rp: nicole

Le nuove storie sono in alto.

Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- "Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo."
Note: Ma buongiorno *_*v Non ve l’aspettavate quasi più, uh? XD Mi rendo conto che vi ho costrette ad aspettare tantissimo e ciò è orrendo, ma spero che vi siate godute questa shot enorme – per quanto sia godibile, visto ciò che accade al suo interno… *riflette* …okay, credo che almeno una di voi se la sia goduta sufficientemente XD Comunque u.u Perdonate il mio Bimbo mentre sfiora nuove vette di perfezione dove non si credeva nemmeno che sarebbe stato possibile (ormai è oltre anche il concetto stesso di Gary Stu. Esiste un Gary Stu alla seconda o anche alla terza? Ecco). E insomma, per il resto, aspettatevi novità nel prossimo futuro: haters to the left, SE continua imperterrita u.u
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YOUR LOVE ALONE IS NOT ENOUGH

Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole, Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro."
Note: Mi dispiace non essere molto loquace nelle note finali, ultimamente, ma la mia vita ha deciso che, dopo qualche mese di gioia, ora merito di essere massacrata, perciò non passa una sera senza che io sia stanca morta e di tutto abbia voglia meno che di mettermi a disquisire di ciò che ho buttato giù scrivendo XD Questa shot mi piace perché mi piace perdermi dentro Chakuza, alle volte. È liberatorio. Spero sia servita a voi per capire un po’ meglio le dinamiche del Flerole e cosa passa per la testa al mio bimbo. E spero che vi siate godute il Bikuza, perché questi due sono di una dolcezza infinita, anche se la Tab li rende sempre molto meglio di quanto non riesca a fare io, cosa per la quale la odio con furia. A presto :*
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THE WAY HE LOVES HIM

Stamattina ho visto Fler.
Fler, in questo momento preciso della mia esistenza, è un problema che mi sto sforzando di ignorare. Nel senso, non lo so se vi è mai capitato: vi svegliate una mattina e scoprite che la vita che stavate vivendo in maniera non perfetta ma tutto sommato passabile fino al giorno prima è scomparsa. Non è che una cosa prende e va male, no, tutto comincia a muoversi nel verso sbagliato contemporaneamente, e uno in una situazione del genere comincia ad avere difficoltà a capire da che lato dovrebbe girarsi, no? Cioè, dovunque guarda vede solo casino, è un problema. Che mi si potrebbe pure dire: “be’, ma tu vivi una condizione di casino perenne dentro la tua testa, quindi qual è il problema?”, e il problema è proprio questo, che quando non sei un cazzo ordinato nel cervello il mondo esterno deve stare al proprio posto. Quando non riesci ad avere un punto di riferimento dentro di te, devi cercartelo fuori. Se fuori dalla tua testa tutti fanno il cazzo che vogliono – che è pure giusto, alla fine, ma mi crea problemi non indifferenti – tu i punti di riferimento non puoi più cercarli da nessuna parte. Ed è questo il problema.
Quindi, insomma, io mi sono svegliato una mattina e Bushido era vivo, Bill non era più così assolutamente innamorato di me e Fler s’era messo con una donna. Fra tutte queste cose, ovviamente, la priorità è Bill. Bill è sempre la priorità. Bushido arriva al secondo posto, perché a Bill è legato a doppio filo. E poi c’è Fler.
Di ciò che fa Fler, di dove va Fler ed anche di chi si scopa Fler, non dovrebbe fregarmi un accidenti. Beninteso, io lo so. Lo so che non dovrei assolutamente incazzarmi perché me lo vedo spuntare allegro e sorridente mano nella mano con una ragazza, lo so che dovrei accettarlo, congratularmi con lui ed anche esserne felice, ed esserlo sul serio, perché a me non piace che Fler stia male, e fino a prima di mettersi con Nicole lui indubbiamente soffriva, ed invece da quando ci si è messo insieme sta visibilmente meglio.
Però.
Il solo vederli vicini mi manda fuori di testa.
