperte, lui aveva mugugnato, s’era alzato in piedi, aveva raggiunto il balcone e l’aveva praticamente sprangato.
Tom si voltò su un fianco e cercò di scorgere il profilo di Bill, ma non ci riuscì. Non riusciva a vedere niente di niente.
Poi, all’improvviso e per un solo secondo, il suo campo visivo venne investito da un fascio di luce giallastra. Una luce che gli permise di scorgere la figura di Bill accoccolata in posizione fetale accanto a lui, e che poi morì in un attimo, lasciandogli sulle labbra solo un sorrisetto breve, quasi incompiuto, nato spontaneamente quando aveva incontrato l’immagine di suo fratello così tranquillo e placido.
Solo quando fu tornato al buio si rese conto che quel fascio di luce improvviso non era stato una cosa normale.
Allarmato, si puntellò coi gomiti sul materasso e girò uno sguardo intorno al letto, alla ricerca di un qualche segno che potesse confermargli l’invasione che sentiva di aver subito: quella luce non poteva essere stata che quella del corridoio; perciò, qualcuno doveva aver aperto la porta.
- C’è qualcuno…? – bisbigliò a mezza voce, cercando di non svegliare Bill.
E qualcuno c’era.
Qualcuno che rispose con una risatina divertita, poggiandogli una mano sulla guancia e lasciandola scivolare poi lungo il collo, rilasciandola sul petto.
- Bill… - mormorò, trattenendo il fiato ma non la sorpresa, cercando di identificarlo nello spazio nero attorno a loro.
- Oggi non sei venuto… - disse l’altro, piagnucolando come un bambino, - Ti aspettavo…
Tom serrò le labbra, percependo la spinta della mano di quel fantasma sopra il petto, pesante come un macigno. Era di quel tipo di sensazione che parlavano le persone che avevano avuto incontri simili con gli ectoplasmi? Quel fantomatico senso d’oppressione, quel timore di venire schiacciati, la mancanza di fiato e l’incapacità di respirare normalmente… era davvero con uno di quei fantasmi che aveva a che fare?
E se sì… cos’è che era morto? In lui, in Bill… cos’è che era morto?
L’altro lo fissò a lungo e poi lasciò guizzare gli occhi su Bill addormentato al suo fianco. Sorrise crudelmente, assottigliando gli occhi e chinandosi su di lui.
- Adesso comincerai a trascurarmi, Tomi? – sibilò astioso a un centimetro dalla sua pelle, - Adesso che hai ripreso a parlare con tuo fratello fingerai che io non sia mai stato il tuo amante e mi ignorerai? Ricomincerai a comportarti come hai fatto fino ad ora?
- No, io…
Che stava facendo? Consolava un fantasma?
- …sarà tutto come prima, Tomi? Ricomincerai a giocare al bravo fratello maggiore e… - risalì con la mano dal petto alla spalla e poi lungo il collo, fermandosi lì, appena sotto l’orecchio, ghiacciandolo. - …e non mi toccherai più? Non pensi a quanto questo ci farà soffrire, Tomi…?
- …ci…?
L’altro ghignò, baciandogli lievemente una guancia.
- Te. Me. Lui.
Tom si morse un labbro, spalancando gli occhi sotto quel tocco umido e freddo e stringendo convulsamente le mani attorno a un lembo di lenzuolo.
- Non si salverà nessuno di noi, Tom. – proseguì il fantasma, scavalcandolo e sedendoglisi in grembo, - E sarà solo colpa tua. – poi si fermò, baciandolo sulle labbra e scostandosi con una smorfia quando vide che non solo lui non le schiudeva, ma nulla della sua espressione sembrava in procinto di spostarsi. Immobile e congelato nel tempo, Tom si limitava a guardarlo. E lui sorrise condiscendente, quasi tenero, e lo abbracciò. – Ma io non voglio che succeda, amore mio… non voglio che Bill ti odi e non voglio che tu cominci a odiare te stesso. Non ti permetterò di fingere ancora.
Si scostò da lui e gli poggiò le mani sulle spalle, costringendolo a tornare disteso lungo il materasso. Il respiro di Bill gli lambiva le orecchie, caldo e tranquillo. Una delle sue mani giaceva immobile accanto alla sua, riusciva a percepirne il tepore attraverso i pochi centimetri d’aria che le separavano. Il calore di Bill si irradiava da lui e lo avvolgeva come una coperta, rendendo tiepido anche il corpo altrimenti ghiacciato che continuava a sovrastarlo, le cosce chiuse attorno al suo bacino come una tenaglia e ugualmente ineludibili.
Tom si lasciò anestetizzare da tutte quelle sensazioni. Si lasciò distendere, si lasciò sfiorare, si lasciò scaldare.
E baciare, e toccare.
- Non possiamo farlo… - biascicò senza convinzione quando l’altro prese a spogliarsi, - Bill è proprio qui… ci sentirà…
E il fantasma sorrise, baciandolo ancora.
- Allora farai meglio a far piano.

We have each other
You are my brother
Sitting here beside you
I just wanna use you

*
Dal giorno dopo, Bill cominciò a dare segni di cedimento. S’era comportato in maniera impeccabile, fino a quel momento, nonostante tutto quello che aveva passato. Ma da quel giorno in poi cominciò ad andare tutto storto.
All’inizio erano sciocchezze. Nel senso che continuavano a beccarlo – tutti – davanti allo specchio, col cappellino sollevato, mentre scrutava la benda con sospetto, provando a sollevarla per cercare di capire se i capelli stessero cominciando a ricrescere o meno. Oppure lo si vedeva fermo nella stessa posizione, a fissare il beauty-case sigillato da quando era uscito dall’ospedale, squadrandolo con occhiate oblique neanche fosse stato un traditore.
Tom non si sarebbe mai sognato di avvicinarglisi e chiedergli perché non ricominciasse a truccarsi. Fortunatamente, non era Tom l’unico altro componente dei Tokio Hotel oltre a Bill, e del lavoro sporco si caricò – come sempre – Georg, il quale, facendo fruttare per qualcosa di utile la propria proverbiale insensibilità, lo assaltò un giorno armato di mascara aperto – rubato proprio al beauty che Bill teneva sotto chiave, ed alla violazione del quale, fino a qualche settimana prima, come minimo avrebbe reagito staccando teste e braccia a morsi – puntando alle sue ciglia e strillando “Bill, sei un cesso, per carità, passati almeno un filo di trucco sugli occhi!”. Bill aveva riso e l’aveva evitato con grazia, sfilandogli il mascara dalle dita con un gesto lieve e fulmineo e ficcandoselo in tasca dopo averlo richiuso, rispondendo con noncuranza che non si sentiva in vena.
Questo aveva fatto preoccupare perfino David.
Bill aveva un modo proprio di far sapere al resto del mondo che non stava bene. Ed ovviamente non era dire “non sto bene”, ma nascondersi dietro a un vago “non mi sento in vena”. Che nella lingua comune può voler dire una quantità infinita di cose, ma nel linguaggio di Bill Kaulitz significava sempre la stessa: “mi sento uno schifo e non voglio rotture”.
E, in genere, anche “peggiorerà, statene certi”. Perché il passo successivo era scoppiare in lacrime per nessun motivo particolare – o per un motivo talmente piccolo che nessuno era riuscito a notarlo in tempo – e cominciare ad urlare di voler tornare a casa propria.
Bill era un ragazzo adorabile, e professionale, e tutto, ma non c’era modo di farlo ragionare, quando dava di matto. A meno di infilarlo in una stanza da solo con Tom ed aspettare che si fossero sbranati a vicenda per poi aiutarli a ricomporsi una volta che avessero scaricato rabbia e tensione.
A una decina di giorni da quando erano tornati in albergo, con la produzione che non riusciva a prendere una decisione per quanto riguardava il video di Spring Nicht, e che perciò li obbligava a restare lì a Berlino fino a nuovo ordine, che Bill impazzisse, scoppiasse a piangere e si facesse prendere da un attacco di nostalgite acuta, era l’ultima cosa di cui David Jost avesse bisogno.
Fu per questo che, nel momento esatto in cui, inspiegabilmente senza una lacrima, Bill irruppe in camera sua – con la solita discrezione silenziosa ma del tutto impossibile da ignorare – piagnucolando di voler tornare ad Hamburg, la lampadina d’allarme che David aveva imparato a sviluppare da quando lavorava coi ragazzi si accese e lo spaventò.
Se non altro, era già qualcosa che non pretendesse di tornare a Loitsche ora e subito. Generalmente lo faceva. Quella volta, magari, aveva solo voglia di ritrovare i propri spazi e la propria incasinata e adolescenziale quotidianità fatta di orsetti gommosi ed enormi e disgustose pizze familiari da dividere con gli amici guardando un orribile film per famiglie in televisione.
- Devo parlarne con la produzione, Bill. – mentì, omettendo la parte secondo la quale aveva già parlato con la produzione e, a dirla tutta, aveva chiesto loro anche di lasciare che i ragazzi se ne tornassero a casa, ottenendo come unica risposta un “le faremo sapere” tanto diplomatico quanto falso. – Io capisco che tu non abbia la minima voglia di tornare a girare il video, ma ti renderai conto-
- Ma a me non seccherebbe girare. – lo interruppe lui, saldo nelle proprie intenzioni, - Almeno lo facessimo. Ma, ozio per ozio, preferisco farlo a casa mia!
- Adesso non fare il bambino.
Non lo stava facendo, chiaramente. Ma non poteva cedere così facilmente. Soprattutto nel momento in cui si rendeva conto di non avere alcun potere decisionale a riguardo.
Bill aggrottò le sopracciglia e guardò per terra, arricciando le labbra in una smorfia infastidita e delusa. David odiava vedergli quella smorfia addosso. Perché Bill era davvero adorabile, ed era davvero un piacere lavorare con lui; quindi gli faceva male doverlo ogni volta disilludere, ripetendogli in tutti i modi possibili che no, Bill, lo show business non ti ringrazia e non ti concede sconti, anche se gli hai dato il corpo e l’anima senza risparmio per anni.
- Avanti… - mormorò, in preda ai sensi di colpa, posandogli una mano sulla spalla e stringendo teneramente, percependo la clavicola sottile sotto la pressione del pollice, - Perché non vai un po’ a giocare con Georg e Gustav? Sono chiusi in camera a sparare ai vampiri da ore, vedrai che un joystick per te lo trovano. – suggerì, consapevole del fatto che Bill non avrebbe mai trovato interessante un gioco che implicasse la possibilità di rovinare intere mezz’ore di manicure per ammazzare esseri già biologicamente morti.
E infatti Bill scrollò le spalle, del tutto indifferente.
- …nel frattempo, ti prometto che io chiamo la produzione e cerco di strappar loro una vacanza.
I sorrisi di Bill somigliavano agli schiaffi, in un certo modo. Erano repentini e veloci al punto che spesso neanche li vedevi arrivare. Ma poi, quando si aprivano del tutto, e lui ti guardava con quegli occhi pieni di gioia e gratitudine… ti colpivano. Sì, proprio come schiaffi. Ma più piacevoli.
David sorrise a propria volta e strinse ancora un po’ sulla spalla, prima di lasciarlo andare ed osservarlo cinguettare un “grazie” e fuggire trotterellando lungo il corridoio, diretto verso la camera di Georg dove sapeva essere stata montata la consolle.
Ovviamente, nel momento in cui rimase solo, prendere il cellulare e mantenere la propria promessa non fu un pensiero contemplato. Piuttosto, si fiondò in corridoio, con la chiara intenzione di irrompere in camera di Tom e obbligarlo a fare qualcosa, non importava cosa, per riportare la situazione ad un livello di allarme meno preoccupante. Solo che, quando arrivò di fronte alla porta e provò a sfondarla – ricordava male, o aveva esplicitamente chiesto a quei mocciosi di tenere aperte le porte per ogni evenienza?! Tanto, chi volevano andasse a rompere loro le palle in un’ala di albergo completamente deserta?! – si ritrovò di fronte ad una verità piuttosto scomoda. La porta era chiusa a chiave, e dall’interno venivano dei rumori di natura inequivocabile.
- Tom! – urlò, battendo un paio di volte il pugno contro la porta.
Non sapeva come diavolo avesse fatto quella groupie ad entrare là dentro, ma l’avrebbe scoperto, oh, sì. E, se fosse stato necessario, avrebbe cementato ogni condotto d’areazione di quella dannata stanza.
Tom non rispose. Ma almeno i rumori si fermarono.
- Deficiente, apri questa maledetta porta! Lo so che ci sei!
- Sì, sì! Arrivo! – ansimò il chitarrista, agitato, caracollando velocemente verso la porta e aprendola pochi secondi dopo.
David lo scaraventò sul letto con una manata e prese a guardarsi intorno come un predatore.
- Dov’è?! – sbraitò poi, dal momento che non riusciva a vedere nessuno.
- …chi? – fu la stupita risposta di Tom, che, immobile sul letto, non riusciva a staccargli quello sguardo terrorizzato di dosso.
- Lo so cosa stavi facendo, dannato moccioso infoiato. – si limitò ad accusarlo lui, fissandolo con severità. – Dove hai nascosto la tizia con cui eri?
Tom arrossì fino alla punta delle orecchie.
David non l’aveva mai visto arrossire quando parlava di sesso.
Il che, unito alla consapevolezza che in quella stanza non c’era effettivamente profumo di donna e tutto sembrava avvolto in un silenzio religioso e quasi irreale, poteva voler dire solo che…
- …ah. – articolò, spalancando a propria volta gli occhi e incrociando le braccia sul petto. – Scusa.
Il rasta deglutì e non disse altro, abbassando lo sguardo con l’aria di uno che avrebbe gradito scomparire sotto quintali di terra.
- Volevi dirmi qualcosa? – si sforzò comunque di chiedere, grattando la moquette con la suola delle scarpe da tennis.
Complimentandosi interiormente con la forza d’animo del ragazzo, David si ostinò a svolgere il proprio dovere di tutore, come gli piaceva pensare quando era semplicemente preoccupato per Bill e cercava di darsi da fare per farlo star meglio.
- Che ha tuo fratello? – gli chiese a bruciapelo, sedendosi sul letto accanto a lui.
Tom gli sollevò addosso un’occhiata stupita.
In effetti, David si rendeva conto di star ponendo una domanda presuntuosa. D’accordo che erano gemelli, d’accordo che erano appiccicati l’uno all’altro come piattole, d’accordo che erano sempre stati uniti da qualcosa che andasse al di là di ciò che tutti gli altri riuscivano a comprendere, ma era forse troppo pretendere anche che Tom conoscesse precisamente ogni sfumatura degli stati d’animo di Bill. Ed il problema, con quel benedetto ragazzo, erano proprio le sfumature. Bill non viveva i sentimenti con pienezza, ne viveva solo parti. Li prendeva a morsi. Non potevi dire semplicemente “è arrabbiato”, perché i suoi stati d’animo non erano definibili con una tale nettezza. Erano sempre una commistione varia ed eventuale di cose slegate fra loro.
Tom non riusciva sempre ad esprimerli a parole.
Riusciva spesso, però, a migliorare la situazione anche solo imponendo la propria presenza.
In fondo, il rapporto che legava i gemelli era dannatamente speculare. Proprio come il loro aspetto.
David ci contava. Ci contava forse troppo.
*
Come fai a dire al tuo manager – la cosa più vicina a un padre che tu abbia avuto da quando sei andato via di casa alla tenera età di tredici anni – che non hai la più pallida idea di come aiutare tuo fratello perché a stento riesci ad aiutare te stesso a camminare nonostante lo schifo in cui stai immerso fino alle ginocchia? Come fai a dirglielo, quando è palese che ti sta mettendo nelle mani non solo il futuro della propria sanità mentale, ma anche dell’unità del gruppo stesso – che, per inciso, è la cosa più importante che tu abbia dopo il succitato fratello?
Certe volte aveva come l’impressione che il resto del mondo si lavasse le mani rispetto ai problemi di Bill, perché “tanto ci sarebbe stato comunque lui a risolverli, in un modo o nell’altro”. Era una sensazione pesante… l’aveva sempre fatto sentire in qualche modo responsabile del proprio fratello, fin da quando era… davvero troppo piccolo per ricordare l’anno esatto.
Come poteva guardare Dave e dirgli “C’è un problema: qualche giorno fa ho scopato un fantasma uguale a Bill, proprio nel letto di Bill, con lui che dormiva placidamente accanto. Dici che possiamo risolvere prima questo e solo dopo passare a mio fratello, o no?”.
Scrollò le spalle.
- Non parliamo molto, ultimamente.
- Lo immaginavo. – annuì David con competenza, - Tom, lo so che è stato un periodo duro per tutti. Lo so che l’incidente ti ha scosso molto, lo so che dover rimanere chiusi in albergo ventiquattro ore su ventiquattro è uno strazio, lo so che le cose non sono facili. Ma devi capire che se per te è uno schifo, per Bill lo è di più.
- Se hai un modo per misurare la quantità di dolore che una persona sta provando, brevettalo. – rispose astioso, aggrottando le sopracciglia, - E non rompere le palle a me.
- Tom, lo sai che i ceffoni non me li sono mai risparmiati. Non farteli tirare addosso per forza. – si interruppe, sospirando rumorosamente. – Dimmi che hai, su. Che avete entrambi. È un disastro!, lo capisci che così non può continuare?
Certo che lo capiva. Lui lo capiva meglio di tutti loro messi insieme. Ma non poteva dirlo, perché non poteva dire a nessuno quello che combinava in camera propria quando nessuno poteva vederlo. Non poteva dire a nessuno di stare scopando col sosia del proprio fratello un attimo prima che David entrasse in camera. Non poteva dire di averlo visto salutare e uscire dalla finestra per scomparire subito dopo, perché quello avrebbe voluto dire troppe, troppe, davvero troppe cose, e lui non era preparato per… non sarebbe mai stato preparato ad ammetterle.
Stava crollando, era vero.
E stava portando a picco con sé anche Bill.
E questo, probabilmente, avrebbe distrutto tutto. E non voleva, davvero, ma come… che altro avrebbe potuto fare…?
- Tom. – sbottò David dopo un po’, indispettito dal suo silenzio, - Ascoltami. Avete bisogno di distrarvi. Inforcate un bel paio di occhiali da sole e andate da qualche parte, chessò… a fare shopping, a mangiare un panino da McDonald’s, una cosa qualunque…! Scommetto che è l’aria di questo stupido albergo. Scommetto che è questo che vi opprime.
Questo, e un fantasma tentatore, David.
Da lui posso fuggire…?

- Per favore, Tom. – concluse il manager, prima di battergli un’affettuosa pacca sulla spalla ed avviarsi verso l’uscita, - Qualcosa dovrai pur fare! E sei l’unico che possa.
*
- Voglio solo tornare ad Hamburg.
Ebbene sì. Alla fine aveva ceduto. Aveva messo da parte tutti i propri problemi, s’era sforzato di non pensarci, s’era sforzato di credere che, ignorando anche quell’enorme disastro in cui s’era cacciato, poco a poco sarebbe riuscito a farlo sparire, ed era andato da Bill a chiedere conto e ragione dell’atteggiamento allarmato di David.
- Non mi sembra di chiedere tanto. – aggiunse il gemello, senza staccare gli occhi dai piedi dell’armadio in fondo alla stanza, dove li aveva piantati nel momento in cui Tom l’aveva raggiunto ed aveva cominciato a chiedergli se ci fosse qualche problema.
- Non chiedi tanto. – si affrettò a precisare Tom, sedendosi al suo fianco, - Non è questione di chiedere tanto o poco. È questione di chiedere una cosa che, per quanto minuscola, per ora è impossibile. Capisci, è come se, nel mezzo del deserto, tu pretendessi di vedere, chessò, una carota che sbuca dalla sabbia! Una carota è una cosa piccola, ma ciò non toglie che-
- Non voglio una carota. Voglio solo tornare a casa nostra.
Ecco. Quando Bill cominciava ad ignorare le parti razionali del discorso per travisare il resto e mugugnare sciocchezze, era segno che ci fosse davvero un problema. Un problema di quelli di cui non riusciva a parlare, perché quella era la sua tecnica preferita per glissare le discussioni.
- Bill… - sospirò stancamente, - Se hai-
- E comunque, David poteva venire a dirmelo da solo, che non ci avrebbe fatto andare. Poteva risparmiarsi di prendermi in giro.
- Non prendertela con lui, adesso. – sbuffò contrariato, - Non è venuto da me a dirmi “non ho le palle per confessare a Bill che non posso lasciarvi andare, potresti dirglielo tu per conto mio?”. È venuto a chiedermi come stessi. E, francamente, Bill, adesso voglio saperlo pure io. – lo afferrò per il mento, costringendolo a farlo voltare verso di sé. Ma gli occhi di Bill rimasero lontani, piantati nel vuoto, come fossero incapaci di metterlo a fuoco. Non per impossibilità. Ma per mancanza di voglia. - …fino a qualche giorno fa eri felice come una pasqua, e adesso guardati…
- Sto bene!
- Senti, Bill: fai almeno finta di crederci, quando spari una balla, ok?
- Vaffanculo! – strillò, separandosi da lui con uno scatto e saltando in piedi neanche l’avesse punto con un milione di spilli. – Non puoi pretendere di…
Si fermò, serrando le labbra ed aggrottando le sopracciglia, gli occhi che si riempivano lentamente di lacrimoni spaventosi.
- Ma Bill, ero solo preoccupato per te… - replicò Tom a bassa voce, cercando di capire cosa avesse solo fissandolo.
Il moro lo sferzò con un’occhiataccia improvvisamente lucida e presente.
- Smettila di dire che sei preoccupato per me. Proprio tu che… - ma si fermò ancora. Era come se, arrivato ad un certo punto, non trovasse più la forza né il modo di andare avanti.
Qualcosa – qualcosa di troppo simile al cuore – si mosse lentamente, spostandosi dal petto di Tom fino alla sua gola, e lì restando. Soffocandolo.
- C’è qualcosa che devi dirmi? – cercò di dire, simulando sicurezza.
- C’è qualcosa che tu devi dire a me? – ritorse Bill, stringendo i pugni lungo i fianchi.
E qualcosa c’era. Ci doveva essere. Perché la linea tesa delle labbra di Bill e l’onda delle sue ciglia umide di pianto ormai asciutto – no, non “ormai”: sempre asciutto. Bill non aveva mai pianto. – stavano parlando così ad alta voce che sembrava stessero gridando. Bill rimaneva in silenzio, Bill lo sfidava a parlare, Bill pretendeva una confessione della cui entità non aveva minimamente idea.
Tom ne era sicuro: era per questo che la pretendeva. Perché non capiva quanto fosse terribile.
Deglutì, alzandosi in piedi ed avvicinandoglisi lentamente. Lo vide tremare impercettibilmente e combattere con furia il desiderio di indietreggiare, uscendo vittorioso dal conflitto. Lo vide rimanere fermo, rigido sulle gambe, proteso in avanti. Non era più solo il suo sguardo a sfidarlo, era tutto il suo corpo.
- Bill… - cominciò, pacato. Erano proprio in guerra. Talmente in guerra che lui stava parlando come un ambasciatore. Con la stessa codarda prudenza. - …non litighiamo adesso. Io non voglio litigare. – Bill sembrò sciogliersi, rilasciando le dita dalle nocche ormai bianche, e schiudendo le labbra, - Se ci sono cose che non vuoi dirmi… andiamo, lo so che ci sono cose che uno non vorrebbe mai dire agli altri. Lo capisco. Mi sta bene. Solo… non mi va di stare in tensione con te. È una situazione del cazzo… - sorrise appena, increspando le labbra, - Possiamo solo sostenerci l’un l’altro, no?
E Bill rilassò le spalle, che si curvarono quasi sotto il peso di un enorme macigno.
Mai come in quel momento Tom provò fortissimo il desiderio di stringerlo a sé. E nient’altro. Solo abbracciarlo, cercare di fargli capire in quel modo che non era solo, che anche lui portava un peso, che anche lui sapeva cosa significasse soffrire sotto un carico impossibile da lasciarsi indietro. Che, pure se non sapeva cosa stesse pensando, come sempre riusciva a capirlo benissimo. A sentirlo benissimo. Quasi quella di Bill fosse una seconda pelle, o un’estensione del proprio stesso corpo.
- Scusa… - esalò Bill, esausto, chinando il capo.
- Senti… - disse allora lui, cercando di abbozzare un sorriso e sollevando le mani a stringergli le spalle, - David mi ha detto una cosa, sai? – Bill sollevò lo sguardo e lo fissò con aria da cucciolo triste e curioso insieme. Tom sbuffò un sorriso intenerito e continuò, - Lui pensa che dovremmo metterci addosso un travestimento e andarcene in giro. – Bill ridacchiò, socchiudendo le palpebre e scuotendo il capo, - No, no, davvero. – insistette Tom, convinto, - C’è un luna park qui vicino, sai? Tu non ti trucchi, io nascondo i rasta, ci mettiamo addosso i vestiti di Georg, un paio di occhiali da sole e ci siamo! Nessuno si accorgerà di noi! Ok?
- Le fan sanno che siamo bloccati qui… l’ho letto anche io su internet… - mugugnò Bill, - Scommetto che sono organizzate in squadre e ci danno la caccia per tutta la città…
- Eh, chissenefrega. – sbottò Tom, scrollando le spalle, - In caso fuggiamo. Ma sono sicuro che andrà tutto bene, vedrai.
- E se non dovesse andare tutto bene? – insistette lui, preoccupato, mordicchiandosi un labbro, - Non voglio essere visto, non voglio che mi si veda in questo stato
Anche Tom si morse un labbro, aggrottando le sopracciglia.
- Non sei in nessuno “stato”, ok? – lo rassicurò, - Stai benissimo. Sei… - sospirò e socchiuse gli occhi, - …stupendo. Come sempre.
Come sempre.
Bill sorrise debolmente, inclinando appena il capo. E poi annuì.
Non serviva che ringraziasse.
- Allora? Andiamo a travestirci da Listing o no?
*
Prima o poi avrebbe dovuto pensarci. Mettersi seduto ad un tavolo e riflettere seriamente su ciò che provava per Bill. Cercare di capire se fosse solo una suggestione della sua mente, se per caso non fosse colpa dell’altro, se non fosse soltanto un rigurgito della paura di perderlo che aveva provato quando aveva saputo che era in coma… o se davvero quello che sentiva per lui fosse amore. Perché se lo era, se quella spinta al sapore di inevitabilità era reale, lui doveva saperlo. Doveva prenderne atto. E risolvere.
In realtà non aveva mai creduto possibile “risolvere”i sentimenti. Men che meno per ciò che riguardava l’amore o l’attrazione. Perché “risolvere”, in quel campo, indicava solo una cosa: sopprimere. A sopprimere i propri sentimenti – in realtà, a sopprimere i propri istinti – lui non ci aveva neanche mai provato. Nonostante perfino ai suoi occhi offuscati dal desiderio fosse chiaro quanto oscena e disgustosa fosse l’inclinazione che stavano prendendo le sue voglie, nemmeno quella volta ci aveva provato. Nemmeno allora che rischiava di far del male a Bill, nel caso la situazione fosse venuta fuori, si era detto “fermati, rifletti e smetti di concedertelo”. Se l’era concesso, prima perché credeva fosse un sogno – o semplicemente gli faceva comodo pensare che fosse così – e poi perché, sogno o non sogno, non aveva più potuto farne a meno. Provare piacere, essere soddisfatti, non farsi mancare niente, erano un po’ le basi di tutto il suo agire.
Niente rinunce. Niente no.
Sì, decisamente era lui il più viziato fra i due.
- Voglio assolutamente andare anche lì! – cinguettò allegro Bill al suo fianco, indicando l’enorme ruota panoramica che troneggiava nel mezzo del parco.
Tom lo fissò di sbieco.
- Ma se l’hai sempre trovata mortalmente noiosa…
- Sì, però abbiamo già fatto quasi tutto… - argomentò Bill, sbuffando, - E poi non ci sono mai stato, mi piacerebbe vedere ancora Berlino dall’alto…
Tom sorrise teneramente, dandogli un buffetto su una spalla.
- Ti è piaciuta così tanto la prima volta? – lo prese in giro, - Ed io che pensavo fosse una città grigia e noiosa!
- È splendida… - negò Bill, con aria sognante, - Non puoi nemmeno immaginare…
- Ehi, adesso. – borbottò lui, contrariato, - Mi sembra di aver già specificato che su quel tetto c’ero anche io, non eri da solo…
Bill scosse ancora il capo, sorridendo debolmente.
- Non puoi capire. – ribadì, - Sei lì, sul ciglio del niente… il vuoto a due passi, la città ai tuoi piedi… enorme, luminosa e nonostante tutto piena di punti oscuri… solo che tu ti senti quasi in grado di arrivare a vederli, quei punti oscuri… a percepirne le forme, gli odori, perfino il sapore dell’aria… è-
- Dio mio, sento una canzone in arrivo! – scherzò ridacchiando e dandogli una pacca sulla spalla.
Bill fece una smorfia e lo fissò offeso.
- Sei uno stronzo. – sbottò, - Stavo esprimendo un concetto! Ora, mi rendo conto che per te arrivarci possa essere uno sforzo troppo grande, ma-
- Sì, sì, come vuoi. – concesse lui, chiudendo gli occhi per darsi un tono ed agitando mollemente una mano davanti al viso. Bill borbottò ancora qualcosa e ficcò le mani nelle tasche del giubbotto, guardando altrove con aria irritata. – Comunque… - riprese Tom con un breve sorriso, - ti ci porto, ok. Ma non prima di avere fra le mani una sufficiente dose di zucchero!
Bill si voltò repentino, guardandolo con un sorriso enorme e altrettanto enorme gratitudine riflessa negli occhi. Poi sembrò riflettere sulle sue ultime parole, ed arricciò le labbra in una smorfia curiosa.
- Zucchero…? – chiese incerto, inclinando il capo.
Tom sorrise più apertamente.
- Bianco o rosa? – si limitò a domandare a propria volta, scatenando definitivamente lo scoppio di risate di Bill che, dopo aver strillato “Bianco, e che cavolo!!!”, cominciò a dirigersi esultante verso il bancone dello zucchero filato, poco distante da dove si trovavano in quel momento.
Lo osservò saltellare felice fino al tavolinetto, chiedere una porzione per sé ed una anche per lui e poi attendere che fossero pronte, le mani sui fianchi, un sorriso sereno e genuino ad arricciare teneramente le labbra un po’ scure per il freddo, e pensò che gli sarebbe piaciuto scaldarle. Che gli sarebbe piaciuto non essere suo fratello per accostarglisi e baciarlo. Che gli sarebbe piaciuto non essere neanche maschio, per poterlo fare senza dover sentire stupide risatine o versetti disgustati da parte dei più puritani fra gli altri presenti in quel luogo. Gli sarebbe piaciuto poter mostrare al mondo intero quanto e come l’amava. Con quale intensità l’avrebbe fissato negli occhi, se solo avesse potuto. Con quanto desiderio avrebbe fatto scorrere un braccio attorno alla sua vita, stringendolo a sé.
Ma non poteva.
E la cosa peggiore era che non poteva mostrarlo neanche a Bill.
In realtà, proprio non avrebbe dovuto avere niente da mostrare.
- Non puoi fermarti quando vuoi. – sibilò una voce alle sue spalle, direttamente contro il suo orecchio, - Non è un gioco, Tomi. L’amore non lo ignori.
Si irrigidì, incapace di voltarsi.
- Ti vedranno tutti.
- Non mi vedrà nessuno. Non mi vede mai nessuno. Secondo te perché, Tomi…?
- Non lo so. – si morse un labbro, - Non voglio saperlo. Cosa vuoi ancora?
- Te l’ho detto. – rispose l’altro, stringendolo da dietro attorno al collo, - Non posso lasciare che tu finga ancora. Tu non vuoi che io ti lasci fingere ancora. Tu non hai fatto che aspettarmi, perché potessi liberarti.
- Non voglio essere liberato. Non c’è niente di cui liberarmi. Non c’è proprio niente.
L’altro Bill ghignò apertamente, e così crudelmente che Tom percepì quasi la sensazione di averlo addosso, quel ghigno. Sulla pelle come una ferita. Che brucia e tira e si spacca e sanguina. Sgradevole.
- Il tuo corpo sembra pensarla diversamente… - mormorò sensuale, scivolandogli sul collo con le labbra mentre ritirava le mani per poi agganciarlo alla vita e stringere il cavallo dei pantaloni insolitamente stretti sulla sua eccitazione pulsante.
- Non è per Bill… - si difese blandamente lui, chinando il capo ed arrossendo, - Vattene…
- Se io me ne vado, tu mi seguirai. – lo ammonì il fantasma, muovendosi sul suo bacino, lieve e lento e insopportabile, - Lo sai che lo farai. Non hai il coraggio per prenderti da Bill ciò che vuoi e quindi lo prendi da me. Mi sta bene. Prima ancora, non avevi il coraggio neanche per prendertelo da me, e te lo prendevi da ragazze sconosciute di cui non ti importava un accidenti. Mi stava bene anche quello, ma com’è cambiato cambierà anche questo.
- Non c’entra niente… - si lamentò lui, pregando da un lato che Bill tornasse in fretta con lo zucchero filato e lo liberasse da quell’angoscia, ma dall’altro perché non tornasse più, e non lo vedesse mai in quelle condizioni, e non capisse mai niente di quanto storto e sconvolto fosse suo fratello maggiore, - Quello che c’era con le ragazze… quello che c’è con te… con Bill non c’entra…
- Devi fidarti di me, Tomi… - insistette lui, accarezzandolo più decisamente, - Io la so la verità. Non puoi prendermi in giro, non ci riuscirai.
- Vattene. – ripeté, stringendo i pugni per non cedere alla tentazione di sollevare a propria volta una mano e posarla su quella dell’altro Bill, perché, contrariamente a quanto stava dicendo, restasse lì per sempre.
Bill ridacchiò e smise di toccarlo. Tom aprì gli occhi e vide che suo fratello era ancora fermo davanti al tavolinetto del venditore ambulante; molleggiava, spostando il peso da un piede a un altro, arricciando le labbra, infastidito dall’attesa. Non sembrava essersi accorto di quanto era successo.
Si guardò intorno.
Be’, nessuno sembrava essersi accorto di quanto era successo.
- Sono pazzo… - mormorò fra sé, quasi dolorosamente.
Prima ancora di riflettere per cercare di capire se fosse innamorato o meno, avrebbe dovuto riflettere per cercare di capire se ancora ci stesse con la testa o fosse partito del tutto. Anche perché il primo punto avrebbe potuto tranquillamente essere la diretta conseguenza del secondo.
Il primo bastoncino di zucchero filato era ora fra le mani di Bill, che si voltò e lo guardò, agitandolo in aria con un sorriso trionfante dipinto sul volto. Lui mosse un saluto a fendere il vento con una mano, sorridendo debolmente.
E poi si guardò intorno.
E l’altro Bill era ancora lì. Splendido come sempre. Le braccia incrociate dietro la schiena ed un sorriso furbo sul volto.
- Ce ne hai messo di tempo. – si sentì dire in uno sbuffo condito d’ironia, - Voglio andare nella stanza degli specchi… tu e Bill non ci siete ancora stati, vero?
- Aspetta…
Ma l’altro non lo ascoltò. Si voltò e prese a dirigersi velocemente – troppo velocemente, per essere reale – verso un edificio basso e grigio.
- Aspetta! – ripeté più ad alta voce, correndogli dietro.
Da qualche parte, alle sue spalle, Bill – suo fratello – aveva recuperato anche il secondo bastoncino di zucchero filato, aveva pagato e s’era voltato a guardarlo. E, voltandosi, l’aveva visto correre via verso la stanza degli specchi.
Lui se ne accorse. Razionalmente, sapeva che avrebbe dovuto fermarsi. Indietreggiare. Tornare da Bill, mangiare con lui lo zucchero filato, accompagnarlo docilmente sulla ruota panoramica mentre lo prendeva in giro per l’espressione meravigliata che avrebbe assunto il suo volto quando fossero arrivati abbastanza in alto da avere ai piedi tutta Berlino…
Ma il suo corpo non poteva tollerare un rinvio. Né una negazione. Perciò continuò a correre. E non s’interessò di nient’altro.
Nemmeno di quando, con la coda dell’occhio, vide suo fratello lanciare a terra i bastoncini di zucchero filato e prendere a inseguirlo di corsa.
*
Gli specchi, per lui, non erano mai stati semplicemente specchi. Sia per lui che per Bill, in effetti, avevano sempre rappresentato un modo come un altro per ritrovarsi. Per specchiarsi in un’immagine uguale e visualizzare, al suo posto, un’immagine simile ma non del tutto identica. L’immagine del gemello. Dell’altra metà di loro stessi.
Tom aveva scoperto di essere in grado di vedere Bill, guardandosi allo specchio, quando, da piccolo, era stato costretto a passare qualche giorno lontano da lui, al campeggio. Quando Bill, in preda ad un attacco di nostalgia, aveva preteso di essere rimandato a casa, lui aveva voluto mantenere intatta la propria maschera di “Kaulitz duro” ed era rimasto lì, per quanto il solo pensiero di separarsi dal fratello anche solo per un giorno lo annichilisse in maniera quasi devastante.
Ecco, sì. Senza Bill s’era annichilito. Nessuna attività sembrava più stuzzicarlo, non aveva più voglia di fare niente o di parlare con qualcuno.
Poi, una mattina, mentre si lavava i denti, fissandosi con aria annoiata nell’enorme specchiera del bagno comune, invece di vedere sé stesso aveva visto Bill. Erano ancora del tutto identici, in quel periodo, perciò solo lui era in grado di vedere effettivamente in cosa differissero le loro immagini. La disposizione dei nei, i lineamenti lievemente più affilati, gli occhi più grandi e liquidi. Quello nello specchio era Bill. E sorrideva.
Quella era stata la prima volta.
Le volte successive non era stato più così improvviso. Era stato lui a richiamarlo. Ad evocarlo, come per magia, per consolarsi della sua assenza, del vuoto enorme che sentiva quando pensava che magari avrebbe potuto fare qualcosa di interessante che comunque sarebbe risultato del tutto inutile e privo di validità, per il semplice fatto che non avrebbe potuto condividerlo con lui.
Era ironico che il luogo in cui sarebbe morto dovesse essere interamente composto di specchi.
Perché lui, in quel posto, ci sarebbe morto.
Lo immaginò piuttosto chiaramente quando, entrando nell’edificio, si ritrovò a fronteggiare da vicinissimo – appena un paio di centimetri – l’altro Bill che, invitante, si protendeva verso di lui, sollevando le mani e poggiandogliele sul petto, sfiorandolo attraverso il giubbotto, la felpa e la maglietta, riuscendo comunque a farlo sentire talmente bollente da bruciare.
Ma lo seppe – lo seppe con certezza – quando all’immagine dell’altro riflessa negli specchi tutto intorno si sovrappose anche l’immagine del suo Bill. Il suo piccolo Bill. Quello che aveva cercato di tenere alla larga, di proteggere fino a quel momento. E che ora lo fissava attraverso le decine di superfici riflettenti che lo circondavano, facendolo sentire sotto assedio, mentre due mani del tutto uguali alle sue lo accarezzavano senza pietà e due labbra affamate e ghiacciate – sì, proprio identiche alle sue – gli succhiavano la pelle del collo.
E lui rimaneva lì, immobile.
A fissarsi nello specchio.
Disgustato.
Ed a guardare Bill.
Terrorizzato.
- Tom… - mormorò suo fratello alle sue spalle.
L’altro Bill non smise di baciarlo.
Tom strinse le labbra e deglutì rumorosamente.
Suo fratello rimase immobile, gli occhi spalancati e un’espressione sconvolta a distorcere i lineamenti del viso. Muoveva impercettibilmente le punte delle dita, come fosse incerto su cosa farsene. Chiudere le mani a pugno? Stenderle come avesse bisogno di sciogliere i tendini?
Dire qualcosa?
Ma dire cosa?

L’altro Bill finalmente si staccò da lui e li guardò entrambi. Ed a Tom sembrò che ghignasse. Che lo facesse con pietà e con una vena di crudele compiacimento.

E se tu sei un parto della mia mente, perché ridi così?

- Doveva succedere, prima o poi. – sussurrò tagliente il fantasma, separandosi definitivamente da lui e muovendosi lento verso Bill. Tom si voltò a guardarlo, ma non mosse un dito per fermarlo. Neanche quando lo vide sollevare una mano e posargliela sulla guancia, scendere verso il mento seguendo il suo profilo e lì afferrarlo, per costringerlo a guardarlo fisso negli occhi, stringendolo con violenza. Non si mosse neanche quando vide la scintilla di paura negli occhi di Bill trasformarsi in puro terrore. Non si mosse, perché era lui il colpevole. Non poteva salvare Bill da quello che stava succedendo, semplicemente perché non poteva salvarsi da sé stesso.
Era un animale. Era un criminale. Gli stava facendo del male. Era completamente pazzo.
E non poteva fare niente per impedirselo.
- Tom! – lo chiamò Bill, cercando di voltare lo sguardo a cercarlo, malgrado il fantasma lo tenesse ancora bloccato e immobile.
E Tom abbassò lo sguardo. Abbassò lo sguardo e si morse un labbro e poi strizzò le palpebre e pregò fosse un sogno. Pregò di essere veramente pazzo, pregò di trovarsi in un delirio, in un’allucinazione, pregò d’essere in una camera dalle pareti imbottite, stretto in una camicia di forza, rinchiuso al sicuro in un manicomio criminale. Pregò che niente di tutto quello che aveva visto e vissuto fino a quel momento fosse stato vero. Pregò intensamente, malgrado non avesse mai avuto fede in nulla.
Non si stupì così tanto, quando Dio non rispose. Quando l’aria si riempì di mugugni e lamenti soffocati con violenza. Quando sollevò lo sguardo e vide che il fantasma stava baciando il suo piccolo Bill, lo stava baciando con cattiveria, forzando le sue labbra con le proprie da assassino, mugolando di piacere per questo. Mentre Bill teneva gli occhi spalancati e fissava il vuoto, spingendo inutilmente contro il petto dell’intruso per separarlo da lui.
- Ti piace, Tomi? – chiese il fantasma staccandosi da lui e lasciandolo intontito e senza fiato, - Quanto ti senti perverso?
Malato.
Era quella la parola.
- Bill… - trovò appena la forza di esalare, portando entrambe le mani al viso e nascondendovisi dietro, - Mi dispiace… non volevo…
- Bugia… - cantilenò il fantasma, prendendo Bill per mano e trascinandolo senza delicatezza fino a lui, - Apri gli occhi, Tomi. Apri gli occhi e guardalo.
Tom scosse il capo, pressando più forte le mani sul viso, ma il fantasma sollevò le proprie e lo liberò da quella prigionia volontaria, costringendolo a sollevare lo sguardo. Bill era una maschera di paura e incertezza. Il volto magro era contratto in una smorfia allarmata, e gli occhi castani saettavano sulla sua figura alla ricerca di un perché, di una rassicurazione, di un riparo. Di una bugia. Della bugia che avrebbe potuto mettere fine a quella situazione assurda. Del “non c’è niente di strano” che avrebbe lasciato il fantasma a svanire nel niente. Del “sei solo il mio adorato fratellino” che avrebbe chiuso per sempre le porte alla verità e a qualsiasi sciocca speranza fosse nata nella mente di Tom in quei giorni.
E lui voleva davvero salvare Bill. Anche a costo di vivere una menzogna per sempre, fino alla morte. Anche a costo di seppellircisi, sotto alle mille menzogne che avrebbe dovuto tirar fuori da quel momento in poi. Anche a costo di prenderle tutte in bocca e soffocarcisi.
Perciò dischiuse le labbra.
E si preparò a mentire.
- Ti amo. – spalancò gli occhi. – Ti voglio…

Cosa diavolo stava succedendo?

- Te l’ho detto, Tomi. – rise impietoso il fantasma, - Niente più bugie. Non ti lascerò più scappare.
E Bill, Bill…
Bill restava lì, inerme a guardarlo…
Piangeva, finalmente… piangeva e singhiozzava forte, e stringeva la mano attorno a quella del fantasma perché fino a quel momento l’aveva visto come l’unico nemico ma adesso gli serviva qualcosa cui aggrapparsi per non cadere, e quella cosa non avrebbe mai potuto essere Tom, perché era Tom che lo stava spingendo, sì… era Tom che lo stava spingendo di sotto.
- Scusa… - biascicò ancora Tom, sollevando una mano a sfiorare la guancia di Bill, che sotto il suo tocco si tese impercettibilmente, - Io ti amo sul serio… non avrei mai voluto farti male…
Bill si morse un labbro e deglutì, stringendo ancora di più la presa sul fantasma, che ghignò apertamente.
- Tu… - tirò fuori a forza, cercando di non abbassare lo sguardo, - …dici di amarmi… amare me… tu… con lui
Li aveva visti.
Li aveva visti.
Quasi lo trovava divertente. Perché era stato tanto stupido da credere… da sperare…
No.
Era stato tanto presuntuoso da essere certo che ogni sua azione folle sarebbe rimasta circoscritta all’interno della sua mente.
Ma la sua mente non era tanto forte.
Niente di lui era abbastanza forte da reggere quel peso enorme.
- Questo posto è perfetto… - sibilò freddamente il fantasma, liberandosi dalla stretta di Bill e sospingendolo con una delicatezza tutta nuova verso il fratello, - Con tutti questi specchi, nessuno può dire chi è chi. Io posso essere lui, tu puoi essere me, lui può essere te… non è bellissimo, Tomi? Non è meraviglioso?
Lo era sul serio. Se solo faceva lo sforzo di non ascoltare non sentire neanche percepire quello che aveva intorno… se solo faceva lo sforzo di ignorare la voce di Bill, così sostanzialmente differente da quella del fantasma, o il suo calore, del tutto ignoto al suo corpo di aria e immaginazione, privo di appigli reali se non quelli che la sua mente si ostinava a dargli – un letto, un muro, una qualsiasi superficie sulla quale abbandonarsi e perdersi in mezz’ora di sospiri – per poter credere di non essere solo, per poter credere di essere ricambiato, per poter credere che per ogni amore c’è speranza, perfino per il più lurido ed ingiusto.
I sospiri di Bill non gli davano nessuna speranza, invece. Il suo tepore sotto le dita, mentre le lasciava scivolare sulla pelle, non lo aiutava a sentirsi amato. Si sentiva sporco. Lo stava ferendo. Lo stava obbligando a… Dio, no…
Il fantasma si allungò verso di lui, obbligandolo a guardarlo negli occhi. E poi lo baciò. Lasciò che si perdesse nella sua totale assenza di sapore e consistenza e poi lo guidò gentilmente fino alle labbra di Bill. Che si lasciò baciare senza protestare, si lasciò invadere senza un mugugno di dissenso. Continuò a lasciarsi divorare, e Tom si ostinò a tener gli occhi chiusi e buttare fuori la realtà, ma non c’era niente di reale in quello che stavano facendo, e perciò, se anche la realtà stava lontana, da tutto il resto lui non poteva scappare. Dalle mani del fantasma che si insinuavano prima sotto i suoi vestiti e poi sotto quelli di Bill, liberandoli dal loro abbraccio caldo e protettivo, conducendoli come in una danza i cui passi fossero loro del tutto ignoti, aiutandoli a muoversi come fosse lui a doverli guidare, lui a dover mostrare loro la via, lui a sapere cosa fosse meglio per loro, lì ed in quel momento.
E forse era proprio così.
Perché dopo un po’ le mani che lo toccavano smisero di essere fredde. No. Smisero di essere false. E si trasformarono in mani vere. Le mani di Bill. Si trasformarono nelle mani di Bill, e non perché lui, strizzando gli occhi fino a sentirli bruciare, s’era convinto della loro presenza fino ad immaginarle pure dove non erano, no. Le mani di Bill erano lì. E scivolavano lente lungo il suo petto e il suo ventre, arrampicandosi fino alle spalle e rigettandosi poi lungo le scapole, cercando fra di esse il disegno appuntito della spina dorsale. Affondando anche con le unghia fino alla carne, mentre la bocca di Tom si faceva strada sul suo collo, nell’incavo appena sotto il pomo d’Adamo, sul petto, a raccogliere i respiri fra le labbra come volesse nutrirsene o dissetarsene in lunghi sorsi.
Bill non disse una parola. Continuò ad accarezzarlo e lasciarsi accarezzare. Continuò ad ansimare ed ascoltare i suoi ansiti senza protestare, senza negarsi, senza ritrarsi. Neanche quando il gioco si fece ancora più pericoloso, neanche quando furono i pantaloni a sparire, neanche quando sentì il sesso di Tom premere contro al suo. Neanche quando il fantasma lo forzò ad aprire gli occhi e voltarsi, intrattenendolo con baci freddissimi, brevi e asciutti a fior di labbra mentre Tom si faceva strada dentro il suo corpo, lento, incerto, spaventato almeno quanto lui.
L’aria era piena solo dei loro respiri. Affannati e profondi e spezzati. E della voce di Tom. Che cantilenava scuse su scuse alternandole al suo nome e a dichiarazioni d’amore accorate al punto da sembrare fossero nate fra le lacrime. E così, probabilmente, era.
Al dolore di Bill, Tom rimase sordo. Alla certezza che, da qualche parte davanti a lui, i suoi occhi fossero serrati e le sue labbra tese in una smorfia sofferente, non volle credere. I suoi occhi e le sue labbra non riusciva davvero a vederli. Il fantasma teneva il suo viso immobile, incastrato contro la sua spalla. Era su quella pelle fredda e rarefatta che andavano ad infrangersi i sospiri di Bill. Non sulla propria. Lui non li sentiva sul serio. Non voleva proprio.
Si chinò su di lui, uscendo un attimo prima di venire. Lo schiaffeggiò con violenza la consapevolezza di essersi comportato né più né meno come aveva fatto con tutte le ragazzine senza nome e, ormai, anche senza volto che s’erano susseguite nelle decine e decine di camere d’albergo che aveva occupato in quegli anni.
Usa sempre il preservativo, ripeteva sempre David, e se sei tanto cazzone da dimenticarlo, esci sempre prima di venire. Serve a poco, ma almeno è qualcosa.
A cosa serviva, adesso che era venuto addosso a suo fratello, insudiciando la pelle candida e madida di sudore della sua schiena arcuata e in lento movimento dal basso verso l’alto, mentre Bill cercava di ristabilire un ritmo meno malsano per il proprio respiro e, davanti a sé, Tom non riusciva a vedere altro che gli occhi e le labbra di un fantasma spaventoso sorridere cattive nella sua direzione, stuzzicandolo e sfidandolo a ritirarsi adesso, adesso che era tutto scoperto, adesso che veniva a galla tutto lo schifo che aveva nascosto per anni?
Il fantasma strinse appena le palpebre, e l’ultima cosa che sussurrò prima di sparire fu una frasetta ad effetto. Sarebbe stato divertente se non fosse stata la dimostrazione manifesta della propria pochezza intellettuale.
- Qui non avete più bisogno di me. – sussurrò infatti, lasciando andare Bill, che si accasciò a terra, sfinito e dolorante, e ritirandosi nell’ombra. La sua immagine continuò a riflettersi sugli specchi intorno a loro, fino a quando Tom non si accorse che non era più la sua. Che non era neanche quella di Bill. Che non era nemmeno la propria e che, soprattutto, se anche lo fosse stata lui non sarebbe riuscito a distinguerle.
Si chinò al suo fianco, incerto sulla possibilità di toccarlo o meno.
Allungò una mano nella sua direzione e la poggiò delicatamente sulla sua spalla, accarezzandolo con dolcezza. Bill non si ritrasse e lui sospirò di sollievo. Ascoltò i suoi singhiozzi placarsi e farsi via via sempre più sordi e attutiti, fino a quando non lo sentì deglutire un’ultima volta e respirare pesantemente.
Perdeva sangue.
Si forzò ad ignorare il dettaglio e gli si chinò addosso, sfiorandogli una spalla con le labbra.
Bill rabbrividì, ma non si mosse.
Di solito, alla fine dei film o dei romanzi, il cattivo di turno muore. Quando non muore – e, se c’era una cosa che sapeva con certezza, era che in quel momento l’avrebbe preferito – è solo perché il buono riesce “a far breccia nel suo cuore” e convincerlo della possibilità di cambiare le proprie azioni e diventare buono a propria volta. Così il cattivo crolla a terra, in ginocchio, e piangendo confessa ogni crimine commesso. Ogni sofferenza arrecata agli altri. Ogni errore cui non ha voluto porre rimedio. E il buono poi si accoccola al suo fianco, lo consola e gli offre aiuto. Gli promette che gli resterà accanto. Che insieme ne verranno fuori. Che risolveranno tutto.
Lui non voleva sentire promesse simili da Bill. Perché Bill era ferito e sofferente sotto di lui, anche in quel momento, e qualsiasi promessa di quel tipo sarebbe suonata falsa.
Ma suo fratello non era una persona falsa.
Suo fratello non stava pensando che voleva salvarlo.
Non stava pensando neanche che voleva salvarsi.
Non stava pensando a niente, probabilmente.
- Convincerai David a lasciarci tornare a casa…? – chiese in un respiro spezzato e sommesso, senza sollevare gli occhi dal pavimento lurido, stringendosi nelle spalle per cercare di evitare almeno un po’ il freddo pungente che rendeva congelata perfino quella stanzetta.
Tom si morse un labbro. Strisciò sul pavimento fino a recuperare il proprio giaccone e lo utilizzò per coprire le spalle sottili e tremanti di Bill. Poi annuì, lo aiutò ad alzarsi in piedi e, insieme ed in silenzio, si rivestirono.

We have each other
You are my brother
Sitting here beside you
I just wanna use you
Genere: Generale.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Gen.
- "Quando sei un adolescente, canti in una band e hai passato sette dei più preziosi anni della tua vita a cercare di ridere in faccia agli stronzetti che ti sfottono perché ti tingi, ti trucchi e ti vesti da donna, resistendo all’impulso di usare le unghie per cavar loro gli occhi nonostante la loro forma inviti esattamente a questo scopo – e nonostante tu ti ritrovi a pensare di averlo fatto apposta, a conciarle così, proprio per punirli delle loro malefatte – hai già imparato un mucchio di cose, dalla vita.
Sei in grado di fronteggiare – quasi – tutti i problemi che la vita è in grado di porti innanzi.
Ma non un fratello imbecille.
"
Note: Naaaah, lo so che è cretina X’DDDD E che è semplice semplice. Senza alcuna pretesa. E forse troppo breve e scema X’D per poter avere una validità. Ma ho passato l’intero pomeriggio a leggere fanfiction stupende non twincest incentrate sul rapporto fra Tom e Bill e mi è venuta voglia di scriverne una e… ç_ç Insomma, è venuta fuori lei. Lei, della quale è nata prima la fine, poi l’inizio e poi tutto il resto in mezzo, peraltro O_ò”
Comunque è colpa di Sara. Deve smetterla di scrivere roba non twincest così bella ç_ç
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SI DICE “EROISMO”, IDIOTA

- Quella tipa deve essere ciecata!
Quando sei un adolescente, canti in una band e hai passato sette dei più preziosi anni della tua vita a cercare di ridere in faccia agli stronzetti che ti sfottono perché ti tingi, ti trucchi e ti vesti da donna, resistendo all’impulso di usare le unghie per cavar loro gli occhi nonostante la loro forma inviti esattamente a questo scopo – e nonostante tu ti ritrovi a pensare di averlo fatto apposta, a conciarle così, proprio per punirli delle loro malefatte – hai già imparato un mucchio di cose, dalla vita.
Lo stoicismo, tanto per cominciare. La sopportazione. La perseveranza. La calma interiore.
Sei in grado di fronteggiare – quasi – tutti i problemi che la vita è in grado di porti innanzi.
- Si dice “cieca”, Tom.
Ma non un fratello imbecille.
- Hai capito il concetto! – sbuffa il maggiore dei gemelli Kaulitz, scrollando le spalle ed aggrottando le sopracciglia, - Perché ha rifiutato di uscire con me?!
Bill arriccia le labbra, sfiorandole con un dito mentre, con aria falsamente pensosa, prende tempo.
- Magari non le piacciono i biondi? – suggerisce partecipe, - O forse i vestiti troppo larghi la spaventano? Mhm-mhm… - riflette ancora, portando le mani ai fianchi e muovendo qualche passo intorno al fratello, prima di fermarsi d’improvviso, sollevargli addosso un paio d’occhi furiosi ed esasperati e sbottare: - O magari ha saputo che l’altroieri hai mollato la sua migliore amica perché non ha voluto dartela, e quindi giustamente è poco propensa a fidarsi di te, che dici?
Tom rabbrividisce fino alla punta dell’ultima ciocca rasta che ha sulla testa, e si tira indietro in posizione difensiva, fino a sfiorare di schiena il muro dell’edificio scolastico alle sue spalle.
- E tu come lo sai?! – chiede, cercando di mantenere il tono di voce su una nota più incredula che isterica, con scarsi risultati.
- Ho le mie fonti. – sospira Bill, incrociando le braccia sul petto.
- Quel bastardo di Andreas! – realizza il biondo, stringendo i pugni, - Sapevo che non dovevo dirgli niente! Mi ha tradificato!
Bill lo guarda, sconvolto.
- …si dice “tradito”, Tom!!! ‘Cazzo sei andato a scuola a fare, fino ad ora?!
- In un modo o nell’altro, non cambia l’intensità del cazzotto che si beccherà sul naso appena lo vedo!
Bill sbuffa e rotea gli occhi, le spalle che si piegano sotto il peso della rassegnazione.
- Non è stato Andreas a dirmelo, Tom. Ti ho visto. – lo rassicura lamentoso.
- Mi hai visto? – sbotta Tom, confuso, - Visto cosa? Visto quando?!
- Visto e sentito. – precisa, - Viviamo insieme. Stessa casa. Stanze attigue. Ricordi?
- Atti-che?!
Bill sospira ancora, socchiudendo gli occhi e cominciando ad allontanarsi da lui.
- Aspetta!!! – lo riprende Tom, afferrandolo per un polso e riportandolo nel cantuccio dove stavano parlando, - Non devi dirlo a nessuno, va bene, Bill?
- Dio mio… senti, Tom, nessuno lo scoprirebbe, se solo tu fossi un po’… più… - lo guarda, ed è consapevole di pretendere la luna ma non demorde, - più furbo.
- Io sono furbissimo! – replica Tom, stizzito, mollandogli il polso come bruciasse.
- No, Tom, non sei molto furbo se molli una tipa e due giorni dopo ci provi con la sua migliore amica.
- È una questione di pratichismo! – replica lui, come offeso dalla sua mancanza di fiducia nei propri confronti, - Dal momento che è la migliore amica di Greta, non può che essere simile a lei! Quindi in teoria sapevo già dove portarla, che regali farle e tutto il resto!
Bill lo guarda e sorride, anche se il suo sorriso somiglia molto – troppo – a una smorfia derisoria, ed evita di rivelargli che in realtà ciò di cui sta parlando non esiste, perché “pratichismo” non è un termine contemplato dal vocabolario, e ciò che forse lui intende è “pratica”.
- Tom, sei un cretino. – conclude.
- E tu sei uno stronzo! – sbotta dunque il chitarrista, stufo di sentirsi dare addosso senza che, a suo parere, sussista alcun motivo valido. – Non aspettarti che ti aiuti coi compiti, questo pomeriggio! – minaccia, mentre Bill si volta a guardarlo con aria diffidente, - Né con qualunque altra cosa! – precisa quindi, arrossendo d’impulso di fronte al suo sguardo indagatore.
- Fa’ un po’ come vuoi. – borbotta infine il gemello minore, stringendosi nelle spalle e ricominciando a farsi strada verso il cancello della scuola, per tornarsene a casa.
Tom rimane lì, le labbra strette in una smorfia furente e i pugni chiusi a pugno, con tanta forza che le nocche diventano bianche e le falangi rossissime. Osserva Bill allontanarsi e pensa che quando sei un adolescente, suoni la chitarra in una band e hai passato sette dei più preziosi anni della tua vita a pestare gli stronzetti che hanno osato apostrofarti come il Bob Marley dei poveri a causa dei tuoi rasta, mentre combatti una ferocissima guerra contro tua madre nel tentativo di convincerla a non entrare in camera tua per tagliarti i capelli nel sonno, preoccupata com’è per il futuro della tua cute, hai già imparato un mucchio di cose, dalla vita.
Come si tirano i pugni, tanto per cominciare.
E, be’, poco altro, ma qualcosa dovrà pur dire, ed è comunque abbastanza per fronteggiare la maggior parte dei problemi che la vita è in grado di presentarti.
- Spero che ti rubassero lo zaino mentre torni a casa, Bill!!!
Ma un fratello imbecille, quello no.
- Si dice “spero che ti rubino”, Tom… – corregge Bill senza neanche guardarlo, e Tom incrocia le braccia sul petto ed arriccia le labbra, fissando insistentemente il ciottolato del viale sotto i piedi, giocando con la punta delle scarpe fra la ghiaia ed osservando il bianco della tela ingiallirsi di terriccio.
Poi, delle voci.
Voci che è abituato a sentire.
Voci che non gli piace sentire.
Solleva lo sguardo e Bill è lì, a una decina di metri da lui, che cerca di sfondare con la solita, testarda e orgogliosa caparbietà il muro di adolescenti alti la metà ma grossi il doppio di lui che lo incatenano come in una prigione, facendo capannello attorno a lui.
Guidato dall’istinto, fa per muoversi.
Guidato dal risentimento, si ferma subito dopo.
Bill lo adocchia da lontano, uno sguardo sfuggente, uno sguardo che sembra dire “ok, volevo solo assicurarmi che davvero non intendessi intervenire”.
Quello sguardo gli fa male, ma lui si ostina a non muoversi.
Bill sospira e abbassa lo sguardo. A capo chino, come un ariete da combattimento, prova ancora a sfondare la muraglia. Viene afferrato da un imprecisabile numero di mani enormi, che si chiudono attorno alle sue braccia, ai suoi vestiti, ai suoi fianchi sottili.
Bill non lo guarda più. Sa che hanno appena litigato e non si aspetta più niente.
E Tom è già al suo fianco.
- Stronzi! – strilla, tirando un calcio nello stinco di un tizio a caso, - Prendetevela con uno grosso quanto voi!
- E saresti tu, quello grosso quanto noi? – dice un altro, mentre quello colpito dal calcio neanche si china a massaggiarsi, tanto infimo è il fastidio che prova in seguito alla sua mossa.
Tom ghigna come chi la sa lunga e dice “fatevi sotto”, sollevando un pugno con aria di sfida.
La faccenda si chiude in pochi minuti. Con il gruppo di bulli che si allontana vittorioso, tra risate e gomitate che sono complimenti mascherati da gesti virili, e Tom a sedere per terra, con un rivolo di sangue a scendere inesorabile dal naso verso il mento e quello che si preannuncia un orribile livido giallo-violaceo nascente sullo zigomo destro.
Bill si china su di lui, scuotendo il capo e nascondendo un sorriso vagamente commosso, mentre apre lo zaino e ne tira fuori un pacchetto di fazzolettini di carta, che apre e coi quali meticolosamente ripulisce il viso del fratello, con la stessa delicatezza che riserverebbe ad un’opera d’arte.
- Sei un cretino. – lo apostrofa, mentre Tom si lascia andare ad una smorfia di dolore e sputa per terra un po’ di sangue. – Comunque grazie.
- Non c’è bisogno che mi ringrazi! – protesta imbarazzato il biondo, deviando lo sguardo sulla macchia rosso sbiadito per terra, - È stato solo un modo per mostrare al mondo la mia coraggiosità!
E stavolta Bill ride. Apertamente.
Getta via il fazzoletto sporco e passa un braccio sotto le ascelle di Tom, per aiutarlo ad alzarsi.
- Si dice “eroismo”, idiota.
Genere: Comico, Erotico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, PWP.
- Tom adora passare del tempo da solo con suo fratello. Bill lo diverte, lo riempie di ricordi piacevoli e lo fa stare bene. Ma stare con Bill può essere anche molto pericoloso. Soprattutto quando sente degli strani suoni provenire da un punto imprecisato del mondo intorno a lui e, per verificarne la provenienza, decide di calarsi sul balcone di sotto, combinando un disastro.
Note: Prima di tutto: i gemelli Kaulitz SONO DAVVERO dei guardoni X’D Nel dvd Leb Die Sekunde (che io e la neechan abbiamo amabilmente guardato insieme dopo aver affrontato la TORTURA di passarcelo tramite cartelle condivise di MSN), Bill racconta di questo momento allucinante in cui lui e tutti gli altri ragazzi del gruppo hanno assistito praticamente alla stessa cosa cui assistono in questa modesta storiella XD Quindi sì, questa parte è veritiera. Tutto il resto è fangirling XD E porno, chiaramente. Perché il porno? Perché il fandom inglese LETTERALMENTE pullula di PWP smut su Bill e Tom. È semplicemente INDECENTE che in Italia non ce ne sia neanche una perché… perché un archivio ha vietato l’incest graficamente esplicito fra le proprie pagine! Chissene, dico io! Pubblicheremo altrove! Oh. *angst*
E poi, cosa può esserci di meglio per augurare i migliori venti anni possibili a una neechan stupenda come la mia, che non un’enorme dose di porno-lol fra i gemelli Kaulitz…? :D Tanti auguri Ana >*<
(Tra l’altro, PER CARITA’: Ask For Answers dei Placebo sta diventando tipo la canzone ufficiale dei gemelli Kaulitz?! È tipo la MILLESIMA volta che la uso per una fic su di loro! Qui, nel caso specifico, per il titolo: “these bonds are shackle free / wrapped in lust and lunacy” <3)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
YOUR PIDGEON AND THE DAMAGE DONE

Era un tranquillo e uggioso pomeriggio ottobrino. I Tokio Hotel, a bordo del fedele tour-bus, compagno di mille avventure più o meno piacevoli, stavano dirigendosi alla volta di Toulon, dove avrebbero dovuto esibirsi per il pubblico francese per l’ultima volta prima di trasferirsi a Milano per l’unica data italiana dell’European Tour.
Dal momento che era un pomeriggio uggioso, e dal momento che Bill era metereopatico, il povero frontman non faceva che sbuffare, malamente abbandonato contro il tavolino nel mezzo della vettura, facendo sciocchi disegnini con le dita sul piano lucido in finto legno e mugolando come fosse sul punto di morire.
Dal momento che Bill era triste, e dal momento che il resto della band, più che essere metereopatica, era Billpatica, anche gli altri ragazzi non si trovavano in perfetta condizione. Tom vagolava infelice da un finestrino all’altro, fissando preoccupato il cielo e pregando perché non si mettesse a piovere, Georg guardava il vuoto abbandonato nella propria cuccetta e Gustav si rigirava le bacchette fra le dita, ascoltando musica in cuffia.
Nonostante il pesante alone di depressione che gravava sull’ambiente, erano tutto sommato ore tranquille, e perciò nessuno si lamentava più di tanto.
I quattro giovani tedeschi si stavano già rassegnando a passare in quel modo l’intero pomeriggio, quando successe qualcosa che cambiò irrimediabilmente non solo i loro programmi immediati, ma anche tutto il resto della loro vita: un enorme piccione grasso, grigio e palesemente folle fece irruzione attraverso un finestrino aperto e, sbattendo le ali come un ossesso, guardandosi intorno con occhi pallati iniettati di sangue, andò a schiantarsi contro il finestrino chiuso dall’altro lato del bus, proprio sopra la testa di Bill.
- Gluglu! – disse il piccione, spiccicandosi dal finestrino e lasciandosi ricadere morbidamente sulla testa di Bill, dopo aver riconosciuto i suoi capelli come un luogo sicuro.
- Cosa diamine…? – balbettò il ragazzo, che aveva seguito il movimento dell’animale solo distrattamente e, perciò, non era riuscito a riconoscerlo, - Che cavolo era?!
Gustav sollevò appena lo sguardo da terra, ma tornò subito a piantarlo sul pavimento quando capì cosa stava succedendo. Dal momento che Georg si trovava nella zona notte, e non poteva essere perciò molto d’aiuto, Bill si rivolse unicamente a Tom, cercando di attirare la sua attenzione con un calcio da sotto il tavolo.
- Tomi! – disse deciso, - Ho un cerchio alla testa.
- Mmh. – mugugnò il chitarrista, senza neanche guardarlo, continuando a scrutare il cielo.
- Tomi!!! – lo richiamò il cantante, sfilando una scarpa e tirandogliela addosso, - Non ignorarmi!
- No, no… - si arrese il biondo, sospirando pesantemente e voltandosi a guardare il fratello. – Dimmi, cosa- - ma si interruppe prima di poter concludere, rimanendo a fissare il proprio gemello come lo avesse visto per la prima volta.
- Tom…? – lo chiamò ancora lui, incerto sul da farsi.
- Sssh! – soffiò immediatamente il giovane, portando l’indice davanti alle labbra e avvicinandoglisi con fare circospetto.
Quando fu abbastanza vicino, Bill riuscì finalmente a capire che ciò che Tom stava guardando con tanto idiotissimo stupore non era lui, bensì qualcosa di non meglio definito sopra la sua testa.
- Ma si può capire-
- Ti ho detto di stare zitto! – insistette il ragazzo, spiaccicandogli poco delicatamente una mano sulla bocca, - Sto cercando di instaurare un dialogo!
- Mfhghrthddfghg?! – si agitò Bill, ma Tom non lo liberò dalla stretta e quindi nessuno poté comprendere il significato profondo delle sue obiezioni.
Frattanto, sopra la testa del moro, Tom e il piccione si scrutavano con reciproco interesse.
- Glu. – disse il piccione, agitando la testolina tonda avanti e indietro nell’usuale gesto dei volatili della sua razza.
- Ghhg?!?!?! – si agitò ulteriormente Bill, muovendo la testa allo stesso modo, nel tentativo di liberarsi, facendo in modo che il piccione dovesse sollevarsi sulle zampette artigliate e agitare le ali per non perdere l’equilibrio, in un tripudio di piume un tempo bianche ma ormai grigio sporco che turbinavano attorno a loro.
Tom deglutì, stringendo la presa della mano attorno alla mascella del gemello.
- Glu. – rispose seriamente, dopo un attimo d’esitazione.
A quel punto, Bill non riuscì più ad ignorare ciò che stava succedendo, e si staccò da lui con un gesto repentino e violento.
- Tom, dimmi immediatamente cosa diavolo ho sulla testa!!! – strillò, agitando le braccia sul capo e scuotendosi come un ramo nel vento.
Per tutta risposta, il gemello si sollevò di qualche centimetro, molleggiando sulle punte, protese le braccina verso di lui e afferrò l’inquilino misterioso, stringendolo poi fra le braccia, lasciando che si accovacciasse sul suo petto come una piccola, lurida gallina.
Bill lo fissò.
Tom scorse le avvisaglie di un tic nervoso all’occhio delinearsi sul suo volto e cercò di sorridere rassicurante, per evitare la catastrofe, ma servì a poco.
- CHE COSA DISGUSTOSA!!! – ululò infatti Bill, facendo un salto indietro, - Uno schifosissimo piccione! Sulla mia testa!!! – lo guardò meglio, - FRA LE TUE BRACCIA!!!
- Oh, avanti, Bill! – si lamentò Tom, sollevando il piccione all’altezza del suo viso come fanno i fratellini crudeli con le sorelline spaventate quando trovano uno scarafaggio particolarmente enorme e disgustoso nel giardino di casa, - È carino, in fondo!
Bill si tirò indietro con una smorfia inorridita.
- È sporco! – osservò, agitando una mano davanti all’uccello, che seguì il movimento delle sue dita smaltate con enorme interesse, - Portalo via!
- Glu!!! – protestò il piccione, offeso.
- E fallo smettere di guardarmi!!! – aggiunse il frontman, offeso, - È estremamente maleducato!
- È un piccione… - cercò di difenderlo debolmente Tom.
Il piccione sembrò annuire.
- Ma che sta succedendo…? – mugugnò irritato Georg, spalancando la tenda della zona notte e sollevandosi dalla propria cuccetta, tornando alla vita comunitaria, - Bill s’è rotto un’unghia…?
- Georg! – strillò Bill sollevato, saltandogli praticamente in braccio, felice della possibilità di aver trovato un alleato al punto da ignorare l’offensiva presa in giro nascosta nel suo commento, - Tom è impazzito! Ha adottato un piccione!
- Ma è simpatico! – motivò il biondo, agitando il piccione davanti ai due come dovesse essere una prova della sua buona fede, - Ed è anche carino! Non capisco perché non ti piace! – si lamentò, rivolgendosi al fratello.
- Perché è una malattia ambulante! Che schifo, non vorrai mica che mi spunti qualche macchia sulla faccia?! Va bene se succede a te, perché tanto nessuno ti guarda, ma io ho una reputazione da difendere! E le mie fan-
- Le tue fan ti adorerebbero se ti vedessero andare in giro con un piccione appollaiato sulla testa!!! – commentò Tom con aria entusiasta, continuando ad agitare l’uccello su e giù, fra i suoi gluglu disperati.
Bill si arrampicò sulle spalle di Georg, tirando su le gambe perché non strisciassero a terra, ed emerse dalla massa di capelli del bassista solo per spalancare la bocca e strillare un verso disgustato random.
Fu allora che il piccione decise che non era più il caso di subire le angherie di quello zoofilo pazzo del chitarrista dei Tokio Hotel e, grazie anche alla notevole quantità di viscida sporcizia che gli ricopriva le ali, sgusciò fuori dalla sua stretta. La propulsione che si diede per la fuga, però, si rivelò talmente elevata che non solo l’uccello riuscì a liberarsi, ma anche a percorrere in poco meno di due centesimi di secondo lo spazio che lo separava dalla terrorizzata figura di Bill Kaulitz, che non ebbe neanche il tempo di richiudere le labbra, prima di ritrovarsi una coda terribilmente agitata a dimenarsi davanti agli occhi e mezzo piccione in bocca, che continuava a gorgogliare sulla sua lingua.
- GGGGGGGGGGGGGGGGGGH! – strillò disperato, scrollando Georg per le spalle con l’unico risultato di spostarlo di mezzo centimetro dal luogo in cui si trovava.
- Ossignore! – strillò spaventato Tom, - Piccione! Soffocherai! Tirati fuori di lì!
- GGGGGGGGGH!!! – ripeté isterico Bill, gli occhi a girandola, provando ancora a scuotere Georg per far sì che si accorgesse del suo enorme problema.
Georg sospirò svogliatamente e afferrò Bill da sotto le ascelle, aiutandolo a tornare coi piedi per terra.
- Povero tesoro… - commentò dispiaciuto, - Guardati qui, con un piccione in bocca… Gusti, che si fa? Lo si lascia lì? Almeno parleremmo un po’ di più durante le interviste…
- GGGGGGGGGGGGH!!! – si ostinò a motivare Bill, assolutamente sconvolto da quanto stava accadendo.
- Non potrei mai fare questo a Piccione! – s’infastidì Tom, raggiungendo il fratello e strappando l’uccello dalla sua bocca con un suono che ricordò vagamente quello delle bottiglie che vengono stappate, - Ormai siamo amici!
- Stronzo! – sputacchiò Bill, - Come osi anche solo pensare una cosa simile?! Tuo fratello gemello, sangue del tuo sangue!!!, è qui che soffre con uno stupido piccione in bocca, e l’unica cosa di cui tu ti preoccupi è questo dannato uccello!
- La cosa sta diventando ambigua. – commentò Georg, sollevando le sopracciglia, - Non so se voglio continuare ad assistere a tutto questo.
- Ragazzi, state facendo troppo casino. – borbottò irritato Dave, apparendo dalla porticina che divideva il vano del guidatore dal resto del tour-bus, - Dovreste stare più tranquilli, stasera avete un concerto e se Bill perde la voce è la fine.
- Oh, non è colpa mia, chiaro?! – sbottò Bill, incrociando le braccia sul petto, - Questo stupido piccione s’è innamorato di me e ha provato a baciarmi!
Il manager si guardò intorno con aria smarrita.
- Eh? – chiese, cercando uno sguardo intelligente all’interno della stanza e ritrovandolo in Georg.
- Pare che un piccione sia entrato nel tour-bus. – spiegò pacatamente il bassista, - Ed abbia fatto amicizia con Tom.
- Ah. – registrò l’uomo, scivolando con lo sguardo sulla figura di Tom e individuando il piccione ancora sconvolto e umido di saliva a languire fra le sue braccia.
- Solo che la cosa a Bill non piace. Anche perché il piccione gli si è infilato in bocca a tradimento.
- Ah-ha! – scosse il capo Dave, in disaccordo, - Bill, ne abbiamo già parlato: niente uccelli in bocca se non in circostanze del tutto particolari! – aggiunse con un risolino crudele.
- Possiamo evitare che questa storia diventi un concentrato di cattivo gusto?! – si lamentò il frontman, passandosi una mano fra i capelli, - E comunque il problema resta: quel dannato topo con le ali deve sparire.
- Mh. – rifletté Jost con aria seria, - In effetti i piccioni sono veramente portatori di malattie. Su, Tom, andiamo a-
- Mai!!! – gridò il biondo, balzando agilmente sul tavolo e stringendo al petto il piccione ancora troppo tramortito per protestare contro il suo tentativo di soffocamento mascherato da tentativo di salvargli la vita, - Piccione è mio amico!
- Coraggio Tom… - esalò David, già esasperato, - Nessuno conta sulle tue facoltà intellettuali, ma mi auguro tu possa quantomeno arrivare a capire che questo è il tour-bus dei Tokio Hotel, non dei Tokio Hotel con la loro uccelliera…
- Ma io non voglio altri uccelli! Voglio solo Piccione! – si ostinò il ragazzo, schiacciandosi contro il finestrino alle proprie spalle.
- Accidenti a te, idiota di un moccioso! – s’innervosì dunque Dave, cercando di scalare il tavolo per raggiungerlo, - Non voglio che Bill diventi isterico, e se per raggiungere il mio scopo dovrò sfrattare questo dannato piccione, be’, sfratterò questo dannato piccione!!!
- No, no e ancora no!!! – continuò Tom, scuotendo velocemente il capo e i rasta, fino a frustare David coi dread, impedendogli di completare la sua ascesa al tavolino.
Fu in quel momento che si sentì un enorme sospiro sollevarsi da qualche parte nella stanza, e tutti si voltarono a guardare Gustav. Il batterista si alzò in piedi, sfilò velocemente le cuffie dalle orecchie, impugnò saldamente le bacchette fra le dita e si diresse tranquillo verso il tavolo. Lì sollevò appena le braccia e, sotto lo sguardo attonito di Tom, tramortì definitivamente il povero piccione con un paio di colpi sulla testa e, aiutandosi con le bacchette per prenderlo come fosse un tocchetto di pollo alle mandorle, lo accompagnò con malagrazia fuori dal finestrino, osservandolo cadere tragicamente sull’asfalto dietro di loro.
Dopodiché, come niente fosse successo, tornò a sedersi al proprio posto, agitando il capo al ritmo di una qualche canzone degli AC/DC.
- Evviva! – strillò Bill quando si rese conto di quanto era accaduto, saltando in grembo al proprio batterista e strusciando una guancia contro la sua per esprimere la propria gratitudine, - Gusti, sei stato grande!
- Non è vero!!! – strillò Tom, cercando di riprendersi, - Il tuo comportamento con gli uccelli è ignobile!
- E ne vado fiero. – commentò svogliatamente il batterista, senza neanche degnarsi di guardarlo, - E per inciso, Bill, sei un “uccello” anche tu. – disse, cercando di scrollarselo di dosso, - Aria.
- Oh, be’. – scrollò le spalle Dave, - Una soluzione come un’altra. – commentò tranquillo, dirigendosi a passo spedito verso la propria cuccetta, velocemente imitato da Georg, che sbottò un qualcosa di molto simile a “ma che ci faccio io con questi cretini?”, prima di sparire in zona notte.
Tom rimase immobile, ancora in piedi sul tavolo, a fissare l’ambiente circostante come l’avessero lobotomizzato.
Almeno fino a quando non saltò giù sul pavimento e, sul piede di guerra, non strillò “Autista! Fermati immediatamente!”.
Non sapendo se stesse succedendo qualcosa di grave, l’autista pensò bene di ubbidire, accostando veloce sul lato della strada.
Tom divorò in quattro passi il corridoietto del tour-bus e si catapultò fuori, raggiungendo il piccione ancora privo di sensi sull’asfalto e riprendendolo fra le braccia, mentre quello pigolava una protesta gorgogliante che un buon ornitologo avrebbe sicuramente tradotto come “mi avete già fatto abbastanza, lasciatemi almeno morire in pace”.
- Non preoccuparti, Piccione! – disse il chitarrista accorato, - Vedrai che te la caverai!
Il piccione sbuffò un ultimo glu di protesta e poi si fece riportare all’interno del tour-bus.
- NON DI NUOVO!!! – strillò senza pietà Bill, quando vide che quel diavolo di suo fratello aveva riportato il Male a bordo, - Fallo sparire! – sentenziò, nascondendosi dietro le spalle di Gustav.
- Sei senza cuore! – si lamentò Tom, agitando il piccione davanti al viso del fratello, per farlo sentire in colpa, - Guarda in che condizioni è!
- Non me ne frega un accidenti di niente! Per quanto mi riguarda, potrebbe stare anche peggio!
- Sei un malvagio!
- E tu sei un idiota!
- Meglio idiota che bastardo!
- Scusami se dissento!
- GLU! – strillò il piccione, interrompendo il battibecco.
I due gemelli abbassarono lo sguardo sulla creaturina ansimante sul tavolo, e la osservarono attentamente. Il piccione si sollevò stancamente sulle zampette, poi spalancò le ali con un gesto lento e doloroso e spiccò pesantemente il volo.
Non dovette fare molta strada. Si lasciò infatti andare quasi come assopito sulla testa di Bill, accomodandosi nella morbida matassa di capelli; e mentre il moro strillava come un ossesso, scappando da un lato all’altro del tour-bus come avesse davvero potuto fuggire dall’ombra dell’uccello incombente sul suo capo, il piccione si lasciò andare ad un ennesimo glu sommesso, e Tom strillò “ASPETTA!”, e allora Bill si fermò, immobile, e aspettò.
Il rasta gli si avvicinò, scrutandolo con attenzione.
- Cosa?! – chiese il frontman, spaventato, - È già spuntata qualche macchia?! Oddio!
- No. – disse sbrigativamente il ragazzo, riprendendo il piccione fra le mani per poi abbandonarlo sul tavolo con un gesto sufficientemente distratto da far supporre che la sua fissazione per la bestiola si fosse estinta, - Ha deposto le uova.
E così dicendo allungò ancora una mano, recuperò due piccole uova bianche dal nido improvvisato sulla testa di Bill e le mostrò al gemello.
- Uova? – chiese quest’ultimo, stupito, fissando con attenzione le sfere, - Non sono come quelle della gallina…
- Be’, Piccione non è una gallina.
- Uhm…
- …
- …chissà se sono buone da mangiare. – si domandò Bill, accarezzandosi il mento.
- Già. – annuì partecipe Tom. – E se provassimo?
I due si sorrisero malevoli a vicenda, e dopo pochi secondi si avviarono impietosi verso il cucinino.
Quando David riemerse dalla propria cuccetta, grattandosi la testa con aria assonnata, chiese a Gustav dove fossero finiti i gemelli.
- Hanno trovato un altro passatempo. – rispose lui, soprappensiero.
Il manager si guardò intorno.
A tavola, Bill e Tom divoravano uova alla coque con due buffi bavaglini ricoperti di cani sorridenti annodati attorno al collo.
Il povero piccione pigolava disperato, ancora abbandonato su un angolo del tavolo.
- Che angoscia, Dave! – commentò Tom, addentando voracemente un pezzo di pane, - Fa’ sparire quest’uccello! È terribilmente antigienico!
Genere: Comico, Erotico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, PWP.
- Tom adora passare del tempo da solo con suo fratello. Bill lo diverte, lo riempie di ricordi piacevoli e lo fa stare bene. Ma stare con Bill può essere anche molto pericoloso. Soprattutto quando sente degli strani suoni provenire da un punto imprecisato del mondo intorno a lui e, per verificarne la provenienza, decide di calarsi sul balcone di sotto, combinando un disastro.
Note: Prima di tutto: i gemelli Kaulitz SONO DAVVERO dei guardoni X’D Nel dvd Leb Die Sekunde (che io e la neechan abbiamo amabilmente guardato insieme dopo aver affrontato la TORTURA di passarcelo tramite cartelle condivise di MSN), Bill racconta di questo momento allucinante in cui lui e tutti gli altri ragazzi del gruppo hanno assistito praticamente alla stessa cosa cui assistono in questa modesta storiella XD Quindi sì, questa parte è veritiera. Tutto il resto è fangirling XD E porno, chiaramente. Perché il porno? Perché il fandom inglese LETTERALMENTE pullula di PWP smut su Bill e Tom. È semplicemente INDECENTE che in Italia non ce ne sia neanche una perché… perché un archivio ha vietato l’incest graficamente esplicito fra le proprie pagine! Chissene, dico io! Pubblicheremo altrove! Oh. *angst*
E poi, cosa può esserci di meglio per augurare i migliori venti anni possibili a una neechan stupenda come la mia, che non un’enorme dose di porno-lol fra i gemelli Kaulitz…? :D Tanti auguri Ana >*<
(Tra l’altro, PER CARITA’: Ask For Answers dei Placebo sta diventando tipo la canzone ufficiale dei gemelli Kaulitz?! È tipo la MILLESIMA volta che la uso per una fic su di loro! Qui, nel caso specifico, per il titolo: “these bonds are shackle free / wrapped in lust and lunacy” <3)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LUST AND LUNACY

La luna era piccola e lontana, e la notte era così buia che sembrava non dovesse finire mai, ma allo stesso tempo era talmente gonfia di stelle e romantica che, in un impeto di dolcezza – qualcosa che generalmente gli era del tutto estranea – Tom si ritrovò a pensare che non sarebbe stato male se si fosse protratta davvero per sempre.
Nella frescura secca di quella nottata estiva, la risata di Bill riempiva l’aria, mentre la sua voce si industriava a raccontare qualcosa di estremamente divertente accaduto durante il concerto.
- E la ragazza si è davvero arrampicata addosso alla sua amica per vedere qualcosa! L’ha praticamente uccisa! Ti rendi conto?
In realtà non l’aveva notato, durante l’esibizione. C’erano cose alle quali solo Bill poteva permettersi di dedicare attenzione. E lui non si faceva sfuggire niente, di solito.
Tom si concesse una risatina.
Adorava passare del tempo da solo con suo fratello. Era piacevole chiacchierare tranquillamente del più e del meno, come quando avevano dieci anni e neanche immaginavano quanto lontano sarebbero arrivati. Per questo, quando durante i tour arrivavano in un qualche albergo che fornisse loro un posto solitario in cui passare qualche ora – come la terrazza del tetto di quello in cui si trovavano in quel momento – entrambi si fiondavano a conquistarlo neanche fossero stati condottieri in battaglia.
- Ehi… - disse Bill d’improvviso, dopo un attimo di silenzio, - Hai sentito?
Tom inarcò lievemente un sopracciglio.
- Sentito cosa?
- Ma come “cosa”? Questi rumori strani! Ascolta.
Il biondo tese le orecchie, ma non sentì nulla.
- È colpa dei nostri respiri. Fanno troppo rumore. – motivò Bill con disappunto, coprendo entrambe le loro bocche con le mani e stringendo le loro narici fra le dita.
Ed in effetti, nel silenzio totale che fu conseguenza del loro contemporaneo privarsi d’ossigeno, qualcosa Tom la sentì.
Suoni strani, sì.
Come… lamenti.
Spalancò gli occhi e lanciò uno sguardo incuriosito a Bill, che rispose annuendo. Dopodichè si sentì ad un passo dal soffocamento e si liberò dalla mano di suo fratello, tornando a respirare normalmente.
- Cosa sarà? – incalzò Bill, senza neanche dargli il tempo di riprendersi.
Tom scrollò le spalle.
- Viene da lì! – continuò il moro, afferrandolo per una mano e trascinandolo con decisione fino all’orlo della terrazza.
- Bill, aspetta, che diamine fai?! – cercò di opporsi lui, per quanto debolmente – aveva decisamente un problema nell’opporsi a suo fratello.
Bill si chinò sul bordo della terrazza, e a Tom venne un infarto.
Mentre lanciava improperi contro gli architetti, i muratori e, non ultimo, quell’idiota di David, che aveva permesso che un ragazzo palesemente privo di cervello quale era Bill fosse accolto in un albergo che difettava di ringhiere in un posto pericoloso come la terrazza sul tetto, afferrò suo fratello per i fianchi e si preparò a morire con lui se fosse stato necessario.
- Bill! – strillò angosciato, - Torna subito su!
- Ma non sto cadendo! – rispose suo fratello con uno sbuffo infastidito, - Voglio solo vedere!
- Se ti sporgi ancora cadrai e ti spaccherai la testa dopo un volo di quaranta metri! Sarà orribile! Ti si scombinerà tutto il trucco! – disse, cercando di riportarlo in una posizione meno pericolosa.
- Non dire sciocchezze. – ribatté Bill, perfettamente calmo, - C’è un balcone qui sotto.
- …oh. – sbottò Tom, affacciandosi anche lui oltre il bordo per rendersi conto che sì, in effetti appena un paio di metri sotto di loro c’era un balcone, e quindi Bill al più si sarebbe spaccato una gamba o qualcosa di simile, anche lasciandolo andare.
- I rumori vengono da lì. – lo informò suo fratello, con un tono curioso e insinuante che Tom non stentò a definire spaventoso, - Caliamoci e vediamo!
- Bill! – protestò lui, roteando gli occhi e ricominciando a tirarlo per portarlo su, - Non sono fatti nostri!
- Aaah, avanti! Non venirmi a raccontare che non sei curioso!
- Non lo sono, infatti! – disse, sperando che questo lo fermasse.
Ma Bill non era facile da fermare.
Lo osservò divincolarsi come un gatto dalla sua stretta e calarsi con nonchalance sul balcone di sotto, complice la sua altezza e la sua dannata straordinaria magrezza.
- Bill! – lo chiamo per l’ennesima volta, - Non possiamo metterci a spiare! – ma lo stava già seguendo nella sua rapida discesa al piano di sotto, e sospirò pesantemente nel rendersi conto che sì, aveva davvero dei problemi, quando si trattava di opporsi al suo gemello.
E così eccoli lì.
Immobili, impalati e sconvolti su un balcone all’ultimo piano di un albergo.
Soli.
Coperti dalla notte.
Ad osservare con malcelata curiosità un uomo e una donna sconosciuti all’interno di una camera prodigarsi nelle performance sessuali più allucinanti e particolari con una velocità e un ritmo tale che Tom pensò stessero filmando un porno.
Cosa che non era.
Perché non c’erano telecamere.
A meno che non fossero molto piccole e… be’, nascoste.
Si voltò a guardare Bill, incapace di dire una parola, limitandosi a indicare le due figure in rapido movimento sul letto. Bill lo guardò a sua volta e annuì, restando anche lui in silenzio.
- Haha. – provò a ridere lui, scrollando le spalle, - Però, si danno da fare.
Okay, forse una battuta simile non era una cosa molto furba con la quale uscirsene in un momento come quello.
Stava praticamente guardando un porno.
Live.
Con suo fratello.
Doveva fuggire!
Guardò di sottecchi il bordo della terrazza, sopra la sua testa, e si rese rapidamente conto del fatto che per quanto fosse stato facile scendere, risalire si prospettava un’impresa praticamente impossibile. Sarebbe arrivato ad aggrapparsi solo saltando, e anche in quel caso poi ritirarsi su con la sola forza delle braccia sarebbe stato del tutto impensabile, per non parlare del fatto che i propri dannatissimi vestiti avrebbero rappresentato un ostacolo non indifferente, e Bill!!!, Bill non sarebbe mai stato in grado di reggerlo per aiutarlo ad arrampicarsi, Bill non possedeva muscoli! Era un mucchietto d’ossa e pelle, e al massimo di capelli! C’erano giorni in cui pensava che il trucco che si metteva addosso pesasse addirittura più di lui! Non che lui fosse particolarmente robusto, al confronto, ma…
…merda.
Si affacciò al balcone, per vedere se per caso ci fossero delle scale di servizio, o la possibilità di calarsi di piano in piano fino a raggiungere terra. Ma ovviamente delle scale nemmeno l’ombra – come aveva potuto aspettarsi delle scale da un albergo privo di ringhiera sul terrazzo?! – e i balconi erano esattamente l’uno sotto all’altro, e non offrivano speranze né appigli per poter pensare di scalarli senza, come minimo, morire.
Ri-merda.
Erano in trappola!
Non potevano muoversi!
Erano condannati a restare lì a guardare due pervertiti in azione per l’eternità! O peggio, fino a quando non fossero stati scoperti!
Era un dramma. Un dramma! Perché Bill non stava già correndo tutto intorno lanciando urla isteriche come lui stesso avrebbe desiderato fare?!
…facile a dirsi.
Perché Bill era rimasto in incantata ammirazione della scena al di là del vetro per tutto il tempo, come Tom non mancò di notare.
- Bill? Tutto a posto? – chiese titubante, sforzandosi di non guardare all’altezza del cavallo dei pantaloni di suo fratello, per non verificare da solo se fosse “tutto a posto” o meno.
Bill si riscosse e arrossì, allontanandosi da lui di qualche passo e dandogli le spalle.
- Sì! – rispose d’un fiato, - Certo che è tutto a posto!
Perfetto.
PERFETTO
!
Intrappolato su un balcone a guardare porno con un fratello eccitato!
Perfetto, davvero.
Grazie Signore, l’adolescenza fa schifo.
Si abbatté stremato e angosciato sul pavimento del balcone, appoggiando le spalle contro la ringhiera – almeno lì c’era! – e sistemandosi il cappello sulla testa.
Bill rimase in piedi ancora qualche secondo, ma alla fine cedette anche lui, sedendosi al suo fianco.
- E adesso che facciamo…? – si azzardò a chiedere, dopo qualche altro secondo di silenzio.
- Cosa vuoi che ne sappia, Bill?! Siamo bloccati!
Bill smise istantaneamente di guardarlo, cominciando ad agitarsi e muovendosi sul posto come non riuscisse a trovare una posizione adatta.
Grandioso, davvero.
Dannata l’eccitazione di suo fratello e i pantaloni troppo stretti che si ostinava a indossare!
Lanciò un sospiro esausto, chiudendo gli occhi e massaggiandosi le palpebre, mentre dalla stanza giungevano gridolini eccitati e compiaciuti di ogni tonalità umanamente percepibile.
Bill doveva sfogarsi.
O avrebbe continuato ad agitarsi in quel modo come un ossesso per tutta la notte.
- Bill, senti. – cominciò, incerto su come avrebbe dovuto dire una cosa simile, - Lo capisco che sei “agitato”.
Bill percepì le virgolette nella voce e si irrigidì, bloccandosi.
- Sto… sto bene.
- Sì, e io sono il papa. Senti, è più che comprensibile che tu sia eccitato da-
- Non sono eccitato!!! – strillò Bill, talmente ad alta voce che Tom fece scattare una mano per coprirgli la bocca.
- Non urlare! Per carità! Ci scopriranno!!!
Il moro si dibatté ancora per qualche secondo, cercando di sfuggire alla stretta del fratello, ma ben presto decise di arrendersi e annuire, e solo allora Tom lo lasciò andare.
- È perfettamente normale. – ripeté dolcemente, cercando di rassicurarlo, - Gli ormoni sono quelli che sono, e-
- Non mi fare la lezione sugli ormoni! – sbottò Bill, arrossendo ancora di più e sfuggendo il suo sguardo, - Tu sei un pervertito! È perfettamente comprensibile che tu sia eccitato da una situazione del genere! Non che lo sia io!
- Bill… - esalò Tom, - sei un maschio, no? Sì che lo sei.
- Cos’è, il luogo comune del secolo? Tutti i maschi sono maniaci e pensano solo al sesso? Oh, bene! Grazie! Dovrei gloriarmi di appartenere alla categoria o che?!
- …non è questione dei maschi. Tutti gli esseri umani sono dei maniaci, maschi o femmine che siano. Saresti eccitato anche se fossi una donna.
- Io non sono eccitato!
Tom sospirò ancora, e tornò ad abbandonarsi contro la ringhiera, fissando un punto indefinito fra la propria spalla e il niente.
- …non lo sono. – continuò Bill, incerto.
- Va bene Bill. Ti credo.
- Non mi credi!
Tornò a guardarlo, sbuffando.
- Perché stai mentendo! È ovvio che non ti credo! Cielo!
- …
- …
- …e va bene.
- …cielo…
- Forse un po’ lo sono.
Si prese un attimo di tempo per quantificare esattamente la totale assurdità di suo fratello e poi si concesse un altro sospiro esasperato, grattandosi la nuca sotto la massa di dread che la coprivano.
- Senti, Bill. – disse infine, incapace di guardarlo, - Se vuoi puoi… ecco… provvedere.
- Pro…?
- Mh.
- …tu sei pazzo.
- Oh, insomma! Siamo fratelli! Non c’è niente che tu possa fare che non abbia provato anche io o che non ti abbia visto a mia volta fa-
- COME, PREGO?!
- …oh. Non… non te n’eri accorto.
Bill lo fissò, attonito, schiudendo le labbra alla ricerca delle parole giuste. Senza peraltro trovarle.
- Evidentemente no. – concluse il biondo guardando altrove.
- Va bene. – disse infine suo fratello, tornando a guardare all’interno della stanza e mordicchiandosi le labbra, - Non parliamo più di questa cosa.
E per qualche secondo la quiete sembrò effettivamente durare.
Ma non ci volle molto prima che Bill riprendesse a muoversi come un ossesso, accavallando e scavallando gambe come fosse stato l’unico modo per smettere di patire le pene dell’inferno.
- Oooh, Bill, adesso basta, per carità! – sbottò Tom esasperato, - Fatti questa benedetta sega! Dio! Prometto che non ti guardo!
- …
- Guarda, mi metto qui davanti al vetro e guardo dentro. Tanto, ormai, abbiamo visto tutto…
- …si accorgeranno di te…
- Non si accorgeranno di niente perché stanno scopando, Bill, tendi a dimenticare il resto quando accade e sei molto preso…
Bill tentennò ancora per qualche secondo, incerto sul da farsi. Dopodiché si accasciò su sé stesso, esausto, e annuì appena.
Tom cercò di concentrarsi sulla scena all’interno della stanza e di ignorare il tintinnio della fibbia della cintura di suo fratello che veniva velocemente sfilata dai pantaloni, e di ignorare anche il suono piccolo e sordo dei bottoni che venivano sfibbiati dalle sue dita rese veloci dall’urgenza e dal bisogno, e anche quello secco e acuto della zip che veniva abbassata in un colpo netto.
…Dio.
Doveva essere pazzo.
Anche volendo ignorare il fruscio dei vestiti, come diavolo avrebbe potuto ignorare il suono indecente dello sfregamento della pelle di Bill contro la sua mano? Come diavolo avrebbe potuto ignorare lo schiocco osceno che produceva la sua erezione mentre la accarezzava, dapprima più lentamente, poi sempre più velocemente, dall’alto verso il basso, e poi ancora, e ancora, e come diavolo avrebbe potuto ignorare i suoi sospiri, e i suoi gemiti, e gli ansiti, e il respiro spezzato, COME, dannazione, COME?!, con un porno a due centimetri dalla faccia, su un balcone di un paio di metri per tre?!
Non poteva, semplicemente.
Si arrese, e rimase ad ascoltare il respiro di Bill farsi sempre più veloce, e i movimenti della coppia all’interno della stanza farsi sempre più concitati, e la propria eccitazione farsi sempre più evidente e dolorosa, ed incurvò le spalle, come volesse nascondersi, come si vergognasse della sua condizione.
Ed in effetti era esattamente così.
Dopo tutto il discorso sugli ormoni avrebbe dovuto essere tranquillo, lui sapeva che era normale eccitarsi in una situazione simile e tutto, ma…
- È tutto a posto, Tom?
Si riscosse, sollevando il capo così velocemente che si fece male al collo.
- Sì! – rispose d’un fiato, abbozzando un sorriso, - Hai già finito?
Le labbra di Bill s’incresparono in una smorfia di disappunto.
- Che vuol dire “già”? Ti pare che non sia durato abbastanza?
Perfetto, sì.
Discorsi simili erano esattamente ciò di cui aveva bisogno. Esattamente!
- Senti, Bill… - disse, già stufo praticamente di tutto, - In questo momento ho problemi più grandi della tua durata quando ti fai una sega, sinceramente…
Bill ghignò malefico, le mani sui fianchi.
- Più grandi, Tomi? Non necessariamente.
- Che diamine vai farneticando?!
- Non sei l’unico che va spiando fratelli mentre fanno le loro cose in bagno!
- Io non…! Io non ti ho spiato! È capitato!
- E allora è capitato anche a me!
- Bill, per carità!
Bill sbuffò ancora, stringendosi nelle spalle.
- Grande o piccolo che sia, il problema resta. Ti sei eccitato anche tu!
Tom si esibì in un sospiro mesto.
- Così pare.
- Eh. Che ci vuoi fare. Provvedi anche tu.
Lo fissò come avrebbe fissato un pazzo.
- …come scusa…?
- Io l’ho fatto. Intendo, me l’hai fatto fare. Quindi adesso fallo anche tu.
- …no, penso che passerò…
- Ma come?! Non vale! – protestò Bill, stringendo i pugni, - Tu mi hai obbligato!
- Io non ti ho obbligato a fare niente!
- …oh. Va be’. Tanto… - insinuò, con un altro spaventoso ghigno, - lo so che vuoi farlo.
- …
- No?
- …e va bene. Voltati.
- Perché?
- Io mi sono voltato!
- L’hai deciso tu, non io. Per quanto mi riguarda, potevi anche guardare.
- …voglio un po’ di privacy!
- Devo ricordarti dove siamo?
- Ma perché vuoi guardare, santo cielo?!
- …insomma. Sei comunque più piacevole dello spettacolino là dentro.
Tom lanciò uno sguardo alla coppia oltre il vetro, e vide che in effetti stavano provando qualcosa che non riusciva a capire ma che comprendeva dei giocattoli in plastica dalla forma semplicemente disgustosa, ed ammise che in effetti quello non doveva essere uno spettacolo granché piacevole per suo fratello.
- Oh. Fanculo. Guarda un po’ quello che vuoi. – concluse sbrigativo, rintanandosi in un angolo e sfibbiando i pantaloni.
Quando lasciò scorrere la mano lungo la propria erezione, dimenticò tutto il resto.
Era sempre stato un tipo facile alla distrazione, e niente di meglio di una sega poteva distrarlo praticamente da tutto, ma cavolo, era così dannatamente eccitato – lo spettacolino, e Bill, e il caldo, e Bill santo cielo – che anche se avesse avuto altri mille e trecento pensieri per la testa – ed in effetti era così, diamine, stavano facendo i guardoni al quindicesimo piano di un albergo dal balcone di una stanza inequivocabilmente non loro! – avrebbe trovato comunque impossibile non concedere a quel momento di soddisfazione tutta la sua attenzione.
Ed infatti si concesse attenzione. E tempo.
Fu lento.
Tranquillo.
Bill lo fissava da un paio di metri, poteva sentire il suo sguardo scivolargli addosso, poteva sentirlo sul collo, sulle spalle, catturato dal movimento del suo braccio, poteva quasi vederlo immaginare la sua mano scorrere dall’alto verso il basso, poteva vederlo mordicchiarsi le labbra, poteva intravedere il piercing brillare nella luce della luna mentre le inumidiva, e sentiva i gridolini dei due, là dentro, percepiva nell’aria i loro movimenti, il cuore di Bill battere più veloce, Cristo, era tutto talmente eccitante che-
Venne con un gemito strozzato, contro le piastrelle bianche rese azzurre dalla notte. E per molti secondi rimase lì, immobile, ad ansimare, cercando di riacquistare il controllo del proprio respiro.
Diamine, se non era stata la sega migliore di tutta la sua dannatissima vita.
- …Tom… - lo chiamò piano suo fratello, da dietro le sue spalle, - Ho un problema.
Si voltò di scatto, senza neanche premurarsi di rimettere a posto i vestiti, e immediatamente il suo sguardo si incollò al cavallo dei pantaloni di Bill, inequivocabilmente gonfio.
- Di nuovo…? – mormorò sconvolto, spalancando gli occhi.
- Eh! – borbottò Bill, incrociando offeso le braccia sul petto, - Era ovvio che succedesse! Tu… tu ti sei masturbato!
- Ma me l’hai detto tu!!!
- E cosa dovevo fare, lasciare che ti esplodesse l’uccello?!
Tom sospirò, passandosi una mano sulla fronte.
- Senti, è un problema davvero. – spiegò, gesticolando animatamente, - È tipo un circolo vizioso. Se non ci decidiamo a venire insieme continueremo a farcelo venire duro a vicenda così per sempre!
- N-Non sei tu che me lo fai venire duro! – strillò Bill, arrossendo all’improvviso.
Tom sembrò rendersi conto di quello che aveva detto.
- …certo! – si affrettò a puntualizzare, a sua volta imbarazzato, - Non intendevo questo! Non me lo fai venire duro neanche tu! È… è la situazione, e…
Un momento di silenzio.
Si guardarono negli occhi, e Bill si lecco le labbra.
E magari non era lui, era la situazione, e il caldo, e i tipi nella stanza, e i giocattoli di plastica, e tutto…
…si eccitò di nuovo.
- Okay. – disse deciso, - Vieni qua.
Bill si avvicinò titubante, senza capire cos’avesse in mente.
- Adesso ci mettiamo in ginocchio. – illustrò Tom, piegandosi sulle gambe e invitando Bill a fare lo stesso, - Poi ci diamo il via e vediamo di finire questa cosa.
- …cioè stai dicendo fare tipo “pronti, partenza, via!” e menarci l’uccello in contemporanea?! Sei demente?! E se… e se facciamo tipo falsa partenza?!
- …Bill, Cristo, ma che razza di domande fai?! La situazione è già abbastanza imbarazzante così! Ora piantala di fare storie, inginocchiati e facciamola finita!
Interdetto, ma abbastanza in difficoltà da non desiderare di restare lì a obiettare all’infinito, Bill ubbidì all’ordine, piegandosi a sua volta e posizionandosi proprio davanti a suo fratello, accucciato sui talloni.
- Bene. – commentò Tom, cercando di riprendere il controllo della situazione, - Adesso… in teoria dovremmo tirarli fuori e… be’…
- Sì, Tom, ho capito. So come funziona. – tagliò corto Bill, talmente rosso d’imbarazzo da sembrare infebbrato.
- Bene. – ripeté il biondo, - Allora… che dire… “via”.
Bill sollevò lo sguardo.
E Tom vi lesse tutto il disappunto che poté trovarci, e sarebbe stato pronto a scommettere che ce ne fosse anche di più, oltre al velo che si scorgeva in superficie.
Sì, tutto questo era allucinante.
Sì, l’idea di masturbarsi davanti a suo fratello lo faceva impazzire in generale, e sì, il fatto di farlo consapevolmente lo sconvolgeva alquanto.
Ma diamine, era un situazione disperata, erano in condizioni critiche, se lui non avesse ottenuto soddisfazione immediatamente, in quel luogo e in quel momento sarebbe sicuramente morto, e quindi fanculo gli sguardi disapprovanti, fanculo l’imbarazzo, fanculo la sincronia, fanculo pure il via!
Saltò in aria, afferrando Bill per i fianchi e spingendolo d’impeto fino alla ringhiera del balcone, alla quale si aggrappò, circondando l’esile vita di suo fratello e imprigionandolo in modo che non potesse fuggire.
- Tom…! – esclamò Bill, stupito dal movimento improvviso, ma non riuscì a continuare, perché suo fratello lo zittì con un bacio breve, a fior di labbra, dato giusto per porre fine allo sproloquio prima che cominciasse.
- Sta’ zitto, Bill. – aggiunse Tom staccandosi da lui e nascondendo il viso sul suo collo, mentre gli si avvicinava pericolosamente, - Sta’ zitto e non pensarci. Lo dimenticheremo. Adesso lasciami fare.
E così dicendo coprì gli ultimi centimetri che li separavano con una spinta del bacino, le loro erezioni si sfiorarono e a Bill sembrò di essere stato ammesso in paradiso.
Dio! Quella era una cosa completamente diversa dal solito! Il sesso di Tom era caldo e pulsante contro il proprio, e la pelle che sentiva sfregare addosso non era come quella delle mani, era molto più sottile, e umida, e bollente, e dava sensazioni totalmente nuove! Non aveva mai provato qualcosa di simile!
Estasiato, gettò il capo indietro, mentre prendeva a muoversi contro il bacino di Tom, cercando di seguire il suo ritmo lento e ondeggiante, aggrappandosi con le unghie all’enorme maglietta che indossava.
- Più veloce, Bill… - gli mormorò suo fratello contro il collo, e lui obbedì, perdendosi nelle pieghe della sua maglia, alla ricerca della sua schiena, alla quale si attaccò con foga, e che usò come cardine per trovare una posizione più comoda e spingere più agilmente contro di lui, mentre ancora Tom si muoveva, mentre ancora Tom spingeva, mentre Tom si chinava a leccargli la pelle dal collo all’orecchio e si divertiva a giocare col suo lobo fra i denti, dandogli i brividi quando per caso il piercing al labbro gli sfiorava la pelle.
Perse velocemente ogni senso del tempo, ogni senso del pudore, ogni senso in generale, e ansimò, e si agitò, e lo chiamò per nome, gli graffiò la pelle della nuca e gli morse il collo, e continuò a spingere, spingere, spingere, fino a quando non sentì Tom esplodere in un gemito gutturale e improvviso, e percepì sé stesso tendersi e inarcarsi, e qualche secondo dopo la fastidiosa sensazione di qualcosa di bagnato e caldo che gli scivolava addosso e scendeva a macchiare i pantaloni.
Che fosse il proprio, che fosse quello di suo fratello, era assolutamente indefinibile, e soprattutto non gli interessava. Rimase a torturare la pelle di Tom con la lingua e coi denti fino a quando non si sentì in grado di reggersi nuovamente sulle gambe e di tornare a pensare razionalmente.
Tom si separò da lui con lentezza, come se provasse rammarico nel doverlo fare, e subito ricadde a terra, sedendosi con le spalle contro la ringhiera, abbandonando il capo all’indietro. Bill gli si sedette a fianco, imitandolo nella posa ma incapace di tenere gli occhi chiusi come invece suo fratello faceva.
E fu in quel momento che lo notò.
La luce all’interno della stanza si era accesa.
E i due tipi non erano più sul letto.
Restavano lì, gli occhi spalancati e le mani poggiate sul vetro, come non potessero credere a ciò che stavano vedendo, e li guardavano. Assolutamente sconvolti.
Bill sollevò appena un braccio, tirando suo fratello per una manica per richiamare la sua attenzione.
- Cosa… - mormorò appena Tom, aprendo gli occhi e guardandolo.
- Abbiamo un problema. – disse pacato Bill, lanciando sguardi allarmati ai due al di là del vetro.
- Ancora?! – strillò Tom, - Non è possibile, Bill, non sei normale!
- …no. – borbottò il moro, afferrandogli il viso fra le mani a costringendolo a guardare all’interno della stanza, - Un altro problema. E questo è davvero grande.
Lentamente, Tom si rese conto della situazione.
Dischiuse le labbra.
Poi le richiuse.
E poi le dischiuse nuovamente.
- Oh. – disse.
Sì, in effetti quello era decisamente un problema.
E no, non sarebbe bastata una mezz’oretta di dolcissimo sfregamento, a risolverlo.
Si voltò a guardare Bill, notando che lui stesso non sapeva se sorridere o partire a disperarsi istericamente come probabilmente sarebbe stato meglio avesse fatto fin dall’inizio.
Alla fine, sembrò decidersi per il sorriso.
- Be’. – sbuffò, alzandosi in piedi e tirandoselo appresso, - Aspettiamo che chiamino la sicurezza o ci caliamo giù dal balcone?
Genere: Comico, Demenziale, Parodia.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Crack, Flashfic.
- Un urlo squarcia la tranquillità della notte. Tom scatta a sedere. Si guarda intorno spaesato. Bill fissa lo specchio con aria inorridita... cosa diamine è successo?
Note: È così idiota che quasi me ne vergogno X’D
Scritta in seguito a suggerimento dell’ormai onnipresente nee-chan. E ispirata a una storia vera (nel senso che è vero che Bill ha i brufoli e che si riempie di dolciumi XD).
Il significato del titolo è abbastanza intuibile, no? XD Pickel è il tedesco di brufolo. Era troppo lol, dovevo mettercelo X’D
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE PICKEL DRAMA QUEEN

- KYAAAAAAAAAAAAH!
Lo strillo riempì la notte silenziosa e le orecchie di Tom, ridestandolo poco felicemente dal sonno nel quale era appena crollato dopo l’estenuante giornata di interviste promozionali che aveva dovuto controvoglia affrontare – previa efficacissima minaccia di castrazione da parte di David.
Il biondo si drizzò a sedere sul letto, riconoscendo immediatamente nella nota acuta che aveva perforato i suoi timpani l’urlo agitato che suo fratello Bill riservava per le occasioni speciali, quelle per le quali una semplice lamentela non sarebbe stata abbastanza.
Si voltò verso la toilette dall’altro lato della camera, solo per vedere il moro chino su se stesso, come fosse appassito, fissare lo specchio con occhi vacui.
- Bill…? – mormorò, ancora mezzo addormentato, stropicciandosi gli occhi, - Che succede? Hai avuto un incubo?
Per tutta risposta, Bill afferrò l’applicatore per cipria abbandonato sul ripiano in legno e glielo lanciò addosso, ricoprendolo di polvere bianca e inducendolo allo starnuto compulsivo per dieci minuti.
- Ti pare che questa sia la posizione che una persona assume quando ha un incubo?! Davanti allo specchio con aria inorridita?!
- Che ne so! – strillò a suo volta Tom, ormai sveglio, fra uno starnuto e l’altro, - Ti sento urlare e penso a un incubo! Sono io strano?!
- Magari mi stavano squartando!!!
Tom spalancò gli occhi e d’improvviso capì.
Suo fratello stava straparlando.
Il che voleva dire semplicemente che qualcosa nei suoi soliti ragionamenti s’era inceppato, e il suo cervello era andato in tilt.
Tom si alzò faticosamente dal letto e raggiunse il fratello dov’era seduto, accorgendosi delle lacrimucce che rendevano brillanti i suoi occhi.
- Avanti, non fare così. – disse conciliante, - Adesso calmati e raccontami tutto fin dall’inizio.
Bill tirò su col naso e si strinse nelle spalle.
- Volevo struccarmi! – disse con enfasi eccessiva, indicando la boccetta di tonico riversa sul tavolo.
- Mh-hm, - annuì comprensivo, - e poi?
- E poi… e poi… d’improvviso… senza un perché…
- …?
- …l’ho visto!
Tom si raddrizzò di scatto, lanciando uno sguardo omicida verso la finestra.
Probabilmente là fuori c’era un guardone! Probabilmente Bill l’aveva visto fare qualcosa di osceno! Probabilmente si era spaventato!
- Che diamine guardi, Tom?!
…probabilmente no.
- Scusa, cos’è che hai visto?!
Bill rabbrividì, aggrappandosi alla sua maglietta come fosse stato realmente terrorizzato da qualcosa.
- …lui. – mormorò dunque, indicando lo specchio con un ditino tremolante.
Tom guardò la superficie riflettente.
E il faccino spaventato di Bill.
- Hai visto te stesso e hai avuto paura?
Stavolta a colpirlo dritto in faccia fu l’intero scatolino della cipria.
- Bill! – gridò soffocando, - Che diamine fai?!
- Sei un idiota!
- Ma si può capire cos’è che ti ha terrorizzato tanto?!
Suo fratello lo afferrò per il colletto della maglia e lo trascinò a due millimetri dallo specchio.
- Guarda! – ordinò poi.
Tom guardò.
E ovviamente non vide nulla.
- Bill, io non capisco…
Il moro lo schiacciò contro lo specchio.
- GUARDA MEGLIO! – gridò.
Tom aguzzò la vista.
Si concentrò sulla forma del viso di suo fratello e la trovò normale.
Si concentrò sul profilo allucinante della sua messa in piega e, pur con tutte le riserve del caso, - trovò normale anche quella.
E infine si concentrò sulla sua pelle liscia e bianca e con un minuscolo, insignificante brufolino sul mento, e-

- …il brufolo…?
Al solo sentire quella parola, Bill si accartocciò su sé stesso, inorridendo, con una smorfia di puro disgusto sulle labbra.
- Non dirlo ad alta voce!!! – implorò, nascondendo il volto fra le mani.
Tom lo fissò, attonito.
- …è tutto qui?
Gli occhi di Bill riemersero dalle sue mani, enormi e umidi di lacrime.
- Come tutto qui?
- Voglio dire… da come avevi urlato avevo pensato che qualcuno avesse cercato di stuprarti o peggio!
Bill lo schiaffeggiò.
- Come osi dire una cosa simile?! UN BRUFOLO! Sul mio BELLISSIMO mento!
- Ma… ma dai, Bill, è così piccino…
- È enorme!!! Immenso!!! Planetario!!! Guardalo!!!
In realtà, da quella distanza neanche si vedeva.
E si trovavano a – uhm – venti centimetri l’uno dall’altro. Circa.
- Bill?
- Dimmi.
- Sei completamente pazzo.
Tre secondi dopo già era di nuovo sommerso dalle coperte, mentre suo fratello ancora strepitava sull’ingiustizia della natura umana e giurava e spergiurava di non comprare più un dolce in vita sua.
Per farlo smettere di strillare, tirò fuori una caramella dalla scorta per le emergenze che teneva sotto il cuscino e gliela lanciò. Bill la afferrò al volo come un cagnolino e piombò sul suo materasso, addormentandosi di botto.
Tom sorrise compiaciuto e si riaddormentò a sua volta.
Genere: Comico, Demenziale, Parodia.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Crack.
- "Cosa diamine sarebbe il twincest?!"
Note: I cuoricini che escono dalle orecchie sono della nee-chan XD Li ho usati a sua insaputa e spero non le dispiaccia XD
Per il resto, una storia lol e visibilmente cretina, ma capitemi, io non posso fare a meno di fare interagire gli omini che amo col magico mondo del fangirling XD Mi serve per sentirmi a posto con me stessa XD Spero faccia almeno un po’ ridere >_<
Per inciso, la fic KaulitzxMolko ESISTE. Ed è russa. E forse prima o poi l’avrete anche voi XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DO THE TALKING

