rp: david jost

Le nuove storie sono in alto.

Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido (accennato).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Gen, Angst, Slash.
- "Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica."
Note: L'immortalità è un po' la caratteristica principale di questa saga, no? *ride* Ebbene sì, dopo chissà quanti mesi dall'ultimo postaggio a riguardo, il GD torna fra voi per parlarvi di cose di cui non frega a nessuno. No, in realtà non è andata proprio così XD Di base, volevo scrivere una cosa per celebrare i quarant'anni del nostro uomo gay preferito nel mondo, ovvero David Jost, il quale è passato dagli -enta agli -anta esattamente cinque giorni fa, che il buon Dio l'abbia in gloria. Insomma, io volevo scrivere questa compleanno!fic, però il GD mi chiamava, esso voleva che la scrivessi all'interno della sua confusa e confusionaria timeline, ed io non ho potuto fare altro che seguire la sua voce e lasciare che mi conducesse dove voleva. Di base in realtà io credo che questa storia sia incomprensibile, se non avete letto il GD, e per di più credo che al suo interno ci siano riferimenti ad una shot che, per una serie di ragioni inutili, non ho ancora postato. Insomma, abbiate pazienza, con me. *ride*
Partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ispirandosi al prompt #83 (Contando gli anni), e all'ottavo round della Zodiaco!Challenge.
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PICK ME UP WHEN I'M FEELING BLUE

Sipping whiskey out the bottle
not thinking 'bout tomorrow
singing Sweet Home Alabama all summer long

Quando ieri notte sono andato a dormire – molto tardi, ho una regola personale secondo la quale non importa quando scatti la mezzanotte, il nuovo giorno comincia sempre quando mi sveglio dopo aver dormito. Sì, lavorando per i Tokio Hotel mi è capitato spesso che certi giorni durassero quarantotto o anche settantadue ore – l’ho fatto sperando che l’indomani non dovesse mai arrivare. Ieri sera sono uscito, ho acciuffato Dave – unico essere umano rimastomi amico da quando la mia intera esistenza ha smesso di ruotare attorno a quattro ragazzini con evidenti comportamenti asociali per spostarsi sull’asse di un tunisino pazzo, immortale e rompipalle – e l’ho portato in giro per locali come usavamo fare quando eravamo ancora entrambi single, in cerca di ragazzo e disperati abbastanza da pensare che, mal che andasse, potevamo sempre ritirarci in una villetta sul mare nel Devonshire ed allevare gatti finché la senilità non ci avesse uccisi nei nostri letti.
Ogni tanto, ad un uomo, cose come questa servono. Intendo, gli serve recuperare un buon vecchio amico, uno che non c’entri niente con tutti i casini che ha vissuto nel passato recente della sua esistenza, ed uscire con lui, recandosi in qualche allegro posto sperduto di periferia in cui uomini che di giorno fanno i lavascale indossano un costume da pompiere e si denudano per la tua gioia. Ad un uomo serve stare con quell’amico in quel posto e perdersi dentro una pinta di birra nel ricordare episodi divertenti della propria giovinezza, gli serve giusto per ricordarsi che, per quanto tremenda possa essere la sua vita in questo momento, c’è stato un periodo della sua esistenza in cui è stato giovane e stupido, mortalmente stupido, e nessun guaio può essere abbastanza da rimpiangere una cosa del genere.
Io, per dire, sapendo che, il giorno dopo, mi sarei svegliato quarantenne, avevo un bisogno estremo di chiacchierare con Dave e rivangare quell’agghiacciante periodo della mia esistenza in cui indossavo jeans oversize, portavo i capelli come Nick Carter dei Backstreet Boys ed osavo presentarmi in queste condizioni per dei photoshoot che poi finivano fra le pagine patinate di riviste per ragazzine preadolescenti.
Perfino compiere quarant’anni è meno imbarazzante di questo.
Intorno alle tre del mattino, ed intorno alla quinta birra, con gli occhi semichiusi e pesanti di sonno, Dave s’è voltato verso di me e, guardandomi con palese sofferenza, mi ha detto che, se non intendevo salire su un cubo e rimorchiare uno spogliarellista, sarebbe stato molto meglio chiudere lì la serata. Io ho guardato l’uomo dagli ondeggianti pettorali che si agitava come un tarantolato indossando solo un tanga leopardato ed un papillon rosso annodato attorno al collo, ed ho sospirato. “D’accordo,” ho detto, “torniamocene a casa.”
Sono arrivato sano e salvo al mio appartamento dopo un’ora e una decina di chilometri percorsi a passo d’uomo per evitare di attirare l’attenzione di qualche vigile urbano di pattuglia – perché sui rotocalchi mi bastano le facce della gentaglia che rappresento per un motivo o per l’altro, non ho alcun interesse a finirci anch’io ritratto dall’obbiettivo dell’autovelox, peraltro dopo non essere neanche riuscito a mettermi in posa – e dopo aver salutato Dave mi sono ritirato in camera da letto.
Attirato come una falena dalla luminescenza dello schermo del portatile rimasto acceso quando ero uscito, mi sono seduto per qualche istante davanti al computer ed ho lanciato un’occhiata falsamente distratta alla mia bacheca su Facebook ed ai circa cinquecento messaggi d’auguri che s’erano andati accumulando da mezzanotte alle quattro.
Sospirando pesantemente, mi sono alzato in piedi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, l’ho riacceso – dopo averlo colpevolmente tenuto spento per tutta la serata, completamente incurante del fatto che qualcosa di grave avrebbe potuto succedere e qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di sentirmi con urgenza – ed ho aspettato che, per i successivi venti minuti, tutti gli sms, i messaggi in segreteria e gli avvisi di chiamata di chi mi aveva cercato per farmi gli auguri finissero di scaricarsi. Dopodiché, ho posato il telefono sul comodino, mi sono lasciato ricadere a quattro di bastoni sul letto e, nascondendo la testa sotto il cuscino in un’abile imitazione di struzzo africano, e sono crollato in coma etilico.
Qualche mese fa, quando sono stato trascinato in un capannone in periferia e lì sono stato aperto in due, nel momento in cui ho chiuso gli occhi mi sono sentito tragicamente depresso, perché ero convinto che la mia vita stesse per finire e trovavo questo pensiero assolutamente inaccettabile.
Qualcuno avrebbe dovuto dirmi allora che, qualche mese dopo, mi sarei addormentato fra le comode e morbide lenzuola di seta del mio letto indossando ancora i miei mocassini scamosciati blu, ed avrei desiderato di non svegliarmi più solo per non dover per forza compiere quarant’anni.
Sono sicuro che, se l’avessi immaginato, avrei accolto la possibilità della morte imminente con minor sconforto.
*
Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica. Se pensate di aver sofferto, nella vostra esistenza, se pensate di aver avuto una vita sufficientemente difficile da poter dire che passare dagli –enta agli –anta non sarà in grado di sconvolgervi nemmeno un pochettino, be’, vi sbagliate. Non è neanche una questione di vecchiaia in sé – naturalmente è anche una questione di vecchiaia in sé, chi voglio prendere in giro? Ma non è solo quello il problema, ecco – ma piuttosto una questione di traguardi.
A quarant’anni sei più o meno a metà della tua vita. Poi okay, magari arrivi a cento, ma quando hai quarant’anni questo non lo puoi sapere, ti basi sull’aspettativa di vita che la tua società di riferimento, le tue condizioni fisiche e psicologiche ed il modo generico in cui stai al mondo ti danno, e dici d’accordo, ci sono, sono al giro di boa, sono sulla cima del monte, da qui è tutta discesa, devo solo rotolare a valle. Ma mentre mi arrampicavo fino a qui, che cosa ho fatto?
E questa domanda, te la poni lì. A quarant’anni. Non a trenta, quando sei ancora troppo giovane per pensare di poter essere arrivato da qualche parte, e non a cinquanta, che peraltro è un’età talmente lontana che quando ti immagini nel futuro neanche la pensi, ma a quaranta. Quaranta è un bel numero, tondo, rassicurante, e allo stesso tempo spaventosamente netto. Quaranta è quel numero di anni raggiunto il quale per la società che ti ha cresciuto tu devi esserti realizzato.
Credetemi, è un bel casino, quando ci arrivi, capire se ci sei riuscito o meno.
Passare dai ventinove ai trenta, a ripensarci oggi, non è stato così traumatico. Insomma, sì, naturalmente avevo la sensazione di stare entrando in un nuovo periodo della mia vita, cominciavo a sentirmi sulle spalle il peso degli anni, cominciavo a notare in me stesso certi cambiamenti che mi obbligavano a rendermi conto di quanto fossi cresciuto nel tempo, ed anche a chiedermi come fosse stato possibile non notarlo tanto a lungo, ma lì è finita. Sapete quella sensazione che ogni tanto ti prende quando ti convinci che un certo avvenimento cambierà la tua vita, o quantomeno la tua percezione delle cose, e invece poi quella cosa accade ed il giorno dopo tu ti svegli e, di base, non è cambiato niente? E da un lato ti senti deluso per tutta quell’aspettativa sprecata, ma dall’altro sorridi perché ti senti quasi rassicurato dal fatto che la tua vita sia rimasta la stessa, perfettamente controllabile, perfettamente monotona come, in fondo, ti piace che sia?
Ecco, per me i trent’anni sono stati questo. Non ho fatto grandi tragedie, ho accolto con sorrisi di circostanza le battutine degli amici e dei parenti circa le rughe, gli anni che passano e l’essere ormai dei bimbi grandi, sono rimasto al telefono più di mezz’ora ascoltando pazientemente e senza risentimento le lagne di mia madre sul suo essersi ormai rassegnata a non diventare mai nonna, poi mi sono fatto una doccia, mi sono cambiato, sono uscito e mi sono presentato alla festa a sorpresa che i miei amici credevano di avere organizzato tanto perfettamente da non avermi fatto capire dove si fosse tenuta. È stata una bella serata, ne ho ricordi piuttosto chiari.
Ho riso senza falsità, mi sono concesso un capriccio o due, ho bevuto più di quanto non faccia di solito ma senza mettermi in ridicolo e, quando sono andato a dormire, l’ho fatto pensando che dal giorno dopo tutto sarebbe stato diverso, più bello, più entusiasmante, più vero, ma quando mi sono svegliato e ho capito che invece non sarebbe successo, non mi sono sentito triste. Per niente. Ho sorriso, ho fatto colazione, mi sono lavato i denti e sono andato a lavorare, e mi sono sentito contento così, anche se era palese che la mia pelle non fosse più la stessa dei vent’anni, anche se era vero che probabilmente non avrei mai dato un nipote a mia madre, anche se non avevo passato la notte con nessuno ed in generale non avevo diviso la mia vita con qualcuno in un lungo periodo di tempo. Ero a posto. Felice non direi, la felicità è un sentimento così breve e fugace, una scintilla che si accende ed è così preziosa proprio perché si smorza subito. Felice no, ma contento, contento sì.
Alla fine, sapete, la grande questione della gioia, nella vita, sta tutta lì. Nel tuo grado di contentezza quando vai a dormire dopo una giornata pesante, e nel tuo grado di contentezza quando ti svegli al mattino prima di affrontarne un’altra. È davvero tutto lì, in quel pensiero minuscolo col quale di coccoli prima di addormentarti e in quell’altro altrettanto minuscolo col quale ti dai la forza di uscire dal letto.
Ogni tanto può capitare che quel pensiero dolce, quel pensiero incoraggiante, manchino del tutto.
Che poi è il motivo di base per cui io, stamattina, non voglio neanche aprire gli occhi.
*
E invece squilla il telefono.
Tra le svariate miriadi di cose che lo squillo del telefono rappresenta – quasi tutte brutte, specie quando hai un incarico di responsabilità come il mio – ce n’è una molto reale, tangibile e particolarmente sgradevole: il suono del telefono è sempre forte, penetrante ed improvviso. Spezza il silenzio, fa automaticamente sobbalzare, non tanto per la paura, ma per quell’automatica reazione di allarme con la quale l’organismo umano reagisce a suoni simili.
Negli ultimi anni, la gente ha provato in ogni modo ad attutire questa sensazione spiacevole; ha cambiato le classiche suonerie con i toni polifonici, poi ha sostituito anche loro con suoni più particolari e scherzosi, come il miagolio di un gatto o una buffa voce che ti chiama in modi stupidi per attirare la tua attenzione, e poi anche questi suoni sono spariti per lasciare posto alle canzoni che più ci piacciono in un determinato periodo, o alle nostre preferite di sempre.
L’effetto non cambia. Il nostro cellulare potrebbe squillare anche con la canzone con cui ci addormentava nostra madre da bambini, e l’effetto continuerebbe a non cambiare. Quando squilla, improvviso, spaccando il silenzio che ti eri costruito attorno ed all’interno del quale ti eri rifugiato come in un bozzolo caldo e rassicurante, perdi il controllo sul tuo corpo e sobbalzi, sgrani gli occhi, ti volti automaticamente verso la fonte del suono per assicurarti che sia tutto a posto.
Il mio cellulare suona la Lambada, quando mi chiamano, e Dio solo sa se non ho ricordi meravigliosi legati a questa canzone e ad un avvenente portoricano di nome Gael col quale ho ballato su una spiaggia a notte fonda mentre l’eco di questa canzone giungeva a noi tramite la radiolina accesa di una panineria lì vicino, ma nonostante questo, quando squilla io sobbalzo, mi volto a guardarlo con terrore per un secondo e poi, già il secondo successivo, aggrotto le sopracciglia, fissandolo adesso con astio.
Sono ufficialmente le dieci del mattino del dodici agosto, io mi sono appena svegliato e perciò non posso più fingere di avere ancora trentanove anni e di essere ancora fermo al giorno prima, e fa un caldo tale che anche qualcuno con molta più voglia di vivere di me farebbe fatica a trovarne, se dovesse necessariamente alzarsi dal letto.
Sospiro ed allungo una mano verso il telefono, sollevandolo per scrutare il display. È Bill, naturalmente. Se non è mia madre, è sempre Bill.
Mentre sospiro un’altra volta chiedendomi quante possibilità ci siano che il mio figlioccio adottivo onorario decida di chiamare la polizia e denunciare la mia scomparsa se persisto nel non rispondergli, realizzo che a conti fatti non posso continuare ad ignorare la questione. Non è che ci siano possibilità che scompaia, che il tempo torni indietro o che in qualche modo i compleanni vengano cancellati dalla legislazione mondiale, se io insisto a non rispondere al telefono. In realtà, che io risponda o meno, non cambierà proprio niente, nella mia età. Ma almeno, se risponderò potrò smettere di ascoltare la Lambada.
Devo decisamente cambiare suoneria.
- Pronto?
- David! – Bill mi strilla nelle orecchie, la voce già rotta dal pianto liberatorio che immagino si starà lasciando scorrere lungo le guance assieme agli usuali venti chili di kajal, - Dio mio, David, ma sei impazzito? Ma sei impazzito? Hai idea di quanto mi hai fatto preoccupare? Ma come ti è saltato in testa di ignorare le mie chiamate, con tutto quello che è successo negli ultimi mesi?
In realtà, negli ultimi mesi non è successo niente di particolarmente assurdo, fatta eccezione per un viaggio negli Stati Uniti che si è concluso con un matrimonio inatteso e per la breve parentesi di momentaneo dolore emotivo durante la quale il mio ragazzo mi ha lasciato per andare a curare la malaria in Africa con la sola imposizione dei propri pettorali scolpiti nel marmo. L’avvenimento al quale Bill si riferisce, invece, è accaduto mesi fa, ha coinvolto solo me, le mie budella e un coltello non particolarmente affilato, e non avrebbe più modo di ripetersi, dal momento che Bushido, dopo l’accaduto, ha cominciato a pagare uomini perché mi proteggessero seguendomi nell’ombra e terrorizzandomi a morte quando, tornando a casa alle tre del mattino dopo una bevuta, me li vedo spuntare di fronte avvolti nei loro completi neri mentre mi rassicurano dicendo “è tutto a posto, signor Jost, vada pure”.
- Sono vivo, Bill. – annuncio pazientemente, staccandomi di dosso le lenzuola appiccicate alle gambe e sollevandomi faticosamente a sedere mentre ascolto Bill confermare il mio attuale stato in vita a qualcuno accanto a lui, qualcuno che deduco essere Bushido dal modo annoiato in cui risponde “ma te l’avevo detto, Bill”. – Posso andare, adesso? Ho bisogno di una doccia.
- No. – risponde Bill, perentorio, - Cioè, sì, potrai andare a farti una doccia presto, ma prima: tanti auguri! – mi strilla nelle orecchie, inutilmente eccitato per qualcosa che non eccita nemmeno me, figurarsi se dovrebbe avere lui qualche diritto a sentirsi eccitato al mio posto.
- Grazie. – concedo svogliato, - Ora posso andare?
- No! – sbotta Bill, offesissimo, - Ma che ti prende? Ho bisogno di sapere a che ora sei libero, stasera.
- No, Bill, non hai bisogno di saperlo. – gli spiego io con un sospiro stanco mentre costringo il mio vecchio corpo a sollevarsi dalla dolce comodità del materasso memory foam.
- No? – chiede lui, vagamente smarrito. Posso immaginarlo sbattere le lunghe ciglia ricurve, gli occhi di quel brillante castano dorato che fanno capolino da sotto le palpebre pittate di grigio metallizzato.
- No. – confermo, dirigendomi serenamente verso il bagno, - Perché non intendo partecipare ad alcuna festa, per i miei quarant’anni, - spiego, cercando di utilizzare il tono di voce più pacato che i nervi repressi che tremano sottopelle mi consentano, - Non intendo organizzarla a casa mia, non intendo lasciartela organizzare a casa tua, non intendo aprire regali e sorridere fingendo di essere contento nel festeggiare l’inesorabile restringersi della finestra di tempo che mi separa dalla morte e non intendo neanche stare ad ascoltarti mentre cerchi di convincermi che invece sarà una bella festa e ci divertiremo un sacco.
Dall’altro lato della cornetta, Bill resta in silenzio per tre minuti netti. Un record.
- Bill? – lo chiamo, - Sono stato chiaro?
- È scappato. – mi risponde Bushido. Non riesco a decifrare il tono della sua voce. – Gli hai detto che non vuoi saperne niente?
- In sostanza, sì. – annuisco, - Ed è quello che ripeto adesso anche a te. Inoltre, sto per spegnere il cellulare. Ti prego di non inscenare il finimondo, se non mi senti nell’arco delle prossime ventiquattro ore. Gradirei trascorrere questo giorno senza che mi venga ricordato continuamente che sono un vecchiaccio.
Bushido ride appena, lo immagino scuotere il capo.
- Jost, sei un cretino. – mi rimprovera, - Ma d’accordo.
Mi fermo, immobile, una mano sulla maniglia della porta del bagno, l’altra stretta attorno al telefono.
- D’accordo? – domando per conferma.
- D’accordo. – ribadisce lui con sicurezza, - Ci sentiamo, Jost.
D’accordo. Mi sarei aspettato una maggiore insistenza.
*
È una doccia lunga e rilassante, all’avocado e ai minerali del Mar Morto – sebbene io non abbia idea di quale sia l’odore dei minerali del Mar Morto, per cui principalmente è una doccia all’avocado e basta – quella che mi concedo e alla quale mi concedo come non mi sono mai concesso a nessun altro essere con una declinazione al femminile. Lei è buona, con me, mi tratta con rispetto, non sente il bisogno di farmi gli auguri e, pertanto, di farmi sentire vecchio.
Per la verità, dal momento che è una doccia ipertecnologica di ultima generazione, dotata di ogni comfort e di un dispositivo elettronico incredibilmente efficiente che le permette di esprimersi attraverso una voce femminile dalle tonalità suadenti e placide, se avessi attivato il programma “buongiorno del mattino” so che, dopo aver acceso la radio, mi ricorderebbe la data di oggi, l’orario di inizio della doccia, le principali notizie del mattino, gli aggiornamenti sulla viabilità e il traffico e, alla fine, mi farebbe anche gli auguri di compleanno. Fortunatamente, sono stato abbastanza furbo da disattivare quella modalità al secondo giorno di utilizzo, e pertanto la voce di Serafine, che poi è il nome con cui la voce suadente s’è presentata durante la configurazione al primo utilizzo, si limita ad augurarmi il buongiorno e a chiedermi se preferisco doccia semplice, idromassaggio o cromoterapia.
Opto per la doccia semplice, all’avocado e ai minerali del Mar Morto, come vi dicevo, e ne vengo fuori qualcosa come tre quarti d’ora dopo, raggrinzito come una prugna e stupefatto dal fatto che il guanto di crine che ho usato per lo scrub mi abbia lasciato ancora della pelle addosso. È una sensazione abbastanza meravigliosa, e posso sorridere sinceramente mentre, dopo essermi accuratamente asciugato, esco dal bagno avvolto in un microasciugamano che mi copre appena i fianchi. Vado in cucina, bevo una tazza del caffè che la caffettiera ha provveduto a preparare da sé una mezz’oretta fa, poi recupero il nuovo numero di Vanity Fair e passo la successiva ora seduto al tavolo della colazione, le gambe stese sull’unica altra sedia libera, a fingere di leggere mentre in realtà fantastico su immaginari lavori di ristrutturazione alla facciata del palazzo e immaginari operai unti di sudore e sporchi di gesso e cemento armato che fanno educatamente irruzione in casa mia dalla finestra, chiedono un bicchiere d’acqua per dissetarsi dalla calura estiva e poi mi prendono ripetutamente contro il piano in marmo bianco sopra la lavastoviglie. Uno dopo l’altro, a volte anche in coppia.
Dopodiché, ho bisogno di un’altra doccia.
*
Decidere dove andare, o cosa fare del resto della mia giornata, non è così semplice. Non facciamo mai caso a quanto i nostri impegni, intendo quelli che ci scandiscono le giornate, siano per lo più dipendenti dagli altri, più che da noi stessi, fino a quando non spegniamo il telefono. Nel momento in cui quel dettaglio viene a mancare, ecco che improvvisamente ci ritroviamo con un mucchio di tempo libero per le mani e nessuna idea su come impiegarlo.
Dopo essermi assicurato che il sole splenda e che la temperatura esterna oscilli fra i ventinove e i trentadue gradi, stabilisco che restare a casa non ha senso. Primo perché è un luogo facilmente identificabile. Chiunque volesse pensare di volermi trovare, cercherebbe qui per prima cosa. E io non intendo farmi trovare.
Secondo perché fa veramente troppo caldo, ed un uomo attento all’ambiente e al riscaldamento globale quale io sono non può in alcun modo sopportare di risolvere questo problema chiudendosi in una stanza col condizionatore a temperature polari. Qualche pinguino mi ringrazierà per questo, penso con orgoglio mentre indosso il costume da bagno, un paio di bermuda ed una maglietta e, infradito ai piedi, mi lancio verso Steglitz-Zehlendorf.
Tutte le mie buone intenzioni, il mio accorato sostegno verso la causa ambientalista e il mio affetto per i pinguini disagiati che perdono le loro case di ghiaccio a causa del riscaldamento globale, viene meno in un soffio quando, arrivato alla spiaggia del Wannsee, la trovo gremita di gente come non l’ho mai vista da che sono al mondo. E, ricordiamolo, stiamo parlando di quarant’anni. Evidentemente, oggi tutti devono avere avuto la mia stessa idea. Quanti eroi che vogliono salvare il mondo un condizionatore spento alla volta. Greenpeace sarà soddisfatta.
Tanto vale, mi dico, ormai sono qui. Recupero il borsone e mi faccio strada fra ragazzini impegnati a tirare su monumenti di sabbia, donne impegnate a diventare esse stesse monumenti cospargendosi abbondantemente il corpo di creme solari di ogni tipo e uomini che preferirebbero diventare monumenti anch’essi, pietrificandosi possibilmente sul posto, in modo da non dover passare un secondo in più della loro vita ad annoiarsi disperatamente sotto quel sole cocente.
In mezzo a questo acquerello di umanità varia, trovo un posticino grande abbastanza per ospitare il mio telo da mare e me stesso, entrambi piegati in due in modo da occupare il minor numero di metri quadrati possibile.
Ci sono tanti di quei colori, su questa spiaggia, tanti di quei suoni. Gli ombrelloni di ogni dimensione, aperti e puntati verso il sole, sono così tanti che sono sicuro che, se sorvolassi la spiaggia, li vedrei come pois multicolori sul vestito di una ragazza. I gabbiani strillano con forza, ma non abbastanza forte da sovrastare il mormorio incessante del chiacchiericcio delle persone, ognuno perso nelle proprie cose, ognuno annodato nel groviglio dei propri drammi personali, o coccolato nel tepore di qualcosa di bello. Una donna sta parlando del vestito da sposa di sua figlia con un’amica, lo descrive così minuziosamente che quando ha finito potrei disegnarlo senza sbagliare un dettaglio. Una bambina di una decina d’anni sta cercando di spiegare al fratellino, credo, o ad un amichetto più piccolo, come funzionano le onde del mare. Lui fatica a starle dietro e ad un certo punto lei, frustrata, strilla “ma sei stupido?!”, e corre a tuffarsi in acqua. Un uomo parla con un coetaneo, probabilmente un amico. Ha lo sguardo triste, dice “non ce la faccio più”. Non riesco a cogliere i dettagli del discorso, in realtà nemmeno voglio.
Mi appoggio al telo con entrambe le mani, le braccia tese ai lati del corpo. Mi piego indietro e scruto il cielo terso, macchiato qua e là da qualche sbuffo di nuvola. Sembrano fiocchi di panna montata. Nei pressi del sole, il colore del cielo si fa più chiaro, sbiadito, brillante, quasi trasparente. Dà proprio l’impressione di non essere altro che una campana di vetro, tutta attorno al pianeta, attraverso la quale i raggi del sole passano appena. Tuttavia, riesco a sentirli sulla pelle, ed è una sensazione piacevole.
Dietro di me, una famiglia composta da una madre e tre ragazzini di varia età si decide ad andare via, liberando un po’ di spazio. Me ne approfitto, prima che arrivi qualcun altro. Stendo per bene il telo, e mi ci stendo per bene sopra anch’io. Chiudo gli occhi, sorridendo appena. Li tengo chiusi a lungo.
*
La giornata scorre così tranquillamente da sembrare finta. Intorno a mezzogiorno, mi rifugio in uno dei numerosi ristoranti che affollano il lungolago, ed in barba a tutti i miei principi etici e morali passo un paio di piacevolissime ore rifocillandomi – cioè gozzovigliando come un maiale su metà del menu del giorno – e pascendomi nell’aria freddissima che riempie la stanza al punto che, entrando, pare di non essere nemmeno più in estate. Tutta questa gente con le loro giacchettine addosso mentre fuori le persone vorrebbero strapparsi ogni indumento e bruciarlo pur di sentire un minimo di fresco, sono esilaranti. Li osservo con divertimento, facendo punto d’onore nel restare in maniche corte per tutto il tempo nonostante la pelle d’oca da freddo.
Quando comincio a sentire le estremità del mio corpo perdere sensibilità, decido che ne ho avuto abbastanza. Pago, esco dal ristorante e l’escursione termica fra interno ed esterno è tale che un qualsiasi uomo meno fisicamente preparato di me sverrebbe all’istante. Fortunatamente, io sono ancora in forma, e sopporto con stoica testardaggine gli schiaffi del vento caldissimo che scompiglia i capelli di tutte le signore presenti, e poi torno in spiaggia.
C’è molta meno gente, adesso. Il sole sta cominciando ad abbassarsi, le ore migliori per la tintarella sono già finite e chi è qui dalla mattina comincia ad avere troppo caldo, e ad essere troppo stanco, per non desiderare di trovarsi altrove.
Io mi approprio di un paio di metri di sabbia umida in riva, e mi seggo a guardare il lago. L’acqua è meravigliosa, tutta azzurra e bianca, e si arriccia capricciosa attorno ai corpi dei ragazzi e delle ragazze che fanno il bagno. Con ogni schizzo, sembra di sentirla ridere.
Ci vogliono ore, prima che qualcosa cambi. Osservo il sole disegnare un arco perfetto nel cielo, e perdo completamente di vista la cognizione del tempo e dello spazio. È come essere solo, su questa spiaggia. Siamo solo io e il sole che scandisce i minuti e le ore fino alla fine di quella giornata, e gli sono grato, perché da un certo punto in poi sembra che si sia messo a correre, per far calare la notte il prima possibile. Molto premuroso, da parte sua. Starò sicuramente molto meglio, quando queste ventiquattro ore saranno finalmente passate.
E poi, improvvisamente, appena il sole fa tanto di bagnarsi la punta dei piedi, qualcuno si siede accanto a me, posa una bottiglia di whiskey sul mio telo, in mezzo a noi, e tira fuori un walkman – un walkman – dalla borsa nera che porta a tracolla.
Nel momento in cui capisco che si tratta di Bushido, lui mi ha già infilato un auricolare in un orecchio, e le note di Sweet Home Alabama cominciano a farsi strada dentro di me.
- Sul serio? – dico, voltandomi verso di lui con gli occhi sgranati, - Vuoi consolarmi per la mia triste vecchiaia e mi porti un walkman, del whiskey e una cassetta dei Lynyrd Skynyrd?
Bushido ride, il suono della sua voce è dolce, quasi tenero. Non mi guarda nemmeno, impegnato com’è a fissare il lago ormai praticamente vuoto.
- Hai il coraggio e la faccia tosta di dirmi che questa canzone non ti piace? – domanda.
Io sospiro, abbassando lo sguardo.
- La adoro. – ammetto, - Ma questo non significa—
- Bill c’è rimasto malissimo, sai? – mi interrompe. Io faccio una smorfia. Naturalmente, Bill. Lo dico senza risentimento, come il dato di fatto che è: con Bushido, tutto, sempre, è una questione di Bill. Qualsiasi cosa quest’uomo faccia o non faccia, la fa o non la fa tenendo sempre in considerazione Bill per primo, e poi, secondariamente, se necessario, tutto il resto del mondo. – Ci teneva un sacco.
- Non mi stupisce affatto. – commento con un mezzo sorriso, - Adora dare feste.
- Non è solo quello. – mi corregge Bushido, perfettamente calmo, - Tu sei stato come un padre, per lui. Tom ha avuto Gordon, ma Bill ha avuto te. Sei stato il suo mentore, e ricordati che è completamente a causa tua che oggi lui è quello che è. – lo osservo sospirare e poi sorridere, - Devi capire che è così felice di non averti perso che non farebbe che dare feste in tuo onore. E tu pretendi che non festeggi il tuo compleanno? – ridacchia appena, scuotendo il capo, - Ma non capisci che, se facessi il compleanno ogni giorno, lui organizzerebbe ogni giorno una festa diversa, solo ed esclusivamente per celebrare il fatto che esisti?
Non fingo nemmeno di provare a trattenere le lacrime. La cosa più odiosa è che tutto questo io lo so. L’ho sempre saputo, Bushido non è venuto qui a snocciolarmi verità sconosciute come il dio immortale che in realtà sospetto sia veramente. È solo venuto qui al momento giusto, nella cornice giusta, perfino con la giusta colonna sonora, per ricordarmelo.
- Sono veramente egoista, - sospiro, asciugandomi gli occhi, - vero?
- Sì. – risponde lui, sinceramente, - Ma dal momento che lo siamo tutti, almeno sei in buona compagnia. Tieni, - aggiunge poi, sollevando la bottiglia verso di me, - bevi. Ne avrai bisogno.
Obbedisco senza neanche chiedergli perché.
- Come hai fatto a trovarmi? – chiedo fra un sorso e l’altro. Bushido si limita ad indicare con un cenno del capo i due uomini vestiti di nero che mi sorvegliano attentamente dal molo. Poveretti, devono soffrire parecchio, con le cravatte annodate e le maniche lunghe. Chissà da quanto sono qui. – Lo sai, questo è stalking.
Bushido scrolla le spalle.
- Fammi causa. – butta lì, rubandomi la bottiglia. Gliela richiedo indietro pochi istanti dopo, e per molti minuti, finché non ne vediamo il fondo, restiamo lì in riva a bere e a lasciarci bagnare i piedi dalle onde.
*
Il motivo della bottiglia di whiskey lo capisco solo qualche ora dopo, intorno a mezzanotte. La festa, per la gioia di Bill, è stata splendida. Non è che mi abbia fatto dimenticare che sono depresso e che probabilmente mi chiuderò in una SPA per tutto il resto della prossima settimana per farmi massaggiare da giovani tailandesi finché non sarò ringiovanito abbastanza da poter mostrare nuovamente la mia faccia in pubblico, ma almeno è stato un modo piacevole per passare le ultime ore di questa giornata da cancellare con persone di cui m’importa, ed alle quali importa di me. La spiaggia era un luogo bellissimo, impersonale e rassicurante, ma in effetti il calore umano ha qualcosa in più rispetto a quello del sole. Quando capiranno cos’è e riusciranno a imbottigliarlo, scommetto che gran parte dei problemi del mondo potrà essere facilmente risolta.
Al momento, Chakuza è sdraiato a terra con un imbuto di dimensioni preoccupanti in bocca. Fler è disteso al suo fianco, e conta “uno! Due! Tre!” per ogni secondo che il suo nuovo marito riesce a passare in apnea bevendo birra bavarese che Eko Fresh versa direttamente nell’imbuto dalla spalliera del divano sul quale è appollaiato. Tom, che ha bevuto pure lui come un tacchino, è seduto su un divano, arrabbiato per chissà quale oscuro motivo, mentre suo fratello, ridendo come un deficiente per chissà che battuta, gli tira le treccine a casaccio.
Bill è raggiante. C’è come un alone di gioia e santità, attorno a lui. Praticamente vederselo passare di fronte è come avere una visione della vergine Maria quando era un’adolescente dark. O forse, appunto, è solo il whiskey ad aver reso più semplice una cosa complicata, più piacevole una cosa dolorosa. A volte anche fuggire così va bene, sapete, purché ci siano le braccia di qualcuno a tenerti ancorato a terra.
- Ehi. – mi saluta Bushido, il quale, con questo bicchiere di vino rosso che tiene in mano e il completo elegante che indossa, sembra quasi l’uomo serio che in realtà non è. Non potrò mai dimenticarmi che quest’uomo è venuto a recuperarmi su una spiaggia, al tramonto, portando con sé un walkman e i Lynyrd Skynyrd. – Tutto a posto?
- Direi di sì. – sorrido, accettando l’altro bicchiere di vino che mi porge, - Non sono già abbastanza ubriaco? – rido.
- No, sei ubriaco al punto giusto. – ride anche lui, e poi si sistema accanto a me, osservando la festa andare avanti con curiosità e divertimento, proprio come ho fatto anch’io fino ad ora. – Senti, - dice quindi, - lo sai qual è la cura per la malattia del non avere più vent’anni? – domanda.
Mi volto a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Avere qualcuno che ce li abbia ancora. – ghigna lui. Io spalanco gli occhi. – Seconda stanza a destra al piano di sopra. – dice quindi, consegnandomi una chiave di ottone. – Va’ e riproduciti.
- Stai scherzando. – balbetto sconvolto.
Ma no, non sta scherzando. Ed ecco che il whiskey torna utile mentre scoppio a ridere, accettando di buon grado il suo gentile presente e lasciando che il giovanotto al piano di sopra mi aiuti a dimenticare quanti anni ho – e il mio nome, anche – prima di tornare a dormire.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza, Sido/Bushido/Bill/Fler/Chakuza (wut?).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Fivesome.
- Tom Kaulitz ha cinque certezze. Sono poche, ma sono buone. O almeno così crede.
Note: Vorrei potermi liberare di un po’ di responsabilità concernenti questa storia, per cui: l’ha plottata Tab, Meg s’è rifiutata di scriverla passandomi la palla e Def me l’ha betata e mi ha istigata a postarla, mentre Gra, con la sua meravigliosa challenge per DispariSome, mi ha fornito il pretesto perfetto per farlo davvero. Oltre ciò, non ho poi molto da dire, a parte il fatto che dovreste avere molta pietà di me e di Tom. Ma molta davvero. *piange*
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PRINCIPLE OF UNCERTAINTY

Nel corso del mio ultimo anno di vita, gran parte delle mie certezze sono state prese, gettate in terra come pezze vecchie e poi calpestate senza ritegno né dignità come non avessero il benché minimo valore. Io capisco che la vita è sempre un divenire, non c’è mai nulla che sia uguale un minuto dopo averla vista, sono grato a David per il corso di filosofia accelerata cui mi ha sottoposto prima dell’Abitur e tutto il resto, ma comprendetemi, non è bello quando credi in qualcosa fino a un determinato secondo della tua esistenza e poi in quel determinato secondo succede qualcosa che devasta tutto come una specie di uragano, lasciandoti in mutande e con nient’altro in mano oltre alla tua disperazione.
E sì, mi rendo conto di stare esprimendomi in termini catastrofistici, emodepressivi e generalmente iperdrammatici, ma ci sarà un motivo per il quale condivido il cento percento del mio corredo genetico con mio fratello Bill; in qualcosa dovevamo pure assomigliarci, ed evidentemente questo qualcosa è la propensione al drammatismo spicciolo da tragedia catastrofenaturalistica americana. Oltre al talento nell’usare le parole, naturalmente, voglio dire, visto quanti termini nuovi di zecca sono stato in grado di coniare in meno di cinque minuti di monologo? Sono meraviglioso.
Comunque, mia meraviglia personale a parte, parlavo delle mie certezze. Ne avevo poche, ma tutte erano ben salde e costituivano le fondamenta del mio intero essere, per svariati motivi.
La prima e più importante di tutte era: Bill non è gay.
…non osate ridere né guardarmi in quel modo! Io sono la persona che conosce Bill meglio in assoluto in tutto l’intero universo, lo conosco da prima che venissimo al mondo, da prima che venissimo generati, da prima che la grande volontà dell’universo decidesse che era giusto che due Kaulitz uguali calpestassero il suolo del pianeta Terra contemporaneamente, io e Bill siamo una cosa sola da che il Big Bang è esploso generando l’universo e via discorrendo, se vi dico che mio fratello non aveva mai dato segno della sua inclinazione omosessuale dovete credermi. No, trucco, unghie e capelli non sono segno di inclinazione omosessuale, furbastri supponenti che non siete altro – e nemmeno i vestiti! Bill non era gay, posso giurarlo, so che scopava con delle donne e non fate queste facce sconvolte e nauseate, era un ragazzo assolutamente normale. Oh.
Poi, Bushido è piombato nelle nostre vite. Prego inserire musica drammatica in questo punto.
Ora, io non ho mai nascosto la mia preferenza per il lato cattivo del rap tedesco. Voglio dire, di fronte a una scelta, ho sempre scelto l’Aggro Berlin e Sido. Senza nemmeno rifletterci su, in realtà. Però, ecco, Bushido mi piaceva, per il semplice fatto che – voglio dire: è sfrontato, è cazzuto, è stato arrestato, è un rapper. Come poteva non piacermi?
Quindi, insomma, quando David mi ha detto che probabilmente ci sarebbe stata una collaborazione con uno dei suoi uomini, per il nuovo album, io naturalmente mi sono esaltato, e non dico di essermi messo a squittire come una fangirl – a questo proposito, non chiedete mai a Georg di raccontarvi la mia reazione, poi dovrei uccidere lui e voi e temo che questo causerebbe dei problemi non indifferenti alla mia carriera – dicevo, non mi sono certo stracciato le vesti di dosso crollando a piangere di commozione, anche perché le vesti che avevo addosso dovevano valere sul migliaio di euro tutto compreso, ma sono comunque stato molto felice. Certo, Kay One non era assolutamente il mio preferito nel mucchio degli artisti sotto contratto all’Ersguterjunge & Co., ma era meglio di niente. Ero ancora vagamente dubbioso riguardo quando fosse opportuno inserire del rap nelle nostre canzoni, ma mi fidavo di David.
Naturalmente non avrei dovuto. Alla fine non siamo riusciti a infilare il rap in nemmeno una delle nostre canzoni. In compenso, Bushido è riuscito a infilare le mani nelle mutande di mio fratello.
Voglio dire.
La seconda certezza fondante la mia esistenza, dato che apprezzavo l’uomo e tutto il resto, era Bushido non è gay. Poi l’uomo arriva, sparge sorrisi smaglianti e acqua di colonia da non so quante centinaia di euro per tutto lo studio e il minuto dopo lo trovo lì che flirta spudoratamente con mio fratello, costringendolo a stringersi imbarazzato nelle spalle esili e spostare altrove lo sguardo brillante di emozione. Io lo conosco mio fratello, lo so quando si sente compiaciuto, e il primo passo per scalare la montagna di gambe chilometriche che conduce al suo cuore è lusingarlo. Bushido ci stava riuscendo.
Insomma, per me è stato un disastro umano! Due certezze spazzate via in un colpo solo da un tunisino con un opinabile taglio di capelli ed un’ancora più opinabile propensione verso l’inchiostrazione indiscriminata del proprio corpo! Non si fa così, non è corretto.
Come potrete abbondantemente immaginare da voi, venire a patti con tutto ciò non è stato semplice. Vi risparmierò la cronaca dei lunghi mesi che ho passato, nell’ordine, a: ostracizzare mio fratello da qualsiasi mia decisione, fosse essa mettere o meno i cetrioli in un panino o cambiare radicalmente taglio di capelli; combattere una guerra di grugniti e ringhi di varia natura nei confronti di Bushido per aver privato mio fratello della sua innocenza o almeno di un’emanazione della stessa; combattere una guerra di pari violenza e pari intensità dotata però anche di scazzottate ai limiti del legale con David, che ritenevo primo e principale colpevole del disastro in atto, visto che avrebbe dovuto dire a mio fratello di piantarla una buona volta e stare lontano dal tunisino o, in alternativa, avrebbe dovuto prendere il suddetto tunisino e trascinarlo di fronte a un tribunale per circonvenzione e abuso di incapace e costringere i giudici a rinchiuderlo in uno sgabuzzino in compagnia di turchi che non vedono da anni la luce del sole, per tutto il resto della sua vita, tipo, e invece non stava facendo niente del genere e si limitava anche lui a spargere sorrisi e acqua di colonia come non ci fosse un domani, così, al solo scopo di mandarmi ai pazzi.
Alla fine, dopo numerose tribolazioni, ho accettato la realtà – nel senso che mi sono rassegnato, ecco. Accettare è un termine un po’ forte, ti fa pensare ad un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, spalanca la finestra, alza gli occhi al cielo, inspira a pieni polmoni ed esclama “io posso farcela e ce la farò!” richiamando a sé le forze della natura perché lo pervadano e lo aiutino ad uscire dalla brutta situazione in cui s’è cacciato. Ecco, io non direi di essermi comportato proprio così, per questo “rassegnare” è un termine più preciso, perché ti fa pensare a un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, incurva le spalle, sospira e sbotta “va be’, poteva andare peggio, poteva mettersi con Chakuza”. Per dire.
Comunque, da lì in poi le cose hanno cominciato a migliorare. Io ho ripreso a parlare con Bill, ho smesso di picchiare David e ho anche scoperto che in fin dei conti il Billshido diventato realtà non era nemmeno così male. Voglio dire, mio fratello era parecchio frustrato, ultimamente, e da quando andava a letto con Bushido invece le cose sembravano andare sensibilmente meglio, perciò evidentemente Madre Natura sapeva cosa fare quando li aveva chiusi entrambi in uno sgabuzzino per indagare sulle nuove frontiere della loro sessualità. Bisognerebbe sempre fidarsi di Madre Natura, lei sa cosa fa e non sbaglia mai. Ha fatto me etero perché non poteva privare le donne della mia bellezza, ha fatto Georg e Gustav etero perché non poteva dare agli omosessuali anche questa sfiga e ha fatto Bushido e Bill omosessuali perché potessero trovarsi e ristabilire gli equilibri dell’universo, evidentemente. Chi sono io per oppormi? Nessuno. E quindi non mi oppongo.
I problemi hanno ricominciato a bussare alla mia porta quando la storia fra Bill e Bushido ha cominciato a farsi seria. Intendiamoci, io non avrei avuto nulla in contrario se quei due avessero continuato a scopare come ricci fino ad esaurire la forza che li spingeva l’uno verso l’altro, ma loro no, volevano fare i romantici, gli innamorati, e si sa come finiscono queste cose, che poi ci si appiccica come crauti ai wurstel e non ci si stacca più nemmeno coi lacrimogeni. E quindi è cominciata la lunga trafila di cose che odio e che succedono sempre in questi casi: presentazione dei genitori – che poi in realtà è stata la cosa meno devastante, perché Bushido per qualche motivo adora la frittata con le cipolle di mia madre ed io per motivi ancora meno comprensibili adoro lo spezzatino con le patate della signora Luise Maria – pellegrinaggi continui negli appartamenti altrui, spostamento dei primi vestiti e, dulcis in fundo, presentazione degli amici.
E lì crolla la mia terza certezza. Nello specifico: se anche Bushido fosse gay, i rapper in generale non potrebbero esserlo.
Immagino lo sappiate già, comunque: Bushido vive in un’enorme villa gialla che io suppongo possa essere vista dallo spazio al pari della grande muraglia cinese, se non altro perché il suo colore è tale da dover essere per forza catarifrangente, quindi immagino che catturi la luce del sole e poi la proietti nell’universo per centinaia di migliaia di anni luce. Scommetto che esiste un qualche pianeta perso nel nulla dal quale vedono i suoi bagliori giallastri, e scommetto anche che la credono una stella. E l’avranno nominata in qualche modo tipo B-Ush1d0. O chessò io. Comunque! Il nostro tunisino preferito vive in questa villa, e naturalmente non ci vive da solo. Fino a qualche tempo fa ci viveva con Kay One e D-Bo, poi Kay One ha deciso giustamente di fuggire per rincorrere il miraggio dell’eterosessualità e D-Bo ha deciso di imitarlo per rincorrere quello dell’indipendenza, e quindi Bushido s’è visto costretto a cambiare coinquilino.
E qui entra in gioco Fler.
Dunque, Fler è un uomo che mi sono ritrovato ad apprezzare parecchio, in passato, se non altro perché Sido diceva un gran bene di lui, se lo portava ovunque e tutto il resto. E poi, ammettiamolo, l’uomo col rap ci sa fare, e ci dà dentro che è una meraviglia. L’ultimo album, poi, è una delle cose più grandiose siano state prodotte all’AB nei suoi quasi dieci anni di meravigliosa esistenza, perciò io, ecco, gli volevo del bene.
Quando ha deciso di riappacificarsi col vecchio amico e poi arcinemico, non è che ci abbia trovato qualcosa da ridire. Trovo però decisamente qualcosa da ridire nell’entrare in casa di Bushido in compagnia del sovrano della baracca e della sua regina – mio fratello – e ritrovarmi appunto Fler sul divano che limona selvaggiamente con Chakuza. Ecco, questo mi turba parecchio, ed ho da ridire eccome, per due motivi fondamentali: il primo è che una cosa del genere ovviamente distrugge la mia certezza sui rapper che non sono mai gay, il secondo è che non si limita a distruggere solo questo ma distrugge anche la quarta delle mie certezze – che, ve lo anticipo fin d’ora, sono cinque, quindi sopportate stoicamente, che il martirio sta per concludersi. Tale certezza era: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, per nessun motivo al mondo Chakuza sarebbe un essere umano sessualmente attivo. E invece, tutto insieme, scopro che non solo il rap tedesco in parata ha deciso di seguire le orme del suo principale esponente, ma ha deciso di farlo anche Chakuza e, cosa peggiore di tutte, ha deciso di farlo con Fler. Di fronte ai miei occhi!
Poi, per dire, mi sarei aspettato una reazione alla “cielo! Mio marito!” pur senza mariti implicati. Capite cosa intendo? Qualcosa tipo Fler e Chakuza che si tirano un inesistente lenzuolo fin sotto il mento ed urlano cose random tipo “oddio! Non ci aspettavamo una vostra visita! Ci dispiace! Ci spostiamo immediatamente al piano di sopra, e non certo per continuare ma per fare harakiri a seguito della nostra intimità violata” e via così. E invece niente, io mi vedo questi due uomini adulti che restano nell’esatta posizione in cui erano quando li abbiamo beccati – per la precisione e nel caso vi interessi, anche se ne dubito: Chakuza seduto sul divano con Fler a cavalcioni nell’atto di sollevarsi per liberarsi più facilmente dei jeans – e si voltano a sorriderci e salutarci come niente fosse, e insomma, mi prendo male! Chiunque si prenderebbe male, in una situazione del genere! E quindi raccolgo ciò che di mio è caduto fin sul pavimento di Bushido – la mascella, per lo stupore, non le palle, quelle le tengo sempre in gran conto e al loro posto – e fuggo via il più lontano possibile. Letteralmente.
È un peccato che mio fratello abbia gambe così lunghe, sia così leggero e, soprattutto, sappia esattamente dove trovarmi quando entro in depressione e mi chiudo in posizione fetale rinnegando l’esistenza del mondo esterno.
Insomma, sono stato riportato indietro al grido di “ma dai, Tomi, sono così carini!” e non ho potuto fare a meno di rassegnarmi ancora e prendere atto del fatto che la mia vita aveva deciso di tradirmi ribaltandosi al contrario mentre io dormivo o ero comunque momentaneamente assente, e senza nemmeno lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Ci sono tragedie alle quali uno dovrebbe essere preparato prima, e invece niente, un attimo prima sei un uomo felice e l’attimo dopo ti ritrovi su un divano giallo dentro una casa gialla che mangi pasticcini gialli bevendo tè al limone mentre un rapper tunisino divora di baci tuo fratello da un lato e altri due rapper dall’altro lato si fanno prendere da una sorta di delirio pro-gay e ti raccontano tutta la loro vita e, soprattutto, come e quanto in meglio sia cambiata la loro vita da quando hanno scoperto di amarsi. Che sono cose che uno non vorrebbe mai sentirsi dire, intendo, ascoltare Chakuza che ti racconta dei suoi piani di vita matrimoniale con Fler aggiungendo che prima o poi gli piacerebbe anche adottare dei bambini o, in assenza, almeno qualche cane? No, grazie, vivo felice anche senza.
Comunque niente – e aiutatemi a ripetere niente – di tutto questo poteva prepararmi al dramma cosmologico che da lì a poco si sarebbe verificato. Perché uno vede tante cose, nel corso della propria vita, e io ne ho viste un mucchio, credetemi, e dopo un po’ si convince che niente potrà più stupirlo o piombarlo in un baratro di disperazione, perché ci si riprende da tutto, no? Io mi sono ripreso da mio fratello, tanto per cominciare, poi mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido e ha due amici che sono Chakuza e Fler e che stanno insieme!, e dopo tutto questo pensavo che nulla più avrebbe potuto scalfirmi. E invece no. Non avevo tenuto conto del fatto che al peggio non c’è mai fine.
E tutto ciò mi riporta ad oggi. A una cena con tutta la crew di Bushido che è finita da almeno mezz’ora e a me che, svaccato su questa poltrona e con un bicchiere di vino rosso ancora quasi del tutto pieno in mano, osservo la scena che si presenta di fronte ai miei occhi e che coinvolge mio fratello, Bushido, Chakuza, Fler e Sido, che s’è fermato a chiacchierare un po’ dopo la fine del pasto.
Ricordate della quinta certezza cui accennavo prima? Ecco, recita pressappoco così: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, e se pure Chakuza dovesse rivelarsi un essere umano sessualmente attivo, una cosa non potrà mai cambiare, e questa cosa è che Sido non è gay né mai lo diventerà.
Capite bene che è un po’ difficile ripeterlo adesso che lo stesso Sido che mai e poi mai dovrebbe essere gay si spinge e sgomita per cercarsi uno spazio fra le braccia di mio fratello mentre Bushido lo tiene stretto da dietro strusciandosi contro di lui e Fler e Chakuza si danno alla pazza gioia baciandosi e spogliando contemporaneamente tutti gli altri, aiutati da una maestria che dimostra esperienza di un tipo che non sono certo di voler conoscere. E tutto questo qui, di fronte ai miei occhi.
- Ragazzi… - azzardo incerto, osservando il mio bicchiere di vino e allontanandolo con aria dubbiosa, sia mai il problema non sia negli appetiti sessuali ma nelle bevande, - non credete di stare un po’ esagerando? Siete tutti ubriachi e… - mi rispondono solo mugolii incomprensibili, che si protraggono a lungo come in una nenia.
- Shai qual è il tuo problema, Tooomi? – borbotta Bill, cadendo un po’ da un lato e un po’ dall’altro, sorretto dalle braccia malferme di Bushido che lo sistema esattamente nel mezzo fra il suo corpo e quello di Sido, mentre Fler e Chakuza si avvicinano, circondandolo ai lati con una serie di spaventose risatine compiaciute, - Che tu… non ti shai divertirrrre. – sentenzia mio fratello ridacchiando a propria volta e lasciandosi maneggiare come una bambola.
Io mi passo una mano sugli occhi, disperato. Dovrei fare qualcosa, tipo alzarmi, piantarmi in mezzo a tutti questi uomini concupiscenti e fuori di testa, prelevare mio fratello e portarlo il più lontano possibile da qui prima che abusino della sua persona…
- Oh, sì, A-Anis, così! – mugola Bill, allungando braccia e gambe a caso come se, oltre ad Anis, volesse inglobare dentro di sé pure tutti gli altri che lo stanno accarezzando baciando sfiorando ovunque in questo stesso momento. E lì io sospiro ancora, poso il vino e mi alzo in piedi diretto al piano di sopra, senza prelevare nessuno. Anche perché mi rendo conto che il piano originario, quello di salvare Bill prima che abusassero della sua persona, non posso più portarlo a termine: non sono più tanto sicuro di chi stia abusando di chi altri, in questo momento.
Le mie certezze ormai sono tutte sparite nel nulla. Non sono più sicuro di niente. Una cosa, comunque, la so: la prossima volta che Bill e Bushido mi invitano a cena, li mando tutti a fanculo senza nemmeno passare dal via.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- "Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo."
Note: Ma buongiorno *_*v Non ve l’aspettavate quasi più, uh? XD Mi rendo conto che vi ho costrette ad aspettare tantissimo e ciò è orrendo, ma spero che vi siate godute questa shot enorme – per quanto sia godibile, visto ciò che accade al suo interno… *riflette* …okay, credo che almeno una di voi se la sia goduta sufficientemente XD Comunque u.u Perdonate il mio Bimbo mentre sfiora nuove vette di perfezione dove non si credeva nemmeno che sarebbe stato possibile (ormai è oltre anche il concetto stesso di Gary Stu. Esiste un Gary Stu alla seconda o anche alla terza? Ecco). E insomma, per il resto, aspettatevi novità nel prossimo futuro: haters to the left, SE continua imperterrita u.u
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YOUR LOVE ALONE IS NOT ENOUGH

Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, David/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie."
Note: Perché serviva spiegare un po’ com’è che si siano mosse le cose al di là del triangolo Bu/Bill/Chaku XD E perché David mancava con amore a tutti noi (o almeno mi auguro o_ò A me sì, comunque XD).
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WHEN THE GOING GETS TOUGH THE TOUGH GET GOING