È una cosa assolutamente priva di senso, io me ne rendo conto perfettamente. Non vorrei che di me passasse un’idea ancora più fuori di testa di quanto già non sia nella realtà. Io lo so che non sono tanto normale, ma non sono ancora tanto pazzo da pensare che Fler mi debba fedeltà assoluta dopo tutto quello che gli ho combinato nel corso dell’ultimo anno. Per questo non gli dico niente e cerco di stare tranquillo, anche quando lo vedo con Nicole in giro, ma ciò non cambia la realtà dei fatti che appena io faccio tanto di mettergli gli occhi addosso e lo vedo che la stringe, le sfiora un braccio, le sorride o quel che è, la prima cosa che penso è che ho voglia di pestare lui e defenestrare lei. Che poi è la stessa cosa che ho provato quando l’ho visto interagire con Bushido la prima volta che si sono rivisti, in casa di Eko, solo che stavolta è anche peggio, perché, voglio dire, chi cazzo è Nicole? Siamo seri.
Comunque, stamattina è successo che sono andato a registrare le mie parti per Prinzessin. Io, di questa canzone, non voglio parlare. Perché è anche troppo evidente cosa Bushido ci abbia messo dentro. Ora, io lo so come lavora Bushido. È uno molto presente a se stesso, quando si sta vendendo ad un pubblico pagante; tiene sotto controllo tutto, programma tutto, niente succede se non è stato lui a deciderlo. Quando scrive no, però, quando scrive è molto più libero. Si ascolta molto, anche se credo sia solo uno strascico del suo egocentrismo del cazzo. La sua voce sovrasta quelle degli altri anche dentro di lui, quindi, quando scrive, lo fa ascoltando la parte più profonda di se stesso, quella con cui magari lui direttamente non parla, ma che lascia scivolare sul foglio, perché così è più semplice tenerla a bada. La canzone che ha scritto per Fler, in Heavy Metal Payback, l’ha scritta così. Ed io credo che Prinzessin sia nata nello stesso modo, perciò non è che posso avercela in maniera distruttiva con Bushido per il solo fatto di averla buttata giù.
Però ce l’ho con lui per il modo in cui la sta usando. Quindi no, non voglio parlare di questa canzone e di come a leggerne il testo io venga fuori come un pezzo di merda quando, in tutta franchezza, non ho fatto proprio un cazzo di male. Mi urta dovermi prestare a questo giochino per niente divertente, mi urta star qui a cantare cose che non penso quando io sui testi che avevo da cantare sono sempre riuscito a mettere mani e bocca per renderli il più possibile vicini al mio modo di sentire, e mi urta non esserci riuscito adesso solo perché, come mi ha detto Jost quando mi ha fatto sapere che la mia presenza era richiesta e no, non potevo rifiutarmi, “alla Universal sono già abbastanza incazzati per lo scherzetto che gli ha combinato Bushido. Pretendono la massima collaborazione e tu non vuoi davvero averli contro, Chakuza”. E no che non li voglio contro. Mi mancano davvero solo i pezzi grossi dell’industria musicale tedesco che mi vogliono fuori dal giro, e poi sono completo, cazzo.
Comunque, ovviamente prima di dire “d’accordo” mi sono informato, con Jost. Pazzo sì, cretino no. Gliel’ho chiesto, “sono registrazioni di gruppo?”, e lui naturalmente mi ha guardato e m’è scoppiato a ridere in faccia. Poi è tornato subito serio e fa “ma ovviamente no, Chakuza”, come a dire “ma per chi mi hai preso?”, ed in effetti io lo sospettavo che Jost non l’avrebbe mai permessa una cosa del genere, perché è uno che sul lavoro è molto preciso e gli danno fastidio i tempi, quando si allungano, perciò supponevo avesse già preso tutte le precauzioni del caso, ma sempre meglio chiedere, dico io, per scrupolo.
Comunque nella mia domanda era compreso anche Fler. Nel cervello di Jost no, invece, perché giustamente lui si dice “Fler non c’entra un cazzo”, ma per me Fler c’entra sempre, quindi se ti chiedo se c’è la possibilità per me di incontrare qualcuno, nei vari “qualcuno” possibili è incluso anche Fler. Nella mia testa questo è chiaro, in quella di Jost no, e questo è giusto, ma io tendo a dimenticarlo. Perciò oggi mi sono presentato agli studi con le palle girate, d’accordo, ma fiducioso che non mi sarei trovato a dover fronteggiare nessuna situazione difficile. E invece appena esco dalla sala d’incisione, dopo tre ore sfiancanti, chi mi vedo passare davanti? Ma la coppietta felice, naturalmente.