- Twincest.
Sollevò lo sguardo, rabbrividendo da capo a piedi.
- Come, prego?
Bill sospirò e ripeté, stando bene attento a scandire ogni lettera.
- E cosa diavolo significherebbe?
Bill sospirò ancora, roteando gli occhi.
- Quanto è pessimo il tuo rapporto con l’inglese?
- Tanto. – rispose con naturalezza il biondo, - Troppo. Non ricordi chi faceva i compiti per me?
Il moro annuì stancamente, rabbrividendo al ricordo dei lunghi pomeriggi passati a studiare sia per sé che per suo fratello.
- Allora? Cosa significa twincest?
- È una contrazione, chiaramente. Twin ed incest.
- …ossia…?
- Tom!
- Ossia?!
Bill si lasciò andare a quello che sembrò il millesimo sospiro della sua giornata.
- Gemelli. E incesto, ovviamente.
- …non dire “ovviamente”!!! “Ovviamente” si può dire solo del sole che sorge al mattino, e anche in quel caso non bisogna mica metterci la mano sul fuoco, perché poni il caso che sei, che so, tipo in Norvegia, e per sei mesi sei costretto a sorbirti il sole ad ogni ora del giorno e della notte, e quindi chiaramente non sorge, e poi per altri sei mesi-
- Vuoi sapere in che altro modo lo chiamano?
Tom deglutì.
Non era proprio certo di volerlo sapere.
Ma annuì.
- Kaulizest. – rispose Bill con un risolino estremamente divertito.
- …ok. A chi devo fare causa, per questo?
Il lungo catalogo dei sospiri di Bill si arricchì di un nuovo elemento. Un sospiro sbuffante e vagamente infastidito.
- Adesso piantala. La stai prendendo troppo seriamente.
- Troppo?!
- Ma sì. Sono fangirl. Sono innocue.
- Innocue?!
- La pianti di farmi l’eco?
- ECO?!
Per un attimo, Bill pensò di sospirare ancora. Poi capì che sarebbe diventato presto banale e fin troppo monotono, e si limitò a roteare gli occhi, esasperato, per la seconda volta.
- Non dovrebbe preoccuparti così. Voglio dire, se non c’è niente di vero dietro, il problema neanche si pone. Giusto?
- Certo!
- E allora è tutto a posto.
- Ma… Bill! Non ti dà fastidio che vadano in giro dicendo… cose!... non vere?!
Bill scrollò le spalle, lanciando uno sguardo rapido allo schermo del pc, ancora placidamente fisso sulla fanfiction che stava leggendo prima di venire interrotto dalle domande di suo fratello, il quale, quando si annoiava, non poteva fare a meno di ficcare il naso nella sua vita, così, per movimentare un po’ la propria – come se avesse avuto bisogno di essere movimentata più di quanto già non fosse.
- Tanto si capisce che sono cose surreali. – disse in tono neutro, scrollando la pagina giù fino alla fine, - Figurati che in una ci hanno appaiati perfino a Brian Molko.
Le sopracciglia di Tom si sollevarono così tanto che sfiorarono quasi il cappello che portava ben calcato sulla testa.
- Brian Molko?! Il frontman dei Placebo?!
Bill annuì, con aria sognante.
- Dovremmo esserne orgogliosi: è un uomo così bello…
- Semmai è una bella donna. – ribatté Bill, acido, - E di sicuro non rientra nelle mie preferenze sessuali!
- Ma hai appena detto che è una bella donna…
- E che significa?! Trovo anche te una bella ragazza, - ghignò crudelmente, - ma questo non significa che vorrei scoparti!
- …
- …
- …
- …mi sarà data una seconda possibilità per rimangiarmi tutto questo, sì?
Bill ridacchiò e tornò a concentrarsi sulla pagina.
Tom cercò di ignorarlo, per un po’. Ma non riuscì molto brillantemente nel compito che si era dato.
- …per curiosità, che c’è scritto?
Bill lanciò un sospiro talmente enorme, e talmente esasperato, che sembrò battere in potenza tutti i precedenti. Di quel giorno, dei giorni che erano passati e perfino di quelli possibili.
- La stai prendendo davvero troppo seriamente, Tom. Lascia stare.
- Come fai a dirmi di lasciare stare?! Stai leggendo una roba in cui ci- ci accoppiano!!! E mi dici di lasciare stare?! Io non capisco se ti rendi conto! A parte il fatto che- eeeeew, ma comunque è assurdo, e poi eeeeew, e inoltre è illegale, e poi ho già detto eeeew? Perché se non l’ho detto lo dico adesso, eeew, e se per caso l’ho detto lo ripeto, eeeeew!!!
Impegnato com’era a lanciare ew a destra e a manca, non si accorse dell’irritazione di suo fratello, che cresceva e cresceva al punto da elettrizzare i capelli già dritti sulla testa grazie al lungo lavoro della parrucchiera.
E non si accorse neanche del fatto che si era alzato e, fulmineo, gli si era parato di fronte.
Lo vide solo all’ultimo momento.
Chinarsi.
Sporgersi.
Baciarlo.
Seguì un silenzio attonito.
- …cosa hai fatto…?
- Ti ho baciato.
Seguì un secondo silenzio attonito.
- …cosa hai fatto…?
Bill sospirò, tanto per cambiare, posando le mani sui fianchi.
- Era solo per farti capire che non conta niente. È una cosa come un’altra.
- …una cosa come un’altra…?
- Sei in grado di dire qualcosa di intelligente?
- …una cosa come un’altra…?
- Santo cielo, Tom, se dietro non c’è niente, non dovrebbe turbarti così!
- Non sono turbato!
- E allora non preoccuparti!
- Sono turbato!!!
- Dio! – sbottò Bill, le mani fra i capelli, - Sei così complicato!
- COMPLICATO?!
- Stai strillando.
- NON STO STRILLANDO!
- Sì che stai strillando. Posso vedere il caps lock nella tua voce.
- NON BLATERARE!!!
- Non strillare.
- MI HAI BACIATO!
- Stai strillando.
- MI HAI FOTTUTAMENTE BACIATO! Mi hai- mi hai- Io non ho ancora avuto una ragazza!!! Nemmeno una volta!
- Cosa c’entra adesso?
- Mi hai baciato!!!
- È stata solo una stupidaggine!!!
- Ma cosa diavolo vuol dire “una stupidaggine”?! Tu hai mai baciato qualcuno?!
Bill portò l’indice alle labbra, e guardò in alto, pensieroso.
- No. – rispose alla fine, come se davvero avesse avuto bisogno di un secondo per riflettere, prima di realizzare, - Cioè, ho baciato te adesso. Ma prima mai nessuno.
- ERA ANCHE IL TUO DANNATISSIMO PRIMO BACIO?!
- Stai strillando di nuovo.
- LO SO, CAZZO!
Bill si chinò di nuovo su di lui, e lo baciò ancora, con la stessa, identica, sciocca e indisponente naturalezza.
Quando si risollevò, lo guardava con occhi sottili e brillanti come quelli di un gatto, mentre un sorriso da predatore gli increspava le labbra.
- Sei turbato? – chiese malizioso, mordendosi il labbro inferiore.
Tom deglutì.
Rifletté.
Inspirò.
Ed espirò.
- No. – rispose caparbio, aggrottando le sopracciglia.
Suo fratello tirò fuori la lingua e si inumidì le labbra, sorridendo… Dio, sorridendo lascivo.
- Allora – disse, stringendosi graziosamente nelle spalle, - possiamo provare ancora due o tre volte.
Seguì un ennesimo silenzio attonito.
E fu il più lungo della serie.
Quando Tom uscì dalla camera, ed era quasi già sera, in molti poterono giurare di aver visto dei cuoricini rosa leggeri come palloncini uscire dalle sue orecchie.
Genere: Triste, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Onesided.
- Il bello degli alberghi è che c'è sempre qualcuno a ripulire ciò che lasci sporco al posto tuo. Lo sporco che hai nella testa, invece, quello devi ripulirlo sempre da solo.
Note: I ringraziamenti doverosi per tutto questo vanno a:
Ana, che ormai è fonte inesauribile di puro fangirling <3
I Placebo, per aver creato “Ask For Answers” che, oltre ad essere bellissima, dà senso e titolo (“these bonds are shackle free” <3) a questa storia, che altrimenti sarebbe TOTALMENTE priva di entrambi XD
Caska, per avermi aiutata a risolvere un periodo terribilmente complicato in un momento in cui da sola non sarei mai riuscita a venirne fuori ç_ç!!!
E infine Nausicaa212 XD Anche se lei probabilmente neanche lo sa. Ma l’ispirazione per il fatto delle “prime notti in posti nuovi” l’ho presa dalla sua storia, Estate da sogno. (la cosa mi strazia come Bill è straziato dal fatto che gli piacciano i Keane XD).
Storia scritta per la serie delle 52 flavours >3 Ormai ne ho scritte ben sei X333 *donna che non è arrivata a nulla ma le piace pensarlo*
Tutto sommato questa robina mi piace :O È’ triste, è angsty, e poi Bill è puccio ç_ç E il fatto che tutto questo sia un’indiretta dichiarazione d’amore profondo e spassionato nei confronti di Tom non mi turba nemmeno un po’ XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SHACKLE FREE

“Get through this night, there are no second chances.
Give up this fight, there are no second chances.
These bonds are shackle free”.
Placebo – Ask For Answers

Si lasciò cadere esausto sul materasso, ed accarezzò le lenzuola fresche di pulito con entrambe le mani bene aperte, assaporandone la morbidezza con soddisfazione.
Degli alberghi adorava i camerieri, la moquette rossa, gli ascensori dorati e sempre profumati e soprattutto le lenzuola pulite ogni giorno senza dover essere lui a cambiarle. Non che occuparsi delle faccende domestiche lo infastidisse particolarmente – anche perché, se avesse dovuto lasciare quell’incarico nelle mani di suo fratello Tom, avrebbe vissuto in qualcosa di troppo simile ad un porcile per potersi ritenere soddisfatto – ma era terribilmente piacevole entrare in un luogo bellissimo e confortevole all’interno del quale potevi riposarti senza problemi, sapendo che nella mattinata, mentre eri fuori a divertirti o a lavorare, qualcun altro sarebbe arrivato per mettere tutto in ordine al posto tuo.
Bill non era un ragazzo viziato.
Ma essere servito e riverito lo riempiva di brividi piacevoli.
L’unica cosa che non sopportava, di tutto quello spostarsi continuo di albergo in albergo, era che ogni prima notte passata in un posto diverso era una notte di sonno perduto.
Né lui né Tom riuscivano a dormire, quando toccavano per la prima volta un letto nuovo.
Era una cosa terribilmente frustrante.
Soprattutto in due casi.
Se l’indomani mattina si ritrovava con quattro ore ininterrotte di session fotografiche – interviste – esibizioni live – session di autografi.
E se non poteva passare la nottata giocando con Tom.
Per inciso, la situazione quella sera sembrava rispecchiare in pieno la seconda ipotesi.
Si rigirò sul copriletto di raso e osservò suo fratello in attenta contemplazione dell’armadio.
- Certe volte penso che tu sia più vanitoso di me, Tom…
Tom si limitò ad un mezzo sorriso, senza staccare gli occhi dalla quantità infinita di magliette e pantaloni enormi che pendevano dalle grucce.
- Potresti anche truccarti, già che ci sei. Posso farlo io, se vuoi.
Stavolta suo fratello si lasciò andare ad una risata aperta e libera, scuotendo il capo e separandosi finalmente dall’armadio, per andare a gettarsi sul letto accanto a quello di Bill con un enorme sospiro stremato.
- Mi sa che stasera esco così come sono. – sbottò, scollando lievemente le spalle.
Bill lo guardò e pensò che non trovava nulla che non andasse in lui.
Che avrebbe potuto tranquillamente uscire coi pantaloni al contrario e la maglietta arrotolata attorno al collo come una sciarpa, e sarebbe stato comunque perfetto.
Immaginava dovesse essere qualcosa che avesse a che fare con la dannata sicurezza che Tom riusciva a sprizzare da tutti i pori come fosse naturale, mentre lui per sentirsi sicuro il minimo indispensabile per poter uscire di casa senza nascondere il viso fra le braccia doveva ricoprirsi gli occhi di trucco e montare i capelli come la panna – per non parlare dei vestiti.
Più probabilmente, e più semplicemente, i suoi occhi non riuscivano a vedere Tom per quello che era – un diciottenne come tanti, sempre pronto a divertirsi, rilassato, felice – e ne facevano una creatura misteriosa dotata di ogni potere soprannaturale, qualcosa che lo rendesse brillante, speciale, sempre a suo agio.
Odiava, odiava quando Tom usciva, lasciandolo solo in albergo.
- Vuoi venire con me, stasera?
E stare a guardare mentre amoreggi con una biondina random tutta impegnata a mostrarsi davanti alle macchine fotografiche dei paparazzi assieme a Tom Kaulitz dei Tokio Hotel?
No, grazie.
- Sono un po’ stanco, in realtà. – borbottò con un sorriso stentato.
Tom sorrise e lo guardò.
- Tanto non dormirai comunque.
Cercò di fermare il tremito lungo la schiena, e socchiuse gli occhi.
- Perché non resti con me? – azzardò, - Potremmo guardare un po’ di tv o magari-
- Cheee? Ma io voglio uscire!!!
Si affrettò ad agitare una mano, ridacchiando.
- Sì, lo so, scherzavo!
- Daaai, veramente Bill, esci con me! Ti assicuro che non è noioso! Balliamo un po’, beviamo qualcosa, rimorchiamo un paio di ragazze e-
- Non mi piace ballare, e poi lo sai che non bevo.
- …e le ragazze?
Quelle mi interessano ancora di meno.
- Davvero, sono stanco.
- Io se anche fossi stremato al punto da non riuscire a sollevare un braccio, riuscirei comunque a trovare la forza per andare a rimorchiare. – commentò ridacchiando.
Sì, lo so, pensò lui, e non so, sinceramente, se è un’abitudine che apprezzo o meno.
- Va be’. – concluse Tom, rimettendosi in piedi e sistemandosi la maglietta e i pantaloni, - Orario?
Girò appena il capo per controllare la sveglia sul comodino.
- Undici meno un quarto.
- Oooh. È già tardi. Comunque, se ti viene sonno, non aspettarmi per forza. Io non so neanche se torno.
Rispose con un altro sorriso debole, salutandolo con la mano.
Tom uscì dalla camera in perfetto silenzio, e silenziosa rimase l’aria fino a quando non tornò.
*
La presenza di Tom era continuamente accompagnata dal rumore. Non poteva esistere Tom in una stanza senza che attorno a lui si propagasse ogni genere di suono, che fosse il fruscio degli abiti esagerati che continuava a indossare, o il grip della suola di gomma delle sue scarpe da tennis contro il pavimento, o il trillo allegro della sua risata, o il bip dei videogiochi dietro ai quali passava delle ore, o il mugolio tranquillo della sua voce quando canticchiava il ritornello di qualche canzone fra le labbra.
Forse per questo motivo Bill aveva sempre avuto la chiara sensazione che fosse Tom quel qualcosa di speciale che riempie la vita e che le persone cercano incessantemente da quando nascono a quando muoiono.
Tom riempiva gli spazi. Li riempiva tutti. Nessuno sguardo era silenzioso, nessuna voce era priva di movimento, tutto era collegato, tutto era armonico, musicale. Non c’era nessun vuoto nella sua vita. Non c’era niente di irrisolto. Qualsiasi cosa mancasse a lui, era perfettamente ritrovabile in Tom.
Non sapeva se questo fosse da considerarsi normale perché erano gemelli.
Ma aveva la chiara percezione che, se c’era un motivo per il quale avrebbe dovuto considerare quello che provava per lui “anormale”, era il fatto che il suo sentimento per Tom conservasse ben poco di ciò che di fraterno c’era stato fra loro, e si spostasse sempre di più, sempre più pericolosamente verso tutt’altro tipo di sensazioni.
Scoprirlo era stato assolutamente traumatico, come immaginava dovesse esserlo per qualsiasi cosa, quando ti sembra assurda e non avevi mai pensato che potesse succedere a te. Rendersi conto di essere innamorato di suo fratello l’aveva scosso, e allo stesso modo l’aveva scosso, ad esempio, rendersi conto che, per quanto la cosa gli sembrasse disgraziata e disonorevole, gli piacevano i Keane.
Era stata una cosa sconvolgente, sì.
Ma non era stato un dramma.
Ne era venuto a capo.
Aveva cominciato ad abituarsi.
Come con tutto.
Era assurdo, sì, e lo era perché era senza motivo, senza pregi e, soprattutto, senza speranza.
Ma era.
Le cose che sono, restano.
Le cose che sono te le porti dietro.
Lui si portava dietro suo fratello, il suo pensiero, l’amore per lui, e ci era abituato. Non era stata una cosa diluita nel tempo, ci si era abituato subito. Più tempo o meno tempo non gli sarebbero serviti a niente. Non avrebbero attenuato neanche per un soffio tutto quello sconvolgimento emotivo, quel rimescolarsi di interiora, quel tremore di arti.
Più tempo o meno tempo sarebbero stati niente.
Superato il momento, aveva superato il problema.
Il problema, sì, ma non le complicazioni.
O meglio, la complicazione. Che consisteva tutta in una cosa molto semplice e assurdamente dolorosa.
Voleva Tom.
E non l’avrebbe mai avuto.
Faceva molto tragico amore, ma in fondo era tutto quello che era. L’unico modo in cui era possibile definirlo. Una cosa che vuoi e non puoi ottenere è un tragico amore sempre e comunque, si tratti dell’ombretto nero ultra-fashion che non riesci a trovare – malgrado tu stia girando da ORE per tutte le profumerie della tua dannata città – o di tuo fratello disteso sul letto sopra o sotto di te o in qualsiasi altro posto desideri purché stia vicino.
Questa era la sua tragedia. Con questa consapevolezza faceva a botte tutte le sere.
Era l’unica cosa alla quale non era ancora riuscito ad abituarsi.
La mancanza.
La sua assenza.
Anche se fortunatamente Tom lasciava poco tempo alla sua solitudine per impadronirsi di lui.
*
Spalancò la porta, accompagnato dal solito trambusto di risatine e strusciamenti vari – doveva essere totalmente ubriaco – e Bill non ebbe neanche il tempo di accorgersi che suo fratello s’era richiuso la porta alle spalle, che se lo vide piombare addosso come un animale stanco e ferito.
Si stupì.
Reputò normale stupirsi per un comportamento simile, amore o non amore, e perciò cercò di riscuotere Tom per riportarlo alla vita.
Lui mugugnò qualcosa che voleva dire “no”.
- Tom, che ti prende…? – chiese lui, quasi preoccupato, cercando di guardarlo in viso nel buio.
Tom continuò a mugugnare, e stavolta sembrò dire “sonno”.
- Il tuo letto è qua accanto… aspetta, va’, che ti do una mano… - disse, provando a prenderlo per le ascelle per aiutarlo ad alzarsi in piedi.
Tom gli si aggrappò addosso come se non avesse avuto altro al mondo.
- Tom…? – si ostinò a chiamarlo.
- Bill… - borbottò suo fratello, - lasciami dormire.
Trattenne il respiro fino a quando non lo sentì completamente abbandonato contro di lui.
E d’improvviso realizzò che quella era tutta la vita di suo fratello.
La vita di Tom si riassumeva in questo. Svegliarsi, lavorare, divertirsi, scopare e, alla fine, tornare da lui. Era una cosa che avrebbe fatto fino a quando fosse stato in grado di reggere i ritmi allucinanti di quella logorante routine, e che quindi si sarebbe protratta praticamente per sempre.
Lui era il materasso.
Tom aveva bisogno di dormire?
Eccolo pronto.
Un riposino pomeridiano?
Non aveva neanche bisogno di chiedere.
Sarebbe bastato cadergli addosso con noncuranza, e lui non avrebbe insistito più di tre secondi per cercare di mandarlo via.
Sarebbe stata sempre la stessa cosa. Sempre. Giorno dopo giorno, per tutta la sua vita.
Era una prospettiva semplicemente spaventosa.
Ammetteva di avere già difficoltà a considerarsi un essere umano vero dopo aver passato anni a resistere all’impulso di saltargli addosso ad ogni occasione minimamente favorevole, e pensare di dover passare l’intera esistenza a cercare di evitare quel pericolo era… no, non solo non era fattibile, non era nemmeno pensabile.
Già stare immobile in quel momento gli sembrava assurdo.
Averlo lì, a portata di mano, e non poter nemmeno allungare un braccio per accarezzargli i capelli, o per liberare due dita incastrate nella manica troppo ampia della sua maglietta, lo distruggeva. Si sentiva franare, si stava frantumando.
E avrebbe dovuto passare tutta la sua vita in queste condizioni?
Dio.
Si assicurò che stesse dormendo.
Lo prese saldamente per le braccia.
Cercò di non inciampare sui suoi pantaloni.
E lo trascinò stancamente sul suo letto, sistemandolo per bene fra le lenzuola, rimboccandogliele fin sotto al mento, perché non prendesse freddo, accomodandogli il cuscino sotto al capo perché non stesse scomodo.
Dopodichè, si sedette al suo fianco.
Si sentiva così pieno d’amarezza che avrebbe potuto sciogliersi.
- Liberami… - mormorò stancamente, - Trovati una ragazza vera, sposati, facci dei figli, dammi dei nipoti… liberami.
Tom continuò a dormire placidamente, nonostante la carezza distratta che lui si prese la libertà di lasciargli sul volto.
Bill cominciò a piangere.
- So che lo farai. – disse piano, chinandosi sulle sue labbra.
Non ebbe neanche il coraggio di sfiorarle.
Si rimise in piedi, fuggendo sul proprio letto e tirandosi le coperte fin sulla testa.
Chiuse gli occhi, li strizzò fortissimo, vide un sacco di nero puntellato da fastidiosissime macchie bianche.
Passò dal pianto al sonno senza nemmeno accorgersene.
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack, Incest.
- Sono le cinque del mattino. Dopo una nottata di follie, Tom Kaulitz si avvia verso casa. Non sa che ad attenderlo troverà il Demonio, alias il suo manager, David Jost, che non aspetta altro che punirlo per "certi atti sconsiderati"...
Note: Una storia totalmente idiota nata grazie a – indovinate un po’? XD – Ana (che si ringrazia anche per il betaggio puntuale e pieno di spunti lol, come al solito <3), grazie alla quale ho fangirlato per un’intera mattinata su Muse e Placebo e presunte collaborazioni che poi si sono rivelate pacchi colossali XD Cosa c’entrano i Tokio Hotel? C’entrano perché a un certo punto, dato che si parlava di Muse, s’è parlato di “Showbiz”, che è una loro MERAVIGLIOSA canzone, e io ho pensato che si applicasse bene alle hint twincest che i due poveri gemelli Kaulitz sono costretti a dare al loro fandom di fangirl, per necessità di, appunto, show business X’D
È la prima volta che prendo in mano questi due tati, è stato molto piacevole *-*
Li userò ancora X3
David Jost, sei il male ma ti amo <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SHOWBIZ

La notte s’era fatta gigantesca sulla sua testa senza che neanche lui se ne accorgesse. Gli sembrava di essere entrato nel locale intorno a mezzanotte, e nel momento in cui ne era uscito aveva pensato fossero passate giusto un paio d’ore; ma nel momento in cui aveva abbassato lo sguardo sull’orologio e lui gli aveva rivelato che in realtà erano le cinque del mattino un lungo, spaventoso e debilitante brivido l’aveva percorso lungo tutta la schiena e aveva dato una carica non indifferente alle sue gambe, che avevano preso a dirigersi di corsa verso casa, come se lo stesse inseguendo un assassino munito di sega elettrica.
In realtà non stava fuggendo da qualcosa.
In realtà stava per gettarsi consapevolmente fra le braccia del demonio.
David lo aspettava sulla soglia di casa, le mani sui fianchi, le gambe semi-divaricate, un piede a picchiettare nervosamente sul marmo del pavimento dell’ingresso e un paio d’occhi talmente furenti che sembravano sprizzare scintille.
- Tom Kaulitz, tu, dannato delinquente!!!
Tom si congelò sul posto, irrigidendo le braccia lungo i fianchi e mettendosi sull’attenti.
- Chiedo scusa!!! – strillò terrorizzato, quasi prostrandosi ai piedi del suo manager, - Giuro che non lo farò più! Da domani in poi a letto alle undici! Perdono, ti prego!
David lo afferrò per i capelli, aiutato dalla ragguardevole lunghezza dei suoi ciuffi rasta, e prese a farlo roteare vorticosamente sopra la sua testa, come volesse lanciarlo lontano.
- David!!! Daviiiiid!!!
- CRIMINALE!!! Non è per l’orario DEMENTE che sono furioso!!!
Attirato dalle urla, suo fratello Bill apparve sulla soglia di casa. Indossava un pigiama celeste tappezzato di mucchine di varie dimensioni e aveva perso una mano nell’enorme matassa di capelli scompigliati dal sonno che portava sulla testa.
Era totalmente rincretinito dal brusco risveglio. Gli occhi, stretti come due fessure, e miracolosamente non provvisti del solito alone di matita nera senza il quale bill non sembrava in grado di ragionare come un normale essere umano, saettavano irrequieti dalla figura di David a quella roteante di Tom, e sembravano dire “sono stupido, non capisco, potreste illuminarmi?”.
- Bill! – sbraitò David, continuando ad agitare Tom a destra e a manca, - Torna a letto! Le tue dodici ore di sonno non sono ancora finite! Se poi ti spunta una ruga come facciamo?!
Bill sbatté le palpebre e sbuffò.
- Ho diciassette anni, che diamine di rughe vuoi che mi spuntino? – disse giustamente, con la voce ancora impastata.
David non lo prese in considerazione e gettò Tom per terra, piantandogli un piede sul petto e squadrandolo con cattiveria dall’alto.
- David… - mormorò Bill, comprendendo solo in quel momento cosa stesse succedendo, - Si può sapere cos’è che stai facendo a mio fratello e al mio chitarrista?
- Questo idiota! – motivò l’uomo, schiacciando il piede più in profondità nel suo sterno, - È un idiota!
- …sì, se l’hai detto, immagino che tu ne sia convinto…
- Non è che ne sono convinto, lui lo è!
Tom si riprese appena, sollevandosi da terra.
- D-David… - mormorò, sconvolto, - P-Prometto… rientrerò in orario… s-scusa…
- La vuoi finire di scusarti per qualcosa che non mi interessa?! – tuonò il manager, ripescandolo da terra e rimettendolo in piedi.
Bill si massaggiò la fronte e corse in aiuto del fratello, rimettendogli a posto i vestiti ormai laceri e imbrattati di terra.
- David, temo che Tom non capirà mai, se ti ostini ad essere così criptico.
Il manager incrociò le braccia sul petto e riprese a picchiettare il pavimento con la punta della scarpa.
- Tom, ricordi che discorso abbiamo fatto quando abbiamo cominciato questa meravigliosa avventura nel mondo del pop-rock adolescenziale?
Tom lo fissò con occhi vuoti.
- …che… che… Bill…?
Bill sospirò e scosse il capo, demoralizzato.
- Era qualcosa… - si sforzò il ragazzo… - su… tipo… la tua percentuale…?
- A parte quello!
- …ehm… i riposini di bellezza…?
- Non dire idiozie!!!
- Ehm… ehm… io… i… i vestiti…?
- LE QUESTIONI SENTIMENTALI, brutto cretino che non sei altro!!!
Tom spalancò gli occhi e abbandonò le braccia lungo i fianchi.
- …in che senso? – chiese innocentemente, senza capire.
David si mise le mani fra i capelli e cominciò a sbraitare come un ossesso, mentre un cane abbaiava in lontananza e qualche luce del palazzo si accendeva, mostrando le sagome di persone frustrate che avrebbero voluto dormire ma che non ci riuscivano a causa dei suoi schiamazzi.
Bill prelevò suo fratello dallo stato di catatonia in cui si trovava e lo costrinse a sedersi sui gradini, per poi accucciarsi al suo fianco e stringerglisi contro, cercando di ripararsi dal freddo dell’alba – con sommo compiacimento di David che, pur disperandosi per l’ottusità del suo chitarrista, continuava ad osservare con attenzione ogni mossa dei due fratelli.
- Tom, devi essere più cauto quando vai in giro per discoteche a pomiciare con le ragazze.
- Che?! Come fai a-
- Lo sai come sono i paparazzi… c’è già il web invaso dalle foto…
Il ragazzo si passò una mano sugli occhi, comprendendo improvvisamente il perché di tutto quel disastro.
- Le ha viste…?
- Le ha viste. – annuì Bill, battendogli cordialmente una mano sulla spalla.
- Non cercare di sfuggire alle tue responsabilità!!! – gridò David, afferrandolo nuovamente per la collottola e rimettendolo in piedi, - Adesso ricordi quali erano i termini dell’accordo?
Tom sospirò.
- Dare corda alle fangirl. – esalò, demoralizzato.
- Più precisamente?
Il ragazzo sospirò ancora, e lanciò uno sguardo strappalacrime a suo fratello, che si limitò a scuotere le spalle e guardare altrove, come dire “che ci vuoi fare, lo sai che è così”.
Tom si rassegnò a rispondere.
- Dal momento che siamo gemelli… - iniziò.
- …sì? – lo incitò il manager, stringendo minacciosamente la presa sul suo collo.
- …e dal momento… ossignore…
- Parla!
- …dal momento che alle ragazze… senti, David, lo so io e lo sai tu, mi dici che motivo ho di ripeterlo?!
- Devi imparare la lezione! Tu, ottuso ragazzino sessualmente iperattivo!
Tom socchiuse gli occhi e incurvò le spalle.
- Dal momento che alle ragazze piace immaginare il twincest… - mormorò, - …Dio ci salvi e ci perdoni, twincest è ciò che dobbiamo dare loro.
- Esatto! – esclamò trionfante David, lasciandolo finalmente andare, - Anche perché, se dovessimo affidarci alla vostra musica per vendere, rimarremmo poveri in canna fino alla fine delle nostre vite, e sareste costretti a prendervi cura di me fino a quando non sarò vecchio come il cucco e semi-decomposto!
- Ew, David, un po’ di delicatezza, mi sono appena svegliato… - si lamentò Bill, con una smorfia di disgusto.
- E non è tutto! Vivremmo sotto un ponte e dovreste cambiare i miei pannolini della vecchiaia, e puzzerei come una carogna, e sarebbe solo per farvela pagare!
I due fratelli chinarono il capo ed annuirono ubbidienti – come ci fosse qualcosa cui annuire.
- Quindi, qual è la morale della fiaba? – chiese il manager per concludere, sollevando un dito con fare minaccioso.
Tom e Bill sollevarono una mano.
- Promettiamo di fare i bravi, da oggi in poi. – dissero all’unisono.
David approvò con un deciso cenno del capo.
- Benissimo! Ora possiamo tornare tutti a nanna, e ci rivediamo domattina, freschi e riposati, alle otto in punto!
Dopodiché, scomparve oltre la porta, lasciando i due poveri gemelli ancora un po’ sconvolti sull’uscio di casa.
- Bill… - lo chiamò Tom, lamentoso, - Ricordami perché abbiamo deciso di formare un gruppo?
Gli occhi del ragazzo si fecero immensi e brillanti come palle da discoteca.
- Ma perché la Musica è la nostra vita, ovviamente! – dichiarò appassionato, giungendo le mani sul petto poco prima di rientrare in casa, saltellando come uno stambecco.
Tom fissò la porta ancora spalancata con un misto di rassegnazione e disperazione negli occhi.
Era totalmente perduto.
Genere: Comico, Demenziale, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack, Incest.
- E se il twincest fosse una meravigliosa realtà? Be', non sarebbe poi tanto meravigliosa. Almeno a detta dei protagonisti.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
QUANDO L’AMORE BRUCIA I NEURONI
GUSTAV SCHÄFER SI RACCONTA

Lasciatevelo dire da uno che col twincest – quello vero – è costretto ad avere a che fare tutti i giorni che il buon Dio manda sulla terra: non c’è niente, niente di bello in due gemelli che scopano.
O, a voler essere totalmente sinceri, non c’è niente di bello in due gemelli che stanno insieme ma non scopano.

Quando, nell’innocenza dei miei tredici anni, ho deciso che i gemelli Kaulitz sarebbero stati la chiave per il coronamento del mio sogno più infantile e remoto, ho deciso anche che i loro insopportabili caratteracci valevano bene l’obiettivo finale, e che, perciò, potevo sopportarli, e farlo con gioia, se questo avesse significato la possibilità di suonare a livello internazionale.
Era evidente che mi stavo condannando a morte e ancora non lo sapevo.
- Tu non capisci.
Lascio roteare lo sguardo, sbuffando annoiato e fissando il paesaggio bianco di neve oltre la finestra della mia camera, con una sorta di tenerezza nostalgica. Nel senso che preferirei trovarmi sotto una bufera piuttosto che continuare questo discorso.
Voi fangirl decisamente non avete idea.
Io vi conosco.
Voi state lì, protette dalle quattro mura delle vostre stanzette tappezzate di poster e dall’anonimato tipico di internet, e vi limitate a buttare giù fantasie più o meno erotiche che avete perfino il coraggio di spacciare in giro con orgoglio, e le credete intriganti, sexy, tenere; e poi andate sui forum e argomentate seriamente che no, non credete che fra Bill e Tom ci sia veramente una storia, e che no, non vorreste mai che ci fosse sul serio, perché poverini non potrebbero mai essere felici, dal momento che la società fa schifo, l’umanità è composta da personaggi osceni che non comprendono l’importanza del Vero Amore, eccetera eccetera.
Lo ripeto. Voi non avete idea.
Avere a che fare coi gemelli era già difficile prima. Da quando poi hanno deciso di fare outing – seppure solo all’interno della ristrettissima cerchia di persone che, lo sapevano, non li avrebbero abbandonati neanche di fronte a confessioni ben peggiori – ormai qui non si vive più una vita normale: si vive in un delirio. Per di più, totalmente disorganizzato.
- Gustav! – si lamenta il Kaulitz maggiore, agitando i pugni in aria, - Mi stai ascoltando?!
- No. – rispondo sinceramente, lasciandomi andare di schiena sul letto, - Facevo considerazioni interiori sulla vita di merda che mi avete costretto a vivere da quando avete deciso di mettervi insieme, da cretini che non siete altro.
Se c’è una cosa, una sola, che mi solleva dalla depressione, è stuzzicare Tom su questo argomento. È così deliziosamente irritabile, quando si parla di Bill… si vede che si sente in colpa, dal momento che è stato lui ad irrompere in camera di suo fratello una mattina e fargli presente che ciò che provava per lui non era più considerabile “amore fraterno”.
E non sto esagerando, con le dinamiche.
Ma per questa storia dovreste chiedere a Georg, davvero. Non fosse una tragedia, sarebbe uno spasso.
- La prossima volta che m’innamoro di mio fratello, Schäfer, mi assicuro di scriverti prima una lettera di avviso. – borbotta infatti il nostro incazzosissimo Tomi, acido come sempre, mostrandomi il medio.
- Fortunatamente non hai altri fratelli. – rispondo io, gelido. – E guai a te se cominci a considerarmi tale. Ti assicuro che non lo sono, il nostro non sarebbe considerabile incesto.
- Non è che… - comincia a protestare lui. Poi, probabilmente, si rende conto del fatto che cercare di argomentare seriamente una difesa contro una presa per il culo è del tutto inutile, e si rassegna a provare a tirarmi uno scappellotto sulla fronte, che però io evito con grazia rimettendomi seduto. – Fanculo, stronzo! – si limita quindi a commentare, sfilandosi una scarpa e tirandomela addosso senza tanti complimenti.
Ora, io so che Tom non è completamente stupido. O meglio, so che non lo è affatto. Solo che si ostina a dimostrare la propria intelligenza solo in ambiti della propria esistenza del tutto imbecilli. Per dire, il Monopoli, che suo fratello ama tanto. Mai una volta che lo si riesca a battere! Un po’ anche perché David ha fiutato in lui una certa scaltrezza a livello manageriale, e lo sta allevando come un piccolo di alligatore perché segua le sue brillanti orme, ma sono propenso a credere che la maggior parte del merito vada comunque a Tom.
Quindi io so che la persona che ho davanti in questo momento non è idiota.
Solo che, davvero, in occasioni come questa mi riesce difficile crederlo.
- Vuoi piantarla di perderti dentro la tua testa e stare ad ascoltarmi? – si lamenta, sconvolto dalla facilità con cui mi distraggo pur di non starlo a sentire.
A questo punto mi arrendo e annuisco. Neanche io sono stupido.
- Avanti. – incito bonario, - Qual è il problema?
- Che non me lo scoperò mai, è ovvio. – confessa lui tranquillamente.
Se questo fosse un cartone animato, io come minimo finirei gambe all’aria mentre in lontananza una palla di fieno rotola fra i cactus.
Trovandomi invece palesemente catapultato in una kaulitzest neanche tanto originale, sono fregato.
- Tom, fai schifo. – borbotto, fissandolo basito, - È di questo che blateri da mezz’ora?
- Ovviamente no! – ammette lui, recuperando la scarpa dal mio letto e rinfilandosela, - Ma dal momento che non mi hai ascoltato sicuramente non lo sai! Sto parlando del Natale, cretino di un batterista che non sei altro.
- Mancano ancora tre dannatissime settimane al venticinque, Kaulitz! Cosa diavolo vuoi da me?!
Odio perdere la calma, ma Tom mi ci costringe ogni santissima volta, è indecente.
- C’è che, da cretino quale sono – argomenta con fare esagitato, - mi ritrovo al quattro con trenta euro e la drammatica certezza di scoprire le mie stesse tasche sempre più vuote giorno dopo giorno finché non avrò esaurito i liquidi! E non ho idea di cosa comprargli!
- …Tom, che c’entra questo col sesso?
Lui mi fissa come fossi scemo.
- Non capisci un cazzo di femmine, Gustav.
- Neanche tu, se non hai ancora realizzato che tuo fratello non lo è. – è la mia serafica risposta, mentre mi tiro indietro sul materasso per poggiarmi di schiena alla parete.
- Sai cosa intendevo! – sbotta lui, sfilando di nuovo la scarpa e lanciandomela addosso, abbastanza lentamente perché io possa sollevare una mano e bloccarla prima che vada a colpirmi in viso.
- Tom, cosa vuoi che ti dica? – protesto mugugnando e facendo roteare la scarpa, tenendola per i lacci, - Non posso farci niente se non hai un centesimo e neanche uno straccio d’idea per un regalo che ti renda scopabile agli occhi del tuo stesso fratello. – mi interrompo, e anche la scarpa smette di girare, afflosciandosi lungo il mio avambraccio. – Dimmi che non ho davvero detto qualcosa di simile…
Tom scuote il capo, serio ma vagamente compiaciuto.
- È bello che tu stia cominciando ad abituarti! – mi rassicura, mentre io medito di raggiungere il mio manager e chiedergli una rescissione di contratto immediata. – Comunque, - continua imperterrito, ignorando il palese disgusto che provo nei confronti suoi, per essere così drammaticamente idiota, e miei, per essere altrettanto drammaticamente scemo, - è anche affar tuo. Se non riesco a risolvere questo problema, sarò molto irritato. E se io sarò irritato, anche Bill lo sarà. E se lo saremo entrambi, anche David si irriterà.
- …questo elenco finirà prima di arrivare ai vertici del tuo albero genealogico o…?
- Schäfer, mi stai facendo incazzare!
- Ma scusa, Tom, vieni a rompere le palle per motivi del tutto discutibili, per usare un eufemismo, e dovrei pure prenderti sul serio?!
- Te lo do io un motivo per prendermi sul serio: voglio che mi accompagni a cercare un regalo carino per Bill.
Sapevo che stamattina avrei dovuto scendere dal lato destro del letto.
- …oggi?
- Ora. Subito.
- Ma…
- Per forza. O i miei soldi scompariranno e arriverò alla vigilia di Natale a mani vuote. E sarò costretto a sventrarti e offrire a Bill le tue viscere come dono.
Deglutisco rumorosamente, osservando ancora la bufera che imperversa all’esterno. Non so che prospettiva sia meglio, se essere assassinato dal mio chitarrista fra tre settimane o da una quantità abnorme di neve fra dieci minuti. La scelta è ardua.
- Va bene. – concedo infine.
Tanto so già che sarà una giornata di merda.
*
- È ovvio che non lo scoperò mai.
Gli sollevo addosso uno sguardo disgustato, e lui deve percepirlo, perché mi guarda a propria volta e bisbiglia un infastidito “che vuoi?!”, prima di tornare a rigirarsi fra le mani il peluche a forma di ratto che ha trovato in un cestone.
- Che voglio, chiede lui. – borbotto irritato, sfilandogli il topo di mano e gettandolo in un mucchio di pinguini, - Primo: non è che siccome noi siamo stati così dolci, meravigliosi e comprensivi da accettarvi senza farvi problemi, allora deve farlo anche il resto del mondo. Quindi abbassa la voce. E in secondo luogo, comunque, non è che siccome noi siamo stati così dolci, meravigliosi e comprensivi da accettarvi senza farvi problemi, allora io devo essere costretto ad ascoltarti parlare impunemente di sesso, o meglio, del sesso che non riesci a fare! Quindi piantala.
- Non capisco perché il sesso possa essere un argomento naturale per chiunque tranne che per me e Bill! – strilla lui a quel punto, completamente dimentico di essere in un centro commerciale, - Non ho mai dovuto aspettare tante settimane per una scopata, sono allibito!
Lo fisso, sconvolto.
- Tom, se fossi tuo fratello neanche io te lo darei. Sei un uomo veramente pessimo!
- Come osi?! – ricomincia a strillare l’idiota, recuperando il sorcio dal mucchio di pinguini e prendendo a sprimacciarlo senza delicatezza, - Io sto qui che mi ammazzo per cercare un regalo carino, e tu mi dai del pessimo! È questo posto, che è pessimo! – aggiunge, evidentemente insoddisfatto della quantità enorme di stronzate già dette, - Visto che il regalo migliore che si riesce a trovare è questa specie di topo di fogna imbottito!
Io sospiro e libero il topo dall’agonia cui è costretto, nascondendolo più a fondo nel mucchio dei pinguini, perché Tom non possa più ritrovarlo.
- Abbiamo visto anche delle cose carine, prima. – gli ricordo puntuale, scrollando le spalle.
- Sì, certo. Tipo cosa, secondo te? La paletta per la pasta con le canzoncine di Natale incorporate?! Dico, scherzi?! Se mi presento con una roba simile, altro che sesso: come minimo Bill me la ficca su per il culo. E poi fa partire Jingle Bells!
- Ma lo vedi che fai schifo?! – rabbrividisco io, allontanandomi da lui in un gesto repentino e sconvolto, per quanto del tutto giustificabile. – E comunque c’era anche altro!
- Se parli di quello stupido salvadanaio a forma di porcello al quale si allungava la coda man mano che lo riempivi di soldi, neanche ti dico come potrebbe usarlo Bill su di me se glielo regalassi.
- Te ne sono grato. – sbuffo demoralizzato. – Ma c’era anche quell’altro salvadanaio… quello a forma di piantina, che più lo riempivi più cresceva…
Tom rotea gli occhi e si allontana a grandi passi verso il reparto cosmetici.
- Mio fratello va dal parrucchiere tre volte a settimana e si trucca quanto la versione alta e magra di Christina Aguilera, cosa cazzo vuoi che se ne faccia di un posto dove conservare i soldi che non conserva?!
Be’, che dire. Ha ragione anche lui.
- Tom, si può sapere cosa stai andando a fare di là? – mi limito a chiedere, alquanto esasperato, seguendolo controvoglia, - Non mi risulta che Bill sia a corto di trucchi, sinceramente.
- Ma che ne so! – sbraita, totalmente rincretinito dagli odori e dai colori tipici di quel reparto, - Sto cercando di farmi venire un’idea, e per inciso, tu non sei affatto d’aiu-…!!!
Vedendolo fermarsi nel mezzo del nulla, con un’espressione idiota sulla faccia, tutto rigido sulle gambe come la pertica che è, quasi mi preoccupo.
- Tom, che diavolo hai? – cerco di capire, sollevandomi sulle punte per verificare che nei suoi occhi sia ancora presente la scintilla della vita. Se muore mentre è con me, poi vallo a sentire Jost.
- Gustav…! Guarda!!! – ansima lui, sconvolto, indicando uno scaffale mentre sul viso gli si apre un sorriso beota.
Io seguo la mano e raggiungo una papera. Sì. Proprio una papera. Quindici centimetri d’altezza, dieci di larghezza e un’altra quindicina abbondante di profondità di papera bianca e arancione in plastica.
- Che cavolo sarebbe quello?
- Come fai a non capirlo?! – mi riprende lui, afferrandomi per la collottola e spingendomi più vicino all’aggeggio, - È uno di quei cosi che asciugano lo smalto!!!
Mi avvicino ancora un po’ e, non capendo, prendo l’oggetto fra le mani, per esaminarlo più attentamente.
È una papera del tutto normale, a parte il fatto che, in effetti, l’apertura del becco è larga più o meno quanto lo sono le dita di una mano. Faccio la prova, infilandole nell’apposito spazio dall’indice al mignolo.
- Ehi, è vero! – ammetto, sbigottito.
Tom mi strappa l’affare di dosso – rischiando di portar via assieme a lui pure un buon numero di falangi – e, disinteressandosi completamente della tragedia alla quale avrebbe condannato i Tokio Hotel se mi avesse menomato, saltella compiaciuto verso le casse.
Io neanche mi lamento, tanto so che sarebbe inutile. Non ce la faccio proprio, però, a non lasciarmi sfuggire un versaccio disgustato mentre ascolto ciò che borbotta felice mentre si mette educatamente in fila.
- Se non me lo dà dopo questo, non me lo darà proprio mai più!

È questo che intendo quando dico che voi fangirl non capite. Non avete la più pallida idea di cosa significhi avere a che fare con due gemelli innamorati. Anche perché l’amore è pericoloso. Non si limita a bruciare tutti i neuroni presenti nel cervello di chi lo prova, no, contagia anche i cervelli di quelli che li circondano!
Costringendo tutti a un’incipiente e precoce demenza senile.
Che, sinceramente, mi sta più che bene se affligge il mio manager ultra-trentacinquenne.
Mi sta un po’ meno bene se affligge me, che di anni ne ho venti. E sono ancora tragicamente pieno di belle speranze, a dimostrazione che della vita, è ovvio, non ho ancora capito un accidenti.
*
Io e Tom rincasiamo nell’esatto momento in cui rincasano Georg e Bill. Dallo sguardo del mio povero bassista, e dal pacchetto incartato e infiocchettato che Bill sbatacchia in giro per la casa, comprendo che la sua giornata non dev’essere stata granché migliore della mia, perciò sospiro e gli schiocco un’amichevole pacca su una spalla, mentre lui mugugna disperato e corre verso il divano, sul quale si abbandona esausto mentre, dall’altro lato del loft, David rimprovera aspramente i gemelli per essere usciti con un tempo che “neanche i vichinghi sarebbero stati in grado di sopportare”.
Scuoto il capo e mi avvicino a Georg, sprofondando sul divano al suo fianco e accendendo la televisione. Su MTv becco Ready, Set, Go! e ritengo più opportuno spegnere nel momento esatto in cui Georg ricomincia a mugolare come se stessero cercando di ammazzarlo.
- Giornata stressante, eh? – chiedo partecipe, cercando di consolarlo con qualche altra affettuosa pacca.
- Non puoi neanche immaginare. – borbotta lui, riportando dietro l’orecchio una ciocca di quell’improponibile tenda che si ostina a chiamare frangia e che passa la propria intera giornata a cercare di accecarlo ficcandoglisi negli occhi quando meno se lo aspetta. Poi si ferma, tossicchia e aggiunge: - Il twincest fa schifo.
Io ridacchio. Sollevo lo sguardo e adocchio Bill e Tom che, nel mezzo del corridoio che separa le loro stanze, cercando di nascondersi i pacchi regalo a vicenda e finendoo con lo scontrarsi a metà dell’aria fra loro in bacetti fugaci e terribilmente teneri a fior di labbra. David li fissa da qualche metro di distanza, scioccato, e poi si rifugia in cucina borbottando qualcosa sull’indecenza, mentre Tom prende a trascinare Bill verso il bagno, tra le sue deboli quanto inutili proteste.
Scrollo le spalle.
Georg si lascia andare a tutto il repertorio di versetti disgustati che inscena quando è invidioso del fatto che i gemelli pomicino comunque più di lui.
- Che vuoi farci? – sbotto divertito, - Sono canon!

Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVISI: Slash.
- Bill ha la febbre. David obbliga Tom a prendersene cura. Ed è solo l'inizio del disastro.
Note: Mi ritrovo quasi alle cinque del mattino a tirare una somma che non sono proprio sicura di voler tirare. Sarà che in matematica non sono mai stata granché competente. Ai tempi delle espressioni, per dire, sbagliavo le addizioni coi segni. Ero molto distratta e finivo per toppare sui dettagli sciocchi – tipo quando moltiplicavo un numero positivo per un numero negativo. Potevo solo pregare di rimanere abbastanza attenta da ricordare che il risultato sarebbe stato a propria volta negativo, o rischiavo il suicidio collettivo di tutte quelle adorabili parentesi graffe, quadre e tonde.
Tant’è. Oggi la mia neechan mi ha fatto notare fosse plausibile pensare l’ultimo aggiornamento di questa fanfiction risalisse almeno ad un anno fa. Non ho più le date dell’EFP, ma qui in community Schweiß è stato pubblicato il 4 settembre 2007. Ciò vuol dire che no, non sono ancora dodici mesi ma poco ci manca. Curioso inciso: chiudevo le note finali, allora, dicendo “Al prossimo capitolo – spero non fra un anno XD”. Voglio dire, non fosse tremendo da parte mia, sarebbe molto lol XD
So che in teoria non dovrei ancora stare qui a tirarmela con le note finali. Avete sopportato abbastanza XD Ma in realtà c’è qualcosa che vorrei dire. Non serve a scusarmi, ma questo capitolo è pronto da molto (moltissimo) tempo. Figuratevi che già prima del raduno a Brescia (nel marzo scorso, quindi) era già bello che finito.
Il mio problema con Wahrheit viene dal fatto sia stata plottata – ed iniziata – quando ero ancora, mentalmente, in periodo Shackle Free. Per certi versi – non so quanto ricordiate quella storia, ma se la rileggete lo noterete anche voi – Fieber e la Shackle Free di Tom. Nel senso che vede la stessa identica cosa, ma dal suo punto di vista. In questo senso, intendo il capitolo centrale di questa trilogia più come un inciso che non come parte integrante della storia. Una sorta di spin-off interno, se volete o_ò perché quest’ultimo capitolo riprende molto più dal primo che non dal secondo. La frase finale di Tom recupera in pieno – volutamente – una frase di Bill detta al riguardo dello stesso argomento proprio in Fieber.
Ma queste sono elucubrazioni spicciole ^^
Io questo capitolo non volevo pubblicarlo. Ho dei problemi prepotenti, col one-sided XD riassumibili nel concetto “mi rattrista a morte”. Aggiungeteci che questa fic è colpevole di molte cose – una delle prime nel fandom, la molla che ha fatto scattare in Meg il desiderio di scrivere Verbrennen, una delle prime twincest che abbia plottato con Ana… - e che quindi ero terrorizzata dall’idea di deludervi tutte con questo finale. Che sì, è così da sempre XD Perché questa storia è sempre stata una one-sided, ecco.
A questo proposito, devo ringraziare Meg. Se ieri sera non mi avesse tirato una paternale coi controfiocchi, rassicurandomi conseguentemente sul fatto che se è così è così e basta, questa conclusione probabilmente non l’avreste vista proprio mai. *si nasconde sotto un chilo di sabbia e ci sprofonda dentro*
È amara. È disillusa.
È tenera, comunque. Perfino romantica. Almeno, nel mio modo di vedere il romanticismo.
Spero solo cha sia valsa la pena dell’attesa. Lo spero tanto <3
Grazie per la pazienza, a presto <3
PS: I versi citati all’interno del capitolo sono tratti dalla prima strofa di Spring Nicht. La traduzione (ad opera di Sar@) è la seguente: “L’abisso della città / inghiotte ogni lacrima che cade / Laggiù non c’è più / quel che ancora ti tiene qui su”.
PPS: Non ho la più pallida idea di dove sia stato girato precisamente il video di Spring Nicht °_° Berlino, ok, ma la location mi è ignota, confesso la mia ignoranza ._. Mi ha sempre comunque dato l’idea di essere un enorme parcheggio multipiano, perciò ho usato quel concetto.
PPPS: Nove mesi, mi fa notare la neechan. Praticamente una gravidanza XD
PPPPS: 11 luglio 2007 <- data di pubblicazione di Schweiß, dice Meg XD E mioddio, dico io XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
FIEBER, SCHWEIß UND WAHRHEIT
1. FIEBER

Non è che provasse una particolare avversione per la pioggia.
Sì, poteva essere molto noiosa, quando per esempio decideva di venire giù nell’esatto momento in cui lui usciva di casa. O nel bel mezzo di un concerto che avrebbe previsto qualcosa tipo fuoco e fiamme. Ma in generale non è che si potesse dire che per lui la pioggia fosse una maledizione o un’angoscia o niente di simile.
Spesso la trovava addirittura piacevole.
Adorava i toni di colore che prendevano le cose quando erano bagnate da capo a piedi, per esempio.
Ed era uno dei pochi esseri umani al mondo ad amare l’odore dell’erba bagnata – con somma costernazione di suo fratello.
Ma ecco, c’erano davvero dei momenti in cui la pioggia era intollerabile.
Come ad esempio quando a causa sua si ritrovava incatenato ai piedi del letto di Bill, intento a sorvegliare che non si soffocasse col suo stesso muco o che non morisse di disidratazione in preda alle vampate di calore.
Era cominciato tutto quella mattina presto. Anzi, in realtà la sera precedente, quando sia Bill che gli altri ragazzi del gruppo avevano avuto la brillante idea di andarsi a buttare nella piscina della villa che ospitava il party di cui erano invitati d’eccezione, nonostante piovesse così tanto che si sarebbe potuta temere un’inondazione da un momento all’altro, mentre lui era impegnato in ben più dolci passatempi e quindi non poteva afferrarli per i capelli e fermarli picchiandoli come avrebbero meritato.
La cosa non aveva dato alcun problema a Georg e Gustav, che avevano la pelle più dura del cuoio, ma Bill…
Bill era sempre stato un po’ troppo cagionevole, di salute.
E quindi, ovviamente, quando l’indomani mattina, appena sveglio, piuttosto che salutare cordialmente come sempre faceva, s’era espresso in un discreto ma terrificante starnuto, era successo il finimondo.
Georg e Gustav erano scattati indietro con un balzo quasi isterico, e se avessero avuto degli scafandri e un rifugio antiatomico a portata di mano ci si sarebbero ficcati dentro senza pensarci due volte, convinti com’erano che durante la notte il loro frontman avesse sviluppato chissà che virus mortifero.
Ovviamente, Bill aveva preso a tossir loro addosso per vendetta, estremamente offeso da quella manifestazione di intolleranza nei suoi riguardi.
David, invece, s’era passato stancamente una mano sugli occhi ed aveva cercato di risolvere la situazione.
- Bill. Dopodomani abbiamo un concerto. Per allora, tu devi avere una voce. Perciò, fila a letto, seppellisciti sotto almeno tre chili e mezzo di coperte e non ti muovere fino a quel momento. Ci siamo capiti?
Bill aveva chinato il capo, tremendamente annoiato già solo dall’idea di dover passare i successivi due giorni a rigirarsi fra le lenzuola, tra un’aspirina e l’altra. Consapevole dei propri doveri, però, si era rassegnato a dover sacrificare il suo divertimento per il bene della band.
- E tu. – aveva detto David, rivolgendosi a Tom, - Tu ti prenderai cura di lui.
- Cosa?! – aveva strillato lui, contrariato, - Non è colpa mia se è in queste condizioni! Sono stati loro a buttarsi in piscina!
David scrollò noncurante le spalle.
- Sei suo fratello. Avete lo stesso identico cervello bacato. Perciò tu ti prenderai cura di lui. E non azzardarti a mollarlo da solo, fosse anche per un attimo.
- Ma non ha senso!!!
- Non deve avere senso.
E quindi, eccolo lì, costretto all’immobilità mentre fissava suo fratello placidamente addormentato, scrutando annoiato il sottilissimo movimento del suo petto sotto i duemila e trecento strati di coperte che David gli aveva rimboccato addosso qualche ora prima.
Ricordava una situazione simile.
Avevano appena cominciato a suonare, ed avevano entrambi i capelli così corti che, se avessero provato a raccoglierli, non ne sarebbe venuta fuori neanche una codina minuscola. Chissà cosa diavolo doveva aver fatto Bill… o meglio, chissà cosa diavolo dovevano averlo convinto a fare, quei due pazzi scriteriati di Georg e Gustav. Il risultato restava una febbre, un nasino arrossato e tanti respiri pesanti.
Oh, lo ricordava bene. Anche allora sua madre l’aveva costretto a fargli da balia!
“Quando andrete in giro per il mondo, fra un concerto e l’altro, se Bill dovesse sentirsi male dovresti accudirlo tu. Io non sarei lì intorno e non potrei aiutarti, perciò devi fare pratica.”
Le inquietanti doti da veggente di sua madre, oramai, non lo stupivano più. Quasi gli veniva da sorridere, pensando che ancora una volta le sue previsioni si erano rivelate esatte.
Bill mugolò qualcosa, e lui gli si avvicinò, cercando di capire cosa avesse voluto dire.
- Sto male… - mormorò di nuovo il moro, affondando il più possibile fra le coperte.
Tom sospirò, scostandogli una ciocca di capelli dal viso e poi scivolando con due dita sulla sua fronte, per saggiarne la temperatura.
- Hai la febbre. – confermò addolorato, strisciando sulle coperte per sedersi un po’ più vicino a lui.
- Ho la testa pesante… - si lamentò Bill, socchiudendo appena gli occhi per guardarlo.
Tom sorrise dolcemente.
- Ti passerà. Sono qui.
Bill rispose con un sorriso piccolissimo e affaticato, tornando a chiudere gli occhi e respirare normalmente.
- Si può capire perché vi siete buttati in piscina…? – chiese, incapace di trattenere la curiosità, mentre gli sistemava le coperte sotto il mento.
Bill ridacchiò piano.
- Non potrei giurare sui motivi di Gustav e Georg… - disse, - anche se credo c’entri qualcosa una tipa, una certa Miranda.
- Miranda? Sarebbe?
- Boh. Era alla festa. Le giravano entrambi intorno.
- Miranda è un nome da transessuale.
Bill ridacchiò, e la sua risata si trasformò in una piccola tosse, che Tom cercò di placare passandogli sul collo la mano fresca.
Suo fratello sembrò gradire.
- Sai che non posso darti torto? La ragazza era un po’ troppo robusta, in effetti. Ma Georg e Gustav erano… be’, un po’ troppo ubriachi.
- …e tu?
Bill sorrise, guardandolo dritto in viso.
I suoi occhi luccicavano.
E ridevano.
Guardarlo così, nonostante la febbre, lo rese felice.
- Io ho smesso di ricordare cosa ho bevuto dopo la terza vodka.
- Dio… - sospirò Tom, passandosi una mano sulla fronte per sistemare la fascia, - sai che non reggi l’alcool!
Bill sorrise ancora.
Ed a Tom parve di vedere un’ombra di malinconia in quel sorriso.
- Se avessi saputo di poterlo reggere, non avrei bevuto.
- …avevi voglia di stordirti?
- Be’, - ridacchiò, imbarazzato, - in un certo senso. Divertirmi senza pensieri rende di più, ma anche stordirmi va bene, penso.
- È successo qualcosa che dovrei sapere?
- Oh, no. Niente che dovresti sapere.
- …perfetto. Quindi qualcosa è successo.
Bill rise, chiudendo gli occhi e rigirandosi su un fianco.
- Perché dici così?
- Hai appena detto che non è successo niente che dovrei sapere. Quindi è ovvio che è successo qualcosa che non devo sapere, o almeno che non vuoi dirmi.
- Io ti dico tutto.
- Tu dici tutto, è vero. Però menti spesso.
Il moro spalancò teatralmente gli occhi, sbattendo le lunghe ciglia con fare incredulo.
- Io sono sincero!
- Come io sono un genio della letteratura contemporanea.
- Avanti, non sei poi così male.
Tom si chinò su di lui, scrutandolo da vicino.
- Mi prendi in giro? – chiese, infastidito, picchiettandogli la fronte con l’indice.
- No, davvero! Non sei così male!
- Non parlo di questo. Quello che intendo è: vuoi deciderti a vuotare il sacco o mi lascerai qui ad ipotizzare cos’è che ti frulla nella testa per tutto il resto della mia vita?
Bill rise di cuore.
A Tom sembrò che gli si liberassero i polmoni, e fu, seppur per un solo istante, orgoglioso di sé stesso.
- Penso che ti lascerò lì a marcire nel dubbio. – concluse Bill, dandogli le spalle e chiudendo gli occhi.
Avrebbe potuto – dovuto – lamentarsi e convincerlo a parlare.
…il trillo della sua risata gli riecheggiava ancora nelle orecchie.
Decise di lasciarlo dormire.
*
Pioveva ancora quando si svegliò, e la prima cosa che vide fu il viso enorme di suo fratello, così vicino che gli sembrava invadesse l’intero universo.
- Woah! – gridò a mezza voce, tirandosi indietro di scatto, - Che è successo?
Bill socchiuse gli occhi e si lasciò andare ad un risolino divertito, appoggiando il gomito al materasso e la guancia sulla mano aperta.
- Ti sei addormentato. E io mi sono svegliato.
- Stai male?
- Non peggio di prima…
- Perché non mi hai chiamato?
- Sembravi stanco. E stanotte siamo tornati tardi.
Si morse un labbro.
- A proposito di questo… - mormorò, - volevo dirti che se Gustav e Georg decidono di fare qualche follia per qualche travestito – o per qualsiasi altra cosa – tu non sei tenuto a seguirli. Tipo, se loro si buttano da un balcone per provare chi dei due ha la testa più dura, non è che anche tu ti devi accodare. Sappiamo già che hai la testa dura!
Bill sorrise dolcemente, tornando a distendersi.
- Con tutti i motivi che avrei avuto, avrei e avrò per poter pensare di buttarmi giù da un balcone, verificare la durezza della mia testa è proprio l’ultimo a cui penserei.
Tom spalancò gli occhi.
- Adesso… calmati, eh.
Bill inarcò le sopracciglia, stupito.
- Mi vedi agitato?
- No. Be’, in effetti è questo quello che mi inquieta. Voglio dire, cos’è che hai appena detto?
- Il fatto dei motivi per buttarmi dal balcone?
- …eh.
Scrollò le spalle, scuotendo nel gesto qualche ciocca di capelli.
- Dicevo così, per dire.
- Non si parla di suicidio così per dire!
- Non ho mica detto che voglio suicidarmi…
- Be’, però hai detto-
- Che ne avrei i motivi. Sì.
Tom lasciò andare le braccia lungo i fianchi.
Gli occhi di suo fratello brillavano decisi e insolitamente tranquilli.
Un paio d’occhi così fuori luogo che avrebbe voluto cavarglieli.
- Bill-
- Non farne un caso di stato come tuo solito, adesso. – disse lamentoso, passandosi una mano fra i capelli, - Tutti, cercando cercando, potremmo tirare fuori uno o due motivi per desiderare il suicidio.
- Be’, io no, se permetti!
- Mmh. – sorrise tranquillo Bill, affacciando appena un paio di dita dalle lenzuola per tirarle più su, sotto al mento, - Sì, potrebbe essere vero. Sei una persona così positiva tu.
- Quando mai tu invece saresti stata una persona negativa?
Suo fratello gli lanciò uno sguardo vagamente irritato, ed arricciò le labbra in una smorfia di delusione.
- La mia vita non è stata sempre facile, lo sai. Non ero io il figo fra i due, a scuola.
- Aaah! – si lamentò Tom, sfilando con un gesto cappello e fascia, e lasciando i dread carambolare giù lungo le spalle e la schiena, - Lo so, Bill. C’ero anche io. Ma una cosa è subire delle ingiustizie, un’altra cosa è essere una persona negativa! Tu sei sempre stato in grado di reagire positivamente a-
- Magari mi sono stancato di reagire positivamente.
Tom serrò le labbra, paralizzato dal tono perentorio e glaciale di suo fratello.
- Magari mi sono reso conto che reagire positivamente non serve a niente e mi sto organizzando per vedere se un po’ di negatività risolve le cose.
Se prima di quel momento il pensiero che ci fosse qualcosa dietro a tutte quelle stranezze – a cominciare dall’ubriacatura della sera prima – era stato talmente martellante che aveva trovato impossibile non dargli retta, adesso le sue premonizioni stavano rapidamente diventando realtà.
Era chiaro che in quella testa c’era qualcosa che non andava, ed era qualcosa di più dell’acconciatura ormai floscia e priva di volume che ricadeva sul cuscino.
Si grattò la testa, confuso.
- Ti avranno mica preso in giro?
Bill si sforzò di non scoppiare a ridere.
- Perché pensi che una presa in giro potrebbe buttarmi giù di morale? Sono abituato alle prese in giro. Ne ho incassate di tutti i tipi.
Sospirò pesantemente. Gli faceva male la testa.
E il ticchettio della pioggia sul vetro della finestra sembrava deciso a non lasciarlo in pace mai più.
- Bill, non ti capisco. Fino a ieri andava tutto bene e oggi… oggi ti vedo crollare in questo modo. Non capisco.
Il moro abbassò lo sguardo sul lenzuolo, seguendo distrattamente con gli occhi il ricamo giallino che ne decorava l’orlo.
- Solo perché fino a ora sono stato bravo a tenermi insieme, non vuol dire che sia stato facile.
Si sentì come se mentre dormiva il mondo in cui era ormai abituato a vivere fosse stato scambiato con un altro.
Era ancora confuso, i residui del sonno gli annebbiavano ancora parzialmente la mente, gli sembrava di capire sempre meno. Malgrado Bill parlasse, malgrado Bill stesse chiaramente cercando di spiegargli qualcosa.
Cosa, poi?
Perché mai avrebbe dovuto capire i motivi per i quali suo fratello avrebbe potuto dichiaratamente voler pensare al suicidio? Perché avrebbe dovuto anche solo provare a capire qualcosa che gli sembrava totalmente assurdo?
- Non ho idea di cosa tu stia cercando di dirmi. – confessò demoralizzato.
- Non ne hai mai avuto idea, Tom.
Sollevò lo sguardo.
Bill era… indifferente.
Non guardava niente, i suoi occhi erano completamente privi di luce, sembrava isolato dal resto del mondo, sembrava parlare per inerzia.
- Come puoi dirmi una cosa così crudele? Sono tuo fratello. Abbiamo trascorso insieme tutta la nostra vita. E sarà così per sempre. Io ti capisco, Bill, quando tu vuoi farti capire. Ma se mi nascondi quello che stai pensando, come puoi pretendere che io possa aiutarti?
Bill sorrise debolmente, sollevandosi faticosamente a sedere.
- Sai qual è la cosa divertente, Tom?
C’era qualcosa di divertente, in quello di cui stavano discutendo?
- Da quando abbiamo cominciato a parlare, davvero, io ti ho detto esattamente tutto quello che pensavo. Ti ho nascosto solo una minuscola, insignificante cosina. È… è eccezionale, se ci pensi, come un unico tassello perduto possa compromettere la comprensione di… di tutto il resto, alla fine! Potrei rovesciare su questo lenzuolo il mio cervello, il mio cuore e tutto il resto dei miei organi interni, e continueresti a non capirci niente! Almeno finché io continuassi a nascondere questa minuscola cosina.
Abbassò lo sguardo, cercando di fare mente locale. Non ci riuscì.
Capì che sarebbe stato l’ennesimo salto nel buio. Non era la prima volta che succedeva, con Bill; anzi, ad essere totalmente sinceri parlare con Bill si rivelava un mezzo tentato suicidio sempre più spesso.
Bill era… fragile.
Il suo fisico, la sua mente, i suoi sentimenti, perfino una cosa sciocca quale era il suo umore.
Volubile, sottile, sfuggente.
Tom sapeva che se suo fratello era un lunatico non era perché amasse fare i capricci o fosse totalmente pazzo, ma semplicemente perché tutto in lui era troppo fragile per durare più di pochissimo tempo.
Come i sorrisi.
Bill sorrideva spessissimo.
Ma così fugacemente che una volta che il sorriso era scomparso dal suo volto lasciava dentro di te la spiacevole sensazione di essertelo semplicemente sognato.
- Mi stai nascondendo il motivo per il quale ti sei ubriacato ieri, Bill?
Suo fratello annuì senza esitare, stringendo fra le mani l’orlo candido del lenzuolo.
- E scommetto che è una cosa che ti porti dietro da chissà quanto tempo.
Bill annuì ancora, con un vago sorriso sul volto.
- Perché non me ne hai parlato prima?
- …non ti interessa sapere cos’è?
- Certo che mi interessa saperlo. Mi interessa, perché non vedo l’ora di risolverlo. Ma più ancora di questo, Bill, mi interessa sapere cos’è che ti ha frenato dal parlarne con me per prima cosa. Perché non vorrei si ripetesse ancora.
Bill lanciò un mezzo sorriso condito da uno sbuffo quasi ironico.
- Io intendo prendermi cura di te finché vivrò. – continuò lui, - Sono la persona che ti conosce meglio in assoluto. Sono la persona che tiene più a te in assoluto. E sono tuo fratello. Non c’è nessuno che ti possa proteggere meglio di me. Per questo motivo vorrei… voglio che tu mi dica tutto. Non devi nascondermi niente.
Bill sembrò seriamente soppesare le varie possibilità che aveva, per molti secondi.
Anche se in realtà sapeva bene di non avere alternative.
E di non volerne neanche, probabilmente.
- Avvicinati. – disse in un sussurro, facendogli segno con l’indice.
- …non puoi dirlo e basta? – sospirò Tom, - Devi per forza sempre essere così teatrale?
Ma si stava già avvicinando.
E Bill preparava già il sorriso perfetto per accoglierlo.
E infatti, quando fu arrivato alla distanza che Bill pretendeva da lui, il sorriso di suo fratello fu tutto ciò che fu in grado di vedere.
Per un singolo, fugacissimo attimo.
E poi le sue labbra.
Lievemente pressate contro le proprie.
Asciutte, caldissime, innocenti.
Assolutamente indecenti.
Come il lieve schiocco che produssero quando si separarono. Un rumore piccolo e sordo, che gli diede i brividi.
- È un segreto, mi raccomando. – mormorò Bill, lo sguardo in rapida fuga da un lato all’altro della stanza, incapace di reggere il suo.
Non sapeva se erano ancora i residui di sonno a renderlo così lento e stupido, ma nel momento esatto in cui lo vide voltare il capo smise di pensare. Al bacio, al fatto che praticamente suo fratello aveva appena confessato la cosa in assoluto più scomoda che potesse tirar fuori dal cappello, a ciò che sarebbe avvenuto dopo e perfino a ciò che era avvenuto prima e che era stato il motivo di tutto quella storia allucinante.
Vide solo le sue guance, così, lievemente arrossate dall’imbarazzo – o magari semplicemente dalla febbre – ed ebbe voglia di stampare su quelle guance lo stesso identico bacio che suo fratello gli aveva stampato sulle labbra.
La cosa lo rassicurò.
Molto.
E lo rattristò.
Altrettanto.
Avrebbe voluto provare a liberare Bill dalla sua tristezza, e da ogni altro tipo di problema lo assillasse.
Temeva invece che sarebbe diventato presto uno di quei problemi che con tanto ardore avrebbe desiderato combattere.
Lo sguardo di Bill si risollevò solo una volta. Per pochissimi secondi.
Non trovò niente in quello, speculare, di suo fratello, o forse ciò che vi trovò non gli piacque, e perciò si rifugiò ancora nei decori del cotone, senza pensarci più di una volta. Si passò una mano sulla fronte, e lui lo osservò compiere quel movimento banalissimo come se si muovesse a rallentatore.
Si sentiva così inadeguato che avrebbe preferito non esistere.
- Sembra che la febbre sia scesa. – commentò Bill con tono neutro, - Dovremmo avvertire David. Così smetterà di preoccuparsi.
Tom annuì esitante, deglutendo, e sentendo la gola come aprirsi per la prima volta dopo anni.
- Vai tu? – chiese Bill con un soffio di voce.
“Vorrei che mi lasciassi solo”, sentì Tom tra le pieghe del suo silenzio.
- Sì. Certo. Tu riposa. – disse a bassa voce, come spaventato dal rischio di disturbarlo.
Uscì dalla stanza quasi stesse fuggendo da un incubo.
Sentì appena Bill cominciare a piangere oltre la porta.
Strinse forte tra le dita la maniglia.
Ma non tornò indietro.

Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, Tom/OFC.
Rating: R
AVVISI: Slash, Angst, OC, What If?, Het, Underage.
- "Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
"
Note: Che io sia riuscita a finire questa storia, tanto per cominciare, è un miracolo XD L'ho cominciata all'incirca un paio d'anni fa, dopo aver messo le mani su questo articolo e anche su quest'altro. Fermo restando che non credo a una sola parola, l'idea era così sfiziosa che non ho proprio potuto impedirmi di plottare a riguardo XD Solo che dopo un po' le cose da fare, i fandom e tutto il resto, come spesso accade, si sono accavallate, ed ho lasciato perdere la scrittura quando ero più o meno a metà della storia.
Dopo due anni (che poi sono il motivo per cui lo stacco stilistico fra la prima e la seconda parte della storia è così evidente, soprattutto nell'uso dei corsivi ma anche in generale nelle scelte narrative, e ci mancherebbe altro che non fosse evidente, aggiungerei), non credevo che sarei riuscita a riprenderla e concluderla, ma il COW-T ha fatto anche questo miracolo. Il prompt Famiglia per la seconda missione della terza settimana era troppo perfetto per non convincermi a muovere il culo e contribuire alla causa con quella che sapevo sarebbe stata una storia piuttosto corposa. Così, anche se fa schifo, posso illudermi che abbia una sua validità lo stesso. *gocciolone*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LOVE IS NOISE