Le questioni di parruccheria e cosmetica, con Bill, non sono mai state un problema. Per ciò che riguarda se stesso e il proprio aspetto, Bill segue fondamentalmente due criteri base, sui quali poi si può creare di tutto ma che vanno seguiti scrupolosamente. Bill è molto più creativo di ciò che la gente immagina guardandolo, solo che il suo strumento non è davvero la voce: Bill utilizza se stesso, ed è per questo che lui e Bushido sono tanto simili; hanno praticamente lo stesso modo di approcciarsi alla vita, prendendola di petto, sentendola su ogni centimetro della propria pelle. Non per coraggio, ma perché il loro corpo è la loro unica arma e il loro unico scudo. Perciò, il corpo è una cosa sulla quale Bill sente di dover avere un enorme controllo, ma allo stesso tempo è fantasioso per ciò che riguarda il suo utilizzo. I cambiamenti, per lui, non sono mai stati momenti difficili, quanto più gli unici istanti in cui Bill sentisse di poter esprimere appieno tutto il proprio talento. Tutto il contrario di suo fratello, che invece è una persona molto più normale ed il proprio corpo lo usa solo per scopare, perciò, se trova uno stile in cui si sente a proprio agio e nel quale si trova piacevole, tende a cercare di preservarlo per evitare di avere problemi.
Comunque, i due criteri base sui quali si basano le concessioni che Bill fa a truccatori e stilisti quando gli lavorano addosso sono: che lo mantengano il più femminile possibile e che, in mancanza di una femminilità sfacciata, si impegnino almeno a mantenerlo bellissimo. Sono le uniche due cose che Bill pretenda davvero quando si lascia andare alle mani esperte dei professionisti. Femmina. Se non femmina, talmente bello che ad un maschio non deve importare del suo sesso. È su questo che Bill ha basato tutta la propria carriera ed è per questo che Bill è diventato famoso. Perciò è questo che Bill vuole, sempre e comunque. Non so perché Bill odi il genere umano al punto da desiderare così ardentemente di metterlo in difficoltà ogni volta che mostra pubblicamente il musetto, così è, comunque, ed è per questo che si mostra struccato e trasandato solo di fronte agli occhi di chi ama: sono le uniche persone che non sente il bisogno di mettere a disagio o in imbarazzo.
Il motivo per cui sto dicendo tutto questo è che sto cercando di spiegare anche a me stesso quanto sia stato difficile convincere Bill a sottoporsi al solito restyling preventivo in attesa dei frutti del lavoro di Bushido, quando invece non mi è mai capitato neanche che fosse necessario chiederla, a Bill, una cosa del genere. Faceva tutto parte dello stato di esaltazione in cui Bill entrava in modo del tutto naturale ogni volta che gli veniva annunciata la data di uscita del nuovo lavoro. Era anche il motivo per cui lavorava alacremente, cercando di non sbagliare e mettendocela tutta, finanche a sfinirsi: tutto in previsione del momento in cui sarebbe potuto tornare a lavorare nel suo ambiente favorito, non lo spazio piccolo e chiuso delle sale di registrazioni, ma gli ampi spazi aperti dei palchi e degli stadi di tutto il mondo.
A questo giro, niente del genere di è verificato. Ho spiegato a Bill tutto quello che questo singolo avrebbe comportato – apparizioni pubbliche, un tour, riarrangiamenti di vecchi lavori, collaborazioni, presenze ovunque su qualsiasi canale televisivo, tutte cose che fino ad un anno fa l’avrebbero reso felice da scoppiare, ma la sua reazione è stata così tragicamente apatica da togliere perfino a me la voglia di lavorare.
Non mi aspettavo, naturalmente, di vederlo saltare in aria in preda alla gioia, questo è ovvio. Anche un idiota capirebbe che, in questo periodo della sua esistenza, Bill preferirebbe anche trovarsi completamente da solo appollaiato sulla punta di un iceberg in scioglimento al Polo Nord, piuttosto che restare qui a rimbalzare da un lato all’altro di Berlino nel tentativo di sbrogliare la matassa che ha al posto del cervello. Però speravo che il lavoro riuscisse a distrarlo. Ancora di più, speravo che riuscissero a distrarlo le fasi precedenti al lavoro, che sono quelle che gli piacciono di più. Quelle, appunto, in cui si restaura. Quelle in cui può chiudere gli occhi e lasciare che le persone lo coccolino, lo plasmino e squittiscano soddisfatte mentre lo osservano diventare stupendo sotto le loro dita, prima di lasciarlo tornare a guardarsi ed osservarlo sorridere soddisfatto di se stesso, perché ancora una volta ce l’ha fatta, ancora una volta è diverso ed ancora una volta è bellissimo. Sono le fasi dei trucchi, delle pettinature sperimentali, dei massaggi, dello shopping sfrenato. Bill ci impazziva, dietro a queste cose, un anno fa. Non posso fare a meno di chiedermi quanto di lui sia morto assieme a Bushido, visto che ci sono pezzi di sé che Bill non è riuscito a recuperare nemmeno grazie a Chakuza.
Bill non si aspettava che sarebbe stato costretto a lavorare con Bushido. C’è stato un tempo – che sembra lontano secoli – in cui l’idea era effettivamente balenata nella mente dei capi, alla Universal. Allora Bushido era vivo, lui e Bill erano la coppia d’oro dello show business tedesco ed erano presi al punto che, pur di stare insieme, avrebbero accettato qualsiasi tipo di contratto lavorativo, a qualsiasi condizione, purché permettesse loro di passare insieme la maggior quantità di tempo possibile.
Alla Universal l’idea del duetto piaceva moltissimo, s’era parlato di inserirla nel primo album disponibile – il nuovo lavoro dei Tokio Hotel, quello che non è mai uscito, visto che per Heavy Metal Payback, che invece è uscito postumo, le registrazioni s’erano già concluse da un pezzo – si stava addirittura cominciando a stilare qualche linea guida del progetto, prima di sottoporla all’attenzione dei diretti interessati.
Poi Bushido è morto e la Universal ha scrollato le spalle pensando di poter guadagnare dall’evento perfino più di quanto avrebbe potuto guadagnare col duetto, perciò l’idea non è mai uscita dagli uffici degli amministratori e non se n’è più nemmeno parlato, neanche per scherzo.
Il ritorno in vita di Bushido, ovviamente, ha cambiato di nuovo all’improvviso tutte le carte in tavola. Ai vertici della Universal, io, la sparizione di Bushido non ho potuto venderla come una trovata pubblicitaria. È gente che ha fiuto, per queste cose, è gente che le conosce, che ne comprende appieno i tempi e i modi. La morte di Bushido non si è svolta né nei modi più corretti né nei tempi più consoni, non c’era la minima possibilità che io potessi dire una balla simile a gente di quel calibro senza che loro mi ridessero dietro e mi licenziassero pure. Perciò, per quanto la cosa potesse farmi girare le palle, ho dovuto sputarla fuori tutta, mettendomici anche in mezzo, parlando dei timori di Bushido, della sua preoccupazione per Bill e del lungo periodo che l’aveva portato a maturare quella decisione.
In cambio per la mia sincerità, ho ottenuto altrettanta sincerità. Non pietà, naturalmente – non c’era speranza che ci si facesse sfuggire una storia simile lasciandola cadere nel dimenticatoio e concedendo a Bushido l’anonimato che voleva – ma non sono stato deriso, non sono stato trattato con sufficienza anche se era palese che nel gruppo qualcuno avesse sbagliato – e quel qualcuno ero io – e, cosa ancora più importante, non sono stato mandato a fanculo, né sono stato privato del mio incarico coi Tokio Hotel o con Bushido stesso. Tra l’altro, il mio impegno con Bushido non era mai stato ufficiale, alla Universal non avrebbero impiegato più di un minuto per togliermelo dalle mani – non avrebbero avuto neanche bisogno di tirare fuori il contratto per mostrarmelo. Insomma, diciamo che, tutto sommato, la trattativa non è andata poi così male.
L’unica cosa che proprio non potevo aspettarmi, da questa trattativa, è che fosse alla pari. Che fosse uno scambio. Quando firmi per una major, guadagni in fama, guadagni in denaro e guadagni anche in soddisfazione, ma perdi irrimediabilmente un pezzo molto consistente della tua indipendenza. Cose come “l’ultima parola sul proprio lavoro” diventano nient’altro che vecchi ricordi, perché neanche al più famoso dei gruppi viene mai consentito di uscire sul mercato se ciò che ha prodotto non è perfetto per l’etichetta, più che per il gruppo stesso.
Questo ragionamento Bushido lo conosce. Perché di fare il salto da indie e major l’ha deciso lui, e quando l’ha fatto sapeva esattamente dove stava andando e come e perché lo stava facendo. Perciò Bushido l’ha sempre saputo che, tornando allo scoperto, il momento delle pretese sarebbe arrivato.
Bill, invece, è sotto contratto da quando aveva quindici anni. Bushido sapeva quantificare ciò che stava perdendo in libertà proprio perché quella libertà, prima di firmare con la Universal, l’aveva vissuta pienamente. Bill no. Bill non ha mai vissuto in una realtà diversa da questa, e non ha mai vissuto nemmeno in una realtà in cui non sa dove andare a sbattere la testa perché ovunque sbatta fa troppo male per poterlo tollerare. Perciò non si aspettava che io arrivassi con la mia bella cartellina portandogli nuovo lavoro da fare. Si aspettava che le due realtà – la major e Bushido di nuovo in vita – non si incontrassero mai. Si aspettava una pausa, si aspettava che il resto del mondo in cui ha vissuto fino ad adesso fosse disorientato da quello che è accaduto esattamente come lui.
Non era preparato alle pretese. Non sapeva che sarebbero arrivate. Ed io non ho mai avuto il tempo né il modo di parlargliene, prima. Perciò il suo sguardo smarrito non mi ha stupito. Rattristato, sfiduciato, incupito. Ma non stupito. Bill è decisamente troppo piccolo, per tutto questo. Crescerà in un colpo, o finirà schiacciato dagli uomini troppo adulti che si è sempre ritrovato ad amare.
Ciò che Bill non ha mai tenuto in considerazione, nell’ultimo anno, nonostante sia uno che all’opinione della gente ci tiene eccome, è appunto cosa pensassero le persone di tutto quello che vedevano o sentivano. Nel corso di quest’ultimo anno, a Bill sono stati attribuiti flirt con chiunque gli gravitasse intorno, e perfino con tutta una serie di persone che invece col suo entourage non avevano niente a che fare. Questo perché la stampa scandalistica è un essere vivente e, in quanto tale, ha bisogno di nutrirsi. Il suo cibo è il pettegolezzo. Niente di diverso. Il lutto è stato un argomento di discussione valido per la stampa per un tempo addirittura minore di quanto non lo sia stato per Bill. Dopodiché i giornalisti hanno cominciato a pensare fosse assurdo che questo ragazzino ancora nel fiore degli anni non si concedesse, di tanto in tanto, qualche piccola scappatella. E si sono messi in moto per trovargliene una.
L’unico motivo per il quale non sono mai riusciti a dimostrare niente è che, in effetti, Bill di scappatelle non se n’è concessa nemmeno una. È passato dalla stretta asfissiante del proprio cordoglio a quella morbida e rassicurante di Chakuza, senza mai uscire allo scoperto con qualcosa di diverso. Per dirla in termini chiari, è stato come se fosse passato da una casa all’altra attraversando un sottopassaggio che le collegava. I giornalisti non lo hanno mai visto andar fuori con nessuno, e quando si è trattato di Chakuza è stato mio dovere coprirlo perché la loro storia restasse confinata in quella casa in cui Bill era passato, senza mai attraversare la porta principale ed uscire allo scoperto. Io non fallisco mai, quando mi si dà un incarico del genere. Deve ancora nascere il paparazzo che riuscirà a fregarmi.
Il risultato di tutto ciò, comunque – un risultato cui Bill non aveva dato la minima importanza, perché sì, per lui l’opinione della gente è importante, ma ogni singolo essere umano esistente al mondo è comunque scavalcato da se stesso, nella lista delle priorità – è che le illazioni dei giornalisti, dalla quasi totalità dell’universo intero, sono state prese, appunto, per semplici illazioni. Niente di diverso. E Bill è diventato una specie di vergine di ferro. Per i romantici, un ragazzino triste che non riusciva a liberarsi del fantasma del primo ed unico uomo avesse mai amato; per tutti gli altri, uno che, dopo aver capito quanti soldi poteva fare mostrandosi in giro al fianco di Bushido, ora aveva capito anche che poteva farne molti di più senza mostrarsi al fianco di nessuno. In entrambi i casi, per l’opinione pubblica, durante tutto quest’ultimo anno, Bill non ha mai combinato niente. Mai. Con nessuno.
Ecco perché, nel momento esatto in cui l’opinione pubblica è venuta a sapere della resurrezione di Bushido – pubblicizzata né più e né meno che con le armi che io stesso avevo fornito alla Universal, lasciando che i giornalisti raccontassero della dura vita del ghetto e di un uomo che non ci viveva più ma che, per quanto fosse andato lontano, non era mai riuscito a liberarsene – dopo il momento di smarrimento iniziale, dopo lo sgomento, dopo la realizzazione, dopo le risate per sdrammatizzare e cercare di tirare su milioni di fan che, per quella morte, avevano sofferto genuinamente, è venuta l’ora di pensare a Bill. E Bill, per tutti, era ancora la vedova sofferente di un anno prima.
Delle indagini di mercato che la Universal ha chiesto per organizzare un piano pubblicitario degno di questo nome e dell’evento che il ritorno di Bushido in Germania era, sono stato incaricato io. La Universal mi ha fornito un team di psicologi, sociologi e statistici e mi ha detto di tornare con dei numeri e delle percentuali ragionate. E quelle, naturalmente, non si sono fatte attendere. Ed erano sempre uguali. La gente li rivoleva insieme. Era la favola più romantica dell’ultimo decennio, più di Lady Diana, più di Carlo e Camilla, più di Letizia e Felipe di Spagna, più di chiunque altro.
Avessi dovuto sbrigarmela da solo, andando d’intuito e di supposizioni come ho fatto quando i Tokio Hotel li ho messi sotto contratto, quelli che sembrano milioni di anni fa, avrei raggiunto le stesse conclusioni di questo gruppo di studio, con la differenza che avrei potuto mentire al riguardo. Sarebbe stato pericoloso e folle e probabilmente mi sarebbe costato il posto di lavoro, ma avrei potuto farlo. A queste condizioni, circondato da gente pronta a parlare anche per cifre irrisorie, non potevo trattenere niente. E quindi il mio responso per la Universal è stato molto semplice e molto chiaro: se c’è qualcosa da organizzare, è fra Bill e Bushido che va organizzata.
Ed è fra Bill e Bushido che la organizzano, in effetti. Studiandola fin nel minimo dettaglio, la collaborazione, la promozione, il video, il packaging, un abbozzo di tour ed un mellifluo “stiamo a vedere come si evolve la cosa, prima di optare per qualcosa di più specifico”, come già questo non fosse specifico abbastanza. Ed è toccato a me andare da Bill ed osservarlo nel pieno della sua confusione mentale, per poi ricordargli che è ora di alzarsi e ricominciare a fare il proprio dovere. Che la sua vita non passa solo attraverso le mani dei due uomini che ha amato ed ama ancora, che la sua vita è qualcosa di più grande, che non appartiene a lui ma ad altri milioni di persone. Che l’ha venduta, la sua vita. “Solo quella pubblica”, mi dice lui, ed io annuisco perché è vero, ma gli ricordo anche che se si rifiuta di mostrarla ancora, quella vita pubblica, la gente comincerà a pretendere il privato. Bill ribatte che la gente lo sta già facendo ed io rispondo che non ha nemmeno idea di cosa possono arrivare a pretendere ancora da lui. Rispondo che il fatto sia ancora una stellina sulla cresta dell’onda non lo salva dal rischio di diventare una stellina che l’onda la guarda dal basso, ed alla quale non resta che lasciarsene travolgere. Gli rispondo che non ha idea di cosa ancora possano arrivare a chiedergli i grandi capi, non ha idea di che lavori umilianti siano costretti a fare i dimenticati dal mondo, per tirare su qualche spicciolo. Cantare alle sagre di paese, presenziare alle feste di compleanno dei ricchi rampolli della borghesia tedesca, è questo che vuoi, Bill? È questo che vuoi? No che non lo vuoi. Per cui non costringermi a ripetermi, Bill, alza il culo, oggi si comincia il restauro.
Morale della favola, per convincere Bill a muoversi non sono bastate le minacce, non sono bastati i rimbrotti, non è bastata la razionalità e suppongo non sarebbe bastata nemmeno una richiesta di Bushido o Chakuza in persona – figurarsi quella di un tizio a caso dalle alte sfere della Universal. Ho dovuto costringere al restauro anche Tom, pure se dall’etichetta per i Tokio Hotel adesso non hanno in programma niente. Se la cosa dovesse muoversi bene, è probabile che anche loro saranno coinvolti nel tour, ma per adesso è tutto molto vago e fumoso ed io preferisco di gran lunga non parlarne né con Tom né con Georg o con Gustav, perché Tom è già abbastanza esasperato dalla situazione e gli altri due ne sono già abbastanza infastiditi, senza che peraltro vedano il minimo motivo per sentirsene coinvolti. Posso capirli: un conto è dover faticare ed irritarsi per qualcosa che si sente come propria, per la quale ci si sente in diritto e in dovere di combattere – ed è quello che sta facendo Tom; un altro conto è osservare una situazione dall’esterno, detestarla già così e dover fronteggiare il rischio di sentircisi catapultati dentro senza la benché minima voglia.
Ciò che ho adesso per le mani, comunque, sono due ragazzini confusi e storditi, esattamente come prima, ma con due acconciature diverse. Non un gran guadagno, ma alla Universal sembra bastare. Almeno, è stato abbastanza per contattare Bushido e sottoporgli un ultimatum molto chiaro – ci diamo una mossa con una nuova canzone, o ce la diamo noi per te, una richiesta di fronte alla quale, lo sapevo, Bushido non poteva che cedere – e, subito dopo, contattare me e chiedermi gentilmente ma fermamente di cominciare a muovermi per un video.
Un video.
Confesso che, quando mi è piovuta la richiesta per telefono, fra capo e collo, un po’ m’è venuto da ridere. Finché si trattava di registrare e mandare il singolo in giro per radio, la cosa non era esageratamente problematica. Problematica sì, assolutamente, ma non era la fine del mondo. Ma un video. Un video. Prendere questi tre uomini ed i loro rispettivi entourage e costringerli insieme in un determinato posto. Follia.
Inutile dire che anche l’idea per il video è partita come suggerimento spassionato dagli uffici dei grandi capi. Naturalmente senza specifiche di alcun tipo, ma nel momento in cui ti senti dire “trova qualcuno che faccia al caso nostro, Jost”, e fino a due minuti prima s’è parlato di come sfruttare adeguatamente l’idea di Bill e Bushido come coppia reale dello showbiz tedesco, ancora viva nei cuori di migliaia di fan, chiaro che la prima cosa cui si pensa è portare il testo ad un regista con una certa passione per un determinato tipo di video, uno che sappia come sfruttare la chimica fra due persone, uno che capisca come funzionino queste relazioni, uno che sappia buttarle giù con uno storyboard spendibile sul mercato e tutto il resto.
Uno come Hans, insomma. Non avevo molta scelta.
Io ed Hans ci conosciamo da una vita. Ci siamo incontrati quando io ancora cantavo nei Bed & Breakfast, durante le riprese del video di Get It Right. Allora era appena uscito dall’accademia delle belle arti e non era che un ragazzino un po’ confuso che Herr Winkler aveva assunto da poco e maltrattava, da bravo regista ultracinquantenne con decenni di esperienza nel campo dei video delle boyband. Non ricordo bene com’è che facemmo amicizia, in realtà credo sia successo perché Hans aveva la brutta abitudine di lamentarsi sempre e comunque di qualsiasi cosa, era molto piagnucoloso – non che abbia mai smesso di esserlo – ed allora io ero un tipo dal cuore molto tenero che da queste cose si faceva prendere facilmente, perciò ci caddi con tutte le scarpe e finimmo per avvicinarci parecchio, anche se mai oltre un determinato limite – Hans è troppo checca perfino per il sottoscritto. Non che questo mi porti a volergli meno bene, ma a non desiderarlo sdraiato al mio fianco su un materasso sì, eccome.
Comunque sia, quando ho capito cos’è che volevano quelli della Universal da me, da Bill, da Bushido e da questa produzione, non ho esitato a contattare Hans. Perché è uno che sa il fatto proprio – almeno adesso – perché è bravo, perché sa lavorare e perché è un rompiballe. Che può sembrare una caratteristica poco meritoria, ma lo diventa improvvisamente tantissimo nel momento in cui si deve avere a che fare con gente ancora più rompiballe.
Nel caso di specie, Bushido.
Ora, ci tengo che non si pensi che il mio giudizio su Bushido sia falsato da ciò che provo per lui. D’altronde, puoi provare più o meno qualsiasi tipo di sentimento per un’altra persona, senza che questo oscuri la tua capacità di vederlo per ciò che è. Anzi, spesso è il contrario: quando provi qualcosa di più profondo per qualcuno è proprio perché l’hai visto in ogni sua sfaccettatura – anche le peggiori – e sei riuscito a dirti non che ti piacciono anche quelle – una cosa del genere è buona solo a riempire le bocche dei romantici, ma non può corrispondere alla realtà, non c’è verso per cui una persona sana di mente possa coscientemente amare un difetto – ma che puoi sopportarle, in favore di tutto il resto.
Quindi io lo so che Bushido è un rompiballe. Lo è per un miliardo di cose diverse, peraltro. Lo è per ciò che riguarda se stesso, lo è per ciò che riguarda la sua immensa e variopinta corte e lo è anche nei confronti di tutto il resto del mondo, perché quell’uomo è davvero fermamente convinto che, potesse mettere le mani su tutto l’intero orbe terracqueo per governarlo, sarebbe in grado di fare un lavoro splendido. Perciò tutto deve girare nel verso da lui prestabilito. È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie. C’è poco da fare, quando uno vuole avere un controllo simile su tutto ciò che lo circonda. Non puoi non concederglielo, ed allo stesso tempo non puoi non limitarlo. Perciò io avevo bisogno di Hans. Avevo bisogno di qualcuno che fosse rompiballe tanto quanto lui, perché almeno ci fosse qualcuno pronto a litigarci, con Bushido, per costringerlo a vedere galassie diverse dalla propria. Per ricordargli che non è Dio ma un impiegato, e come tale deve lavorare.
Bushido, al momento, non è il maggiore dei miei problemi ma indubbiamente è un problema. Non può non esserlo anche quando non me lo trovo sotto gli occhi, perché anche quando non è con me, o io non sono con lui, in alcun modo posso dimenticare che al momento Bill e Chakuza stanno praticamente insieme e lui è praticamente solo. C’è una netta differenza fra ciò che il mondo sa – perché è ufficiale – e ciò che invece è vero e sappiamo solo noi. Il mondo sa che fra Bill e Bushido le cose sono tranquille – magari immaginano non siano più come un tempo, ma niente oltre a questo – non sa che Bill, quando dorme, dorme con Chakuza. E non sa che Bushido dorme solo in casa propria, con la compagnia di Fler in una stanza degli ospiti a caso, quando va bene. Ciò che è reale è questo. È ciò con cui dobbiamo fare i conti. Nessun altro oltre noi fa i conti con questo tipo di realtà, per il resto del mondo non esiste. Eppure è tanto vera che non ci si dorme la notte.
Mi sollevo dalla poltrona sulla quale sono stato affossato fino ad ora, poggiando il portatile bollente sul tavolino basso di fronte a me, e mi sgranchisco le gambe e le braccia, stendendo la schiena e mugolando soddisfatto quando sento le ossa crocchiare, i muscoli sciogliersi e i tendini riacquistare una parvenza di elasticità. Lancio una veloce occhiata all’orologio a muro: sono le undici ed io posso ragionevolmente dire di aver fatto quanto dovevo, per oggi. Il singolo è entrato in decima posizione nella classifica dei più venduti della settimana, e contando l’incertezza delle masse, in questo momento, è un risultato più che soddisfacente. Sarebbe qualcosa di cui gioire, se il gruppo per il quale lavoro fosse disposto alla gioia. Così non è, perciò la prendo come una gratificazione personale neanche tanto desiderata e mi chino ad arrestare il sistema, attendendo che il computer si spenga per chiuderlo e cominciare a prepararmi per andare a dormire.
Naturalmente c’è chi ha deciso che non posso. Potrei dare la colpa al buon Dio nel quale non è che abbia mai creduto, in realtà, ma visto che posso dare la colpa al suo più bravo imitatore qui sulla terra è nei confronti di Bushido che ringhio, nel momento esatto in cui rispondo al citofono e lo vedo apparire sul monitor, che guarda dritto in camera, come a ricambiarmi lo sguardo che gli sto lanciando io.
- Che sorpresa. – sbotto acido. Lui grugnisce qualcosa che somiglia a un “apri” ed io obbedisco roteando gli occhi e lasciandogli la porta aperta mentre torno in salotto e mi abbatto esausto contro il divano, preparandomi a quella che sarà sicuramente una discussione sfiancante. Semplicemente perché Bushido non viene a cercarti se non ha qualcosa da dirti, e non ha niente da dire che non sia sfiancante.
Appare sulla soglia della mia porta in jeans e maglietta, come si fosse appena alzato dal letto e si fosse messo addosso le prime cose trovate in giro per casa. Anche le infradito che porta sembrano ciabatte da casa, e nel complesso è molto buffo perché ha i capelli arruffati e si è appena sprecato a raccoglierli in una cosa disordinata, col risultato che un sacco di ciocche sono sfuggite all’elastico nero e sottile e ora gli incorniciano il viso, scendendo scurissime lungo gli zigomi, arricciandosi appena in punta.
È quasi illegalmente bello ed io distolgo lo sguardo.
Lui comunque non sembra della disposizione d’animo di venirmi incontro mentre mentalmente lo imploro di non essere, solo per una sera, se stesso. Perché quando è se stesso io non ragiono, ed in questo periodo ho bisogno di molta lucidità. E invece niente, Bushido non mi ascolta o non vuole farlo, e continua ad essere tragicamente se stesso mentre si lascia andare sulla poltrona al mio fianco e sospira pesantemente, il petto che si alza e si abbassa sotto il cotone sottilissimo della maglietta. È vecchia e usurata, attraverso le maglie un po’ slabbrate si intuisce il colore della sua pelle.
- Niente sonno? – chiedo fingendo disinteresse, sistemandomi sul divano in modo da poterlo guardare senza dovermi necessariamente voltare per farlo.
- No. – scuote il capo lui, guardando invece un punto a caso fra l’enorme vuoto che ha dentro il cervello e quello altrettanto grande che lo circonda. – Ho pensato di passare a vedere se eri sveglio.
Scrollo le spalle.
- Lo sono, come vedi. Ora, visto che è tardi e sono stanco, se-
- Tu non sei stato per niente un bravo collaboratore, David.
Spalanco gli occhi e non posso proprio, davvero, fare a meno di guardarlo. Perché tu, Bushido, non puoi dirmela una cosa simile. Io ho messo in gioco affetti, culo e credibilità, per te. Tu non puoi dirmi una cosa simile.
- Che intendi? – chiedo, glaciale. Ma perfino il mio astio si smorza quando lui solleva gli occhi nei miei ed io dentro ci vedo tanta di quella tristezza che una morsa mi stringe il petto e mi mozza il respiro, comprimendo la cassa toracica con tanta forza che mi sento mancare. Bushido era un uomo del quale si potevano dire moltissime cose, ma che fosse un entusiasta era indubbio. Perché era abituato a guadagnarsi ciò che possedeva, conosceva il brivido della lotta e del fare di tutto per ottenere qualcosa, ogni giorno era una sfida perché ogni giorno c’era qualcosa da rendere proprio o da mantenere tale. Nei suoi occhi adesso c’è solo un uomo che ha perso tutto e non sa né come riprenderselo, né se valga la pena tentare. E quindi forse è vero, Bushido. Forse non sono stato per niente un bravo collaboratore.
- Io credo che avrei fatto meglio a restare a Miami. – lo dice con una certa serenità, come non avesse fatto altro che pensarci per le ultime ore e questa fosse la naturale conclusione del suo naturale ragionamento, cosa che in effetti è anche possibile, considerata la situazione attuale. – Probabilmente, se avessi saputo che Bill era ancora nel giro ma era felice con qualcun altro… - si interrompe un attimo e si morde un labbro, esitando appena. Poi riprende, - Non ci sarebbe stato bisogno di dirmi che era Chakuza. Quello probabilmente non avrei voluto saperlo. Ma se avessi saputo che era semplicemente okay, non sarei tornato. Avrei trovato un altro modo, credo. L’Ersguterjunge è importante, ma guarda cosa ho fatto a Bill. E lui lo era di più, questa è una certezza. Eppure gli ho distrutto la vita, due volte, e non riesco a fermarmi. Continuo a farlo ogni volta che lo vedo. – lo sguardo è di nuovo fisso nel vuoto, sta ragionando fra sé. È insolitamente calmo, e questo vuol dire che sta insolitamente male.
Credo sia una cosa che succede spesso a chi ha la pretesa di gestire le vite altrui come fossero la propria, come fa Bushido. Quando gestisci la tua vita sai cosa aspettarti da te stesso. Se prendi una decisione, sai che gesti far seguire a quel pensiero. Se succede qualcosa, sai di chi è la responsabilità e puoi muoverti nella maniera più opportuna.
Gestire le vite degli altri non è impossibile. Solo che non puoi farlo come fossero pezzi di te stesso. È molto più complicato di così. Devi tenere ben presenti le differenze che separano ogni essere umano dall’altro, perché è solo grazie a quelle – grazie ai piccoli particolari che distinguono le persone – che puoi provare ad immaginare le loro reazioni ad una determinata decisione o ad un determinato evento. Bushido gestisce benissimo se stesso, ma dimentica di tenere a mente i particolari quando prova a gestire gli altri. Perciò, quando la vita gli ricorda che no, per quanto gli piaccia immaginare chi ama come un pezzo di se stesso, quelle persone comunque non lo sono, lui è sempre un po’ stupito, dalla cosa. Potranno passare anni, ma immagino sarà sempre così. Ora lui è qui che parla di Bill che si rifà una vita, di Bill che soffre nel vederlo tornare, di Bill che non sa più chi scegliere fra lui e Chakuza, e lo fa con rassegnazione, ma è una rassegnazione stupita e poco convinta. Perché non se l’aspettava e non riesce ad ammettere che al mondo possano succedere anche cose come queste. Cose che lui non ha previsto.
- Cos’è che dovrei dirti? – chiedo con un mezzo sospiro, massaggiandomi una tempia, - Hai ragione. Avrei dovuto dirtelo. Non l’ho fatto e se fossi stato più chiaro probabilmente tutto sarebbe andato in maniera diversa. Quindi cosa devo fare, adesso? Chiedere scusa?
Bushido resta in silenzio per un po’, prima di rispondermi.
- No. – dice alla fine, - No, non credo di volere le tue scuse. – si stira indietro contro lo schienale della poltrona, poggiando le braccia sui braccioli e continuando a guardare davanti a sé. – “Scusa” è solo una parola, in fondo. Sentirla o meno non mi cambia l’esistenza. Penso che le scuse andrebbero fatte solo quando possono servire a qualcosa. Salvare un rapporto o ricucire qualcosa che si è strappato. – mi guarda con un paio d’occhi indecifrabili, - Non credo che tu debba chiedermi scusa perché non ce l’ho con te e fra noi non è cambiato niente. Credo anche che sentirti in colpa, da parte tua, sarebbe molto stupido. Ci sono cose – continua con un sospiro, - che è difficile o impossibile prevedere. – e poi ghigna, - Se pretendessi delle scuse da te, dovrei pretenderle anche da me stesso. E non è così.
Ghigno un po’, scuotendo il capo.
- Figurarsi. – lo prendo in giro, - Il solo concetto è impensabile.
Lui ride di cuore, spalmandosi contro lo schienale della poltrona e scrollando le spalle. La sua espressione non cambia anche quando riprende a parlare, è sempre fissa nel vuoto ed ancora sorride, fa un po’ paura perché a vederlo così sereno si fatica ad intuire la tempesta che gli passa negli occhi.
- Sto facendo un casino dietro l’altro. – mi informa, come non lo sapessi già, - Patrick vive praticamente con me. Ed è strano, ed io non gli sto parlando come dovrei. C’è qualcosa che mi nasconde ed io non sto insistendo per farmela dire. – aggrotta un po’ le sopracciglia, pensieroso, - C’è qualcosa che vuole dirmi, sta solo aspettando che glielo chieda. E non glielo sto chiedendo, non voglio chiederglielo. – sospira, massaggiandosi la fronte, - Sto facendo così anche con Bill. Bill sta cercando di dirmi qualcosa ed io non glielo sto lasciando fare.
Traggo un respiro profondissimo, grattandomi distrattamente la nuca.
- Evidentemente non sei ancora pronto. – butto lì, scrollando le spalle. E Bushido lascia andare una risata piccolissima.
- Ho trentun anni. – mi fa notare, - Non c’è niente cui io non sia pronto. Se c’è qualcosa alla quale non sono pronto, vuol dire che sono cresciuto male. O non sono cresciuto abbastanza. Ed io non sono niente di queste due cose. Quindi, qualsiasi cosa sia quello che sto cercando di impedire a tutti voi di non-dire… dovrò accettarla e basta, penso. E decidere per conto mio.
- Continui a ripetere sempre gli stessi errori. – ringhio un po’, spostandomi a disagio sul divano, - Tu non stai impedendo niente a nessuno. Vola basso, Bushido, sei importante ma non sei il cazzo di creatore. Se Fler avesse voluto dirti qualcosa, pensi davvero che avrebbe aspettato una tua domanda? Se Bill volesse davvero dirti qualcosa, pensi che aspetterebbe placidamente che sia tu a lasciarlo parlare? L’aria di Miami ti ha stordito, o quello che è tornato in Germania non è più Anis, ma Tarek, perché ti ostini a dimenticare che siamo esseri umani, non marionette, e in quanto tali facciamo il cazzo che vogliamo, Bushido. Se Fler e Bill non ti stanno dicendo niente, vuol dire che non credono tu abbia il diritto o il dovere di sapere. È così che pensano le persone normali, Bushido. “Non lo so? Non me l’hanno voluto dire”. Non “Non lo so? Sto impedendo loro di dirlo.” Chiaro?
- Io non sono una persona normale. – ribatte lui, guardandomi dritto negli occhi.
- Lo sei! – mi agito io, battendo un pugno contro il bracciolo del divano, - Lo sei, Cristo santo, non sei davvero immortale, tu sei morto, Bushido!
- Non sono morto! – urla, alzandosi in piedi. Mi alzo a mia volta. Non che questo mi aiuti a fronteggiarlo da pari, ma almeno non è come continuare a guardarlo da seduto.
- Lo sei, Bushido! – sbotto gesticolando, - Respiri, il tuo cuore batte e rompi ancora i coglioni all’universo creato, ma tu sei morto! Sei un fantasma! E non sei più quello che eri due anni fa, devi venirci a patti!
Ed è così che mi ritrovo a sbattere contro il muro alle mie spalle, l’avambraccio di Bushido pressato contro il collo ed un dolore sordo che parte dalla base della schiena diffondendosi lungo tutta la spina dorsale, mentre respiro a fatica sotto la pressione del suo peso sul mio corpo.
- Io non sono morto. – ringhia a due centimetri dal mio viso, - È l’unica cosa che dovete davvero ficcarvi in testa, tutti quanti, e sulla quale non transigo. Io sono vivo, Jost. Sono vivo. Non sono un fottuto fantasma, sono vivo, cazzo.
Non rispondo perché non saprei che dirgli e perché non ho abbastanza fiato per farlo. In realtà dovrei dirgli che dargli del morto è inesatto tanto quanto dargli del vivo. Bushido è un uomo in bilico. Una parte di ciò che siamo muore giorno dopo giorno, questo è inevitabile. Con ogni persona cui diciamo addio, ogni posto che smettiamo di frequentare, ogni abitudine sulla quale smettiamo di insistere, va via un pezzo più o meno consistente della nostra esistenza. Quel pezzo muore, è irrecuperabile, ed è anche il motivo per cui siamo sempre persone diverse in qualsiasi momento della nostra vita ci si guardi.
Con Bushido, però, la cosa è ben più complicata. Non è un’abitudine, quella che lui ha ammazzato. Non è una frequentazione sporadica, non è una questione di conoscenza marginale o occasionale. Lui ha preso ciò che era, tutto, intero, completo, ci ha aggiunto ciò che era stato fino a quel momento, ed è quello ciò che lui ha ucciso. C’è un limite rispetto a quanto puoi uccidere di te stesso prima di ucciderti del tutto, e lui quel limite l’ha travalicato come travalica ogni limite gli si ponga davanti, perché – assoluto per com’è – doveva esserlo anche morendo. E quindi no, Bushido, tu non sei vivo. Forse non sei nemmeno morto, ma vivo non lo sei di sicuro, perché hai sacrificato troppo per esserlo ancora. Una persona può sacrificare un rene, può sacrificare un polmone, parti di stomaco o di intestino, parti di fegato, qualsiasi cosa. Ma prendere un cuore, asportarlo per intero e pretendere che un corpo continui a vivere è impensabile. Bushido non ha davvero una misura di ciò che ha fatto. E qualcuno dovrebbe dargliela.
Solo che io non sono capace. Perciò resto in silenzio e non riesco neanche a reggergli lo sguardo. Quando mi vede evitare i suoi occhi, mi lascia andare. Io scivolo un po’ contro la parete e fatico a reggermi sulle gambe, mentre mi massaggio distrattamente il collo indolenzito.
- Io non capisco cosa pretendi, Bushido. – dico sfiduciato, sospirando pesantemente, - Cos’è che vuoi? Che la vita riprenda il suo corso a partire dal momento esatto in cui sei andato via? O da qualche giorno prima, così da risparmiarci la visione del tuo corpo in un lago di sangue?
Stringe le labbra finché diventano due linee sottilissime, e lo vedo perché torno a guardarlo. Perché sono triste, per lui e per tutti, e non so cosa fare. Per la prima volta non ho idea di come risolvere questa situazione. Forse avevi torto, Bushido, forse avevamo torto entrambi. Non sono così bravo a sistemare le cose. Nemmeno quando serve.
- Io non so cosa dirti. – esalo alla fine, allargando arreso le braccia, - Non posso ridarti quello che hai perso, non può ridartelo nessuno. Non può ridartelo nemmeno Bill. Tu non hai perso solo lui, lo capisci questo? Te ne rendi conto?
Stavolta lo sguardo lo abbassa lui. Non muove un passo ma solleva una mano a coprirsi gli occhi. Osservo il movimento farsi sempre più stanco mentre massaggia la fronte e poi scivola fra i capelli, districandone nodi inesistenti e ravviandoli all’indietro, liberandoli dall’elastico e trattiene fra due dita e col quale comincia distrattamente a giocare, prima di tornare a guardarmi.
- Io non so cosa devo fare, David. – dice con sincerità così eccessiva da risultare dolorosa, - Io ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare qui e adesso. Perché se tu non mi dici cosa devo fare della mia vita in questo preciso istante, penso che ne farò brandelli e la butterò nel canale, al suo posto.
Io sospiro, perché quest’uomo non è veramente gestibile. Continua a mettere la sua vita nelle mie mani, quando le mie mani sono l’ultimo posto in cui dovrebbe stare.
- Lo ami ancora? – chiedo a bassa voce, e lui lascia andare una mezza risata amara.
- Non fosse stato così, non sarei tornato. – ammette senza neanche pensarci su.
Io scrollo le spalle e sistemo la maglietta un po’ stropicciata.
- E allora ti sei risposto da solo. Sai già cosa fare. – lo osservo sbuffare un sorriso incerto, abbassando appena lo sguardo, e mi affretto a precisare, - E se interpreti quello che ti ho appena detto come “smetti di combattere e tornatene a Miami”, allora non hai palle.
Bushido ride e ride davvero, stavolta. Scuote lievemente il capo mentre ravvia i capelli fra le mani e li stringe in una coda piccola e alta dietro la testa, decisamente più ordinati rispetto a quanto non fossero quando è arrivato.
- Tu meriteresti di essere massacrato a legnate, Jost. – annuisce simulando serietà e ficcandosi le mani in tasca, - Ad ogni modo, grazie.
Sbuffo scrollando le spalle.
- Non ringraziare. Sono andato in vacanza alle Bahamas due volte, coi soldi che mi hai lasciato andandotene.
Ride ancora un po’, allontanandosi verso la porta dandomi le spalle e salutandomi con due dita, senza più guardarmi. Resto solo meno di due minuti dopo, ho come l’impressione di avere riaperto qualcosa che stava per chiudersi e non sono sicuro che qualcuno mi ringrazierà per questo. Non sono sicuro neanche che io stesso mi ringrazierò per questo, e peggio ancora non sono per nulla sicuro che lo farà Bushido.
Il portatile è spento, ma io non ho più sonno. Passerò la nottata a giocare a Free Cell.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Language, Lime, Slash.
- "Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima."
Note: Questo, signore care, è il Billshido di Schmetterlingseffekt. Vorrei poter stare qui le ore a parlarne, perché il rapporto che si instaura fra loro in questa shot mi manda fuori di testa per ragioni incomprensibili <3 Ma sono tornata tardi da lavoro – checché se ne dica, ho una vita, come tutti XD – ed ho una figlia che attende questo capitolo con trepidazione. Cercate solo di comprenderli, non sono stronzi, solo pazzi XD
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MEIN REVIER

La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo."
Note: Io vorrei dire, a proposito di questa shot, che è evidente che per seguire EKR serve una grande dose si umanità e pazienza, nonché parecchio cuore. In assenza di queste qualità è ovvio che non si capisca niente di ciò che provano i personaggi ed è anche ovvio, credo, volerli sbranare ad uno ad uno. Io spero che voi possiate trovare dentro voi stessi un po’ di quella comprensione umana che serve per star dietro a della gente che, per un motivo o per l’altro, soffre. Altrimenti, lasciatevi pure andare al bashing, prometto che non vi fermerò XD
Comunque, adesso sapete in che termini s’è svolto il Dashido. Adesso, se proprio volete, potete paragonarlo al Bikuza e decidere chi ha più colpe e chi ne ha di meno. O rassegnarvi magari al fatto che nessuno ne abbia XD A voi la scelta. David la sua l’ha detta, e Bushido anche.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NIE WIEDER

Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo. Intorno a me la gente si muove frenetica trascinando borsoni e sacchetti di plastica, sorridono quasi tutti. Partire per Miami, d’altronde, è una cosa che in genere rende allegri. È un bel posto per una vacanza ed è un bel posto anche per gli incontri lavorativi, come dimostrano i numerosi uomini d’affari che si ritagliano un po’ di spazio fra una famiglia e l’altra, avvolti nei loro completi gessati e in compagnia delle loro onnipresenti ventiquattrore. Io forse avrei potuto essere una persona così, una persona che va in giro in gessato e ventiquattrore. Forse potrei esserlo anche adesso, il mio mestiere non me lo vieterebbe, e forse è proprio perché non voglio che invece mi ostino ad andare in giro in jeans, maglietta e giacca di pelle, quando le circostanze non mi obbligano all’abito formale – ed anche lì, in genere, riesco comunque a piegarle al mio volere, le circostanze.
In sostanza sembro un pesce fuor d’acqua in mezzo a tutta questa gente che si muove inequivocabilmente o per turismo o per lavoro. Io perché mi muovo? A guardarmi non lo si saprebbe dire, ho con me solo uno zaino. Se mi guardassi da fuori, non saprei indovinarlo, il perché della mia partenza. In realtà ho difficoltà a capirlo anche guardandomi da dentro. Questo è un po’ un problema, ma penso me ne occuperò a tempo debito – cioè quando sarò già arrivato, perché trovare una risposta a questo perché potrebbe essere sufficiente a costringermi a rimanere qui, e nonostante tutto non voglio farlo. Anche se non so perché sto partendo, voglio partire lo stesso.
Oggi è il ventotto settembre. Quando, stamattina, ho chiamato Tom, per assicurarmi che fosse tutto a posto, attraverso la cornetta e sotto la voce agitata del mio stupido chitarrista preoccupato ho sentito il flusso persistente delle lacrime di Bill venare l’aria in un lamento continuo e regolare, ed ho sospirato.
Io penso che Bushido sia entrato dentro Bill fino ad impossessarsi di ogni singola cellula del suo corpo. Ci sono molti modi di sentire la mancanza di una persona e tutti coloro che hanno vissuto al fianco di quell’uomo – l’avessero fatto per mesi, per anni o per pochi giorni – adesso sentono il vuoto causato dalla sua assenza in modi molto diversi. Ognuno ha il proprio ed ogni modo è intimo e personale, ma nessuno – nessuno – si sente mancare un pezzo di sé come sta succedendo adesso a Bill. Bill, che era una persona della quale si poteva dire tutto meno che fosse incompleta – perché lo vedevi da come andava in giro, da come sorrideva, da come gli brillavano gli occhi, che non gli mancava niente – Bill adesso è una cosa spezzata in due e non riesce a recuperare il pezzo di sé che ha perso. Non oso immaginare cosa dev’essere stato per Tom scoprire che l’altra metà di suo fratello non era più lui, ma so che sono fiero di lui per come si sta comportando adesso, soprattutto perché con Bushido lui non era mai veramente venuto a patti e Bill non l’ha mai neanche aiutato ad avvicinarglisi, quindi è molto bello da parte sua, adesso, mettere da parte il proprio risentimento per stringersi attorno a suo fratello mentre lui piange e strepita come Bushido fosse morto ieri, solo perché oggi è il suo compleanno e non possono più festeggiarlo insieme.
Bushido, naturalmente, non è morto, e questo dovreste già saperlo. Solo che oggi, ventotto settembre duemilaotto, lo so solo io. E lui, dall’altro lato dell’oceano. Anche se non sono proprio sicuro che, nonostante sia sopravvissuto, al momento sia propenso a credersi vivo. Ci sono molti modi anche di morire, in fondo; non mi sembra di mentire, quando ripeto a me stesso che meno di tre mesi fa noi quell’uomo l’abbiamo seppellito per sempre. Quello che c’è adesso in quell’appartamento a Miami non è Bushido e non è nemmeno Anis Mohamed Youssef Ferchichi, e non è il King of Kingz e non è niente di quello che Bushido è stato quando era ancora se stesso ed era qui. Quindi sì, Bushido è morto. Pensarla in questi termini non è sbagliato.
Solo che è morto un nome. Un nome significa tanto, ma non tutto. C’è ancora un corpo, c’è ancora un uomo, quell’uomo è vivo e non riesce ad esserlo.
Questo è probabilmente il motivo per cui sto partendo, dopotutto.
Un bambino sfugge al controllo della madre e si mette a girare in tondo per la pista, facendo lo slalom fra i viaggiatori che un po’ ridono e un po’ sono infastiditi dal suo muoversi così frenetico. Io sbuffo un mezzo sorriso e resto appena il tempo di osservare il bimbo inciampare sui propri stessi piedini incerti e cadere per terra con un tonfo, subito seguito da uno scoppio di pianto accorato e lamentoso che mi ricorda moltissimo il pianto di Bill, motivo per cui distolgo lo sguardo e smetto di restare lì in attesa del niente: stringo una mano con forza attorno alla cinghia dello zaino e risalgo la scala, andando alla ricerca del mio posto. Quando lo trovo, mi siedo ed allaccio la cintura. Sistemo lo schienale del sedile perché sia ben dritto ed infilo lo zaino sotto il sedile di fronte al mio. Poi mi rilasso. Chiudo gli occhi. E non resto sveglio abbastanza da sentire la hostess spiegarmi come dovrò salvarmi la vita in caso di pericolo.
*
Bushido non sa che sono qui e probabilmente neanche se lo aspetta. Quando l’ho sentito l’ultima volta, ieri sera, non sembrava essere abbastanza presente a se stesso da aspettarsi alcunché, d’altronde. Di certo non poteva aspettarsi che avessi già il biglietto in mano mentre lo ascoltavo biascicare qualcosa sulla birra americana che sembra piscio, scuotendo il capo mentre si fracassava il ginocchio contro un mobile non meglio identificato e cominciava poi a mugolare di dolore accasciandosi a terra. Ora – che è più o meno lo stesso orario del giorno dopo – mi auguro solo di non ritrovarlo nello stesso posto in cui l’ho immaginato mentre parlavamo al telefono ieri, ed è con un sospiro sfiduciato che mi infilo in un taxi e ripeto a memoria l’indirizzo al conducente, recuperando poi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e componendo il numero di Tom.
Lui non risponde subito, e quando lo fa il suo tono di voce è soffice e un po’ assonnato.
- David…? – mugola, - Che ore sono…?
Io sorrido appena.
- Un ottimo orario per fare la nanna, in realtà. – lo prendo in giro, - Un po’ presto per i tuoi standard, ma potrebbe diventare un’ottima abitudine.
- Sei un cretino. – borbotta lui in un mezzo sussurro, - Bill dorme. – dice poi, senza attendere che sia io a chiederglielo, - È rimasto qui a parlare piangendo per ore, e poi s’è addormentato. Dovresti vederlo. È sfatto.
Serro la mascella, annuendo meccanicamente, anche se lui non può vedermi.
- Lo immagino. Lo tieni da te, stanotte?
- Ovvio. Che pretendi, che lo riporti a casa sua? – poi sospira e lo sento allungarsi sul materasso, stendendo un braccio. Bill mugola mentre lui lo stringe, ma sento nella cornetta il suo respiro tranquillo e regolare e so che non s’è svegliato, perciò sorrido. – Non ha fatto che parlare di lui. – continua Tom, la voce bassa venata di tristezza. – Non sono riuscito a farlo parlare d’altro.
- È ancora presto… - gli spiego, sospirando appena, - Starà meglio. Fra un po’.
- No, io non credo, David. – dice lui, e ne è talmente sicuro che non trovo la forza di rispondergli che è convinto così solo perché è piccolo e perché, come suo fratello, in questo momento è convinto che, morto Bushido, sia morto anche tutto il resto. Bill e Tom non sono mai stati tanto distanti l’uno dall’altro come lo sono adesso. Al contempo, però, non sono nemmeno mai stati tanto vicini. – Io non credo. – ripete più nervosamente. – Non so cosa fare con lui.
- Devi solo stargli vicino, Tom. – cerco di rassicurarlo, - Solo questo. Andrà meglio.
- Mi sono rotto di sentirtelo ripetere. – singhiozza lui, ed io mi rendo conto che questo ragazzino, perché di ragazzino si tratta, ha ascoltato per tutto il giorno il pianto disperato della persona cui tiene di più al mondo, e non ha potuto versare con lui neanche una lacrima. Perché quando Bill si dispera tu devi restare lucido, perché a Bill viene facile lasciarsi ricadere così profondamente nella propria tristezza da non essere più in grado di tirarsene fuori. E quindi serve qualcuno che resti lì pronto ad afferrarlo saldamente quando cade. Tom oggi non ha versato una lacrima. Tom piange adesso, al telefono con me. – Perché cazzo è dovuto succedere? – si lamenta, - Riportalo indietro. – ed io ho i brividi, perché Tom non sa che potrei farlo davvero, quello che mi chiede. Potrei e al contempo non posso.
- Tom… - lo chiamo a mezza voce, ma lui mi interrompe tirando su col naso.
- Scusami. – dice, asciugandosi le lacrime, - Ora passa. A me passa.
- Mi dispiace. – sospiro io, muovendomi a disagio sul sedile, - Appena torno a casa-
- Sei in viaggio? – cambia subito argomento lui, e nella sua voce non c’è quasi più traccia di pianto, - Dove vai?
- Affari. – rispondo io, vago, - Non preoccupartene. Cerca di badare ad una cosa per volta. – sorrido un po’.
- Sì. – annuisce lui. Non perde neanche tempo a domandare oltre, sa che se avessi voluto dirgli qualcosa l’avrei semplicemente fatto. Ed ha comunque altro cui pensare, al momento. – Allora ci sentiamo.
Annuisco e lo saluto a bassa voce, ascoltando la chiamata interrompersi ed il segnale della linea caduta sostituirsi alla voce impastata di Tom, mentre i freni del taxi stridono sotto di me e l’automobile si ferma di fronte al palazzo di Bushido. La strada è illuminata e piena di gente. Il tassista si volta e dice “arrivati, io pago e scendo dalla macchina senza dire una parola, guardandomi distrattamente intorno per recuperare la memoria fisica dell’ultima volta che sono stato qui e lasciare che siano i miei piedi a guidarmi verso il palazzo giusto, la scala giusta, la porta giusta. Apro con le chiavi, tengo il doppione nel mazzo che uso comunemente in Germania anche per quelle di casa mia.
L’appartamento è buio e, se non sapessi che per forza Bushido deve trovarsi qui, lo penserei disabitato. Le finestre sono tutte chiuse, peraltro, con le serrande abbassate, l’aria è pesante e densa e non si sente volare una mosca. Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza, ed evito di accendere la luce, muovendomi all’interno della casa con un po’ di difficoltà, finché non mi abituo all’oscurità.
Bushido sta dormendo sul divano. O almeno suppongo stia dormendo: non lo sento respirare, mi auguro che non sia morto davvero proprio quando io ho deciso di alzare il culo per venire a trovarlo.
Mi siedo sul bracciolo del divano ed inspiro profondamente.
- Tarek. – chiamo ad alta voce.
Lui non si sveglia.
Io sospiro ancora.
- Anis. – sussurro più dolcemente. E il suo respiro cambia ritmo. S’è svegliato.
Lo sento muoversi sul divano, la pelle crocchia sotto di lui, e poi lo osservo sbadigliare e stendere le braccia per stiracchiarsi, mettendosi seduto. Resta in perfetto silenzio finché non ha chiaro a grandi linee chi sia, dove si trovi, chi sono io e perché sono qui.
- David. – mi chiama quindi, - Andato bene il viaggio? – e la sua voce è ancora impastata di sonno ed alcool. Muovo un piede e si rovesciano per terra due o tre bottiglie di birra. Io sospiro, Bushido ride. – Spero non fossero ancora piene. – commenta. Io evito di rispondere che ho i miei dubbi al riguardo.
- Dormivi già? – chiedo, - È presto.
Lui scrolla le spalle.
- Avevo sonno. – risponde. Non “ero triste”, non “è meglio se dormo perché altrimenti mi ubriaco fino a vomitare l’anima”, nemmeno “mi annoiavo e non c’era nulla da fare”, che sarebbe sì una bugia ma comunque meno sfacciata di quella che ha detto. “Avevo sonno”, dice lui.
- E quando hai sonno non ti viene mai in mente di andare almeno a letto? – lo rimprovero, - Ti fotterai la schiena, continuando a dormire qua sopra.
Lui scrolla ancora le spalle. Giustamente, non gliene frega un accidenti di quello che succederà alla sua schiena da questo momento in poi.
Io, ancora appollaiato sul bracciolo, resto in silenzio qualche secondo in più, prima di parlare ancora.
- Ti ho portato un regalo. – affermo, recuperando lo zainetto e sistemandomelo in grembo mentre lo apro e comincio a rovistare all’interno. – Tanti auguri, a proposito.
Lui lascia andare un ghigno e sbuffa.
- Non ho voglia di festeggiare i trent’anni. – risponde, - Sto diventando vecchio.
- Ah, grazie mille. – ringhio io, tirandogli addosso il pacchetto avvolto nella carta argentata e lucida, - Ora chiudi la bocca e aprilo.
Lui frena la caduta del pacco lungo il suo petto, con una mano sola, e poi lo solleva all’interno del viso, guardandolo attentamente, come potesse sbirciare oltre la carta per scoprire di cosa si tratti.
- Cos’è? – chiede, rigirandoselo con cura fra le mani.
- Dio, ma aprirlo e basta no? – borbotto scivolando giù dal bracciolo sul cuscino accanto a lui.
Lui segue il consiglio, fortunatamente. Prende il pacchetto con entrambe le mani e lo scarta con una lentezza esasperante, stando bene attento a non strappare la carta né l’adesivo dorato che la teneva sigillata. Mi viene quasi voglia di rubarglielo di mano ed aprirlo io, il più in fretta possibile. Bushido è un uomo che le attese e i silenzi sa manipolarli bene. Io, in questo momento, non dovrei stare praticamente saltando sul divano, frustrato dall’aspettativa di vedere come reagirà a ritrovarsi il regalo sotto gli occhi, quando l’avrà aperto. Eppure lo sto facendo.
Quando il CD viene fuori dalla carta, Bushido lo guarda a lungo in silenzio, prima di voltarsi e sollevarlo a mezz’aria, guardandomi da sotto le sopracciglia inarcate. Non dice niente, me lo mostra e basta, e non capisco cosa mi stiano chiedendo i suoi occhi.
- Be’? – chiedo alla fine, - Il packaging è come lo volevi?
- Potevate usare la foto della sega elettrica. – borbotta lui, tornando a rimirare la custodia da ogni lato, - Mi piaceva di più, lo sapevi anche. E poi in questa sembro una specie di meccanico appena uscito da sotto una macchina.
- E questo ha mandato in delirio la Germania intera, se t’interessa saperlo. – comincio con entusiasmo, - Non hai nemmeno idea della quantità di ragazzine che… - ma mi fermo, quando capisco, dalla sua espressione, che no, non ha idea della quantità di ragazzine che, e soprattutto non gli interessa. – Comunque abbiamo usato anche quella. Quella della sega elettrica, dico. Lo so che ti piaceva di più.
Lui annuisce distrattamente.
- Come stanno andando le vendite? – chiede. Non che gliene freghi qualcosa. Comunque è già tanto averlo trovato in stato semicosciente e non semicomatoso, immagino, perciò se vuole fare un po’ di conversazione io di certo non gliela negherò.
- Ovviamente benissimo. – rispondo con un sospiro, - La Germania ti idolatra, Bushido. Sei diventato una specie di santo.
- E non sono nemmeno dovuto morire sul serio… - commenta con un ghigno fra l’ironico e l’incattivito, - L’Ersguterjunge?
Scrollo le spalle.
- Non si può pretendere si rimettano già al lavoro. È stato abbastanza faticoso costringere la Universal a fare pressione su Saad perché si decidesse a finire di produrti l’album e metterlo in commercio. Non erano mica d’accordo. Chakuza ha tirato su il bordello.
Lui sbuffa una mezza risata, rilassandosi contro lo schienale del divano.
- È ancora arrabbiato, Chaky? – chiede, gli occhi socchiusi e la testa reclinata all’indietro. Mi chiedo se non abbia intenzione di riaddormentarsi qui ed ora. E questo mi ricorda Bill durante tutto il suo primo mese di lutto, dopo la sua morte. Non faceva che dormire. Si svegliava, piangeva fino a sfinirsi e poi dormiva ancora. Tom mi ha detto che pensava fosse l’unico modo in cui suo fratello riuscisse a far trascorrere le giornate. Se non si fosse esaurito e poi addormentato, quelle non sarebbero mai passate. Credo che per Bushido sia più o meno la stessa cosa, adesso.
- È scosso. Come tutti. – sospiro. A Bill non accenno. – La settimana prossima saremo a TRL. Hanno organizzato con l’occasione del tuo compleanno, ma sono riuscito almeno a farla spostare di modo che non cadesse proprio oggi. Non sarebbe stato il caso.
Bushido annuisce lentamente.
- Suppongo di no. – concorda, stendendosi appena sul divano. Il CD è poggiato sul cuscino accanto a lui, e lui nemmeno lo tocca più. – Queste cose potevi anche dirmele per telefono, comunque. – ride poi, - Non c’era bisogno del viaggio transoceanico.
- Dico, uno si prodiga tanto… - borbotto, rimettendomi in piedi e tirando su i jeans che, nel mentre, minacciano di rovinare a terra. Poi gli tendo una mano. – Coraggio, in piedi.
Lui schiude gli occhi e mi guarda come fossi un alieno.
- Eh? – chiede, sollevando il capo dal divano.
- In piedi, ho detto. – ripeto, scandendo bene le parole perché siano chiare. – È il tuo fottuto compleanno. Per i miei trent’anni, sono andato in giro per bar fino alle sei del mattino. Non intendo riportarti a casa prima di allora.
Lui si irrigidisce, schiude le labbra e fa per dire qualcosa – so anche precisamente cosa: sta per dire “no”. E siccome i no di Bushido non sono semplici no, sono “no, non se ne parla, toglitelo dalla testa e se solo fai tanto di ostinarti ti faccio del male fisico”, gli impedisco di dirlo afferrando un cuscino proprio lì di fianco a lui e schiacciandoglielo contro il viso.
- Jo- - annaspa lui, agitando le mani mentre io premo contro la stoffa col palmo bene aperto, - Jost! – abbaia, e si libera della pressione scivolando sotto al cuscino e poi in piedi, - Avevi intenzione di ammazzarmi sul serio, Cristo santo?! – urla, a due centimetri dal mio viso.
- Be’, - lo affronto a muso duro, - sempre meglio farlo io che non osservarti mentre ti… ti consumi su questo divano, Bushido! Dico, ma ti sei guardato allo specchio, ultimamente?! Da quanto non ti radi? Da quanto non ti lavi, Dio mio, da quanto non mangi? – e lo spintono, rimettendolo a sedere sul divano e guardandolo dall’alto, i pugni piantati sui fianchi, piegandomi appena in avanti per fissarlo negli occhi. È così che rimprovero i piccoli, quando è necessario. È così che rimprovererò anche lui. – Sei magro, sfatto e inguardabile. Ti ho permesso di sopravvivere senza sputtanarti e sono intenzionato a costringerti a sopravvivere anche con dignità, se tu non senti il bisogno di farlo per te stesso. D’accordo? Quindi ora – lo afferro per le spalle e lo rimetto dritto. È dimagrito davvero. – alzati in piedi e muovi il culo, stronzo. Ti aspetto il tempo della doccia.
Lui mi fissa per un minuto buono con un paio di occhi da pesce lesso che mi fanno venire il nervoso. Sto giusto chiedendomi se non dovrei farlo cadere a terra con uno sgambetto e poi pestarlo con violenza fino a lasciare di lui solo un mucchietto d’ossa sanguinolente, quando lui prende e ride. Saranno mesi che non lo sento ridere così, Dio. Una bella risata piena, di quelle fatte con convinzione. Lo vedo gettare indietro il capo – i capelli arruffati che gli si scompongono appena sulla testa – e stendere il collo mentre chiude gli occhi e schiude le labbra, pressandosi una mano contro lo stomaco, la maglia bianca e larghissima che si arriccia in sbuffi attorno alle sue dita scure e bene aperte.
Imbarazzato, aggrotto le sopracciglia.
- E allora… - borbotto, spintonandolo contro una spalla. Lui ride ancora un po’, ed asciuga una lacrima dall’angolo di un occhio, scuotendo il capo.
- D’accordo, papà. – continua a ridere in singhiozzi minuscoli. Dico, che cretino. – Vado a rendermi guardabile, visto che me lo chiedi con tanta insistenza.
Quando esce dal bagno, in realtà, è molto più che guardabile. Faccio fatica a non distogliere lo sguardo perché – davvero – sarebbe ridicolo abbassare gli occhi adesso, ma è dura. È dura perché lui è seminudo, ancora un po’ umido di doccia, sbarbato e coi capelli scompigliati sulla testa. Stanno crescendo, e il fatto siano ancora pesanti d’acqua li porta ad appiccicarglisi sulla fronte. Lui li scosta con un gesto lento e distratto, sistemando meglio l’asciugamano attorno ai fianchi e piazzandosi davanti allo specchio del salotto – le gambe semidivaricate e il bacino lievemente sporto in avanti – per riavviarli con più cura sulle tempie e sulla nuca.
- Stanno allungando. – mi fa notare, guardando la propria immagine riflessa, - Non ho pensato di tagliarli.
- Non ti stanno male. – rispondo io con una scrollata di spalle, decidendomi finalmente a smettere di fissarlo.
- Vanno bene per Tarek. – continua lui, perso in chissà che cosa dentro la propria testa, - Magari li faccio allungare ancora.
- Potrebbe essere una buona idea. – annuisco io, fingendo interesse per la sua copertura qui, - Saresti ancora meno riconoscibile. – e ancora più bello, anche, ma è un pensiero che mi attraversa solo marginalmente, senza colpirmi in pieno. Ho imparato ad evitare cose simili, nei tre anni che hanno visto quest’uomo frequentare i miei ambienti più spesso di quanto già non facesse prima per cause lavorative.
Bushido non risponde alla mia ultima nota. Pianta le mani sui fianchi, sospira e si volta a guardarmi.
- Allora. – comincia quindi, - Dove mi porti?
Io inarco le sopracciglia.
- Nudo, da nessuna parte. – rispondo, accennando col capo all’asciugamano che è ancora l’unica cosa che lo copre, - Se ti vesti, andiamo a bere da qualche parte. E se fai il bravo magari ti compro anche una torta.
Lui sorride e non aggiunge altro, voltandomi le spalle ed infilandosi in camera da letto. Quando ne viene fuori, ha addosso una camicia bianca e un paio di jeans scuri. Infila le scarpe da tennis saltellando prima su un piede e poi sull’altro, quindi mi si para davanti a braccia larghe.
- Be’? – chiede, - Bello?
- Bushido, piantala. – ringhio io, tirandogli una spinta contro una spalla, - Ti preferivo depresso. – borbotto, muovendomi verso la porta.
- Balle. – ghigna lui, - E poi sciogliti un po’, Jost, è il nostro primo appuntamento, in fondo!
- Bushido, sei avvertito. – insisto, chiudendo la porta quando lui esce dietro di me, - Continua a fare il deficiente e prima ti ubriaco e poi ti lascio ad un angolo di strada.
Lui ride e solleva le mani all’altezza del viso, bene aperte, in segno di resa.
- Okay, okay, Jost. Hai vinto. Te lo concedo.
- Da quando… - mi lamento, girando le chiavi nella toppa, - Da quando le vittorie si concedono? Di solito le vittorie le vince chi le ha vinte.
Bushido ride ancora.
- Mi sono perso alla prima ripetizione del verbo vincere. – commenta, sistemandosi addosso la camicia mentre io cerco disperatamente di non guardarlo, - Comunque l’idea di andare in giro a bere mi piace. Anche se non saprei dove portarti. – e ride un po’, - Dovrei conoscerlo, questo posto, ormai. Sono tre mesi.
Mi volto a guardarlo con aria un po’ sconvolta.
- E non sei mai uscito di casa?
- Per la verità sì… - borbotta lui, scrollando le spalle, - Ma il minimarket è proprio qui sotto. Quindi, insomma, non è che abbia avuto veramente occasione di spingermi tanto in là nell’esplorazione del quartiere.
Io sospiro, passandomi una mano sulla fronte.
- Va bene, va bene… non mi va di litigare. – mi arrendo, sconfitto, - Adesso ti porto al Palms. O al Chico Loco. Magari se non vogliamo casino ci infiliamo al Tropical Paradise, conosco personalmente il proprietario e potrebbe trovarci un privè. O magari… - e continuo sulla stessa traccia per quelli che mi sembrano una decina di minuti, sciorinando un nome di locale alla moda dietro l’altro, al punto che al quindicesimo la cosa comincia a diventare disturbante perfino per me, ed è a quel punto che alzo lo sguardo su di lui e capisco che non è disturbante solo per me.
- Tu – dice Bushido, indicandomi con un dito, - sei veramente un esemplare perfetto di omosessuale in carriera. Io non ho parole.
Io cambio colore e lo sferzo con un’occhiataccia che spero lo uccida definitivamente, risolvendo in un colpo sia i miei che i suoi problemi. Bushido però non muore, la cosa non mi stupisce ed io smetto di arrabbiarmi. D’altronde, non è che possa dirgli “no, non sono un perfetto esemplare di omosessuale in carriera”. Sono un esemplare, sono un omosessuale, sono in carriera e sono indubbiamente perfetto, anche. Perciò pace.
- Diamoci una mossa. – dico quindi, - Se arriviamo tardi potremmo non trovare più privè. – e mi muovo verso l’ascensore. Bushido mi segue, e nello specchio dell’ascensore, quando le porte si aprono, scorgo l’ombra di una smorfia ad increspargli le labbra. – Qualcosa non va? – chiedo immediatamente.
- Niente di particolare. – scrolla le spalle lui, - Solo che pensavo che magari, invece di andarci a chiudere in un qualche locale alla moda pieno di fighetti ubriachi, potremmo andare in qualche pub meno frequentato. Una roba tranquilla, insomma. – lui osserva il mio sopracciglio sinistro inarcarsi in maniera convincentemente dubbiosa, e si affretta a precisare. – Mi diverto, Jost, promesso. Solo che non c’ho voglia di casini. Non mi va di vedere gente.
- Sono sconosciuti. – gli faccio notare. Non vedo che problema debba esserci ad avere a che fare con gente che non ti conosce, non vuole nemmeno conoscerti e probabilmente dimenticherà il tuo viso prima del sorgere del sole, il giorno dopo.
- Sono gente. – risponde semplicemente Bushido, e il suo tono di voce è netto e deciso. – Ora, visto che sai perfettamente che faccio già abbastanza fatica ad uscire di casa, al momento, - ed è raggelante la calma serafica con cui ne parla. Come fosse normale. Magari è convinto lo sia, - potresti almeno cedere se ti dico che non voglio vedere gente? Mi basti tu. Davvero.
Ed io cedo, che altro dovrei fare? D’altronde, Bushido è il mio datore di lavoro – e praticamente nient’altro – mi paga profumatamente per ciò che faccio ed io non dovrei prendermi certe libertà come cercare di salvarlo dalla depressione, quando è palese che l’ultima cosa che vuole è proprio essere salvato. Non mi paga per questo. Io dovrei ricordarmelo. Anche se probabilmente, proprio perché non è per questo che mi paga, questa è la cosa che dovrei fare con maggiore attenzione.
Alla fine non andiamo al Palms, non andiamo al Chico Loco e non posso neanche passare a salutare Micah al Tropical Paradise. Passeggiamo sul lungomare, invece, ed io osservo Bushido prendere lentamente coscienza del luogo in cui si trova. Quando mi ha detto che probabilmente Miami sarebbe stata la soluzione migliore per quella fuga assurda, io ho approvato per due motivi: primo, era abbastanza lontano da essere un luogo sufficientemente sicuro; secondo, era abbastanza bello da rappresentare una distrazione.
Il problema è che Bushido, in questi mesi, non s’è mai concesso di distrarsi. Lo sta facendo ora per la prima volta e si sta rendendo conto di aver vissuto in un paradiso senza mai lasciarsi la possibilità di esplorarlo. I suoi occhi si perdono seguendo la linea dell’orizzonte affogata nel mare, e la sua pelle si colora dei toni aranciati del tramonto che si sfuma in sera, e quando lo sento respirare a pieni polmoni respiro improvvisamente meglio anch’io. Perciò non mi lamento quando ci fermiamo in un localino proprio lì, sulla spiaggia, una specie di casotto di legno col tetto spiovente e un sacco di ghirlande di fiori che pendono dal soffitto decorando cocchi, manghi, papaye ed altri frutti di cui non conosco nemmeno il nome.
Il bancone gira tutto attorno al locale, io e Bushido prendiamo posto su due sgabelli e cominciamo a farci servire da bere. So che non dovrei permettergli di ingurgitare altro alcool dopo tutto quello che sicuramente ha mandato giù negli ultimi giorni, ma cazzo, è il suo compleanno. Non intendo impedirgli niente proprio oggi. Che beva pure. Tra l’altro, avere a che fare con lui ubriaco è comunque molto più semplice che avere a che fare con lui da lucido. Che poi è il motivo per cui lo stronzo cerca di ubriacarsi il meno possibile, quando è in compagnia. Gli piace rendere complicate le cose alla gente.
Oggi no, però. Evidentemente il divertimento che proverebbe nel rendermi difficile l’esistenza è surclassato in necessità dal bisogno che ha di stordirsi, perciò non ci pensa nemmeno a mantenersi lucido, e butta giù una birra dopo l’altra, chiedendo di tanto in tanto anche un cocktail o qualcosa di diverso per cambiare gradazione alcolica e stordirsi di più e più in fretta. Io bevo il minimo indispensabile, se non altro perché almeno uno dei due dovrà ricordarsi la strada di casa, quando questo strazio sarà finito.
Nel mentre lo ascolto parlare, e Bushido mi dice un sacco di cose, anche se nei fatti non mi sta dicendo praticamente niente. Lo so che Miami è un bel posto, Bushido, è assurdo che ancora non lo sapessi tu. Lo so che ti manca Berlino, Bushido, lo so. Lo so che ti manca tua madre. Sta bene tua madre, Bushido. Lo so che ti mancano i tuoi ragazzi, manchi tantissimo anche a loro. Lo so che qui fa troppo caldo per te, no, non ti ci potevo mandare in Antartide, Bushido. Lo so che non riesci a chiedermi di Bill. Sta male, Bushido. Sta un sacco male. Ma visto che non chiedi non rispondo. Per ora è meglio così.
Quando ci allontaniamo dal locale, molte ore più tardi, la luna è alta nel mezzo di un cielo nerissimo ed abbiamo speso un capitale in bibite. Bushido si regge a stento sulle gambe, tant’è che devo sostenerlo io, e meno male che è leggerissimo altrimenti ci accasceremmo entrambi per strada in un angolo e dovrebbero venirci a recuperare con un carro attrezzi prima di bloccare il traffico, domattina.
L’appartamento è sempre buio e incasinato, quando torniamo, e Bushido sta ancora blaterando roba, con la differenza che adesso lo sta facendo completamente steso contro di me, ad un centimetro dal mio orecchio, e mi sfiora piano il lobo con le labbra ogni volta che dice una parola.
- Sono stanco, - mi dice, - non mi piace stare qui. Posso tornare a casa?
- No, Bushido. – rispondo stendendolo sul proprio letto perfettamente rifatto e immacolato al punto che mi chiedo se ci abbia mai veramente dormito, - Non puoi, lo sai.
- Ma mi sento solo. – borbotta. Come fosse una giustificazione alle sue richieste assurde. Non lo è, Bushido, non ci sono giustificazioni per le tue richieste e non potrei lasciarti tornare anche se invece ce ne fossero. Mi dispiace. Dio sa che mi dispiace, cazzo. Ma non posso proprio.
Sfilo via le coperte da sotto il suo corpo e cerco di rimboccargliele sotto il mento, ma lui prima le scosta con una mano e poi, quando io insisto, si mette a scalciare come un moccioso.
- Va bene, va bene! – mi arrendo, - Dormi scoperto, come preferisci! Io vado di là. – affermo irritato, e faccio per mollarlo lì e trasferirmi sul divano, che ho sonno, il jet lag comincia a farsi sentire nonostante l’abitudine e domani a non-mi-ricordo-che-orario-devo-ricontrollare-la-carta-d’imbarco ho l’aereo per rientrare in Germania. Scemo io e fanculo ai viaggi transoceanici.
E invece niente, non mi allontano, non faccio nemmeno un centimetro, perché le dita della sua mano si chiudono come una tenaglia attorno al mio polso ed io quasi finisco steso sul letto accanto a lui. Riesco a tenermi in piedi per puro miracolo, e mi volto a guardarlo con un sopracciglio inarcato in segno di muta richiesta.
- Resti? – mi chiede a mezza voce. Ha gli occhi chiusi. Credo non voglia vedermi. Credo non voglia vedere niente.
- Sto già restando. – gli faccio notare, senza neanche provare a forzare la sua stretta, - Sono qui a due metri, se hai bisogno.
- Resta qui. – specifica lui, stringendo con maggiore decisione e tirandomi un po’, - Nel letto.
Mi giro per guardarlo attentamente, anche se lui ha ancora gli occhi chiusi e quindi di certo non può accorgersene. Schiude appena le dita per permettermi di girare anche il polso, così da non dovermelo torcere, e poi torna a stringermi. Non è che abbia bisogno di trattenermi. Vuole solo sentirmi sotto i polpastrelli.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce, - Non fare il coglione.
Lui stringe ancora la presa e non dice niente. Non dice niente tanto a lungo che finisco per sentirmi io il coglione della situazione. E quindi pianto un ginocchio sul materasso e lui, quando sente la pressione del mio corpo, si scosta per farmi spazio, così da lasciarmi distendere accanto a lui.
La situazione è assurda. La nostra posizione, anche. Io non dovrei essere qui disteso e lui non dovrebbe volere da me ciò che penso voglia. Sono io che dovrei volere queste cose da lui. Sono io che le voglio, in realtà, ma non dovrei potermele prendere. Bushido non dovrebbe volermele dare.
- Toccami. – dice piano, la sua voce è un sussurro pieno di bisogno.
- Bushido… - cerco di richiamarlo un’ultima volta, ma lui mi ferma.
- Ssh. – sospira, stendendosi meglio sul materasso. – Toccami.
Io mi mordo un labbro e sollevo una mano, e per un secondo la lascio lì a mezz’aria perché non ho idea di come dovrei o potrei toccarlo. Insomma, non è un uomo qualsiasi. È Bushido. Non so nemmeno da che lato prenderlo.
Mentre penso che farò sicuramente qualche cazzata colossale, e che anzi probabilmente la mia cazzata colossale la sto già facendo, poso una mano sul suo petto e la lascio scorrere verso il basso. Le dita si impigliano una ad una fra i bottoni della camicia e li slacciano uno dopo l’altro. Bushido rabbrividisce ogni volta che mi muovo. Schiude le labbra e stira indietro il capo, i capelli che si scompigliano contro il cuscino.
- Di più. – mormora fra le labbra, e spinge il bacino verso l’alto nello stesso momento in cui la mia mano ci finisce sopra, sfiorandolo appena. Slaccio i pantaloni e lo accarezzo piano, stringendo le dita attorno alla sua erezione ancora incompleta e pompando lentamente. Dio mio, cosa sto facendo? Perché lo sto facendo? Resto qui, il gomito piantato sul materasso, lievemente sollevato per guardarlo meglio, e lo osservo inarcarsi sotto i miei movimenti, ed è praticamente l’unica cosa che fa. Non mi cerca con le mani, non mi cerca con le labbra, non mi cerca neanche coi pensieri, Bushido, lo so perfettamente cos’è che sta cercando. Non posso ridartela io la tua principessa, Bushido. Non può ridartela nessuno. Ti toccherà accontentarti.
Quando smette di farsi bastare la mano, quando comincia a volere di più, io non lo capisco perché me lo dice. Lo capisco perché si mette seduto in un movimento lento e strascicato, insospettabilmente sensuale – ci resto a bocca aperta, non me lo aspettavo per niente, ma Dio mio, appena lo vedo sollevarsi in quel modo, la testa piegata su una spalla e le braccia tese, deglutisco a fatica e respiro con difficoltà se possibile ancora maggiore.
Sfilo la mano e lui si volta verso di me, mettendosi in ginocchio sul materasso.
- Stenditi. – sussurra piegandomisi addosso, - Voltati.
Obbedisco e in aggiunta mi spoglio anche. È chiaro che lui non lo farà ed è chiaro che invece si aspetta lo faccia io per lui. continua a tenere gli occhi chiusi, non mi guarda, non mi parla se non per lo stretto indispensabile e soprattutto non mi bacia nemmeno. Da nessuna parte. Si regge sulle braccia, sospeso sopra di me, sento il suo calore intorno ma non addosso, e aspetta che io mi sia spogliato abbastanza per lasciarmi scivolare un paio di dita umide fra le natiche. Rabbrividisco sotto la leggera pressione dei suoi polpastrelli e mi inarco contro di lui, lasciando scivolare fra le labbra un ringhio roco.
- Mi manchi. – lo sento sussurrare contro la mia spalla, - Dio… mi manchi. – ed affonda dentro di me, sostenendosi sul materasso con entrambe le mani, - Cazzo, mi manchi. – lo so che ti manca, Bushido. Cazzo, lo so. Lo so che stai male. Non avrei mai dovuto permetterti niente di simile. Non avrei mai dovuto lasciarti uscire dai confini della fottuta Germania, non avrei mai dovuto lasciarti andare, non avrei – cazzo, sì – non avrei mai dovuto permetterti di mettere su questa commedia del cazzo – Dio, Bushido, più forte – e adesso dovrei prenderti a ceffoni – – dovrei riportarti a casa per i capelli – sì, cazzo, sì – dovrei – cazzo, sì – non lo so, affondo il viso nel cuscino mentre vengo e lo sento spingere ancora un paio di volte, ma lui non viene. Non viene, cazzo. Le spinte si smorzano e basta, il suo respiro, da concitato che era, si regolarizza, ed esce dal mio corpo insoddisfatto, lasciandosi rotolare sulla schiena e poi su un fianco senza guardarmi neanche per sbaglio.
Mi volto anch’io, mettendomi seduto a fatica e passandomi una mano sulla fronte.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce. Lui non mi risponde. Respira piano. Non dorme. Resta immobile.
Mi risistemo appena ed esco dalla stanza, abbandonandomi esausto sul divano appena incrocia la mia traiettoria, perché non mi reggo più in piedi. Quando chiudo gli occhi, lo faccio esattamente per lo stesso motivo per cui l’ha fatto Bushido. Non voglio più vedere niente. Anche se dubito che stanotte riuscirò a dormire.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Rape, Slash.
- "Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene?"
Note: Storia ispirata ad una splendida poesia di Emily Dickinson, che ho letto perché partecipante a questo concorso indetto da Harriet sul suo LJ. Non avrei mai letto la poesia, non fosse stato per il contest, quindi sono contenta di averlo letto XD E andate a leggerla anche voi, pure se non è che vi serva per la comprensione della storia in sé. È la storia in sé che, temo, non è granché comprensibile XD Spero lo sia e spero faccia male a voi leggerla quanto male ha fatto a me scriverla ;_; Billi ;_;
Devo dire che in genere io le storie così non le apprezzo per niente. La maggior parte della gente che ne scrive, non sa come farlo e si esibisce spesso in clamorosi buchi nell’acqua. Spero non lo sia anche questa, ma non vi assicuro niente, dal momento che non ho mai scritto niente di simile XD
Ultime due precisazioni. Primo: scrivere questa shot mi ha fatto venire voglia di scrivere una long di cui questo sia praticamente il prequel. Quindi è anche probabile che prima o poi la vediate su questi schermi XD Secondo: il titolo della storia è rubato all’omonima – e bellissima – canzone degli Strokes.
Grazie per aver letto e arrivederci :)
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HEART IN A CAGE