Non ho il tempo materiale di fuggire dietro il primo angolo disponibile dopo aver adocchiato Fler che cammina – un braccio attorno alle spalle di Nicole, lei ha intrecciato le dita con le sue – che lui si volta e mi guarda e, come fosse tutto perfettamente a posto, mi sorride. Così, tranquillissimo. Solleva anche una mano nella mia direzione, rilassatissimo, e mi saluta. Al che io non posso fare molto più che rispondere abbozzando un sorriso a mia volta, restando lì fermo impalato mentre lui mi si avvicina, trascinandosi dietro Nicole che è minuscola e scialbissima e non c’entra niente col tipo di donna che avrei affibbiato a Fler se mai avessi voluto affibbiargliene una. Per dire, visto che lui comunque è robusto ed ha la pelle e gli occhi chiari, accanto gli starebbe bene una ragazza alta con un sacco di curve, la pelle scura e gli occhi grandi e castani. Invece lui mi si presenta con questa cosina minuscola, pallidina, biondiccia, con questi occhietti marroncini anonimi, boh, Fler poteva pretendere di più, credo. Anzi no, lo so, Fler poteva pretendere di più eccome. Comunque mi sforzo di guardarla con calore, perché lei mi sorride timidissima e non me la sento di lanciarle occhiate intimidatorie. Non ne avrei nemmeno un motivo, peraltro.
- Ehi. – mi fa, perfettamente a suo agio, - Finito per oggi? – chiede, indicando con un cenno la porta chiusa della sala incisioni. Nicole stringe la presa delle proprie dita attorno alle sue ed io fisso l’intreccio delle loro mani per un po’ di secondi, prima di riscuotermi e decidermi a rispondere.
- Sì, - ammetto, - è stata dura ma ce l’ho fatta. – commento con una scrollatina di spalle. Lui annuisce e lo vedo chinarsi appena su Nicole, sfiorarle la guancia con un bacio lento e poi sussurrarle qualcosa che non riesco a percepire. Lei sorride ed annuisce, e mi saluta a bassa voce prima di sciogliersi dal suo abbraccio ed andare verso l’uscita degli studi. Inarco un sopracciglio e fisso Fler con aria curiosa. – Be’? – chiedo, indicando la porta dalla quale Nicole è appena uscita. Lui ride.
- Le ho chiesto di precedermi a casa sua. Ho voglia di spezzatino con le patate.
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno, spostando il peso da un piede all’altro.
- La fai filare? – chiedo, e lui mi tira una mezza spinta, ridendo come un ragazzino.
- È solo gentile. – risponde, - Mi piace che lo sia. È dolce ed è semplice. Niente di neanche lontanamente paragonabile al resto della gente con cui sono stato.
- Ah, grazie mille. – rispondo, un po’ offeso, e lui ride ancora.
- Non sono mica stato solo con te. – mi fa notare, e penso pure che c’ha ragione e che questo dialogo è surreale.
- E… - gesticolo, perché non so se posso chiedere questa cosa e non so nemmeno se voglio chiederla, o meglio, voglio chiederla ma non so se voglio sapere la risposta; o meglio ancora, voglio sapere la risposta, ma non so se sono veramente pronto a sentirmelo dire. Quindi, in sostanza, gesticolo per tergiversare. - …da quant’è che state insieme?
Fler è a disagio e lo vedo subito nel momento in cui volta lo sguardo e scrolla le spalle.
- Lasciamo perdere. – taglia corto, - Ti va un caffè?
Annuisco, un po’ confuso, e gli vado dietro mentre ci avviciniamo ai distributori automatici. Fler mi chiede cosa voglio, io rispondo “un caffè ristretto” e, quando lo vedo recuperare il portafogli in tasca, gli chiedo cosa vuole lui, come fosse una curiosità come un’altra. Lui apre la taschina portamonete, rovista tintinnando e mi risponde sovrappensiero che lui ne prende uno doppio zuccherato. Perciò io infilo la mano in tasca, recupero due euro spersi nei pantaloni da chissà quanto tempo e pago per entrambi. Lui, che non aveva ancora racimolato la quantità sufficiente di monetine, se ne rende conto solo quando sente la macchinetta ronzare e cominciare a riempire il bicchierino di plastica col suo caffè, e mi lancia un’occhiata a metà fra lo sconvolto e il nient’affatto compiaciuto.