Io ho sedici anni. Sono svizzera. O tunisina. Sono tedesca, suppongo, perché la Germania è tutto ciò che riesco a ricordare da che ero molto piccola. Comunque, non sembro tedesca. Non sembro neanche svizzera. La mia pelle è scura – non nera, però: color caramello, identico a quello della mia madre biologica.
A Vati piace il colore della mia pelle. Anche allo zio piace tanto. Io sono convinta che Mutti lo odi, comunque. Per quanto riguarda me, non saprei: non odio i miei colori, ma se Vati, alla fine, sceglie sempre Mutti, vuol dire che gli piace anche la sua pelle bianchissima e così orgogliosamente tedesca. Ogni tanto mi piacerebbe essere bianca.
Ah, mi chiamo Luise Maria. È un nome orrendo ma non riesco ad odiarlo. Primo, perché è il nome di nonna, e nonna è stupenda. Secondo, perché Vati è un mammone, ed è orgoglioso del fatto che sua figlia si chiami come la sua adorata mamma. Terzo, perché Vati questo nome se l’è tatuato sul braccio. E sì, okay, lo so che non l’ha tatuato per me ma per nonna, ma non c’entra, mi porta comunque scritta sulla pelle. Ed è una sensazione bellissima, perché lui si scrive addosso solo le cose irrinunciabili: c’è la B che è il suo marchio da guerriero, c’è Berlino che l’ha visto crescere, c’è la Verità che è ciò in cui crede, c’è quell’orrido Electro Ghetto che gli ha dato i soldi e poi c’è Luise Maria, che sono io e che è la nonna.
Vati è molto geloso di ciò che si scrive sul corpo. Davvero, ci mette solo la roba importantissima: non s’è scritto addosso niente neanche su Mutti, sebbene ogni tanto mi venga da pensare che la B sul collo non stia solo per Bushido. Cioè, intendo, forse è come il Luise Maria: un tempo era solo per nonna, ora è anche per me. La B un tempo era solo per Bushido, forse oggi è anche per Mutti.
Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
Ah, dimenticavo: la mia Mutti non è una donna. È Bill Kaulitz.
*
Mutti la mette sempre in questo modo, quando racconta la storia: se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima e molto più facilmente. Ora, quando Mutti comincia in questo modo poi possono succedere tre cose diverse: se io sono in modalità “Vati-è-meraviglioso-e-chiunque-lo-tocchi-merita-di-morire”, litighiamo; se Mutti è in modalità “Diva-lamentosa-random” ed io non mi sento troppo acida, la ascolto lamentarsi di Vati e poi ci facciamo una risata; se, infine, Vati è in modalità “sono-un-figo-il-cui-unico-errore-è-stato-prendervisi-in-casa”, allora ci arrabbiamo tutti e tre, litighiamo furiosamente, io vado a dormire da zio Tom e Vati dorme sul divano.
La prima situazione alla fine si risolve sempre bene, perché io vado a farmi coccolare un po’ da Vati e dopo qualche minuto Mutti si scusa – perché può sostenere un carico di sensi di colpa molto limitato, la mia Mutti, con quelle spalle così sottili, è solo per questo che alla fine è così dolce.
La seconda situazione non presenta mai problemi di sorta.
La terza fa schifo perché odio quando Vati si arrabbia. Anche se significa che posso restare a dormire da zio Tom con una scusa valida, non mi piace lo stesso.
In ogni caso, queste situazioni non si sviluppano mai abbastanza in fretta da impedire a Mutti di raccontare tutta la storia con dovizia di particolari, perciò la so quasi a memoria, ormai. Ed è una bella cosa, perché quanti altri ragazzi possono dire di conoscere a memoria l’intera storia della propria esistenza? La maggior parte di loro si affida agli album di fotografie, e non saprà mai di aver fatto o detto cose tremende o bellissime, quand’era più piccolo, semplicemente perché nessuno lo ricorda, ed anche se lo ricorda nessuno lo ripete abbastanza da imprimerlo nella memoria di tutti.
Mutti invece è così: se non ricorda tutto tutto, va in paranoia. Detesta perdersi pezzi di ciò che ama. Che poi è il motivo per cui si ostina a ricordare con orrore i pochi infausti giorni che, da bambino, passò lontano da zio Tom, quando tornò prima dal campo estivo. Odia essersi perso i particolari.
A volere dire esattamente le cose come stanno, io non ricordo proprio tutto della mia esistenza. Ho un buco enorme, e il buco enorme sono i cinque anni di vita che precedono il mio arrivo in questa casa. Non credo mi sia successo qualcosa di spiacevole – non ho brutti ricordi della mia madre biologica e non credo affatto che mi maltrattasse, se è questo che vi state chiedendo – è solo che nessuno me li ha mai raccontati, quei cinque anni. Ed io perciò non ne so niente.
È per questo che ho qualche difficoltà ad iniziare questo racconto: non so da che parte prenderlo. Perché la mia storia in effetti comincia con la mia nascita, non col mio arrivo a Berlino. Solo che ho difficoltà a ricondurre la mia nascita all’inizio di qualcosa, visto che la mia nascita, in teoria, non avrebbe dovuto essere l’inizio di niente.
Neanche di me.
Mettiamola così: il mio Vati è stupendo, okay?, ed io lo amo tantissimo. Non ne avrei voluto un altro neanche a poter scegliere. Oddio, non lo so, forse se a cinque anni me l’avessero proposto ne avrei scelto uno diverso. Comunque, ora come ora, non ne vorrei un altro neanche per scherzo.
Ciò non toglie che abbia fatto i suoi bravi errori nella vita. E con errori non mi riferisco al ridicolo taglio di capelli che ancora portava fino a qualche anno fa o a certe patacche che tutt’oggi indossa al posto di orologi umani ed eleganti – per non parlare dei mocassini.
Il mio Vati mi voleva morta.
È brutto da dire senza filtri, ma io stessa preferisco pensarla così, con secchezza, schiettamente, perché fa meno male che non aggiungendoci sopra melodramma gratuito.
Mi consolo dicendomi che non è che volesse morta proprio me, ecco, voleva morta un’idea. L’idea di potersi ritrovare a ventinove anni con una bambina da accudire ed una tizia da tenersi in casa con la quale aveva passato insieme quanti, sei, sette giorni? Avrebbe spaventato anche me.
Forse anch’io avrei pagato per uccidermi, ecco.
Per questo non ce l’ho con lui. Non più, almeno.
Insomma, ha pagato. Sui giornali, a quanto ho capito, è uscito fuori che la gravidanza di mia madre era stata una truffa, che non c’era di mezzo nessun bambino. Questo perché allora Vati andò in giro apposta a smentire tutto. Buttò lì una storia di ricatto… ne uscì pure maluccio, peraltro, perché era un periodo un po’ burrascoso per il suo rapporto coi media, avevano già cominciato a dargli addosso in tutte le lingue per altri motivi e quindi, quando lui andò in giro a fare la voce grossa e a borbottare “Nessuno ricatta Bushido”, tutti diedero ragione a mia madre, anche se non sapevano se ci fosse davvero un bambino di mezzo. Io c’ero, sì, ma loro non potevano saperlo. Mia madre poteva davvero essere una delle tante in cerca di denaro che truffano un tizio ricchissimo basandosi sul niente, ma Vati era Bushido, il King of Kingz, quello che spaccava le teste dei diciannovenni in Austria e che scatenava le risse e che aveva il passato da criminale di strada e un mucchio di canzoni che non era neanche possibile riprodurre in pubblico perché vietate per legge, perciò per tutti loro aveva automaticamente torto.
Quale che fosse la reazione comune, comunque, Vati pagò. Mia madre prese i soldi ma non portò a termine la missione. Mi tenne. A tutt’oggi – forse perché di lei non ricordo quasi niente – non so perché lo fece. Non voglio pensare che mi ritenne più utile da viva. È un pensiero meschino – non tanto nei suoi confronti, quanto più nei miei. Significherebbe farsi male gratuitamente, e siccome ho già abbastanza casini di mio, almeno da un anno a questa parte, non ho proprio bisogno di altri motivi per cui soffrire.
Che poi è il motivo per cui sto buttando giù queste memorie, perché forse se raccolgo tutto e faccio una cosa per bene magari trovo anche le parole per dire la verità a Vati e Mutti senza rischiare la morte di nessuno. Al limite, se non funziona la via della razionalità, passo il malloppo a Mutti e le dico qualcosa di carino tipo “l’ho scritto per farti piacere”. Mutti ci cascherà sicuramente – è il vecchio trucco alla Notebook, funziona sempre – ed eviterà di darmi addosso per i contenuti.
Nota per me: cancellare le ultime cinque righe.
Mi lascio andare contro la sedia e ticchetto sulla scrivania con la matita. Punta-gomma, punta-gomma, punta-gomma. Smetto quando vedo la superficie in fòrmica ricoprirsi di puntellini di grafite. Karima mi lapiderà. O mi ucciderà. O prima mi lapiderà e poi mi ucciderà. Ci credo che fa la tata a Vati da due secoli e mezzo, sono uguali, affettuosi ma burberi.
Sospiro pesantemente e cancello i puntellini.
Trottolo si mette a vibrare quasi immediatamente, mandando il tavolo in rivolta sotto le mie mani. Trema tutto, è divertentissimo. Trottolo è il mio cellulare, si chiama così da quando la suoneria ha smesso di funzionare. Vati si rifiuta di comprarmene uno nuovo perché il cellulare s’è ridotto in queste condizioni in seguito ad un volo che gli ho fatto fare fuori dalla finestra. Ero nervosa, che dire. Da allora funziona solo la vibrazione, e per sentirla anche a distanza ho dovuto metterla ad un livello assurdamente alto, e DaDa una volta sentendolo ha sbottato “che è ‘sto trottolio?!”, sentendo provenire il suono dagli abissi della mia borsa. Da quel momento è Trottolo.
Mi allungo e recuperarlo e rispondo con un sorriso quando vedo chi sta chiamando.
- Dimmi che la Madre Badessa e il Sovrano Assoluto non sono in casa.
Rido di cuore.
- Ma non dovevi lavorare oggi, - sghignazzo maliziosa, - zio Tom?
- Dio, Lu! – sbotta lui oltraggiato, - Mi vengono i brividi quando mi chiami così!
- Be’, sei mio zio, no? – ridacchio, coprendomi le labbra con una mano.
- Tecnicamente no! – asserisce lui, esaltandosi improvvisamente, - Quindi, che ne diresti—
- Che ne diresti di parlare di meno e muoverti di più? – suggerisco a bassa voce, - Saranno a casa fra un’ora al massimo.
- …sono già per strada.
Interrompo la conversazione e mi lascio andare ad un risolino stupido mentre finisco di togliere le macchie di grafite dal tavolo.
Sono i drammi della vita familiare; hai un Vati un po’ severo ed una Mutti comprensiva ma facilmente preoccupabile, hai una cameriera burbera ma complice, ma soprattutto hai uno zio che non è veramente tuo zio, che è bellissimo e che ami follemente da quando eri tanto piccola che hai smesso di contare gli anni.
Può capitare di mettertici insieme. Succede.
È questo, il mio piccolo grande segreto. Quello che devo trovare il coraggio di dire a Vati e Mutti. Quello per cui sto scrivendo questa storia.
Non è esattamente la fine del mondo, ma oh, ci si avvicina parecchio.
*
Mi annoio a morte. Zio Tom sta blaterando al telefono con DaDa da mezz’ora e fra un’altra mezz’ora Vati e Mutti saranno qui. Non abbiamo ancora scopato e non penso che scoperemo oggi. La cosa mi frustra perché aspetto il ciclo da un momento all’altro e il cretino non capisce che deve cogliere l’attimo se non vuole rimanere a bocca asciutta per la prossima settimana – be’, quattro giorni, ma tre glieli aggiungo per punizione di mia spontanea iniziativa, vaffanculo a lui.
- David, ti giuro che ho mal di stomaco. – cerca di giustificarsi di fronte all’uomo che lo rimprovera al telefono, - E che cazzo, uno non può neanche andare ad agonizzare sul cesso di casa propria, quando sta male? – si ferma. Nel silenzio assoluto, sento l’eco della voce di DaDa strillare “non quando per ‘cesso di casa propria’ si intende tutt’altro, Tom!”, col tono paternalistico che usa anche con Mutti quando arriva in ritardo. – Senti… - sospira, guarda l’orologio, - Fra tre quarti d’ora torno. Promesso. A dopo. – interrompe la chiamata e si lascia ricadere sul divano accanto a me, gettando di malagrazia il telefono sul tavolino.
- …ci tieni a dare un gemello a Trottolo? – chiedo teneramente, adagiandomi contro di lui. È depresso, lo sento dal modo in cui respira, pesantemente, con difficoltà. Oggi non si scopa proprio.
Lui mi fa passare un braccio attorno alle spalle e mi stringe a sé, mugolando deluso. È facile dimenticare che ha quasi il doppio dei miei anni.
- Mi dispiace, piccola. – biascica, ed io rido perché Vati chiama Mutti allo stesso modo, ma al maschile. – David non si decide a mollare l’osso.
- E tu digli la verità. – suggerisco rotolandogli in grembo e sollevando una mano ad afferrare una di quelle intricate meraviglie che si ritrova per capelli, arrotolandomela attorno al dito.
- Sì, certo. – borbotta lui aggrottando le sopracciglia in un modo tutto suo, che non c’entra niente neanche con Mutti; un modo dolcissimo che esprime tutta la sua preoccupazione ed il casino enorme che ha in testa. – Mi vedo già: “ehi, David, ciao! Hai presente Luise Maria? Sì, la figlia di Bushido e Bill, quella che vorresti far sfondare come cantante entro la fine dell’anno? Stiamo insieme già da parecchi mesi. Hai sentito chi è il nuovo allenatore della nazionale?”. – scuote il capo, disperatamente. Io rido e scendo con un dito a disegnare il profilo della sua fronte. Mi fermo fra le sopracciglia e stendo la piccola ruga che gli invecchia i tratti del viso. Lui sorride e si china a baciarmi. Amo quando lo fa. Amo quando sorride prima di baciarmi, gli resta il sorriso sulle labbra ed essere baciati da un sorriso è una cosa stupenda. – Penso che stia capendo qualcosa, sai? – ammette in un soffio, rimettendosi seduto. – Mi conosce troppo bene.
Io sbuffo e mi sistemo meglio contro il suo petto, sfilando le scarpe e tirando i piedi sul divano per stare più comoda.
- Dovresti dirgli che hai una ragazza. – biascico, stringendo un lembo della sua maglietta, - Così almeno smetterebbe di essere sospettoso quando ti vede sparire.
- Cucciola, se vuoi veramente lavorare con David, fai tesoro di questo prezioso consiglio: - solleva un indice con aria superiore, fissandomi serio. – i manager, se gli dai un dito, si fregano il braccio, la spalla e anche buona parte del collo. – sghignazza, - Assieme alla manica della magliettina alla moda che la tua Mutti ti ha regalato per il compleanno. – aggiunge, pizzicandomi sulla spalla al di sopra della suddetta maglia, mentre io ridacchio e mi arrotolo come un riccio attorno a lui. – Seriamente, - riprende, baciandomi sulla fronte, - se gli dicessi che sto con qualcuno poi comincerebbe il calvario del chi è. Ed una volta che sai che qualcuno c’è… - sospira e scuote il capo, - non è così difficile risalire all’identità. Non per David, almeno. – sorride a metà, - L’ha già fatto in passato, so di cosa parlo.
- A-ha, quindi sei già stato con un’altra sedicenne figliastra di tuo fratello e David l’ha scoperto! – lo prendo in giro con aria falsamente stupita.
Lui grugnisce qualcosa e mi tira una guancia.
- Fai meno la spiritosa. E piantala di ricordarmi che sei figlia di Bill!
Mi sollevo sulle ginocchia, piantandomi a cavalcioni sopra di lui.
- Posso provare a fartelo dimenticare, se vuoi. – soffio direttamente sulle sue labbra, e lui si arrende perché per qualche strano motivo non sa proprio resistermi. Non so se sia perché mi tiene vicinissima a sé da quando avevo cinque anni o per qualche altro motivo, so solo che non è mai stato in grado di dirmi no. Per fortuna.
Mi chino a baciarlo e sento subito le sue mani risalire la curva dei miei fianchi e stringersi attorno alla mia vita, possessive. Sono gli unici momenti in cui non importa di chi sono figlia: i momenti in cui sono una cosa sua, i momenti in cui le nostre pelli diventano una, i momenti in cui mi tiene tutta per sé. I momenti che preferisco della giornata.
Interrompe il bacio per scivolarmi lungo il collo – le labbra ancora umide, calde e perfettamente aderenti alla mie pelle.
- Zio… - mugolo estasiata. E lui, inspiegabilmente!, si interrompe all’istante.
- E che cazzo, Lu! – borbotta, abbattendosi esasperato contro la mia spalla, - Ma la vuoi piantare con questo zio di merda?!
- Che palle sei! – mi arrabbio a mia volta, scavalcandolo e lasciandomi ricadere sul divano al suo fianco, - Quando ti fissi sulle cose è la fine!
- Scusa se mi fa senso sentirmi chiamare zio mentre sto cercando di scopare!
- Ma ti chiamo zio da sempre! – protesto io, arrotolandomi in un angolo, - È come se Mutti si svegliasse un bel giorno e decidesse di scoparmi! Io mica smetterei di chiamarlo Mutti!
Lo vedo impallidire e tirarsi indietro.
- Tu sei proprio figlia di tuo padre… - commenta allucinato, - È un’immagine agghiacciante!
Sospiro.
- Se uso Vati per fare lo stesso esempio?
- Lu!!!
- DaDa?
- Ma Diocristo, avrà un centinaio d’anni!!!
- Perché ti sconvolge più DaDa di Vati?
- È… una questione di età!
- È vero, Vati è più giovane di DaDa. Quindi lui va bene?
- Lu!!!
Rido e mi abbatto contro di lui, cadendogli addosso con tanto impeto che finiamo entrambi distesi sul divano, e zio Tom è costretto a manovre incredibili per impedirci di cadere a terra come sassi.
- Ti stavo prendendo in giro… - lo rassicuro baciandogli il mento e tirandogli i dread, - È l’unico modo che ho per farti smettere di chiedere!
- Smetterei di chiedere se tu smettessi di chiamarmi zio, una buona volta. – mi sbuffa contro una guancia. Il telefono sul tavolino ricomincia a squillare, riempiendo l’aria delle note dell’ultimo successo di Samy Deluxe. Zio Tom ha dei gusti orrendi, nemmeno Vati ascolta Samy Deluxe, anche se dovrebbe farlo per mestiere. – Ma non molla proprio mai?! – sbotta istericamente, allungando un braccio a recuperare l’apparecchio. – David, Cristo santo! Finisco di cagare e arrivo!
Non riesco a trattenere una risatina e zio Tom mi fissa con aria omicida. Vicina come sono, posso sentire perfettamente il silenzio dall’altro lato della cornetta cristallizzarsi per qualche secondo, prima di erompere in uno scioccato “Caghi in tandem, Tom?” che mi uccide definitivamente, obbligandomi a ridere se non voglio soffocarmi da sola.
Zio Tom mi guarda, sempre più scioccato, e mi manda a rotolare dall’altro lato del divano con uno spintone tutt’altro che affettuoso.
- Era la televisione! – butta lì, rivolgendosi a DaDa.
La risata del mio aspirante manager è talmente tonante che la sento fino a qui. Ed allo stesso modo sento distintamente il suo “Caghi di fronte alla tv, Tom?”, che mi stende una volta per tutte, costringendomi a schiacciare il naso contro un bracciolo se non voglio farmi riconoscere all’istante.
Il battibecco continua per qualche secondo, ma io non lo seguo più. Poggio la testa contro il braccio e mi lascio andare, osservando zio Tom muoversi nervosamente intorno al tavolino, gesticolando furioso. È così bello che non sono neanche più arrabbiata per il sesso che non abbiamo fatto.
- Perfetto. – lo sento sospirare quando, alla fine, riesce a staccarsi dai rimproveri di DaDa, - Mi ha detto di salutare da parte sua la mia misteriosa ragazza, ed ha aggiunto che si compiace per il suo senso dell’umorismo, visto che rideva per tutte le sue battute.
- Da quando hai una ragazza, Tomi? – borbotta Mutti spuntando alle sue spalle, seguito a ruota da Vati che, quando si accorge che c’è anche zio Tom, grugnisce un saluto indistinto a va a chiudersi nel suo salottino privato.
Mentre zio Tom suda tutte le sette magliette che indossa per lo spavento, io lancio a Mutti un’occhiata inquisitoria.
- È andata male. – risponde lui con un sospiro così teatrale che, se potessi, lo filmerei, lo riprodurrei come l’ologramma della principessa Leila e lo terrei sul comodino per sempre. Io annuisco, abbassando lo sguardo. - Va' a fargli un po' di coccole, su. - mi incita lui, sorridendo conciliante.
Io e zio Tom ci salutiamo con un cenno del capo e basta; è il massimo che ci concediamo in presenza di Mutti e Vati, ultimamente. È stata un'idea di zio Tom, quella di diminuire i contatti. “Siamo sempre stati appiccicati”, ho cercato di oppormi io, “s’insospettiranno, se smettiamo”. Lui mi ha guardato sorridendo come avessi ancora cinque anni ed ha risposto che ormai sono una signorinella, e sicuramente mio padre avrebbe preferito evitare di vedermi comportare ancora come fossi stata una bambina. “A sedici anni non stai ancora seduta in braccio a tuo zio”, ha detto con un sorriso un po’ storto, “a meno che non te lo scopi”, ha concluso dandomi un bacio. Da quel giorno, niente più baci e abbracci in presenza dei miei genitori. Ovviamente, Mutti se n’è accorto ed ha dato di matto: s’è convinto avessimo litigato o chissà cos’altro, ho fatto una fatica bestiale a convincerlo che semplicemente non mi andava più di stargli così attaccata. Ho fatto una fatica bestiale soprattutto perché non era vero che non mi andava più di stargli così attaccata.
Comunque sia, adesso Vati ha bisogno di me, perciò anche volendo non avrei tempo per le smancerie. Trotterello silenziosamente verso la sua tana mentre Mutti rovescia parole addosso a zio Tom pretendendo di sapere tutto della sua giornata nello stesso istante in cui gli racconta della propria. Busso con cautela ed aspetto il permesso di entrare, e nel mentre mi fisso le punte dei piedi nudi con aria un po' incerta.
Quando cinque anni fa la Universal non ha rinnovato il contratto ai Tokio Hotel, il mondo l'ha presa in maniera meno drammatica di quanto non ci si sarebbe aspettati. Me lo ricordo bene, perché non penso potrò mai dimenticare tutte le lacrime che mi ha versato addosso Mutti. Che ha versato addosso a me, addosso a Vati, addosso a zio Tom, addosso a Georg e Gustav, addosso a DaDa, a chiunque. Mutti ha pianto tanto che nessun altro ha sentito il bisogno di farlo. Ha pianto lui per tutti. S'è riempito della tristezza di tutti quanti e l'ha rovesciata tutta da solo, dev’essere stato faticoso da morire, ed infatti alla fine era drenata, la mia povera Mutti. Drenata e stanca e triste ed avrebbe voluto piangere ancora ma erano finite le lacrime, pure quelle degli altri.
È stata la prima volta in cui ho avuto paura per la vita di qualcuno. È una sensazione orribile. Non è come quando sei semplicemente preoccupata e basta, è una cosa più profonda, più disturbante. È quando ti fermi, guardi un corpo emaciato e pallido e ti chiedi “ma io, senza questa persona, potrei mai stare?”. E ti rispondi “no”. Quando ti rispondi “no”, è la fine.
Mutti è dimagrito. Di più.
Ha avuto un sacco di problemi. È finito su un sacco di giornali.
Vati è andato fuori di testa nel giro di due giorni. Non si staccava dal letto, non riusciva a fare niente, stava immobile accanto a Mutti e cantava Schmetterling perché è l'unica sua canzone che a Mutti piaccia davvero. E Mutti piagnucolava e ringraziava ed abbracciava e tirava su col naso e mi chiamava, “Lu, tesoro, vieni qui”, e per un po’ ho pianto io al posto suo, così che lui potesse riprendersi. Solo un pochino.
Ne siamo usciti proprio grazie al fatto che Mutti non aveva permesso a nessun altro di piangere. Zio Tom per primo e di seguito tutti gli altri, non potendo essere tristi, si sono dati da fare, sono corsi ai ripari, hanno rilasciato dichiarazioni, sedato i media, letteralmente barricato la casa quando c’è stato bisogno. Non penso che potrò mai dimenticare l'epica notte del dodici agosto duemilaquattordici, in cui da questa villa non si poté uscire, perché da qualsiasi lato la si guardasse le ombre dei giornalisti appostati si stagliavano minacciose contro le mura gialle. Ed erano siepi di ombre.
Avevo undici anni allora. Avevamo appena finito di mangiare, Vati mi preparava la cioccolata della buonanotte ed io, arricciata sul letto accanto a Mutti, disegnavo palloncini. Mutti guardava fuori dalle finestre, si rigirava i miei ricci fra le dita come anelli e mormorava imprecazioni sottovoce. Era bellissimo ed era anche sciupato da fare paura.
Qualcuno doveva aver fatto la spia sul compleanno di DaDa e sul fatto che intendevamo festeggiarlo con una cena informale proprio qui, visto che Mutti non riusciva ancora a muoversi. C’eravamo ritrovati tutti in trappola prima di poter fare o dire alcunché.
Io non ero veramente spaventata per la mia incolumità – erano già sei anni che mi confrontavo con quella vitaccia, gli appostamenti stavano diventando parte della mia abitudine – più che altro c'era un senso di fastidio che mi scorreva inarrestabile sotto la pelle, ed i palloncini che stavo disegnando li avrei voluti davanti per farli scoppiare tutti a mani nude.
Gli altri, invece, sembravano davvero preoccupati. Suppongo lo fossero proprio, per Mutti: poteva succedere qualunque cosa, nelle condizioni in cui era, e non sarebbero neanche stati in grado di chiamare un’ambulanza senza che il fatto finisse in prima pagina su tutti i giornali della nazione.
È stato allora che è successo: Vati s’è bruciato con la cioccolata, zio Tom ha riso e lui e Georg si sono guardati in quel modo speciale in cui ogni tanto si guardano, quello che sottintende anni di complicità basata su un'amicizia talmente maschia da esprimersi solo in prese per il culo. E solo in senso figurato.
Gustav ha riso a propria volta, indovinando la domanda nei loro occhi esattamente come, suppongo, deve essersi ritrovato a fare spesso quando militava nei Tokio Hotel.
DaDa ha sbuffato.
“Voi non lo farete”, ha detto.
Io mi sono guardata attorno con aria smarrita, perché in tutta sincerità non avevo la più pallida idea di cosa stesse capitando.
Zio Tom s’è alzato in piedi. Gli altri l’hanno seguito. Vati s’è affacciato dalla cucina succhiandosi un pollice, Mutti l’ha guardato, ha riso e ha scosso il capo.
“Tomi...”, ha detto, dolcissimo come solo lui sa essere quando vuole, “Non dovete per forza”.
Zio Tom ha scrollato le spalle.
Georg ha sbottato “Sono secoli che non meno qualcuno. Mi prudono le mani”.
Gustav s’è alzato dalla poltrona con un sospiro falsamente esasperato e intimamente eccitato.
E li ho visti scivolare fuori dalla villa e fronteggiare i giornalisti a muso duro come criminali, esattamente come certi tipi di cui mi raccontava Vati quando Mutti era troppo stanco per darsi da fare con le favole della buonanotte.
Fieri, decisi, arrabbiati.
Il resto è storia, su tutti i giornali.
Zio Tom che sbotta “Avete rotto i coglioni”. Un giornalista che si lancia comunque in qualche domanda sul futuro dei componenti della band. Zio Tom che precisa “Forse non avete capito... avete rotto i coglioni!”. Un altro giornalista che accenna una protesta.
E le botte da orbi che cominciano a volare ovunque nel momento stesso in cui i tre folli si lanciano proprio in mezzo al vespaio. Ridendo come bambini e menando calci e pugni come ne andasse della loro stessa vita.
Dentro casa, Mutti teneva una mano pressata sulle labbra. Per nascondere il sorriso.
DaDa scuoteva il capo e rideva, dando loro dei pazzi, incerto fra la possibilità di chiamare la polizia per porre un freno al disastro in tempo utile o godersi lo spettacolo fino alla fine.
Io, estasiata, stavo col naso appiccicato al vetro e strillavo felice “Mutti, Mutti, i tre moschettieri!”. Vati entrò sbrigativamente in camera, mi rimise seduta sul letto e poggiò la tazza di cioccolata fumante sul comodino.
“Bevi”, disse burbero, lanciando un’occhiata fuori. Poi sospirò ed uscì.
Tenendo la Heckler in mano.
Ci finì in tribunale, per quella piazzata. Ma riuscì a frenare l’Apocalisse e disperse i giornalisti, e Mutti, al mio fianco, sospirò languidamente ed aggiunse “C’è anche D’Artagnan”. Ed è una cosa che spero gli ripeta spesso, perché Vati se la merita proprio.
“Mi dispiace solo non aver filmato niente”, fu il secco commento di DaDa quando gli altri adulti di casa rientrarono, ridendo come deficienti. “Adesso possiamo per favore tagliare la torta prima che arrivi la polizia?”.
In effetti, DaDa arrivò appena a spegnere le candeline.
Comunque, da quel giorno in poi le cose andarono un pochino meglio. Per quanto meglio possano andare delle cose in generale quando la quasi totalità della tua famiglia è sotto denuncia per percosse, minacce e possesso illegale d’arma da fuoco.
I nomi e le vicende sui giornali furono, come spesso accade in quest’ambiente, più benedizioni che maledizioni, e da quel momento in poi le opportunità di lavoro fioccarono per tutti: zio Tom decise di accettare la proposta di DaDa e si gettò nella produzione, Gustav partì in tour coi Foo Fighters come seconda batteria – un sogno diventato realtà, né più né meno – Georg ebbe appena il tempo di laurearsi, finalmente, che subito lo chiamarono a sostituire il bassista degli U2 per un frammento del tour americano, mentre Adam Clayton recuperava da una brutta tendinite. Ed a Mutti venne offerto un intero programma radiofonico, un programma tutto suo.
Che poi è il motivo dello scazzo serale di Vati.
Fra gli anni che ha passato sul fronte del palco e quelli di cui ha avuto bisogno per leccarsi le ferite, Mutti ha sviluppato per lo showbiz musicale un’acredine piuttosto violenta. Una volta me l’ha esplicitata in maniera molto chiara: “A me nessuno ha regalato niente”, ha detto astioso, mentre discuteva con Vati sull’accettare o meno l’offerta di RTL, “Solo prese per il culo da quando ho cominciato a cantare a quando ho smesso”. Un mezzo ghigno. “Ed ora mi offrono un programma e mi dicono per iscritto che potrò gestirlo come vorrò e scrivere tutti i testi delle interviste”.
Vati ha ghignato con lui.
“Ti vogliono vedere litigare con un po’ di gente”, ha chiarito per me che ruminavo spinaci e non capivo.
Mutti ha riso.
“Perché non mi hanno mai visto litigare”, ha aggiunto con un certo orgoglio.
“E non sanno che coi cazzotti vai forte nonostante la french”, ha annuito Vati, compiaciutissimo, mentre posava la forchetta sul bordo del piatto e scendeva ad accarezzargli una mano.
E mentre io li fissavo sognante, trovandoli bellissimi, Mutti ha detto “E sia”. Ed è stato davvero.
BK non è soltanto uno dei programmi radiofonici più ascoltati in Germania. Ha un sito cliccatissimo anche all’estero sul quale vengono caricati i podcast e le traduzioni, perciò in verità il sogno di Mutti è ancora vivo – raggiungere tutti e ovunque – ma quel programma è un disastro: è cattivo.
Io non do torto alla mia Mutti se vuole vendicarsi un po’ in giro. Non gli ho dato torto quando s’è ritrovato i Killerpilze in studio ed ha chiesto lumi sul concept del video di una certa Letzte Minute, così come ha cercato di informarsi sulla nascita del testo, mettendoli mortalmente in imbarazzo. Ed ho riso come una pazza quando ha salutato in diretta l’arrivo di LaFee con un secco “Oddio, tesoro, il vestito ti stringe, sei sicura che la costumista ti abbia dato la taglia giusta?”.
Mutti è così, è scorretto.
Mutti è anche molto coerente.
Ed oggi Vati accompagnava Kay One a presentare il nuovo album solista proprio al BK.
- Sì. – risponde finalmente la voce cavernosa di Vati da dentro la propria tana, - Arrivo fra poco.
Lancio un’occhiata all’orologio da polso. Sono quasi le sette.
- Non sono venuta a chiamarti per la cena. – biascico, - Posso entrare?
Vati grugnisce qualcosa che potrebbe essere un assenso come un diniego, ma è la cosa che fa sempre quando è arrabbiato. Vorrebbe farsi consolare ma non te lo dirà mai ad alta voce, perciò ringhia ed osserva che succede: se ti metti paura e vai via, affonda sempre di più nella propria rabbia ed è capace di riempirti di astio finché campi; se sei coraggioso, se rischi ed entri, se ce la fai a stargli dietro, però, i premi sono abbracci e sorrisi.
Deglutisco e faccio ruotare la maniglia, entrando nella stanza. Vati ha lanciato via la polo nel momento stesso in cui è entrato. Me ne accorgo perché la trovo appesa allo spigolo della libreria, sulla parete a sinistra. Quando a Vati succede qualcosa di brutto è come se avesse immediatamente bisogno di dimenticarselo, di togliere via tutte le tracce. Probabilmente non s’è tolto tutti i vestiti solo perché immaginava che sarei arrivata io.
La polo, comunque, pende dallo spigolo. Io mi muovo verso di lei e la recupero, appallottolandomela fra le mani mentre mi avvicino a lui. Vati, disteso su un tappeto e circondato da cuscini ammonticchiati dietro la schiena e sotto i gomiti, stringe fra le dita con una certa violenza il narghilè e fissa silenzioso il vuoto.
- Non posso credere che tu sia così depresso per Kay! – mugolo contrariata, abbandonandomi al suo fianco con uno sbuffo che scuote l’aria e che lui non mostra di apprezzare particolarmente. – Avanti, ha trent’anni e conosce Mutti da più di undici… sa perfettamente come difendersi dalle sue frecciate!
Vati mi lancia un’occhiata un po’ ambigua, di quelle delle quali non riesci a cogliere il senso perché ha degli occhi talmente scuri che a volte ti ci perdi e ti sembrano vuoti. In realtà ti ci perdi proprio perché invece sono densissimi.
- Lui sì. – butta lì, tirando una boccata dal narghilè, - Sono io che non ho ancora imparato.
Inarco le sopracciglia.
- Sapevi che se la sarebbe presa anche con te. – cerco di farlo ragionare, mentre lui borbotta qualcosa sulle figlie ingrate.
- Ma se l’è presa solo con me! – precisa, lamentandosi come un bambino.
- Ma è perché trova Kay cuccioloso! Avanti, lo troviamo tutti cuccioloso! Anche tu lo trovi cuccioloso!
Vati mugola qualcosa di assolutamente incomprensibile e si arriccia attorno a un cuscino. Io trovo che ci sia un palese spreco di abbracci, in tutto questo, perciò elimino l’impedimento in morbida piuma d’oca e mi sostituisco a lui. Vati mi strizza forte. Il suo petto profuma d’incenso ed è caldo e liscio. Vati è sempre stato bravissimo ad abbracciare.
- Dice che sto cercando di far diventare Kay una copia venuta male di Chakuza.
Annuisco.
- Questo perché ad entrambi Chaku piace. Quindi tu ci trasformi le persone e Mutti si offende quando lo fai. – confermo ridacchiando.
- Sai che sei tutta Bill? Sei d’aiuto quanto un mattone di cemento ancorato ai piedi, cazzo… - borbotta fra i miei capelli, e io rido e mi stringo a lui.
Affondo nel suo profumo e lui mi stringe ancora.
- Mutti ha bisogno di prendersela con qualcuno. – spiego pazientemente.
È una cosa che Vati sa alla perfezione, ed è una caratteristica di Mutti che gli piace pure, perché ce l’hanno in comune, ma ogni tanto gli fa bene sentirselo ripetere. Così lo prende per la maledizione inestinguibile che è e si mette il cuore in pace, ecco. Non so quand’è che si sia messo in testa la vana speranza che Mutti potesse trattarlo come un’eccezione… è che Mutti lo tratta già da eccezione in così svariati campi della propria esistenza che chiedergli pure di farlo mentre lavora è insensibile, oltre che assurdo.
Insomma, se lo tiene nel letto da una quantità enorme di anni.
Io non so se potrei tenere nel mio letto zio Tom altrettanto a lungo.
- Sì, lo so. – biascica lui, - Torniamo di là, Karima avrà già preparato la cena. Hai finito di rendere una pezza la mia povera maglietta? – chiede, indicando con un cenno del capo la polo spiegazzata fra le mie mani.
Sbuffo e gliel’appoggio sulla testa come un cappuccio.
- Mi ci vorranno secoli per rimettere i capelli a posto… - continua a borbottare mentre ci alziamo in piedi, sfilandosi la polo dalla testa per indossarla.
- Scusa, Mutti, credevo fossi Vati. – lo prendo in giro, pizzicandolo su un fianco. Lui ride e non risponde.
Quando torniamo di là, dalla cucina arriva un odore fortissimo di aceto. Io amo l’odore dell’aceto, mi fa sentire ubriaca. Soprattutto quando è in grande quantità.
- Karima fa la frittella? – tiro a indovinare, mentre ringrazio in tutte le lingue che conosco (poche, Vati e Mutti parlano quasi esclusivamente tedesco ed io non sono meno pigra di loro, in questo senso) che il mio Vati si sia scelto una tata che cucina crucco solo se indispensabile, - Strano, lo fa solo quando siamo tanti e non può fare la carne…
E mi muore il respiro in gola quando vedo che in effetti in sala da pranzo oltre a Mutti c’è ancora zio Tom. Ed all’allegro quadretto s’è aggiunto anche DaDa.
Ora. Io amo tantissimo DaDa, perché è un uomo che porta bellezza ovunque vada. No, sul serio, è una cosa incredibile: zio Tom è un figo ma è un insetto stecco infilato in una tenda; Mutti è bellissimo, ma è altamente opinabile; Vati è un concentrato di testosterone, ma è volgarissimo; Chaku è caruccio, ma è praticamente un peluche; Saad ha degli occhi stupendi, ma anche il sorriso cattivo; Eko mi fa ridere, ma è un topo; Kay è cucciolo, ma sembra una scimmia; Gustav è fascinoso, ma è il figlio segreto di Knut o di uno a caso dei suoi discendenti; Georg ha dei bicipiti per i quali potrei anche lasciare zio Tom, ma per il resto è un Picasso. Gli uomini che fanno parte della mia vita sono palesemente quanto di più lontano dalla perfezione sia mai stato visto solcare questa terra.
DaDa no, però. DaDa, tanto per cominciare, è tanto bello che potrebbe essere uscito direttamente dalla copertina di un Harmony, e non me ne stupirei. Cioè, tipo, se apparisse all’improvviso con una camicia bianca aperta fino a metà petto, pantaloni in pelle e stivali di cuoio al ginocchio, presentandosi come il nuovo stalliere, penso che lo guarderei e finirei per sposarlo l’attimo dopo. Una cosa incredibile.
Poi, DaDa ha un sorriso da pubblicità. Bianco ed enorme e assolutamente perfetto. Che basta guardarlo e ti senti bene, ecco.
Oltretutto, DaDa mi ama profondamente e vuole farmi diventare famosa, quindi è ovvio che in pratica sia il mio essere umano preferito nell’universo.
Però, ecco. DaDa ha quasi scoperto la mia storia con zio Tom. E Vati odia questa sua ambizione a rendermi famosa. È un’altra delle poche cose sulle quali lui e Mutti litigano di continuo – indipendentemente da ciò che possa pensarne io, oltretutto; il fatto non ha nulla a che vedere con me, perché io posso effettivamente fare quello che voglio, e lo faccio. È una cosa di principio fra loro due.
Vati è già abbastanza arrabbiato.
Zio Tom è già abbastanza teso.
Mutti è già abbastanza nervoso.
Io sono già abbastanza stanca.
Non sarà una cena facile.
Comunque sia, appena mi vede DaDa mi sorride felice come se nulla nel mondo potesse girare nel verso sbagliato, ed io sul suo sorriso da boybander mi ci sciolgo, come sempre; lascio il braccio a Vati e mi fondo verso di lui, stringendolo al collo mentre lui mi tira su per la vita.
Sento lo zio sbuffare ma evito di fargli la linguaccia che meriterebbe.
- Tesoro, ciao! – mi saluta DaDa giulivo, mentre io gli saltello intorno, - A Briegmann piaci, ragazzina.
Sorrido. Non potevo proprio andare buca col presidente della Universal Music Deutschland.
- Perché gli piace la mia voce o per quei due disgraziati che mi hanno cresciuta? – domando sarcastica, indicando Vati e Mutti con due cenni del capo.
Vati borbotta che lui la Universal l’ha mollata secoli fa ed è stata la scelta migliore della sua esistenza. Mutti, invece, si lascia andare ad un sorriso un po’ triste e un po’ dolce, ma non commenta.
DaDa scrolla felicemente le spalle.
- Ti ritiene vendibile, tutto qua.
- E quando non lo sarai più, ti scaricherà. – aggiunge Vati, quasi in un ringhio.
- Come capita a tutti. – scocca zio Tom, vagamente amareggiato.
Vedo Vati e Mutti dirigersi contemporaneamente verso la porta del soggiorno nel disperato tentativo di abbandonare il campo. Quando capiscono di starsi muovendo in sincrono, si fermano. Mutti ricomincia a sistemare le posate attorno ai piatti. Vati gli si affianca e sistema i tovaglioli.
DaDa sospira pazientemente.
- Abbiamo un appuntamento per dopodomani alle nove.
- Ha scuola. – butta lì Vati.
- Ti giustifico io. – mi rassicura Mutti.
Non so se stanno semplicemente cominciando a litigare per la solita questione del “non la voglio nel mondo dello spettacolo/invece io sì” o se questo è solo uno strascico di ciò che è successo al BK questo pomeriggio. Comunque, non mi piace. Odio che in questa casa si litighi perché sono tutti maschi, perciò volano botte. Le botte sono eroiche e sexy solo quando le prende qualcuno che non ami.
In ogni caso, da quando Mutti mi ha adottata legalmente, oltre che sentimentalmente, questa cosa delle giustificazioni per le assenze manda Vati su tutte le furie. Spero che non gli dica la solita stronzata di rito per cui—
- Il coglione sono stato io che ti ho portato i documenti, vaffanculo a me.
…appunto.
Mutti non ha degli occhi normali, no, Mutti ha dei laghi. Non sono dello stesso colore, ma non è quello il punto: quando piove troppo s’ingrossano ed esondano. E non è una questione di lacrime – Mutti piange spesso, ma non così spesso – è una questione di sentimenti. Te li rovescia addosso. E adesso, nei suoi occhi, è riflessa solo una rabbia cieca ed un incredibile desiderio di fare male. Diretto tutto contro Vati.
Io lo so che si amano. Non ne dubito neanche adesso.
Forse è per questo che vederli così mi fa tanto male.
- M’è passata la fame. – biascico, abbassando lo sguardo.
Mutti smette di provare ad uccidere Vati con gli occhi e si volta verso di me.
- Tesoro, non—
- Non ho fame. – ribadisco scuotendo il capo. – Vado in camera mia.
Mi lascio alle spalle gli “è colpa tua” che Mutti comincia immediatamente a riversare su un silenziosissimo Vati, e mi chiudo in camera, abbandonandomi sul letto e nascondendo il viso contro il cuscino.
Io non odio la mia vita. Sono un’adolescente felice. Ho una bella famiglia— fuori di testa, ma bella. Non ho nessun motivo per essere triste. Questi però sono i casi in cui fatico a ricordarmelo. Quando Mutti urla e Vati tace per non dire di peggio. Quando esco di qui a notte fonda per andare a bere e trovo Vati raggomitolato sul divano, o sento la musica a basso volume venire fuori da sotto la porta della sua tana. Possono smettere di parlarsi anche per settimane intere, perché Vati è l’unico – proprio l’unico – di fronte al quale Mutti diventa impermeabile ai sensi di colpa.
Forse perché, penso, sono cattivi entrambi. Io lo so, questo. Forse non lo erano un tempo, forse lo sono solo diventati, ma comunque è questo che sono, profondamente. Ce l’hanno con tutti. E quindi ce l’hanno anche l’uno con l’altro.
È difficile da capire, se non lo vivi. Ma si amano tanto quanto si odiano. E per me è una cosa normale. Anche se fa male.
*
Ho aperto il quaderno sulla scrivania ed ho infilato le cuffie nelle orecchie. So che di là non stanno ancora litigando: la cena per Vati è sacra e silenziosa; ed è proprio questo, ciò che non voglio sentire, il loro silenzio. I silenzi, in questa famiglia, sono sempre molto pesanti, perché sono obbligati. Mutti è logorroico, oltretutto, perciò non sentirlo parlare è tremendo. Non parla solo quando vorrebbe dire cose orribili, ecco. Odio i silenzi perché so che ci sono le cose orribili dietro.
Comunque, sto ascoltando Unter der Sonne a palla. C’avrà pure dieci anni, questa canzone, ma è sempre un qualcosa di stupendo. Io adoro la voce di Chaku, mi piace più di quella di Vati perché è ruvida e maschile e quando ti parla sembra che ti stia rimproverando. Io credo sia questo che deve fare il rap, rimproverarti. Con la voce che ho, non ci riuscirei mai, è per questo che ho rinunciato al proposito fin da subito e, su consiglio di DaDa, mi sono data all’R&B. Ho una voce squillante ma dolce, quindi mi ci adatto meglio.
Comunque per un sacco di tempo avrei voluto fare rap, perché a me fondamentalmente piace parlare, mi piace dire le cose, ed il rap per fare questo è perfetto.
Sotto il sole le cose sembrano brillare di più, ma la sporcizia resta sporcizia, questo mi dice Chaku in questo preciso momento, ed io chino il capo a ritmo delle sue parole e penso che è vero, e che questo riflette non solo la mia vita, ma la vita di tutti.
Per dire, io sono molto amata. Sono molto amata e mi sento molto amata.
Ma sono stata molto odiata, in passato. È una traccia che mi porto dentro e non potrò mai estirpare.
Mutti mi ha molto odiata. Ed anche questo non potrà mai essere estirpato. Anche se ora c’è il sole e ridiamo e stiamo tutti insieme. Nei silenzi dei miei genitori resta la traccia dell’odio di un tempo.
E forse è per questo che ci sto tanto male.
Vati e Mutti erano molto felici, prima del mio arrivo. La loro è una storia d’amore molto eroica, nel suo piccolo che piccolo non è. Si sono accerchiati per un sacco di tempo convinti di stare semplicemente giocando, poi è capitato del tutto casualmente di trovarsi vicinissimi ed hanno capito che forse non stavano giocando proprio per un cavolo.
È sempre divertente quando Mutti me lo racconta e Vati per caso è lì ad ascoltare – magari ti sembra che sia distratto e non ci badi, e invece pende letteralmente dalle sue labbra. Mutti parte sempre in quarta con il discorso degli amanti predestinati e compagnia cantante, ed il tormentone di questo racconto è sempre “Lo sai che non baciavo un essere umano da tre anni? Tre anni! E non sono impazzito nel mentre. È evidente che stavo aspettando tuo padre”. E Vati risponde puntualmente “No, è evidente che eri talmente represso che, pure se avesse provato a baciarti un cammello, ti ci saresti buttato a pesce”. Ed io rido e Vati ride e Mutti lo guarda e sorride e ripete con più convinzione “Io aspettavo te”, ed allora tu ci credi. Perché quando Mutti parla in quel modo, tu gli credi. Può pure mentire, in quel preciso istante, ma nei suoi occhi c’è l’universo che brilla e ti confonde, perciò tu gli credi e basta.
Gli crede anche Vati. A Vati piace tantissimo credere alle fantasie di Mutti. Io so che è perché hanno abitato l’uno le fantasie dell’altro per una quantità spropositata di tempo. È come me con zio Tom: lui è stato nei miei sogni tanto a lungo – anni e anni e anni – che quando le sue mani mentono intrecciandosi alle mie, quando le sue braccia mentono stringendomi alla vita, quando le sue labbra mentono incollandosi alla mia pelle, quando il suo intero corpo mente fondendosi col mio e regalandomi mezz’ora di illusione in cui non c’è Mutti non c’è Vati non c’è DaDa ed io sono sua e lui è mio, io ci credo. Ciecamente. Poi torno alla realtà, ma per quei trenta fottuti minuti io ci credo e basta.
E lo stesso è per Vati, credo. Lui lo sa che Bushido e Bill Kaulitz non sono mai stati gli amanti del destino, lo sa che la loro relazione ha portato più danni che altro, lo sa che è anche colpa sua se il contratto dei Tokio Hotel con la Universal è saltato, ma quando Mutti lo guarda negli occhi e gli dice che stava aspettando lui e ne è certo, Vati ci crede. È bello crederci. Ci credo anche io.
Vati e Mutti hanno un sacco di fangirl. E un fanclub. Non ufficiale, ma piuttosto attivo, devo dire. Io mi ci diverto un casino, ogni tanto mi intrufolo ai raduni ed è sempre il delirio cosmico perché Vati si mette a strillare come un’aquila quando sa che ci vado. Mutti è d’accordo con lui, peraltro; le fangirl non gli sono mai piaciute particolarmente, però con me ha sempre seguito il principio fondamentale del fai ciò che vuoi, che è una cosa che suppongo abbia imparato direttamente da quella sciroccata di nonna Simone, perciò non mi rimprovera quasi mai.
Insomma, il fanclub ha anche creato un adorabile canale su YouTube al quale Mutti – nonostante l’antipatia per le fangirl! – ricorre sempre, quando gli salta in testa di raccontarmi la sua storia con Vati. Ha bisogno del supporto audiovisivo, dice. In realtà gli piace rivedersi giovane e bello. Non che adesso sia meno bello, ma gli anni passano per tutti, è così che va la vita. E poi si diverte a sfottere Vati, che ai tempi era oggettivamente improponibile, la maggior parte delle volte.
Il primo contatto fra Vati e Mutti è, credo, il più famoso abbordaggio della storia della musica tedesca. Fondamentalmente, Vati era in TV e lo stavano intervistando, e lui si prese un secondo di diretta per annunciare al mondo che gli sarebbe piaciuto farsi fare un lavoretto di bocca proprio da Mutti.
Seguì una vera e propria rivoluzione. Non c’era una – una che fosse una – fan dei Tokio Hotel non desiderasse Bushido morto. Possibilmente anche sodomizzato da uno o più animali a scelta fra buoi, cavalli e tori. In famiglia, DaDa la prese sudando freddo, zio Tom la prese come un’offesa personale – ma gli passò presto, zio Tom non è fisicamente in grado di restare arrabbiato a lungo – e Mutti la prese scoppiando in lacrime e strillando che non era un dannatissimo frocio e s’era rotto i coglioni di sentirsi apostrofato in quel modo da tutti i pezzi di merda che pensavano di poterselo permettere.
Mutti aveva diciassette anni. Vati undici di più.
Probabilmente avrei pianto anche io, ma il destino che piace tanto a Mutti quando si parla di relazioni amorose ha voluto che mi prendessi una sbandata colossale per uno che ha quattordici anni più di me. Penso di aver battuto i miei genitori su tutta la linea, e se le nuove generazioni sono i passi avanti della specie allora mi sa che con me il passo l’ha fatto un po’ troppo lungo, l’umanità.
Comunque. Vati scoprì che ad insistere pubblicamente sull’argomento ci si poteva pure guadagnare sopra, e siccome per gli affari ha sempre avuto un fiuto niente male – ed è sempre stato bravissimo a vendersi – ha proseguito. Ha aggiustato il tiro, non è stato più così esplicito con le richieste, ha cominciato ad infilare nei propri discorsi anche veri e propri complimenti, non soltanto apprezzamenti di tipo sessuale, ed infine ha sferrato l’assalto finale chiedendo ripetutamente – e in più occasioni – ai propri fan di votare per i Tokio Hotel in qualunque manifestazione musicale fossero in lizza per un premio.
Non so se Vati fosse consapevole di stare preparando Mutti alla cotta più devastante, violenta ed invasiva della propria vita. Io non credo lo fosse. Io credo fosse solo stupidamente divertito dalla cosa.
Fatto sta che in quei tre anni Mutti non baciò nessuno. Andava pure lamentandosene in giro, il che è piuttosto comico, se ci si pensa, perché non è questione di cliché, lui avrebbe davvero potuto farlo con chiunque in qualsiasi momento, ma niente. È anche per questo che un po’ gli si crede per forza, quando dice che stava aspettando Vati. Perché è vero che in fondo l’ha fatto.
Alla fine, dopo tre anni di incontri semicasuali a premiazioni varie ed eventuali, Mutti fece la propria mossa. Intervistato a riguardo delle continue avances di Bushido, rispose con una scrollatina di spalle ed un sorriso da manuale. “Bushido promette, promette… ma non mantiene mai”. È un altro degli eventi che in casa vengono ricordati in modo sempre diverso, dipende dalla persona a cui hai chiesto. DaDa, per dire, è ancora traumatizzato. Ci sono certe cose che con lui non si possono proprio discutere. Zio Tom ci si fa su una risata che è stupenda, da stare ad ascoltare, perché è a metà fra l’intenerito e il derisorio. Non so come faccia, ma zio Tom ha un sacco di talenti nascosti. Mutti ne parla con un certo orgoglio, come la ribellione di una principessa tenuta troppo a lungo sotto una campana di vetro – e poco importa lui non fosse quasi niente di tutto questo, Mutti ha sempre avuto il pallino della lotta per l’indipendenza e nessuno ha mai il coraggio di smontare le sue fantasie a riguardo. Vati invece è stupendo: quando glielo chiedi inarca le sopracciglia e borbotta “Cristo, mi fece paura!”. Ho sempre avuto questi flash mentali di lui che si volta verso Saad e strilla “un biglietto per l’Australia, prego”. Meraviglia.
Alla fine, si beccarono agli EMA. I Tokio Hotel erano lì perché nominati per il Best Headliner, Vati e Chaku premiavano il Best German Act. “Io mi stavo cagando addosso”, precisa sempre Vati. “Cioè, Bill non era normale. Non che lo sia mai diventato, poi, ma voglio dire… non si dicono queste cose in tv”. Chiaro che Mutti lo picchia, ogni volta che dice così. “E comunque anche io ero spaventato”, aggiunge fra un ceffone isterico e l’altro, “Avevo l’impressione di avere tirato un po’ troppo la corda ed ero lì a menarmela chiedendomi ‘e se lo fa davvero?’”.
L’incontro di quella notte mi piace sentirmelo raccontare da Chaku e zio Tom. Perché sono spassosi, quando li imitano. Zio Tom si butta contro il primo ripiano disponibile – se siamo in cucina la cosa è ancora più divertente, perché ha a portata di mano tutto ciò che gli serve per imitare al meglio Mutti – infila un cucchiaio in un bicchiere e poi si ficca il manico in bocca come fosse una cannuccia, e comincia a sballottarlo qua e là con la lingua.
Chaku gli si avvicina cercando di farsi alto e disinvolto. Disinvolto lo è, alto un po’ meno, ma quando sfotte Vati mette su un’espressione mitica a metà fra l’incazzatura e la strafottenza che è un qualcosa di stupendo. Già a questo punto io soffoco dalle risate, in genere.
Zio Tom alza lo sguardo e finge di arrossire come una vergine, Chaku lo inchioda al ripiano imprigionandolo fra le braccia.
“Chi è che promette, promette e non mantiene mai?” dice quindi, imitando la voce di Vati.
E poi generalmente a questo punto Mutti sclera e li separa prima che imitino anche il resto, visto che i report di MTV della serata li ritraggono avvinghiati in un angolo a fare sconcezze fino alle cinque del mattino circa. Vati dice che Mutti gli saltò letteralmente addosso e lui quasi rischiò di cadere e finire col sedere per terra. “Sono rimasto in piedi per miracolo e sono riuscito a trascinarlo in un angolo solo perché evidentemente Dio esiste”, dice, anche se lui a Dio continua a non credere. Peraltro, Mutti annuisce freneticamente e conferma. “Gli sono saltato addosso, è vero. Ma è colpa sua, era troppo vicino!”, borbotta, come se servisse a giustificarlo.
Vati e Mutti hanno vissuto l’amore più romantico di cui abbia mai sentito parlare. L’unica altra storia altrettanto romantica alla quale riesco a pensare è quella di Eko e Valezka, che pur di amarsi in santa pace hanno scatenato tipo una guerra fra bande. Ma Vati e Mutti sono meglio, perché non si sono bruciati subito come quegli altri due. Tant’è che Eko e Valezka si sono persi di vista, mentre Vati e Mutti sono ancora qui, l’uno appiccicato all’altro come il primo giorno.
Allontano il quaderno – sono esausta – e mi tiro un po’ indietro sulla sedia, sgranchendo le dita. Apro e chiudo il pugno, lo riapro e quando lo richiudo sento la voce di zio Tom gettare fuori una bestemmia da manuale e poi sento sbattere la porta d’ingresso. Dopo, silenzio.
Mi alzo ed esco da camera mia, aggirandomi furtivamente per il corridoio buio. Di fronte all’attaccapanni, DaDa sta recuperando il cappotto.
Mi avvicino. Non so neanche cosa dirgli.
- Lu, tesoro, scusami. – mi precede lui con un sorriso stanco, - Doveva essere una serata allegra. Giuro che sono venuto con le migliori intenzioni, volevo solo parlarti dell’appuntamento con Briegmann.
Annuisco.
- Hai rimproverato zio Tom? – chiedo timorosa, giocando con l’orlo della sciarpa bianca che gli pende dal collo.
- Non ho più l’autorità per rimproverare nessuno, in questa casa. Né fuori. – chiarisce lui seccamente, scrollando le spalle. – Vorrei solo che non fosse così misterioso. Tom è un cretino e un chiacchierone, lo sai, perciò quando non parla… - sospira pesantemente, - Ho paura che stia nascondendo qualcosa di grave. Sono solo preoccupato, ecco tutto.
Annuisco ancora perché il suo ragionamento non fa una piega. Io e zio Tom siamo in torto. Lo siamo sempre e comunque. Perché abbiamo sbagliato fin dall’inizio – io ad innamorarmi di lui, lui a concedermi il suo amore – e perché non abbiamo abbastanza coraggio per rimediare all’errore, ma non ne abbiamo abbastanza neanche da confessarlo. Questa storia non può che finire male.
- Stai lontana dal soggiorno, per un po’. – mi avverte alla fine DaDa, già sulla soglia della porta e pronto ad andare, - I tuoi si stanno “confrontando” e non vorrei che ti arrivasse un piatto vagante sulla testa.
Ridacchio richiudendogli la porta alle spalle, ed ovviamente la prima cosa che faccio, una volta rimasta sola, è avvicinarmi con cautela al soggiorno e spiare Vati e Mutti che si confrontano da un punto d’ombra nel corridoio. Mutti ha lo sguardo basso e triste, sta impilando i piatti sporchi della cena. Vati è di schiena e versa la frittella avanzata in un unico piattino, per metterla in frigo.
Non è inusuale vederli sparecchiare. Sono entrambi due pigroni viziati – Vati ha sempre avuto Karima, Mutti ha sempre avuto zio Tom – ma le piccole cose del quotidiano casalingo li attraggono in maniera oserei dire morbosa. Oltretutto, è con le faccende domestiche che tengono impegnate le mani quando vorrebbero saltarsi addosso e prendersi vicendevolmente a sberle. La tensione violenta del loro silenzio si diluisce nel cozzare tintinnante delle stoviglie, ed i loro lineamenti si rilassano tic dopo tic, fino a quando Vati non butta fuori un sospiro tale che lo vedo quasi sgonfiarsi e Mutti si morde un labbro e lo fissa intensamente, solo per un secondo, prima che Vati gli si avvicini e lo stringa a sé allacciandolo alla vita, tirandoselo contro con una furia possessiva che è arrabbiata e innamorata insieme; una furia che scioglie il nodo che ho sullo stomaco e mi costringe a un singhiozzo sollevato che soffoco solo perché ho paura di venire scoperta.
Vado via quando si baciano. Passo in camera a prendere il pigiama e vado in bagno, dove apprendo con orrore che, a coronamento di una serata di merda, le mestruazioni sono finalmente arrivate. Dopodomani ho un appuntamento con l’uomo che può cambiare il mio futuro e sarò mestruata ed isterica, perfetto. Ritiro tutto: non sono un’adolescente felice, sono una sfigata. E mi sa che è ereditario. La genetica è un’opinione.
*
Il mio primo ricordo è anche l’unico che ho di mia madre. È un ricordo principalmente visivo e sonoro, ma quella visiva e quella sonora sono due caratteristiche stridenti, non armoniche. La prima mi parla di un foglio di album liscio, grande, talmente grande che la mia mano premuta su quella superficie bianchissima sembrava come persa in un deserto di neve, macchiata appena di tanto in tanto da sbuffi colorati tracciati coi pastelli a cera sparsi alla rinfusa sul tavolo. Sono così tanti che non riesco nemmeno a contarli. Sto fissando questo foglio bianco scarabocchiato a caso e sto cercando di capire cosa potrei disegnarci sopra, quando ecco che la traccia visiva si mescola a quella sonora.
Mia madre che sussurra “mi gira la testa”. E poi un tonfo.
Non ho la minima idea di cosa possa essere successo dopo. Immagino che una delle amiche di mamma, o un suo parente, o un vicino, o comunque qualcuno abbia bussato alla porta, mi abbia sentito piangere e sia quindi entrato in casa con la forza, per poi prendere atto di ciò che era successo e chiamare la polizia.
Mia madre se l’è portata via un aneurisma. Il primo aereo che ho preso è stato quello che, in seguito a quest’evento, mi ha portata dalla Svizzera in Germania. Ricordo l’hostess che mi prese in consegna, aveva gli occhi dolci e grandi e lunghi capelli biondi. Mi parlava dolcemente ed io capivo molto poco di ciò che mi diceva.
Dopo questo, nella mia memoria c’è un altro buco. Le successive immagini che ho appartengono alla villa gialla di Vati, ma suppongo di non essere andata direttamente lì, perciò posso solo ipotizzare di essere rimasta qualche ora in un qualche centro di assistenza sociale mentre qualcuno si occupava di avvisare Vati del mio arrivo.
Ricordo la sua faccia quando mi vide, però. Sono solo flash, niente di concreto, ma ricordo i suoi occhi spalancati su quel viso così squadrato e allungato, la barba che gli copriva le guance, e il fatto che non ebbe il coraggio di abbracciarmi. Io indossavo un vestitino lungo alle ginocchia, calzette bianche e scarpette di vernice nere. Le ricordo dondolare giù dalla panchina sulla quale stavo appollaiata, rimpiangendo i peluche che qualcuno mi aveva infilato in valigia, senza lasciarmene in mano neanche uno. Mi sarebbe piaciuto poter stringere qualcosa, in quel momento, visto che quell’uomo così alto e magro al quale sembrava mi volessero dare non sembrava avere alcuna intenzione di stringere me.
Rimasi lì immobile per non so quanto tempo, mentre aspettavo fuori dall’ufficio all’interno del quale l’assistente sociale stava spiegando bene a Vati chi ero, perché mi trovavo lì in quel momento e quale decisione tutti aspettavano che lui prendesse. Vidi uscire prima le sue scarpe, perché avevo gli occhi piantati sul pavimento e non mi arrischiavo a sollevarli nemmeno per sbaglio. Erano dei mocassini scamosciati semplicemente orrendi. In quel momento, però, ricordo di averli trovati carini, in qualche modo teneri. Rassicuranti. Non saprei dire.
- Luise. – mi chiamò piano, accucciandosi di fronte a me e molleggiando un po’ sulle gambe, - Hai un bellissimo nome.
Arrossii, stringendomi nelle spalle.
- Chi sei tu? – domandai, arricciandomi una ciocca di capelli attorno a un dito giusto per darmi qualcosa da fare e smettere di torturare l’orlo della gonna che stavo stropicciando da minuti interi.
Lui prese un respiro profondissimo, prima di rispondermi.
- Sono il tuo papà. – disse, appoggiandosi con le mani alla seduta della panchina per non perdere l’equilibrio.
- Mamma diceva che eri impegnato. – buttai lì io, sempre fissando altrove. Lui sollevò una mano e mi accarezzò una guancia, e solo allora sollevai gli occhi nei suoi, permettendomi di perdermi nel suo sguardo caldo e avvolgente come una coperta.
- Da adesso in poi, non lo sarò più. – tagliò corto lui con un sorriso, e poi allargò le braccia.
Non so da quanto tempo non ricevessi un abbraccio. Il suo, quel giorno, comunque, mi sembrò il più bello che mi avessero mai dato.
Sospiro profondamente, abbattendomi contro lo schienale della sedia in sala d’aspetto. Rileggo la scena che ho scritto da capo, e mi colpisce la forza di questo ricordo. Il suo profumo, il calore del suo corpo, la morbidezza del maglione che stringevo fra le dita mentre, aggrappandomi a lui e piangendo, mi nascondevo contro il suo petto. Improvvisamente, il fatto che Vati non approvi di questo mio incontro con Briegmann e delle porte che potrebbe aprirmi inizia ad avere un suo peso specifico. Non che mi senta costretta a rinunciare solo perché lui non vuole e io gli sono grata per tutto quello che ha fatto per me quando qualcun altro magari non avrebbe creduto a niente e mi avrebbe piazzata in un orfanotrofio in attesa che qualcun altro mi adottasse, ma un po’ mi pesa non avere la sua approvazione in questo momento.
- Sei pronta? – mi chiede DaDa, apparendomi di fronte come la Fata Madrina di Cenerentola, paragone che, peraltro, gli calza a pennello, - Ancora pochi minuti e poi ti toccherà dimostrare quanto vali. – Mi stringo nelle spalle, tirando su le gambe fino al petto e rannicchiandomi sulla sedia. Lui mi guarda inarcando un sopracciglio, e poi si siede al mio fianco. – Duecento anni fa circa, c’era un bellissimo principe tedesco di nome David Jost. Egli era conosciuto come il ragazzo più snodato che il glorioso regno di Germania avesse mai visto. Purtroppo, ormai è vecchio e stanco, e in questo momento ti sta invidiando con ferocia e violenza. – annuisce compitamente, e io mi metto a ridere, nascondendo il viso dietro agli avambracci incrociati. – C’è qualcosa che non va? – mi chiede lui, accarezzandomi lentamente i capelli. Io mi sciolgo, arrotolandomi addosso a lui ed inspirando con forza il profumo delizioso del suo dopobarba.
- Vati non sarà contento. – considero mestamente, - Comunque vada, peraltro.
Lui si stringe nelle spalle, sbuffando teatralmente.
- Lascia che ti dica che tuo padre non è mai contento, a meno che le cose non vadano esattamente come vuole lui, cosa che, per inciso, accade molto più di rado di quanto uno non possa pensare. – risponde atono, stringendomi a sé.
- Sì… lo so. – sospiro, nascondendo il viso contro il suo collo, anche a costo di rovinarmi il trucco e macchiargli il colletto della camicia. Lui sospira, accarezzandomi ancora un po’ i capelli, il collo e la spalla.
- Lu, c’è qualcosa che mi devi dire? – chiede quindi, - Qualcosa che non sappia già, intendo.
Mi allontano, vagamente spaventata.
- Ma no. – scuoto il capo, cercando di suonare naturale, - È tutto a posto.
- Lo è? – insiste lui, lanciandomi un’occhiata severa. Lo vedo sospirare profondamente, prima di addolcire lo sguardo e sorridere appena. – Sai di cosa non sarebbe contento tuo padre? – mi chiede, - Di sapere che menti. – e nel momento stesso in cui lo dice io mi sento esplodere nel centro del petto un dolore sordo che quasi mi toglie l’aria. – Lu, sai che non devi farlo per forza? – domanda dolcemente, allungandosi ad accarezzarmi una guancia, - Se non è cantare quello che vuoi dalla tua vita, non hai che da dirlo. Io non voglio che tu salga su un palco e ti esibisca, se questo non è esattamente anche quello che vuoi tu.
Lo guardo senza sapere cosa dire per un paio di secondi. Io voglio cantare, DaDa. Non so se sia la mia vocazione, ma farlo mi piacerebbe. Sai cosa invece non voglio? Sai cosa non voglio proprio, al punto che sarei disposta a rinunciare a qualsiasi cosa per impedirlo?
Far soffrire il mio papà.
- Scusami. – sussurro in un gemito sconnesso, sollevandomi in piedi. Il quadernetto che tenevo in grembo cade per terra, aprendosi in due. La penna che avevo riposto fra le pagine per tenere il segno vola lontano. Mi chino a recuperare entrambe le cose, afferrando lo zainetto posato sulla sedia ed infilando tutto dentro alla rinfusa. Colgo appena un frammento dello sguardo che DaDa mi lancia, ed è un frammento sufficientemente doloroso da convincermi a non guardarlo più. Mi mordo un labbro, correndo verso l’ascensore proprio mentre la segretaria esce dal proprio ufficio e ci informa che Herr Briegmann è pronto a riceverci.
*
Mutti non sapeva di me. Nel senso che non solo non sapeva della mia esistenza, ma non sapeva nemmeno che cinque anni prima che io piombassi anche nella sua vita c’era stata la possibilità che nascessi e Vati aveva provato ad impedirlo pagando mia madre perché abortisse. Quando Vati ricevette la telefonata degli assistenti sociali che lo convocavano per discutere della mia sorte, lui già da qualche giorno sapeva che avrebbe dovuto prendere una decisione. L’avevano avvertito immediatamente dopo la morte di mia madre, prima di portarmi in Germania, lasciandogli un margine di qualche giorno per riflettere senza la spada di Damocle di una bambina che lo guardava da dietro un vetro attendendo di sapere cosa sarebbe stato di lei da quel momento in poi.
Non ho difficoltà a capire per quale motivo Vati non abbia ritenuto opportuno dire a Mutti cosa stava succedendo. Immagino debba essergli costato un grande sforzo, oltretutto, conoscendo il suo amore per la sincerità in tutte le sue manifestazioni. Per dire, il mio Vati non è uno che si consoli dicendosi “non sto mentendo, sto semplicemente omettendo una verità”. Per lui, le cose si equivalgono, e dovrebbe essere per tutti così, perché sarebbe molto meglio se tutti fossero onesti abbastanza da riconoscere che mentire non è soltanto dire qualcosa di falso, ma anche non dire qualcosa di vero. Io, per dire, sarei una persona migliore se… ma non è questo il punto, adesso. Fatto sta che non biasimo il mio Vati perché ha mentito alla mia Mutti nascondendogli la mia esistenza. Era spaventato, e quando hai paura di perdere le persone a te care fai cose pazze. Come mentire, che poi è la cosa più pericolosa da fare in assoluto, ma le bugie ti cullano nell’illusione che, se riesci a tenerle a bada, allora forse riuscirai a non perdere nessuno. Ma sono bugie, e in quanto tali mentono anche quando ti illudono di avere ancora questa possibilità quando invece tutte le menzogne che dici non fanno che allontanarti da tutte le persone che ami.
Fu per questo che Mutti si arrabbiò. Perché arrivò alla villa gialla, aprì con le proprie chiavi e dentro ci trovò un uomo con una bambina, e quest’uomo era il suo uomo ma i suoi occhi erano diversi, e quell’uomo uguale al suo uomo ma con occhi distanti gli presentò questa bambina come propria figlia e gli disse che lei sarebbe rimasta ma lui, se voleva, poteva anche andare.
Immagino che Vati abbia pensato che solo imponendomi avrebbe potuto chiarire fin da subito che intendeva tenermi e che tutto il mondo avrebbe dovuto semplicemente rassegnarsi di fronte a questo fatto. E non posso biasimarlo per questa scelta, ma come non posso biasimare lui non riesco a fare lo stesso neanche con Mutti, che si mise a strillare, strillare, strillare e piangere, piangere, piangere fino a farmi scoppiare la testa. Era la prima volta che lo vedevo e già non volevo vederlo più. Vati, poi, era così preso dal cercare di contrastarlo che sembrò come dimenticarsi totalmente della mia esistenza. Quando Mutti cominciò a prendere Vati a schiaffi, e quando lui prese a rispondere colpo su colpo senza la minima remora, scappai. Avevo paura di uscire fuori di casa, ma non conoscevo la villa e non sapevo dove avrei potuto andare a nascondermi, per cui semplicemente mi lanciai fuori dalla porta e lungo il sentiero che conduceva al cancello, oltrepassai anche quello e cominciai a correre a perdifiato lungo il marciapiedi.
- Ehi! – gridò qualcuno, ed io, preoccupata che Mutti o Vati si fossero accorti della mia assenza e mi fossero venuti dietro, presi a correre più forte, piangendo così tanto che mi faceva male il petto.
Mi fermai solo quando zio Tom piombò su di me, inchiodandomi a terra. Mi sbucciai un ginocchio e piansi ancora di più, lui mi guardò con aria sconcertata e cercò di tirarmi su e tapparmi la bocca contemporaneamente, senza riuscire davvero a fare nessuna delle due cose, peraltro.
- Lasciami, lasciami! – mi lagnai io, strofinandomi gli occhi coi pugni anneriti dallo sporco dell’asfalto. Lui si alzò in piedi e mi prese in braccio, resistendo ai calci che continuavo a sferrargli nello stomaco.
- Ma tu chi diavolo sei? – mi chiese, cercando di tenermi ferme le gambe. Io non risposi, continuando a piangere. – D’accordo, d’accordo, non dirmelo! – sbottò lui, quasi offeso, - Comunque sei uscita da casa di Bushido e sei troppo piccola per andartene in giro da sola. Ti riporto là.
- No! – strepitai io, ricominciando a scalciare, - No, non ci voglio andare! Non ci voglio andare! – strillai, aggrappandomi con forza ai dread biondi che gli scivolavano lungo le spalle.
- AhI! Ahi!!! – gridò a propria volta lui, strabuzzando gli occhi ed afferrandomi da sotto le ascelle per allontanarmi da sé, ottenendo come risultato solo quello di allontanare me assieme ai dread che continuai a stringere nei pugni come se dalla forza che ci avrei messo potesse dipendere la mia vita stessa. – Ferma! – si lamentò lui, stringendomi nuovamente al proprio petto ed utilizzando una mano per sciogliere le mie dita intrecciate attorno ai suoi capelli, - Per carità. Mi spieghi che diavolo è successo?!
- Quella ragazza è entrata e si sono messi a urlare! – cercai di raccontare. Mi faceva male la gola per quanto avevo pianto. Mi bruciavano gli occhi e mi sentivo sporca, stupida e spaventata.
- Ragazza…? – biascicò lui, - Oddio, mio fratello. – sospirò, sollevando gli occhi al cielo. – Ma tu chi sei? – chiese quindi. Io abbassai lo sguardo.
- È mia figlia. – disse Vati, raggiungendoci di corsa. Aveva il fiatone. – Cristo, Lu, scusami. – sospirò avvicinandosi a me e tendendomi le braccia. Io mi strinsi al petto di Tom, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. - …scusami. – ripeté Vati. Quando tornai a guardarlo, erano i suoi occhi a rimanere bassi, fissi sul marciapiedi.
- Mio fratello? – chiese zio Tom. Vati sospirò. Mutti stava camminando per strada strillando come un’aquila. Aveva già sorpassato l’enorme automobile nera dalla quale zio Tom era venuto fuori per inseguirmi, e sembrava bene intenzionato a tornarsene a casa sua a piedi. – Bill, per piacere, fermati. – gli gridò con aria esasperata.
- Vattene a fanculo. – ribatté Mutti, continuando per la propria strada, - Andatevene a fanculo tutti quanti! – ribadì. Piangeva. Zio Tom sospirò ancora, cercando di ridarmi a Vati, ma quando io tornai a stringermi a lui lasciò perdere.
- Ehi, - sussurrò, - senti, se vuoi posso portarti a prendere un gelato, così ti calmi. Ma poi devi tornare qui, perché io devo prendermi cura di quella bella ragazza che hai visto prima, che in realtà non è una bella ragazza ma un bel ragazzo, al più, ed è mio fratello. E sicuramente in questo momento avrà il cuore un po’ incrinato.
Vati distolse lo sguardo, anche se il tono di zio Tom non sembrava quello di un rimprovero.
- Che vuol dire incrinato? – domandai, giocando con la punta di uno dei suoi dread. Zio Tom sorrise appena, lasciandomi fare.
- Che non si è ancora spezzato, però c’è andato vicino. – spiegò dolcemente.
- E tu puoi rimetterlo a posto? – domandai ancora. Lui rise piano, stringendosi nelle spalle.
- Posso provarci. – rispose. E io ricordo distintamente di averlo guardato negli occhi e di aver pensato che se i principi delle fiabe esistevano, dovevano essere esattamente uguali a lui. Con quei capelli, con quel sorriso, con quegli occhi. Principi che riaggiustavano cuori spezzati. E sperai che un giorno, quando sarei stata grande, se si fosse spezzato anche il mio, ad aggiustarlo ci avrebbe pensato lui.
Non posso dire che fu lì che m’innamorai di lui, ma sicuramente fu lui il primo a darmi un motivo per restare, prima chiedendo a Vati se gli dispiaceva che mi portasse un po’ in giro e poi tenendomi con sé fino a tarda sera.
In realtà non mi ha più lasciata andare. Anche dopo che Vati e Mutti furono tornati insieme, quando Mutti mi accettò, quando divenni parte integrante della famiglia, quando diventammo effettivamente una famiglia dove prima c’erano solo due persone che si amavano, zio Tom non smise mai di tenermi con sé. Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo incontrato da quando questa cosa s’è fatta più complicata, lui non mi ha mai lasciata andare.
Mi spezza il cuore dover essere io a lasciarlo andare per prima.
- Non ti aspettavo. – dice sorridendomi e scostandosi dall’uscio per lasciarmi passare, - David è andato via pochi minuti fa.
- …è stato qui. – considero a bassa voce, annusando l’aria. C’è ancora il suo profumo ovunque.
- Già. – ridacchia lui, chiudendo la porta e passandomi un braccio attorno alle spalle mentre mi trae a sé, stringendomi forte. – Era disperato. Non sa come dirlo a tuo padre e a Bill. O meglio, non sa come dirlo a Bill. Tuo padre suppongo che tirerà un sospiro di sollievo e si getterà questa storia alle spalle come tutte le cose brutte che gli sono capitate e che poi si sono risolte e che lui è convinto di aver risolto da sé quando in realtà a risolverle è stato il caso.
Premo le mani contro il suo petto e mi allontano, cercando i suoi occhi per un secondo ed abbassando immediatamente lo sguardo quando mi rendo conto di non poterlo reggere.
- Forse invece stavolta l’ha risolto lui davvero. – mormoro. Sento il suo sguardo incuriosito addosso, lo percepisco mentre si fa via via sempre più consapevole, e quando una delle sue mani mi afferra una spalla, per tenermi ferma, posso in qualche modo prevedere le due dita che, delicatamente, mi costringono a sollevare il mento e tornare a guardarlo.
- Hai mollato David in quel modo facendo saltare l’appuntamento con Briegmann solo perché sai che tuo padre non approva l’idea di farti fare carriera nel mondo dello spettacolo? – mi domanda, e la sua voce è dolce, sebbene venata da una sorta di nervosa preoccupazione che la rende tesa e un po’ indispettita. In qualche modo, riesco a capire che quel fastidio non è rivolto a me, e perciò non lo sento come una minaccia.
- Credo di sì. – ammetto, distogliendo lo sguardo senza riuscire ad abbassare il viso come vorrei solo perché le sue dita pressate contro il mento me lo impediscono. Lui ride un po’ tristemente, allungandosi verso di me per abbracciarmi ancora.
- Sei una ragazzina. – sussurra sulla mia pelle, - Non puoi lasciare che siano gli umori di tuo padre a regolare la tua vita. Altrimenti, - aggiunge con un’altra risata, - mi sa che ti tocca anche lasciarmi, visto che credo che approverebbe anche meno questo che non vederti cantare su un palco.
Faccio uno sforzo e torno a guardarlo. In qualche modo sento di doverglielo, anche se fa così dannatamente male.
- Forse è quello che dovrei fare. – sussurro, la voce rotta da un singhiozzo che non riesco in alcun modo a trattenere. Lui spalanca gli occhi, mentre poggia entrambe le mani ai lati del mio viso, avvicinandosi appena.
- Lu. – comincia, - Lu, non dire stronzate, adesso.
Cerco di abbassare di nuovo lo sguardo ma lui mi tiene immobile, ed allora chiudo gli occhi, strizzando forte le palpebre.
- Scusami. – mormoro.
- Lu, non dire stronzate, adesso! – ripete lui, a voce più alta, ed io chiudo gli occhi con più forza mentre sollevo le mani a coprirmi le orecchie.
- Ti prego. – piagnucolo, ma non so nemmeno per cosa lo sto pregando. Perché mi lasci andare, forse, o forse perché provi in tutti i modi a farmi cambiare idea.
- Non mi pregare. – ribatte lui, stringendo più decisamente la presa sul mio viso, - Non mi pregare, cazzo. Lu, cos’è successo?
- Niente…
- Cos’è successo?!
- Non voglio che stia male!
- Quindi preferisci soffrire tu? Preferisci che stia male io? Preferisci distruggere tutto quello che abbiamo solo perché così non dovrai mentirgli, né spezzargli il cuore dicendogli la verità?! È più importante che lui sia sereno, rispetto alla nostra vita, al nostro futuro, al—
- Tom, è mio padre! – strillo interrompendolo, ed allontanandomi da lui con uno strattone così forte da rischiare quasi di inciampare nella foga con cui indietreggio, - È mio padre, è l’inizio e la fine della mia vita, è la cosa più importante che ho, è il motivo per cui sono qui, è anche il motivo per cui ho te! Come puoi— come puoi non capire?! È mio padre, è lui che mi ha dato la vita.
- Ed è anche lui che te l’avrebbe tolta, se solo tua madre non avesse deciso di tenerti. – dice amaramente lui, ed io trattengo il respiro, indietreggiando ancora.
- Sì, forse. – annuisco cercando a tentoni la maniglia della porta, - Ma non è andata così. Io sono viva e lui ha già fatto ammenda per quello. Sono— sono dieci anni che fa ammenda per quello, Tom. – insisto, incapace di trattenere le lacrime, – Spero solo che non mi tocchi fare ammenda per un periodo altrettanto lungo per tutte le bugie che gli ho detto.
Di lui non resta che una macchia chiara sfocata davanti ai miei occhi.
Quando chiudo la porta, neanche quella.
*
Dopo quella scenata, le urla e i pianti isterici e i vaffanculo urlati per strada come in uno sceneggiato italiano, non rividi Mutti per molto tempo. Da un certo punto di vista fu un bene, perché in quel modo io e Vati riuscimmo a cominciare a conoscerci, ci ritagliammo i nostri spazi e poi li incollammo nuovamente insieme come in un collage, facendo in modo che coincidessero. Non è mai semplice quando devi cambiare le abitudini di una vita intera per far spazio alle abitudini di qualcun altro, soprattutto quando per certi versi questo cambiamento ti viene imposto, ma noi, devo dirlo, ce la cavammo alla grande. Mentre Vati prendeva confidenza con lo svegliarsi solo nella propria camera e venire a controllare che stessi ancora dormendo nel mio lettino nella stanza accanto, invece che svegliarsi accanto a Mutti e passare il resto della mattinata con lui prima di dover uscire per lavoro, io mi abituavo a tutte le differenze che c’erano fra la mia vecchia casa e quella nuova, il mio vecchio letto e quello nuovo, la mia vecchia vita e quella nuova. Non c’era più una mamma ma c’era un papà. Non c’erano più abbracci dal profumo dolce, ma c’erano strette forti dall’odore penetrante che mi rimaneva attaccato alla pelle, ai vestiti, ai capelli. Non c’era più la voce sottile e rassicurante che mi cantava le ninne nanne per conciliarmi il sonno, ma ce n’era un’altra, più profonda e intensa, quasi ipnotica, che mi riempiva la testa di fiabe con principesse guerriere, sovrani armati, draghi coi manganelli e castelli del ghetto, catapultandomi in sonni sempre ricchi di sogni che adoravo disegnare quando mi svegliavo, se erano rimasti abbastanza impressi.
Mutti non si fece mai vedere. Passarono delle settimane prima che si presentasse. Ogni tanto, lui e Vati parlavano al telefono, ma finivano sempre con l’urlarsi addosso. Urlavano così tanto che sentivo la voce di Vati anche se in quel momento mi trovavo in un’altra stanza, e se per caso invece quando accadeva ero proprio lì accanto a lui non di rado mi capitava di sentire strillare Mutti nonostante il telefono. Era un rumorino acuto e torrenziale, aspro e incattivito. Quando lo sentivo, non potevo fare a meno di ricordare la sua faccia stravolta dalle urla e dal pianto la prima volta che l’avevo visto. Scappavo sempre in camera, ogni volta che ci ripensavo. E poi chiedevo a Vati di chiamare lo zio Tom per farmi portare fuori a prendere un gelato.
Per quasi un mese, la mia mente si prese la libertà di rielaborare l’immagine di Mutti che aveva a disposizione – quella di un ragazzino addolorato e frustrato, in sostanza – e trasformarla in qualcosa di spaventoso, qualcosa di quasi fiabesco, una strega cattiva dai capelli irti e neri, dai denti aguzzi e dagli occhi iniettati di sangue, qualcosa che non avrebbe sfigurato in nessuna delle storie che Vati mi raccontava prima di spegnere la luce ed augurarmi la buonanotte. Qualcosa di molto cattivo, ma anche molto epico.
Per questo, fu quasi una delusione quando lo rividi. Si presentò in un pomeriggio piuttosto caldo e piacevole. Credo che Vati volesse portarmi al parco, perché ero vestita di tutto punto e lui stava cercando di convincermi che non era il caso di portare con me la bambola di porcellana che nonna Luise mi aveva regalato un paio di giorni prima e dalla quale io non avevo la benché minima intenzione di separarmi. Suonarono al campanello, Karima andò ad aprire ed eccolo là. C’era anche zio Tom, con lui, cosa che in qualche modo forse ridimensionò la sua apparizione nella mia testa, perché ricordo distintamente di averlo visto molto piccolo e indifeso, quel pomeriggio. L’immagine che mi dava era così lontana da quella che avevo immaginato per tutto quel tempo.
- Bill. – lo chiamò Vati. Era così incredulo che la sua faccia era quasi comica. – Cosa ci fai qui? – chiese. Mutti lo sferzò con un’occhiataccia infastidita.
- Non sono venuto per parlare con te. – scoccò superbo, - …non ancora, almeno. – sospirò, voltandosi verso di me e chinandosi sulle ginocchia per potermi guardare negli occhi. – Tu sei Luise Maria, vero? – chiese con aria un po’ timida, stringendosi nelle spalle. Era così magro, sembrava un ragazzino. Portava i capelli raccolti in una coda bassa che spioveva sulla sua spalla, solleticandogli il collo. Provai immediatamente il desiderio di toccarla. C’era qualcosa, in lui, che mi ricordava Tom. Potrei dire che fosse il profumo, ma fraintendereste. Non sto parlando dell’odore della pelle, ma di qualcosa di più profondo, quel qualcosa che ti avvolge quando sei di fronte a qualcuno, e che è capace di farti sentire a tuo agio o, al contrario, completamente fuori posto. Lui e Tom ce l’avevano, ce l’avevano uguale. Fu quella la prima volta che notai quanto si somigliassero. Annuii, nascondendomi per quanto potevo dietro la bambola di porcellana, che era alta quasi quanto me. Mutti sorrise, e quello fu un sorriso così bello che la bambola quasi mi scivolò via dalle braccia. – Vuoi uscire a prendere un gelato con me e Tomi? Mi piacerebbe parlarti un po’.
Annuii, tendendo le braccia verso zio Tom perché fosse lui a prendermi in braccio.
- La bambola… - dissi, non sapendo dove metterla. La sua generale enormità ci ingombrava.
- Lasciala qui, - suggerì Vati, - così non si rompe.
- Posso prenderla io, se vuoi. – mi sorrise ancora Mutti. Io considerai le opzioni per un po’. Volevo davvero portare quella bambola con me. Finii per lasciarla a lui, che la tenne in braccio esattamente come zio Tom stava tenendo in braccio me, per tutto il tempo.
Andammo al parco. Comprammo il gelato. Ci sedemmo su una panchina. Zio Tom si rifugiò nell’angolo più lontano, come gli desse fastidio la sola idea di intromettersi in quello che aveva tutta l’aria di voler essere un discorso molto privato. Appena ci fummo seduti, dopo aver finito il gelato, Mutti mi ridiede la bambola e lasciò che me la sistemassi in grembo.
- Tuo padre, sai, è un cretino. – mi disse quindi. Io lo guardai. Ero ancora arrabbiata perché lui aveva insistito tanto per cercare di impedirmi di portare la mia bambola con me. Annuii vigorosamente, e Mutti rise divertito. – Sai cosa? – disse quindi, - Se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima, e molto più facilmente.
Quella fu la prima volta che mi raccontò tutta la storia, quella che ormai da mesi sto cercando di mettere per iscritto su questo quadernetto per capire se c’è un punto al quale posso ritornare per rimettere a posto le cose. Per smettere di mentire. Per dire a tutti che sono innamorata, che non l’ho chiesto io, che è semplicemente successo e non posso farci niente se è andata così.
Ma immagino che a questo punto non mi serva più.
L’autobus si ferma a due passi da casa. Metto a posto il quaderno nello zainetto e medito di buttarlo via, più tardi. Potrei anche organizzare qualcosa di simbolico. Potrei bruciarlo, o seppellirlo. Gettarlo nel cestino della carta straccia sembra un po’ troppo poco per riuscire a cancellare dalla mia memoria quello che c’è scritto dentro, e anche tutto quello che non c’è scritto ma che scrivendo m’è venuto da pensare.
Pioviggina. Fa freschetto, ma è un bel tempo. Uggioso e malinconico. L’aria non è grigia, ma azzurrognola. Il sole è appena tramontato. Sono stanca perché sono fuori da stamattina, e mi sembra di aver buttato via una giornata intera. Una carriera, una vita, una storia d’amore.
Mi sento patetica quando, oltrepassando il cancello di casa, vedo Mutti steso sul dondolo sotto il porticato e, al solo posargli gli occhi addosso, mi metto a piangere. Lui si tira su, sollevandosi sulle braccia per mettersi a sedere non appena mi scorge.
- Lu? – mi chiama piano, eppure la sua voce sottile mi rimbomba nelle orecchie. Stringo i pugni lungo i fianchi e, quando sento il peso delle lacrime gonfiarsi nel petto, lo lascio andare tutto assieme con un singhiozzo stremato, lanciandomi verso di lui ed accucciandomi contro il suo petto quando mi stringe fra le braccia, accarezzandomi lentamente i capelli e sussurrandomi all’orecchio parole dolcissime per tranquillizzarmi. – Tesoro, cosa è successo? – mi domanda, baciandomi sulla fronte e sulle tempie, - David è stato qui, un paio d’ore fa. Eravamo così in pensiero per te.
- Sono una stupida… - mormoro fra i singhiozzi, nascondendo il viso fra le pieghe dell’ampia maglia che indossa, - Mi dispiace così tanto, Mutti…
- Calmati, adesso. – sorride lui, senza smettere di accarezzarmi neanche per un secondo, - Smetti di piangere e raccontami cos’è successo.
- Mi sono rifiutata di parlare con Briegmann… - comincio, restando nascosta contro di lui.
- Non vuoi cantare? – mi chiede lui, cullandomi fra le proprie braccia, - Credevo ti piacesse.
- Mi piace! – mi affretto a rispondere, - Mi piace, ma non lo so se è quello che voglio, e comunque non è quello il punto, Mutti, è che… - inspiro in un singhiozzo stremato, - ho una grande confusione in testa… Mutti, sono innamorata…
- Cosa…? – chiede lui, agitandosi immediatamente. Prova a mettersi seduto, ma visto che io non accenno a spostarmi e non glielo lascio fare si limita a stringermi il viso fra le mani, obbligandomi a guardarlo. – Perché non me l’hai detto, tesoro? Chi è?
- Non— non potevo. – singhiozzo, cercando di nascondermi un’altra volta contro il suo petto ma trovando la resistenza decisa della sua stretta ancora forte sui miei zigomi, - È… è successo tanto tempo fa, va avanti da un po’, io… mi vergognavo così tanto…
- Perché avresti dovuto? – insiste Mutti, e i suoi occhi sono pieni di dolore. Mi stringono il cuore. – Tesoro, tieni sempre a mente che per quanto complicata possa essere una situazione in cui ti cacci, io e tuo padre siamo qui per aiutarti. Anche per indirizzarti in quei momenti in cui ti sembra di non avere nessuna scelta. Ce l’hai sempre, una scelta, solo che a volte non riesci a vederla.
- Questa volta no. – mugolo, socchiudendo gli occhi per sottrarmi al suo sguardo così profondo e dolce, - Questa volta non ne avevo proprio una.
- Perché dici così? – mi chiede Mutti, e la sfumatura addolorata che prima era solo nei suoi occhi si è trasferita anche nella sua voce, che s’incrina appena. Non vorrei deluderlo così. Odio fargli questo. Odio questo momento e odio essere innamorata e odio non riuscire a smettere di pensare a quanto amo Tom e odio essere qui, piangere, stare così male e singhiozzare fino a sentirmi rimbombare nella testa i battiti del mio stesso cuore.
- Perché è innamorata di tuo fratello. – dice Vati. La sua voce è gelida, e ci paralizza entrambi. I miei occhi si spalancano all’improvviso su quelli di Mutti, che non stanno più guardando me, ma un punto oltre la mia spalla. La sua presa si fa più morbida e io ne scivolo via come tanti anni prima la bambola di nonna Luise è scivolata via dalle mie braccia.
Se non cado per terra, se non mi rompo in mille pezzi, è solo perché mentre scivolo un paio di braccia forti si chiudono attorno a me e mi sostengono, esattamente come hanno fatto le mie con quella bambola in quel pomeriggio estivo che nell’aria cupa di questa sera che odora di pioggia sembra così insopportabilmente lontano.
Il profumo di Vati mi avvolge all’improvviso. Oltre la sua spalla, vedo zio Tom appoggiato allo stipite della porta. Ci guarda e ha gli occhi grandi e rossi e lucidi. Sembra improvvisamente molto più giovane di quanto non sia, mi ricorda il ragazzino che mi è corso dietro quando l’unica cosa che volevo era scappare il più lontano possibile da questa casa.
Non ho mai smesso di scappare, da allora. Forse ho smesso di correre, ma di scappare, di nascondermi… non ho mai smesso di farlo.
- Mi dispiace. – sussurro senza fiato, stringendo le mani attorno al tessuto della sua maglietta. Mutti, ancora seduto sul dondolo accanto a noi, ha gli occhi spalancati e pieni di lacrime ed una mano premuta sulla bocca.
- Dispiace anche a me. – sussurra Vati, stringendomi così forte da darmi l’impressione di volermi nascondere dentro il suo stesso corpo. Al caldo, al sicuro, dove niente potrà ferirmi. – Mi dispiace che tu non me ne abbia parlato. Mi dispiace che tu mi abbia mentito così a lungo. Mi dispiace che, spinta dal senso di colpa, tu abbia incasinato ancora di più la situazione, facendo soffrire David, facendo soffrire Tom e facendo soffrire alla fine anche noi. Ma più di ogni altra cosa… - si allontana, accarezzandomi una guancia con due dita e poi appoggiando la fronte alla mia, chiudendo immediatamente gli occhi mentre io lo imito, fingendo che non esista nient’altro al mondo oltre al battito sincronizzato dei nostri cuori, - più di ogni altra cosa mi dispiace che tu abbia potuto pensare che sarei stato più felice sapendoti triste perché ti eri privata di qualcosa che amavi solo per farmi contento.
Mi si spezza il respiro in un singhiozzo sollevato, mentre sulle mie labbra si fa strada un sorriso più sereno. Mutti piange silenziosamente, allungando una mano ad accarezzarmi i capelli. Vati torna ad abbracciarmi stretta, ed io vorrei soltanto che zio Tom potesse avvicinarsi solo un po’, perché mi basterebbe sentire addosso il tepore del suo corpo per rendere questo momento finalmente perfetto.
Allungo un braccio alla mia destra, cercandolo nell’aria umida della sera. Le sue dita si intrecciano con le mie quasi subito. Sono tiepide e ruvide e sue. Quest’unione, invece, è nostra. Di tutti noi.
- Non so se voglio tornarci, da Briegmann. – confesso in un sospiro, - Forse non è cantare, quello che voglio.
- Qualunque cosa tu voglia, - sospira Vati, dondolandomi un po’ prima di lasciarmi andare, - a me andrà bene. – poi si ferma e riflette. – Cioè, non qualunque. Faremo una lista. Più tardi. – si corregge, annuendo a se stesso. Io sorrido, e sorride zio Tom, e sorride Mutti, e sta sorridendo anche Vati. Mi chino a recuperare lo zainetto che ho abbandonato per terra quando sono arrivata, rovisto al suo interno e ne tiro fuori il quadernetto gonfio della nostra storia. Lo porgo a Mutti, che lo prende a lo guarda da ogni lato prima di aprirlo e leggerne le prime frasi, per poi lanciarmi un’occhiata grande e gonfia di pianto.
- Forse è questo quello che voglio fare. – sorrido, - Ti piacerebbe leggerlo?
Mutti si stringe il quaderno al petto. Poi fa lo stesso con me.
Mentre rientriamo in casa, con la voce di Vati che continua a borbottare di quel famoso elenco che dovremo comunque assolutamente redigere, faccio in tempo a chiedermi se ho un quadernetto ancora nuovo, in camera. Il seguito voglio cominciare a scriverlo da stasera stessa.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Romantico, (vagamente) Drammatico (?).
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, OMC/Fler, (vago) Bill/Chakuza.
Rating: R
AVVISI: Slash, OC.
- "Non sono un cazzo di sbirro. [...] Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!"
Note: Vi chiedo perdono per questa shot perché è folle, parte da un presupposto folle ed è follemente lunga X'D Però io mi sono divertita troppo a scriverla, è una cosa completamente diversa da quello che abbiamo visto recentemente nella Saga, una sorta di "ritorno alle origini", ma più lol. Ormai abbiamo capito che, almeno per questo spicchio di storie, la parola d'ordine del ghettodrama più amato dagli italiani (?) è: ridi e fai ridere. Speriamo di riuscirci. Also: alta concentrazione di Danny fra queste pagine XD (E' un avviso? Avrei dovuto metterlo fra i warning? Mah.)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DER CHEF

Io purtroppo non ho avuto il tempo fisiologico di abituarmi a Daniel.
Se Fler me l’avesse presentato nella giusta maniera – poco a poco, intendo, dandomi modo di capire esattamente di cosa si trattava e tutto il resto – probabilmente non proverei per lui tutto questo fastidio insopportabile. Magari sì, ok, mi farebbe rabbia l’idea di averlo ancora fra i piedi – e chi ci pensava, due anni fa, in quel vicolo, a Tempelhof? – però potrei tollerarlo, ecco.
E invece no.
Daniel per me era una cosa dispersa nella memoria di una notte da incubo, e poi è diventato d’improvviso “quello che era stato con Fler mentre io ero via”. E lo è diventato di botto, senza preavviso. E non è bastato neanche che Fler lo lasciasse, come mi ha poi confessato di aver fatto dopo la famosa cena in casa di Sido alla quale tutt’oggi non sono certo di essere sopravvissuto, no: Daniel è rimasto fuori dai piedi per qualche giorno, probabilmente rintanato a casa sua ad ascoltare i Cure o qualche altra variante sul tema e leccarsi le ferite, da bravo adolescente deluso e incazzato col mondo, e dopodiché, come nulla fosse successo, è tornato. Ha ricominciato a ronzare attorno a Fler, peraltro senza nascondere minimamente né l’astio che prova nei miei confronti – perché per lui è evidente che se Fler l’ha lasciato è stato per colpa mia, non perché era stufo di cambiargli i pannolini e nutrirlo col biberon otto volte al giorno – né tantomeno il suo essere ancora interessato all’uomo che al momento tra le altre cose oltre a non volerlo più sta con me. E non c’è stato verso di convincerlo a piantarla.
Da quel momento in poi, non ricordo un giorno in cui Daniel non ci sia stato tra i piedi o non sia stato fonte di inenarrabili guai. L’ultima volta, Fler ha fatto irruzione in casa mia tipo alle quattro del mattino, spingendo in avanti questa specie di cencio semovente che si è poi rivelato essere, appunto, Daniel avvolto in una felpa grande il doppio di lui e allegramente imbrattata di sangue. Al mio sguardo allucinato, sconvolto, stordito e pure un po’ assonnato, la risposta è stata “l’hanno inseguito con le spranghe, Chaku, non potevo lasciarlo lì nell’angolo dove l’ho trovato”. Al che, giustamente, io mi sono pure chiesto punto primo: che diavolo ci faceva Fler in giro per Tempelhof a quell’ora?, e punto secondo: spranghe?!, ma chiaramente non potevo mettermi lì a lamentarmi mentre il dannato moccioso perdeva sangue sullo zerbino.
E con Daniel è sempre così, peraltro. È sempre un ripetersi di “andiamo, Chakuza, non vorrai mica fregartene e lasciarlo sulla porta?”. Quando Fler pronuncia il mio nome a quel modo so sempre che, in caso di risposta affermativa – e Dio sa se ogni tanto non vorrei sbottare “sì, Fler, proprio lì sulla porta” – partirà una rappresaglia dalla quale difficilmente verrò fuori illeso. Perciò sono cose che cerco di evitare. Fler sa essere dannatamente convincente, quando vuole. Inoltre, effettivamente, il moccioso si presenta solo quando è davvero malconcio, ecco.
Il dramma è che gli capita anche troppo spesso.
Fino a due minuti fa io e Fler stavamo discutendo le possibilità della giornata. Visto che non è ancora nemmeno mezzogiorno, stavo cominciando a pianificare di andare a fare la spesa, cucinare qualcosa da mangiare e poi, non so, chiuderci in camera da letto fino a domattina anche se fuori c’è un bel sole e tira un bel venticello fresco – chissenefrega, insomma – e Fler stava giusto protestando in quel modo tipico di lui in cui continua a ripetere “no” intendendo “sì”, e quindi io ero pieno di buone speranze. E poi lo stupido campanello s’è messo a trillare.
Ovviamente io stavo illustrando a Fler il programma nel modo più pratico possibile – che poi è il motivo per cui continuava a dire “no”… ha dei problemi quando gli metto le mani addosso al mattino, dice sempre cose assurde tipo “dammi il tempo di svegliarmi”… non è necessario che sia proprio sveglio, mi piace quando è ancora semi-incosciente, fa dei bei suoni – comunque, in sostanza stavo cercando la via per la felicità e Fler invece non stava cercando che un pretesto per fermarmi, e lo stupido campanello è arrivato come una cazzo di ciliegina sulla cazzo di torta. Proprio a fagiolo, veramente.
Fler è corso ad aprire la porta scivolandomi dalle mani ed ora eccoci qua, inorriditi, che fissiamo questo mucchietto d’ossa pesto e livido che ci guarda oltre la soglia della porta. Sento Fler teso come una corda di violino, al mio fianco.
- Ciao. – borbotta Daniel, sollevando lentamente una mano per salutarci. Il braccio si ferma a metà. - …deve avermi slogato una spalla, stavolta.
Faccio per sbottare in un “Daniel!” che non so nemmeno cosa voglia dire – perché a un ragazzino così conciato, cosa gli dici? Davvero… - ma Fler mi anticipa, e la sua voce risuona secca e agitata per tutto l’appartamento.
- Daniel, Cristo! – lo richiama, avvicinandoglisi e sporgendosi a controllarlo da tutti i lati, - Ma che cazzo è successo? Sono stati di nuovo quei-
- No. – lo ferma lui, abbassando lo sguardo. Gli occhi azzurri si annebbiano appena, mentre si inumidisce incerto le labbra, - …mio padre. – confessa alla fine, sospirando pesantemente.
Fler si fa di ghiaccio per un secondo. Poi si allontana, tira un’imprecazione irripetibile e molla un calcio sconvolgente alla poltrona. Io lo fisso, allucinato, e Daniel continua a tenere gli occhi bassi, come si vergognasse.
- Fler…?
- Porca puttana! – urla ancora, afferrando un soprammobile a caso e gettandolo per terra. Quello rimbalza e s’infila sotto il divano con un suono sordo. – Fanculo a questa merda! – grida. Poi si ferma ancora, ed io riprendo a respirare.
- Pat. – lo chiamo a bassa voce. Lui solleva una mano.
- Un secondo, Chaku. – mi ferma, forzando un tono tranquillo nella voce. Io annuisco e lo aspetto. Vedo la tensione accumularsi nei muscoli delle sue spalle, sotto la maglietta leggera, ed i tendini tirarsi e scattare a chiudere e riaprire il pugno, come a cercare di scaricare la rabbia. – Daniel, entra.
Il ragazzino annuisce, fa un passo e casca. Allungo le braccia appena in tempo per recuperarlo, prima che si schianti contro il pavimento.
- Cristo… - borbotto, cercando di tenerlo dritto. Fler è ancora lì immobile e sospetto che, se si muovesse, tremerebbe il pavimento.
- Ce la fai? – mi chiede, la voce che trema. Io annuisco e lo porto verso il divano, dove cerco di stenderlo senza fargli male.
Ci inginocchiamo lì accanto e restiamo in attesa che si muova. Che è sveglio lo capiamo subito, perché apre le palpebre e ci guarda come volesse trovarsi da tutt’altra parte. Come volesse scusarsi. C’ha le scuse piantate negli occhi, questo ragazzino. Chiede perdono sempre, anche quando non fa niente. È una cosa che si vede solo quando lo si frequenta da un po’, perché la nasconde bene. Ora, io non è che lo frequenti da una vita, ma qualche settimana da quando gli ho posato gli occhi addosso è passata, ormai, perciò posso parlare con una certa cognizione di causa.
Comunque non si muove per un sacco di tempo. Solo dopo un bel po’ di minuti solleva un braccio lievemente meno malconcio per strofinarsi gli occhi.
- Mi ha pestato per bene, - dice poco dopo, un sorriso sghembo a deformare i tratti ancora infantili del viso, - ha scoperto la roba e ha dato di matto.
- Non c’entra un cazzo la droga. – trema Fler al mio fianco, - Quello dà di matto un po’ troppo, per i miei gusti. – si china su di lui e gli ravvia i capelli sulla fronte. C’è un taglio enorme proprio nel centro, sembra che gli abbiano tirato una cazzo di bottigliata. Mi dà i brividi. – Danny, io ne ho prese a pacchi, di legnate. Ma tu ne prendi il doppio, cazzo. Sei… guardati. – e sfiora appena il profilo dello zigomo violaceo e tumefatto. Deglutisco.
- …vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. – mugugno alzandomi in piedi.
Fler asserisce senza nemmeno guardarmi, continuando a misurare i lividi sul suo viso, sul collo, sulle braccia.
- Ce la fai a sfilarti la maglia? – lo sento chiedere mentre, in bagno, recupero la valigetta.
Daniel dice che sì, certo che ce la fa, ma appena Fler prova a fargliela passare su per la testa comincia a lamentarsi in una maniera straziante.
- Fler… - lo chiamo avvicinandomi, la cassetta stretta in pugno, - Gliela tagliamo via, la maglietta? Così non-
- Ce la faccio. – ansima Daniel, liberandosi lentamente dell’ingombro di abiti, - Ce la… Cristo che male.
Il petto, il ventre e i fianchi sono una mappa di escoriazioni e lividi. Macchie rosse, giallastre e viola ovunque. Fler le fissa inorridito, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, ed io, credo, per la prima volta realizzo pienamente quanto schifo faccia la vita di questo ragazzino. Fler ha provato almeno una cinquantina di volte a dirgli per lo meno di piantarla di spacciare, che può dargli una mano lui, ma ogni volta Daniel gli ha risposto bruscamente di farsi i fatti suoi. È in questi piccoli dettagli che si vede quanto piccolo sia ancora, quanto disperatamente voglia che Fler si prenda cura di lui e al contempo quanto senta il bisogno di dimostrargli che ce la fa benissimo da solo.
- Cristo santo. – dice Fler, ed è appena un sussurro la voce non sembra neanche sua, tant’è debole e sconvolta.
Daniel deglutisce.
- …non guardarmi così. – chiede in una preghiera senza inflessioni. Lui e Fler si guardano a lungo, probabilmente si stanno anche dicendo qualcosa. Discretamente, senza parlare. Poi Fler si alza in piedi, facendo leva sul divano con entrambe le mani, come non avesse la forza di sollevarsi senza aiuto.
- Chaku. – mi chiama, tirandomi appena per la manica, - Posso parlarti di là un secondo?
Annuisco e mi sollevo, molleggiando un po’ sulle gambe. Guardo Daniel e lui mi fa cenno di andare senza neanche aspettare che gli chieda se possiamo lasciarlo qui da solo.
Fler mi anticipa in camera da letto muovendosi velocemente. Non ce la fa a restare in quella stanza, l’ho capito. Appena ci chiudiamo la porta alle spalle capisco subito che, se avesse qualcosa in mano, la stritolerebbe fino a distruggerla. Mi allungo a sfiorargli la spalla e lo sento tesissimo, un fascio di nervi sotto le dita.
- Pat, dai…
- Sono fuori di me, Chaku. – dice tutto d’un fiato, afferrando la mano e stringendola fra le sue, - Lo ammazzo, quel figlio di puttana. Lo ammazzo, Cristo.
So che ne sarebbe capace.
Mi avvicino, cerco di essere paziente anche se odio questa situazione ed odio le attenzioni di Fler nei confronti di Daniel.
Non so che dire, quindi mi limito a lasciar scorrere la mano libera lungo il suo braccio e poi stringerlo per una spalla, tirandomelo contro. Fler mi sfiora il collo col naso, una volta, due volte. Aspetto in silenzio e poi lo sento inspirare, ed allora mi rilasso: lo percepisco fare avanti e indietro lentamente, da sotto l’orecchio alla spalla, respirando piano, profondamente. Ogni tanto gli basta questo, il mio odore lo calma. Continuo a tenerlo stretto.
- Possiamo tenerlo un po’ qui? – mi chiede, proprio contro la pelle. Ed è un po’ buffo che me lo chieda, perché teoricamente lui sta ancora a casa sua. Ha un appartamento, a qualche isolato da qui, e ogni tanto ci dorme ancora. Però, invece di dirmi “lo porto a casa con me”, mi chiede se possiamo tenerlo qua.
- Non lo so, Pat. – lui mi lascia andare la mano e stringe appena le dita contro i miei fianchi. Resta lì per un po’, indeciso. Poi si rassegna e mi abbraccia. Io gli respiro addosso e lo stringo per le spalle. Siamo così vicini che non riesco a capire dove finisco io e dove comincia lui. Siamo intrecciati. – Ti sembra il caso?
- Non ce lo rimando, da quello. Lo ammazza, se continua così. – ripenso al torace stretto e magro di Daniel, tutti quei lividi, le ferite. È vero che finirà male, se non facciamo qualcosa. Ed è vero che, nonostante tutto, non voglio che finisca male. Perdio, è solo un ragazzino.
- Possiamo vedere di chiedere a Bushido se-
- Non c’entra un cazzo Bushido con questa storia! – mi ringhia addosso lui, stringendo la presa attorno alla mia vita, - Daniel è una cosa che non gli compete. Non è affare di nessuno.
Aggrotto le sopracciglia e provo l’irrefrenabile e improvviso desiderio di devastare qualcosa. Solo che l’unica cosa che posso toccare adesso è Fler e non ho alcuna intenzione di devastare lui – è già successo, so che non mi piace. So che non posso e non voglio farglielo – perciò mi trattengo, mi limito a stringerlo più forte.
- …va bene. – annuisco, - Okay, lo teniamo.
Lui si allontana un po’ e mi guarda. Ha gli occhi incredibilmente liquidi. Non credo riuscirò mai a capire davvero cosa leghi tanto Fler a questo ragazzino. Forse dipende dal fatto che ci sono ancora miriadi di cose che non so, sul suo conto. Su Fler, dico. Mi mancano dei tasselli enormi. Interi pezzi della sua vita. Forse, se li conoscessi, capirei. Ma ho sempre paura di capire troppo di lui. Non saprei quando fermarmi, me ne accorgerei in ritardo. Questa cosa che abbiamo ha rischiato di distruggersi troppo spesso perché io possa concedermi errori di questo tipo.
Si sporge a baciarmi ed io me lo tiro contro, baciandolo ed affondando dentro di lui perché adesso voglio sentire il suo sapore e voglio che sia quello a ricordarmi che è mio e non andrà da nessuna parte, Daniel o non Daniel. Fler mi lascia fare e risponde carezza su carezza; ora è lui che deve tranquillizzarmi. E lo fa.
- Grazie. – sussurra appena ci separiamo, - Lo sai che non succederà niente, vero? – e mi sfiora appena con la punta del naso.
- No? Davvero? – chiedo sarcastico, inarcando un sopracciglio.
- Davvero. – annuisce sicuro lui, - Io ti—
-Ok. – lo fermo, baciandolo prima che possa dirlo. Lo fermo perché odio che lo dica adesso, visto che lo fa come fosse un ringraziamento. E lo fermo perché io non gliel’ho ancora detto, mentre lui l’ha già fatto in svariati modi non so quante volte, non solo a parole, come ogni tanto gli è capitato in quest’ultimo periodo, ma anche con i fatti. Rispondere ad una cosa del genere è un problema, quando associato a quelle parole, per abitudine o per altro, c’è un altro volto, un altro sapore, un altro odore. – Ti credo. Non succederà niente.
Fler mi guarda e sembra un po’ deluso dal fatto che non gliel’abbia lasciato dire. Mi innervosisco perché così sembra volesse usarlo per ripulirsi la coscienza. So che non è veramente così, intendo, cazzo, so che quando lo dice lo pensa. Lo so che è vero. Sono ormai più di due anni che me lo dimostra, ogni giorno in cui torna, ogni volta che si fa toccare ed ogni volta che non mi manda a fanculo anche quando me lo merito ampiamente. Il problema non è quello.
Sono nervoso. C’è Daniel ricoperto di lividi di là ed ho appena accettato di tenerlo in casa per non so nemmeno quanto, e Fler sembra intenzionato a non togliergli le mani di dosso finché campa. In senso platonico o meno, mi scazza comunque.
È che Fler è una bella persona. Finisce per avere rapporti speciali con tutti. Non lo so. Non mi piace che… vorrei che non fosse così, ecco. Non so neanche se quello che penso ha un senso.
Quando torniamo di là, Fler mi sta ancora stringendo la mano – è successo quando abbiamo sciolto l’abbraccio, io ho lasciato scivolare la mano lungo il fianco e lui ha intrecciato naturalmente le dita con le mie, e là sono rimaste, senza un perché. Daniel lo troviamo impegnatissimo a sistemarsi da sé. S’è già bendato la testa ed ha spiaccicato cerotti e pomate un po’ ovunque. Nel momento in cui entriamo nella stanza, lo troviamo intento a coprire con un cerotto enorme un taglio sul mento. Si volta a guardarci, individua le mani strette e per un secondo io rafforzo la presa attorno alle dita di Fler. Poi non posso fare a meno di sentirmi in colpa – ed anche stupido: faccio il gradasso con un ragazzino, Dio mio – e lo lascio andare. Patrick non s’è accorto di niente perché sta guardando fisso il corpicino martoriato, facendo la conta dei danni.
- Lascia fare, ragazzino. – borbotta sedendosi al suo fianco e controllando la fasciatura attorno alle tempie. È troppo lenta. – Chaku… - mi chiama, ed io sospiro e mi avvicino, sciogliendo le garze per sistemargliele meglio ed andando alla ricerca di una retina da mettergli come cuffia, per tenerle ferme. Nel mentre, Patrick controlla i cerotti e asciuga gli sbuffi di pomata in eccesso con una pezzuola un po’ umida. La scena è surreale. Daniel resta immobile, arreso nelle nostre mani, per tutto il tempo.
Quando finiamo, sono ancora quasi convinto che il moccioso dovrebbe andare all’ospedale, ma sono anche ragionevolmente certo che, pur non andandoci, sopravvivrà; perciò sono soddisfatto così e non mi metto a fare storie. Anche perché so che ora arriverà la parte peggiore della giornata e voglio riservarmi di ringhiare per dopo.
- Danny, io e Chakuza abbiamo parlato e siamo d’accordo sul fatto che puoi restare qui, per un po’. – lo avverte lui, sfiorandogli un braccio, - Almeno fino a quando non ti troviamo un altro posto in cui andare. Comunque tu in quel posto di merda non ci torni.
- …ho una consegna a—
- No. – scuote il capo Fler, - Non hai capito. Te ne tiri fuori. Molli.
Il ragazzino digrigna i denti e si muove sul divano, agitato.
- Devo almeno andare ad avvertire i—
- No, cazzo, Daniel! – urla lui, battendo una mano contro il bracciolo del divano, - Cosa pensi, che queste cose si mollino salutando cordialmente quelli che ti hanno pestato e sfruttato negli anni? Credi che io sia andato casa per casa a porgere scuse e omaggi, quando Sido mi ha tirato fuori da quel merdaio? Cazzo! Te ne vai senza guardarti indietro, o non te ne andrai mai davvero.
Daniel incassa la testa nelle spalle e guarda per terra. Io resto qui in piedi e Fler resta lì seduto a guardarlo severamente, per una lunghissima serie di minuti che si conclude solo quando lo sento sospirare e passargli una carezza affettuosa sulla retina che ha sulla testa. Un gesto lento e tranquillo, per evitare di scombinarla.
- Riposati. – gli dice, adesso più dolcemente, - Io vado a casa tua a prendere la tua roba. Tornerò in un paio d’ore.
Ho appena il tempo di farmi passare per la mente la possibilità di restare da solo con Daniel, che lui subito la manda a puttane. Solleva una mano e la stringe attorno alla maglietta di Fler, tirando il tessuto leggero fino a deformare la scollatura.
- Resta qui. – dice a bassa voce, senza dimostrare di accorgersi della mia presenza, - Per favore.
Fler serra la mascella e lo guarda. Io stringo i pugni e guardo lui. Così intercetto l’occhiata che mi lancia ed ho tutto il tempo di cominciare ad incazzarmi furiosamente prima che esprima ad alta voce quello che già so mi dirà.
- Chaku, puoi—
- E va bene, Cristo! Va bene! – sbraito, agitando un braccio e dirigendomi a passi svelti verso l’ingresso, passando a strappare letteralmente la giacca dall’appendiabiti, - Fanculo.
Fler mi viene dietro due secondi dopo. Mi ferma sulla porta afferrandomi per le spalle e riportandomi indietro prima che imbocchi le scale.
- Aspetta, Chaku, non sai neanche dove andare… - mi ricorda, guardandomi con aria platealmente colpevole. Se spera che questo smorzi l’incazzatura, è del tutto fuori strada. Comunque ha ragione, non saprei dove andare a sbattere la testa, perciò resto lì zitto e buono a immagazzinare le indicazioni che sforna con una dovizia di particolari che mi fa venire voglia di demolire l’intero quartiere, vaffanculo a lui, perché sa così bene come arrivare da qui a casa di Daniel? C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. – Hai capito bene? – mi chiede alla fine, guardandomi dritto negli occhi come a cercare di leggerci dentro.
- Sì, certo. – borbotto io, - Quello che è.
Lui aggrotta le sopracciglia, irritato.
- Chakuza, ti ho solo chiesto un favore.
Rispondo afferrandolo per una spalla e schiacciandolo tra me e il muro. Gli sono addosso in meno di un secondo e lui neanche prova a fare resistenza. Non che la cosa mi stupisca, d’altronde. Non ricordo volte in cui sia successo.
- Il favore, se non te ne sei accorto, implica che io ti lasci qui da solo col tuo fottuto amante. – gli faccio notare, ringhiandogli a due centimetri dalle labbra. – Quindi non è solo un favore, Fler.
- Fanculo. – respira forte lui, cercando di liberarsi e riuscendo soltanto a strusciarmisi addosso, - Daniel non è il mio amante.
- Però te lo sei scopato. – sibilo sulla sua pelle, e se scendo ad annusare lungo il profilo della sua mascella posso quasi sentire l’odore di pomata e disinfettante, l’odore di Daniel. – Più di una volta. E ti è piaciuto.
Rabbrividisce sotto le mie dita e mi guarda. Non fa altro. Le labbra dischiuse e gli occhi spalancati su di me. Non li evito, mi avvicino ancora di più, fino a sentire la forma del suo corpo pressata contro la mia in maniera quasi dolorosa.
- Se tu lo tocchi, - lo avverto, sfiorandogli le labbra con le mie ad ogni parola, - io ti ammazzo. Se lui ti tocca, io ti ammazzo. Se succede qualcosa… - respiro forte e mi spingo un po’ contro di lui, - se succede una cosa qualsiasi, Fler, io ti… ti ammazzo. – e lui geme ad alta voce, senza nemmeno cercare di controllarsi.
Continuo a guardarlo e lo faccio finché Fler non mi dà quello che voglio. Quello che voglio arriva quasi subito, quando lo vedo annuire confusamente.
- Okay… - ansima, muovendosi a ridosso della parete e strofinandosi contro di me, - va bene, Chaku… va bene… - e mi guarda solo per un attimo, prima di socchiudere gli occhi ed abbassare lo sguardo mentre solleva le braccia a stringermi alle spalle, per muoversi più facilmente. Lo lascio fare per un po’, reggendogli il gioco finché non lo sento affondare le dita e trattenere il respiro, e poi mi allontano, guardandolo freddamente.
Resta talmente sbilanciato che deve aggrapparsi al muro, per non cadere. Ed a guardarlo così mi viene voglia di ribaltarlo contro la parete e scoparmelo adesso, un attimo prima di uscire, col ragazzino ancora di là sul divano. Gli occhi pesanti, le labbra umide, i pantaloni che tirano sull’inguine, la maglietta scomposta e il respiro affannoso. Cristo, Fler. Ma scuoto il capo e mi faccio indietro, infilando la giacca ed aprendo la porta.
- Non me ne fare pentire. – dico gelido.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, sul pianerottolo, impreco contro un po’ di santi. Chi cazzo me l’ha fatto fare di avvicinarmi in quel modo? Ora palesemente non riuscirò nemmeno a camminare.
*
Quando Daniel si affaccia dal corridoio, mi trova ancora lì contro il muro che cerco di riprendere a respirare senza fare fatica. Mi guarda con aria un po’ incerta, come non sapesse minimamente cosa fare. Siamo in due, vorrei dirgli, io ho difficoltà anche a muovermi, al momento.
Cerco comunque di rimettermi dritto e mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse, camminando lentamente verso di lui e riemergendo dalla penombra dell’ingresso di malavoglia. Ho addosso l’odore di Chakuza, ovunque, e questa cosa al momento mi sfianca.
- Non dovevi alzarti dal divano. – lo rimprovero, rimettendolo seduto con una spintarella.
Lui scrolla una sola spalla perché l’altra è ancora fuori uso. Non ha rimesso la maglietta ed è uno spettacolo angosciante.
- Le gambe stanno bene. – mi informa con una mezza risatina, - Le ho tenute nascoste sotto il corpo come mi hai—
- D’accordo. – lo fermo. Non riesco a liberarmi degli occhi di Peter e quando chiudo le palpebre mi sento addosso il suo corpo. Devo… cazzo. L’ha fatto apposta. Devo cercare di… devo assolutamente cercare di riprendermi. – Hai mangiato? Hai fame? – chiedo distrattamente, concentrandomi più sul tentativo di respirare con un ritmo meno affannoso, che non su quello che sto dicendo.
Lui risponde qualcosa che io non sento perché mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Chakuza. Così non funziona, non ne esco. Forse avrei fatto meglio a non venire, oggi. Aspetta. Non ricordo da quant’è che sono qui. Di sicuro ieri ho dormito con lui e… forse anche l’altroieri e… è tutto troppo confuso da quando ho ricominciato a lasciare qui qualche vestito, non devo quasi più tornare periodicamente a casa mia e perdo il senso del tempo. Così non va per niente.
Vado verso il frigorifero e comincio a rovistare all’interno, magari trovo della roba con cui imbottire un panino. D’altronde Daniel i diciotto anni deve ancora compierli – e mi sa che, se non risolviamo la questione al più presto, festeggerà la maggiore età con una scarica di legnate non dissimile da quella di oggi, cazzo – perciò deve avere fame. A quell’età hanno sempre fame.
- Ma mi ascolti? – mi chiede piano, e la sua voce è troppo vicina per provenire dal divano, - Ti ho detto che non mi va di mangiare. – s’è alzato ancora.
Mi volto e sospiro. Parto con l’intenzione di rimproverarlo e me lo trovo a due centimetri dal viso che mi guarda incuriosito. Ormai è alto quasi più di me, nell’ultimo anno è cresciuto un sacco. Non so come ce l’abbia fatta. Insomma, intendo, ogni tanto lo guardo e mi chiedo come possa essere ancora vivo, addirittura. Poi ricordo che in fondo sono vivo anch’io e torna tutto.
Io però avevo Anis accanto, quando rischiavo di prendere botte ad ogni angolo di strada.
Daniel non ha mai avuto nessuno, prima di me.
- Dovresti andare a stenderti. – sospiro ancora, guardandolo dall’alto in basso, - …e rivestirti, anche.
Tira fuori un ghignetto che nelle intenzioni dovrebbe essere un concentrato di malizia ma, visto quanto è pesto e malconcio, in realtà fa solo ridere. E neanche poi così tanto.
- Cos’è, problemi? – chiede con aria strafottente. Io lo spintono verso il divano.
- Io no, Danny, ma se tu alle botte aggiungi la polmonite non sono sicuro di cosa potrebbe farti Chakuza quando tornerà a casa.
Lui cade sui cuscini con un tonfo e un mezzo lamento, e mi fissa con aria offesa.
- Lo lasceresti fare? – chiede in un sussurro, - Se mi mettesse le mani addosso, dico… lo lasceresti fare?
Sospiro, sedendomi sulla poltrona al suo fianco.
- Devo proprio rispondere a questa domanda?
Lui annuisce.
Io sospiro ancora.
- Sono il suo uomo, Danny.
Lui aggrotta le sopracciglia e fa per incrociare le braccia sul petto. Rinuncia appena si accorge che fa male.
- Tu non sei suo! – sbotta astioso, puntando le mani sui cuscini.
Io sorrido sarcastico.
- No? – chiedo, scrollando le spalle.
- Assolutamente no! – insiste lui.
- E sarei tuo, invece?
Lui abbassa lo sguardo e sulle sue guance il rossore si nota nonostante i lividi.
- Tu… potresti… - deglutisce e guarda altrove, - Io lo sono. Non sono di nessun altro. Solo tuo.
Sospiro ancora e scuoto il capo. Non so cosa dirgli, anche se so esattamente cosa si prova in situazioni come queste. Quando sai di appartenere a qualcuno ma non è quel qualcuno ad appartenere a te. Mi è successo abbastanza spesso da potermi dichiarare un veterano nel campo. So che fa schifo. So che si fanno assurdità. So che non ci si dà pace. Ma a questo ragazzino senza speranza io, davvero, non so cosa dire.
- Mi dispiace, Danny. – cerco di consolarlo, accarezzandogli una guancia, - Prima o poi ti passerà.
- Oppure insisterò fino a quando non cederai. – sbotta, appoggiandosi sulla mia spalla e strusciando il viso contro la maglietta, - Tu con Chakuza hai fatto così, in fondo…
Rido a bassa voce.
- No, Danny, non esattamente.
- Però più o meno.
Roteo gli occhi ed annuisco.
- Più o meno, sì. Ma non funziona sempre.
Solleva una mano – quella del braccio ancora a posto – e mi stringe alla vita.
- E come fai a sapere che non funzionerà fra noi?
Me lo stringo contro, coccolandolo un po’. Lui mugola subito e si attacca come un cucciolo di koala. Lo fa sempre. È una delle pochissime cose che gli concedo, da quando io e Chakuza abbiamo ripreso a frequentarci. È divertente, perché quando stavamo insieme non aveva bisogno di coccole, praticamente mai. Era molto estroverso ed espansivo, ma queste cose da femmine non gli interessavano per nulla. Ora che è l’unica parvenza di intimità che possiamo permetterci, le cerca come aria per respirare meglio.
So che la sto gestendo male, questa cosa. So che dovrei smettere di vederlo e basta, perché è l’unico modo per dimenticare davvero. Però non voglio. Non voglio prenderlo e cancellarlo dalla mia memoria. Non voglio prenderlo e cancellarlo nemmeno dal mio presente.
- Non funzionerà perché c’è Chakuza di mezzo, piccolo. – dico, facendogli scorrere una mano lungo il braccio e massaggiando piano, - Ci sono persone che ti colonizzano la testa. Quando ci entrano, non ne escono più. Chakuza l’ha fatto con me, io non riesco a immaginare di svegliarmi un domani e non averlo. Capisci cosa vuol dire questo?
Le sue ciglia si muovono appena contro la pelle del mio collo e mi fanno un po’ di solletico.
- Sì, lo capisco. – esala in un soffio.
Sorrido.
- Se lo capisci, dovresti anche rassegnarti.
Sorride anche lui, e mi sbuffa addosso.
- Non è la stessa cosa. E poi, scusa, se a te avessero detto “lascia perdere e rassegnati”, tu l’avresti fatto?
Ridacchio, scuotendo il capo.
- Daniel, Chakuza mi spingeva contro il muro ogni volta che ne aveva l’occasione. Rassegnarsi a quelle condizioni era molto molto difficile. Però ci ho provato.
Lui respira forte.
- E tu non… - comincia, cercando di insinuare la mano sotto la mia maglietta.
Lo fermo.
- No. – rispondo. – Io non voglio. D’accordo? Quindi no.
Daniel sbuffa, infastidito, e si separa da me con uno scatto secco.
- D’accordo. – borbotta in un mugolio di dolore, - Tanto mi fa tutto troppo male per scopare. – ammette, guardando altrove.
Io sorrido e torno a stringerlo piano, ondeggiando avanti e indietro.
Daniel è fondamentalmente un cretino ostinato e masochista.
Se Chakuza non capisce cosa c’è fra noi, vuol dire che ricorda poco dei miei primi mesi con lui.
Mi chino a baciarlo su una guancia e poi lo lascio andare.
- Ti prendo una coperta. – annuncio muovendomi verso la camera da letto, - Ma non dire a Chaku che ci siamo toccati, o finiamo entrambi sullo zerbino stasera, sai?
- Aaah, ma non posso dormire nel letto con voi? – borbotta agitandosi e mugolando come un bambino di tre anni.
Io rido.
- Assolutamente no! – e quando mi chiudo la porta alle spalle mi ritrovo nel buio della camera da letto e sospiro pesantemente. Sarà una giornata difficile. Sollevo un braccio ed annuso piano. L’odore di Chakuza è ancora lì. È più forte dell’odore del disinfettante. Sorrido ed apro l’armadio alla ricerca della coperta.
*
Poso i piedi sulla moquette che riveste il pavimento del corridoio e mi guardo intorno. Dunque, la casa è questa, c’era scritto Kobler sul cancelletto di fronte e la via non l’ho sbagliata. E questo nonostante questa sia una parte di Tempelhof in cui non sono mai stato, sono molto fiero di me.
Certo, sono un po’ meno fiero se penso che sto entrando in casa di sconosciuti per andare a mettere le mani nei cassetti della biancheria di un ragazzino che è stato col mio uomo e che, probabilmente, tra le mura di questo edificio ha visto solo legnate da quando è venuto al mondo. Ma comunque ormai ci sono, quindi basta lagnarsi e passiamo all’azione.
Tiro su le maniche fino a metà avambraccio e mi guardo intorno. Il posto non è tanto grande, è più corridoio che stanze, in realtà. Da qui si vede il bagno, la porta è socchiusa e il rubinetto perde. Faccio qualche passo girando gli occhi qui e là. In casa non c’è nessuno, a parte le gocce che si infrangono sulla ceramica non sento niente. Vago in giro e trovo una cucina sporca e piccola con un chilo di piatti ancora da lavare ammonticchiati nel lavabo, ed una specie di salottino con un divano e una tv. Sopra la tv c’è un’antenna tenuta insieme con lo scotch da imballaggio, quello marrone che lascia tracce ovunque quando lo tiri via. Ci sono tracce di scotch pure nei pezzi di antenna non incollati fra loro.
Ed io che pensavo di vivere in un porcile.
I gradini di legno scricchiolano mentre salgo al piano di sopra. Non me ne curo e, quando mi si apre davanti il corridoio del primo piano, mi salta il cuore in gola: dalla porta spalancata in fondo si intravede lo scorcio di una camera da letto ingombra di vestiti ammucchiati per terra e bottiglie rovesciate accanto al comodino. Sul letto – appena uno spicchio di materasso, è tutto quel che posso vedere da qui – c’è un uomo che dorme e russa. Una mano sulla pancia, l’altra pende verso il pavimento e sfiora la moquette.
Deglutisco forzatamente, muovendomi lento, in punta di piedi. Il respiro dell’uomo è pesante e rumoroso, ricorda quello di Fler quando collassava sulla poltrona, completamente ubriaco. Sospiro: è completamente ubriaco anche lui, e dev’essere il padre di Daniel. Non mi stupisce che la casa sia il casino che è.
Apro una porta a caso cercando di non fare rumore e mi meraviglio della mia fortuna. La camera non può che essere questa, le pareti sono tappezzate di poster e credo di non aver mai visto così tante immagini di Fler tutte insieme in vita mia. Questo ragazzino è palesemente una groupie.
Mi guardo intorno. Qui dentro, a parte un letto sgangherato, una scrivania in disordine ed un po’ di vestiti ammucchiati su una sedia, non c’è niente. Si può tranquillamente dire ci siano più poster attaccati alle pareti che non mobili nella stanza. Mi colpisce un manifesto pubblicitario enorme, sulla testiera del letto. È una vecchia pubblicità di un sampler dell’Aggro Berlin. Vecchia davvero, poi: c’è perfino Bushido. O almeno, dovrebbe esserci. La sua faccia è coperta quasi per intero da un’enorme x fatta col pennarello nero.
Mi lascio sfuggire una risata, senza pensare all’uomo addormentato nell’altra stanza, e quando mi ricordo della sua esistenza presso forte le dita contro le labbra, cercando di calmarmi, ma è molto difficile. La sola idea di Daniel che appende il poster al muro, lo squadra insoddisfatto e poi decide di eliminare la faccia di Bushido dalla superficie spennellandoci sopra è semplicemente troppo divertente perché io possa liberarmene.
Continuo a pensarci mentre vado in giro per la stanza raccogliendo i vestiti, che sinceramente non danno granché l’idea di essere puliti o altro. Cerco anche di pensare ad un modo per rifilarli a mia madre senza che si accorga che sono decisamente troppo piccoli per essere miei o di Fler. Peraltro, il fatto che mia madre ormai non trovi più nulla di strano nel lavare la mia roba assieme alla sua dovrebbe turbarmi, immagino. Certe volte ho l’impressione che il mondo intero abbia accettato l’idea di me e Fler come coppia prima di quanto non l’abbia accettata io. Mettiamoci di mezzo il fatto che ogni tanto faccio fatica ad accettarlo anche adesso, ecco.
Cerco in giro uno zainetto e ne prendo uno a caso in un angolo. È pieno di bustine di cui voglio ignorare il contenuto. Neanche faccio un tentativo con un altro zaino, mi limito a svuotare questo e riempirlo dei vestiti e della biancheria che sono riuscito a raccogliere.
Dopodiché tiro un enorme sospiro e comincio a staccare i poster dalle pareti. Immagino che, dovunque andrà a vivere Daniel dopo che l’avrò finalmente buttato fuori da casa mia, ne sentirà la mancanza, se non li avrà.
Comunque faccio un mezzo pensierino sul tenere io il poster della copertina di Deutscha Bad Boy. Mi frenano solo due cose: primo, non posso mica rubare un poster a un ragazzino così sfacciatamente innamorato; secondo… se anche lo tengo, dove cavolo lo metto? E non è un “dove cavolo lo metto” e basta, è un “dove cavolo lo metto per nasconderlo a Fler, dato che quando deve cercare cose rovista ovunque e, se mai dovesse avere la fortuna sfacciata di trovarlo, poi la mia vita sarebbe palesemente finita”.
Infilo tutto nello zainetto cercando di eliminare i pensieri molesti – tutti, in blocco, compresi i ricordi di Fler schiacciato contro il muro all’ingresso che mi hanno assalito appena mi sono distratto un attimo dall’obiettivo – e vengo fuori dalla stanza. Il signor Kobler ancora dorme ed io un po’ me ne dispiaccio: visto che quest’uomo è l’origine di tutti i miei mali, mi piacerebbe fargli capire cosa penso esattamente di lui e di tutti quelli come lui – ma soprattutto di lui, che cresce i figli in modo che poi quelli debbano sentirsi autorizzati ad infilare le mani nelle mutande degli uomini altrui. Comunque dorme ed immagino che Fler, quando mi ha mandato qui a recuperare le cose, non intendesse anche “ed uccidi quel bastardo”. Cioè, non sono proprio sicuro che Fler lo preferisca vivo. Comunque non è un mio diritto toglierlo di mezzo e francamente non ci tengo più di tanto, in realtà se anche ci tenessi non saprei da che parte cominciare, e comunque non voglio!, perciò scivolo al piano di sotto e poi oltre la finestra nel modo più veloce e furtivo possibile, e prendo a respirare serenamente solo quando mi ritrovo nuovamente immerso nell’aria fresca sul finire dell’estate di Tempelhof.
Mi guardo intorno.
Okay, un attimo di smarrimento.
Questa zona è, diciamo, la zona più “residenziale” del quartiere. Il che significa, in poche parole, che sto immerso in un quadrato di casette tutte uguali, con cancelli tutti uguali, giardinetti incolti tutti uguali, porte sgangherate tutte uguali e cassette delle lettere mezze abbattute tutte uguali. Non cambiano nemmeno i colori. Grigio e verde, grigio e verde, tutto grigio e verde. Così per chilometri, il quartiere è enorme.
Arrivare è stato un conto.
Andare via sarà più difficile.
Zaino sulle spalle e cappuccio calato sul volto, mi avvio in una direzione casuale di fronte a me. Prima o poi ne uscirò, immagino. O finirò per passare il confine, chissà. In ogni caso tutto voglio meno che restare qui. Sono quasi certo che la mia macchina non sia da quella parte, ma se mi toccherà uscire da questa merda di posto a piedi, allora lo farò. Verrò a recuperarla successivamente. Questo posto mi mette ancora i brividi.
Giro a vuoto per un po’. Un bel po’. Quando sono solo il tempo tende a passare sempre troppo lentamente perché io possa quantificarlo, quindi non saprei dire per quanto abbia girato, comunque sia quando mi infilo in una via e mi ritrovo di fronte alla casa del vicino del signor Kobler ho due scelte: o vado nel panico e mi siedo qui, afferro il cellulare e imploro Fler di venirmi a ripescare, o chiedo a un passante.
Visto che non ho la benché minima intenzione di implorare nessuno, e visto che sono uscito di casa mantenendo un certo tono e non ci tengo a fare la parte del cagnetto uggiolante proprio adesso, la scelta può essere una sola.
Mi avvicino al primo tizio che incontro. Avrà una ventina d’anni – per com’è vestito, con quei pantaloni aderentissimi di pelle nera e il vuoto sotto il chiodo borchiato, non più di venticinque – ma ha una faccia talmente sfatta che ne dimostra quasi il doppio. Occhiaie e rughe comprese. Al confronto io e Fler – ma anche Bushido, volendo – sembriamo ragazzini. Cammina ciondolando e nella tasca dei jeans si intravede chiarissima la forma di un serramanico ripiegato. Mi rendo conto che non si tratta della persona più affidabile cui chiedere delle indicazioni, ma non c’è nessun altro in giro e non mi pare di avere molta scelta. A parte quella scartata a priori del panico e di Fler che mi viene a riprendere neanche avessi dodici anni.
-Ehm… scusa? – chiedo, picchiettandogli con due dita sulla spalla perché si accorga di me.
Lui mi alza addosso un paio d’occhi celesti trasparenti come pezzi di vetro ma arrossati in maniera quasi allarmante. Non ho idea di cosa abbia mandato giù ma di sicuro non dev’essere stata roba buona.
- ‘Cazzo vuoi? – mi sbotta in faccia, e l’alito puzza di birra. Perfetto. Sono fottuto.
- Senti, ho bisogno di un’informazione… - comincio, nel modo più pacato possibile.
Lui mi guarda come fossi una merda pesticchiata sul marciapiedi.
- Li conosco gli sbirri come te. – mi accusa, tirando su col naso, - Stronzi figli di puttana, sbirri in borghese. Non so un cazzo.
- Ma io voglio solo—
- Non so un cazzo, ti dico, sbirro di merda.
Ringhio e cerco di mantenere la calma.
- Non sono un cazzo di sbirro. – grugnisco, le mani sui fianchi, - Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!
Quello mi guarda per tutta una serie di secondi che non riesco a quantificare. La strada è immersa in un silenzio surreale, ci siamo solo io e lui e non riesco a sentire neanche i rumori delle macchine che sono quasi sicuro circolino ancora dalle parti del canale.
Mi schiarisco la voce.
- Ora… posso chiedere—
- Lo chef, dice lui… - mi interrompe il tipo, i lineamenti del volto deformati da un ghigno sghembo semplicemente terrificante, - Conosco una persona che non sarebbe per niente d’accordo. – ed ho appena il tempo di realizzare di aver detto una solenne cazzata, che lui ha già estratto il serramanico e me lo sta puntando alla gola. Faccio per indietreggiare e dire qualcosa, ma lui sfiora la pelle del collo con la lama appuntita e tagliente ed io deglutisco e rimango in silenzio. – Puoi chiedere dove ti porterò adesso? – mi fa il verso, continuando a ghignare, - No. Però puoi seguirmi senza fare storie.
- …non fare pazzie, amico, non—
- A-ha! – mi ferma, incidendo appena sotto la mascella, ed io trattengo perfino il respiro, - Senza fare storie, ho detto. Ci siamo capiti?
Annuisco. E lo seguo, che altro posso fare?
La prossima volta, giuro, vado nel panico e mi faccio venire a riprendere.
*
Sono passate sei ore quando comincio a preoccuparmi. La parte più razionale di me mi dice che non dovrei, che d’accordo, magari il Chaku è a Tempelhof, ma è pieno giorno. Cosa mai può succedergli in quel posto, per quanto pericoloso, alle due del pomeriggio? E poi in che guai può essersi cacciato dovendo semplicemente andare ad un indirizzo ben preciso per prelevare qualcosa prima di fuggire per sempre?
Devo stare calmo, mi dico. Calmo e rilassato. Fra qualche minuto mi chiamerà, si scuserà per non essersi fatto sentire per sei fottute ore e poi confesserà mugugnando che s’è perso, e mi implorerà di andarlo a recuperare in qualche angolo dimenticato da Dio che non saprà nemmeno descrivermi correttamente.
- Ho faaame. – miagola Danny, sbuffando platealmente, tutto arricciato sul divano, - Non si mangia?
- Aspettiamo Chakuza. – rispondo io, lanciando un’altra occhiata all’orologio. Sei ore e dieci minuti. Chakuza, Cristo, dove sei finito?
- Perché non lo chiami? – mi chiede lui, sporgendosi dal divano ed allungando un braccio verso il tavolino, per cercare di recuperare il telecomando poggiato sul ripiano, - Magari sta perdendo tempo da qualche parte e s’è dimenticato che lo stai aspettando. – suppone, la lingua fra le labbra e l’espressione concentrata mentre con un breve scatto si allunga abbastanza da afferrare il telecomando, per poi tornare ad abbattersi contro i cuscini sistemati con cura dietro la sua schiena, uggiolando di dolore.
- Non posso chiamarlo, Danny. – espiro in uno sbuffo contrariato, andando a sedermi sulla mia poltrona giusto per staccarmi dalla finestra prima che rimanga impressa sul vetro l’impronta indelebile del mio naso. – Magari ci sono stati problemi a casa tua. – gli spiego, lanciandogli un’occhiata risentita. Io ti adoro, Danny, ma tu non puoi mettere il mio uomo a rischio. Egli non è adatto. In generale. – Magari tuo padre s’è svegliato e lui ha dovuto nascondersi da qualche parte. Che faccio, lo chiamo rischiando che il cellulare riveli dov’è?
Daniel inarca un sopracciglio, guardandomi con aria scettica.
- Tutti sanno che quando si fanno cose simili il cellulare va tenuto silenzioso. – dice con naturalezza. E sì, certo, Daniel. Tutti lo sanno. Io lo so, tu lo sai. Se avessi mandato Anis a recuperare la tua roba potrei avere la certezza che lo sa anche lui. Ma Chakuza?
- Lascia che io ti dica che non hai capito niente del Chaku. – annuisco con aria professionale, - Come minimo non solo ha il cellulare con la suoneria attivata, ma pure al massimo volume. E personalizzata di modo che lo chiami per nome. – sospiro profondamente.
Daniel ride, incredibilmente divertito, ed accende la tv.
- Ma che ci fai con uno così? – mi chiede, con aria apparentemente distratta, concedendosi un po’ di zapping prima di fermarsi su un cartone animato a caso. La domanda è cosa ci faccio qui con te, semmai, Danny. – Cosa c’entri?
- Non ricominciamo. – borbotto, e in quel momento il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei pantaloni. Mi alzo in piedi all’istante, lo estraggo e lo guardo. Chakuza mi ha mandato un messaggio. – Era anche ora… - borbotto risentito, mentre mi affretto a premere il pulsante per leggerlo.
Ciò che i miei occhi vedono, comunque, è non affatto soddisfacente. Nel messaggio c’è scritto solo aiuto.
- Che ti prende? – chiede Danny, spegnendo istintivamente la televisione e lanciandomi un’occhiata preoccupata, - Sei sbiancato.
- Chakuza è in pericolo. – dico d’un fiato, girando sui tacchi e dirigendomi speditamente verso la porta d’ingresso, - Devo andare a cercarlo.
- Ehi— aspetta! – cerca di fermarmi lui, saltando giù dal divano e piegandosi immediatamente su se stesso per il dolore. Capisce che non ho tempo da perdere, comunque, e si rimette in piedi piuttosto alla svelta, tenendosi la pancia fra le mani e seguendomi. – Come sarebbe a dire che è in pericolo? Cos’è successo?
- Cosa vuoi che ne sappia! – urlo, voltandomi a guardarlo con rabbia. Lui arretra di un passo, serrando le labbra finché non diventano sottilissime e pallide. – Scusa. – cerco di calmarmi. Cazzo, non è colpa sua se Chakuza è in pericolo. Sapevo che avrei dovuto andarci io. Cazzo. – Mi ha mandato un messaggio, guarda. – dico, sollevando il cellulare per mostrarglielo. Daniel lo legge velocemente e i suoi occhi si fanno più cupi per qualche secondo, mentre annuisce sommessamente.
- Vengo con te. – dice quindi, tornando al divano per infilare le scarpe.
- Neanche per idea. – ribatto io, ignorandolo platealmente.
Lui mi passa davanti ed apre la porta, uscendo di casa prima di me.
- Non era una domanda. – conclude, cominciando a scendere le scale. Roteo gli occhi, correndogli dietro.
- Piccolo, torna in casa, dai. – dico dolcemente, accarezzandogli una spalla. Stavolta è lui a ignorare me.
- Potrei esservi utile. – dice. Ma esserci a chi? Io intendo andare da solo.
- Daniel, - sospiro, - sei ferito e dolorante, sei un rottame, dovresti essere in ospedale, che cazzo me ne faccio di te, me lo spieghi?
Lui mi lancia un’occhiata risentita, aggrottando le sopracciglia.
- Qualsiasi cosa. – risponde di getto, - È anche colpa mia se è nei guai.
- Danny, non—
- Sta’ zitto. – mi interrompe. Siamo già a piano terra. – Sai già a chi chiedere?
Lo guardo per qualche secondo, confuso.
- Che intendi? – gli chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui sbuffa platealmente, roteando gli occhi.
- Dubito che sia stato mio padre a causargli guai. – spiega, - Se anche si fosse svegliato, nelle condizioni in cui era quando l’ho lasciato poteva sicuramente pestare me, ma non uno come Chakuza. Cioè, uno che possa rispondergli come merita. – sospira un po’, abbassando lo sguardo, e a me si stringe il cuore. – Deve aver fatto casino mentre era per strada. Magari ha preso uno dei miei zainetti speciali, quelli con la roba dentro. Hanno tutti una toppa particolare, così la gente del ghetto li riconosce e sanno che possono chiedermi. Se qualcuno l’ha vista, forse ha pensato che fosse del giro.
Non fatico a immaginare che, a partire da uno scenario simile, Chakuza possa essere finito in guai molto più catastrofici di quelli che riesco a immaginare in questo momento senza avere una crisi isterica. Inspiro ed espiro profondamente, cercando di razionalizzare. Potrei sbrigarmela da solo, andare a Tempelhof e perdere le ore partendo da zero, senza il minimo aggancio, per cercare di tirare fuori qualche informazione a qualche sconosciuto.
Oppure posso andare da Bushido, e chiedergli di contattare Arafat.
Vista la situazione, e visto soprattutto che una cosa so per certo, ed è che non voglio lasciare Chakuza da solo a Tempelhof troppo a lungo, faccio in fretta a decidere per il meglio. Daniel sorride soddisfatto, salendo in macchina e mettendosi comodo.
- Togliti quell’espressione dalla faccia. – mugugno io, talmente infastidito che per un attimo non faccio caso a quello che dico, - Sarai tu responsabile, se gli succede qualcosa.
Gli occhi di Daniel s’incupiscono un’altra volta, mentre lui si torce le dita in grembo, nervoso. È evidente che riesce a ragionare in maniera perfettamente lucida quando si parla di pianificare il salvataggio di qualcuno di cui tutto sommato gli importa pure poco, ma impazzisce d’ansia quando pensa anche solo per sbaglio che io potrei cominciare ad odiarlo per qualche motivo.
- Andrà tutto bene. – dice, più per rassicurare se stesso che per rassicurare me, anche perché io al momento non posso essere rassicurato.
Sospiro, allungando una mano ad accarezzargli piano la nuca.
- Sì, andrà bene. – confermo mettendo in moto.
Da Bushido ci arriviamo in tempo record, bruciando anche un paio di rossi. Per tutto il tempo, Daniel resta tranquillo al mio fianco, senza neanche muoversi in avanti quando freno o schiacciarsi indietro contro lo schienale quando accelero. Non ha nemmeno messo la cintura di sicurezza, cosa che suppongo dovrei trovare sconveniente al punto da fermarmi e cercare di convincerlo a metterla, ma non c’è nemmeno il tempo di razionalizzare il pensiero che la mia macchina si ferma perfettamente parallela al marciapiedi appena fuori dal cancello di casa di Bushido, ed a quel punto fargli indossare la cintura non avrebbe più molto senso.
Esco di gran fretta, e Daniel, per quanto le sue ossa peste glielo permettano, fa lo stesso, per cercare di non intralciarmi troppo. Karima ci mette troppo a rispondere al citofono, e quando sento la sua voce domandarmi chi sono e cosa voglio – è una donna d’altri tempi che non ha mai imparato ad usare il video nella parola videocitofono – rispondo sgarbatamente di farmi entrare e non perdere altro tempo. Lei rimane in silenzio per un altro paio di secondi, e io batto con forza una mano contro le grate del cancello, così improvvisamente che Daniel, al mio fianco, sobbalza lanciandomi una lunga occhiata colma di preoccupazione.
- Karima! – la chiamo, - Datti una mossa!
La serratura scatta il secondo successivo. Il cancello si apre sotto le mie mani e Skyline e Sherlee mi vengono incontro, saltellando ed abbaiando festosi. Io non ho tempo di star loro dietro, perciò passo in mezzo ai loro musi senza fermarmi neanche ad accarezzarli, e se non mi vengono dietro continuando ad abbaiarmi alle spalle è solo perché Danny, visibilmente più lento di me, non riesce a tenere il mio passo e non può sfuggire alla loro rumorosa richiesta di attenzioni, cedendo perciò a metà del vialetto e grattando entrambi dietro le orecchie in una sorta di pedaggio in seguito al pagamento del quale i due cuccioli lo lasciano libero di seguirmi.
Sulla soglia della porta non c’è Karima, probabilmente tanto oltraggiata dal mio comportamento da essersi già rintanata a pelare cipolle in cucina come fa sempre quando qualcosa non rientra nel ristretto campo delle sue approvazioni, perché, come ama dire, un po’ di cipolla tritata serve sempre ed è meglio averne un po’ di scorta per ogni evenienza. Quali evenienze improvvise potrebbero giustificare la presenza di terrine piene di cipolla già tritata nascoste in frigorifero io non lo so, ma tant’è, lei non è sulla porta ad attendere il nostro arrivo come dovrebbe essere. Ci sono sia Bushido che Bill, invece, e faccio appena in tempo a notare l’occhiata infastidita di Bill quando vede Danny alle mie spalle – a Bill non va granché giù che Danny sia tornato a ronzarmi intorno da quando io, invece, sono tornato a ronzare intorno a Chakuza – che quell’occhiata subito scompare, tramutandosi in qualcosa di diverso. I suoi occhi si spalancano, mentre porta una mano a coprirsi la bocca dischiusa in una smorfia inorridita.
- Ma che gli è successo? – chiede sconvolto, mentre Bushido prende atto delle condizioni del ragazzino con molta più praticità, osservandolo in lungo e in largo con aria concentrata, - Sta bene?
- Non è lui quello in pericolo, al momento. – rispondo seccamente io, spingendomi abbastanza in avanti per far sì che Bill e Bushido si scostino dall’uscio, lasciandomi entrare. – Chakuza è finito nei guai. – dico quindi, mentre Bushido aspetta che anche Danny sia entrato all’interno della villa, prima di chiudersi la porta alle spalle, - A Tempelhof. Da solo.
Bushido aggrotta le sopracciglia, i lineamenti del suo volto che si tendono repentinamente mentre irrigidisce le braccia lungo i fianchi.
- Cosa?! – strilla Bill, sconvolto, - Che c’è andato a fare lì da solo?
Bella domanda, ragazzino.
- Ne parliamo dopo. – taglio corto, - Anis, dobbiamo fare qualcosa. – tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e mostro alla coppia reale il messaggio che ho ricevuto ormai quasi venti minuti fa. Dio, venti minuti. Sono milleduecento secondi. Per uccidere un uomo ne basta uno.
Bill si lascia scivolare fra le labbra un gemito addolorato che gronda preoccupazione. Bushido non ha ancora aperto bocca, continua a studiare la situazione in silenzio, incrociando le braccia sul petto.
- Che ci fa lui con te? – chiede quindi Bill per riempire il vuoto che sente pesargli sul petto. Ci metto un po’ a capire che parla di Daniel, in parte perché non sono concentrato e in parte perché Bill non si prende nemmeno il disturbo di indicarlo. – Perché deve stare qui? Guarda quant’è pesto, mi rovina l’arredamento. – sbuffa infastidito.
- Bill. – scatto io, aggrottando le sopracciglia, - Non è il momento.
- Ah, non lo è? – ribatte lui, le mani sui fianchi e un’espressione di insopportabile superiorità sul volto, - Intanto lui è qui e il tuo uomo è nel ghetto da solo. – ribadisce, come se non ne fossi già insopportabilmente cosciente.
- Bill, sai che ti voglio bene, - dico, mordendomi con forza l’interno una guancia per forzarmi a ripetere queste parole, perché so che è una cosa vera ma in questo momento non mi sembra affatto, - ma fatti i cazzi tuoi. – concludo con un’occhiataccia.
Bill spalanca gli occhi, oltraggiato. Apre le labbra e fa per dire qualcosa, ma non riesce. Bushido è più svelto.
- Taci. – dice guardandolo, - E anche tu. – aggiunge guardando me. Io mando giù un blocco d’aria che pesa come il granito, mentre lui si volta a guardare Danny. – In che zona è andato? – chiede a lui, e per un secondo penso che l’abbia fatto perché ha già capito tutto, e trattandosi di Bushido la cosa non mi stupirebbe affatto. Poi razionalizzo, e capisco che ha chiesto a lui solo perché Danny a Tempelhof ancora ci vive, contrariamente a tutti noi. Afferro solo vagamente quanto deve essere costato a Bushido ammettere una cosa del genere, pur se implicitamente, e forzarsi a chiedere a un ragazzino un’informazione simile per salvare Chakuza. Mi riservo di ringraziarlo dopo per questo, visto che so per certo che nessuno a parte me può comprenderlo, e nessun altro lo ringrazierà.
Daniel si mordicchia il labbro inferiore, pensoso.
- È nella zona residenziale, - dice, - quella coi prefabbricati. Ma lì intorno ci sono i vecchi magazzini del mercato ortofrutticolo, e non sono più usati per frutta e verdura da tempo.
- Che rischi ci sono che l’abbia preso qualcuno di pericoloso? – chiede ancora, avvicinandosi al tavolino basso e recuperando il cellulare posato sul ripiano di vetro.
Daniel sospira profondamente.
- Per tutta una serie di ragioni, potrebbe essere finito nei guai con qualche corriere, credo.
- Con qualche corriere?! – strilla Bill, incapace di trattenersi oltre, - Cosa diavolo l’avete mandato a fare?!
- Bill, sta’ zitto. – ribadisce Bushido, digitando velocemente un numero a memoria e portando il cellulare all’orecchio.
- Lo stai chiamando? – chiedo io, a corto di fiato, fissandolo speranzoso.
- Sta’ zitto anche tu, ho detto. – dice lui, lanciandomi un’occhiata indecifrabile. Poi sospira, inumidendosi le labbra. – Sì. – dice quindi. Mi si annoda lo stomaco finché resta in silenzio, e poi sento un click sommesso ed una voce dal passato che risponde chiedendo festosamente a Bushido come sta, perché è da un sacco di tempo che non lo sente. – Ari. – dice Anis, il tono grave e lo sguardo concentrato mentre fa segno a Bill di recuperare un pezzo di carta ed una penna, - Mi servono un paio di indirizzi.
*
Naturalmente non riesco a parlare, ma visto che sono state le mie parole a generare tutto questo gran casino da una parte è meglio così. Sì, mi sta bene tacere, quello che non mi sta bene è che per farmi stare zitto mi abbiano legato questa robaccia attorno alla testa, e mi abbiano infilato due chili e mezzo di polistirolo in bocca. A parte che il sapore fa schifo, e a parte che mi sto cagando sotto perché, voglio dire, chi cazzo è questa gente?, a parte tutto questo, lo scotch sulle guance tira e fa un male fottuto, e non riesco a muovermi perché ho le braccia legate dietro la sedia in una posizione innaturale che mi fa dolere le spalle, e le gambe legate strettissime con delle vecchie corde sporche ai piedi della sedia.
In generale, sono finito proprio in una bella situazione di merda. E mi piacerebbe poter dare la colpa a Daniel, perché almeno così non dovrei stare seduto qui a soffrire, ascoltare stronzate e dovere avere a che fare in aggiunta con la consapevolezza che a trascinarmi in questo magazzino abbandonato con le finestre inchiodate non è stato il ragazzino, non è stata la richiesta di Fler, no, sono state la mia ostinazione a non voler chiedere aiuto e la mia boccaccia del cazzo.
- Allora. – riprende l’uomo che mi ha ricoperto di cazzate da quando sono stato portato al suo cospetto un paio d’ore fa. È vestito con una tuta integrale in pelle bianca, aperta fino allo stomaco rotondo e prominente. Indossa un paio di occhiali da sole dei quali in questa penombra non dovrebbe avere il minimo bisogno ed i suoi capelli sono acconciati in un ciuffo che si protende contemporaneamente in avanti e verso l’alto. I tacchi dei suoi stivali bianchi a punta producono un suono che mi snerva, ticchettando sul pavimento pieno di crepe mentre lui gira intorno alla sedia, guardandomi circospetto. – Mi dicono che ti piace andare per strada facendoti grande agli occhi dei passanti. – dice, - Lo chef, mi dicono, è così che ti fai chiamare. Ma oh, hai fatto i conti senza l’oste, mio caro amico pelato.
Io mugugno qualcosa, ma non riesco a farmi uscire dalle labbra niente che abbia un senso. In realtà tutto quello che vorrei strillare è “ma sei cretino?! Ti sei completamente bevuto il cervello?! Da quale epoca sei venuto fuori, scherzo della natura?! Santo Dio!”, quindi forse è meglio che io sia obbligato a tacere. Cristo, è passata quasi un’ora da quando sono riuscito a mandare quello scampolo di messaggio a Fler, e tutto ciò che ho ottenuto in cambio è stato che mi portassero via il cellulare e lo spaccassero in due sotto i miei occhi sofferenti. Quando e se tornerò a casa, comprare un cellulare nuovo sarà drammatico. Non mi abituerò mai al tastierino nuovo, non riuscirò mai a memorizzare il nuovo menu e dovrò fare i salti mortali per trovare qualcosa che non possieda la parola touch nel nome o nella descrizione delle caratteristiche principali. Che odio. Fler, dove cazzo sei finito?!
- Cos’è che hai detto? – chiede il tipo, chinandosi su di me e tendendo un orecchio, - Non ti ho sentito! Forse perché sei imbavagliato. – si rimette dritto, grattandosi pensosamente il mento. – Dovremmo forse lasciarti libero? – chiede retorico, lanciando un’occhiata ai due che stanno alla sua sinistra e alla sua destra. Uno è quello che mi ha portato qui, e l’altro un suo degno compare. Anche lui indossa un giubbotto di pelle senza niente sotto, ed un paio di jeans chiari con più buchi che brandelli di stoffa. – No che non dovremmo. – si risponde da sé Elvis, tornando a guardarmi severamente. – Hai capito perché sei qui, nano? – mi chiede quindi, e io mi dimeno perché con questi nomignoli del cazzo mi ha veramente frantumato le palle.
- Attento a come ti muovi, sbirro di merda. – dice il tizio che mi ha portato qui, puntandomi il serramanico alla gola, - Rispondi alle domande e fa’ il bravo, e se te lo meriterai potrai uscire di qui sulle tue gambe, quando ti lasceremo libero.
Io smetto di muovermi ed inspiro profondamente, cercando di ritrovare una calma che ho in realtà perso troppo tempo fa per poterle chiedere di venire in mio soccorso adesso. Provo a mugugnare qualcos’altro, qualcosa a caso, tanto è evidente che non riuscirei a farmi capire anche se dicessi qualcosa di sensato, ma Elvis mi ascolta con attenzione, annuendo partecipe. Dio santo, ma dove sono finito?
- Certo, certo, hai ragione. – dice annuendo ancora, - Quindi forse dovremmo proprio lasciarti libero, ma sai, c’è una cosa a cui tengo molto, una lezione che penso tu debba imparare prima di andare via, e penso che le condizioni in cui sarai quando uscirai da questo magazzino dipenderanno molto da quanto bravo sarai ad apprendere. Ci siamo capiti?
Io abbasso lo sguardo. Odio cedere, ma odierei anche morire in questo posto lugubre senza aver cucinato un’ultima volta, senza aver salutato i miei genitori e mia sorella, senza aver rivisto Bill, senza aver rivisto Fler. Senza aver toccato Fler, senza avergli detto che—
- Ci siamo capiti? – ripete Elvis, strattonandomi per una spalla. Io annuisco freneticamente. Ci siamo capiti, Elvis, ci siamo capiti. – Bene. – sorride compiaciuto. – Ora voglio che tu te lo ficchi bene in testa, mio buon amico: - dice a bassa voce, - c’è un solo chef, in questo quartiere, soprattutto da quando io e i miei compari abbiamo cominciato a studiare un piano per ammazzare tutti gli altri. – inarco un sopracciglio. Un piano? Che cazzo sta dicendo? – Be’, sì, non ci siamo ancora riusciti! – strilla istericamente, come leggendomi nel pensiero, o forse semplicemente leggendo l’incredulità nell’espressione del mio viso, - Ma prima o poi li faremo fuori tutti, ed allora resterò solo io! Per cui, impara bene la lezione fin d’ora, nano: chi è l’unico chef di Tempelhof…?
È a quel punto che succede. Inizialmente non ci capisco molto, perché non vedo niente. Sento, quello sì, un botto terrificante e il fischio di qualcosa di incredibilmente veloce che passa da qualche parte alla mia sinistra prima di andarsi a schiantare contro il pavimento a pochi centimetri dall’anfibio dell’altro compare di Elvis, quello che non ha ancora aperto bocca, e che la apre adesso per la prima volta per strillare “merda!” con quanto fiato ha in gola, saltando repentinamente all’indietro.
- Cosa cazzo succede?! – strilla a propria volta il tipo che mi ha portato qui, occhieggiando spaventato il buco sul pavimento e la pallottola che vi si è conficcata dentro. – Cazzo!
- Chi c’è?! – grida Elvis, parandosi in mezzo alla stanza con le braccia spalancate e le gambe piegate in una posa ridicola, - Chi osa?!
Un altro sparo parte da un punto totalmente opposto del magazzino, piantandosi sulla parete alla mia destra. Sobbalzo sulla sedia perché non ho una cazzo di idea di cosa stia succedendo. E se fossi finito in mezzo a una guerra fra bande? E se quelli che Elvis minaccia di volere uccidere avessero scelto proprio questo momento per impedirglielo ponendo fine alla sua triste e misera esistenza da sfigato nato con vent’anni di ritardo?
Non ho modo di capirlo, perché per qualche secondo, dopo l’urlo che Elvis ha lanciato in seguito al secondo sparo, il magazzino ripiomba nel silenzio. Magari è stato solo un avvertimento, mi dico. Non so bene come funzionino queste cose, Fler saprebbe spiegarmelo ma lui non c’è, probabilmente è impegnato a spargere pomata sulle ferite del suo ex e di me se ne strafrega, per cui aggrotto le sopracciglia e decido che me ne strafregherò anch’io, ma i miei propositi reggono pochissimo perché il secondo successivo dieci cento o forse anche mille pistole si mettono a sparare tutte contemporaneamente, l’aria diventa incandescente, fischia attorno a me, ne sento il rombo fin dentro le orecchie, e ci sono proiettili che volano impazziti dappertutto e io me la sto facendo sotto, cazzo, e prego soltanto che nessuno di questi fottuti proiettili mi prenda perché voglio tornare a casa, stasera, voglio riportare a Danny la sua roba, voglio vedere Fler, voglio abbracciarlo e dirgli che lo so che non ci andrà a letto col ragazzino, lo so che non mi tradirà, lo so che mi ama, voglio dirgli tutte queste cose e non è vero per un cazzo che me ne strafrego di lui. Non è vero per un cazzo.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di incassare il più possibile la testa nelle spalle, e prendo nota solo confusamente dei tre uomini che mi tengono prigioniero mentre danno di matto, confusi dai rumori degli spari e dalle pallottole che soffiano minacciose ovunque attorno a loro. Mi pare di sentire un “no!” strozzato provenire da dietro un mucchio di vecchie casse in fondo al locale, ma non ho modo di badarci troppo perché oltre ai rumori degli spari l’aria è piena delle urla dei miei aguzzini. Li sento urlare, muoversi in cerchio, urlare ancora e poi trovare un’uscita. Le loro voci si fanno sempre più deboli e distanti, e così gli spari, che diminuiscono d’intensità e poi si spengono del tutto. Io sono ancora vivo e non ho male da nessuna parte, e sono profondamente convinto che questo sia un miracolo.
Apro prima un occhio e poi un altro, guardandomi confusamente intorno. Il pavimento e tutte le pareti sono pieni di segni dove i proiettili sono andati a schiantarsi. Sudo freddo a pensare che se uno a caso di queste decine di proiettili avesse deciso di non andare a conficcarsi per terra o sui muri ed avesse preferito conficcarsi nella mia testa, sarei morto. Ci penso insistentemente per un paio di secondi e poi Bill – no, ripetiamolo perché non riesco nemmeno a crederci: Bill! – spunta fuori da dietro le casse dalle quali mi era sembrato di sentir provenire quel “no!” e mi si avvicina, affrettandosi a chinarsi davanti a me e sciogliere tutte le corde che mi tengono legato.
Non appena sono libero, scivolo giù dalla sedia , esausto, e Bill mi accoglie fra le proprie braccia reggendo il mio peso abbandonato e floscio con una forza che non gli riconosco. Mi chiedo quando sia arrivata, tutta questa forza, perché proprio non c’era quando i nostri corpi stavano vicini spesso e molto più a lungo di adesso, ed è allora che Bushido esce da un angolo in ombra alla mia sinistra e Fler fa lo stesso dall’angolo opposto, accompagnato da Danny che zoppica ed ha la faccia contratta in un’espressione di dolore continua.
Il tempo riprende a girare e io e Bill ci allontaniamo contemporaneamente. La forza di adesso, quella che guida le sue braccia e le sue gambe e rende i suoi occhi brillanti e presenti nonostante siano pieni di lacrime, è una forza che non gli ho dato io.
- Dimmi solo che stai bene. – mi sorride mentre mi libera dallo scotch. Mi giro appena per sputare la palla di polistirolo ormai tutta masticata, e mi asciugo la bocca col dorso della mano prima di offrirgli un sorriso stanco ed annuire lentamente.
Bushido butta lì un paio di colpi di tosse e Bill si alza in piedi. Vedo nell’espressione rilassata del suo viso che non lo fa perché deve o perché si sente in colpa, ma soltanto perché vuole e sa che è giusto così. Io mi alzo in piedi, guardo Fler ma lui non mi ricambia l’occhiata. Fissa la propria pistola accarezzandola con lo sguardo e, sbrigativamente, anche con due dita, prima di riporla in una tasca interna della giacca. Non gli dico niente, né d’altronde lui dice niente a me mentre usciamo o mentre, con la sua macchina, riportiamo Bill e Bushido a casa loro, prima di tornare da me. Io resto seduto sul lato del passeggero a guardarlo guidare in silenzio, gli occhi fissi sulla strada, mentre Daniel prova a fare un po’ di conversazione e rinuncia al terzo tentativo andato a vuoto. Si sistema con la schiena contro il sedile di dietro, anche perché suppongo sia tutto un dolore e non ce la faccia proprio più a reggersi dritto con le sue sole forze, e nel farlo gli cade l’occhio sul suo zainetto gettato in un angolo. Lo solleva e lo guarda da ogni lato, spalancando la bocca in segno di stupore prima di riuscire veramente a parlare.
- Ma non è uno di quelli speciali! – sbotta, - Non c’è la toppa! È uno di quelli che tengo a casa per nascondere la roba! – si sporge in avanti, agitandomi lo zainetto davanti al naso, - Chakuza, mi dici come hai fatto a metterti nei casini se non è stato il mio zaino ad attirare quel malato mentale in tuta di pelle?
Io prendo atto dell’espressione assolutamente allucinata che mi lancia Fler ed incasso la testa nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e fissando la strada che scorre lenta sotto la macchina al di là del parabrezza. Spiego quello che mi è capitato, partendo dal principio e ammettendo che, fondamentalmente, non c’ho capito un cazzo. Ma cos’è? Ora non si può più andare in giro dicendo di essere un cuoco che finisci catturato da un trio di decerebrati che si sono messi in testa per chissà che motivo che vuoi essere tu il new kid on the block? Ma anche no, è profondamente ingiusto. Mi premuro di dire anche questo a Daniel e Fler, che nel mentre mi guardano con aria sempre più sconcertata, spalancando occhi e bocche lentamente ma progressivamente, finché non scorgo nel fondo delle loro pupille azzurre inquietantemente simili che forse non lo faranno a voce alta, ma nella loro testa mi stanno deridendo. Ampiamente.
Naturalmente, l’unico a risparmiarsi di prendermi per il culo a voce alta è Fler, e solo perché suppongo fosse realmente preoccupato: stringe le mani attorno al volante e torna ad osservare cautamente la strada, mordicchiandosi l’interno di una guancia; Daniel, invece, si dà alla pazza gioia, rovesciando il capo sullo schienale del sedile e tenendosi la pancia mentre rotola qua e là in preda alla crisi di riso più devastante di tutti i tempi, talmente devastante, in effetti, che a un certo punto le sue risate cominciano a diventare rantoli seriamente addolorati.
- Oddio, - piagnucola, incapace di trattenersi, - ma non lo sai che chef sta per capo, nel ghetto? Oddio, sto soffocando! – uggiola, le lacrime agli occhi, - Mi fa male tutto e non riesco a smettere, Chakuza! – protesta, come se fosse colpa mia o potessi farci qualcosa, poi.
- Sì, be’, potresti sempre provare cominciando a tapparti la bocca. – suggerisco con un’occhiataccia, alla quale Daniel risponde intensificando volume e frequenza delle risate. Roteo gli occhi, inspirando profondamente e tornando a guardare la strada.
- Sei stato uno stupido. – dice Fler a bassa voce. Non mi guarda neanche e il suo tono è gelido, quasi preoccupante.
- Mi dispiace. – ammetto abbassando lo sguardo, - Non credevo che—
- Avresti dovuto essere più prudente. – insiste lui. Noto solo adesso che ha le nocche bianchissime, tanto sta serrando le dita attorno al volante. – Mi sono molto preoccupato, Peter.
Annuisco piano. L’eco delle risate di Daniel si fa sempre più distante. Lui sta ancora ridendo, ma Fler è molto arrabbiato, più di quanto non mi stia lasciando intendere mentre mi parla, e questo rende tutto automaticamente molto meno importante, o degno d’attenzione.
- Scusami. – dico mesto, - Non lo farò più.
Se mi comporto come un bambino che si sente rimproverato dallo sguardo severo di suo papà, è solo perché mi ci sento.
*
Daniel crolla addormentato sul divano nel momento esatto in cui io e Chakuza glielo copriamo con un lenzuolo ed un paio di coperte. È esausto, devastato, e chiaramente non ce la fa più a reggersi in piedi.
- Dio, mi fa male tutto. – ripete in un mormorio straziante, mentre appoggia la testa contro il cuscino. Non è tipo da lamentele continue, ma questa frase l’avrà ripetuta almeno dieci volte negli ultimi venti minuti, è come se non riuscisse a dire altro, o non riuscisse nemmeno a formulare nella mente parole differenti. Forse è in questi istanti, mentre gli sistemo addosso la coperta e lui si lascia sfuggire un mugolio sofferente prima di chiudere gli occhi ed espirare a fatica, che decido quello che farò. Lo decido tutto, seguo un filo che mi porta fino all’uscita del labirinto e vedo dov’è che andrà a finire, quali conseguenze comporterà questa mia decisione, e forse, in qualche modo, inconsciamente le sto già accettando tutte. Ma solo inconsciamente, e questo non è il momento di parlarne: mi limito a rimboccargli le coperte trattenendo a stento un’imprecazione e una smorfia addolorata quando sento il suo corpo magro tremare sotto le mie dita, e poi mi rimetto dritto e vado in cucina.
Chakuza sta armeggiando con la caffettiera, anche se l’orario non è proprio adatto per un caffè, soprattutto considerato il fatto che siamo entrambi a stomaco vuoto da stamattina.
- Dorme? – mi chiede nervosamente, - Pensavo di mettermi a cucinare qualcosa.
- Dorme, sì, e credo che continuerà a farlo fino a domani mattina. – rispondo io, inarcando un sopracciglio, - Che è la stessa cosa che dovresti fare tu.
- Non sono stanco. – ribatte lui, posizionando la caffettiera sul fornello ed accendendo il fuoco.
- Chaku, - sospiro, - hai appena detto di volerti mettere a cucinare qualcosa. Sei uscito da un magazzino all’interno del quale per cinque minuti siamo stati tutti trasportati in un episodio speciale di Walker Texas Ranger, non più di un’ora fa. Se il tuo desiderio di metterti ai fornelli adesso non è un chiaro segno di squilibrio mentale, non so davvero cos’altro potrebbe essere.
Chakuza sospira a propria volta, spegnendo il fuoco ed appoggiandosi al ripiano, lo sguardo basso, tutti i muscoli ancora tesi. Lo osservo a lungo, aspettando che decida cosa fare. Alla fine, lo sento sospirare un’altra volta, e lo vedo annuire lentamente.
- Hai ragione, sono un po’ scosso. – ammette, - Magari mi riposo una mezz’ora.
- Magari vai a letto e ti svegli quando sarai in grado di andare in giro senza sentire ancora il fischio dei proiettili dentro le orecchie, che ne dici? – chiedo piano. Lui mi solleva addosso un’occhiata sconvolta, sembra stia chiedendosi quando sono entrato nella sua testa e come ho fatto a riuscirci senza che lui se ne accorgesse. – Mi è capitato, qualche volta, di trovarmi in mezzo ad una sparatoria. – rispondo, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo, - Quando ero più piccolo.
Chakuza resta per qualche secondo in silenzio, come a digerire l’informazione.
- Eri molto simile a lui? – chiede dopo un po’, tornando a guardarmi negli occhi. Io scrollo le spalle ancora una volta.
- Avevo la stessa convinzione di poter riuscire a risolvere tutto con le mie sole forze. – rispondo, - Che è il motivo per il quale molto spesso ci riuscivo davvero. Io sono stato più fortunato, però. Non ultimo perché almeno mio padre non mi picchiava, anche se suppongo fosse solo perché non c’era.
Chakuza annuisce, restando appoggiato al ripiano.
- Intendi prenderti cura di lui, vero? – chiede quindi. Io annuisco. – D’accordo. – dice, e io non faccio in tempo a dirgli che non mi serve la sua approvazione, perché lui mi sorride, un sorriso dolce, vagamente colpevole, ma più di ogni altra cosa complice. – Voglio starti accanto.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, incredulo.
- In che senso? – chiedo confuso.
- Quanti sensi esistono per una frase simile? – ride lui, - Io ti amo. – spiega quindi, e quando mi guarda riesco a leggergli dentro che è vero, che lo pensa e che lo pensa sempre, anche quando fa o dice una cazzata, anche quando sa di stare per farmi incazzare eppure non riesce ad impedirselo, so che è il pensiero fisso che lo accompagna senza ossessionarlo da quando si sveglia a quando va a dormire, indipendentemente da quanti altri pensieri gli ruotino intorno, e so che è giusto così.
Gli sorrido, sentendo tutti i muscoli del mio viso sciogliersi in un solo istante.
- Ti amo anch’io. – rispondo piano. Lo accompagno a letto e lo osservo addormentarsi standogli semplicemente sdraiato accanto. Lui mi si spalma addosso istantaneamente e per una volta è palese che lo fa solo per sentire il mio corpo contro il suo, perciò gli circondo il collo con le braccia e lo lascio fare, ascoltando il ritmo del suo respiro mentre rallenta e poi si stabilizza. Dalla stanza accanto proviene il russare sommesso di Danny, che ha il naso troppo pesto per respirare bene e quindi fa un sacco di piccoli rumori che usualmente non farebbe. Sorrido. Penso che mi piace quello che sento, e ripenso a Chakuza che mi chiede se intendo prendermi cura di lui.
Intendo farlo, Chaku. Intendo davvero farlo.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, David/OMC.
Rating: PG-15
AVVISI: Slash, Lime, OC.
- "Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti."
Note: Sì, lo sappiamo, questa shot è inutilmente enorme ma è divisa in cinque comode rate (una per ogni POV) in cui vi sarà più facile leggerla, magari mentre siete al gabinetto e avete finito il venerdì di Repubblica. Come sia nata questa faccenda dei pantaloni io non me lo ricordo, ma quasi sicuramente risale a due anni fa perché questa serie, che ci crediate o no, era in programmazione da che Bushido e morto, ed è stata plottata nei dettagli all'inizio di SE, quindi figuratevi xD
Con questo le scosse di assestamento sentimentale si considerano concluse. Possiamo dare il via... a tutto il resto.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
L’INCRESCIOSO CASO DEI PANTALONI DI PELLE (A MEZZANOTTE)