Specchio entra sempre per primo, perché visto che mi somiglia tanto gli altri magari credono che poi loro mi faranno meno paura, quando entreranno. Ma io non ho paura per niente, sai mamma?, io non ho paura per niente perché ormai sono un sacco abituato a loro che vanno e vengono dalla stanza, e sorrido a tutti, anche perché sono sempre gentili con me – ma sempre sempre – e poi non mi hanno mai fatto niente di male, lo sai?, quindi non ho per niente paura. Però loro sono convinti che io abbia paura, infatti sono sempre un sacco timorosi, sai che mi toccano a stento, mamma?, non lo so mica perché, io sono un sacco forte, non mi servono queste delicatezze, però a loro non posso dirlo, poverini, fanno tanta strada per venire dal loro mondo fino nel mio, solo per vedermi, quindi non li posso rimproverare, lo capisci, mamma?, non posso proprio.
Che poi secondo me Specchio me l’hanno pure costruito in laboratorio, sai mamma?, apposta per me. Perché mi assomiglia veramente tantissimo, tipo che è uguale, tipo che se ricalco i suoi lineamenti coi miei siamo la stessa persona, tipo che abbiamo lo stesso odore, la stessa forma, tipo che se lo tocco su un braccio lui ha il mio stesso calore – ma proprio uguale, mamma, è una cosa stranissima! – tipo che se lo guardo negli occhi non c’è solo il mio stesso colore, ci sono proprio io. Tipo che lo sento – mi crepita sulla pelle come una scintilla – lo sento che siamo proprio identici. A volte guardo Specchio e mi chiedo – ma non è che mi hanno rubato qualcosa una notte che dormivo e l’hanno plasmato proprio da un pezzo di me? Perché quando Specchio va via, sai mamma, mi sembra un po’ che stia andando via con lui una parte del mio corpo. E fa un po’ male. E poi torna tutto a posto quando Specchio ritorna. Per questo dico che forse l’hanno creato in laboratorio apposta. Ma è una cosa stupida, vero?, vero mamma?, i fantasmi non si fanno in laboratorio, i fantasmi sono fantasmi e basta. Magari Specchio è il mio fantasma, magari io sono morto. Magari sono io il suo fantasma, visto che Specchio è un sacco luminoso e io invece sono un sacco spento.
Papà, quando viene a trovarmi, mi dice sempre che Specchio ha pianto un po’. Lo chiama con un nome che non conosco, non lo chiama Specchio, ma d’altronde anche quando io lo chiamo papà lui scuote il capo e mi risponde che no, non si chiama papà, non è papà, non è papà, Bill, papà è a casa, è venuto a trovarti la settimana scorsa, lo ricordi, Bill?, non lo ricordo no, sei tu papà, perché non ti fai chiamare papà?, io non mi chiamo Bill, io non ce l’ho un nome. Papà non mi vuole bene, non si lascia chiamare papà e non mi ha nemmeno battezzato. Non è giusto chiamarmi in quel modo, quello non è il mio nome. Mamma, neanche tu dovresti chiamarmi Bill. Nessuno dovrebbe chiamarmi Bill. Bill non esiste.
Comunque, anche quando papà mi dice che Specchio ha pianto, mi dice sempre anche che non devo sentirmi in colpa, non è colpa mia se Specchio piange. Specchio non dovrebbe mai piangere, comunque, è troppo bello per piangere. Io preferirei che non piangesse. Però non posso farci niente. Anche se papà mi dice che il modo per farlo smettere di piangere è stare meglio. Ma io sto bene, mamma, diglielo anche tu, com’è che non lo vedete? Sono perfettamente guarito, non ho più male da nessuna parte, non c’è più sangue, sono di nuovo pulito. Però non posso uscire, è l’unico problema, non posso uscire perché non riesco a camminare. Quando ci riuscirò uscirò, papà e mamma, è una promessa, quindi dite a Specchio che la smetta di piangere, per favore, tutto a suo tempo, mi rimetterò in piedi, piano piano. Piano piano, però. Piano piano.
E poi c’è Amore. Quando Amore entra nella stanza io sorrido senza sforzarmi. Amore sono quasi certo che non si chiami proprio Amore, ma io non riesco a ricordare il suo nome, ed è l’unica cosa che mi fa male. Sono sicuro che lui c’era da prima, non viene a trovarmi da adesso, lui c’era da prima che entrassi qua dentro. E non riesco a ricordare come si chiama. E lui ogni tanto me lo chiede, mi chiede se lo so come si chiama, lo sai come mi chiamo, Amore?, e io non me lo ricordo e scuoto il capo, ma lo chiamo Amore perché lui chiama Amore me, ed è così che voglio chiamarlo, anche se il suo sorriso, quando lo chiamo così, è un sacco triste.
Amore ha dei colori bellissimi. È colorato come il caramello, anche se non ha lo stesso sapore. E ha gli occhi come il cioccolato e i capelli come l’ebano, e le mani grandi, le mani grandi e forti, ed è l’unico che mi tocca tantissimo, mi tocca fino a darmi fastidio, però è un fastidio a cui non riesco a rinunciare, sai mamma? Lo so, mamma, lo so che queste cose non si fanno, lo so che sono cose sporche, lo so che non dovrei lasciarmi baciare da lui, lo so che non dovrebbe toccarmi. Lo sa anche lui, mamma, te lo giuro, si ferma sempre prima di andare troppo oltre, è buono, le sa queste cose, non mi farebbe mai del male. Te lo giuro, mamma, mi bacia e mi accarezza soltanto. Lo so che secondo te è sbagliato, ma ti prego, non dirgli più di smetterla, io ne ho bisogno, mi piace tantissimo.
Amore poi porta sempre un sacco di gente strana, mi viene tanto da ridere quando arrivano. È che sono tanti tantissimi, non è che ho un nome per tutti, però le loro facce, quelle sì, quelle le conservo tutte, sono tutti divertenti. Lui sembra un re, quando viene con quelle persone, perché loro sembrano la sua corte. È così bello il mio Amore quando me li presenta, te li ricordi loro? Questo è… questo è… non mi ricordo i nomi, mi dispiace, mi dispiace signore tondo con gli occhi verdi, mi dispiace signore strambo coi baffetti, mi dispiace ragazzo abbronzato che assomiglia a un porcellino, io vi voglio un sacco bene, lo so, lo sento, però non mi riesce di ricordare come vi chiamate, perdonatemi.
E poi arriva il momento che Amore dice ai ragazzi che è ora di andare, ed io comincio a rabbrividire e non sto più nella pelle, perché quando i ragazzi vanno Amore si avvicina. E mi sfiora le spalle, con le sue mani grandi, ed io piego il capo e lui mi bacia sul collo e poi si siede al mio fianco. E io gli scivolo addosso e mi strofino contro il suo corpo, che è caldo e forte, e sento che mi manca anche se non ricordo di essere mai stato con lui – Amore, mi perdoni se non me lo ricordo? Perché devo ricordarmi solo cose tristissime quando penso a cose come questa? Perché non ricordo le tue mani, perché ricordo solo quelle di un’altra persona? Non voglio ricordare, Amore, chiudimi gli occhi, tappami le orecchie, serrami le labbra, e Amore lo fa, Amore è bravissimo, Amore mi stringe, ti amo, Amore, e lui mi dice di non dirlo. Non dirlo, Amore, me lo dirai quando starai meglio. Amore, sto bene. Posso dirtelo. Amore, ti amo, ti amo tantissimo.
Poi Amore va via ed arrivi tu, mamma. Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene? Sento la testa tanto leggera. Posso andare a casa con Amore? Magari Specchio smetterebbe di piangere. Pensi che papà sarebbe d’accordo? Perché tu non lo sei, mamma? Io sono felice. Non lo vedi che sono felice? Sto piangendo di gioia. Sto piangendo di gioia, non lo vedi? È gioia, vero? Ho la testa vuota e il cuore pienissimo, mamma. È gioia, vero? È gioia?
Non dirmi che non lo sai, mamma. A me sembra gioia. Io voglio credere che lo sia, ti dispiace?
Comunque d’accordo. È okay. Sto bene, comunque. Le caramelle?


*

- Non abbiamo rilevato dei miglioramenti veri e propri, nell’ultimo mese di terapia. Ma siamo sicuri che sia solo una questione di tempo. Ai farmaci reagisce bene, l’umore è ottimo, non presenta più cambiamenti eccessivamente repentini. Suppongo che-
- Dovrei poterlo portare a casa.
- …no, signor Ferchichi. È ancora presto.
- È un fottuto anno che-
- Anis, per favore.
- No, Tom, Anis il cazzo, è-
- Signor Ferchichi, devo ricordarle che siamo in un ospedale?
- …
- Quando pensa che potremmo portarlo via, dottoressa?
- Non saprei dirle, signor Jost. Come cercavo di dire prima, suppongo che dovremo semplicemente avere pazienza.
- Io non ne ho.
- Anis.
- Io non ne ho. Lo porterò fuori di qui, dottoressa. Ragazzi, andiamo.

*

Amore va via, dietro di lui ci sono i ragazzi, c’è papà, c’è anche Specchio. Li saluto dalla finestra muovendo la mano, e loro mi sorridono tutti. Che belli che sono. Tornate domani? A domani. Buonanotte.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- "Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile."
Note: Provo dell’amore profondo, per questa shot *-* Per due motivi molto semplici. Primo fra tutti, il fatto che io voglio molto bene a Chakuza in questo periodo di questa serie. È un uomo che s’è comportato bene, s’è comportato alla perfezione per tutti gli ultimi nove mesi della sua esistenza. E conoscendolo, sapendo che Chakuza in sé è un uomo portato a fare danni, so che deve essergli costato tantissimo stare tranquillo e non combinare casini per non fare soffrire Bill. E invece niente, torna Bushido – che è una cosa sulla quale Chakuza non ha il minimo controllo e per la quale non ha la minima colpa – e Bill gli si getta fra le braccia. E per quanto io possa adorare il legame assurdo e inesplicabile che c’è fra Bill e Bushido, e per quanto comprenda che è quel legame a motivare (non giustificare: ciò che fa Bill in Crash Into Me non è assolutamente giustificabile) ciò che succede in quella shot, mi dispiace un casino per il Chaku che s’è visto crollare il mondo addosso senza poter fare niente per cercare di fermare la frana. È una cosa tremenda ._. Poi, ok, mi si potrebbe obiettare “eh, sì, ma intanto da un paio di settimane il Chaku stava facendo allegramente il cretino con Fler”. E io potrei dire “sì, vero”. Ma poi dovrei anche partire con uno sproloquio immenso su ciò che penso del Flerkuza, e non ne usciremmo prima di una quantità esagerata di pagine XD Perciò ve lo risparmio. E dico solamente che sì, Chakuza probabilmente ha delle colpe non irrilevanti, ripensando alle ultime settimane della sua vita. Ma di Bill è innamorato davvero, e ciò che Bill gli combina il Chaku non lo merita per niente. Poi, insomma, libere di pensare come volete XD Così la penso io.
Il secondo motivo per cui amo questa shot è che il bimbo è bellissimo <3<3<3 L’amore folle che nutro per Fler è ormai cosa nota, e sebbene io lo trovi delizioso ed adorabile soprattutto quando si arrende al Chaku, devo dire che ho provato dell’orgoglio per lui mentre lo osservavo dirgli no e costringerlo con le buone a mettere da parte i cattivi propositi. Forza bimbo, siamo tutti dalla tua parte, sappiamo che puoi farcela a staccarti dal nano malefico e riprendere la tua esistenza ç_ç! XD
Spero abbiate gradito anche voi <3 A lunedì col prossimo aggiornamento *_*v
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HASS

La prima cosa che ha fatto Fler quando Jost ci ha detto che forse era meglio lasciare Bill e Bushido da soli per un po’, è stata poggiarmi una mano sulla spalla. Il primo pensiero che è saltato fuori dalla nebbia confusa che avevo al posto del cervello in quel momento, è stato “fottiti, non mi serve la tua cazzo di mano sulla spalla, il mio ragazzo sta baciando il suo ex qui di fronte a me, come se io neanche esistessi più. Cazzo vuoi che mi serva la tua mano?”.
Ho capito poi che, in quel momento, lui la mano lì sopra l’ha messa non per consolarmi, ma per trattenermi. Questo perché Fler lo conosce bene, il mio corpo. Lo legge alla perfezione, ed anche in un tempo brevissimo. Perciò si è accorto della tensione nei miei muscoli e dello scatto in avanti che ho fatto, e l’ha fermato prima ancora che potessi realizzare coscientemente di aver desiderato quel movimento. In sostanza, non mi sono mosso di un millimetro. Ho realizzato che avrei voluto farlo solo dopo. E adesso ho in corpo una furia repressa che non riesco ad incanalare in nessun modo.
La mano di Fler, comunque, è ancora lì.
Mi volto appena e c’è Jost ancora nei paraggi della porta che s’è chiuso alle spalle. Sembra incerto fra la possibilità di andarsene e quella di restare.
- Quindi tu lo sapevi. – sibilo guardandolo, gli occhi ridotti a due fessure, - Ci hai presi tutti per il culo. Per tutto questo tempo.
I suoi occhi sfidano i miei. Sono azzurri ma non tanto azzurri. Fler mi ha abituato a sguardi ben più pesanti. Jost non ha possibilità di competere, perciò reggo tranquillamente la tensione dello scontro. La mano è lì e non si sposta.
- Ho fatto il mio lavoro.
- Il tuo lavoro – urlo, stringendo i pugni, - dovrebbe essere prenderti cura di Bill!
- Il mio lavoro – risponde lui, gelido, - è stato prendermi cura della situazione perché non degenerasse.
Ghigno ironico.
- Bel lavoro hai fatto. Questa ti sembra una situazione non degenerata?!
Esita per un attimo, probabilmente perché lo sa, cazzo, se ne rende conto che è vero, ho ragione io, questa situazione è degenerata sì. Eccome se è degenerata. Siamo in un fottuto casino. E se Bill ha spento il cervello e magari al momento non l’ha ancora realizzato, la stessa cosa non si può dire di noi tre. Che stiamo qui a dare aria alla bocca – David davanti alla porta, neanche stesse facendo la guardia, io immediatamente di fronte a lui e Fler poco dietro di me, la mano sempre lì – e siamo in assoluto le persone che l’entità di questo casino indescrivibile la capiscono meglio.
- Non sono affari tuoi. – risponde infine, rilassando disinvoltamente le spalle. – Io non rispondo a te.
- Risponderai a Bill. – gli faccio notare, ringhiando sottovoce. Lui annuisce.
- Sì. Appena porrà le domande, risponderò a lui. Fino ad allora, io rispondo solo a Bushido.
E io, cazzo, li odio. Odio lui, odio Bushido, odio Bill ed odio anche la fottuta mano di Fler. Odio chiunque non si senta come mi sento io in questo momento. Ed odio anche quelli che ci si sentono. Perché la rabbia mi sta divorando e mi sembra di essere l’unico che abbia il diritto di perdercisi.
Grugnisco frustrato, voltandomi di scatto. La mano di Fler e la mia spalla perdono contatto per un secondo netto. Il tempo di girarmi. Poi è di nuovo lì.
- E mollami, Cristo. – chiedo burbero, lanciandogli un’occhiataccia irritata.
Lui scuote il capo.
- Ti dà fastidio? – chiede, indicando la mano con un cenno del capo.
Io sbuffo.
- Non particolarmente.
- E allora resta lì dov’è. – conclude serio, - Almeno finché non la pianti di voler sfondare la porta a calci.
- Non voglio niente del genere. – nego, distogliendo lo sguardo.
Fler sorride. Non lo vedo ma lo sento nell’aria.
- Come preferisci. – risponde. E la mano non si sposta.
Resta lì mentre mi chiede se voglio andarmene. La risposta è “no”, ma annuisco. Perché è meglio che Fler mi porti via. Resta lì anche mentre scendiamo le scale verso il piano di sotto, oltrepassiamo la porta, il vialetto e il cancello, e ci infiliamo in macchina. Eravamo in tre, in questa macchina, quando siamo arrivati. Tutto mi aspettavo meno di trovarci Fler, qui da Bushido. O meglio, un po’ me l’aspettavo, ma evitavo di pensarci. Comunque era qui. In macchina c’eravamo io, Bill e Jost. Adesso ci siamo io e Fler. Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile. Sempre lui. E la mano non si sposta. È scomparsa solo mentre ci mettevamo seduti. È di nuovo lì, adesso.
Rilasso la schiena contro il sedile e sospiro profondamente, gettando indietro il capo e chiudendo gli occhi. Sono furioso. Non serve a niente che faccia la sceneggiata dell’uomo triste ma tranquillo, Fler me lo sente addosso che non sono niente del genere. Non sono triste, sono furioso. Per niente tranquillo. Potessi, prenderei a mazzate un muro. Per il solo piacere di sentirmi dire “guarda che non puoi abbatterlo” ed abbatterlo comunque, fottuto mattone dopo fottuto mattone.
Un po’ mi dispiace che ci sia Fler in giro mentre sto così. Fler non ha molta fortuna. Almeno non con me. Finisce sempre che mi gira intorno quando ho voglia di devastare qualcosa. Non voglio finire di nuovo a devastare lui.
La mano di Patrick si stringe attorno alla mia spalla, massaggia un po’ i muscoli contratti – le dita bene aperte, il palmo aderente al tessuto della mia maglietta – e poi si ferma.
- Chaku, andiamo un po’ a casa tua, ti va? – e lo dice con un tono dolce che gli ho già sentito usare, qualche volta. Quelle volte in cui io e lui continuavamo a stare bene l’uno con l’altro anche quando non stavamo scopando, per esempio. Fler non ha una voce cattiva, ha una voce che può diventare tremenda se è gelida e furente, ma a livello base, quando è di buon umore, quando la ammorbidisce coi toni dolci, quando sorride, non è cattiva affatto. È piacevole.
Lo guardo, gli occhi socchiusi, e lui per qualche motivo arrossisce.
- Vuoi venire da me? – glielo chiedo non perché sono uno stronzo, ma perché voglio essere sicuro di aver capito bene. “Venire da me” non è mai stato privo di conseguenze, fra me e Fler. Ha sempre significato una cosa ben precisa. Stranamente, non mi sento in colpa nei confronti di Bill, a pensarlo adesso. Sarà perché so perfettamente cosa sta succedendo dietro la porta cui Jost sta facendo la guardia.
Fler spalanca gli occhi e, invece di ritrarsi come sarebbe ovvio, buono e giusto, stringe di più la presa.
- Peter… - mi dà i brividi che mi chiami per nome. Ultimamente, questo nome l’ha usato quasi solo Bill. Mi piace sentirlo su labbra non sue, da una voce non sua. Per una volta, cazzo, voglio che le prossime ore siano differenti dagli ultimi mesi della mia vita. C’è stato solo Bill nella mia vita, per nove fottuti mesi. Ciò che ho in cambio adesso è la sua bocca su quella di Bushido, le sue braccia attorno al suo collo e lui stretto al suo corpo come nel mondo intero non esistesse nient’altro. E allora no. Allora no, vaffanculo. Fa male. Non ci sto.
- Patrick. – lo chiamo a mia volta. Non distolgo lo sguardo e non mi muovo. La sua mano è ancora lì. Mi piace che sia ancora lì. Sono contento di non averlo scacciato.
È ridicolo, ci siamo appena chiamati per nome senza un perché.
- Forse è meglio se andiamo da qualche altra parte, invece di andare a casa tua.
- Forse è meglio se la smettiamo di nasconderci dietro un dito.
Fler arretra un po’. Solo qualche centimetro, poi si rende conto che è comunque seduto in macchina e non può certo attraversare lo sportello come fosse un fantasma. Si rende conto che per allontanarsi ancora dovrebbe per forza lasciarmi andare, voltarsi, tirare la maniglia, spingere ed uscire. Per qualche motivo che non comprendo – come al solito: non l’ho mai capito, io, perché Fler si ostinasse a restare – non si muove oltre. Resta lì. La mano trema appena, incerta.
- Peter, - continua a chiamarmi per nome, - io non ti sto mentendo. Mi manchi. Mi andrebbe. Ma non possiamo.
Mi muovo, accendendo la macchina ed ingranando la marcia, dirigendomi verso casa.
- Loro stanno potendo. Eccome. – ringhio, aggrottando le sopracciglia.
- Non sai se sta succedendo davvero. – dice lui, lasciando scivolare la mano lungo il mio fianco. Non può più tenerla lì dov’era ma non vuole interrompere il contatto. Comunque questo discorso potrebbe anche concludersi qui, perché io non gli ho neanche detto cosa penso e lui l’ha già capito. L’ha già capito perché anche lui l’ha pensato. E se lui l’ha pensato – e lui lo conosce bene, Bushido. E conosce bene anche Bill – allora sta succedendo. Cristo, io me lo sento nelle ossa, che sta succedendo. È una cosa così evidente e palese che mi sembra perfino ridicolo starne a discutere. – Non ti fidi?
- No. – sbotto senza neanche pensarci, - Non c’è scritto da nessuna parte che amare qualcuno significhi fidarsi di lui. Oltretutto, non mi pare che Bill mi abbia dato modo di fidarmi, negli ultimi dieci minuti. – mi fermo al semaforo, schiacciando la frizione con furia. – Magari, ok, glielo concedo, magari non scoperanno. Mi viene da ridere a pensarci, perché è una cosa ridicola, tu lo sai ed io lo so che scoperanno, ma ammettiamo per un istante che non lo facciano. In ogni caso, appena l’ha visto gli è saltato fra le braccia. Classica scena epica, ci aveva abituati tutti così, giusto?, Bushido gli si è inginocchiato di fronte, gli ha fatto il baciamano, “ciao, principessa”, e il secondo dopo eccolo che gli si scioglie addosso. A questo punto, scusa la franchezza, me ne sbatto il cazzo se scoperanno o meno. Mi sembra di avere già motivi a sufficienza per essere incazzato.
Non ribatte – ovviamente non ne ha il coraggio: ‘cazzo puoi ribattere se uno ha ragione? – perciò è così che restiamo – in silenzio, io mani sul volante, lui mano sul mio fianco – finché non arriviamo a casa mia. Non gli chiedo se vuole salire, a questo punto o sale con le sue gambe o lo trascino su io per il cappuccio della felpa.
Fortunatamente sceglie le proprie gambe. Io non so dove trovo la forza, la decenza e la presenza di spirito per non saltargli addosso appena ci chiudiamo la porta alle spalle. Fatto sta che, malgrado io non mi senta né forte né armato di decenza né tantomeno presente – allo spirito, a me stesso o a chicchessia – decido di prendermela comoda. Fler è qui, non penso intenda scappare ed al momento, se gli metto le mani addosso, mi sfogo. Non voglio sfogarmi. Non mi piace sfogarmi su di lui. Se dev’esserci qualcosa, oggi, non sarò io che gli faccio male. Non è questo che voglio. Lui è gentile a restare. Non se lo merita.
Comunque è nervoso. Lo vedo dal modo in cui cammina e si muove per l’appartamento, tirando su da terra le cose che incontra al proprio passaggio e continuando a lanciare occhiate incerte al frigorifero.
- Magari ci prendiamo qualcosa da bere? – biascica, indicandolo da qualche metro di distanza.
Scrollo le spalle.
- Non funziona. Non aprirlo. Ne viene fuori un odore nauseante. Non ti ci avvicinare nemmeno, fidati, è meglio. – e così dicendo, visto che non ho niente di meglio da fare, sfilo il cappellino e la felpa, restando in maglietta e pantaloni. Fler deglutisce.
- Potremmo provare ad aggiustarlo. – suggerisce a bassa voce, distogliendo lo sguardo.
Tolgo anche la maglia. Non intendo dirglielo ad alta voce. Non intendo dire ad alta voce che scoperò con qualcun altro che non sia Bill. Però voglio farlo. Voglio farlo ma non voglio dirlo, perché me ne vergogno. Mi torna in mente Fler che mi dice “mai vergognarsi delle proprie azioni, è da sfigati e noi non lo siamo”. Mi sa che sbagliavi, Pat. Sbagliavi alla grande.
- Sei un elettricista, per caso?
- No, ma so-
- Non mi interessa. – sfibbio il primo bottone dei jeans, - Non ti ho chiesto aiuto per sistemare il fottuto frigo.
Fler si inumidisce le labbra e resta in silenzio per qualche secondo. E poi indietreggia. Cristo, mi viene quasi da ridere. Indietreggia! Neanche lo stessi minacciando di pestarlo o chissà che. Cazzo. Si tratta di una scopata, cazzo. Ne abbiamo a decine in memoria, è una cosa quasi logica. A toccarsi solo un po’, andiamo avanti senza nemmeno rendercene conto. Lo so. Lo so che sarebbe così. Dovrebbe solo lasciarsi toccare, Cristo santo, e dopo sarebbe tutto normalissimo e naturalissimo. Dovrebbe concedermi solo questo.
- Patrick. – lo chiamo. Non so perché mi ostino ad usare il suo nome di battesimo. Sarà che oggi è strano. Se uso un nome che non uso spesso, posso fingere che non sia lui, posso fingere di non stare distruggendo qualcosa di bello che c’è nella mia vita per la frustrazione di una sera.
Fler mi ha detto no più volte di quante io riesca a contare. Mi ha detto una quantità sconcertante di no prima che mi mettessi con Bill ed ha ripreso a dirmi no quando io ho ripreso a mettergli le mani addosso. Posso tranquillamente dire che, da quando è morto Saad, le mie uniche costanti immancabili sono state Fler e i suoi no. Adesso, solo perché sono incazzato con Bill, le sto calpestando entrambe. E non mi va di farlo a Fler, perciò lo faccio a Patrick.
Lui mi guarda. È fantastico che non riesca a staccarmi gli occhi di dosso. Non posso dire che avessi dimenticato che era questo, l’effetto che facevo a Fler, perché in realtà non ho mai smesso di leggergliela negli occhi, la voglia. Così come lui non ha dimenticato come si fa a leggerla nei miei, suppongo. Ecco perché se n’è uscito con la questione dell’andare via. Perché ha visto la voglia tornare ed ha avuto paura di combinare qualche danno.
A me, in questo preciso momento, non frega più un cazzo. A non combinare danni per nove mesi, non ho guadagnato niente. La principessa mi perdonerà se, per qualche ora, la mando a fanculo, visto che lei lo sta facendo in favore di un re che dovrebbe – cazzo – essere morto.
Perciò niente, mi avvicino ancora e sfibbio un altro bottone. Fler indietreggia di un altro passo e trova il muro. Mi fissa con sgomento, quando solleva gli occhi su di me e mi trova a ghignare.
- Sei un tantino arrivato alla parete. – gli faccio notare con un mezzo sorriso.
Lui stringe le labbra, prima di parlare.
- Mi dai i brividi. – dice. E lo so. Do i brividi anche a me stesso. – Non voglio, Chaku.
- Peter.
- Chaku.
Scrollo le spalle e sfibbio l’ultimo bottone.
- Come vuoi. – faccio un altro passo verso di lui e siamo distanti appena un paio di centimetri. Sta schiacciato contro il muro, tanto è il bisogno che ha di non toccarmi. – Fler. Visto che ci tieni.
- Per favore. – chiede, ed a me viene ancora voglia di ridere. Potrebbe stendermi a cazzotti, se solo volesse. Potrebbe mandarmi a sbattere contro la parete opposta con uno spintone. Potrebbe rimettermi a posto in due minuti, non gli costerebbe nemmeno della vera fatica. Ma non lo fa. È debole, contro di me, ha una soglia di resa bassissima. Non so se questa consapevolezza, in questo momento, mi esalta o mi diverte di più. – Smettila.
- No. – dico seccamente, - Mi sono rotto i coglioni di smetterla. – lo afferro per i fianchi, tirandomelo contro. Impatto, scariche elettriche. Come sempre. Questo non cambia mai, Fler, come fai a non sentirlo?
- Chakuza! – mi chiama, più deciso, e fa il grave, gravissimo errore di posarmi le mani sul petto per cercare di spingermi via. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Quella che sembra vera solo a guardarla dall’esterno. Perché io che mi sento le sue mani addosso non l’avverto per niente. E mentre mi tocca se ne accorge anche lui, che non mi sta allontanando davvero. Glielo leggo negli occhi, che lo capisce. E che si chiede che cazzo stia succedendo. Che cazzo stia facendo io e che cazzo stia permettendomi di fare lui.
- Andiamo, Fler. – lo schiaccio contro il muro, le mani sotto la maglietta a divorare centimetri di pelle, - Non mi prendere in giro.
- Non voglio. – dice a fatica. La sua voce mi vibra sulle labbra mentre gli mordo il collo.
- Vuoi. – lo correggo, sporgendomi un po’ verso la sua bocca, - Non mentire.
- Tu sei uno stronzo. – ansima mentre armeggio con la cintura dei suoi pantaloni, - Sei uno stronzo e sei un bugiardo. Non dire a me di non mentire.
- In questo momento, non ti sto mentendo. – ringhio, infilando una mano oltre l’orlo dei jeans ed accarezzandolo lentamente attraverso il tessuto sottile dei boxer, - Quello che voglio lo sai. Manca solo che te lo chieda ad alta voce. Devo farlo?
- No! – ringhia, piegando un po’ il capo e socchiudendo gli occhi, lasciandomi scivolare le mani dal petto fino alle spalle e stringendo forte, - Cristo, no. Smettila. Non voglio.
E non l’ho ancora baciato. Non riesce nemmeno a lasciarmi andare. Non ho ancora neanche fatto finta di baciarlo.
Lo faccio, perché a Fler piace baciare. Ci si perde. Mi spingo in avanti e gli catturo le labbra con le mie. Le sto forzando con la lingua il secondo successivo, anche se forzare non è il termine più adatto, perché le trovo già schiuse in attesa di me appena le sfioro. Come dicevo, a Fler piace baciare, oh sì, gli piace un monte. Ci si perde del tutto e non capisce più niente. È l’effetto che su di me ha il sesso. A lui bastano i baci. Ciò dimostra che è un ragazzino, lo è sempre rimasto malgrado tutto ed io sono davvero lo stronzo che dice lui. Molto semplice. Non ho voglia di sentirmi in colpa anche per questo, al momento. Basta già il pensiero di star tradendo Bill. Che, cazzo, se lo merita. Ma mi fa sentire in colpa lo stesso.
- Chaku… - ansima esausto quando mi allontano da lui e faccio per tirargli via la maglietta di dosso, - Cristo, sei una merda. Smettila, per favore.
- Stai piagnucolando come un ragazzino. – gli faccio notare, mordendogli una spalla da sopra il tessuto, - Se mi vuoi fuori dai coglioni, prendimi a calci. Altrimenti lasciami fare senza lamentarti.
- …sto cercando… - deglutisce, piegando il capo mentre risalgo con le labbra la linea del suo collo, - …di non farti del male. Stai già male.
- Sto alla grande. – ritorco, spogliandolo di prepotenza, - Mai stato meglio.
Lui non mi guarda. Quando non mi guarda è perché sa che mi basterebbe guardarlo negli occhi per leggerci dentro che pensa io abbia torto. Non vuole darmi torto. Cristo. Perché dev’essere così? Sarebbe molto più facile – sarebbe molto, molto più facile – se fra me e Fler non ci fosse niente. Almeno non lo conoscerei così a memoria. E non potrei elencare così alla perfezione tutte le centinaia di modi in cui gli sto facendo del male adesso.
Lo so, Fler. Lo so che ti sto passando addosso come un fottuto carro armato. Lo so che ci stai di merda. Lo so. So anche perché non riesci a dirmi no, cazzo, da qualche parte dentro di me l’ho sempre saputo. Ma non ce la faccio a fermarmi. Non voglio. Non riesco a trovare un motivo per farlo, non ci riesco neanche provandoci. Bill non è un motivo, in questo momento. E Bill è stato un motivo per quasi tutto l’ultimo anno della mia esistenza. Perciò mi fa male che non lo sia più. E non ce la faccio a fermarmi, a queste condizioni. Non ce la faccio e basta.
- Spegnimi il cervello. – glielo soffio addosso come un’implorazione. Suona affranto e sconfortato allo stesso modo, almeno alle mie orecchie. Gli sfioro una guancia con le labbra, non è un vero bacio, è solo uno sfregamento, però è una cosa intensa. Lui si irrigidisce e si tende tutto sotto le mie mani. Lo guardo negli occhi, prima di continuare. – Spegnimi il cervello. – ripeto, - Sei sempre stato bravo a farlo. Non dirmi di no. Per favore.
E lui in effetti non me lo dice. Le sue mani – che sono ancora sulle mie spalle. Lo sono come lo erano quando siamo usciti da quella dannata stanza. Il modo in cui Fler mi tocca non è mai davvero cambiato – scivolano verso l’alto, lungo il mio collo. Mi aggancia alla nuca e mi accarezza con una tenerezza che con il sesso non c’entra niente.
Ecco, questo mi calma.
…questo mi calma.
La sua fronte sfiora la mia e restiamo a guardarci negli occhi da una distanza minuscola.
- Devo farlo. – mi sussurra sulle labbra, con un mezzo sorriso, - Bill non resterà per sempre chiuso in quella stanza, Peter. Quando ne uscirà, dovrete parlare. Ed allora desidererai di non aver scopato con me. – si prende una pausa, continua ad accarezzarmi la nuca ed io mi sento esplodere il cuore. – Non voglio essere un rimpianto. Tu me lo devi, questo. Non puoi fare di me un rimpianto.
Saranno le carezze, non lo so. Sarà la sua voce, che è di nuovo dolcissima.
Sarà che ha ragione. Non posso. Nemmeno voglio. Fare questo, che sia a Fler o che sia a Patrick… no, non voglio.
Comunque mi allontano. Lo faccio senza piacere, perché staccarmi da lui è difficile. Dio, lo è sempre stato, anche quando passavamo il tempo a cazzeggiare, figurarsi se non lo è adesso che è tutto diverso, tutto complicato e tutto doloroso.
Mi allontano e gli lascio spazio. Lui mi ringrazia con un sorriso e si china a recuperare la maglietta. La indossa, riabbottona i jeans e si dà una sistemata generale senza guardarmi. Io non gli stacco gli occhi di dosso. Non sono pentito di aver lasciato perdere. Mi manca il suo calore, la forma del suo corpo e il suo odore, sì, ma in un certo senso mi mancano sempre. Quando non c’è Bill, quando sto facendo qualcosa di insopportabilmente noioso, quando guardo una cosa a caso che mi ricorda lui, queste cose mi mancano sempre. Quindi non c’è niente di diverso. Sono calmo. È riuscito a calmarmi e vorrei poterlo odiare per questo, ma non ci riesco.
- Mi dispiace. – ammetto a mezza voce mentre lui recupera la giacca e si muove verso la porta.
Lo sento ridacchiare piano.
- Lo so. – annuisce indossandola, - Tu sei un disastro. Ormai ci ho fatto il callo.
- …mi dispiace anche per questo. – sospiro. Lui annuisce ancora e mi saluta. È già sparito, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che possa realizzare che lo sta facendo.
A questo punto mi guardo intorno. I soprammobili sono a posto. Non c’è quasi niente per terra. È tutto molto ordinato.
Conto le opzioni che ho per passare il resto della nottata. Non sono molte, penso, mentre afferro soprammobili a caso e comincio sistematicamente a lanciarli in giro per la stanza.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla."
Note: …ebbene è successo XD Non so se ve lo aspettaste e, in caso ve lo aspettaste, se ve lo aspettaste così. Io e Tab – che questa shot l’abbiamo scritta insieme per il semplicissimo motivo che ci saremmo entrambe strappate i capelli dalla testa se avessimo dovuto scriverla da sole, per motivi diversi ma complementari XD – sappiamo con certezza che almeno una di voi (senza fare nomi e cognomi ma solo nickname: FedyKaulitz XD) ci era arrivata molto – ma molto – vicina. Per il resto, speriamo che nulla di ciò che è stato scritto qui sopra vi abbia deluso. Liz ci tiene a specificare che ama moltissimo Bushido e l’ha amato in questa shot in pratica come mai prima XD Tab ci tiene a rimarcare il suo odio, BTW. Quanto al resto, ci si vede venerdì per lo spin-off :)
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CRASH INTO ME

Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill, David/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo."
Note: …*risata malefica in dissolvenza*
Ed io tendenzialmente il mio lavoro l’ho concluso *indica la risata* ma a questo punto vi aggiungo anche che “La sospensione dell'incredulità è un particolare carattere semiotico che consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un'opera di fantasia”. A mio modesto parere (mio di liz) questa storia non è incongruente. Se avrete la bontà di aspettare, tutto sarà spiegato. Ma Tab ci tiene perché è paranoica *annuisce* E comunque è un concetto che piace molto anche a me, quello della sospensione d’incredulità, perciò, ecco, sospendetevi :*
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Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo.