- Chakuza! – mi rimprovera, - Ma chi te l’ha chiesto?!
- …nessuno. – ammetto io, recuperando il bicchierino e porgendoglielo, - Mi faceva solo piacere farlo.
Lui accetta il bicchierino sospirando teatralmente in un roteare di occhioni azzurri che mi fa anche un po’ ridere, e poi resta in silenzio mentre io prendo il mio caffè e rimaniamo lì a sorseggiare lentamente, perché il coso è pure caldo, e nessuno qui vuole scottarsi la lingua. Restiamo in silenzio finché possiamo permettercelo – ossia finché non diventa troppo pesante – e poi gli chiedo come sta. Che è una cosa che faccio sempre quando non so cos’altro fare con lui. Fler non è semplice, da maneggiare, anzi. È uno che, tra l’altro, appena sbagli di un millimetro ti si volta contro in maniera devastante. Quindi, prima di fare o dire qualsiasi altra cosa, io devo chiedergli come sta. Così posso elaborare un piano d’azione, o pensare ad una strategia, o qualunque sia un modo meno idiota per definire il momento in cui cerchi di capire come muoverti per non passare come un fottuto carro armato addosso ad una persona alla quale tieni.
Lui scrolla le spalle, butta giù ciò che resta del suo caffè e si appoggia contro la macchinetta.
- Bene, credo. – risponde, - È un periodo un po’ incasinato, con Nicole e tutto il resto, ma sto tranquillo. Cioè, tutto il mondo è un casino, ma io sono tranquillo. Non so se capisci cosa intendo.
Annuisco vagamente, e non lo faccio per finta. Lo capisco cosa intende. Anche se è una cosa che non mi piace, perché vuol dire che è felice davvero. Mi piace vederlo felice, cazzo, ma… oh, insomma.
- Stai da lei? – chiedo, fingendo disinteresse. Lui mi sgama subito e sorride.
- Cosa vuoi sentirti rispondere?
- …la verità, suppongo. – borbotto senza guardarlo. Lui ride un po’.
- Penso che la prenderesti anche peggio. – mi informa con una risata da ragazzino che sembra prendermi in giro.
Simulo tranquillità, lanciandogli una mezza occhiata che mi auguro sia indecifrabile, e invece non lo è, perché lui si mette subito a ridere come un cretino, e io sbuffo.
- Be’, dimmelo se stai da Bushido. – sospiro alla fine, abbattendomi di spalle contro la parete. Lui ride ancora.
- Praticamente sì. – ammette, gettando il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura, - Lo sai come funziono. Ragiono meglio se ho gente attorno.
- Che bisogno avrai di ragionare, adesso… - mi lamento io, e lo faccio solo perché non mi piace saperlo giorno e notte piantato in casa di Bushido.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – mi risponde lui, ed in effetti non posso dargli torto, perciò annuisco. – Comunque in genere sto bene. Come ti dicevo, Nicole è molto carina e dolce.
- E la ami?
…non so come funzioni con questo tipo di domande. Probabilmente ognuno, nel proprio cervello, ha una scatola con dentro tutte le domande scomodissime che non vorrebbe mai fare e delle quali però vorrebbe conoscere la risposta. E le domande vanno accumulandosi in questa scatola finché non diventano troppe, e quando diventano veramente tantissime ecco che salta via il coperchio e quelle cominciano ad uscire. E il problema è che, mentre stavano lì strette nella scatola, si sono aggrovigliate fra loro come i gomitoli di lana quando non li avvolgi bene e li lasci lì nella cesta per giorni, perciò quando ne esce una se ne porta dietro un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non escono tutte. Forse è così che funziona per tutti, o forse è così che funziona solo per me, fatto sta che di questa domanda io so che voglio conoscere la risposta, ma so anche che non avrei voluto porla. E perciò, dopo averla detta, non mi sento bene neanche per un cazzo. E guardare Fler esitare, prima di rispondere, non mi aiuta per niente.
Lo osservo rifletterci sul serio – nei suoi occhi chiarissimi i pensieri passano come in trasparenza, che se solo sei un po’ abituato a guardarci dentro, a quegli occhi, lo capisci cos’è che sta succedendo dentro la testa di Fler. Puoi perfino anticiparlo. Perciò, quando schiude le labbra, io so già cosa sta per dire, e mi tendo tutto, stringendo i pugni per cercare di fermare qualsiasi sia il gesto che vorrei compiere in reazione alle sue parole. Perché non posso permettermelo, perché non posso farglielo e perché in generale è più giusto se sto fermo.