Il telefono squilla, ed io ho tutto il tempo per rimpiangere i bei tempi andati in cui tutta la gente che frequentavo abitualmente si odiava o non poteva vedersi per motivi vari ed eventuali, prima di rotolare sulla pancia – e su J.J. steso accanto a me, naturalmente – ed artigliare il cellulare abbandonato sul comodino accanto alla sveglia. Sveglia che, peraltro, indica le ore sette del mattino. Nessun cantante ha mai da fare alle sette del mattino. I cantanti dormono ancora profondamente, alle sette del mattino, e così fanno i loro manager, naturalmente. Prego che non sia Bill, prego che sia mia madre che mi chiama per annunciarmi qualcosa di incredibilmente grave, prego sia Tom che mi cerca nel panico perché dal suo losco passato di sedicenne imbizzarrito è venuta fuori una groupie con un figlio di tre anni in cerca di un assegno di mantenimento, prego che sia qualcosa, insomma, che dia un senso a questo mio svegliarmi all’alba mentre sotto di me un uomo con addominali perfettamente scolpiti anche nella placidità del sonno inspira ed espira profondamente, sistemandosi appena per permettermi di restargli appoggiato addosso mentre prendo il cellulare fra le mani e ne scruto il display illuminato con aria perplessa.
Prego intensamente per tutto ciò, e invece, ovviamente, è solo Bill.
Mi abbatto già esausto su quella paradisiaca superficie che è la meravigliosa pancia di J.J., e lui comincia immediatamente ad accarezzarmi la nuca. Non capisco se dorma ancora o meno, ma comunque non m’importa, quest’uomo è palesemente il modo in cui il karma cerca di riequilibrarsi ridandomi gioia dopo avermi riempito di dolore fino ad ora, e quindi egli, se vuole, può continuare a dormire mentre mi accarezza come fossi un gatto. Dio lo benedica.
- Pronto? – biascico con aria palesemente poco compiaciuta, sperando che Bill capisca l’antifona e strilli “ho sbagliato momento, penso fuggirò in Papuasia per i prossimi tre mesi!”. Naturalmente, però, è di Bill che stiamo parlando, perciò lui strilla comunque, ma naturalmente per dirmi tutt’altro.
- Dada! – cinguetta felice, - Come ti senti oggi?
- Assonnato, Bill. – rispondo, - Come ogni giorno a quest’ora. Si può sapere cosa ci fai già in piedi? Il tuo tappeto rosso non si srotolerà prima di un altro paio d’ore almeno, all’incirca.
- Anis non ne voleva proprio sapere di lasciarmi in pace, stamattina. – borbotta lui, falsamente corrucciato, mentre io realizzo che ha usato l’espressione stamattina e che ciò implica una mattina più mattiniera di questa, che a me pare già mattiniera a sufficienza. Bushido, io e te dovremo parlare a lungo, quando mi sarò rimesso completamente in forze. – Ha cominciato subito a tocchicciarmi appena gli ho portato la colazione, e allora—
- Non voglio sapere i particolari, Bill. – sospiro stancamente, - Sono cose che ho avuto modo di apprendere con dovizia di particolari negli anni, il ripasso conservalo per quando avrai dei figli gay a cui somministrarlo.
Lui borbotta confusamente qualcosa che assomiglia molto ad una protesta perché non lo lascio esprimere nel modo che lui trova più consono, ma fa presto a riacquistare il buonumore quando insisto a chiedergli cosa voglia da me in questo preciso istante. Lo sento trillare come un campanellino scosso dal vento e battere entusiasticamente le mani come il mentecatto treenne che diventa quando crede di avere avuto un’idea meravigliosa, ed alzo gli occhi al cielo perché so già che invece non sarà proprio niente di eccezionale.
- Senti, senti, - mi dice infatti, con aria vagamente cospiratoria, - ho avuto un’idea meravigliosa.
- Sento, sento. – gli faccio eco io, abbattendomi sul fianco di J.J. Al momento, le sue dita fra i miei capelli sono l’unica cosa che mi tenga lontano dalla pazzia.
- Ho pensato, sono passati già un paio di giorni da quando sei stato dimesso, no? – chiede con gioia. Io inarco un sopracciglio.
- No, Bill. – rispondo, - Sono stato dimesso ieri. Meno di dodici ore fa, in realtà.
- Dettagli. – mi liquida lui, del tutto disinteressato alla precisazione che io invece ritengo essere di una certa importanza, - È passato comunque abbastanza tempo da non dover temere che, per esempio, mangiando un piatto di sciorba tu possa aprirti e spargere budella nel mio salotto, no?
- Bill. – mugolo con dolore reale, passandomi una mano sugli occhi, - Un piatto di sciorba mi ucciderebbe anche se fossi perfettamente in salute. E poi c’è la carne, io non la mangio la carne, ma che te lo ripeto a fare? Mi conosci da un millennio e se non ti è ancora entrato in testo dubito che lo farà mai.
- Sì, infatti sarebbe senza carne, mi pare ovvio. – ribatte lui, quasi oltraggiato dalla mia palese mancanza di fiducia nei suoi confronti. – Senza carne va bene?
- La carne è il minore dei problemi della sciorba, Bill. – gli faccio presente, - In quella roba, fra fagioli, ceci, triplo concentrato di pomodoro e peperoncino, c’è tanto di quel potenziale omicida che non riesco a credere che cucinare e servire una pietanza simile, pur nel privato, possa essere una pratica legale in un paese civile quale la Germania è.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, ponderando la questione, e poi sbuffa.
- Non importa, ne mangerai di meno. – conclude quindi.
- Bill! – lo rimprovero io, sconvolto, e lui sbuffa ancora.
- Non voglio andare da Karima per dirle di cambiare menu! Ha già preparato tutto! Non c’è abbastanza tempo per chiederle di cucinare altra roba! – butta lì, come se queste fossero cose che nella mia testa dovessero avere un senso. Non ce l’hanno, però, è evidente. Non c’è abbastanza tempo perché? Che appuntamento è stato preso al posto mio mentre io mi rilassavo fra le possenti braccia di J.J.? Ho quasi paura a chiederlo. Ma devo.
- Bill. – dico piano, inspirando ed espirando profondamente, - Di cosa diamine stai parlando?
Bill si interrompe ancora, riflessivo.
- Ho invitato tutti! – dice quindi, ostinandosi a non dirmi quale sia invece il fulcro della questione, limitandosi a lasciarlo scivolare fra le parole.
- Bill. – lo chiamo con disappunto. Lui mi ignora.
- Ho pensato fosse una cosa carina! – insiste.
- Bill! – insisto anch’io.
- Non arrabbiarti! – piagnucola lui, - Ho organizzato una cenetta qui a casa di Anis, in tuo onore, s’intende, e ormai è tutto organizzato, vi aspettiamo tutti per le sette e mezza, quindi più o meno fra altre dodici ore esatte, quando sarai stato dimesso da ventiquattro ore piene, e volevo avvertirti! Mi sembra che la scelta di tempo sia stata sufficientemente buona, tu che dici? – chiede quindi. Faccio per protestare che no, ma mi rendo conto che non sta parlando con me, perché Bushido gli risponde con una risata incredibilmente divertita, e allora io capisco.
- Bill. – lo chiamo per l’ennesima volta, atono, - Passami tuo marito.
- Ma Dadaaa. – sbuffa lui, mugolando risentito. Io non dico una parola e spero che lo sguardo disapprovante che sto lanciando alla parete bianca di fronte a me travalichi i limiti spaziotemporali che lo separano da Bill e gli appaia come in sogno. Forse questo non succede davvero, ma un paio di secondi dopo sento una risata familiare alla cornetta e so che sono stato telefonicamente introdotto di fronte al signore e padrone di tutti i popoli e specialmente di questo sparuto gruppo di persone che siamo e che non hanno ancora deciso di prendere tutti il primo aereo per i quattro angoli più distanti del globo al solo scopo di liberarci dal suo giogo oppressore.
- Bushido. – dico severamente, - È stata una tua idea?
- La cena no. – risponde lui, con tutta la sincerità di questo mondo, - Chiamarti alle sette del mattino sì.
- Ma sei un cretino o cosa?! – strillo io, agitandomi e piantando un gomito nella parete addominale di J.J., che sarà perfetto ma in fin dei conti è fatto di carne e sangue anche lui, e nel momento in cui il mio gomito si piazza fra le sue povere viscere strabuzza gli occhi, sputa un considerevole sbuffo di fiato e si piega in due, obbligandomi a rotolare fino ai piedi del materasso mentre ancora mi dimeno come un esagitato. – Ma ce l’hai un minimo di rispetto per l’altrui persona?! E, cosa ancora più importante, ma non hai proprio un cazzo da fare nella vita, tu?! Hai un ragazzo, adesso, vivaddio ti è stato restituito pressoché intatto perché palesemente anche il karma ti è asservito senza un motivo ben preciso, e tu cosa fai? Perdi il tuo tempo chiamando me, o facendomi chiamare dal suddetto ragazzo, invece di approfittare del suo giovane corpo fremente di desiderio al tuo fianco! Sei una vergogna per la tua razza, ritirerò il tuo patentino di omosessualità immediatamente, appena verrò a casa tua.
Bushido, naturalmente, ride per tutto il tempo, dalla prima all’ultima parola. J.J. striscia sul materasso rantolando e poi si alza in piedi, annunciandomi che si farà una doccia e poi andrà a lavorare, lui che un lavoro serio ce l’ha. Io mugolo “nooo, non te ne andare”, e J.J. ride, e Bushido ride pure lui, e riesco perfino a sentire la risata di Bill, un po’ più distante, perché lui è come i neonati, che quando ti vedono ridere ridono pure loro per imitazione. Siccome immagino cosa dev’essere vedere Bushido ridere mentre il suo viso è incorniciato dai suoi lunghi e morbidi capelli corvini e tutto il mondo ritrova la pace sul suono della sua voce, non fatico a credere che Bill stia ridendo come un mentecatto perfino in questo momento, ma il risultato finale è solo che tutti ridono, e ridono di me, e io li odio. Mi rannicchio ai piedi del letto e sbuffo platealmente, sono molto arrabbiato e Dio, mi sento così bene che alla fine scoppio a ridere a mia volta, nella soddisfazione di tutti, mentre dal bagno cominciano a venire i suoni tintinnanti dell’acqua lungo le pareti della doccia e Bushido schiocca un discreto bacio di trionfo sulla guancia di Bill. Sospiro profondamente. Sono felice davvero.
- Jost. – mi chiama Bushido, la sua voce è allegra ma è venata da quel pizzico di serietà che utilizza sempre quando sta per dirti qualcosa di veramente importante, perciò mi metto sull’attenti e drizzo le orecchie, per ascoltarlo al meglio. – È una cosa di cui abbiamo tutti molto bisogno. – mi dice con franchezza. Io penso a loro due, penso a quegli altri due e alla loro inaspettata quanto inopportuna entrata a pieno titolo nel mondo delle coppie omosessuali dello showbiz tedesco ed annuisco.
- D’accordo. – confermo a voce, visto che nessuno qui può vedermi, - A stasera.

Tutti noi qui abbiamo bisogno di una cena in famiglia, e ciò è molto vero. È vero soprattutto perché fino a un mese fa, non volendo considerare il ritorno di fiamma fra i gemelli, l’unica coppia che avesse ancora senso definire tale era quella composta da Tom e Cassandra, mentre tutti noialtri andavamo in giro ramenghi, privi di un amore e di uno scopo per cui valesse la pena vivere.
Ebbene tutto questo è cambiato nel giro di tre giorni quando, dopo un mese di convivenza a casa di Bushido – a mio parere inutile e paragonabile solo ad un lungo e melenso preliminare platonico – la coppia reale s’è ritrovata rifulgendo splendore e spargendo nell’aria tedesca un miliardo di minuscole particelle subatomiche cariche di energia omosessuale positiva. Tale energia ha permesso a me e J.J. di continuare a vederci anche se lui non doveva più passarmi creme cicatrizzanti sulla pancia, e non solo, ha portato alla luce anche delle tragiche vibrazioni nella forza, e queste vibrazioni nella forza hanno prodotto una relazione fra Fler e Chakuza. Per molto tempo, tutti noi abbiamo aspettato che anche Eko Fresh ci presentasse il proprio ragazzo, cosa che almeno ci avrebbe rassicurato sulla follia generale, ma ciò non è mai accaduto, per cui ci siamo dovuti arrendere al fatto che fra Fler e Chakuza non c’era proprio niente di folle, e che quindi questa gente ci doveva quantomeno delle spiegazioni.
Insomma, viene fuori che in realtà ad accostare le parole Fler, Chakuza e gay si ottengono un mucchio di ricerche correlate stile Google, di alcuni risultati delle quali Bill era perfino a conoscenza!, che portano alla luce numerosi dettagli come il fatto che in realtà Fler e Chakuza avevano già una storia un millennio di anni fa, poi s’erano lasciati, poi s’erano ripresi, e via così lasciandosi e riprendendosi a fasi alterne a seconda che Bushido fosse vivo o morto, che Bill fosse o meno disponibile e che gli astri fossero o meno allineati. Nella storia, a un certo punto, s’è inserito un ragazzino minorenne biondo di cui so poco e intendo continuare a sapere poco. Le uniche informazioni in mio possesso sono il suo nome – Daniel – la sua età e il dettaglio per cui mentre Bushido era in tour a farsi uccellare da Bill e Chakuza, lui invece era a Berlino e si occupava di Fler, rimasto solo a leccarsi le ferite, facendosi in un certo senso uccellare anche lui, ma in modo diverso.
Ora, vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione di Bushido a tutto questo: io e lui eravamo in pratica gli unici in qualche modo coinvolti a non sapere un beneamato piffero di tutti questi intrecci sentimentali, ma mentre per me si trattava in fondo solo di una serie di informazioni di cui prendere atto, per lui è stata una tragedia; era un uomo felice, stava vivendo una nuova primavera, e in un colpo solo scopre non solo che Chakuza gli ha manomesso entrambi i fidanzati, ma che uno dei due, mentre lui era lontano, l’ha tradito con un imberbe del ghetto. Onta e disonore. È rimasto immusonito per settimane.
In pratica, nel giro di un periodo di tempo troppo breve e palesemente insufficiente a metabolizzare il tutto come sarebbe stato giusto, ci siamo ritrovati a passare dall’essere un gruppo di persone eterogeneo con variabili di omosessualità sparsa, a diventare una cooperativa gay a tutti gli effetti, di quelle che hanno tesserini, liste elettorali e tasse d’iscrizione. Non so se rendo l’idea. Non è che ci serva una cena, ce ne servono trecento per entrare nell’ordine di idee, ed altre trecento almeno per abituarci al tutto.
Perciò, è non dico con piacere, ma con coraggioso spirito di sacrificio che mi presento a casa di Bushido all’orario convenuto, portando J.J. con me. Tra l’altro, lui è stato meraviglioso: avrebbe tranquillamente potuto dirmi che lui con questa mandria di scoppiati non ha niente a che fare, che non è nemmeno il mio medico, cosa peraltro vera, e che solo una combinazione di eventi e l’anzianità del dottor Neuer l’hanno portato a doversi prendere cura di me e poi a diventare il mio ragazzo, e che per tale motivo potevo venire qui da solo e ci saremmo visti al limite in nottata o al massimo l’indomani mattina, e invece s’è dimostrato molto disponibile, e brillando di luce propria s’è offerto di staccare prima da lavoro per passare da casa mia e venire qui insieme, invece di presentarci separatamente. Dopo questo, gli ho chiesto di sposarmi, ma lui ha riso e mi ha scompigliato i capelli come se fossi un tredicenne. Qui nessuno capisce che il mio desiderio di metter su famiglia con un Adone buono come un santo è tremendamente reale e forte.
Comunque, a cena ci sono tutti. Ci sono Tom e Cassandra, Fler e Chakuza, Eko e Kay One – non nel senso di coppia, fortunatamente, solo nel senso degli unici due uomini spaiati presenti a tavola, anche se in realtà Kay One la ragazza ce l’ha e tutti sappiamo che esiste perché è Mandy delle Monrose, ma non ce l’ha mai presentata e suppongo sia perché lei davvero con questa follia non vuole avere niente a che fare – io e J.J. e naturalmente i padroni di casa. Del minorenne del ghetto non c’è traccia, probabilmente perché Fler l’ha lasciato e lui non deve averla presa molto bene, come qualunque minorenne del ghetto o meno, e anche Karima non c’è, ha la serata libera, e questo dà a Bill l’occasione di fingersi una massaia e portare a tavola pietanze come fossero frutto del suo duro lavoro, cosa che tutti quanti sappiamo non essere vera, anche se nessuno, vedendolo così felice e soddisfatto di sé, ha cuore di farglielo notare.
La conversazione inizialmente è stagnante. Non ci ritroviamo così tutti assieme da… forse non è mai successo di ritrovarsi così tutti assieme, per dire la verità, per cui i primi minuti siamo tutti molto freddi e ingessati. Facciamo i complimenti (immeritati) a Bill per la sciorba, che nonostante non abbia neanche un pezzettino di carne in sé è pesante come un macigno, parliamo del lavoro, di quanto sia dura ultimamente per le case discografiche investire alla cieca visto il clima di recessione generale, parliamo perfino del tempo e del fatto che quest’anno abbia cominciato a fare freddo prima del solito, e poi, quando siamo qui sull’orlo della tragedia che pensiamo già con disperazione di parlare della morte del polpo Paul giusto per darci qualcos’altro da dire, Eko comincia a delirare qualcosa di sostanzialmente incomprensibile su quanto sia buffo stare a tavola tutti insieme e quanto tutto questo lo faccia sentire in una puntata di Verbotene Liebe “ma più gay, cioè, ancora più gay”, e questo fa la magia.
Non è che succeda qualcosa di particolare, semplicemente ci mettiamo tutti a ridere e sentiamo che queste risate non sono false, non suonano strane, anzi, c’è una certa chimica che le avvolge, le fa risuonare nel modo giusto in questa stanza ed alle nostre orecchie, e quando smettiamo di ridere ci guardiamo e c’è una nuova consapevolezza che ci pervade tutti. È una vocina sottile e ancora un po’ timorosa che ci spiega che adesso è troppo presto per fare passi da giganti, per dire “è già tutto a posto”, ma al contempo ci rassicura sul fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta, e non sarà stasera, e probabilmente neanche durante la prossima cena che faremo, ma se continueremo di questo passo prima o poi ritornerà tutto a posto davvero, e questi fili monchi che pendono potremo riallacciarli correttamente, e i nodi saranno stretti abbastanza da non sciogliersi più.
È con questa voce carezzevole che ancora mi riecheggia nelle orecchie che, un paio d’ore più tardi, mi appresto a salutare tutti ed andare via. Una decina di minuti fa, Bill ha fatto una marea di scene, s’è stiracchiato, ha sbadigliato ampiamente almeno trenta volte e poi, con voce fintamente impastata dal sonno, ha annunciato di essere molto stanco e di volere andare a dormire. Un modo molto tenero per dirci che la rimpatriata gli era piaciuta ma ora voleva restare solo con Bushido, per cui se avessimo potuto levarci di torno senza fare grandi storie lui l’avrebbe apprezzato moltissimo.
Unanime, un coro di “sì, effettivamente s’è fatto un po’ tardi” s’è sollevato da tutti gli astanti, e questo nonostante fossero appena le dieci e mezza. Il potere della persuasione, dei cui mistici segreti Bill è sempre stato gran custode e conoscitore. Quindi Bill s’è alzato da tavola, ha salutato tutti come quei bambini che vanno a letto presto e lasciano i grandi a discutere delle loro faccende e s’è defilato al piano di sopra. Noi ci siamo lanciati tutti una serie di occhiate vagamente confuse e vagamente divertite, e poi abbiamo cominciato a defluire verso l’uscita.
Io e J.J. ci allontaniamo per primi, anche perché la sciorba comincia a fare effetto e io sento di essere pronto alla morte. Lo faccio presente a J.J. che si offre di restare con me stanotte, cosa che io apprezzo enormemente. Di ciò che segue la mia dipartita verso casa non posso parlare, perché non c’ero, ma alla luce di ciò che se ne racconterà favoleggiando nei giorni successivi, penso che passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo. E se si tiene presente che questa cena e questa serata sono stati i punti fermi su cui abbiamo poggiato il primo mattone per la ricostruzione di ciò che eravamo… be’, è abbastanza evidente che il futuro non poteva che presentarsi come parecchio complicato già in partenza.

*

Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti. Non è che fossi uscito di casa con l'idea di fare spese – anche perché non sono proprio in condizione di spendere più di quanto guadagno, che poi è niente visto che non abbiamo ancora un'etichetta – ma loro erano lì in vetrina che mi imploravano di comprarli e io non ho avuto cuore di passare oltre e lasciarli al loro destino. Sono costati un occhio della testa ma, visto che li ho comprati soprattutto per usarli con Anis, li considero una specie di piccolo investimento. Serviranno per riaccendere il fuoco della passione; anche se in realtà non è che si sia mai spento, anzi, tra tutte le cose possibili, forse si è addirittura propagato, dal momento che Anis non mi lascia in pace un minuto e ho sempre le sue mani addosso, molto più di quanto le avessi prima. Il fatto è che Anis si annoia in fretta, quindi se voglio che questa situazione si perpetui nei mesi a venire, devo lavorare di fantasia.
Adesso io mi infilerò questi pantaloni di pelle e magari quella maglietta che Anis finge non sia da donna solo perché lo fa impazzire il modo in cui mi esce una spalla dallo scollo a barca, e poi scenderò al piano di sotto dove lui potrà possedermi selvaggiamente sulla prima superficie disponibile, dopo avermi strappato i vestiti di dosso a morsi. Metaforicamente parlando, s'intende.
Quest'idea di vestirmi in un certo modo solo per farmi spogliare il più velocemente possibile e battere così ogni nostro precedente record di preliminari, la covo già da un po', da molto prima di comprare i pantaloni in realtà. E' che durante il giorno Karima è sempre in casa e quando arriviamo alla sera e lei finalmente si ritira nella sua cuccia in cantina – o dovunque dorma, non lo so, in una catapecchia in giardino forse – alla fine mi passa di mente e con Anis finiamo a fare sesso a letto, che è sempre una cosa meravigliosa, ma non quella che volevo fare io.
Questa è la serata perfetta per portare a termine il mio piano geniale perché è il giorno libero di Karima, il che significa che una volta salutati i nostri amici e chiusa a doppia mandata la porta d'entrata, questa casa gigantesca sarà solo mia e di Anis, con tutti i benefici del caso. Se penso che stamattina quella strega malefica voleva mandare tutto all'aria rinunciando alla sua partita settimanale di canasta con le amiche e restare qui a cucinare e servire per un reggimento quell'unica volta che nessuno le aveva chiesto di farlo, mi sale di nuovo la rabbia.
Mi sono svegliato presto, forse qualche minuto dopo le sette, e non potete capire il disappunto di scendere le scale, attraversare il corridoio, infilarsi in cucina con l'idea di mettere insieme una colazione decente per poi organizzare l'intera giornata e trovarci lei, con la sua divisa color grigio topo che rimesta dentro un paiolo gigante. Soprattutto quando mi ero addormentato la sera prima con la convinzione che non l'avrei più rivista per almeno ventiquattro ore.
Nessuno dovrebbe mai svegliarsi in questo modo, la sola presenza di quella donna disturbava l'intera estetica della villa illuminata dal sole, di Anis che ancora dormiva nudo tra le lenzuola di seta del nostro letto imperiale, ma soprattutto la mia, visto che io odio fare colazione circondato dall'olezzo di mille cipolle. Interrogata, per altro, lei ha avuto il coraggio di dirmi che qualcuno doveva pur preparare la sciorba per la cena di stasera visto che né io né tantomeno il signor Ferchichi sappiamo farlo. Ora, questo è tragicamente vero, ma ciò non significa che lei non potesse preparare questa cosa raccapricciante ieri e lasciarla in una pentola dentro al frigorifero perché noi potessimo usarla come ci pareva, e perfino buttarla se poi a guardarla ci avesse fatto ribrezzo e avessimo voluto farci una pizza.
E invece no. Lei ha risposto che la sciorba non si può preparare il giorno prima, che non può mica stare in frigo che sennò si sciupa e un sacco di altre cose che però non ho ascoltato perché mentre lei le diceva io ho prendevo la colazione mia e di Anis e tornavo in camera, dove mi sono ampiamente lamentato dell'intera faccenda.
Anis, però, queste cose non le prende mai sul serio perché trova Karima adorabile, il che non mi sorprende poi molto perché quella fa la strega soltanto con me e quando poi io lo chiamo per dimostrarglielo, lei diventa uno zucchero e fa tutto quello che le dico senza protestare. Così alla fine Anis non crede mai a quello che gli riferisco e dice che sono esagerato e che non è vero niente.
Lo ha detto anche stamattina mentre si mangiava da solo tutte le brioche che avevo portato senza lasciarmene neanche una. Ovviamente mi sono lamentato anche di quello e gli ho fatto notare che in questa casa non mi si tratta da principessa nemmeno un pochino, ma da lì in poi non ricordo bene come sia andata; so solo che Anis si è messo a ridere e mi ha spogliato di nuovo, così abbiamo finito per fare l'amore e io mi sono dimenticato tutto quello che volevo da lui, almeno fino a quando non abbiamo finito e lui ha ceduto dicendo che le avrebbe parlato.
Alla fine si sono messi d'accordo perché Karima si prendesse solo mezza giornata libera e facesse l'altra mezza domani mattina, il che mi torna ancora più comodo perché adesso lei non c'è e non ci sarà nemmeno quando domani ci sveglieremo, così se vogliamo possiamo pure addormentarci sul tappeto del salotto e lei non potrà svegliarci tirando le tende e dicendo che è tardi e dobbiamo alzarci o, ancora peggio, con la solita storia che siamo due uomini e non sta bene e il cielo ci fulminerà riducendoci in cenere.
Comunque infilarsi questi pantaloni non è facilissimo. Nel camerino del negozio ho fatto delle scene molto ridicole, saltellando per riuscire a tirarli su senza dover necessariamente chiamare qualcuno a darmi una mano e anche adesso non è che mi riesca meglio, nemmeno se mi distendo sul letto e allungo le gambe. Spero che ad Anis non venga l'idea di salire a cercarmi perché potrei dire addio all'atmosfera, e poi comunque sono ancora mezzo nudo, cosa che rovinerebbe un po' tutta l'idea dello scendere e farlo come animali su uno a caso tra i mobili del soggiorno, magari anche senza spogliarsi – anzi, di sicuro senza spogliarsi visto che una volta che sarò riuscito ad infilarmi questi pantaloni né io né Anis saremo mai in grado di togliermeli del tutto in un tempo ragionevole a mantenere una certa libido.
Ci metto quasi dieci minuti, ma alla fine i pantaloni cedono un po', e le mie gambe ci finiscono dentro alla perfezione, la pelle non fa nemmeno una piega. Quando mi guardo allo specchio, penso che mi salterei addosso da solo se non mi piacessero gli uomini più virili di me; il che mi ricorda che Bushido è al piano di sotto e mi viene da ridere all'impazienza che mi fa saltellare e mi arriccia le dita dei piedi.
Non mi sentivo così bene da non so nemmeno quando. Non ho solo voglia di stare con lui, ho proprio voglia di giocare e mi sembra giusto ricominciare a farlo stasera, dopo questa cena che ha fatto tornare le cose più o meno com'erano prima.
Altri cinque minuti per sistemare lo scollo della maglia in maniera strategica e sono pronto. Tendo l'orecchio al piano di sotto ma non sento più il chiacchiericcio degli ospiti che hanno evidentemente colto il mio velato invito a levarsi di torno e se ne sono tornati a casa loro mentre io mi cambiavo; così scendo le scale con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e non aspetto di arrivare in fondo alla rampa, mi basta scorgere il profilo di Anis vicino alla porta per annunciargli la mia presenza. “Amore, dammi un parere, come mi stanno questi pantaloni?” La butto lì così, come se fosse una questione di poco conto e naturalmente mi aspetto una reazione entusiasta che possa dare il via ad un dialogo più o meno azzardato da concludersi nella maniera più classica, il che a ben guardare sembra l'inizio di uno di quei terribili porno di serie zeta che ogni tanto guardano tutti insieme nemmeno fossero tredicenni con una casa libera a disposizione e quindi la possibilità di masturbarsi mentre mamma non c'è.
Comunque quello che sembra non importa affatto, perché qualunque cosa fosse viene eclissato da ciò che poi effettivamente succede, ossia che la risposta entusiasta mi arriva da due voci diverse e per un attimo il tempo si ferma, la Terra smette di girare e rimane sospesa nel buio gelido dell'universo, in attesa che la forza di inerzia si esaurisca e la lasci andare alla deriva chissà dove.
Bushido mi guarda e risponde “Sei bellissimo” ma sono le note più basse della voce di Chakuza che dice la stessa identica cosa nello stesso identico istante a far calare il gelo nella stanza.
All'improvviso mi sento a disagio e penso che questa sia stata una pessima idea, o almeno lo è stata non guardare se c'era effettivamente qualcuno nella stanza insieme ad Anis.
Il silenzio pesantissimo che ci avvolge ha appena distrutto qualunque tipo di serenità avessimo raggiunto nelle ultime due ore.
Mi sento a disagio e vorrei correre di sopra a cambiarmi, o farmi inghiottire qui dove sono dalla rampa di scale, ma Peter è mortificato e Anis lo guarda così male che ho paura stia per saltargli alla gola. Così resto e provo a sistemare le cose, anche se non ho mai prevenuto un omicidio violento prima d'ora e sono quasi sicuro che mormorare “Ragazzi...” con voce incerta non sia la maniera giusta di farlo.
Nessuno si volta nella mia direzione, come se io e i miei pantaloni di pelle fossimo scomparsi subito dopo il disastro che abbiamo generato.
E' Fler che fa ripartire il tempo e la porta che sbatte, uscendo furioso da questa casa, fa girare di nuovo la Terra, che forse non andrà più alla deriva ma di certo ha un grosso problema.

*

Io stamattina non mi ero affatto svegliato con l'intenzione di essere la farfalla che sbattendo le ali in Europa provoca uragani in Cina. Innanzitutto perché mai nella mia vita ho desiderato essere una farfalla, e poi perché mi ero appena ripreso dalla fatica di riparare i danni del mio ultimo uragano e tutto volevo tranne che scatenarne altri, che fossero dall'altra parte del mondo oppure nel salotto di casa dell'uomo che meno li avrebbe apprezzati.
Quella di oggi, in realtà, si era rivelata una giornata molto piacevole e niente aveva lasciato presagire che sarebbe finita in tragedia. Fler ha dormito da me ieri sera, come la sera prima e tutte quelle precedenti – in realtà ha quasi tutta la sua roba da me quindi forse già viviamo insieme da settimane, solo che non ne abbiamo mai seriamente parlato, quindi è come se fosse ancora un ospite – così stamattina abbiamo fatto colazione insieme e poi siamo passati alla EGJ a provare qualcosa, giusto per vedere se ci riusciva ancora.
Gli uffici non sono ancora del tutto attivi ma il grande capo vuole riaprili a breve e, da quanto ho capito di quello che Fler non mi dice con le sue risposte vaghe e imbarazzate, credo che Bushido abbia in mente di far entrare anche lui a far parte della nostra grande famiglia, il che immagino porterà ad una guerra fratricida con l'Aggro Berlin durante la quale Sido e il tunisino si sfideranno a colpi di pistola per decidere chi dei due debba tenere Fler e chi invece dovrà pagare gli alimenti e potrà vederlo soltanto un fine settimana ogni quindici giorni.
Ad ogni modo, stamattina in studio non ci abbiamo trovato nessuno, perché questa crew è in realtà composta da lavativi che per più di un anno e mezzo non hanno fatto assolutamente niente e continueranno a farlo finché l'intera produzione non ricomincerà a pieno regime, ossia quando il grande capo non andrà a prenderli a casa uno per uno e li trascinerà in ufficio dove, in realtà, nessuno farà nulla lo stesso, ma l'importante è che il gruppo sia di nuovo compatto. Io e Fler ci siamo appropriati di una cabina di registrazione e mentre io gli mandavo le basi e missavo, lui ha fatto un po' di freestyle così come veniva, e non è andata affatto male.
E' strano lavorare sulla voce di Fler, perché sono abituato a sentirla e ne conosco ogni singola sfumatura ma non mi era mai capitato di metterci sopra le mani, prima d'ora. Ha una bella voce, molto simile a quella di Bushido ma più alta, e un rappato molto più pulito e lineare del suo. Me ne accorgo soltanto ora che posso lavorarci sopra perché lo avevo ascoltato solo nelle canzoni che ha fatto con l'Aggro Berlin, che sono un vero e proprio scempio; non sono stati in grado di valorizzarlo per niente, sporcando le tracce invece di semplificare le basi per dare più spazio al suo modo di cantare.
Quello su cui abbiamo lavorato stamattina è un accenno di canzone che Fler attacca ormai da una settimana quand'è sotto la doccia. All'inizio nemmeno se n'era accorto, io ero lì che mi lavavo i denti e lui cominciava a prendersela col sistema, il governo e la Berlino borghese che lascia i ragazzi liberi di ammazzarsi in strada per un etto di eroina purché che lo facciano lontano dalle case per bene.
L'ho ascoltato in silenzio per giorni, cercando la base giusta da mettergli sotto, e poi quando mi è sembrato di avere qualcosa, gliel'ho proposto e lui l'ha trovata una buona idea. Il ritornello è già piuttosto chiaro, quindi dobbiamo solo limare tutto il resto e cambiare un paio di rime perché funzionano solo con lo scroscio diseguale della mia doccia dell'anteguerra a coprirne la metà, un suono che mi rifiuto di inserire, nonostante l'insistenza di Fler, visto che rovinerebbe l'idea ben precisa che ho per questa canzone. Tra le altre cose io credo che ci vorrebbe una doppia voce, ma non una come la mia, qualcosa di molto più alto e caldo; una donna, probabilmente.
Stamattina sono uscito dallo studio molto soddisfatto del risultato, anche se in realtà per il momento abbiamo solo pasticciato; potrebbe essere un'ottima idea per ridare vita a quest'etichetta, ma per metterla davvero in cantiere devo parlarne con Bushido, più che altro perché la base è mia ma la canzone è di Fler e dobbiamo capire dove realizzarla. Naturalmente potrei chiedere a Patrick di produrla con la Beatlefield, ma questo scatenerebbe le ire di Bushido.
Io avrei avanzato volentieri l'ipotesi alla cena di stasera, ma Patrick mi ha chiesto per favore di non litigarci di proposito, quindi se non l'ho fatto è stato solo per lui.
Alla fine, durante questa bella rimpatriata – che è stata una palese idea di Bushido al quale, più di ogni altra cosa, piace stare seduto a capo tavola e guardare con aria soddisfatta un numeroso gruppo di persone fingendo di avere il comando assoluto – non c'è stato modo di tirare fuori l'argomento, anche perché le spirali di follia generatesi qualche settimana fa negli occhi di Bushido alla notizia che io sto con Fler non si sono ancora spente e quindi Patrick ha fatto di tutto per non farmi aprire bocca in quel senso.
Per quanto l'illuminato sovrano mi guardasse male, comunque, aveva ben poco da protestare e difatti è stato zitto. Non credo che lo farà adesso, però, e se devo essere sincero non me la sento nemmeno di dargli torto.
Siamo io, lui, Fler e Bill congelati nell'ultimo istante trascorso da quando Bill ci ha chiesto come stava con quei pantaloni praticamente disegnati addosso e io gli ho risposto che era bellissimo.
Cazzo! E' la prima cosa che penso non appena mi rendo conto di quello che ho detto. Avete presente quando dite qualcosa e nell'attimo stesso in cui la dite già sapete che è una stronzata ma ormai non potete più fare niente per evitarlo? Io questa sensazione non la provo così spesso, perché in genere non mi accorgo che quello che sto dicendo è una stronzata, sono anzi piuttosto sicuro di non stare facendo niente di male. Stavolta, però, ci arrivo anch'io e ci arrivo subito, nel momento stesso in cui quel “Sei bellissimo” mi esce di bocca, solo che esce così naturale e sovrappensiero che quando sarebbe l'ora di rimangiarselo lui è già lì che svolazza nell'aria dove tutti possono vederlo e sentirlo.
A mia discolpa posso dire che ero appunto impegnato ad informare Bushido che io e Fler, stamattina, stavamo lavorando ad un canzone e che se voleva poteva darci un'occhiata. Il mio cervello era talmente concentrato su questo che si è dimenticato di aggiornare la data e con essa il fatto che Bill non poteva stare parlando con me, visto che a quanto pare abbiamo rotto mentre ero in Austria.
Ad ogni modo la reazione di Bushido mi è completamente indifferente, sento il suo sguardo infuocato che mi perfora il cranio ma in sostanza lo ignoro perché in questo momento l'unica cosa che davvero mi preme è arginare la rabbia di Fler, che in piedi alle mie spalle si è acceso come una torcia umana e probabilmente esploderà nel giro di qualche secondo. Non faccio in tempo a girarmi per cercare di arginare il disastro che mi sono lasciato scappare di bocca che di lui non c'è già più traccia e la porta della villa ancora vibra per la forza con cui la sbattuta.
Gli corro dietro e intanto cerco di mettere insieme le parole giuste per scusarmi e spiegargli la situazione, anche se forse dovrei semplicemente scusarmi e basta perché non credo voglia sentirmi giustificare un bel niente. Si è trattato di una risposta automatica e non stavo pensando a Bill fino al momento in cui effettivamente non ho alzato lo sguardo e l'ho visto sulle scale, ma Patrick non sarà affatto disposto a sopportare anche questa dopo l'incidente al ristorante polacco.
Mi aspetto di dover chiamare un taxi perché avrà preso la macchina e se ne sarà andato, e invece lo trovo ancora in giardino che prende a calci la cancellata ricoperta di siepi. Ci mette tanta di quella violenza che ogni tanto il cespuglio di gelsomino sbuffa una nuvola di petali.
Quando si accorge che sono lì, mi guarda così male che perdo ogni speranza.
Se c'è mai stata una volta in cui avevo già perso in partenza, con lui, allora è sicuramente questa.

*

Chakuza ha due problemi fondamentali.
Il primo è che è una persona inopportuna, il secondo è che non si rende conto di esserlo; e anche se lo fa il suo ritardo è così oltraggioso che non lo si può giustificare in ogni caso. E' una di quelle persone capaci di farti gli auguri ad un funerale e le condoglianze ad un matrimonio, e in entrambi i casi accorgersene quando ormai è tornato a casa e si è messo il pigiama.
Così adesso si presenta qui davanti a me e la prima cosa che riesce a dirmi è che se continuo di questo passo probabilmente finirà per non rimanere più niente di questa dannata siepe di gelsomino.
Chi se ne frega del gelsomino, cazzo. E allora si rende conto e si scusa, in ritardo naturalmente.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” gli dico.
Mi chiedo se sia consapevole del motivo per cui dovrebbe essere qui in questo momento, o se ha agito secondo il buon senso di qualcun altro.
“So che sei incazzato...”
“Io non sono incazzato Chakuza, io sono furioso,” preciso.
Lui si schiarisce la gola e guarda per terra, credo forse alla ricerca degli altri sei nani nascosti nell'erba per suggerirgli quello che deve dire. “D'accordo, so che sei furioso e hai tutti i motivi per esserlo, ma posso giurarti che non mi sono reso conto di quello che stavo dicendo.”
“Questa non è una novità, Chaku. Tu non hai mai la minima idea di quello che ti esce di bocca. Se questo fosse il mio problema, fra di noi sarebbe finita molti secoli fa e io, starei sicuramente molto meglio.”
Mi viene in mente che starei con Nicole, o starei con Daniel. Sarei con qualcuno che non si sarebbe mai sognato di volgere lo sguardo adorante verso il suo ex fidanzato e dirgli che è bellissimo quando è inguainato in un paio di pantaloni che sono così attillati che tanto varrebbe fosse nudo.
“Se non è quello che ho detto, allora...”
“Allora cosa?”
“Allora qual è il problema?” mormora incerto.
Io smetto di devastare il giardino di Bushido a calci e mi fermo ad osservarlo, ma nemmeno mi stupisco che sia qui di fronte a me e non abbia la minima idea di quello che ha fatto perché io lo sapevo che era così, quindi sarei stupido anche a sorprendermi. “Non sono le cazzate che dici il problema, perché quelle sono un flusso continuo ventiquattr'ore al giorno per tutti i giorni della settimana e non c'è modo di arginarle perché sono fatte della stessa merda di cui è foderato il tuo cervello! Il problema è tutto quello che c'è dietro.”
“Ma non c'è niente dietro!” Protesta lui che non ha mai capito che nelle discussioni in cui ha palesemente torto – cioè la quasi totalità di quelle in cui finisce – lui non ha nessun diritto di protestare. Mai.
“Certo come no.”
“Pat, dico sul serio.”
Sono felice che il suo catorcio sia di nuovo dal meccanico – d'altronde l'ho ridipinta e le ho messo un nuovo portellone, ma non è che potessi trasformarla in una macchina vera – così siamo venuti con la mia auto e posso decidere che ce ne andiamo ora. Anzi, posso anche decidere di lasciarlo a piedi, così può rimanere qui a fare la corte alla sua stupida principessa. Magari se aspetta un po' riesce a prenderla al volo quando Bushido la butterà fuori dalla finestra.
Lui invece mi segue allungando il passo e alla fine lo lascio salire, perché tanto alla fine devo andare a casa sua, quindi finirei per ritrovarmelo comunque tra i piedi. “Non stavo affatto pensando a Bill,” mi dice, chiudendo la portiera e regolando la cintura del sedile del passeggero perché non gli seghi la gola. Ogni volta che chiudo la macchina, quella li riporta automaticamente all'altezza iniziale, così le poche volte che si fa scarrozzare in giro, deve sempre rimetterci mano per non venirne strangolato.
“No, tu pensavi agli unicorni rosa che attraversano correndo gli arcobaleni del tuo cervello” commento lanciandogli un'occhiata impietosita mentre metto in moto. “Ed è ad uno di essi che hai detto che era bellissimo, casualmente nello stesso istante in cui Bill scendeva le scale.”
“Stavo parlando con Bushido, è stata una risposta automatica.”
“Vuoi peggiorare la situazione?”
“No, sto solo cercando di spiegarti come sono andate le cose,” insiste. “Ero distratto, lui ha detto quella cosa e ho risposto.”
“Quello che lui ha detto è: come mi stanno questi pantaloni, amore,” gli ricordo. “E mi pare chiaro che ti senti ancora compreso nella definizione.”
“Non mi sento affatto compreso nella definizione.”
Rido. “Oh ma ti piacerebbe tanto, vero?”
Chakuza tace perché sappiano entrambi che ho ragione, quindi è meglio se non replica dicendo che ormai Bill è acqua passata perché non è vero. Se quel ragazzino si svegliasse un giorno con la voglia di prenderlo a calci nelle gengive, Chakuza lo lascerebbe fare e gli chiederebbe pure di usare la punta rinforzata. Fa tanto l'uomo furioso, e poi si scioglie non appena la principessa lo guarda un po' più del necessario. E anche Bill avrebbe bisogno di una bella strigliata, ogni tanto, perché è vero che ora non vede che Bushido, ma se si risparmiasse di abbassare lo sguardo con le guance rosse quando Chakuza è in giro, risparmierebbe a tutti un sacco di acidità di stomaco.
Tutto il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. O meglio, lui prova a dire qualcos'altro ma tanto sono solo cazzate per cui gli dico di stare zitto e almeno stavolta mi fa la cortesia di starmi a sentire.
Come se questa serata non fosse già stata abbastanza, torniamo a casa per scoprire che il tecnico che abbiamo chiamato nemmeno una settimana fa, in realtà non ha riparato un cazzo perché la caldaia è di nuovo rotta e nell'appartamento ci saranno due gradi e mezzo. In realtà non dovrebbe fare così freddo, perché non è ancora stagione, ma visto che viviamo in un perenne stato di sfiga nera, era anche piuttosto ovvio che la caldaia andasse a rompersi nell'unico anno in cui a settembre fa freddo come se fossimo in pieno inverno. Senza contare che questa casa ha i muri così sottili che basta un soffio di vento e c'è bisogno della sciarpa anche solo per passare un paio d'ore davanti alla TV in salotto.
Proviamo ad aprire al massimo i termosifoni ma non succede niente perché il problema è in cantina, come al solito. “Vado a dare un'occhiata,” dico prendendo la torcia. “Tu intanto cerca delle coperte pesanti, perché non credo che ci sia molto da fare. E guarda nel ripostiglio, dovrebbe esserci ancora quella ridicola stufa elettrica che abbiamo usato a Capodanno.”
Vado nel locale caldaie più per non averlo sotto gli occhi che per risolvere la situazione, anche perché sono quasi sicuro che non ci sia assolutamente niente da fare. Il tecnico ha detto che si trattava di un qualche pezzo – naturalmente costosissimo – da riparare e, dopo aver emesso una fattura che al confronto le estorsioni di Arafat sono plausibili richieste di pagamento per un servizio offerto, se n'è andato fischiettando e lasciando la caldaia esattamente com'era prima. La luce in questa specie di cantina non funziona mai e non c'è da sorprendersi visto che l'unica fonte di illuminazione è una lampadina da 25W appesa ad un filo che uno dei vecchi condomini deve aver tirato trent'anni fa, alla faccia dei sistemi di sicurezza dell'impianto elettrico. E' fulminata, naturalmente. E Meno male che il quadro elettrico è saltato di recente e Chakuza ha chiamato anche l'elettricista, sennò chissà che buio.
Quando apro la porta, che ovviamente cigola, la lampadina si mette ad oscillare macabra e io vedo l'ombra muoversi sul pavimento, nel cono di luce che ho creato entrando. Sembra la scena di un film dell'orrore. Adesso scendo per queste scalette anguste e chissà che cazzo ci trovo là sotto.
Accendo la torcia ed illumino un po' intorno, come se questo potesse salvarmi nel caso qualche esperimento genetico fosse davvero sfuggito da un laboratorio qui vicino e si fosse introdotto in questo palazzo fatiscente passando attraverso le fogne.
La caldaia che corrisponde all'appartamento di Chakuza è naturalmente quella più lontana dall'entrata e incastrata in un rientro nel muro che per raggiungerla devo fare i chilometri e lasciarmene alle spalle altrettanti di buio. Questa stanza non mi era sembrata così inquietante l'ultima volta che sono stato qui, forse perché ero troppo impegnato a tenere a bada Chakuza e le sue mani.
Quando alla fine arrivo alla caldaia, scopro che era esattamente come pensavo, ossia quella se ne sta lì e mi dice che non c'è pressione e io non so cosa farci. Provo a tirargli un paio di colpi con la torcia, ma quella rimane della sua idea e non funziona. Giusto per essere sicuri controllo anche un paio delle altre e sono tutte morte come quella del Chaku, quindi direi che è un problema dell'intero palazzo.
Torno all'appartamento recando pessime notizie, e trovo Chakuza che cerca di rimettere nel ripostiglio tutto il ciarpame che dev'essere esploso fuori quando ha aperto la porta. Là dentro c'è stipata talmente tanta roba sotto pressione che è sempre un pericolo passarci davanti, perché potrebbe esplodere. Almeno ha trovato la stufa e una pila di coperte.
“Non c'è pressione,” annuncio rientrando in casa, e vedo la sua testa che si affaccia subito dal corridoio. “Ma non è la tua caldaia. Tutto l'impianto è andato.”
“Fantastico,” commenta. Lotta con il mostro di cianfrusaglie che vive nel suo ripostiglio, ma alla fine vince lui e riesce a chiudere la porta. “Almeno la stufa funziona.”
“Bene. Vuoi quella o le coperte?”
“In che senso?” Chiede puntualmente lui.
“Non ho alcuna intenzione di dormire con te,” rispondo. “Quindi prendo il divano. Stufa o coperte?”
Lui trasfigura, come ogni volta che per qualche motivo succede qualcosa del genere. Se io sono qui in questa casa, la possibilità che non passi la notte nel suo letto non è nemmeno contemplata; quando ciò avviene, occupa istantaneamente il secondo posto nella sua scala delle tragedie. Visto che rimane con la bocca aperta un tempo sufficiente a farmi credere che sia morto in piedi, decido io. “Okay, tu prendi la stufa, io tengo le coperte,” dico, recuperandone un paio e sistemandole sul divano.
Solo allora lui si libera dall'incantesimo che lo aveva trasformato in pietra e mi segue, disfacendo il letto dove io lo faccio. “No, tu non dormi sul divano.”
“Invece è esattamente quello che farò,” ribadisco.
Sistemo il cuscino e lui lo toglie. “Tu non puoi dormire sul divano,” si corregge.
“Posso eccome, Chakuza.”
“Questa è casa mia e io non voglio che tu dorma sul divano,” sbotta lui, strappandomi dalle mani una coperta e gettandola via con stizza. Mi ricorda un po' quei ragazzini che prestano il loro pallone per giocare a calcio e poi se lo riprendono non appena iniziano a perdere.
“Ho capito,” annuisco e mi giro per rimettermi il cappotto.
Lui sospira, maledicendosi a voce abbastanza alta perché lo senta perfettamente anch'io. “No, Fler! Fler, aspetta! Non era questo che volevo dire. Mi è uscita male,” mormora, mentre mi segue verso l'ingresso.
“La cosa non mi sorprende affatto.”
“Non voglio che tu dorma in salotto perché sono io che ho fatto casino, quindi al massimo è il sottoscritto che deve dormire sul divano,” dice tutto d'un fiato, prima che io riesca ad aprire la porta. “Anche se preferirei che dormissimo entrambi nel letto.”
Io rimango fermo con la mano sulla maniglia qualche minuto e poi mi giro molto lentamente. “Peter...” mormoro frustrato. Giuro che a volte mi drena.
“Ho aperto bocca a sproposito, d'accordo. Allora fammi scusare. Se dormi sul divano è l'inizio della fine. Il passo successivo sarà riprenderti lo spazzolino da denti e la tazza per la colazione. Alla fine della settimana avrai già fatto le valige e sarai tornato da tua madre.”
“Peter, stai delirando!” Esclamo sconvolto.
“E allora fammi smettere di delirare e dormi nel letto!” Protesta lui, sgranando gli occhi.
Io scoppio a ridere, perché davvero non so che cos'altro fare.
Sono qui sulla porta e sto per andarmene senza sapere nemmeno se tornerò e lui si fa quasi prendere da una crisi isterica, cominciando a parlare di spazzolini da denti. E' una situazione surreale, eppure direi che dovrei esserci abituato.
“Per favore?” Tenta lui, in ritardo, come al solito.
Sospiro e mi tolgo il cappotto per la terza volta stasera. “D'accordo, Peter, ma sia ben chiaro che il fatto che io accetti di dormire nel letto con te non significa assolutamente che ti toccherà qualcosa stasera, anche perché sono ancora incazzato.”
“Naturalmente,” annuisce lui, tutto convinto.
Dieci minuti dopo siamo distesi a fissare il soffitto e io so che lui sta cercando nella sua testa le parole da dirmi, lo so perché non parla da un sacco di tempo e non tenta nemmeno di allungare le mani, il che può significare soltanto due cose, che dorme – ma dal respiro direi di no – o è molto concentrato.
“Ti esploderà il cervello con tutto questo pensare,” dico alla fine, perché voglio sapere se posso dormire oppure se devo aspettare che mi dica qualcosa.
“Non voglio sbagliare a parlare, stavolta,” si giustifica.
Sospiro, piegando una mano dietro la testa. “Sono quasi sicuro che lo farai lo stesso ma, andiamo, provaci. Ti sto ascoltando.”
Lui prende bene fiato, prima di rispondere. “Lo so che sentirmi rispondere in quel modo non è stato piacevole, ma ti giuro che non l'ho fatto apposta e che, se potessi, tornerei indietro e me lo rimangerei. Non posso farlo, però.”
“Va' avanti.”
Fa un sospiro di quelli fatti bene, che preannunciano cose che voglio sentire anche se non mi piacciono affatto. “Ho ancora difficoltà a dimenticare Bill,” ammette infatti “questo è vero e già lo sai, ma quella risposta non aveva nessuno significato. Mi è uscita di bocca come poteva uscirmi di bocca 'ancora cinque minuti' quando mia madre mi svegliava la mattina. Non è niente.”
Io rimango in silenzio e continuo a fissare il soffitto solo ed esclusivamente per farlo preoccupare ancora un po'. In realtà la rabbia mi è passata da un pezzo, più o meno quando ha cominciato ad agitarsi come se avessi minacciato di cambiare continente, ma voglio godermi un po' questo momento in cui, miracolosamente, sono una priorità.
“Fler?”
“Hmn.”
“Mi dispiace.”
Sorrido e mentre lo faccio, lui già mi scivola addosso, segno che mi stava osservando in attesa di una reazione. Dovrei dirgli di smettere perché non se lo merita, ma me lo merito io.
Quindi lo lascio fare.

Mattine come questa sono quelle che preferisco. Quelle in cui posso prendermi il mio tempo per aprire gli occhi, stiracchiarmi, stendere le gambe nel tepore immobile delle coperte e sgranchirmi tutto, piano piano, senza fretta. Mattine piacevolmente vuote, rilassate, tranquille. Di quelle che pensi di poter sentire sotto le mani, morbide. Mattine pigre come sbadigli, in cui il pensiero di non avere niente da fare ti culla un po’, e tu lo lasci fare perché sul serio, quante volte capita di potersi svegliare dicendosi che oggi potresti stare anche tutto il giorno a letto e non sarebbe un dramma perché tanto non sei atteso da nessuna parte, non devi incontrare nessuno e non c’è nessun beat ancora da limare che ti aspetta in sala incisioni per essere perfezionato e diventare una base.
Spesso, per non dire ogni volta, proprio perché una condizione simile è molto rara, in realtà non è vera. È una bugia che la tua mente ti sta raccontando. Tu sei lì al calduccio che ti fai i fatti tuoi e progetti vite intere sotto le coperte, chiedendoti se potrà esistere un modo per collegare con un filo e un paio di tubi, o magari una catena di montaggio elementare, il tuo letto, la cucina e il cesso, per avere tutto ciò che ti serve senza doverti praticamente muovere, e la tua testa avalla questi tuoi pensieri bisbigliando “ma sì, credici pure, progetta quanto vuoi, tanto oggi non c’è niente da fare!”, quando in realtà non potrebbe esistere niente di più lontano dalla verità. Però tu in quel momento non te ne accorgi.
La cosa vale anche per me, ma naturalmente in quel momento lì, come ho detto, non ci penso. E sono molto felice.
Quando apro gli occhi, c’è luce in tutta la stanza. Chakuza non chiude quasi mai le tapparelle, ma è raro che io riesca a vedere la luce del sole invadere completamente l’ambiente, perché quando mi sveglio in genere è troppo presto per assistere ad uno spettacolo simile. Le cose da fare, appunto, ci sono sempre. Quando ti svegli ogni mattina alle sette, sia perché devi andare agli studi o sia perché non è il caso di prendertela troppo comoda, visto che non sei a casa tua, al più puoi vedere le prime luci pallidissime che rischiarano l’ambiente, quando non è inverno e quindi di tiri su ancora col buio, ma stavolta invece c’è luce ovunque, si stende in lunghe strisce oblique per tutte le pareti, prendendone la forma, seguendone le linee.
Sollevo un braccio e il sole batte contro la mia pelle. Sulla parete si forma una macchia d’ombra, la guardo, sorrido e tiro giù il braccio, lasciandolo ricadere sul materasso per ridare alle strisce di luce la loro ordinata continuità.
Chakuza, qui accanto a me, all’improvviso si mette a ridere. Non mi ero accorto che fosse sveglio.
- Che stai facendo? – mi chiede. Io scrollo le spalle ed affondo fra i cuscini, ma non rispondo. Mi limito a sorridergli. Anche stanotte mi sono fermato a dormire qui come se fosse una cosa normale. Dopo aver scopato, esausti com’eravamo ci siamo lasciati ricadere sul materasso con un grugnito di approvazione. Chakuza s’è liberato del mio braccio che, in qualche modo, gli era planato sulla faccia nel movimento, e poi s’è voltato per dormire. Stessa cosa ho fatto io. E lui non mi ha chiesto conferme – niente domande del tipo “resti?”, che fino a qualche tempo fa un sacco frequenti, fra noi, anche se naturalmente parlo di un “qualche tempo fa” lontanissimo nel tempo – ha preso la mia presenza per un dato di fatto e io in realtà gliene sono stato grato, perché talvolta ricordarsi di mantenere un certo distacco e pensare di doversi alzare in piedi e fare almeno finta di cercare i vestiti per rimetterseli addosso a ritornare a casa prima che lui mi fermi chiedendomi di rimanere è talmente fastidioso – e ridicolo – da sfiorare l’assurdo.
Ieri sera, dunque, sono rimasto, e ora mi sento vagamente in difetto. Voglio dire, so che è assurdo, so che non dovrei, e tra l’altro è davvero ridicolo che due anni fa fossi già riuscito a superarlo, questo problema che adesso sembra tornato a farsi avanti, però davvero. Non è neanche il dormire con una persona che mi scombussola, con Danny l’ho fatto continuamente per mesi – Danny, santo cielo, devo proprio smettere di pensare a Danny, anche se negli ultimi giorni ha ricominciato a farsi sentire e io non sono granché sicuro di riuscire a gestirlo come dovrei, cioè allontanandolo di nuovo – è proprio lo stare con Chakuza, stare con lui come si sta in coppia che ogni tanto mi… non lo so. Mi turba troppo. È semplicemente strano, come sono strane quelle cose buffe che sembrano non avere spiegazione, come ad esempio quei trucchi di scena con cui i maghi ti fanno credere di aver segato in due il corpo della loro procace assistenza. Tu sai che dietro c’è una spiegazione perfettamente razionale, ma per quanto ci pensi non riesci a trovarla, quindi finisci per rimanere a fissare il tutto con aria ebete, come un bambino che non ha ancora visto nulla del mondo, e per quanto stupido ti sembri accetti quella cosa impossibile come possibile pure senza spiegartela, perché tanto, ti dici, non ci arrivi, è così e basta. E per me ora è uguale, io mi sento strano, sono convinto che ci sia una spiegazione razionale dietro, ma non la capisco. Che posso farci?
Talvolta, seriamente, credo di aver solo bisogno di sentirmi dire che sono normale, che sono ancora io, lo stesso che ero a quattordici, a diciotto, a venti, a venticinque anni. La cosa non è più tanto scontata com’era un tempo.
Nel mentre continuiamo a restare in silenzio, che non è una cosa brutta, in realtà, perché non è un silenzio di quelli imbarazzati. Non è che ci guardiamo negli occhi con aria confusa chiedendoci che cosa diamine stiamo facendo in questo letto così vicini, anche perché peraltro lo sappiamo benissimo cos’è che stiamo facendo in questo letto così vicini. Io guardo un po’ fuori, e c’è un bel sole. Dagli alberi che costeggiano la strada giunge il canto degli uccellini di città – questi esserini piccoli, fragili e spenti, che cantano solo alla mattina perché per tutto il resto del tempo la loro voce sarebbe inutile, sommersa dal traffico e dai rumori dei passanti – e io penso due cose contemporaneamente. Una è che sono ancora convinto di non avere niente da fare oggi, e vorrei che questa convinzione potesse durare ancora un po’, ma non è facile che sia così se penso alle ore che passano, al traffico che ci sarà e a quello che scorre fuori da quella finestra, motivo per il quale smetto di guardarla e torno a fissare la luce sulla parete. L’altra è che, malgrado io non abbia ancora ben chiaro quasi niente della giornata di oggi, quello che invece riguarda la giornata di ieri riesco a richiamarlo alla memoria senza la minima fatica.
Decido che è il momento di parlare, e dato che sto pensando a ieri tanto vale battere il ferro finché è caldo.
- Certo che non ho mai capito cosa ci trovi tu in Bill. – butto fuori d’un fiato, ma abbastanza tranquillamente da sperare di non preoccupare Chakuza. Non è che voglia farlo sentire attaccato o che, è solo che sono profondamente convinto che uno dei motivi per cui da questa cosa non ci si muove risiede nel fatto che Chakuza non ne parla. Mai. È il suo più grande tabù, non c’è modo di scucirgli informazioni al riguardo, e io se devo dire la verità non ci ho nemmeno provato granché, voglio dire, sono masochista ma non così tanto, ma è evidente che devo risolvere questo problema, se non voglio che scene come quella di ieri continuino a ripetersi all’infinito, anche quando noi quattro cavalieri dell’Apocalisse saremo vecchi decrepiti e Chakuza, Bushido ed io staremo seduti sulle nostre sedie a dondolo nel porticato della casa al mare che palesemente divideremo, e Bill uscirà chiedendoci se sta bene con la nuova dentiera. Ecco, vorrei evitare che allora Chakuza si permettesse ancora di rispondergli che sta benissimo all’unisono con Anis, perciò rimbocchiamoci le maniche e risolviamola adesso, finché siamo ancora in tempo.
Ovviamente, Chakuza si preoccupa lo stesso, perché nominare Bill di fronte a lui è un po’ come prendere una pistola e darla in mano al primo passante capiti a tiro: magari è un tipo freddo e tranquillo e la posa senza fare danni; magari invece è uno nervoso e isterico e fa partire un colpo, però. Quando nomini Bill non sai mai se Chakuza stia abbastanza bene da tenere ferma la mano, o se comincerà a tremare e sparerà a qualcuno.
- Niente. – risponde infatti, sulla difensiva, aggrottando le sopracciglia nell’unica espressione al mondo che fa sembrare cattivi i suoi lineamenti rotondi, l’espressione brevettata dei video musicali.
Io inarco un sopracciglio.
- Ci sei andato a letto per simpatia? – gli chiedo, con una mezza risata, e non posso davvero credere che stia cercando di rifilarmi la storia del non-è-stato-davvero-così-importante. Nel senso, ok, Chaku, capisco dove vuoi arrivare, sei molto carino a preoccuparti per me e a non volermi dire cose che potenzialmente credi che sarebbero in grado di farmi male, ma… no. Cioè, c’ero anch’io mentre accadeva, ricordi? Via.
- È carino. – insiste lui, socchiudendo gli occhi e grattandosi la fronte, naturalmente sordo alle mie mute protesta, - Fine.
Sospiro. È mai possibile che con quest’uomo non ci sia mai modo di avere una conversazione normale?
- È… strambo. – dico io, - E dolce. Secondo me è tutto qui. È come avere una sorellina. Almeno per me. – preciso, perché mi pare evidente che per lui non era così, anche se ora sta cercando di fare di tutto per darmi a bere il contrario.
La mano che grattava la fronte di Chakuza si abbatte contro il suo viso e poi scende a coprirgli gli occhi, mentre lui si lascia andare ad un sospiro affranto. A Chakuza non piace granché parlare, lo so, non è bravo a spiegarsi – non sempre, almeno. Anche lui ha i suoi momenti, comunque – io, invece, mi ci diverto da morire. Mettere in difficoltà il prossimo, irritarlo anche fino a fargli perdere il lume della ragione, è sempre stato un gioco divertente. Quando sei piccolo e cresci in un ambiente come il mio, la prima cosa che capisci è che ti devi fare grosso e muscoloso, perché devi costantemente avere a che fare con tipi che saranno sempre più grossi e più muscolosi di te, motivo per il quale devi cercare quantomeno di avvicinarti al loro standard per poter pensare di uscire vivo da una rissa. In attesa di quello, però, quando sei ancora un ragazzetto pelle e ossa senza un pelo e con gli occhi troppo grandi su una faccia troppo magra, devi sopperire ciarlando, e sperando che chi ti incontra sia stupido abbastanza da permetterti di rincoglionirlo quel tanto che basta da sfuggirgli dalle mani. Se hai la velocità delle gambe dalla tua, quella della lingua può completare il quadro che può riuscire a salvarti il culo anche in situazioni disperate. Il più delle volte è stato così che mi sono salvato io, nel periodo in cui cercavo di fare di tutto per portare a termine i miei compiti da solo, senza Anis in giro, per impressionare Arafat.
Chakuza, e lo dico con tutto l’affetto del mondo, credetemi, è abbastanza scemo da concedermi svaghi di questo tipo. Dico, non vuoi parlare seriamente di Bill per esorcizzarlo? D’accordo, va bene per me, ma allora lasciati torturare.
- Ma ti senti quando parli? - si lamenta, la voce un po’ attutita dalla mano ancora pressata con forza sul volto, - Come una sorellina? Mi sento male.
E certo che ti senti male, Chaku. Questo dimostra che tu non l’hai mai visto come una sorellina, tanto per cominciare, e anche che tutti quei bei discorsi di prima sul fatto che è solo carino ed è per questo che ci sei andato a letto per una vita e mezzo non erano altro che fesserie. Ma va be’.
Resto in silenzio per un intervallo di tempo che non sembra solo enorme, lo è. Chakuza ha bisogno di riprendersi, palesemente, e io gliene dà modo, perché non mi va di troncare la conversazione. Scherziamo? Mi sono divertito e vendicato ancora troppo poco, non esiste indisporlo al punto da costringerlo ad alzarsi in piedi e fuggire lontano. Voglio rosolarlo a fuoco lento.
- E a letto com’è? – chiedo quindi dopo un po’, senza muovermi di un millimetro.
- Fler! – sbotta lui, sconvolto, girandosi impercettibilmente a guardarmi.
- Be’, che c’è? – insisto io, scrollando le spalle e mantenendo una calma apparente tale che non capisco com’è che i membri dell’Academy non fanno irruzione dalla finestra appesi a delle funi per consegnarmi un Oscar estemporaneo per meriti acquisiti sul campo, - Sono curioso! Avrà delle qualità non da tutti, se è riuscito a rincoglionirvi senza speranza tutti e due.
Chakuza non risponde. Allunga una mano ad afferrare il cuscino in più che sta in mezzo fra i nostri guanciali e se lo schiaccia sul viso con un lamento disperato. In realtà in questi momenti così io mi diverto sempre tantissimo. Era una cosa che capitava spesso quando abbiamo cominciato a vederci più spesso, intendo, dopo l’incidente del tappeto e tutto. Ho usato una quantità spaventosa di armi, contro Chakuza, non solo la lingua. E non solo nel senso di usarla per parlare. E so che questi sono i momenti in cui Chakuza è sempre un po’ sul punto di mandarmi via, perché lo spalla che, in mezzo a tutti i poteri che lui ha su di me, ce ne sia uno che solo io posso vantare su di lui, ed è quello di riuscire a metterlo in imbarazzo. Lui, un uomo che non s’imbarazza praticamente mai. Quindi sì, lo so che in questo momento, come in tanti altri, si copre il volto e sta zitto solo perché vorrebbe potermi mandare via. In realtà mi esalta che non lo faccia mai.
Rido e mi giro sullo stomaco, sistemandomi a pancia in giù sul materasso ed allungando un braccio per togliere il cuscino di mezzo.
- Allora? – insisto curioso, - Dimmi!
- Non lo so! – si lamenta lui, cercando di coprirsi di nuovo con le mani.
- Sì che lo sai! – ride ancora io, - Anzi, dal fatto che non lo dici, immagino che debba essere parecchio bravo. Questo almeno spiega la follia di ieri sera.
- Possiamo smettere di avere questa conversazione? – implora debolmente Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica. Io rido ancora, e naturalmente non gli do retta.
- Quante volte al giorno lo facevate? – chiedo, avvicinandomi un po’ per guardarlo in viso.
- Fler… - mugola lui, arreso.
- Una? – insisto io.
- Ma non hai niente da fare, stamattina? – piagnucola Chakuza. Qualche campanello dovrebbe suonare nella testa di entrambi, in questo momento, ma non suona. Io sono ancora perfettamente immerso nell’aura di beatitudine che mi accompagna dal risveglio, peraltro, convintissimo che il mondo non avrà mai più bisogno di me e che perciò posso anche mettere radici su questo materasso per tutto il tempo che mi resta da vivere, e nessuno avrà mai di che lamentarsene.
- No. – rispondo infatti, e sto mentendo, ma ancora non lo so. Che non se ne accorga neanche Chakuza, però, è abbastanza grave. – Due? – ritorno a insistere, - Tre, magari?
Chakuza non dice nulla, si limita a sospirare.
- Tre volte al giorno?! – sbotto sconvolto, e sento aprirmisi sulle labbra un sorriso incredulo ma anche parzialmente divertito. – Wow! Devi dirmi tutto. Cioè, seriamente, mai visto Bill in quelle vesti lì. Adesso sono curioso sul serio.
- Sei una piaga, Fler! – sbotta lui, scuotendo con decisione il capo, - Che devo fare per farti stare zitto?!
Io ridacchio, sistemandomi fra le lenzuola e piantando i gomiti sul materasso.
- Non so, che ne dici di rispondere? – suggerisco, - Quando sono soddisfatto, smetto.
Lui si volta a lanciarmi un’occhiata truce.
- Giuralo. – intima freddamente.
- Ma sì, sì, giuro. – concedo io, con un breve cenno del capo. – Allora?
Chakuza si prende il proprio tempo per sospirare ancora e sistemarsi meglio contro il cuscino. Solleva la schiena ed il lenzuolo che lo copre scivola giù lungo il suo corpo, arrotolandoglisi pigramente in grembo. Seguo il movimento del tessuto forse con un po’ troppa insistenza, ma mi riprendo subito, anche perché se si accorge che lo sto fissando troverà sicuramente modo di usare il dettaglio contro di me, e allora addio tortura.
- Cos’è che vuoi sapere? – si rassegna a chiedere, già palesemente esasperato prima ancora di cominciare a parlare.
- Be’, la prima volta, tanto per cominciare. – annuisco io, incrociando le braccia sul materasso, - Com’è stato?
Chakuza mi getta addosso un’occhiata dubbiosa.
- Non ti prenderà una delle tue solite paranoie, quando ti risponderò, giusto?
Rido ancora. Chakuza, ti prego, ma sei convinto di che? Guarda che lo sto portando avanti io il gioco in questo momento. Certo che ti sfuggono certi passaggi fondamentali che io veramente, boh, non so, alle volte, guardandoti, come sia possibile che tu esista. O sia sopravvissuto a te stesso.
- Ma va’. – rispondo rassicurante, - Avanti, sono solo curioso.
Chakuza sospira ancora ed aspetta qualche altro secondo. E in quei secondi riesco a vedere una sorta di soddisfazione mal dissimulata farsi strada nei suoi occhi e poi nella piega delle sue labbra, che si fa meno tirata e severa. La naturalezza con cui quest’espressione viene fuori è tale che, anche se dovrei arrabbiarmi un po’ – un bel po’ – nonostante l’abbia rassicurato sul contrario, non riesco. Sembra tutto così innocente che davvero non mi pare il caso.
Quando Chakuza parla, subito dopo, lo fa come si stesse tirando fuori dal petto un peso insostenibile.
- È stato grandioso. – annuncia seriamente, annuendo pure, come per dare forza alla cosa.
Mi viene da ridere in modi che nessuno che non sia me può comprendere. Cioè, guardatelo, tutto serio e compito, come se stesse dando un giudizio di merito di quelli che si danno durante le gare sollevando il cartellino col numero. No, ma io seriamente con quest’uomo non ce la posso fare, la sua pazzia è tale che pure nei momenti di normalità mi surclassa. E io tanto sano non sono di certo.
Comunque, riesco a trattenere le risate ed imito la sua espressione seriosa, annuendo a mia volta.
- Grandioso in che senso? – chiedo, - È stato come con una femmina o la faccia è tutta un bluff? – ridacchio. Mi fa bene prenderlo un po’ in giro, di tanto in tanto, il ragazzino. Davanti a lui non si può, che poi gli si riempiono gli occhi di lacrimoni perché non capisce mai se stai scherzando o sei serio, ma con Chakuza che non ci capisce niente, neanche che fra le altre cose sto prendendo per il culo anche lui, è molto più semplice.
- Ma non c’entra niente con le femmine, è tutta un’altra roba. – precisa infatti, agitando la mano come a voler dissolvere quell’ipotesi assurda, totalmente dimentico del fatto che pure io lo so perfettamente bene che con le femmine non c’entra niente. Dio, quant’è facile. – Cioè, di base è lo stesso, - mi illustra. Chaku, grazie, senza di te non l’avrei mai saputo, - ma ci ho perso la testa perché non me lo aspettavo, capisci, che la pressione fosse così forte. Insomma, Bushido nudo per voglia o per forza l’abbiamo visto un po’ tutti, - aggiunge, lanciandomi un’occhiata che nella sua testa è carica di allusioni. Ah, Chaku. Ti prego. – e conoscendo le dimensioni e sapendo quanto tempo erano stati insieme non me l’aspettavo per niente.
Annuisco ancora. Io non so se seriamente si rende conto del discorso totalmente allucinante che sta facendo, ma comunque starlo a sentire è uno spasso. Peraltro mi sovviene che la sua prima volta con un maschio è stata con me, che di sicuro non avevo il traforo del Monte Bianco nel culo, perciò mi viene da pensare che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, probabilmente da quel momento in poi avrebbe decantato il mio sedere come la cosa più meravigliosa mai concepita da qualsiasi essere umano o divino che abbia mai calcato l’orbe terracqueo. Poi naturalmente c’è da dire che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, difficilmente mi avrebbe piegato a novanta sul tappeto del suo salotto, per cui niente. Ho avuto la prima volta, ma non mi prenderò mai i complimenti dello chef. La vita a volte è ingiusta.
- È davvero così stretto? – chiedo con entusiasmo, - Dovrò provarci, qualche volta.
Chakuza si irrigidisce tutto come un pezzo di legno, e si allontana impercettibilmente. Oh, Dio. Lui doveva essere al bagno quando la mamma distribuiva i cervelli.
- C’è altro che volevi sapere? – butta lì frettoloso, spasimando per cambiare discorso.
- Non andare in paranoia, - lo prendo in giro, - non mi avvicinerei mai alla nostra illustre principessa. – aggiungo in un ghigno, al quale lui risponde con un’occhiataccia offesa. Fra le tante regole che vigono in questa casa, oltre alla prima che è quella di non nominare il nome di Bushido invano, c’è anche quella per cui è vietato perfino accennare alla sua esistenza e alle conseguenze che ha sul mondo circostante, almeno fino a quando non è impossibile fare altrimenti. Il fatto che io possa chiamare Bill “principessa” è palesemente una di queste conseguenze e, in ogni caso, adoro non rispettare nessuna delle regole che Chakuza crede di potermi imporre. Ha. – Comunque, - riprendo, - voglio sapere quante volte l’avete fatto quella notte. E se è venuto. E come l’hai fatto venire. E se è venuto tutte le volte. – mi fermo, faccio mentalmente il conto, poi torno a guardarlo, - E quante volte sei venuto tu, anche!
Chakuza lascia andare un mugolio irritato e confuso.
- E cosa vuoi, un resoconto dattiloscritto…? – biascica, - Comunque due. – risponde alla fine, cercando di ricordare tutte le domande, - E sì. Con la mano. Ancora sì. E… due. No, - precisa poi, - tre. – ammette con un certo imbarazzo.
A questo punto, il buon dio che protegge gli sfigati mi perdonerà, non ce la faccio più: rido e mi abbatto di faccia contro il materasso, affondando il viso sul cuscino per evitare di svegliare tutto il vicinato.
- Sei venuto tre volte?! – strillo incredulo, battendo un pugno fra le coperte, - Dev’essere stato bello davvero! E bravo Chaku!
Lui risponde con un borbottio indefinito, incrociando le braccia sul petto ed affondando col collo fra le spalle, fissando dritto la parete di fronte, come esistesse solo quella. Io cerco di riprendermi, per quanto non sia semplice, e torno a mettermi dritto. Ci metto un po’, a formulare la domanda successiva, perché è un tipo di domanda che conosco molto bene: quella che in genere ci porta lungo la china scivolosa di una mezza litigata che finisce per affogare invariabilmente nello stesso identico posto – fra le lenzuola. Oppure andandocene alternativamente di casa, ma più spesso fra le lenzuola, sì.
- E… - chiedo alla fine, - è stato così bello solo con lui?
Chakuza lascia andare un sospiro la cui traduzione letterale è “lo sapevo”. E io mi rimetto a ridere. Però più piano.
- Qui ti volevo… - commenta, scuotendo lentamente il capo, - No, non lo è stato solo con lui. – ammette infine, voltandosi a guardarmi, - Tu sei tutta un’altra cosa, però. Non ci sono paragoni da fare.
Rido ancora, e so che gli ho detto di non preoccuparsi, che l’avrei presa bene e tutto, ma un po’ mi piace sentirmi rassicurare così, anche su cose così idiote. E comunque gli riesce molto meglio quando dice la verità.
- Non fare il figo, adesso… - sbuffo divertito, - E comunque non volevo sapere se sono meglio di lui o no… solo se sono bravo anche io. – mi fermo per intercettare lo sguardo incredulo e vagamente ilare di Chakuza, ma blocco sul nascere qualsiasi battuta aggrottando le sopracciglia e tornando ad incrociare le braccia. Sia mai che ora mi faccia perculare da lui dopo essermelo rigirato sul palmo della mano per l’ultima mezz’ora. – E non guardarmi così. – borbotto, - Uno poi se le chiede, certe cose, se non è un cagasotto. Puoi rispondere, voglio saperlo. Ne va del mio onore di uomo.
Chakuza ride lievemente e mi guarda, ed a me per un secondo sembra di poter vedere solo i suoi occhi, sottili e verdi da far paura. Come riesca a sconfiggermi con un’occhiata nonostante tutto quello che gli ho fatto passare stamattina, proprio non lo so. È uno dei misteri che mi tengono attaccato a lui, suppongo.
- Hai detto che non hai niente da fare stamattina, giusto? – mi chiede, apparentemente senza nessun motivo. Qui non dovrebbe squillare un campanello, ma l’intero campanile di una chiesa. Solo che non ce n’è, nelle vicinanze, per cui continuiamo a illuderci rotolandoci idealmente nella deliziosa sensazione di ozio prolungato in cui ci siamo immersi senza pensare.
- No. – ribadisco, e visto che ormai sono quasi le nove la mia menzogna è talmente enorme che potrebbe quasi fare il giro e diventare una verità, - Ma che c’entra?
Chakuza si solleva e l’attimo dopo mi è addosso, ogni centimetro di pelle perfettamente aderente alla mia, il petto forte contro la schiena, il bacino già duro di desiderio contro il sedere, le gambe a cercare spazio fra le mie.
- Ottimo. – commenta solamente, chinandosi a baciarmi la schiena, seguendo il disegno della colonna vertebrale.
Io rido – ho i brividi fin nello stomaco – e faccio per scappargli da sotto le mani.
- Sei scorretto… - biascico, cercando di afferrare il cuscino per tirarlo via e scavarmi di prepotenza una via di fuga.
Chakuza allunga le braccia a coprire le mie e mi si spinge un po’ contro, in una domanda silenziosa.
- Mh-mh. – annuisce, - Anche tu, a fare certe domande. – e mi sospira sul collo, mentre io mi mordo un labbro.
- Mmmh… - mugolo, socchiudendo controvoglia gli occhi, - È vero, lo ammetto. Però… - m’interrompo un attimo, lanciando a Chakuza un’occhiata incerta oltre la spalla, e qui non ho davvero idea di cosa volessi aggiungere, perché appunto nel momento in cui mi volto a guardarlo del tutto accidentalmente i miei occhi finiscono sulla radiosveglia poggiata sul comodino e, tutto insieme, mi rendo conto di che ore sono, di che giorno e oggi e anche del fatto che la mia mente mi ha preso per il culo fino ad ora esattamente come fino a due secondi fa stavo facendo io con Chakuza, ed anche esattamente come lui avrebbe cominciato a fare in senso meno metaforico da qui in avanti se non l’avessi fermato. – Cazzo! – sbotto, agitandomi sotto di lui, - Cazzo, cazzo, cazzo, Chakuza!
- …sì, ne ho uno che si sente molto tirato in causa, al momento. – risponde lui, inarcando un sopracciglio ma scostandomisi di dosso quando vede che non accenno a placarmi. – Ma che ti prende? – domanda incerto, steso su un fianco, mentre io scatto in piedi e comincio a cercare i miei vestiti.
- L’Ersguterjunge! – sbotto io, infilando le mutande e i calzini al volo, saltellando prima su un piede e poi sull’altro, - La presentazione! Cazzo, devo andare a firmare il contratto! Siamo già in ritardo! Cazzo, cazzo, cazzo!
La luce della consapevolezza si fa strada negli occhi ancora un po’ annebbiati di Chakuza, e il secondo dopo lo vedo alzarsi dal letto come una furia, afferrando al volo il primo paio di mutande che incontra e correndo in bagno.
- Bushido mi ammazzerà. – annuncia lapidario, pallido come un cencio.
A me scappa di nuovo da ridere, e continuo a farlo anche se penso che è vero, ma che mi sa che se perdiamo altro tempo ammazzerà con gioia entrambi.