SCHMETTERLINGSEFFEKT

C’è il sole, oggi. È una bella giornata, bella davvero, di quelle che poi da queste parti sono rare, perché il cielo di Berlino è quasi sempre una macchia grigia uniforme che ti dà l’impressione di essere un blocco di cemento. Ti sembra pesante allo stesso modo, almeno, ti sembra che a lasciartela cadere sulla testa ti schiaccerebbe a morte.
Dentro l’Audi nera d’ordinanza che mi è stata esplicitamente richiesta per mantenere il più possibile l’anonimato, io guardo il cielo di oggi – che non è grigio, ma di un bel celeste arioso e fresco – e penso che sto andando a tirarlo giù. Lo sto facendo consapevolmente e colpevolmente. Ed anche se, col cemento, quest’azzurro non c’entra niente, penso che, quando ci cadrà in testa, sarà pesante comunque.
Mi chiedo se Bill sia diventato forte abbastanza da reggere il colpo. Mi chiedo se sia maturato abbastanza, se le sue spalle si siano inspessite, se le sue gambe siano diventate più robuste, le sue braccia più salde. Me lo chiedo e lo rivedo come l’ho visto due giorni fa, prima che Chakuza lo caricasse in macchina per portarlo a Disneyland. Lo vedo piccolo e sottile e stupidamente felice come ha reimparato ad essere solo di recente. E realizzo che potrebbero passare anche anni, ma un colpo simile Bill non riuscirebbe a sostenerlo proprio mai.
*
Osservare le cose dall’esterno, in questi ultimi mesi, è stato come osservare delle piante ricrescere in giardino dopo l’inverno. Tra l’altro, il paragone è più che appropriato – suppongo che le metafore azzeccate siano ciò che mi resta in eredità dei Bed&Breakfast e degli aiuti a Bill quando ancora si rivolgeva a me se doveva scrivere una canzone – perché intorno a dicembre io mi sono guardato intorno e, proprio come un giardiniere, ho portato con desolazione le mani ai capelli e mi sono detto che, come niente, avrei perso tutto il roseto.
I problemi sono cominciati la notte – o meglio, l’alba – in cui Tom, strillando come una scimmia isterica, mi ha chiamato al telefono, implorandomi di andare subito a casa sua, perché Bill “palesemente s’era rincoglionito e lui aveva bisogno di una mano per tirarlo fuori dal pantano di merda in cui era caduto”.
Tom tende ad iperreagire, quando si tratta di suo fratello, questo c’è da dirlo. Basta toccarglielo e lui impazzisce. Gli ho visto fare delle cose assurde – investire la discografia di Bushido non è stata neanche la più allucinante; per dire, sono stato io ad applicare cerotti su cerotti su quella sua allucinante faccia da schiaffi, quando è tornato una notte alle quattro abbaiando che “quelli non erano rapper ma animali”. Alla mia domanda legittima – “Cosa hai fatto per meritare le botte, Tom?” – lui ha risposto altrettanto legittimamente – “Ho dato a Bushido del pedofilo” – e, a quel punto, sono stato io ad abbaiare “tu non sei un chitarrista, sei un microcefalo”. Questo per dire che, quando entra in conto Bill, Tom smette di ragionare e segue il flusso dell’amore indiscusso che prova per lui. Solo che è un cretino, quindi come si muove sbaglia.
In ogni caso, questa tendenza all’esagerazione di Tom mi ha portato a prendere sottogamba la questione. Voglio dire, io dormivo, quando lui ha chiamato. Per cominciare a ragionare con un minimo di senso, a me serve del caffè. E non ho mai del caffè in casa prima delle sette, perché per preparare del caffè devo prima alzarmi dal letto, naturalmente, e ciò non avviene quasi mai prima di quell’orario, a meno di casi straordinari. Quindi, in poche parole, ho cercato di calmarlo e rimandarlo a nanna – sperando che ci fosse stato, a nanna, almeno per qualche ora.
Il problema – enorme – di Tom è che, quando sragiona, si fissa. Non ne esce più. Ha odiato Bushido per anni, cominciando vagamente ad accettare l’idea della sua presenza – e più con rassegnazione che con piacere – solo qualche mese prima che morisse, per dire. E tutt’ora prova dell’antipatia palese per Chakuza, nonostante non sappia cosa c’è in realtà fra lui e suo fratello, perché a suo dire è troppo presente nella vita di Bill. E, ripeto, Tom non ha idea dei modi e delle misure in cui Chakuza è presente nella vita di Bill. Non sa che la vita di Bill è ancora una vita e non un insieme di vuoti solo perché Chakuza li riempie tutti. Non sa che c’è lui dietro ad ogni sorriso, ad ogni occhiata dolce, ad ogni gesto tenero di suo fratello. Non sa che Bill ha ricominciato a respirare davvero solo perché ora può farlo anche dalle sue labbra. E, pur non sapendo tutte queste cose, lo malsopporta.
Tom si è fissato anche quella notte. Mattina. Insomma. Non c’è stato verso di scollarlo dal telefono, perciò alla fine mi sono rassegnato, mi sono vestito, ho mandato giù del latte di soia nella speranza che risvegliare il mio apparato digerente servisse anche a risvegliare il resto del mio corpo e mi sono messo in macchina, alla volta dell’appartamento del mio angosciato chitarrista.
All’arrivo, Tom mi ha accolto con aria tesa. In genere, quando sclera, Tom è molto buffo, perché si agita tanto, strilla e strepita. Se ritiene tu non stia capendo abbastanza profondamente il motivo del suo sgomento, ti scuote per le spalle. Come se servisse a qualcosa. Quella mattina, invece, me lo sono ritrovato che mi fissava serio, le sopracciglia aggrottate, tutto intento a torturare coi denti il labbro inferiore, fino a screpolarlo.
“Sono sconvolto,” mi ha detto, mentre mi invitava ad entrare ed a chiudermi la porta alle spalle.
“Sì, lo vedo,” ho risposto io, appendendo la giacca all’attaccapanni e sbirciando lungo il corridoio verso l’unica luce che vedessi, e che proveniva dal salotto, “Qual è il problema?”
Tom ha esitato, prima di rispondere. Ha deviato un po’ lo sguardo verso un punto vuoto oltre le mie spalle, e poi è tornato a guardarmi fisso ed ha schiuso le labbra.
“Che Bill non lo è. Non è sconvolto. È questo, il problema.”
In realtà, questo era parte del problema. Io sono abituato a guardarli tutti in faccia e nel complesso, i drammi. Il mio mestiere è sbrogliarli. Risolverli. Fare in modo che tutto si concluda bene. E sono bravo a farlo – è questa la ragione per cui mi trovo oggi in questa posizione del cazzo. Tom no, Tom del problema vede solo quello che gli interessa. Come quando suo fratello è stato male e ciò ci ha costretti a cancellare un tour; per Tom, l’unica cosa importante era il dolore di Bill, non il dramma economico e pubblicitario che da quelle cancellazioni sarebbe derivato. In quel caso, fu la stessa cosa.
Suo fratello aveva ucciso Saad. Saad era l’uomo che aveva ucciso Bushido. Fler e Chakuza gli erano rimasti accanto per tutto il tempo e non avevano mosso un dito che fosse uno per fermarlo. Questo era il problema nella sua completezza. Ovviamente, però, a Tom interessava solo che suo fratello non fosse turbato quanto sarebbe stato giusto dall’aver premuto il grilletto e spedito un proiettile nel mezzo della fronte di un altro essere umano.
L’apatia di Bill – se poi di apatia si poteva parlare; io, per dire, l’avrei descritta più come serena accettazione – non era dunque tutto il problema. Ne era però una consistente parte, e questo era abbastanza chiaro. Io, Bill, lo trovai seduto sul divano che guardava fisso davanti a sé senza particolare interesse, come stesse guardando scorrere l’acqua di un fiume. Pure un po’ annoiato, per la verità.
Quando mi raccontò cos’era successo – ripetendo le stesse parole che aveva già detto al fratello, immagino, perché sembravano rodate. Di quei discorsi che vengono fuori dopo che te li sei ripassati mentalmente almeno una ventina di volte – lo fece con incredibile calma. Con enorme compostezza. Le mani rigide strette in grembo, le ginocchia che si sfioravano, il petto scosso appena dai respiri. Sul volto, un sorriso rassicurante e serafico che mi diede i brividi. Me li dà ancora, a ripensarci.
Bill non ha omesso niente, nel racconto. Tant’è che quando, per scrupolo, sono andato da Fler a chiedergli la sua versione dei fatti – anche per capire cosa ne avessero fatto del corpo. Ed è incredibile con quanta freddezza si possa arrivare a pensare, quando hai già visto un altro uomo morire – non l’ho trovata differente nemmeno in un punto.
Bill non ha cominciato ad avere un problema quel giorno. Bill ha cominciato ad avere un problema quando il suo problema principale è svanito.
Durante i mesi precedenti all’assassinio di Saad, Bill aveva vissuto con l’unico obiettivo di mettere il punto a quella storia. Voleva essere lui a farlo perché lo sentiva come un suo diritto. Anzi: perché Bushido gli aveva dato quel diritto. L’aveva fatto portandoselo a letto, dicendogli di amarlo, rendendolo una parte tutt’altro che ininfluente della propria esistenza. Facendolo suo, in pratica. Bill, quel diritto, l’aveva per concessione regale, per dirla con parole che a Bushido farebbero anche un gran piacere. Non credo che Bill pensasse di farlo fuori fin dall’inizio, eh. Penso però che volesse essere lui a trovare il modo in cui concludere la storia. E penso che, quando ha guardato Saad negli occhi – forse anche prima, forse anche solo pensando a come si sarebbe sentito guardando Saad negli occhi – abbia deciso che quello andasse bene. Che un proiettile fosse sufficiente.
Risolta la questione, Bill ha cominciato ad appassire. È una cosa piuttosto normale, credo: il fiore ha un fine. Il fine del fiore è il frutto. Il fiore muore, appena il frutto nasce.
Cosa sia successo fra Bill e Chakuza, io non lo saprò mai con certezza. Bill non ne parla volentieri. Neanche con me, pure se ha dovuto per forza informarmi almeno in parte di ciò che stava succedendo, visto che – come sempre – a me è toccato coprirlo. Con suo fratello, con la stampa, col mondo, sostanzialmente. Mi è sembrato di ripetere l’esperienza Bushido, per certi versi. Quasi avrei voluto dire a Bill “l’hai visto, com’è andata la prima volta. Allora?”.
Bill non parla di Chakuza perché Bill ha un modo molto intenso di vivere le storie d’amore, quando iniziano. Visto che è una testa dura e si caccia sempre in situazioni complicate, è naturale che poi abbia paura di distruggere tutto e vedere il frutto della propria fatica spargersi sul tavolo come un castello di carte abbattuto da un soffio. “Meno ne parlo”, pensa, “più facile sarà che resti tutto in piedi”. Quindi, anche se io so dove va a dormire, e con chi esce, e con chi scappa a Disneyland, e di chi sono i segni rossi che ha sul collo quando arriva agli studi brillando di luce propria, non saprò mai nel dettaglio com’è che i fatti si sono svolti. Come si siano mossi. Quando abbiano cominciato.
Per certi versi, è molto meglio così. Perché sono bravo a coprire le cose, ma ci sono persone alle quali non riesco a nascondere quasi niente.
Purtroppo, da un annetto a questa parte, lavoro alle dirette dipendenze di una di queste.
*
Fatto sta: Bill e Chakuza stanno insieme, e per quanto io abbia svariati milioni di motivi per pensare questo sia l’errore del secolo, per quanto io continui intimamente a credere che probabilmente avrei dovuto recuperare Bill per i capelli e riportarlo dalla parte giusta della Germania quando Bushido è morto, devo purtroppo ammettere che Bill non sarebbe qui – bello, in salute, possibilmente neanche vivo – se non ci fosse stato Chakuza. La tensione che ha tenuto Bill insieme quando Chakuza non c’era era la furia con la quale lui cercava di sfuggire a ciò che stava provando nei suoi confronti. Quando quella tensione si è sciolta – quando Bill ha smesso di fuggire – si sarebbe certamente disfatto, se a quel punto non ci fosse stata una forza di tutt’altro tipo a tenerlo insieme. La forza di tutt’altro tipo, nel caso di specie, è quella delle braccia di Chakuza. Delle sue spalle, della sua strana, complicata maturità e di quello che prova per Bill.
Chakuza, Dio mio, lo adora. Anche Bushido lo adorava, ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso, nei loro sguardi, che è evidente se solo li si sa guardare. Bushido guardava Bill come fosse una cosa propria, quasi un pezzo di corpo. I suoi occhi riflettevano un senso di appartenenza che rendeva Bill orgoglioso.
Chakuza, invece, lo guarda come se fosse un regalo. Qualcosa di totalmente inaspettato, che è nuovo ogni volta che cambia la luce, il giorno, l’angolazione o la prospettiva. Qualcosa di diverso che non riesce ancora a capire perfettamente e che, anche per questo, lo avvince. I suoi occhi riflettono un senso di gratitudine che rende Bill orgoglioso. Ancora. Credo che Bill abbia pensato che non avrebbe mai più provato niente del genere. Ed invece è capitato di nuovo. È per questo che Bill guarda Chakuza con la stessa gratitudine con la quale viene osservato.
Per certi versi, ciò che lega loro due è molto più maturo di ciò che un tempo ha legato Bill a Bushido.
Questa sarebbe una cosa bellissima. Se solo io oggi non fossi in questa dannata Audi nera di merda. Direzione aeroporto.
*
Bushido era un uomo molto organizzato. Il fatto che, generalmente, si comportasse come un cretino – divertendosi a tirare scemo chiunque, per esempio – mi ha spesso fatto perdere di vista la verità fondamentale per la quale, per fare il suo mestiere e gestirsi adeguatamente, uno debba per forza esserlo.
Il mestiere di Bushido… è complicato definirlo. Bushido era un cantante. Fin qui, tutto chiaro. Bushido era anche un personaggio pubblico, e questo faceva mestiere a sé indipendentemente anche dal canto. Era famoso perché cantava, ma non era rimasto famoso solo perché aveva cantato. Mantenere un’immagine pubblica che ti tenga di continuo sulla cresta dell’onda non dipende solo da quanti biglietti riesci a vendere in occasione di un concerto, o da quanti dischi d’oro riesci a piazzare appesi alle pareti dei tuoi studi. Serve altro, servono le sbruffonate, l’iperpresenza sugli schermi – di qualsiasi tipo – serve del fascino e serve saperlo usare. Bushido, in tutto questo, è sempre stato bravissimo. Suppongo fosse così perché s’è sempre gestito da solo, fin da piccolo. Errori su errori, a un certo punto impari.
In aggiunta a tutto questo, l’altro mestiere di Bushido – un lavoro a tempo pieno – era quello di non perdere contatto con le proprie origini. Quando vivi in un bel quartiere residenziale, circondato da alberi rigogliosi, con una piccola piscina sul retro, Spongebob in televisione e World Of Warcraft sempre acceso sul pc, ci può anche stare che ogni tanto ti dimentichi di essere venuto da un ghetto, dallo spaccio e da tutto il resto.
Bushido non era un criminale.
Non più, almeno.
Ma c’era un pezzo di lui che era rimasto a Tempelhof. Era un pezzo di lui che aveva il suo valore. E che in caso di bisogno doveva farsi valere.
Quindi no, Bushido non era un criminale. Ma aveva ancora un nome che sapeva farsi rispettare, se qualcuno aveva bisogno di un favore.
Ed anche questi sono mestieri, suppongo.
È evidente, comunque, che quando devi gestire tre situazioni così diverse fra loro – devi cantare e devi essere un pagliaccio e devi anche ricevere all’Ersguterjunge gente che ti parla dei suoi problemi in stile Padrino, ecco cosa intendo – devi anche saperti organizzare. Devi essere uno che guarda piuttosto avanti nel futuro, uno che capisce come andranno le cose prima ancora che quelle comincino a muoversi in una determinata direzione. Perché non puoi permetterti di essere impreparato di fronte ai casi della vita, no, devi prevederli sempre e devi prevederli tutti.
Nella maggior parte dei casi, non puoi nemmeno farcela da solo. Anche se Bushido, ammetto, si destreggiava più che bene anche prima che arrivassi io.
Io non ho capito cosa Bushido intendesse esattamente quando mi ha chiesto se ero bravo a sistemare le cose, almeno fino a che non ho avuto qualcosa da sistemare per lui. E questo è successo tre giorni prima che morisse.
Tre giorni prima che morisse – prima ancora di andare da chiunque altro, sospetto – Bushido è venuto da me. Mi ha detto chi era, mi ha tenuto fermo in una kebaberia per circa tre ore solo per descrivermi da dove veniva, cosa c’era nella sua testa e, soprattutto, cosa stava preparandosi ad affrontare.
Dopodiché, senza nemmeno chiedermi se per caso mi andasse di farmi assumere da lui, ha cominciato a darmi direttive.
Non è che abbia dato per scontato il mio assenso, eh. Questo ci tengo a precisarlo, perché Bushido non ha mai dato per scontato nulla. Anzi, è probabilmente l’uomo che si aspetta di meno in assoluto, dalla vita. Direi quasi che non si aspetta proprio un bel niente. E tutto il suo modo di pensare, di agire e di risolvere le cose, si esprime così. Proprio perché non si aspetta nulla di gratuito, lui le cose se le prende. Il mio assenso – la mia complicità… quello che ora si esprime in me che viaggio verso l’aeroporto – lui non l’ha dato per scontato. Se l’è preso. Punto.
Insomma, gli ordini erano molto semplici: “nel caso dovessi morire – nel caso, Jost, non fare quella faccia, lo so che ti mancherei più di quanto potresti sopportare, ma cerca di essere uomo e forte” “Bushido, fottiti” “Oh! Come sei sboccato” una risata delle sue, “Nel caso dovessi morire, Jost, a Bill sto già pensando da adesso. Chakuza, uno dei miei, non è ancora nel giro come gli altri. Non che sia un pivello, è solo che la sua testa fa più resistenza. Sarà che è austriaco. Sarà che è un cuoco. Sarà che stava in fattoria coi genitori, tipo. Sarà che era biondo ossigenato, quando l’ho conosciuto” e giù altre risate, “Comunque a Bill penserà lui. Lo terrà su di morale. Ma non posso contare sul suo lavoro per tenerlo anche lontano dai guai con la stampa. Quello posso tranquillamente affidarlo a te – posso, vero? – tu le sai sistemare, queste cose”.
Al di là del suo essere come al solito un intollerabile buffone, si capiva lontano un miglio stesse parlando con estrema serietà. Questo per il semplice fatto che Bushido era un uomo molto orgoglioso. Non arrivava a chiedere niente, se non sapeva di averne effettivo bisogno. È uno dei motivi per cui, quando Bushido chiedeva, la gente non si tirava mai indietro. Perché ci si rendeva tutti immediatamente conto del fatto che c’era evidente necessità.
Quando, tre giorni dopo, Tom mi chiamò per dirmi che lo stronzo era morto, che Bill piangeva avvinghiato al suo dannato cadavere fino a pochi minuti prima e che adesso il corpo era in viaggio verso l’ospedale – “…l’ospedale, Tom?” “…sì. Era ancora… respirava. Poco. Ma respirava. A Bill non l’ho detto.” – io sono andato lì solo perché dovevo preparare l’ospedale all’arrivo del mio protetto. Era ciò che mi aveva chiesto Bushido, in fondo, no? E conoscevo Bill abbastanza da sapere che, una volta realizzato che il corpo del suo uomo non era più lì, non gli stava piangendo addosso e non lo stava sentendo sotto le mani, la prima cosa che avrebbe chiesto – e l’avrebbe anche ottenuta, perché Tom, alla fine, non riesce a negargli mai niente – sarebbe stato farsi portare dovunque fosse lui.
Dovevo disporre la sicurezza. Dovevo parlare coi medici. Dovevo parlare con le infermiere.
Di certo non mi aspettavo che, appena messo piede nell’edificio, un medico mi raggiungesse e, con aria piuttosto seria, mi rivelasse candidamente che “avevano avuto esplicita richiesta di conferire solo con me”.
A ripensarci, rivedo la scena con una perfezione tale che non sembrano passati nemmeno due giorni. E invece è quasi un anno. Il medico che mi si avvicina – “Il signor Jost?” – io che esito – “Sono qui perché-…” – lui che mi interrompe – “Abbiamo ricevuto esplicita richiesta di conferire solo con lei” – io che lo fisso disorientato – e penso: è arrivato fino a questo punto, quell’essere assurdo? È venuto a parlare perfino coi medici, in previsione della propria morte? – e lui che mi poggia una mano sulla spalla e mi conduce di là. E Bushido sul lettino.
Mentre i miei ricordi indugiano sul suo volto pallido e provato – Bushido aveva la capacità di diventare, tipo, bianco, quando stava male. Non un bianco da carnagione chiara, un bianco spaventoso, cadaverico. Appropriato, direi, vista la situazione in cui si trovava in quel momento – le porte a vetri smerigliate e scorrevoli della sala arrivi dell’aeroporto si spalancano, ed io osservo il flusso di turisti americani che sfilano allegramente fra i nastri trasportatori per recuperare i bagagli e godersi un po’ di sane vacanze europee; osservo anche i tedeschi che tornano dalle spiagge d’oltreoceano, arrossati dal sole e con certi sorrisi da pubblicità – non tanto per la perfezione, quanto per la felicità che mostrano – che ti riempiono il cuore; e fra una persona e l’altra, un po’ mescolato fra la folla, i capelli lunghi che sfiorano il collo, gli occhiali da sole a coprire quasi metà del viso ed il pizzetto curato a rendere anonima e irriconoscibile l’altra metà, osservo anche lui.
Si guarda intorno. Sta cercando me. Le linee nere e definite del tatuaggio sul collo spuntano appena, giocando a nascondino col colletto della camicia bianca che spunta dallo scollo a v del maglioncino di cotone blu che indossa. È, forse, un po’ troppo leggero per il periodo in cui siamo. È roba primaverile, mentre qui le porte dell’autunno si schiudono lasciando passare i primi spifferi di freddo. Immagino che i lunghi mesi di soggiorno a Miami abbiano un po’ sfasato il suo termostato naturale. Ed era già sfasato di suo, eh, capacissimo di andare in giro in maniche corte in pieno inverno. L’ho visto coi miei occhi.
Quando finalmente mi trova, sorride. Ed anche se al momento vorrei alternativamente prenderlo a cazzotti, rispedirlo negli Stati Uniti con un calcio o terminare il lavoro che Saad non è stato evidentemente capace di concludere, sorrido anch’io. Perché mi tira fuori uno di quei sorrisi brevettati ai quali non puoi sfuggire. Sono cose solo sue.
Peraltro…
- Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?
Bushido ride ad alta voce e posa l’enorme trolley rosso che si trascina alle spalle.
- Ti sono mancato, Jost? – chiede con aria fascinosa, piantando una mano sul fianco.
Io inarco un sopracciglio.
- Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro.
Lui finge disperazione ed inarca le sopracciglia verso il basso, sfilando gli occhiali da sole per potermi somministrare più disinvoltamente quella specie di occhiata da cucciolo bastonato che non so come riesca a tirare fuori all’occorrenza, dall’alto del suo abbondante metro e novanta.
- Ma mi hai fatto tornare tu! – si lamenta con aria affranta.
Io sospiro.
- Sì. – ammetto, - Ti ho chiamato io. – “e me ne sto già pentendo”, vorrei aggiungere. Ma lui ha ricominciato a sorridere. E insomma. – L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente.
- Sdrammatizzo, Jost. – mi corregge, riprendendo a muoversi disinvoltamente verso l’uscita. Ricorda ancora tutto perfettamente, un po’ mi fa pensare che sia venuto altre volte, nel corso dell’ultimo anno. Altrimenti non si spiega la sicurezza con la quale si riappropria degli ambienti. Poi però ricordo che lui è Bushido, che le cose non le vive, le possiede, perciò non mi pare più nemmeno tanto strano che ricordi ancora perfettamente Berlino-Schönefeld.
Io sospiro ancora e gli vado dietro. Non ho nemmeno bisogno di guidarlo verso la macchina, ricorda anche lei. Pure se l’ultima volta che l’ha vista è stata quando l’ho accompagnato proprio a questo aeroporto, un anno fa. L’altra volta era in partenza, però. Stavolta è di ritorno. E non so ancora per quanto.
- Allora. – comincia tranquillamente, aspettando che abbia aperto il portabagagli per posare al suo interno la valigia, - Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. – aggiunge con una risata naturale.
È cambiato, tanto per cominciare, che il Chaky non ti vuole solo chiudere l’azienda, ma si diverte anche a chiudere il tuo ex ragazzo nel proprio appartamento. Con la di lui complicità e per la sua gioia, peraltro. Gioia che condividono solo loro due, inoltre, perché in quei periodi Tom sclera – e sto finendo le scuse plausibili al riguardo, lo ammetto. Credo di aver raschiato il fondo con “è in beauty farm”, la settimana scorsa – ed io non me la passo mai in maniera piacevole, quando Tom sclera. C’è di nuovo anche che, ricordi l’altra tua ex? Cassandra? Ecco, quando Tom non è impegnato a sclerare perché non capisce con chi sta uscendo suo fratello, si vede con lei. E non credo giochino a scacchi, quando lo fanno. C’è poi quell’altro tuo ex ragazzo, quello che non è mai diventato tale, Patrick, lo ricordi lui? Ecco, lui me lo sto perdendo. Non credo di aver mai visto Fler triste com’è in questo periodo. Ed è un anno che ci gira intorno, sai? Non è bello quando vedi uno che sta decorosamente bene ridursi così. Ed i motivi, peraltro, sfuggono a tutti meno che a me, perché grazie a te – o per colpa tua – ho imparato ad osservare.
Sono cambiate un mucchio di cose, Bushido. Del tipo che prima si stava bene. E adesso è un casino. Ma come si fa a dirtelo?
- Be’, fa più freddo. – annuisco con aria competente, - Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?
Lui scrolla le spalle ed entra disinvoltamente in macchina.
- Non ho lasciato niente lì. – risponde sovrappensiero, quando mi osserva sedermi al posto del guidatore. Lo guardo con sincero sgomento. – Intendo… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-
- Bushido… - lo recupero dal vortice di pensieri assolutamente inopportuni in cui si sta allegramente gettando, - ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-
- Tranquillo, Jost. – mi interrompe con uno sbuffo infastidito, - Non ho intenzione di restare più del necessario.
Al che, giustamente, mi viene da rispondere “No, noi avevamo concordato che non saresti rimasto più di un mesetto, giusto il tempo di risolvere la questione. Com’è che adesso un mesetto è diventato il necessario? E perché il necessario mi fa paura, come periodo di tempo?”. Però non lo faccio.
- Sarà. – borbotto scontento, mettendo in moto. – Comunque sia-
- Non mi farò vedere da anima viva. – mi interrompe ancora, - Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?
- Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, - sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo, al momento. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo perché ricordo fin troppo bene che nove mesi fa le dita che adesso pestano sulla tastiera del cellulare, scrivendo messaggi diretti non so e non voglio sapere a chi, sfioravano la mia pelle. Non mi fa bene. Non mi fa bene per niente. Sono evidentemente un cretino. - …bentornato, ecco.
Bushido ride, non solleva gli occhi dal cellulare e mi molla un paio di pacche sulla spalla.
- Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu.
E se da un lato penso che, grazie a questa sfacciata naturalezza, per certi versi avere a che fare con lui è incredibilmente facile, dall’altro lato penso che lo odio. La mia giornata di oggi è un continuo realizzare che, da questa situazione, non riusciremo mai ad uscire vivi.
*
Ho appena lasciato Bushido in uno dei numerosi appartamenti che ha continuato a tenere qua a Berlino nonostante, quando è andato via, non si pensasse minimamente all’eventualità che potesse tornare. In realtà, il fatto che ci fossero ancora tutti questi appartamenti a suo nome, qui nei dintorni, avrebbe dovuto darmi da pensare in tal senso. Voglio dire, non tieni la zavorra inutile di dieci dannati posti vuoti, se non pensi che prima o poi tornerai a utilizzarli. Soprattutto, non li tieni quando sai che la tua etichetta è destinata a chiudere e sai anche perfettamente che, vendendo quelli, potresti tranquillamente sopravvivere di rendita per tutto il resto della tua esistenza. Quindi sì, in effetti avrei dovuto pensarci. O avrei dovuto costringerlo – convincerlo, Bushido non lo costringi mai – a venderli.
Gli ho promesso il kebab per cena. Quell’uomo, alle volte, è un bambino. Nel senso che se gli prende un capriccio, vallo a smuovere, poi. Non si può. Avrei potuto fargli la spesa e preparargli un buon piatto di pasta – dice di aver imparato a cucinare, mentre stava a Miami, ma che vuoi che si impari a cucinare in America? Gli hot dog? – ma lui no, lui vuole il suo intruglio malefico e disgustosamente piccante che peraltro io non posso mangiare in quanto riempito fino a esplodere di carne varia ed eventuale, ovviamente. Niente pasta, il kebab, per lui. È stato palesemente troppo lontano da casa.
Perciò, è cercando una kebaberia che chiamo Bill al cellulare. Giusto per capire se sta bene e se si diverte. O forse solo perché mi sento in colpa.
- David! – strilla lui, la voce che sprizza gioia ad ogni nota, come nei migliori casi di esaltazione zucchero-indotta. Chakuza deve averlo ingozzato di dolcetti.
Sorrido intenerito, anche se, da qualche parte dentro di me, sto strillando “santo cielo” in tutte le lingue che conosco. E non sono così poche.
- Bill, ciao. – lo saluto, individuando finalmente una kebaberia ed introducendomi all’interno dell’ambiente caldo e saturo dell’odore forte delle cipolle, delle olive, delle salse piccanti e della carne che ruota sullo spiedo. – Dove sei?
- Disneyland! – riprende a strillare. E lo immagino sollevare un braccio in segno di gioia. Come il bambino che sta ricominciando ad essere da quando può. – Puoi crederci? Siamo appena usciti… entrati… cioè, siamo usciti dal parco ed entrati in albergo! – e sottolinea l’imbarazzante confusione da allegria con una risatina sottile e divertita.
- Aha, capisco… - mugugno, indicando al ragazzo dietro al bancone di preparare due panini con… be’, tutto quello che vuole metterci, è indifferente. – Sei con… - ed esito, perché ho paura a parlarne con Bushido che mi aspetta in quell’appartamento buio e silenzioso a qualche strada da qui.
Bill, comunque, non mi lascia rispondere. È ansioso di dirlo lui, quel nome.
- Sìsì! – miagola entusiasta, - Sono con Peter, stiamo decidendo se andare fuori a cena! E oggi mi ha comprato un mucchio di caramelle, non è carino?
- …già. – annuisco a fatica, - Molto. Senti… pensate di rientrare in settimana? O comunque a breve?
- Assolutamente no! – ride ancora lui, - Avanti, David, è il nostro mesiversario, te l’ho detto tre giorni fa! Non starai mica per dirmi che c’è del lavoro da fare…
Per un secondo, accarezzo l’opportunità di smontargli i piani. Non perché non voglia che sia felice, tutt’altro, dubito che esista un’altra persona al mondo – a parte Tom – che voglia Bill felice più di quanto lo voglia io. Solo che mi viene da pensare che fra poco ricorrerà il compleanno di Bushido. Sarebbero trentun anni, se non fosse morto. Che poi non è morto davvero, d’accordo, ma certe volte – in maniera del tutto irrazionale – mi viene da pensare che Bill questo lutto non l’abbia vissuto per niente bene. Che si sia distratto troppo.
Non lo so, in realtà non mi pare che il lutto di Bushido sia stato davvero vissuto per bene da qualcuno. Forse solo da sua madre. La cosa è un po’ ironica e un po’ – tanto – triste. Vorrei solo che Bill non fosse con Chakuza, adesso. E lo penso mentre il ragazzo dietro al bancone mi consegna i due panini incartati e insacchettati.
- No, no. – lo rassicuro con una mezza risata, porgendo al ragazzo una banconota da dieci, e attendendo il resto, - È tutto a posto. Volevo solo esserne sicuro. Per stasera non ci sentiamo più, giusto?
- No, infatti. – annuisce lui, più tranquillo, - Pensavamo di fare tardi. – aggiunge poi, con una mezza risatina.
Sospiro profondamente, intascando le monetine e tornando in strada.
- D’accordo, Bill. Avete il mio benestare, anche se volete andare fuori a cena. Però, ti prego, non costringermi a correre dietro i paparazzi sventolando assegni nella speranza di salvaguardare la tua carriera e la tua immagine pubblica, d’accordo? – anche perché, vorrei aggiungere, pure se non lo faccio, dato che il giorno si avvicina, ovunque si stanno organizzando trasmissioni celebrative, concerti all’onore e bla bla bla. Tutta roba che quando la racconto a Bushido lo fa ridere di gusto. “Non sono mai stato amato tanto,” si lamenta giocosamente, “quando ero vivo”. Mi sa che ha ragione.
Bill non coglie il sottinteso del mio discorso. Meglio così, in fondo.
- Sì, sì, lo so. – si lagna sbuffando, - Niente baci, niente carezze, niente di niente in pubblico.
- Bravo. – mi complimento subito. – E… per quando tornerete a Berlino… - mi faccio forza perché devo dirlo. Devo dirlo per forza, perché non posso rischiare niente e se Bushido è in città io non posso mettere Bill nelle condizioni di farsi beccare da lui con Chakuza. Anche per un caso fortuito. Anche se quell’idiota decidesse davvero di non uscire ma si limitasse a guardare fuori dalla finestra e casualmente li vedesse. - …ho saputo da fonti fidate che Bravo è in cerca della paparazzata del secolo. Mi sa che non siete stati granché discreti ultimamente. – non è vero, sto inventando. Bill, però, non può saperlo. – Magari è meglio che tu e Chakuza vi vediate un po’ di meno, per le prossime settimane. D’accordo?
Il suo silenzio mi raggiunge come una stilettata in mezzo ai polmoni. Sento voci di persone, risate di bambini ed altri miriadi di rumori, tutti attorno a lui, ma lui resta in silenzio.
- …ma non ci siamo visti per niente, la scorsa settimana… - mugola scontento, - E presto dovremo rimetterci al lavoro…!
Ha ragione, insomma. Ha ragione.
- Bill, non mi deludere adesso. – ringhio, e sono irritato perché ho torto. – Un po’ di professionalità, Cristo.
Dall’altro lato della cornetta, lui esita, incerto.
- Non… - balbetta insicuro. Poi sospira. - …mi dispiace. È che ci vediamo così poco che… mi dispiace. Faremo come vuoi tu, David.
Il mio sospiro fa eco al suo. È ugualmente profondo e ugualmente affranto, almeno.
- Lo so, Bill. Lo so che è difficile. – e sono triste per Bushido, ma è Bill il mio bambino, in fondo. – Facciamo che alla prima pausa disponibile vi do due settimane solo per voi. – suggerisco con un mezzo sorriso che spero lui senta fra le vibrazioni delle mie parole.
- …due settimane? – chiede Bill, incredulo, - Intere?
- Sì. – confermo io senza un’esitazione. E non m’importa, in questo momento, se ciò significa che dovrò rispedire Bushido a Miami quanto prima, anche a costo di fare carte false. – Due settimane piene, senza nemmeno un impegno. Dì a Chakuza di organizzarsi. – concludo con una risatina.
L’urlo di gioia di Bill si fa attendere solo un secondo. Poi arriva, come previsto, spaccandomi i timpani e, in buona misura, anche il cuore. Io, davvero, non so che pesci prendere. Dovunque guardo vedo profilarsi disastri a lungo termine. Di quelli che rovinano la vita a lungo.
Io non ci credo che Bushido potrà passare per il suolo tedesco per poi tornarsene negli Stati Uniti senza colpo ferire. Io non ci credo, per il semplice fatto che quell’uomo non… non passa mai senza lasciare traccia. Non è neanche colpa sua. Non gli riesce e basta.
Allontano la cornetta dall’orecchio e parto con le lamentele di routine. Del tipo “Sono troppo buono, palesemente ti vizio, sei venuto su diva perché ti ho lasciato fare tutto quello che volevi” e così via. Bill mi ferma come al solito, ringraziandomi con quel tono dolce che non ammette repliche per il semplice fatto che, quando lo usa, ti sta parlando col cuore in mano.
- Saremo buoni buonissimi, David. Promesso. – cinguetta al settimo cielo.
Sorrido, inspiegabilmente soddisfatto di me stesso.
- Bravo. Ora vai, su. E divertiti.
Lui ridacchia appena.
- Lo farò. Grazie, David.
Mi si stringe il cuore.
- Figurati. Buonanotte.
Chiudo la telefonata prima che possa dire altro. Me lo vedo già che corre verso Chakuza, che chissà dove lo stava aspettando per non disturbarlo. È discreto, con lui. È gentile. È palesemente la scelta perfetta. La più perfetta che Bill poteva fare dopo Bushido.
Sospiro pesantemente.
- E tutto questo… - borbotto, incamminandomi verso l’appartamento, - perché quello mi ha scopato, una volta. Io devo essere completamente pazzo.
Genere: Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Al venti dicembre duemilaotto, Bill Kaulitz si aspetta un Natale normale. Ed invece gli capita fra le mani il Babbo. E va tutto per il verso sbagliato - ma chissà che invece non sia proprio il verso giusto, alla fine.
Note: C’è qualcosa di meraviglioso nel svegliarsi al mattino e rendersi conto di aver scritto qualcosa come nove pagine di storia (seimila parole, all’incirca) tutte di seguito XD Anche nell’assoluta incertezza della loro qualità effettiva, il pensiero di avercela fatta è esaltante XD Accidenti, comunque, a questa mia assurda mania di plottare storie destinate palesemente allo sviluppo in più capitoli e convincermi a farle partecipare ai contest come oneshot.
Questa storia è stata scritta per il Fidelity X-Mas Party ’08, proposto da Lokex. I punti da cui prendere ispirazione erano tre: bisognava ci fosse un cavallo (e Palla di Neve spero ricopra adeguatamente il ruolo con la sua apertura alare da tre metri e mezzo circa XD), un personaggio della letteratura (ed io ho deciso arbitrariamente che Babbo Natale è tale personaggio) e dovevano essere presenti le parole “fino a Natale”.
Il difetto principale di questa storia è che nella seconda parte si mette a correre in maniera spaventosa, e quindi, poverina, si rovina un sacco. Ma la prima parte mi piace molto e l’idea originale era meravigliosa: giustamente non era mia, ma di Nai. Me l’ha plottata in dieci minuti e poi abbiamo coccolato insieme l’idea finché non siamo state soddisfatte di ogni più minuscolo dettaglio, e solo dopo l’ho scritta XD In un certo senso, quindi, è decisamente una collaborazione. E c’è un pezzo di Nai in questo contest <3
A parte questo, non molto altro da dire: mi dispiace per l’aberrante lunghezza e spero non annoi XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A CHRISTMAS CAROL