- No. – risponde, comunque. È la cosa più bella che sento da giorni. – No, non credo proprio. – mi guarda, ed è tranquillissimo. – Ma lo sai già.
Annuisco lentamente, gettando via il mio bicchierino.
- Perché ci stai insieme? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospira e mi ricambia lo sguardo.
- Perché è meglio che stare soli. Perché boh… non è così male. – sospira ancora, più pesantemente. – Perché anche se mi manchi non me ne faccio niente di questo sentimento. Mi sento anche uno scemo a dirtelo.
Mi mordo un labbro, schiacciandomi con forza contro la macchinetta per non avvicinarmi neanche di un passo.
- Non sei uno scemo. – rispondo a bassa voce, - Mi dispiace che tu stia così, Pat.
Lui tira fuori un mezzo sorriso e scrolla le spalle. Ogni tanto, quando lo fa, quando scrolla le spalle, dico, mi sembra voglia scrollarsi di dosso i problemi. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Come servisse davvero.
- Non sto male. – ribadisce, - Ed ora basta parlare di me. – sorride più decisamente, tornando ad appoggiarsi qui accanto a me solo quando vede i miei muscoli rilassarsi e la voglia che ho di baciarlo scivolarmi lentamente via dagli occhi. – Tu com’è che stai, Chaku?
*
Com’è che sto mi ha chiesto Fler stamattina. Com’è che sto. Immagino che la risposta a questa domanda sia “non lo so”, ma “non lo so” non è veramente una risposta. È la scusa che usi quando non ti va di risolvere una questione, penso, e posso dire di parlarne con una certa competenza, visto che la uso molto spesso. Non è nemmeno una bugia: io davvero non so come sto. Non è la risposta completa, perché la risposta completa è “non lo so perché non voglio saperlo, perché non posso mettermi lì a risolvere la questione, perché mi fa male pensare di stare male”, ma non è una menzogna. È una parte di ciò che è. Ed è anche quello che ho detto a Patrick, che d’altronde da parte sua non ha nemmeno mai avuto bisogno delle mie risposte complete. Quelle incomplete sono sempre state sufficienti a dargli una base di partenza per trovare il resto di ciò che voleva sapere nei miei occhi, nella mia voce, nel mio odore, sul mio corpo.
Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro. A volte, ripensando a tutta la mia vita nell’ultimo anno, mi sembra di averla vissuta solo così. In attesa. Di Bill, naturalmente, perché niente è stato più importante di lui in questi ultimi dodici mesi. Niente è stato più importante di lui in generale, in tutta la mia vita, temo. E penso succeda così, in fondo, quando ti innamori di una persona, indipendentemente da chi sia. Fa come un balzo fra le tue priorità. Era lì, nel mucchio, e all’improvviso te la ritrovi su un piedistallo, in evidenza, e da lì non riesci a toglierla nemmeno con la forza. E poi neanche vuoi, in fondo.
Con Bill è stato così. Io ho vissuto in attesa di capire cosa stavo cominciando a provare per lui, all’inizio. Poi ho vissuto in attesa di un suo cenno d’assenso. Poi ho vissuto in attesa di risentire il suono della sua voce e guardarlo nuovamente negli occhi. Ed alla fine ho iniziato a vivere nell’attesa del momento successivo in cui avrei potuto tenerlo stretto a me, che poi è quello che ho fatto negli ultimi nove mesi ogni volta che per forza di cose siamo dovuti stare lontani, ed è quello che sto facendo anche ora che è tutto complicato e intricato e doloroso. Vivo in attesa di Bill. Ed è una cosa bellissima.
Quando il mio cellulare squilla, so già che si tratta di Bill. Perché questo è l’orario in cui mi chiama di solito, quando tutti gli altri si decidono a lasciarlo in pace e lui si ritrova finalmente tranquillo in casa propria. È l’orario in cui può smettere di tenere a freno il bisogno che ha di vedermi, e quindi quel bisogno sfonda gli argini e lui mi chiama, e quando mi parla lo fa con tenerezza ma anche con urgenza. Perciò, quando sento la sua voce, sorrido. Perché è stanca, è provata, è angosciata, è triste ed è un altro milione e mezzo di cose, ma soprattutto è piena del bisogno che ha di me. E siccome per me è lo stesso, io non posso fare a meno di esserne felice, e sorridere.