*

Ieri notte, io e Bill siamo andati a letto presto. Dopo che Chakuza è corso dietro a Fler nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, lasciandomi lì sullo zerbino a chiedermi nelle mani di chi stavo lasciando uno dei pochissimi esseri umani per la cui felicità darei volentieri la vita, non è che ci rimanesse molto altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi per un lungo, infinito istante e poi Bill è arrossito tutto all’improvviso, come se solo in quel momento si stesse rendendo conto del casino che, palesemente senza volerlo, peraltro, aveva combinato. Si è voltato repentinamente e, visto che era ancora a metà delle scale, ha cominciato a correre per tornarsene in camera, senza lasciarsi sfuggire neanche un suono. Io ho sospirato pietosamente, lanciando uno sguardo supplice al cielo stellato fuori dalla villa prima di rassegnarmi a chiudere la porta e seguirlo in camera.
- Bill? – l’ho chiamato piano, schiudendo la porta e sbirciando all’interno. L’ho trovato già senza maglietta, tutto preso ad armeggiare coi pantaloni, - Bill, è tutto ok?
Lui s’è voltato a guardarmi con un paio d’occhi che sembrava l’avessi insultato invece di chiedergli come stesse.
- Come, scusa? – mi ha chiesto, basito, strattonando i pantaloni qua e là nel palese tentativo di strapparseli di dosso.
- Ti ho chiesto se è tutto ok. – ho sospirato ancora io, entrando nella stanza e chiudendomi la porta alle spalle. Ancora una volta, lui m’ha guardato con incredulità evidente.
- Ma che domanda è?! – ha sbottato quindi, tirando i pantaloni ancora un po’ e non ottenendo neanche una piccola vittoria all’interno della grande guerra che stava conducendo contro di loro, - Dovrei chiederlo io a te!
- E invece, guarda un po’, te lo sto chiedendo io. – gli ho sorriso, sedendomi ai piedi del letto. – Vieni qui, dai. – l’ho chiamato, schiudendo appena le gambe per fargli posto, - Ti do una mano con quelli, o finirai per distruggerli.
Lui ha abbassato lo sguardo, ma s’è avvicinato comunque, restando in piedi di fronte a me.
- Non me ne frega niente. – ha borbottato con aria colpevole, mentre sfilavo il bottone dalla sua asola e lasciavo scivolare la zip verso il basso, - Meglio se si rompono. Non li voglio più mettere.
- Bill, saranno costati un patrimonio. – ho riso, tirandoli delicatamente lungo le sue cosce bianche e magre, - E oltretutto sembra che te li abbiano disegnati addosso. Ti stanno molto bene.
- Ma cosa vuoi che me ne freghi dei soldi e di come mi stanno! – ha sbottato ancora lui, appoggiandosi alle mie spalle mentre lo invitavo a sollevare una gamba e poi l’altra per sfilarglieli del tutto. – Combino solo casini anche quando voglio fare cose belle. – ha mugolato quindi, stringendo la presa attorno alla mia maglietta, - Giuro che non volevo che andasse a finire così.
Ho sollevato lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri e brillanti pur nella luce fioca dell’abat-jour.
- Lo so. – ho risposto annuendo, - Non sentirti in colpa.
Lui ha sollevato una mano, accarezzandomi lentamente una guancia.
- È piuttosto difficile non sentirmi in colpa con te. – ha detto quindi, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Io ho aggrottato le sopracciglia.
- Non voglio che sia così. – ho detto severamente, e lui ha sorriso un po’, piegando appena un angolo della bocca.
- Lo sai che non puoi farci niente? – ha ribattuto con dolcezza, - Fra le tante cose che puoi fare… - ha sussurrato sfiorandomi le labbra con due dita, - e sistemare… - le sue dita si sono fermate appena sotto il mio labbro inferiore, - e riaggiustare, - ha sospirato profondamente, - la possibilità di togliermi il senso di colpa dal petto quando ti ferisco non rientra nella lista.
Ho sospirato e scosso il capo, stringendogli la vita con le mani. Lui ha poggiato le braccia sulle mie, sfiorandomi appena il collo con la punta delle dita.
- Non mi hai ferito. – l’ho rassicurato.
- Non l’ho fatto intenzionalmente, forse, - ha protestato lui, - ma—
- No. – ho scosso il capo io, - Non mi hai ferito. Bill, - ho sospirato profondamente, - durante tutto l’anno scorso, sono successe molte cose. – lui ha trattenuto il fiato, serrando le labbra, - E tante di queste cose sono state spiacevoli, per usare un eufemismo. E come lo sono state per me, lo sono state per te. Non credere – sono tornato a sollevare lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi, - non credere neanche per un minuto che io possa mai perdere di vista questo dettaglio fondamentale. È stata dura per tutti e due. Io non sono una vittima. Non lo sei neanche tu. Abbiamo fatto un casino infernale e ne abbiamo entrambi pagato le conseguenze, ma siamo qui, adesso. E tu – ho riso un po’, inarcando un sopracciglio con presunzione, - credi davvero che, dopo l’anno scorso, un paio di pantaloni che combinano un mezzo disastro possano ferirmi? Io sono d’acciaio, piccolo. – ho detto, accogliendo sulla pelle la sua risata un po’ triste ma soprattutto sollevata quando mi si è seduto in grembo, circondandomi le spalle con le braccia, - Niente mi scalfisce.
Bill ha pianto un po’, accucciato fra le mie braccia. L’ho sentito piangere molte volte, da quando lo conosco, ma questo è stato un pianto tutto diverso rispetto agli altri pianti che s’è fatto da quando sono entrato nella sua vita, e credetemi quando vi dico che stiamo parlando di numerosi pianti. S’è trattato di un pianto dolce, sommesso, sollevato. Venato da un pizzico di felicità che mi ha stretto il cuore. Giuro che non mi sono mai sentito bene come in questo periodo, in cui io e Bill ci stiamo affrontando con onestà, sciogliendoci poco a poco, ritrovandoci poco a poco, imparando a conoscerci di nuovo, con tutte le cose che sono cambiate in noi e che inevitabilmente non potremo più riavere, ma anche con tutte quelle altre cose che invece sono rimaste uguali, o comunque molto simili, rispetto a quelle che avevamo un tempo. È come riscoprirlo da capo. Ma è sempre lui. Credevo fosse impossibile tenere fra le mani qualcosa di così antico e così nuovo allo stesso tempo, eppure Bill per me lo è.
Per cui, sì, abbracciati com’eravamo poi siamo andati a dormire, perché seriamente, fare altro per quella sera non era proprio plausibile. E poi c’era anche da pensare a stamattina, naturalmente.
Stamattina ci siamo svegliati non prestissimo, ma di buon’ora, entrambi molto emozionati. Ho una idea abbastanza precisa di quello che è successo qui fra Bill e Fler mentre io non c’ero. Ne ho un’idea abbastanza precisa non soltanto perché Bill e Fler mi hanno più o meno raccontato tutti i fatti, ma anche perché conosco entrambi a memoria ed avrei potuto dirvi con largo anticipo come avrebbero reagito e come si sarebbero comportati l’uno con l’altro nel caso si fossero conosciuti, anche senza dover sapere niente delle situazioni che li avevano spinti a incontrarsi. Non fatico per niente a capire che Bill è felice per quello che sta per avvenire esattamente quanto me. Ed infatti il suo viso sembra splendere di luce propria ora che siamo qui nel mio ufficio all’Ersguterjunge, e attendiamo.
Eko, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, si guarda intorno con aria incerta, come se lui in quel momento c’entrasse poco. Kay riempie il mondo di entusiasmo blaterando a caso su quanto sia una figata questa decisione, e su quanto è evidente che ci stiamo vendicando proprio bene su quegli stronzi dell’Aggro Berlin, quantomeno a livello commerciale.
- Vuoi mettere – mi dice, - la quantità di dischi venduti che si porta dietro Fler, rispetto a quelli che si porta dietro Nyze? Cioè, dai, palesemente ci stiamo guadagnando noi.
Io borbotto un assenso indefinito, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio. Fler e Chakuza, naturalmente, sono in ritardo. Potrei approfittare di questo tempo concessomi per spiegare a Kay che prendere Fler sotto contratto all’Ersguterjunge ha ben poco a che fare con la guerra fra noi e l’Aggro, e ha ben poco a che fare anche con la quantità di dischi venduti in più che porteremo a casa a fine anno. È solo che lo rivoglio con me, li rivoglio tutti con me, e non intendo lasciarmene sfuggire uno che sia uno. Fler è solo il primo passo. Sto pensando a qualcos’altro. Ma prima devo parlarne con Jost, ed è ovvio che non posso farlo finché lui sarà ancora troppo impegnato a fingersi invalido per poter trascorrere le sue giornate a letto con Schüster. Ma non ha senso parlarne ora. Verrà il tempo.
E quello a mia disposizione adesso finisce nel momento in cui Fler e Chakuza fanno il loro ingresso nel mio ufficio, scompigliati e trafelati, scusandosi con tutti a destra e a manca. È abbastanza ovvio cosa abbiano avuto di così urgente da fare per non riuscire a presentarsi qui in orario. È ovvio non soltanto nel modo in cui si comportano o nel modo in cui sono conciati, ma nel modo in cui si sfiorano casualmente, si guardano, si sorridono, si parlano.
È inevitabile, per me, essere un po’ geloso. Stranamente, nei confronti di entrambi. Ma non m’importa più quando Fler si fa avanti e sorride, brandendo una penna.
- Dove devo firmare? – chiede.
- Sì, diamoci una mossa. – borbotta Chakuza, - Abbiamo tutti di meglio da fare.
Bill si lascia sfuggire una risatina divertita. Ed io faccio lo stesso, porgendo a Fler il suo contratto ed indicandogli il punto esatto in cui deve mettere la firma.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Fler/OMC.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lime, OC, Angst, What If?.
- "Avrei dovuto cambiare aria, magari perfino nazione, provare nuove collaborazioni – in Francia, per dire, fanno un ottimo rap" - Run Around In Circles ('Til I Run Out Of Breath)
Note: Allora, seguitemi e non confondiamoci XD Questa shot è una What If? rispetto alla saga. Ciò che avviene in questa storia non è che un'ipotesi, un qualcosa che avrebbe potuto verificarsi ma non s'è mai verificato, il ricamino di una fangirl (me stessa XD) su un'ipotesi solo paventata nella scorsa shot della LTP - che poi è la citazione che ho riportato nel riassunto.
Ambientato nel periodo in cui i ragazzi non si sono ancora ritrovati, e perciò a David non è ancora capitato niente. Mi raccomando, ripeto, non confondiamoci e teniamo ben separati ciò che succede in questa shot da tutto il resto XD Sono entrambe fantasie, ma questa è più fantasia dell'altra.
Partecipante altresì alla Maritombola @ maridichallenge su prompt "Ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà." (Wislawa Szymborska)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A BEAUTIFUL LIE
"Ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà." (Wislawa Szymborska) @ Maritombola

Quando mi sveglio, come prima cosa allungo il braccio alla mia destra, e cerco il corpo di Danny sul materasso al mio fianco. Non dormiamo mai particolarmente vicini, il che per me è un dettaglio abbastanza nuovo, visto che tutti e due gli altri maschi coi quali ho dormito nel corso della mia esistenza avevano questa tendenza piuttosto spiccata ad arrotolarmisi addosso il più possibile.
Danny non è così. Ha, probabilmente, una visione molto meno romantica, per così dire, del dormire insieme. È capace di starmi vicinissimo durante il giorno, appiccicarmisi addosso in momenti decisamente poco opportuni, saltarmi sulle spalle mentre sto facendo tutt’altro e Dio solo sa quanto gli piace starmi il più vicino possibile quando scopiamo, ma mentre dormiamo? Mentre dormiamo sostanzialmente se ne frega di dove cade il suo corpo appena chiude gli occhi. È incosciente, in ogni caso, per cui perché crucciarsi domandandosi se mi stia abbracciando o si stia facendo abbracciare nel modo giusto, o preoccupandosi della possibilità di rimanere per tutta la notte immobile nella stessa posizione e svegliarsi l’indomani mattina con un braccio o una gamba anchilosati?
Il suo è un ragionamento molto pratico, molto terra terra, incredibilmente concreto e adolescente. Non c’è nessun motivo di dimostrarci niente neanche in generale, ma pretendere di dimostrarci qualcosa stringendoci l’uno all’altro mentre dormiamo è davvero troppo ridicolo, per il suo modo di vedere le cose.
È terribilmente divertente osservarlo mentre mette in pratica questi ragionamenti: quando sarà più grande, quando avrà corso innumerevoli volte il rischio di vedere le persone che avrà amato scivolargli via di mano, stringersele contro durante la notte per evitare di lasciarle volare via sarà l’unico pensiero che lo porterà a chiudere gli occhi serenamente quando dovrà dormire. Ma ora ha diciassette anni, non ha mai amato nessuno né tantomeno ha rischiato di perderlo. È naturale che pretenda i suoi spazi per dormire comodo.
Naturalmente, per me la situazione è un po’ diversa. Io ho amato molte persone e le ho perse praticamente tutte, si sia trattato di amicizia o amori veri, perciò non riesco ad essere spensierato come riesce lui. È più facile non pensarci quando non resta a dormire con me – spesso, probabilmente, lo rimando a casa sua proprio per questo – ma quando rimane qui mi capita spesso durante la notte di svegliarmi di soprassalto solo per verificare che lui ci sia ancora. O svegliarmi presto al mattino, come adesso, ed allungare subito un braccio alla ricerca del suo corpo.
La nota positiva è che non mi è mai capitato di non trovarlo, le volte in cui una cosa del genere è successa. E anche adesso funziona allo stesso modo: il suo corpo è proprio qui, solo apparentemente immobile fra le lenzuola. In realtà Danny tende ad essere molto irrequieto anche quando dorme, perfino quando il suo è un sonno tranquillo, perciò non è che si possa dire, perfino adesso, che lui stia fermo.
Mi rigiro su un fianco e lo osservo attentamente nella luce fioca che passa in rivoli minuscoli attraverso le imposte serrate, e nei pochi secondi in cui lo guardo lui riesce a cambiare posizione, scalciare un paio di volte, tirarsi via metà coperta di dosso perché sente caldo e fare una smorfia e sbuffare per liberarsi da una ciocca di capelli che, mentre si muoveva, è sfuggita al codino e gli è scivolata sul naso. E lo ripeto, oggi, rispetto ad altri giorni, è tranquillo.
Sollevo una mano e scivolo con la punta delle dita lungo il profilo del suo viso, sulla sporgenza ossuta della clavicola giù lungo il petto tonico e magro e sulla pancia piatta, fino all’incavo dell’ombelico proprio sopra la curva un po’ più rotonda e morbida del suo bassoventre. Lui si sposta impercettibilmente, tremando appena sotto il mio tocco, ma non si sveglia. La mia mano risale su seguendo lo stesso percorso all’inverso, e poi si ferma all’altezza del suo naso. Sorrido, stringendo le sue narici fra il pollice e l’indice.
Lui resta tranquillo per un paio di secondi, mentre il sorriso sulle mie labbra si allarga. Poi aggrotta le sopracciglia, le guance cominciano ad arrossarglisi e infine spalanca gli occhi e le labbra all’improvviso, gettando in giro braccia e gambe alla rinfusa nel tentativo di liberarsi del suo assassino misterioso mentre io, avendo ottenuto ciò che volevo, lo lascio finalmente libero di respirare, ritraendo la mano.
- Ma sei pazzo? – sbotta arrabbiato, tirandomi uno schiaffo in piena fronte, - Potevo restarci secco.
- Sì, ti avrei ucciso nel sonno e poi ti avrei fatto a pezzi. – annuisco io, afferrandolo per il polso e torcendogli un po’ il braccio mentre me lo tiro contro, finché non lo sento lamentarsi con una serie di “ahi, ahi, ahi!” di protesta, - Poi parte di te sarebbe finita in fondo al canale. E qualcosa l’avrei tenuta per ricordo, non si sa mai.
- Sei uno stronzo maniaco e sadico. – sentenzia lui, dandomi una testata, - E mi lasci? Mi stai facendo un male cane!
Rido un po’ e lo ribalto sul materasso, sovrastandolo col mio corpo ed impedendogli di muoversi ancora mentre con una mano scivolo lungo il suo fianco, sfiorando una delle numerose cicatrici che segnano la sua pelle.
- Credevo che queste dimostrassero che sei abituato a sopportare ben altri dolori. – dico, guardandolo dritto negli occhi. Lui ha un sussulto e trema non appena le mie dita un po’ ruvide ripercorrono il tratto di pelle ipersensibile sopra l’anca. Lo stesso che ho sfiorato la prima volta che è venuto a casa mia, intenzionato a convincermi a scoparlo. Lo sento sciogliersi sotto la mia carezza e diventare immediatamente duro sotto di me, ed è allora che mi scosto, rotolando sulla schiena e poi giù dal letto. – Ti conviene muoverti, - dico quindi, stiracchiandomi un po’ sotto il suo sguardo confuso e lucido di voglia, - o farai tardi a scuola.
- Non devo andare a scuola! – protesta con veemenza, - Siamo in vacanza dall’altro ieri, e soprattutto non posso credere che mi avresti davvero fatto venire voglia di scopare per poi buttarmi fuori così senza un pensiero!
- Dannazione. – borbotto io, fingendomi estremamente preoccupato, - Era esattamente il mio piano. L’assoluta impreparazione del sistema scolastico tedesco manda a monte tutto, però. Dovrò trovare qualche altro motivo per buttarti fuori di casa.
- Sei. Uno. Stronzo. Maniaco. E. Sadico. – ripete lui, scandendo bene le parole e poi gettando scompostamente le gambe giù dal letto per mettersi in piedi, - Ed io palesemente non voglio più avere a che fare con te per le prossime dieci ore almeno, per cui mi troverò di meglio da fare. – annuisce deciso. – Vado a farmi la doccia, tanto per cominciare. – annuncia dirigendosi speditamente verso il bagno.
Io sorrido, sedendomi sul bordo del letto per fare mente locale e decidendo che quest’operazione può aspettare, dopotutto: lascio passare cinque minuti, giusto per essere certo che Danny sarà già sotto la doccia quando mi sarò mosso, e poi mi alzo in piedi e lo raggiungo, cercando di fare il minor rumore possibile. Serve a poco, comunque: Danny sente spessissimo anche un sacco di suoni minuscoli, una cosa che immagino abbia imparato a fare per preservare per quanto possibile la propria sopravvivenza, motivo per il quale appena scosto la parete scorrevole trasparente ed entro nella doccia al suo fianco lo trovo già sorridente che mi dà le spalle solo per dimostrarmi quanto se lo aspettasse e quanto la cosa non lo colga nient’affatto impreparato.
- In realtà sono io che non potrei stare lontano da te per dieci ore. – gli sussurro sulla pelle, abbracciandolo da dietro mentre lui rilascia il capo contro la mia spalla e chiude gli occhi.
- Infatti era inteso come una vendetta nei tuoi confronti. – mi spiega a bassa voce, mentre le mie mani scivolano giù lungo il suo ventre e prendono a giocare distrattamente con la sua erezione, - Per aver cercato di soffocarmi nel sonno.
- Penso di poter chiedere una riduzione della pena, se prometto di occuparmi di un po’ di servizi sociali adesso. – ipotizzo, stringendolo piano fra le dita e muovendomi lentamente avanti e indietro, finché lui non prende a seguire il mio movimento con spinte regolari del bacino. – Facciamo che stai via cinque ore e poi ci si vede di nuovo?
Lui mi si rigira fra le braccia, schiacciandosi contro di me. Si avvicina abbastanza da fare in modo che le nostre erezioni si tocchino, e poi le avvolge entrambe con una mano, strofinandole contemporaneamente fra le dita e l’una contro l’altra.
- Hai da fare? – mi chiede sulle labbra, mentre io lo spingo contro la parete piantando entrambe le mani sulle piastrelle bagnate ed un po’ scivolose per muovermi con più forza contro di lui, - Perché se sei libero posso anche restare. Annulliamo la pena. Facciamo che invece di stare via cinque o dieci ore la sconti scopandomi cinque o dieci volte.
- Mi vedo costretto a declinare l’offerta. – rido appena, senza fiato, mentre lui passa il pollice sulla punta del mio cazzo facendomi rabbrividire di piacere, - Ho da fare, sì.
- Potrei aspettarti qui. – dice lui, sollevandosi abbastanza per sfiorarmi l’orecchio con le labbra, - Nudo, ad esempio.
- Oppure, - rido ancora, scivolando con le mani lungo la sua schiena ed afferrandogli le natiche con decisione, stringendole fra le dita, - potresti uscire da questa casa e provare ad avere una vita, ogni tanto.
- Ora mi si ammoscia. – mi avverte lui, roteando gli occhi, - Cristo, quanto sei palloso.
- Davvero. – sorrido sul suo collo, mentre le mie dita si avventurano lungo il solco fra le sue natiche, sfiorando decise la sua apertura, - Ho un po’ di cose da sistemare. Preferirei non averti tra i piedi mentre lo faccio.
- Stai peggiorando la situazione. – si lagna, continuando a strusciarsi contro di me, - Voglia di scopare in questo momento uguale a zero, più o meno.
Mi allontano un po’, una cosa praticamente impercettibile, ma è abbastanza perché le sue braccia scattino a stringermi attorno alle spalle per impedirmi di allontanarmi ancora.
Sorrido, poggiando la fronte contro la sua, le punte dei nostri nasi che quasi si sfiorano.
- Stai mentendo. – sussurro prima di baciarlo.
Ovviamente ho ragione, perché nel momento stesso in cui la mia lingua prende ad accarezzare la sua Daniel smette di lagnarsi, e non solo perché adesso ha la bocca occupata. Chiude gli occhi e si abbandona completamente a me, con una fiducia cieca che non manca mai di stupirmi. Con Daniel è tutto molto più incerto e flessibile di quanto non sia mai stato con altre persone, perciò ogni singola cosa che faccio con lui è molto più preziosa, perché non è mai routine. È sempre un qualcosa che è accaduto all’improvviso dopo chissà quanto tempo che non accadeva, e tu non puoi fare a meno di cercare il più possibile di assaporare il momento, perché chissà quando ricapiterà.
E davvero non capita spesso che lui si metta nelle mie mani in maniera così totale. Ci sono volte in cui è tremendamente dispotico, sia che stia sotto sia che stia sopra, ce ne sono molte altre in cui è semplicemente partecipe, gioca con me nello stesso modo in cui io gioco con lui, e poi ci sono volte come questa in cui si lascia andare, stabilisce che può mollare la presa sul suo senso del controllo per un po’ e può lasciar fare a me.
Lo sollevo appena, appoggiandolo contro la parete ed aspettando che abbia stretto le gambe attorno ai miei fianchi prima di cercare in un colpo secco la via per il suo corpo, nel quale affondo senza timore, godendo del sospiro arreso che esala gettando indietro il capo ed allacciandomi al collo. Gli ricopro il petto ed il collo di baci, spingendomi con forza dentro di lui mentre il suo bacino viene incontro al mio in gesti rapidi e fluidi. Mentre lui geme il mio nome e mi accarezza la nuca, io penso al borsone che sto tenendo pieno per metà nello stanzino in fondo al corridoio da ormai una settimana. Penso allo zainetto nuovo che ho comprato l’altro ieri tornando a casa una sera e penso a quel paio di magliette palesemente troppo piccole per me che ho avvolto in un sacchetto di plastica e ho lasciato là dentro. Mi chiedo come farò questo pomeriggio quando sarà tornato a dirgli ciò che devo dirgli, come farò a trovare il coraggio di chiedergli ciò che devo chiedergli, e poi Danny geme ancora, con più forza, ed ogni muscolo del suo corpo si tende sotto le mie dita, ed io smetto di pensare a cosa dovrò fare fra cinque ore per concentrarmi su ciò che devo fare adesso. Voglio che esca sorridendo, da questa casa. Perciò mi impegno a farlo bene.
*
Danny è già uscito da un’oretta abbondante quando mi decido a tirarmi su dal divano e darmi una mossa. La verità è che se ho aspettato così tanto è che non ho la minima idea di cosa dovrei fare. Altre volte, in passato, m’è capitato di desiderare di partire, di andare via. Un anno fa l’ho desiderato così tanto che il pensiero si era radicato in me molto profondamente, al punto che credevo di essermi davvero organizzato per farlo, ma non era così. Il borsone era pronto, è vero, ma è facile infilare qualche vestito e della biancheria in uno zaino e metterlo in un angolo, dove puoi vederlo, di modo che passandoci di fronte tu possa ripeterti che sì, è vero, sei ancora lì, ma ciò non vuol dire che tu non abbia palle per partire, perché visto? I bagagli sono lì, pronti!
Non è così, naturalmente. I bagagli sono lì pronti solo per finta, tu non sei organizzato, non stai davvero pensando a niente e se passasse qualcuno e ti mettesse in mano cinquecento euro dicendoti espressamente che puoi usarli, ma solo per partire, non avresti idea di dove andare. Perché non ci hai pensato, l’unico posto in cui vuoi andare è quello in cui sei, che guardacaso è anche il posto da cui vuoi scappare, il che è veramente un casino.
Perciò sì, un anno fa io stavo spesso a ripetermi che sì, entro un paio di giorni, una settimana al massimo, sarei partito. E avevo il mio borsone pronto proprio accanto al letto, c’inciampavo quasi ogni mattina quando mi svegliavo, perché avevo bisogno di averlo in mezzo ai piedi per ricordarmi che esisteva, non mi bastava tenerlo nell’angolo, dovevo rischiare di spaccarmi l’osso del collo travolgendolo, o lo dimenticavo nel giro di tre minuti. Però non avevo niente di più concreto oltre questo, non avevo un piano, non avevo una destinazione, non avevo delle tempistiche, non avevo un’organizzazione. Tant’è vero che ho atteso che fosse Sido a fornirmela, peccato che poi sia arrivata un po’ in ritardo, ed Anis, per allora, fosse già tornato in vita.
Si sarebbe comunque trattato solo di un tour, un qualcosa di molto breve e con un termine ben preciso, per non parlare del fatto che in realtà poi si sarebbe svolto tutto in Germania, quindi sarebbe un po’ stato come girare attorno al problema senza saper decidere se affrontarlo o allontanarsene definitivamente, quindi, alla fine, suppongo sia stato meglio in quel modo. Allontanarmi dal problema abbastanza per credere che potesse andare meglio e poi ripiombare nel baratro non appena avessi rimesso piede a Berlino non sarebbe stato tanto piacevole, quindi sono quasi certo, anzi, sono proprio certo che sia stato meglio rimanere, osservare la situazione finché non è stata portata alle sue estreme conseguenze e, be’, a quel punto, decidere.
Che poi è quello che ho fatto io adesso.
Abbasso lo sguardo, lanciando un’occhiata ai biglietti aerei per Parigi che tengo in una busta sul palmo della mano. Su un foglietto di carta, che tengo in quella stessa busta, ho l’indirizzo e il numero di telefono dell’albergo nel quale ho prenotato una stanza per un paio di settimane, e salvato sul cellulare ho un altro numero che invece appartiene a un tizio che lavora per la Fédération Nationale de l’Immobilier al centoventinove di rue du Faubourg St. Honoré. Pierre, così si chiama il tizio, è stato molto gentile e carino quando abbiamo parlato al telefono. Ha parlato in inglese e molto lentamente, così che io potessi andargli dietro senza difficoltà eccessive. Jost me l’aveva detto che avrebbe fatto al caso mio. Io ho detto a Jost che lo ringraziavo ma gli sarei stato anche più grato se avesse mantenuto un certo riserbo su tutta la questione. Lui ha inarcato un sopracciglio e mi ha guardato come avessi detto una cosa molto, molto stupida, e la discussione s’è chiusa lì.
In ogni caso, Jost e le sue innumerevoli conoscenze nelle comunità gay di tutta Europa a parte, il succo della questione è che stavolta sono organizzato. Lo sono davvero. Non solo so dove andare, ma ho appuntamenti precisi, date fisse, luoghi in cui devo presentarmi, persone con le quali devo parlare, questioni che dovrò risolvere, prospettive di contratti da firmare. Roba eccezionalmente seria. Roba che se penso alla prima persona che vorrei con me quando sarò lì a dover fare tutte queste cose, il primo nome che mi viene in mente è il nome sbagliato.
Il secondo, però, è il nome di Danny. E non è detto che una domanda non possa avere due risposte giuste, dopotutto.
*
Giugno è già cominciato da un paio di giorni, e in giro per le strade ogni tanto si vedono fare capolino segnali dell’estate imminente. Sono soltanto avvertimenti, perlopiù molto blandi. Ogni tanto il sole ti batte sulla pelle con un po’ di forza in più rispetto a quella con cui s’è fatto sentire fino ad adesso, gli strati di vestiti che la gente si porta addosso si riducono gradualmente, c’è perfino qualche coraggioso che già va in giro in maglietta, con le maniche tirate su fino ai gomiti. Lo vedi rabbrividire appena e poi farsi forza e continuare a camminare con un sorriso smagliante stampato sulle labbra, perché alle volte non è importante che non ci sia freddo, alle volte conta molto di più la consapevolezza di riuscire a gestirlo, di potere andare in giro con le maniche arrotolate e magari non morire di caldo, ma non morire nemmeno congelato. Alle persone, ho scoperto, tenere sotto controllo le cose piccole e insignificanti come queste fa bene. È sistematicamente quando cerchi di controllare le cose più grandi e importanti che ti sfugge tutto di mano. Questa è la lezione che ho imparato negli ultimi due anni, una lezione di cui intendo fare tesoro ora che sto per fuggire dal posto che me l’ha insegnata.
Per prima cosa, vado da Bill. Arrivo fino al suo appartamento, busso più volte e nessuno risponde, per cui chiamo Tom ed è lui a dirmi, abbassando la voce fin quasi a non farsi sentire più, che suo fratello s’è trasferito a casa sua per un po’. Stanno organizzando un viaggio, mi dice, non una cosa breve, e comunque Bill per ora non può stare da solo. Io annuisco e lui mi ringrazia per essermi preoccupato, e sento distintamente che sta per chiudere la conversazione. È allora che gli dico che sto passando per un saluto, e per molti secondi lui nemmeno riesce a rispondermi. Immagino sappia, voglio dire, suo fratello deve avergli spiegato, in qualche modo, che nel lungo elenco di persone dalle quali Bill deve stare lontano al momento figuro anche io, seppure per motivi che col rapporto che io e Bill avevamo prima di tutto questo non c’entrano niente. È per questo motivo che ora Tom vorrebbe dirmi “ma sei matto?” e rispedirmi a casa mia con un paio di metaforici calci in culo, ma non lo fa. Perché è Tom, perché è un ragazzo intimamente molto buono, molto soffice, e perché quando si parla di me la parola soffice non basta nemmeno più a descriverlo. Perciò, si limita ad annuire mestamente e dirmi “ok, ci vediamo fra poco”. Lo dice così frettolosamente che quasi riesco a vedere le rotelle del suo cervello muoversi forsennatamente mentre lui cerca di trovare un modo adatto per comunicare il tutto a suo fratello senza generare un’Apocalisse. Sorrido un po’, anche se non dovrei.
Sono lì in un quarto d’ora circa. Visto che non sono nemmeno le undici e mezza, passo da una pasticceria e compro qualcosa di buono da mangiare. Un intero vassoio di paste assortite. Bill molto probabilmente non avrà alcuna voglia di mangiarle, ma mi sembra poco carino presentarmi per dire che partirò, molto probabilmente per sempre, senza neanche portare un regalo. Quando ci rifletto mi sembra poco carino anche portare un regalo, per la verità, ma ormai il danno è fatto, Tom apre la porta e per un attimo guarda solo me, dopodiché i suoi occhi cascano sul vassoio che tengo in equilibrio sul palmo della mano e il suo viso si illumina di un sorriso festoso.
- Hai portato dei dolci! – constata con entusiasmo, prendendo il vassoio fra le mani e facendomi strada in casa. – Bill è un po’ così. – mi dice subito, come mettendo le mani avanti, poggiando il vassoio sul tavolo e scartandolo. – Oddio, quanta roba buona… - miagola sognante, e prende una pasta alla panna e fragoline prima di tornare a guardarmi, - Non sono sicuro che voglia vederti, ma di sicuro non vuole non vederti. – dice con aria un po’ confusa, staccando un morso dal pasticcino e masticandolo con lenta soddisfazione. – Per cui niente, ora te lo chiamo, però vuole che resti mentre parlate. Per te va bene?
Sorrido ed annuisco, Tom manda giù il pasticcino in un altro morso e ne prende un altro prima di girare sui tacchi e scomparire in corridoio. Quando torna, il pasticcino non è più fra le sue dita, bensì fra quelle di Bill, che lo stringe con disinteresse, stando attento solo a non sporcarsi. Ha le labbra piegate in un sorriso sottile, ma distoglie lo sguardo con ostinazione mentre si siede sul divano. Io mi seggo accanto a lui e Tom si stabilisce dietro al tavolo, su una sedia, avvicinandosi il vassoio e ricominciando a mangiare dolci lanciandoci di tanto in tanto occhiate attente da supervisore.
- Come mai sei qui? – chiede Bill. I suoi occhi sono ancora distanti dai miei, e penso proprio che non riuscirò ad incontrarli per oggi.
Devo dirglielo.
- Sono solo passato a salutare.
Non glielo dico.
- …oh. – sussurra lui, guardando il pasticcino e poi allungandosi a posarlo sul tavolino basso di fronte al divano, facendo attenzione a non rovesciarlo. – È… tutto a posto, sì? In generale, dico.
- Non posso parlare per gli altri, perché non li sento da un po’. – rido appena, grattandomi nervosamente la nuca, - Ma io sto bene, sì.
Bill sorride con più sicurezza, anche se tutto, in lui, in questo momento, ha un che di nostalgico e lontano, quasi antico. Da quale quadro sei sbucato fuori, ragazzino? Da quale passato che io non conosco?
- Anche io sto bene. – mi dice. So che lo fa solo per rassicurarmi, me ne rendo conto subito perché Tom, trangugiando un bignè alla crema, inarca un sopracciglio con aria scettica, pure se fa di tutto per darci a intendere di non stare origliando. – Penso che la scelta che abbiamo fatto sia stata quella giusta. – continua, annuendo a se stesso. Io sorrido e mi alzo in piedi.
- Bene. – dico, spiegando i pantaloni lungo le gambe, - Allora direi che vado. Ho ancora un mucchio di cose da fare, non vorrei non riuscirci.
Bill solleva lo sguardo repentinamente, cambiando espressione all’improvviso. I nostri occhi si incontrano ed io nei suoi leggo la paura riflessa dai miei, quella che dice che guardandomi, adesso, lui possa capire quello che gli ho nascosto nonostante fossi venuto qui proprio per salutarlo un’ultima volta.
- …ma sei appena arrivato. – dice invece soltanto lui, mordendosi appena un labbro subito dopo aver finito di parlare. Io sorrido con indulgenza, mentre Tom tira un inaspettato quanto rumoroso sospiro di sollievo. Gli scompiglio i capelli.
- Volevo solo passare per un saluto, comunque. – dico dolcemente, e poi lancio un’occhiata al pasticcino ancora sul tavolino. – Mangialo qualche dolcetto. – consiglio, - Sono buoni.
- Confermo. – annuisce Tom, ingollando il quindicesimo nel giro di dieci minuti. Io rido per qualche secondo, ed osservo Bill chinarsi verso il pasticcino e poi infilarselo in bocca in un sol gesto, come avesse paura di poter cambiare idea se avesse tentennato troppo. Fa fatica perfino a deglutire, il suo pomo d’Adamo fa su e giù per la sua gola con una lentezza esasperante, a un certo punto mi preoccupo pure, ma alla fine lui apre gli occhi e sorride, e lo fa guardando suo fratello, non me.
- È buono davvero. – dice, e Tom gli ricambia il sorriso. Credo che qui sia appena successo qualcosa che con la mia presenza non c’entra niente, credo di aver aiutato una questione di cui ero completamente all’oscuro a risolversi. – Io torno di là. – riprende Bill, e quando si volta a guardarmi, stavolta, è sereno. – A presto, Patrick. – mi saluta. Passa a prendere un altro pasticcino, prima di allontanarsi nuovamente verso camera propria.
Tom si alza dal tavolo, prende un altro bignè e, visto che ne sono rimasti giusto un paio, conserva il resto. Mangia quello che tiene in mano in un morso solo e mi accompagna alla porta. Sorride, restandovi appoggiato mentre mi osserva chiamare l’ascensore.
- Grazie, eh. – dice, salutandomi con un cenno del capo. Io ricambio con un gesto della mano, so che sta ringraziando per un sacco di cose, molte delle quali non saprò mai, e mi sta bene.
*
Mentre salgo in macchina e m’incammino verso casa di Bushido, mi dico che a lui devo proprio dirlo. Me lo dico con una certa convinzione, del tipo che lo so che non posso abbandonare la Germania per sempre senza quantomeno fargli sapere che sto per farlo. Lo so come si sanno quelle cose certe dell’esistenza, quelle che sono conseguenze immediate delle azioni che compi. Metti il dito sul fuoco, ti bruci. Esci senza ombrello mentre di fuori infuria la tempesta, ti bagni. Vai da Chakuza una sera che è solo e non ti vede da tre o quattro ore, si scopa. Allo stesso modo, se decidi di partire per Parigi lasciandoti dietro tutta la tua vita, lo dici a Bushido. Certo, forse quest’ultima questione è un po’ meno ovvia delle altre, per quanto riguarda tutto il resto del mondo. Un perfetto sconosciuto, se decide di trasferirsi da Berlino a Parigi, non è che deve andare da Bushido a notificarglielo. Io sì, però, perché io sono Fler, non sono un perfetto conosciuto, ed anche quando eravamo in guerra stavamo bene attenti a dire sempre ad alta voce dov’è che stavamo andando, se andavamo da qualche parte, così che l’altro potesse saperlo, potesse tenerci d’occhio.
Per cui adesso che mi fermo davanti al cancello di casa sua, parcheggio la macchina all’esterno e mi avvicino al citofono per suonare, lo faccio pensando che non ci sono cazzi, a Bushido lo devo dire, devo e basta.
Aspetto un po’, e sono talmente preparato a rispondere “Fler” quando lui chiederà “chi è?” che non mi accorgo nemmeno che lui invece non me lo chiede. Probabilmente perché vede che sono io nello schermo del videocitofono, si risparmia la domanda ed apre direttamente il cancello, ed è mormorando un “Fler” perfettamente inutile che io lo spingo e mi avvio per il sentierino ghiaioso che conduce verso la porta di casa, sulla quale lui mi aspetta, una mano sullo stipite e l’altra stretta convulsamente attorno alla maniglia, quasi tutto il corpo proiettato all’esterno, in allarme. Sorrido appena, per cercare di tranquillizzarlo. Gli ho parlato, prima di perdersi di vista, gli ho spiegato perché sarebbe stato meglio tagliare un po’ i fili, quindi è naturale che ora, lui, vedendomi tornare qui così presto, non possa che pensare al peggio.
Nota il mio sorriso sereno, comunque, e si rasserena a propria volta. La presa sullo stipite ed attorno alla maniglia si fa più morbida, e tutti i suoi lineamenti si fanno meno tesi, mentre la sua espressione, da stupita e preoccupata, si fa semplicemente sorpresa, forse anche un po’ curiosa.
- Volevo chiederti se era successo qualcosa, - comincia lui, inarcando un sopracciglio, mentre si scosta dalla soglia per farmi passare, - ma a guardarti non si direbbe.
Io ridacchio un po’, entrando in casa e guardandomi intorno prima di rispondere. L’ultima volta che sono stato qui, c’era Bill che piangeva sul divano ed è stato il momento in cui ho deciso che tutto quello che avevo vissuto negli ultimi due anni non era una motivazione sufficiente per continuare a torturarmi. Ho deciso che dovevo darci un taglio, ed ho costretto tutti a farlo. Alle volte mi chiedo se sarebbe andata allo stesso modo se, invece di parlarne solo con Bill, che in quel momento era evidentemente troppo fragile e perso per contestare ciò che avevo da dire, ne avessi parlato allo stesso tempo anche con Bushido e Chakuza, prima di prendere una decisione definitiva. Probabilmente no, non sarebbe andata allo stesso modo. È una fortuna che invece sia andata così.
- No, non è successo niente, infatti. – dico, aggirandomi per la stanza con aria curiosa. Ricordo bene tutti i particolari di quel giorno, ed ogni cosa è ancora esattamente com’era allora. Sono passati tre mesi, quasi, ed è come se in questa stanza non fosse successo niente da quel giorno fino ad oggi.
- E quindi… - azzarda lui, avvicinandosi con fare circospetto, - …come mai sei qui?
Mi inumidisco le labbra, voltandomi a guardarlo. Devo dirglielo. Coraggio. Adesso glielo dico.
- Sono passato solo per un saluto. – rispondo invece. E non lo dico neanche a lui.
Bushido inarca nuovamente il sopracciglio, stavolta palesemente perplesso. È ovvio che non crede a una parola, mi conosce troppo bene per farlo. Per qualche motivo, però, non si sente abbastanza sicuro del proprio intuito da azzardare un terzo grado. Oh, riuscirebbe a tirarmi fuori di bocca qualsiasi cosa, se solo volesse, ma probabilmente non vuole. O forse non sente più di averne il diritto. Qualche anno fa si sarebbe concesso di spremermi fino al midollo anche solo per divertirsi a vedermi arrabbiato o in difficoltà, ma ora no, ora si trattiene. Abbassa lo sguardo, che è una cosa che non ha mai fatto di fronte a nessuno, tantomeno a me, e sospira.
- Ti va un caffè? – mi chiede distrattamente. Io annuisco. Potrebbe chiederlo a Karima e restare qui mentre prendo posto sul divano e continuo a guardarmi intorno come un ospite casuale, ma il fatto è che lui non vuole restare qui, per cui a preparare il caffè ci va da solo, e questo comporterà il dover bere un caffè orribile solo perché lui si sente a disagio. Quest’uomo non ha smesso di condizionare il buonumore del prossimo suo basandosi sui propri sentimenti, è evidente. La giornata era partita così bene, e invece ora mi tocca bere del caffè disgustoso.
Torna più di cinque minuti dopo, col caffè già nelle tazzine posate su un vassoio circolare in legno chiaro. Lo appoggia sul tavolino e si siede sul divano accanto a me, recuperando la propria tazzina e sorseggiando il caffè in silenzio senza guardarmi, prima di abbandonarsi a un mezzo sorriso.
- Cosa? – chiedo io, sorridendo a mia volta. Lui finalmente mi guarda.
- Mi stai prendendo per il culo. – dice con estrema tranquillità, - Questa cosa non è normale, e se dici che non è successo niente allora lo stai facendo per prendermi per il culo. Cos’è, un test? Volevi verificare che fossi davvero solo e non con Bill o chiuso in uno sgabuzzino a infierire sulle spoglie mortali di Chakuza?
Aggrotto le sopracciglia, allungandomi a recuperare la tazzina e bevendo il caffè tutto d’un fiato prima di tornare a guardarlo.
- Ti giuro che non volevo controllarti. – ribatto pacatamente, - Non mi è mai neanche passato per l’anticamera del cervello. Volevo solo salutarti.
- E perché? – insiste lui, continuando a guardarmi con calma quasi eccessiva.
Perché sto partendo, Anis. Sto partendo, ho un aereo domani mattina alle dieci e non ho prenotato il volo di ritorno, perché un volo di ritorno non ci sarà. Sto partendo e non ci vedremo più e visto che cambierò numero probabilmente non ci sentiremo nemmeno più, e volevo andare via ricordandomi bene come sei e qual è il suono della tua voce, perché non capiterà più che possa passare da casa tua a salutarti semplicemente quando mi va, e pensavo fosse giusto farlo adesso che posso ancora, anche se questo tu non puoi saperlo, e se non tiro fuori le palle al più presto non lo saprai mai.
- Perché mi mancavi. – mento. Non è vero, Anis. Sono stato bene senza averti intorno. Sono stato bene senza avere nessuno di voi intorno. Mi sono concentrato su un mucchio di cose piacevoli e la mia vita è tornata tranquilla, per lo più. Mi dispiace che l’ultima cosa che tu debba sentire da me sia una bugia, proprio tu le bugie le odi. Ma in questo momento sento di dovermi proteggere, e questo è l’unico modo che riesco a pensare.
Lui sorride intenerito, allungando una mano ad accarezzarmi una spalla. Mi ci batte sopra anche un paio di pacche.
- Anche tu mi sei mancato, Frank. – dice con naturalezza, - Magari il peggio è passato. Noi due, dico, potremmo anche ricominciare a vederci. Saltuariamente. – aggiunge giusto per mettere le mani avanti quando, probabilmente, nota il mio sguardo che si incupisce.
Mi sforzo di sorridere, battendo un paio di volte la mia mano contro il dorso della sua e poi alzandomi in piedi.
- Sì, certo. – butto lì, - mi faccio sentire io. – dico, sperando che questo basti a tenerlo ben lontano dal mio numero per almeno un paio di settimane, giusto il tempo di stabilirmi a Parigi e cambiarlo. Lui annuisce subito, precipitosamente, come volesse dare ad intendermi di non aver mai voluto imporre la propria volontà sulla mia.
- Certo. – dice, alzandosi in piedi e seguendomi mentre mi avvicino alla porta, - Certo, naturalmente. Quando vuoi, io sono qui.
Annuisco ancora, aprendo la porta.
- Stammi bene. – dico, salutandolo con un mezzo abbraccio un po’ impacciato. Lui lo ricambia altrettanto goffamente, e poi mi osserva allontanarmi lungo il vialetto, verso il cancello.
- Non sparire! – mi urla, e poi ci ripensa. – Troppo a lungo. – aggiunge. Io rido un po’.
- Non sparisco. – lo rassicuro, ed è una menzogna anche questa. E visto che è proprio l’ultima cosa che gli dico, me ne vado in fretta, per non cedere alla tentazione di tornare indietro, dirgli tutto e poi implorarlo di darmi anche solo un motivo per restare.
*
Chakuza non risponde al citofono, ma contrariamente a Bill non possiede un fratello con una cotta per il sottoscritto che io possa chiamare per informarmi sul suo stato di salute e sulla sua presenza fra gli esseri umani, perciò dopo dieci minuti attaccato al campanello mi rassegno, recupero il cellulare e lo chiamo. L’idea di parlare con lui senza un filtro in mezzo mi spaventa un po’. Voglio dire, quando mi sono presentato da Bill lui sapeva già che sarei arrivato perché avevo parlato prima con Tom, e quando ho visto Bushido lui sapeva già che ero io perché mi aveva visto sul videocitofono, ma il telefono? È una cosa completamente diversa. Quando ti chiamano tu vedi il numero sul display, ma la chiamata è già in atto, hai pochissimi secondi per decidere se vuoi rispondere o meno, e quando a chiamare non è qualcuno che ti aspetti può diventare una paranoia non indifferente.
Immagino che sia per questo che a rispondere Chakuza ci mette le ore. Squilla almeno dieci volte prima che lui si decida a schiacciare il pulsante e sputacchiare un “pronto…?” totalmente confuso e anche un po’ spaventato.
- Ehi. – dico io sorridendo, cercando di suonare il più a mio agio possibile. Chakuza boccheggia per qualche istante.
- Fler? – chiede con sorpresa palese. Ha visto il mio nome, dovrebbe sapere che sono io, dovrebbe saperlo anche senza bisogno che glielo confermi, visto che ormai ha anche sentito la mia voce, ma l’eventualità che potessi chiamarlo doveva essere così remota, nella sua testa, da obbligarlo a domandare ancora, per esserne proprio certo.
- Già. – annuisco, - Ero passato da casa tua, ma non risponde nessuno, perciò immagino tu non ci sia. Dove sei finito?
Lui esita per una buona quantità di secondi, prima di rispondere.
- In Austria. – confessa quindi, - Alla fattoria dei miei.
Esito anch’io, mentre me lo vedo chiarissimo a tenere il cellulare fra l’orecchio e la spalla perché ha le mani impegnate a mungere una vacca.
- …in Austria? – domando sconvolto, - Ma sul serio?
Lui ride un po’, passando il cellulare da un orecchio all’altro e dimostrando perciò di non stare mungendo alcuna vacca.
- Sì. – risponde, sensibilmente più tranquillo rispetto a poco fa, - Ho pensato di prendermela qui, la mia pausa. Si sta bene, c’è un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto. Tu che mi dici?
Per un po’ non dico proprio un bel niente, perché scoppio a ridere. Oggi non l’ho ancora fatto, ed è una sensazione bellissima. Mi prende a tutto il corpo, mi piego in due e rido così tanto che comincia a farmi male lo stomaco, ma non è un dolore fastidioso. Un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto, Chakuza? Oh, Dio.
- Niente di che. – rispondo quindi, mentre lo sento borbottare rumorosamente dall’altro lato della cornetta, - Stavo solo… in Austria, Chaku, ma tu non sei mica a posto con tutte le rotelle! – dico, impossibilitato a trattenermi oltre, e riprendo a ridere come se non avessi mai smesso.
- Di’ un po’, ma lo sai che per prendermi per il culo stai spendendo un sacco di soldi? – mi fa notare lui, sempre con quel borbottio offeso che me lo fa immaginare già vecchio e con un’enorme barba bianca e la pipa in bocca. E la testa lucida, sempre.
- Sì, lo so. – dico, mentre l’accesso di risate comincia piano piano a placarsi. Mi rimetto dritto, asciugo una lacrima dall’angolo dell’occhio e penso che glielo voglio proprio dire, a Chakuza, che sto partendo. Non so perché, ma voglio farlo. – Volevo salutarti, - dico quindi, e per un attimo non riesco a credere che lo sto facendo davvero, - domani parto.
Chakuza si congela all’istante. L’atmosfera era rilassata fino a meno di un secondo fa, ma è bastato dire che sto partendo perché lui cambiasse subito atteggiamento e, immagino, anche disposizione nei confronti della vita in generale. Il fatto è che Chakuza è uno cui non devi mai togliere le sue certezze. Ne ha già poche, e quando gli togli pure quelle è il panico. Perciò lui è fuggito in Austria per non dovere avere a che fare ogni giorno col pensiero di essere a Berlino e non poter posare gli occhi su me o su Bill, ma non gli è mai passata per la mente la possibilità di tornare a Berlino e sapere che io o Bill – o perfino Bushido – non eravamo più lì. È come dirgli “guarda, finché sei là sui monti con Annette dove il cielo è sempre blu il sole continuerà a sorgere pacifico ogni mattina, ma quando sarai tornato a Berlino non aspettarti che continui a farlo, perché qui il sole non sorge più”. È una cosa completamente priva di senso che lui non riesce ad accettare, e probabilmente immagina che non l’avrei chiamato se fosse stato un breve viaggio, e cioè se avessi immaginato che per il suo ritorno sarei già abbondantemente tornato anch’io.
- Come sarebbe a dire che parti? – chiede allarmato, - Dov’è che vai?
All’improvviso, non ho più tanta voglia di parlargliene. Il suo tono apprensivo è di quelli che da soli sarebbero capaci di farmi promettere tutto e il contrario di tutto, pur di non sentirglielo più addosso. Non vado da nessuna parte, Chaku. Da nessuna parte.
- In realtà è una cosa temporanea. – abbozzo distrattamente, - Sono giusto un paio di settimane.
- Dove? – chiede subito lui, insoddisfatto.
- In un posto non lontano da qui, - invento di sana pianta, - un agriturismo. Ho avuto un po’ di problemi con Sido, ultimamente, e quindi abbiamo pensato di andare qualche giorno in vacanza, lui si porta dietro tutta la famiglia e andiamo in questo posto dove mangeremo bene e faremo lunghe passeggiate e la vita ci sembrerà più semplice e potremo risolvere tutti i problemi che abbiamo.
Lui mugugna un assenso indefinito, mentre io penso che non è neanche una cattiva idea, questa dell’agriturismo. Se avessi più tempo, probabilmente correrei all’Aggro adesso per proporglielo. Abbiamo avuto un po’ di scontri per questa questione di Nyze, ultimamente, ma resta uno che mi è sempre rimasto accanto, perfino in momenti in cui nemmeno Bushido ha voluto farlo. Mi dispiace non avere il tempo di salutarlo, mi dispiace che sia già tardi e mi dispiace pensare che in realtà anche questa telefonata è durata fin troppo. Devo darmi una mossa, fra poco Danny sarà a casa. Non ho più tempo davvero per niente, lo sto risparmiando tutto per averne il più possibile da domani in poi, quando il futuro mi si aprirà tutto davanti agli occhi in un posto nuovo e potrò ricominciare da zero. Alle volte sembra una cosa così faticosa da fare, mentre altre volte ancora è l’unica cosa che vuoi davvero. È l’unica cosa che voglio io adesso, almeno, e tanto mi basta.
Faccio per dirgli che, appunto, non ho più tempo, e quindi arrivederci e grazie, ma lui me lo impedisce, mettendosi a parlare all’improvviso.
- Volevi vedermi? – chiede serio, - Se sei passato da casa mia, immagino volessi vedermi. Posso essere a Berlino per domani alle nove, se vuoi.
Mi mordo un labbro. Se gli dicessi di sì adesso, avrei tutto il tempo, domani mattina, per vedere lui e poi partire comunque. Sempre che, dopo averlo visto, voglia ancora farlo. Ci rifletto, ci rifletto a lungo e per tutto il tempo mi dico da solo che non è una cosa veramente fattibile, che non dovrei neanche starci a pensare. Devo lasciare perdere, devo proprio, decisamente lasciare perdere. Alla fine, è solo amore. Quanta gente s’innamora, ogni giorno? Milioni di persone incontrano una persona e si innamorano, continuamente, è una cosa che si ripete all’infinito perché milioni di persone, continuamente, si lasciano anche. Non è niente di che. Me lo ripeto con convinzione. Non è niente di che.
- No, davvero. – sorrido, - Ero solo passato per un saluto. Goditi il tuo bel tempo, il tuo sole e il tuo freschetto, Chaku. Noi ci si becca appena torni.
Lui mugugna qualcosa che non capisco.
- Sarai lì, quando tornerò, giusto? – chiede per esserne certo.
Mento anche a lui. Mi pesa meno di quanto dovrebbe.
*
Danny torna a casa portando con sé due tranci di pizza di dimensioni enormi. Ogni pezzo di wurstel ha un diametro più ampio di quello del mio pollice. Posa il vassoio sul tavolo con un certo orgoglio, guardandomi con evidente soddisfazione mentre si siede e comincia sistematicamente a rubare tutti i wurstel da entrambi i pezzi di pizza.
- E questi? – chiedo, indicando il tutto con perplessità palese. Lui scrolla le spalle.
- Avevo voglia di un pranzo veloce. – risponde.
- E avevi anche soldi da buttare, immagino. – borbotto, mettendo automaticamente mano al portafogli per restituirgli tutto, - Quanto hai pagato?
- Neanche un centesimo. – dice lui, sorridendo candidamente, - Ho fatto addebitare tutto sul tuo conto, non ho neanche chiesto quant’era. Ho preso anche un paio di lattine di Coca, ma quelle le ho bevute entrambe in metro mentre venivo qui. – conclude annuendo, - Avevo sete.
- Ti si sarà bucato lo stomaco. – considero inarcando un sopracciglio, - Bene, quindi domani mattina fra le altre cose dovrò svegliarmi all’alba per passare dal fornaio a saldare il conto, prima di partire.
Daniel si ferma immediatamente, un wurstel ancora fra le dita e lo sguardo un po’ perso.
- Parti? – chiede quindi, simulando indifferenza. Riesco a sentire la tensione sottile nella sua voce, e ne sorrido.
- Aspettami qui. – gli dico, girando attorno al tavolo ed uscendo in corridoio. Vado fino all’ingresso e tiro fuori la busta coi biglietti dalla tasca del giubbotto appeso all’attaccapanni, e quando mi volto per imboccare il corridoio a ritroso lo trovo lì affacciato dalla porta della cucina che mi fissa con curiosità. – Ti avevo detto di aspettarmi lì. – ridacchio avvicinandomi e spingendolo nuovamente all’interno della stanza semplicemente avanzando verso di lui.
- Infatti ti ho aspettato qui. – annuisce lui, sedendosi mentre mi osserva fare lo stesso. – Che c’è in quella busta?
Prendo un gran respiro, aprendola e tirandone fuori i due biglietti per Parigi. Lui me li ruba dalle mani, guardandoli incerto. Nota subito che su uno dei due c’è stampato il suo nome.
- Non ti sto chiedendo niente. – mi affretto a rassicurarlo, - L’ho fatto solo nel caso tu volessi.
Lui resta zitto per qualche secondo, ma è un’esitazioni che sembra durare secoli. Mi sento sfuggire il tempo da sotto le dita mentre aspetto che dica qualcosa, e so che è così solo perché ciò che aspetto di sentirmi dire è la cosa più importante che abbia atteso negli ultimi mesi. È così fondamentale che da questo dipende tutta la mia vita, tutto il mio futuro. Io andrò via comunque, ma sarà diverso farlo da solo o farlo con Danny.
- …non c’è scritta la data di ritorno. – dice quindi, deglutendo forzatamente. Mi guarda dritto negli occhi, solo che non capisco cos’è che vorrebbe sentirsi dire in questo momento, per cui opto per l’unica cosa certa che so, cioè la verità.
- Sì, non c’è una data di ritorno. – dico tutto d’un fiato, - Mi sto trasferendo, Danny. È la prima volta in vita mia che non mi sento a posto con questa città, e non ci voglio più stare. Mi rendo conto di quanto sia infantile, cioè, a volte mi sembra infantile, a volte no, in questo momento sì, ma stamattina no, e nemmeno quando facevo il biglietto, ma non cambia la sostanza dei fatti che io qui non ci voglio stare più, e mi trasferisco. E sarei felice se tu volessi venire con me, ma ti capirò se non vorrai.
Lui fa un’altra pausa, torna a scrutare i biglietti, se li rigira fra le mani.
- Sono per domani alle dieci e mezza… - sussurra incerto.
- Lo so. – annuisco io, - È una cosa improvvisa, ti sto chiedendo di prendere una decisione molto in fretta. Ma ehi, guarda che non c’è niente di definitivo, nella vita, voglio dire, magari arrivo là e i francesi mi stanno tutti sul cazzo a pelle. O magari no, ma se non ti va di venire subito puoi restare e fra una settimana o due o tre o quando vuoi non ci metto niente a farti avere un biglietto per raggiungermi, intendo, non sto mica andando in Patagonia, la Francia non è così lontana da qui, e—
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – dice lui, interrompendo il mio fiume di parole confuso ed anche vagamente privo di senso. Lo guardo.
- Cosa? – chiedo.
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – ripete Daniel, - È sabato, mio padre starà lì tutto oggi e tutto domani e se mi vede arrivare è capace di rinchiudermi fino a lunedì. Se vado, rischio di non tornare in tempo.
Continuo a guardarlo, perché non sono sicuro di aver capito bene.
- Stai dicendo che vuoi venire? – chiedo per sicurezza. Devo suonare come un perfetto imbecille, in questo momento.
- Sto dicendo che non potrò passare a casa mia a prendere la mia roba. – ripete lui, per la terza volta in meno di cinque minuti, aggrottando le sopracciglia mentre le guance gli si colorano appena. - …immagino che questo implichi che sì, voglio venire. Ma non avrò niente da mettere.
Trattengo il respiro per qualche secondo, alzandomi in piedi. Non gli dico di aspettarmi qui, tanto so che non lo farebbe in ogni caso, ed esco nuovamente in corridoio, dirigendomi stavolta verso lo sgabuzzino. Ne apro la porta e mi chino a recuperare lo zainetto nuovo ancora abbandonato in un angolo. Lo apro, ne tiro fuori le due magliette ancora avvolte nella plastica. Mi volto e Danny è esattamente davanti a me. Mi guarda e i suoi occhi sono macchiati d’incertezza e di un pizzico di paura.
Sventolo le magliette davanti al suo viso.
- Non è molto, ma per un paio di giorni ti dovrebbero bastare. – dico. Non so neanche che espressione dovrei avere in questo momento, è tutto così surreale. – Poi andremo a comprare qualcos’altro.
Daniel mi guarda ancora, a lungo. È palese che nemmeno lui sa che espressione dovrebbe avere. Poi mi afferra il viso fra le mani, così improvvisamente che io quasi indietreggio spaventato, e mi si avvicina, schiacciando le proprie labbra contro le mie. Mentre mi bacia con forza, sorride. E allora sorrido anch’io.
*
Pierre viene a prenderci all’aeroporto, qualcosa che non mi aspettavo ma che dopotutto mi fa piacere. Lo riconosco perché tiene dritto sulla testa un cartello col mio nome sopra, e lo agita elegantemente a destra e a sinistra per farsi notare. Le sue labbra si aprono su due file di denti bianchissimi e perfetti, i capelli ricci che incorniciano il volto dai lineamenti fini ed eleganti e gli occhi scuri ma brillanti danno l’impressione di avere davanti un ragazzo che ci sa fare, tutto sommato. Per qualche ragione, lo immaginavo più o meno così. Forse, avendo ben presente David Jost e gli esseri umani coi quali normalmente si accompagna, non avrebbe potuto essere niente di diverso.
- Ma è un tuo ex? – butta lì Daniel, indicandolo distrattamente. Gli schiaffeggio la mano.
- È maleducato indicare le persone. – lo rimprovero arrossendo, mentre lui borbotta un “ahi” risentito e si massaggia la mano dolente, - Comunque no, non l’ho mai visto prima di questo momento. E sforzati di parlare in inglese, non è carino parlare in una lingua che lui non conosce.
- Se sapevo che ti trasformavi in mio padre appena valicato il confine, me ne restavo a Berlino. – sbotta Daniel, facendomi una linguaccia. Io sospiro e sollevo gli occhi al cielo, e decido saggiamente di ignorarlo.
- Ohilà! – ci saluta Pierre, mettendo via il cartello e sorridendo amabilmente, - È un piacere incontrarvi, finalmente. Davìd mi ha parlato a lungo di voi. A proposito, come sta? Sta ancora con Antonio, quel pizzaiolo che aveva conosciuto a Ibiza? O aspetta, quello era stato prima o dopo Jean-Jacques? – si interrompe un attimo, grattandosi il mento. Parla un inglese simpatico, ha un accento fortissimo ma ogni tanto sembra che lo forzi apposta, è divertente. – Forse però venivano entrambi prima di Samuel, mi sbaglio?
Io ridacchio, stringendomi nelle spalle.
- Non ficco il naso nella vita privata di Jost, usualmente. – rispondo. Danny, accanto a me, studia Pierre con attenzione e a un certo punto indica il cappotto scamosciato beige che indossa e sbotta “ma che razza di colore sarebbe quello?!”. Io sollevo nuovamente gli occhi al cielo.
Pierre inarca un sopracciglio, guardandolo, ma sorride con aria indulgente quando i suoi occhi tornano a posarsi su di me.
- Se sei fuggito dalla Germania per evitare che ti accusassero di molestie su minori palesemente incapaci di intendere e di volere, devo avvertirti che non è che qui in Francia ci si vada giù meno pesantemente, su questo tipo di crimini.
Danny scoppia a ridere, dimostrando di comprendere perfettamente l’inglese e, perciò, di stare continuando a parlare in tedesco solo per sfregio.
- Exactement. – risponde al posto mio. Mi volto a guardarlo con aria palesemente offesa. – Cosa? – chiede lui, candido, - Studiamo francese a scuola.
Pierre ride divertito, battendomi una pacca sulla schiena.
- Spero per te che sia il tuo fratellino minore o un cuginetto che hai portato in vacanza, e non il tuo ragazzo davvero, perché altrimenti… come dire. – ride un’altra volta, stringendosi nelle spalle, - Buona fortuna.
Sospiro, abbattendomi un po’.
- Sì, mi sa che ne avrò bisogno. – brontolo mentre Danny, improvvisamente al settimo cielo, si sporge a lasciarmi un bacio un po’ umido e vagamente appiccicoso su una guancia. Che il cielo mi aiuti.
*
L’albergo è bellissimo, e mi viene un po’ da ridere quando, una volta rimasti soli in camera, Danny mi spinge sul letto. Sento il materasso cedere dolcemente sotto il nostro peso, accoglie i nostri corpi in un abbraccio morbido e tiepido ed al tatto sembra completamente diverso dal mio a casa, che è durissimo e, anche se l’abbiamo usato più spesso, ultimamente, non s’è mai abituato davvero a noi. O a me.
- Senti che buon profumo… - mugola Danny, scivolando oltre il mio collo ed affondando il naso fra i cuscini. Rido avvolgendolo fra le mie braccia e ribaltandolo sul materasso mentre lui ride a sua volta, schiudendo le gambe per farmi posto.
- Concentrati. – lo rimprovero sorridendo, - Siamo nella città dell’amore e tu ti perdi dietro al profumo delle lenzuola?
- Be’, è buono. – scrolla le spalle lui, fingendo indifferenza, ma il sorriso che piega le sue labbra è il riflesso identico di quello che piega le mie. Sollevo un braccio, ridendo come un bambino, come se io e lui avessimo la stessa età e fossimo amici e stessimo giocando, o come se fossimo due stupidi liceali che si piacciono e non sono ancora riusciti a dirselo, e sfilo un cuscino da sotto la sua testa, schiacciandoglielo con forza sul viso.
- È buono? – lo prendo in giro, facendogli il solletico e sentendolo dimenarsi sotto di me in preda agli spasmi e alle risate, - Allora? È buono?
- Lasciami! Lasciami! – dice lui a corto d’aria, sgambettando a casaccio ed agitando le mani alla cieca nel tentativo di allontanarmi. Lo torturo ancora per qualche secondo, prima di togliere di mezzo il cuscino e chinarmi sulle sue labbra. Non aspetto che abbia ripreso fiato, prima di baciarlo, e il risultato è che comincia prestissimo ad ansimare fra le mie labbra, ed i respiri che gli escono dal naso sono affrettati, irregolari, caldi e un po’ affannosi. Mi scorre un brivido lungo tutta la schiena mentre le sue mani trovano spazio fra i nostri corpi e mi afferrano saldamente per la felpa, aggrappandovisi prima e strattonandola con forza subito dopo.
Mi allontano, poggiando la mia fronte contro la sua e guardandolo mentre riprende fiato, le ciglia bionde che tremano appena, la luce gialla e calda dell’abat-jour sul comodino che ne proietta le ombre sulle sue guance un po’ scavate e arrossate dalla fatica e dai movimenti concitati di poco fa. Il cuore gli batte così forte che me lo sento rimbombare nel petto. Ha un suono molto simile al mio. È così felice che le labbra gli si piegano in un sorriso appena accennato, spensierato, irreale. Gli scorre felicità addosso in scariche elettriche che mi fanno bruciare la pelle. Penso che voglio restare qui con lui per sempre.
Lo bacio ancora, stavolta con più calma, e lui mi allaccia al collo, schiacciandosi con forza contro di me e strusciando il bacino contro il mio in movimenti lenti e regolari che mi fanno impazzire. Alle volte, gli capita di riuscire a controllarsi molto meglio di quanto mi controlli io. Sono quei momenti in cui mi rendo conto che in degli istanti precisi io e lui come coppia sfioriamo davvero la perfezione a livello di intesa, e per me sono momenti miracolosi, alle volte quando ci penso mi viene da piangere perché non mi sono mai sentito così con nessuno. Ho avuto delle relazioni meravigliose con quasi tutte le persone con cui sono stato, ma questa è la prima volta che mi capita di pensare all’eternità di una vita insieme come a qualcosa di possibile, qualcosa che sia plausibile da costruire, e non sulla quale si possa a malapena sognare ad occhi aperti, e solo correndo il rischio di sentirsi molto ridicoli una volta tornati alla realtà.
Per Daniel non è niente di speciale: io sono il primo di cui s’innamora, ed è stato fortunato a trovare subito questo tipo di connessione. Se davvero fra noi due non dovesse finire mai, fra quaranta, cinquanta, sessant’anni, morirebbe pensando all’amore come a ciò che l’ha reso completo sempre. Mi riempie di orgoglio, in qualche modo, avere la possibilità di essere l’unica persona che amerà per tutta la sua vita. Mi fa quasi venire voglia di dimenticare tutte le persone che invece ho avuto io, per potermi illudere di avere amato e voluto solo lui allo stesso modo.
Forse è per questo – per compensare, o per cancellare, o perché ci sta con la testa più di me, o magari semplicemente perché sento che ne ha voglia e voglio accontentarlo – che quando si allontana da me e mi sussurra sulle labbra di girarmi obbedisco. Mi stendo sullo stomaco, appoggiando il viso al cuscino e respirando profondamente mentre mi rilasso e lascio che mi spogli, mi accarezzi e mi afferri con urgenza per i fianchi, avvicinandosi a me così tanto che sento tutto il suo corpo aderire perfettamente alla curva della mia schiena. Perde le gambe fra le mie, mi morde con forza una spalla, io chiudo gli occhi e mi permetto di smettere di pensare. Mi fido abbastanza di Danny da lasciargli la responsabilità di farlo per entrambi, almeno per la prossima mezz’ora.
*
Parigi è bellissima, o forse mi sembra bellissima solo perché avevo una gran voglia di scappare da Berlino. Probabilmente, se io e Danny ci fossimo trasferiti in un qualche paesucolo sperduto sull’Appennino italiano, o un qualche borgo marittimo abitato da cento anime sulla costa portoghese, l’avrei trovato meraviglioso lo stesso. In ogni caso non importa, sono minuzie cui posso permettermi di non pensare. È un lusso che sto riscoprendo da quando non vivo più in Germania, e mi piace tantissimo.
Le prime due settimane le passiamo da turisti. Compriamo una cartina e tre guide che ci sembrano diverse ma alla fine scopriamo essere uguali ma edite in tre anni differenti (anche se forse i titoli – Come muoversi a Parigi 2008, Come muoversi a Parigi 2009 e Come muoversi a Parigi 2010 – avrebbero dovuto darci qualche indizio a riguardo), ed andiamo in giro come cani sciolti, un po’ a caso. Finiamo in un sacco di casini perché io non conosco la lingua e anche Danny, nonostante tutto il suo bullarsi, oltre ad exactement sa dire giusto bon jour, bonsoir e bonne nuit, per cui ci perdiamo regolarmente almeno una volta al giorno ed è Pierre a venirci a recuperare in macchina, sempre sorridente e sempre disponibile, indipendentemente dal luogo in cui siamo finiti e da quanto ci siamo allontanati dalle zone in cui lui ci ha consigliato di rimanere.
A mostrarci gli appartamenti è Bertrand, il ragazzo di Pierre. Inizialmente mi stupisce che abbia un ragazzo, un po’ perché l’ho vagamente identificato come un David Jost con la r moscia e David Jost difficilmente ha un ragazzo che possa permettersi di chiamare ragazzo, appunto, o almeno, io non l’ho mai visto andare in giro con nessuno in questo senso, però poi mi rendo conto che mi sto facendo problemi idioti su un qualcosa di idiota, che alla fine sono lì col mio ragazzo anch’io e non dovrebbe stupirmi di sapere che hanno un ragazzo anche il panettiere, il giornalaio e il salumiere all’angolo della strada.
Appartamenti ne vediamo un bel po’, ma nessuno ci convince. Vogliamo un posto bello grande in cui stare, io voglio rimettermi in carreggiata quanto prima, voglio lavorare, voglio uno studio di incisione e lo voglio in casa, ma per un motivo o per l’altro nessuno degli appartamenti che controlliamo sembra quello adatto, almeno fino ad oggi.
Bertrand si sistema gli occhiali dalla montatura spessa e nera sul naso ed appende una mano al fianco, sporgendolo appena mentre, con un ampio cenno della mano libera, ci mostra l’enorme sala rettangolare che sta esattamente al centro dell’appartamento che stiamo visitando. È del tutto indipendente dal corridoio che porta alla cucina ed alla camera da letto, ed ha un’enorme vetrata scorrevole su una parete. Dà sulla strada che si agita trafficata dodici piani sotto di noi, ma è perfettamente insonorizzata, non arriva neanche una minima parte del trambusto di fuori.
- La proprietaria precedente la usava come palestra. – dice, indicando il parquet un po’ ammaccato in qualche punto che ricopre il pavimento, - Era abituata a mettere la musica a volume altissimo durante le lezioni di step che faceva con qualche amica. Nessuno degli altri inquilini della scala s’è mai lamentato della confusione. Mi sembra—
- Perfetta. – conclude Daniel per tutti, lanciando attorno a sé un’occhiata sognante. – Bertie, ci porti a vedere la terrazza? – dice quindi, quasi saltellando sul posto.
Mentre Bertrand – che ormai Danny chiama Bertie perché sono settimane che, poverino, lo costringiamo a girare la città in cerca di appartamenti sempre più belli da mostrarci, e ormai siamo di famiglia, per così dire – ci accompagna lungo il corridoio e fino alla terrazza, Daniel allunga una mano all’indietro ed intreccia le dita con le mie. Sorrido mentre ripenso a quando, un paio di giorni fa, gli ho chiesto se si rendesse conto del fatto che stavamo andando a vivere insieme. Lui mi ha guardato con stupore non simulato, sbattendo un paio di volte le palpebre e inumidendosi le labbra. “Fler,” mi ha detto, “guarda che in pratica noi viviamo insieme ormai già da un paio di mesi.” Ed è vero, ha ragione, e io adoro questa sua praticità così tremendamente infantile, ma c’è una sostanziale differenza fra il fatto che noi vivessimo insieme prima e il fatto che stiamo andando a vivere insieme adesso. Quello è capitato. Questo lo stiamo volendo.
Mentre usciamo in terrazza e Parigi si apre splendente sotto di noi nel sole accecante di fine luglio, penso che mi basta essere custode di questa differenza da solo. Non c’è bisogno che la noti anche Danny. Fra qualche tempo, tutto ciò sarà così naturale che smetterò di pensarci anch’io.
*
Quando, quasi un mese dopo, il mio vecchio cellulare squilla, in un primo momento non lo riconosco nemmeno. Da quando sono partito, nessuno ha mai chiamato a quel numero. Alla fine ho comprato un cellulare nuovo per la scheda francese, e quella vecchia l’ho lasciata in questo, che però è stato quasi del tutto dimenticato. L’ho sempre tenuto acceso, e carico, ma più che altro pensando alla possibilità che mia madre potesse ritrovarsi ad aver bisogno di chiamarmi all’improvviso e non avesse a portata di mano il nuovo numero, che fatica ad imparare. Non ne ha mai avuto bisogno, però, ci siamo sentiti regolarmente e non mi sono mai arrivate chiamate improvvise o inaspettate. E la verità è che ho dimenticato la suoneria, tant’è che quando squilla ipotizzo sia il cellulare di Danny e mi chiedo perché invece l’abbia cambiata lui, visto che va matto per Love The Way You Lie e ha giurato e spergiurato per una settimana intera che l’avrebbe tenuta per sempre. In realtà io sospetto che gli piaccia Rihanna e basta, perché Love The Way You Lie fa schifo e io mi rifiuto di accettare che qualcuno possa apprezzarla e allo stesso tempo apprezzare anche la mia musica o il resto della produzione dell’Aggro. Poi in effetti dovrebbe darmi anche da pensare il fatto che uno che viene a letto con me poi possa farsi piacere anche Rihanna, ma per quanto la questione sia degna di attenzione io non riesco a fornirgliela, perché Daniel, semiaddormentato contro la mia spalla sul divano nella luce azzurrognola che viene dalla televisione, mugugna “che fai, non rispondi?”, e io mi volto a guardarlo con aria sinceramente curiosa.
- Ma non è il tuo? – gli chiedo, e lui si volta e struscia il muso contro il mio braccio, brontolando piano.
- No che non è il mio, coglione. – sbotta quindi, sbilanciandosi dall’altro lato ed accovacciandosi contro il bracciolo, - È il tuo vecchio cellulare. Vai a rispondere, o spegnilo, non riesco a seguire il film.
- Non riesci a seguire il film perché stai dormendo in piedi… - gli faccio notare, mettendomi comunque dritto ed avviandomi verso il corridoio, - Perché non vai a letto?
- Non rompere. – biascica lui, ed è l’ultima cosa che sento prima di avvicinarmi alla suoneria abbastanza da non sentire più nient’altro. La riconosco adesso, è proprio la mia. Il cellulare s’illumina a tratti e vibra, appoggiato sul cassettone d’ebano in camera da letto, davanti a una foto stupida che io e Danny ci siamo fatti scattare da un turista giapponese di fronte a Versailles. È stato più facile comunicare con lui che non con un parigino a caso.
Il display mi dice che è Bushido a chiamarmi, ma deve essere una bugia. Perché dovrebbe farlo? Io sono a Parigi.
E lui però non lo sa.
Rispondo in fretta, allarmato. È la prima volta in due mesi che penso a quello che mi sono lasciato indietro senza aver trovato le palle di dire a nessuno che lo stavo facendo.
- Fler! – mi chiama immediatamente lui, quando mi sente rispondere, - Cristo, ci hai messo i secoli… stai bene?
- Che? – sbotto stupito, - Certo che sto bene. È successo qualcosa?
- Diosanto— ma dove cazzo sei? – continua risentito, - Cazzo, la prossima volta fammi aspettare due ore, d’accordo? Cristo, non hai idea di quello che mi è passato per la testa. Si può sapere dove cazzo sei?!
- Si può sapere cosa cazzo è successo?! – insisto polemico, aggrottando le sopracciglia. Lo specchio rettangolare appeso di fronte a me mi rimanda l’immagine di un uomo teso e sulla difensiva. Mi sento minacciato. Lo riconosco senza difficoltà.
- Ho ricevuto una chiamata anonima. – mi spiega lui, - Qualcuno dei miei è in pericolo, ma non ho ancora capito chi. Almeno adesso so che non sei tu. Muovi il culo e raggiungimi, sto andando nella zona dei vecchi magazzini in periferia. Ci troviamo lì.
Sento che sta per interrompere la conversazione senza che io sia riuscito e dirgli niente di quello che dovrei dirgli, e lo fermo.
- Anis! – lo chiamo all’improvviso, e lui s’interrompe. Scommetto che aveva già il pollice sul pulsante. – Anis, di cosa cazzo stai parlando? – chiedo. Sono via da Berlino e non ho letto né sentito niente a riguardo, nelle ultime settimane. Potrebbe essere scoppiata la guerra e non lo saprei.
Lui inspira profondamente.
- Te lo dico appena ci vediamo. – cerca di tagliare corto.
- No, Anis. – lo interrompo, inspirando profondamente a mia volta. - …io sono a Parigi. – butto fuori in un fiato, stringendo convulsamente il telefono fra le mani. Lui rimane immobile e silenzioso per quasi un minuto. Non sembra neanche respirare. Penso ai soldi che sta spendendo per chiamarmi, non per i soldi in sé ma perché mi irriterebbe se gli restasse il cellulare a secco e la chiamata s’interrompesse proprio adesso. – Anis? – lo chiamo, cercando di riscuoterlo. Vorrei obbligarmi a smettere di chiamarlo per nome, ma non ci riesco.
- Che cazzo vuol dire? – sputa fuori a fatica, - Che ci fai a Parigi?
- …mi ci sono trasferito. – rispondo. Il mio tono di voce è basso e cupo. Colpevole. Mi vergogno molto perché non mi ci sento ma sto controllando la voce in modo da sembrarlo. – Da un paio di mesi. Scusa se non te l’ho detto—
- Scusa se non te l’ho detto?! – ripete lui, sconcertato, - Fler, ma scherzi? – chiede speranzoso. Io deglutisco a fatica. Non riesco a rispondere. – Non scherzi. – si risponde quindi da solo, - Fler, ma come ti è saltato in mente…? – comincia, e poi forse si rende conto anche lui del tempo che passa e dei soldi che vanno via, perché riprende a parlare a macchinetta, per fare più in fretta possibile. – Lascia perdere, - dice, - mi spiegherai quando sarai tornato. Ti voglio sul primo aereo domani mattina, capito, Frank? La situazione è complicata e mi servi qui. D’accordo? A domani.
Sento che prova a interrompere la conversazione una seconda volta, ed una seconda volta io lo chiamo, perché non posso lasciarglielo fare. Non posso dirgli d’accordo, perché non prenderò nessun aereo. Non potrò spiegargli niente quando ci vedremo, perché non accadrà. Io non tornerò in Germania. Sicuramente non adesso e probabilmente mai più.
- Anis… - lo chiamo ancora, e lui ha un fremito. – No. – concludo quindi, - Mi sono trasferito qui per restarci. – accarezzo per un attimo la possibilità di parlargli anche di Danny, ma stabilisco che non è il caso prima di affezionarmi troppo all’idea. Ci sarebbe troppo da dire, troppo da spiegare, e tutto considerato forse è meglio che lui non sappia. – Mi dispiace, - continuo, - ma non torno. Non— hai sicuramente qualcun altro su cui contare, in questo momento. D’altronde, - sorrido appena, - hai fatto a meno di me a lungo. Puoi ricominciare.
- Fler… - comincia lui, con tono polemico, ma si sgonfia quasi subito. Forse è qualcosa nel mio tono di voce, ad abbatterlo. Forse, semplicemente, si rende conto di non poter rispuntare nella mia vita dopo due mesi di silenzio ed aspettarsi che io sia pronto a corrergli dietro come avessi ancora quattordici anni. – Vaffanculo. – conclude quindi. Non sono sicuro se l’insulto sia rivolto a me o alla situazione generale. Per la verità ci rimango un po’ male, e guardo il telefono con aria torva quando lo allontano dall’orecchio.
Il display si oscura dopo qualche secondo, e spegnere il cellulare per me diventa una conseguenza ovvia. Lo spengo, lo apro, ne tiro fuori la scheda, lo richiudo e poi lo conservo nel primo cassetto, sotto i calzini. Non so esattamente perché lo sto facendo. O forse sì ma non voglio dirmelo perché mi sentirei malissimo.
Ritorno in salotto pensando che domattina dovrò chiamare mia madre per avvertirla che ho bloccato la scheda col vecchio numero, perciò si affretti a imparare il nuovo e non faccia troppe storie. Danny è ancora accucciato sul divano, sonnecchiante esattamente com’era quando l’ho lasciato. Si arrotola immediatamente al mio fianco appena mi sente sedermi accanto a lui.
- Chi era? – mormora, la voce impastata di sonno e gli occhi chiusi. Lo stringo a me, mentre sul televisore scorrono i titoli di coda del film che stavamo fingendo di guardare.
- Hanno sbagliato. – rispondo sovrappensiero. So che, se fosse solo un po’ più lucido, mi chiederebbe com’è possibile restare al telefono per più di dieci minuti con qualcuno che ha sbagliato numero. Fortunatamente, lui già dorme. Il dvd s’interrompe e si oscura anche lo schermo della tv. La stanza piomba nel silenzio. Daniel respira quieto al mio fianco, io sto bene ma non ho il coraggio di muovermi.
Mi sa che stanotte dormiamo sul divano.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, David/OMC.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lime, OC.
- "Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è."
Note: Bushido era così impaziente di parlare (di nuovo) che stavolta non ce l'abbiamo fatta a mantenerci entro dei limiti umani XD Quindi, sì, altra shottona lunghissima, in cui probabilmente accade ciò che tutti voi stavate aspettando. O forse magari no. Chi può dirlo, se prima non leggete? :D
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
WILL YOU RELEASE ME WITH A KISS?

Ricordo di aver già vissuto una situazione simile, anche se a parti invertite. Stiamo parlando di molti anni fa, di un periodo in cui io e Bill stavamo insieme da forse un annetto e non c’erano nubi sul nostro orizzonte. O forse c’erano già e io mi rifiutavo di prenderle in considerazione. Sì, sicuramente era così. E tra l’altro è terribile ripensare già a quel periodo come “molti anni fa”. Faccio una gran fatica a star dietro allo scorrere del tempo, da quando sono morto. Probabilmente perché per i morti il tempo non ha un valore granché fondamentale, ed io, chiuso nella mia bara di sole e mare a Miami, non lo sentivo scorrermi addosso. Vivevo in un presente immutabile in cui ogni giorno si susseguiva al precedente per inerzia, senza cambiamenti di alcun tipo se non in dettagli insignificanti che dimenticavo subito dopo aver notato, sempre che riuscissi a notarli.
Comunque, erano molti anni fa, ed io andavo spesso a trovare Bill nell’appartamento che condivideva con suo fratello. Fu durante una di quelle occasioni che Bill si decise una volta per tutte a comprare un appartamento tutto per sé, anche se alla fine non ci ha trascorso tanto tempo, finché sono stato in vita. In ogni caso, allora era molto facile osservare me e Tom mentre ci scrutavamo dubbiosi sulla porta, lui dall’interno dell’appartamento, io dal pianerottolo. Era divertente, perché Tom era molto più piccolo ed era molto più facile e più divertente prenderlo in giro. Da allora sono cambiate troppe cose, anche – assurdamente – nel rapporto fra me e lui, e non è più così semplice fronteggiare i suoi occhi limpidi e sinceri. Per qualche strano motivo, è ancora meno semplice adesso che sul pianerottolo c’è lui, e io invece sono al sicuro dentro casa mia.
- Ho portato il cambio per domani. – dice Tom, dubbioso, e mentre lo dice io so che si sta ripetendo per la cinquecentesima volta da quando questa routine è cominciata che tutto ciò non ha senso. E io so che ha ragione, e so anche che non dovrei vivere in maniera tanto comoda la permanenza di Bill in questa casa, che si protrae ormai da un paio di settimane, soprattutto perché peraltro si basa su regole ridicole e assurde, come ad esempio il fatto che Karima non debba lavargli la biancheria perché “tanto è una cosa provvisoria”, e quindi Bill abbia bisogno del cambio portatogli da suo fratello ogni giorno. Tuttavia, è una routine alla quale ho fatto in fretta ad abituarmi. Perché sono un uomo molto più debole di quanto non abbia mai pensato.
- Grazie. – rispondo annuendo e recuperando il sacchetto di plastica dalle sue mani. – Vuoi entrare? – chiedo risollevando lo sguardo sul vuoto, perché mentre io controllavo che dentro il sacchetto ci fosse tutto ciò di cui Bill aveva bisogno Tom, sottile com’è, è scivolato attraverso la fessura della porta e s’è già introdotto in casa mia senza che io avessi bisogno di invitarlo. – Tom? – domando chiudendo la porta e inarcando un sopracciglio, - Cosa stai facendo?
Lui si guarda intorno come se non conoscesse questa casa a memoria, e scruta ogni angolo con attenzione, neanche si aspettasse di veder saltare fuori assassini ninja mimetizzati con la carta da parati da dietro ogni vaso.
- Controllo che tu tenga mio fratello in un ambiente consono alla sua persona. – risponde lui, gettandosi dietro le spalle le treccine nere.
- E ti sembra consono, quest’ambiente? – chiedo, posando il sacchetto su un divano e incrociando le braccia sul petto. Tom si lascia andare ad un ghigno che ho imparato a vedergli addosso solo di recente, e del quale inizialmente non conoscevo il significato. Figurarsi, sono andato fino da Jost in clinica, disturbandolo mentre, come mi ha detto, “si faceva visitare dal dottor Schüster” (qualcosa che penso non mi perdonerà mai. Più ancora dell’essere la causa del suo sventramento, lui mi odierà per sempre perché ho interrotto la sua sessione pomeridiana di petting selvaggio col suo medico curante. E questo è l’uomo che ci gestisce. E ho detto tutto), e gli ho chiesto che cosa diavolo stesse ad indicare questo sorriso un po’ sghembo ed esageratamente indisponente, e lui ha sorriso trionfante ed ha detto “è tornato?”, e poi mi ha spiegato che si tratta del sorriso che affiora spontaneamente sulle labbra di Tom quando sta pensando che in ogni caso, nella lotta per il cuore del proprio fratello, fra tutti i partecipanti ha vinto ancora una volta lui. E Jost ha riso, spiegandomelo, perché è la prima volta che io ho a che fare coi gemelli Kaulitz come gemelli, e non come fratelli in rotta perché uno dei due ha deciso di sposarsi contro il parere dell’altro. Per dire.
Questa cosa è tragicamente vera, e devo dire che se c’è una cosa che mi dà veramente sui nervi, al momento, del tutto irrazionalmente, è la consapevolezza che non esista essere umano che abbia influenza sul pensiero di Bill più di suo fratello, ora come ora. Naturalmente, Bill fa sempre di testa sua, come ha fatto per ogni minuto della propria esistenza da quando è nato, ma le parole di suo fratello molto spesso bastano a cambiargli l’umore o a condizionarlo a sufficienza da fargli cambiare idea su certe cose. Per dire, io so che se Tom avesse approvato incondizionatamente la permanenza di Bill in questa casa, Bill non avrebbe avuto alcun problema a stabilirvisi in maniera un po’ più onesta, magari continuando a dormire nella stanza degli ospiti, ovviamente, ma facendosi lavare la roba sporca da Karima, quantomeno. E invece no, Tom non gradisce, quindi Bill resta qui lo stesso perché è quello che vuole, o si rende conto che è la cosa migliore da fare, ma lo fa cercando di dargli l’impressione di essere sempre sul punto di andarsene.
Probabilmente è così solo perché si sono persi per tanto di quel tempo che, ora che si sono ritrovati, Bill si farà strappare il cuore dal petto prima di rassegnarsi a perderlo di nuovo, e quindi magari è una cosa provvisoria. Peraltro, so che non dovrei essere geloso di tutto questo, in nessun caso e in nessun senso, ma lo sono. Non posso dirlo a Bill, né a nessun altro, ma lo sono.
- Mio fratello? – chiede a un tratto lui, e sono sicuro che, per tutto il tempo, mentre io mi perdevo in questi pensieri molesti, è rimasto a guardarmi con quel ghigno insopportabile stampato sulla faccia. Ne sono sicuro anche perché poteva benissimo chiedermi di Bill, e invece mi ha chiesto di suo fratello, lo stronzetto indisponente. Cerco di ricordarmi che non posso prendere a sberle il suo bel visino da copertina di Bravo, e cerco di ribattere con un sorriso ugualmente odioso, tirando su solo un angolo della bocca.
- E se io non volessi lasciartelo vedere? – chiedo sfidandolo, ed è a quel punto, naturalmente, che Bill appare dietro le spalle di suo fratello, uscendo dal corridoio con un sorriso beato sulle labbra ed entrambe le mani sui fianchi.
- Da quando sono segregato? – chiede inarcando un sopracciglio. Karima sceglie quel momento per urlarmi che Skyline s’è introdotto in camera mia e ha sventrato a morsi il mio cuscino preferito. Ho capito di non essere stato un uomo buono, nella mia vita precedente, ma penso di aver già pagato per tutti i miei peccati. E invece no, sono lo zimbello del karma.
- Billi. – dice Tom, voltandosi a guardarlo. Nel movimento, il suo sorriso si addolcisce immediatamente, petali di rosa avvolgono la sua persona e una musica melensa si diffonde nell’ambiente.
- Tomi. – risponde lui, intrecciando virginalmente le dita sotto al mento e guardandolo con occhi colmi d’amore e gratitudine. Io mi appoggio con una mano allo schienale del divano e li osservo, trattenendo a stento i conati di vomito. Hanno dei momenti in cui diventano di un romanticismo esagerato, roba che uno poi non può neanche chiedersi perché le fangirl si facciano certe idee e le mettano pure su carta, perché la risposta è lì, davanti ai suoi occhi, palese come il sole a mezzogiorno. – Prego, accomodati. – dice quindi. Le loro mani si stringono e restano strette mentre si siedono entrambi sul divano, proprio sotto i miei occhi, e vorrei alzare un dito e dire che questa è ancora casa mia, ma Bill si volta verso il corridoio e strilla a Karima di portare del tè, ed io sento a pelle la consapevolezza che le mie convinzioni non sono altro che menzogne: questa casa non è più mia da quando Bill ne ha preso possesso. Devo rivedere le regole di questo gioco, perché così come sono non mi piacciono.
- Come stai? – chiede Tom, i pollici che accarezzano in gesti circolari il dorso delle mani di Bill. Sta bene, Tom, sta bene. Viene servito, riverito e protetto ventiquattro ore su ventiquattro, come vuoi che stia?
- Così così. – risponde naturalmente lui, con un gran sospiro, - Sono molto afflitto, Tomi.
- Bushido non ti tratta bene? – chiede subito lui, premuroso.
- Bushido è qui e vi osserva. Ma soprattutto vi ascolta. – mi intrometto io, ma vengo ignorato, cosa che mi fa dubitare di ciò che ho detto. Forse Bushido non è davvero qui, forse sono ancora morto e sono un fantasma, e sto raccontando questa storia sotto forma di spirito incorporeo che può vedere e sentire tutto ma non può essere visto né sentito da nessuno.
Mi fermo un attimo. Mi osservo nell’enorme specchio parietale di fronte a me. Che sciocchezze vado cianciando?
- No, Anis mi tratta bene. – risponde Bill, abbassando teatralmente lo sguardo. Io lascio perdere le rimostranze, vedo Karima apparire col tè e ne sono felice, fino a quando non noto che ci sono solo due tazze sul vassoio. Sono annichilito da quanto sta accadendo. La mia casa si ribella contro di me, il mio cane mangia il mio giaciglio, la mia cuoca mi affama, la mia donna mi ignora e il di lei fratello mi massacra dieci a zero in casa mia. Miami ritorna improvvisamente un’ipotesi plausibile. – Sono angosciato da questa storia. David è ancora in ospedale, sai?
- Sì, sono stato a trovarlo ieri. – ride Tom, - Non preoccuparti troppo per lui, si sta dando molto da fare per tornare in forma, se capisci cosa intendo. – È evidente che perfino Jost, un uomo che è stato sventrato ed è quasi morto due settimane fa, si diverte più di quanto non mi diverta io. Questa cosa è estremamente ingiusta. – A parte questo, Bill, credo che non sia più il caso, per te, di restare qui. – dice quindi, risoluto, allungandosi a recuperare la propria tazza di tè. Io aggrotto le sopracciglia. Non dico una parola ma sento il bisogno quasi fisico di buttarlo fuori di casa. Bill, però, mi lancia un’occhiata repentina e profonda, di quelle con le quali a volte sembra studiarmi. Prende un paio di zollette di zucchero e le immerge nel tè bollente, lo mescola meticolosamente e poi prende la tazza con tutto il piattino, e me la passa con un mezzo sorriso. Mi basta questo per calmarmi. Mi basta davvero, solo sapere che ogni tanto mi guarda ed è consapevole del fatto che io sono qui, che c’è anche lui, che siamo qui insieme, adesso. Mi basta così tanto che a volte è quasi troppo.
- Non è ancora sicuro. – dice Bill, sorridendo teneramente, tornando a guardare suo fratello. – Preferirei restare qui ancora un po’, per ogni evenienza. Solo qualche giorno ancora. Almeno finché David non esce dalla clinica.
Tom rotea gli occhi, alzandosi in piedi.
- Ti rendi conto di quanto è assurdo? – dice quindi, guardandolo dall’alto in basso. Bill non risponde, perché sa che suo fratello ha ragione. Ciò che Tom sta dicendo, implicitamente, è che è ormai chiaro al mondo intero che Bill non corre alcun pericolo, ma non ha la minima intenzione di andarsene. Non so se voglia restare semplicemente perché vuole farlo o perché ha l’impressione che se mollerà anche solo di qualche centimetro, se retrocederà di un passo soltanto dal ruolo che ha silenziosamente accettato di ricoprire ancora una volta restando al mio fianco in questa situazione complicata, allora gli scivolerà tutto via dalle mani. E sospetto che la mia principessa abbia qualche problema molto serio con tutto ciò che le scivola via dalle mani senza il suo esplicito consenso.
- Tomi, voglio solo— - prova a ribattere, ma suo fratello non gliene lascia il tempo. Disperde le sue parole nell’aria agitando una mano con fare disinteressato e dirigendosi a grandi passi verso la porta. Bill si alza in piedi e gli va dietro, le sopracciglia incurvate verso il basso e un accenno di broncio già nascente sulle labbra.
Io sorseggio il mio tè con noncuranza, e lo faccio solo perché ancora non so che fra qualche secondo mi toccherà sputacchiarlo.
- Almeno combinaste qualcosa. – borbotta infatti Tom, guardandoci entrambi malissimo. Bill impallidisce e diventa bianco come un lenzuolo. Io, appunto, sputacchio il tè. – E invece niente, siete— siete quasi frustranti, nella vostra assurdità. Lo sareste, se me ne fregasse qualcosa di voi due come esseri coinvolti in una relazione interpersonale, dico. – sospira ancora, scuotendo il capo. – Va be’, come non detto. – dice quindi. Come non detto il cazzo, Tom. – Bill, - lo chiama, allungandosi a baciarlo su una guancia, - fatti sentire quando hai bisogno. A presto. – lo saluta, e poi esce, chiudendosi da sé la porta alle spalle. Ormai non ho più nemmeno diritto a buttare la gente fuori da casa mia. Si butta fuori da sola.
Quando restiamo soli, l’aria è così pesante che entrambi facciamo fatica a respirare. Lo facciamo in silenzio, inspirando boccate lunghe e lente. La sensazione di tensione che ci avvolge è così fisica che ho l’impressione di percepirla stringermi realmente all’altezza della gola. Bill si porta una mano al collo e lo massaggia un po’, come volesse liberarlo da qualcosa di troppo stretto che vi sta annodato attorno, e il mio cuore manca un battito.
Sento Karima entrare e portare via il vassoio con le tazze in perfetto silenzio, e poi uscire, lasciandoci nuovamente soli. Bill deve avere racimolato abbastanza coraggio, nel mentre, perché finalmente si volta a guardarmi. Ha le labbra piegate in un sorriso mesto e imbarazzato.
- Scusalo. – dice a bassa voce, stringendosi nelle spalle, - Non la sta prendendo bene.
- Già. – ridacchio nervosamente io, - L’ho notato. – e poi deglutisco a fatica, - Bill, lo sai che puoi andartene quando vuoi, vero?
Lui mi solleva addosso un paio d’occhi sgranati e un po’ smarriti, e per molti secondi non risponde perché non sa che cosa dirmi. Schiude le labbra, le muove un po’, cerca di modellare parole che abbiano senso, ma non ne trova. Perciò finisce per abbassare nuovamente lo sguardo e sorridere appena, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Penso che andrò di là ad ascoltare un po’ di musica. – conclude, passandomi accanto e scomparendo in corridoio. Io resto immobile fino a quando Karima non appare alle mie spalle chiedendomi se può procedere a rimpiazzare il cuscino in camera da letto o voglio prima dargli un’occhiata. A che dovrebbe servire dare un’occhiata ad un cuscino fatto a pezzi adesso, Karima?, vorrei chiederle. Qui nessuno mi interpella per le cose importanti, ma tutti hanno sempre pronta una qualche domanda sciocca da rifilarmi quando mi sento troppo ignorato, per farmi credere che in realtà non sia così.
Per un attimo, accarezzo l’idea di andare in camera di Bill, spegnere la musica e provare a fargli sentire quanto ci sono per davvero. Ma poi lascio perdere, e seguo Karima in camera da letto.
*
Io e Bill ci alziamo di buon mattino. Lo facciamo sempre e lo abbiamo sempre fatto, quando stavamo insieme. È una cosa buffa, perché sia io che lui, quando siamo da soli, siamo incredibilmente pigri. Mi capitava di chiamarlo e trovarlo ancora assonnato alle undici del mattino, quando non si fermava a dormire da me e per un motivo o per l’altro era costretto a tornarsene al proprio appartamento. E nonostante questo, quando poi la sera successiva o due sere dopo tornava a dormire qui alla villa, al mattino avevamo entrambi già gli occhi spalancati per le otto massimo, senza che dovesse tirarci su di forza la sveglia, o Karima. Non so perché succedesse, forse il pensiero di essere insieme e dormire quando avremmo potuto fare altro – una qualsiasi altra cosa – era abbastanza per costringerci a spalancare gli occhi, forse semplicemente era un’abitudine che avevamo preso per chissà che motivo, comunque accadeva sempre.
Accade anche oggi, com’è accaduto per ogni giorno durante le ultime settimane. Mi sveglio, mi metto in piedi, indosso la vestaglia ed esco in corridoio. Mi dirigo istantaneamente verso il bagno, ma quando sento la porta della stanza in cui dorme Bill aprirsi tiro dritto e mi infilo in cucina, così che possa andarci lui per primo. Karima mi attende con una tazzina di caffè fumante in mano, ed io l’accetto volentieri, ringraziandola con un cenno del capo.
- Quali sono i suoi programmi per oggi, signor Ferchichi? – chiede lei con aria austera. Come al solito, non parla come se riconoscesse Bill come parte integrante di questa casa. Si è inserita alla perfezione fra le regole sbilenche che Bill ha stabilito per questa convivenza, perciò nella sua visione delle cose Bill è solo un ospite, un ospite che con i miei normali programmi quotidiani non ha niente a che fare, come fosse un cugino venuto a passare qualche settimana di vacanza a casa mia e che approfitta di trovarsi qui per visitare tutta Berlino. Qualcuno, insomma, i cui programmi non debbano coincidere con i miei come invece i programmi di Bill, in barba a tutte le regole, finiscono spesso per fare.
- Quando saremo pronti, - rispondo, usando volutamente il plurale perché lei capisca che Bill resterà con me, - andremo a trovare David in clinica. Passeremo lì qualche ora, non credo che sia il caso di preparare il pranzo.
Karima annuisce, prendendo nota del fatto senza fare una piega.
- Allora, - dice, - se il signor Ferchichi non ha più bisogno di me, io comincerei a rassettare il piano di sopra.
Io annuisco, e lei prepara la colazione per Bill – una tazza di latte bianco e cereali – prima di uscire dalla cucina ed andare verso lo stanzino per recuperare ciò che le serve.
La principessa arriva pochi minuti dopo, i capelli tutti scompigliati sulla fronte e la testa un po’ ciondolante, ma i suoi occhi sono svegli e attenti, e so che se cominciassi a parlargli all’improvviso di qualcosa di fondamentale riuscirebbe a seguirmi senza la minima difficoltà. Lo lascio in pace, comunque. Sa già che dopo colazione dovrà prepararsi e poi seguirmi da David, non è necessario che io glielo ripeta adesso, perciò mi limito a sorridergli e ad augurargli il buongiorno. Lui ricambia sia il sorriso che il buongiorno, e poi affonda il naso nel suo latte e cereali, concentrandosi solo ed esclusivamente su quello con una devozione quasi commovente.
Io giro sui tacchi e vado in bagno, cercando di fare mente locale sulla situazione. L’ultima volta che siamo stati da David, abbiamo discusso a lungo sulla prima possibilità che avevamo, ossia quella di vuotare il sacco con la polizia. Per molti sarebbe stata non solo la cosa più ovvia, ma anche l’unica da fare davvero. Correre alla prima stazione di polizia – ma non due settimane dopo, il mattino dopo – e denunciare l’accaduto. Per molte ragioni, per noi non poteva essere così.
David mi ha chiesto subito se al magazzino fossero rimaste tracce di quanto accaduto. Gli ho risposto di no, naturalmente. Non sapevamo se se la sarebbe cavata e non potevamo correre il rischio di restare con un cadavere sfregiato e zero testimoni su cui fare affidamento. Lui ha annuito, comprendendo perfettamente. La cosa mi ha un po’ turbato, ma immagino che quando riesci a manipolare l’universo per fargli credere che un uomo sia morto quando invece così non è, più o meno sei pronto a manipolarlo ancora per fargli credere qualsiasi altra cosa, perciò in quel momento Jost stava semplicemente prendendo informazioni in vista del proprio prossimo compito. Qualcosa che ho sempre ammirato in lui, peraltro.
In ogni caso, tutto ciò che sappiamo è che Nyze ha voluto mandarci un messaggio. Gli sono già andate storte le cose quando David è sopravvissuto – cosa che credo non avesse previsto, e d’altronde quell’enorme vendetta inciso in profondità nel ventre di David sarebbe bastato a indirizzarmi verso la risposta esatta anche se lui, risvegliandosi, non me l’avesse detta a viva voce – e di questo dobbiamo considerarci fortunati, ma è tutto ciò che abbiamo. Non sappiamo chi sia la gente che ha mandato, dove l’abbia pescata, ed andare a cercare informazioni a Tempelhof adesso sarebbe una condanna a morte. David non saprebbe riconoscere chi l’ha attaccato neanche sotto tortura, naturalmente, e quando ho preso contatto con qualche amico dei tempi andati per chiedere discretamente in giro se Nyze avesse un alibi per quella serata è spuntato fuori che sì, ce l’aveva, e che dal momento che stava cantando ad un concerto di gruppo con l’Aggro Berlin ci sarebbero stati non solo fior di testimoni, ma anche biglietti pagati pronti a dimostrare che lui era davvero lì quella sera.
“Con la credibilità che ho,” ha aggiunto David, lo sguardo basso e venato di rabbia, “non posso pretendere che qualcuno si basi sulla mia testimonianza di quella notte. Tutti sanno in che rapporti siamo io e te, se facessi il nome di Nyze potrebbero pensare ad una montatura con la complicità di una clinica privata pagata fior di quattrini, solo per mettere in cattiva luce un rivale.”
Ho concordato, immaginando che se era ormai chiaro per tutti che David fosse stato capace di farmi sparire per quasi un anno agli occhi del mondo, chiunque l’avrebbe creduto perfettamente in grado anche di farsi apparire degli sfregi sospetti sullo stomaco, all’occorrenza. Non che la cosa avesse un vero senso, ma si sa come funzionano gli scandali, e io lo so meglio di tutti perché quando ero ancora un rapper all’apice del proprio successo gli scandali li cavalcavo tutti come le onde su una tavola da surf. Queste situazioni ci mettono pochissimo a diventare televisive, soprattutto nel nostro mondo, ed una volta che lo diventano è la fine, perché alle persone piacciono le spiegazioni semplici, vogliono un colpevole che sia facile da individuare, possibilmente il più debole, quello con le spalle più fragili e tanti, tanti motivi per cui essere disprezzato, ed è meglio tenerci il più lontano possibile da una prospettiva del genere, perché ho idea che la situazione ci sfuggirebbe di mano molto facilmente. E non è qualcosa che possiamo permetterci, ora come ora.
Il discorso s’è chiuso con una serie di puntini di sospensione, perché il dottor Schüster è entrato in camera ed ha avvertito giovialmente David di prepararsi per il suo trattamento quotidiano a base di creme ed unguenti lenitivi, e a quel punto David ci ha buttato fuori col desiderio di non vedere più i nostri brutti musi per almeno un paio di giorni, motivo per cui io e Bill, ridendo divertiti, siamo usciti ed abbiamo stabilito di lasciargli qualche giorno per riposare.
Bill è estremamente preoccupato per David, anche ora che è fuori pericolo. Fosse per lui, gli risparmierebbe anche queste visite estemporanee che ogni tanto gli facciamo per discutere la situazione, ma sa bene non solo che la situazione va discussa, ma anche che David, nonostante quanto si lagni, desidera essere informato su ogni svolta, ogni particolare ed ogni cosa che decidiamo di fare. Posso capirlo, peraltro: se io e Bill siamo tanto arrabbiati per ciò che gli è successo, posso solo immaginare quanto debba esserlo lui stesso.
Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è. E siccome anche lui, a qualche livello inconscio dentro di sé, lo capisce, non riesce a trovare il modo corretto per porgere le proprie scuse, e lo fa nei modi più disparati. Offrendomi il proprio tè per non farmi sentire invisibile, ad esempio. O truccandosi come dovesse diventare la prova vivente dell’esistenza dell’orgoglio gay quando va a trovare David. Non ne sono sicuro, ma credo che ci sia fra loro un qualche discorso sospeso speciale su questa questione dell’omosessualità. La trovo una cosa divertentissima.
Bill, come preventivato, è pronto solo tre quarti d’ora abbondanti dopo. È splendido, avvolto in una felpa sottilissima con un cappuccio enorme che gli cade sulla testa e attorno al viso come un velo. Gli occhiali da sole a mascherina coprono gli occhi il cui trucco sgargiante ed eccessivo sono appena riuscito ad intravedere, ed è, come al solito, talmente pieno di gioielli addosso che tintinna ad ogni passo. Conto almeno tre collane di diversa lunghezza sovrapposte e qualcosa come sei bracciali per polso. Dovrei trovarlo ridicolo, e in ogni caso dovrebbe essere quanto di più lontano possa esistere dalla mia idea di bellezza. Lo è, in realtà. Eppure lo guardo e mi manca il fiato, e quando lo vedo lanciarmi un’occhiata da dietro le lenti scure mi precipito ad aprirgli la portiera della macchina.
Lui inarca un sopracciglio che fa capolino da sopra la montatura nera, e le sue labbra si piegano appena in un mezzo sorriso divertito.
- Non devi farlo, sai? – mi dice, sedendosi comunque al proprio posto. Io non rispondo subito. Aspetto di aver fatto nuovamente il giro della macchina ed essermi seduto al suo fianco. Poso le mani sul volante e guardo dritto davanti a me mentre il cancello automatico in fondo al garage si apre.
- Tu non devi davvero restare a casa mia. – ribatto. Lo sento tendersi tutto accanto a me, ma dura solo per un attimo. Poi si scioglie in un sorriso intenerito, me lo sento addosso, e so che sa dove voglio andare a parare.
- Già. – risponde quindi. Si sistema sul sedile e, nello spostarsi, si avvicina impercettibilmente. Ogni volta che cambio marcia, le nocche della mia mano sfiorano appena il suo ginocchio. Non diciamo altro per tutto il tragitto fino alla clinica, ma d’altronde non ne sentiamo il bisogno, per cui va bene così.
*
Quando arriviamo, David e il dottor Schüster stanno pomiciando allegramente, ma non in modo normale, nel modo in cui ti aspetti che un medico e un paziente possano pomiciare – se è lecito aspettarsi che un medico e un paziente pomicino – col paziente steso sulla propria branda e il medico chinato premurosamente sulle sue labbra, no: David si è alzato, portando con sé la sua flebo con tutta l’asta come fosse un bastone da passeggio, ed è arrivato fino al davanzale della finestra in fondo alla stanza, sul quale s’è appoggiato con una posa molto tragica da diva del cinema muto – ogni tanto mi basta guardare lui per capire che Bill non avrebbe potuto essere diverso da com’è nemmeno in un universo parallelo – e addossato al quale ha probabilmente aspettato che il dottor Schüster lo raggiungesse guardandolo con aria severa ma al contempo indulgente, rimproverandolo perché tornasse a letto, salvo poi avventarsi su di lui dimenticando che quest’uomo meno di tre settimane fa è stato sventrato ed avrebbe bisogno di molte cose, ma decisamente non del proprio medico che lo ribalta e lo denuda di fronte alla finestra per scoparselo in favore di luce naturale, che gli fa risaltare l’incarnato.
Bill, al mio fianco, stringe convulsamente le mani attorno all’enorme mazzo di girasoli e gerbere che ha voluto fermarsi a comprare mentre eravamo per strada, e lancia un urletto fra il pudico e il sorpreso, sollevando il mazzo stesso fino a coprirsi metà del viso, lasciando saggiamente scoperti gli occhi. Sollevo uno sguardo pietoso al cielo perché la teatralità è palesemente un vizio di famiglia, e lo faccio pensando che in realtà è molto teatrale in sé anche questo sguardo supplice che sto lanciando al paradiso, se c’è, perché mi venga in aiuto.
- Oh. – dice il dottor Schüster, allontanandosi da David come uno che non ha per niente voglia di allontanarsi dalla cosa con la quale stava intrattenendosi così piacevolmente. Il suo camice è aperto ed abbassato sulle spalle, e la maglietta verde che indossa al di sotto è sollevata fino al petto, e lascia scoperti sia la pancia piattissima che i pettorali prominenti, dai quali sporgono con aria quasi di sfida i capezzoli piccoli e appuntiti. Si risistema sommariamente, mentre David si stringe nel proprio pigiama e ci lancia un’occhiata estremamente disapprovante.
- Salve. – dico io, con un sorriso incoraggiante, agitando una mano nella loro direzione. Bill capisce che coprire tutta la metà inferiore del viso lasciando scoperta quella superiore non è un atteggiamento abbastanza pudico, e solleva ulteriormente le mani. I fiori frusciano nel movimento, e lui si stringe nelle spalle così tanto che diventa minuscolo, e al mio fianco com’è quasi scompare. – Non volevamo disturbare.
- Avreste potuto restarvene a casa, dunque, così non avreste corso il rischio di farlo. – sbotta Jost, roteando gli occhi e tornando velocemente a letto, trascinandosi dietro la flebo. Mi chiedo velocemente per quale motivo sto continuando a pagare questa stanza quando è evidente che quest’uomo resta qui non perché sta male ma perché vuole dei figli dal suo medico. Cosa che, per inciso, non riuscirebbe ad ottenere in modo naturale neppure in un milione di anni.
- Non avete disturbato. – sorride angelico Schüster, i lunghi capelli biondi che gli incorniciano il viso, - Avevo giusto finito di somministrare al signor Jost la sua terapia giornaliera.
Bill abbassa il mazzo di fiori, ma in compenso solleva un sopracciglio.
- Per via orale? – domanda curiosamente. Il dottor Schüster sorride con molta convinzione, mentre io cerco di non soffocare dalle risate e David si stampa sul viso un’espressione oltraggiata che, considerate le condizioni in cui l’abbiamo trovato, penso sia del tutto fuori luogo.
Alla fine, Schüster abbandona la stanza riuscendo in qualche modo a non perdere nemmeno un pizzico della sicurezza di sé che io e Bill, trovandolo a fare cose decisamente inopportune col proprio paziente, avremmo dovuto abbattere a sprangate con la nostra sola presenza. Così non è, brillava come il sole quando siamo entrati e continua a brillare quando esce. Posso quasi sentire l’eco di stuoli di infermiere che svengono aprendosi come il mar Rosso al suo passaggio. Quelle donne non sanno che in realtà è gay e il suo cuore selvaggio, sotto la pelle abbronzata, batte solo per David Jost. E forse è meglio che non lo sappiano.
Quando riporto lo sguardo su David, lui è seduto a gambe incrociate sul proprio letto e sul viso non porta più i segni della furia che l’ha preso poco fa, quando l’abbiamo interrotto. Sta abbracciando Bill e si sta lasciando sommergere dal solito flusso infinito di parole in libertà col quale la principessa usa stordirti – non solo lui, proprio in generale – quando non vuole essere rimproverata.
Io mi avvicino, trascinandomi dietro una sedia abbandonata in un angolo. La sedia già posizionata accanto al letto di David sarà quella sulla quale si accomoderà Bill quando avrà finito di sistemare il mazzo di fiori nel vaso che David ha sul comodino. Lo osservo togliere i fiori vecchi nonostante non siano nemmeno un po’ avvizziti e cambiare l’acqua facendo la spola fra il frigorifero e il bagno privato sulla parete opposta, e il suo viso in questo momento è il ritratto della serenità. Sa che non sta facendo qualcosa di particolarmente utile, ma almeno sta facendo qualcosa per David, e questo gli è sufficiente perché sente che a David fa piacere.
- Come stai? – chiedo a David quando i miei occhi riescono a staccarsi dalla figura di Bill.
- Benone! – risponde impulsivamente lui, e poi lo vedo accartocciarsi un po’ su se stesso, tossicchiando. – Cioè, abbastanza bene. Intendo, miglioro. Naturalmente miglioro. Ma non sono ancora—
- Non vuoi uscire da questo posto neanche se ti puntano una pistola alla tempia, sbaglio? – rido io, e David ride con me, grattandosi distrattamente la nuca.
- Sto tranquillo, qui. – risponde quindi, stringendosi nelle spalle, - Ho bisogno di stare un po’ tranquillo. E poi ho la certezza che, almeno finché starò chiuso qua dentro, tu non potrai fare niente di stupido, visto che mi hai dato la tua parola. Quindi è un accordo vantaggioso per tutti.
- Per la verità… - comincio io, cogliendo la palla al balzo, - è proprio per questo che siamo venuti a interrompere il tuo rituale di accoppiamento, oggi. Dobbiamo parlare.
Lui aggrotta le sopracciglia, sedendosi immediatamente in maniera più composta.
- È successo qualcosa? – chiede allarmato, mentre Bill si siede al proprio posto e giunge le mani in grembo.
- No. – scuoto il capo io, - È proprio questo il punto. Ormai sono passate quasi tre settimane, e non ci siamo mossi in nessuna direzione. C’è qualche possibilità che la gente che ti ha aggredito sia stata reclutata e Tempelhof, se non altro perché lì ce n’è di gente disposta a tutto per incasinarmi l’esistenza, ma se non ci muoviamo adesso rischiamo di perdere anche quel po’ di tracce che devono essere rimaste ancora in giro. Ora, non so bene chi potrei mandare a farsi un giro nel ghetto, quando si trattò della questione della mia morte mi hai detto che il giro se lo sono fatti Fler e Chakuza, ma con tutta la visibilità che hanno avuto recentemente non mi sembra il caso di mandarli in un posto dove rischierebbero grosso. – sospiro profondamente, non mancando di notare il brivido che ha percorso tutto il corpo sottile di Bill mentre parlavo della visibilità che Fler e Chakuza hanno acquistato con gli ultimi avvenimenti. – Qualche suggerimento? – concludo infine, tornando ad alzare lo sguardo su David.
Lui riflette per qualche secondo, incrociando le braccia sul petto. Il suo sguardo si fa cupo, visibilmente preoccupato, ed improvvisamente l’atmosfera della stanza, fino a qualche secondo fa gioviale e serena, si appesantisce tutta insieme, al punto che me la sento gravare addosso, tutta sulle mie spalle.
- Io penso—
- Se posso… - lo interrompe Bill, la voce bassa ma decisa. Entrambi ci voltiamo a guardarlo con più stupore di quanto il momento non lo richiederebbe. Io, soprattutto, dovrei essere abituato a vederlo intervenire in una discussione come questa, considerato il fatto che lo faceva spesso, quando stavamo insieme. A volte anche del tutto a sproposito. Ma da quel periodo sembrano passati decine d’anni, secoli addirittura, e quindi la sua voce suona quasi stonata, alle mie orecchie, come provenisse da un tempo diverso, arrivando al presente sotto forma di un’eco lontana e un po’ irreale. – Se ho capito bene, vorresti provare a capire qualcosa di quanto è accaduto, magari raccogliendo informazioni sparse per il ghetto, e poi… poi? Andare da Nyze e chiedergli conto e ragione di ciò che hai scoperto?
Scrollo appena le spalle, annuendo brevemente.
- Almeno così lo metteremmo alle strette. Sarebbe più facile cavargli qualcosa di bocca, se riuscissimo a trovare le informazioni giuste.
Bill riflette per qualche secondo. Non noto il sorriso divertito sulle labbra di David. Lo vedo, ma non ne prendo atto, non capisco che quest’uomo sa già cosa uscirà dalla bocca di Bill adesso e sta già ridendo in anticipo. Avendo tutte le ragioni per farlo, peraltro.
- Mi sembra una stronzata. – dice quindi Bill, e per poco non cado giù dalla sedia.
- Cosa…? – boccheggio, mentre David lascia andare la risata che ha trattenuto fino ad adesso. Bill si concede una smorfia, incrociando le braccia sul petto.
- Rifletti un attimo… - mi invita, pensieroso, - Se anche qualche informazione dovesse venire fuori, chi ti dice che sarebbe sufficiente a inchiodarlo? Ma poi… - sospira, - …due anni fa la situazione era diversa. Quello che abbiamo fatto Peter, Patrick ed io… quello che è successo quella notte non possiamo ripeterlo adesso. – abbassa un po’ lo sguardo, - Non puoi ripeterlo tu, è pericoloso, e… Dio, Anis, non sei stufo marcio di tutte queste pose da ghetto? – solleva nuovamente gli occhi, cercando i miei e trovandoli all’istante, - David è vivo per miracolo. Non posso dirti che… se fosse morto, ecco, forse anche io sarei con te, adesso, e vorrei soltanto vedere Nyze aperto in due come un vitello in macelleria, ma… - sospira ancora, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle, - Se provassimo a lasciar perdere? Possiamo almeno provarci? A non sollevare un polverone ancora più grosso?
Schiudo le labbra, giusto perché mi pare il caso di informare la principessa che questa non è una questione che dipende solo da noi, che c’è un’altra parte, in gioco, e che quella parte potrebbe ritorcerci contro il nostro silenzio, attaccandoci di nuovo per indebolirci ancora di più, ma David mi interrompe prima ancora che io possa iniziare, schiarendosi la voce ed aspettando di avere la mia completa attenzione prima di cominciare a parlare.
- Io penso che Bill abbia ragione. – dice quindi, - Magari non funziona, e fra un paio di mesi verrà sventrato qualcun altro al posto mio… o magari tornano indietro e concludono il lavoro con me ricalcando quello che hanno già fatto. – aggiunge, deglutendo a fatica, - Ma magari invece va bene e riusciamo a smorzare la vicenda prima che diventi troppo ingombrante. Sai cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire lasciare in pace il mondo perché il suo tempo scorra come natura comanda, senza imporsi stile deus ex machina sull’universo, e vedere se si può tornare ad uno stato di normalità. – sorride con convinzione non simulata, quando mi appoggia una mano sulla spalla, - Il rischio è grosso, ma lo sarebbe anche mandando qualcuno dei ragazzi a Tempelhof. E le prospettive in questo secondo caso sono quelle di guerra aperta, mentre se funziona come suggerisce Bill… be’, la prospettiva è di pace. Non ti alletta l’idea?
Sospiro, già sconfitto in partenza. Il discorso di David fila, se non si tiene conto delle probabilità che avvenga una delle due cose piuttosto che un’altra. Probabilità che nel mondo del rap arrivi infine la pace e tutti ci si sieda attorno ad una tavola rotonda brindando alla nostra salute ed augurandoci vicendevolmente una vita prospera e serena? Zero. Probabilità che Nyze si senta incoraggiato a farmi trovare una testa di cavallo nel letto stasera appena mi ritiro a casa? Magari un numero piccolo, ma comunque superiore allo zero.
Lascio perdere, comunque, perché alla fine non è solo della mia vita che stiamo parlando qui, ma anche delle loro, e di quella di persone alle quali siamo tutti affezionati, e che nessuno di noi vuol vedere spegnersi sul pavimento sporco di un altro magazzino, che sia ora o fra un mese. Posso decidere di mettere a repentaglio la mia incolumità, se voglio, ma non posso giocare con quella degli altri. È per questo che sono morto due anni fa, perché mettere a rischio Bill non era un’opzione contemplabile. Quella deve essere la mia unica priorità, adesso, con la differenza che purtroppo le cose sono cambiate al punto che non si parla più solo di proteggere Bill, ma anche un sacco di altra gente. Non so se sarò in grado di proteggerli tutti— al diavolo. Certo che lo so. E certo che lo sarò.
Mentre usciamo dalla camera di David, una mezz’ora dopo, lasciandolo sul letto a stiracchiarsi fintamente sonnacchioso per darci ad intendere che si metterà immediatamente a dormire dopo che saremo andati via quando invece attenderà Schüster per due minuti e, quando non lo vedrà arrivare di sua spontanea iniziativa, si attaccherà al telecomando che ha appeso al letto premendo il tasto di chiamata finché il suo eroe non sarà giunto a salvarlo in risposta al suo grido d’aiuto, io penso che posso accettare questa improvvisa svolta nella politica interna del mio regno, ma forse non sono pronto ad accettarne le conseguenze. Prima fra tutte il fatto che, se voglio imporre la pace, non posso comportarmi come se fossi ancora in guerra.
E quindi, giocoforza, la principessa dovrà abbandonare la fortezza reale.
*
Faccio a pugni col pensiero per tutta la settimana successiva. Bill se ne accorge, naturalmente, perché è impossibile non vedere quanto diversamente mi comporto nei suoi confronti. Anche il fatto che cerchi il più possibile di non stare con lui nella stessa stanza, o il fatto che, alla fine, per la gioia di Karima i nostri programmi giornalieri abbiano cominciato a non coincidere più, se non nelle volte in cui siamo andati a trovare David, deve suggerirgli che qualcosa è cambiato, e quel qualcosa è il bisogno di trovarsi in questa casa. Riesco perfettamente ad immaginarmelo al mattino, nel bagno che mi sono premurato di lasciargli usare per primo come sempre, guardarsi nello specchio e chiedersi cosa stia facendo ancora in questa villa, perché non se ne sia tornato nel proprio appartamento, come sarebbe stato forse più giusto. Ieri Tom è venuto a trovarlo per portargli il cambio, e ha insistito ancora per convincerlo dell’opportunità di andare a stare altrove. “Puoi venire anche da me, se vuoi,” gli ha detto, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore e giocando distrattamente col piercing, “Ma stare qui è… davvero poco conveniente, Bill, per un sacco di motivi.” E ha ragione, Tom, ha ragione da vendere.
Tanta ragione che ho visto Bill vacillare, nell’ascoltarlo, e non mi ha stupito. Così come non mi stupisce oggi entrare in camera sua e trovarlo con lo zainetto sul letto, intento a rassettare le proprie cose. Fuori dalla finestra, agosto finisce e si appresta a diventare settembre, e lo fa discretamente. Sembra che niente sia cambiato da quando Bill ha messo piede in questa casa, ma in realtà è passato un mese. Un mese sono un sacco di giorni. Non saprei dire se siano giorni persi.
- Bill? – lo chiamo piano. Lui non deve avermi sentito entrare, perché raddrizza la schiena all’improvviso e fa un passetto indietro mentre si volta a guardarmi, sussultando visibilmente.
- Sei tu. – dice con un piccolo sorriso, tornando a rilassarsi e lanciando un’occhiata imbarazzata al proprio zainetto. Probabilmente avrebbe preferito che non lo vedessi prepararlo. L’avrei preferito anch’io.
- Cosa fai? – gli chiedo, e glielo chiedo anche se lo so benissimo, perché spero che gli manchi il coraggio di rispondermi. Forse, se non sarà in grado di dirmi che va via, resterà. Penso a quanto mi sono lamentato, all’interno della mia testa, ovviamente, delle stupide regole che Bill aveva stabilito per far durare indeterminatamente questa convivenza, ed ora mi sento ridicolo nell’aggrapparmi a quelle stesse ridicole regole, arrivando a dirmi che forse se non sento qualcosa quella cosa non accadrà, pur di concedermi una speranza. Una sola. Di poterlo avere qui un po’ più a lungo. Fossero anche solo un paio di giorni.
Bill schiude le labbra, e vedo la fatica che fa nel provare a parlare. Lo capisco lì, che non vuole farlo davvero. Prima ancora che lui possa dirmi qualcosa a voce, il suo corpo mi sta già dicendo che se ci fosse anche solo un altro motivo per cui restare, resterebbe, perché i motivi che ha utilizzato fino ad oggi hanno perso validità giorno dopo giorno, e lui ha fatto di tutto per rimanere attaccato ai fili sottilissimi che erano diventati, ma ormai deve mollare la presa. E che se voglio che resti, devo dargli un motivo nuovo per farlo. Qualcosa di reale, con una fibra forte. Qualcosa che non si consumerebbe col tempo, che gli darebbe motivo di restare a lungo senza dover accampare pretesti e scuse uno dietro l’altro.
- Io penso… - esala stancamente, distogliendo lo sguardo e fissandolo insistentemente su un punto a caso nella parete dietro di me, - Anis, penso che dovrei—
- Non farlo. – lo interrompo, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lui serra istantaneamente le labbra, tornando a guardarmi. I suoi occhi sono spalancati e colmi di paura ed emozione allo stesso tempo. Ricordo di aver visto una luce simile in questi stessi occhi, tanti, tanti, tanti anni fa. Lui era molto più piccolo, io molto più stupido. Entrambi eravamo molto più felici. Improvvisamente, quei giorni sembrano lontanissimi e incredibilmente vicini insieme. Impalpabili come sogni, ma straordinariamente reali. Non me ne accorgo consciamente, ma semplicemente escono dalla dimensione di incertezza in cui li avevo racchiusi chiedendomi per lungo tempo se fossero stati veri o meno, e ridiventano ricordi. Qualcosa di concreto, qualcosa che è successo davvero. Qualcosa a cui aggrapparmi.
Mi avvicino cautamente, perché il suo corpo trema impercettibilmente e ho paura di vederlo scattare di lato per evitarmi e fuggire attraverso la porta ancora aperta alle mie spalle. Un passo alla volta, sento il suo calore farsi più intenso, i suoi occhi più grandi, il suo profumo più forte, le sue labbra più invitanti. Mi sto lasciando guidare dall’istinto e non sto riflettendo su ciò che sto facendo. Non so se questo mi renda più o meno colpevole circa il baratro nel quale sto per ripiombare entrambi.
Bill, in ogni caso, non si muove. Non si muove mentre mi avvicino e non si muove nemmeno quando mi fermo, ad un paio di centimetri da lui. Basterebbe che mi dondolassi appena in avanti per sfiorare le sue labbra con le mie, ma non voglio che sia un movimento casuale a riunirci adesso. Non c’è mai stato praticamente niente di casuale in ciò che ci ha uniti, è sempre stata una nostra scelta. Impulsiva a volte, ben ponderata in altri casi, ma consapevole.
Sollevo le braccia e prendo il suo viso fra le mani. Accarezzo i suoi zigomi coi pollici mentre lui respira profondamente e si inumidisce appena le labbra. I suoi occhi non si staccano dai miei neanche per un secondo, almeno fino a quando, con un sospiro liberatorio, li chiude. Mi si stringe lo stomaco in una morsa di desiderio ed impazienza, e mi chino su di lui, poggiando le mie labbra sulle sue ed assaporandolo lentamente prima di bussare appena con la punta della lingua, implorandolo nella mia testa perché mi lasci passare. E lui si aggrappa con forza alla maglietta che indosso, ne strattona l’orlo con violenza e con rabbia, e quando accoglie la mia lingua nella sua bocca la cerca immediatamente con la propria, allacciandomi repentinamente al collo per tirarmi il più possibile contro di sé mentre le mie mani scivolano lungo il profilo del suo viso e del suo corpo, stringendosi attorno ai suoi fianchi.
E poi mi confondo, perché non so più dove sono, e per dove non intendo solo il luogo fisico, intendo anche il quando. Il tempo, il punto della mia vita in cui mi trovo adesso.
Le sue labbra che si muovono contro le mie sono affamate e cariche di desiderio bruciante, sono bollenti e dolci e sue, sue in un modo che mi ricorda quello che era un tempo, ma più profondo, sue come se quel pezzo di lui, quel pezzo che era stato mio e che è rimasto sepolto dentro di lui per tutto il tempo da quando me ne sono andato, stesse lentamente riaffiorando. È un Bill più piccolo e ingenuo, stropicciato e malconcio, che è stato male da morire e s’è consumato a furia di piangere, e per smettere di soffrire s’è conservato in un cassetto così da non dover più pensare di esistere e stare male anche solo per quello. E ora fa capolino, coi capelli scompigliati – e sono le mie mani che li scompigliano perdendocisi dentro, anche se ora sono molto più corti di quanto non fossero allora – e le guance arrossate – e sono i miei baci ad arrossarle, a dare loro quel colore acceso e brillante che tanto amavo – e si guarda intorno e mi chiede se può venire fuori, se adesso è sicuro, se non c’è qualche altro motivo per piangere.
E io me lo stringo contro e lo faccio con dolcezza, piano, perché è già abbastanza fragile e non voglio rischiare di spezzarlo. Voglio solo rassicurarlo. Sì che puoi venire fuori. Salta giù da dove ti sei nascosto. Io sono proprio qui sotto. Ti prendo al volo.
- Resta. – sussurro sulle sue labbra, mentre lo sollevo appena e lui stringe le cosce attorno al mio bacino. I suoi occhi sono persi nei miei, il suo respiro è affannoso e so che in questo momento, per lui, in tutto il mondo non esiste altro che sia degno di tutta l’attenzione che sta concentrando su di me.
- Mi viene da piangere. – mi confessa in un rantolo soffocato, - Dio, Anis. Mi viene da piangere.
Indietreggio appena, tenendolo stretto per la vita mentre chiudo la porta con un colpo secco e poi lo conduco verso il letto. Lo stendo sulle coperte e, appena si ritrova su una superficie morbida, lui si mette seduto e poi in ginocchio, sfila la maglietta, sbottona i jeans e poi allunga le braccia, cercando il mio corpo. Mi avvicino subito, puntando un ginocchio sul materasso mentre lui afferra la mia maglietta e la solleva fino a farmela passare sopra la testa, avventandosi immediatamente sul mio collo quando riesce a tirarla via, per poi lanciarla lontano.
Si lascia andare supino sul materasso e schiude le gambe per farmi posto. Io gli sfilo i pantaloni, prima di sistemarmi su di lui, e nel movimento lo zainetto rotola per terra, e mi rendo conto che era ancora vuoto. Sorrido mentre mi chino sul suo collo, riempiendolo di baci e succhiandone piano la pelle morbida e profumata, mentre lui prima getta indietro il capo in un ansito perso e poi affonda i denti sulla mia spalla, stringendo forte senza preoccuparsi di quanto male mi fa. Sa che posso sostenerlo, ed è così davvero, così come io so che nonostante tutti i mugolii sofferenti che mi sta propinando adesso, lui può sostenere un po’ di lentezza, perciò mi prendo il mio tempo per entrare nuovamente in confidenza col suo corpo, con le sue forme, col suo profumo. Sento le ossa appuntite del suo bacino premere contro la mia carne quando, ormai nudi, ci strofiniamo l’uno contro l’altro, e sento la morbidezza della sua pancia contro la punta della mia erezione quando, strusciandomi su di lui, salgo abbastanza in alto da sfiorargli l’ombelico.
Lui geme con una forza nuova, afferrandomi sotto le orecchie ed inarcando la schiena mentre mi spinge verso il basso, ed io percorro in punta di lingua tutto il suo corpo, baciando a lungo la stella sul suo inguine e riscrivendo con le dita il tatuaggio che gli ricopre il fianco sinistro, mentre sfioro con le labbra la punta della sua erezione e poi la prendo appena in bocca, accarezzandola per tutta la lunghezza con la lingua ed accogliendola il più profondamente possibile dentro di me.
Bill lancia un mezzo grido, affondando le dita fra i miei capelli e percorrendoli dalla radice alle punte mentre muove lentamente il bacino, aumentando il ritmo delle proprie spinte pian piano. E capisco che trova difficile fermarsi quando all’improvviso mi chiama per nome, la voce spezzata dagli ansiti di piacere.
Mi allontano da lui, risalendo un bacio dopo l’altro la stessa scia che mi ha portato verso il basso. Appena torno all’altezza del suo viso, Bill pretende le mie labbra, e mi stringe al collo con tanta forza che mi sento quasi mancare l’aria.
- Non lasciarmi andare più. – mi sussurra addosso mentre premo piano contro la sua apertura, - Mai più.
In qualche modo sento che mi sta dicendo che se lo voglio adesso mi impegno a volerlo per tutto il resto della mia vita. Ci stiamo legando in questo momento più di quanto non ci sia mai capitato in passato, ci stiamo legando ora più di quanto ci abbia stretti insieme il momento in cui il nostro sangue s’è mescolato sul letto del suo appartamento il giorno in cui sono morto. Ci stiamo dicendo adesso che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo tutto quello che è successo, siamo ancora disposti a prenderci e stringerci fra le dita per tutti i giorni che ci separano dal momento in cui moriremo davvero.
Bill mi sta dicendo di non fare l’amore con lui se non ci credo quanto ci sta credendo lui adesso.
Ma non è solo per fare l’amore con lui che annuisco e lo bacio per sancire la promessa prima di entrare dentro il suo corpo e riprendermi un posto che non ha mai smesso di essere mio di diritto.
*
È molto facile e molto naturale, poi, ricadere sdraiati sul letto nella nostra solita posizione. È molto più faticoso, per la verità, andare a ripescare nella memoria prove tangibili che questa fosse davvero la nostra posizione, perché sto parlando di un periodo che sembra troppo lontano perfino per esistere davvero, come quando a scuola ti parlano della preistoria, dell’uomo di Neanderthal e tutto. Ora, io non ho passato molto tempo fra i banchi di scuola a lasciare che il sapere venisse a me, ma ricordo la sensazione che provavo quando da ragazzino stavo seduto sulla mia seggiola ed ascoltavo la maestra parlare di cose avvenute centinaia e centinaia di anni fa, e non riuscivo a sentirle reali. Era come se mi stesse raccontando belle favole, forse realistiche, ma del tutto prive di concretezza. Fino a ieri, quando pensavo a me e Bill felici e insieme, mi sentivo allo stesso modo. Era una cosa che sapevo essere esistita. Potevo credere al fatto che fosse esistita. Ma non la percepivo più come mia. E anche se l’ultima mezz’ora ha ribaltato passato e presente rendendo reali tutte le cose che credevo di aver soltanto sognato, è difficile rientrare da subito in quell’ordine di idee.
Proprio per questo, in qualche modo, è straniante la facilità con la quale io mi sistemo disteso sul materasso e Bill si sistema disteso su di me. Passa le dita sul mio petto disegnando ghirigori invisibili e privi di senso, e io faccio lo stesso arrotolandomi fra le dita le ciocche un po’ più lunghe sulla sua nuca. Restiamo in silenzio a lungo, lo sento sorridere debolmente sulla mia pelle e guardo il soffitto perché ho paura di guardare in basso e non trovarlo lì. So che sentirei la voce della mia vecchia maestra cominciare immediatamente a parlare di quel periodo storico in cui centinaia di anni fa il re e la sua principessa vivevano felici nel loro prospero regno, e so che non riuscirei più a crederci. Perciò evito, e non voglio guardarlo, anche se me lo sento addosso e questo dovrebbe bastarmi a rassicurarmi. Non ci riesce. Perciò non lo guardo finché, all’improvviso, non si mette a parlare.
- Quando ho deciso che era meglio non vedersi per un po’… - la sua voce è un po’ impastata, incerta, come stesse cercando di raccontarmi un sogno essendo ancora in dormiveglia, - ero molto lucido. Presente a me stesso, dico. Ma non era sempre così, in quel periodo. Sia prima che dopo.
Lo osservo dall’alto, vedo le sue spalle sottili muoversi appena al ritmo del suo respiro. Appoggio una mano sul suo braccio pallido e magro, me lo stringo contro. Lui mugola un po’.
- Com’era quando non eri lucido? – chiedo a bassa voce. Sento il suo corpo vibrare ad ogni mia parola. È così sottile, Dio. Così piccolo, nonostante tutto. La ragione mi chiede uno sforzo, mi chiede di trattarlo da uomo, ma per me resterà sempre un ragazzino infreddolito in piedi accanto alla porta di casa mia mentre la notte oltre i lampioni che costeggiano la strada si fa scura e senza stelle.
- Pauroso. – risponde lui, continuando a giocherellare con le dita sul mio petto, - Non riconoscevo le cose. O le persone. Alle volte… - ride appena, nervosamente, - Una volta mi sono svegliato dopo aver dormito tipo per quattordici ore consecutivamente, e non ho riconosciuto Tomi. L’ho guardato e non sapevo chi fosse. Sapevo solo che era uno con la mia faccia ma un po’ diversa, e mi sono spaventato così tanto, Anis, così tanto che ho creduto che sarei morto. Ti è mai successo? Il mio cuore stava battendo troppo forte, avevo troppa paura, mi mancava troppo il respiro. Avrei potuto morire davvero.
Stringo la presa sul suo braccio, e lui sorride ancora un po’.
- Succedeva spesso?
Bill scrolla appena le spalle.
- Ogni tanto. – risponde, - Non ti saprei dire ogni quanto, perché per lo più non… non ero in me, capisci? Facevo cose che poi… non è che le dimenticassi, era come se non fossero successe davvero. Non ero io. – inspira ed espira a fatica, muovendosi un po’ fra le mie braccia per trovare una posizione più comoda. Glielo lascio fare, e torno ad adattarmi a lui non appena ha finito. – Il mio corpo, Anis, alle volte agiva in maniera completamente scoordinata rispetto alla mia mente. Puoi immaginare cosa significhi? – solleva una mano e la guarda con aria un po’ malinconica. La gira e la rigira, ne studia la forma. Lo faccio anch’io. Non posso immaginare cosa significhi, piccolo. Io ho sempre avuto il controllo del mio corpo. Ho perso il controllo di tante cose, ma mai di me stesso. – Non avevo più nulla. E non avevo più nemmeno un’identità. L’avevo uccisa, l’avevo uccisa da solo. Non avevo idea di come uscirne, mi sentivo così solo, Anis, e inutile, e senza speranza. – lo sento muoversi con un po’ di difficoltà. Si rigira, pianta una mano sul materasso ed una suo mio petto e si solleva un po’. Mi accorgo solo dopo qualche secondo che sta cercando i miei occhi, e quando lo capisco gli concedo all’istante la mia completa e totale attenzione. – Anis, noi stiamo facendo una cosa molto pericolosa. – mi dice. È incredibilmente lucido, fa quasi paura. – Io però la voglio fare, perché ti amo. Tu però— tu devi esserci. Perché io ho paura che potrei non esserci, ogni tanto. E quando io non ci sarò, devi esserci tu. Devi tenermi qui. – si stende nuovamente su di me, così che il suo corpo possa aderire completamente al mio, ma non smette di guardarmi negli occhi. È un contatto che non ha nulla di sessuale, questo. Credo voglia solo sentirmi addosso. Per me è la stessa identica cosa. – Devi tenermi con te quando mi perdo. Ho bisogno che tu lo faccia. Puoi farlo per me? Per noi?
Mi inumidisco le labbra, sollevando una mano ed accarezzandogli una guancia, dallo zigomo fino al mento. Gli sorrido il più serenamente che posso, e non posso dirgli che non ho paura, perché ce l’ho. Mi sta consegnando la sua vita in mano, di nuovo, come tanti anni fa. Ma ora è più grande, lo sta facendo con una consapevolezza maggiore. Questo aumenta anche la mia responsabilità. Ma se mi chiede se sono disposto a prendermela, la mia risposta non può essere che una.
- Lo farò.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza (entrambi accennati).
Rating: R
AVVISI: Slash.
- "È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi."
Note: Immagino che molte di voi si stessero chiedendo se io fossi ancora parte di tutto ciò o non fossi piuttosto saltata giù dalla nave ammiraglia perdendomi fra i flutti XD Ci sono ancora, per vostra disgrazia. E anche per disgrazia di David, visto che tocca di nuovo a lui parlare. Aha! Già, non è morto. Come il titolo della storia suggerisce, d'altronde. :D
Vorrei dedicare questa shot a tutte le donne fra voi che hanno pensato "ma omg, da quand'è che le shot sono diventate così lunghe?" XDDD Il mio avvento nella LTP di USW si compie con una shot brevissima. Ma piena di sorprese. E di meraviglie.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
E IL GIORNO IN CUI SONO RISORTO