Quello era indubbiamente Babbo Natale. Bill ne era sicuro. Da qualsiasi lato lo si guardasse, non c’erano dubbi che tenessero: era tondo, era vestito di rosso, aveva le guanciotte lucide e sporgenti, una lunga e morbida barba bianca ed un cappello col pon pon sulla testa. Lo fissava bonario come non avevano mai fatto nemmeno i suoi nonni e la sua pancia si sporgeva in avanti fin quasi a sfiorarlo ogni volta che respirava.
Oltretutto, era uscito dal suo camino.
Non poteva che essere Babbo Natale.
La cosa poneva Bill di fronte a tutta una serie di interrogativi che valeva la pena porsi. Del tipo “ma allora esiste davvero?”, molto differente dal più classico “ma allora non è vero che non esiste?”, perché in realtà Bill aveva sempre tenuto moltissimo a quell’intimissima parte di sé che non aveva mai smesso di credere alle fiabe. Perciò sì, sarebbe valsa la pena di prendersi un momento per rifletterci e sbottare in un “ha! Allora avevo ragione!” che poi sarebbe stato il caso di infiocchettare un po’ e passare a Tom come appropriatissimo regalo di Natale – “chi è che aveva ragione, Tomi? Ripeti dopo di me: Bill”.
L’uomo di fronte a lui, comunque, non gli diede tempo di riflettere su niente, perché si espresse in un rotondissimo “ho ho ho” e poi gli diede un paio di pacche sulla spalla, tranquillo, gioviale, serafico, come fosse perfettamente normale avere Babbo Natale in salotto.
Bill si guardò intorno. In casa non c’era nessuno.
Erano lui e il nonnino lappone. Un incredibile testa a testa.
- Caro Bill… - disse il vecchietto, sempre sorridendo, ed a Bill quasi venne da ridere a propria volta nel pensare che lui, da piccolo, ne aveva scritte tante letterine a Babbo Natale, cominciando appunto con “Caro Babbo Natale”, - sicuramente ti starai chiedendo perché sono qui.
Bill inclinò il capo e si grattò una guancia.
- Fra le altre cose, sì. – ammise annuendo.
Babbo Natale rise ancora.
- E ti starai probabilmente chiedendo anche perché io sia qui il venti dicembre, visto che i regali si portano il ventiquattro notte…
Okay, quindi Babbo Natale portava davvero i regali. Questo apriva delle prospettive meravigliose: se era davvero lui che portava i regali, perché tutti – perfino lui! – ricordavano sempre i pomeriggi di shopping festivo prima della fatidica sera? Babbo Natale governava le loro memorie? Dava loro dei ricordi falsi perché si illudessero sulla sua non-esistenza? La cosa cominciava a farsi complessa.
- …anche. – annuì Bill, che in realtà non se l’era chiesto perché era ancora impegnato a cercare un modo abbastanza crudele e sfacciato per dirlo a Tom.
- Ebbene… - Babbo Natale si chinò e recuperò da terra il sacco di iuta che aveva mandato in avanscoperta lungo la canna del camino, e sul quale poi Bill l’aveva visto agilmente cadere qualche secondo dopo, - ho un regalo in anticipo per te! – e, così dicendo, tirò fuori dal sacco un minuscolo cucciolo di unicorno.
Che era indubbiamente un unicorno. Bianco, col musetto tondo e rilassato, dormiva amabilmente e stava tutto raggomitolato su se stesso, la lunga criniera azzurra e lucente a scivolare sul collo, confondendosi con la foltissima coda ripiegata contro una zampetta. Ed un ridicolo abbozzo di corno tondo e dall’aspetto gommoso ad uscire dalla fronte, proprio sopra gli occhietti chiusi. Era talmente piccolo che stava tutto sul palmo della mano di Babbo Natale.
Il primo istinto di Bill fu sollevare una mano ed accarezzarlo. Il secondo, gongolare fra sé ripetendo al fratello immaginario che aveva nella testa “ma allora vedi che esistono anche gli unicorni? Haha!”. Il terzo – che poi fu ciò che fece – fu puntare un dito contro Babbo Natale, inorridire e strillare.
- Ma tu ci sei caduto sopra!!! Avresti potuto ucciderlo!!!
Babbo Natale rise bonario – il solito serafico “ho ho ho” che era davvero un suono tondo – e sistemò sul naso gli occhialini – minuscoli e cerchiati d’oro, Bill sospettava fossero anche abbondantemente inutili, visto che erano perfino più piccoli delle sue pupille. Occhiali decorativi, insomma.
- Bill, il sacco di Babbo Natale è un sacco magico. – spiegò, - Sai quante ernie mi verrebbero, altrimenti? I miei poveri reni ne risentirebbero. – aggiunse annuendo, - Le cose si materializzano solo quando io ne ho bisogno.
Bill inarcò le sopracciglia.
- Ma allora perché usare il sacco? Se le materializzi così…
Babbo Natale s’imbronciò come un bambino.
- Ma così è molto più carino! – motivò infervorandosi, e Bill non poté che dargli ragione. – Comunque sia, mi aspettavo di trovarti molto più ricettivo! – continuò sbuffando.
Bill si sentì tremendamente in colpa. Insomma, era Babbo Natale! Venuto a trovarlo anzitempo con un unicorno in mano, addirittura! Avrebbe dovuto essere più carino, con lui. Decisamente.
- Mi… mi dispiace. – mugolò affranto, stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, - Scusami, Babbo, è che la tua è stata una visita inaspettata, quindi… - si fermò e rifletté. Poi tornò a sollevare gli occhi in quelli puntuti e azzurrissimi del nonnino, e s’illuminò in viso. – Aspetta qui! – disse, allontanandosi a saltelli verso la cucina.
Tornò due minuti dopo con un piattino colmo di biscotti al cioccolato ed un bicchiere pieno di latte fino all’orlo.
- Ho ho ho! – rise felice Babbo Natale, poggiando l’unicorno sul pancione sporgente e battendo le mani, - Questa sì che è una bella accoglienza! – si complimentò, sedendosi al tavolo senza chiedere il permesso e poggiando sul ripiano di legno il cucciolo prima che finisse schiacciato fra il pancione e il bordo.
Bill si sedette accanto a lui e lo osservò ruminare biscotti ed annaffiarli col latte per una quantità di tempo indefinito, prima di poggiare il mento sul palmo della mano e guardarlo con aria inquisitoria.
- Dunque, Babbo… cosa ti porta da queste parti? – chiese, col tono più casuale possibile. Non voleva essere più sgarbato di quanto già non fosse stato.
- Ah, già! – disse il nonnino, tornando subito serio e ripulendosi le labbra col dorso della mano guantata, - Ho un enorme favore da chiederti, Bill.
Il moro lo osservò recuperare l’unicorno ancora dormiente e riposarlo sul palmo della mano, porgendoglielo.
- Come forse saprai, gli unicorni sono animali piuttosto rari. – cominciò ad istruirlo con aria professionale, annuendo fra sé, - Si dice siano estinti, ma non è così. In realtà qualche esemplare c’è ancora, ma sono molto pochi. Tanto pochi che, generalmente, i genitori stanno molto attenti a non perdere i piccoli in giro. – il nonnino inarcò le sopracciglia verso il basso, scontento. – Per qualche motivo, però, i genitori di questo cucciolino sono scomparsi. Ed è veramente molto piccolo, come vedi non gli sono ancora cresciute le ali…
Bill annuì partecipe, piegando le labbra in un broncio triste e giungendo le mani sul petto.
- Ma è terribile… - commentò, - ed i suoi genitori non si possono trovare…?
- Ho già messo una squadra di elfi alla ricerca. – annuì il nonnino, serissimo, - Ma ci vorrà del tempo, capisci?
Bill annuì e sfiorò teneramente il musetto dell’unicorno con due dita. Lui non mostrò neanche di accorgersene e continuò a dormire beato.
- Ora… fossimo in un altro periodo dell’anno, - ricominciò a borbottare Babbo Natale, mentre Bill si perdeva sulle lunghissime ciglia del cucciolo, - non ti chiederei mai un favore simile. Ma siamo proprio sotto le feste e sia io che Mamma Natale che gli elfi siamo molto impegnati coi preparativi, e con una squadra in missione in giro per il mondo non è tanto semplice conciliare il tutto, e i cuccioli di unicorno hanno bisogno di molte attenzioni, e…
Bill sollevò gli occhi sul nonnetto.
- …aspetta un attimo, Babbo. – cominciò allarmato, - Di che favore stiamo parlando?
“…ma soprattutto, vogliamo parlare di Mamma Natale?”, gli venne quasi naturale aggiungere. S’interruppe giusto in tempo, riportando alla memoria un’antica lezione impartitagli da David durante gli anni della loro gavetta e splendidamente riassumibile in “i filtri, Dio, Bill!, i filtri, quando parli!”.
Babbo Natale, comunque, si strinse imbarazzato nelle spalle.
- Ho bisogno di una persona fidata cui lasciare l’unicorno. – spiegò, - Capisci, qualcuno che possa prendersene cura. Solo per qualche giorno! – si affrettò a rassicurarlo, - Il venticinque sera verrei immancabilmente a riprenderlo, e per allora conto anche di avere ritrovato i suoi genitori!
Bill lo fissò, gli occhi enormi.
- Ed io sarei una persona fidata…? – chiese incerto, indicandosi. Generalmente, solo suo fratello era tanto stupido da pensare di lui una cosa simile senza pensare anche a quanto fosse drammaticamente inesatta, per voler usare un eufemismo.
Babbo Natale annuì compiaciuto.
- Sì, Bill. Tu ti affezioni alle cose e credi nella mia esistenza ed anche in quella degli unicorni, quindi sei la persona più adatta. Ma soprattutto… - aggiunse con aria grave, agitandogli un dito guantato di fronte al naso, - sei ancora vergine. E, com’è noto, solo i vergini possono domare gli unicorni.
Incerto fra la possibilità di sprofondare in un baratro da aprire nel pavimento grazie alla forza del proprio imbarazzo, e quella di scappare via il più lontano possibile più o meno per lo stesso motivo, Bill arrossì.
- Io non… - biascicò, ma si rese presto conto dell’inutilità di mentire di fronte a Babbo Natale. - …sì, capisco. – annuì quindi alla fine, abbassando gli occhi.
Era ingiusto che uno dei motivi più gravi della sua sofferenza interiore fosse anche uno dei motivi che gli avrebbe dato la possibilità di prendersi cura di un cucciolino tanto bello. Oltre che di dimostrare a se stesso e al mondo che aveva sempre avuto ragione lui su tutto, ovviamente.
- Solo una cosa devi sempre tenere a mente. – disse a quel punto Babbo Natale, posando il cucciolo sul tavolo di fronte a lui, - L’unicorno può stare solo con gente che creda nella sua esistenza. Come tutte le creature fatate, se qualcuno nega la sua realtà… - pausa enfatica che Bill non apprezzò, se non altro perché la situazione era già abbastanza complessa senza aggiungerci pathos non necessario, - …morirà.
Bill deglutì. E poi fu il panico.
- Mio fratello… - boccheggiò, - lui non ha mai creduto… - si perse nei propri pensieri, - nessuno che frequenti abitualmente questa casa ha mai creduto negli esseri fantastici, Babbino!!! – strillò confuso, - Come farò?! Forse David nella sua infanzia può aver creduto nelle fiabe, ogni tanto i suoi occhi scintillano ancora della luce della fantasia, ma tutti gli altri… Georg!!! Gustav crede in Dio, però, quindi forse…
- Dio non c’entra niente con la fantasia, Bill, è una favoletta che si racconta ai bambini per farli stare buoni! – lo blandì Babbo Natale con una risata divertita, mentre il cervello di Bill andava in palese overload di irrazionalità. – Sta’ tranquillo. – lo rassicurò alla fine il vecchietto, - So per certo che troverai una soluzione ed andrà tutto bene.
Bill non era tanto sicuro che il nonnino lappone avesse ragione, sotto molti aspetti. Non era tanto sicuro di essere affidabile, tanto per cominciare, non era nemmeno tanto fiducioso da pensare che una soluzione si sarebbe comunque trovata. In poche parole, l’unica certezza che aveva era quella di essere vergine, ed era una certezza che avrebbe volentieri fatto a meno di portarsi dietro, peraltro.
Così era, comunque. Babbo Natale ringraziò per latte e biscotti e si accomiatò con un abbraccio bonario, prima di ricordargli che si trattava comunque di un breve periodo di tempo – “solo fino al venticinque sera, Bill!” – e lasciarlo solo col cucciolo dormiente ancora sul tavolo. E neanche la più pallida idea di come risolvere quel garbuglio.
*
Lui ed Anis s’erano conosciuti – conosciuti davvero, non incrociati e salutati – durante il backstage dei Comet del 2005. Ciò che Bill sapeva di quell’uomo era riconducibile a ciò che Tom gli aveva detto di lui, disperandosi fra un ascolto nostalgico e l’altro di fronte alla rottura fra l’Aggro Berlin ed uno dei suoi rapper preferiti. La cosa lo aveva segnato nel profondo, e Bill poteva ancora ricordare, senza nemmeno sforzarsi troppo, i piagnistei infiniti di suo fratello ed i pomeriggi passati ad ascoltare i sampler dell’Aggro conditi dal racconto di una storia di gangster di strada che un po’ l’aveva sempre affascinato, anche se non capiva esattamente cosa tutto ciò avesse a che fare con la musica. Ma Bill aveva sempre avuto un’idea molto romantica, della musica, perciò non era strano che non capisse cosa c’entrassero una mandria di uomini imbufaliti con la delicatezza perfetta di un ritornello in armonia con le strofe che lo seguono e precedono.
Lui aveva quindici anni e Tom non aveva ancora deciso se fosse più opportuno odiare Bushido e restare fedele all’Aggro o mollare l’Aggro e seguire Bushido nella sua nuova avventura. Di qualsiasi tipo fossero i pensieri che vorticavano nella testa di quel suo assurdo fratello, sembravano essere molto seri, drammatici ed epici: Tom la vedeva come una questione della massima importanza. Tant’è che tutto era cominciato proprio perché a quei Comet lui non aveva la benché minima intenzione di trovarsi davanti al proprio idolo senza sapere cosa dire. Perciò, quando Bushido aveva fatto tanto di avvicinarsi, con addosso il sorriso suadente e tranquillo delle rare occasioni in cui voleva solo congratularsi senza sentire il bisogno spasmodico di aggiungere in cosa al complimento qualche cavolata delle sue, Tom era letteralmente scappato verso i bagni. Le sue ultime parole nei confronti del fratello erano state “Tienilo impegnato mentre io cerco di evadere attraverso le prese d’aria”.
Bill aveva sospirato teatralmente, osservando con occhio vagamente divertito lo sguardo di Bushido seguire suo fratello fino a che non lo perse di vista, e poi aveva aspettato candidamente che fosse l’uomo ad avvicinarsi e cominciare a discutere.
“Ma… tuo fratello?”, aveva chiesto Bushido, usando un tono incredibilmente confidenziale, neanche si conoscessero da sempre.
Bill aveva ridacchiato appena. Si sentiva talmente piccolo, di fronte a lui, da non riuscire proprio ad evitare l’imbarazzo.
“È un tipo emotivo,” aveva risposto dopo un attimo d’incertezza. Bushido aveva riso di gusto e gli si era seduto accanto senza chiedere il permesso.
La chiacchierata era proseguita senza intoppi: lui e Bushido avevano parlato del più e del meno come non avrebbe mai creduto possibile, Bushido era stato schietto e sincero e ad un certo punto s’era perfino lamentato della sua età.
“Sei troppo piccolo, per quest’ambiente,” gli aveva detto, e quando Bill aveva provato a replicare che con lui non poteva parlare di gangsta-rap perché, nonostante il fratello che si ritrovava, lui e quel tipo di musica erano lontani anni luce e bene intenzionati a restarlo, Bushido aveva replicato schernendolo con una mezza risata. “Parlo della musica in generale. È facile consumarsi, quando si è piccoli come te.”
“…e tu ne hai visti tanti? Consumarsi, intendo…” era stata la sua risposta incuriosita, venata appena da una nota più dolce e intimidita provocata probabilmente dalle almeno sei bottiglie di birra che aveva in qualche modo convinto Bushido a recuperargli sottobanco per tutto il tempo della loro conversazione.
“Mi stai dando del vecchio, ragazzino?”, aveva replicato Bushido con una risata divertita. Bill era arrossito istantaneamente e s’era affrettato a negare, agitandogli le braccia di fronte al viso come se le parole fossero state fisiche e lui avesse avuto il potere di cancellarle. Si era calmato solo quando Bushido aveva riso ancora, più dolcemente, e l’aveva rimesso a sedere scompigliandogli i capelli con una grande mano color caramello. “Sì, ne ho visti tanti,” aveva risposto quindi, annuendo appena, “Non è una bella cosa. Ti servirebbe una protezione. Niente di eclatante,” aveva spiegato, gesticolando disinteressato, “giusto qualcuno con cui parlare quando ti sembra di non farcela. A volte aiuta.”
Era stato in quel preciso istante – mentre portava per l’ennesima volta la bottiglia di birra alle labbra per farsi coraggio e scacciare l’imbarazzo con un sorso d’alcool – che Bill aveva deciso di essersi innamorato. Ci aveva fantasticato su un sacco – sul primo amore e tutte quelle cose che credeva di aver già provato per Linda e che invece s’erano spente in un niente quando s’era allontanato da Magdeburgo – ed in effetti gli sembrava un po’ strano ritrovarsi a capire lucidamente di essersi innamorato, quando invece con Tom aveva sempre parlato di cose tutte diverse, brividi inconsci, incertezze, tremori eccetera eccetera. Non c’era niente del genere. Però guardare Bushido lo scaldava più della birra e, quando lui aveva parlato di una persona con cui parlare quando avesse avuto paura di non farcela, nella mente di Bill s’era formato il suo nome. Prima ancora di quello di Tomi o di Andi o di sua madre.
Quindi sì, era stata una decisione perfettamente consapevole: quella di cominciare a ronzargli intorno perché era lui, Bushido, non chiunque altro, che avrebbe dovuto proteggerlo ed impedirgli di consumarsi.
Bushido, però, fondamentalmente, non era mai cresciuto davvero. O meglio: per certi versi era molto maturo e saggio e tutto quanto, ma per altri era un disastro. Tutto, in lui, faceva pensare ad un’infanzia non goduta e quindi rincorsa finché fosse stato possibile. Perfino i suoi modi di divertirsi erano assurdi – a partire dai sabati notte su World of Warcraft per concludere con i modi decisamente opinabili che aveva di prenderlo pubblicamente in giro flirtando in maniera spudorata e perfino pesante. Col tempo, Bill aveva imparato ad abituarsi, ma la cosa sconvolgente del tutto era stata percepire chiaramente che nulla del suo amore s’era mai perso neanche di fronte alle cose peggiori. Non di fronte all’uscita sul sesso orale, non di fronte alla proposta di matrimonio estemporanea, nemmeno di fronte alle centinaia di volte in cui quegli scherzi Bushido li faceva in privato, quando uscivano insieme sotto copertura o quando Bill si presentava a casa sua.
Con Linda il sentimento sfioriva appena litigavano. Era una cosa automatica.
Con Anis persisteva. Non c’era modo di tirarlo via.
Unico guaio, come nella migliore delle tradizioni da sfigato che l’avevano sempre perseguitato – a partire dai bulli del liceo per continuare con le doppie punte e la frustrazione del non riuscire ad abbinare quel fantastico giubbino bianco con le ragnatele con nulla, col risultato di sembrare ogni volta inguainato in una tuta spaziale – non si era mai dichiarato. Erano passati tre dannatissimi anni – ormai quasi quattro – e non solo non aveva mai confessato i propri sentimenti a Bushido, ma nemmeno li aveva mai fatti in qualche modo trapelare. Con nessuno, poi. Neanche uno sfogo. Tomi l’aveva più o meno capito da solo, ma Bill non avrebbe confermato neanche a morire – gli prendeva un batticuore assurdo ogni volta che ci pensava. Si sentiva sempre incredibilmente stupido.
La cosa, fortunatamente, non aveva mai minato i rapporti fra lui ed Anis. Perciò, quando quel venti dicembre Bill si ritrovò con un unicorno – un unicorno! – in mano e l’ordine di Babbo Natale - …Babbo Natale!!! – di prendersene cura fino a Natale, il suo primo pensiero, nonché l’unica soluzione avesse trovato, era stato andare da Bushido.
S’era attaccato al campanello della casa gialla con la furia di un disperato, pregando in un centinaio di lingue – molte delle quali inventate – che Bushido fosse in casa, solo e ben disposto nei suoi confronti e, quando poi aveva sentito la serratura della porta scattare, aveva serrato gli occhi e stretto forte al petto il cucciolo d’unicorno addormentato ed aveva pregato ancora, stavolta perché non scomparisse.
Quando era tornato a guardare il mondo, la prima cosa che l’aveva colpito era stata la presenza caldissima del cucciolo ancora stretto fra le braccia. Il battito del suo cuoricino, lento e calmo, si spandeva all’interno del suo piccolo e morbido corpo e si diffondeva poi anche dentro il suo petto, facendosi sentire fino in gola.
Di fronte all’inevitabile consapevolezza di essere capitato davanti a qualcuno che, evidentemente, negli unicorni credeva eccome – dato che il piccolo era ancora lì – Bill si prese un secondo per realizzare il pensiero, digerirlo e venirci a patti. Poi sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti un Bushido in perfetta tenuta da scazzo casalingo – tuta enorme ed anonima maglietta bianca – i cui occhi giocavano a rimpiattino saltando ansiosi dal suo viso al cucciolo e poi di nuovo al suo viso.
- Bill…? – esalò appena l’uomo, decidendosi finalmente a fissarlo negli occhi, in cerca di una risposta.
- Ciao. – rispose lui, abbozzando un sorriso incerto e sollevando una mano per salutarlo, - Posso entrare?
Bushido annuì meccanicamente.
- Sì, certo che… Bill, cos’è questo? – concluse in un mezzo rantolo, indicando il cucciolo.
Bill deglutì a fatica e lo sollevò un po’, perché Bushido potesse vederlo meglio.
- …esattamente quello che sembra, temo. – rispose annuendo e tornando a nascondere il piccolo fra le braccia.
Bushido si prese qualche secondo per riflettere, prima di tornare ad aprire bocca.
- Non è possibile, Bill. – disse alla fine, gli occhi ancora spalancati, - Ha le ali. Queste cose non… - ma non ebbe tempo di concludere, perché Bill scattò in avanti e pressò il palmo di una mano contro le sue labbra, cercando di spingerlo indietro per quanto gli consentissero quegli abbozzi di muscoli che si ritrovava e che, in confronto alla strenua resistenza del fisico fermo e compatto di Bushido, sembravano ancora più ridicoli.
- Non dirlo! – disse allarmato, agitandosi tutto, - Ti prego, se lo dici morirà!
Bushido smise di resistere e si lasciò spingere in casa, osservando un po’ sconcertato Bill chiudersi la porta alle spalle con un calcio, il cucciolo ancora stretto al petto e la mano libera ancora impegnata a chiudergli la bocca. Lo lasciò solo quando fu certo di aver chiuso bene la porta ed essere solo con lui nell’ampio salotto che accoglieva chiunque mettesse piede nella villa.
- Bill, che diavolo sta succedendo qui? Cos’è questo animale e cosa significa che potrebbe morire?!
Bill non rispose subito. Il palmo della sua mano conservava ancora qualche traccia del calore delle labbra di Bushido, ed il ragazzo trovò difficile ignorare il pensiero per concentrarsi su fatti di maggiore importanza, per molti secondi. Bushido dovette chiamarlo un paio di volte per ottenere un qualche cenno di vita.
- È… - cercò di spiegare Bill, deglutendo agitato, - È una creatura di fantasia, Bu, se dici che non… insomma, scompare!
Bushido continuò a guardarlo e poi si passò una mano sugli occhi, inspirando ed espirando con calma.
- Bill… - lo richiamò con aria stanca, - …quello che hai detto non ha senso, te ne rendi conto? Una creatura di fantasia, dici? È qua, lo sto guardando, è un… un accidenti di cavallo con le ali-
- E il corno. – precisò Bill, indicando la fronte vagamente sporgente del cucciolo, - È un unicorno, infatti. Non si vede perché è ancora piccolo…
- …un unicorno.
Bill annuì e lo osservò cercare a tentoni con la mano un divano alle sue spalle, per poi lasciarcisi ricadere sopra con un tonfo non appena l’ebbe trovato.
- Bu…? – lo chiamò debolmente, andandogli vicino ed esitando un po’ prima di sedersi al suo fianco, cosa che alla fine fece comunque. – Tutto bene?
Bushido non rispose alla domanda, ma lo guardò intensamente.
- Un unicorno, Bill?
Bill annuì di nuovo.
Bushido prese atto, annuendo a propria volta.
- Bill, credo dovrai raccontarmi questa storia dall’inizio.
Il ragazzo fece una mezza smorfia, sistemando il cucciolo su un cuscino ricamato appoggiato al bracciolo.
- Odio quando ripeti così spesso il mio nome. – borbottò scontento, - Sembri mio padre, sempre sul punto di rimproverarmi o chissà che.
Bushido si massaggiò lentamente le tempie, chiudendo gli occhi.
- In effetti ho voglia di rimproverarti, B-… insomma. Ma non saprei per cosa farlo esattamente, quindi aspetterò che tu abbia finito di raccontare. E poi vedremo.
Bill incrociò le braccia sul petto e sbuffò teatralmente.
- Senti, non è colpa mia, è stato Babbo Natale che-
- Babbo Natale, Bill?!
- La pianti di ripetere il mio nome? So come mi chiamo.
Bushido respirò ancora, sempre più profondamente, e tornò ad alzarsi in piedi, cominciando a camminare nervosamente intorno al tavolino basso nel centro del salotto, le mani sui fianchi e la maglietta che si arrotolava in sbuffi attorno alle dita.
- …spiega meglio. – lo invitò, continuando a camminare.
Bill lo guardò, inclinando lievemente il capo.
- Non ti fermi?
- No. – rispose con naturalezza l’uomo, scuotendo il capo, - Scarico. Parla.
Il ragazzo annuì incerto.
- Be’, tutto è cominciato stamattina verso l’una del pomeriggio, quando mi sono svegliato-
- Bill, ti prego, evita le incoerenze, è già tutto abbastanza confuso… - lo implorò l’uomo, massaggiandosi la fronte, - Mattina o pomeriggio?
- Mi confondi! Ti muovi! – si agitò il ragazzo, spiegazzando la fodera del divano sotto le dita, - Era mattina perché io mi ero appena svegliato, ma era pomeriggio perché io mi sveglio di pomeriggio, quando sono in vacanza!
Bushido annuì lentamente, continuando a camminare.
- …d’accordo, ci sono. Quindi eri sveglio e…?
- E c’era Babbo Natale in salotto.
Bushido si fermò. Solo per qualche secondo. Poi riprese la sua marcia.
- Bu?
- Sì, sì. Babbo Natale. Vai pure avanti.
Bill inarcò le sopracciglia, incerto, e si concesse una smorfia impaurita prima di portare il cuscino con sopra il cucciolo di unicorno sulle ginocchia e cominciare ad accarezzarlo delicatamente.
- Be’, lui mi ha consegnato questo… Bu, non mi stai credendo per niente, vero?
- Ho un unicorno sotto agli occhi, Bill. – gli fece notare l’uomo, guardandolo distrattamente, - Non sono nella posizione di non credere. Qualsiasi cosa tu mi dica.
Bill annuì lentamente, insicuro.
- …insomma, - riprese, - mi ha consegnato il cucciolo e mi ha chiesto per favore di prendermene cura fino a Natale, visto che lui e Mamma Natale… - sollevò gli occhi e si ritrovò di fronte Bushido che lo guardava come non l’avesse mai visto prima, fermo nel centro del salotto con gli occhi spalancati e le braccia molli lungo i fianchi. Sospirò. – Scusa, Bu. Vado via subito. – mugolò, recuperando il cucciolotto e rimettendosi in piedi.
- No, ehi, ehi, aspetta. – si affrettò a fermarlo Bushido, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e spingendolo delicatamente a sedere, - Non ti ho chiesto di andartene. – si sedette al suo fianco, continuando a tenere una mano sulla sua spalla e massaggiando un po’ per rassicurarlo, - …Bill, perché sei venuto da me? In poche parole.
- Devo… tenere il cucciolo fino a Natale. – ammise il ragazzo, - L’ho promesso a Babbo Natale, non potevo dire no a Babbo Natale, e lo so che sembra assurdo, ma è così. E non potevo restare a casa, Tomi non ci crede negli unicorni, e nemmeno in Babbo Natale, perciò ho pensato-
- Che io invece ci credessi? – lo interruppe Bushido, vagamente divertito.
Bill sbuffò, sollevandogli addosso un broncio adorabile ed un paio di occhioni ostinati.
- Be’, avevo ragione, no? – e Bushido sorrise. - …però no, non ho pensato quello. In realtà… non ho pensato affatto, ho solo sentito che dovevo venire da te, ecco.
Bushido sorrise ancora, più apertamente, mentre se lo tirava contro e lasciava che si accomodasse contro il suo petto, l’unicorno un po’ schiacciato fra i loro corpi, ma ancora placidamente addormentato.
- Vuoi restare qui fino a Natale? – gli chiese a bassa voce, sussurrandogli all’orecchio, - Non sei spaventato? Sono un uomo poco raccomandabile e ti ho fatto un sacco di avances, negli ultimi anni…
“Ne avessi anche mai concretizzata una…” si ritrovò a pensare tristemente Bill.
- No, sono… tranquillo. – ammise con un mezzo sospiro. – Pensi che potrei restare?
Bushido guardò lui e l’unicorno e poi si espresse in un mezzo sbuffo incerto.
- Non hai portato niente con te… - Bill scattò in piedi senza neanche lasciargli il tempo di concludere la frase.
- Oh, posso tornare a casa, preparare la borsa ed essere di nuovo qui in, facciamo, mezz’ora! – strillò saltellando eccitato da un piede all’altro, - Bu, mi hai salvato la vita! Cioè, a me ed al cucciolo! – rise, gettandogli le braccia al collo.
Bushido sospirò, accarezzandogli distrattamente i capelli mentre recuperava l’unicorno che, nella foga dell’abbraccio, Bill aveva dimenticato di dover stringere.
- Ecco, bravissimo. – annuì il ragazzino quando si fu separato di lui, non appena si accorse di come Bushido tenesse saldamente il cucciolo tutto nel palmo della mano, - Tienilo tu. Io faccio subito!
L’uomo lo osservò uscire come una furia – esattamente com’era entrato – e poi lanciò un’occhiata all’unicorno, sollevandolo fino all’altezza del viso per osservarlo da vicino. Il piccolo dischiuse le palpebre quasi subito, e lo fissò a propria volta con un paio di enormi ed acquosi occhioni azzurri.
- Dio, sei vero… sul serio. – commentò Bushido, avvicinandosi fin quasi a sfiorarlo con la punta del naso. Il cucciolo si sporse in avanti e lo morse, stringendogli saldamente il naso fra le gengive prive di denti. - …e sei anche pericoloso. – borbottò l’uomo, staccandoselo di dosso e ripulendosi con il dorso della mano libera. Sorrise. – Più o meno come quello che ti ha portato qui, mi sa. – concluse, poggiandolo nuovamente sul cuscino. E cominciando a chiedersi di cosa, esattamente, si nutrissero gli unicorni.
La pace durò all’incirca due secondi. Si interruppe precisamente quando il cucciolo si fu ripreso dal suo placido sonno abbastanza da capire esattamente dove fosse, con chi si trovasse e, soprattutto, con chi non si trovasse. Bushido lo osservò curiosamente sollevare il capino, guardarsi intorno e poi, con una naturalezza quasi sfacciata, saltare giù dal divano e trotterellare spedito verso la porta.
Lo seguì con lo sguardo e, quando si rese conto che il cosino non sembrava intenzionato a fermarsi, gli andò dietro anche coi piedi.
- Dov’è che staresti andando? – gli chiese, chinandosi e cercando di riprenderlo in mano.
Vigile e attento, il cucciolo si scostò e, incerto sugli zoccoli, rotolò lateralmente, caprioleggiando per qualche centimetro di moquette prima di rimettersi dritto, scuotere il collo per sistemare la corta criniera argentata e riprendere la propria marcia impettita verso la porta.
Bushido continuò a seguirlo, sempre più attonito, finché il cucciolo non arrivò alla porta e batté un paio di volte con uno zoccolo contro la superficie in legno.
- …devo aprire? – chiese l’uomo, piegandosi sulle ginocchia per guardarlo più da vicino e molleggiando sulle punte dei piedi per mantenere l’equilibrio.
Il cucciolo si limitò a fissarlo con aria supponente, battendo nuovamente lo zoccolo contro il legno.
- Bill mi ucciderà, se ti lascio fare. – gli fece presente, mettendo comunque una mano sulla maniglia.
Il cucciolino nitrì – o meglio, vagì un’idea di nitrito – e Bushido sospirò. Quegli occhi azzurri lo stavano fissando con tanta di quella disapprovazione che si sentiva quasi fuori luogo.
Tutto ciò che poté fare a quel punto il pover’uomo fu rimettersi in piedi ed aprire la porta. E sarebbe stato ciò che doveva essere. Punkt. Lui non credeva nel destino, ma non credeva di credere neanche ad unicorni e Babbi Natali vari ed eventuali, fino al giorno prima, perciò…
Il cucciolo trotterellò felice sulla ghiaia del sentiero davanti casa per qualche metro, e dopodiché Bushido lo vide spiegare le piccole ali ancora immature e spiccare un salto da record, per le dimensioni del suo corpo. Planò disinvoltamente fra le braccia di Bill, che stava lì fermo come in attesa e lo guardava con enormi occhi adoranti.
- Bill? – chiese, uscendo a propria volta di casa e raggiungendolo sul selciato, - Come mai sei ancora qui?
Bill tirò fuori la lingua e sorrise appena, come per scusarsi.
- Ho dimenticato di dirtelo. – biascicò poi, stringendosi nelle spalle, - Il cucciolo non può stare solo in compagnia di persone non vergini, perché solo un vergine può… - si interruppe ed arrossì istantaneamente, - …domarlo.
Bushido aprì la bocca.
Non seppe sinceramente che dire.
- Ah. – si rassegnò alla fine, tornando a cercare di darsi un contegno, - Capisco.
Bill abbassò lo sguardo, imbarazzato a morte.
- Bu, credo che… dovrai andare tu a prendere qualcosa per il mio cambio. – mormorò, consegnandogli direttamente in mano le chiavi di casa.
Bushido chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Non servì a calmarsi.
Sarebbero stati cinque giorni decisamente pesanti.
*
Tom era un ragazzo che Bushido non aveva ancora capito completamente. Era, se possibile, ancora più umorale del fratello, e riusciva a passare da uno stato d’animo all’altro con una velocità spaventosa, a tratti disorientante. Perciò, quando Bushido lo osservò entrare tranquillamente in casa, posare le chiavi sulla consolle e poi voltarsi sorridendo alla ricerca di Bill, incassò la testa nelle spalle e si preparò al peggio.
Certo, avere le mani nel cassetto della biancheria intima di Bill non aiutava i suoi disperati tentativi di darsi un tono. Pregò che Tom capisse, anche se non era sicuro di cosa ci fosse in effetti da capire.
Gli occhi di Tom si spalancarono ed il ragazzo lasciò cadere in terra il giubbotto che ancora stringeva nella mano ed attendeva di essere appeso all’attaccapanni.
- Bushido…? – esalò incerto, mentre lui, per evitare di fargli pensare stesse facendo qualcosa di sconveniente, continuava a rovistare con nonchalance fra le mutande di Bill. Cosa che forse non era la più appropriata da fare, dopotutto. - …cosa stai facendo?
Bushido si decise finalmente ad afferrare quante più paia di boxer poté ed infilarle di gran corsa nello zainetto che teneva per le bretelle con la mano libera.
- Ciao, Tom. – disse con un sorriso, cercando di distrarlo.
Tom deglutì ed annuì.
- Oh… - disse, arrossendo vagamente, - Ciao, sì, scusa, è che… - indicò con un gesto distratto Bushido, il cassetto ancora aperto ed i boxer che sporgevano dall’apertura dello zaino, - …capisci, non è una cosa tanto normale.
Bushido sospirò.
Ciclicamente, Tom ritornava sempre sullo stesso punto.
- Tom, non pensare male, per favore.
- Oh, no, ma Atze, sul serio, lo sai che a me puoi dirlo.
Appunto. L’uomo richiuse il cassetto e cominciò a marciare verso il bagno, ben deciso a non perdere altro tempo recuperando dei vestiti per Bill – gli avrebbe dato qualcosa di suo – prendere solo lo stresso indispensabile – spazzolino, trucchi e lacca, in poche parole, ovvero cose che non poteva fornirgli da sé – e poi fuggire immediatamente da quell’appartamento. Possibilmente senza dare spiegazioni a Tom.
- Non c’è niente da dire, Tom, lo sai. – biascicò mentre armeggiava con la trousse di Bill – sei chili almeno di beauty case – chiedendosi se potesse eliminare qualcosa o dovesse rassegnarsi a portare proprio tutto.
Tom aveva un problema, con lui. O lui aveva un problema con Tom. In ogni caso, c’era un problema nella loro relazione, e questo problema era l’adorazione cieca che il chitarrista nutriva nei suoi confronti. Il classico amore profondo che riservi agli idoli, le cose che non ti passano mai, anche con gli anni, quelle che possono portarti ad arrossire per il sorriso di un uomo anche se non hai alcuna intenzione di andarci a letto insieme – cosa che Tom faceva spesso, con lui. Arrossire, non andarci a letto. Per carità.
Insomma, lo adorava. Tutta quell’adorazione, però, non poteva avere uno sfogo pubblico, perché Tom era un piccolo gangsta-rapper fedele e mai e poi mai avrebbe potuto rinnegare l’Aggro Berlin di fronte ai microfoni ed alle telecamere. Perciò, se tutte le dichiarazioni d’amore pubbliche erano per Sido e compagnia, era nel privato che invece Tom “si faceva perdonare”, ronzandogli intorno come un moscone e sommergendolo di attenzioni. In un modo, peraltro, drammaticamente sbagliato.
- Atze, sul serio, è orribile che né tu né Bill vogliate ancora ammetterlo! Non dico pubblicamente, ma io sono suo fratello e noi siamo amici!
…ovvero decidendo arbitrariamente di diventare suo confidente personale – un po’ come il fratello aveva deciso arbitrariamente di diventare una specie di animale da compagnia ed accoccolarglisi addosso ogni piè sospinto – ed autoconvincendosi per chissà quale motivo che lui e Bill stessero insieme. Certo, immaginava che la quantità enorme di tempo che il Kaulitz minore trascorreva a casa sua potesse essere un indizio in tal senso, ma Bill era tragicamente piccolo, minorenne nell’aspetto ed anche in tutto il resto, per quanto l’anagrafe cercasse di convincere tutti del contrario. Non l’avrebbe mai toccato, non in quel senso e con niente che andasse oltre un flirt un tantinello spinto. E solo per ridere un po’.
- Tom… - borbottò, rassegnandosi a recuperare la trousse per intero e chiudendo lo zaino con uno scatto secco. Bill odiava che lui ripetesse così spesso il suo nome, come volesse rimproverarlo? Ebbene, Bushido detestava che i gemelli gli dessero in effetti quintali di occasioni per riprenderli esalando il loro nome in un rimprovero da padre sconfitto. – Ti ho detto e ripetuto almeno cinquecento volte che tuo fratello non è il mio ragazzo.
Tom annuì ed indicò lo zaino.
- Stai prendendo il suo cambio per la notte? – chiese innocentemente. Bushido annuì. – E quanto si ferma da te? – proseguì il ragazzo. Bushido rimase in silenzio. Tom annuì vittorioso. – Non è il tuo ragazzo, eh?
Bushido provò l’intenso desiderio di dargli un colpo di zaino sulla testa, tramortirlo e fuggire dalla finestra. Ma sarebbe stato ridicolo e sospettava Bill non l’avrebbe mai perdonato, per una cosa simile, perciò si trattenne.
- Non si ferma da me per i motivi che immagini tu. – borbottò in un mezzo ringhio frustrato, caricando lo zaino – incomprensibilmente pesante – in spalla e dirigendosi verso la porta.
- No, naturalmente. – annuì Tom, battendogli una pacca sulla schiena, - E allora perché?
Bushido fu tentato di rovesciargli addosso tutta l’intera storia dell’unicorno e di Babbo Natale. Ma questo sarebbe stato ancora più ridicolo del dargli uno zaino in testa, e probabilmente Bill sarebbe stato altrettanto incapace di perdonarlo, se l’unicorno fosse scomparso perché Tom aveva detto ridendo “ma cose simili non esistono!”, perciò si costrinse al silenzio. Lo salutò a bassa voce e Tom rimase ad agitare festosamente la mano sulla soglia della porta strillando “verrò presto a trovarvi!” per tutto il tempo che lui impiegò a scendere le scale e rimettersi in strada.
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa, ma il pensiero ci fosse Bill solo con l’unicorno – e con la possibilità che uno qualsiasi della sua crew passasse di lì per impossessarsi della Wii come al solito – lo convinse a non fuggire in vacanza a Miami e tornare alla villa.
Già sul selciato, quando ancora non aveva toccato la porta di casa, cominciò ad avere paura: dall’interno dell’abitazione provenivano rumori sospetti.
- Cosa sta succedendo? – disse ad alta voce, introducendosi in casa e lasciando ricadere lo zaino per terra. Di fronte a lui, un dramma aveva luogo. Del cucciolo di unicorno grande una spanna che aveva lasciato prima di uscire, non restava niente. S’era però tramutato in un puledro di dimensioni tutt’altro che trascurabili, con un paio d’ali larghe almeno un metro, perfettamente formate ed anche perfettamente dispiegate. Proprio nel centro del suo salotto.
Si guardò intorno, adocchiando la decina buona di narghilè nei più svariati materiali frangibili che campeggiavano su gran parte dei mobili della sala e tirò un mezzo sospiro di sollievo: non ne mancava nessuno all’appello – ancora. In compenso c’erano due poltrone rovesciate ed il tappeto arrotolato in un angolo.
Anche Bill stava arrotolato. Sul divano. Con le mani nei capelli.
- Bu! – strillò, saltando in piedi non appena lo vide, - Gli ho dato solo un po’ di latte!
Bushido annuì vagamente, osservando l’ampia macchia bianca che copriva per metà la maglietta di Bill. Doveva essere stato davvero poco, visto che la maggior parte del liquido sembrava finito addosso a lui.
- Ti sei sporcato tutto… - gli fece notare, indicandolo e rimpiangendo di non avergli preso dei vestiti per cambiarsi. Nei suoi sarebbe letteralmente annegato.
- Sì, ma non importa! – protestò il ragazzo, agitandosi, - Non riesco a fermarlo!
Bushido sospirò.
- Hai provato a chiederglielo? – propose, sentendosi un idiota fatto e finito e chiedendo silenziosamente ad Allah perché gli stesse facendo una cosa simile. Bill lo fissò per qualche secondo, inclinando il capo. – Sì, be’… - aggiunse quindi lui, imbarazzato, - quando sei andato via… non dico che io ed il cucciolo abbiamo dialogato, ecco, però insomma, sembra capire. – scrollò le spalle. – Magari, se glielo chiedi…
Il ragazzo annuì lentamente e si spostò verso il puledro che, nel mentre, aveva preso a brucare le frange del tappetino sotto al mobile del televisore, con evidente soddisfazione.
- Palla di Neve…? – lo chiamò, mettendo le mani avanti in caso fosse improvvisamente impazzito. Il puledro non diede segno di volerlo fare ma neanche di volergli dar retta, e continuò a ruminare placidamente il persiano. – Palla di Neve, potresti smetterla?
L’unicorno alzò il musetto e sbatté gli occhioni. E, mentre Bushido cercava di non ridere per il nome che Bill gli aveva affibbiato, cercò col naso il musetto di Bill e lo strofinò un po’, in un tacito assenso, prima di salire con gli zoccoli sul divano ed accucciarsi per una sana dormita.
Bill batté le mani, entusiasta.
- Visto? – rise Bushido, recuperando lo zaino da terra e consegnandolo a Bill, - È un animale ragionevole. – Bill annuì. – Ed ora… - continuò l’uomo, sospirando teatralmente, - vieni di là. Dovrò darti qualcosa da mettere, visto che non sono riuscito a prenderti dei vestiti.
- E come mai? – chiese Bill, giustamente curioso, seguendolo verso la camera da letto.
- C’era tuo fratello in casa. Mi ha trovato con le mani nel cassetto delle mutande. Puoi immaginare il dialogo che ne è seguito.
Bushido si aspettò una risata, ma Bill non rise affatto. E lui cercò di non farci caso.
*
La notte avrebbe potuto essere più piacevole, se le operazioni di nanna fossero andate nel verso giusto. Avere a che fare con Bill, però, significava senza dubbio avere a che fare con un bambino molto piccolo e molto capriccioso, e con individui simili – Bushido aveva imparato a capire – c’era poco da stare a contestare. Perciò, quando Bill s’era intrufolato nel suo letto alle nove di sera ed aveva stabilito del tutto arbitrariamente che ci sarebbe pure rimasto causa bagno personale raggiungibile tramite porticina accanto all’armadio, Anis s’era ritrovato con poco altro da fare che non chinare la testa ed andare a rifugiarsi nella camera degli ospiti, pregando intensamente che la donna delle pulizie le avesse dato una rinfrescata generale, l’ultima volta che era venuta.
Bill aveva anche provato a chiedergli se gli andasse di dormire con lui – facendolo peraltro con un candore disarmante, al punto che Bushido s’era un po’ chiesto se non fosse il caso di tenerlo con lui, tipo, per sempre, e proteggerlo dai mali del mondo – ma Anis aveva appena avuto il tempo di rimirare il proprio meraviglioso letto a tre piazze con amore profondo e valutare la proposta – pro e contro… più contro che pro, Bill a letto era un pericolo sotto svariati punti di vista – che l’unicorno aveva deciso di far valere la propria autorità di animale fatato e s’era appollaiato sul letto accanto a lui, testolina sul cuscino ed ali morbidamente ripiegate attorno al corpo.
Non c’era stato modo di rimuoverlo dal suo posto – anche quando Bill gliel’aveva chiesto – perciò Bushido aveva ipotizzato l’animale non lo volesse proprio fra i piedi: e piuttosto che fare arrabbiare il cucciolo di unicorno di Babbo Natale, aveva preferito ritirarsi in camera degli ospiti. Col risultato di ritrovarsi recluso in un letto singolo – non toccava materassi tanto piccoli da quando aveva sedici anni – sul quale non poteva neanche espandersi come sarebbe stato buono, naturale e giusto. E non chiudere occhio per tutta la notte, ovviamente.
Alle otto del mattino, frustrato e stanco morto e con un pensiero fisso che suonava più o meno “dovrò cambiare le lenzuola nel mio letto? Chissà se gli unicorni sporcano come i cavalli normali…”, Bushido si alzò in piedi, spalancò le tende e salutò il nuovo giorno con un’imprecazione furiosa nel ritrovarsi davanti al cancello di casa la solita mandria di giornalisti attaccati con la colla al culo di Bill, e che per questo motivo alle vicissitudini di quel benedetto culo erano anche incredibilmente interessati.
Sospirò.
Spalancò la finestra.
Si affacciò.
- Dorme ancora e no, non me lo sono scopato!
Una risatina timida lo raggiunse alle spalle e Bushido si voltò per ritrovarsi davanti Bill in groppa al puledro. Che era cresciuto ancora.
- Bill…? – lo chiamò incerto, e lui rise ancora, rimettendo i piedi per terra, - Stamattina mi sono svegliato presto e gli ho dato un biscotto mentre facevo colazione. – lo indico, - Questo è il risultato.
L’uomo si passo una mano sugli occhi.
- Scusa, Bill, ma visto che sappiamo che appena mette qualcosa in bocca cresce a dismisura, non potremmo smettere?
- Non vorrai mica che lo lasci morire di fame? – rispose seccamente Bill, guardandolo con disapprovazione neanche stesse davvero progettando di far morire di stenti il povero unicorno. Poi indicò la finestra, - C’è gente?
Bushido scrollò le spalle.
- La solita. – rispose con falsa noncuranza.
Bill annuì e si affacciò a propria volta, salutando la folla con ampi gesti del braccio e trascinando per un polso Bushido perché lo raggiungesse.
- No, di nuovo no, Bill… - provò a mugolare stancamente lui, ancora provato dalla mancanza di sonno ed ancora privo di un caffè per renderla meno fastidiosa.
- Ma non capisci, Bu? – disse il ragazzo, continuando a tirarlo finché ebbe raggiunto il proprio scopo, - Se ci comportiamo in maniera losca otteniamo l’effetto contrario a quello desiderato… sorridi, foto.
Bushido sorrise ed agitò un braccio in segno di saluto verso il fotografo di Yam!.
- E se ci comportiamo da novelli fidanzati, invece, che effetto otteniamo? – chiese tra i denti mentre si lasciava immortalare da almeno un’altra decina di paparazzi.
- Ah, non ne ho idea. – scrollò le spalle Bill, sorridendo amabilmente, - Vedremo con l’uscita della settimana prossima.
Era appena cominciato il ventuno dicembre, al ventiquattro notte mancavano quattro giorni pieni e Bushido non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto per vedere l’alba del giorno dopo. Sospirando pesantemente, richiuse la finestra e richiuse le tende, muovendosi con aria afflitta verso l’uscita della stanza. L’unicorno, ancora appollaiato sulla soglia, gli diede una musata sulla testa, come a dirgli “non ce l’ho con te, è la situazione complicata”. Bushido lo fissò malissimo e scese le scale in direzione della cucina. Si fermò con un principio d’infarto quando, adocchiando il salone – del quale si aveva una visione quasi completa, dal pianerottolo del piano di sopra – lo vide già infestato dalla crew al gran completo.
Allargò istintivamente le braccia, spingendo Bill e l’unicorno indietro perché nessuno potesse vederli.
- Ragazzi! – sbraitò con aria falsamente cordiale, - Che sorpresa! Qual buon vento?
Kay One sollevò una mano e la agitò gioiosamente.
- Ciao Bu! Speriamo non ti dispiaccia, c’era la finale di pattinaggio artistico maschile e-
- Pattinaggio artistico maschile…? – chiese allucinato, e i ragazzi scoppiarono a ridere.
Chakuza sollevò un DVD.
- Volevano vedere questo. – spiegò pacatamente. Fra le sue mani campeggiava il porno che gli avevano regalato l’anno scorso per il compleanno, per puro spirito di scherzo. E che invece sembrava aver riscosso un successo di gran lunga maggiore rispetto alle aspettative – un po’ come la riedizione di King Of Kingz senza Fler.
- ...non so nemmeno cosa dirvi prima. – biascicò Bushido in preda ai principi di una crisi di nervi, - L’avrete già visto ottomila volte. I film porno non si guardano in gruppo. Sono le otto del mattino. Questa è casa mia. – agitò una mano con aria disinteressata, - Scegliete il rimprovero che vi piace di più e poi fate quello che vi pare. Io mi preparo un caffè.
Chakuza annuì mentre premeva play sul telecomando e la familiare eco dei gemiti di una donna si diffondeva per la casa, assieme alle urla da stadio di tutta la crew. Viveva a stretto contatto con un branco di animali. Questa cosa era assolutamente disdicevole, per uno della sua risma.
- Ohi, ragazzi, - annunciò Saad sollevandosi in piedi dopo essersi faticosamente districato dal groviglio di arti umani che infestava il divano, - io vado in bagno.
E Bushido si fermò a due passi dalla moka.
I bagni erano al piano superiore.
Al piano superiore c’era Bill.
E il dannato unicorno di Babbo Natale.
- No! – si voltò di scatto, afferrando Saad per le spalle un attimo prima che cominciasse a salire le scale e sperando che Bill, nel mentre, avesse avuto almeno il buonsenso di nascondersi.
Bill. Buonsenso. Doveva immediatamente buttare tutti fuori da quella casa.
- Atze, che ti piglia? – chiese giustamente Saad, fissandolo con gli occhioni verdi spalancati, - Devo farmi una pisciata!
- I bagni sono fuori uso. – disse lui, secchissimo, senza mollare la presa.
- Qualcosa in casa tua non funziona? – si intromise Chakuza, inarcando supponente le sopracciglia, - Credibile come un duetto con Sido, Atze. – poi sorrise crudele, - Hai qualcuno di sopra, mh?
Il problema con Bill era fossero tutti abituati alla sua presenza, sì. Ma di giorno. Bill non si fermava mai a dormire da lui – per ovvi e ragionevoli motivi – e Bushido non poteva presentarlo in quel momento e in quel modo, non con un unicorno alle spalle, soprattutto, e comunque non ci sarebbe stato niente da presentare, che diavolo andava pensando?!, il suo raziocinio stava prendendo degli svarioni non indifferenti, quella mattina.
- Di sopra non c’è nessuno e fate conto che non ci sono neanche i cessi. – rispose lui a muso duro, - Ora alzate il culo e, se proprio volete darvi ad una sessione di porno comunitario, fatelo sul selciato di fronte casa, almeno quegli stronzi dei giornalisti avranno qualcosa di serio di cui parlare.
- Atze, io non intendo tornarmene a casa mia per una-
- Io non intendo tenervi qui un secondo di più, perciò-
- Bu? Ho un problema con l’unicorno, non vuole… oh.
E l’aria, nella grande casa gialla, si fece immobile.
Bill stava affacciato dal pianerottolo, i capelli ancora scomposti dal sonno e gli occhi grandi e curiosi. L’unicorno s’era affacciato accanto a lui, entrambi guardavano Bushido con aria cucciolosa e sembravano incerti su quale fosse la loro posizione nel mondo. Saad, le spalle ancora strette fra le mani di Bushido, si irrigidì all’istante, seguito a ruota dal resto della crew.
L’unicorno non morì né scomparve nei lunghi minuti di silenzio che seguirono il suo arrivo. Il che avrebbe dovuto preoccupare Bushido più di tutto il resto, probabilmente. Poteva anche andare bene che l’unicorno non fosse scomparso di fronte a lui – non andava bene per niente, in realtà, ma poteva con enorme sforzo accettarlo, ecco – ma l’idea di avere un’intera crew composta da ragazzini che ancora credevano negli unicorni lo sgomentava abbondantemente. E quella avrebbe dovuta essere la sua banda, il non plus ultra del virilissimo german-rap, insomma, i bad boys di Berlino. Probabilmente Fler aveva ragione, i veri deutscha bad boys stavano all’Aggro.
Saad sollevò una mano puntando il dito verso l’unicorno. Bocca e occhi spalancati, lo fissò a lungo, fino a quando l’unicorno non nitrì il proprio disappunto e Bill non fu costretto a specificare “credo gli dispiaccia essere indicato. È molto maleducato, Saad”. Al che, il braccio del libanese cadde come morto lungo il suo fianco e l’uomo annuì pesantemente, senza staccare gli occhi dall’animale.
Le sue prime parole, qualche istante dopo, furono “credo che andrò a pisciare a casa mia”. Guadagnando un cenno di approvazione da parte di tutta l’intera crew, che si mise in piedi abbandonando il divano – e il porno ancora acceso – con sincronia perfetta, neanche si fosse trattato di un unico corpo.
Bushido si passò stancamente una mano sugli occhi.
- Mi pare scontato che non voglio che questa cosa esca da questa casa. – disse con aria burbera, prima che i ragazzi uscissero dall’appartamento. Chakuza si fermò sulla soglia della porta e lo fissò, allucinato.
- Ti pare che siamo così idioti da andare pure a parlarne in giro, Atze?
La domanda, in effetti, si rispondeva da sola. Perciò Bushido non aggiunse altro.
*
Adattarsi a convivere con l’unicorno non fu particolarmente difficile: Bushido capì già all’alba del ventidue dicembre – quando se lo ritrovò steso addosso, naturalmente dalla parte meno piacevole, non appena aprì gli occhi – che quel cavallo aveva con lui un enorme problema indecifrabile di cui non riusciva a parlargli – strano, perché sapeva essere molto eloquente, quando voleva. E poi Bill traduceva per lui. Come Bill potesse comprenderlo era una domanda che non voleva porsi, ma rimaneva il fatto che, quando qualcuno della crew passava per la casa, ad esempio, Palla di Neve ci tenesse a dire la propria sulla presenza di estranei in casa, e Bill traduceva meticolosamente ogni educato invito a togliersi dalle palle. Per qualche motivo, però, quando l’unicorno indirizzava un nitrito di disappunto a Bushido, non c’era verso di costringere Bill a spiegargli perché ce l’avesse con lui. Il che poteva essere frustrante, visto che l’animale si stava facendo enorme e Bushido cominciava a temere per la propria vita – soprattutto quando si vedeva sbattuto contro una parete a causa di un colpo di coda.
In ogni caso, stabilito che lui e Palla di Neve erano l’uno l’antitesi dell’altro e che, per questo motivo, sarebbe stato molto meglio tenerli lontani, la convivenza era stata perfino piacevole. L’unicorno era educato, si scostava per farlo passare, non intralciava la via verso il bagno ed a parte soffocarlo di dispetti come lo scherzetto del sedere sulla faccia non faceva niente di particolarmente molesto.
Il problema era Bill, che Allah l’aiutasse.
Bill era pieno di fissazioni assurde. Erano così tante che non erano nemmeno calcolabili. Bushido le approssimò ad un numero tendente all’infinito e, quando lo fece, gli venne da pensare di essere stato perfino troppo generoso nel sottrarne qualcuna di poco conto. Bill non mangiava mele. A Bill piaceva la cioccolata ma solo a determinate condizioni. Bill non mangiava quasi niente non contenesse più conservanti che ingredienti naturali. Bill aveva bisogno di piastrare giornalmente i capelli perché odiava i boccoli. Bill odiava gli insetti e non usciva mai in giardino per paura delle punture. Bill era di una pigrizia sconcertante ed era capacissimo di richiamare te – che stavi in camera da letto dall’altro lato della casa a farti un’abbondante quantità di cavoli tuoi – per farsi portare dalla cucina – vicino al salotto – un bicchiere d’acqua – in salotto dove stava lui, appunto.
Bushido sospirò, posando il dannato bicchiere d’acqua sul tavolino basso accanto al divano dove Bill stava svaccato, sfogliando una rivista mentre con la mano libera accarezzava Palla di Neve, morbidamente accucciato sull’altro cuscino, ai suoi piedi. Inarcò le sopracciglia.
- Palla, potresti anche lasciami un po’ di spazio per sedermi… - si lamentò, piantando le mani sui fianchi ed osservando l’unicorno, ormai grande quanto un normalissimo cavallo e con un’apertura alare da albatros, mentre sonnecchiava sul divano.
L’unicorno sollevò appena una palpebra e sbuffò un nitrito disinteressato.
- Dice che c’è l’altro divano. – tradusse distrattamente Bill, senza sollevare gli occhi dalla rivista.
Bushido aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, deluso.
- Insomma, ho smesso di essere padrone di casa mia nel momento in cui siete entrati da quella porta. – si lamentò, accucciandosi sull’altro divano e cercando a tentoni il telecomando fra i cuscini, - E a Natale mancano ancora tre giorni!
Bill gli sollevò addosso un paio di occhi incredibilmente brillanti, allungandosi a recuperare il suo bicchiere d’acqua dal tavolino.
- Mi dispiace di darti tanto disturbo…
Bushido grugnì con disappunto.
- Non ti dispiace affatto. – borbottò, - Ti piace da morire farti servire e riverire, eh?
Bill lasciò andare una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Assolutamente sì. – ammise annuendo. E poi esitò solo un secondo, abbassando appena lo sguardo, - …fosse per me, rimarrei qui per sempre.
Bushido inarcò le sopracciglia. Fece per rispondere qualcosa – una cosa qualunque, la prima battuta che gli fosse capitata sulla punta della lingua – ma dovette interrompersi causa campanello martellante direttamente nelle orecchie. Sospirò e si mise in piedi.
- Vedi di far sparire quell’animale, mentre vedo chi è.
Bill annuì e saltò in piedi.
- Palla di Neve? Fuss! – ordinò con ingenua gioia.
Bushido sospirò: era assurdo che Bill si fosse convinto di essere stato in grado di addestrare l’unicorno in due giorni. Quell’animale palesemente lo idolatrava e lo seguiva ovunque, non c’era bisogno di trattarlo come un pastore tedesco, per portarlo in giro per casa.
Il campanello strillò ancora, offeso dal suo disinteresse.
- Ho capito, ho capito… - biascicò Bushido, sporgendosi per spiare l’identità dell’ospite al di là dello spioncino. Quando capì di chi si trattava, gli venne voglia di prendere a cazzotti Babbo Natale, e si ripromise che, qualora l’avesse visto, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. – Merda… mormorò scontento, - Bill, c’è tuo fratello! – urlò poi, in direzione delle scale che portavano al piano di sopra.
Bill si affacciò e lo fissò, attonito.
- E che ci fa qui? – chiese incerto.
Bushido scrollò le spalle.
- È il tuo gemello, siete voi quelli della telepatia gemellare-
- Non usare quel termine, a Tomi non piace, lui non crede nella telepatia.
- No, ma dice di sapere sempre cosa ti passa nella testa, per quanto io creda impossibile anche solo intuire cosa ci sia là dentro. – precisò lui, indicandolo con un dito, - Comunque sia, io non intendo averci a che fare.
Bill continuò a guardarlo con la stessa aria stupita.
- Io devo stare con Palla di Neve, Bu. – gli fece notare.
- Palla può stare da solo, per un po’! – cercò di convincerlo lui, per quanto sapesse perfettamente che no, Palla non poteva stare da solo. Palla sclerava appena Bill si chiudeva in bagno, figurarsi. – Tuo fratello mi stressa, Bill!
Bill scrollò le spalle.
- Vuoi che Palla di Neve fugga dalla finestra? – gli chiese, - È già successo, lo sai!
Bushido ringhiò.
- Tu e le tue dannate due ore di ricostruzione ogni volta che ti strucchi. – borbottò disperato, - Sparisci. – disse poi con un gesto vago, - Cerco di rimandarlo a casa.
Bill rise e scomparve oltre le scale, mentre Bushido sospirava profondamente e si preparava ad affrontare il dramma.
Tom apparve sulla soglia fissandolo con l’aria navigata dell’uomo che della vita ha capito tutto, e Bushido si chiese distrattamente come avrebbe reagito se fosse salito su, avesse recuperato Palla di Neve e gliel’avesse graziosamente posato di fronte.
Sospirò.
Probabilmente Tom avrebbe riso e gli avrebbe detto qualcosa tipo “non è più assurdo di te che cerchi di farmi credere che in realtà tu e Bill non state insieme”.
- Ciao, Tom. – lo salutò atono, - Qual buon vento?
Lui avanzò all’interno dell’appartamento senza chiedere il permesso, guardandosi intorno con aria sospettosa. Bushido temette si mettesse ad annusare l’aria, in cerca chissà di che cosa, poi.
- Allora… - chiese invece il ragazzo, voltandosi a guardarlo con malizia, - mio fratello?
Bushido sospirò.
- È uscito.
- Aha… - disse Tom, palesemente senza credergli, - quindi se vado di sopra e lo cerco in camera da letto non lo trovo, eh?
L’uomo deglutì.
Bill aveva preso possesso della camera da letto al punto che Tom non avrebbe faticato a pensare tutto e il contrario di tutto anche solo a metterci piede dentro: vestiti ovunque, trucchi sparsi in giro sulla toletta, un quintale di scarpe affiancate in un’ordinatissima fila contro la parete…
- Non ti farò entrare in camera mia, Tom, non siamo ancora abbastanza intimi. – scherzò, cercando di porre freno al dramma in atto. Tom non ne fu granché impressionato.
- Guarda che i flirt con me non funzionano. – ghignò invece, piantando una mano sul fianco e sporgendo appena un’anca, come il fratello faceva anche troppo spesso. – Allora, che mi racconti?
“Che tuo fratello mi fa ammattire, il suo unicorno mi odia ed ho un Bravo in cui io e Bill salutiamo i giornalisti dalla finestra della camera degli ospiti, come la fottuta famiglia reale inglese, in uscita entro la fine di questo mese. Ho una vita molto piena, sì.”
- Niente, Tom. – biascicò, andandosi ad abbattere contro il divano poco distante, - Tuo fratello mangia sempre chili di dolciumi, non muove mai un dito in casa ed è generalmente il solito ragazzino lamentoso coccola-dipendente. Ti basta così?
Tom aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Sei un mostro. – lo accusò infine, fissandolo con estremo disappunto, - Non dovresti parlarne così!
Bushido mugolò sconfitto e si passò una mano sugli occhi.
- Lo sai che voglio bene a tuo fratello, Tom-
- È il tuo ragazzo! – sbottò lui, - Dovresti volergliene di più!
- Ma non è il mio ragazzo!
Tom si spiaccicò una manata esasperata sulla fronte e sospirò teatralmente, andando a sedersi accanto a lui sul divano.
- Ascoltami bene. – gli disse poi, fissandolo intensamente negli occhi e piantandogli un dito proprio nel mezzo della fronte, - Io ho capito che piaci a mio fratello nel momento stesso in cui sono tornato in albergo con lui dopo i Comet, millemila secoli fa, e lui mi ha detto con occhio sbrilluccicoso “Bushido è una persona fantastica!”. – disse, cercando con poco successo di imitare la voce di Bill, vagamente più acuta della sua. – Io. – precisò, indicandosi, - Io sono un tonto. – annuì, - Io le cose non le capisco a meno che non siano palesi.
- Oppure – protestò Bushido, sbuffando annoiato e scuotendo il capo per cercare di liberarsi dall’indice puntato contro la fronte, - capisci fischi per fiaschi. Visto che io e tuo fratello non stiamo insieme e lui non mi ha mai detto-
- Non te l’ha mai detto perché guardati!, - riprese Tom, roteando gli occhi, - ti basta che io faccia tanto di insinuarlo e scleri! Chiaro, me l’hai terrorizzato, povero piccino, non ti dirà mai niente!
Bushido spalancò gli occhi, fissandolo sgomento.
- Tom. – sospirò alla fine, passandosi una mano sulla fronte, - cos’è che stai cercando di dirmi?
Tom sospirò a propria volta, con l’aria di uno che decisamente deve dare fondo a tutte le proprie riserve di pazienza, per star dietro ai tonti coi quali si ritrova ad avere a che fare.
- Sto cercando di dirti che tu non ascolti abbastanza. – rispose quindi, liberandogli la fronte dal peso di quell’indice puntato ed incrociando le braccia sul petto, - Non ascolti abbastanza Bill, o te ne saresti accorto da te. Già da un sacco di tempo, peraltro. – sospirò ancora, - E non ascolti me. Che, non a caso, non ho mai usato le parole “state insieme”.
Bushido ringhiò.
- Tom, non ho più neanche idea di quante volte mi hai ripetuto che tuo fratello è il mio ragazzo!
- Appunto. – sorrise trionfante Tom, inclinando furbo il capo, - E su questo, Atze, non puoi proprio darmi torto: magari non state insieme, ma lui di sicuro è tuo da anni. E quanto al suo essere un ragazzo, se vuoi posso confermartelo per iscritto. Ma credo che sarebbe meglio se controllassi tu di persona.
E così se ne andò: trascinandosi dietro tutto il proprio carico di inopportuna quanto fastidiosa sincerità. Bushido rimase lì, sulla porta, a fissare il vuoto. Per un sacco di tempo, poi. Fin quasi a sentirsi ridicolo da solo, perfino: il che, per uno che in genere non si sentiva ridicolo neanche quando rincorreva i propri compagni di crew con un carrello, era davvero inquietante.
Tornò presente a se stesso ed al mondo che lo circondava soltanto quando Bill tossicchiò appena da qualche parte alla sua sinistra. Mentre lui rimaneva in ascetica contemplazione del nulla, il ragazzo aveva avuto tutto il tempo di uscire dalla stanza in cui si augurava si fosse nascosto, scendere le scale e piantarglisi là di fianco con l’espressione tipica di uno pronto a chiedere scusa anche solo per essere venuto al mondo.
Bushido lo guardò. Piccolo e spaurito, Bill non riusciva nemmeno a guardarlo. Era talmente rosso in viso che c’era da chiedersi se per caso non avesse la febbre – e, in caso di risposta affermativa, preoccuparsi: Jost non aveva fatto che chiamarlo una volta ogni tre ore per assicurarsi che stesse bene e minacciarlo di violente e tremende ripercussioni legali in caso succedesse qualcosa al suo bambino. Bushido comprendeva quell’uomo e provava anche della sincera pietà, nei suoi confronti, ma sapeva che poteva essere un discreto rompimento di palle, se solo ci si metteva, perciò no, non aveva nessuna intenzione di rovinargli il cucciolo. Soprattutto perché, oltre Jost, se fosse successo qualcosa al leader dei Tokio Hotel, gli avrebbero voluto male davvero in tanti.
L’uomo si schiarì la voce, sporgendosi verso di lui ed allungando un braccio quasi a volerlo consolare per chissà cosa, ma Bill lo stupì nel modo più impensabile e normale di tutti: aprendo bocca e parlando. Il punto di Bill era proprio quello: parlava continuamente, ma tirargli fuori di bocca le cose veramente importanti era difficile quanto raggiungere la luna saltando.
- Mi dispiace che tu l’abbia dovuto sapere così. – disse invece Bill, dando probabilmente fondo a tutte le proprie riserve di sincerità, - Tomi tende ad avere la bocca troppo larga. – sospirò, - Spero solo tu non ti sia arrabbiato.
Bushido deglutì faticosamente.
- Bill… - cominciò, ma si fermò subito, incerto su come continuare. Era sempre stato una persona piuttosto fisica, e questo valeva anche per i tentativi di consolazione. Ma come diavolo faceva a consolare quel ragazzino? Se toccarlo sembrava fuori discussione proprio a causa del motivo della sua tristezza…
Palla di Neve, neanche stesse intuendo i suoi pensieri più nascosti, si parò fra lui e Bill, scrutandolo con occhi disapprovanti. Bushido resse il suo sguardo ed aggrottò le sopracciglia, resistendo appena al desiderio di ricoprire quel dannato cavallo d’improperi e tirargli pure una botta sul muso. Cercò di calmarsi ripetendosi che si trattava del dannato unicorno di Babbo Natale, non avrebbe dovuto volere far del male al dannato unicorno di Babbo Natale, ma per qualche strano motivo pensieri simili gli facevano venire voglia solo di ricoprire d’improperi e dare una botta sul muso anche al dannato vecchio, perciò lasciò perdere.
Fece per eludere il cavallo e raggiungere Bill alle sue spalle. Anche solo per accarezzargli un po’ la testa. Giusto per non fargli capire che non era arrabbiato, non era disgustato e non era niente di negativo in generale, ma Palla di Neve nitrì di scazzato disappunto e non gli permise nemmeno di fare un passo.
- Palla… - lo chiamò rabbioso, ma si fermò appena il pigolio incerto della voce di Bill lo raggiunse da dietro il corpo possente dell’animale.
- Palla di Neve… - lo chiamò il ragazzino, e subito quello si voltò a guardarlo, - Sitz.
Ed obbedì all’istante.
Tutto ciò che Bushido riuscì a pensare, osservando Bill risalire mestamente le scale, diretto probabilmente in camera da letto, fu “dannazione. Mi sa che l’unicorno l’ha addestrato davvero”. E, mordendosi un labbro mentre decideva di passare la notte al piano di sotto – visto che la sola idea di dormire ad un paio di metri da Bill lo turbava in maniera non descrivibile – gli venne quasi da pensare che l’addestramento dell’unicorno di Babbo Natale non fosse l’unico danno combinato da Bill prima da quando era arrivato in quella casa. Probabilmente non era nemmeno il più grave.
*
Il ventitre dicembre scivolò lentamente sotto le loro dita senza che neanche si guardassero, quasi. La mattina fu pigra e silenziosa – Bill non aveva chiuso occhio e si aggirava per casa come uno zombie, fissando il vuoto con occhi spenti ed evitando il suo sguardo a tutti i costi. A Bushido non era poi andata tanto meglio – il bracciolo del divano non s’era rivelato un cuscino piacevole, e per la verità neanche il suo turbamento s’era rivelato granché simpatico, come compagno di sonno, ragion per cui, praticamente, non aveva dormito affatto.
Fra una telefonata ridacchiante di Tom, una minacciosa di Jost e gli spettri invisibili della crew che spuntavano all’improvviso per rubare un po’ di Wii – per poi naturalmente dileguarsi alla prima comparsa di Bill o di Palla di Neve – Bushido non aveva posato quasi per nulla gli occhi sul proprio ospite; a parte un breve momento d’imbarazzo verso mezzogiorno – cioè quando Bill aveva deciso di scendere al piano di sotto per la colazione – occasione in cui Bill s’era ritrovato senza zucchero e Bushido s’era ritrovato abbastanza soprappensiero da biascicare un distratto “è qui sopra”, prima di sollevarsi a recuperare il barattolo sul ripiano della credenza senza curarsi del corpicino del ragazzo che finiva schiacciato fra il suo e la superficie rigida e legnosa del mobile.
Il respiro di Bill gli aveva sfiorato la pelle del collo ed il suo calore era giunto chiarissimo attraverso i vestiti, colpendolo nel centro del petto ed annullando qualsiasi traccia di pensiero razionale dentro di lui, per moltissimi secondi. Non riusciva a capire se quello fosse solo imbarazzo, se si sentisse a disagio perché Bill l’aveva conosciuto che era uno scricciolo ed il pensiero di doverlo guardare da adulto per la prima volta lo mandava in confusione… o le radici di quel turbamento fossero differenti.
Se per caso non avesse ragione Tom, ad esempio. Se i suoi continui tentativi di mantenere quella relazione fra il vago e l’incerto non fossero in realtà i trucchi furbi di un trentenne che sa esattamente come rigirarsi i ragazzini fra le mani. Di un trentenne magari perfino spaventato dalla possibilità che il ragazzino che ha coccolato fino a poco tempo prima possa ritrovarsi cresciuto e senza più alcun bisogno di lui.
Bill era parte della sua vita da un sacco di tempo, ormai.
Era difficile identificare adesso dove finisse lo scherzo e cominciasse il desiderio.
Il ventiquattro dicembre, la consapevolezza che quel gioco del silenzio non sarebbe potuto durare in eterno lo raggiunse come un pugno in pieno viso nel momento in cui, verso le quattro del pomeriggio, Bill si presentò al suo cospetto in salotto, accompagnato come al solito da Palla di Neve. Con la piccola aggiunta dello zainetto che Bushido aveva portato per lui da casa sua.
- …che? – chiese l’uomo, indicando lo zaino con un cenno del capo.
Bill ne torturò le bretelle fra le dita, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- È praticamente Natale… - disse dopo un po’, sguardo basso ed aria afflitta, - e penso che tu abbia di meglio da fare che non badare ad uno come me. – sospirò, - Anche perché non riesco a parlarti. Né a guardarti. Né a fare nient’altro.
- …Bill, ascoltami-
- No. – scosse il capo lui, riuscendo solo per un secondo a sostenere i suoi occhi, prima di tornare a puntare i propri sui ghirigori del tappeto, - Questa cosa… mi è caduta addosso come un macigno. – spiegò a fatica, - Io non avevo alcun problema con… con il fatto che mi piacessi. Ma ora che lo sai è tutto diverso. E siccome è evidente che non… - tornò a guardarlo fugacemente e poi si disperse ancora sul pavimento, - insomma, penso che andrò a casa e parlerò con Tomi. Se riesco a parlare con lui prima che veda Palla di Neve, allora magari-
- Ma Bill… - cercò di riportarlo in sé lui, massaggiandosi la fronte e mettendosi in piedi, - cerca di ragionare. Palla è diventato enorme. Non puoi uscire da qui con quell’animale appresso!
Bill si morse ancora il labbro, a disagio.
- …ti sta rovinando tutto il parquet, al piano di sopra. – lo informò, - Sono gli zoccoli, credo. Ti sto distruggendo casa e ti sto distruggendo la vita e-
- E magari invece non mi stai proprio distruggendo niente. – lo interruppe l’uomo, andandogli incontro e posandogli le braccia sulle spalle. Non lo toccava da un sacco di tempo e, quando i loro corpi vennero in contatto, si ritrovò letteralmente ricoperto di brividi. – Adesso ti calmi. – lanciò un’occhiata a Palla di Neve che, nel mentre, allarmato da tanta vicinanza, stava per mettersi di mezzo, - E tu ti levi di torno. Raus. – borbottò infastidito nei suoi confronti. Palla di Neve rispose con uno sbuffo risentito, accucciandosi lì di fianco senza spostarsi di un millimetro. – Bill, - sospirò Bushido, roteando gli occhi prima di tornare a guardarlo, - qui nessuno ha problemi con nessun altro, d’accordo? Non c’è niente che non vada. Non sono offeso e comunque ti ho chiesto io di restare fino a Natale. E non sarà Natale prima di stanotte a mezzanotte. – Bill lo guardò con aria smarrita, perdendosi un po’ nei suoi occhi, e Bushido si ritrovò a sospirare ancora, esplicitando ulteriormente, - Quindi adesso ci mettiamo in cucina e prepariamo qualcosa di buono, ok? Un bel cenone. E ci godremo la serata. E del resto parleremo poi.
Bill aveva sorriso ed aveva fatto quello sguardo lì, quello allegro e brillante che in genere precedeva i momenti in cui mandava a quel paese il buonsenso e ti saltava al collo riempiendoti di baci a caso – senza badarci se per caso uno dei baci finiva sulle labbra. Senza badarci o badandoci eccome, c’era quasi da chiederselo.
Non fu tanto piacevole osservarlo spegnere di prepotenza quella luce e trattenersi dall’abbracciarlo. Comunque, le due ore successive passarono piacevolmente, mentre entrambi stavano immersi in cucina fra chili di pentole e pentolini alla ricerca di qualcosa di commestibile fra credenza e frigorifero.
Palla di Neve seguì con cipiglio critico tutte le operazioni di cottura, senza mai intralciarle ma nemmeno favorirle; quando, alla fine, Bill si mise in testa di fare i biscotti di pan di zenzero – “perché stanno tanto bene attaccati all’albero, Bu, non hai idea quanto!” – pretese anche che lui uscisse dalla cucina, e di buttarlo fuori s’incaricò proprio l’unicorno, spingendolo a musate fuori dalla stanza senza la minima delicatezza.
Bushido si augurò che Babbo Natale lo buttasse fuori di casa al secondo giorno, visto il brutto carattere, ma non protestò e si svaccò sul divano mentre attendeva che Bill riemergesse da quell’incredibile frenesia da casalinga festosa.
Cosa che successe puntualmente un paio d’ore dopo: Bushido lo vide venir fuori dalla cucina completamente ricoperto di farina e zucchero, ma con un sorriso talmente smagliante sul volto da non riuscire neanche a prenderlo in giro.
- Non voglio nemmeno immaginare il delirio che ci sarà in cucina… - sbuffò divertito, senza nemmeno alzarsi in piedi. Bill gli regalò una linguaccia ed una mezza risata.
- La cucina è ok… sono io da ristrutturare!
Bushido lanciò un’occhiata all’orologio a muro e rise a propria volta.
- Be’, sono quasi le sette e mezza. Se vai a farti in bagno adesso, c’è una qualche possibilità tu sia già ristrutturato per l’ora di cena?
Bill aveva tirato di nuovo fuori la lingua, mostrando il piercing e lanciando un’occhiatina all’albero di Natale illuminato che i ragazzi della crew erano venuti a sistemare poco a poco come scusa per essersi defilati ed averlo mollato da solo con Bill Kaulitz ed un unicorno, ma aver continuato a gravitare di nascosto per la casa solo in virtù delle consolle per i videogiochi.
In realtà non c’era proprio da stupirsi che tutti quanti credessero negli unicorni, se poi in effetti si comportavano da bambini di dieci anni. Fler doveva indubitabilmente avere ragione.
- È un po’ triste che sotto non ci siano regali. – commentò appena, spolverandosi un po’ la maglietta.
- Ti sbagli. – rise Bushido, indicando con un cenno del capo Palla di Neve placidamente accoccolato sotto le fronte dell’abete, sul tappeto parzialmente ricoperto di aghi, - C’è lui.
Bill ridacchiò.
- E quello lo chiami regalo? – chiese ironico.
Bushido scrollò le spalle.
- Quello proprio no. La tua compagnia, però, può essere.
Lo osservò arrossire e borbottare qualcosa di confuso, prima di cominciare a correre a rotta di collo verso il piano superiore senza nemmeno guardarsi indietro, e si ritrovò a riflettere su quanto in realtà fosse davvero poco netto il confine fra i suoi sentimenti. In realtà, nella sua vita, erano sempre stati chiari solo gli odi. Per tutto il resto – ed anche per qualcuno di quegli odi stessi – vagava in un limbo d’incertezza in cui un sentimento avrebbe tranquillamente potuto essere qualsiasi altro.
In sostanza, gli piaceva avere Bill intorno.
In sostanza, probabilmente, se non l’aveva mai visto come un probabile compagno, era stato perché si era ostinato a non volercelo vedere. Oltre che perché lui era Bushido e quell’altro Bill Kaulitz, naturalmente. Sono cose, queste, che già da sole frenano i rapporti, in genere.
Bill ridiscese nel tempo record di un’ora e mezza, quando già Palla di Neve aveva ripreso conoscenza dal pisolino pomeridiano e si apprestava a piantare grane – tipo mangiando i babbi di stoffa appesi ai rami dell’albero – perché al suo risveglio non aveva trovato Bill a fargli le coccole.
Bushido sollevò lo sguardo e se lo ritrovò immerso in un accappatoio bianco dalle cui maniche spuntavano appena le mani. Attorno alla sua vita, la cintura faceva almeno due giri ed era ancora molle al punto che, quando si muoveva, i lembi dell’accappatoio si separavano e si poteva scorgere al di sotto qualche spicchio di pelle bianchissima ed ancora umida di doccia. Da sotto il cappuccio e le pesanti ciocche di capelli neri ancora bagnati, Bill lo fissava con estremo imbarazzo, stringendosi nelle spalle.
- …ho dimenticato di chiederti qualcosa per cambiarmi, quando sono andato in bagno. – biascicò incerto, abbassando lo sguardo.
Bushido sospirò pesantemente e si alzò in piedi, raggiungendolo di fronte alle scale con un sorriso bonario ad increspare le labbra.
- Tu sei un danno. – gli fece presente, sollevando le mani per frizionargli i capelli col cappuccio, mentre pesanti gocce trasparenti scendevano la china di quella cascata d’ebano per infrangersi contro il pallore delle sue scapole. – Guardati qui. Siamo a dicembre inoltrato e non ti sei nemmeno asciugato per bene.
Bill sorrise appena, e sotto le ciglia ancora bagnate i suoi occhi brillarono di una luce incredibilmente intensa. Intensa al punto che Bushido ebbe quasi difficoltà a sostenerla.
Gli venne in aiuto la sfiga, perché la luce saltò in quel preciso istante.
- Merda… - imprecò, stringendo la presa su Bill neanche avesse paura di sentirselo svanire sotto le mani col favore del buio. Il ragazzo, per contro, gli si strinse addosso, agitandosi appena. – Deve essere saltata la luce. Con tutte le decorazioni che ci sono accese per ora nelle strade… - ringhiò, - Aspetta, dai. Vado a controllare il quadro elettrico.
Fece per allontanarsi, ma Bill scattò immediatamente a stringerlo per un braccio. Nel buio e nel silenzio, le sue dita ossute serrate attorno al polso erano quasi inquietanti. Ma erano umide e calde, e Bushido non faticò a cedere alla loro richiesta di fermarsi, tornando a cercare di scorgere il suo profilo nel buio profondissimo che annegava la casa.
- Bu… - lo chiamò Bill, la voce tremante, - sai cos’è che dice sempre Palla di Neve quando mi vieni così vicino?
Bushido scosse appena il capo, e si rassegnò a tirar fuori un “no” umanamente comprensibile soltanto quando capì che, con quel buio, Bill non avrebbe mai potuto vederlo.
- Dice sempre che sei pericoloso. – continuò Bill in un sussurro. Era così vicino che Bushido poteva sentire il suo respiro sul viso. Sapeva di zucchero e cose dolci. Era un buon odore. – E dice anche che dovresti starmi lontano.
- Forse – sussurrò a propria volta, molto più incerto di quanto avrebbe voluto, - dovrei dargli retta.
Bill rise piano, un trillo appena percettibile, e gli posò entrambe le mani sul petto.
- Palla di Neve non può vederci, adesso.
E Bushido l’aveva schiacciato contro il muro il secondo successivo. L’aveva baciato subito dopo. L’aveva condotto su per le scale quasi di seguito. E s’era chiuso alle spalle la porta della propria camera da letto non più di due minuti più tardi.
Quando la luce tornò in casa – da sola, senza che nessuno ce la riportasse – il salotto venne illuminato solo dal bagliore delle lucine intermittenti che adornavano l’albero di Natale. Di Palla di Neve non c’era più traccia. A meno di non voler considerare una traccia una finestra spalancata.
*
Bill era scoppiato a piangere nel momento stesso in cui s’era reso conto del danno che avevano combinato. In un primo momento, ancora perso nell’assonnato sfinimento che aveva seguito il loro incontrarsi e scontrarsi pelle contro pelle fra le lenzuola fresche di bucato, era rimasto immobile contro il suo petto e non aveva detto nulla, ma quando finalmente avevano ripreso a parlare e Bushido gli aveva fatto notare quanto le premesse di quella relazione fossero sbagliate e disastrose – l’età! Due mondi diversi! Il tuo manager mi ucciderà, Bill – il ragazzo l’aveva zittito con un bacio veloce pregandolo di non sparare cavolate a raffica quando non poteva insultarlo come giusto e poi, d’improvviso, aveva spalancato gli occhi, mormorato un “Palla” afflitto ed era scoppiato in lacrime. Singhiozzando talmente forte, poi, da dare a Bushido l’impressione potesse spaccarsi. Un’impressione che, per la prima volta, lo terrorizzava – e non solo per le possibili ripercussioni legali.
Quando erano scesi di sotto, era bastata una breve perlustrazione della casa – fra un “Babbo Natale mi ucciderà” e l’altro – per rendersi conto che sì, le previsioni di Bill si erano avverate: non era più vergine; l’unicorno era scappato. Volando via dalla finestra ed immettendosi nel traffico notturno del ventiquattro dicembre a Berlino, peraltro. Fossero almeno stati in campana… ma no, proprio nella capitale tedesca.
Bushido sospirò pesantemente e si strofinò gli occhi con una certa forza, cercando di recuperare lucidità mentale. Quando ci riuscì, l’unica cosa che pensò fu che quello era proprio il momento di mettere in campo la crew: una manciata di uomini forti, asserviti, indipendenti e fondamentalmente stupidi. Una manciata di uomini, soprattutto, che quell’unicorno lo vedeva senza dubbio. Perciò, perfettamente sfruttabili.
- Tu non ci stai con la testa, Atze. – fu il commento di D-Bo quando, di fronte a tutto il resto della crew, gli venne spiegata la situazione.
- Cioè, tu e Bill – precisò Eko, spalancando smisuratamente gli occhi, - avete scopato. E già questo basterebbe a sconvolgermi. Ma oltretutto tu mi vieni a dire che quell’allucinante creatura stava qui solo perché il ragazzino qua era vergine e che ora che non lo è più è fuggita chissà dove…
- …ed a noi tocca cercarla?! – rincarò la dose Chakuza, agitandosi nervosamente attorno al divano, - Noi siamo rapper! È già allucinante ci fosse un unicorno in casa tua, io non intendo prestarmi a-
- Tu ti presterai a qualsiasi cosa io ti chiederò. – fu il secco commento di Bushido, spedendoli tutti fuori casa e tirandosi appresso Bill mentre si immetteva a propria volta per le strade della città, - Altrimenti io ti licenzierò e farò in modo da non farti più mettere piede in qualsiasi etichetta della città.
Mentre Chakuza borbottava inascoltato un “vorrà dire che andrò da Sido e Fler, sia mai loro siano meno cazzoni di te!”, Bushido si affiancò a Bill e gli strinse protettivo una spalla.
- Guarda che lo ritroviamo. – cercò di rassicurarlo, preoccupato dai suoi lineamenti tesi. Bill era sempre sull’orlo del crollo. Pensare di doverlo rimettere in piedi dopo una caduta era spaventoso: se non altro perché lui era così fragile da minacciare di rompersi in una quantità infinita di minuscoli pezzi, in caso fosse caduto davvero.
- Bu, non capisci… - mugolò il ragazzo, asciugandosi le guance, - io avevo fatto una promessa a Babbo Natale… - continuò mentre Saad borbottava un “bah!” sconvolto alle sue spalle, - ed invece Palla di Neve è scappato per colpa mia e… - Bushido lo osservò sollevare lo sguardo e poi spalancare gli occhioni, prima di puntare il dito verso un punto imprecisato di fronte a lui e prendere fiato neanche dovesse apprestarsi a cantare per i successivi dieci minuti di seguito senza avere la possibilità di respirare. E poi esplose: - Palla!!!
L’unicorno stava in effetti immobile a qualche metro di distanza da loro. I passanti sembravano non vederlo e continuavano a vivere la loro gioiosa festività senza curarsi del delirio in cui invece loro stavano immersi.
Bill cercò di andargli incontro, ma Palla di Neve nitrì adirato e s’impennò.
- Palla, non… non fare così, ti prego… - provò il ragazzo, ma l’unicorno non lo ascoltò. Nitrì ancora, sempre più indignato, e poi partì al galoppo quasi stesse inseguendo una preda.
Bushido non attese che un paio di secondi prima di afferrare Bill per il polso e trascinarselo dietro alle calcagna dell’animale impazzito, mentre tutto il resto della crew ammetteva che rimanere comunque lì al freddo e al gelo senza combinare niente era perfino più assurdo che seguire il proprio capo in quell’impresa allucinante: e decideva pertanto di mettersi a correre a propria volta.
Tutto ciò che Bill riuscì a commentare, fra uno sbuffo di fiato e l’altro, mentre Palla di Neve si fermava di fronte ad un palazzo e spiegava le ali per volare fino al decimo piano, fu “io questo posto lo conosco”. E poi più niente, perché quel palazzo era casa sua: e perché Palla di Neve ci fosse tornato era un mistero che si sarebbe dipanato solo quando l’avrebbero seguito.
*
All’interno dell’appartamento, Tom stava disperatamente cercando di non morire dalle risate mentre Gustav passava a Georg il proprio regalo di Natale commentando distrattamente “c’è anche la piastra per il frisé” prima ancora che il bassista riuscisse a scartarlo.
- E che cazzo, Gusti, sarà il quarto anno consecutivo che mi regali una piastra per capelli, a Natale! – borbottò il ragazzo mentre Tom rotolava sul divano andando ad impattare contro un povero manager esausto che tutto avrebbe voluto tranne ritrovarsi la notte della vigilia a babysitterare tre adolescenti palesemente mononeuronici.
- Ma ti dico che questa ha la piastra per il frisé! – insisté Gustav, oltraggiato da tanta ingratitudine, - Quella dell’anno scorso non ce l’aveva!
- Io non la uso, la dannata piastra per il frisé! – sbraitò Georg, agitando in tondo il proprio regalo ancora mezzo impacchettato, - Ti pare che io sia tipo da frisè?!
Gustav scrollò le spalle.
- Uno non può mai sapere, magari ti viene voglia di cambiare.
E su quell’ultima battuta la finestra s’era infranta ed un’enorme cavallo alato aveva fatto irruzione in salotto. Un cavallo alato con un enorme corno bianco e lucidissimo nel mezzo della fronte. Un cavallo alato e cornuto con un paio d’occhi talmente azzurri e acquosi da sembrare finti, peraltro.
Insomma, un unicorno.
Tom guardò Georg. Che guardò Gustav. Che non se la sentì di tirare nuovamente in ballo il frisé per motivare l’assurdità dell’accaduto. Alla fine, tutti e tre guardarono David come si aspettassero da lui una soluzione definitiva.
Il manager fissò l’unicorno, la bocca spalancata e le braccia molli lungo i fianchi.
- Ragazzi… lo vedo solo io?
La scrollata di capo simultanea che seguì la sua domanda non lo rassicurò per niente. Invece di dirsi “ah! Allora non sono pazzo!”, lo portò a commentare “ah! Allora siamo pazzi in quattro!”.
- Palla! – strillò qualcuno aprendo la porta di scatto. E quel qualcuno era Bill. Seguito da Bushido. E dall’Ersguterjunge al completo. Compreso Eko, che magari non era più sotto contratto all’etichetta ma, quando c’era da seguire il capo, sembrava sempre pronto ad obbedire.
David deglutì a fatica.
- Loro li vedo solo io, però, giusto?
Tom, Gustav e Georg scrollarono nuovamente il capo in sincrono.
Ed a quel punto ci sarebbe davvero stato da chiedersi cosa diavolo stesse succedendo, ma l’unicorno li batté tutti sul tempo guardandoli uno per uno con sincero scazzo… prima di posare i propri enormi occhioni acquamarina su Tom e dirigersi con aria innamorata verso di lui.
- Ehi! – sbottò Tom, sulla difensiva, - Stai lontano, eh?!
- No, Palla! – strillò ancora Bill, tendendo una mano verso l’animale, - Morirai!
Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Aspetta. – suggerì, fissando curiosamente la scena, - Sembra che sappia quello che fa.
Ed in effetti Palla di Neve lo sapeva davvero. Ne ebbero tutti la conferma nel momento in cui lo videro accucciarsi placidamente ai piedi del chitarrista e lì restare, sprofondando immediatamente in un tranquillo sonno ristoratore. Il volo doveva averlo sfiancato.
- Ho ho ho! – disse a quel punto Babbo Natale, carambolando giù dal camino e rotolando felice fin nel centro del salotto, - Ouch. Dovrei ricominciare ad usare gli abiti imbottiti. Erano incredibilmente d’aiuto, in queste situazioni.
Una bolla di silenzio si espanse per tutta l’estensione della stanza.
Ed esplose solo quando Bill si mise a piagnucolare.
- Babbino! – disse con tono lamentoso, - Mi hai preso in giro!
Babbo Natale sistemò gli occhialini tondi sul naso, prima di rimettersi in piedi e guardare Bill con aria critica.
- Io ti ho preso in giro, Bill? Mi pare che qui quello che non ha onorato la sua promessa sia stato tu…
- Ma tu mi avevi detto che l’unicorno poteva stare solo con i vergini! – continuò a borbottare Bill, del tutto sordo ai rimproveri, come in effetti tutti si aspettavano, - E invece guardalo, sta lì e fa le fusa a mio fratello!
Il nonnino si voltò a guardare Tom, squadrandolo compitamente da capo a piedi.
- Infatti, non c’è nessun errore. L’unicorno ha individuato il vergine più vicino e-
- I-Io non sono vergine! – protestò Tom, agitandosi convulsamente ed arrossendo imbarazzato, - Io non sono vergine proprio per niente! Che diavolo di storia è questa?!
Babbo Natale gli si avvicinò, lanciandogli un’occhiataccia critica.
- A-ah, Tom! – lo rimproverò, agitandogli un dito guantato davanti agli occhi, - Niente bugie! O quest’anno, per te, niente regali!
Il silenzio piombò nuovamente nella stanza, e le attenzioni di tutti furono concentrate su Babbo Natale che, dopo aver controllato che l’unicorno stesse bene, si sedeva compostamente sul divano, intrecciando le dita sul ventre sporgente e guardando il suo attonito pubblico con aria placida e pacifica.
- State tranquilli, ragazzi miei, ho un regalo per tutti voi, tranne che per quelli che l’hanno già ricevuto. – li rassicurò bonario, lanciando un’occhiata di paterna soddisfazione a Bill e Bushido, - Ora, se avrete la pazienza di starmi a sentire, vi racconterò la storia di un cucciolo di unicorno, di un ragazzo innamorato e di un uomo parecchio distratto. E poi vi darò i vostri regali. – si interruppe un attimo, guardandosi intorno con aria curiosa. – Ma prima, non ci sarebbe mica un bel bicchiere di latte e qualche biscotto?
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero."
Note: Mi chiamo liz e non pubblico una shot di EKR dalla fine di ottobre o.o Sono turbata quanto voi, ma se avete continuato a seguire la saga sapete perfettamente che non sono rimasta con le mani in mano, bensì mi sono dedicata a salvare Tab dal baratro. Riguardo questa shot in realtà ci sarebbero tante cose da dire. Tanto per cominciare che speriamo che il POV scelto non vi abbia mandate ai pazzi XD Sappiamo che non è la scelta più razionale possibile (dovevate vederci in fase di scrittura:
liz: ricordami perché abbiamo scelto questo POV.
Tab: non… non lo so.). Comunque speriamo vi sia piaciuto e che abbiate sofferto tanto *_* Per noi è stato un parto. Be’, per la liz almeno. Tab scriveva stile treno.
Comunque questo capitolo è schizofrenico. Il Bu si tirava fuori roba lol dal cappello – o, com’è anche più probabile, in quanto puro spirito è circondato da gente lol che fa e dice cavolate. *liz si prostra davanti ad Eko e lo idolatra come una statuina sacra del Buddha*
Fler palesemente è un mito e le sue avventure sono già leggenda. L’infermiera è nata per caso. Ci stiamo ancora chiedendo come sia stato possibile.
Comunque, da qualche parte dentro di noi il Bu è ancora vivo *riot*
PS: Il titolo è rubato ai Coldplay. E comunque di questa shot abbiamo una diapositiva. =P
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE HARDEST PART

Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Bill e Bushido si preparano per andare alla festa di Halloween che David ha organizzato a casa propria, ma qualcosa li fermerà lungo il cammino...
Note: Questa storia – scritta per il primo concorso di Fidelity, l’Halloween Fest – è nata dal desiderio del tutto assurdo di far dire a Bill che voleva chiamare sua figlia Samhain XD Non chiedetemi perché, visto che un motivo non esiste non saprei cosa dirvi. So che l’idea mi piaceva ed ho voluto buttarla giù. Era nata per essere una shot breve, fluff, abbastanza divertente, ed alla fine è di una tristezza sconcertante. Questo, suppongo, perché io credo che sia Bill che Bushido vivano la paternità in modo molto… sentito, ecco. Perciò, che dire, si sono fatti un sacco di film pucciosi. E poi arriva la madre e… ;_; Prima o poi riuscirò a dar loro dei figli. <- ha già plottato tre o quattro storie in cui accade.
Gli obblighi per il contest erano la zucca (e c’è XD) un colore (ed ho usato il nero della piuma e dei vestiti di Bill), la presenza di Halloween (…che mi pare sia palese XD) e la contestualizzazione della città (con Berlino, ho fatto il meglio che ho potuto XD). Spero di non aver toppato XD
Mi è piaciuto scrivere questa storia, nonostante odi farmi del male scrivendo. E me ne sono fatta XD Non c’è niente di più doloroso, per quanto mi riguarda, delle illusioni che si spengono nel nulla. Questa storia ne è schifosamente piena. Però la vita è anche questo, punkt. Per una Billshido felice aspetterò il prossimo schizzo d’ispirazione =P
PS: Un grazie e un enorme bacio a Nai per il betaggio.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SAMHAIN

La serata era cominciata – e proseguita – così bene, che Bill stava seriamente cominciando a sentirsi fiducioso rispetto al mondo che lo circondava. Generalmente, quando usciva con Anis l’universo intero sembrava mettersi di mezzo per ostacolarli – Tom si faceva prendere da uno scoppio di gelosia acuta, David ricordava improvvisamente che il giorno dopo avevano delle interviste e non poteva andare a letto tardi, la madre di Anis pretendeva il figlio a cena, Chakuza si spaccava la testa contro un armadio e si doveva correre tutti in ospedale e così via discorrendo – perciò era davvero raro perdersi in tutta quella piccola serie di normalissimi gesti che compongono una normalissima serata fra fidanzati e be’, sì, godersela. La doccia mentre lui si fa la barba, asciugare i capelli mentre lui si veste, vestirsi mentre lui si lamenta che si sta facendo notte, raggiungerlo in salotto, i baci, gli “andiamo”, perdere tempo sulla soglia indecisi fra uscire e rituffarsi in camera da letto…
Decisamente non erano cose che potessero godersi tanto spesso. Perciò Bill era felice. Ed il fatto fosse la notte di Halloween lo rendeva solo più emozionato.
Halloween in Germania non era esattamente fra le feste più sentite – troppo americana, troppo confusionaria, non ce lo mandi il tuo bambino a bussare alle porte di ogni casa di Berlino, si sa mai cosa ci trovi dietro quando ti aprono – ma a Bill i travestimenti erano sempre piaciuti, perciò aveva letteralmente obbligato David ad organizzare una festa nel mega-appartamento che aveva comprato quando anche loro si erano trasferiti nella capitale. Qualcosa di semplice, giusto una cinquantina di persone, solo gli amici più intimi, il loro staff, la crew, qualche imbucato, cose così.
Ed Anis, naturalmente. Anis che, come da fantasia sessuale ricorrente, aveva provveduto ad avvolgere in cinquecento strati di tessuto dalle tonalità oscillanti dal blu notte all’azzurro cielo, prima di sentirsi rivolgere uno scocciato “Bill, da cosa cazzo sarei vestito?” cui aveva reagito con un sospiro rassegnato, prima di rispondere “Da tuareg, anche se ti manca il fascino, il mistero, la sensualità-”, “Il cammello,” aveva concluso Anis chinandosi a baciarlo sulle labbra, e la questione s’era chiusa lì.
Bill s’era vestito da principe – o almeno quella era stata la sua intenzione iniziale, ma quando aveva cominciato ad aggiungere borchie su borchie, reti su reti e chili di trucco su chili di trucco, Anis s’era giustamente voltato a guardarlo ed aveva commentato che dovrebbe essere vietato travestirsi da Bill Kaulitz ad Halloween. Se non a tutti, almeno a Bill Kaulitz stesso.
“Non sono travestito da me stesso!” aveva obiettato lui, offesissimo, mostrando con cipiglio fiero la lunga piuma nera che pendeva dal cappello a tesa larga, “Sono un principe! Un bellissimo principe!”.
“Con seri problemi di orientamento sessuale,” aveva sghignazzato Bushido, dandogli una pacca sul sedere.
“Esistono anche i principi gay,” era stata la sua secca e lapidaria risposta. Anis non aveva ribattuto – anche perché, se poteva esistere un re del ghetto, di sicuro poteva esisterne anche un principe. E se era gay il re, figurarsi il resto della famiglia reale.
Erano usciti nel gelo di fine ottobre avvolti in tanti di quegli strati di lana che i loro costumi neanche s’intravedevano, sotto. Tutto ciò che restava erano i pantaloni azzurrissimi di Anis, quello sciocco turbante che Bill gli aveva calcato sulla testa e la piuma nera del ragazzo, che ondeggiava libera lungo la sua schiena, fra le scapole magrissime e appuntite, mascherate appena un po’ dalla forma dal giaccone imbottito.
Stavano ancora camminando verso casa di David – a pochi isolati dalla loro – quando l’avevano sentito. Nella perfetta indifferenza generale – un ghiaccio, quello del popolo tedesco, che Anis riusciva a comprendere solo marginalmente e solo perché in Germania aveva sempre vissuto, e che a Bill invece non era mai appartenuto, probabilmente perché a Bill non importava moltissimo del proprio luogo di provenienza, preferiva divertirsi a conquistare il mondo piuttosto che restare attaccato alle proprie radici di sfigato campagnolo senza speranze.
L’avevano sentito, comunque, il pianto di un bambino. E non avevano potuto ignorarlo.
Anis aveva guardato Bill, Bill l’aveva fissato di rimando e poi s’erano annuiti a vicenda ed avevano cominciato a perlustrare la zona con gli occhi. L’avevano trovato accanto a un cassonetto dell’immondizia, come in ogni classico del genere. Non particolarmente nascosto, per la verità, era solo lì, dove non è che ti aspetti esattamente di trovare una culla addobbata di giocattoli come un albero di Natale prematuro, che custodisce al proprio interno un bambino frignante bianco e lucido di lacrime, una piccola perla, però più rumorosa.
Bill si avvicinò col timore che Anis gli aveva visto usare solo nei confronti delle cose fragili. Il timore col quale approcciava il proprio fratello quando lo vedeva triste, ad esempio. O quello col quale si avvicinava a lui dopo un brutto litigio – quando aveva paura di perderlo.
Sorrise rassicurante, stringendosi a lui mentre si chinavano a sbirciare all’interno del passeggino.
- Ma è piccolissimo… - fu il commento del ragazzo, esalato appena fra uno sbuffo di fiato condensato e l’altro, - Avrà un paio di mesi…
Per la verità il fagotto di copertine, peluche e sonagli era un po’ troppo grassoccio per essere davvero così piccolo, ma all’uomo non sembrò il caso di farlo notare al proprio compagno che, sempre più esitante, allungava una manina bianca e ghiacciata verso la creatura, probabilmente nel tentativo di sincerarsi della sua effettiva esistenza.
- Anis… - mormorò Bill sfiorando la guancia del bambino ed ottenendo in cambio un pianto ancora più dirotto ed un sacco di agitazione sotto le coltri di lana, comprensiva di braccina agitate e gambette scalcianti, - che facciamo? Non possiamo mica lasciarlo qui.
L’uomo si morse un labbro e cercò di riflettere, mentre Bill lasciava scivolare le dita lungo la guancia del bambino ed andava a cercarne la piccola mano – ora esposta al freddo della notte – fino a farsi catturare da quei salsicciotti paffuti che continuavano ad aprirsi e chiudersi convulsamente alla ricerca di qualcosa da stringere.
- Forse dovremmo portarlo alla polizia… - cercò di suggerire facendo leva sulla parte più razionale di sé e cercando di ignorare il proprio cervello che, alla vista di Bill che pasticciava col bambino piangente, aveva già fatto le valigie da tempo. – Magari i suoi genitori lo stanno cercando, non sembra… un bambino abbandonato.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- Che esperienza hai tu, esattamente, circa i bambini abbandonati? – protestò animatamente, rimboccando le coperte attorno al corpicino ancora scosso dai singhiozzi, - E poi, che vuol dire? Se non sono chiusi in un sacchetto di plastica allora non possono essere stati abbandonati? È accanto a un dannato cassonetto dell’immondizia! Che altro ti serve?!
In realtà a Bushido non sarebbe servito altro, teoricamente. Solo che pensava anche ci fosse una bella differenza fra il rimanere colpiti da un bambino piangente e solo nella notte ed il prendersene la responsabilità.
Non era una cosa loro, di lui o di Bill. Era una cosa che gli era capitata fra le braccia.
Triste quanto vuoi, ma non da prendere sottogamba.
Gli occhi di Bill, comunque, urlavano “teniamolo”, e Bushido dovette farsi violenza per non ricordargli che non si stava affatto parlando di un cucciolo o di qualcosa di altrettanto semplice trovato per strada.
Sospirò profondamente e scrollò le spalle. Era una tipica situazione in cui, qualsiasi cosa fosse uscita dalle sue labbra, sarebbe stata quella sbagliata. Perciò preferì stare zitto e lasciare che Bill si esibisse in una delle proprie attività preferite – fingere di saper risolvere i problemi proponendo soluzioni al limite dell’assurdo, alle quali tutti poi sottostavano perché… perché lui era Bill e non esisteva davvero qualcuno capace di resistere a quelle labbra, quegli occhi e quelle sopracciglia, quando si atteggiavano in un determinato modo.
- Facciamo così, Anis… - sorrise infatti il ragazzo, posandogli distrattamente una mano sul braccio, in corrispondenza del tatuaggio col nome di sua madre che, quando veniva chiamato in causa, come in quel momento, risvegliava sempre la parte più tenera, più morbida e più drammaticamente scema della sua personalità, - Stanotte lo portiamo a casa, così almeno si scalda un po’. Domani mattina, con calma, ci ragioniamo su e vediamo se è il caso di portarlo alla polizia o procedere diversamente.
Sarebbe stata una soluzione perfettamente razionale, e Bushido sarebbe stato perfino d’accordo, non fosse stato per il piccolo particolare che lui amava Bill e, siccome lo amava, lo conosceva anche. Conoscerlo, nella situazione specifica, implicava leggergli dentro, però. E nel fondo degli occhi di Bill c’era ancora lo stesso urlo di pochi minuti prima. Teniamolo.
Sospirò.
- D’accordo. – concesse estenuato. D’altronde, erano comunque quasi le undici di sera ed aveva i suoi dubbi che portare il pargolo alla polizia avrebbe sortito effetti immediati. – La festa? – chiese quindi, estraendo già il cellulare dalla tasca del cappotto per avvertire chi di dovere che non si sarebbero presentati.
Bill inarcò un sopracciglio e lo fissò con curiosità.
- Che c’entra la festa? – chiese, con aria perfettamente ignara.
- …ci andiamo o no? – esplicitò lui, facendo scattare il flick del cellulare per invitare chiaramente Bill a rispondere “no, naturalmente torniamo a casa”. Bill non colse l’invito.
- Ovviamente sì. – rispose, disincastrando le ruote del passeggino dai sacchetti di plastica sparsi per terra, - Anzi, diamoci una mossa. Congelerà, se continua a stare qua fuori.
Bushido annuì e si mise al suo fianco per accompagnarlo lungo le poche vie che ancora li separavano dall’appartamento di David, dove, dato l’orario, tutti dovevano già aspettarli da almeno una buona mezz’ora, se non di più. A quel punto, riflettere sulla propria condizione di uomo asservito sarebbe stato deleterio ed inutile: poteva solo immaginare il putiferio che sarebbe scoppiato quando, alla festa, tutti i loro amici e conoscenti avrebbero posato gli occhi sul nuovo membro temporaneo della loro famiglia. Più che lanciarsi a peso morto sul materasso dell’autocommiserazione, gli conveniva restare attento e vigile e badare che Bill non perdesse troppo la testa.
*
David Jost era una persona estremamente semplice da capire, come tutte le persone puntigliose ed ordinate. Solo persone come lui potevano svolgere un mestiere come il suo con tanta bravura, perché per riuscire a governare quattro scalmanati in odore di successo ti serve comunque mantenere una certa rigidità. Uno schema mentale molto solido, insomma, qualcosa cui aggrapparti quando ti svegli al mattino e ti trovi immerso nel caos di un gruppo di adolescenti fuori di testa che sbraitano incolpandosi vicendevolmente per l’estinzione del latte all’interno del frigorifero, e tu non puoi fare altro che guardarti intorno, renderti conto di esserti addormentato sulla tastiera del computer e sperare di non avere i segni dei tasti su tutta la faccia, perché rimproverare dei ragazzini in quelle condizioni di certo non aiuta a renderti autoritario e serio.
A Bushido erano bastate un paio d’ore per inquadrarlo. Quando, spinto da un Bill in palese ansia da approvazione, s’era presentato all’ufficio del manager per ufficializzare la loro relazione, Jost aveva ascoltato ciò che aveva da dire e poi gli aveva posto tre semplicissime domande.
Numero uno: ci tieni davvero a lui?
Numero due: sai in cosa ti stai cacciando?
Numero tre: sei proprio sicuro di volertici cacciare?

Aveva incassato i suoi tre sì di risposta, aveva annuito e poi, semplicemente, aveva agito.
Tempo una settimana, il mondo sapeva che la relazione che migliaia di fangirl avevano immaginato per mesi era semplicemente diventata realtà. Tempo un’altra settimana, il fuoco fatuo della morbosa curiosità dei paparazzi s’era un po’ attenuato ed era tornato ai livelli – altissimi, ma tutto sommato normali – sui quali si attestava in qualsiasi altro periodo dell’anno.
Se le cose si erano svolte così pacificamente, Bushido sospettava lo si dovesse unicamente a quell’uomo. La sua metodicità era qualcosa di incrollabile ed incredibilmente utile.
Bushido, perciò, si fidava di Jost. E, entrando nel suo appartamento, si disse che non aveva niente di cui preoccuparsi, non sarebbe stato da solo a fronteggiare la palese follia di Bill – che aveva continuato a chiacchierare di stanzette con le pareti rosa o celesti per tutto il tempo della strada – e la giustificata curiosità del resto dei loro amici.
Jost, grazie a Dio, non lo deluse.
Stava appollaiato su una sedia a fianco di un’enorme zucca intagliata che sovrastava tutti gli ospiti di almeno una spanna. Non poteva essere vera, ma era bella come lo fosse. Non era palesemente fasulla: non era lucida né eccessivamente liscia e plastificata. Era, invece, opaca e piena di bitorzoli. Ed emanava anche un buon profumo.
Bushido e Bill fecero il loro ingresso all’interno dell’appartamento del manager che l’orologio aveva appena finito di scoccare l’undicesimo rintocco, e la zucca fu in effetti la prima cosa che Bushido vide. Fu anche la prima cosa che vide Bill, naturalmente, e fu per questo che squittì di gioia e batté le mani e per un secondo – un solo secondo – Bushido ricordò che era un ragazzino e sperò potesse essere infantile proprio in tutti i campi: compreso quello delle decisioni avventate.
La verità, però, era che Bill fosse sì un tipo da decisioni avventate, ma anche uno che quella stessa decisione, una volta che l’aveva presa, la portava avanti fino alle sue estreme conseguenze.
Anis pregò semplicemente che quella di Bill non fosse ancora una decisione. E sollevò una mano per salutare.
Tom, che aveva aperto loro la porta, li squadrava dalla soglia con un’espressione indecifrabile sul volto.
- …non capisco da cosa siete travestiti. – confessò alla fine, inclinando un po’ il capo, - Una famiglia di immigrati, tipo? – chiese, puntando il dito verso il passeggino. – Bill, ma dove l’hai trovata questa bambola? Dio mio, è così realistica che fa impressione… - mugolò con orrore mal dissimulato, lasciandosi andare perfino ad una smorfia.
Bill distolse gli occhi dalla zucca e li portò sul proprio fratello.
- Non è una bambola. – precisò candidamente, - È un bambino vero.
Il silenzio, che era ovvio crollasse su tutti loro dopo una rivelazione del genere, fece esattamente ciò che Bushido si aspettava. L’uomo si ritrovò quindi ad osservare Bill e suo fratello squadrarsi con aria incerta mentre, tutto intorno, i vari invitati – poteva perfino intravedere l’immancabile cappellino di Chakuza qualche metro più in là – si voltavano a spiare la scena.
In tutto questo, l’unico suono che sentì fu quello della sedia sulla quale David stava appollaiato. La sentì strisciare contro il pavimento per molti lunghissimi e sfiancanti secondi e poi fermarsi. L’uomo li guardava entrambi. Lui e la zucca sembravano guardarli con lo stesso cipiglio carico di… non era esattamente disapprovazione. Qualcosa più sul tipo del “ma esattamente, per quale motivo siete così stupidi?”. Una cosa più da padre rassegnato e bonario che non da uomo giudicante.
Già il secondo successivo, la perfetta illusione di silenzio che avevano vissuto s’era dissolta come una bolla di sapone e tutti gli invitati s’erano raggruppati attorno al passeggino per sbirciare all’interno. Il bimbo dormiva tranquillo, per niente disturbato dal vociare che riempiva la stanza. Bill osservò le sue guanciotte tonde prendere colore mentre il pancino si alzava e si abbassava al ritmo un po’ accelerato del suo respiro, e Bushido sorrise.
David si fece strada attraverso il capannello di invitati con un semplice colpo di tosse. La marea si aprì come di fronte a Mosè e lui poté guardare all’interno del passeggino, per poi scrutare le espressioni dei nuovi arrivati ed incrociare le braccia sul petto.
- Prima di tutto, Tom, - disse, rivolgendosi al rasta, - chiudi la bocca. Non ti hanno mica appena detto di averlo partorito. – sospirò pesantemente mentre Tom, imbarazzato, obbediva, e poi tornò a guardare Bill. – L’avete trovato da qualche parte, vero?
Il moro annuì, stringendosi lievemente nelle spalle.
- Era vicino ad un cassonetto. – spiegò sommessamente, in un tono che utilizzava solo col proprio manager, lui che in genere era tutto un’esplosione di esuberanza o, al limite, di scazzo cronico. – Non potevamo lasciarlo lì.
David annuì e si voltò a guardare Bushido, una domanda palese e silenziosa negli occhi.
Bushido scrollò le spalle e scosse il capo, arreso. David tornò a guardare il proprio cantante e fece la domanda di cui Anis aveva più paura in assoluto.
Ma avrebbe dovuto aspettarsela. David era un tipo da domande. Se non sai, non puoi gestire.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese a bruciapelo, come fosse un’informazione ordinaria, qualcosa di cui hai giusto bisogno per organizzarti la giornata, ed invece si stava parlando di organizzare un’intera esistenza. La loro, quella del bambino, tutte.
Bill si morse un labbro.
- Non potevamo lasciarlo lì… - ripeté con meno decisione. Bushido osservò la sicurezza vacillare nei suoi occhi e ricordò per quale motivo Jost riusciva ancora a stare dietro a quei ragazzi nonostante tutti gli anni passati e le confidenze condivise, cose che in genere trasformano i rapporti lavorativi in rapporti affettivi. Con lui non era successo, lui era riuscito a mantenere con i ragazzi un rapporto affettivo completamente avulso e parallelo a quello lavorativo. Era questo l’unico motivo per il quale ancora riusciva a portare un po’ di sale in quelle zucche.
David annuì a prese atto.
- Intendete tenerlo? – precisò dunque, e Bill sbiancò, terrorizzato.
- David, non mi sembra il caso- - cercò di intromettersi Bushido, che sì, non aveva alcuna voglia di ritrovarsi una responsabilità simile fra capo e collo così all’improvviso, ma non aveva nemmeno voglia di stare ad osservare il proprio ragazzo sciogliersi in un mare di lacrime perché si rendeva conto di essersi perso in fantasie poco raccomandabili nell’illusione di una notte stregata come quella.
Il manager, comunque, lo zittì con un cenno del capo.
- È una cosa importante. – spiegò a mezza voce, senza il minimo astio e senza neanche un pizzico d’irritazione, solo con competenza: da bravo amministratore di vite altrui. – Intanto, c’è da pensare alla denuncia. Poi, se pensate ci sia la possibilità di tenerlo, avviare le pratiche per l’adozione. Quando e se la madre dovesse ripresentarsi, naturalmente andrebbe tutto a quel paese, ma in caso contrario si dovrà formalizzare il tutto e-
- David, ma Cristo santo, non lo vogliono mica tenere, il moccioso! – sbottò Tom, scioccato, piantando una mano sul fianco e sporgendo un po’ l’anca in una posa molto simile a quelle tanto tipiche di Bill.
David inarcò un sopracciglio e tornò a guardare il Kaulitz minore.
- Bill? – lo chiamò, palesemente alla ricerca di una conferma o di una smentita rispetto alle parole del fratello.
Bill continuò a mordersi il labbro.
Bushido sospirò.
- Sarà il caso di pensarci domattina, David. – disse infine, stringendo con un braccio Bill attorno alle spalle, - È quasi mezzanotte, ormai, e siamo venuti qui per festeggiare. Il bambino, semplicemente, non potevamo lasciarlo lì. Al resto penseremo domani. D’accordo?
David lo guardò ed annuì sbrigativamente. Nei suoi occhi c’era ancora soltanto efficienza.
- D’accordo. – confermò, - Era solo per prospettarvi ogni possibilità. – poi sorrise, addolcendo lo sguardo e stendendo i lineamenti del volto, - Ma possiamo sicuramente farlo anche domani mattina. – concesse sereno.
Bill forzò un sorriso poco convinto, Tom sbuffò e si mosse verso il tavolo colmo di drink e stuzzichini e Bushido realizzò coscientemente di aver appena evitato al mondo una crisi isterica del proprio ragazzo.
Il mondo avrebbe dovuto cominciare a pensare ad un adeguato compenso nei suoi confronti.
- Ehi… - mormorò, rivolgendosi al ragazzo quando la folla si fu dispersa, - È tutto a posto, sì?
Bill ridacchiò nervosamente.
- Sì, certo. – annuì, - È che non mi aspettavo che gli altri la prendessero così seriamente.
- Così seriamente, Bill? – ritorse con un sorriso incredulo e vagamente ilare.
Bill esitò incerto.
- Lo so che un bambino è una cosa seria, Anis. – sospirò profondamente, - Solo non mi aspettavo che… va be’. – si arrese alla fine, scrollando le spalle, - Meglio trovare un posto silenzioso dove metterlo.
Bushido annuì e lo osservò allontanarsi a sguardo basso verso David, che ciarlava allegramente con Tobi accanto alla zucca. Bill richiamò l’attenzione del manager tirandogli la maglia – un gesto infantile che Bill ripeteva spesso con chiunque e che Bushido sospettava fosse stato generato dai vestiti extralarge di Tom, che imploravano per essere tirati – e poi Bushido li vide sparire insieme lungo il corridoio.
- Atze. – si sentì quindi chiamare, e quando si voltò trovò a guardarlo Chakuza, o almeno ciò che in una vita passata doveva essere stato Chakuza e che in questa era, invece…
- …da cosa sei travestito, Chaky?
- Uh? Da Peter Pan.
…un Peter Pan con un berretto da baseball calcato fin quasi sotto le orecchie.
Scoppiò a ridere senza ritegno e ringraziò Dio di avergli dato un amico naturalmente ridicolo, perché in situazioni come quelle ci si ricordava sempre che cose simili erano davvero indispensabili.
- Non mi prendere per il culo, Atze, ci ho messo due secoli a sceglierlo… - borbottò Chakuza, incrociando le braccia sul petto.
Bushido continuò a ridere, cercando invano di fermarsi.
- Scusa, scusa… - concesse quando infine gli riuscì di porre un freno a quello scoppio d’ilarità, - È che… è una calzamaglia, quella, Chaky?
- Era nel costume!!! – si giustificò lui, arrossendo furiosamente e macchiando di rosso quella tondissima faccia bianco latte.
- E non c’era anche un cappellino, assieme al costume? – inquisì, indicando il berretto con un cenno del capo.
- Sì, ma che cavolo, c’era una piuma sopra! Volevo far contento Bill perché sembrava tenerci a tutta questa storia dei costumi, ma ho ancora una dignità. – spiegò seriamente, annuendo. Poi si interruppe un secondo e fece una cosa che Bushido aveva imparato ad interpretare come segno di guai: assottigliò gli occhi. Quando Chakuza assottigliava gli occhi era perché stava per farti una domanda scomoda. E stava per fartela a bruciapelo, scorrettamente, di modo che non potessi proprio evitarla. – E tu? – chiese infatti, inarcando un sopracciglio inquisitore.
Bushido sospirò.
- Io… sono vestito da tuareg. – rise sfibbiando il cappotto e lasciandoselo scivolare lungo le braccia, prima di appenderlo alla spalliera di una sedia.
Chakuza ridacchiò scuotendo il capo.
- Non era quella la domanda. – precisò con un’occhiata dubbiosa.
Bushido scrollò le spalle e sospirò ancora.
- Non lo so se ho ancora abbastanza dignità per dirgli no su questo punto. – rispose guardando altrove, visibilmente in imbarazzo.
Chakuza gli allungò una poderosa pacca in mezzo alle scapole.
- Ti ha ridotto uno straccio, Atze. – commentò divertito, - Ma si tratta sempre di un bambino. Non vostro, oltretutto.
- Sì, sì! – esalò lui con tono lamentoso, alzando gli occhi al cielo, - Credi che non ci abbia pensato? È assurdo, ci è capitato fra le mani meno di un’ora fa e lungo la strada Bill è riuscito a farsi tanti e tali film da confondermi.
- …confonderti in che senso? – inquisì Chakuza, sospettoso.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente lui, - In tutti i sensi, temo. È che mi piacerebbe-
- Alt, alt! – lo fermò l’uomo, agitandogli le mani davanti al viso, - Fermati. Stai per dire una cosa di cui potresti pentirti fra qualche minuto.
Bushido si morse un labbro e rimase in silenzio.
Jost, nel mentre, era tornato in salotto. Da solo. Bill doveva essere rimasto con il bambino.
- È questa la cosa che mi spaventa. – disse alla fine, allungandosi a recuperare una lattina di birra dal tavolo poco distante, - Forse invece non me ne pentirei.
*
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
David era andato via da dieci minuti ed era da quando s’erano ritrovati costretti a spogliarla e cambiarla – visto che aveva ricominciato a piangere e non aveva smesso fino a quando non avevano capito che il fastidio era nel pannolino, e perciò dovevano eliminarlo – che Bill non faceva che pensare a quel particolare.
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
Fu per questo che, quando Tom, certo di trovarlo ancora lì, entrò in camera e si gettò sul letto accanto a lui, le prime parole di Bill furono proprio quelle.
- È una femminuccia, dovrò trovarle un nome.
Tom rise e si stese per tutta la lunghezza del materasso, allargando gambe e braccia e tirandolo per un lembo della maglia traslucida che, in teoria, doveva rappresentare la camicia del bellissimo principe che era.
- Cos’è, le hai sbirciato sotto la gonna? – chiese suo fratello quando ebbe ottenuto ciò che desiderava, cioè che lui gli si distendesse praticamente addosso, poggiando il capo contro la sua spalla ed una mano sul suo petto.
- No, scemo. – borbottò Bill, pizzicandolo attraverso la maglia, - Le ho cambiato il pannolino. – Tom inarcò un sopracciglio, dubbioso. – Be’… David le ha tolto il pannolino e l’ha avvolta in un telo di lino ripiegato in quattro… e poi l’ha fissato con una spilla da balia.
Il rasta scoppiò a ridere, passandosi una mano sugli occhi.
- Quando penso che quell’uomo non potrebbe essere più gay di com’è, ecco che lui mi contraddice! – commentò divertito. Bill lo punì con un altro pizzicotto.
- Non essere cattivo con David, la piccola aveva bisogno di essere cambiata! - ...ed io non avrei saputo dove mettere le mani per farlo, pensò distrattamente ed un po’ amaramente, ma evitò di dirlo ad alta voce. – E comunque da cosa diavolo saresti vestito? Mi sembrava di essere stato chiaro, costume obbligatorio!
Tom roteò gli occhi.
- Sono vestito da me stesso! – spiegò annuendo.
- Ma non puoi vestirti da te stesso! – protestò Bill, incredulo.
- Be’, tu l’hai fatto. – scrollò le spalle suo fratello.
Bill sbuffò.
- Ma perché lo dite tutti? Sono vestito da principe…
Tom ridacchiò e gli lasciò un bacino sulla tempia, stringendolo un po’ per le spalle.
- Non cambiare discorso, comunque. – lo riprese teneramente, - Stavamo parlando della bambina.
- Oh, sì. – annuì lui, - È femminuccia, - ricominciò immediatamente, - perciò-
- Non puoi tenerla, Bill. – lo interruppe seccamente Tom, stringendo un po’ di più la presa sulla sua spalla. – Non è tua.
- …be’, chi l’ha fatta non la voleva. – ritorse lui in un mugugno triste.
- Magari l’ha solo persa. – cercò di farlo ragionare il biondo.
- Ma non si perdono i bambini, Tomi! – sbottò, sollevando di scatto il capo per guardarlo negli occhi. Tom non lo evitò.
- Si perdono tante di quelle cose, nel mondo. – rispose con una scrollatina di spalle, - Comunque non puoi tenerla lo stesso. Non sei in grado. Guarda in faccia la realtà.
Bill tornò ad affondare il naso nel suo petto, giusto per ribadire ulteriormente che, in quel momento, di guardare in faccia la realtà non aveva proprio nessunissima voglia.
- Bill… - lo richiamò suo fratello. Il moro rispose con un mugolio indecifrabile e Tom sospirò e continuò a parlare. – Presente quell’enorme zucca che c’è in salotto? – chiese dal nulla, con tono divertito, - Ecco, pensa se ti dicessi: prendi quella zucca ed abbine cura fino all’anno prossimo. La voglio ritrovare nelle stesse precise identiche condizioni fra trecentosessantacinque giorni. Sarebbe una responsabilità mica male, eh? – Bill non rispose. Strinse la presa delle dita attorno alla sua maglietta e si limitò a sospirare. – Pensa tu con un bambino. Il bambino non deve neanche rimanere nelle stesse precise identiche condizioni, no, deve crescere, diventare più forte, imparare cose nuove. Tu ti stanchi di tutto dopo una settimana, Billi-
- Sarebbe diverso! – protestò finalmente lui, agitandosi furiosamente, - Non sarei solo, tanto per cominciare, e poi non potrei mai stancarmi di un bambino, non è mica un hobby del cavolo, è… - si morse un labbro, - …sarebbe una cosa mia e di Anis, capisci? L’abbiamo trovata insieme, sarebbe una cosa tutta nostra…
Tom rise sommessamente e lo circondò anche con l’altro braccio, stringendoselo contro.
- Tu stai facendo un mucchio di capricci, ma non sei proprio in grado di agire da persona responsabile. Una persona responsabile avrebbe preso il passeggino con tutti i sonaglini e, per prima cosa, l’avrebbe portato in centrale. Magari in ospedale, in alternativa, ma di certo non qui. E non fantasticando su quanto sarebbe bello tenerselo in salotto, quello stesso passeggino. – gli spiegò, coccolandolo lentamente, le dita fra i capelli ed il mento contro la fronte. – Né tu né Bushido avete fatto niente del genere. E questo dimostra che non siete ancora pronti per fare i genitori. – scrollò le spalle, - Prima o poi lo sarete. Ma adesso la bambina ha bisogno di un papà che sappia effettivamente come cambiarle un pannolino, non credi?
La bambina pensò bene di dargli ragione ricominciando immediatamente a miagolare scontenta, agitandosi fra le copertine. Bill si mise seduto e sbirciò all’interno del passeggino.
- Ma farà continuamente così…? – chiese sovrappensiero, allungando una mano ad accarezzarla su una guancia e sorridendo appena quando la vide calmarsi al suo tocco.
Tom si sedette al suo fianco.
- Non che io abbia un’esperienza particolarmente ricca, quanto a bambini, ma mamma si lamentava sempre dei bambini piagnoni, ricordi? Perciò probabilmente sì, fin quando non crescono, piangono.
- Mh. – annuì lui, vagamente triste.
Tom gli mise una mano sulla spalla.
- È che hanno solo questo modo di farsi capire. – spiegò con un sorriso.
Bill sorrise di rimando e si ripiegò contro di lui, alla ricerca di un altro po’ di coccole.
- Secondo te cos’è che sta cercando di dire adesso? – chiese a mezza voce, continuando a guardare la piccola.
Tom sospirò.
- Credo che le manchi qualcuno, Bill. Credo anche che a te manchi qualcuno come lei, ma… insomma. Lei dovrebbe venire prima, no?
Bill si morse un labbro ed annuì.
*
Si svegliò con la lieve risatina di Anis nelle orecchie e sorrise a propria volta, schiudendo gli occhi.
- Dormivi? – gli chiese l’uomo, sedendosi accanto a lui e facendogli passare un braccio attorno alla pancia, tirandoselo contro.
- Nnho… - mentì, mugolandogli addosso e stendendo il capo sulla sua spalla.
Anis rise ancora, fra i suoi capelli, e gli lasciò un bacio sulla tempia.
- Ho visto uscire tuo fratello e non te e mi sono un po’ preoccupato… - confessò, lanciando un’occhiata alla bambina profondamente addormentata nel passeggino.
- Deve essere andato via appena mi sono appisolato… - ipotizzò Bill, stringendosi nelle spalle. Poi lo guardò: - Appisolato, non addormentato, c’è differenza.
Bushido rise e scosse il capo, intenerito.
- Allora, oltre ad esserti appisolato, cosa stavi facendo?
Bill sorrise.
- La guardavo.
- …la?
- Già. – annuì entusiasta, - È una femminuccia. Dovremo trovarle un nome.
Bushido rise ancora, stavolta contro il suo collo, e lo strinse più forte.
- Se fai così, Bill, sarà difficile lasciarla andare.
Bill intrecciò le dita con le sue, mugolando mentre le labbra dell’uomo tracciavano una scia di calore un po’ umido lungo il suo zigomo.
- Non dobbiamo per forza. – protestò debolmente, chiudendo gli occhi.
- E invece sì. – gli sussurrò l’uomo, baciandogli la nuca, - Anche se eri bellissimo mentre la accarezzavi, per strada.
- Ed io muoio dalla voglia di vedertela prendere in braccio, Anis… - mugolò Bill, cercando di rivoltarsi nella sua stretta per baciarlo sulle labbra.
L’uomo lo lasciò muoversi e rispose al bacio perdendocisi dentro, Bill lo sentì abbandonare ogni resistenza in punta di lingua, mentre lasciava che l’abbraccio e le carezze sciogliessero ogni esitazione. Da qualche parte nella testa di Anis, Bill lo sapeva, c’era un mondo speciale in cui quella bambina era già loro e trotterellava felice per casa alla ricerca di un giocattolo o di qualcosa da mordicchiare. Quel posto, Bill lo conosceva bene. C’era anche nella sua, di testa.
Era orribile che l’unica realtà nella quale fosse proprio impossibile trovarlo, fosse anche l’unica realtà che contava qualcosa.
Si separarono l’uno dall’altro senza fare neanche un suono, restando per qualche secondo a respirare e basta, fronte contro fronte.
- Come la chiameresti? – chiese Anis senza aprire gli occhi.
Bill aggrottò le sopracciglia.
Il condizionale feriva un po’.
- Samhain. – rispose d’un fiato, stringendo le braccia attorno al suo collo.
Bushido sbuffò una mezza risata.
- Sarebbe?
- Celtico. – rispose Bill con un sorriso, - È la notte di Halloween in celtico.
- E pensi che sarebbe un nome adatto, per una bambina?
Il moro scrollò le spalle, abbandonandosi più comodamente contro di lui.
- Tu pensi che saremmo due genitori adatti, per una bambina?
Bushido strinse la presa attorno alla sua vita. Poi sospirò.
- Torniamo a casa?
*
C’era ancora molto freddo ed era decisamente molto tardi, ma Samhain s’era svegliata e, per la prima volta da quando l’avevano trovata, sembrava di buonumore. Appena aveva aperto gli occhioni aveva trovato Bill a fissarla dall’alto con una tenerezza disarmante, e non aveva avuto paura. Bill aveva sorriso. “Ciao stellina…” le aveva detto, “sei sveglia?”. Lei non aveva risposto, naturalmente, ma aveva afferrato un sonaglino a caso ed aveva cominciato a mordicchiarlo con quelle gengive rosa ed infantili, sbavando copiosamente sia sul giocattolo che sul telo di spugna che David aveva steso sulle coperte.
Bill e Bushido erano scesi per strada una decina di minuti dopo, nelle orecchie ancora le raccomandazioni del manager – controllare il pannolino, darle del latte tiepido come prima cosa appena tornati a casa, tenerla al caldo, coccolarla – e s’erano avviati sulla stessa strada che avevano percorso al contrario per arrivare da David.
Samhain stringeva fra le mani il sonaglio, Bill stringeva fra le mani il manubrio del passeggino e Bushido stringeva fra le mani le spalle fragilissime del proprio ragazzo.
Né Bill né Bushido – e probabilmente nemmeno Samhain – se ne accorsero, quando passarono di fronte al cassonetto dell’immondizia che li aveva visti unirsi. Era già nascosto sul fondo della mente, l’avrebbero riportato alla luce l’indomani mattina, quando tutto non sarebbe più stato magico e perfetto come in quell’istante ed avrebbe improvvisamente assunto toni più cupi e seri.
Davanti al cassonetto, però, ci passarono comunque. Ed anche quella seconda volta sentirono qualcosa.
- Karen!
L’urlo di una donna.
Si fermarono istantaneamente, stretti tutti l’uno all’altro, e si voltarono verso la fonte di quell’urlo: un corpo magro e slanciato, una donna bionda e pallida con un paio di enormi occhi celesti, avvolta in un cappotto beige ed affiancata da un bambino paffuto biondo anche lui, che stringeva per un polso.
- Oh mio Dio, Karen! – ripeté la donna, avvicinandosi a loro e tirando il bambino per il polso per un metro circa, prima di chinarsi e prenderlo in braccio per velocizzare le operazioni di spostamento, - Grazie a Dio!
Bill serrò automaticamente le dita attorno al manubrio. Bushido fece lo stesso con le sue spalle.
Era la madre.
Piangeva.
Era la madre.
La osservarono chinarsi sul passeggino e sfiorare la bambina con affetto e timore, come a volersi sincerare fosse ancora tutta intera, mormorando paroline dolci fra un singhiozzo e l’altro mentre il piccolino, accucciato accanto a lei, prendeva a piangere a propria volta, scosso dai suoi singhiozzi.
Samhain la imitò presto.
Bill si morse una guancia.
- I bambini… piangono molto spesso, Anis. – commentò a mezza voce, mentre si allontanava impercettibilmente dal passeggino, lasciandolo andare. Bushido non lasciò lui.
I due osservarono la donna riprendersi lentamente, smettere di singhiozzare e rimettersi in piedi, le mani strette saldamente attorno a quelle minuscole della bambina.
- Karl m’è scappato di mano… - spiegò la donna, asciugando le lacrime del bambino con un fazzoletto di carta, - C’era molta confusione e l’ho perso, ho dovuto rincorrerlo, non potevo lasciarlo andare via così, solo che quando sono tornata qui Karen era scomparsa e… - si morse un labbro, - Grazie a Dio siete tornati qui… grazie a Dio. Scusatemi. Grazie.
Bushido annuì lentamente. Bill si nascose contro di lui senza neanche un po’ di vergogna.
Quando la madre e i bambini furono spariti dietro l’angolo, i primi singhiozzi cominciarono a riempire l’aria, sovrastando il rumore dei tacchi dei passanti contro il marciapiede ghiacciato. Bushido li soffocò tutti uno dopo l’altro contro il proprio cappotto, stringendosi addosso Bill come il bambino fosse stato lui.
- Anis… - mormorò il ragazzo, andando alla ricerca di calore nell’incavo del suo collo, - Samhain…
- Va bene così, cucciolo. – lo rassicurò accarezzandogli la nuca, - Saremmo stati due genitori fantastici.
Bill annuì freneticamente contro la sua pelle, incapace di frenare le lacrime.
Prima o poi lo sarebbero stati davvero. In ogni realtà possibile.
Genere: Comico.
Pairing: Bill/Bushido, David/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash.
- Bill ha avuto un'idea geniale: una collaborazione Bushido/Tokio Hotel che possa soddisfare le fangirl molto più di quanto non facciano i flirt pubblici. Il problema è che questa stessa idea finisce per rivoltarsi non solo contro chi l'ha avuta, ma pure contro tutti gli altri. Buongusto delle fangirl lettrici a casa compreso ._."
Note: Questa storia nasce in un modo molto perverso – come perfettamente intuibile dalla tematica, immagino. Nasce, precisamente, con me che, in crisi d’astinenza da Billshido, mi piego a leggere una Billshido/Torg AU decisamente opinabile che non vi linko perché ci sono cose che vanno tenute nascoste alle masse no matter what. Nella storia in questione, Bill era un gioioso allievo un po’ ribelle che finiva in punizione, sorvegliato dal prof di storia – vi lascio indovinare chi fosse. Tom e Georg erano due giocatori di football e l’unica loro utilità era rotolarsi fra i documenti del povero prof di storia di cui sopra – povero non perché fosse in sé sfigato, ma perché non puoi mettere Bushido a fare il prof e non aspettarti che io ci rida su. E anche parecchio.
Comunque. Niente, m’è venuta voglia di infilare Bill in una divisa da scolaretta XD La colpa è del crossdressing. Perciò di Sar@. La colpa del crossdressing è sempre sua. La colpa del Tost – e quindi del conseguente inserimento di Tom che ha dato da solo un perché alla fic – invece, è di Yul, che si lamentava (come al solito) che nessuno le scrive mai fic sulla coppia che piace a lei. Toh XD
Insomma, come vedete io sono completamente innocente °_° La colpa è tutta di altri XD Ma spero comunque che queste cinque paginette di follia vi siano state gradite <3
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FOREPLAY