- Secondo te, - mi dice, senza nemmeno salutarmi, - anche se lo yogurt è scaduto da un paio di giorni, posso mangiarlo?
Rido a bassa voce, perché come si fa a restare seri di fronte ad una cosa del genere?
- Ho esperienza sul campo. – gli faccio notare, dal momento che entrambi conosciamo le condizioni del mio frigorifero, - Sono quasi sicuro di no, Bill. Forse è il caso se mangi qualcos’altro.
Lui sbuffa, e lo ascolto lasciarsi andare sul divano e raggomitolarsi in una pallina contro il bracciolo.
- Non c’è nulla di buono. – borbotta, - C’è qualcosa che mi ha comprato David, ma non saprei come metterla insieme e tirarne fuori qualcosa di commestibile.
Rido ancora, e quello che gli chiedo glielo chiedo solo perché lui me lo sta già chiedendo da quando questa telefonata è cominciata.
- Vuoi che venga a prepararti qualcosa? – suggerisco, - Sono quasi sicuro che David abbia comprato sufficienti ingredienti almeno per un piatto di pasta.
Lui sorride e mi dice che mi aspetta. Ed io rido un po’ perché fino a due minuti fa stavo pensando che l’intera mia esistenza – be’, ok, l’ultimo anno, ma in fondo se ci penso un po’ stavo aspettando qualcosa come Bill da sempre, qualcosa che mi sconvolgesse dentro, che mi trascinasse completamente in sé, qualcosa che mi prendesse come mi ha preso lui, quindi forse è davvero tutta la vita che lo aspetto – insomma, pensavo che l’intera mia esistenza fosse stata vissuta in sua attesa, e lui ora mi dice che mi sta aspettando. Che sembra una cazzata, ma è bello pensare che in qualche modo, in un certo senso, forse anche Bill stava aspettando me. Indipendentemente da tutto il resto, anche lui mi stava aspettando, ecco.
Quando arrivo a casa sua, lo trovo lì sulla soglia che mi guarda, una mano stretta nervosamente attorno allo stipite della porta e tutto il corpo proteso in avanti a cercare il mio. Quando Bill vuole un abbraccio, lo vedi da lontano, perché tutta la sua persona si prodiga per trovarlo. Ha dei bisogni molto fisici, Bill, perciò basta osservarlo e vedere come si sporge, come si espone, come tiene le braccia, come pianta un piede in avanti rispetto al corpo, per capire che ti vuole vicino e vuole sentirti addosso il prima possibile. Si fa rassicurare con così poco, alle volte, che sembra molto più fragile di ciò che è in realtà. Perché poi quasi te lo dimentichi che ha fatto fuori un uomo, per dire. Ma Bill è bellissimo soprattutto per questo, perché è un mistero continuo, che lo guardi a non capisci proprio come possa essere possibile che sia proprio così. E invece lo è. Se me ne fregasse qualcosa della religione, direi che è un miracolo. Della religione non mi frega un accidenti, e Bill è il mio miracolo comunque.
Lo tiro a me e lo stringo forte, richiudendomi la porta alle spalle, e Bill nasconde il viso contro il mio collo e mugola un po’, strusciando il naso lungo il mio zigomo e cercando subito le mie labbra per un bacio veloce.
- Mi sei mancato… - mi sussurra sulle labbra, mentre io lascio scivolare le mani sui suoi fianchi, accarezzandolo piano, - Puoi… puoi prepararmela dopo, la cena?
Io lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, sulla parete di fronte, e vedo che sono già quasi le dieci. Non c’è verso che, se gli faccio mangiare qualcosa adesso, lui riesca a digerirlo prima di mezzogiorno di domani. Oltretutto, fra meno di un’ora, qualsiasi cosa decidiamo di fare adesso, Bill sarà già crollato addormentato sulla prima superficie disponibile. Vorrei essere io, quella superficie. Perciò lo bacio piano sulle labbra e gli assicuro che sì, gli cucinerò qualcosa dopo, anche se so per certo che la prima cosa che preparerò per lui saranno le frittelle domattina, e mi lascio condurre dalle sue mani che si aggrappano ai miei vestiti, cercando di tirarli via, trascinandomi fino in camera da letto.