Apro gli occhi senza crederci, perché giuro che quando li ho chiusi ero convinto che non ce l’avrei fatta. La cosa che sento maggiormente, più ancora del dolore un po’ sordo, un po’ attutito, all’altezza dello stomaco, è un gran senso di confusione e, al contempo, vuoto in testa. È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi. Sai che sotto dev’esserci qualcosa, ma appena ci metti piede non hai idea di cosa. Quindi è come se non ci fossi niente, tu guardi questa distesa di bianco ingrigito e ti dici “oddio, ma cosa c’è qui dentro? Non c’è nulla”, quando magari hai sotto il naso un originale di Mirò, solo che non lo sai perché non puoi vederlo. Ecco, la mia testa è come se fosse questa enorme stanza piena di roba coperta di cui mi sembra di non sapere niente. Ho un po’ paura di sollevare i teli, però, perché magari se quei teli ci sono, in primo luogo, c’è un motivo. Uno non va in giro coprendo opere d’arte a caso, se lo fa dev’esserci una buona ragione.
- Signor Jost…? – la prima voce che sento non mi è nota. È una voce femminile un po’ acuta, piuttosto dolce, e non ricordo di averla mai sentita. – Oddio, s’è svegliato… dottor Schüster! – la sua voce si fa più alta e più fastidiosa, mi pizzica il timpano con violenza e per qualche secondo, mentre serro gli occhi infastidito dalla luce che entra dalla finestra, mi chiedo quanto tempo abbia passato qui a dormire se luci e suoni anche moderati mi sembrano così insopportabili.
Sento un frusciare di vestiti al mio fianco e mi forzo ad aprire almeno un occhio, per sbirciare cosa stia accadendo. Vedo poco, comunque, la mia vista è ancora annebbiata. Spero sia qualcosa di temporaneo.
- Abbassate le luci… - borbotto, e la mia voce suona aliena alle mie stesse orecchie. È gracchiante e ruvida, come non la usassi da mesi. Ho la gola secca. Comincio a preoccuparmi davvero: da quant’è che sono qui?
- Signor Jost, ricorda perché è qui? – chiede una voce maschile profonda ma calda, che immagino appartenga al dottor Schüster.
- Non proprio… - rispondo. Cerco di identificare la sua figura, ma la luce del sole si riflette sul biancore candido del suo camice e mi abbaglia, impedendomi di riconoscere la sua fisionomia. – Abbassate le luci, per favore.
- Infermiera. – dice immediatamente il dottor Schüster, e in pochi secondi la luce diventa più fioca. Sbatto le palpebre un paio di volte e poi, finalmente, apro gli occhi, trovandomi di fronte un uomo alto e abbronzato, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e vagamente arricciati sulle punte e un pizzetto perfetto ad incorniciare labbra ugualmente perfette, mentre occhi azzurri dal taglio elegante mi scrutano con apprensione e partecipe benevolenza. Penso di essermi innamorato. – Signor Jost, sono il dottor Schüster, il medico di turno. Il dottor Neuer l’ha affidata alle mie cure. Mi dica come si sente.
- Ora molto meglio. – ammetto, ma tralascio di aggiungere “perché ho potuto posare gli occhi su di te, o divina creatura. Sfila il camice e mostrami i tuoi pettorali, li cospargerò di unguenti profumati e ti nutrirò coi frutti della terra. Infermiera! Spalanchi le finestre, che la luce entri e investa questo figlio dei cieli”. Mi sovviene all’improvviso che ancora non so da quanto sono qui. Guardo il dottor Schüster e cerco di non lasciar trasparire quanto voglio che butti fuori chiunque ci sia in questa stanza oltre noi, si denudi e mi prenda qui su questo letto. – Quanto tempo è passato da quando sono arrivato? – chiedo con finta serietà, mentre lo immagino sollevarmi tra le proprie possenti braccia e invitarmi a ballare la Lambada.
- Una settimana. – risponde lui, sedendosi sul bordo del letto. Oh, sì, dottor Schüster, perfino il cigolio delle molle del materasso sotto il tuo dolce peso è musicale. – È arrivato privo di conoscenza e quasi del tutto dissanguato. È un miracolo che siamo riusciti a prenderla in tempo, ed è ancora più miracoloso che lei sia riuscito a svegliarsi. È un uomo molto coraggioso, signor Jost.
No, vorrei dirgli, se fossi un uomo molto coraggioso mi solleverei, ti guarderei dritto negli occhi e ti direi di possedermi con forza, tanto da far sbattere la testiera del letto contro la parete fino a sfondarla. Lui però mi sorride all’improvviso, e il cielo si apre mostrando cori di angeli che cantano a festa per celebrare il momento, mentre il mondo diventa più bello, le guerre finiscono, la fame e la povertà nel mondo vengono sconfitte e putti alati coi sederini tondi suonano l’arpa volteggiando attorno a noi, leggeri come bolle di sapone. Mi sposi, dottor Schüster. Lei è l’uomo della mia vita.
- Che cosa mi è successo? – chiedo, ma non sono sicuro se gli sto chiedendo di spiegarmi com’è che sono finito qui o se piuttosto non voglio sapere se per caso nella mia flebo sia disciolta qualche sostanza stupefacente, o del viagra, o comunque qualcosa che possa giustificare le condizioni mentali pietose in cui mi trovo adesso guardando quest’uomo che riluce come una stella e sprizza testosterone da ogni poro della pelle caramellata e del tutto priva di imperfezioni.
- Per la verità, speravamo potesse dircelo lei. – dice lui, stringendosi appena nelle spalle, - Il dottor Neuer ha mantenuto il più stretto riserbo, sulla sua condizione, su esplicita richiesta del signor Ferchichi. Perciò immagino che se lei non ricorda cosa le è successo l’unica soluzione sia aspettare che il signor Ferchichi venga qui, non appena l’avremo avvertito, e possa spiegarglielo in prima persona.
Mi basta sentir parlare di Bushido perché nella mia testa improvvisamente tutto ritorni chiaro. Osservo quest’uomo stupendo entrare nella soffitta nascosta dentro al mio cervello e, invece di prendermi sul divano polveroso disteso sopra il quale io lo attendo nudo e con le gambe già spalancate e issate fin sopra le spalle, mettersi a sollevare tutti i teli da tutte le cose che coprono. Vengono fuori i tizi che mi hanno rapito, viene fuori l’incisione sul mio stomaco, che non ho ancora nemmeno visto, viene fuori il mio sangue, il magazzino buio e sporco, le casse accatastate in un angolo ed io che mi spacco qualcosa finendoci sopra. Viene fuori la storia degli ultimi mesi della mia vita, e non solo della mia, ma di quella di un’etichetta della quale non dovrebbe interessarmi niente, e che invece mi sta a cuore, perché ormai ne sono parte.
Soprattutto, comunque, vengono fuori le ultime parole che ho sentito prima di essere torturato fin quasi a morte. E sono parole che devo riferire a chi di dovere.
Sollevo gli occhi sul dottor Schüster e mi mordo un labbro per non pensare niente di sconveniente.
- Lo chiamo io. – dico. Lui inarca un sopracciglio perfettamente curato. Da ciò – dal sopracciglio e dal modo in cui lo inarca, dico – deduco che è gay, ma riprenderò la questione in seguito.
- Signor Jost, - mi informa, - non è la prassi.
Sorrido serenamente.
- Lo chiamo io. – ripeto. Il dottor Schüster sospira, solleva la cornetta, digita un codice sulla tastiera e poi mi appoggia il telefono in grembo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla stanza dopo aver fatto cenno all’infermiera di seguirlo. Il telefono squilla un paio di volte, e poi Bushido risponde.
- Pronto? – dice, col tono casuale di chi non aspetta una telefonata importante. Io prendo un bel respiro, prima di parlare.
- Muovi il culo. – dico quindi, - Devo parlarti.
A lui il respiro manca del tutto, per qualche secondo.
- David? – annaspa. Sento accanto a lui un urletto agitato. È con Bill. – David, stai bene?
- Be’, sono ancora vivo. – rispondo scrollando le spalle. – E ora muoviti e vieni qui. Abbiamo un problema.
Bushido esita ancora per qualche secondo, e poi probabilmente intuisce di cosa sto parlando. Arriva meno di mezz’ora dopo, e con lui, come avevo immaginato, c’è anche Bill.
Nel tempo che passa fra il momento in cui la nostra chiamata s’interrompe e quello in cui lui arriva, io faccio mente locale e cerco di trovare un senso alle ultime parole che l’uomo col volto coperto mi ha sussurrato prima di cominciare ad aprirmi in due. Sono parole che in un mondo normale non dovrebbero avere senso, ma vivere a stretto contatto con Bushido, sapere che il suo uomo migliore, il più vicino a lui, voleva vederlo morto mi ha dato un’idea molto precisa di cosa significhino i legami fra uomini nel mondo da cui Bushido proviene, e che ha trascinato di forza nello show business tedesco perché voleva metterci le mani sopra, e poteva farlo solo conoscendolo bene. Ha dovuto portare il suo mondo nel nostro per stravolgerne le regole e riuscire a governarle, manipolarle come ha sempre fatto, in proprio favore, e quindi, sapendo questo, le ultime parole che ho sentito quando credevo sarei morto non solo assumono senso, ma assumono improvvisamente anche un peso non indifferente. Mentre aspetto, spero che Bushido porti con sé un paio di uomini di scorta in più, per lasciarmeli, perché ora che sono vivo si saprà in giro, ed è evidente che non posso restare da solo.
Vorrei chiederglielo subito, appena lo vedo spuntare, ma appunto noto che c’è Bill, con lui, perciò mi trattengo.
- David! – strilla Bill immediatamente, avanzando verso di me così velocemente che ho l’impressione che, se non avessi la flebo e fili che mi collegano a svariati macchinari da tutte le parti, mi salterebbe addosso e mi si siederebbe in grembo. Cosa che sono felice lui non possa fare, in parte perché oddiolamiapancia e in parte perché i segni del passaggio del dottor Schüster sono ancora evidenti sul mio corpo. Ciò che non può evitare di fare, comunque, è portare con sé un enorme cesto di frutta. Naturalmente non lo porta lui, anche perché deve pesare un quintale, e naturalmente non lo porta nemmeno Bushido, perché figurarsi, motivo per il quale due poveri infermieri un po’ sfigati, di cui uno con pancetta che tende il camice fino a sollevarlo e scoprire un po’ i fianchi, sono stati reclutati ad uso e consumo della sua tranquillità, e nel momento in cui lui fa il suo ingresso in questa stanza loro lo seguono con aria mesta, posano il cesto sul mio comodino e poi escono borbottando che la loro laurea non doveva servire a questo.
- Bill. – gli sorrido io, - Ma cos’è questa roba?
- Frutta. – risponde lui, annuendo compitamente ed aspettando che Bushido gli avvicini la sedia di plastica al mio letto per sedersi compostamente, la schiena dritta e le mani in grembo. – Mi hanno detto che fa bene.
- Ti hanno detto, eh? – rido io, e non appena lo faccio il dolore mi scoppia dentro così forte e improvviso da costringermi a piegarmi in due. Non riesco nemmeno a lamentarmi, ho il terrore che qualsiasi suono esca dalla mia bocca lo renda più forte, e voglio soltanto che smetta. Bill mi si piega addosso, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Dada, stai bene? – chiede con aria preoccupata.
Mi volto a guardarlo per un secondo, e tra le lacrime – lacrime di dolore: di nuovo – riesco a vedere che sono pieni di lacrime anche i suoi occhi. Cerco di riprendermi, mi metto dritto, appoggio la schiena al cuscino sollevato dietro di me e respiro lentamente.
- Starò meglio quando le ferite si saranno richiuse, suppongo. – rispondo in un borbottio basso. Bill si morde un labbro, stringendosi nelle spalle.
- Che cosa ti hanno fatto? – mi chiede. Io esito, lancio un’occhiata a Bushido. Lui si schiarisce la voce e poggia entrambe le mani sulle spalle di Bill, in un gesto collaudato e paziente che mi fa inarcare un sopracciglio. Quant’è che ho dormito? Come ha detto il dottor Schüster? E cosa mi sono perso, nel mentre?
- Bill, forse è meglio se esci un attimo. – dice quindi. Bill si gira a guardarlo, oltraggiato.
- Cosa? – strilla, - No! Non esco affatto, stiamo parlando di David, qui, voglio sapere che gli è successo!
Mi allungo a stringere una delle sue mani fra le mie, e lui torna immediatamente a posarmi gli occhi addosso. Ha le sopracciglia inarcate verso il basso e l’espressione di chi sa già di dover cedere.
- Ti racconterò tutto dopo, Bill. – dico condiscendente, - Ora lasciaci da soli per un paio di minuti, vuoi?
Non vuole, naturalmente, ma lo fa. Se ho capito cosa sta succedendo – e l’ho capito – è solo una di tante cose che, per certi versi, riprenderanno a funzionare come un meccanismo ben oliato. La situazione è quella che è, e tutti noi non possiamo che affidarci alle mani di quest’uomo morto e risorto e sperare che non gli si aprano delle stimmate enormi sui palmi mentre noi cerchiamo di trovare posto per tutti fra le sue dita lunghe e proporzionate.
Sono ancora convinto che ci sia del viagra nella mia flebo.
Quando restiamo soli, l’atmosfera è tesa. Lui sa che ho qualcosa da dirgli, qualcosa di grave, e sta pensando che la situazione gli sembra già abbastanza brutta adesso che non la sa, perciò si chiede se sia effettivamente opportuno peggiorarla ulteriormente aggiungendo dettagli al quadro. Io, però, sono un manager. Sono uno che risolve i problemi. I dettagli sono il mio pane quotidiano. Quando Bushido è morto, si è affidato a me perché non poteva morire da solo. Ora gli toccherà fare lo stesso, se non vuole che capiti qualcosa di peggio.
- Chi è il medico? – gli chiedo quindi, - Lo conosci?
- Ma di chi parliamo? – chiede lui, preso alla sprovvista, spalancando gli occhi e sedendosi dove stava seduto Bill fino a poco fa, - Neuer?
- No. – rispondo io, scuotendo il capo, - Schüster. È lui che mi ha visitato quando mi sono svegliato.
- Ah. – annuisce Bushido, - È uno bravo. Lo conosco poco, ma sembra affidabile. Perché me lo chiedi?
- Perché voglio sposarlo. – annuisco compitamente, - È bellissimo. Dammelo. Me lo sono meritato. Sarà il mio indennizzo per essermi quasi fatto sventrare a causa tua.
Bushido ride di gusto, mentre io mi limito ad un sorriso divertito, visto che ho scoperto che da ora fino a chissà quando le risate rientreranno nella lunga lista di cose che non potrò fare.
- Mi dispiace. – dice quindi. Sta ancora sorridendo ed è bello come il sole. Io palesemente non potrò farcela a lungo. Medito di far causa all’ospedale. – Non ho mai voluto che ti succedesse una cosa simile.
- Ma sei venuto a salvarmi. – dico quindi, sistemandomi meglio contro il cuscino.
Lui mi lancia un’occhiata intensa, facendosi subito serio.
- Non ti avrei mai lasciato lì. Se anche mi fossi morto fra le braccia per strada— Non voglio nemmeno pensarci. Ti avrei portato in ospedale comunque e lo avrei messo sottosopra finché non ti avessero ricoverato.
Sorrido appena, piegando un po’ il capo.
- Anche se ciò avrebbe significato far ricoverare un cadavere? – chiedo a bassa voce.
- Sarebbe stato un cadavere a cui tenevo. – chiude il discorso lui. Io sorrido ancora.
- Grazie. Ma spero tu abbia pensato alle guardie del corpo da lasciarmi, perché ora che sono vivo—
- C’erano anche mentre eri morto. – mi interrompe lui. Alle volte, quando parlo con Bushido mi rendo conto che, quando siamo insieme, usiamo i termini vivo e morto con una naturalezza disturbante, come se entrambi stessero ad indicare due condizioni passeggere e semplicemente reversibili. Questa cosa mi dà i brividi. Per un lungo periodo, non sono riuscito a capire perché Bushido riuscisse ad usare espressioni tipo “quando sono morto” invece di “quando ho finto di morire”. Adesso che, fosse anche solo per una settimana, sono morto anch’io, riesco a capirlo meglio. Alla fine, l’unica conseguenza che ha la morte sul morto è quella di togliergli pezzi di vita. E questo è capitato a Bushido come pure a me, anche se nessuno di noi due è morto davvero, nel senso definitivo del termine.
Scivolo un po’ lungo il materasso, digrignando i denti quando sento i punti tirare. Devono essere un’infinità. Dio mio, la mia pancia sarà sfigurata per sempre. La mia bellissima, piattissima pancia. Sto soffrendo così tanto che il solo pensiero che Bushido possa rifiutarsi di regalarmi il dottor Schüster per il mio compleanno mi sembra un’eresia, un’ingiustizia bella e buona. Guarda cosa hai fatto alla mia pancia, Bushido. Dammi la mia ricompensa.
Lui mi aiuta, comunque. Scosta le lenzuola dal mio corpo e le tiene sollevate mentre io sollevo il camicione patendo le pene dell’inferno. Finalmente riesco a vedere quello che mi hanno scritto addosso.
Bushido schiude le labbra e spalanca gli occhi. Allunga una mano e sfiora i contorni delle lettere con la punta di un dito, così lieve che nemmeno lo sento. È come se si rendesse conto di quello che è successo per la prima volta, e probabilmente è davvero così dato che, per come mi avevano aperto e per tutto il sangue che dovevo avere addosso, non doveva essere semplice capire che forma avessero le mie ferite quando mi hanno trovato.
- Vendetta. – mormora pianissimo, deglutendo a fatica. Poi mi solleva gli occhi addosso, e il suo sguardo è pieno di timore. – Tu sai chi è stato. – dice, e gli trema la voce.
Io annuisco e inspiro. Moderatamente, però, sennò fa male.
- Nyze. – dico in un soffio, e vedo gli occhi di Bushido tornare indietro di mesi mentre ripensa all’etichetta che ha lasciato sprofondare nel nulla e agli uomini che ha perso e a Nyze, Nyze soprattutto, che non riusciva ad arrendersi al fatto che l’Ersguterjunge sarebbe affondata assieme al suo signore e padrone, e che ha piantato su un casino epocale prima, durante e dopo essersene andato. E mentre Bushido ricostruisce pezzi di storia e si rende conto di ciò che ci aspetta, io mi dico per un attimo che sono quasi morto per una lite fra rapper e poi mi correggo da solo. No, io non sono quasi morto per una lite fra rapper, io sono morto per una guerra del ghetto. Perché in qualche modo assurdo il ghetto è casa mia, anche se non ci ho mai messo piede. Perché Bushido l’ha portato di forza nella mia vita, perché qui non stiamo parlando di due rapper che si insultano a caso, qui stiamo parlando di fratelli che fanno giuramenti e si uniscono e fanno fronte comune contro sa Dio solo cosa, perché il problema del rap è che per farlo bene devi essere arrabbiato, ma arrabbiato davvero, e questa gente, in un modo o nell’altro, lo è, lo è tutta. E io non ho rischiato la vita per un’etichetta, ma per una famiglia. Una famiglia spaccata i cui membri adesso sono sparsi in giro per la città, e Nyze ne faceva parte, ma ora vuole solo distruggerla. E Dio solo sa fino a che punto.
Bushido deglutisce, annuendo lentamente. Ha le mani posate sulle ginocchia, adesso, e sono talmente in tensione che posso vedere le linee di tutti i tendini. I polpastrelli sono bianchi, tanta è la forza con cui li affonda contro il tessuto ruvido e spesso dei jeans scuri.
- Ho capito. – dice quindi, alzandosi in piedi. – Non preoccuparti di niente. Pensa solo a rimetterti. Riusciremo a gestire la cosa in maniera congrua.
- Qual è la maniera congrua? – chiedo stancamente, abbassando nuovamente il camicione e sistemandomi addosso il lenzuolo, - Rapirai uno dei suoi e gli scriverai addosso “marameo”?
Bushido ride un po’, grattandosi nervosamente la nuca.
- No, penso che—
- Non fare niente finché non sarò uscito da qui. – dico serio, - Aspettami, prima di prendere una qualsiasi decisione. Non fare niente di avventato.
La sua espressione un po’ stupita dall’interruzione si trasforma in un sorriso carico di tenerezza, mentre si avvicina e mi accarezza con una mano bene aperta la testa e il collo, prima di chinarsi a lasciarmi un bacio sulla fronte.
- Stavo appunto dicendo: “penso che aspetterò che tu sia uscito da qui”. E poi vedremo insieme, Jost. Per risolvere i problemi mi serve uno che sia capace di farlo.
Sorrido, tirando su un angolo della bocca con aria spavalda.
- E io, sfigurato o no, sono capace eccome.
- Appunto. – ride ancora lui. Poi mi volta le spalle, salutandomi con un cenno della mano. – Non addormentarti subito. – mi dice quindi, e io non capisco che intenda fino a quando, un paio di minuti dopo, il dottor Schüster mi raggiunge in camera.
- Il signor Ferchichi mi ha detto che aveva bisogno di me. – dice con un sorriso affabile, avvicinandosi e maneggiandomi con premura. – Sente fastidio da qualche parte?
Sorrido con estrema soddisfazione, mentre mi appresto a spiegargli esattamente dove il fastidio sia più pressante e come aiutarmi ad estinguerlo.
Genere: Commedia, Romantico, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom, Tom/David.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Incest, What If?, Slash.
- La maggior parte degli abitanti della Terra non lo sa, ma ciò che molti credono governato da un dio superiore - le leggi della fisica, l'equilibrio del pianeta, vita e morte di ogni organismo che calchi la superficie terrestre - è regolato in realtà da due dei, incarnazioni divine dei principi di Yin e Yang. Grazie a loro il pianeta può continuare a vivere, guidato dall'unico principio di compensazione che riesce a tenere in equilibrio tutto, togliendo da qualche parte per aggiungere altrove e preoccupandosi di rimettere tutto in pari quando gli equilibri vengono sconvolti.
Si tratta, comunque, di divinità un po' particolari: caricate dai sentimenti degli esseri umani, sopravvivono per un periodo di tempo ben preciso alla fine del quale la loro energia si esaurisce, ed esse decadono, costringendo i pochi esseri umani custodi di questo mistero a prendere provvedimenti, trovando qualcun altro che possa sostituirli.
Bill e Tom Kaulitz hanno una parte, in questo gioco del quale non conoscono le regole. Il loro destino sembra scritto dal momento stesso in cui hanno aperto gli occhi sul mondo, ma qualcosa, nel corso delle loro vite, è accaduto, qualcosa che ha cambiato le carte in tavola e che ora rischia seriamente di condannare al fallimento ciò per cui i protettori delle divinità stanno lavorando da ormai quasi vent'anni. Assieme al futuro del pianeta.
Note: Questa storia esiste ormai da anni. Avrei voluto scriverla per la scorsa edizione del Big Bang, ma in realtà già allora si trattava di un'idea vecchia, una cosa che avevo plottato almeno l'anno precedente e che mi tormentava, perché la amavo profondamente XD e morivo dalla voglia di buttarla giù, ma la consapevolezza della sua enormità mi rendeva impossibile il mettermi lì e farlo. Sapevo che mi avrebbe rubato le vite (poi invece è bastato mettermici tranquilla e credo di averla finita in un paio di settimane, ma ciò non è assolutamente il punto della questione u.u;;;), perciò me ne tenevo lontana. Alla fine, il Big Bang mi ha dato la spinta definitiva per scriverla per bene, e di questo sono molto felice <3 Anche perché così sono stata tanto fortunata da ricevere in dono l'art della Claudia, e voglio dire. *piange splendore* ♥
(Citazione iniziale rubata dalla splendida Hass, di Bushido e Chakuza. ♥)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
STARCHILDREN

Die Engel kamen wieder zu spät
ja der Teufel hat den Hass in meine Wiege gelegt
und er zwang mich seit dem es in mir zu tragen
deswegen hab ich mich als Kind oft geschlagen

Il sole era già alto nel cielo mattutino eppure vagamente fosco di quell’assaggio d’autunno a Lipsia, quando Jörgen Larsen, in un elegante completo nero liscio il cui unico tocco di colore era la camicia, di un bell’arancione acceso, che faceva capolino dal bavero della giacca chiusa, fece il proprio ingresso all’interno della clinica. Alle sue spalle, due ragazzi incastrati in completi simili ma decisamente fuori luogo sulle loro figure esili e giovanili, avanzavano silenziosi, cercando di tenere il passo. Li si sarebbe detti sui diciassette, massimo diciotto anni.
- Ora fate i bravi. – disse l’uomo, ufficialmente CEO della Universal Music International ma giunto di gran corsa a Lipsia sotto ben altre vesti, - E siate silenziosi. Parlate solo se interpellati, ma nessuno vi interpellerà, perciò limitatevi a tacere e basta. – ordinò senza voltarsi a guardarli.
David Jost, il più piccolo dei due, non visto, si lascio andare ad una mezza pernacchia silenziosa, ma fu l’occhiata truce del suo compagno, Frank Briegmann, proprio lì al suo fianco, a zittire sul nascere qualsiasi altro desiderio di rivolta simile, e David tornò a camminare silenziosamente dietro Larsen, lasciandosi condurre con decisione attraverso i bianchi e splendenti corridoi dell’ospedale, finché non fu invitato a fermarsi di fronte ad una porta chiusa, dall’interno della quale veniva il suono cristallino della risata di una donna.
Raccomandandosi un’ultima volta perché il silenzio fosse mantenuto dai suoi sottoposti, Larsen sorrise apertamente e spalancò la porta, osservando una donna piuttosto bella e giovane, per quanto forse un po’ troppo magra, giocare con un neonato paffuto coi capelli neri e la pelle arrossata, mentre un altro neonato, in tutto e per tutto uguale, restava silenzioso e dormiente fra le braccia dell’uomo che ai piedi del letto sedeva, e che i due ragazzi guardarono con curiosità, inquadrandolo subito come un uomo molto nervoso e tremendamente a disagio, nel suo completo pantaloni e camicia di lino bianco.
- Simone! – salutò Larsen, facendo il proprio ingresso nella stanza, - Carissima! Come stai?
- Jörgen. – lo salutò a propria volta lei, sorridendo estasiata e ravviando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, - Sto bene, è un piacere vederti. Non credevo saresti arrivato così presto.
- Sarei venuto anche prima, mia cara, – rise lui, chinandosi a stringerla in un abbraccio fraterno e baciandola lievemente su una guancia, - se non avessi creduto che sarebbe stato poco opportuno, da parte mia, presentarmi nel mezzo del tuo travaglio. Ho pensato – aggiunse con una risatina, - di lasciarti tempo per riprenderti. Ecco perché sono qui oggi e non c’ero già ieri.
Simone si allungò a stringergli cordialmente una mano, sorridendo ancora.
- Grazie. – annuì, gli occhi lucidi, - È importante per me sapere che mi siete vicini.
- Non potrebbe essere altrimenti, cara. – la rassicurò lui, spostando la propria mano libera su quella di Simone, e stringendo a propria volta. – Dunque! – disse poi, sedendosi sul materasso sottile, proprio al fianco della donna, - Guardiamoli, questi due prodigi!
Simone ridacchiò imbarazzata, mostrandogli il neonato che teneva stretto fra le braccia.
- Questo è Tom. – disse, indicando il bambino con un cenno del capo, - E il dormiglione lì con Jörg è Bill.
- Due nomi deliziosi. – annuì deciso Jörgen, mentre sia David che Frank non potevano fare a meno di pensare a quanto, più che deliziosi, quei nomi sembrassero adatti a due personaggi dei fumetti. – E due bambini deliziosi, in realtà. Ma non potevamo aspettarci niente di diverso da te, mia cara, sei sempre stata brillante e importantissima per tutti noi. Che gioia è stata quando in Sede abbiamo saputo che i Divini avevano scelto proprio te per continuare la loro eterna opera!
- Già… - annuì la donna, lanciando un’occhiata allarmata al marito, sempre più nervoso, ed osservandolo alzarsi in piedi e deporre il bambino nella propria culla, prima di uscire dalla stanza senza neanche salutare. – Perdonatelo. Non riesce proprio… - e scosse il capo, come a cacciare via i pensieri molesti. – Piuttosto, Jörgen, siete davvero sicuri che siano…
- I segni, mia cara! – la interruppe l’uomo, entusiasta, - I segni lo confermano! Presto il muro verrà smantellato, l’equilibrio si spezzerà ed i prodromi della Fine saranno chiari a tutti. Ma ci stiamo preparando, cara, e questi bambini sono la chiave. I nostri indovini – aggiunse con un sorriso, stringendole rassicurante una spalla, - concordano tutti, cara. Il tempo è giunto. Da qui a una ventina d’anni il mondo sarà sull’orlo del collasso, ma noi saremo pronti. Tu lo sarai. E questi meravigliosi bambini lo saranno.
Simone sorrise a propria volta, allungandosi a deporre Tom al fianco del fratello per poi lasciarsi stringere da Jörgen, commossa.
- Grazie. Davvero, grazie mille.
- E qui entriamo in gioco noi. – continuò subito l’uomo, sciogliendo l’abbraccio per indicare alla donna i due ragazzi, i quali – sentendosi improvvisamente investiti di un’attenzione che, fino ad un momento prima, non li aveva nemmeno sfiorati – si irrigidirono ai loro posti, stringendo i pugni lungo i fianchi. – Oltre che per congratularmi, naturalmente, sono venuto per presentarti David e Frank, mia cara. Saranno i tuoi referenti per il futuro, quando ci sarà bisogno.
- Ma sono poco più che ragazzini… - commentò lei, fissandoli entrambi con un certo stupore e costringendoli a distogliere lo sguardo, imbarazzati.
- Be’, lo sono adesso! – la corresse Larsen con una risata tonante, - Ma abbiamo già cominciato ad istruirli nel modo più completo possibile, e vedrai: saranno pronti, quando avrai bisogno di loro. Ora, mia cara… - aggiunse quindi, nella voce una nota grave del tutto straniante rispetto a quella cordiale di poco prima, - per quanto mi secchi ribadire l’ovvio, temo vada fatto. I bambini non dovranno mai sapere niente di tutto questo e, almeno fino ai quindici anni, farò in modo che non vi siano contatti fra voi e la Santa Sede.
- Quindici anni… - annuì mestamente Simone, - Così tanto?
- Sì, cara. – la consolò lui, accarezzandole bonariamente la schiena, - È necessario, perché nessuno sospetti niente. La prossima volta che sentirai parlare di noi, - aggiunse con un sospiro, - i tuoi bimbi saranno grandi, ed anche David e Frank lo saranno. Ed io… io spero solo di esserci ancora.
- Non dire così, ti prego. – disse la donna, un’espressione più triste a turbare i lineamenti dritti e fieri del viso, - Andrà sicuramente tutto bene.
- Oh, Simone, - sorrise ancora lui, - su questo non c’è il minimo dubbio. Credimi.
Simone rispose al suo sorriso e poi lo girò anche ai due ragazzi, salutandoli e ringraziandoli con un cenno del capo, prima di invitarli ad avvicinarsi alla culla, per sbirciare i bambini assopiti fra le lenzuola. David sorrise, allungando una mano verso il bambino ancora sveglio.
- Tom, mh? – chiese sottovoce. Il bambino gli strinse l’indice fra le dita paffute, e continuò a farlo finché, piangendo, suo fratello Bill si svegliò.
*
- Tomi… - lo chiamò Bill, mettendo su il tipico broncio sulle linee del quale acconciava le labbra ogni volta che voleva farlo sentire in colpa perché non gli concedeva qualche favore di importanza a suo dire fondamentale, - Ti prego, ho bisogno del tuo aiuto!
- Ed io ho bisogno che tu mi tenga fuori dalla tua storia con Bushido. – sputò fuori lui con disgusto, senza staccare gli occhi dallo schermo della tv, né le mani dal joystick.
- Tomi! – insistette lui, piagnucolando un po’, e Tom rispose con una mezza occhiata indispettita.
- Ne abbiamo già parlato. – disse seccamente, - Non posso impedirti di uscire con chi vuoi, ma non posso neanche favorirti mentre lo fai. Odio quell’uomo, è spregevole. Se proprio vuoi consegnarti nelle sue mani, fallo, ma non aspettarti aiuto da parte mia.
- Dici che non puoi impedirmi di uscire con chi voglio, - gonfiò le guance Bill, offeso, ignorando tutto il resto del suo discorso, - ma a conti fatti, rifiutandoti di coprirmi, è quello che stai facendo.
- Cristo santo— Bill. – sbottò, poggiando in terra il joystick e voltandosi verso di lui mentre lasciava che il proprio personaggio andasse a schiantarsi contro il primo muro con tutta la macchina e qualche pezzo di arredamento urbano raccattato nel mentre. – Non sei più un ragazzino, ok? Hai diciannove anni, e questa tortura fra alti e bassi va avanti da tre, ormai. Direi che non ti serve più la mia approvazione, ti pare? La mia, o quella di chiunque altro, visto che comunque fai sempre di testa tua.
- Infatti non cerco l’approvazione di nessuno. – ringhiò Bill, - Non la tua né quella di nessun altro, per tua informazione. Ho solo bisogno d’aiuto, perché approvazione o meno David non mi lascerà uscire.
Tom abbassò impercettibilmente lo sguardo al solo sentire il nome di David, ma tornò a fissarlo negli occhi abbastanza in fretta da impedire a Bill di registrare quel movimento come qualcosa di importante.
- Mi sono rotto di sentirti lagnarti ogni minuto. – sbuffò Tom, saltando in piedi ed afferrandolo per un polso, costringendolo a fare lo stesso. – Vuoi aiuto? D’accordo, l’avrai. – lo tirò dietro di sé fino a raggiungere la porta della camera. Da lì lungo il corridoio, ignorando le sue proteste ed ogni “Tomi” pigolato dapprima con tono incerto, poi con tono sempre più infastidito, e lo ficcò dentro il primo ascensore disponibile. – Ora vado da David, in camera sua. – gli disse, guardandolo a muso duro. Non era come gli stesse facendo un favore, sembrava più che volesse liberarsi di lui, - Così te lo tengo occupato. Tu va’, e fai il cazzo che vuoi, ma vedi di tornare ad un orario umano, e fammi sapere quando dovrò coprirti per la seconda volta, perché già mi basti tu, come rottura di palle, non voglio che ci si aggiunga anche lui, con le sue paternali del cazzo.
- Tomi… - mugolò Bill, guardandolo con aria colpevole e massaggiandosi il polso dolorante, - Io vorrei parlarti. Vorrei—
- Non c’è altro da dire. – mormorò Tom, rifiutandosi di guardarlo negli occhi, - Tu hai fatto la tua scelta. Non sono cose che si discutano.
Le porte si chiusero di fronte alla sua espressione ancora corrucciata, e Bill restò pensieroso per tutto il tragitto dell’ascensore fino al piano terra, stringendosi alla borsa e dentro la giacca e ricordandosi solo all’ultimo minuto di recuperare cappellino ed occhiali da sole, per schermarsi almeno in parte di fronte agli occhi del mondo. Sperò che Anis non fosse in ritardo – controllò l’orologio, lui era in orario – e si chiese ancora una volta di che razza di scelta stesse parlando il suo gemello. Lui non aveva mai avuto scelte, da quando aveva conosciuto Anis non c’era stata la possibilità di scegliere fra una cosa e l’altra, era sempre stato innamorato di lui. Odiava quando suo fratello si metteva su quello stesso piano di pensiero: scambiare l’affetto che provava per lui con quello che provava per Anis, metterli a paragone, pretendere di equipararli e poi tirargli addosso quella sciocca questione della scelta era assolutamente scorretto, nonché impensabile.
Di fuori, il tempo era pessimo. Bill osservò con un misto di paura e sconcerto gli enormi nuvoloni neri addensatisi nel cielo durante tutto il giorno, e si mordicchiò un labbro, perplesso.
- Aprile dovrebbe essere molto meno nuvoloso. – borbottò soprappensiero, appoggiandosi al muro e poi cambiando idea, prendendo a muoversi intorno per evitare di star sempre fermo in un punto e dare nell’occhio.
Passeggiò solo per pochi minuti, poi il cellulare, al riparo nella tasca posteriore dei jeans, prese a vibrare insistentemente. Lo tirò fuori col sorriso sulle labbra, rispondendo alla chiamata senza neanche sprecarsi a guardare il numero sul display.
- Sei in ritardo. – commentò con tono petulante, fermandosi in mezzo al marciapiedi e piantando una mano sul fianco, prendendo a battere ritmicamente un piede per terra, del tutto dimentico dei propri propositi riguardo al non dare nell’occhio.
- Davvero? – ridacchiò Anis, dall’altro lato della cornetta, - Non mi pare. Piuttosto, credo sia tu quello in ritardo, perché io sono dal lato della strada opposto rispetto a quello in cui stai andando.
- Sei già qui? – chiese immediatamente lui, illuminandosi all’improvviso e stringendo il telefono con entrambe le mani, come per paura che l’emozione potesse portarlo a lasciarlo cadere, - Perché non mi hai chiamato subito?
- Perché volevo guardarti, per un po’. – rispose lui, la voce soffice, eppure un po’ roca, quasi allusiva, - Volevo guardarti per bene.
- Anis! – lo richiamò Bill, a bassa voce, fingendo di essere arrossito per l’imbarazzo quando tutto ciò che rendeva più calda la sua pelle era pensare che di lì a poco sarebbe stata sfiorata da lui, - Sei terribile.
- E ti piaccio per questo. – rise lui. Bill si lasciò andare ad uno sbuffo intenerito, voltandosi intorno e fermandosi solo una volta che ebbe individuato la BMW nera parcheggiata di fianco al marciapiedi di fronte.
- E per un sacco di altri motivi. – aggiunse in un soffio, interrompendo la chiamata e riponendo il telefono nella borsa, prima di avviarsi nella sua direzione.
*
- Il presidente – attaccò Frank, mentre David approfittava dell’assenza di una webcam in camera propria per roteare gli occhi, annoiato, - non è affatto contento, David.
- Mi rendo conto. – disse, cercando di fare in modo che il suo tono sembrasse quanto più contrito possibile, - Mi dispiace enormemente, ma Bill—
- Il ragazzo va tenuto sotto controllo. – insistette Frank, aggrottando le sopracciglia, immobile dietro la propria scrivania, tanto fermo da sembrare finto, - Questa sua… relazione con Bushido è sulla bocca di tutti. Non possiamo permettercelo. Non è per questo che siamo stati nominati responsabili di questa questione, e tu dovresti saperlo bene.
- Lo so, infatti. – ribatté David, incrociando le braccia sul petto, irritato, - Sono pienamente consapevole delle mie responsabilità, così come dei miei compiti. E sto facendo tutto il possibile.
- Ebbene, non è abbastanza! – berciò l’uomo, battendo un pugno contro il tavolo nel primo movimento in cui si produceva da quando la sua conversazione con David aveva avuto inizio. – Insisti. Sii più convincente. Per gli dei, rinchiudilo a doppia mandata in camera con suo fratello, se devi! Ti rendi conto di cosa stiamo rischiando? E non parlo di te e me, parlo dell’intero cosmo, David!
- Lo so! – si permise di alzare la voce a propria volta, nonostante Frank gli fosse superiore sia in quanto ad età che in quanto a grado all’interno dell’Organizzazione, - Credi che non sappia a cosa stiamo andando incontro, o che non riesca nemmeno a guardarmi attorno? I maremoti, le trombe d’aria, la terra si sta sgretolando sotto i nostri piedi e ne sono perfettamente consapevole, Briegmann!
- E allora – gli rispose lui, gelido, - non dirmi che stai facendo il possibile. Di’ che ti spiace di non aver ancora fatto abbastanza. – concluse, prima di interrompere la videochiamata.
David rimase a fissare lo schermo del portatile con aria sconvolta, per parecchio tempo. Alle volte ignorava cosa s’aspettassero da lui— le scritture parlavano chiaramente: doveva essere amore perché i Prescelti potessero assurgere al divino. La loro unione doveva essere spontanea, intensa e passionale, nessuno poteva forzarla ad avere luogo, o ne avrebbe contaminato la purezza. L’Organizzazione esisteva per preservare i gemelli, per prendersene cura, per rivelare loro la verità al momento più opportuno e per istruirli sul da farsi quando il loro destino avrebbe dovuto compiersi, ma non poteva avere ragione dei loro desideri, erano quei desideri che avrebbero dovuto avere ragione di tutto il resto.
Quando sentì bussare alla porta, si prese solo pochi secondi per spegnere il portatile ed inspirare profondamente, prima di chiedere chi fosse. Il solo sentire la voce di Tom rese più pesante che mai il macigno che portava sulle spalle. Contrito ed amareggiato, lo accolse all’interno dell’ufficio con un sorriso mesto.
- Scusa, Dada. – sospirò Tom, visibilmente abbattuto, - Ti disturbo?
- Lo sai che tu non mi disturbi mai. – gli sorrise conciliante, chiudendosi la porta alle spalle mentre lo osservava girare un po’ per la stanza, prima di andarsi ad abbattere esausto sul divanetto poggiato alla parete, gettando gambe e braccia ovunque nel tentativo di accomodarsi più possibile. – È successo qualcosa?
Tom gli lanciò un’occhiata brevissima e incerta, prima di tornare a fissare la punta delle proprie scarpe come l’inizio e la fine dell’universo fossero posizionati esattamente lì – e non sapendo quanto un pensiero simile potesse essere vicino alla verità.
- È andato di nuovo con Bushido. – confessò alla fine, sospirando ancora, - Non sono riuscito a fermarlo. Né a dirglielo.
David sospirò a propria volta, andando a sedersi al suo fianco e poggiandogli una mano sulla spalla in una carezza consolatoria. Tom era, per certi versi, il loro splendido capolavoro. Era cresciuto esattamente come loro l’avevano voluto, forte e maschio e coraggioso e soprattutto perdutamente innamorato del proprio fratello, fin da tempi immemori, al punto che, quando aveva preso il coraggio a quattro mani ed aveva confessato i propri sentimenti a David, lui aveva faticato a non sorridere e trattenersi dal dargli un buffetto sulla guancia, rispondendo qualcosa di estremamente sciocco come “e dove sarebbe la novità?”.
Non c’era nessuna novità, in effetti: il presidente Larsen, che aveva sempre osservato i gemelli da lontano, ma anche da più vicino di quanto non si potesse sospettare, aveva capito fin dall’inizio che Tom sarebbe stato il primo a rendersi conto del proprio sentimento. “C’è qualcosa nei suoi occhi,” aveva detto a David, dopo una delle sue numerose visite ad Amburgo, ufficialmente per controllare il lavoro dei Tokio Hotel ed ufficiosamente per verificare che tutto stesse muovendosi come previsto, “C’è qualcosa nel modo in cui brillano quando parla del fratello. È qualcosa che Bill non ha ancora,” aveva aggiunto con preoccupazione.
In quel tempo, David era ancora giovane, pieno di fiducia nella propria missione, e soprattutto Bushido non si era ancora fatto abbastanza vicino da rappresentare una minaccia per tutti i loro piani, motivo per il quale nell’occasione specifica aveva sorriso e si era premurato perfino di rassicurare il presidente con parole cariche di fiducia. “Non si preoccupi, Herr Larsen,” aveva detto orgoglioso, “È solo questione di tempo. Presto ogni tassello troverà il suo giusto incastro.”
“Di questo non dubito, David,” aveva risposto Larsen con un sorriso sottile, “Non ho mai dubitato.”
David aveva capito solo molto tempo dopo che la fede di Larsen era qualcosa di molto più concreto rispetto alla propria. Larsen non poteva avere dubbi perché, qualora anche qualcuno si fosse presentato, l’avrebbe spazzato via in favore del bene superiore che era stato incaricato di proteggere – un bene superiore del quale non puoi rifiutare la responsabilità.
La sua fede, invece, aveva perso forza quando quel bagliore che Larsen tanto apprezzava negli occhi di Tom era germogliato precipitosamente anche in quelli di Bill, ma rivolto ad un uomo che non era suo fratello, e che anzi era quanto di più distante da lui potesse esistere al mondo.
“La fede,” gli aveva detto Frank durante una delle sue paternali, leggendo direttamente da una missiva a lui indirizzata ed inviata dal presidente Larsen in persona, “è una cosa degli uomini, non degli dei. Gli dei non possono che esistere, ma sono gli uomini a dover costruire ciò in cui credono, con le loro mani. Noi siamo i creatori dei nostri dei, David. Vedi di non dimenticarlo. Noi siamo i nostri dei.”
Questo era un insegnamento che in lui non aveva mai attecchito davvero. La sola idea di poter plagiare un corpo celeste intriso di divinità come era quello di Bill per piegarlo al volere degli uomini lo disgustava, il solo pensare che l’organizzazione di cui faceva parte potesse pensare a forzarlo come metodo per ottenere ciò che s’era prefissa gli dava i brividi dall’orrore. La conclusione alla quale era giunto, riflettendo molto a lungo, era stata che se i Prescelti non erano in grado di trovarsi, forse era perché i Divini non volevano. O perché i ragazzi non erano ancora pronti. O per chissà quale altro motivo, non era comunque importante abbastanza quanto la devastante consapevolezza che una cosa che era sempre andata a posto autonomamente nei secoli, per la prima volta da che l’uomo era al mondo rischiava di non potersi concretizzare se non con una decisa spinta da parte dell’uomo stesso.
Era una consapevolezza agghiacciante: David non poteva fare a meno di pensare che era triste che l’uomo fosse abbandonato a se stesso al punto da dover pensare da sé perfino per chi invece avrebbe dovuto pensare per lui.
- Non è colpa tua, Tom. – gli disse, cercando di sorridere conciliante, - Conosci tuo fratello, sai che non è facile fermarlo.
Tom mugolò un assenso indefinito, prima di sottrarsi alla sua carezza come la sua mano fosse stata incandescente e prendere ad aggirarsi per la stanza come un’anima in pena, lo sguardo perso e le sopracciglia corrugate, le labbra strette e sottilissime, acconciate in una smorfia colma d’ansia.
- Ci sto male. – disse, passandosi una mano sugli occhi ed appoggiandosi stancamente alla parete, - Tutta questa cosa, David, suona troppo male. È troppo sbagliata. Voglio dire, dev’esserci un motivo per cui la legge t’impedisce di innamorarti di un consanguineo tanto stretto, no? Probabilmente è solo sbagliato e basta.
- Ne abbiamo già parlato, Tom. Non è sbagliato solo perché sei innamorato di qualcuno che è anche tuo fratello. – disse David, alzandosi in piedi e facendo appello a tutte le proprie forze per non aggiungere “però sembra sbagliato perché ti fa tanto male”.
- Ma che discorso è?! – scattò subito Tom, lasciandosi scivolare lungo la parete fino a ritrovarsi praticamente seduto per terra, le braccia molli appoggiate alle ginocchia, - Forse dovrei semplicemente dimenticarmene. D’altronde, è stato mio per un sacco di anni. Ho potuto stargli vicino come nessun altro, ed il nostro tempo… forse è semplicemente finito.
David chiuse gli occhi, passandosi una mano fra i capelli. Se il loro tempo era finito, allora lo era anche quello del mondo intero.
Si accucciò al suo fianco, accarezzandogli la testa, quasi divertito dal solletico che il profilo delle treccine causava al palmo della sua mano.
- Sei un ragazzo forte, Tom. – gli sorrise, - Solo tu puoi scegliere cosa vuoi per te stesso. È un diritto che ti sei meritato.
Tom lo guardò e si sforzò di sorridergli a propria volta, ma aveva gli occhi lucidi.
- È un modo non troppo invadente per dirmi che non è il caso di arrendermi? – chiese, e poi si lasciò andare ad una risata vagamente amara, - Ti rendi conto che è mio fratello, David? Cosa posso fare se viene e mi dice di essersi innamorato di un’altra persona? Al di là del fatto che questa persona sia Bushido, poi… io non ho diritti, su di lui.
- Ed è appunto quello che stavo dicendoti. – insistette lui, lasciando scivolare la mano sulla sua spalla e stringendo la presa in una carezza colma di rassicurazione, - Non ne hai su di lui, ma ne hai su te. Tom, nessuno – cominciò, e si prese una pausa perché ciò che stava dicendo avrebbe potuto metterlo presto in guai ben più grossi di quelli in cui già non si ritrovava, - nessuno può obbligarti ad amare qualcun altro. Se non—
- Io sono innamorato di Bill! – ribatté Tom, scattando in piedi come una bestia ferita cui fosse appena stato rigirato un dito nel taglio aperto, - Io non… non posso improvvisamente smettere, non funziona così, David! È dentro di me da così tanto tempo che… - si morse un labbro, pensieroso, - Sono un essere umano, Dada, non posso… non ho diritti neanche su me stesso.
Ancora accucciato ai suoi piedi, David sollevò gli occhi nei suoi e pensò alla propria condizione ma anche alla sua. Era inspiegabile, inaccettabile, che un essere come Tom, uno dal quale dipendeva il futuro del globo, ma che sarebbe stato altrettanto importante e sarebbe valso allo stesso modo anche se fosse stato un uomo comune, potesse pensare cose simili. Potesse sentirsi così triste, abbandonato ed impotente.
Si alzò in piedi, poggiandogli una mano sulla spalla e massaggiando piano.
- Tom, ascoltami. – cominciò, fermamente intenzionato a rivelargli tutto, ma Tom lo scostò con un movimento brusco, allontanandosi di qualche passo, dapprima confusamente e poi con maggiore decisione, verso la porta.
- No, non mi va di ascoltare altro. – disse cupo, scuotendo il capo. – E… non… non toccarmi sempre così tanto. – aggiunse incerto, cercando i suoi occhi come volesse essere sicuro di non avergli fatto troppo male dicendolo, - È strano. Mi… - si morse un labbro e distolse lo sguardo. – Lasciamo perdere, non farlo e basta. – concluse, prima di uscire dalla stanza senza una parola di più.
David non provò a fermarlo, ed accolse quasi con gioia la sua decisione di andarsene, perché se fosse rimasto, se l’avesse fatto parlare, probabilmente nient’altro sarebbe riuscito a impedirgli di combinare un disastro che avrebbe avuto incalcolabili ed imprevedibili quanto drammatiche conseguenze. Abbassò lo sguardo sulla propria mano, studiò la punta delle proprie dita e cercò d’ignorare il calore che ne divampava. Non ricordava di aver letto da nessuna parte di un Guardiano la cui pelle bruciasse al solo sfiorare la pelle di un Predestinato. Il suo guaio, ammise con una certa preoccupazione, era perfino più ampio di quanto immaginasse.
*
All’inizio, era stata solo frizione. Non qualcosa di esclusivamente sessuale, non era solo uno sfregamento, non era così definito né così circoscritto, ma era questo, in definitiva: frizione. Li aveva accompagnati ogni volta che si erano incontrati, e non era stata nemmeno una conseguenza dovuta al frequentarsi o all’uscire insieme: c’era stata già da prima. Era stata lì da sempre, per tutto il tempo, come un istinto – con la stessa indisponente e ineludibile forza rabbiosa e magnetica.
Era frizione. Era così ancora prima che si conoscessero.
La prima cosa Bill aveva sentito quando, in quel video su YouTube, lo aveva sentito parlare di lui in termini che non avrebbe permesso nemmeno ad un amico di vecchia data, erano state le scintille. Non erano state piacevoli – era stato un misto di fastidio e rabbia e orgoglio in frantumi: lui, che dell’essere orgoglioso di ciò che era aveva fatto una religione – ma erano state scintille. Le aveva sentite sfrigolare nel centro del petto e poi farsi strada con le unghie lungo la gola, fino a bruciare sulla lingua e dietro agli occhi. Scintille, né più né meno. Ed era in fondo questo ciò che comporta la frizione: scintille. Se l’era sentite scoppiettare addosso, come le bollicine di una bevanda frizzante.
Era una sensazione che non l’aveva abbandonato per un sacco di tempo. Bushido aveva continuato a parlare pubblicamente di lui come non potesse impedirselo, e lui allo stesso modo aveva continuato a sentire le scintille. Era stata frustrazione, principalmente. Bushido, d’altronde, stava senza ombra di dubbio giocando, e Bill non era riuscito a trovare il modo di ribattere o di farsi valere. Era rimasto lì a subire. E bruciare.
Tom non era stato in grado di aiutarlo, né in quel momento specifico né successivamente. Nel momento specifico, era rimasto a guardare la TV al suo fianco e poi l’aveva osservato impotente alzarsi in piedi e cominciare a urlare minacce vuote contro uno schermo spento. E successivamente non aveva saputo cosa dirgli, dal momento che non sembrava capace di fare altro che ripetere ciò che lui stesso era già stato bravissimo a definire. Cose come “lo odio, è un individuo disgustoso, mi irrita”. Era facile dargli ragione, più difficile trovare un modo di aiutarlo a dare sfogo a tutta quella rabbia repressa.
Aveva dovuto pensarci Bushido, in buona sostanza: s’erano incontrati ai Comet qualche tempo dopo, ed erano riusciti a mantenere una parvenza di decenza solo fino all’afterparty; durante la premiazione avevano fatto i simpatici, giocato secondo le regole, ma era stato quando finalmente si erano ritrovati faccia a faccia, liberi di discutere la questione come meglio preferivano, che quella bolla di energia elettrica che li circondava era come esplosa. Non erano riusciti nemmeno a scambiarsi qualche parola, la prima cosa che Bushido aveva fatto dopo averlo avvicinato era stata spingerlo contro il primo angolo d’ombra trovato in fondo alla stanza e baciarlo. E Bill non aveva mai, neanche per un secondo, pensato di rifiutargli quel bacio. La sua lingua era rovente, così come le sue mani sui suoi fianchi, sotto la camicia nera troppo corta a leggera per poter rappresentare davvero una copertura, soprattutto se sommata ai jeans portati tanto bassi da rasentare la volgarità.
Mentre Bushido lo baciava, strappandogli l’aria dai polmoni e il cuore dal petto, tanto faceva fatica a respirare e tanto forte e concitato era diventato il suo battito cardiaco, Bill s’era chiesto distrattamente se per caso non fosse esattamente questo il tipo di sfogo di cui aveva bisogno, se non fosse questo quello che aveva sempre voluto da quell’uomo, fin dal primo momento in cui aveva sentito il suono della sua voce.
Poi, il bacino di Bushido s’era scontrato contro il suo, e lui aveva smesso di pensare.
“In bagno,” gli aveva detto, “adesso,” e non aveva aspettato più di un altro secondo per trascinarlo per un polso lungo i corridoi scuri del locale, sperando che il bagno fosse comodo, pulito e soprattutto sgombro di fastidiosi ostacoli pronti a frapporsi fra lui e ciò che voleva. E non aveva nemmeno idea di cosa fosse, perché era un ragazzino, perché era eccitato, perché era stupido, perché non riusciva nemmeno a pensare a cosa fare, a dove fermarsi, o comunque da dove partire; perché la risata di Bushido, dietro le sue spalle, lo stordiva e lo confondeva, e tutto ciò che riusciva a realizzare con chiarezza era che voleva sentire nuovamente addosso il sapore delle sue labbra, il calore delle sue mani, lo sfrigolare dell’energia elettrica che scaturiva da ogni singolo sfregamento della sua pelle contro la propria.
Bushido l’aveva guardato sorridendo strafottente, quando s’era chiuso la porta alle spalle.
“Non sai cosa stai facendo,” gli aveva detto, prima di avvicinarglisi e schiacciarlo contro un lavandino. “Fortunatamente, nemmeno io.”
Bill non avrebbe mai potuto spiegare quello che successe quella notte con qualcosa di diverso rispetto a “ho sentito tutto scivolare naturalmente al proprio posto”, che poi erano state le parole con cui, successivamente, aveva raccontato l’accaduto a Tom, Georg e Gustav, guadagnandosi una serie di risatine divertite da parte degli ultimi due ed uno sguardo parzialmente confuso e parzialmente preoccupato da parte del primo.
Eppure, per quanto Georg e Gustav potessero faticare a capire, e per quanto Tom si rifiutasse con tutte le proprie forze di ammettere che quanto stava accadendo era reale, ed era bellissimo, era proprio così che era andata. Bill non avrebbe saputo neanche ricordare se avesse fatto male – sicuramente era stato così, ma il dolore doveva essersi perso da qualche parte sulle labbra di Anis, intente a lenirlo in baci brevi, soffici e umidi, mentre le sue mani tracciavano disegni invisibili sulla sua schiena e sul suo ventre sudati, prima di scendere ad accarezzarlo fra le cosce e fra le natiche, dandogli alla testa come una droga.
E le scintille non avevano mai smesso di sfrigolare. Era una sensazione straniante, quel calore diffuso, bruciante e quasi fastidioso che lo ricopriva intensamente come si trovasse sotto una pioggia di fuoco, ogni volta che Anis lo toccava. E per quanto potesse suonare sconveniente, soprattutto sulle labbra di uno che, come lui, aveva sempre parlato di aspettare il vero amore e conservarsi vergine finché non fosse stato il momento giusto e via così, c’era da ammettere che lui ed Anis stavano insieme principalmente per quello, per il calore, per il fuoco, per la sensazione totalizzante, bellissima e spaventosa di volersi strappare la pelle di dosso a morsi ogni volta che scopavano, per cercare al di sotto e vedere se anche così bruciava ancora.
Poi, sì: stavano bene insieme, Bill si sentiva felice ogni volta che riusciva a farlo ridere o a convincerlo ad interessarsi di qualcosa che, non fosse dipeso da lui, non avrebbe considerato neanche per sbaglio, e si sentiva orgoglioso di se stesso e di quanto aveva ottenuto ogni volta che Anis gli sussurrava un “ti amo” improvviso e non richiesto, ma principalmente, alla base, era il fuoco a tenerli vivi. Il loro amore si consumava in una fiamma enorme ed eterna, e Bill, dopo tre anni, stava cominciando a credere che, contro tutti i principi della fisica, non si sarebbe mai esaurito.
Drenato come ogni volta, si lasciò ricadere al fianco di Anis, tanto vicino da poterlo comunque continuare a sfiorare ad ogni respiro, e rise un po’, completamente a corto di fiato.
- Non riuscirò mai a tornare in tempo. – commentò divertito, - David mi farà una paternale delle sue.
- E allora resta. – disse Anis, e sorrideva anche lui, girandosi sulla pancia ed imprigionandolo fra le sue braccia. La sua pelle era caldissima e Bill si sentì avvampare all’improvviso sentendolo strofinarsi inavvertitamente contro di lui. – Oggi, domani, quanto vuoi. Resta, una buona volta, sono stufo di questo andirivieni, e anche di doverci comportare come fossimo due criminali.
- Be’, tecnicamente tu mi hai scopato quand’ero ancora minorenne, per cui… - rise Bill, direttamente sulle sue labbra, un attimo prima che Anis lo zittisse con un altro bacio.
- Tecnicamente, – gli fece il verso lui, - se non ti avessi spogliato io, mi avresti strappato tu i vestiti di dosso, per cui
Bill rise ancora, allungando le braccia fino a stringerlo al collo e godendo della sensazione di protezione mista a tenerezza di cui tutti i suoi abbracci lo riempivano.
- Non posso restare, lo sai. – gli disse all’orecchio, strofinando il naso contro il suo collo, - Ma ci rivedremo presto.
- Promesse, promesse. – rise Anis, allungando una mano a stringere una delle sue e baciandone lievemente il dorso e poi il palmo, prima di guardarlo negli occhi, - Non ti posso domare in alcun modo, vero?
Bill sorrise furbo, strizzando gli occhi fino a renderli sottili come quelli di un gatto.
- Il fuoco non lo domi, lo spegni e basta.
Anis lo baciò col preciso intento di ricordargli per l’ennesima volta che si sarebbe guardato bene dal farlo.
*
Quando rientrò in camera propria ed accese la luce, Bill portò una mano al petto ed indietreggiò spaventato nello scorgere una figura seduta sul letto intenta ad aspettarlo. Ci mise effettivamente un po’ – il tempo di lasciare che i suoi occhi potessero abituarsi alla luce, dopo aver fatto al buio tutto il tragitto dalla porta di casa a quella della sua stanza – a riconoscere in quella figura suo fratello.
- Cos’è, adesso la mia sola vista ti terrorizza? – chiese Tom con un sorriso mesto, sistemandosi un po’ a disagio sul bordo del letto.
- Che sciocchezze. – borbottò Bill, scalciando lontano le scarpe e gettandosi sul letto al suo fianco, non prima di averlo salutato con un bacio sulla guancia, - Solo che non mi aspettavo di trovarti qui. Non riesci a dormire?
- Già. – rispose Tom, sistemandosi con la schiena contro la testiera mentre Bill tirava via pantaloni e maglietta e li lanciava alla rinfusa in giro per la stanza, sperando di prendere al volo qualche poltrona o, al massimo, la scrivania, - Hai sentito del vulcano?
- Mmhn? – chiese lui, passandosi le mani fra i capelli per scioglierli un po’, - No, non so niente. Che è successo?
- Un vulcano islandese, - scrollò le spalle Tom, - Eyaqulcosa, ha eruttato dopo tipo uno sproposito di anni. Un disastro, ci sono i cieli di mezza Europa completamente intasati dalla cenere. Non si muove un aereo neanche se lo comanda Dio in persona.
- Scherzi? – spalancò gli occhi Bill, mettendosi a sedere e recuperando le lenzuola da sotto il proprio corpo, per potersi coprire, - Ma che diavolo sta succedendo al mondo? Ogni giorno ce n’è una.
- Sì, vero? – rise Tom, sollevandosi appena perché suo fratello potesse coprirsi per bene, - Magari i Maya avevano sbagliato qualche conto. O forse hanno trascritto male ed hanno trasformato uno zero in un due, e moriremo tutti nel giro di due giorni.
- Altre sciocchezze. – ridacchiò Bill, - Io non intendo morire prima di essermi magicamente trasformato in Brian Molko, mi spiace. – osservò Tom ridere ed alzarsi in piedi, palesemente intenzionato a lasciarlo solo, e non poté fare a meno di allungare un braccio e trattenerlo, tirandolo per la manica dell’ampia camicia a scacchi che indossava. – Resti? – chiese, inarcando le sopracciglia verso il basso. Tom lo guardò per qualche secondo come non l’avesse mai visto prima, ma alla fine si decise a sfilare le scarpe e sistemarsi sul letto al suo fianco, permettendogli di prendere posto sul suo petto come erano abituati a fare anni prima, quando ancora Bushido non era entrato nelle loro vite e tutto poteva dirsi considerevolmente più facile. – Dici che a noi sta succedendo la stessa cosa che sta succedendo al mondo, Tomi? – chiese con un filo di voce, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- …in che senso? – chiese lui, guardando il soffitto ed accarezzandogli lentamente i capelli corti sulla nuca.
- Ci stiamo disintegrando come si sta disintegrando la Terra? – insistette lui, gli occhi ormai semichiusi ed il corpo pesante, già quasi per metà scivolato nel sonno.
- Questo mai, Billi. – lo rassicurò Tom, stringendo involontariamente i denti e, più volontariamente, la sua presa attorno al suo corpo, in un abbraccio affettuoso. – Te lo giuro. Noi non ci disintegreremo mai.
*
L’unica certezza inoppugnabile della sua esistenza era sempre stata Bill. Questa era la spaventosa realtà di Tom, una realtà dalla quale trovava impossibile fuggire. C’erano state delle ragazze – c’erano state numerose ragazze – ma nemmeno una di loro era riuscita a durare abbastanza da offuscare anche solo in minima parte la spinta quasi animalesca e irrazionale che Tom aveva sempre sentito nei confronti del proprio fratello.
Era riuscito per parecchi anni ad ignorare il risvolto puramente fisico di quella spinta, il desiderio che provava quasi continuamente di mettergli le mani addosso, sentire il suo corpo cambiare forma, temperatura e colore sotto le sue dita. Per parecchio tempo era davvero stato convinto di essere solo un fratello un po’ troppo possessivo, un po’ troppo appiccicoso, un po’ troppo affezionato, forse, e niente di più. E fino a quando suo fratello non era stato suo ma nemmeno di nessun altro, aveva potuto continuare a crogiolarsi in quell’illusione, cullato dalle menzogne che raccontava a se stesso e sempre vicino al suo profumo rassicurante, al calore del suo corpo e al bagliore dei suoi sorrisi.
Quando Bill aveva deciso di donarsi a Bushido, però, qualcosa era esploso nel centro del suo petto. Era stato come se qualcuno lo avesse squarciato in due per prendergli il cuore, spremerne il sangue e poi rimetterlo a posto drenato, asciutto ed ormai del tutto inutile. A pensarci, alle volte, si sentiva mancare il respiro: nulla l’aveva debilitato quasi fisicamente quanto non avesse fatto il sentirsi per la prima volta derubato di qualcosa, come quando suo fratello gli aveva detto di essersi innamorato di un altro.
Sarebbe stato impossibile sopportare da solo una cosa del genere, il dolore devastante che lo scuoteva tutto ogni volta che la chiara consapevolezza del corpo di suo fratello fra le mani grandi ed abili di Bushido arrivava a schiaffeggiarlo, che fosse sveglio o in sogno. Era stato per questo motivo che era semplicemente crollato ed aveva vuotato il sacco con David, solo per questo. Fosse stato abbastanza forte, avrebbe nascosto la verità al mondo intero e si sarebbe portato il segreto nella tomba, ma evidentemente non lo era abbastanza.
David era l’unico che lo sapesse, l’unico al quale avrebbe mai potuto pensare di poter confessare una cosa simile. Era davvero stato quasi come un terzo padre, per loro, posto che il primo lo ricordava a malapena – non perché fosse stato esattamente assente, quanto più perché non aveva davvero rappresentato una parte attiva della loro vita – ed il secondo era stato molte cose – un compagno per mamma, un insegnante di chitarra, un cretino col quale scherzare fino a notte fonda quando non aveva voglia di dormire – ma decisamente non un papà. David era una figura rassicurante, uno dal quale si sarebbe volentieri fatto abbracciare per darsi un po’ di tregua e smetterla, almeno per qualche secondo, di sentirsi così dannatamente solo contro l’intero fottuto universo in rivolta.
Era anche per questo che quello che stava succedendo ultimamente fra loro era così disturbante. Non che qualcosa fosse cambiato, nei fatti – anzi: per dirla proprio tutta, era cambiato molto più il rapporto che lo legava a suo fratello rispetto a quello che continuava a legarlo a David – era una questione di sensazioni. Non puoi stare davvero accanto a qualcuno in grado di metterti a disagio con un solo sguardo. Non puoi lasciare che ti abbracci quando ogni volta che ti tocca hai l’impressione che le sue dita ti lascino un marchio a fuoco sulla pelle. Era una sensazione straniante, troppo fisica per loro due, che non avevano mai diviso più che qualche amichevole pacca sulle spalle e qualche altrettanto amichevole sguardo d’intesa. Tom aveva paura di dove quelle nuove sensazioni potessero portarlo, soprattutto dal momento che, senza più Bill costantemente al proprio fianco, si sentiva come una barca a riva ma senza ancora. Salvo, ma chissà ancora per quanto.
*
Le visite di Larsen ai loro studi di produzione non erano certo frequenti, ed ancora più rare in effetti erano le volte in cui, avvisando o meno, s’era presentato al loro appartamento.
I ragazzi stavano registrando qualche demo, quando una delle segretarie di David bussò discretamente alla porta, chiedendo di essere ricevuta. David l’ascoltò silenziosamente informarlo che Herr Larsen era appena arrivato in tutta fretta e chiedeva insistentemente di parlare con lui.
Bill, oltre il doppio vetro della sala d’incisione, non si accorse di niente, continuando a cantare senza fermarsi mentre invece Tom, Georg e Gustav, svaccati senza ordine sull’ampio divano di fronte all’impianto di missaggio, spostarono immediatamente l’attenzione su di lui, mostrando subito evidenti segni di preoccupazione.
- C’è qualcosa che non va? – chiese Georg, raccogliendo i capelli ed allontanandoseli dal collo e dalle spalle per ovviare almeno in parte al caldo che attanagliava la saletta. – È strano che non abbia chiamato, prima.
- È tutto a posto. – lo rassicurò David con un sorriso che rivolse prima a lui e poi anche a tutti gli altri, - Vuole solo assicurarsi che tutto stia procedendo come da programma. Vado, confermo e torno. Voi… - aggiunse, lanciando un’occhiata a Bill e sorridendo teneramente accorgendosi che non aveva ancora smesso di cantare, - siate un buon pubblico. – concluse con una risatina, prima di abbandonare la stanza.
Il suo volto subì un repentino cambio d’espressione quando si chiuse la porta alle spalle, ed anche l’incedere del suo passo si fece immediatamente più spedito. Era strano davvero che non avesse avvertito prima di presentarsi, e se la sua visita così improvvisa avesse avuto qualcosa a che fare con quanto era successo con quel vulcano in Islanda il giorno prima, allora David immaginava che quella di quel giorno sarebbe stata solo la prima di innumerevoli – e sempre più complesse – visite a sorpresa.
Quando entrò nel proprio ufficio, Larsen lo stava attendendo già seduto in poltrona, le gambe accavallate e le mani dalle dita intrecciate poggiate su un ginocchio. La sua espressione era dura e severa, i tratti del volto tesi e gli occhi macchiati di preoccupazione. David lo osservò inumidirsi le labbra ed alzarsi in piedi per porgergli la mano e poi trarlo a sé in un abbraccio cordiale ed affettuoso, prima di tornare a sedersi e sciogliere almeno in parte i muscoli tesi delle spalle e delle braccia, assumendo una posizione meno formale mentre quasi sembrava sgonfiarsi nel lasciare andare un sospiro contrito. Prese posto sulla propria poltrona al di là della scrivania, versando dell’acqua da una caraffa in uno dei due bicchieri approntati immediatamente al suo arrivo, e Larsen ne bevve un lungo sorso, prima di cominciare a parlare.
- David, la velocità con cui tutto sta accadendo lascia me per primo di stucco. – disse piano, la voce roca. Non doveva aver dormito granché bene, quella notte. O non doveva aver dormito affatto. – L’Eyjafjallajökull ha eruttato e il caos ha già cominciato a… - si fermò, inspirando ed espirando profondamente mentre appoggiava i gomiti alla scrivania e si prendeva la testa fra le mani, sconfortato.
- Herr Larsen, si sente bene? – chiese premurosamente David, riempiendogli nuovamente il bicchiere. Larsen sorrise mesto, sbuffando appena.
- Ho aspettato tanti di quegli anni, David. E sono diventato così vecchio. Stavo quasi cominciando a temere che nulla si sarebbe verificato sotto il mio mandato, lasciando tutto nelle mani di qualcuno più giovane e inesperto di me, ed invece, proprio alla fine… - sorrise ancora, prostrato. – Spero solo di riuscire a portare a termine il compito che i Divini hanno affidato a me e ad i miei pari prima di me. Ma per riuscirci, io ho bisogno della collaborazione di voi tutti.
- Sa che io sono sempre stato disposto ad aiutare, Herr Larsen. – annuì David, poggiandogli una mano sulla spalla, - Ho sempre fatto la mia parte in previsione dell’Avvento.
- E tutti siamo molto fieri di te, David. La nostra gratitudine è immensa. I saggi non hanno nessun dubbio riguardo la tua capacità di portare a termine il tuo compito di Guardiano. Ed io sono d’accordo con loro. – disse Larsen, sorridendogli orgoglioso. – È per questo che non ho alcun timore di dirti adesso che il momento è giunto, siamo anzi già in ritardo sui tempi. La profezia si sta già avverando, i gemelli devono unirsi e compiere il loro destino. Per quello che sappiamo, i Divini potrebbero essere sul punto di cadere, o essere già caduti.
- Herr Larsen… - David si passò una mano sul viso, inspirando profondamente, - Non possiamo.
L’uomo inarcò un sopracciglio, incerto.
- Come sarebbe a dire che non possiamo, David? – chiese, col tono di chi non vuole davvero una risposta, ma solo una marcia indietro. – Non potere non rientra fra le possibilità che ci è concesso avere. Se i ragazzi non sono ancora riusciti a trovarsi da soli, allora vanno spinti nella giusta direzione.
- È proprio quello di cui sto parlando. – obiettò David, le sopracciglia aggrottate. – Io ho studiato attentamente le scritture, Herr Larsen, e nulla di quanto è stato scritto dai grandi saggi passati parla di forzature, tutto si è sempre svolto con naturalezza. Il nostro compito dovrebbe essere solo di vegliare, non quello di indirizzare. – inspirò profondamente, incerto. – Sono creature divine, Herr Larsen, noi non possiamo—
- Credi di conoscere le scritture meglio di me, David? – lo interruppe Larsen, severo, - Io ho dedicato la mia vita a questa missione, e come me tutti gli altri prima di me. I tempi sono cambiati, duecento anni sono passati dall’ultima volta che i Divini sono caduti, allora la questione era del tutto differente. La nostra religione, così come il bilanciamento del karma universale da cui essa dipende, è mutevole, come il mondo. Non è preimpostata, non ci sono particolari che non possano cambiare. – i suoi occhi si fecero più cupi, scrutando quelli di David con gravità. – A parte uno. I gemelli devono unirsi ed assurgere al divino. O il mondo crollerà in una spirale di caos che lo devasterà.
David annuì pensoso, gli occhi bassi e le mani dalle dita intrecciate poggiate mollemente sul piano della scrivania. La loro presa si fece più forte, come volesse darsi coraggio da solo, un attimo prima di dare voce ai suoi dubbi.
- E se i loro sentimenti non andassero in questa direzione? – chiese a bassa voce, rifiutandosi di sollevare lo sguardo.
- Li obbligheremo a prenderla! – sbottò Larsen, battendo con furia un pugno sulla scrivania, - David, non lascerò certo che il mondo venga distrutto per i capricci dissennati di due sciocchi ragazzini che non sanno niente del perché sono venuti al mondo! E non permetterò nemmeno che sia tu a rovinare tutto. – si alzò in piedi, scrutandolo dall’alto. – David, un solo mio ordine e sarai rimosso dal tuo incarico di Guardiano. È questo che vuoi? Vuoi che i tuoi protetti, i ragazzi per cui hai vissuto fino ad ora, i ragazzi per cui sei stato istruito e di cui sei stato responsabile fino ad ora, vengano affidati a qualcun altro proprio nel momento più importante della loro vita?
- No, Herr Larsen. – rispose David fra i denti.
- Ottimo. – annuì lui, spiegando i pantaloni lungo le gambe e preparandosi ad andare, - Allora attieniti agli ordini che ti vengono impartiti.
David si morse l’interno di una guancia tanto forte da sentirsi pungere gli occhi.
- Quali sono gli ordini, Herr Larsen? – chiese ubbidiente, alzandosi in piedi a propria volta. Larsen sorrise, soddisfatto.
- I nostri indovini percepiscono degli squilibri profondi nel karma. – annuì pensieroso, - La storia fra Bill e quel Bushido sta rimescolando tutte le carte in tavola, e il karma stesso sta cercando di riportare tutto al proprio posto annullandosi. Questo, naturalmente, - sospirò stancamente, - implica l’entrata in scena di nuove figure che possano fungere da elementi di disturbo all’interno della relazione fra quei due.
- …nuove figure? – chiese David, arrischiandosi finalmente a sollevare lo sguardo ed inarcando un sopracciglio curioso.
- Gli indovini non sono ancora riusciti ad avere visioni chiare, sulla faccenda. – sbuffò Larsen, scrollando le spalle, - Parlano di dragoni, vedono maremoti e poi fuoco e fiamme, ma non sappiamo se le cose possano essere correlate o se non si tratti magari di ulteriori segnali ad annunciare la caduta dei Divini. – sospirò, tornando a sorridere più calorosamente. – Gli ordini sono di tenere i ragazzi lontano da qualsiasi cosa possa turbarne l’unione o metterne a rischio l’incolumità, al momento. Vedi? – ridacchiò appena, - Non è necessario che tu li forzi ad unirsi subito. Basterà tenerli in casa per qualche giorno, almeno finché le visioni degli indovini non si saranno fatte più chiare. D’accordo?
David sospirò, annuendo lentamente.
- D’accordo.
*
Cercando di fare il più silenziosamente possibile, Bill finì di ingioiellarsi e diede un ultimo tocco al trucco che gli adornava gli occhi. Spazzolò i capelli, appiattendoli ai lati della testa, ed infilò cappuccio ed occhiali da sole, prima di gettare uno sguardo fuori dalla finestra ed osservare i cupi nuvoloni che si stavano addensando velocemente sopra quella parte della città, spinti dal vento feroce che scuoteva gli alberi e s’infilava fischiando sinistro attraverso gli spiragli degli infissi.
- Se stessi per uscire, ti consiglierei di mettere una sciarpa. – disse Tom all’improvviso. Spaventato, Bill si voltò a guardarlo con uno scatto repentino, portando una mano al cuore.
- Tomi! – borbottò, - Non provare mai più a spuntarmi alle spalle così senza preavviso. – lo rimproverò, allungando una mano a recuperare la sciarpa poggiata sullo schienale della sedia. – E come sarebbe a dire “se stessi per uscire”? Sto per uscire.
- Sì, - rise piano Tom, ma la sua non era una risata di scherno. Sembrava solamente stanca e un po’ delusa. – magari uscire è quello che vuoi, ma dubito che tu ci riesca. Ci sono guardie del corpo appostate ovunque. Armate.
- Arm— - Bill spalancò gli occhi, affrettandosi a raggiungere suo fratello sulla soglia della porta e sbirciando i corridoi all’esterno per verificare che non lo stesse prendendo in giro. E non lo stava facendo. – Ma che diamine— perché? – chiese quindi, tornando a chiudere la porta e guardando Tom dritto negli occhi.
Lui scrollò le spalle, guardando immediatamente altrove.
- Non lo so, di preciso. – rispose vago, - David ha parlato di minacce di qualche fan invasata. Ha detto che per stasera è meglio restare in casa, uscire sarebbe pericoloso.
- …fan invasata? – chiese Bill, inarcando un sopracciglio, - Io non ho ricevuto minacce di nessun tipo. Tu?
- Nemmeno io. – disse Tom, scuotendo il capo, - Ma magari hanno intercettato la corrispondenza. Leggono sempre prima tutto.
- Ma mi sembra— voglio dire, che razza di storia è? – continuò a borbottare Bill, recuperando il cellulare e componendo celermente un numero, - Non ci sono stati avvertimenti, e nemmeno una riunione per comunicare il pericolo… cos’è, siamo chiusi dentro a tempo indeterminato e basta? Che stronzata!
- Si tratta solo di stanotte, Bill. – sospirò Tom, paziente, - In via precauzionale. Che stai facendo?
- Chiamo Anis. – rispose lui con una smorfia, interrompendo la chiamata dopo svariati squilli senza risposta e riprovando, - Dovevamo vederci.
- Oddio, Bill, potrete pure restare una serata lontani l’uno dall’altro senza impazzire. – sbuffò Tom, roteando teatralmente gli occhi e lasciandosi ricadere sul letto del fratello.
- Sta’ un po’ zitto, Tomi. – sbottò Bill, mordicchiandosi il labbro inferiore e provando a richiamare per la terza volta, - Qui c’è qualcosa che non va.
- Mh? – biascicò Tom, sollevando lo sguardo e fissandolo con curiosità, - Che succede?
Bill sospirò pesantemente, riponendo il cellulare sul comodino e guardando ansioso fuori dalla finestra, mentre la pioggia, pesante, cominciava a cadere.
- Non risponde.
*
Anis osservò il cellulare squillare per la terza volta a lungo, gli occhi fissi sullo schermo, e solo quando smise, sperando che non ricominciasse presto, lo ripose nella tasca posteriore dei jeans, tornando a prestare tutta la propria attenzione all’uomo che aveva di fronte. Era strano – e straniante – pensare a Fler in quei termini, visto che l’aveva conosciuto da ragazzino ed anche quando aveva piantato l’Aggro Berlin, be’, non è che fosse cresciuto più di tanto – non è che lui gli avesse lasciato il tempo di farlo, d’altronde – perciò fissare gli occhi su quell’uomo adulto, alto e robusto e innegabilmente arrabbiato non era piacevole come invece avrebbe potuto essere ritrovarselo davanti identico a com’era l’ultima volta che l’aveva visto.
- Fler, non ho tempo da perdere. – disse stancamente, cercando di ignorare i suoi occhi infiammati di rabbia, - Non mi pare che tra noi sia cambiato qualcosa, rispetto a una o due settimane fa. Perché hai voluto vedermi?
Patrick si morse un labbro e poi digrignò i denti in una smorfia infastidita. Sembrò non avere nulla da dire, Anis poté quasi vedere questa consapevolezza scivolare dietro i suoi occhi chiarissimi e ne fu turbato.
- Ci sto pensando da un po’. – rispose quindi, avvicinandoglisi minaccioso, - Settimane. Mesi. Non saprei dirti.
- Aha. – annuì Anis, cercando di fingersi totalmente disinteressato a quanto stava accadendo lì e, soprattutto, a quanto doveva stare accadendo a Bill, che stava chiamandolo per l’ennesima volta in dieci minuti. – Quindi?
Patrick quasi ringhiò, le braccia rigide lungo i fianchi e i pugni stretti tanto da imbiancargli le nocche.
- Odio questo tuo atteggiamento. – commentò astioso, - Parli con tutti come se non dovessi rispondere di niente con nessuno.
- E non è così? – chiese Anis, inarcando un sopracciglio e reggendo il suo sguardo nonostante quanto si sentisse turbato dalla sua sola presenza lì. C’era qualcosa che non tornava negli occhi di Fler – che ricordava ancora limpidi come quando l’aveva trovato la prima volta solo e sperduto e minuscolo in un centro di assistenza sociale – qualcosa che non tornava nel suo desiderio così improvviso e immotivato di vederlo, qualcosa che non tornava nel fuoco che sentiva inspiegabilmente agitarglisi nel fondo dello stomaco, qualcosa che non tornava nei nuvoloni che si addensavano minacciosi sopra le loro teste e nella pioggerella fine che si abbatteva su di loro diventando man mano sempre più fitta e pesante. – Dovremmo rientrare. – disse a mezza voce, ed era difficoltoso sentirsi parlare sotto lo scroscio rumoroso della pioggia. Patrick dovette gridare, perché lui lo sentisse. E quando lo sentì, Anis preferì di non averlo mai fatto.
- No. – disse con una decisione talmente improvvisa e fuori luogo da farlo sembrare sotto ipnosi, o posseduto, - No, dev’essere qui. Bushido! – lo sentì strillare all’improvviso, un attimo prima di ritrovarselo addosso.
Riuscì a malapena a sollevare le braccia per frapporle fra se stesso e il suo corpo, frenando la sua avanzata, ma il colpo fu tale che si ritrovò in terra, fradicio e con le sue mani strette attorno al collo non più tardi di pochi secondi dopo.
- Ah… - annaspò a corto d’aria, piantandogli entrambe le mani sulle spalle ed agganciando una delle sue gambe con una delle proprie, per ribaltare le loro posizioni e liberarsi della sua presa, - Ma cosa cazzo ti prende?! – gridò, afferrandogli entrambi i polsi e bloccandoglieli contro il marciapiede ormai ridotto ad una pozza d’acqua.
- Deve finire oggi. – rispose Patrick, mentre un sorriso inquietante si allargava sul suo volto, - Deve finire oggi! – ripeté urlando e dimenandosi sotto il suo corpo fino a sbalzarlo lontano con uno strattone più forte degli altri. Incredibilmente più forte degli altri.
Anis si ritrovò a sbattere di schiena contro un palo. Gemette dal dolore, ripiegandosi su se stesso e passandosi una mano lungo la spina dorsale per cercare di capire se fosse tutto a posto. Sembrava solo un colpo, per quanto incredibilmente forte, perciò tornò subito a tenere d’occhio Patrick, che nel mentre si era alzato da terra e, a distanza di qualche metro, lo fissava. I suoi occhi, incredibilmente azzurri, brillavano nella notte in maniera innaturale e spaventosa. Qualcosa non funzionava, qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto andare, e quello non era un comune scontro. E Patrick non era un comune ragazzo in cerca di vendetta.
- Fler. – provò a chiamarlo, - Fler, cazzo, dimmi cosa sta succedendo.
Lui, però, non rispose. Si limitò a sorridere ancora, distante e terribile, e fu l’ultima cosa che Anis vide prima di venire improvvisamente investito da una massa d’acqua di proporzioni inimmaginabili. Quella non era pioggia. E quello non era Patrick.
Tossì parecchie volte, ed anche quando ebbe espulso l’acqua che l’aveva quasi soffocato gli restò addosso la sensazione di stare per annegare. Continuava a piovere così incessantemente da dargli l’impressione che il cielo volesse sciogliersi sulle loro teste.
- Fler! – chiamò ancora, cercandolo oltre la tenda spessissima di gocce di pioggia che sembrava isolarlo dal resto del mondo, - Cazzo. – imprecò, e fu costretto ad imprecare ancora quando l’acqua si aprì attorno a lui proprio come la tenda di un baldacchino, lasciandogli la possibilità di vedere. – Fler… - mormorò confuso, faticando a riconoscerlo. Di fronte a lui, Patrick s’era trasformato in qualcosa di diverso. La sua pelle, celeste e traslucida, sembrava ricoperta da piccole scaglie, come quelle di un pesce. Gli occhi brillavano violentemente, liquidi e ciechi, e sotto di lui si agitava una lunga coda da tritone mentre attorno alle sue braccia, larghe ai lati del corpo, si addensavano due sfere d’acqua talmente in agitazione da dare l’impressione di ribollire.
Anis spalancò gli occhi e dischiuse le labbra, incredulo, e fu tutto quello che riuscì a fare prima che le due sfere si schiantassero contro il suo corpo, violente come pugni ed altrettanto ben mirate. Urlò quando sentì una costola incrinarsi e sputò sangue quando una sfera lo colpì dritto al volto con tale forza da costringerlo a piegare dolorosamente il collo.
Annaspò, provò a difendersi portando entrambe le braccia davanti al corpo e, cercando di schermarsi dal getto d’acqua continuo e pressante che minacciava di aprirgli un buco nel centro dello stomaco, riuscì a sgusciarne al di sotto e correre via. Non si mosse velocemente, però, o almeno non abbastanza per evitare una seconda scarica d’acqua mirata proprio al centro della schiena. Il punto, già intorpidito per il colpo preso poco prima, riprese a dolere così forte che Anis non poté che accasciarsi lì dov’era, all’angolo del marciapiede, le mani del tutto affondate nell’enorme pozza d’acqua che tutta la strada era diventata e il respiro mozzo.
Dietro di lui, Patrick si avvicinava senza toccare per terra, fluttuando a mezz’aria in quello che sarebbe stato un perfetto silenzio se, assieme a lui, non si fosse mossa anche gran parte della pioggia. Anis lo sentì avvicinarsi in uno scrosciare d’acqua sempre più forte e chiuse gli occhi, pensando distintamente che quella sarebbe stata la sua fine, e sarebbe morto senza capire niente di quanto era successo negli ultimi venti minuti della sua vita.
Poi, una macchina si fermò di fronte a lui. L’autista spalancò lo sportello a dieci centimetri dal suo volto, ed Anis sollevò lo sguardo.
- Chakuza… - esalò stremato, piantando gli occhi sulla sua espressione e sul suo sguardo che saettava sconvolto da lui alla figura di Patrick dietro le sue spalle.
- …Sali! – gridò l’austriaco, decidendo di rimandare a dopo le spiegazioni. Anis sentì le sue mani afferrarlo per il bavero della maglietta resa ormai insopportabilmente pesante dall’acqua, e senza protestare si lasciò trascinare all’interno dell’automobile.
*
- Non posso credere a quello che ho visto. – ripeté Anis per la millesima volta in dieci minuti, talmente sconvolto da ostinarsi a cercare di asciugarsi il viso usando la propria maglietta grondante d’acqua, senza ovviamente riuscirci. – Non posso credere a quello che ho visto.
- Ma cosa cazzo era quella… quella roba?! – si azzardò a chiedere Peter, pestando sull’acceleratore e cercando per pronto accomodo di allontanarsi il più possibile dal quartiere, dal momento che era palese che, al momento, Anis non sarebbe riuscito a prendere una decisione riguardo dove dirigersi nemmeno se ne fosse andato della sua vita, cosa peraltro parecchio probabile.
- Era Fler! – rispose Anis, voltandosi a guardarlo con gli occhi spalancati, - Era Fler, cazzo, o almeno, era lui prima di diventare quella cosa!
- Ma— ma di cosa cazzo stai parlando?! – sbottò l’austriaco, frenando all’improvviso ed accostandosi al marciapiede. Non pioveva più, cosa che sembrò in qualche modo rassicurare Anis abbastanza da permettergli di riordinare le idee.
- Non lo so, con precisione. – rispose l’uomo, inumidendosi le labbra, - Anzi, in realtà non lo so affatto. So che stavo parlando con Fler— non guardarmi così, non so perché volesse parlarmi, credo volesse risolvere certe questioni passate, ma ad un certo punto tutto è cambiato. E non intendo solo lui.
Peter annuisce lentamente, incerto.
- Quindi quella cosa che ho visto era…
- Fler. – annuì Anis, ancora incredulo, - Dopo essere cambiato. Ad un certo punto è cominciato a piovere talmente forte che sembrava dovesse venire giù il cielo, e lui è diventato un altro. E… Dio, non so come dirlo senza sembrare completamente pazzo.
Peter inarcò un sopracciglio, guardandolo come avesse appena detto la cosa più stupida mai pensata.
- Io ho appena visto una specie di sirenetto che fluttuava a mezz’aria e sembrava avere la chiara intenzione di ucciderti, Bu. – gli ricordò, costringendolo perfino ad un mezzo sorriso divertito nonostante il dolore e la stanchezza, - Penso che ti crederei anche se mi dicessi di essere un dio sceso sulla terra per distruggere il mondo impuro o chessò io.
- No, indubbiamente io non sono niente del genere. – ridacchiò Anis, accomodandosi contro lo schienale del sedile, - Fler, però… o almeno, la cosa che è diventato, lui riusciva a governare l’acqua. La— non lo so, la raccoglieva attorno alle sue mani come un campo di forza e poi me la sparava addosso, cazzo, manco fossimo stati in un fottuto videogioco. Merda.
- Se fosse stato un videogioco, - sorrise Peter, rassicurandolo con una pacca sulla spalla, - te la saresti cavata sicuramente meglio.
- Questo è poco ma sicuro. – rise piano Anis, stendendo il capo all’indietro e sospirando pesantemente, lo sguardo fisso sul cielo scuro della sera oltre il parabrezza. – Solo che adesso… voglio dire, se Fler vuole uccidermi, prima o poi mi troverà. E devo pensare a Bill, intendo— non posso mica fuggire per sempre o espatriare e mollarlo qui senza una parola… e poi come? Dovrei fingermi morto per costringerlo a non seguirmi pure in capo al mondo. – sospirò ancora, piegandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia. – Chaku, onestamente: non so che fare.
Peter annuì, mordicchiandosi un labbro con aria incerta e nervosa per qualche secondo, prima di decidersi finalmente a parlare.
- Senti… liberissimo di prendermi per pazzo, - disse alla fine, - ma mia madre, sai, quando ero più piccolo, mi raccontava spesso di uomini che mettevano su le squame e governavano gli elementi. – si interruppe quando vide lo sguardo di Anis alzarsi su di lui, vuoto e vagamente terrorizzato, - Sì, lo so. – sospirò quindi riprendendo, - Mia madre è abbastanza fuori di zucca, dove per “fuori di zucca” intendo completamente matta, ma almeno è una che sa come ascoltarti senza far sembrare pazzo te, quindi… - sospirò ancora, scrollando le spalle, - se vuoi si passa da casa sua e le si fa una visitina. – propose, - Tanto è insonne. – Anis continuò a guardarlo fisso come un pesce appena caduto fuori dalla boccia, e Peter si strinse nelle spalle. – Era solo un’idea, comunque.
- Ma perché tua madre dovrebbe saperne qualcosa, di tutto questo?! – sbottò Anis, allargando le braccia in un gesto incredulo, per quanto lo spazio ristretto dell’abitacolo dell’automobile potesse permettergli.
- Non lo so! – rispose lui, - Potrebbero essere solo storie per bambini, ma se fosse qualcos’altro? Insomma, quello che abbiamo visto lo sappiamo entrambi, non mi sembra il caso di ostinarsi a ripetersi “è troppo assurdo, non può stare accadendo sul serio”. Non abbiamo alternative, ti pare?
Anis rifletté qualche secondo, lo sguardo basso e le sopracciglia corrugate.
- Non abbiamo alternative. – annuì quindi, tornando a sedersi compostamente sul sedile. – Parti.
*
- Stavo pensando… - disse Anis, scrutando curiosamente la palazzina di fronte alla quale si trovavano mentre Peter armeggiava con le proprie chiavi per aprire il portone, - io non ho mai conosciuto tua madre.
- E non ti sei nemmeno mai visto apparire davanti un mostro degli abissi pronto ad annegarti. – commentò lui, aprendo il portone e facendogli strada all’interno dell’atrio, - E se è per questo a me non era mai capitato di uscire per comprare un paio di birre, finire improvvisamente in una tempesta spuntata fuori da chissà dove e poi salvare la vita di un collega. Perciò direi che è una giornata di grandi prime esperienze per entrambi.
Anis rise ancora, stavolta più apertamente, appoggiandosi a lui mentre salivano le scale per raggiungere il primo piano, dove la signora Silvia abitava col marito, nonché padre di Peter.
- Ehi, Atze. – disse Anis a bassa voce, quando furono di fronte alla porta dell’appartamento, - Grazie. Non so cosa avrei fatto, se non mi avessi tirato via da quell’inferno.
Peter scrollò le spalle, aprendo anche quella porta ed invitandolo all’interno.
- Ringraziami quando saremo riusciti a dare un senso a questa follia. – rispose, prima di voltarsi verso il corridoio e chiamare sua madre a gran voce.
Invece della donna, comunque, fu suo padre a presentarsi.
- Peter, - lo salutò con un cenno del capo, - e… uomo sconosciuto. Buonasera.
- Perdoni l’intrusione. – sorrise Anis, - Non era mia intenzione gocciolare inaspettatamente sul vostro zerbino.
- Non è la prima né l’ultima cosa assurda che capita in questa casa. – rispose l’uomo, volgendo teatralmente gli occhi al cielo. – Peter, - ripeté quindi, tornando a rivolgersi al figlio, - tua madre è estremamente preoccupata per qualcosa di cui si ostina a non volermi parlare. Sta chiusa nel suo studiolo da ore e non mi riesce di tirarla fuori. Stavo per chiamarti. Vedi di fare qualcosa perché io ho esaurito le idee. – sospirò.
- È una delle solite lagne? – chiese Peter con una mezza smorfia. Suo padre sospirò ancora.
- Sì, forse. Non lo so. Non abbiamo esattamente avuto occasione di parlare. – confessò, prima di voltarsi a guardare Anis. – Mi spiace che debba assistere a questa scena, ma mia moglie ogni tanto tende a perdere il controllo. Non è pericolosa, comunque. – concluse con un sorriso, - È solo un po’ strana.
Anis sorrise rassicurante, cercando di reggersi in piedi da solo e appoggiandosi alla parete con fatica.
- Non si preoccupi, signor Pangerl. Quanto a stranezze, penso che nulla potrà più stupirmi.
Il signor Pangerl sorrise a propria volta e fece per ribattere, ma Peter lo fermò.
- Di mamma mi occupo io, papà. – disse, riprendendo a sostenere Anis e conducendolo lungo il corridoio verso lo studio privato di sua madre, - Tu torna pure di là.
- Niente male, come primo incontro con i tuoi. – ironizzò Anis, trascinando i piedi sulla moquette un po’ impolverata, - Ho una costola probabilmente incrinata e mi sento così stanco che potrei svenire, e tua madre è nel bel mezzo di una crisi di nervi.
- Ne sta avendo parecchie, ultimamente. – borbottò Peter, sollevando una mano per bussare alla porta, - Stanno succedendo tante di quelle cose, nel mondo… - considerò pensieroso, - Dio, solo adesso che ho visto quello che ho visto riesco a pensare che il tutto potrebbe non essere casuale.
La porta della stanza si spalancò davanti a lui prima che le sue nocche potessero toccarne il legno laccato bianco, e Peter fece un passo indietro, trascinandosi dietro Anis in un mugolio di dolore e di sforzo, per evitare di essere preso in piena faccia. Sua madre, ferma oltre la soglia, aveva gli occhi spalancati, una vestaglia coloratissima allacciata mollemente in vita sopra una sottoveste di raso color panna e i capelli tutti scarmigliati sulla testa, tenuti su da un fermaglio e spioventi in riccioli rossicci, striati qua e là di bianco e grigio, lungo le sue guance e il suo collo pallido, ricoperti di lentiggini.
- Peter! – gridò, afferrandolo stretto per un braccio e trascinando all’interno sia lui che Anis, prima di chiudere la porta, - Oh, per i Divini, dimmi che le mie preghiere hanno sortito l’effetto desiderato, dimmi che ti sei trovato al posto giusto e nel momento giusto e hai impedito la catastrofe!
- Mamma! – strillò a propria volta Peter, aiutando Anis ad abbandonarsi sulla prima poltrona libera disponibile, a fronte delle altre due ricoperte di pergamene e libri vari così come la scrivania e il tavolino basso poco distanti, - Che diamine ti prende?!
- Ho visto… - balbettò lei, perdendo una mano fra i capelli e dirigendosi spedita verso la scrivania, - Ho visto l’acqua e ho visto la morte e ho visto te, Peter, tu dovevi essere lì per impedirlo. Era importante che tu lo facessi. Ti prego, - aggiunse in un mugolio stremato, consultando incartamenti che Peter non aveva mai visto prima, - ti prego, dimmi che l’hai fatto.
Peter ed Anis si lanciarono un breve sguardo d’intesa, in seguito al quale l’austriaco raggiunse la propria madre e la strinse affettuosamente per le spalle, massaggiando piano i suoi muscoli tesi ed invitandola a sedersi prima di farlo a propria volta.
- Mamma, questo è Bushido, è uno con cui lavoro. Devo avertene parlato, qualche volta. E sì, - aggiunse annuendo, - gli è successo qualcosa di terribile, ma io ero lì e sono riuscito a tirarlo fuori prima che si facesse ammazzare.
- Ehi. – borbottò Anis, ma Peter lo fermò inarcando un sopracciglio.
- Non mi pare il momento di stare a difendere il tuo onore di guerriero, Bu. – gli ricordò, costringendolo a guardare altrove mugugnando offeso ma senza insistere nella sua protesta. – Mamma, cosa sta succedendo qui?
La signora Silvia si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore, prima di inspirare profondamente e poi alzarsi in piedi, raggiungendo la libreria a muro e tirando fuori un libro dal caos che regnava sugli scaffali.
Si sedette ancora e poggiò il libro sulla scrivania, rivolto verso Anis e Peter, ma tenne entrambe le mani sulla copertina di modo che nessuno dei due potesse aprirlo o sbirciarne il titolo.
- Tutto ciò che sapete, o credete di sapere, - disse quindi con tono grave, - è una menzogna. Io posso raccontarvi cosa è successo, costa sta succedendo e cosa succederà, ma le vostre menti devono essere sgombre e pronte ad accettare ciò che vi dirò. In caso contrario, - sospirò, stringendosi nelle spalle, - non faremmo che perdere inutilmente tempo. E non possiamo permettercelo.
- Signora Pangerl, - disse Anis in un lamento sofferente, - mi creda, la mia mente non è mai stata più aperta di così.
La signora sorrise, scrutandolo serenamente con gli occhi verdissimi e brillanti.
- Lo so. – annuì, - Riesco a vederlo. – sospirò pesantemente, prima di allontanare le mani dalla copertina del libro ed aprirlo. – L’ecosistema di questo pianeta, - cominciò a raccontare, mentre sotto gli occhi di Peter ed Anis sfilavano immagini molto simili a quelle di un libro per bambini, - vive in perfetto equilibrio. Se anche a volte può sembrare che qualche parte di esso viva in condizioni di particolare disagio, questo è possibile solo perché queste situazioni sono bilanciate da altre situazioni vissute in condizioni di gran lunga migliori. Questo è il karma, è la legge che regola tutto, su questo mondo. Il karma è e deve essere sempre bilanciato, dei reali squilibri porterebbero al collasso del sistema come lo conosciamo. E potete chiamarla come volete, - scrollò le spalle, - fine del mondo, apocalisse, armageddon… non importa il nome che le date, non cambia la sostanza di ciò che è.
- Questo libro… - chiese Peter con un filo di voce, lasciando scorrere le dita su una pagina ingiallita e rovinata dal tempo, - che cos’è?
- Avrebbe dovuto essere il tuo primo regalo. – rispose sua madre, sorridendo tristemente. – È il libro che ogni famiglia appartenente all’Ordine utilizza per istruire i propri bambini. Tutti gli adepti ne hanno uno, e lo tramandano di generazione in generazione. Io non ho potuto tramandarti il mio. – aggiunse, la voce appena incrinata, - Ma avrei tanto voluto, tesoro. Davvero.
- Un attimo, un attimo. – s’intromise Anis, avvicinandosi a propria volta al libro per guardarlo più attentamente, - Di cosa diamine stiamo parlando? Ordine, adepti, karma? Che cosa è successo a Dio, alla Bibbia ed alla Santa Chiesa?
- Fumo negli occhi. – rispose lei, quasi offesa personalmente nel sentirsi accostata a cose simili, - Distoglie l’attenzione da ciò che è davvero importante. Il karma provvede da sé anche a dissimulare la propria presenza a chi non è preposto a comprenderla e vegliarne la serenità. Non è necessario che sette miliardi di persone sappiano. È sufficiente che sappia chi di dovere. – concluse seria, prima di voltare pagina e mostrare loro un simbolo che conoscevano entrambi.
- Yin e Yang. – mormorò Peter, - È di questo che stiamo parlando? Buddhismo o che so io?
- Peter! Ma quanta ignoranza! – sbottò sua madre, tirandogli uno scappellotto sulla nuca, - Quello dello Yin e dello Yang non è un concetto appartenente alla filosofia indiana, bensì a quella cinese. E spiega solo il cosa, ma non il come. O il perché.
- E invece è esattamente quello che noi vogliamo sapere. – disse Anis, picchiettando due dita contro il simbolo, - Il come e il perché. E se si può fermare, ovviamente.
- Fermare! – la signora Silvia rise di gusto, spalancando gli occhi, - Tu non sai di cosa parli, ragazzo. Si tratta di cose ben più grandi di te o di me, qui stiamo parlando di divinità.
- Divinità…? – disse Peter, - Quindi è questo quello in cui si è trasformato Fler prima? Una divinità? Con le scaglie, la coda e tutto?
- Le scaglie? – chiese la signora Silvia, stupita, - No, i Prescelti non— ragazzi, piano, la cosa è abbastanza complessa già senza scavalcare le spiegazioni di base. – borbottò massaggiandosi le tempie, - È più probabile che abbiate visto un dragone, ma ve ne parlerò a tempo debito. – inspirò ancora, prima di voltare pagina e mostrare loro l’immagine di due uomini praticamente stilizzati, uno abbigliato in nero ed uno abbigliato in bianco, stretti in un abbraccio e circondati di luce. – L’equilibrio del karma su questo pianeta è garantito dalla presenza di due esseri, detti “i Divini”, capaci di catalizzare in vita un carico di sentimenti nella gente abbastanza grande da permettere al karma di alimentarsi traendone la propria energia. È un’energia che giocoforza va esaurendosi, con gli anni, ed è per questo che ogni due secoli due bambini perfettamente uguali e perfettamente differenti, complementari in tutto, nascono e vengono protetti fino al giorno in cui sono pronti ad unirsi e prendere il posto dei vecchi Divini ormai caduti e privi di energia. È anche per questo che i Prescelti sono spesso esposti all’amore, all’odio, all’invidia, alla tenerezza, all’affetto, alla curiosità ed alla rabbia di tutti gli esseri umani. Quanti più sentimenti riusciranno a catalizzare, tanto più il loro regno sarà sereno.
- E questo cosa diamine c’entra con Bushido?! – sbottò Peter, grattandosi confusamente la testa, - Non mi pare che lui—
- Bill. – lo interruppe Anis, lo sguardo perso sulla figura abbigliata in nero, - Bill e Tom. È questo, quello che sta cercando di dirmi. Bill e Tom— sono loro. I Prescelti.
La donna sorrise tristemente, annuendo piano.
- Tu hai introdotto un elemento di disturbo non comune, innamorandoti di Bill e lasciando che lui s’innamorasse di te, ragazzo. I vostri sentimenti hanno approfittato di una falla nell’equilibrio karmico, probabilmente dovuta alla perdita di energia dei vecchi Divini ormai quasi senza forze, e sono germogliati. Ed ora è come quelle piccole piantine che s’insinuano nelle crepe del muro e poi crescono, crescono, crescono, fino a sgretolare interi edifici.
- Bill e Tom sono destinati ad unirsi. – mormorò Anis, ancora incredulo, - E io lo sto impedendo. Sto distruggendo il mondo…?
- Mamma, ma dico io, - sbottò Peter, allargando le braccia ai lati del corpo, - tu sapevi tutto questo e non ne hai fatto parola con nessuno? Hai semplicemente aspettato che accadesse?!
- Io ho pregato, Peter. – ribatté sua madre, piccata, - Ho pregato incessantemente e questo è stato tutto ciò che ho potuto fare. Non potevo aprire bocca sulla questione, io… ormai da molto tempo, non faccio più parte dell’Ordine. Da ben prima che nascessi tu. – aggiunse, gli occhi bassi sul libro ma persi oltre, nel vuoto.
- Perché? – chiese Anis, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo serio, - Cos’è successo?
- L’Ordine è composto da adepti di vario rango e con varie funzioni specifiche. – spiegò la donna, - Io ero e sono un’indovina. Ben prima che i gemelli nascessero, ebbi la visione di un essere di natura divina, generato dal karma stesso, che avrebbe finito per frapporsi fra i gemelli, distruggendo le loro possibilità di unirsi, e cominciai a pensare che ci fosse qualcosa che non andava. Il karma stava cercando di… non saprei dire. – sospirò, - Si tratta di visioni antiche e confuse, ma sembrava proprio che il karma fosse intenzionato a porre fine alla questione dei Divini per come la conoscevamo. Cosa che avrebbe portato inevitabilmente alla fine del mondo.
- …un essere di natura divina. – mormorò Peter, voltandosi repentinamente a guardare Anis, - Bu…!
- Fler. – concluse l’uomo per lui.
- Un dragone. – precisò la signora Silvia, annuendo. – Sì, è… è probabile che la mia visione fosse riferita a lui. C’è qualcosa che questo individuo potrebbe fare per impedire l’unione dei gemelli? Qualcosa che potrebbe allontanarli?
- Fler mi odia. – spiegò celermente Anis, cercando di alzarsi in piedi il più velocemente possibile, - Vuole vendetta nei miei confronti, anche se il suo odio si è inspiegabilmente amplificato, in questo periodo.
- È la caduta dei precedenti Divini. – annuì la signora Silvia, scattando in piedi ed aiutando il proprio figlio a sorreggere l’altro uomo, - Sconvolge il mondo ed amplifica i sentimenti per favorire i Prescelti nella loro opera di catalizzazione. Quest’uomo potrebbe…?
- Potrebbe voler uccidere Bill per vendetta. – ipotizzò Peter, mordendosi nervosamente l’interno di una guancia, - E niente più Bill, niente più unione dei Prescelti, niente più Divini.
- E niente più mondo. – considerò Anis a bassa voce. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di parlare ancora. – Dobbiamo andare.
Peter annuì, lasciando per un attimo Anis alle braccia di sua madre per correre ad aprire la porta. La donna li accompagnò fino all’ingresso, e li abbracciò entrambi con affetto sincero, prima di lasciarli andare.
- Ragazzo, - disse la signora Silvia, poggiandogli una mano su un braccio quando lui era già per metà fuori dalla porta, - tu potresti essere la chiave. – mormorò, guardandolo negli occhi con aria distratta e persa ma, inspiegabilmente, perfino troppo attenta, - Anche se non riesco ancora a comprendere per quale serratura.
L’uomo aggrottò le sopracciglia, senza capire.
- Bu, dobbiamo muoverci. – disse Peter, scrutando la notte fuori dalla finestra in corridoio, - Sta ricominciando a piovere.
Anis annuì, salutando la signora Silvia un’ultima volta, prima di affidarsi nuovamente alla presa ferrea di Peter e lasciarsi condurre in macchina.
*
Patrick riprese conoscenza dopo un tempo che non riuscì a definire da sé. Non pioveva, ma sentiva la propria pelle bagnarsi continuamente come se invece stesse piovendo ancora, e quando aprì gli occhi e si ritrovò disteso sul marciapiede quella fu la cosa che lo colpì di più.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno con aria confusa. La strada era irriconoscibile, sommersa in alcuni punti da pozzanghere profonde anche venti centimetri, ed immersa nel più perfetto silenzio. Si domandò se fosse il caso di chiamare qualcuno, ma capì da sé che nessuno avrebbe creduto a ciò che aveva da dire, e soprattutto ricordava tutto ancora troppo chiaramente per non sentirsene turbato, perfino spaventato, anche se sapeva di essere stato lui a farlo: mentre fronteggiava Bushido, del tutto all’improvviso, la rabbia che provava era cresciuta esponenzialmente fino ad invaderlo tutto, come acqua, e come acqua poi era tracimata, e lui aveva perso il controllo.
Non aveva mai smesso di sentire né di vedere, però. E quella era la cosa più allucinante. Quella, e le scaglie che gli coprivano le braccia e, a giudicare dalla sensazione ruvida che provava accarezzandosi viso e collo, anche tutto il resto del corpo, presumibilmente.
Almeno, si disse, in un tentativo di fare dell’ironia su una situazione che probabilmente avrebbe dovuto essere presa molto più seriamente, la coda era scomparsa. Ed aveva smesso di fluttuare a mezz’aria. Le due cose rappresentavano un indubbio passo avanti nella sua situazione, anche se tutti i passi avanti sembravano quasi annullarsi se pensava a quanto gli faceva male la testa, ed anche a quanto gli faceva male il fianco nel punto che aveva sbattuto svenendo. Si era accorto anche di quello, era stato come se la sua coscienza si fosse scissa dal suo corpo abbastanza a lungo da vederlo andare in berserk, attaccare Bushido spostando l’acqua con – non poteva quasi pensarci senza sentire il bisogno irrefrenabile di scoppiare a ridere – con la forza del pensiero e poi perdere immediatamente tutte le forze nel momento esatto in cui Bushido era scomparso dalla sua vista. Aveva sentito tutte le sue membra afflosciarsi e sgonfiarsi. Volteggiava a mezzo metro dal suolo ed era caduto scoprendo che la coda non era un punto d’appoggio abbastanza stabile da impedirgli di afflosciarsi a terra, e perciò era scivolato su un fianco, urtandolo contro il marciapiedi e perdendo i sensi subito dopo.
Era ancora inquietato da quanto tutto gli fosse sembrato semplicemente giusto, mentre stava avendo luogo. Attaccare Bushido con quella foga, nel chiaro intento di ucciderlo, volendolo fare… ne aveva fatte tante, nella sua vita, ma non era mai arrivato neanche lontanamente vicino al pensiero di voler uccidere un uomo. La sensazione di potenza che aveva percepito quando, in qualche modo, lo scricchiolio delle ossa di Bushido s’era dipanato attraverso le masse d’acqua che stava governando, giungendo a scuoterlo in un brivido sottopelle, l’aveva stordito, tanto quanto adesso lo stordiva il senso di colpa e quello, più ampio, di generale confusione.
Vagò per le strade senza una meta precisa per almeno mezz’ora, sentendosi completamente svuotato e privo di scopo. Estraneo all’interno della propria stessa pelle, non riusciva a percepire da nessuna parte la presenza di Bushido, e questo per qualche strano motivo lo portava a non sentire nient’altro. Le strade, il cielo, le rare persone che ogni tanto incontrava e che, nel vederlo, scappavano via terrorizzate, era tutto come se lo stesse guardando attraverso un velo d’acqua, una piccola cascata nascente da qualche parte al di sopra della sua testa e che gli oscurava la visuale. Vedeva quasi solo ombre acquerellate, e non riusciva a trovare un senso in niente di ciò che gli era capitato e gli stava ancora capitando.
La situazione non si fece più chiara quando, svoltando in una stradina secondaria nel tentativo di sfuggire alla folla ed evitare almeno di scatenare il panico nella popolazione, trovò un gruppo di militari quasi ad attenderlo.
- Cazzo, - disse uno di loro, - gli indovini avevano ragione! È qui, è qui! Chiamate la squadra di rinforzo!
Un fronte compatto di cinque o sei soldati si fece avanti immediatamente, mentre un altro recuperava la propria ricetrasmittente e comunicava col commando dislocato in un’altra zona della città. Patrick seguì il proprio istinto e si mosse all’indietro di qualche passo, sulla difensiva, gli occhi ben piantati su ognuno dei militari. Improvvisamente, i suoi sensi parvero acuirsi tutti assieme, guidati forse dalla paura, forse dall’istinto di conservazione. Riusciva a sentire tutto, a vedere tutto. Da qualche parte, in lontananza, riusciva perfino a sentire la presenza di Bushido. Di nuovo.
- Cosa volete da me? – chiese ai militari in un ringhio discreto ma abbastanza forte da poter essere sentito da ognuno di loro.
- Ma ti sei visto? – rispose lo stesso che aveva preso il comando delle operazioni quando l’avevano trovato, - Non opporre resistenza, dragone. Sei in arresto.
- Voi non potete arrestarmi! – protestò, stringendo i pugni lungo i fianchi. Cominciava a sentire la sensazione umida dell’acqua che si addensava attorno ai suoi pugni chiusi, prima come semplici goccioline, simili a brina, poi come gocce sempre più compatte. Era la stessa sensazione che aveva provato poco prima di perdere il controllo combattendo contro Bushido. Vedeva già chiaramente come sarebbe andata a finire, e si sentiva stranamente pieno di fiducia sull’esito di quella battaglia.
Era esausto, provato, il mal di testa era tale da dargli la nausea, ma nondimeno era certo che non sarebbe morto. Non lì, non in quel momento.
- Possiamo e dobbiamo. – disse il tizio, prima di sollevare una mano. – Prendetelo! – ordinò in un gesto perentorio.
Il commando si mosse verso di lui a mitra spianati, e Patrick si librò in aria il secondo successivo.
- Voi non potete arrestarmi. – ripeté con maggior calma. L’acqua era lì, lo proteggeva. E si preparava all’attacco, compatta. – Voi non potete nemmeno fermarmi. – concluse con un ghigno.
- Pronti! – disse il tizio, mentre gli uomini del commando si fermavano all’improvviso, - Mirare… - ordinò, e quelli presero posizione, - Fuoco!
Tutti i loro proiettili si infransero uno dopo l’altro contro il muro d’acqua che Patrick innalzò davanti a sé. E non riuscirono nemmeno a capire cosa accadde quando, senza che il muro dovesse dissolversi né aprirsi, due colonne d’acqua ne fuoriuscirono, dirette verso di loro a velocità disumana.
Quando Patrick toccò per terra e, stavolta, la sua coda tornò ad essere semplicemente un paio di gambe ben prima che lui potesse cadere ancora, capì due cose. Primo, stava imparando a controllare meglio i suoi poteri. Secondo, c’era chi, per quegli stessi poteri, lo voleva morto.
Mentre i membri del commando cercavano di riprendere coscienza di se stessi e tossicchiavano nel rigirarsi abbastanza da riprendere fiato – e alcuni di loro restavano immobili per terra: dovevano essere morti – Patrick, incredibilmente freddo e del tutto disinteressato alla loro vicenda, sollevò appena il capo e chiuse gli occhi. Riusciva a sentire la presenza di Bushido con una chiarezza che quasi lo stordiva. Era come vederlo muoversi su una mappa invisibile, una mappa di cui lui conosceva ogni dettaglio e che riusciva perciò a seguire perfettamente.
Riaprì gli occhi e l’istinto gli disse che doveva raggiungerlo, dovunque fosse. Non riusciva a capire per quale motivo, ma era evidente che Bushido doveva avere a che fare con la sua condizione, o comunque saperne qualcosa. Doveva trovarlo, non aveva alternative.
Si librò in volo senza pensarci due volte.
*
Il posto non gli era familiare. La strada era bene illuminata, ampia e pulita. Il palazzo era grande, di molti piani, anche se non abbastanza da far pensare alla sede di qualcosa di losco, o ad una casa di produzione. Sembrava un normale condominio, di quelli abitati solo da famiglie semplici, babbo mamma figli forse qualche nonno, eppure era circondato da militari. Patrick aggrottò le sopracciglia contandoli celermente – dodici solo davanti, divisi fra appostati intorno alla cancellata ed impegnati in vaghi andirivieni lungo il vialone asfaltato centrale, ma poteva percepirne almeno un’altra ventina sul retro e sui fianchi del palazzo. In pratica, un piccolo esercito.
Si chiese cosa potesse esserci di tanto importante all’interno di quel palazzo da giustificare un tale dispiegamento di forze – da parte di chi, poi? – ma pochi secondi dopo la consapevolezza dell’estrema vicinanza di Bushido gli tolse ogni possibilità di ragionare lucidamente in termini che non fossero quelli di raggiungerlo e discutere con lui, dove poi sul significato di discutere il suo cervello non sembrava avere le idee molto chiare.
Sentì distintamente una macchina frenare e spegnersi da qualche parte nei dintorni, ma nessuno dei militari sembrò mettersi in allerta. L’autovettura doveva essere parecchio lontana, perché Bushido, accompagnato da Chakuza e con una mano sul fianco evidentemente ferito, apparve solo diversi minuti dopo.
Al solo vederlo, qualcosa si mosse nel suo petto. L’ondata di rabbia liquida potente come la piena di un fiume, che qualche ora prima l’aveva costretto a perdere il controllo di sé ed attaccare Bushido, stava montando dentro il suo corpo, crescendo come un’onda. Si sarebbe infranta di lì a poco, travolgendo tutto. Patrick chiuse gli occhi e strinse con forza i pugni lungo i fianchi, inspirando ed espirando ritmicamente, aspettando pazientemente di calmarsi. Doveva imparare a gestire quell’insopprimibile istinto, doveva tenerlo a bada, almeno fino a quando gli sarebbe servito tenere Bushido in vita, per capire per quale motivo il suo corpo si ostinasse ad indicarglielo come la persona alla quale avrebbe dovuto chiedere per spiegare quell’incredibile cambiamento. Poi, sarebbe successo ciò che sarebbe successo. A lui, al momento, non importava.
Lasciò che Bushido e Chakuza avanzassero di qualche metro, ma prima che i militari potessero accorgersi della loro presenza si frappose fra loro, sfidando Bushido ad avanzare con lo sguardo. Lui gli si fermò proprio di fronte, e lo guardò per qualche secondo con gli occhi spalancati, quasi boccheggiando, come non potesse davvero credere di trovarselo davanti, o come se vederlo proprio lì e proprio in quel momento gli facesse incredibilmente male. Patrick inarcò un sopracciglio, incuriosito da quell’espressione della quale non riusciva a comprendere la ragione, ma quando fece per schiudere le labbra e parlare, Bushido lo anticipò.
- Speravo di sbagliarmi, ma a quanto pare avevo ragione. – disse in un ringhio basso e profondo, quasi disumano. Patrick lo guardò come se la voce stesse traspirando dalla sua stessa pelle, come fosse ovunque. Riusciva a sentirla scuoterlo fin nelle viscere, come il suono dei bassi a palla durante un concerto. – Tu non lo toccherai, Fler. – lo minacciò, e quando sollevò lo sguardo Patrick vide che i suoi occhi brillavano.
Indietreggiò di qualche passo.
- Io non—
- Tu non toccherai Bill neanche con un dito. – ribadì Bushido, la voce ormai più simile al rombo di un tuono che al suono di una voce umana. Chakuza, accanto a lui, si allontanò di qualche centimetro.
- Bu…? – lo chiamò piano, e Patrick capì. O meglio, seppe, pur senza capire, che a Bushido stava per succedere la stessa cosa che era capitata a lui. E questo, quantomeno, spiegava per quale motivo lui riuscisse a percepirlo così distintamente, e per quale motivo continuasse a gravitargli intorno.
- Chakuza. – lo chiamò, cercando di suonare rassicurante sia per lui che per se stesso, dal momento che la furia di Bushido gli si stava riversando dentro come una cascata, - Allontanati più in fretta che puoi.
- Cosa? – disse quello, lanciandogli un’occhiata per metà incredula e per metà astiosa, - Col cazzo, no!
- Sta perdendo il controllo! – gridò, indicando Bushido, - Non lo vedi?!
Chakuza si voltò a guardarlo molto lentamente, e quando gli ebbe posato gli occhi addosso impallidì: la sua pelle era diventata notevolmente più scura, assumendo una sfumatura rossastra che era la stessa del nuovo colore dei suoi occhi completamente vuoti. Tutta la superficie del suo corpo sembrava essersi fatta più dura, coriacea, e quando all’improvviso si piegò in avanti e cominciò quasi a gemere di dolore e rabbia Fler spalancò gli occhi e indietreggiò.
- Scappa! – gridò, rivolgendosi a Chakuza, - Scappa adesso, idiota!
L’austriaco riuscì ad allontanarsi appena in tempo, giusto un attimo prima che Bushido esplodesse in un grido devastante, mentre due ali gli perforavano la pelle sulle scapole e svettavano dietro la sua schiena, enormi, spalancate e bellissime. Tutto il suo corpo sembrava ardere.
- Tu non lo toccherai, Fler, tu non riuscirai nemmeno ad avvicinarti a lui! – gridò Bushido, sbattendo le ali ed alzandosi in volo mentre i militari, ormai accortisi di ciò che stava accadendo, li circondavano, armi spianate e pronte a far fuoco in attesa degli ordini.
- Non sono venuto qui per il tuo fidanzato del cazzo, Bushido! – rispose lui, affrettandosi a librarsi a propria volta in volo mentre sentiva le proprie gambe fondersi e scomparire per lasciar spazio alla coda.
Bushido non lo ascoltò – non poteva più: sollevò le braccia verso il cielo e Fler riuscì a malapena a tirar su uno scudo d’acqua abbastanza spesso, prima che due enormi sfere di fuoco si scagliassero contro di lui, partendo dalle sue mani.
- Bushido! – lo chiamò ancora, rendendosi conto di quanto più facile stesse diventando mantenere il controllo sulla propria rabbia, man mano che si abituava a trasformarsi, - Bushido, cazzo, torna in te!
Intorno a loro, i militari si agitavano: una delle due sfere di fuoco era stata inglobata dal suo scudo e si era dissolta, ma l’altra ne era stata solo deviata, ed era andata a schiantarsi contro il marciapiede a pochi passi da loro. I ranghi si erano quasi sciolti, e con la furia di Bushido che cresceva di minuto in minuto, come l’enorme sfera di fuoco crepitante che stava prendendo forma sopra la sua testa, nessuno sapeva più cosa provare a fare.
- Bushido, non sono venuto qui per Bill! – gli spiegò Patrick, creando a propria volta una sfera d’acqua, per avere qualcosa con cui contrastarlo nell’eventualità che Bushido avesse dovuto decidere di scagliare la propria, - Sono venuto qui per te! È stato il mio istinto a indicarmi dov’eri, o— dove saresti andato, insomma, sono arrivato prima solo perché ero più vicino! Devi credermi, io— io e te dobbiamo parlare, solo questo!
Bushido ruggì – molto probabilmente non aveva sentito una sola parola, del suo discorso – e sembrò sul punto di tirargli addosso la sfera quando, improvvisamente, si fermò, sollevando lo sguardo verso il cielo.
- …Anis. – disse la voce flebilissima di Bill, affacciato alla finestra svariati piani più in alto, - Anis!
Gli occhi di Bushido tornarono immediatamente a vedere, mentre la sua espressione tornava finalmente umana e la palla di fuoco svaniva in un enorme sbuffo di fumo.
- Bill! – gridò l’uomo, lanciandosi in volo alla volta della sua finestra.
- Anis! Anis! – continuò a strillare il ragazzo, spalancando e tendendo le braccia e sporgendosi dalla finestra il più possibile mentre qualcuno cercava blandamente di tenerlo ancorato all’interno dell’appartamento, più per impedirgli di cadere che per trattenerlo davvero.
Bushido passò davanti alla finestra così velocemente che, per un secondo, sembrò che Bill fosse stato sbalzato all’interno dell’appartamento per lo spostamento d’aria, ma quando l’uomo terminò il proprio volo e ridiscese lentamente, voltandosi verso Patrick e rimanendo a fluttuare a mezz’aria – le ali sbattevano lente dietro di lui, le ferite ancora fresche sanguinavano lungo la sua schiena, imbrattando la maglietta strappata in più punti – poté vedere che il ragazzino era stretto ben saldo fra le sue braccia, e lo guardava con aria allucinata.
- È tutto a posto, adesso. – sussurrò Bushido, mentre Patrick li osservava chiedendosi cosa diamine potesse aver spinto Bushido ad infuriarsi tanto al pensiero che lui volesse raggiungerlo, - Ci sono qua io, nessuno potrà farti del male.
- Non mi facevano uscire, Anis! – cominciò il ragazzo, apparentemente dimentico di stare fluttuando a mezz’aria fra le braccia di un uomo alato e rosso come il fuoco, - Ho provato a chiamarti, ma tu non rispondevi, e soprattutto hai le ali! Hai le ali e non me l’hai mai detto! – si fermò qualche secondo, guardandolo come se stesse comprendendo la gravità di ciò che aveva davanti agli occhi solo dopo averlo descritto a parole, - Ma cosa cazzo sei?
Bushido rise a bassa voce, strofinando il naso contro quello di Bill, che per tutta risposta arricciò il proprio come gliel’avessero solleticato con una piuma, e poi sporse le labbra per un bacio piccolo e asciutto, più una rassicurazione, un mero bisogno di contatto, che un gesto sensuale. Fler sorrise a propria volta: il calore che si divampava da Bushido aveva assunto sfumature di tepore completamente diverse da prima, e lui si stava sentendo sciogliere come un chicco di grandine in mano a un bambino.
- Fler! – lo chiamò quindi, voltandosi a guardarlo, - Anche se prima poteva non sembrare… ti ho sentito. Solo che non ti stavo ascoltando. – Patrick annuì, perché capiva esattamente cosa Bushido stesse cercando di esprimere. La sensazione di sentirsi ancora a contatto col mondo, in qualche modo, ma di non esserne più parte integrante. – Mi sembra di capire che stai cercando delle risposte. E io so chi può dartele. – abbassò lentamente lo sguardo, piantandolo sulla piccola pozza di sangue che si stava addensando sulla strada, proprio sotto di lui. – Chi può darle a noi tutti. – tornò a guardarlo con decisione. – Prendi Chaku e seguimi. Oppure resta qui e fatti ammazzare da quest’esercito di Big Jim incompetenti. – concluse con stizza, prendendo il volo in una direzione che Patrick non riusciva a ricondurre a nulla di conosciuto.
Si voltò lentamente, posando lo sguardo sui militari che, impauriti, cercavano di mantenere salda la linea e puntargli addosso i mitra. Individuò Chakuza su un marciapiede poco distante, troppo turbato perfino per nascondersi, e sospirando pesantemente distrasse i militari con una scarica d’acqua repentina e violenta, per quanto non mortale, approfittando della loro confusione per recuperarlo e, tenendolo stretto per la vita fra le sue proteste improvvisamente animatissime, sollevarsi in volo al seguito di Bushido.
*
La prima cosa che la signora Silvia fece, quando si vide spuntare davanti agli occhi l’intera comitiva, fu cadere in ginocchio di fronte a Bill ed abbracciarne le gambe, piangendo sommessamente.
- Non posso credere che questo stia succedendo davvero. – mormorò in un fiume di singhiozzi mentre Bill, imbarazzatissimo, si agitava come un’anguilla strillando che non c’era proprio alcun bisogno di prostrarsi di fronte a nessuno, - Ho pregato così tanto perché le cose potessero andare per il verso giusto, e forse…
- Mamma. – la interruppe Peter, sorridendo come a scusarsi ed aiutandola a staccarsi dalle gambe di Bill e rimettersi insieme, - Lascia perdere questi convenevoli. Sono successe delle cose.
- Lo so. – sorrise lei, abbracciandolo teneramente e poi invitando tutti ad entrare in casa, prima di chiudere la porta. – Le ho viste. La fenice s’è destata, lei e il dragone si sono riequilibrati. – sorrise ancora, sempre più serena. – Vi devo ancora qualche spiegazione, ragazzi. A voi, e… - accarezzò lievissima il volto di Bill, che cercò di non ritrarsi, per quanto ancora incredibilmente imbarazzato, - a questo bellissimo fiore. Ma saprete tutto, e speriamo che questo possa esservi utile per riportare l’equilibrio nel karma e nel mondo.
La signora Silvia condusse nuovamente tutti nel proprio studiolo, ora molto più ordinato di quanto non fosse quando Peter ed Anis ne erano usciti qualche ora prima, ed invitò Bill ad accomodarsi su una sedia di fronte alla scrivania, una sedia che sembrava fosse stata approntata espressamente per lui, in attesa del suo arrivo.
- Avrei preferito incontrarti assieme a tuo fratello, - commentò la signora Silvia, vagamente delusa, - ma vedo che non è stato possibile, perciò è importante che adesso io ti spieghi chi sei nel modo più chiaro possibile. Così che poi tu possa spiegarlo anche a lui, e insieme possiate compiere ciò per cui siete stati destinati.
Anis distolse lo sguardo, le ali ripiegate dietro la schiena e ormai imbrattate di sangue quasi quanto la maglietta. Si chiese distrattamente se potesse andare da qualche parte per cercare di curarsi, ma la signora Silvia sollevò lo sguardo su di lui e gli sorrise, scuotendo lentamente il capo.
- Non smetterà di sanguinare. – gli rivelò, mentre Bill si voltava a guardarlo con evidente preoccupazione e si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore, - È lo scotto da pagare per avere quelle ali. C’è del divino, in te, intrappolato in un corpo umano. Un pegno va pagato, e il tuo è un pagamento di sangue.
Anis considerò la questione per qualche secondo, prima di limitarsi semplicemente ad annuire. Aveva bisogno di capire cosa fosse diventato – o fosse sempre stato – ma si rendeva conto di quanto prioritaria fosse la questione di Bill rispetto alla sua, perciò restò in piedi – unica posizione in cui poteva davvero sistemarsi senza soffrire le pene dell’inferno per le ali che sembravano piegarsi e schiacciarsi con una facilità tremendamente irritante – ed incrociò le braccia sul petto, restando in osservazione.
- Bill, - cominciò la donna, parlando con tono carezzevole, quasi materno, - Tu sei, per questo mondo, qualcosa di molto più importante di quanto tu non abbia mai immaginato. Tu e tuo fratello siete speciali, - raccontò sfogliando il libro che aveva precedentemente usato con Anis e Peter e mostrandogli le immagini fino a soffermarsi su quella rappresentante i due Divini stretti in un abbraccio eterno e luminoso, - siete due opposti identici e perfetti, come due metà di una stessa mela. Siete differenti, ma combaciate perfettamente. – lo guardò dritto negli occhi, - E c’è un motivo, per il quale siete nati così.
- Signora… - la interruppe Bill, torcendosi le mani in grembo e sospirando faticosamente, - Stanno succedendo un mucchio di cose strane. – disse, tornando a guardarla negli occhi, - A me, ma anche intorno a me. Ad Anis, alla città, al mondo… - sospirò ancora, quasi spaventato dalla portata di ciò che stava per dire. – Sta per accadere qualcosa di brutto, è così?
La signora sorrise ancora, allungandosi nuovamente ad accarezzargli il viso.
- Sì, Bill, sta per succedere qualcosa. – annuì, - E che sia una cosa bella o che sia una cosa brutta, tu ne sarai direttamente responsabile.
*
Bill ascoltò attentamente tutto il racconto, scrutando le figure dapprima con sincero sconcerto, poi con curiosità, quindi con consapevolezza sempre crescente di ciò che quella donna, quelle persone, tutti gli abitanti della terra, coscientemente o meno, si aspettavano da lui.
- Tomi non sa niente. – balbettò alla fine, sfiorando la copertina del libro con la punta delle dita, - Nemmeno io sapevo niente… perché non ce l’hanno mai raccontato?
- I Prescelti non vengono mai informati della loro missione prima di essere pronti a compierla. – scosse il capo la signora Silvia.
- Io non lo ero! – disse Bill ad alta voce, sollevandosi di scatto dalla sedia e lasciandola rotolare per terra dietro di sé senza degnarla di uno sguardo, - Io non lo sono.
- Lo sei, Bill. – sorrise la signora Silvia, senza scomporsi, - Niente avviene per caso, e se il ciclo del karma ti ha portato qui da me il motivo è che eri pronto per ascoltare questa storia. E farne parte.
- Io non faccio parte di niente! – strillò Bill, le braccia rigide lungo i fianchi, - Io sono un cantante, ho un fratello e un fidanzato e non intendo stare a sentire un’altra parola a riguardo! Dio! – sbottò, quasi in lacrime per il nervosismo, abbandonando la stanza. Anis fece per andargli dietro immediatamente, ma la signora Silvia lo frenò con un gesto, invitando sia lui che Fler ad accomodarsi sulle poltrone.
- Non abbandonerà l’appartamento, potete stare tranquilli. – disse con sicurezza, - Inoltre, ho ancora una questione da discutere con voi due, mi pare.
- Io penso che resterò in piedi. – sbottò Anis, appoggiandosi alla poltrona senza sedersi, - Queste stupide ali mi stanno dando il tormento.
- Queste stupide ali sono ciò che ti ha permesso di sfuggire vivo all’Ordine portando con te i tuoi cari. – gli ricordò la donna con un sorriso, - Il supplizio è il giusto prezzo da pagare per—
- Senta, signora Silvia, io la stimo, davvero, - la interruppe lui, gesticolando, - ma la vita mi ha insegnato solo che la storia del karma, a livello proprio concettuale, non è altro che una stronzata. Lei non ha idea di che cosa abbia passato io quando ero un ragazzino, e sinceramente questa roba delle ali mi sembra di averla già scontata pagando in anticipo in passato.
La signora Silvia si limitò a sorridere serenamente, stringendosi appena nelle spalle.
- Probabilmente, stavi pagando per qualcos’altro. – rispose enigmatica, prima di rivolgersi a Patrick. – Voi due non dovreste esistere. – rivelò quindi in un fiato, - Siete il risultato di una serie di errori per cui i Divini, la cui energia stava già cominciando ad affievolirsi, non hanno impedito ad anomalie che di solito bloccano sul nascere di prosperare ed avere una vita. Anis, ragazzo, tu sei quest’anomalia. – annuì, - Non era previsto che tu nascessi perché, in caso di tua nascita, non avresti potuto che allontanare Bill da suo fratello. L’essere divino delle mie visioni eri tu.
- Ed io? – chiese Patrick, impaziente, spostandosi sulla poltrona fino a sedersi in punta, - Io cosa sono, perché sono così?
La signora sorrise rassicurante anche a lui.
- Tu sei il modo in cui il karma ha cercato di riequilibrarsi. C’era un’anomalia in circolo, ed andava fermata. Ed ecco perché sei nato tu, il dragone marino, l’opposto karmico della fenice di fuoco e per natura più forte di lui. Come l’acqua spegne sempre il fuoco, tu eri e sei destinato a spegnere per sempre la fenice.
Patrick serrò le labbra, abbassando lo sguardo.
- Quindi lui deve uccidermi. – disse Anis, freddo come il ghiaccio e perfettamente padrone delle proprie emozioni, - Se tutto ciò che deve accadere, alla fine, accade… lui mi ucciderà. – constatò. La signora Silvia non rispose.
Al suo posto, lo fece Patrick.
- Non so te, Atze, - disse con un mezzo sorrisetto, - ma io non ci sto a farmi comandare a bacchetta da due divinità del cazzo che non sono buone nemmeno a vivere per sempre. Dovrebbero decidere della mia vita e di ciò che sarà di me? Di ciò che farò a chi ho intorno? Né ora, né mai.
La signora Silvia si lasciò sfuggire una risatina sorpresa, mentre Anis lo fissava come fosse improvvisamente impazzito.
- Fler, non so se hai afferrato, ma ne va della fine del mondo. – gli ricordò severamente.
- No, no! – lo fermò la signora Silvia, battendo entusiasticamente le mani davanti al viso, - Mi piace quest’atteggiamento! Ribelle! Costruttivo! Bisogna incoraggiare i giovani. – concluse annuendo e quasi saltellando sul posto.
- Incoraggiare i giovani? – sbottò Peter, appoggiato alla parete dietro di loro, - Non so te, mamma, ma io non voglio che il mondo venga spazzato via perché il sirenetto qui pensava fosse il caso di ribellarsi all’autorità costituita. Li ho passati da un pezzo i quindici anni.
- Peter! – lo rimbrottò sua madre con aria severa, - Qui stiamo parlando di esseri divini. Sanno esattamente ciò che fanno.
- No, non esattamente. – scosse il capo Patrick, guadagnando in cambio occhiate vagamente perplesse da parte sia di Anis che di Peter, - Ma in compenso so esattamente ciò che non farò, ed io non lascerò che quel ragazzino sia costretto a fare cose che non vuole fare con suo fratello, che cazzo. E non mi sporcherò le mani con il sangue del mio. – concluse, lanciando ad Anis un’occhiata colma di significato.
Anis sbuffò una risata parzialmente divertita e parzialmente preoccupata, ed annuì.
- D’accordo. – disse quindi.
- …d’accordo cosa? – interloquì Peter, staccandosi dal muro e guardandosi intorno con aria poco convinta, - Cosa mi sono perso?
- Signora Silvia, - proseguì Anis, ignorandolo platealmente, - ci serve un posto in cui andare. Un posto sicuro.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese lei.
- Non lo so ancora. – rispose Anis, pensoso, - In qualche modo, risolveremo questa situazione. Non lascerò che il mondo venga distrutto, ma stabiliremo noi come salvarlo. – concluse, sorridendo sereno.
La signora Silvia annuì comprensiva, incrociando le braccia sul petto e picchiettandosi il mento con un dito.
- È importante che lasciate Berlino immediatamente e troviate rifugio da qualcuno che conosca l’Ordine ma non ne faccia più parte. – considerò, - Qualcuno di cui possiate fidarvi e che tenga alla salvezza dei gemelli abbastanza da mettere a repentaglio perfino quella del mondo. – sorrise con maggior sicurezza, mentre disseppelliva un portatile da sotto una valanga di libroni polverosi, - Ed io ho esattamente la persona che fa al caso vostro.
*
Lo trovò arrotolato sulla poltrona in soggiorno, tutto stretto come un nodo di rabbia e paura e incertezza, proprio di fianco al divanetto sul quale il signor Pangerl stava semidisteso, il telecomando in una mano e una bottiglia di birra nell’altra. Anche Bill aveva entrambe le mani occupate – un biscotto in una ed un bicchiere di latte mezzo vuoto nell’altra, la confezione con i biscotti superstiti abbandonata fra le gambe incrociate – ed Anis sorrise appena nel vederlo così piccolo e furibondo, come l’adolescente che in effetti era. Come si poteva chiedere ad una creatura simile di reggere sulle proprie spalle il peso del destino del mondo? Non c’era abbastanza spazio su cui quel peso potesse posarsi. Le sue spalle erano troppo esili.
- Bill. – lo chiamò piano, lanciando un’occhiata distratta al cartone animato che sia lui che il signor Pangerl fingevano di guardare alla tv, - Devo parlarti.
Lui non si voltò, ed anzi dichiarò esplicitamente che non aveva alcuna voglia di ascoltarlo, incurvando le spalle e chiudendosi ancora più a riccio. Anis immaginò che, se avesse avuto degli aculei, li avrebbe puntati tutti verso l’esterno, sperando solo che lui si avvicinasse abbastanza da poterglieli conficcare nella carne. Probabilmente era per questo che, qualche anno prima, portava i capelli irti sopra la testa e tutto intorno: voleva sembrare pericoloso, velenoso, come certi animali dall’aspetto particolare creato apposta per scoraggiare i predatori. Dopo essersi messi insieme, e dopo essersi conosciuti meglio, quel bisogno era un po’ sparito, e così i suoi capelli, ma probabilmente in quel momento Bill stava pentendosi intensamente di non avere più la pettinatura di un tempo.
- Bill. – ripeté, la voce più soffice, - Ti prego.
- Ragazzino, - lo chiamò anche il signor Pangerl, cambiando canale e fermandosi a guardare una partita di calcio di chissà che divisione dilettantistica, peraltro con interesse di gran lunga maggiore rispetto a quello che aveva riservato al cartone animato, - se tu non gli dai retta, Icaro qui non si leva mica. Avanti.
Anis fece per rispondere che lui con Icaro non c’entrava niente, ma poi si rese conto che, come lui, s’era avvicinato troppo ad un sole che non avrebbe mai dovuto toccare. E, sempre come lui, stava rischiando di bruciarsi le ali. Perciò tacque.
Bill sospirò pesantemente ed allungò le gambe, stiracchiandole un po’ prima di piegarsi a poggiare latte e biscotti sul tavolino basso di fronte a lui ed alzarsi in piedi, voltandosi e guardandolo dritto negli occhi. Aveva pianto in silenzio fino a quel momento. I suoi occhi erano rossi e acquosi, le sue guance rigate di lacrime che non avevano avuto il tempo di asciugarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – gli disse, consapevole di quanto quelle scuse fossero inutili. Bill annuì, più per prendere atto del suo – inutile – tentativo di farlo stare meglio, che perché sentisse davvero il bisogno di accettare delle scuse da lui.
- Non parliamo qui. – disse poi, e nella sua voce non c’era nemmeno la più piccola traccia delle lacrime così evidenti sul suo volto, - Dove possiamo stare soli?
- La camera da letto è libera. – disse distrattamente il signor Pangerl, e sia Anis che Bill arrossirono repentinamente per l’involontaria battuta celata dietro quelle poche parole. Nonostante questo, Bill dovette pensare che quella fosse la soluzione migliore, perché dopo quell’attimo di imbarazzo annuì deciso, chiedendo al signor Pangerl dove fosse e poi seguendolo quando, ottenute le indicazioni richieste, Anis lo condusse in fondo al corridoio centrale, oltre una porta bianca, sottile e un po’ cigolante che si chiuse subito alle spalle quando furono entrambi all’interno della stanza.
Anis rimase per qualche secondo voltato verso la porta, due dita ancora sulla maniglia e lo sguardo perso nel vuoto, mentre cercava il coraggio di voltarsi a guardarlo.
- Bill, dobbiamo—
- Sanguini ancora. – disse Bill, cogliendolo di sorpresa ed accarezzando lievemente con le punte delle dita la pelle sensibile e accaldata attorno alle ferite sulle sue scapole, - Vorrei provare a curarle, non so… disinfettarle, bendarle. Ma a che scopo, se so già che non si rimargineranno mai?
- Se voglio le ali, devo tenere le ferite. – rispose Anis, pratico, restando immobile.
- E tu le vuoi? – chiese pianissimo Bill, le dita ancora impegnate a ridisegnare i contorni di quegli squarci.
- Mi sono servite per salvare te. – annuì lui.
- Ma resteranno anche quando non avrai più bisogno di salvarmi. – insisté il ragazzo, corrugando le sopracciglia, - E tu continuerai a sanguinare.
Anis sbuffò una risata intenerita e, in parte, anche vagamente divertita.
- Finirà il mondo, quando non avrò più bisogno di salvarti. – rispose distrattamente, e Bill sorrise appena.
- È molto probabile che questo succeda comunque, sai? – commentò, quasi ironico. – Perché non posso avere una scelta? – chiese quindi, la voce venata da una nota di malinconia, - Vivo la mia vita e all’improvviso vengo a sapere che ogni momento, ogni dettaglio è stato curato in funzione di qualcosa che non voglio e che sarò comunque costretto a fare se non voglio avere sulla coscienza la vita di sette miliardi di persone. Sempre che io abbia ancora una coscienza, quando saremo tutti morti, s’intende. – sospirò pesantemente, poggiando la fronte contro la sua spalla. – Perché non posso scegliere? Voglio poter scegliere.
Anis inspirò profondamente, stringendo i pugni lungo i fianchi. Poi si voltò, fronteggiandolo immobile per qualche secondo prima di tirarselo contro. Le sue ali si dischiusero senza che lui potesse controllarle, tornando a richiudersi pochi secondi dopo attorno al corpo di Bill, ancora schiacciato contro il proprio, come volessero fargli da scudo.
- Io non ero previsto. – gli rispose, parlando direttamente sulla pelle calda del suo collo, umida di lacrime, - Non ero previsto e non intendo togliermi di mezzo. – si allontanò appena, guardandolo negli occhi e sorridendo. – Questo dimostra che hai una scelta. Me.
Bill distolse lo sguardo, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- Io ho scelto te tre anni fa, e questo ci sta portando alla fine del mondo. – mormorò incerto.
- Fallo ancora. – lo pregò Anis, accarezzandogli una guancia, - Sceglimi ancora. Fidati di me.
- Sarò inutile, Anis. – sospirò lui, - Guardiamo in faccia la realtà e non illudiamoci, ti prego. Io non sono un bambino e non sono stupido. Non posso nemmeno curarti le ferite.
- Le mie ferite non hanno bisogno di cure. – sorrise Anis, - Io sono una fenice. Muoio e risorgo. Nessuno può uccidermi davvero.
- Ma possono farti dannatamente male nel mentre. – protestò lui, chinando appena il capo. – Comunque, sai già che ti sceglierò ancora. – disse però, sorridendo appena, - E ancora, e ancora.
Anis lo strinse con forza, baciandolo piano sulla fronte, su una tempia, sulla guancia, sulle labbra.
- Dobbiamo lasciare la città. – disse quindi, - La signora Silvia sa dove mandarci. Torna da lei, non è arrabbiata. Saprà cosa consigliarci.
Bill sospirò, ma annuì, e senza protestare si lasciò condurre nuovamente nello studiolo della signora Silvia, ben disposto a seguire qualsiasi consiglio, purché questo consiglio non implicasse per lui l’obbligo di scegliere qualcosa fra Anis e la salvezza del mondo intero, perché in quel caso non era sicuro di riuscire ad operare la scelta più saggia.
*
- …mio padre. – ripeté Bill, incredulo, fissando la signora Silvia come non potesse capacitarsi della sua esistenza, - Mio padre se n’è andato via di casa un centinaio di anni fa e da allora io l’ho visto solo raramente, signora Pangerl, non so se—
- Tuo padre non è andato via, Bill, tuo padre è stato allontanato. – disse lei, - Sono due cose ben distinte.
- Allontanato? – chiese Peter, curioso, - Come te?
- Esatto. – annuì la donna, - Chiunque faccia parte dell’Ordine ma non sia d’accordo sul modo in cui il suo operato viene condotto, viene allontanato. Non ucciso, quello in genere accade solo quando i saggi ritengono tu possa essere una minaccia, ma viene messo nelle condizioni di stare il più lontano possibile da ogni centro abitato, e gli vengono in genere tagliate tutte le possibilità di interferire con l’operato dell’Ordine stesso.
- Mio padre era in disaccordo con l’Ordine? – chiese Bill, confuso. Ricordava molto poco del periodo in cui i suoi genitori avevano vissuto insieme. La maggior parte dei ricordi che conservava di lui raccontavano di un uomo sfuggente che poteva passare a trovare lui e suo fratello solo per qualche ora ogni due settimane, e che ogni tanto chiamava a casa, ma col quale era impossibile discutere via telefono a causa della linea quasi costantemente disturbata, come stesse parlando da un punto privo di campo o attraverso un apparecchio rattoppato alla meno peggio che aveva dovuto assemblare da solo, perso chissà dove nel nulla cosmico.
- Diciamo che più che altro non ne è mai stato veramente parte. – rifletté la signora Silvia, picchiettandosi il mento con un dito, - Non potrei spiegartelo con certezza o dovizia di particolari, perché io fui buttata fuori qualche anno dopo che lui ne entrò a far parte sposando Simone, ma so che si piegò ad entrarvi solo per il grande amore che provava per tua madre. Immaginò che il tutto potesse essere un po’ inquietante, ma non dovesse avere chissà che conseguenze sulla sua vita. Poi – sospirò e sorrise appena, - nasceste tu e tuo fratello. E quando Simone gli spiegò cosa Larsen pensava e quale sarebbe stato il vostro destino, semplicemente non riuscì ad accettarlo.
- Non ha mai… - balbettò Bill, abbassando lo sguardo, - non ha mai provato a contattarci per parlarcene. Dannazione, quando ci sentivamo preferiva parlare dei trucchi che avevo comprato durante la settimana… come avrei mai potuto sospettare che—
- Tuo padre sapeva che se avesse cercato di intromettersi fra voi e l’Ordine non lo avrebbero mai lasciato vivere. – considerò la signora Silvia, - Non mi meraviglia che si sia frenato. È un uomo saggio. Venne subito a cercarmi, quando fu allontanato dall’Ordine, ed è sempre rimasto in contatto con me, fino ad oggi. Ha sempre saputo che il suo essere ancora in vita sarebbe tornato utile, un giorno. – la donna sorrise con maggior convinzione, recuperando un foglio dalla scrivania e porgendoglielo. – È il suo indirizzo, - disse, - o almeno, è il posto in cui vive adesso. È costretto a spostarsi spesso, per evitare di essere trovato. Anche l’Ordine preferisce così, un uomo in costante movimento non è in grado di creare nuovi legami. Fortunatamente per noi, però, - ridacchiò piano, - è stato perfettamente in grado di conservare quelli vecchi.
Anis allungò il collo, sbirciando l’indirizzo dal foglietto liscio dai margini irregolari che Bill teneva incerto fra le mani.
- Lo conosco. – disse annuendo, - È appena fuori città, in campagna. Possiamo raggiungerlo in un paio d’ore, in macchina.
- Macchina? – ridacchiò la signora Silvia, coprendosi la bocca con una mano, - Cosa mi tocca sentire… vi troveranno prima che riusciate a procurarvene una.
- Be’, stavo cercando di essere costruttivo, signora Pangerl. Spazio ai giovani, no? – borbottò Anis, offeso, mentre Bill si lasciava andare ad una risatina divertita.
- Sì, ma non quando dicono palesi idiozie, caro. – ribatté lei, serafica, - Dovete seguire vie poco battute, attraversare luoghi in cui nessuno penserebbe mai di andarvi a cercare, non potete mica—
- Le fogne. – propose Peter, pensoso, - Ovviamente si allungherebbero i tempi, - disse, stringendosi nelle spalle quasi a scusarsi, - Ma penso che nessuno verrebbe a cercarvi lì.
La signora Silvia s’illuminò tutta come l’avessero appena accesa dall’interno.
- …un genio! – commentò estatica, raggiungendo Peter dall’altro lato della stanza, nell’angolino in cui stava appoggiato, e gettandogli le braccia al collo, - Mio figlio è un genio!
Peter arrossì fino alla punta delle orecchie.
- Mamma… - si lagnò, cercando di farsi mollare senza peraltro riuscirci.
- Ha un senso. – considerò Patrick, grattandosi il mento, - E se anche dovessero pensare di cercarci là sotto, le fognature sono un labirinto. Potrebbero metterci ore anche solo per trovare la giusta direzione da seguire, e con un po’ di fortuna noi potremmo essere già lontani e in discreto vantaggio.
Bill annuì, ripiegando il foglietto con l’indirizzo ed infilandolo in tasca.
- D’accordo. – disse con sicurezza, - Mi sembra l’idea migliore che abbiamo. Seguiamola. – si voltò verso Peter, sorridendo dolcemente. – Grazie, Chaku.
- Oh, ma non ringraziarlo adesso. – rise la signora Silvia, agitando una mano come a voler scacciare via quella sciocchezza, - Ringrazialo quando tutto sarà finito. Mio figlio verrà con voi.
- Cosa? – sbottò Anis, incredulo, - Ora, non è che siccome ci ha aiutato deve approfittarne per piazzare suo figlio in giro, manco fosse un posto da impiegato bancario con contratto a tempo indeterminato, mi scusi.
La signora Silvia sollevò gli occhi al soffitto con aria supplice, scuotendo mestamente il capo.
- In mano a chi avete affidato il destino del mondo, Divini? – chiese a mezza voce, e poi tornò a guardare Anis. – Mio figlio vi sarà ancora utile. – disse, sorridendo sicura, - Io l’ho visto. Portatelo con voi.
- Lo portiamo sì. – sbottò Patrick, afferrando Peter per la maglietta e tirandoselo praticamente contro, - Io non intendo restare da solo a reggere il moccolo mentre questi due mi fanno la tragedia dei novelli Romeo e Giulietta nelle fognature di Berlino. Pretendo di avere qualcuno con cui parlare. – stabilì. La signora Silvia rise di gusto.
- Sì, anche quello. – annuì, - Ora affrettatevi. – consigliò, tornando immediatamente seria. – Il tempo stringe, e voi dovrete trovarvi nel luogo giusto al momento giusto, quando tutto si compirà. – sorrise rassicurante, abbracciandoli tutti uno per uno. – Siete una combriccola un po’ confusa, ma siete forti. E pieni di sentimenti che si agitano tutto intorno e dentro di voi. Non potrei giurarci… - disse infine, sorridendo ancora, - ma potreste perfino avere una speranza. Se crederete a sufficienza.
Si guardarono tutti negli occhi a vicenda per qualche secondo, prima di annuire e lasciare l’appartamento. Credere o meno sembrava l’unica scelta che fossero davvero in grado di fare, ed erano fermamente intenzionati a farla.
*