Lo stendo sul letto cercando di essere delicato, perché è stanco e lo sento dal modo arreso in cui si lascia maneggiare e accarezzare e mi si appoggia addosso, come avesse bisogno di aiuto per tenersi in piedi. È per questo che lo aiuto a distendersi, così non dovrà faticare per tenersi dritto. Schiude le gambe lasciandomi lo spazio per sistemarmi contro di lui, ed attraverso la stoffa sottilissima del pigiama sento il calore della sua pelle e quello della sua eccitazione, ed entrambi mi colpiscono in scariche elettriche che partono dalla base della mia schiena e si diffondono per tutto il mio corpo, rendendo più affamati i miei baci e i miei tocchi, finché lo sento ansimare pesantemente e gettare indietro il capo alla ricerca d’aria, quando scendo ad accarezzarlo sotto i pantaloni e lo sollevo con la mano libera da sotto la schiena, così che possa inarcarsi, schiacciandosi contro il mio corpo e stringendo le ginocchia sui miei fianchi, le cosce che si serrano come tenaglie attorno al mio polso ed alle mie dita.
- Peter… - mi chiama piano, ed il mio nome scivola sulle sua labbra in maniera tanto dolce che mi viene voglia di assaggiarlo, perciò mi sporgo a baciarlo, affondando dentro di lui che mi accoglie morbido come sempre, e questi sono i momenti in cui mi viene da pensare che forse, se mi sforzo, posso ancora fare in modo che sia come non fosse cambiato niente, come se Bushido non fosse mai tornato, come se Bill non fosse così indeciso come invece è. E quindi ce la metto tutta, cazzo, ce la metto tutta davvero, e lo stringo piano per i fianchi mentre accontento le sue richieste e mi faccio avanti dentro il suo corpo solo dopo averlo preparato per bene, dopo averlo sfiorato e baciato e toccato ovunque, e quando lo sento stringersi attorno a me, seguendo l’impronta che le mie spinte lasciano dentro di lui, chiudo gli occhi e lo bacio sul collo, sullo zigomo, sulla guancia, sugli occhi chiusi e stanchi, sulla tempia, e glielo dico piano, che lo amo, e non mi arrabbio se non mi risponde subito, non mi arrabbio nemmeno se non mi risponde affatto, perché so che è così, lo so che mi ama anche lui, se non me lo sta dicendo in questo momento è solo perché non è il momento opportuno, ed io questo lo rispetto. E Bill lo sa, che lo rispetto. Ed è tutto quello che mi interessa, in questo momento.
Quando si scioglie fra le mie dita ed io mi sciolgo dentro di lui, ascolto i suoi respiri inseguirsi affannosamente sul mio petto, dove ha poggiato le labbra, per molti minuti, prima che lui riesca a domarli abbastanza da costringerli a tornare ad un ritmo più regolare. Ed anche allora continuano ad accarezzarmi piano, così come io accarezzo lui, le dita che si incastrano fra le ciocche intrecciate dei suoi capelli e seguono il disegno sottilissimo e un po’ spigoloso delle sue scapole e della sua spina dorsale.
Come previsto, mi si arriccia addosso e comincia subito a scivolare nel dormiveglia, ed io sorrido mentre lo aiuto a sistemarsi comodamente sul mio corpo e tiro su le lenzuola perché ci coprano entrambi.
- La cena… - borbotta sul mio collo, - …domani, okay?
Rido ancora, sulla pelle un po’ accaldata della sua fronte, ed annuisco stringendolo a me. Domani, Bill, okay. Quando vuoi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Language, Lime, Slash.
- "Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima."
Note: Questo, signore care, è il Billshido di Schmetterlingseffekt. Vorrei poter stare qui le ore a parlarne, perché il rapporto che si instaura fra loro in questa shot mi manda fuori di testa per ragioni incomprensibili <3 Ma sono tornata tardi da lavoro – checché se ne dica, ho una vita, come tutti XD – ed ho una figlia che attende questo capitolo con trepidazione. Cercate solo di comprenderli, non sono stronzi, solo pazzi XD
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MEIN REVIER

La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.