- Tom! – urlò David, spalancando la porta per trovare il ragazzo affacciato alla finestra col naso puntato per aria, mentre da fuori giungevano i rumori delle numerose automobili della scorta di Larsen in svelto avvicinamento verso il condominio, - È tutto a posto?
- Tutto a posto…? – mormorò lui, voltandosi a guardarlo, gli occhi spalancati e i lineamenti tesi dallo spavento e dal nervosismo, - Un— non sono neanche sicuro di poter riuscire a raccontarti cosa ho appena visto e tu mi chiedi se è tutto a posto?! – strillò, sfilando la bandana che portava annodata attorno alla testa e gettandola per terra con rabbia, - Cosa cazzo è successo? Cosa?!
- Tom, devi calmarti. – disse lui, avvicinandoglisi e poggiandogli le mani sulle spalle nel tentativo di tenerlo quantomeno fermo. Il ragazzo si allontanò, liberandosi dalle sue mani con uno strattone violento.
- Non voglio e non posso calmarmi! – ringhiò, - E ti avevo detto di non toccarmi più.
David indietreggiò di un paio di passi, ritraendo istantaneamente le mani.
- Scusami. – disse, abbassando lo sguardo. Tom si sentì stringere il petto in una morsa che lo privò del respiro, come avessero preso una cinghia e gliel’avessero legata attorno ai polmoni, e poi si fossero messi a tirare, tirare, tirare, nel tentativo di strapparglieli via dal petto.
- Non— - cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase perché la porta della camera venne spalancata ancora una volta, e Larsen fece il suo ingresso, i capelli scarmigliati sulla testa e l’espressione stravolta dalla rabbia.
- David! – gridò furioso, - Cosa diamine è successo?!
- Herr Larsen, - cominciò lui, frapponendosi automaticamente fra l’uomo e Tom, - Bill è stato rapito da—
- So cosa è successo, stupido incompetente, gli indovini hanno visto tutto! – lo interruppe Larsen, gesticolando animatamente, - Come hai potuto permetterlo? Ti avevamo dato la nostra fiducia, mezzi a sufficienza per—
- Mezzi a sufficienza?! – sbottò David, esasperato, - I vostri uomini se la sono fatta sotto come ragazzine appena il dragone e la fenice sono apparsi!
- Il… il dragone e la fenice…? – mormorò Tom, gli occhi spalancati, appoggiandosi alla parete come ne avesse bisogno per non cadere a terra privo di forza.
David gli lanciò un’occhiata preoccupata: stava venendo a sapere troppe cose da troppi dettagli buttati lì alla rinfusa, in una situazione che non gli consentiva di assimilarli serenamente. Era un pericolo, Larsen stava combinando un disastro giocando con la vita e con la testa di un ragazzino che non era pronto e lui non era stato in grado di proteggerlo. Non era stato in grado di proteggere nessuno dei due.
- Questo è il colmo. – disse Larsen, ricomponendosi velocemente e fissandolo con aria severa, - Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, dopo averti praticamente cresciuto, il tuo tradimento è tale da lasciarmi allibito. Di’ che non è quello che hai sempre voluto, - lo sfidò con un sorriso crudele, - hai sempre pensato che stessimo sbagliando, che non potessimo forzare il destino… ebbene ora il destino non è più nelle nostre mani, David, ora il nostro destino dipende… dalla pazzia di un ragazzino e del suo sciocco innamorato! Sarai contento, adesso.
- …questo non era quello che volevo. – disse David a bassa voce, - Io volevo soltanto che li rispettaste di più, che rispettaste i loro desideri.
- Bene! – sbottò Larsen, battendo una mano contro la scrivania accanto a lui, - Adesso i loro desideri saranno rispettati! E questo porterà alla distruzione del mondo!
- Distruzione del… David, di cosa diamine state parlando? – si riscosse Tom, allontanandosi dalla parete per avvicinarsi a loro, - Che cosa sta succedendo?
David si voltò a guardarlo mordendosi l’interno di una guancia, incerto.
- Tom, ci sono cose che tu non sai. – cominciò, cercando celermente le parole per esprimere chiaramente così tanto e in così poco tempo.
- E non è più compito tuo istruirlo. – lo fermò Larsen, cupo. – Ti avevo avvertito, David. Sapevi che te li avremmo tolti, se l’avessimo ritenuto necessario.
- No. – balbettò lui, voltandosi repentinamente a guardarlo, gli occhi spalancati e le labbra tremanti, - No, per favore.
- Non c’è niente che potrà farmi cambiare idea, David. – insisté l’uomo, tetro, - Da questo momento, sei sollevato dal tuo incarico di Guardiano e allontanato dall’Ordine. Oltretutto, vista la tua ostinazione nel contrastare le idee e l’operato dell’Ordine stesso, riconoscendo in te un pericolo per quest’organizzazione e per la salvezza del mondo intero, ti dichiaro in arresto.
- In arresto?! – quasi gridò Tom, incredulo, voltandosi a guardare Larsen, - Non ha fatto niente! Cosa vuol dire tutto questo?!
L’uomo gli sorrise, piegando appena il capo.
- David ha ragione, Tom. Ci sono cose che tu non sai. Provvederemo noi a spiegartele. Comandante! – disse quindi, ed un militare, seguito da molti altri, fece il suo ingresso nella stanza, afferrando David per le braccia e trascinandolo fuori, giù per le scale.
- No, io non… - biascicò Tom, indietreggiando appena, - Io non voglio sapere niente, io non… - i suoi occhi erano enormi, spalancati e pieni di lacrime che, per qualche motivo, si ostinava a rifiutarsi di lasciar scorrere lungo le guance.
Larsen sospirò, scuotendo il capo con amarezza.
- Si è complicato tutto così tanto. – commentò tristemente, - Comandante, prenda anche lui. Ma sia delicato.
L’uomo annuì, e lui ed un altro militare si avvicinarono a Tom, che provò a divincolarsi senza grande convinzione per qualche secondo, prima di abbattersi sul pavimento – le ginocchia molli, gli occhi vacui – e lasciarsi trascinare via come un peso morto. Larsen rimase immobile nel centro della stanza, il labbro inferiore fra i denti e gli occhi persi e colmi di preoccupazione, finché un paio di militari, qualche secondo dopo, non tornarono in camera, urlando agitati.
- Herr Larsen, il detenuto è riuscito a fuggire. – lo informarono.
- Cosa…? – sbiancò lui, sollevando lo sguardo nei loro.
- Ha spinto gli uomini che lo trattenevano giù per le scale, uno di loro è morto in seguito alla caduta. – rispose uno dei due, contrito, - Abbiamo perso le sue tracce. Ci dispiace.
Larsen chiuse gli occhi, trattenendo solo a stento un mugolio infastidito, stanco e frustrato.
- E continua a complicarsi. – considerò fra sé a bassa voce, prima di tornare a guardarli. – Trovatelo. Utilizzate tutte le squadre che vi serviranno, non è un problema. Abbiamo già fin troppi elementi che si intromettono in cose che non dovrebbero riguardarli, non abbiamo bisogno di qualcuno che conosca perfettamente-- - si interruppe, guardando per qualche secondo fisso davanti a sé come avesse appena capito improvvisamente qualcosa di fondamentale. – Lasciate perdere. – disse quindi, sorridendo soddisfatto, - Non sarà necessario trovarlo. Sarà lui stesso a trovare noi. Rientriamo alla Santa Sede.
*
- Fermiamoci. – ordinò Anis, perentorio, indicando un ambiente riparato e relativamente lontano dal canale pieno d’acqua sporca che stavano seguendo, - Riposiamoci un po’.
Bill aggrottò le sopracciglia, ostinandosi a proseguire come non l’avesse sentito.
- Bill? – lo chiamò Peter, incerto, dopo essersi già seduto per terra, - Ehi, dove stai andando?
- Io non sono stanco. – disse lui, voltandosi repentinamente a guardarli tutti, - Piantatela di trattarmi come una ragazzina.
- Oh, ma non ti stiamo trattando come una ragazzina. – negò Patrick, scacciando l’illazione con un gesto della mano, - Stiamo solo—
- Avete sollevato il tombino per me e mi avete invitato ad entrare per primo come fosse stato lo sportello di una dannata carrozza! – sbottò lui, esasperato, - Anis si è offerto di portarmi in braccio dopo dieci minuti di marcia, e Chaku ha perfino steso il suo giubbotto su una pozzanghera! Dico, ma le vedete le mie gambe? Quella pozzanghera non avevo nemmeno bisogno di saltarla!
- Bill. – mormorò Anis, passandosi una mano sulla fronte a scacciare via il velo di sudore provocato dal caldo umido che, assieme all’insopportabile puzzo, rendeva l’aria quasi del tutto irrespirabile, - Stavo solo cercando di—
- Di fare cosa? – sbottò Bill, una mano sul fianco e le gambe semidivaricate, - Di proteggermi? La notizia del giorno è che non puoi. – si fermò a prendere fiato, abbassando lo sguardo e passandosi una mano sugli occhi. – Ragazzi, - riprese quindi, più pacatamente, - io non sono una principessa e voi non siete i miei cavalieri serventi. Se questa è una battaglia, per strana che sia, dobbiamo combatterla l’uno al fianco dell’altro.
Anis sorrise divertito, sbuffando appena ed avvicinandoglisi per baciarlo lievemente sulla fronte.
- D’accordo, allora. – annuì serio, - In marcia.
- Sì, però io ero stanco. – si lagnò Peter, borbottando a bassa voce ma alzandosi comunque in piedi.
- E piantala, Dio mio. – disse Patrick, sollevando gli occhi al soffitto scuro e gocciolante, - Sei la cosa più nana dell’universo eppure sprechi energie con una velocità inaudita. Sarà perché parli troppo?
- Be’, sei tu che mi hai portato qui per parlare, mi pare, no? – sibilò lui, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - La prossima volta mi lasci dove sto, immerso nella comodità di casa mia.
- Mentre il mondo esplode. – concluse Patrick per lui, e poi si fermò all’improvviso, immobile, quasi annusando l’aria.
- Che ti prende? – chiese Peter, guardandolo storto, - Sei diventato un cane da tartufo? Un’evoluzione infinita.
- Ssht. – sbottò lui, tappandogli la bocca con una mano, - Sento arrivare qualcuno. Bushido! – lo chiamò agitato, - Passi.
- Li sento. – annuì l’uomo, voltandosi e spingendo con gesto casuale Bill dietro le ali aperte per metà. – Avvicinatevi.
- Non vi allarmate. – disse una voce da un tunnel vicino. I passi si fermarono istantaneamente. – Non voglio farvi del male.
- David. – mormorò Bill, impallidendo, - David! – ripeté a voce più alta, cercando di divincolarsi dalla stretta di Anis.
- Fermo, Bill! – lo rimproverò lui, tenendolo stretto, - Non sappiamo—
- Scusatemi. – mormorò David, apparendo finalmente all’imboccatura di un tunnel poco distante. Si appoggiava alla parete con una mano, c’era un grosso livido che si stava allargando attorno al suo occhio destro e in generale sembrava davvero poco fermo sulle gambe. – Vi giuro che non ho cattive intenzioni. Sono fuggito e ho bisogno di parlarvi.
- David! – continuò ad agitarsi Bill, quasi saltando sul posto, - Dov’è Tomi? Come sta?
- Come ci hai trovato? – chiese invece Anis, guardandolo duramente negli occhi.
David sorrise appena, stringendosi nelle spalle.
- Ho seguito la voce di Bill. – rivelò divertito. Anis non poté impedirsi di ridere, così come Patrick e Peter, mentre Bill arrossiva fino alla punta delle orecchie.
- Ok. – annuì Anis, richiudendo le ali e lasciando a Bill la libertà di muoversi prima e correre incontro a David subito dopo, - Cos’è successo?
David inspirò profondamente, appoggiandosi meglio alla parete e rabbrividendo al pensiero di quanto a lungo avrebbe dovuto rimanere là in piedi a spiegare quali coincidenze astrali e cosmiche l’avessero portato a trovarsi lì in quel momento, partendo praticamente dall’inizio della storia del mondo.
- Ecco, - disse quindi, - so che potrà sembrarvi assurdo, ma dovete credermi se volete uscire vivi da questa storia. Ogni duecento anni—
- Nascono due Prescelti che vengono affidati a un Guardiano e bla bla bla. – roteò gli occhi Peter, gesticolando mollemente, - Siamo già passati al livello successivo, Jost, dicci qualcosa che già non sappiamo.
Patrick si voltò a guardarlo inarcando un sopracciglio.
- Guardalo come si fa bello. – sbuffò infine, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca, - Lascia parlare gli esseri divini, nano. – lo prese in giro con un ghigno divertito.
- David. – mormorò Bill, cercando il suo sguardo. Lui rispose immediatamente col proprio e si guardarono negli occhi per qualche secondo, prima di abbracciarsi stretti, dapprima timidamente, poi con convinzione sempre maggiore, finché il corpo esile di Bill non sembrò quasi scomparire contro il suo.
- Dio, Bill. – disse lui fra le lacrime, - Mi dispiace così tanto. Ho provato a— non lo so. Non so nemmeno io cosa ho provato a fare. Ho provato a proteggervi entrambi e non sono riuscito a salvare nemmeno uno di voi due.
- Io sono al sicuro, Dada. – disse Bill, sforzandosi di sorridergli, - Ma ho bisogno di sapere dov’è Tomi, io non sono nemmeno riuscito a salutarlo e non so cosa— devi dirmi dov’è Tomi, Dada, io devo andare da lui.
David sembrò quasi stupito dalla sua affermazione, e gli accarezzò una guancia, notando con la coda dell’occhio lo sguardo di Anis farsi improvvisamente lontano e triste.
- Sai cosa succederà, se tu e tuo fratello doveste unirvi. – gli ricordò a bassa voce.
Bill si morse un labbro, incerto.
- Io ho bisogno di vederlo, Dada. – insisté, - Almeno un’ultima volta.
David si inumidì le labbra, pensoso, prima di allontanarsi deciso.
- D’accordo. – disse quindi, - Bushido, ho bisogno di parlarti. In privato.
Anis aggrottò le sopracciglia, dubbioso.
- Come faccio a sapere che non è una trappola? – chiese.
- Non puoi saperlo. – rispose David con una scrollatina di spalle, - Mi segui e basta. – concluse, allontanandosi lungo lo stesso tunnel dal quale era venuto.
Anis inspirò profondamente, ma affidò Bill a Peter e Patrick, prima di seguirlo senza fare storie.
- Senti, non facciamola troppo lunga. – sbottò, incrociando le braccia sul petto, - Abbiamo ancora molta strada da fare, e—
- Non voglio interferire coi vostri piani, - disse lui, pratico, - ma prima di ogni altra cosa dobbiamo andare a recuperare Tom. – Anis distolse lo sguardo, le labbra piegate in una smorfia addolorata. - …lo senti anche tu, vero? – chiese David con un sorriso mesto, - Ha bisogno di lui. Sono spinti l’uno verso l’altro. È il karma, sono nati a questo scopo, è scritto nei loro corpi, nella parte più profonda di loro. – sbuffò una mezza risata, - È una cosa che nessuno di noi può cambiare. Capisco molto bene quello che provi.
Anis sollevò gli occhi nei suoi, schiudendo le labbra.
- Tu… - cominciò. Il sorriso di David si allargò appena, e lui si fermò immediatamente.
- Quello che pensiamo io e te, comunque, non cambia la sostanza delle cose. – sospirò stancamente, - I gemelli devono ricongiungersi, o sarà una tragedia.
Anis abbassò lo sguardo, annuendo quasi impercettibilmente.
- Lo so. – disse quindi, - D’accordo. – annuì ancora, sollevando nuovamente lo sguardo, - Quello che deve essere, sarà. Ma alle nostre condizioni.
David inarcò un sopracciglio, incerto.
- Cosa intendi? – chiese.
- Lo vedrai. – rispose, prima di tornare dal gruppo fuori dal tunnel, - Ragazzi. – li richiamò, - Bill. – disse, la voce più dolce, - Devo andare. Accompagno David a recuperare Tom. Voi precedeteci a casa del signor Kaulitz, non fermatevi per nessun motivo e se qualcuno vi segue scappate senza voltarvi mai indietro. – si voltò a guardare Patrick, fissandolo deciso negli occhi, - Ve lo affido. – disse.
- Anis. – sbuffò Bill, gonfiando le guance, - Non ho bisogno di—
- Bill. – lo interruppe lui, tirandoselo contro e baciandolo profondamente per zittirlo. – Obbedisci. – concluse, allontanandosi da lui con uno schiocco ed un sorriso debole.
Dopodiché, si voltò verso David, che nel mentre era riuscito, non senza fatica, a raggiungerli.
- Andiamo? – chiese l’uomo, cercando di reggersi sulla gamba sana.
- Appoggiati a me. – offrì Anis, porgendogli il braccio, - Andiamo a vedere che serratura apre questa chiave.
*
- Sarebbe questa la Santa Sede? – chiese Anis, osservando con aria critica il palazzo che aveva di fronte, - Me l’aspettavo più… non so. Colorata?
- Sì, magari con un neon sul tetto con sopra scritto “è qui la salvezza del mondo”. – sbuffò David, avvicinandosi ad un citofono dall’aria piuttosto malandata e guardandolo bene da ogni lato, come lo stesse studiando.
- È così tetra. – considerò Anis, una mano piantata sul fianco e le ali in lento e appena percettibile movimento dietro le sue spalle, come volesse tenerle ancora in movimento dopo il lungo volo che li aveva condotti fin lì. – È un cliché, tutte le sedi di organizzazioni segrete devono essere tetre e cadenti.
- Stai delirando. – annuì David. – Tienimi questo. – disse poi.
- Questo cosa? – chiese Anis. David strappò via il citofono dalla parete.
- Questo. – ripeté, porgendogli il pannello divelto.
- …oh. – annuì Anis, prendendo il pannello fra le mani e guardandolo con interesse. - …ma—
- Era tenuto su solo da una vite. – sospirò David, intuendo il motivo della sua curiosità, - Questa è l’entrata sul retro. Vedi qui? – chiese, indicando il minuscolo pannello di controllo che il citofono nascondeva, - Bisogna far passare il tesserino identificativo attraverso questa fessura, e poi digitare il proprio codice segreto. Ogni adepto ne ha uno esclusivo e personale.
- Adesso improvvisamente riesco a riconoscere i tratti tipici di un’organizzazione paramilitare. – sbuffò ironico Anis, inclinando appena il capo. – Hai il tesserino, sì?
- Naturalmente. – rispose David, estraendolo dalla tasca interna della giacca, - Ma non so se l’hanno già disattivato. La banca dati dell’Ordine è organizzata in modo da avere un sistema di ricerca molto rapido, in modo da poter disattivare quasi all’istante tesserini e codici di chiunque venga allontanato. Per questioni di sicurezza, sai. – concluse, scrollando le spalle.
Anis annuì, incrociando le braccia sul petto.
- Be’, non ci resta che provare. – propose. David annuì a propria volta, facendo scorrere il proprio tesserino all’interno della fessura e poi digitando velocemente il proprio codice d’accesso sulla tastiera poco più sotto.
La porta si aprì con un click piuttosto discreto, senza neanche dischiudersi davvero, tanto che Anis dovette spingerla per assicurarsi che il tesserino avesse funzionato davvero. Non cigolò nemmeno come entrambi si sarebbero aspettati, e lo spiraglio lasciava intravedere un corridoio illuminato e pulito, e fortunatamente deserto.
- Ha funzionato. – constatò David, incolore, chiedendosi se fosse il caso di entrare alla svelta e richiudersi immediatamente la porta alle spalle o temporeggiare ancora un po’.
- È un po’ strano, no? – chiese Anis, dubbioso, - Proprio in questo momento di grande allerta, dimenticano di disattivare il tuo tesserino?
- Hai ragione. – annuì lui con una smorfia frustrata, - Ma forse, proprio perché per adesso sono presi da altro, non hanno pensato a… - Anis inarcò un sopracciglio, e David sbuffò, incurvando le spalle con rassegnazione. – Lo so, è molto, molto probabile che sia una trappola. Ma anche se fosse, non abbiamo scelta, no?
- Be’, io ce l’ho. – ridacchiò Anis, sdrammatizzando, - Potrei prendere il volo e tornarmene da dove sono venuto.
David rise appena, tornando a sbirciare il corridoio.
- Se anche dovessi rimanere solo, proverei comunque ad entrare e salvarlo.
Anis lo guardò per qualche secondo, cercando disperatamente di non scoppiare a ridere, ma dovette cedere quando rischiò seriamente di morire soffocato, e gli batté una pacca complice sulle spalle.
- Quanto sei epico. – commentò, sghignazzando senza freni, - Mi piace. – concluse con un sorriso più sincero. – Diamoci una mossa, adesso.
*
- Questi sono gli alloggi per gli ospiti. – illustrò David, attraversando l’ennesimo corridoio con migliaia di porte da quando erano entrati all’interno dell’edificio, - È qui che vengono portati tutti gli esterni che, per un motivo o per l’altro, sono legati all’Ordine o devono restare all’interno della Santa Sede per qualche tempo. Però la zona sembra deserta. – considerò dubbioso.
- Il che dovrebbe suggerirci che forse Tom non è qui. – ipotizzò Anis, guardandosi intorno con aria scettica.
- Ma non c’è altro luogo in cui potrebbe essere. – rifletté David, abbassando lo sguardo ed accostandosi ad ogni porta per cercare di percepire qualche rumore proveniente da qualcuna delle varie stanze, - Tutto il resto dell’edificio è occupato dagli uffici e dagli alloggi delle scorte, non c’è altro luogo in cui Tom potrebbe—
- Il sangue di Bill. – disse Anis, fermandosi all’improvviso in mezzo al corridoio e tendendosi tutto come volesse allungarsi ad ingombrare l’intero ambiente, - Sento— sento il sangue di Bill.
- …senti il sangue di Tom, non quello di Bill. – lo corresse l’uomo, illuminandosi repentinamente, - È lo stesso, è ovvio che tu lo percepisca! Avrei dovuto pensarci io stesso! Dov’è?
Anis si guardò intorno con aria persa per qualche secondo, estremamente turbato da ciò che stava percependo. Era come se il suo stesso sangue stesse ribollendo, smaniando all’idea di sfuggirgli dalle vene per unirsi a quello di Bill, dovunque fosse. Non era un particolare odore nell’aria, o un suo particolare sapore, non era una sensazione tattile né uditiva, era la sorda consapevolezza di quel sangue vivo presente da qualche parte intorno a loro.
Chiuse gli occhi e mosse qualche passo lungo il corridoio, fino a fermarsi davanti ad una porta apparentemente uguale a tutte le altre. Quando la spalancò, Tom – che fino a quel momento era rimasto immobile seduto sul letto – scattò in piedi, andando a rifugiarsi nell’angolo più distante da loro, in fondo alla stanza.
- …tu! – disse, quando l’ebbe riconosciuto, - Dove hai portato mio fratello?! È solo colpa tua!
- Tom, io non ho nessuna colpa di quello che sta succedendo. – cercò di spiegargli Anis, tendendo le mani in avanti come a volergli dimostrare di essere disarmato, e pertanto inoffensivo. – Io voglio solo che—
- Tom! – lo chiamò a gran voce David, spingendo Anis da parte perché le sue ali non lo intralciassero e correndo verso di lui. Al solo vederlo apparire, tutto il corpo di Tom si contrasse e poi si tese immediatamente, e il ragazzo deglutì con forza, dandosi lo slancio per scattare in avanti, e atterrare direttamente fra le sue braccia.
- Cristo. – singhiozzò, aggrappandosi convulsamente alla sua maglietta, - Cristo, Dada, come hai potuto farmi questo? Io sono sempre stato sincero con te.
- Lo so, Tom. – lo consolò lui, accarezzandogli lentamente i capelli ed il collo, - È stata tutta colpa mia, avrei dovuto dirti che— insomma, avrei dovuto dirti ogni cosa.
Tom lo guardò negli occhi, mordendosi un labbro. Non piangeva, anche se evidentemente ne aveva voglia, e David si ritrovò a dirsi che era così fiero di lui che al solo pensarci si sentiva quasi scoppiare il cuore dall’orgoglio.
- Tutto quello che credevo di sapere era una menzogna. – disse il ragazzo, incredibilmente lucido, - Anche l’amore che provo per Bill… è una menzogna anche quella.
- Non lo è, Tom. – scosse il capo David, poggiandogli una mano sul viso ed accarezzandogli una guancia col pollice, in piccoli cerchi, - Se lo senti, è reale. Solo ciò che senti lo è, tutto il resto— è tutto il resto ad essere falso.
Tom affondò con maggior forza i denti nel proprio labbro inferiore, stringendo le mani attorno al tessuto sgualcito della sua maglietta.
- David, tu non capisci, io—
- Merda. – li interruppe Anis, richiamando la loro attenzione, - Sembra che dovremo rimandare le confessioni a cuore aperto ad un altro momento.
- Sei sempre stato intraprendente, David. – commentò Larsen con un sorriso di scherno, apparendo sulla soglia della porta circondato da militari armati, - Ma mai davvero brillante. Avrei dovuto immaginare fin dall’inizio che avresti combinato un disastro, eppure scioccamente mi sono voluto fidare del mio intuito, nonostante i saggi mi avessero consigliato altrimenti. Certi errori si pagano, ed io probabilmente ho costretto il mondo intero a pagare per la mia presunzione, ma il vostro viaggio finisce qui. Non riuscirete a portare il Prescelto fuori da quest’edificio.
- Larsen. – ringhiò David, stringendosi contro Tom come a volerlo proteggere col proprio stesso corpo, - Ho lasciato che me lo portassi via una volta, ma non ti permetterò di farlo ancora.
- Idioti. – li interruppe Anis, stringendo i pugni lungo i fianchi ed aprendo le ali solo per metà, - La divinità ce l’avete qui, sotto gli occhi, eppure parlate come se foste due eroi. – si voltò appena verso David, richiamando la sua attenzione con un cenno del capo. – Tu e Tom qui mi intralciate. Per combattere questa gente ho bisogno di lasciarmi andare, e non posso farlo se so di dover proteggere voi due. E Bill non è qui, se dovessi perdere il controllo non so se riuscirei a recuperarlo senza sentire la sua voce.
- Sì, be’, grazie, anche io preferirei essere in vacanza su qualche isola tropicale! – protestò David, stringendosi maggiormente contro Tom mentre i militari si avvicinavano lentamente, con cautela, per evitare di spaventarli troppo, - Ma purtroppo sono qui, perciò trova un modo per risolvere la situazione.
- È facile per te parlare! – protestò lui, mentre Larsen sogghignava soddisfatto a qualche metro di distanza, le braccia incrociate sul petto, - Non è sicuro, non posso combattere finché— - si interruppe, guardando il vuoto per qualche secondo prima di lasciarsi andare ad un sorriso furbo. - …finché siete qui. Ma non ci resterete per molto. – concluse, e così dicendo si voltò repentinamente verso di loro, facendosi scudo con le proprie ali. – Reggetevi! – urlò quindi, afferrandoli entrambi per le spalle ed assicurandosi che avessero fatto girare le braccia attorno alla propria vita prima di scaraventarsi contro l’enorme vetrata sulla parete di fronte a lui come un proiettile impazzito, infrangendola e proteggendo David e Tom con le proprie ali dalle schegge di vetro mentre si librava appena nel cielo di Berlino prima di gettarsi in picchiata verso la strada ai piedi dell’edificio.
- Merda! – urlò Larsen, - Di sotto, di sotto!
Anis lo sentì ed accelerò il proprio volo, ritrovandosi in pochi secondi abbastanza vicino alla strada da poter lasciare andare David e Tom, rimanendo a volteggiare a mezz’aria.
- Scappate. – disse, - Troviamoci—
- No. – lo interruppe David, prendendo Tom per mano mentre il ragazzo si irrigidiva al solo tocco delle sue dita, - Quando avrai finito, precedici. Io e Tom arriveremo attraverso le fogne, abbiamo— - si voltò a lanciargli uno sguardo incerto, e Tom fissò il proprio altrove, mordendosi l’interno di una guancia. – Abbiamo bisogno di parlare. – concluse.
Anis annuì, sollevandosi in volo senza aspettare un minuto di più. Una volta rientrato all’interno dell’edificio attraverso la finestra che aveva sfondato, vide che solo Larsen era rimasto all’interno della stanza, e pregò perché David e Tom fossero riusciti a nascondersi in tempo per non farsi trovare dai militari.
- Sapevo che saresti tornato, fenice. – lo salutò Larsen con un cenno del capo ed un sorriso, - Mi sorprende l’ostinazione con la quale continui a batterti contro un destino già scritto. – commentò con stupore non simulato, - Ciò che deve accadere accadrà comunque, e questo tu lo sai, lo senti, non può essere diversamente, vista la tua natura. Non puoi vincere questa battaglia, fenice. Semplicemente non puoi.
Anis sorrise, sollevando una mano e lasciando fluire l’energia fino a vedere rosso e sentir bruciare ogni centimetro del proprio corpo.
- Forse no. – disse quindi, sorridendo divertito, - Ma posso farti dannatamente male nel mentre.
*
- Forse – provò David, voltandosi indietro a guardare e tendendo le orecchie per cercare di captare anche il più minuscolo suono di passi, - Forse possiamo fermarci un po’. – ansimò pesantemente, rallentando la corsa fino a fermarsi e piegandosi su se stesso, poggiando le mani sulle ginocchia e provando ad inspirare ed espirare con calma. – Devono aver smesso di seguirci, li avranno richiamati indietro alla Santa Sede. – ipotizzò incerto, osservando con la coda dell’occhio Tom infilarsi rapidamente in una rientranza del tunnel e poi sedersi sul pavimento, la testa fra le mani. Lo seguì, sedendosi al suo fianco e fissando di fronte a sé, concedendosi solo raramente il lusso di lanciargli un’occhiata, giusto per controllare che fosse ancora lì con lui.
- Questa cosa è così assurda. – mormorò Tom, gli occhi fissi sul pavimento lurido, - Sembra uno di quei documentari di History Channel, uno di quelli in cui qualche pazzo raduna un gruppo di deficienti e poi li porta in una casupola abbandonata nel mezzo della giungla selvaggia e li convince a suicidarsi bevendo pipì di scimmia o chessò io.
- Tom, dubito fortemente che la pipì di scimmia sia mortale. – disse lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
- Non è quello il punto! – sbottò Tom, voltandosi a guardarlo con aria offesa, - Hai capito cosa intendevo.
David sorrise, sollevando un braccio ed avvicinando una mano alla sua testa, ma la ritrasse immediatamente, come si fosse scottato. Tom se ne accorse, ed una delle sue mani scattò ad afferrarlo per il polso, conducendo la sua mano finché non giunse dove voleva arrivare fin da principio.
- Toccami. – disse, e chiuse gli occhi mentre David lo accarezzava piano, - Cioè… - aggiunse con evidente imbarazzo, - puoi farlo. Non mi arrabbierò più.
- …Tom, io—
- Io – lo interruppe Tom, stringendo con più forza le dita attorno al suo polso, quasi guidandolo in una carezza più lenta e morbida lungo il suo collo, - Io sono sempre stato innamorato di Bill. – confessò a mezza voce, - Fin da quando riesco a ricordare, capisci? Per me, nel mondo intero, non c’era altro. Era come se fossi nato solo ed esclusivamente per… riuscire a stare con lui, un giorno. E per quanto fosse assurdo— Dio, in fondo è di mio fratello che stiamo parlando. Ma per quanto fosse assurdo io pensavo davvero che alla fine sarei riuscito a vincerlo. Come un principe o un eroe dei cartoni animati, non lo so.
David se lo tirò contro, facendogli spazio fra le gambe e lasciandolo appoggiare con la schiena al suo petto.
- Be’, non hai ancora perso le speranze, no? – cercò di dargli coraggio, appoggiando il mento sulla sua spalla e trattenendosi a stento dall’inspirare con forza il suo odore. – Magari alla fine nonostante tutto la principessa—
- No, ecco. – rise Tom, scuotendo il capo, - Lo vedi che non capisci? Io non sono un principe e Bill non è una principessa e non è neanche l’unica cosa esistente nel mondo. – spiegò con decisione, - È una delle tante cose che mi piacerebbe salvare, ma non è l’unica. È una delle tante cose che ho, ma non è l’unica. Lui non… - inspirò profondamente, guardando fisso di fronte a sé nel buio del tunnel , - lui non è tutto il mio mondo, non è l’unica cosa che posso sperare di ottenere dalla mia vita. Non è la ragione per cui esisto. Io sono la ragione per cui esisto.
David sorrise, percependo chiaramente il brivido che corse lungo il collo e la schiena di Tom non appena sentì il suo sorriso premere contro la pelle.
- Sei cresciuto così tanto. – disse dolcemente, - Quando è successo?
- Mentre non guardavi. – rispose lui, - O mentre fingevi di ascoltarmi per ripetermi la lezioncina preimpostata che ti aveva insegnato Larsen, forse.
- …Tom, io non—
- Lo so. – lo fermò con un sospiro, chiudendo gli occhi e rilassandosi di nuovo contro il suo petto, - So che posso fidarmi di te, in qualche modo so che potevo farlo anche prima, solo che… se solo tu mi avessi ascoltato meglio, quando venivo a parlarti, avresti capito che…
David si tese immediatamente, e la tensione dei suoi muscoli sembrò quasi passare direttamente in quelli di Tom, che si tesero tutti a propria volta.
- Che…? – lo invitò a proseguire, la voce incerta.
- Che io non ho mai… - deglutì Tom, rifiutandosi di guardarlo, - che io non ho mai visto quante altre possibilità avevo. Ed era per questo che le rifiutavo a priori.
David deglutì a fatica, stringendo impercettibilmente la presa attorno alle sue spalle larghe ma esili – così esili, come quelle di suo fratello, spalle che non dovrebbero mai portare pesi simili, spalle che non avrebbero mai dovuto portare pesi simili se solo lui avesse potuto prendersene cura, in una situazione diversa, in un mondo diverso, in una vita diversa – per poi lasciarlo andare quasi di scatto e rimettersi in piedi.
- Dovremmo riprendere il viaggio. – disse, ricominciando a camminare senza voltarsi a guardarlo. Se l’avesse fatto, avrebbe visto Tom restare seduto qualche secondo in più di lui, la bocca dischiusa e gli occhi persi sulla sua figura familiare, inumidirsi le labbra come volesse provare a dire qualcosa e poi lasciare perdere, abbassando lo sguardo e rimettendosi a propria volta in cammino.
*
L’espressione del viso di Jörg Kaulitz, nell’aprire la porta e trovarsi di fronte Bill accompagnato da Patrick e Peter, non era riuscita a mascherare il suo stupore profondo nonostante la signora Silvia l’avesse avvisato immediatamente via mail del loro imminente arrivo. Era rimasto immobile, una mano sullo stipite e l’altra sulla porta, osservandolo come fosse la prima volta che gli posava gli occhi addosso, cosa che ovviamente non era possibile, essendo Bill rimasto quasi continuamente in tv, in radio e su svariati cartelloni pubblicitari in giro per tutta la Germania prima e tutto il mondo poi, per la gran parte dei suoi ultimi cinque anni di vita.
- …entrate. – aveva detto quindi, ritrovando compostezza e schiudendo l’uscio per lasciarli passare, - Sono stato avvertito della vostra situazione. Qui sarete al sicuro, nessuno sa dove mi trovo.
Bill s’era guardato intorno con aria incerta, mentre Patrick ispezionava prudentemente l’abitazione e Peter si dirigeva spedito in cucina incaricandosi – senza che nessuno gliel’avesse chiesto – di preparare da mangiare per tutti.
- Be’… ciao. – aveva detto quindi, voltandosi a guardarlo e sorridendogli un po’. – Non ci vediamo da tanto.
Jörg sorrise a propria volta, avvicinandosi quasi con cautela.
- Da troppo. – lo aveva corretto, - Posso abbracciarti? L’ultima volta che l’ho fatto eri così piccolo che mi stavi quasi in una mano.
Bill aveva ridacchiato imbarazzato, spostando il peso da un piede all’altro e scostando dal viso una ciocca di capelli.
- Puzzo da morire… - si era giustificato, stringendosi nelle spalle.
- Al momento è l’ultima cosa che m’importi. – aveva insistito Jörg, avvicinandosi di un altro passo.
- Ma non pensi che sarà strano? – aveva continuato Bill, agitandosi appena, - Voglio dire, è— io non ricordavo nemmeno il tuo volto, e—
- Bill. – lo aveva interrotto suo padre, fermandosi a pochi centimetri da lui, - Posso abbracciarti?
Bill gli aveva sollevato addosso uno sguardo perso e colmo di lacrime, e s’era morso un labbro.
- Sì. – aveva risposto, annuendo debolmente, - Sì, ti prego. Fallo.
Suo padre l’aveva stretto a lungo, immobile in mezzo all’ingresso, le sue mani grandi serrate attorno alle sue spalle ed il petto ampio contro cui nascondere il viso. Bill amava pensare di essere riuscito a venire su perfettamente anche se suo padre non era stato che una presenza fugace assente in quasi tutti i momenti veramente importanti della sua vita, ed era vero, ma stretto fra le sue braccia non poteva impedirsi di realizzare quanto intensamente una presenza simile gli fosse mancata, e quanto forse sarebbe stato tutto più facile se lui ci fosse stato più spesso. Se gli fosse stato permesso di esserci più spesso.
Jörg lo aveva presto condotto al piano di sopra, all’interno di una stanza quasi del tutto sgombra ma con una brandina approntata alla bell’e meglio sotto la finestra, le lenzuola pulite e già ripiegate su un angolo, pronte ad accoglierlo.
- Riposati. – gli aveva detto, stringendogli una spalla fra le dita con aria rassicurante, - Le prossime ore non saranno semplici, per te.
- Non posso dormire… - aveva risposto lui, inquieto, - Come faccio se succede qualcosa?
- Non succederà niente. – l’aveva rassicurato Patrick, passando davanti alla porta e sorridendogli deciso, - Veglieremo noi su di te. E quando ti sarai svegliato, il nano di sotto avrà finito di preparare cene per due eserciti, e potrai ingozzarti come devono fare tutti i ragazzini della tua età.
- Fler! – l’aveva chiamato Peter dal piano terra, - Allora, queste patate non si peleranno certo da sole!
- Arrivo… arrivo! – aveva sospirato lui, scendendo velocemente le scale. Bill aveva ridacchiato piano, gli occhi già pesanti, e suo padre l’aveva baciato dolcemente su una tempia prima di chiudere la porta e lasciarlo solo.
*
Si risvegliò molte ore dopo. Fuori dalla finestra, il sole stava per tramontare, e tutta la stanza era immersa in una nuvola di luce aranciata che rendeva i contorni delle cose molto più scuri e irreali di quanto non fossero. Anis stava seduto sul letto accanto a lui, le ali chiuse e ripiegate in modo da non dargli troppo fastidio, e gli accarezzava i capelli. Dalle sue scapole, il sangue scendeva lungo le braccia in rivoli sottili sempre vivi. Aveva macchiato tutte le lenzuola.
- Ho combinato un disastro. – disse sorridendo, - Tuo padre mi massacrerà.
- Anis! – lo chiamò lui, scattando a sedere e gettandogli le braccia al collo, - Dio… sei ferito? Quando sei arrivato?
- Calmati… - rise lui, stringendolo alla vita, - Non sono ferito, e sono arrivato una mezz’oretta fa.
- E perché non mi hai svegliato? – chiese lui, sbuffando platealmente, - Avrei potuto—
- Volevo restare un po’ solo col tuo bel visino senza la compagnia del tuo fastidioso chiacchiericcio. – rispose lui ridendo e guadagnando in risposta uno scappellotto sulla nuca, - Tu stai bene?
- Ma certo che sto bene, non ho due ali che mi spuntano dalle scapole, io. – sbottò Bill, gonfiando le guance ed incrociando le braccia sul petto. Le sciolse immediatamente, però, tornando ad accucciarsi contro di lui il secondo successivo, - Dov’è David? – chiese preoccupato, mentre Anis tornava ad accarezzargli i capelli.
- Tuo fratello era un po’ scosso, - rispose lui, - ha chiesto un po’ di tempo da soli. Dovrebbero essere in arrivo nel giro di un’ora, immagino.
Bill annuì, deglutendo a fatica prima di fare la domanda successiva.
- Larsen? – si rassegnò a chiedere infine, stringendo le mani a pugno attorno alla maglietta sporca e stropicciata di Anis.
- Morto. – rispose lui, gelido. – Mi dispiace.
Bill sospirò, allontanandosi di qualche centimetro.
- Immagino andasse fatto. – rispose, - Ci sono un sacco di cose che vanno fatte, ancora.
Anis gli accarezzò lentamente una guancia, lasciando sulla sua pelle una traccia di rosso già un po’ sbiadita.
- Ti ho—
- Non importa. – lo interruppe Bill con un sorriso.
Anis sospirò, chinandosi a baciarlo lentamente sulle labbra.
- Bill, io non devo dirti proprio niente. – disse quindi, poggiando la fronte contro la sua, - Quello che devi fare lo sai già.
Bill rise amaramente, sporgendosi a catturare le sue labbra in un altro bacio appena accennato.
- In realtà no. – rispose, - So quello che dovrei fare, ma non è esattamente la stessa cosa.
- No, non lo è. – annuì Anis, scivolando sul materasso fino a poterlo stringere più disinvoltamente fra le braccia. – Mi mancherai. – disse, baciandogli la fronte, le guance, la punta del naso, - Mi mancherai da morire.
- Non sai quello che farò. – disse Bill, stringendosi a lui e chiudendo gli occhi, - Non sai se andrò da Tomi.
- Saresti così irresponsabile? – chiese lui, lasciandogli scivolare la maglia sopra la testa.
- Non lo so. – sospirò Bill, agevolando i suoi movimenti sollevando le braccia, - Non mi sono mai ritrovato in una situazione simile, prima d’ora. – aprì gli occhi all’improvviso, piantandoli nei suoi. Erano lucidi, ma incredibilmente brillanti e presenti. – Posso solo giurarti che, qualsiasi decisione prenderò, la prenderò con la certezza che non dovrò pentirmene.
Anis sorrise, stendendolo sul materasso e sfibbiandogli i pantaloni. Bill sollevò il bacino per agevolarlo mentre glieli lasciava scorrere lungo le gambe, e sorrise divertito, sistemandosi meglio contro il cuscino e schiudendo le cosce per accoglierlo meglio quando lui si liberò celermente dei propri abiti, strappandosi letteralmente di dosso la maglietta ormai ridotta quasi a brandelli.
- Cos’è quel sorrisetto? – chiese Anis, chinandosi su di lui e sfiorandogli le labbra con un bacio, - Sei un ragazzino impertinente.
- Anis, cosa stiamo facendo? – rise lui, sollevando le braccia ed allacciandolo al collo per tenerlo più vicino possibile a sé, - Di fuori c’è la fine del mondo e noi scopiamo?
Anis rise a propria volta, sfiorando la sua apertura con la punta della propria erezione e baciandolo profondamente, quasi a distrarlo, nel momento in cui entrò dentro di lui con una spinta secca.
- Non riesco ad immaginare momento migliore. – rispose divertito, mentre Bill rideva ancora fra le sue labbra.
Accarezzò con devozione ogni centimetro del suo corpo, senza smettere di baciarlo neanche per un secondo. La sua mano scese lenta lungo il suo fianco, pressandosi per bene contro la sua pelle, come a voler lasciare l’impronta dei propri polpastrelli. C’era così tanto sangue sulle lenzuola, così tanto sangue sul suo corpo che cadeva come pioggia su quello di Bill. Minuscole gocce di ciò che c’era di più profondo in lui, della sua vita stessa, scivolavano lentamente lungo i suoi fianchi, lungo le sue braccia, e si posavano sui fianchi e sulle braccia di Bill, sul suo viso, sul suo ventre, scendendo giù fino a disegnare sul materasso la sagoma sottile del suo corpo. Anis sperò che quello potesse essere un modo come un altro di dargli forza. La sua forza. Sperò di riuscire a trasmettergliela, anche solo in parte, almeno così.
Quando sentì di essere vicino all’orgasmo, mormorò il suo nome fra le labbra e lo tirò su da sotto le ascelle, come un bambino piccolo, sistemandoselo in grembo e spingendosi con forza dentro di lui. Bill piangeva e rideva e gli sussurrava che lo amava da morire, e si aggrappò con forza alle sue spalle, in preda alle vertigini, quando lo sentì venire dentro di sé spalancando le ali, brillanti e rosse e gialle come lingue di fuoco, e pochi secondi dopo venne a propria volta nella stretta decisa delle sue dita.
- Sei così bello. – singhiozzò Bill contro la sua spalla, le mani imbrattate di sangue e gli occhi chiusi con tanta forza da sembrare due fessure bistrate di nero ormai quasi sbiadito, - Sei bellissimo e io ti amo così tanto. – pianse ancora, incapace di controllare le risate che continuavano a scuoterlo tutto, tanto che Anis non riusciva proprio a capire se fosse disperatamente felice o disperatamente triste, o fosse semplicemente impazzito del tutto. – Sono felice che tu sia mio, Anis, sono così felice che tu sia mio.
Anis gli ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, baciandolo su una tempia e richiudendo le ali attorno al suo corpo.
- Anche io sono felice di essere stato tuo, Bill. – sussurrò piano, cullandolo dolcemente. Bill non rispose, e si limitò a stringerlo con più forza, cercando di imporsi di smettere almeno di piangere.
*
- Sta per arrivare un temporale. – disse Patrick, passando l’insalata di patate a Jörg, - Gradisce?
- Come fai a dirlo? – chiese Peter, mentre il signor Kaulitz riempiva abbondantemente il proprio piatto e poi faceva girare l’insalatiera attorno al tavolo, - Non hai nemmeno guardato di fuori.
- Lo sento, no? – scrollò le spalle lui in risposta, mangiando lentamente, quasi con attenzione.
- L’evoluzione procede, ora mi diventi un cane. Perché non lo sei diventato quando eravamo nelle fogne e quel terremoto ha buttato giù mezzo tunnel rischiando di schiacciarmi mentre cercavo di salvare Bill da morte certa? Avresti potuto percepirlo in anticipo ed avvertirmi.
- Tu sei un deficiente. – lo apostrofò Patrick, tirandogli uno scappellotto sulla nuca mentre Anis ridacchiava sommessamente e Bill restava trincerato nello stesso silenzio quasi autistico che l’aveva accompagnato da quando lui ed Anis erano scesi dal piano di sopra per unirsi alla cena, - Non sto diventando un cane, è solo che riesco a sentire l’acqua che si avvicina. Guarda. – disse quindi, sollevando una manica della felpa. La pelle del suo braccio era ricoperta di minuscole goccioline simili a condensa. – Toccala pure.
- Sarà mica velenosa? – chiese Peter, osservando curiosamente le goccioline mentre alcune di esse si gonfiavano e scivolavano lungo la linea curva del suo avambraccio, inumidendo la tovaglia sotto.
- È acqua, cretino. – sbottò Patrick, sfiorando le goccioline con un dito e ficcandoglielo in bocca per dimostrargli senza ombra di dubbio la verità delle proprie affermazioni. – Visto?
- …ma tu sei tutto scemo! – strillò Peter, tirandogli un mezzo pugno nel centro della fronte, - No, dico, e se fosse stata velenosa? Mi avresti ammazzato senza un ripensamento!
- Ma sapevo che non lo era! – obiettò Patrick, gesticolando animatamente con una mano e massaggiandosi la fronte con l’altra, - Pensi che avrei messo a rischio la tua vita in questo modo?
- Be’, nelle fogne non mi hai avvertito del terremoto in avvicinamento, quindi sì. – considerò lui, incrociando le braccia sul petto.
- Sono un dragone, non una talpa! – precisò Patrick, esasperato, - Sento i movimenti dell’acqua, mica quelli della terra!
Sul sottofondo del loro litigio, Anis si voltò a guardare Bill e, trovandolo incupito, smorzò il sorriso che gli piegava le labbra.
- Ehi. – lo chiamò piano, lasciando scivolare una mano sopra la sua. Era ghiacciata. Tentò di scaldarla. – Ehi, Bill.
Lui non diede segno di averlo sentito, ed Anis si voltò a cercare Jörg con gli occhi. L’uomo ricambiò il suo sguardo e si ripulì velocemente le labbra con un tovagliolino, prima di chinarsi a poggiare la propria mano sulla spalla di Bill, scuotendolo lievemente.
- Bill, è tutto a posto? – chiese. Bill sollevò gli occhi nei suoi, guardandolo con aria persa, come si fosse svegliato solo in quel momento.
- Ho bisogno di sapere dov’è Tomi. – disse, senza rispondere alla domanda, mentre la mano di Anis si allontanava dalla sua, - Sono inquieto, non riesco a capire dov’è.
- In genere ci riesci? – gli chiese Jörg con un sorriso indulgente. Bill si strinse nelle spalle.
- Non è che sappia sempre individuare le coordinate esatte del luogo in cui si trova, - rispose incerto, - ma riesco quasi sempre a sentire che è lì, da qualche parte. È una certezza che mi consola. Adesso però lo sento così lontano e trasparente, come si stesse volatilizzando… - sollevò una mano e la guardò a lungo da ogni lato, quasi si aspettasse di vederla diventare trasparente sotto i suoi stessi occhi. – Sta vacillando, riesco a sentirlo.
- Cosa sta vacillando? – chiese Jörg, inarcando un sopracciglio.
- Non lo so… - sospirò Bill, tornando ad abbassare la mano, - Lui. Io. Quello che siamo. – inspirò profondamente, come stesse provando un dolore troppo forte e temesse di non riuscire più a respirare, - Non mi sono mai sentito così, mi si spezza il cuore.
Il borbottio di Peter e Patrick si fece sempre più basso, fino a scomparire del tutto. Anis, immobile al fianco di Bill, si stava mordendo l’interno una guancia con tanta forza da sentire il sapore del sangue sulla lingua.
- Bill— - provò a chiamarlo suo padre, ma Bill scattò in piedi come se l’avessero sfiorato con un tizzone ardente.
- Lui l’aveva promesso. – mormorò fra sé assente, come si trovasse in un altro luogo e in un altro tempo, - Noi non ci saremmo disintegrati. Ed invece sta succedendo, e io non so dov’è. E non potrò salutarlo. E il mondo finirà senza che io possa toccarlo ancora e— - si piegò su se stesso, ansimando disperatamente e portando una mano alla gola, - Non riesco a respirare.
- Bill. – scattò subito in piedi Anis, e fu al suo fianco in meno di un secondo. – Bill, cosa—
- Stammi lontano, non mi toccare! – strillò lui in un rantolo esausto, - Non respiro, non respiro, devo— devo uscire!
- Bill, fermati. – disse Patrick, frapponendosi fra lui e la porta, - Può essere pericoloso, fuori.
- Devo uscire. – ripeté lui, muovendosi a fatica, appoggiandosi ai mobili, - Ti prego, lasciami uscire. Devo farlo.
Patrick cercò gli occhi di Anis, e quando li trovò vi lesse la consapevolezza di un momento che stava cercando stupidamente di ritardare all’infinito, nonostante sapesse che prima o poi sarebbe arrivato.
- Lascialo andare. – disse piano, - Credo sia ora.
Patrick si scostò dall’uscio, mentre Peter gli si affiancava e si preparava a seguire Bill dovunque fosse andato, come sembrava intenzionato a fare anche Anis stesso, assieme al signor Kaulitz. Bill schiuse la porta ed uscì fuori dall’abitazione, lanciando un’occhiata stanca al cielo scuro e gonfio di nuvole e pioggia. Rimase col naso puntato per aria finché non sentì le prime gocce bagnargli la pelle, e allora chiuse gli occhi e sorrise sereno, come improvvisamente sollevato da un peso.
- Eccoti… - mormorò a bassa voce, restando immobile.
Anis, dietro di lui, aggrottò le sopracciglia e venne presto catturato da un movimento appena percettibile delle spighe nel campo ad un paio di decine di metri da loro. Spalancò gli occhi quando riuscì ad identificare le sagome delle due persone che si stavano avvicinando.
- È Tom. – mormorò Jörg, riconoscendo il figlio, - Con Jost.
David corse velocemente fino a loro, fermandosi solo quando li ebbe raggiunti.
- Sta accadendo. – disse trafelato, - Metà rete fognaria è completamente distrutta, la città sta collassando su se stessa. Ben presto tutto il resto del mondo la seguirà a ruota, se non… - si voltò indietro, cercando Tom con una mano, e non si stupì poi così tanto quando vide che il ragazzo s’era fermato parecchi metri più indietro, perfettamente di fronte a Bill. Una crepa si aprì nel terreno nei pochi centimetri che li separavano, e s’allargò velocemente al punto da creare un piccolo cratere quasi perfettamente circolare, costringendo entrambi ad indietreggiare prudentemente.
- Tomi. – mormorò Bill, incerto. Gli tremavano le labbra.
- Lo so. – rispose lui, irrigidendo le braccia lungo ai fianchi per resistere all’impulso di lasciarle scattare a stringerlo, - Bill, tutto questo non è reale. – disse piano, - È una cosa che ci hanno messo in testa.
- Tomi, nessuno mi ha messo in testa un accidenti di niente! – disse lui, gli occhi che si riempivano di lacrime, - Ho il cuore che scoppia, non mi sono mai sentito così! Mi fa male tutto!
- Billi, ti prego. – cercò di fermarlo Tom, la voce rotta. A qualche metro di distanza, Anis cominciò a respirare con fatica sempre maggiore, mentre Patrick si voltava a guardarlo con aria spaventata.
- Cosa gli prende? – chiese Peter, incerto. Gli occhi di Patrick brillarono di un azzurro più intenso che mai, solo per un secondo.
- Sta cambiando. – rispose a mezza voce.
- Tomi, questo sta succedendo. – disse Bill, allargando le braccia come a comprendere in un solo gesto la rovina dell’intero pianeta, - Non è un’invenzione e non è un’illusione, sta crollando tutto e noi dobbiamo—
- Noi dobbiamo – sorrise Tom, guardandolo dolcemente negli occhi, - fare solo ed esattamente quello che vogliamo.
Bill si morse un labbro. Dietro di lui, a qualche metro, Anis inspirò ed espirò a fatica un’ultima volta e poi schiuse le ali all’improvviso, tanto che tutti coloro che aveva intorno per poco non ne furono colpiti.
- Cosa— - mormorò Jörg, caduto per terra nel cercare di evitare le ali di Anis, rialzandosi in piedi per seguirlo, - Dove sta andando? Bushido! – lo richiamò, ma David lo fermò piantandogli una mano sul petto ed osservando il suo movimento lento e deciso con curiosità e paura.
- Billi, tu per cosa vivi? – chiese. Suo fratello dischiuse le labbra, pronto a rispondere con la prima cosa che gli fosse venuta in mente – il suo nome – ma Tom lo fermò con un gesto deciso. – Hai vissuto tutta la tua vita per salvare il mondo? Per— per venire via con me chissà dove, per sparire per sempre, per diventare un dio? – sospirò, - Io no. Io ho vissuto perché mi piacevano le ragazze, perché volevo diventare famoso, perché volevo suonare in tutto il mondo, perché ti amavo da impazzire, Billi, ma non volevo scomparire, non volevo che amarci fosse un obbligo. Ho vissuto per la mamma, ho vissuto per i miei meravigliosi sandwich, per la pizza, per la Wii, ho vissuto perché volevo essere felice, ho vissuto perché volevo essere.
Lentamente, di fronte a lui, Bill si mise a piangere, in silenzio.
- Tomi… - singhiozzò piano. – Io non—
- Se tu hai vissuto tutta la tua vita per scomparire oggi, Bill, se hai vissuto per scomparire assieme a me, io ti seguirò, perché ti amo, perché sei mio fratello e perché voglio che tu sia felice. Ma se non è per me che hai vissuto fino ad adesso, non è nemmeno per me che devi morire.
Bill deglutì a fatica, le labbra tanto strette da sembrare un’unica linea dritta a tagliargli il volto, come una ferita. Mosse un passo in avanti verso il cratere che lo separava da suo fratello, poi ancora un altro, e poi le sue labbra si schiusero, ed i suoi occhi tornarono asciutti.
- Scusami. – sussurrò pianissimo, prima di voltarsi repentinamente. Anis era lì, a qualche passo da lui, braccia ed ali dischiuse.
- Bill. – lo chiamò, la voce rotta, - Ti prego. – anche se non avrebbe saputo nemmeno lui dire per che cosa lo stesse pregando.
Bill sorrise, muovendosi verso di lui prima lentamente, poi sempre più velocemente, fino a correre. Quando si lanciò fra le sue braccia, lo fece con una forza tale che Anis quasi vacillò.
- Io ti amo. – disse, lasciandosi sollevare in volo mentre si protendeva a baciarlo sulle labbra, - Ti amo da morire e sono tuo ed ero tuo e sarò tuo, qualunque cosa succederà. La mia metà della mela sei tu.
Anis gli sorrise, stringendolo a sé e richiudendo le ali attorno al suo corpo. La terra tremò con violenza appena i piedi di Bill se ne allontanarono, e il cielo di aprì in uno squarcio luminoso di fulmini e tuoni assordanti nel momento esatto in cui dai loro corpi si sprigionò una luce talmente abbagliante da investirli tutti e costringere gli altri a chiudere gli occhi e schermarsi il viso, per non esserne accecati.
Scomparve solo molti secondi dopo, assieme al brontolio sempre più soffuso della terra e del cielo. Quando David riaprì gli occhi – per primo rispetto a tutti gli altri – vide che le crepe e i crateri che avevano martoriato la terra fino a pochi secondi prima erano del tutto scomparsi, così come i nuvoloni che appesantivano il cielo. Stelle e luna rischiaravano appena l’ambiente, Patrick era tornato normale sotto lo sguardo allucinato di Peter e Tom era seduto per terra da solo, con gli occhi spalancati, a pochi metri dal punto in cui Bill ed Anis erano scomparsi.
Sentì l’impulso di ridere, e non riuscì a trattenerlo.
- Lo sapevo, - disse scattando in piedi e correndo verso Tom. – lo sapevo che i divini non potevano essere forzati! Lo sapevo che doveva essere una loro scelta! – si chinò accanto a lui, porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi mentre Jörg, Peter e Patrick lo raggiungevano celermente.
- Di cosa diavolo stai parlando? – chiese quest’ultimo, ancora incerto sulle gambe a causa del proprio repentino cambiamento.
- Ma non capite?! – disse David, entusiasta, gesticolando animatamente, - Le due metà perfette non sono nate assieme, si sono ritrovate poi! Meglio ancora: si sono scelte! Questa cosa è— è incredibile! – rise, - È vero, noi creiamo i nostri dei, noi siamo i nostri dei. Larsen non l’aveva capito davvero, ma ora io sì. – e così dicendo, si voltò a guardare Tom, che lo fissava allucinato, comprendendo ad occhio e croce solo una parola ogni tre che pronunciava. Allungò le mani a coppa ad accarezzargli il viso rigato di lacrime ormai quasi asciutte, e si sporse in avanti a sfiorargli le labbra in un bacio umido e salato. – La metà della mia mela sei tu. – gli disse piano, sorridendo sereno, - È ancora tuo diritto scegliere se io posso essere la tua.
Tom schiuse la labbra, incerto. Le mosse impercettibilmente per un paio di secondi, come non riuscisse a trovare le parole e stesse cercando di plasmarle con le proprie labbra senza fermarsi a pensarle prima, e quando capì che non ci sarebbe mai riuscito lasciò andare un respiro profondissimo, come non avesse fatto altro che trattenerlo da che era venuto al mondo, e gli gettò le braccia al collo, stringendosi a lui e baciandolo affamato, gli occhi chiusi e le risate intenerite di David che si perdevano a tratti in mezzo ai suoi gemiti tristi e felici e impauriti e dannatamente completi.
Jörg rise, piantando una mano sul fianco e passandosi l’altra sugli occhi. Di Bill ed Anis non era rimasta traccia, e questo era un argomento che prima o poi avrebbero dovuto affrontare, ma il momento non sembrava quello opportuno.
- Sarò in casa, quando loro due avranno finito di… di trovarsi, suppongo. – ridacchiò a bassa voce, avviandosi verso l’abitazione.
- Qui si baciano tutti. – borbottò Peter, incrociando le braccia sul petto, - Se penso che io sono qui solo perché tu avevi bisogno di qualcuno con cui parlare, mi sale un nervoso che non ti dico.
Patrick si voltò a guardarlo, inarcando un sopracciglio con aria dubbiosa.
- Se pensi che anch’io ti bacerò, sei completamente fuori strada. – notificò atono, come stesse parlandogli della data di scadenza di una bolletta.
- Ma chi ti vuole baciare?! – strillò istericamente Peter, dandogli le spalle e muovendosi celermente per raggiungere Jörg, ormai già quasi arrivato a destinazione, - Ma vedi tu se— Ah, mamma, quanto ti farò pagare tutto questo, quanto! Non ne hai nemmeno idea. Pranzi e cene a casa tua per almeno sei mesi!
Patrick sorrise divertito, inumidendosi le labbra e facendo per andargli dietro. Si fermò all’improvviso, voltandosi verso Tom e David ancora presi dal bacio, e si schiarì la voce.
- Noi penso che, uhm… - cominciò incerto, - …ma non credo vi interessi. – concluse con una mezza risata, prima di lasciarli lì ed allontanarsi. Ed aveva ragione. A loro non interessava.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia, Drammatico.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVISI: Angst, Slash, Violence.
- "Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto."
Note: Mi rendo conto dell'assurdo del cominciare una nuova parte di questa saga con uno spin-off, ma per motivi logistici siamo riuscite a organizzarci solo così XD Oltretutto, immagino che tutte voi (?) foste molto impazienti di sapere cosa fosse successo al povero David. Ed ecco che lui, pronto, risponde. Partendo dal Big Bang, ma risponde.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
IL GIORNO IN CUI SONO MORTO

Se dieci anni fa, quando ho cominciato ad interessarmi di produzione e composizione di canzoni, mi avessero detto “guarda che questo mestiere sarà il motivo per cui, in un giorno non molto lontano e ancora nel fiore dei tuoi anni, tirerai le cuoia”, ci avrei riso su. Davvero. Tutti i mestieri che avevo fatto, perfino il breakdancer e il cantante in una boyband, sembravano decisamente più pericolosi di quanto non potesse sembrare restare dietro le quinte a comporre canzoni per gente varia ed eventuale. Perfino svegliarsi al mattino, scendere dal letto e prepararsi il caffè sembrava più pericoloso. Potevi scivolare sulle ciabatte, per dire. O scottarti con la caffettiera. A scrivere canzoni e produrle cosa poteva accaderti? Potevi pungerti con la penna? Poteva venirti un crampo alla mano dopo aver passato ore al computer a modulare voci stonate per farle sembrare meno raccapriccianti di quanto fossero al naturale? Che gran pericoli! Che rischi!
Nel tempo, naturalmente, le cose sono un po’ cambiate, come alla fine cambia tutto, che tu gliene dia la possibilità o meno. Quello del cambiamento è un deprimente destino che ci accomuna tutti, l’unica cosa nella quale in effetti la vita non faccia differenza a seconda di chi va a colpire. Vedete il mio viso, ad esempio? Vedete queste piccole rughe attorno agli occhi, segni del tempo che non è stato possibile cancellare neanche a furia di badilate di creme molto più costose di quanto non possa per decenza rivelare? Ecco, queste stesse rughe assumeranno magari meno fascino su qualcun altro, ma ci saranno. Ci saranno sul viso di un ragazzino che per ora ha tredici anni, e quando arriveranno saranno uguali a quelle dell’uomo sul viale nel tramonto che magari ne ha sessantacinque. E quindi, come è cambiata la mia fisionomia, la grana della mia pelle, il colore dei miei capelli, è cambiato anche il modo che avevo di vedere determinate cose. Più che altro, c’è da ammetterlo, a causa dei Tokio Hotel.
Cinque, ormai quasi sei anni fa, io e Dave, che è un uomo che ormai mi sopporta da molto tempo, nonché l’esempio perfetto di come dovrebbe essere un omosessuale al giorno d’oggi, quando invece io sono circondato solo da checche in mezzo al gruppo delle quali certe giornate sento di poter prendere posto con fin troppa disinvoltura, fummo mandati dalla Universal a Loitsche. Le prime reazioni – di entrambi, peraltro, ai tempi giovani e pieni di possibilità – furono di sconforto. Perché ci mandavano a Loitsche? Cosa c’era, a parte i campi di patate, la campagna e il vuoto cosmico?
Saltò fuori che invece in quel buco dimenticato da Dio c’era un diamante grezzo dal valore inestimabile. Quattro ragazzi che si volevano bene, erano amici davvero, suonavano insieme e volevano divertirsi. Quattro ragazzi in mezzo ai quali si trovava Bill Kaulitz, e Bill era già Bill allora, credetemi. Forse un po’ più spettinato, coi denti un po’ più storti e con addosso vestiti meno costosi, ma Bill comunque.
È stato allora che tutto ha cominciato a cambiare. Improvvisamente la questione non era più circoscritta allo scrivere canzoni o a produrle o ad avere un rapporto di tipo lavorativo con un cantante, no. Io avevo quattro ragazzini da gestire, quattro ragazzini che mi erano stati affidati dalle rispettive madri apprensive e, in certi casi – in tutti i casi, cioè, che non fossero Simone – anche piuttosto diffidenti, e dovevo gestirli in casa mia, a stretto contatto con me, all’interno di spazi che, fino a quel momento erano stati solo miei.
Improvvisamente, il pericolo del mio lavoro mi si palesava in tutta la sua raccapricciante serietà. Si correva il rischio di svegliarsi al mattino e inciampare in Gustav, ad esempio, che ha sempre avuto la passione per la sveglia molto mattiniera ma, quando era molto piccolo, molto goloso e molto tondo, tendeva ad addormentarsi sul pavimento ai piedi del divano verso le otto del mattino, dopo essere sorto col sole alle sei. Si correva il rischio in incappare inaspettatamente nelle mutande sporche di Georg abbandonate nei posti più impensabili, e quando dico impensabili intendo davvero impensabili, come quando una volta lo scarico del lavandino in bagno cominciò a vomitare liquami puzzolenti e scoprimmo che in realtà tutto questo avveniva perché un paio dei suoi boxer più vecchi e sbrindellati ci era finito dentro. Il come, tutt’oggi, è ancora un mistero. Si correva il rischio di irritare Tom, che giuro, è un ragazzo di una bontà infinita, praticamente un santo martire, ma quando gli girano è la fine, soprattutto se gli girano a causa tua, perché poi riconquistarlo è un delirio paragonabile solo a certe quest impossibili coinvolgenti draghi, fuoco e cespugli di rovi per chilometri e chilometri, e di questo fatto Bill è la prova vivente, perché pur amandolo a livelli veramente indegni Tom con suo fratello, per molti mesi, ha chiuso in modi così definitivi da lasciarmi basito.
E poi, naturalmente, si correva il rischio di Bill, un essere umano che, nella sua interezza, ha sempre rappresentato un problema. Bill è una creatura incredibilmente affascinante, e come tutte le creature incredibilmente affascinanti è perennemente in bilico, geneticamente instabile, un disastro, insomma. Vivere con lui era come vivere con una bomba a tempo a ricarica continua in casa. Sapevi che sarebbe esplosa, non sapevi quando ma sapevi che sarebbe successo, e la cosa veramente devastante era sapere allo stesso modo che una sola esplosione non sarebbe bastata, non sarebbe stata definitiva come tutte le esplosioni sono, perché avevi la certezza che alla prima, chissà quando, chissà perché, prima o poi ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora, senza mai fine. E poteva essere per qualsiasi cosa, il motivo più stupido o quello più fondamentale, o solo perché magari era sotto stress e sentiva il bisogno di scaricare, ed allora dovevi solo sperare di non essere tu la vittima designata a fargli da sfogatoio proprio in quel momento, oppure rassegnarti in silenzio al tuo destino e subire finché non fosse stato soddisfatto.
Anche quello, comunque, non era niente in confronto al pericolo che mi sarei ritrovato a subire poi, ma in un certo senso partire da quel punto era importante, e non perché volessi far vedere quanto Bill in realtà sia la fonte primaria e unica dei miei guai – cosa anche possibile, ma non completamente vera, visto che magari Bill mi ha offerto molte possibilità di mettermi nei guai, ecco, ma i guai in cui sono incappato poi me li sono scelti tutti da solo. A partire da una vasta gamma, ma li ho scelti da solo – bensì perché solo quando cerco di ripensare a tutto fin dall’inizio mi rendo conto di quanto in realtà la catena di azioni che mi ha portato fino a qua sia stata comunque un percorso che avrei scelto di rifare anche se per questo avrei dovuto farmi sventrare altre trenta volte. Si parla della mia vita, qui. Della mia fortuna, di ciò che ho amato fare, di persone a cui ho voluto bene, ma bene davvero.
Se nel giorno in cui ho conosciuto Bill lui mi avesse guardato negli occhi e mi avesse detto “io ti ho visto nei miei sogni, so chi sei e so che finirai ammazzato in un magazzino vuoto, sporco e puzzolente, dimenticato ai confini di Berlino, e questo solo perché io mi innamorerò dell’uomo più giusto e più sbagliato in assoluto”, avrei detto “va bene, Bill”, avrei detto “portami da questa gente che mi farà a pezzi, ma portamici tu”. Era quello che volevo. È stato quello che ho ottenuto.
Il fatto è che a questi ragazzi io voglio troppo bene. Quando vuoi bene a qualcuno in maniera così totalizzante, non ti curi del dolore che, per sbaglio o di proposito, ti infligge. Bill non ha chiesto di innamorarsi di un uomo problematico come Bushido – se è per questo, non l’ho chiesto neanch’io. È successo, e non c’è uomo al mondo che possa capire Bill, in questo o in altri momenti della sua vita negli ultimi tre anni, come l’ho capito io. Non c’è uomo al mondo che possa dire di aver sentito dentro il suo dolore come l’ho sentito io, e non solo perché condividiamo certi aspetti della nostra esistenza, ma perché lui è mio. Io l’ho voluto così tanto che alla fine è stato un po’ come l’avessi generato da me. È stato, è e sarà sempre la cosa più vicina ad un figlio che abbia mai avuto, e ciò che vale per lui vale esattamente allo stesso modo per suo fratello, per Georg e per Gustav. In questi ultimi anni ho dovuto subire molte cose, nel tentativo di preservare la felicità di questi ragazzi. Non sempre ci sono riuscito, ma posso dire di averci sempre provato.
È stato con l’intenzione di provarci ancora che, un mesetto fa, sono andato alla Universal, divorato dall’ansia ma cercando di restare lucido e presente a me stesso. La situazione era in stallo da un po’, Bill aveva abbandonato la Germania già da un bel pezzo ma nessuno dei pezzi grossi mi aveva chiamato. Erano rimasti in attesa, e questo raccontavano i loro sogghigni carichi di pietà quando mi hanno visto entrare nel loro ufficio, minuscolo di fronte a loro, molti di più, molto più ricchi, molto più importanti. I loro sorrisi dicevano “finalmente le hai trovate le palle per presentarti, eh, Jost?”. Finalmente le avevo trovate, sì.
In realtà non c’era molto da discutere. Se anche avessi giurato e spergiurato loro che Bill sarebbe tornato nel giro di due giorni già pronto per rimettersi al lavoro, immagino mi avrebbero buttato fuori comunque. Si sono mostrati pazienti e magnanimi – “abbiamo fatto tutto il possibile, David, abbiamo cercato di sfruttare questa cosa con Chakuza, vi abbiamo dato i vostri tempi e i vostri spazi, e con cosa ci troviamo in mano, adesso?” – ed io sapevo perfettamente che dovevo già ringraziare se si limitavano a rescindere il contratto senza trascinarci tutti in tribunale per inadempienza, perciò l’incontro è durato poco. Loro hanno espresso le loro ragioni. Io ho concordato. Venti minuti dopo ero per strada e, per prima cosa, chiamavo Tom.
- È andata male, vero? – mi ha detto subito lui, non appena ha risposto, prima ancora di sentire il mio tono di voce. La sensibilità di Tom in molti aspetti della sua vita è strabiliante. Suppongo sia perché, quando vivi in simbiosi con uno come Bill, i tremiti nella forza devi imparare a percepirli prima che diventino scossoni di terremoto, per provare quantomeno ad arginarli. Lui in questo riesce benissimo, e perciò quando l’ho chiamato, dalla Germania alle Maldive, lui non ha nemmeno dovuto ascoltare il suono della mia voce per sapere che sì, era andata male davvero.
- Mi dispiace. – ho detto io, piano, sospirando profondamente. Tom s’è lasciato andare ad una risatina quasi liberatoria. L’ho immaginato restare in tensione fino a quel momento e mi è dispiaciuto per lui al punto che mi sono sentito stringere il cuore in una smorfia fisicamente dolorosa.
- L’hai già detto ai ragazzi? – s’è informato, una punta di preoccupazione viva nella voce.
- Non ancora. – ho ammesso con una certa vergogna, - Conto di farlo appena chiuso con te. – e poi ho preso un respiro enorme, perché per chiedere di Bill, di questi tempi, mi serve sempre una dose extra di coraggio. – Tuo fratello?
Tom ha lasciato passare qualche secondo, prima di rispondere. Ho sentito qualcosa frusciare, lì, da qualche parte, e ho immaginato subito si fosse sporto ad accarezzargli dolcemente i capelli, un gesto che gli ho sempre visto fare quando Bill gli si addormentava addosso, per un motivo o per l’altro.
- Adesso dorme. – mi ha risposto lui, la voce ridotta a un sussurro quasi eccessivamente dolce, - Ti spiace se a lui ne parlo fra qualche tempo? Non è ancora il momento.
Mi sono sempre fidato ciecamente della profondità con la quale Tom conosce Bill, perciò non ho avuto da ridire in quel caso, così come non avevo avuto da ridire in tanti altri casi durante la nostra storia insieme. Così tanti altri casi, così tanti momenti… ho chiuso la telefonata con un groppo in gola quasi soffocante, e mi sono preparato al peggio. Per non scappare, mi sono ripetuto che era mio dovere dare a quei ragazzi la notizia da me, prima che arrivasse loro la notifica dello studio legale. E per evitare di mostrarmi troppo sconvolto di fronte all’inevitabile furia che mi avrebbe travolto, ho cercato di immaginare tutti gli scenari possibili, dal più pacato al più violento, ma nulla, nulla avrebbe potuto prepararmi a quella mezz’ora passata in compagnia di Georg e Gustav agli studi. Adesso la mia vista è offuscata, così come la mia memoria, ma non dimenticherò mai più lo sguardo profondamente deluso di Gustav, così come non dimenticherò più le parole di Georg, così secche e lucide, incredibilmente dolorose. “Avete giocato con la nostra vita”. Aveva ragione. Nessuno di noi l’aveva voluto, ma alla fine era ciò che era successo. A furia di giocare a fare dio, uccidere persone per poi riportarle in vita e via così, io per primo ho dimenticato quanto altro ci fosse in ballo oltre a Bill, Bushido e il mio affetto per loro.
La vita, comunque, va avanti. È una frase fatta, ma la sua ragione d’esistenza si riflette nel fatto che è vero. A Georg e Gustav ho detto di non perdersi di vista, perché i Tokio Hotel non erano morti, erano solo in stand-by. Gustav s’è lasciato andare ad una risatina afflitta e Georg mi ha guardato con una rabbia in quantificabile.
- Non ti preoccupare, - mi ha detto astioso, - non ci perderemo di vista, ma non certo per i Tokio Hotel.
Io ho incassato e ho lasciato perdere, me ne sono tornato a casa mia, mi sono spogliato, mi sono fatto una doccia, ho indossato il pigiama, ho riscaldato una tazza di latte di soia, ci ho messo dentro un cucchiaino di miele, ho acceso il portatile, mi sono seduto in poltrona, ho fissato lo schermo con una foto di noi cinque insieme come wallpaper e poi mi sono messo le mani nei capelli e ho pianto per ore. La mia vita m’era scivolata via di mano mesi prima, era rimasta intrappolata fra le dita di un tunisino triste e poi era scivolata via anche da lì, perdendosi da qualche parte nell’oscurità come i rivoli di pioggia lungo le strade. E io me ne stavo accorgendo solo in quel momento, quando era troppo tardi per riportare tutto indietro.
Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto. C’è solo una via che può portarti all’uscita, ma di mezzo ce ne sono tante altre che invece ti portano solo verso un vicolo cieco. Alcune di queste altre non ti prendono in giro, fai qualche passo, svolti un paio di volte a destra e a sinistra e subito ti parano un muro davanti alla faccia, e tu allora puoi darti del cretino, concederti un sorriso triste e poi tornare indietro per imboccarne un’altra. Ma ce ne sono di differenti che invece non ti aiutano. Si inerpicano per vie e viottoli costringendoti a decine di cambi di direzione, a destra, a sinistra, dritto, torna indietro, vai avanti per tre metri, fai un giro su te stesso e poi imbocchi la prima porta a destra, e quando tu sei lì che cammini per anni e senti che ormai l’uscita è vicina ecco che invece di fronte a te c’è una parete vuota. E tu ti ritrovi in mano la consapevolezza di dover tornare indietro e ripartire da zero, ma la verità è che non sai nemmeno se ci riusciresti, a ritrovare il punto di partenza, perché sono passati secoli dall’ultima volta che l’hai visto e chi si ricorda se al tale incrocio eri andato a destra o a sinistra? Chissà.
Su quella poltrona, di fronte a quella foto, io ho realizzato che per anni – molto più di tre, in realtà, perché queste cose, quando succedono, poi ti portano a riconsiderare tutto, pure situazioni in cui credevi di essertela cavata bene davvero – avevo percorso una strada che credevo fortemente fosse quella giusta. E lei mi aveva illuso procedendo per tanto, tanto tempo senza il minimo intoppo, salvo poi piazzarmene uno di fronte proprio adesso. Quella notte lì io mi sono detto “cazzo”, mi sono detto, “cazzo, David, e ora cosa fai?”, perché seriamente, mi sembrava di non avere più soluzioni. Non sapevo più che fare, capite, avevo perso tutto. I Tokio Hotel erano la mia vita e si stavano sfaldando senza che potessi fare niente per fermarli, era il più grande fallimento della mia esistenza, non ero stato in grado di prevederlo e non ero più in grado di fermarlo. E mi sono chiesto “e ora come ci torno indietro? Da dove parto, dove ho speranza di arrivare?”, e mi sono visto girare per anni e anni e anni in questo labirinto vuoto cercando l’entrata per ripartire da lì senza riuscire ad uscire mai da quei tre corridoi in croce che avevo percorso girando in tondo negli ultimi mesi.
Poi mi sono addormentato. Lì, in poltrona, tutto piegato su me stesso, col portatile ancora acceso che s’è andato scaricando per tutta la notte fino a spegnersi. E quando l’indomani mattina ho aperto gli occhi e non avevo nemmeno mal di testa, l’ho fatto con stupore. È così che la vita ti stupisce più spesso, d’altronde, non con le cose veramente meravigliose, ma con quelle più brutte: può accaderti la cosa peggiore del mondo, puoi piangere fino a sfinirti e ripeterti che è troppo da sopportare, non puoi più farcela, e sono quelle occasioni in cui sei così depresso, ma così depresso che arrivi a pensare che morire sarà una cosa naturale. Chiuderai gli occhi sentendoli bruciare per via delle lacrime, continuerai a singhiozzare fino a farti dolere i polmoni e poi perderai conoscenza, e l’ultima cosa che pensi è che in qualche modo, intimamente, dentro di te, sai che non ti risveglierai mai più. Ti fa paura ammetterlo, ma è così. Il tuo corpo e la tua mente sono così devastati che implorano solo il riposo eterno, e tu ti abbandoni al buio con la speranza segreta di concederglielo. È stato così, per me, quand’è morto mio padre.
Ma allora come adesso, il giorno dopo ho riaperto gli occhi. Li ho riaperti davvero e mi sono detto “sono ancora vivo”, e il pensiero mi ha irritato, mi ha stancato e mi ha portato a scattare in piedi e darmi una sistemata, lavarmi, vestirmi ed uscire, perché tollerare una tale dose di tristezza con la consapevolezza di essere vivo e sentirne ogni spigolo premere dolorosamente contro tutti i punti deboli del tuo corpo non è davvero possibile. Te la scrolli di dosso, e lo fai per proteggerti, perché non puoi fare altrimenti.
Quando è morto mio padre, il giorno dopo sono andato da mia madre, l’ho abbracciata e le ho sorriso. E lei ha sorriso a me. È così che sopravvivi al dolore. Mettendolo da parte.
L’ho messo da parte anche stavolta, e per molti giorni ho vissuto la mia vita normale, semplicemente senza il lavoro. Per alcuni potrà sembrare folle, soprattutto pensando ad uno che praticamente non smette mai di lavorare come me, ma in realtà è stato piuttosto semplice ed anche alquanto divertente. Ho semplicemente rimosso dall’agenda tutto ciò che poteva avere a che fare con la mia professione e mi sono concesso tutte quelle cose che avevo trascurato in favore del resto. Ho letto bei libri, mangiato buon cibo, sono tornato in palestra e lì ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo col sospensorio di uno schermidore fascinoso dall’aspetto vagamente italianeggiante di nome Bruno ed ho colto un assaggio perfino di ciò che conteneva, con estrema soddisfazione da parte di entrambi. Poi mi sono goduto la mia casa, un appartamento che adoro e che ho arredato con amore direi quasi maniacale. Le sue poltrone bianche ergonomiche, la cucina in acciaio, il letto col materasso in latex, la vasca a idromassaggio nell’ampio bagno piastrellato in nero e bianco. Mi sono preso del tempo per me perché avevo bisogno di sentirmi coccolato e nessuno a parte il sottoscritto sembrava disposto a farlo. Mi sono arrangiato con ciò che avevo e non è stato affatto male. Stavo solo aspettando di trovare una nuova ragione per ricominciare a vivere in maniera più piena, e puntualmente questa ragione è arrivata qualche settimana dopo per via aerea, sotto forma di Bill Kaulitz, come spesso accade. Magari non a tutti, ma a me sì.
Tornati Bill e Tom in patria, la mia vita è cambiata di nuovo. Ho cercato di tenere un posto per palestra, yoga, cibo biologico e menate varie, ma i gemelli hanno semplicemente ripreso ad occupare la quasi totalità delle mie giornate, ed è stato stupendo. Era bello vedere che in qualche modo loro continuavano ad affidarsi a me quasi totalmente, come se non fosse cambiato niente rispetto a prima. Avevo perso Georg e Gustav, ma avevo ancora loro. Egoisticamente, non potevo che essere felice di questo, anche se sapevo che, se Georg e Gustav si erano allontanati, era stato solo perché erano cresciuti bene, per la strada giusta, ed avrei dovuto augurarmi la stessa cosa anche per i gemelli, ma non ci riuscivo. Era splendido averli di nuovo in giro, ritrovarmeli in casa senza un perché, portarli a mangiare fuori perfino quando questo voleva dire entrare in un McDonald’s. E poi c’è stato da dare a Bill la notizia – perché in tutto questo era saltato fuori che no, Tom non gli aveva detto niente, benedetto ragazzo, sarà un padre perfetto, totalmente succube di sua moglie – e maneggiarlo con cura, e tenerlo d’occhio, accertarsi che mangiasse, coccolarlo un po’. Ho ripreso contatto con la parte di me che cercava di far funzionare le cose con dei ragazzini in casa, e mi sono accorto che alla fine il punto di partenza l’avevo ritrovato. Ci ero finito quasi per caso, ma adesso era lì, e da lì potevo provare a ricostruire qualcosa, se volevo. E volevo.
Da quel momento, la mia vita ha imboccato una spirale tantrica ascendente, e tutto ha ripreso a luccicare. Alle volte basta così poco, devi solo scendere in basso, tanto in basso, che lì ti ritrovi di sicuro, soprattutto se stai solo con te stesso abbastanza a lungo da riuscire nuovamente ad ascoltarti, e poi è una passeggiata. Ho cominciato a guardarmi intorno, a sondare il terreno, a vedere se per i Tokio Hotel potesse esserci qualche altra possibilità. Sono tornato da Georg e Gustav e loro erano ancora lì esattamente dove sapevo che sarebbero stati, pronti a rimontare in sella. Ho lasciato che Bill li incontrasse, li ho tenuti da soli in una stanza per il tempo sufficiente e, quando ne sono venuti fuori, sapevo che la via della ricostruzione era stata imboccata, bastava percorrerla, e in quel momento non m’interessava che fosse un altro potenziale vicolo cieco, anche perché non potevo saperlo in anticipo. Ho affrontato il cammino col sorriso sulle labbra, ed effettivamente è anche col sorriso sulle labbra che, questa sera, sono uscito da casa di Bill.
Mi guardo intorno e la strada è deserta ma bene illuminata, spazzata dall’aria calda di inizio agosto. Ho la schiena imperlata di goccioline di sudore perché in casa di Bill si muore di caldo visto che la sua gola sempre sull’orlo di una crisi di nervi ci impedisce di accendere l’aria condizionata, e di sicuro spostare scatoloni per le ultime tre ore non mi ha aiutato a mantenere la mia temperatura corporea ad un livello accettabile, ma in fin dei conti mi ha fatto piacere dare una mano, e poi il dottor Schillinger giustamente dice che non è possibile sistemare la testa di qualcuno se quel qualcuno vive nel caos, perciò il caos che casa di Bill è sempre stata va riordinato. Ne va della sua sanità mentale, qualcosa alla quale tutti, inspiegabilmente, teniamo moltissimo. Forse perché lui, invece, non se ne cura affatto.
Insomma, soddisfatto di me stesso attraverso la strada e mi avvicino alla mia macchina. Splende nella notte, nera come la pece. La accarezzo con lo sguardo ed infilo le mani in tasca per recuperare le chiavi. Mi chino appena per inserirle nello sportello ed aprirlo, ed è allora che spuntano. Da dove, non so. Non li vedo arrivare, appaiono. Prima non ci sono e all’improvviso invece sì.
Capisco subito il pericolo – una cosa che ti abitui a fare quando per lavoro tieni d’occhio quattro ragazzini costantemente circondati da fanciulle isteriche in delirio ormonale – e faccio per spalancare la bocca e gridare, ma non ci riesco perché qualcuno mi schiaccia qualcosa sulla faccia. È gonfio e punge, capisco al primo tocco che si tratta di un maglione di lana decisamente scadente, sicuramente misto acrilico. Faccio una smorfia, schifato, e il tipo ne approfitta per spingere il maglione con più forza, facendomi male, mentre uno dei suoi compari mi afferra per le braccia e mi tiene fermo. Mi dimeno e scalcio, ma qualcuno mi afferra anche per le gambe, ed il tipo che tiene il maglione lancia un’imprecazione e dice ad un altro di fare in fretta con lo scotch, perché sono un indemoniato e non mi si tiene più. Puoi scommetterci, stronzo, lascia solo che mi liberi e ti strapperò l’uccello a morsi, e poi vedremo chi è che non si tiene più.
Continuo a dimenarmi come un ossesso. Non posso più parlare e, dopo qualche secondo, quando mi legano polsi e caviglie, non posso più nemmeno muovermi. Cado a terra come un sacco di patate, le palle che, per la frustrazione, vorticano al punto che, se non fossero al sicuro dentro le mutande, farebbero da eliche e mi permetterebbero di librarmi in volo. Cosa che, peraltro, al momento sarebbe piuttosto utile.
Impreco e insulto chiunque, anche se non si capisce una singola parola di quelle che mi escono dalla bocca. I tipi, ignorando la mia ira funesta, mi sollevano e mi caricano in una jeep che arriva qualche secondo dopo, una roba scalcinatissima che deve aver visto almeno dieci estati come quella che, fra meno di un mese, volgerà al termine anche quest’anno. Mi tirano di malagrazia sul sedile posteriore, due si sistemano alla mia sinistra, uno alla mia destra e il quarto sul sedile passeggero accanto all’autista.
- Fatelo stare zitto. – dice quest’ultimo. Non riconosco nessuna delle loro voci, e la cosa mi inquieta, perché se qualcuno ha pagato dei professionisti per rapirmi in primo luogo questo qualcuno deve essere bene organizzato, ed in secondo luogo deve volermi parecchio male.
Sudo freddo, nonostante l’afa, e mi zittisco immediatamente.
- Bravo. – mi dice il tizio alla mia destra. Quello sul sedile del passeggero guarda l’autista con preoccupazione e si morde il labbro inferiore.
- Ha fatto un sacco di schiamazzi, là fuori… - comincia. L’uomo lo zittisce con una scrollata di spalle.
- Nessuno ha visto né sentito niente. – lo rassicura, - Procediamo come stabilito.
- Klaus, facciamolo adesso. – insiste quello, ed il fatto che lo chiami per nome mi dà una chiara idea di quanto non stia pensando alla possibilità che io possa riuscire a vedere la luce del giorno, domani mattina. – E molliamolo al primo angolo di strada. Lo troveranno di certo. Aspettiamo un paio d’ore per essere sicuri che crepi e poi avvisiamo del punto in cui l’abbiamo lasciato. L’importante è che il messaggio arrivi, no?
- Procediamo come stabilito. – insiste l’uomo al volante. Deve trattarsi del capo, perché il tizio al suo fianco si zittisce immediatamente, dopo aver mormorato un “d’accordo” stentato. Continuo a rimanere immobile, sono pietrificato dalla paura. Restano tutti in silenzio mentre usciamo dal centro ed anche dalla periferia, ritrovandoci in aperta campagna. Non c’è nulla, sulla strada che percorriamo, per moltissimo tempo. Poi, ad una ventina di metri di distanza da dove ci troviamo, nella notte più profonda vedo sorgere una specie di baraccone che dev’essere abbandonato da moltissimo tempo. La jeep si ferma proprio lì davanti, i tipi scendono dalla macchina e mi trascinano con loro, tenendomi ben stretto. Riprendo a dimenarmi perché sento che il momento è vicino e so con certezza che, se mi lasceranno qui, morirò. Qualsiasi cosa vogliano farmi, se anche io dovessi riuscire a non morire sul colpo, col passare delle ore morirei comunque. E non voglio che succeda. Cazzo, non voglio che succeda.
Niente di ciò che faccio è utile alla mia causa, comunque. Quelli mi lasciano cadere per terra di faccia, e poi due di loro mi afferrano per i piedi e mi trascinano per il ciottolato che porta all’ingresso del baraccone. La maglietta mi si solleva tutta, esponendo la pancia alle pietruzze taglienti. Riesco a tenere il viso sollevato, anche grazie al maglione che mi è stato legato attorno alla testa, ma la pancia e i fianchi proprio no. Più tardi, ringrazierò per il dolore che sto provando in questo momento, perché le ferite già aperte diminuiranno l’intensità del male che mi procureranno quelle nuove, ma in questo preciso istante non ringrazio proprio per un bel niente. Fa male e sono terrorizzato. Voglio tornarmene a casa mia. E non voglio morire.
Entriamo nel baraccone ed i tizi chiudono subito la porta. Non la sprangano. Lo noto e mi chiedo se potrei fare qualcosa, sfuggire alle loro mani e saltellare fino a lì… e poi correre a piedi uniti nella notte fino alla prima stazione di polizia? Non sembra granché fattibile, come cosa. Smette di esserlo del tutto quando i tipi mi risollevano in piedi e poi mi scaraventano contro un mucchio di casse accatastate in un angolo. Sento distintamente qualche osso scricchiolare, ma sono troppi contemporaneamente perché possa identificarli uno per uno. So solo che fa un male fottuto, fa tanto male che mi metto a piangere. Non piangevo di dolore da decenni, da quella volta in cui sono cascato di testa durante uno spettacolo e mi sono serviti sei punti di sutura per richiudere la ferita.
- La checca piange. – dice uno dei cinque, ridendo divertito. Uno degli altri gli tira uno schiaffo contro la nuca e gli intima di tacere. Non posso saperlo con certezza, perché i loro volti sono coperti, ma immagino sia l’uomo che ha guidato la jeep fino a qui. L’atteggiamento da capo, almeno, è lo stesso.
- Niente di personale, Jost. – dice accucciandosi davanti a me e tirando fuori dalla tasca dei jeans neri un coltellino a serramanico. Spalanco gli occhi e quello che gli sento dire dopo non fa che sconvolgermi ancora di più. Tuttavia, non ho il tempo di pensarci troppo, perché subito dopo l’uomo mi solleva la maglietta e comincia a incidere. Un taglio, poi un altro. Tutti abbastanza profondi, ma precisi. Millimetrici. Vorrei poter dire che il dolore è tale da costringermi a non sentire più niente, ma purtroppo non è così che va. Nonostante le ferite ancora fresche, il dolore è lancinante. E infinito.
Quando si allontana nuovamente da me, sento il mio intero corpo bruciare. Sono rovesciato per terra ed esausto. Non riesco a respirare. Il maglione mi si è infilato in bocca e non riesco a spingerlo fuori perché non ho più forze. È palese che non sopravvivrò. Lo stronzo di merda mi ha scritto qualcosa addosso, ma non riesco a capire cosa. Non lo capirò mai, non ne avrò il tempo né il modo.
I tipi escono in fretta. L’ultimo, il capo, resta a guardarmi finché da fuori non vengono a richiamarlo. Immagino gli piaccia vedere la vita che mi scivola via dagli occhi. Io la sento che se ne va e non è piacevole per niente. Sto di nuovo piangendo e non so neanche dove ho preso la forza per farlo.
- Niente di personale. – mi ripete ancora, prima di uscire. E poi rimango solo, sento la jeep allontanarsi lungo la strada e il tempo perde senso, perché non riesco a misurarlo. Non ho un orologio con me, ed anche se l’avessi non riuscirei a guardarlo. Naturalmente, non ce ne sono intorno, appesi alle pareti. Non ho idea di quanto tempo passi sdraiato per terra a ridosso delle casse. Sento il sangue uscire dalle ferite in grossi rivoli, così tanto non ne ho mai visto tutto assieme. Si allarga attorno a me come una pozzanghera, impregnando i miei vestiti e gonfiando le assi di legno.
Passano minuti, forse ore. Non lo so. So che a un certo punto sento dei rumori intorno a me, ma sono come un’eco lontana. Non riesco a credere che stia succedendo davvero, che qualcuno mi abbia trovato, e non riconosco nessuna delle facce che ho davanti, anche se sono abbastanza sicuro che dovrei.
E poi, all’improvviso, i miei occhi incontrano quelli di Bushido. Un attimo prima di chiudersi.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, (doppio) Drabble.
- "Sei mio. Sono tuo. Ti amo."
Note: Scritta per la Notte Bianca @ maridichallenge, su prompt Bill/Tom, "Grida".
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SCHREI SO LAUT DU KANNST

Bill e Tom hanno imparato a controllare le loro voci fin da piccoli. Quando, col gesto più naturale del mondo, si sono accarezzati in modi che, avrebbero scoperto poi, il mondo non avrebbe esitato a definire osceni, le loro voci si sono alzate, si sono fatte più dolci ed hanno espresso in gemiti ed ansiti quello che le loro parole non erano mai riuscite a dire. Sei mio. Sono tuo. Ti amo.
Le loro voci sono diventate un problema quando, crescendo, si sono accorti di avere qualcosa da
(nascondere)
proteggere. Piano piano, hanno imparato a modularle, abbassarle, ridurle in sussurri stentati, per far sì che nessuno scoprisse cosa li teneva uniti per davvero, a cosa erano dovute tutte le loro occhiate complici, la telepatia, l’empatia talmente forte da devastarli dall’interno quando uno dei due stava male.
Esprimere quelle piccole cose che i loro gemiti esprimevano meglio di tutto il resto è diventato perciò sempre più difficile. Ed è per questo che, ora che Tom apre la porta dell’appartamento nuovo, circondato da un giardino talmente esteso da non riuscire a vederne i confini, e mura altissime, e pareti spesse e splendidamente insonorizzate, Bill sorride.
Quando, più tardi, suo fratello sarà dentro di lui e le sue labbra saranno pressate contro il suo collo, Bill potrà gridare. E ricordare a suo fratello che l’ama nell’unico modo in cui sente di poterlo fare.

Nb: L’escamotage stilistico del blocco + parentesi a capo in corsivo + seguito della frase non è mio, ma di Stephen King. Rileggere It mi porta anche a questo. \o/
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG
AVVISI: Angst, Slash, OC.
- "Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto."
Note: Non ho l'abitudine di chiedere ai lettori uno sforzo, prima di leggere qualcosa, in nessun senso, ma stavolta mi sento quasi moralmente obbligata, probabilmente dall'amore profondissimo che nutro per il personaggio di Bill non solo in questa shot, ma nell'arco di tutta la Saga. Ciò che vi chiedo è molto semplice: cercate di approcciarvi alla lettura ed a Bill in generale senza pregiudizi e con un minimo di comprensione umana /o\ Bill ce l'ha messa tutta, per spiegarsi un po', ma se non vorrete capirlo ci sarà ben poco da fare :)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
BEAUTIFULLY BROKEN

Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto. Non come dice la gente di solito nel senso di “non mi riconosco più”, che è la cosa più stupida che si possa dire al mondo, perché non è altro che una scusa, in fondo, no? Uno fa un sacco di stronzate e poi, quando qualcun altro glielo fa notare, ecco subito la risposta pronta: “lo so, non mi riconosco più”. Non ti riconosci più un cazzo. Vorresti non riconoscerti, vorresti poterti guardare allo specchio e dire che quella faccia coperta di errori e dolore e pezzi di vita buttati via non è la tua, invece ti riconosci eccome, ed è questo quello che ti fa male. Riuscire ancora a riconoscerti, nonostante tutto, nonostante il fango che ti sei buttato addosso. Essere ancora lì, sempre identico a te stesso, facilissimo da ritrovare se solo ti azzardi o qualcun altro si azzarda a grattare via la sottilissima patina di menzogne con cui ti mascheri il viso al mattino, giorno dopo giorno, come il trucco di scena, quello che io ho sempre voluto portare anche nella vita di tutti i giorni, perché per me i confini sono sempre stati troppo labili, troppo sfumati, ed andavo in scena ogni volta che aprivo gli occhi al mattino.
No, io mi sono svegliato, da solo nel mio letto, ed ho ascoltato a lungo il suono un po’ ovattato del respiro di Peter, ancora addormentato da qualche parte in questo tourbus, troppo lontano da me perché potessi sentire il calore del suo corpo e aggrapparmici come se me ne importasse ancora qualcosa, e poi semplicemente mi sono alzato, sono andato in bagno, mi sono fermato davanti allo specchio ed ho guardato il mio riflesso, e quello non ero io. È stata la sensazione più straniante che avessi mai provato prima di quel momento, mi sono sentito come incatenato ad una sedia, costretto ad osservarmi nello specchio mentre mi strappavano di dosso la pelle per mostrarmi il mio vero volto, al di sotto. Solo che la pelle non veniva via – ho sfregato, ho sfregato, non veniva via – ed io ho dovuto continuare a sopportare di guardarmi nello specchio e non riconoscermi, mentre sapevo già di avere una faccia diversa sottopelle.
E questo è stato il dolore più grande che abbia provato in quest’ultimo periodo. Un periodo che di dolori non è stato certo avaro, eppure mentre Anis mi strappava via il cuore e Chakuza si rifiutava di rimettermelo a posto lasciandolo sul pavimento come un soprammobile inutile da scansare con un calcio se intralciava il passaggio, e mentre io mi premuravo di devastarmi la dignità e mio fratello si assicurava di pestarne i resti sotto le scarpe di modo che nessuno mai potesse più ricomporla, e mentre nessuna delle persone che ho imparato a riconoscere come amiche ha mai dato un fottuto istante del proprio tempo per cercare di capire come cazzo fosse possibile che io stessi così male, di una cosa ero sempre stato sicuro, la mia identità. Il mio viso. Chi ero.
E poi mi guardo nello specchio e scopro che invece non lo so più. Mi guardo nello specchio e quello non sono io. E in un solo istante di me non resta più niente, riesco a vedere i miei occhi farsi vuoti e so che non sono i miei, i lineamenti del mio viso si stendono in una maschera priva di espressione ed io so che non mi appartengono. Non so più chi sono, ma so cosa decisamente non sono, ed io non sono quella faccia, quegli occhi, quelle labbra. Non ho più un nome, non sono più nulla, di me, di ciò che sono stato, non rimane neanche un frammento.
Allora mi sono alzato e sono uscito dal bagno. Non sono passato accanto a Peter per non svegliarlo, perché non dovesse vedermi così, qualunque fosse la cosa in cui mi ero trasformato senza che nessuno se ne accorgesse. Sono semplicemente uscito dal tourbus e mi sono guardato intorno. Il sole era ancora freddo e basso sull’orizzonte, tutto ciò che la sua luce poteva fare era gettare ombre lunghe sulla piazzola della stazione di servizio desolatamente vuota, tutta intorno a me. Il mondo sembrava identico a se stesso, ero cambiato io soltanto. Mancava così poco al momento in cui tutti avrebbero aperto gli occhi, e a quel punto nessuno avrebbe potuto evitare di vedermi. Ed io non volevo che accadesse. Perciò sono tornato all’interno del tourbus, cercando di fare il minor rumore possibile, ed ho preso un post-it da uno di quei cassetti pieni di cianfrusaglie vicini all’angolo cottura. Ho preso una penna, mi sono seduto al tavolo ed ho cercato un modo carino per dire a tutti quanti che avevo bisogno di un po’ di tempo solo per me. Non ne ho trovato uno, perciò ho scritto solo quello. Ho bisogno di un po’ di tempo solo per me. L’ho appiccicato sullo sportello del frigorifero, ho preso la borsa, ho spento il telefono e l’ho infilato in tasca. Poi sono uscito, ho scelto una direzione a caso e l’ho seguita.
Ho camminato per un sacco di tempo. Io sono un pigrone, in genere non mi muovo se non sono obbligato a farlo, ed anche quando sono obbligato spero sempre che arrivi qualcuno a prendermi in braccio perché sia lui a trascinarmi da un posto all’altro. Il pensiero di muovermi alle volte mi dà fastidio fisico. Però stavolta camminare non mi è pesato. Almeno un’ora di cammino a piedi, cercando di ignorare i fischi dei camionisti quando per caso qualcuno passava per la strada ancora deserta, e senza nemmeno stancarmi. Ed ecco che all’improvviso i contorni delle cose oltre il guardrail che costeggia l’autostrada cambiano. Fisso il paesaggio mutare sotto i miei occhi, e dove prima non c’era niente cominciano ad apparire delle cose. Enormi campi pieni di spighe tanto alte da fare il solletico al cielo, e case colorate, di mattoni veri, coi tetti rossi e i comignoli e le porte di legno. Non riesco ad impedirmi di sorridere, mentre stringo emozionato la presa attorno al manico della borsa, e per un attimo mi chiedo se ciò che sto guardando esista davvero o non sia uno scherzo che mi sta facendo la mia mente, perché di recenti me ne ha fatti davvero troppi perché io riesca ancora a distinguerli dalla realtà.
Decido che non m’importa se quello che vedo è vero o no: mi piace, e tanto basta. È molto più di quanto abbia potuto dire della mia vita recentemente. Quella era vera, e lo sapevo, ma faceva schifo. Perciò va bene anche se questo posto non esiste davvero, fintanto che io continuo a vederlo ed a sentirne il profumo.
Scavalco il guard-rail ed affondo fra le spighe. Mi fanno il solletico al naso, sento il bisogno di starnutire ma anche se prendo fiato per due volte lo starnuto proprio non viene fuori, perciò mi metto a ridere e comincio ad avanzare in quel mare dorato che si muove in onde discontinue guidate dal vento. Le spighe ogni tanto mi sbattono addosso con forza, dovrebbero darmi fastidio, irritarmi la pelle, ma riesco a trovarle solo stranamente piacevoli, tanto che quando spunto fuori e metto il naso dall’altra parte, di fronte a un paio di casette minuscole una accanto all’altra, quasi mi dispiace.
Le case somigliano un po’ a come ho sempre immaginato la casetta di marzapane della strega di Hansel e Gretel. E poi sono tutte uguali. Mi avvicino sorridendo allegro e solo all’ultimo secondo noto una vecchina che sta semisdraiata su una sedia a dondolo di fronte alla porta di una delle due case, e ondeggia avanti e indietro facendo la maglia.
- Signora Lotte! – la chiamo, anche se so che non è lei. La vecchina sorride, smettendo per un attimo di ricamare e poggiando saldamente i piedi per terra per fermare la sedia.
- Mi chiamo Ena. – mi corregge, e io annuisco. – Nonna Ena. – precisa lei, e io sorrido.
- Di chi sei nonna? – chiedo, guardandomi intorno e sperando di vedermi spuntare intorno nipotini come se piovessero. Non ne spunta nessuno. Quindi forse tutto ciò sta succedendo davvero.
- Di tutti e di nessuno. – risponde nonna Ena, enigmatica. E io penso che forse in realtà non sta succedendo niente. – Anche tua. – insiste lei, - Come ti chiami, bella bambina?
- Bill. – rispondo tranquillo. Lei sorride imperterrita.
- Che strano nome per una bambina. – commenta divertita.
- Mamma pensava che fosse carino. – le spiego io, - Ho anche un fratello che si chiama Tom. Puoi essere nonna anche per lui?
- Certo che posso. – annuisce nonna Ena, e io sorrido più sinceramente. – Siediti qui accanto a me, Bill. – dice, indicandomi con un cenno del capo la sedia a dondolo spuntata dal nulla accanto a lei, mentre io penso che sì, è molto probabile che tutto ciò non stia accadendo davvero, - Aiutami. Reggi il gomitolo.
Io mi allungo a recuperare il gomitolo da terra e lo stringo fra le mani. La lana è morbida, calda e un po’ grezza, mi pizzica i polpastrelli e le unghie rimangono impigliate lì in mezzo ogni volta che me la rigiro fra le dita. Quindi forse sta accadendo davvero.
Nonna Ena è quasi cieca. Oltre gli occhiali dalle lenti spessissime, i suoi occhi talmente chiari da sembrare trasparenti s’intuiscono appena, tanto sono piccoli. Non so come faccia ad intrecciare la lana per disegnare meraviglie come quella che sta facendo adesso, una specie di maglia traforata che sembra decorata da cristalli di neve enormi e morbidissimi, ma evidentemente dev’essere una cosa che ha fatto così spesso, nel corso della sua vita, da non avere bisogno di vederla per replicarla ancora. Una cosa che ormai s’è scritta dentro. Io pensavo che per me i concerti fossero così, pensavo che davvero, qualunque cosa fosse successa nella mia vita avrei comunque potuto continuare a salire sul palco ogni sera ed essere la parte più meravigliosa di me stesso, dimenticando tutti i dolori per cantare e sentirmi amato e basta. E invece no, forse perché sono ancora troppo giovane. Forse, quando avrò l’età di nonna Ena, cantare sarà per me automatico come fare la maglia per lei. Però allora non ci sarà più nessuno che avrà voglia di ascoltarmi, mentre la maglia di nonna Ena è così bella che me la metterei addosso anche subito, incompleta per com’è.
- Come si chiama questo posto? – chiedo guardandomi intorno. Ci sono degli uomini che indossano solo un cappello di paglia ed una salopette di jeans scura, riesco ad intravederli nei campi più lontani. E poi c’è una piazza, a qualche decina di metri da noi, e in mezzo a quella piazza c’è una fontana attorno alla quale si affollano donne che indossano vestiti lunghi e scuri con disegni floreali dai colori più disparati. Alcune di loro hanno il capo coperto da un foulard annodato nulla nuca, e quasi tutti i foulard hanno le stesse decorazioni degli abiti, come fossero accessori obbligatori da usare per accompagnare il vestito.
- È troppo piccolo per avere un nome. – risponde nonna Ena, riprendendo a dondolare, - Però è bello, vero?
- È bellissimo. – annuisco freneticamente io, osservando un gruppo di bambini sporchissimi, scalzi e scarmigliati che ci passa davanti correndo e ridendo. – Quanta gente ci abita?
- T’importa? – chiede nonna Ena con una scrollatina di spalle. E in effetti non è che m’importi davvero. – Joseph! – urla poi, guardando all’indietro verso la casa. Il portone è socchiuso, e da dentro giunge un “eh?” un po’ lontano. – La bambina ha fame, - continua, - portale una fetta di torta!
Io batto entusiasticamente le mani, appoggiandomi il gomitolo sulle ginocchia mentre la porta si schiude e sulla soglia appare un uomo pelato e panciuto, con un paio di occhiali e un paio di occhi identici a quelli di nonna Ena.
- Nonno Joseph! – lo chiamo allegro, - È quella coi mirtilli?
Nonno Joseph annuisce e a me viene voglia di chiedergli se per caso è austriaco, ma poi lascio perdere. Poso il gomitolo per terra e metto il piatto con la torta sulle ginocchia al suo posto. Poi mi ricordo di David, penso che dev’essere già ora di pranzo e tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per accenderlo e avvertirlo che non posso ancora tornare.
Lui risponde subito, appena lo chiamo, non mi lascia completare nemmeno uno squillo.
- Bill! – grida, e poi lo sento allontanarsi repentinamente verso un posto meno affollato. – Bill. – ripete a voce più bassa, come per lasciarmi intendere che adesso siamo soli e posso parlare liberamente, - Ma dove diavolo sei?
- Ad una stazione di servizio, - mento, evitando lo sguardo di nonna Ena, - sull’autostrada.
- Se mi dici a che altezza, mando subito qualcuno a prenderti. – suggerisce David, professionale come sempre. Io sbuffo un sorriso un po’ abbattuto.
- No, voglio restare qui per un po’. – rispondo, - È un posto simpatico.
- Un posto simpatico, Bill? – chiede lui, sconvolto, - Ma dove diavolo sei?!
- David, per favore, dammi un po’ di respiro! – sbotto io, e lui si zittisce immediatamente. Mi sento subito in colpa, mi si stringe lo stomaco in una morsa talmente stretta da darmi quasi i crampi, perciò mi mordo un labbro per distrarmi da quel dolore e faccio di tutto perché, quando riprendo a parlare, la mia voce sia molto più dolce di quanto sia stata fino ad ora. – Faccio in tempo per il concerto di stasera, promesso. Qui fanno una torta buonissima. La mangio e torno subito a casa, d’accordo?
Lui fa per rispondermi, sicuramente vuole dirmi che non devo tornare a casa ma semplicemente ai tourbus, e farlo anche il più in fretta possibile, ma alla fine lascia perdere, sospira profondamente e mormora un “d’accordo” stentato, prima di chiedermi di non spegnere il cellulare. Io dico ok, ma lo spengo immediatamente, subito dopo avere interrotto la chiamata.
- Bambina, il tuo papà sarà preoccupato. – mi dice nonna Ena, corrucciata, mentre io addento la torta e mugolo di piacere nel sentire quanto è buona.
- Non è il mio papà. – borbotto fra un morso e l’altro, - È solo uno che si prende cura di me.
- E qual è la differenza? – mi chiede nonna Ena. Io non riesco a rispondere.
- Dici che dovrei tornare? – chiedo in un bisbiglio sommesso, posando la torta e guardando per terra, - Ma io voglio restare qui. Potrei aiutarvi, anche se non sono tanto bravo con i lavori domestici o… l’agricoltura e l’allevamento o qualsiasi altra cosa facciate qui per vivere. So solo cantare, a volte sospetto neanche tanto bene. Ma potrei cantare per voi! – propongo illuminandomi, - Ti va, nonna Ena? Posso cantare mentre ti reggo il gomitolo e tu lavori a maglia!
Nonna Ena sorride ed annuisce. Io batto ancora le mani, recupero il gomitolo e poi chiudo gli occhi, mettendomi a canticchiare qualche canzone a caso. Di quelle vecchissime, quelle che scrivevo nella mia cameretta da piccolo, quelle che a far parte del repertorio dei Tokio Hotel non ci hanno nemmeno provato. Roba orribile che solo Tom può vantare di avermi sentito cantare. Eppure le ricordo ancora, e per qualche secondo, mentre resto lì a dondolare con gli occhi chiusi e il gomitolo di nonna Ena mi si svolge fra le dita poco a poco, mi sembra quasi di aver ritrovato quell’automatismo che mi rendeva così facile salire sul palco e cantare senza pensare a nient’altro.
E poi, del tutto inaspettatamente, nonna Ena mi sussurra all’orecchio che sono stonato. Solo che non è nonna Ena, è una signora di mezza età magra, appuntita e spigolosa, con un mascherone di trucco sul volto, seduta al tavolino accanto al mio. La stazione di servizio è affollata perché ormai sono quasi le due, la zona ristorante è piena di automobilisti e famiglie in pausa dal viaggio. Quando eravamo piccoli, mamma e Gordon ci portavano spesso a fare di queste scampagnate. Saltavamo in macchina e ci allontanavamo solo di qualche chilometro, giusto per dire di averlo fatto. Raggiungevamo il lago, magari, ed andavamo in barca. Era divertente.
- Mi scusi. – biascico, imbarazzato fino all’inverosimile.
- Non preoccuparti, tesoro, non tutti siamo nati con una voce da usignolo. – dice lei, scrollando le spalle, del tutto disinteressata alla gravità di quanto ha appena detto. Evidentemente non mi conosce, o se anche ha sentito parlare di Bill Kaulitz non riesce a vedere quel nome in questo me stesso così diverso. Non capisco perché la cosa dovrebbe stupirmi, d’altronde: se stamattina io per primo non sono stato in grado di riconoscermi guardandomi allo specchio, come posso pretendere che ci riesca questa donna adesso?
Guardo in basso, verso il mio piatto. C’è ancora mezza fetta di torta ai mirtilli, ma sapere che non è stato davvero nonno Joseph a prepararla mi toglie improvvisamente tutta la voglia che avevo di finirla. La lascio dov’è, passo sbrigativamente alla cassa per pagare e poi esco, stringendomi un po’ nella giacca perché il sole sta cominciando a tramontare e in aperta campagna a quest’ora fa già freddo. Era così anche quando io e Tom eravamo piccoli. Attorno a Loitsche non c’era niente tranne, appunto, campagne sterminate. Io odiavo uscire anche allora, avevo sempre paura che un’ape potesse pungermi, ma Tomi in qualche modo riusciva sempre a convincermi ad accompagnarlo dovunque volesse, perciò finivamo sempre a passare un sacco di tempo all’aperto, nonostante a me facesse abbastanza schifo. E ricordo che Tomi non sentiva freddo quasi mai – più che altro perché s’era convinto che sentire freddo fosse una roba da femminucce, per cui magari congelava ma non rinunciava mai ad andare in giro in canottiera – ma portava con sé la felpa apposta per potersela sfilare ed appoggiarmela sulle spalle quando io, puntualmente, verso il tramonto, mi accucciavo da qualche parte e mi raggomitolavo come un riccio, tremando per il freddo.
Non mi manca quel periodo della mia vita, però mi mancano quei momenti in cui potevo dire di non avere altro che pensieri sul mio glorioso futuro da star in testa. Momenti in cui chiudevo gli occhi e, mentre Tomi blaterava al mio fianco, seduto su un sasso con gli occhi fissi sul sole che tramontava all’orizzonte oltre i campi arati di fresco, io mi concedevo una rara mezz’ora di silenzio dalla mia usuale logorrea e restavo lì, avvolto nella sua felpa enorme, col cappuccio calato sulla testa, e mi immaginavo cantare su un palco, felice come non ero mai stato e in altro modo non avrei mai potuto essere. E mi mancano quei momenti, perché allora nella mia mente era tutto chiaro. Avevo una strada da percorrere e non poteva essere altro che luminosa e splendida. Ora, dalla piazzola di una stazione di servizio persa nel niente nel bel mezzo della Germania, guardo l’autostrada verso sinistra e verso destra e non saprei nemmeno che direzione imboccare per tornare al tourbus.
Così, faccio quello che ho sempre fatto ultimamente in tutte le altre occasioni in cui mi sembrava di essere troppo confuso per decidere qualcosa da me. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, lo accendo, ignoro chiamate perse ed sms cui non risponderò mai e compongo a memoria il numero di Fler.
- Pronto? – dice lui, e nel momento stesso in cui sento la sua voce prendo una direzione a caso e comincio a camminare con passo spedito lungo il ciglio dell’autostrada, radente al guard-rail. – Pronto? – ripete. Io deglutisco, guardando dritto di fronte a me.
- …scusa. – rispondo piano, - Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – risponde Patrick, il tono talmente preoccupato che riesco quasi a immaginarlo qui con me mentre mi gira intorno e mi guarda da ogni parte per assicurarsi che sia ancora tutto intero. – Ragazzino, è tutto a posto? – insiste, - Ti sento strano.
- Strano? – chiedo io, mentre poco a poco, man mano che il paesaggio torna a farsi familiare ai miei occhi, mi rendo conto di aver fatto all’andata molta meno strada di quanto avessi immaginato, - No, perché dovrei?
- Non lo so, - risponde subito lui, - era un’impressione, sei… non lo so. – si interrompe appena, giusto il tempo di cui ho bisogno per capire che il modo in cui sono cambiato è così radicale ed evidente che se mi si conosce abbastanza bene non c’è nemmeno bisogno di guardarmi in viso per capire che è successo. Patrick lo capisce anche solo sentendomi parlare, e di questa cosa ho talmente tanta paura che chiudo gli occhi e proseguo per molti metri senza guardare niente, a rischio di ammazzarmi, terrorizzato dall’idea di ammettere che in fin dei conti la prospettiva non mi spaventa più di tanto. Fra le numerose cose che Anis ha devastato entrando, uscendo e poi rientrando nella mia vita a proprio piacimento, c’è anche la concezione di morte come qualcosa di irreversibile. In qualche modo, perfino adesso, sto pensando che se mi lasciassi scivolare sotto un camion e morissi, poi qualcuno arriverebbe a risvegliarmi dal mio sonno baciandomi sulle labbra. Il bacio del vero amore. Almeno, forse una cosa simile riuscirebbe ad indicarmi chi sia. – Ma c’è qualche problema? – chiede Fler, e io mi prendo qualche secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – gli chiedo, e nel mentre mi passo una mano fra le ciocche scure e bionde che mi scivolano lungo il collo e sulle spalle, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
- Bill? – mi chiama subito lui, e sento l’ansia nella sua voce, - Bill, ma stai male?
- Male? – chiedo, e mi viene da ridere. Male, no, non sto male. Avrei potuto dire di stare male quando ancora ero in grado di sentire qualcosa, ma quando ogni centimetro del tuo corpo è già stato preso a bastonate più di quanto tu non sia in grado di sopportare, il dolore sfuma e non esiste più. Non lo so nemmeno cos’è che potrebbe farmi male adesso. – Ma no. – rispondo sorridendo, - Sto bene. Non devi preoccuparti. – inspiro profondamente e sollevo lo sguardo. Ad una decina di metri da me ci sono i tourbus, fermi dove li ho lasciati. Nessuno si accorge di me che arrivo, nessuno guarda nella mia direzione. – Ora devo andare. – dico a Fler, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompo la conversazione immediatamente, senza dargli il tempo di ribattere, o di fermarmi. Oltrepasso il cavalcavia e faccio qualche metro sulla terra brulla che anticipa il sollevarsi delle colline poco più avanti. Giro attorno ai tourbus, passo dal retro, m’infilo all’interno del mio senza che nessuno mi veda, e scivolo silenzioso in bagno. Il tourbus dev’essere vuoto, perché non si sente volare una mosca. Da fuori, sento l’eco un po’ bassa e distante di alcune persone che parlottano nella piazzola. Non riesco a capire chi sono, né cosa dicono. Me ne disinteresso.
Mi allungo a recuperare il beauty case, frugo un po’ all’interno e trovo il necessario per la manicure. E le forbicine. Non sono adatte per ciò che voglio fare, ma forbici grandi qui non ce n’è, perciò dovrò accontentarmi.
Taglio via una ciocca dopo l’altra. Quelle scure, quelle chiare. Le taglio prima verso là metà della lunghezza, irregolari e storte, e si spelacchiano tutte. Mi guardo allo specchio. Non sono ancora io. Taglio più in alto, un po’ qui e un po’ là. Cerco un me stesso più piccolo e più sorridente, un me stesso che poteva passare ore davanti allo specchio armato solo di una confezione di gel per capelli, per poi uscire dal bagno con un’acconciatura tale da far commentare ai passanti “ma non hai ancora imparato a non mettere le dita nelle prese elettriche, Kaulitz?”. Sorrido ripensando a quel bambino, e mi metto a piangere quando continuo a non trovarlo nonostante tutto. Dovrebbe essere ancora qui, sepolto sotto le macerie, in fin di vita ma col cuore ancora forte che batte nel petto, e invece è sparito. Non l’ho solo sepolto vivo, l’ho nascosto agli occhi del mondo, così profondamente e tanto a lungo da averlo perso per sempre.
Sto ancora sorridendo e piangendo insieme quando sento il click familiare della serratura della porta del bagno. Mi volto verso la porta che si apre e quando incontro gli occhi di David non mi chiedo neanche per un secondo come sia possibile che sia stato proprio lui a trovarmi. La mia vita è cominciata quando sono stato trovato da quest’uomo. Non sarebbe mai potuta andare diversamente adesso.
- Bill… - dice lui, senza fiato, i lineamenti del viso tesi in una maschera di apprensione e sconforto, - Quando… quando sei tornato?
Mi stringo nelle spalle e nello stesso istante in cui lo faccio il pianto silenzioso che mi ha accompagnato fino ad adesso si fa lentamente sempre più rumoroso. Gemo e singhiozzo e comincio a respirare male, perciò David entra in bagno, chiude la porta alle proprie spalle, si allunga a sbarrare la finestrella aperta in alto sopra la mia testa e poi si china su di me e mi stringe fra le braccia. Io sono talmente stanco che sento ogni fibra del mio corpo sciogliersi e perdere consistenza, mentre mi nascondo sul suo petto e stringo la sua maglietta tanto forte da farmi male alle dita. E continuo a piangere.
- Non so cosa sto facendo. – dico piano, a fatica, schiacciandomi con forza contro di lui perché non voglio vedere me stesso e non voglio vedere neanche nient’altro. – Non mi riconosco. Quando mi guardo in faccia, David, dico davvero, non sono io. Quello non sono io.
- Io ti riconosco. – mormora David, cullandomi lentamente, - Io lo so chi sei, Billi. Sei solo un po’ opaco, ma sei sempre tu. Guarda. – aggiunge con un mezzo sorriso, prendendomi per le spalle e facendo girare lo sgabello su cui sono seduto abbastanza da permettermi di guardarmi allo specchio, - Come fai a non vederti? Chi altri potrebbe essere così bello anche dopo essersi tagliato i capelli con gli occhi palesemente bendati ed avere poi pianto per mezz’ora?
- Sono orribile! – dico, distogliendo lo sguardo e coprendomi il viso con entrambe le mani. David le scosta, accompagnandole finché non le abbasso, e poi mi prende il mento fra le dita, obbligandomi a tornare a fissare il mio riflesso nello specchio.
- Sei bellissimo. – dice con sicurezza, - Anche se in effetti sono costretto ad ammettere che il lavoro che hai fatto con questi capelli è davvero raccapricciante, tesoro. – aggiunge con tono frivolo, gesticolando un po’ mentre si china a recuperare le forbicine dal lavandino, - Dico davvero, Bill, che delusione, sei un disonore per la tua intera razza. L’autorità costituita dell’Ordine Mondiale degli Omosessuali nel Mondo dello Spettacolo non sarà per niente contenta di tutto questo. A maggior ragione visto che sei il mio figlio spirituale, voglio dire, non ti ho insegnato niente in tutti questi anni? Si può soffrire, ma con grazia. – annuisce compitamente.
Io mi appoggio di schiena al suo petto e lo osservo mentre mi maneggia con una cura che non riesce a stupirmi nemmeno in parte. Lo ascolto mormorare rassicurazioni prive di senso e continuare a blaterare a caso su questo fantomatico Ordine Mondiale Gay che a suo dire dovrebbe strapparmi di dosso il distintivo di Vero Gay che nemmeno posseggo perché non sono stato in grado di tagliarmi decentemente i capelli mentre non riuscivo a vedere a due centimetri dal mio naso, tante erano le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo guardo mentre pareggia il taglio ai lati della mia testa e sistema le ciocche di capelli più lunghi che sono rimasti in cima, osservando il tutto con aria critica fino a quando gli si illuminano gli occhi e lo vedo girare su se stesso con una piroetta entusiasta, spalancando sportelli in dieci centimetri di spazio per recuperare il rasoio elettrico prima di invitarmi a chiudere gli occhi e rilassarmi, che quando li avrò riaperti allora sì che riuscirò a riconoscermi.
Li riapro almeno mezz’ora dopo. Non sono sicuro di non essermi addormentato. Schiudendo le palpebre, i miei occhi incontrano il riflesso della mia immagine, nello specchio. David sta accarezzando i miei capelli con l’attenzione e l’affetto di un padre. Sulle sue labbra s’è aperto un sorriso distratto e lieve, mentre non lo guardavo. Passa le dita fra le ciocche scure, sistemandole sopra la mia testa con cura, e sembra sereno. Così sereno.
Riporto lo sguardo sullo specchio. Quello continuo a non essere io. Non riesco nemmeno a sentire le sue carezze, o il calore del suo petto che si alza e si abbassa sollevandomi ad ogni respiro, proprio dietro di me. Non c’è niente. Non c’è più niente.
Chiudo gli occhi e ricomincio a piangere. Silenziosamente. Non voglio dare fastidio a nessuno.
David finisce di sistemare il taglio e poi mi abbraccia piano, come avesse paura di disturbarmi.
- Ti lascio un po’ tranquillo, ok? – mi sussurra all’orecchio. Io annuisco e lui sorride ancora, stringendomi una spalla con fare rassicurante prima di uscire dal bagno. Pochi secondi dopo lo sento abbandonare anche il tourbus, e la mia testa comincia a girare in un modo nuovo. È una sensazione che non ho mai provato, come stare a guardare mentre le cose che decido e che faccio semplicemente accadono, una dietro l’altra. Non ho davvero una parte, in tutto questo. Sono attore e spettatore, ma quasi nemmeno mi muovo.
Esco dal bagno. Prendo uno zaino. Lo riempio di roba a caso. Dove sto andando, niente di tutto questo mi servirà, eppure per qualche motivo l’idea di muovermi senza niente mi disturba. Prendo il beauty case. Una maglietta. Un paio di calzini ed uno di mutande. Due merendine ed una bottiglietta d’acqua dal frigo. Il portafogli. Infilo la giacca ed esco all’esterno. Ritorno dentro, mi avvicino al tavolo e prendo un post-it dal cassetto del cucinino. Scrivo sopra che avevo sonno e mi sono infilato nella cuccetta. Prego di non svegliarmi fino a domani. Saluto Peter disegnando un cuore nell’angolo in basso. Lascio il post-it dov’è e torno fuori. Mi guardo intorno, non c’è nessuno nelle vicinanze. C’è un bel po’ di gente assiepata di fronte all’entrata dell’autogrill. Alcuni si agitano, guardano verso uno schermo. Probabilmente stanno seguendo qualche partita. Quando stavo con Anis ero sempre al corrente delle partite che si giocavano, ogni settimana. Dovevo, visto che lui il calcio lo adora. Era carino stare sdraiati sul divano la domenica sera. Lui guardava la tv, io guardavo lui e mi ripetevo quanto fossi fortunato.
Sorrido un po’, sperando che Anis sia dentro l’autogrill con gli altri. Sperando che stia guardando la partita e si stia divertendo e non stia pensando a niente. Giro attorno ai tourbus e scavalco il guardrail. Percorro a ritroso la stessa via che ho fatto tornando qui non più di un paio d’ore fa, e raggiungo la stazione di servizio della torta ai mirtilli in meno di venti minuti. Mi rendo conto di quanto abbia dilatato il tempo all’andata e anche al ritorno, e realizzo coscientemente per la prima volta che non c’era nessun villaggio perso in mezzo ai campi di grano, nessuna nonna Ena, nessun nonno Joseph.
Entro nell’autogrill, chiedo una fetta della stessa torta che ho mangiato prima e me la faccio mettere in una confezione da asporto. Dopodiché spiego che ho bisogno di raggiungere Berlino al più presto, ma il tipo oltre il bancone mi guarda come fossi completamente pazzo per qualche secondo, ed allora aggiungo che andrà bene anche una stazione ferroviaria, che poi da lì mi organizzerò da solo. Mi si avvicina una signora con un bimbo in braccio e mi dice che lei e suo marito stanno giusto tornando in città, e per loro non è un problema accompagnarmi fino alla stazione, se per me non è un problema viaggiare con estranei. Sorrido e la ringrazio, assicurandole che non c’è proprio nessun problema. Come potrebbe? Se non volessi viaggiare con un estraneo, non potrei viaggiare nemmeno con me stesso.
In macchina resto più che altro in silenzio. La signora e il signore mi fanno un sacco di domande, ed io rispondo a tutte, per quello che posso, ma senza aprirmi troppo. Il bimbo, ancorato al seggiolino sul sedile posteriore, proprio qui al mio fianco, ad un certo punto si mette a piangere, forse a causa di un po’ di mal d’auto. Afferro uno dei sonaglini sparsi in giro per la macchina e comincio a distrarlo. Il bambino mi segue, dopo un po’ smette di piangere. Continuo a farlo giocare facendo smorfie e agitando il sonaglio, e vedo i suoi genitori sorridere e sorridersi nel riflesso dello specchietto retrovisore. Mi viene un po’ da piangere, ma non cedo.
Arriviamo in stazione che è già buio, ma siccome non è tanto tardi c’è un sacco di gente in giro, e treni che arrivano e ripartono ad ogni binario. La stazione è tutta illuminata, c’è un McDonald’s aperto nel quale ho paura di entrare. Cerco sul tabellone il primo treno per Berlino. È un treno notturno e parte fra mezz’ora. Mi dico che sono stato fortunato anche stavolta, lo sono spesso e senza nessun motivo. Compro un biglietto e poi mi seggo in sala d’aspetto, tenendo sempre d’occhio il tabellone degli arrivi. Ho fame e mi annoio. Tiro fuori la fetta di torta ai mirtilli dalla sua confezione e la mangio con piacere immenso, chiudendo gli occhi ed assaporandola lentamente.
Quando finisco, è già ora di muoversi. Esco dalla sala d’aspetto, salgo sul treno, prendo posto in uno scompartimento quasi vuoto – c’è solo un uomo seduto dal lato opposto, e dorme profondamente – e mi appoggio al finestrino, guardando la notte e la città e la campagna mentre scorre davanti ai miei occhi diventando una macchia scura priva di contorni distinguibili, con qualche luce che appare all’improvviso e altrettanto all’improvviso scompare, lasciando solo una traccia sulla mia retina. Ogni traccia resiste per qualche secondo, sia che io tenga gli occhi aperti sia che io li chiuda, perciò a un certo punto li chiudo e resto lì appoggiato, inspirando ed espirando profondamente l’aria ghiacciata che entra dentro dallo spiraglio del finestrino appena abbassato.
Mi sembra di chiudere gli occhi solo per dieci minuti, o qualcosa del genere, ma quando li riapro è già mattina. Sono stanco esattamente come ieri, ma mi tiro in piedi e cerco di stare ben dritto sulle gambe quando il treno, dopo un millennio da quando ha cominciato a rallentare in prossimità della stazione, si ferma. Recupero il mio zaino e scendo barcollando, reggendomi a qualsiasi cosa incontri per strada e sia ancorata abbastanza saldamente al suolo. Dio, sono così stanco.
Controllo il cellulare che durante la notte, in modalità silenziosa, ha squillato di continuo. Trenta chiamate solo da Peter, non molte di meno da David, cinque o sei da Tom, un paio perfino da Anis. Il mio biglietto non deve averli convinti molto.
Sospiro, cancellando l’elenco delle chiamate e spegnendo il cellulare. Chiamo un taxi e, quando il tassista mi chiede dove voglio andare, per un secondo non ho idea di cosa rispondergli, perché non voglio andare da nessuna parte. Se nessuna parte esistesse, sarebbe lì che andrei. Sarebbe sicuramente un posto come quello che ho visto mentre sognavo, o comunque non ero in me, alla stazione di servizio. Poche case, una piazza, un pozzo, campi di grano ovunque, bambini, donne, persone anziane, lavoratori lontani come miraggi. Ma quel posto non esiste, e io ho bisogno di sentirmi al sicuro, e negli ultimi anni c’è solo un posto in cui sia riuscito a sentirmi così.
Do al tassista l’indirizzo della Villa Gialla, e sorrido man mano che le strade che percorriamo si vanno facendo sempre più familiari e rassicuranti. Riesco a rivedermi imboccare queste stesse strade sulla mia macchina, o su quella di Tomi, quando riuscivo a rubargliela o a convincerlo ad accompagnarmi lui, non perché ne avessi bisogno ma semplicemente perché mi piaceva l’idea. Perché quello era un periodo in cui potevo fare le cose anche solo perché mi andava. E mi manca.
Della Villa Gialla ho ancora le chiavi. Non le ho mai ridate ad Anis. Le tengo assieme a tutte le altre nel mazzo, un mazzo enorme con cinquecento portachiavi e che pesa più di me. Pago il tassista ed aspetto che il taxi sia sparito dietro il primo angolo prima di tirarlo fuori. Apro il cancello e sento i cani abbaiare. Sono aggressivi, all’inizio, tirano le catene tanto forte che mi viene quasi da pensare che riusciranno a muovere perfino le cucce, come nei cartoni animati, ma quando si allungano abbastanza da vedere che sono io il loro abbaiare si fa meno aggressivo e più festoso, smettono di tirare e cominciano a saltellare. Mi avvicino piano e mi chino davanti a loro, che subito si accoccolano davanti a me per un po’ di carezze. Gratto Skyline sulla pancia e Sherlee dietro le orecchie, poi mi rimetto in piedi ed entro in casa. È tutto buio e c’è silenzio ovunque. I cani riprendono ad abbaiare per qualche minuto, ma quando si rendono conto che non li farò entrare smettono, e tornano ad accucciarsi all’interno delle loro pittoresche casette di legno. Io spalanco le imposte di una sola finestra in salotto. La luce investe il divano ed è lì che mi vado a sedere, poggiando lo zaino sul pavimento e fissando un punto imprecisato nel vuoto.
È anche qui che mi trova Patrick quando entra in casa, non so quante ore dopo. Abbastanza perché il sole sia tanto alto nel cielo da colpire la stanza per intero, illuminandola tutta. Ho osservato i raggi farsi più ampi, li ho sentiti farsi più caldi, e smetto di guardarli solo quando sento la chiave girare nella toppa e la porta aprirsi su di lui, che mi individua subito, dall’ingresso, e spalanca gli occhi.
- Bill? – mi chiama. È talmente incredulo che gli trema la voce. – Bill, ma che cazzo ci fai qui?
Mi rannicchio un po’ sul divano, sorridendo debolmente. Sono così stanco, mi si chiudono gli occhi.
- Sono scappato. – ammetto, troppo stanco per inventare balle, - Non ce la facevo più.
- Sei— sei scappato? – sillaba lui, sconvolto, sedendosi sul divano e sporgendosi tutto verso di me, come avesse paura di vedermi crollare all’improvviso e dovesse tenersi pronto ad allungarsi per recuperarmi prima che mi schianti a terra.
- Sì. – biascico io, trovando non so dove la forza per annuire, - Patrick, non capisco più niente di quello che succede. Io credo di essere impazzito. – rido un po’, ma è una risata talmente debole e stanca che fa più paura a me di quanta ne faccia a lui. Ed a lui già ne fa tanta, lo vedo dal brivido che gli scorre per tutta la schiena, costringendolo a tremare impercettibilmente.
- Come sarebbe a dire che credi di essere impazzito? – mi chiede, strisciando sul divano fino ad avvicinarsi abbastanza perché il mio corpo possa reagire come fa sempre quando non ce la fa più a sostenersi da solo. Mi perdo fra le sue braccia, abbandonandomi contro il suo petto e chiedendomi se questo non sia poi il motivo principale per cui sono pieno di guai. Per la vita che mi sono scelto, io dovrei essere molto più forte di così. Però non lo sono, e questo mi porta a causare un sacco di guai a me stesso ed agli altri. Questa cosa è così ingiusta. Però io sono così stanco.
- Non sono più io. – mugolo confusamente, cercando di non piangere nonostante gli occhi siano così carichi di lacrime da bruciare, - Non mi riconosco. Sto un sacco male, Patrick.
Patrick mi stringe e mi accarezza i capelli e il collo, cullandomi col ritmo dei suoi respiri.
- Stai bene, così. – dice a bassa voce, passando le dita fra le punte cortissime dei miei capelli. Io ringrazio così piano che lui nemmeno mi sente. – Bill, - mi chiama, ed io istintivamente so che sta per dirmi qualcosa che non sono sicuro di voler sentire, - tu lo sai perché le cose vanno così male.
Stringo i denti, aggrottando le sopracciglia e stringendo un lembo della sua maglietta fra le dita.
- No che non lo so. – rispondo con tono lamentoso.
Lui mi stringe più forte, cullandomi lentamente.
- Alle volte le cose vanno fatte anche se ci fanno stare male. – dice, e gli trema la voce. E so che sta parlando per me, in questo momento, ma anche per se stesso.
- Non voglio. – piagnucolo. Non riesco più a trattenere le lacrime che nel mentre si sono gonfiate così tanto da cadere a gocce enormi sulla sua maglietta, sui suoi pantaloni e sulle mie mani.
- Bill, tu… - sospira e riprende ad accarezzarmi la nuca, senza smettere un secondo di ondeggiare avanti e indietro, - …tutti noi, in realtà. Ci siamo tutti persi. Abbiamo bisogno di ritrovarci, ma non possiamo farlo finché—
- Non dirlo.
- Finché non riusciamo a concentrarci solo su noi stessi. – conclude lui, stringendomi fortissimo perché sa che se non lo facesse scapperei. Ci provo, a divincolarmi, ma sono così stanco che non riesco. Trattengo il fiato così a lungo che mi sembra di potere esplodere, e poi lo rilascio e scoppio a piangere più forte di quanto non facessi prima, mugolando che non voglio, non voglio lasciarli, sono tutto il mio mondo, sono la ragione per cui sono qui, tutti loro, tutti e tre, in modo diverso ma ugualmente importante, e non ce la faccio proprio a metterli da parte, non ci riesco, non voglio. E mentre piango sempre più forte, e la mia voce si fa sempre più stridula e lagnosa, Fler mi stringe sempre con meno convinzione ed io realizzo che questa persona che piange e si lagna e non ha coraggio né forza di volontà non sono io. Ed è questo il motivo per cui mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Questo stupido ragazzino impotente non sono io. Io non avevo ancora diciott’anni quando mi sono innamorato sul serio ed ho deciso che avrei conquistato l’uomo che amavo. Non avevo ancora diciott’anni quando ho ascoltato ciò che quest’uomo aveva da dirmi ed ho deciso di accettare tutto, di lui, perfino il suo passato, perché era ciò che serviva per averlo. Ed ero ancora più piccolo quando ho deciso cosa dovevo fare della mia vita, ero ancora più piccolo quando ho cominciato a lavorare, ad un’età in cui i ragazzini normali ancora si svegliano alle sette e si lamentano o inventano scuse per non andare a scuola.
Ora sono qui che piango e strepito e faccio i capricci come uno di quei ragazzini che non sono mai voluto essere. E questo non sono io. Non è così che mi voglio. E se è vero che mi sono perso, devo assolutamente ritrovarmi.
Mi allontano da lui, raddrizzando le spalle e passandomi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Patrick mi osserva farlo e non ha bisogno di chiedermi niente per capire che finalmente ci sono arrivato anch’io.
Mi alzo subito in piedi, non perché voglia scappare, ma perché voglio fare qualcosa. Una cosa qualsiasi. Anche soltanto alzarmi in piedi e girare attorno al divano per sgranchirmi le gambe. Improvvisamente, sono molto meno stanco di quanto non fossi prima. Forse ero solo così pieno di tristezza da non riuscire a muovermi come volevo. Forse dovevo soltanto piangerla via.
- Partirò. – dico annuendo. Guardo fuori dalla finestra, le strade piene di persone e il sole altissimo nel cielo azzurro macchiato appena da qualche sbuffo bianco semitrasparente. – Me ne andrò in qualche bel posto con Tomi. Alle Maldive, magari. Io e lui dobbiamo dirci tante cose.
Patrick annuisce, sorridendo debolmente ed affiancandomisi per abbracciarmi ancora.
- Sarebbe meglio non sentirsi. Nemmeno noi. – dice, quasi per assicurarsi che abbia capito bene il concetto.
- Sì. – rido io, - Lo so perfettamente. Parlerò con David. Risolverò questa situazione.
Patrick si allontana, guardandomi con aria un po’ incerta ma profondamente divertita.
- Chi sei tu? – chiede ridacchiando, - Non ti ho mai visto così.
- Tu non mi hai mai conosciuto. – rispondo con un sorriso più dolce, allungandomi ad abbracciarlo a mia volta, - Quando sarò tornato, quando starò meglio, vorrò che tu mi conosca. Partiremo insieme, e stavolta sarà diverso da tutte le altre volte. Credimi.
Mi allontano ancora e frugo nelle tasche dei jeans, tirandone fuori il mazzo di chiavi. Lo guardo per qualche secondo, facendolo tintinnare sul palmo della mano, e poi stacco le chiavi del cancello e di questa villa, e le do a Fler.
- …sono…? – chiede lui con aria incerta. Io annuisco.
- Non le ho mai ridate ad Anis. – confesso, - Puoi fargliele avere tu?
Patrick annuisce, prendendo le chiavi in mano e conservandole subito in tasca. Lo saluto con un bacio sulla guancia, recupero il mio zaino e mi avvio lungo il corridoio.
- Stammi bene, ragazzino. – mi saluta lui, sbuffando un sorriso incerto. Gli faccio un cenno con una mano, prima di sparire oltre la soglia e lasciarlo in salotto. Sono ancora qui, ma non vedo l’ora di essere fuori. Chiamerò Tomi appena arrivato a casa. Gli dirò tutto. Sistemeremo tutto. Posso già sentire il calore del sole sulla pelle, la consistenza dei granelli di sabbia fra le dita, l’acqua ghiacciata che mi scivola fra i capelli e sul viso.
Attraverso tutto il corridoio e, quando arrivo a un passo dalla porta, mi volto verso lo specchio alto e largo sopra la consolle, e mi sorrido. Sento che sto sorridendo proprio a me stesso, e capisco che la direzione, stavolta, è quella giusta.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/OMC, Fler/Chakuza, Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Angst, Slash, OC.
- "Io non sto bene, è evidente."
Note: Per chiunque si chiedesse se Danny sarebbe riapparso in futuro, ecco la risposta XD (No, ma ve lo stavate chiedendo davvero? Cioè, Danny's here to stay, ladies.)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PICTURES


Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo, Triste, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Angst, Lemon.
- "Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo."
Note: ...allegria. \o/ (Questa storia non doveva essere così. Per certi versi, le premesse dovevano essere più "soft", ed in qualche modo, di conseguenza, dovevano essere più leggere anche le ovvie conclusioni che da quelle premesse dovevano arrivare. Così non è stato, perché questa gente purtroppo sta male più di quanto io stessa non avessi capito. Chiedo scusa /o\)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A SAD-EYED LIE


Mi lascio ricadere sul divanetto in fondo al tourbus con un sospiro stremato, e resto lì seduto a fissare il vuoto per qualche secondo, troppo stanco per provare a fare qualsiasi altra cosa, finché non mi sento letteralmente cedere e mi rassegno a stendermi lì per una decina di minuti, prima di trovare la forza di rimettermi in piedi, farmi una doccia e trascinarmi nella mia cuccetta. Lontano anni luce da me, sento Tom augurare la buonanotte a qualcuno e poi chiudere con forza lo sportello. Lo sento girare in tondo per qualche minuto, calmo, come stesse prendendo le misure dell’ambiente circostante, e poi sento i suoi passi avvicinarsi.
Apro un occhio.
- Sei vivo? – mi chiede. Sta dritto accanto a me, le mani sui fianchi, le fronte libera dalla solita bandana e la camicia aperta per metà sul petto.
- Chiedimelo di nuovo fra una decina di minuti. – rispondo a mezza voce. Lui si lascia sfuggire una mezza risata divertita.
- Stanotte esco. – m’informa poi, come fossi il suo cazzo di padre o chessò io. – Arriviamo a Magdeburgo verso le due. La notte, per allora, sarà ancora giovane, e ho tutta l’intenzione di riallacciare i rapporti con qualche vecchio amico.
- Amica è il termine esatto, Tom. – lo correggo aggrottando le sopracciglia. Se fossi solo un po’ meno stremato, salterei in piedi e lo prenderei a pugni su quel suo muso pulitino da Don Giovanni delle ragazzine, ricordandogli che sta con una delle mie donne, e in quanto tale le deve rispetto, ma sono veramente troppo, troppo stanco, e peraltro conosco Cassandra, so che non è una stupida ed immagino che il discorso del sesso in tour l’abbiano affrontato, prima che Tom partisse, per cui mi limito ad aggrottare le benedette sopracciglia e disapprovarlo silenziosamente.
- Sì, forse. – ride lui, malizioso.
- Jost te lo lascia fare? – chiedo, rassegnandomi a tirarmi su ed aggrappandomi al divano come ne andasse della mia vita.
- David è la tua balia, non la mia. – mi fa notare con un sorriso furbo. La cosa, purtroppo, è anche fin troppo vera. Purtroppo, Jost è umano. Se stringe la presa da una parte, deve mollarla dall’altra. E Dio solo sa quanto forte debba essere la presa, se si vuole avere a che fare con me. – E comunque al momento ha altro cui pensare. Il che mi fa molto comodo, visto che io, invece, non voglio pensare a niente.
Si allontana senza aggiungere una parola, e d’altronde non che ce ne sia davvero bisogno. Lui è, se possibile, quello che l’ha presa peggio, tutta questa storia del tour. Forse perché come noi non ne capisce il senso, ma differentemente da noi prima di imbarcarcisi stava bene. Io, Bill, Chakuza e per certi versi anche David, non è che fossimo sereni, prima di partire. Non è che ringraziassimo Allah ogni volta che aprivamo gli occhi al mattino, per dire. Tom invece no. Anzi, più precisamente, Tom invece chissà, perché chi l’ha visto, ultimamente? Chi ha visto lui o Cassie? Chi li ha visti ricostruirsi una vita mentre ancora noi vaghiamo sperduti e senza meta fra le macerie della vecchia?
Quindi, insomma, posso solo immaginare quanto doversi mettere in viaggio con noialtri possa averlo scazzato, soprattutto visti i risultati gloriosi che non facciamo che affastellare l’uno sull’altro da quando siamo partiti. Sono abbastanza sicuro che la macchia sulla mia reputazione, dopo questo tour, non andrà più via. C’è differenza fra l’improvvisare una piccola produzione e magari fare qualche spettacolo così alla buona ma con tanta passione, come quelli che facevamo io e Patrick da ragazzi, e l’avere a portata di mano una produzione potenzialmente perfetta, con tanto di scenografia del ghetto e robaccia simile – roba che se io e Bill avessimo avuto per le mani una proposta del genere un paio d’anni fa ne sarebbe venuto fuori un tour che la popolazione mondiale avrebbe ricordato nei secoli a venire, garantito – e buttare tutto nel cesso perché un po’ non ce la fai, e un po’ nemmeno vuoi provarci.
Io, per dire, non ce la faccio e nemmeno voglio provarci. Sono stanco, frustrato e voglio tornarmene a casa mia, come quando da piccolo mamma mi portava a cena la domenica dai nonni, e loro erano sempre rigidi e silenziosi come sputassi nei loro piatti. Non vedevo l’ora di potermene tornare a casa mia, non perché ci fosse chissà che ad attendermi – a conti fatti, ad attendermi non c’era proprio un bel niente – ma perché semplicemente casa era un posto sicuro. Avevo la mia cameretta col mio letto e i miei poster e i miei cd pirata e le mie cuffie enormi e il mio lettore cd gigantesco e vecchissimo e perennemente impolverato, e chiudevo gli occhi e smettevo di pensare. Adesso vorrei fare la stessa cosa, solo tornarmene a casa, chiudermi a doppia mandata nel mio studio e metter su della musica. Qualsiasi musica. Chiudere gli occhi e spegnermi, solo per un po’.
La parte peggiore del tutto, poi, non è nemmeno che il tour stia andando male dal punto di vista lavorativo. Un sacco di cose, nel corso della mia carriera, sono andate male da quel punto di vista, e lo dimostra il fatto che una roba che la gente comincia a fare quando ha meno di diciott’anni io ho cominciato a farla solo quando ne avevo ventuno, e neanche tanto seriamente – per la serietà, ho dovuto aspettare i venticinque. Solo che, quando le cose andavano male, io comunque andavo sempre bene. E quindi le cose potevano anche crollare tutte assieme come i castelli di carta che erano, perché tanto le mie spalle erano sempre abbastanza forti da reggere la frana.
Adesso è diverso. Adesso io sono troppo stanco per reggere alcunché. Tutto crolla e io non riesco a sopportarlo bene come avrei fatto dieci o cinque o anche un anno fa, ed a complicare tutto, naturalmente, c’è Bill. Che è la parte peggiore di cui parlavo, perché Bill può essere solo due cose, considerato ciò che è e ciò che fa e come lo fa, può essere la parte peggiore, o la parte migliore. Non ha mezzitoni, in questo senso, ed ha smesso di essere la parte migliore, per me, tanto di quel tempo fa che ogni tanto fatico perfino a ricordare com’era.
Sono rintanato nella mia cuccetta da almeno un’ora, quando sento il tourbus fermarsi. C’è silenzio, tutto intorno, ed è evidente che siamo nella piazzola di una stazione di servizio poco lontana dalla città, perché a quanto ho capito il servizio di sicurezza ha sconsigliato a Jost di entrare materialmente nelle città ed insediarci negli alberghi prima dei concerti. La pressione dei paparazzi e della critica su tutto quello che sta succedendo, la fame con cui ci strappano di dosso segreti misti a brandelli di carne è veramente esagerata, e sistemarci in un albergo, anche il più sicuro, sarebbe un suicidio. Perciò rimaniamo fuori, dove è più difficile che ci trovino. Il che non sarebbe un male nel complesso, se poi m’impedisse vie di fuga quando invece ne ho bisogno.
- Ohi. – dice Tom, sollevando la tenda e fissandomi. La sua è solo una sagoma nel buio, illuminata parzialmente dalle luci dei lampioni disseminati nella piazzola, di fuori. – Uno della security ci accompagna giù in città. – esita qualche secondo, mordicchiandosi un labbro. È così simile a suo fratello, certe volte. – Non è che ti va di venire?
Quello che vorrei chiedergli adesso è non è che a te va di restare?, ma lascio perdere.
- Vai tranquillo. – borbotto senza neanche sollevare la testa dal cuscino, - Sono stanco morto, nemmeno ti sentirò rientrare. Starò dormendo come un sasso entro dieci minuti al massimo.
Lui scrolla le spalle e non insiste.
- Come vuoi. – dice, lasciando andare la tenda. Sento i suoi passi pesanti allontanarsi lentamente lungo il corridoio e poi sparire, nel momento stesso in cui lo sento salutare giovialmente Schäfer e Listing ad alta voce, facendo qualche battuta sugli occhiali del primo e sui capelli del secondo.
Io mi tiro a sedere, dimenticando i propositi di sonno immediato, e piego le gambe, appoggiando gli avambracci alle ginocchia. Fisso il buio così a lungo che ad un certo punto riesco a distinguere le pieghe delle lenzuola stropicciate ed ammonticchiate ai piedi del materasso, ed è allora che sento lo sportello del tourbus aprirsi discretamente e poi richiudersi con un sottilissimo click.
Indossa le Adidas, riconoscerei quello scricchiolio infantile ovunque. So che strascica i piedi perché vuole che lo senta, e mi mordo con forza un labbro quando vedo le sue dita spuntare nella fessura fra le due tende che mi separano dal resto dell’universo, un secondo prima che lui le scosti. Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo. Poi, lui mi sorride – un sorriso minuscolo, che sembra voglia scusarsi perfino di esistere – e si siede sul bordo della mia cuccetta, dandomi quasi le spalle. Lancia un’occhiata fuori dalla finestrella chiusa, sulla strada. La piazzola è già deserta, chi doveva andare in città c’è andato, gli altri si stanno riposando o sono all’interno della stazione di servizio per rifocillarsi o prendere un caffè.
- Ti andrebbe di andare a fare una passeggiata? – mi chiede a mezza voce, quasi trasognato. Inarco un sopracciglio, lui non lo vede ma precisa comunque, - Non ti ho chiesto di venire con me a passeggiare di fuori. Mi chiedevo… se io ti invitassi, tu verresti?
Sospiro profondamente, gettando le gambe giù dal letto e sedendomi accanto a lui.
- Perché vuoi rendere tutto più difficile, Bill? – gli chiedo a bassa voce. Lui sorride appena.
- Perché non c’è un modo facile per fare andare avanti tutto questo. Sapere che sei così vicino mi… - si interrompe, come cercando le parole. È probabile che non riesca a trovarle, comunque, perché lascia la frase sospesa. – Avevo voglia di vederti. – conclude quindi, come se questo potesse bastare a giustificare la sua presenza qui, ora, mentre il suo uomo presumibilmente dorme un tourbus più in là.
- Bill… - dico con un altro sospiro, grattandomi la fronte, - Sei un bimbo grande, ormai. Certe giustificazioni valgono sempre meno, man mano che cresci.
Lui ride piano, stringendosi nelle spalle.
- Il problema è questo qui, sai? Che sono cresciuto. – risponde, voltandosi a guardarmi. Anche nel buio, i suoi occhi brillano. Li sento addosso come fossero di fuoco.
- Forse non abbastanza, però. – obbietto io, - Ti stai comportando esattamente come quando eri un ragazzino e ti appostavi fuori da casa mia pregandomi di farti entrare per un po’. Continui a tornare.
Bill ride ancora, con maggiore convinzione.
- Questo forse dovrebbe dirci qualcosa. – commenta, - Anche perché continui a tornare pure tu. Torni anche dalla morte.
- Io non ero morto, Bill. – lo dico con durezza, severamente. Lui si volta a guardarmi come l’avessi offeso personalmente.
- Tu eri morto. – dice convinto, - Tu non annullerai il mio lutto solo perché sei risorto. Tu eri morto, Anis, tu sei stato morto per un sacco di tempo. Ora sei tornato, ma prima eri morto comunque.
Annuisco piano, guardando altrove. Sorrido, anche se solo un po’, quando riprendo a parlare.
- Fatico ancora a realizzare pienamente quanto male ti ho fatto. – confesso in un fiato, - Devi capire che la decisione che ho preso l’ho presa in un momento molto particolare, in cui la ritenevo necessaria. Ero convinto che sarebbe stata la cosa migliore da fare ed ho accettato l’eventualità che tu potessi soffrire perché riuscivo a vedere, in prospettiva, che prima o poi saresti stato nuovamente felice.
È la prima volta che riesco a dirgli una cosa simile esattamente come la penso e in maniera serena. È un po’ assurdo che noi si abbia avuto bisogno di sfiancarci, letteralmente, sia a livello fisico che a livello emotivo che a livello mentale, prima di poter parlare come persone civili. Intavolare questo discorso due o tre mesi fa avrebbe portato inevitabilmente ad un litigio in cui ci saremmo sputati addosso le cattiverie più indegne per il solo gusto di farci del male a vicenda. Oggi posso guardare il suo profilo nel buio del tourbus e dirgli tutto questo con tranquillità perché sono consapevole del fatto che se provassi a cercare dentro di me un briciolo di forza per attaccarlo, non ci riuscirei, e per lui vale lo stesso.
Se ci penso, facevamo così anche allora, quando tutto era più facile ed eravamo solo io e lui. Avendo sempre avuto i caratteri forti che abbiamo, ogni litigio era una guerra che poteva durare dei giorni, poteva essere logorante per davvero, ed era solo alla fine, quando entrambi eravamo stanchi di non poterci più toccare senza un velo di rabbia a coprire tutto il resto, che riuscivamo a riappacificarci, perché solo alla fine riuscivamo a ricominciare a parlare.
- Perché sei tornato? – mi chiede piano. Ho l’impressione che mi abbia già fatto questa domanda, in passato. Lui, o il lui che ho sempre avuto nella testa mentre stavo a Miami, che fossi ubriaco o meno. L’istinto mi direbbe di ripetere a lui quello che ho già detto agli altri, più e più volte. Il messaggio preimpostato per le riviste e i vecchi amici. L’Ersguterjunge stava crollando, l’unica cosa del tutto mia che mi rimaneva al mondo si stava sfaldando perché non avevo considerato troppi dettagli. Per una mia incuria, in definitiva.
Potrei farlo, potrei dirgli questo adesso, e so che in qualche modo questo porrebbe fine alle sue visite continuative in questo tourbus, ai discorsi sciocchi e privi di senso che facciamo sul cielo della notte, sul caffè dei distributori automatici e sullo scarico del cesso che nel suo tourbus funziona male, so che porrebbe fine anche a quello che in genere segue questi discorso, il vero problema principale che mi impedisce di accettare la sua presenza qui come qualcosa di positivo, ma so che, se voglio essere completamente sincero, io non voglio che questo finisca.
E non voglio che lui creda che sia solo per l’Ersguterjunge che ho deciso di rovinargli la vita, o ciò che ne restava dopo esserci passato sopra con un carro armato.
- Perché ti rivolevo indietro. – rispondo senza guardarlo, - Perché da qualche parte sentivo ancora che eri mio e non prendevo neanche in considerazione l’idea di potermi sbagliare. – inspiro ed espiro profondamente, voltandomi a guardarlo. Lui sta già guardando me. – Ti rivolevo indietro. – ripeto, - Tu sei il motivo per cui me ne sono andato, quello per cui sono tornato, e quello per cui continuerei ad andarmene e tornare all’infinito, se fosse necessario.
Bill smette di respirare. Per molti secondi non sento più aria passare attraverso le sue labbra, e lui resta immobile, come gli avessi sparato a bruciapelo nel centro del petto. Realizzo la portata di ciò che gli ho detto solo quando lui si sporge verso di me e poggia le proprie labbra sulle mie. Mi bacia in modo tenero, quasi infantile, come avesse dimenticato come si fa e stesse cercando sul mio corpo le tracce per imparare nuovamente a farlo. Allunga le braccia e me le allaccia al collo, mi scavalca con una gamba e si sistema impacciato sul mio grembo, pressandosi contro di me, ed io ho appena il tempo di lasciar scivolare le mani lungo la linea dritta della sua vita, sentendo la consistenza ossuta dei suoi fianchi sotto i polpastrelli quando scivolo appena sotto la maglietta leggera che indossa, che devo subito allontanarlo.
- No. – dico piano.
- Non dirlo, non dirlo, non dirlo. – mugola lui, disperato, - Ti prego, non dopo quello che mi hai detto. Fingi che tutto il resto non esista, ti scongiuro, sono stato così bene…
- No, Bill. – insisto, afferrandolo più decisamente per i fianchi e spostandolo di nuovo sul materasso, - Io ho voluto essere sincero, con te, ma fingere che tutto il resto non esista vuol dire tornare a mentirti, di nuovo. Ho deciso tempo fa che non l’avrei più fatto. Abbiamo entrambi due vite diverse, adesso, e—
- Io non ce l’ho! – strilla lui, fra le lacrime, - Io non ce l’ho una vita, tantomeno una vita diversa! Io ho uno schifo e sto male, Anis, e tu… - si abbatte quasi su se stesso, stremato, - Tu mi stai facendo impazzire. – dice in una serie di singhiozzi privi di forza, - Dici che mi vuoi, ma poi non mi vuoi mai. Dici che mi ami, ma fai di tutto per farmi credere che di me non t’importi niente. Io arrivo al punto che me ne frego del mondo, Anis, me ne frego di chi c’è e chi non c’è, me ne frego di Peter, me ne frego di Patrick, di Tom, di David, <>io non ce la faccio, non ce la faccio più…
- Io non posso salvarti da questa cosa, Bill! – dico ad alta voce, afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza, - C’è stato un tempo in cui io e te ci appartenevamo ed io potevo salvarti da questa e da un mucchio di altre cose, ma tu ora non sei mio, Bill, e se non sei mio e non sei di Chakuza non sei di nessuno. – lo lascio andare, alzandomi in piedi e scostando in una mossa le tende ancora un po’ basse della cuccetta. – E questo significa che devi salvarti da solo, perché nessun altro può farlo.
I suoi occhi si accendono di rabbia. Umidi come sono per via delle lacrime, sembrano quasi lampeggiare nel buio. Indietreggio per lasciargli spazio, e Bill scatta subito in piedi, fronteggiandomi furioso.
- Tu non hai mai potuto salvarmi da niente. – dice velenoso, - Tu non mi hai mai salvato da niente. Quando ti è sembrato di farlo, in realtà stavi solo preparando il terreno per farmi del male ancora, e ancora, e ancora. – si allontana di qualche passo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni ostinatamente serrati, come quelli di un bambino. – Non capisco davvero perché continuo a pensare a te come la soluzione di tutti i miei guai, quando evidentemente ne sei la causa.
Non gli rispondo perché l’unica risposta che potrei dargli è che ha ragione. E ciò che dice vale anche per me. Ed anche io non riesco a capirne il motivo. Resto solo pochi secondi dopo, perché lui fugge via subito dopo aver pronunciato quelle poche parole, come l’aria del tourbus si fosse fatta improvvisamente irrespirabile. Cerco di trovare lo stimolo per tornare a stendermi, magari dormire un po’, ma la verità è che sono troppo nervoso. Mi tremano le mani.
Sospirando, lascio la zona notte e mi dirigo nella zona relax. Mi seggo ad un tavolo, osservo il portatile, lo guardo per un po’, poi lascio perdere ed accendo la Playstation. Molto meno impegnativa.
Tom rientra meno di un’ora dopo. Appena mette piede nel tourbus, lo vedo tirare su il naso come un segugio, e poi i suoi occhi si spostano su di me. Sembra considerare la possibilità di chiedermi direttamente se Bill è stato qui o meno, ma alla fine evita, e ripiega su qualcosa di meno compromettente.
- Tutto a posto? – chiede incerto, - Non avevi sonno?
Scrollo le spalle.
- Passato. – mento. Vuoi restare un po’ con me?, ma no, questo non posso chiederglielo.
- D’accordo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Buonanotte. – dice disinteressato, scalciando le scarpe in giro ed infilandosi direttamente nella propria cuccetta. Avrei bisogno, un bisogno serio, di qualcuno con cui parlare. Quando una persona che non parla quasi mai con nessuno sente il bisogno quasi fisico di farlo, vuol dire che è molto, troppo vicina al punto di rottura.
Continuo a giocare. In silenzio.
*

Che qualcosa sia cambiato non c’è bisogno che nessuno lo dica. Si sente nell’aria, si avverte nella tensione nervosa che ci avvolge tutti l’indomani mattina, si legge negli occhi sfuggenti di Chakuza e nella linea tesa della sua mascella, nelle pupille dilatate di Bill che s’è fatto scopare nel bagnetto della toilette della stazione di servizio sapendo benissimo che noialtri saremmo stati qui davanti ai lavandini per sciacquarci il viso e lavarci i denti.
Quando lui e Chakuza sono usciti dal bagno, scarmigliati e arrossati e ancora ansimanti, Chakuza s’è teso come una corda di violino, ed è andato a sciacquarsi frettolosamente il viso al lavandino più distante possibile rispetto a quelli che stavamo usando noialtri. Listing e Schäfer hanno cercato di far finta di niente – so bene che è una situazione sulla quale in un momento diverso avrebbero ironizzato, ma in un momento diverso Bill non avrebbe mai fatto una cosa simile per vendetta, per cui è facile spiegare il loro imbarazzo – ma la cosa che mi colpisce di più, dopo la sfacciataggine di Bill che continua ad aggirarsi per il bagno come non avesse proprio un bel niente da farsi rimproverare, è come al solito una caratteristica di Tom: la sua incredulità.
Guarda suo fratello come non riuscisse proprio a credere a ciò che le sue orecchie hanno appena sentito, e io non so che idea avesse Tom di Bill prima che tutto questo gran casino scoppiasse, ma è evidente che, qualunque fosse, è stata devastata fino all’ultimo granello di purezza che conservava. Tom non sa, non ha idea di cosa Bill sia capace. Non ha idea di cosa io l’abbia reso capace di fare. Non insegnandogli a comportarsi in un certo modo – figurarsi: Bill, poi, non ha mai avuto bisogno che nessuno gli insegnasse alcunché – ma semplicemente mostrandogli un tipo di relazione diversa, più dura, in cui ottieni ciò che dai ma non prima di aver pagato pegno. Io non ne ho mai fatto passare una a Bill. Tanto ero accondiscendente coi suoi capricci più futili, tanto più m’incaponivo sulle questioni importanti.
Questa, per Bill, è una questione dannatamente importante. Ed è palese che non intende farmi passare niente.
L’argomento non esce con noi da quel bagno. Resta intrappolato lì, fra quelle quattro mura piastrellate di bianco. Nessuno ha voglia di parlarne, una volta fuori, comprensibilmente, e chi invece dovrebbe voler discutere la situazione sa che farlo, in fondo, sarebbe inutile. Jost ci osserva entrare ognuno nel proprio tourbus con gli occhi bassi e un imbarazzo generico a tendere i tratti del viso, e già sa che andrà male anche stasera. Come cazzo fai a lavorare con gente che non riesci nemmeno a guardare negli occhi?
Tom sta seduto sul divanetto davanti a me. Batte nervosamente un piede per terra ed appoggia una guancia al palmo della mano, reggendosi il capo col gomito ben piantato sul tavolino, in una posizione tale da impedirgli di incrociare il mio sguardo anche se io faccio di tutto per catturarlo. Non so con chi dovrei parlare, Tom mi sembra la soluzione migliore, ma io questo ragazzino in fondo non lo conosco, e non posso farlo.
La serata, naturalmente, va di merda. Ci rimettiamo in viaggio fra i fischi della folla che ci ha seguito fino a schiacciarsi tutta lungo le transenne. Qualcuno tira qualcosa – pezzi di carta arrotolati, per lo più – e noi ci rifugiamo ognuno al proprio posto con la testa bassa, vergognandoci come cani. Tom, seduto al proprio posto, incassa la testa fra le spalle e si lascia scivolare lungo la seduta del divanetto fino a che solo la sommità della sua testa spunta dal finestrino.
- Che schifo. – sussurra disgustato, - Che schifo. Vi odio tutti, stronzi irresponsabili di merda. Bambini del cazzo. Siete solo bambini del cazzo. Ma cosa stracazzo c’entravo io con questa merda, cosa.
Il suo è un mormorio continuo, somiglia vagamente allo sciabordio dell’acqua di quelle fontane zen che ti spacciano come perfette per dormire. Il mio ufficio ne è pieno, quello nuovo, dico. In quello vecchio non ce n’era bisogno. Comunque, il suono è simile. riesco ad ascoltarlo abbastanza a lungo – lui mormora abbastanza a lungo – da permettermi di scivolare in un sonno agitato e leggerissimo. Continuo a svegliarmi per ogni scossone e ad ogni singola curva. Quando mi sveglio definitivamente, è perché ci siamo fermati, e Tom mi sta scuotendo energicamente per una spalla.
- Io esco. – mi dice, - Ci fermiamo una ventina di minuti ed io non ne posso più di stare qua dentro.
Mi sollevo abbastanza da guardare il buio pesto della notte, fuori dal finestrino. Si vedono le luci di un paese, non troppo distante, ma sembra un buco minuscolo e non so cosa si aspetti di trovarci Tom alle quattro del mattino.
- Siamo in mezzo al nulla, Tom. – provo a dire.
- Sì, be’, è un miglioramento. – taglia corto lui, uscendo di corsa.
Io resto lì immobile per un paio di minuti, giusto il tempo di ascoltarlo chiedere ad una guardia del corpo a caso se lo accompagna giù in paese e di sentire il rombo del motore acceso subito dopo, dopodiché mi alzo in piedi e muovo un paio di passi incerti in giro. Mi sento a pezzi. Ho una voglia matta di un buon caffè, ma non so quanto distante da qui sia la stazione di servizio.
Mi affaccio al finestrino per controllare, ma non riesco davvero a vedere niente perché immediatamente il mio intero campo visivo si riempie della figura di Bill. Il tourbus che divide con Chakuza è parcheggiato proprio accanto al mio, il suo finestrino è alla stessa altezza di quello dal quale lo sto guardando. Vedo solo metà del suo corpo, ma quel che vedo è splendido, ed è nudo, ed è sporco e sbagliato. Appoggiato contro il finestrino, sta piegato in avanti, un avambraccio sollevato a reggere il peso del suo corpo e la fronte che lo sfiora lentamente ad ogni spinta. Si muove ritmicamente avanti e indietro, le sue labbra sono dischiuse ed umide, la lingua che ogni tanto saetta ad inumidirle, piccola e rosa come quella di un gattino.
Ha le palpebre abbassate, ancora bistrate di nero, e deglutendo a fatica riesco quasi a convincermi della casualità del tutto quando Bill si volta all’improvviso ed i suoi occhi incontrano i miei. Non sorride, ma so che vorrebbe. I suoi ansiti aumentano di volume e d’intensità ed io resto lì fino a che qualcuno non mi afferra per il colletto della maglietta, da dietro, e mi scaraventa sulla panca dalla parte opposta del tourbus.
- Cristo! – strilla David, tirando giù la tenda sul finestrino, - Cristo, Bushido! – e non aggiunge altro, prima di allontanarsi di nuovo ed uscire.
Decido che per oggi ne ho avuto abbastanza, e mi rintano nella mia cuccetta.
*

La sera successiva, Bill si fa più sfacciato. Tom esce con la solita fretta, complice il fatto che stasera siamo di nuovo vicini a un centro abitato che rischia perfino di essere ancora vivo verso le quattro del mattino, e io resto un po’ nel tourbus a non fare niente, guardandomi intorno e provando a sentirmi per capire come sto. A Miami avevo molto tempo per stare da solo a pensare, e questo tempo mi è stato quasi del tutto tolto, da quando sono tornato, e soprattutto da quando abbiamo ripreso a lavorare. Resto seduto con gli occhi chiusi, sento tutti i rumori che vengono da fuori. Il chiacchiericcio della corte di tecnici e guardie del corpo che ci accompagna, gli sbadigli degli autisti che danno il cambio a quelli che invece hanno dormito per tutto il pomeriggio in previsione del loro turno, le macchine che passano accanto a noi sfrecciando sull’autostrada.
Sento tutto, e poi sento anche qualcuno che bussa allo sportello.
Forse perché starmene un po’ tranquillo per i fatti miei mi ha messo di buon umore, mi alzo senza problemi e mi affaccio, cercando di mostrarmi sereno e rilassato. Naturalmente, fallisco nel momento esatto in cui vedo che, sulla strada, vestito solo con una maglietta larghissima, c’è Bill.
Non so a che gioco stia giocando. Non ha bisogno di bussare, per entrare. Avrebbe dovuto farlo sempre, ma dal momento che non l’ha fatto mai mi sembra soltanto un modo per stuzzicarmi. Ed il fatto che non abbia praticamente niente addosso peggiora le cose.
Sento qualche gocciolina di sudore scivolarmi lungo la schiena, e non capisco se sia solo caldo.
- Posso entrare? – mi chiede a bassa voce, - Non riesco a dormire.
- Bill. – cerco di interromperlo io, riducendo la fessura aperta dello sportello, - No. Che cazzo di ore sono? Tornatene a dormire.
- Ma non riesco! – insiste lui, sporgendosi verso di me e stringendo le mani al petto. Nel movimento, la maglietta gli si solleva sulle cosce, mostrando centimetri di pelle morbida e bianca. Ne ricordo il profumo, ricordo quando potevo affondarci il naso ed inspirare e mordere e leccare ovunque, perché tutto quel biancore e quella morbidezza erano miei. Miei e di nessun altro. – Ti prego, - mugola scontento, - voglio solo chiacchierare. Non sono venuto qui di nascosto, non voglio fare niente di male. Per favore.
- No, Bill, sono io che te lo chiedo per favore. – dico a corto di fiato, passandomi una mano sugli occhi con forza, - Tornatene a letto. Non darmi modo di fare cose di cui poi mi pentirei.
- Non faremo niente di cui potresti pentirti! – ribatte lui, mettendo un piede sul primo gradino della scaletta per salire, - Per favore, solo dieci minuti, giuro che me ne vado subito, e poi—
- Ma cosa cazzo stai facendo?!
La voce di Tom rimbomba nella piazzola silenziosa come il primo tuono di un temporale. Nessuno di noi se l’aspetta, perché nessuno l’ha sentito tornare. David stava sonnecchiando seduto su una panchina davanti ad un’aiuola alberata, poco più in là, gambe e braccia incrociate e capo chino sul petto, e si tira subito in piedi quando lo sente urlare così all’improvviso.
Bill si volta a guardare suo fratello e sbianca. Diventa così incredibilmente pallido che ho paura di vederlo scomparire.
- Tomi. – mormora terrorizzato. Suo fratello resta per qualche secondo a qualche metro di distanza da lui, le braccia rigide lungo i fianchi. Poi qualcosa nella sua espressione cambia, si accende, e divora lo spazio che li separa in pochissimi passi. Quando lo raggiunge, è troppo veloce perché io possa mettermi in mezzo.
Lo afferra per un polso e lo trascina lontano dal tourbus. Bill cade un paio di volte, i piedi e le gambe nude che si graffiano sull’asfalto ogni volta che scivola, e quando si sono allontanati abbastanza Tom lo costringe a rimettersi in piedi strattonandolo con violenza e poi lo schiaffeggia in pieno volto, con la mano bene aperta. La sua guancia, quando si rimette dritto, è tutta arrossata. So già che ne verrà fuori un livido di quelli enormi.
- Cosa cazzo stavi facendo?! – strilla Tom, tenendolo per il polso e schiaffeggiandolo ancora. Stavolta Bill è più preparato, e per quanto ancora scosso riesce a coprirsi col braccio libero. Tom s’infuria, e prende a picchiarlo con più decisione, contro quello stesso braccio con cui Bill cerca invano di difendersi. Altri lividi, posso quasi già vederli, anche se non spunteranno prima di domattina. – Cosa cazzo facevi là davanti nudo, brutto stronzo?! Coglione! – lo insulta e lo picchia, Bill si accascia per terra senza forze, scosso dai singhiozzi, e Tom lo prende a calci sugli stinchi e nello stomaco. – Sei una troia! Cosa cazzo vai in giro in quel modo?! Ma cosa cazzo vai a fare da Bushido?! Troia!
- Tom, cosa diavolo stai facendo?! – tuona Jost, avvicinandosi minaccioso.
- Stanne fuori, cazzo! – strilla Tom di rimando, afferrando suo fratello per i capelli e tirando finché non si rimette in piedi. Bill grida di dolore, il viso arrossato e gonfio rigato di lacrime. – Questa cazzo di cosa deve finire, Bill! Deve finire, è chiaro?!
- Basta! Tom! Lasciami andare! – piange Bill, e il suo grido è così forte che qualcosa, nelle coscienze di tutte le persone che stanno guardando questa scena, si risveglia. Chakuza, che non avevo visto uscire dal proprio tourbus ma che evidentemente deve averlo fatto mentre non guardavo, si precipita fra i due, stringe Bill in un abbraccio che lo nasconde tutto dagli occhi del mondo intero e lo porta via, mentre lui fatica perfino a camminare a causa delle botte e dei singhiozzi che lo scuotono tutto. David, nel mentre, si lancia in avanti, afferrando Tom per le spalle e stringendolo con forza mentre lui si dimena e urla, lasciandolo andare solo una volta che Bill e Chakuza sono ritornati a chiudersi nel loro tourbus. Tom si libera della sua stretta con uno strattone e un urlo da bestia ferita, aggirandosi per la piazzola in preda al nervoso per un paio di minuti prima di imprecare ad alta voce e dirigersi a passo spedito verso di me.
Mi spinge all’interno del tourbus, entra a propria volta e si chiude lo sportello alle spalle, superandomi mentre io resto immobile e prendendo posto su una delle panche.
- Siediti. – ordina a bassa voce, indicando il posto di fronte a sé con un cenno del capo. Io obbedisco. – Da quanto va avanti questa storia?
Scrollo le spalle e provo a ricordarmi quanto assurdo sia questo momento.
- Un po’. – rispondo quindi, espirando sconfitto.
- Perché non me l’hai detto? – chiede duramente, fissandomi negli occhi.
- Perché avrei dovuto farlo? – ritorco, inarcando le sopracciglia. Lui batte un pugno contro il tavolo, digrignando i denti.
- Perché stiamo parlando di mio fratello. – risponde, - Ti basta? Se non ti basta, fattelo bastare.
Sospiro, abbassando lo sguardo sulle mie dita intrecciate sul tavolo.
- Pensavo di poterlo gestire. – confesso stentatamente.
- Sì, è un errore che avete fatto in molti. – ringhia lui, - Ma la verità è che lo amate troppo per farlo. Tutti quelli che gli stanno intorno in questo momento lo amano troppo per farlo. E questo lo sta rovinando, te ne rendi conto?
- Abbiamo dei doveri, Tom. – ribatto serio, - Questo tour non l’abbiamo deciso perché ci divertiva l’idea.
- Dei doveri! – ride amaramente lui, guardandomi incredulo, - Ma ti sei accorto di come sta andando questo tour, Bushido? Ti pare di stare lavorando come uno che abbia dei doveri?
Abbasso nuovamente lo sguardo. Ha ragione, non c’è che dire.
- Io ci sto provando, Tom. – sospiro pesantemente, - Non è facile.
- Non lo è per nessuno di noi. – risponde lui, impassibile, - Cristo, - sbotta impaziente, - io non posso davvero crederci. Forse non avete capito che Bill è a tanto così dall’andare fuori di testa. Dico, ma l’hai guardato negli occhi? Ma cosa cazzo ci sei stato a fare per anni se poi non capisci nemmeno queste cose così elementari?
Mi mordo un labbro, ferito più di quanto non mi vada di ammettere.
- È così diverso da quando l’ho lasciato. – considero a bassa voce, - A volte lo guardo e non riesco a riconoscerlo. Eppure è lui, dentro di me lo sento ancora come prima. Questo è… - trattengo appena il fiato, - è peggio di morire e basta. Sono vivo e sto perdendo tutto.
Tom mi guarda a lungo – riesco a sentire i suoi occhi addosso anche se non ricambio il suo sguardo – e mi rassegno a sollevare il viso solo quando lo sento sospirare pesantemente e sistemarsi più comodamente sulla panca.
- Ti va una partita a PES? – chiede distrattamente, adocchiando la Playstation abbandonata in un angolo.
- Resti con me, stanotte? – chiedo io a bassa voce, senza rispondere.
Lui nemmeno annuisce, chinandosi a raccogliere i joystick da terra e passandomene uno, dopo aver tenuto il proprio per sé.
- Accendila, dai. – dice alla fine. Giochiamo fino all’alba. Quella sera, Bill va sul palco con gli occhiali da sole. Canta cinque canzoni. Poi si mette a piangere e dice a David che non ce la fa. Sono le nove e mezza di sera, quando impazzisce del tutto. E nessuno di noi se ne accorge.
*

- Vado a prendere un paio di birre, ti va? – chiede Tom, gettando via il volante della Wii e sollevando entrambe le braccia verso il soffitto, - Affoghiamo nell’alcool i dispiaceri della giornata di oggi. Se ne prendo quattro, magari ci affoghiamo anche quelli della giornata di ieri.
- Vuoi solo scappare perché il tuo Luigi non può nulla contro il mio Mario. – lo prendo in giro, agitando il mio volante in aria come un trofeo.
- Facciamo così, io vado a prendere la birra e poi sputo dentro alla tua. – ritorce lui, guardandomi malissimo, - Come ti va?
Rido ad alta voce, di cuore, e realizzo che mi è capitato di farlo più spesso nelle ultime ventiquattro ore con lui di quanto non si possa dire di tutto il resto del tempo da quando sono tornato in Germania.
- Vai, vai. – dico alla fine, - Nel mentre cerco un altro gioco, questo non mi va più. – dico. Lui mi osserva tirare fuori Mario e Sonic ai Giochi Olimpici, unico gioco al quale sia fino ad adesso stato in grado di battermi, e sorride uscendo. So che mi sto comportando in modo molto stupido, quasi da fratello maggiore, nei confronti di un ragazzino che ieri ha dimostrato di essere più che in grado di comportarsi da fratello maggiore nei confronti miei, ma non riesco a impedirmelo. È divertente, genuinamente divertente, in un modo che pensavo non mi sarebbe stato più accessibile. E invece eccolo qui.
Lo sportello si riapre nemmeno due minuti dopo. Mi volto per dire a Tom che ha fatto presto, ma sulla soglia del tourbus non c’è Tom. C’è suo fratello.
- Che ci fai qui? – chiedo a mezza voce, pietrificato. Non lo vedo da giorni. Dopo il crollo a Monaco sono già saltate due date, e Bill non è quasi mai uscito dal suo tourbus.
- Sei sorpreso? – mi chiede. La sua voce è soffice, sottilissima. Lo guardo e vedo che non si tratta del Bill degli ultimi giorni, e nemmeno di quello che è partito con noi per il tour. È un Bill diverso, più antico, ma non propriamente simile a quello che era mio. O forse sì, solo più ferito.
- Sì. – rispondo sinceramente, voltandomi ed alzandomi in piedi per guardarlo dritto in viso, - Non dovresti essere qui?
- E dove dovrei essere? – chiede lui con una risatina vuota, - Trovami un posto nel mondo e sistemamici. Un tempo era al tuo fianco. Adesso sono fuori posto dovunque vado. Dovunque mi metto. Sono sempre fuori posto. Fuori luogo. O fuori posto? Come si dice, Anis?
- …cosa? – chiedo incerto, - Bill, ti senti bene?
- Ma sì! – risponde lui, con una risata così tonante che lo piega in due, costringendolo a stringersi il ventre con entrambe le braccia, - Come potrei mai stare male? La mia vita è meravigliosa, vero? Non lo è? Tu sei tornato, e sei vivo!, e non sei il mio ragazzo, ma ho un ragazzo bellissimo che mi ama tanto e che per me farebbe di tutto! Ed ho un fratello così premuroso, lo vedi quant’è premuroso Tomi? – ridacchia, indicando un livido ancora enorme sullo zigomo, - È così premuroso che vuole che tutti lo vedano, perché tutti devono sapere quanto bene si prende cura del suo sciocco fratellino.
- …Bill. – sollevo entrambe le braccia e lo stringo alle spalle, cercando, non so, di calmarlo. Anche se a prima vista sembra abbastanza calmo, in realtà. I suoi occhi sono torbidi, però, non riesco a leggervi dentro. – Bill, tu non stai bene.
- Ma a te non importa. – si lagna lui, forzando la mia stretta per abbracciarmi alla vita, poggiando il capo contro il mio petto, - Non t’importa di niente, non t’importa di me. Ho fatto tante cose per capire se t’importasse, volevo vedere se era vero che te ne fregavi, ma non ci ho capito niente. Non ci capisco niente di un sacco di cose, ormai.
- Sì, di te stesso in primo luogo. – sospiro, - Bill, devi andartene. Tuo fratello sarà qui fra poco e non è il caso di—
- Oh, posso sopportare qualcun’altra delle sue tenerezze, se è per questo. – dice con un sorrisino storto, adocchiando il piazzale fuori dal finestrino, - I bambini crescono più forti quando li si picchia costantemente. Si fanno la pelle dura. Tomi ha cominciato a crescermi un po’ tardi, ma siccome sono già grande gli effetti non tarderanno ad arrivare. Vuoi provare? – chiede, tornando a guardarmi, - Picchia forte, dove fa male, dove ho ancora lividi e ferite aperte. Non piangerò nemmeno una lacrima, te lo giuro.
- Smettila subito! – dico inorridito, provando ad allontanarmi. Lui serra le dita attorno alla mia maglietta.
- Allora è vero che non te ne frega più niente! – quasi grida, improvvisamente sull’orlo delle lacrime, - Non vuoi neanche più farmi male! Cosa mi resta di te, me lo dici? Perché se è solo indifferenza, allora non la voglio, non ti voglio, tornatene all’inferno! – strilla, tempestandomi il petto di pugni.
- Bill, calmati. – dico piano, stringendogli i polsi fra le mani. Sono così sottili che, anche se cerco di fare piano, sento le sue ossa quasi scricchiolare sotto la presa salda delle mie dita. – Devi riposarti un po’.
- Mi riposo da giorni e non cambia mai. – dice lui, abbattendosi stremato contro di me, - Penso sempre le stesse cose, sempre le stesse cose. – solleva un braccio, accarezzandomi il viso con la punta delle dita, - A te importa ancora di me, vero Anis? Ti importa ancora.
- Mi importa, piccolo. – cedo. La voce mi esce fuori in un mugolio così addolorato che mi sento spezzare qualcosa dentro. Non ho mai parlato con questo tono, con nessuno. – Tu ti stai facendo del male, adesso, e devi smetterla.
- Sei tu che mi stai facendo del male. – insiste lui con un sorriso quasi sereno, come se avesse già sentito troppo dolore per poterne provare ancora, - Come fai a non accorgertene? È incredibile. È così evidente, eppure non lo noti.
Sospiro profondamente, ravviandogli una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Bill, non so cosa dirti. – ammetto sfiduciato, - Ti stai torturando. Vuoi darmene la colpa? D’accordo. Ma stammi lontano.
Lui sorride, sento le sue labbra tendersi attraverso il tessuto leggero della maglia che indosso.
- Te l’avevo detto che sarebbe successo, Anis. – dice a bassa voce, quasi cantilenando, - Io non voglio starti lontano, e non posso, e non ci riesco. Una sua mano scivola fra le mie. Le nostre dita si intrecciano, lui mi guarda e i suoi occhi sono pieni di lacrime, e vuoti di tutto il resto. – Vieni con me, per favore. – dice piano, tirandomi verso l’uscita del tourbus.
Non è abbastanza forte da trascinarmi, se oppongo resistenza. Il problema è che non la oppongo. Mi lascio accompagnare dolcemente fuori, sulla piazzola aranciata dalla luce del sole che tramonta dietro le montagne all’orizzonte, e Bill mi conduce fino all’entrata del proprio tourbus. Da dentro vengono i rumori di Chakuza che si affaccenda attorno ai fornellini elettrici… starà preparando il caffè. Immagino abbia una voglia smodata di cucinare, ma non potendo questa è l’unica cosa sulla quale possa ripiegare.
Bill si volta a guardarmi con un sorriso minuscolo a increspare le labbra pallide.
- Ora ho bisogno che tu resti qui, Anis. – dice sottovoce, dondolando un po’ il peso da un piede all’altro, - Ho bisogno di sapere che resterai qui, che non te ne andrai di nuovo. Resterai, vero? Me lo prometti?
Mi sento mancare il respiro ed ho paura di ciò che questa promessa potrebbe significare. Non voglio restare. Non voglio restare, Bill.
- Te lo prometto.
Bill sorride.
- Tornerò da te, quando avrò finito. – sussurra, sporgendosi fino a raggiungere il mio orecchio con le labbra, - Così potrai dirmi se t’importa ancora o meno.
Resto lì come pietrificato mentre lui risale in due saltelli la scaletta del tourbus, scomparendo oltre la soglia. Lascia la porta aperta e io fisso l’interno, incapace di spostarmi. Posso vedere perfettamente uno dei tavolini della sala relax, da questo punto. Non so ancora cosa mi aspetta, ma qualsiasi cosa sia ne ho paura. E io non ho mai paura di niente. Non ho mai paura di niente, ma Bill mi terrorizza.
Il tourbus è parcheggiato in un angolo riparato della piazzola, lo sportello dà su un muretto oltre il quale si estende un praticello che si sfuma alle pendici di una collina rocciosa. Nessuno verrà a cercarmi qui, se non sa dove sono. Chissà se Tom potrebbe immaginarlo. Chissà se ha già comprato la birra, chissà se è già tornato, chissà se si sta chiedendo dove posso essere sparito.
Sento dei mormorii dall’interno. Non riesco a capire una parola di ciò che Bill e Chakuza si stanno dicendo, ma è evidente che stanno parlando. Chakuza sembra stanco. Bill ridacchia come un ragazzino senza neanche un pensiero per la testa.
Il primo gemito lo sento con una forza tale che mi sembra di percepire la terra tremare sotto i piedi. Vorrei gridare, ma non ho voce abbastanza. Non ho forza abbastanza. Quando Chakuza adagia Bill sul tavolino, dandomi le spalle e insinuandosi fra le sue cosce mentre Bill si abbandona alle sue braccia e getta indietro il capo, sento il desiderio di piangere, ma non scende neanche una lacrima. Non riesco più a fare niente, a pensare a niente. C’è solo la figura di Bill che invade tutto il mio campo visivo, c’è il suo corpo che si muove contro quello di Chakuza, in sincronia perfetta con le sue spinte. Ci sono le sue braccia abbandonate sulle sue spalle, c’è la frenesia con cui serra le cosce attorno ai suoi fianchi e intreccia le gambe dietro la sua schiena, mentre il suo bacino si muove ritmicamente per accogliere la sua erezione più profondamente possibile. E io vedo tutto. Vedo tutto. Ed è un’immagine che non riuscirò più a levarmi dalla testa. E questo Bill lo sa. È per questo che l’ha fatto.
Quando Bill viene, le sue labbra si piegano in un sorriso minuscolo che è lo stesso in cui si piegavano quando erano le mie mani ed il mio corpo a portarlo all’orgasmo. Mi chiedo se Bill sia mai cambiato o se non si sia per caso trattato di un’illusione. Forse volevo credere con tutte le mie forze che non fosse più la persona di un tempo, semplicemente perché ammettere che fosse rimasto lo stesso ed avesse semplicemente smesso di amarmi era impensabile. Adesso non lo so più. Adesso lo guardo, completamente abbandonato contro il corpo di Chakuza, che respira con forza sulla sua pelle e lo stringe fra le braccia come fosse troppo piccolo e troppo prezioso e volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo, e non so più niente.
Mi allontano lentamente, indietreggiando, senza mai dare le spalle al tourbus. Bill mi osserva andare via spalancando gli occhi, le sue mani si serrano attorno alle spalle di Chakuza in un gesto improvviso e nervoso. Qualcosa dentro di lui si sta spezzando. Anche dentro di me. È la promessa che ho fatto.
Accelero il passo, e quando esco sulla piazzola c’è Tom sull’uscio del nostro tourbus che mi cerca con gli occhi.
- Sei qui. – dice, scendendo celermente i gradini e venendomi incontro, - Dov’eri finito? – chiede curiosamente. Poi nota il mio sguardo ed aggrotta le sopracciglia, incerto. – Che ti prende? – domanda con evidente preoccupazione, - Che è successo?
Io faccio per aprire la bocca e dire qualcosa, ma gli occhi di Tom si spostano immediatamente a guardare un punto imprecisato dietro di me. Non ho bisogno di voltarmi, per capire che dove Tom sta fissando c’è Bill.
- Anis. – mi chiama debolmente, la voce rotta. Non riesco a voltarmi. Non voglio farlo.
- …andiamo dentro. – mi dice Tom, tornando a guardarmi e poggiandomi una mano sulla spalla, - Ho preso la birra.
Annuisco e lo seguo. Non so cosa faccia Bill o per quanto resti lì in mezzo alla piazzola. Del tutto irrazionalmente, però, so che sta piangendo. E non riesce ad importarmene.