Tom lo stava guardando come fosse pazzo già da una decina di minuti abbondanti e, sinceramente, la cosa cominciava a farsi un puntino irritante. Bill incrociò le braccia sul petto e sporse un broncio molto offeso, aggrottando le sopracciglia e dardeggiandolo con un’occhiata risentita.
- Be’? – borbottò, - Che hai da fissarmi così?
Tom deglutì e si sistemò meglio sul divano.
- …non avrei affatto dovuto dirtelo. – concluse annuendo lentamente per darsi ragione da solo, - Avrei dovuto continuare a lasciarti nella tua ignoranza, perso nel tuo idillio amoroso col tuo rapper dal cuore di panna, così non avresti mai saputo che…
- …che tu te la fai col mio manager.
- Che è anche il mio manager. – precisò piccato. – Sì, comunque. Non l’avresti mai saputo e non saremmo mai arrivati a questo punto.
Bill batté un piedino a terra e si espresse nel migliore dei suoi bronci da diva insoddisfatta.
- Non mi pare di averti mai dato fastidio, fino ad ora! Ed è un mese che lo so! – si premurò di fargli sapere, fissandolo astioso.
- Ed infatti m’era sembrata troppa grazia! – strillò Tom, scattando in piedi e prendendo a muoversi ossessivamente intorno al divano, - Non lo farò, Bill.
Bill si tirò indietro, i tratti del viso che denunciavano un profondo sgomento – la bocca spalancata, il cipiglio oltraggiato, gli occhi liquidi e brillanti – e lo puntò col dito.
- Come puoi…!
- Non lo farò! – ripeté più duramente Tom, - Ma poi, che utilità potresti ricavarne?!
- Be’, almeno non sarei solo!
- Ma che vuol dire, io non sarei mica lì con te!
- Non fisicamente, ma spiritualmente sì!
- Ma è follia!!! E poi perché, se tu vai a sputtanarti col tuo uomo, devo farlo anche io col mio?!
- Per gemellarità! Che gemello di merda sei?!
- Un gemello che ci tiene alla propria dignità!
- Ti fai David, che dignità può esserti rimasta da difendere ancora?!
Tom ringhiò e concentrò sulla punta della lingua tutto l’astio ed il fastidio di cui si riteneva capace.
- La dignità di uno che per scopare non ha bisogno di infilarsi in un costume e fingere di essere una cosa che non è!
Bill serrò le labbra, risentito.
- Non è un costume! – precisò poi, indicando l’enorme sacchetto di plastica trasparente che giaceva immobile ai suoi piedi, - È una divisa. E quale migliore occasione di utilizzarla, se non questa? È l’unico momento in cui possiamo rischiare di beccarli insieme!
- Io non scoperò con David nella stessa stanza in cui tu stai scopando con Bushido, Bill!
- Ma chi te l’ha chiesto?! – continuò ad urlare lui, sempre più sconvolto, - Dobbiamo solo andarci insieme, poi prenderemo ognuno una stanza!
Tom roteò gli occhi.
- Lo sapevo io. – mormorò con la furia depressa di un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, - L’avevo detto a David. Ai Tokio Hotel non serve una collaborazione con Bushido. È pericoloso dare a quei due l’opportunità di stare insieme anche per lavoro. Sarà un dramma.
Bill trasalì.
- Vuoi dire che hai provato a sabotare il mio magnifico piano fin dall’inizio, Tomi?!
Suo fratello lo guardò e non ebbe neanche la forza di deprimersi oltre.
- Sapevo che doveva essere una tua macchinazione malvagia. – disse invece, tornando a lasciarsi andare sul divano. – Bill, non puoi essere serio. Quei due stanno lavorando, e sono peraltro gli unici lo stiano facendo. Se andiamo a romper loro i coglioni, il nuovo album dei Tokio Hotel non vedrà la luce né oggi né domani né mai. E tu non vuoi che questo accada, vero?
- Ovvio che non voglio! – protestò Bill, disgustato da tanta sfacciataggine, - Che domande. Però per un giorno non andrà mica tutto a puttane!
- Ma perché, Dio mio, perché non puoi aspettare che finiscano di registrare?! Già Bushido è una frana, in sala di registrazione, David sarà isterico, ci presentiamo noi conciati… così! – sbraitò, indicando a propria volta il sacchetto di plastica con un dito, - Sarà la fine!
Bill roteò gli occhi e si preparò ad usare il proprio asso nella manica.
- Tom. Seriamente. Da quando hanno cominciato a lavorare, tu hai più scopato? – Tom fece per aprire la bocca ma Bill lo fermò puntandogli un ditino perfettamente smaltato sulle labbra. – A-ha! – lo rimproverò bonario, - Sii sincero.
E Tom deglutì. Deglutì perché sapeva perfettamente che, quando Bill ti chiedeva di essere sincero, era perché conosceva già la verità. Perciò l’avrebbe saputo all’istante, in caso di menzogna. E le rappresaglie sarebbero state multiformi e spaventose e più variegate di una coppa di gelato fruttato in cinque o sei gusti diversi.
- …no. – si decise a rispondere mestamente alla fine.
- E non ti manca? – chiese Bill, avvolgendolo in un abbraccio improvvisamente comprensivo e simpatetico.
- …sì. – singhiozzò Tom, che già vedeva profilarsi l’Apocalisse all’orizzonte.
- E non vuoi ricominciare a farlo?
- …mh. – annuì, lasciandosi andare contro la sua spalla e chiudendo gli occhi nella speranza di riaprirli poi ed accorgersi di essersi appena svegliato da un orrendo incubo.
Naturalmente non accadde.
- E allora indossa la tua divisa, Tomi… - ghignò Bill, separandosi da lui, - Prima che ti rifili la mia.
Tom guardò in basso al sacchetto e vide le gioiose piegoline di una gonnella alla marinaretta sbucare fuori dalla chiusura in alto. Deglutì ancora e si chinò a raccogliere i pantaloni.
*
David Jost ed Anis Mohamed Youssef Ferchichi erano due uomini molto simili, in svariati ambiti della loro esistenza. Non avere avuto un padre per la maggior parte della loro vita li aveva resi abili a sbrogliare le situazioni complicate per fatti propri, senza creare problemi e capendo sempre in anticipo quale fosse la strada più giusta da intraprendere.
Per tale motivo, era bastato loro guardarsi negli occhi due-minuti-due per capire che, dalla strampalata eppure convincente idea di Bill – io ed Anis siamo sempre in giro a flirtare! Diamo soddisfazione seria alle fangirl! Baciamoci! O forse è meglio incidere un brano insieme?, e naturalmente la scelta era caduta sulla seconda ipotesi – si sarebbe potuto cavare fuori qualcosa di sensato solo a patto di sedersi amabilmente al tavolino e scrivere.
“Scrivere” significava semplicemente che Anis avrebbe dovuto sedersi al suddetto tavolino e buttare giù la solita fiumana di parole non necessariamente dotate di senso ma possibilmente non troppo orrende da sentire una dietro l’altra. Per quanto riguardava David, invece, dal momento che era palese che Bill non si sarebbe mai e poi mai davvero deciso a dare un perché alle idee sparse che spiaccicava un po’ ovunque su qualsiasi superficie disponibile, gli sarebbe toccato sedersi a propria volta e cercare di buttar giù qualcosa di abbastanza poppeggiante da non preoccupare nessuno ma non abbastanza smorto da uccidere di noia i loro fan.
Fu in questa situazione – chinati entrambi su un foglio di carta a scrivere alacremente come ai tempi della scuola – che li colse un lieve ticchettio alla porta dell’ufficio nel quale si erano rintanati per scrivere – o per pomiciare indisturbati, come aveva insinuato Natalie facendo sfoggio di incredibile quanto fuori luogo ironia.
David sollevò gli occhi per posarli su un paio completamente diversi dai suoi – più scuri e più grandi e con delle ciglia da Maybelline che, dannazione, ma si truccava? – ma macchiati della stessa incredula curiosità.
Bushido si premurò di dare voce ai pensieri di entrambi alzandosi in piedi e battendo un pugno contro il tavolo.
- Ma chi cazzo rompe i coglioni?! – disse l’uomo dirigendosi a passi veloci verso la porta, mentre David gettava uno sguardo al foglio e motivava quell’astio con le lunghe ed arzigogolate linee d’inchiostro che il rapper aveva tracciato sul quadernetto, per poi cancellarle invariabilmente e pure con una certa furia.
David osservò l’uomo pararsi di fronte alla porta e spalancarla con tanto impeto da potere arrivare a scardinarla senza problemi.
- Non è il momento di- - iniziò, ma le parole gli morirono in gola quando, di fronte ai suoi occhi, si parò esattamente l’ultimo spettacolo che potesse aspettarsi di vedere in una situazione come quella. Forse in un sogno, forse ad Halloween, forse in un universo alternativo avrebbe potuto accettare come normalità vedere Bill vestito come una scolaretta, ma non – assolutamente non – quando stava cercando di scrivere una canzone. Per lui, peraltro.
- Buonasera, signor Ferchichi… - cominciò Bill, stringendosi pudicamente nelle spalle e piegando un po’ le gambine per guardarlo dal basso come una lolitina un po’ scema, - io e Tomi siamo qui per le ripetizioni… se anche il signor Jost è in casa.
Nella mente di Bushido si formarono tutta una serie di giustificatissime domande. Signor Ferchichi?, tanto per cominciare. E poi, a seguire, ripetizioni? In casa? Signor Jost?
- Che succede? – riecheggiò alle sue spalle la voce del manager, e l’uomo, non riuscendo a trovare parole adeguate per spiegare cosa stesse guardando, si limitò a farsi da parte e lasciare che Bill e Tom si stagliassero contro la soglia della porta in tutto il loro – presunto – splendore.
Se già Bill poteva definirsi uno spettacolo inquietante – in molti sensi, peraltro – con quell’indecente gonnellina blu a piegoline che non riusciva a coprire neanche tutti i boxer e la maglia leggera che si fermava ondeggiando proprio sull’orlo del tatuaggio sull’inguine, Tom era addirittura straniante: s’era infilato dentro una divisa da damerino svogliato – camicia semiaperta, cravattino allentato, mani mollemente abbandonate nelle tasche dei pantaloni chiari – che lo rendeva… perfino conturbante. Più di quanto già non fosse di solito, almeno.
- …oh. – fu il commento del manager.
Bushido lo guardò.
- Oh? – chiese, inarcando un sopracciglio e puntando i gemelli con un dito, - Questa ti sembra una cosa da “oh”? Non da “Cristo santo” o da “siete indecenti” o chessò io?
David deglutì e si ritrovò costretto ad abbassare lo sguardo, mentre Bill ghignava in maniera così cattiva da fare paura.
- Sì, be’, sapevo… - deglutì, - …sapevo delle divise, ecco.
Bushido lo guardò. Bill rideva. Tom fissava il proprio gemello ed il proprio manager con una curiosità venata appena dall’ebetismo tipico di chi non sta capendo un accidenti di ciò che si sta verificando di fronte ai propri occhi.
- Sarebbe a dire? – chiese il rapper, impaziente, senza riuscire a tornare a guardare Bill, che nel mentre aveva incrociato le braccina dietro la schiena e stava ondeggiando felice da un piede all’altro, facendo frusciare la gonna.
- Sarebbe a dire, - cinguettò appunto il moro, palesemente divertito, - che erano nel suo armadio. Gliele ho rubate.
L’invocazione di Tom – un “David…?” che probabilmente sentì solo Bushido, tanto era basso e tremolante – era quanto di più vicino al lamento disperato di un condannato a morte che l’uomo avesse mai sentito.
- Stavo… - motivò il manager, furiosamente imbarazzato, - …aspettando il momento giusto per tirarle fuori… - sollevò gli occhi sul proprio ragazzo, - Ma non erano per te e per Bill, erano per… te e me…
Bill continuò a sorridere trionfante come avesse capito tutto perfettamente fin dall’inizio e anzi fosse stato lui a manovrare i desideri del manager apposta per obbligarlo a comprare due divise da scolaretti di modo che poi lui potesse sgattaiolare felicemente in camera sua e rubargliele.
Bushido si chiese ragionevolmente come avesse potuto passare tanto tempo con quell’uomo senza capire le oscenità che gli vagavano per la testa.
Tom, semplicemente, scattò in avanti con un ringhio furioso e strillò un “Ma io ti ammazzo! Tu volevi infilarmi in una gonna!” che sarebbe stato sicuramente il preludio di una morte certa – visto che Jost stava a capo chino e non sembrava intenzionato a difendersi – se Bushido non avesse allungato una mano e fermato il Kaulitz assassino arpionandolo per la collottola e riportandolo letteralmente coi piedi per terra, borbottando con una certa competenza “Adesso ci calmiamo e facciamo le persone serie, ok?”.
Tom continuò a ringhiare oltraggiato fra le sue mani, mentre Bill, naturalmente, ignorava il suo invito a calmarsi tutti e, soprattutto, tornare tutti sani maschi etero – cosa che non sarebbe guastata, visto come si finiva a trentasei anni, scivolando su quella china – preferendo saltellare felice per la stanza fra incredibili sollevamenti di gonna e planare disinvoltamente sul tavolo, accavallando le gambe e rovesciando uno zainetto pieno di libri sulla superficie che, fino a pochi secondi prima, ospitava il lavoro di tutta una settimana, ora inesorabilmente disperso sul pavimento.
Jost rimase immobile seduto al proprio posto con gli occhi bassi, cosa di cui Bushido gli fu anche in parte grato, visto che, da quell’angolazione lì, si doveva avere una panoramica di un certo sederino davvero niente male. E il sederino era suo, ringhiò interiormente Bushido.
No, tornare sani maschi etero sarebbe stato parecchio difficile.
- Io e Tomi abbiamo problemi con certe equazioni… - disse Bill, angelico, aprendo un libro d’inglese a caso e puntando il dito su qualcosa che doveva probabilmente essere una qualche coniugazione di un qualche verbo che, di numeri, non ne vedeva implicati neanche per sbaglio.
- Bill, potresti almeno essere meno palese. – commentò Bushido, mentre Tom si liberava dalla sua stretta ed andava a schiantarsi contro un divano, lanciando alternativamente occhiate d’odio a Jost, al fratello e perfino a lui che, in tutto quel disastro, era l’unica persona veramente incolpevole.
Il moro aggrottò le sopracciglia, offeso, ed accavallò le gambe in un’imitazione di Basic Instinct così perfetta – mutande a parte – che avrebbe potuto valergli l’Oscar.
- Domani c’è un compito in classe… - raccontò ritrovando immediatamente il proprio entusiasmo e ignorando per contro la sua protesta, - Vero, Tomi?
“Tomi” grugnì.
- Tomi?
- Sì, sì. – confermò il rasta con un vago gesto della mano, tornando a fissare il proprio manager con aria omicida.
Bushido roteò gli occhi e poi si volse implorante verso David, alla ricerca di un po’ d’aiuto e, chissà, di una camicia di forza. Magari nell’armadio aveva anche quella. Si ritrovò di fronte uno spettacolo ancora più agghiacciante dell’imitazione di Sharon Stone: David Jost stava raggomitolato sulla propria sedia, con la testa fra le mani, e mugolava indistintamente “è la fine, è la mia fine” ondeggiando pure un po’.
- Signore dammi la forza. – sospirò il rapper esasperato, per quanto si rendesse perfettamente conto dell’inutilità di stare lì ad invocare l’inesistente rompicoglioni che, apparentemente, si divertiva a rendere le loro vite un inferno in terra. – Bill, hai veramente bisogno d’aiuto per studiare o vuoi solo rompere i coglioni e sabotare la tua band?
Bill s’infuriò e gli sollevò il libro a un palmo dal naso.
- La matematica! – borbottò offeso.
- Questo – puntò il dito Bushido, scostandosi il libro di dosso, - è inglese.
Bill tirò il manuale a sé e lo guardò con un certo interesse. Poi scrollò le spalle e tornò a spiaccicarglielo in faccia.
- Potrebbe spiegarmi l’esercizio numero ventuno, signor Ferchichi?
Dal momento che Bill non sembrava disposto a ragionare in tempi utili – posto lo fosse mai stato, naturalmente – Bushido sospirò e si voltò verso Tom, che quantomeno sembrava ancora in sé. O meglio: era fuori di è, ma aveva ragione ad esserlo. In tutta onestà non avrebbe saputo immaginare in che modo Tom potesse aiutarlo a sistemare la situazione, ma era un tentativo da fare comunque.
- Tom, - disse conciliante, - so che sei arrabbiato-
- Io non sono arrabbiato. – ringhiò il biondo, assottigliando gli occhi come quelli di un gatto, - Io sono perfettamente lucido. Io lo ucciderò. Lo legherò al letto, lo avvelenerò e così morirà fra atroci dolori mentre io incido sulla sua pelle le fottute piegoline della fottuta gonna che voleva farmi indossare.
Al sentire quelle parole, il mugolio indistinto di David si fece più forte. Bushido cominciò a temere seriamente per la vita di tutti in quell’angusto studiolo. Principalmente per la propria, oltretutto. Ne sarebbe uscito vivo solo Bill, come la sottospecie di angelo della morte che in effetti era.
Sospirò.
- Tesoro. – chiese poi al proprio ragazzo, fissandolo intensamente, - Ti senti mica trascurato, ultimamente?
Bill lo fissò con sincera incredulità.
- Sì. – rispose quindi, annuendo compunto.
Tom ringhiò e David sollevò il capino – gli occhi veramente colmi di lacrime. Bushido si chiese se fosse possibile consolare con un abbraccio un uomo di quell’età, ma poi decise che non sarebbe stato il caso di abbracciare qualcuno di fronte a Bill neanche se quel qualcuno avesse avuto dodici o tredici anni. Anzi, forse sarebbe stato peggio.
Indicò con un vago gesto della mano il bizzarro abbigliamento del suo ragazzo.
- Questi… - disse, abbracciando con lo sguardo camicetta e gonnellina, - sono un sintomo del tuo disagio?
Bill continuò a fissarlo con incredulità.
- Sì. – rispose ancora, sempre annuendo compunto.
Bushido incrociò le braccia sul petto e meditò.
- Vuoi mica scopare? – chiese infine, come illuminandosi d’immenso.
Bill sollevò la gonnellina dall’orlo ed inarcò un sopracciglio come se la risposta fosse implicita in quel movimento.
Bushido annuì e poi sorrise, scuotendo il capo, divertito. Si chinò verso di lui, stringendolo alla vita con un braccio fino a trascinarlo in piedi e schiacciarselo contro, fissandolo negli occhi ad un centimetro dal suo viso.
- E non bastava chiedere…? – gli soffiò addosso, osservando compiaciuto gli effetti del proprio respiro sul suo corpo – il rossore delle guance, gli occhi improvvisamente luminosi, la lingua a saettare fra le labbra per inumidirle nella speranza di ricevere un bacio.
Bill sollevò una gamba e la insinuò fra le sue.
- Allora forse è meglio se mi porta di là, signor Ferchichi… e studiamo anatomia.
Bushido rise.
- Questa era orribile, Bill.
- Sì, è vero. – rise anche il ragazzo, stringendosi nelle spalle, - Comunque io volevo anche aiutare loro due, eh. – borbottò accennando col capo sia a Tom sempre seduto sul divano a ringhiare che a David sempre seduto sulla sedia a piangere, - Non siamo mica gli unici che hanno smesso di scopare causa lavoro.
Bushido scosse il capo.
- Hai fatto più danno che altro, mi sa. – commentò come se gli altri due non fossero presenti e non potessero sentire. La reazione di Tom fu incassare ancora di più la testa fra le spalle ed intensificare la quantità d’odio fuoriuscente dagli occhi.
David guardò Bushido con aria persa.
- Non vorrete veramente andarvene… - piagnucolò indecentemente, deglutendo terrorizzato.
Bushido scrollò le spalle.
- Sei un uomo piacevole, Jost, ma, che dire?, Bill ha decisamente bisogno di una mano.
- O anche due. – rincarò il moro, annuendo freneticamente in un frusciare di capelli che Bushido si ritrovò controvoglia ad immaginare stretti in due graziosi codini legati ai lati della testa.
Mentre trascinava il ragazzo in una stanza adiacente, pensò d’altronde che magari, prima di farlo, il tempo per un po’ di foreplay si sarebbe pure trovato.
Né Bill né Bushido avvertirono le urla provenire dall’altra stanza, quando Tom portò a termine la propria vendetta. Non sembravano, in ogni caso, segnali della morte di nessuno.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst (lievissimo), Slash.
- "Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì."
Note: …*l’amore la sommerge* Dio quanto mi mancavano ;___; Bill e Bu, vivi, felici ;O; *muore* Sono in iperventilazione, al momento, perché l’ho riletta alla ricerca di correzioni da fare per pubblicarla, e mi è pure piaciuta. Miracolo & sconvolgimento emotivo *annuisce*
DAVID!!! X’D *progetta grandi cose per lui* No, davvero, non ho niente da dire è.é Però questa cosa andava scritta. Punto. XD
PS: Il titolo è rubato all’ennesima canzone del Bu e significa “quest’unico desiderio” <3
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DIESER EINE WUNSCH

Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì. Che non sono i suoi occhi normali, perché in genere Bill quando ti guarda in maniera normale non ti fa paura. È quando dà alle sue occhiate quell’inflessione cucciolosa ed amorevole e apparentemente innocua che mira a scioglierti il cuore per assoggettarti al suo volere, che tu cominci a tremare. Ma tremare davvero.
Perciò, quando lo vidi entrare nella stanza, timido e timoroso e tutto occhi, io tremai, e cercai di farmi minuscolo sulla poltrona in pelle marrone, quasi per sparirci dentro.
Naturalmente non c’era alcuna possibilità che una cosa simile avvenisse. Eravamo solo io e lui nella stanza, lui non parlava ancora ma io sapevo perfettamente che l’avrebbe fatto da lì a poco, e che quello sarebbe stato l’inizio della fine. E non c’era niente che potessi fare se non prepararmi al peggio e sperare di contenere i danni.
Che sarebbero stati enormi.
Lo seppi con certezza nel momento in cui si sedette – senza avere ricevuto alcun invito in proposito, s’intende – e si dedicò per qualche secondo alla complicata operazione di torturarsi le dita, prima di sollevarmi addosso quelle pozze castane e schiudere le labbra per garantire una via di fuga a cinque minuscoli sussurri – l’inizio della fine, appunto: sai, David, Anis ed io…
- No. – risposi pacatamente, sistemando dei documenti sparsi sulla scrivania. Avrebbero tranquillamente potuto essere carta straccia o fogli bianchi, non era importante: ciò che importava era darsi un tono e, soprattutto, dare ad intendere a Bill fossi indaffaratissimo e non fossi perciò disposto ad ascoltare le sue follie.
Lo vidi combattere per un secondo fra la possibilità di mantenere l’espressione da cucciolo o mettere su un broncio molto indispettito. Probabilmente non sapeva quale fra i due potesse avere, a lungo andare, maggiore effetto sul sottoscritto. Sperai imboccasse la strada sbagliata.
Lui si mantenne cucciolo ed io imprecai contro il mio cattivo karma.
- Non sai neanche cosa stavo per dirti… - mugolò dispiaciuto, sorridendo appena in un modo lieve e lontano da diva delusa dalla vita.
Io finii di rassettare le inutili scartoffie e mi chinai verso di lui, guardandolo severamente.
- Non ne ho bisogno, Bill. – spiegai, - Hai nominato Bushido. Qualsiasi cosa sia, non può che essere un disastro, visto che saremo in giro per la Germania per tutta la prossima settimana. – mi fermai un attimo. – In tour. – precisai poi, nel caso l’avesse dimenticato.
Bill annuì freneticamente, un sorriso un po’ più fiducioso a farsi strada sul suo volto.
- È proprio per questo che pensavo che magari Tom avrebbe potuto trasferirsi nel tourbus di Georg e Gustav e-
Lo fermai con un cenno della mano, guardandolo negli occhi con la fissità di un pazzo.
- Cioè tu vuoi mandare tuo fratello da Georg e Gustav per tenere Bushido nel tuo tourbus. – esplicai con aria assente, - Vuoi distruggere ciò che resta dei Tokio Hotel, Bill?
Lui inarcò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, palesemente colpevole.
Niente da dire riguardo le capacità quasi schizofreniche di Bill di cambiare umore ogni qualvolta se ne presenti la necessità. E io ci casco come un cretino, sempre.
- Bill, non puoi chiedermelo. – cercai di farlo ragionare. Sarebbe stata la guerra. Io non potevo permettermi di dare all’unico chitarrista che accettasse di suonare nei Tokio Hotel un’occasione per mollarli definitivamente e diventare un uomo del ghetto come desiderava. Soprattutto perché, se fosse diventato un uomo del ghetto in quel periodo, come minimo avrebbe scatenato una guerra fra bande nel tentativo di massacrare di botte Bushido e tutta la sua compagnia. Il che mi avrebbe portato a dover organizzare un funerale che non ero davvero sicuro di voler organizzare – anche se avrebbe risolto un mucchio di problemi alla base.
- Ci vediamo così poco, David… - rispose semplicemente lui, riprendendo a torturarsi le dita, - È davvero troppo poco. È riuscito a ritagliarsi una settimana libera. Lo capisci, David? Tu lo sai perfettamente quanto costi una settimana di libertà. – tornò a guardarmi, improvvisamente serio. Nei suoi occhi, una luce matura che mi spaventò non poco. – Per favore. Solo questa volta.
Sospirai.
- Naturalmente dovrò vedermela io, con tuo fratello. – borbottai irritato, ricominciando ad affastellare fogliame di fronte a me, sperando, chissà, di creare una pila e nascondermi agli occhi dei miei impegni.
Bill ridacchiò lievemente.
- Ancora con me non parla. – disse a bassa voce, e non aggiunse altro.
Feci un vago gesto con la mano.
- Sparisci. – buttai lì, disperdendo la pila di inutili fogli e cercando di capire cosa farne, - E digli di venire solo all’ultimo momento! – aggiunsi mentre Bill letteralmente scattava in piedi, scavalcava la scrivania e mi saltava addosso, affogandomi nei propri capelli.
Non riuscii a scollarmelo di dosso per tutta la successiva mezz’ora, ma non posso dire che mi dispiacque.
Mi dispiacque moltissimo ciò che fui costretto a fare dopo, però.
Entrai in camera di Tom che lui già subodorava guai. Tom ha questo talento particolarissimo per le situazioni di pericolo: quando sa che nel giro di poco tempo potrebbe succedere qualcosa di brutto per se stesso o per suo fratello, scatta sull’attenti e dà il via alle manovre di fuga. Chessò: fugge alle Maldive, o torna a casa a Loitsche o si dà alla macchia. In ogni caso, scompare e si tira fuori d’impaccio.
Quella volta arrivai in anticipo – se sia stata fortuna o sfortuna non saprei dirlo – e lo trovai nel bel mezzo di una frenetica preparazione di borsone per la notte.
Guardai lui. Il borsone. Di nuovo lui.
- Dove stai andando? – chiesi in tono casuale, come fosse una normale curiosità di manager.
Lui deglutì e rispose con la stessa falsa neutralità.
- Da Andi. – disse annuendo, - Mi andava di cambiare aria, per un po’. Almeno fino all’inizio del tour.
Annuii.
- Perfetto. – concordai, - Mi sembra un’ottima idea. Ma prima dobbiamo parlare.
E lì Tom naturalmente cominciò ad andare fuori di testa. Probabilmente non immaginava cosa stessi per dirgli di preciso, ma dalla curva delle mie sopracciglia doveva averne intuito la generica gravità. Fui per un attimo orgoglioso di lui, ma tornai subito in me.
- Tu non ti arrabbierai. – ordinai tranquillamente, puntandolo con un dito.
Tom aggrottò le sopracciglia.
- David, non dirmelo neanche.
Sospirai.
- Devo prepararti al-
- Non dirmelo neanche!!! – ripeté, strillando come un indemoniato, - Non dirmelo, cazzo, no!
- Tom, calmati! – cercai di fermarlo afferrandolo per le braccia, prima che cominciasse a lanciare tutto intorno il contenuto del borsone. Lui mi ignorò.
- Dimmi che viene stasera. Cazzo, dimmi che sta con lui stasera perché io stasera non ci sono, David. Posso sopportarlo, se sto a chilometri di distanza!
- Tom… - sospirai pesantemente, spingendolo con tanta forza da mandarlo seduto sul letto. Non ne servì molta, in realtà. Tom è piuttosto gracile, ed anche quando è davvero arrabbiato la sua forza non aumenta, perché con la rabbia Tom ci si svuota del tutto. - …tuo fratello ci tiene moltissimo. – partii, sperando che questa fosse la via giusta.
Non lo era, naturalmente, ma non me ne stupii più di tanto. Qualcosa nel mio karma era decisamente storto.
- Non me ne frega un cazzo di ciò a cui tiene lui! – sbraitò furiosamente, cercando di rimettersi in piedi. Glielo impedii.
- Si vedono poco.
- Potrebbero non vedersi mai!
- Bushido ha faticato per prendersi una settimana di ferie.
- Poteva risparmiarselo! – si fermò. - …quale settimana?
- Tom, tu non ti arrabbierai.
- Io. Sono. Già. Arrabbiato. – e lo disse con freddezza. Con una specie di furia immobile che mi diede i brividi. Guardandomi negli occhi, lo disse, senza evitare i miei neanche per un secondo.
Sospirai ancora.
- Starai nel tourbus con Georg e Gustav.
- No.
- Solo per una settimana!
- No, Cristo!
Scattò nuovamente in piedi e non fui abbastanza veloce da fermarlo. Me lo trovai che mi fissava dai dieci e passa centimetri di cui mi stacca in altezza, ed il fuoco che bruciava nei suoi occhi nocciola aveva veramente qualcosa di inestinguibile che faceva paura.
Non mi stupì che Tom non volesse parlare con suo fratello. Probabilmente quello sguardo era l’unica cosa che si sentisse davvero in obbligo di risparmiargli. Più degli insulti o delle incomprensioni o della mancata accettazione.
- Qualsiasi cosa tu possa dire o fare, Tom, non cambierà la situazione. – mi sforzai di dire seccamente. Lui aggrottò le sopracciglia ed il suo sguardo si fece distante. Io non stavo parlando solo del tour e lui l’aveva capito.
- Ho bisogno di… - biascicò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte. Poi si rese probabilmente conto del fatto che ripetere la stessa lagna di sempre – ho bisogno di tempo per abituarmi, la colonna sonora delle ultime settimane – sarebbe stato completamente inutile, e lasciò perdere. – Tanto devo per forza accettarlo, no? – ringhiò cattivo, - Bill ha sempre ragione, alla fine dei giochi.
Sospirai e scrollai le spalle.
- Bill è innamorato.
Tom ringhiò ancora e non rispose. E meno male, perché non so cosa avrebbe potuto dirmi con precisione, ma immagino piuttosto bene che sarebbe stato qualcosa di davvero poco piacevole.
Viste le premesse, avrei dovuto aspettarmi che la cosa potesse solo peggiorare, da quel momento in poi. Ed infatti me lo aspettai. Tornai da Bill, lo rassicurai sul fatto che suo fratello non avrebbe compiuto una strage ma che gli sarebbe convenuto comunque stargli alla larga se non voleva mettere alla prova la propria fortuna e poi mi preparai ad accogliere Bushido in casa mia. Più o meno.
Con Bushido avevo avuto pochi scambi ridotti al minimo, fino a quel momento. Il periodo di tempo più lungo mi fosse capitato di condividere con lui era stato quando, asfissiato dalle lamentele di un Tom sull’orlo di un crisi isterica per la preoccupazione, m’ero diretto all’infausta Villa Gialla degli Orrori e mi ero eretto contro la porta per poi sgonfiarmi subito dopo nel ritrovarmi davanti una donnina alta un metro e venti che mi invitava ad accomodarmi e chiedeva al padrone di casa, all’interno, se mi sarei fermato a cena.
Bushido non mi chiese se mi andasse di mangiare con loro. Aspettò che lanciassi uno sguardo un po’ incerto a Bill – accucciato in un angolo del divano in una tuta palesemente ottomila taglie più larga di quella che gli sarebbe servita – e poi mi fece strada all’interno della villa.
Restai solo per il tempo della cena e, per qualche strano motivo, Bushido mi convinse. Non dovette fare nulla di particolare – nulla più che sorridere e… suppongo indossare una camicia bianca sotto un maglione blu. Ma questo non deve necessariamente essere reso noto. – ma lo fece. Andai via che mi sentivo bene.
Ciò non toglieva che Bushido rappresentava la fonte primaria dei miei problemi, in quel momento. Non potevo prenderlo alla leggera.
Allora non immaginavo che sarebbe stata una maledizione dura a morire. A ripensarci adesso è quasi divertente. Quasi.
La partenza era fissata per le quattro del pomeriggio. Erano le due e Bill stava saltellando, chiaro segno che Bushido sarebbe arrivato a minuti. Osservai il minore dei Kaulitz specchiarsi in qualsiasi superficie riflettente lo circondasse e poi decidere che doveva necessariamente andare in bagno a darsi una risistemata. Sparì nel corridoio e sentii i suoi passi frenetici muoversi ticchettando sul pavimento e poi la chiave girare nella toppa.
Suonò il campanello in quel preciso istante e la casa venne avvolta nel silenzio.
Deglutii profondamente e mi diressi verso la porta. Quando la aprii, mi trovai di fronte Bushido in posa plastica, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite ed una mano in tasca. Il solito sorriso brevettato. Il maglioncino e la camicia.
Mi diedi dell’idiota.
- Tu. – notificai, cercando di mantenere un’impassibile freddezza che non mi facesse sembrare uno stronzo irritato – perché non lo ero – ma neanche gli desse a intendere che lo trovassi simpatico – perché così non era.
Il sorriso sul volto di Bushido si allargò e lo vidi rimettersi dritto in una posa che non dovesse necessariamente ricordare quella di una foto da poster, prima di farsi avanti, trascinandosi alle spalle una valigia di dimensioni – ringraziando il cielo – piuttosto contenute.
- Non sono qui per te, Jost. – mi prese giovialmente in giro, - Anche se possiamo organizzarci.
Mi allontanai, aggrottando le sopracciglia. Alle mie spalle, risuonò la voce di Bill.
- Anis! – lo sentii sillabare in tono di rimprovero, - Che dici?!
Bushido mi staccò gli occhi di dosso e li portò su Bill. E per un istante potei capire esattamente per quale motivo Bill fosse disposto ad andare perfino contro l’altra metà di se stesso, per tenersi attaccato a lui. Lo si vedeva chiaramente nei loro sguardi che in fondo – ma neanche troppo in fondo – ne valeva semplicemente la pena.
- Vieni qui. – rise Bushido, giocosamente.
Bill gli si catapultò fra le braccia. Quando lo sentii mormorare “un’intera settimana! Puoi crederci?”, ritenni più opportuno farmi da parte. Tom andava aiutato a preparare valigie che non voleva assolutamente essere costretto ad usare.
*
Bushido era, invero, un uomo molto discreto. Non si sarebbe detto, e in effetti forse “discreto” non è la parola più adatta per descriverlo. Probabilmente era solo… opportuno, ecco. Era la grande differenza che correva fra lui e Tom, una differenza motivata principalmente dallo scarto d’età che li separava. Bushido aveva imparato a memoria pregi e difetti della propria posizione e della propria personalità, e li usava con discernimento e disinvoltura. Tom no. Tom era un bambino che si agitava a casaccio. Proprio per questo motivo, creò molti più problemi lui che non l’uomo, durante il passare della lunga settimana di tour che ci accompagnò in giro per tutta la Germania.
Bill non si accorse di nulla. Un po’ perché, quando scendeva dal palco, si catapultava nel tourbus e da lì non usciva fino al giorno dopo. Un po’ anche perché le manovre contenitive a base di birra pizza e cazzeggio sul tourbus di Gustav e Georg sortirono i loro positivi effetti e Tom riuscì non dico a rasserenarsi ma almeno a svagarsi un po’.
In ogni caso, non successe nulla di irreparabile. Bill uscì da quella settimana come trasfigurato. Mi piaceva vederlo in quel modo. Era raro vederlo così felice, prima di Bushido.
- Non sei proprio una completa e totale dannazione. – gli dissi una mattina, preparando il caffè sul loro tourbus. Bill dormiva felicemente, mi aspettavo lo facesse anche lui e mi stupii non poco quando invece me lo vidi apparire accanto in maglietta e pantaloncini.
Lui rise, palesemente divertito.
- Non sapevo mi considerassi una dannazione. – commentò distrattamente, mentre si allungava a recuperare dei biscotti dal ripiano.
Risi anch’io.
- È difficile considerarti un miracolo, visto lo sconvolgimento che porti.
Scrollò le spalle, aprendo il frigorifero e mandando giù circa mezzo litro di latte direttamente dal cartone.
- Tu sei uno bravo a sistemare le cose, vero, Jost? – chiese, senza aggiungere niente al mio precedente commento.
Inarcai le sopracciglia, inclinando lievemente il capo.
- Quando serve. – risposi vagamente, tornando a concentrarmi sul caffè.
Lui annuì.
- Perfetto. – rispose con una mezza risata ed una scrollatina di spalle, - Allora non hai nulla di cui preoccuparti, sistemerai anche me.
Lo fissai, ancora un po’ intontito dal sonno, mentre recuperava una tazza, versava il latte rimanente e vi lasciava piovere sopra una cascata di biscotti, spezzettandoli distrattamente a colpi di cucchiaio prima di tornare verso le cuccette.
- …non si mangia in zona notte! – fu tutto ciò che riuscii a dire. Passai naturalmente ignorato.
Titolo originale: id.
Autrice: Cynical_Terror.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Lemon, Slash, Traduzione.
- E' partito tutto con uno scherzo. Ma non sta ridendo più nessuno.
Note: WIP.
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INVITATION
Capitolo 1

Bill siede da solo nella propria camera d’albergo, arricciato sul letto con addosso solo il pigiama, e fissa con aria assente il televisore.
- Sono solo, grandioso… - mugugna, raccogliendo l’orlo del pantaloni che usa per dormire. L’hanno lasciato di nuovo lì, o meglio, è stato lui a rifiutare di uscire con loro. Si sente come una pezza usata, lo sa perfettamente, ed è stufo di discoteche, alcool e ragazze che si fanno carine solo per lui.
Avevano programmato di non uscire, quella sera. Avevano bisogno di un po’ di pausa dalla frenesia del tour, avevano semplicemente bisogno di un po’ di calma. Quella sarebbe stata la prima serata, dopo una settimana, in cui non ci si aspettava da loro che dovessero trovarsi da qualche parte. E, davvero, Bill era emozionato fin nel profondo dalla prospettiva di annoiarsi fino alle lacrime.
Avrebbero guardato un film e poi Tom aveva promesso che sarebbe rimasto un po’ con Bill per lavorare a qualche canzone. Bill aveva un sacco di idee, frasi e pezzetti di melodie che volteggiavano nella sua testa, ma non poteva fare niente senza che Tom rimanesse al suo fianco a provare accordi sulla chitarra.
Ma ovviamente, come al solito, niente era andato secondo i piani. Tom aveva incontrato una bionda sorprendentemente carina dopo il concerto. A Bill non era sembrata particolarmente diversa dalle altre, ma Tom aveva insistito col dire non avesse mai visto niente di simile. Lei era diversa, meravigliosa, e cazzo, lui aveva bisogno di una scopata. Ed aveva altre tre splendide amiche nel proprio appartamento, perché non organizzarsi per andare un po’ in giro per club, quella sera?
David aveva acconsentito, se non altro perché meritavano un po’ di libertà.
Bill sospira e fa zapping, fermandosi su una stupida commedia americana doppiata in tedesco. Osserva le loro bocche muoversi in maniera completamente diversa rispetto alle parole che sente.
Fare un giro dei club con un fratello sbronzo ed un gruppo di fangirl eccitate non era affatto l’idea che Bill aveva di una pausa. Preferisce di gran lunga restare seduto da solo nella propria camera, ed è esattamente ciò che sta facendo. E sono solo le dieci. Lo aspetta una lunga notte.
Normalmente, Bill sarebbe uscito con gli altri, avrebbe sorriso e si sarebbe ubriacato abbastanza da divertirsi un po’. Avrebbe fatto finta di ignorare il fatto che a Tom non fregava un cazzo del fatto lui ci fosse o meno. Non è mai stato bravo a fare da spalla, perciò Tom finisce sempre per fare coppia fissa con Georg, nei club, lasciando Bill e Gustav per i fatti loro.
- Mi sono rotto. – dice Bill. Dà un calcio al piccolo beauty case poggiato ai piedi del letto, e percepisce la propria frustrazione infiammarsi mentre la borsetta cade sul pavimento, spargendo intorno a sé il proprio contenuto. Si accovaccia sul materasso ed osserva il disastro. Fra le bottigliette di smalto e gli eyeliner sparpagliati per terra, c’è anche una piccola busta argentata, brillante del riflesso del televisore.
Sospira pesantemente mentre la fissa.
È stasera, giusto?, pensa, raggiungendola e trattenendola fra le dita. È indirizzata a lui, ma lui ha già capito molto più di quanto la busta in sé non dica. È tutto uno scherzo. La apre, per tirarne fuori il piccolo invito di compleanno.
- Ventotto settembre. – mormora, - Stasera.
È la festa per il compleanno di Bushido, e Bill è invitato.
- Naturalmente non mi ha invitato davvero.
L’invito era arrivato nella cassetta della posta più di una settimana prima, e s’erano fatti tutti una bella risata in proposito. Bushido continuava ad infastidire Bill da un sacco di tempo, ma era solo uno scherzo, anche se a Bill non sembrava poi così divertente. Tom aveva aperto la busta di fronte all’intera band, deridendo le poche frasi scritte a mano con le quali si richiedeva la presenza di Bill all’evento.
- Stupido Tom. – borbotta Bill, aggrottando le sopracciglia. Anche se Tom odia Bushido, lo odia davvero, deve essersi divertito un mondo a sbattergli tutta l’intera faccenda sul viso. Bill s’era sentito in imbarazzo già per l’invito, e s’era sentito ancora più a disagio perché, grazie a Tom, adesso tutti sapevano.
“Dovrei andarci solo per farlo arrabbiare”, pensa Bill. Ma ovviamente gli è stato impedito di muoversi. Come se ci avesse davvero pensato su, poi, come se…
- …avessi bisogno di farmi dire cosa posso o non posso fare. – ringhia ad alta voce. È improvvisamente furioso, e si alza in piedi, scavando sul fondo della valigia, incasinando la stanza mentre getta i vestiti qua e là sul pavimento. Riesce finalmente ad afferrare un paio di jeans ed un pullover nero a costine. Vestiti normali.
Li indossa, senza neanche starci a pensare mentre stende un po’ di trucco leggero; poco sugli occhi ed il lucidalabbra. Inforca un enorme paio di occhiali da sole, ridicoli per la notte, ma indispensabili, ed un morbido cappellino fatto a maglia sopra i capelli lisci. Getta un’occhiata a se stesso nello specchio e decide: è fottutamente bello, anche vestito così informalmente.
Senza pensare a ciò che sta facendo né a dove sta andando, chiama una macchina e sgattaiola dietro Saki all’ingresso dell’hotel. Lui non sembra neanche vederlo, è troppo impegnato a flirtare con la receptionist.
Bill accende una sigaretta proprio appena la BMW nera appare di fronte all’albergo. Lascia che l’autista scenda ed apra la portiera per lui, e gli passa il piccolo invito.
- Mi porti qui. – dice, salendo sulla macchina. All’interno, il fumo lo fa tossire, intrappolato sul lussuoso sedile posteriore. Attraverso il vetro oscurato che lo separa dell’autista, può ancora vedere l’invito argentato, tenuto su fra due dita per una breve ispezione. “Non pensare”, si dice mentre la macchina si mette in moto.
*
La macchina si ferma appena fuori dal club. C’è la fila, davanti alla porta d’ingresso, ed è lunga fino alla fine della strada. Bill deglutisce.
“Il programma è entrare, farmi scattare qualche foto, evitare Bushido e comportarmi esattamente come se non mi fossi mai divertito così tanto prima”, pensa. L’autista si gira e lo guarda attraverso il vetro.
- Chiamerò io. – dice Bill, - Qui faccio da solo.
Apre lo sportello e prova a respirare. È uscito da solo e, davvero, non dovrebbe essere così nervoso. Non c’è Tom, non c’è David e non c’è nessun’altro stronzo che possa permettersi di dirgli cosa fare.
E cosa dovrebbe fare adesso? È stato invitato e, che sia uno scherzo o meno, sa di essere in lista. China il capo: è nervoso; qualcuno potrebbe riconoscerlo. Si dirige verso l’inizio della fila.
Il buttafuori lo guarda dall’alto in basso.
- Invito? – chiede bruscamente.
Bill sorride, realizzando di aver lasciato la busta all’autista.
- Bill Kaulitz. – si limita a dire.
L’uomo inarca un sopracciglio e Bill abbassa lievemente gli occhiali. Gli occhi dell’altro si spalancano e la corda di velluto che blocca l’entrata viene spostata per lui.
- Da questa parte, Signore. – dice l’uomo, e Bill entra nel locale scuro, ridacchiando dentro di sé. È stato tutto molto semplice, ed in qualche modo si sente come un bimbo cattivo. Se solo gli altri sapessero dov’è… se solo lo sapesse Tom…
All’interno del club, Bill si sente quasi a casa. È uguale a qualsiasi altro club abbia frequentato di recente, scuro, rumoroso, pieno di corpi danzanti. Non riconosce nessuno nella folla, ed una sorta di eccitazione nervosa lo scuote tutto in un brivido. È davvero per conto proprio.
“È il momento di confondersi nella folla”, pensa. Confondersi nella folla è una parte del suo lavoro, è un professionista in questo. Scivola in mezzo alla calca, appare nelle foto, parla con qualche ragazza. Si sente uno scemo mentre stringe alla vita una ragazza e mentre ride assieme a lei, quando lei realizza chi è che la sta stringendo.
Firma un po’ di autografi, sbocconcella un po’ di stuzzichini e non gli importa affatto quando sempre più persone cominciano a notarlo. I fotografi all’interno del club, assoldati per documentare l’evento, si compiacciono enormemente di spingerlo a mettersi in posa per loro. Lui lo fa, sfila gli occhiali e il cappello e li ripone nella larga borsa che porta sulle spalle.
L’ultima cosa che poteva aspettarsi era di divertirsi, eppure sta succedendo. Prima ha individuato Bushido e la sua crew in un angolo della stanza, e tutto ciò che riesce a pensare è che, finché staranno lontani da lui, lui continuerà a divertirsi.
Dopo l’ennesimo incontro con una fangirl ridacchiante, Bill decide che ha bisogno di un drink. Si avvicina al bar, spintonando la folla ed atterrando finalmente di fronte al barista per ordinare un cosmopolitan. Mentre si appoggia al bancone, in attesa del proprio drink, qualcuno picchietta sulla sua spalla.
Si volta, ed i suoi occhi si allargano un po’. Riconosce quell’uomo immediatamente. È Chakuza, un amico di Bushido, che lo produce, in effetti.
- Cazzo, non posso crederci! – dice Chakuza.
Bill sorride.
- Uhm. Ciao.
Chakuza non sorride di rimando, e Bill si sente vagamente a disagio. È più alto di lui, ma si sente veramente minuscolo mentre Chakuza ghigna nella sua direzione.
- Cosa cazzo stai facendo qui? – chiede l’uomo.
- Io… - Bill arrossisce, - Non sono stato invitato?
- Era un fottuto scherzo! – dice Chakuza. Sta rendendo Bill nervoso, fissandolo direttamente negli occhi mentre gli parla. – Uno scherzo, no? E tu… e tu vieni sul serio?
- Be’, mi avete mandato un invito. – replica Bill.
Chakuza sta per dire qualcos’altro, qualcosa di spiacevole, Bill può quasi sentirlo, ma poi Bushido appare improvvisamente dietro di lui e lo spinge di lato. Bill resta a bocca aperta e lo fissa; si sente in trappola. Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe mai riuscito ad evitare Bushido per tutta la sera. Avrebbe dovuto sapere che gli sarebbe toccato comunque almeno parlargli.
Avrebbe preferito continuare ad avere a che fare con Chakuza.
- Stai indietro, Atze. – dice Bushido a Chakuza, il tono basso e profondo. Guarda Bill e solleva un sopracciglio, chiaramente divertito dalla sua presenza, - Non è passata l’ora di andare a letto?
- Non ho un orario per andare a letto. – scocca Bill, immediatamente infastidito dal tono conciliante dell’uomo.
Lui ghigna in risposta.
- Non mi hai portato un regalo? – Chakuza grugnisce in sottofondo, e Bushido si avvicina di più a Bill, - Mh?
Lui scrolla le spalle, rifiutandosi di indietreggiare mentre Bushido si avvicina ancora.
- Ti offrirò un drink.
- Open bar. – dice Bushido. – Che ne dici di regalarmi la tua compagnia?
Il suggerimento lo fa arrossire, e gli attorciglia lo stomaco in una maniera strana. Bushido odora di sigaro, alcool e muschio. Bill cerca di comportarsi come non si sentisse intimidito – ed invece lo è.
- Um. – è la sua risposta.
Non ha veramente una scelta. Bushido si allunga oltre la sua spalla, afferra il drink di Bill e lo accompagna verso il privè. Bill non può scappare, il braccio di Bushido pesa sopra la sua spalla e Chakuza gli cammina stretto a fianco dall’altro lato, intrappolandolo.
Il primo impulso appena si avvicina al tavolo è di voltarsi e fuggire via, ma Bushido urla agli altri di mettersi in piedi per lasciarlo passare. Bill china il capo e si precipita all’interno, senza riuscire ad ignorare le occhiate degli uomini che lo circondano.
Bushido lo segue, sedendoglisi accanto. Presenta Bill ed il suo drink, e Bill arrossisce follemente, all’improvviso consapevole di quanto femminile sia il proprio cocktail, soprattutto paragonato alle birre di tutti gli altri. Chakuza scivola al suo fianco, dall’altro lato, e Bill smette istantaneamente di pensare al proprio drink. Può sentire il respiro di quell’uomo sul collo, stanno tutti strettissimi attorno al tavolino.
- Signori, - dice Bushido, - Bill ha deciso di graziarci della propria presenza.
Allarga quelle braccia muscolose e ne avvolge una attorno alle spalle di Bill, che si tende mentre l’uomo lo stringe.
- Ovviamente non sa come interpretare gli scherzi. – dice Chakuza, stridulo. Gli altri ridono e Bill può solo stringersi nelle spalle, umiliato, e fissare il tavolo, ricoperto di cicche di sigarette, bicchieri vuoti, cellulari e, Bill nota, anche un po’ di preservativi ancora sigillati. Deglutisce pesantemente; perché ha dovuto fare il cretino e scappare dall’albergo?
- Ti stai divertendo? – chiede Chakuza.
Bill solleva appena il viso.
- Molto. – riesce a rispondere.
- Così circondato da maschi, non mi riesce difficile crederlo. – ribatte l’uomo.
Questo fa ridere l’intera tavolata, e Bill vorrebbe semplicemente arricciarsi in una palla e morire. Bushido grugnisce al suo fianco, palesemente poco compiaciuto da ciò che sta accadendo, e tutti smettono all’istante di ridere.
- Siate gentili col mio ospite. – dice serio.
Bill scuote il capo e cerca di sorridere.
- Sto bene.
- Assolutamente. – dice Bushido, lasciando finalmente la presa sulla sua spalla.
Chakuza batte il proprio bicchiere contro il tavolo, guardando Bill con occhi pieni di disgusto.
- Frocio. – sputa fuori, la sigaretta che si agita un po’ troppo vicina al viso di Bill. Lui semplicemente abbassa il capo.
- Porta il tuo “frocio” fuori di qui. – dice Bushido, strappandogli la sigaretta dalle mani. Chakuza lo fissa da sopra la testa di Bill, e c’è della tensione, Bill può sentirla. Bushido annuisce brevemente e Chakuza cede, corrucciato. Si mette in piedi e spinge chiunque stia sulla sua strada verso l’uscita del privè.
- Qualcun altro ha dei problemi? – chiede Bushido. Nessuno dice niente e Bill manda giù velocemente il proprio drink, solo per trovarsi qualcosa da fare.
- Al ragazzino serve un altro drink. – dice l’uomo che sta seduto adesso accanto a Bill, - Cosa bevi? – si mette subito in piedi, perciò Bill non può dire no.
- Um. Un Cosmo. – mormora.
- Un che?
Per qualche ragione, Bill è più imbarazzato adesso di quanto non sia stato per tutto il resto della serata.
- Prendigli uno shot. – dice Bushido, - Prendine per tutti, e dì al barista di continuare a mandarne.
L’uomo annuisce e Bill si schiarisce la gola.
- Non lo so… - mormora, allontanandosi lievemente da Bushido. Ha paura del calore che si sprigiona dal suo corpo. – Forse dovrei andare…
- Non puoi andartene adesso, non abbiamo ancora tagliato la torta! – dice un altro uomo.
Bushido sogghigna.
- Uno shot.
Bill sente un piccolo sorriso farsi strada sul proprio volto, e sospira.
- Okay, ma solo uno.
*
Un’ora dopo, Bill è completamente andato, del tutto fuori di sé. Lo sono tutti, in realtà, e Bill ha anche smesso di interessarsi di ciò che gli altri potrebbero pensare di lui. E comunque, sono stati tutti dannatamente gentili, da quando Chakuza è andato via.
Bill ride senza nessun motivo e si stende accanto a Bushido, rubando uno shot ad uno dei suoi nuovi amici, e quasi cade in grembo all’uomo mentre manda giù il drink. Non sa nemmeno cosa ha bevuto.
Bushido lo aiuta a tirarsi dritto e Bill scivola indietro contro il divano, ghignando.
- Il ragazzino continua a bere. – dice uno dei nuovi amici. Bill gli solleva contro il medio senza nessuna ragione e tutti ridono.
- Vi sta battendo tutti. – commenta Bushido, fumando il sigaro.
Bill si sente orgoglioso e, con aria presuntuosa, biascica “Voi tutti… mi fate una sega”.
Questa battuta si guadagna la risata più fragorosa della serata, e Bill sente perfino qualcuno battergli una pacca sulla spalla. Li ha fatti ubriacare tutti, li tiene per le palle, questo è certo. Sa di essere carino, sa come battere le ciglia ed anche come sporgere le labbra. Funziona sempre con le piccole fangirl che si presentano ai loro concerti, ed è eccitante sapere che funziona anche con uomini più maturi capaci di intimidirlo.
Si rimette seduto, guarda Bushido.
- Ehi. – dice, allungando una mano. – Dammelo. – vuole il sigaro di Bushido.
L’uomo lo allontana dalla bocca.
- Vuoi succhiare questo, mh?
Bill scopre che gli piacciono i riferimenti sessuali del discorso, lo fanno sentire accaldato, più caldo di quanto non riesca a farlo sentire l’alcool. Annuisce, la mano ancora tesa, ma Bushido la spinge via e mette da sé il sigaro sulle sue labbra.
All’inizio il sigaro si limita a colpire le labbra di Bill.
- Apri. – dice Bushido. Bill ride ed il sigaro s’infiltra nella sua bocca. Aspira profondamente, inspirando il fumo, e l’attimo dopo si ritrova piegato in due a tossire come se dovesse sputare i polmoni.
I ragazzi ridacchiano e Bushido tira indietro il sigaro.
- Non devi mandare giù. – lo rimprovera.
Gli occhi di Bill si riempiono di lacrime e lui si passa una mano sopra le labbra. Guarda in alto, oltre Bushido, e si accorge che Chakuza è tornato e sta in un angolo, accigliato.
- È ora di tagliare la torta. – annuncia. Guarda Bill, ma a Bill non potrebbe interessare di meno. Si appoggia contro la spalla di Bushido.
- Falla portare qui, stiamo comodi. – dice Bushido. Chakuza va via e torna qualche minuto dopo, mentre tutti i partecipanti alla festa si avvicinano e mettono via i propri drink per la torta.
Bill ricorda improvvisamente perché si trova lì. È il compleanno di Bushido. È in un locale con Bushido ed è per i fatti propri.
Sta diventando tutto confuso; vede le candele accese, osserva il fuoco macchiare la sua visuale. Vuole toccarlo. Presto si mettono tutti a cantare. Bill poggia la testa contro la spalla di Bushido e si unisce al coro. Canta più forte di tutti, ride mentre lo fa, e guarda Bushido soffiare sulle candeline e spegnerle tutte insieme.
Bushido soffia anche contro il suo collo, ed una delle sue mani gli stringe una coscia. Qualcosa che assomiglia molto al fuoco brucia la sua pelle dalla coscia allo stomaco.
Bill si china più vicino a Bushido, incapace di frenarsi. Il filtro fra giusto e sbagliato è scomparso, lavato via dall’alcool. Si sono sempre infastiditi a vicenda, c’è sempre stato uno strano modo di provarci, fra loro. È sempre stato lì. L’ha sempre fatto sentire a disagio, gli faceva sudare le mani, ma anche…
Si avvicina ancora e sussurra roco “Buon compleanno” direttamente contro il suo orecchio.
*
È molto tardi. Esausto, Bill guarda appena lo schermo del proprio cellulare, incapace di processare le informazioni che gli sta dando. Tom gli ha inviato più di dieci messaggi di testo e ne ha lasciato uno anche in segreteria. Il telefono continua a cinguettargli di controllare i messaggi.
Bill lo ripone nella borsa.
Scuote il capo, aguzzando la vista. È in una camera d’albergo, in un piccolo salotto. Si lascia andare contro lo schienale del divano; ci sono persone sulla soglia della stanza. Stanno andando via, salutando, abbracciandosi, alcune si baciano. Bill non ricorda com’è arrivato lì, ma non è molto spaventato.
La sua mente è del tutto alla deriva e si sente come stesse dormendo, può sentirsi affondare più in profondità in qualcosa di così pesante ed invitante. Ma poi qualcosa tocca il suo viso e lui apre gli occhi. È Bushido.
- Non ce l’hai una casa?
Bill ride.
- Nessuno mi vuole a casa.
Bushido rimane sospeso sopra di lui e per un secondo Bill pensa che sia pronto per girarsi e andarsene. Ma si siede accanto a lui, troppo vicino.
- Ah, sì? E pensi che qualcuno ti voglia qui? – Bill lascia ricadere il capo contro la sua spalla, - Mh?
Bill ride ancora, stavolta proprio sul suo collo.
- Ti ho portato un regalo. – biascica.
- Stai giocando con me, piccolo? – la voce di Bushido e un po’ divertita, un po’ cupa e inquisitoria.
Bill si arrabbia e lo scosta indietro, improvvisamente pieno d’emozioni ed energia.
- Non sono piccolo! – quasi grida. Bushido sembra troppo sorpreso per muoversi. Bill si sposta verso l’uomo più maturo, poggiandogli le mani sulle spalle. – Non sono piccolo. Vaffanculo. – inspira un po’ del profumo di Bushido e poi non può più fermarsi, pressa il naso contro il suo collo e, semplicemente, inala.
Bushido ringhia e lo rimette seduto.
- Piccolo. – sibila, scandendo bene ogni lettera. Gli si appoggia contro e Bill può sentire quanto lui sia grande. Non solo alto, è tutto il suo corpo ad essere fitto di muscoli, e forte. Il peso di Bushido è quasi insostenibile. Non c’è più nessun flirt, non è uno scherzo. Chi è che l’ha portato così lontano?
Bill trema e dice “no”, soffice come un respiro.
- No? – chiede Bushido. Lo sta deridendo, lo diverte spingerlo in questo modo. – Cos’è che mi hai regalato? – pressa con forza una mano sul suo inguine e stringe piano. Bill è già eccitato. – Questo?
Bill squittisce e chiude gli occhi.
- No.
- Io non sto giocando. – dice Bushido.
Bill si sente male, gli duole lo stomaco, e può ancora respirare il profumo di Bushido, può ancora sentire il suo calore. È eccitato e disgustato in egual misura mentre Bushido si pressa contro di lui, strofinandosi forte contro il suo petto ed il suo ventre. Il suo peso lo domina completamente.
Bushido lo afferra per i fianchi e Bill geme, cercando di spingerlo via. Non ha mai avuto nessuno così addosso, mai.
- Sai solo parlare. – dice Bushido, guardandolo dritto negli occhi. Il suo alito puzza di tequila.
- Tu mi vuoi. – sospira Bill. La stretta dell’uomo sui suoi fianchi si fa più forte, e Bill ansima. Cerca di sfuggire alla presa di Bushido, alla ricerca di un po’ d’aria e di una via di fuga da quel calore. Ma Bushido la pensa diversamente. Lo afferra, afferra i suoi polsi e lo tiene fermo. Bill gli scivola in grembo, aggrappandosi alle sue spalle.
Tutto il suo corpo impazzisce di calore quando sente l’erezione di Bushido contro il sedere. Senza pensare si muove contro il rigonfiamento nei suoi pantaloni, solo un po’, e Bushido lo spinge in avanti, stringendogli i polsi, facendogli male, e poi, finalmente, baciandolo.
Nessuno l’ha baciato in più di due anni, e tutto ciò che Bill può fare e affondare in quel bacio e mugolare. È un bacio duro, bagnato e doloroso. È tutto ciò che Bill non vuole, ma lo costringe a contorcersi in grembo a Bushido, come una puttana.
L’uomo lo allontana da sé e ringhia.
- Voglio scoparti.
Bill scuote il capo e Bushido lo bacia ancora, famelico. Bill ha paura, ma tutto ciò che fa è strusciarsi contro l’erezione di Bushido, sentendosela crescere fra le gambe. Annaspa, e le mani di Bushido scivolano lungo la sua schiena fino alle sue natiche.
- Hai paura? – chiede l’uomo, stringendone una fra le dita.
Bill scuote il capo, le labbra un po’ umide.
Bushido stringe ancora, un dito a scorrere lungo le pieghe, seguendo le cuciture dei pantaloni di Bill.
- Mmh. Stai tremando. L’hai mai preso prima?
Bill scuote nuovamente il capo, ridotto ormai ad un tremolante mucchietto d’ossa nel grembo di Bushido.
Lui ride.
- Sei completamente ubriaco, vero? Sì che lo sei. Dovrei approfittarmi di te, piccolo?
- Fottiti. – balbetta Bill.
Bushido risponde spostandosi su di lui. Bill sospira, improvvisamente colpito da un’idea. Dimenandosi, ritaglia una via di fuga oltre la stretta dell’uomo e rotola sul pavimento. Oscilla e poi si aggrappa alle ginocchia di Bushido, allontanandole l’una dall’altra. Bushido non oppone molta resistenza. Lascia che Bill gli cada fra le gambe. Lui si curva in avanti e posa una guancia contro il suo inguine. Volta il capo e si strofina contro di lui, compiaciuto del calore che se ne sprigiona e dalla sua durezza. Non pensa a cosa sta per fare. È passato direttamente dalla paura alla determinazione. Mostrerà esattamente a Bushido quanto è adulto e quanto capace può essere.
- Cazzo. – sibila Bushido. Bill si aggrappa alla lampo, tutto si sfuma e Bushido gli accarezza una guancia. Non riesce a far scendere la zip e grugnisce.
- Lo vuoi, vero? – chiede Bill, - Hai detto che lo volevi.
Bushido ride, ma la risata viene fuori strozzata. Prende Bill per i capelli e lo tiene fermo.
- Era uno scherzo.
- Non ti credo. – dice Bill. Stringe con più forza la zip, la forza verso il basso e poi pressa il viso contro i suoi boxer. Può sentire l’erezione bollente di Bushido attraverso il tessuto; è dura. Bill le lascia sopra un piccolo morso attraverso gli indumenti. Bushido impreca, la mano stretta con più forza sui suoi capelli, ma Bill è troppo ubriaco per sentire davvero dolore. – Vuoi che lo faccia?
Strofina le mani contro i fianchi dell’uomo e sfiora con le labbra il rigonfiamento al di sotto dei boxer.
- Posso farlo. – dice, - Se vuoi che lo faccia. – si china a succhiare distrattamente la punta della sua eccitazione e mugugna. Non ha neanche mai pensato di fare una cosa simile prima, e questo lo fa tremare. È troppo spaventato per tirare fuori il suo membro e succhiarlo davvero. In qualche modo, spera ancora sia tutto un gioco e che Bushido non scoprirà il suo bluff.
L’uomo lo allontana da sé e lascia andare i suoi capelli. I suoi occhi sono pericolosi; Bill lo osserva infilarsi una mano nei boxer e tirarne fuori il proprio cazzo, direttamente sulla sua faccia. Quella cosa è enorme, e Bill fa una smorfia. Bushido si limita a ridere, tenendo stretto il proprio pene fra le dita e spingendolo verso Bill.
Lui trasale, osservando il prepuzio che si tira indietro per mostrarne la testa già bagnata. Non può farlo. Non può.
- Prendilo in bocca. – ordina Bushido, - Cosa c’è? È troppo grande? Non sei abituato a vederne di queste dimensioni? Non ne hai mai succhiato uno prima, piccolo Bill? Mmh?
Bill chiude gli occhi e si spinge in avanti, le labbra a sfiorare appena la punta.
- No. – ammette, pressando le labbra contro di lui.
Bushido sbuffa e pressa due dita contro la sua fronte. Bill le può sentire lì, è come se cercassero di marchiarlo. Bushido spinge dolcemente e Bill squittisce – completamente fuori di sé a causa dell’alcool – prima di ricadere seduto indietro. Rotola su un fianco, abbracciandosi stretto, e tutto diventa scuro e silenzioso.
Bushido si china accanto a lui e solleva il suo corpo arreso. Bill non si sveglia e Bushido lo rimette disteso sul divano.
- Stupido ragazzino. – mormora prima di lasciare la stanza.

Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Violence.
- La routine delle sere di David è molto semplice. Torna a casa, cena, fa una doccia, guarda la TV. Poi risponde al citofono e fa entrare Bill, preparandosi ad ospitarlo per la notte.
Note: Prima di tutto, credit vari ed eventuali.
- A Yul per il secondo concorso sulla JostFic che mi ha ispirato la storia.
- A Tab perché mi ha costretto a scriverla XD
- Ai Depeche Mode, perché la citazione all’inizio è tratta da Personal Jesus (album: Violator), e la storia è ispirata alla canzone. Intesa in modo più positivo rispetto alle intenzioni originali (dannato gruppo emodepresso!).
- A Sara per la traduzione del testo di Beichte che appare in quella meraviglia di quote che è “Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello” (perché se c’è una cosa che Bill sa fare, ecco, quella è scrivere), ed – ovviamente – ai Tokio Hotel per la canzone in sé.
- A Juccha per il titolo >*< E per il concetto sul provare a dire “ti amo” solo per sentire l’effetto che fa. Ti lovvo <3
Per il resto, non ho molto da dire. Anzi, non ho niente da dire. Riesce ad essere – in modi del tutto assurdi – una storia semplicissima ed anche una delle più difficili che io abbia mai provato a raccontare. Un disastro, insomma ._.”
Per quanto mi riguarda, la trovo molto affascinante. Ma forse mi sto facendo ammaliare dall’emoangst XD Grazie per aver letto fino a qui (e grazie a Yul, lei sa perché XD). Grazie a Misa, grazie alla Lemmina, grazie a Nai. Baci :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNDEAD UNWASHED UNHOLY

Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who’s there

- Stavolta con quale dei due hai litigato?
Bill mi passa davanti, sfrecciando veloce verso il soggiorno. Si lascia alle spalle la porta aperta, il fruscio dei propri capelli e l’odore familiare delle proprie lacrime. Lo so che in teoria le lacrime non dovrebbero avere un odore, ma l’odore di quelle di Bill si sente sempre, ed è riconoscibilissimo. È il trucco che si scioglie. Che cola lungo le guance. È l’odore del sangue che esce in una singola goccia quasi asciutta sulle sue labbra – le morde sempre con una violenza inaudita, quando cerca di smettere di piangere. È l’unica persona che conosco che, per smettere di piangere, sopprime il dolore più grande con un dolore più piccolo. Non ha senso. Niente di lui ha mai avuto senso.
Lo osservo fermarsi davanti al divano, passare velocemente le dita sotto le ciglia e sulle guance e poi voltarsi finalmente a guardarmi. Sul suo viso non c’è quasi più traccia di niente. Cerca sempre di ripulirsi, prima di voltarsi verso di me.
- Posso restare da te stanotte? – chiede con un’incertezza solo mal simulata. Lo sa lui e lo so io che non dirò di no. E lo sappiamo entrambi semplicemente perché ci aspettavamo questo momento.
In realtà non ho neanche bisogno di chiedergli con quale dei due abbia litigato, posso intuirlo piuttosto facilmente solo osservandolo: ha il borsone in spalla. Il borsone è una vecchia borsa Adidas di quelle che in genere si usano per la palestra. Come faccia Bill – che è notoriamente più pigro di un bradipo – a possedere una cosa simile, va oltre la mia capacità di comprensione. Comunque, quando deve dormire fuori è sempre con questa cosa – piena fino all’orlo di cianfrusaglie che per la maggior parte neanche usa – che si muove. Senza, non esce neanche di casa.
Quando Bill dorme fuori, è perché ha litigato con Tom.
In genere, però, litigare con Tom non basta per presentarsi qui.
Quando Bill litiga con Tom, prepara il borsone e va da Bushido. Bushido è il suo… ragazzo? Uomo? Compagno? Non so. Non riuscirò mai a trovare un appellativo che non suoni stonato. Comunque è suo. È da lui che va a stare, quando litiga con Tom.
È quando litiga anche con Bushido, che viene da me.
*
La situazione di Bill è complicata. E non è affatto buona.
Ogni volta che ci penso non lo faccio con l’indifferenza dell’estraneo che osserva una situazione all’interno della quale non è affatto coinvolto. Io lo faccio con apprensione. Io sono davvero terrorizzato per Bill.
Ma d’altronde, sfido chiunque: la situazione di Bill preoccuperebbe anche un estraneo, anche uno che ne avesse appena sentito parlare, pure distrattamente, pure per sbaglio, pure origliando per caso una conversazione sull’autobus. Ed io – che questo ragazzino me lo sono cresciuto, un po’ – non posso fare a meno di andare in completa paranoia, ogni volta che ci penso.
Per inciso: ci penso ogni volta che Bill me ne dà l’occasione. Cioè ogni volta che piomba a casa mia. Cioè ogni volta che litiga con Bushido. Cioè ogni volta che litiga con Tom.
Cioè sempre.
La situazione di Bill è sempre stata complicata, da che lo conosco, e questo semplicemente perché la situazione di Bill è sempre stata legata indissolubilmente alla situazione di Tom. E la situazione di Tom non è complicata, la situazione di Tom è un dannato disastro.
Quando li ho conosciuti, i gemelli erano due ragazzini piccoli e stupidi. Il mio non è un giudizio impietoso, è un giudizio il più obiettivo possibile – ed è dato comunque con molta tenerezza di fondo. Troppa, temo.
Erano molto stupidi nel senso che erano convinti – fermamente convinti – il mondo stesse aspettando solo loro. Non avevano la più pallida idea dei sacrifici che si sarebbero ritrovati a compiere. Forse per questo accettarono di immergersi fin sopra la testa in un mondo che, dietro le quinte, non conserva niente dei glitter e delle paillette di cui ricopre la scena: erano disposti a tutto. E basta.
Ciò che mi ha sconvolto – ciò che mi ha dato la spinta finale, ciò che mi ha convinto a sceglierli fra tutte le enormi masse di ragazzetti alternativeggianti che già allora affollavano i palchi delle periferie – è stata l’abnegazione totale che provavano l’uno nei confronti dell’altro.
Bill e Tom sono sempre stati così. Strani.
Era una base buona dalla quale partire per fare soldi, ecco.
Io non ero un poveraccio. La mia non era una vita triste. Non andavo stancamente avanti nel tentativo di sbarcare il lunario giorno dopo giorno. Non avevo bisogno di una trovata pruriginosa che andasse a battere proprio lì dove i pensieri cattivi di tutti si fermano e si schiantano contro il muro del buonsenso.
Io stavo solo facendo il mio lavoro. Non avevo alcuna intenzione di venire a conoscenza di un segreto tanto grande. Non volevo essere partecipe di una cosa tanto spaventosa. Non volevo neanche fomentarla, lo giuro.
Non mi sento davvero in colpa, perché penso fosse inevitabile che fra Bill e Tom scoppiasse una cosa simile. Attaccati per com’erano, era solo questione di tempo. Certe cose rimangono sopite solo se la vita che uno si ritrova a vivere rimane sempre piatta ed immobile. Se sei circondato solo ed esclusivamente da persone che ti vogliono bene, se hai una madre devota che ti supporta, se hai un patrigno benevolo che ti sostiene, se hai degli amici intelligenti che scorgono oltre la superficie il bravo ragazzo che sei, non hai alcun bisogno di aggrapparti con tanta foga a tuo fratello.
La vita dei gemelli, però, non è rimasta piatta ed immobile. A tredici anni, Bill e Tom sono saliti su una trottola che non si è ancora fermata. E gira, gira. Non c’è mamma, non c’è papà, non ci sono amici. Sono solo Bill e Tom.
A qualcuno dovevano pure aggrapparsi, se non volevano volare via.
Hanno scelto di aggrapparsi l’uno all’altro. Era inevitabile. Non è stata colpa mia. Io ho solo favorito le condizioni, ma loro avrebbero potuto opporsi strenuamente – come Bill sta ancora cercando di fare, come Tom si ritrova a tentare di fare sempre più stancamente – e non sarebbe accaduto niente.
Siamo ad un passo dalla rovina.
E non sto parlando dei Tokio Hotel.
Sto parlando di Bill e Tom. Del ragazzino magrissimo che stringe una borsa enorme al fianco e mi chiede se può dormire a casa mia. Dell’altro ragazzino – uguale, identico, speculare – che sta tutto solo in un enorme appartamento, qualche isolato più in là, e probabilmente sta spaccando qualcosa. Perché è così che Tom reagisce al dolore, Tom distrugge.
Tom, ogni tanto, prova a distruggere anche suo fratello.
È per questo che Bill scappa. È per questo che fugge da Bushido.
Bushido.
Ogni tanto penso alla sua presenza in tutta questa storia e provo molta compassione per lui. Mi ritrovo quasi immerso in una sorta di empatia immotivata e pure un po’ pericolosa.
È che so cosa vuol dire avere a che fare coi gemelli.
È che so cosa vuol dire avere davanti Bill che piange e non vuole dire perché.
È che so cosa vuol dire avere addosso lo sguardo arroventato di Tom quando viene a riprenderselo.
Bushido fa quel che può. Anche lui non ha colpa di niente.
È questa storia, che è tutta una follia.
È ciò che ci sta dietro che non ha senso.
Immortale, sporco e sacrilego.
Io so di non avere motivi per avercela con me stesso.
Però quando ce l’hai con qualcuno in genere non stai neanche tanto a domandarti perché. Purtroppo.
*
Facciamo il punto della situazione.
Bill sta dormendo nel mio letto. Gli ho messo le sue lenzuola – un coordinato di cotone bianco finissimo del quale s’è letteralmente innamorato la prima volta che è venuto a passare la notte qui – gli ho sprimacciato il cuscino, gli ho posato accanto quell’orrore di peluche cui non rinuncerebbe neanche se fosse sposato e l’ho calmato abbastanza da fare in modo che potesse chiudere gli occhi senza che il semplice movimento lo portasse a piangere ancora.
Per le prossime cinque o sei ore, Bill starà bene. O meglio: non starà – non sentirà nulla, non avrà nulla di cui preoccuparsi, rimarrà avvolto nel sonno e nel silenzio senza pensare a niente.
Il suo cellulare è posato sul tavolino di cristallo basso proprio davanti al divano sul quale sto seduto adesso. È l’una. Bushido chiamerà al massimo fra un quarto d’ora – lo fa sempre.
Mentre aspetto, posso chiamare Tom. È quello che faccio sempre io.
- Pronto?
La sua voce è venata da una sorta di speranza un po’ infantile e demotivata. La speranza che ti trascini dietro, quella che sai di non dover continuare a nutrire ma conservi comunque.
Bill non lo chiama mai, ma Tom non fa che aspettare.
- Sono io. – rispondo in un sussurro, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa della mia camera da letto.
La speranza di Tom vola via in un sospiro. Nel sospiro stanco col quale pronuncia il mio nome.
- David. È lì?
Annuisco, anche se lui non può vedermi.
- Dorme. – preciso, - Cos’è successo?
Tom sospira ancora, ma è un sospiro diverso.
Lo so che è difficile, Tom. Lo so.
- Niente. – sbotta lamentoso, - Abbiamo litigato. Almeno adesso so che è lì e non devo preoccuparmi.
Mi lascio andare ad una risatina divertita.
- Sì, lui è al sicuro. – confermo, - Tu come stai?
Posso immaginarlo scrollare le spalle e lasciarsi andare di peso sul divano – lo fa davvero, sento lo sbuffo d’aria e lo scricchiolio della pelle sotto di lui.
- Così. – borbotta, - Domani lo riaccompagni tu?
- Domani ci vediamo direttamente agli studi. Non farmi brutti scherzi.
Ridacchia.
- No, tranquillo. – mi rassicura, - Allora adesso vado a dormire.
- Ecco, bravo. – lo rimbrotto spiccio, - I mocciosi come te a quest’ora dovrebbero essere già a letto da un pezzo.
Non protesta, neanche mi risponde. Quando parla di nuovo, non si sta rivolgendo a me.
- David, quando si sveglia digli che… - si ferma, cerca le parole. Dev’essere tremendo. Forse, dentro di sé, fa la prova. “Digli che lo amo”. Giusto per vedere come suona sulla punta della lingua. - …va be’. Magari poi glielo dico io.
È questa la cosa che temo, Tom. È questo ciò che teme anche Bill.
Che tu possa dirglielo veramente.
*
Non ho quasi neanche il tempo di chiudere la conversazione con Tom, che il cellulare di Bill squilla. Generalmente, non faccio che allungarmi verso il tavolino, recuperarlo e rispondere a Bushido che s’informa sulla salute del proprio ragazzo, uomo, compagno o quel che è. Davvero, per me è imbarazzante starci a pensare. Sarà che siamo praticamente coetanei, sarà che fra noi non s’è mai davvero creato un rapporto – neanche di conoscenza, Bill è talmente geloso della loro relazione che è quasi più difficile incontrarsi adesso rispetto a quando lui era solo un collega, e neanche mio – sarà che be’, pur non sapendo niente so tutto ciò che c’è dietro – a lui, a Bill, a Tom, ecco, proprio tutto – ma insomma. Non lo so. Comunque preferisco evitare di parlare con lui, quando posso.
Il problema è che capisco la sua preoccupazione, ecco. Quando Bill litiga con qualcuno lo fa come se, da quel momento in poi, ritenesse implicito un addio. Bill litiga, cioè, e va via di casa sbattendo la porta e senza salutare, esattamente come fai quando la vista della persona che ti sta davanti ti è così insopportabile che il solo pensiero di rimanere a subirla un secondo di più ti nausea e ti ferisce a morte. Quando Bill imbocca la porta si ha sempre un po’ paura che non torni.
Giustamente, Bushido a lui ci tiene. E se ne sente responsabile, se non altro perché è stato chiaro fin dall’inizio Bill si stesse mettendo completamente nelle sue mani, senza riserve. Perciò chiama.
Io lo capisco fin troppo bene per negargli una rassicurazione. Perciò vinco l’imbarazzo ed il disagio, rispondo al dannato cellulare e gli dico puntualmente di stare tranquillo, che Bill dorme, lo informerò della sua chiamata e lo farò rintracciare l’indomani mattina appena sveglio.
È sempre così.
Stavolta no.
Mi allungo verso il tavolino ma sento uno scalpiccio di piedi nudi sul parquet dietro di me, perciò mi fermo e mi volto a guardare. Bill – maglietta e boxer, i capelli sciolti e scomposti lungo le spalle e gli occhi ancora rossi di pianto – corre fino al cellulare, lo afferra e lo porta all’orecchio in un gesto tanto veloce da sembrare unico.
- Anis? – risponde ansioso, stringendo l’apparecchio fra le mani con una violenza inaudita, - No, sono da David. Sì, lo so. Lo so, scusa. No, non dicevo sul serio. Ti giuro che… non dicevo sul serio.
È la prima volta che li sento parlare. Cioè, in realtà sto sentendo solo Bill, ma è una prima volta anche questa. In genere, quando parlano al telefono, Bill si nasconde. Che sia per sfuggire alle ire di Tom – che ogni volta che riesce anche solo a subodorare un qualche contatto fra lui e Bushido comincia a comportarsi come un pazzo assetato di sangue – o per proteggere in qualche modo un’intimità che, negli ultimi mesi – anche a causa della Universal ed anche a causa mia – è stata talmente pubblicizzata da non conservare d’intimo neppure il nome, non lo so. Comunque sia, si nasconde.
Evidentemente, stavolta aveva troppa fretta per pensarci.
…o, più semplicemente, non c’è Tom nei paraggi.
Sospiro, abbandonandomi contro lo schienale del divano, mentre Bill continua a sciorinare scuse in un singhiozzo continuo.
Il problema non è l’intimità resa pubblica, no. Il problema è Tom. Come sempre.
*
Bill chiude la conversazione con un sospiro stremato, e si lascia andare seduto accanto a me. Si piega in avanti come accartocciandosi su se stesso, e quando capisce che, continuando ad avvolgersi in questo modo, cadrà dal divano, tira su le gambe e si accuccia nell’angolo più lontano del sofà, stringendo le ginocchia al petto come un bambino piccolo.
- Voleva passare a prendermi. – mi informa atono, - Gli ho detto di restare a casa. Tanto ci vediamo domani. Non mi va proprio di vederlo adesso.
Sorrido lievemente.
- Ma se gli hai appena detto che non volevi lasciarlo e ti sei scusato per aver litigato qualcosa come tremila volte?
Bill si stringe nelle spalle, evitando il mio sguardo.
- Non mi va lo stesso di vederlo. – borbotta, - Scusa, lo so che dovrei dormire. Non ci riesco.
Annuisco.
- Ha chiamato tuo fratello. – lo informo con falso disinteresse, - Era preoccupato.
Bill aggrotta le sopracciglia, contrariato, e stringe con più forza le braccia intrecciate sotto le ginocchia.
- Mio fratello continua a sbagliare i tempi. – asserisce cupo, - Dovrebbe smetterla. Se sapermi in giro lo preoccupa tanto, perché non la pianta di costringermi ad andarmene?
Bill non sa – o non si rende conto. O non vuole capire – che l’intenzione di Tom è del tutto diversa. Bill non sa che Tom rinuncerebbe a qualsiasi cosa, per convincerlo a rimanere con lui per sempre. Bill non lo sa. Bill non se ne rende conto. Bill non vuole rendersene conto.
- Voleva che ti riferissi qualcosa. – dico, quasi lasciando sospesa la frase, solo per osservare la sua reazione. Bill solleva il viso e mi guarda: gli occhi spalancati e luminosi, le labbra socchiuse, sul volto un misto di ansia, felicità e paura che renderebbe chiaro perfino al più stupido che cosa sta aspettando di sentire. – Non mi ha detto cosa, però. – Bill abbassa lo sguardo. Si morde un labbro. Sospira pesantemente. – Ma ha aggiunto che te l’avrebbe detto lui stesso. – concludo.
Anche Bill conclude, sì. Di respirare.
Gli poso una mano sulla spalla.
- Ehi. – cerco di richiamarlo, preoccupato, - Stai bene?
Lui annuisce ma non risponde.
È un terrore giustificato, il suo. È anche il mio terrore. È il terrore di tutti tranne che di Tom, che si sta gettando contro questo disastro a testa bassa, neanche fosse l’unica soluzione possibile.
Bill – io. Bushido, forse, perfino lui – sa che è solo questione di tempo. Che prima o poi Tom dirà o farà qualcosa di talmente inequivocabile che, a quel punto, non potremo fare più niente per nasconderlo. Non ci saranno luoghi in cui scappare né bugie da orchestrare ad arte. Saremo solo noi di fronte al disastro. Con la speranza di sopravvivere. Con la certezza di soffrirne.
Bill ha paura. Bill ha ragione.
Tom, però, è innamorato. E chi potrebbe dire che ha torto?
*
Quand’ero più giovane, io volevo fare lo psicologo. Credevo di avere un vero e proprio talento per capire le persone. Credevo fosse un dono. Ne andavo perfino orgoglioso, perché mi aveva aiutato tanto in svariate occasioni della mia vita – non ultima il divorzio dei miei genitori, per non parlare di quello che ne seguì.
Credevo fosse un dono e lo credevo per davvero.
Naturalmente mi sbagliavo. Capire gli altri è evidentemente una punizione per un qualche tragico errore in una vita precedente. Quando capisci gli altri – cosa si muove nelle loro teste, i dolori che agitano le loro anime, le ansie che bloccano il battito dei loro cuori – ti precludi per principio qualsiasi possibilità di odiare qualcuno. Di riconoscergli una qualche crudeltà gratuita priva di movente. Di percepirne le assurdità.
Giustifichi tutto. Comprendi tutto. Assolvi tutto.
Io, purtroppo, non mi sono fermato a comprendere le ragioni di Bill, no. Per quanto sia sbagliato e controproducente – nonché vagamente irrazionale – comprendo anche le ragioni di Tom. Tom che, forse, è quello che ha più ragione di tutti – ma tutto il mondo contro. Anche se solo in prospettiva.
Tom è sempre stato così, per dire la verità. È per questo che insisto col fatto che dovevamo aspettarcelo. Tom non è cresciuto negli intenti, è cresciuto solo in intensità. Cioè quello che prova oggi è identico a ciò che provava ieri. Il problema è che è dannatamente più intenso. Mille volte più intenso. Perché fra ieri ed oggi ci sono state mille notti di silenzio. Mille notti in cui ha potuto semplicemente rimanere a pensare.
Pensare fa male.
Tom ha una fama che non gli rende giustizia. A lui piace passare per un puttaniere, davvero, gli piace un sacco. Forse gli piace proprio perché, se lascia che il mondo pensi il suo unico interesse sia portarsi a letto le groupie, allora il mondo non sospetterà mai nemmeno per sbaglio che il suo interesse reale sia un altro. A volte la mente usa meccanismi simili – sciocchi, subdoli, sostanzialmente inutili – per illuderti di stare facendo tutto il possibile per proteggerti.
In realtà sei nudo sotto un fuoco incrociato di domande sempre più pressanti.
Tom, alle domande su suo fratello, risponde né più né meno che come un innamorato. E lui lo sa.
Bill ha cominciato ad accorgersene, finalmente.
Noialtri… all’inizio l’abbiamo presa perfino con un certo orgoglio. “Guarda come l’abbiamo istruito bene. Guarda con che scioltezza risponde. Guarda che bel lavoro sta facendo. Guarda come s’ingrazia le fangirl”. C’era davvero di che essere orgogliosi.
Però, chiaramente, quando abbiamo visto che continuava a ripetere le stesse identiche cose pure in privato, abbiamo cominciato a nutrire seri dubbi sull’artificiosità di quanto aveva detto – nonché diversi altri dubbi su quanto avesse appreso dai nostri insegnamenti, ovviamente.
A lungo andare, l’ha capito pure Bill. Bill che, per contro, continua a non capire un accidenti di se stesso. O forse io sbaglio, vedo cose che non esistono e traggo conclusioni affrettate dal poco che conosco.
Ma, sinceramente, ne dubito.
Se mi sbagliassi, ovviamente, Bill non scapperebbe costantemente di casa per evitare proprio quella rivelazione lì. Quella che cambierebbe le vite di tutti.
Se mi sbagliassi – se non fosse esattamente come penso – Bill non avrebbe scelto Bushido nel disperato tentativo di porre Tom di fronte ad una sfida insostenibile – “non vorrai davvero cominciare ad odiare me, che sono tuo fratello, e lui, che è uno degli artisti che rispetti di più in assoluto?” – nella speranza di tenerlo a bada ancora per un po’ – fallendo miseramente, ma non poteva sospettarlo.
Se mi sbagliassi, nessuno dei drammi che ho già prefigurato così chiaramente nella mia testa avrà mai luogo, e Bill sarà autorizzato a darmi del cretino senza aspettarsi rappresaglie punitive, quando glielo racconterò.
Il punto, però, è un po’ diverso.
Il punto è che, se io mi sbagliassi, non si spiegherebbe un accidenti di ciò che sta succedendo.
Tom, a volte, picchia suo fratello. Io capisco perché lo fa. Bill dice di no, ma mente. Tom fa così, prende e gli tira un pugno. È la furia repressa, la gelosia, il senso di mancanza che avanza rispetto al senso di un’appartenenza che si sfalda giorno dopo giorno. Vedo arrivare Bill a notte fonda con certi lividi che fanno paura. E, se io mi sbagliassi, questa rabbia non avrebbe senso. Queste fughe notturne da un lato all’altro dalla città, queste fughe che si concludono qui, nel mio letto, a piangere sul cotone bianco finissimo, non avrebbero senso. Bushido non avrebbe senso – non avrebbe il minimo senso, davvero.
Ho provato a chiederlo a Bill. Ho provato a capire se se ne rendesse conto.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con tuo fratello?”, e lui ha risposto “mi fa male”.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con Bushido?”, e lui mi ha risposto che quando stanno insieme si sente al sicuro.
Lui forse non lo capisce. Lui forse si rifiuta di capirlo.
Io non ho rifiutato mai niente. Io capisco tutto sempre troppo bene. Troppo, troppo bene. Tanto bene che a volte rinuncerei volentieri al privilegio.
Il punto è che a scappare all’infinito non perdi niente. Bill tiene fra le mani Bushido – che s’è ritrovato letteralmente addosso un’anima da salvare. Scommetto che dev’essere dura, durissima – e tiene sulla corda suo fratello. Tom sta impazzendo e Bushido sta perdendo la testa.
Bill non ha nessuna colpa, di tutto questo.
Non ha neanche fatto niente per fermarlo, però.
E questo è un dannato problema. Per tutti.
- Bill. Adesso dovresti proprio andare a letto.
Bill si morde un labbro e stringe ancora di più le ginocchia al petto.
- Posso restare a dormire qui…?
- Stai già restando a dormire qui.
Scuote il capo.
- No, dico… qui. Sul divano. Dico con te.
Sospiro.
A quanti altri sarebbe capace di aggrapparsi pur di sfuggire all’amore della persona che ama?
- Vai a dormire. Nel letto ci sono le lenzuola che ti piacciono tanto.
*
I Kaulitz sono sempre stati strani.
I Kaulitz sono sempre stati anche un po’ stronzi, devo dire.
Quando sei come Bill e Tom – quando, cioè, hai un te stesso che ti completa in tutto e per tutto – è facile rinchiuderti in una sorta di bolla in cui, oltre all’altra metà di te, non esiste nient’altro. Perciò tutto il resto perde importanza. Tutto il resto non conta. Tutto il resto – pure se è un manager chiaramente in apprensione che cerca da una mattina di capire che diavolo di fine abbiano fatto il suo cantante ed il suo chitarrista – è zero.
Stamattina, Tom mi ha fatto lo scherzetto. Sinceramente me lo aspettavo: la serata di ieri minacciava di essere stata ben più scombinata rispetto a quanto riuscissi ad immaginare – e Bill era davvero troppo troppo triste per non denunciare qualcosa di veramente grave. Sapevo che Tom non si sarebbe sprecato a muovere il culo e venire a lavorare, così come sapevo con certezza che nemmeno Bill l’avrebbe fatto, a meno di tirarlo giù dal letto con la forza e spedirlo in bagno a calci.
Chiaramente, Bill ha passato l’intera mattinata a mordicchiarsi le labbra e telefonare a Bushido. Con la furia del pazzo, davvero. Neanche le labbra fossero Tom stesso e Bushido l’unico che sapesse dove trovarlo.
Tom non ha risposto al cellulare. Non ha risposto a casa. Non ha risposto e basta.
Alle undici e mezzo, Bill ha recuperato la borsa ed ha detto che andava a controllare, senza neanche salutare. È andato da solo. Per la verità avrebbe dovuto chiedere il permesso – o chiedermi di seguirlo – ma non l’ha fatto – nessuna delle due cose – e m’è sembrato assurdo insistere di fronte alla palese realtà per la quale voleva e doveva andare da solo.
Non s’è più fatto sentire, da allora.
Verso l’una ho detto a Georg e Gustav di prendersi il resto della giornata libera. Dubbiosi, loro hanno obbedito, se non altro perché sapevano non ci fosse altro da fare.
Adesso, alle due meno un quarto, io guardo Dave, Dave guarda me e poi sospiriamo in sincrono. Lo facciamo come se fossimo abituati ad assurdità di questo tipo, ma in realtà è una maschera che ci siamo costruiti addosso nell’eventualità che scene simili si fossero davvero realizzate. Cosa che non era mai successa, fino ad ora.
Prendo le chiavi dell’Audi e mi fiondo verso l’ascensore, macino metri di moquette, divoro la strada, arrivo di fronte casa dei gemelli, annullo le distanze spaziali ed in due secondi sono davanti alla porta dell’appartamento. Suono, nessuno risponde. Tiro fuori il mazzo cumulativo dalla tasca del giubbotto. Cerco il doppio delle chiavi. Ce l’ho? Ce l’ho. Apro.
Bill è seduto sul divano.
Inequivocabilmente solo. Inequivocabilmente immobile. Inequivocabilmente disperato.
Mi avvicino, guardandomi intorno con aria smarrita.
- Bill… dov’è Tom?
Fa spallucce.
- Bill?
- Non c’era. Non lo so. Se n’è andato.
Annuisco.
Potrebbe essere una cosa momentanea. Potrebbe essere uscito a comprare le sigarette – solo? Senza Saki, David? Quanto lo ritieni stupido? – potrebbe tornare da un momento all’altro. Magari mi sono davvero sbagliato, ho montato un casino sul nulla ed in realtà non è successo niente. Magari torna.
- Ha lasciato un biglietto?
Tremo, nel chiederlo. Tremo perché in realtà i gemelli sono sempre stati pure un po’ melodrammatici, nelle loro manifestazioni, e quindi non mi stupirebbe – non mi stupirebbe affatto – una bella lettera d’addio con tanto di confessione finale.
Bill, però, scuote il capo.
- No. – risponde con una voce talmente lontana e spaventosa da non sembrare neanche la sua.
Mi siedo al suo fianco e gli poggio una mano sulla spalla. Non so se per consolarlo o per avere una prova della sua presenza fisica accanto a me. Non è importante. Bill serra le labbra e sopprime un singhiozzo, ma non dice una parola di più.
Siccome capisco sempre tutto troppo bene – accidenti a me – capisco anche questa volta. Bill si sta pentendo non so quanto – non lo sa neanche lui, temo – di tutte le fughe ed i litigi degli ultimi mesi. Si sta pentendo di essere sfuggito alla confessione di Tom, così come di averne ignorati uno dopo l’altro tutti i segnali. Si sta pentendo di non aver reagito alle botte e si sta pentendo di essersi nascosto fra le braccia di un uomo che, poverino, non ha la minima idea della cosa dalla quale Bill lo accusa di proteggerlo – o almeno credo. Si sta pentendo di essere venuto a dormire da me. Invece di tornare qui. Da Tom. Che voleva solo sentirgli dire “Va bene, Tomi. Dimmelo. Lo accetterò comunque. Ti accetterò comunque”.
Tom, dal canto proprio, è stato gentilissimo. Bill non voleva sentire la sua confessione? Ebbene, non l’ha sentita. Né ad alta voce né affidata alle premure di un foglio troppo scarno per contenere davvero tutto ciò che la motivava.
Io lo so cosa si sta dicendo Bill in questo momento. Si sta ripetendo in una cantilena parole che ha scritto da sé. Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello. Era anche quella una confessione, anche se con intenti tutti diversi. Quando l’hai scritta, te lo aspettavi? Lo sapevi già? Lo sospettavi, almeno?
Bill, ancora al mio fianco, si accartoccia su se stesso come fa sempre quando il peso della situazione che sta vivendo sembra del tutto insostenibile ed ingiusto. Stavolta – rispetto alle mille volte in cui l’ha fatto per capriccio – non ha nemmeno torto. Mi chino su di lui e cerco di abbracciarlo. Non è facile, perché lui non vuole essere abbracciato.
- C’è qualcosa che posso fare? – chiedo, quando il senso di colpa torna a pungere fortissimo sotto le ciglia.
Bill scuote il capo. Poi si ferma e dischiude le labbra.
- Voglio vedere Anis. – bisbiglia confusamente, - Però non voglio chiedergli di venire. Lo chiami tu per me?
Per un attimo, non so che fare. Vorrei sinceramente rispondere “non mi pare la soluzione migliore, Bill”. Poi, però, cambio idea. Bill è scappato fino ad adesso, anche se non era giusto lo facesse. Adesso che, però, anche Tom s’è deciso per la fuga, a Bill non si può proprio più togliere il diritto di niente.
Se vuole scappare in eterno, che lo faccia.
Se vuole provare a rialzarsi dalle proprie macerie, io lo aiuterò.
Se vuole dare a tutti noi una possibilità per cercare di risolvere questa situazione, io sono d’accordo.
Lentamente, allungo un braccio verso il tavolo. Recupero il cellulare. Cerco in rubrica il numero di Bushido.
- Pronto? – risponde lui, un po’ incerto.
- …salve. – deglutisco io, dopo un attimo di confusione. Non so mai come parlare, quando si tratta di lui. – C’è un problema… - lo informo vagamente, - Potresti venire qui a casa di Bill?
Lui non focalizza immediatamente. Di sicuro ha trovato strano che io mi riferissi a questo appartamento come “casa di Bill”. Lo capisco, l’ho trovato strano anche io. L’ha trovato strano anche Bill, che ora si raggomitola contro il mio fianco e comincia a piangere nel modo silenzioso e disperato dei dolori assoluti, stringendo un lembo della mia maglietta come avesse paura di scivolare giù dal divano.
Bushido lo sente.
- Arrivo fra dieci minuti. – mi informa spiccio, prima di chiudere la conversazione.
Poso il cellulare e mi volto verso Bill – adesso sì, adesso vuole essere abbracciato; tende le braccia, singhiozza pesantemente… adesso vuole un abbraccio.
Lo accontento. Lo so che non sono quello che vuole. Né quello che gli serve.
Al momento, però, non è importante.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Anis Mohamed Youssef Ferchichi è totalmente pazzo. Ecco perché.
Note: È una cretinata che mi ha ispirato ieri sera una chiacchierata su MSN con Lost White XD Parlavamo dell’eroismo del Bu e lei mi ha detto che, se lui fosse stato davvero un eroe, sarebbe andato fino in Messico a rapire Bill per il suo compleanno XD Da qui è nata una gioiosa battuta che faceva più o meno così:
Bu: *con aria eroica* Andiamo!
Bill: *con aria preoccupata* Aspetta, Bu, devo prendere il beauty…
Bu: *scioccato* Sono in volo da ventiquattro ore e tu pensi al beauty?! D:
Ovviamente poi la battuta me la sono completamente dimenticata e, una volta arrivata alla fine, mi sono accorta che non c’entrava più niente con quello che era venuto fuori “XD Io sono palesemente fuori come un citofono (cit. Tab <3).
Comunque. Questa storia è il fluff. Ed io la amo per una serie di ragioni idiote, tipo il fatto che l’ho scritta in un’ora “XD
Il titolo è preso da una canzone del Bu u.u Significa “momento, attimo, istante”. <3.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
AUGENBLICK

- Atze… tu sei completamente pazzo.
Bushido non saprebbe come giustificarsi. Cosa dire o cosa fare. Pertanto, non dice e non fa niente, a parte restare a fissa le punte di un paio di mocassini marroni che – ricorda solo in questo momento – Bill odia. Non avrebbe dovuto metterli. Potrà cambiarsi nel bagno dell’aereo, magari?
- Ma mi spieghi cosa diavolo ti sei messo in testa?! – Saad continua a parlargli nell’orecchio come se lui lo ascoltasse davvero, - Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido scrolla le spalle e recupera da terra lo zaino che ha preparato in fretta e furia. Lo apre, rovista metodicamente all’interno, cerca il sacchetto con le scarpe, lo trova. Le nike beige. Non ricorda se a Bill piacciano. Almeno non sono gli altri mocassini, quelli neri: Bill li odia perfino più di quelli marroni, dice che lo fanno sembrare frocio.
Quando Bill dice cose del genere, la faccia di Bushido si trasforma sempre nell’espressione fisionomica di un punto interrogativo. Non sa se dovrebbe chiedersi prima “ma cosa ci faccio io con lui?” o “cosa ci fa lui con me?”. In genere, non ha tempo di chiedersi un bel niente: Bill ride del suo sgomento e lo bacia con forza. Bushido ama i baci di Bill perché non somigliano affatto a quelli delle femmine.
Ed in effetti questo dovrebbe turbarlo, forse.
- Anis, Cristo santo, è un viaggio di ventiquattro fottute ore! E tu hai una biografia ed un singolo in uscita fra una settimana, cazzo, Mirko andrà fuori di testa! – continua Saad, rosso come un pomodoro. Bushido ridacchia: suo cugino è pallido come una mozzarella, e quando si arrabbia è una delle cose più comiche del mondo. – Non avrai intenzione di cambiarti le scarpe adesso?! Perché vorresti cambiarti le scarpe?!
- No… - mormora, posando nuovamente il sacchetto nello zaino. Sono le prime parole che dice da quando sono partiti da casa, - No, non le cambio. – specifica.
- Okay. – annuisce Saad, palesemente esasperato, - E tutto il resto?
- Quale resto?
- Il resto delle cose che ho detto!!!
Bushido scrolla ancora le spalle perché non se le ricorda.
- Andrà tutto bene. – butta lì a mo’ di rassicurazione.
Saad scuote il capo e sospira pesantemente.
- Atze… - ripete con aria rassegnata, - Tu sei completamente pazzo.
*
Alle dieci a trentacinque di sera del trentuno agosto, Bushido siede su uno scomodo seggiolino dell’aeroporto di Madrid ed aspetta l’aereo dell’una e venti, quello che lo porterà a Città del Messico.
Ha cambiato le scarpe, ma non sull’aereo, perché l’hostess continuava a guardarlo male. Avrebbe voluto urlarle che non se l’era scelto lui l’aspetto da terrorista talebano, poteva anche risparmiarsi, la stronza, di farlo sentire così fottutamente a disagio. Per qualche motivo, sembrava pronta a saltargli addosso e stordirlo con un colpo in testa al primo movimento sospetto. Alzarsi per andare in bagno sarebbe stato un movimento sospetto, forse, perciò Bushido è rimasto seduto al proprio posto, senza scomporsi, fissando il vuoto e, ogni tanto, l’odiosa hostess, nel disperato tentativo di far passare il tempo.
Cambiare le scarpe è stata la prima cosa che ha fatto una volta sceso a Barajas. S’è infilato nel bagno degli uomini, ha sfilato i mocassini ed ha resistito all’impulso di buttarli nel cestino della carta straccia. Ha recuperato le nike, le ha indossate, ha deciso che non stavano bene coi jeans che indossava e che comunque faceva troppo caldo per tenerli ancora, perciò ha tolto anche i jeans ed ha infilato i pantaloni neri corti al ginocchio.
La maglietta blu ci stava sopra uno schifo. Ha messo via anche quella e ne ha recuperata una bianca. S’è chiesto se avesse portato altro, in caso si fosse sporcato in qualche modo ed avesse sentito il bisogno di cambiarsi, ma poi ha scrollato le spalle, s’è dato del cretino ed è tornato in sala d’aspetto.
Mentre attende, l’eco della voce di suo cugino riaffiora alla sua memoria, e si rende conto che, in effetti, di tutta la miriade di stronzate che Saad ha detto a Berlino, qualcosa ha registrato.
Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido non ha una giustificazione, per questo. Se suo cugino glielo chiedesse di nuovo, in questo momento, risponderebbe “Bill al telefono sembrava triste”.
È felice che suo cugino non sia lì per chiederglielo.
*
La conversazione fra lui e Bill s’è svolta più o meno in questi termini.
“Che fai?”, ha chiesto Bushido.
“Dopodomani faccio il compleanno”, ha risposto Bill.
“Lo so”, ha ribattuto lui, “Non c’è bisogno che me lo ricordi”.
Bill ha sospirato.
“Non si sa mai”.
Bushido ha aggrottato le sopracciglia e, per nessun motivo in particolare, ha guardato l’orologio.
Probabilmente ha deciso in quel momento. Comunque non se n’è accorto.
Il respiro di Bill s’è fatto un po’ più affrettato.
“Mi manchi…”, s’è sentito sussurrare piano, ed è stato come sentirselo scivolare sulla pelle.
Ha deglutito con forza.
“Ti senti bene, Bill?”, ha chiesto, vagamente preoccupato.
“Mi manchi e basta”, è stata la secca risposta del ragazzo, “Sono solo, sai? Tomi non dorme in camera con me, oggi”.
“Che tragedia”, ha risposto con un mezzo ghigno.
Bill ha ridacchiato.
“A te manco?”.
Bushido s’è inumidito le labbra.
“Sì.”
“Vorrei che fossi qui, adesso”.
Fruscio di lenzuola. Respiri affaticati.
“Anche io, piccolo”, ha annuito, facendosi scorrere addosso una mano ed immaginando fosse quella di Bill.
Probabilmente aveva già deciso, prima di quel momento. Ma è stato con quella fantasia in mente che ha prenotato il biglietto aereo, tre quarti d’ora dopo.
*
Jost ha un momento d’esitazione, quando sente la sua voce al telefono.
- Disturbo? – chiede educatamente Bushido, cercando di trovare un cantuccio riparato dalle millemila voci dei turisti che affollano l’aeroporto di Città del Messico.
- No, non… Bushido? – chiede David con aria scioccata, ed Anis può immaginarlo perfettamente stringere isterico il cellulare fra le dita, come fa sempre quando qualcosa di totalmente inaspettato arriva a sconvolgere la sua tranquillità.
- Già. – ridacchia, - Senti, una cosa veloce: volevo solo sapere dove alloggiate, così-
- Ma dove sei? – è la naturale domanda del manager, più motivata da un certo amore per l’efficienza e la praticità che non da pura sorpresa.
- Al momento, all’inferno. – risponde Bushido con uno sbuffo esasperato, - Allora? Prendo un taxi o mandi qualcuno a prendermi?
David sospira.
Ed ha un altro momento d’esitazione quando se lo ritrova davanti, di fronte all’uscita passeggeri dell’aeroporto.
- Dio santo… - commenta impietoso, - Sei uno straccio. Da quando sei in volo?
- Per come mi sento adesso, suppongo che dovrei rispondere “da quando sono nato”. – borbotta, - Non hai detto niente a Bill, vero?
David sorride, aprendogli lo sportello della macchina.
- Sono un uomo molto romantico.
*
Il JW Marriot è un hotel a cinque stelle ma fa schifo. È organizzato male, incasinato e, già a guardarlo da fuori, non sembra molto altro che un blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti. Bushido odia gli alberghi pseudo-moderni come questo: a lui piacciono le regge; non è Re mica per niente.
Comunque, all’interno di questo osceno blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti, c’è Bill. Tanto basta per ignorare l’orrore estetico che suscita e passare oltre.
Jost si muove perfettamente a proprio agio fra gli intricatissimi corridoi della struttura, e saluta gente a caso, spandendo sorrisi a destra e a manca come dovesse vendere i Tokio Hotel ad ogni messicano che incontra. Bushido crede che il piano base sia questo, ma cerca di non pensarci perché gli viene troppo da ridere.
- A Bill verrà un colpo. – commenta il manager, indicando una stanza in fondo al corridoio.
- Non se lo aspetta? – chiede Bushido con un mezzo sorriso.
David lo guarda enigmatico.
- Tu te lo aspetteresti, da te stesso?
Bushido guarda altrove.
In effetti no.
*
Le prime parole che sente entrando nella suite, sono di Bill.
- David, finalmente sei tornato! – si lamenta, con la solita voce piagnucolosa di quando qualcuno gli fa un torto assolutamente idiota che lui però prende come peccato capitale, - Tomi è uno stronzo, non mi ha fatto il regalo!
- Bill, voi non vi fate mai regali. – cerca di calmarlo David, mentre Bushido comincia a sentirsi talmente fuori luogo che preferirebbe rifare tutti i corridoi al contrario e perdersi in quello schifo d’albergo altre centomila volte, piuttosto che entrare e salutare come si deve.
- Ma i diciannove anni sono diversi! – strilla Bill, Bushido ancora non può vederlo ma sa che deve avere addosso l’espressione più carina del mondo. – Sono gli ultimi prima dei venti! Da qui in poi smetterò di crescere e comincerò ad invecchiare! È drammatico!
- Come sei insensibile. – borbotta Tom, stravaccato su un divano che, per come lo vede Bushido, dall’angolo ombroso in cui aspetta il coraggio di farsi notare, varrà almeno il doppio di quanto non valga il chitarrista stesso, - Non dire queste cose a David, che poi si sente un rottame.
Anis sospira e stringe i pugni.
Prima o poi dovrà buttarsi e basta, no?
- Già. – concorda entrando finalmente nel salottino, - Io, per dire, mi sento ancora nel pieno delle mie forze.
Il silenzio cala glaciale su tutte le tre stanze che compongono la suite.
Tom spalanca gli occhi e sul suo viso nasce un sorriso irridente che costringerebbe Bushido ad arrossire, se non avesse dimenticato come si fa anni ed anni addietro.
Lentamente, come in un vecchio film romantico, Bill porta una mano alle labbra e singhiozza con forza.
- Sorpresa. – dice Bushido con un mezzo sorriso, - Neanche io ho portato un regalo. Posso restare lo stesso?
Bill si alza in piedi con un movimento fulmineo che, considerata la sua abilità pressoché nulla nel gestire le proprie reazioni corporee, è comico all’inverosimile. Si sbilancia, sembra sul punto di cadere, Bushido fa per sorreggerlo ma non ne ha bisogno, perché Bill si mette letteralmente a saltellare su una gamba, recupera l’equilibrio e poi gli corre fra le braccia, saltandogli addosso con tanto impeto da lasciarlo quasi steso a terra.
David – Bushido lo nota appena – fa un cenno a Tom, che borbotta qualcosa sull’andare a rompere le palle a Georg, e poi i due abbandonano la stanza senza una parola di più.
Bushido stringe le braccia attorno alla vita sottilissima di Bill.
Bill singhiozza.
- Oddio, come hai fatto… - pigola contro il suo collo. Non è una domanda, perché Bill non cerca mai risposte, da lui. È una constatazione sconvolta.
- Avevi voglia di vedermi, no?
Bill lo pizzica forte dietro la nuca.
- E tu no? – chiede lamentoso.
Bushido si scosta un po’ e lo bacia sulle labbra.
- I diciannove anni ti donano. Sei carino.
Bill arrossisce come una liceale e scuote il capo, tornando a nascondersi contro il suo petto.
- Non ho chiuso occhio, stanotte, devo essere impresentabile.
Bushido gli fa scorrere una mano sotto la maglietta, sulla schiena, sul ventre, sulle braccia. Non è un atto sessuale, ha solo voglia di sentirlo sotto i polpastrelli. Bill fa lo stesso, ma Bill è più romantico di lui, perciò non lo fa con le mani ma con le labbra. Lo bacia sotto un orecchio, lungo il profilo della B tatuata sul collo, sul mento, sul pomo d’Adamo.
- Io ti trovo bene. – commenta Bushido, stringendolo tanto forte da avere quasi paura di romperlo.
Bill non si lamenta.
Ogni tanto Bushido dimentica quanto Bill sia forte. Ricordarlo in questo modo è effettivamente molto bello.
- Questo posto, comunque, fa schifo. – riprende il controllo Bill, separandosi da lui e tirandolo per una mano verso il letto, - Toh, senti. – borbotta, spingendolo sul materasso, - Ti pare morbido?
Bushido piomba sul materasso con un tonfo sordo e comincia a ballonzolarci su in un gesto che fa ridere Bill in maniera incontrollata.
- Non è malaccio.
È morbido davvero.
Bill sbuffa.
- A me non sembra.
Bushido gli lascia scivolare una mano lungo il braccio – dalla spalla in giù – e poi lo stringe delicatamente per il polso.
- Non l’hai provato per bene. – argomenta, tirandolo verso di sé.
Bill sorride e si lascia trascinare.
- Convincimi. – concede.
Qualche ora più tardi, quando si sveglieranno, Bill lo accoglierà con una battuta che Anis non dimenticherà tanto facilmente.
Tu dovresti vendere materassi.
La cosa lo riempirà d’orgoglio, di divertimento e di tutta un’altra serie di cose che non è necessario dire ad alta voce.
Per il momento, la sua testa è piena solo di Bill e di un tanti auguri che, più che detto, va mostrato. In fondo, è per questo che è volato fino in Messico, no?
“Atze…”, borbotta Saad nella sua testa, prima che lui riesca finalmente a dimenticarlo del tutto, “Tu sei completamente pazzo”.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Storia di una relazione e del malinteso più enorme e fustrante di tutti i tempi XD
Note: Okay, io amo questa storia XD Prima di tutto, il titolo: in realtà la canzone di Bushido da cui è tratto e di una tristezza immonda XD Ma tutte o quasi le canzoni di quell’uomo sono di un deprimente colossale, perciò non c’è niente di cui stupirsi °-° Comunque sia! In realtà all’inizio voleva essere usato in modo molto lol e basta, però alla fine la storia stessa è un po’ più seria di quanto avessi preventivato (sebbene io la trovi comunque molto divertente e basta XD). Comunque vuol dire “quando un gangster piange”. Capite, è ridicolo X’D
Comunque è_é Dicevo, a me questa storia piace tanto, anche perché è un concentrato di cose che amo. C’è perfino un po’ di sano adorabile twincest fasullo! XD Non è la cosa più carina del mondo, Tomi che bacia Billi sul neo sotto il labbro? *____* *abbraccia i gemelli*
Okay, basta, c’è Yul che è curiosa di leggerla XD Spero vi sia piaciuta :*
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WENN EIN GANGSTER WEINT

Ho smesso molto tempo fa di credere che la vita potesse essere un insieme di certezze. Anzi, in realtà non l’ho mai creduto, perché fin da piccolo ho sempre saputo che nella vita la certezza è proprio l’ultima cosa che uno possa aspettarsi. È certa solo la morte, dicono alcuni, ma potrei avere da ridire. Se così fosse, io sarei morto qualcosa come un centinaio di volte. Il fatto io sia ancora in piedi dimostra piuttosto chiaramente che no, nella vita non c’è proprio niente di certo, e neanche nella morte.
Per dire, all’asilo tutti i miei compagni di classe avevano una mamma ed un papà. Alcuni papà o alcune mamme erano andati via di casa e vivevano altrove, ma continuavano ad esistere, prendevano i loro figli nel weekend e li portavano al parco, facevano loro splendidi regali eccetera eccetera. C’era anche un bambino il cui padre non c’era più, perché era morto. Ma prima di morire c’era stato. Ed il bambino ne parlava sempre come un eroe.
Mio padre, invece, non era proprio mai esistito. Il tunisino che mi aveva dato il colore della pelle, i lineamenti duri e rozzi e gli occhi scuri da arabo, nonché il nome più lungo che ricordi d’aver sentito a memoria d’uomo, svanì come uno sbuffo di fumo prima che io venissi al mondo. Mia madre non me ne ha mai parlato meno che rispettosamente – in un estremo tentativo di non riempirmi d’odio fin da piccolo, suppongo – ma la cosa non aiutò: penso di essere nato arrabbiato.
Comunque sia, mio padre non c’era. I padri degli altri, sì. Eppure io un padre avrei dovuto averlo. Ero nato, no? Ero vivo. Un padre doveva esserci. E invece non c’era. Prima certezza svanita.
Seconda certezza che mia madre aveva cercato di inculcarmi a forza nella testa: il mondo è un posto buono. Tempelhof non era male, a guardarla in cartolina. Lei mi portava lungo il canale di Teltow, mi mostrava le papere e rideva quando mi arrabbiavo perché non mangiavano le foglie che tiravo nell’acqua. Era il suo modo per farmi vedere che c’era anche qualcosa di bello, in giro per il mondo.
Poi però in prima la signora Keller – una donna talmente stronza e razzista che, al suo cospetto, pure il vecchio Adolf sarebbe sembrato un chierichetto – mi disse che dovevo, appunto, fare il bigliettino della festa del papà. Ritagliare il cartoncino con tanto di fottuto bordo a zigzag, scrivere ich liebe dich papa, ricoprire di colla, spargere la porporina e disegnare una pipa da colorare di marrone.
Sollevai lo sguardo, la troia mi guardava talmente schifata da far venire la nausea perfino a me. Le dissi “ich habe keine papa” e cercai di non mostrarmi furioso com’ero. Ero uno scricciolo alto un metro e ribollivo rabbia come una pentola a pressione. Lei batté due grosse ed arcuate dita smaltate di rosso sul cartoncino bianco e rispose che dovevo fare esattamente quello che facevano tutti gli altri miei compagni di classe. “Perciò fai il tuo biglietto della festa del papà, Anis”.
Pronunciò il mio nome con un tale disgusto che cominciai ad odiarlo. Anis non sarebbe stato tanto male come nome per un rapper, ma quando cominciai a rappare lo odiavo già così tanto che di pseudonimi me n’ero scelti altri due.
Vedete, non è certo neanche il nome, nella vita di un uomo.
Risultato: non avere nessuna certezza è proprio uguale ad averne troppe; non ti stupisci più di niente.
Quando Bill Kaulitz è entrato di prepotenza nella mia vita – in maniera molto più consistente rispetto a quanto non fossi già entrato io nella sua, peraltro – perciò, io non mi sono affatto stupito.
*
Cassandra fa girare il ghiaccio del proprio drink, giocando con la cannuccia rosa. Le lunghe unghie trasparenti terminano con una french bianca che mi ricorda Bill. Accidenti a me.
- Quindi il ragazzino torna domani dopo… quanto? Una ventina di giorni?
Ventidue, per la precisione. E comunque, per le relazioni appena cominciate, anche solo una settimana è già tantissimo.
- Sì, all’incirca.
Lei ride e beve un sorso del proprio Martini.
- È così palese che non vedi l’ora, Bu… sei comico da morire!
Aggrotto le sopracciglia ed affondo nella mia virilissima Berlinerweiße.
- È tutto a posto. Doveva lavorare.
- Certo. – ride lei, - È anche ligio al dovere, questo ragazzino. Mamma mia, scommetto che riuscirà nell’impresa nella quale hanno fallito tutte tranne una.
- …sarebbe?
- Farsi sposare, è ovvio! – conclude con una risata, trattenendo un cubetto di ghiaccio fra i denti.
- Prima di tutto, in Germania il matrimonio omosessuale non è consentito…
- Non ancora. – cinguetta lei, - Ma le unioni civili sì!
- Secondo poi, - proseguo ignorandola, - non parliamo di matrimonio. Io ho chiuso. Anzi, non sono mai stato sposato.
- Questo puoi negarlo in pubblico, ma non davanti a chi ti conosce! – mi fa notare in una mezza risatina tronfia, mandando giù un altro po’ di Martini.
Non posso che chinare il capo. Ha ragione.
- In ogni caso, sembra delizioso. – aggiunge con una scrollatina di spalle, - È stato uno zucchero, quando ci hai presentato. E poi ha degli effetti adorabili sulla tua personalità. Ti rende tenero! – faccio per organizzare una protesta dettagliata, dal momento che mi sta assalendo una nausea non meglio identificata, ma lei mi zittisce con un rapido cenno del capo. – Perciò, vedi di non rovinare tutto. Gli uomini rovinano sempre tutto.
- Mi conosci come un tipo che rovina le cose? – chiedo sarcastico, svuotando il boccale.
- Sì! – annuisce lei con una risata allegra, - E comunque, per quanto buono e bravo tu possa essere nei tuoi sogni, sei sempre un uomo.
O quello che ne resta.
*
È assurdo che a dirlo sia io e mi rendo conto possa sembrare uno sciocco espediente per togliersi responsabilità di dosso, ma è vero: è stato Bill a gettarsi fra le mie braccia. Io non avevo pianificato niente del genere. Mi ero limitato a constatare fosse una persona migliore rispetto a quella che pensavo, fine.
Vivere per strada ti insegna un sacco di cose utili – io, per dire, so aprire le macchine per ripararsi dalla pioggia, e senza far scattare l’allarme! – però ti riempie pure di pregiudizi. Ogni tanto mi ritrovo a guardare gli altri con un sorrisetto superiore sul viso, ripetendomi che non valgono niente perché non hanno vissuto esattamente quanto ho vissuto io.
Certe volte ho ragione, altre volte no.
Per quanto riguarda Bill, ero davvero convinto fosse un ragazzino viziato completamente incapace di venire a patti con i sacrifici che non solo il mondo della musica, ma il mondo stesso impone. Ad esempio, quando nel 2006 cominciò a girare quel gossip riguardo il fatto io l’avessi fatto piangere… be’, no, la notizia in sé era falsa perché non avevamo mai davvero fatto un’intervista a due ed io non gli avevo mai chiesto quello che si diceva in giro gli avessi chiesto – non del tutto, almeno – ma quando scherzai sul fatto del pompino mi sarei aspettato che piangesse davvero. Non mi avrebbe stupito, proprio per niente. Era piccolo, sembrava molto, molto montato e per giunta si vedeva lontano un miglio che nel suo entourage lo tenevano sotto una campana di vetro e con molti morbidi cuscini sui quali adagiarsi, perciò diedi per scontato potesse essere un’eventualità plausibile. Neanche mi sentii in colpa, voglio dire, prima o poi qualcuno doveva pur farlo piangere.
Ci incontrammo poi non mi ricordo a che premiazione. Gli chiesi senza mezzi termini se gli fosse passata l’offesa. Non so se fosse sincero quando quel giorno mi guardò, inarcò le sopracciglia e disse che non aveva nulla da farsi passare perché nulla era mai effettivamente cominciato. In ogni caso, la sua sincerità non era il punto. Mostrarsi così tranquillo e disinteressato, nonché disponibile a parlare con me senza schiaffeggiarmi o cavarmi gli occhi, era quello il punto. Era quello il suo merito.
Insomma, il ragazzino, come Cassandra ama chiamarlo, non era poi tanto male. Offrirgli una birra mi sembrò il minimo. Speravo lui la prendesse, non so, come un armistizio. A Tempelhof per firmare gli armistizi ci facevamo favori a vicenda. Una birra era un modo elegante per sottintendere lo stesso concetto, no?
Chakuza me lo disse appena tornai dal bar. “Che fai, Atze, ti metti a discutere coi ragazzini? Guarda che è un problema, non si scollano più”.
Scrollai le spalle e guardai altrove.
Purtroppo, fra me e Bill non è mai stato così semplice. Intendo: ci siamo incollati a vicenda.
*
Dicevo, comunque, fu Bill a saltarmi addosso.
Letteralmente.
Niente di sessuale, chiaro, ma mi saltò addosso lo stesso. Altra premiazione, altre vittorie schiaccianti, altri premi fioccati a destra e a manca per tutti quanti. Per me, per loro.
Erano i Comet del 2007. E no, non sto parlando del modo indecente in cui mi premiò, perché dare la colpa a quello sarebbe troppo semplice. Con quello, Bill dimostrava solo di aver recepito più che bene la lezione e di essere stato indottrinato a dovere. I litigi tirano, ma mai quanto le supposte relazioni. Lo faceva già con suo fratello… farlo con me probabilmente era perfino meno pericoloso, nonché meno straniante.
Non mi prese di sorpresa, non quello, a quello mi adattai subito.
Fu il dopo, che cambiò tutto. Fu un afterparty noioso e stantio dal quale mi allontanai presto, per fare un giro intorno al locale. Fu il momento in cui tornai all’ingresso per rientrare, recuperare la giacca ed avvertire che stavo andando via. Fu la soglia che superai e fu la luce che mi investì e che mi costrinse ad alzare lo sguardo. Su di lui. Che mi rovinò addosso.
- Merda… mi scusi… - biascicò mentre cercava di rimettersi dritto sui piedi. Non trovavo difficile reggerlo – era leggerissimo. Comunque, era divertente che non mi avesse riconosciuto.
- Già ubriaco a quest’ora? – lo schernii con un mezzo ghigno sul quale lui spalancò quegli enormi occhi color cioccolata, confondendomi. Le parole di Chakuza cominciarono a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Nei miei pensieri annoiati e distorti, lo stronzo sorrideva pure. Ma sopra tutto c’erano gli occhi di Bill. “I ragazzini si appiccicano”.
- Non sono ubriaco… - mormorò lui, strascicando le parole, - Ti cercavo.
Non avrei potuto essere più confuso di quanto già fossi, perciò il senso di smarrimento non aumentò. Si fece più ansioso, però.
- Per dirmi…?
Bill si strinse nelle spalle.
- Non lo so. – biascicò, - Prima c’eri, poi non c’eri più. Volevo capire dove fossi andato.
Inarcai le sopracciglia, incerto.
- Perché?
Lui abbassò lo sguardo e si morse un labbro.
- Ti va di fare una passeggiata? – mi chiese invece di rispondere.
- …non hai un altro trentenne a cui chiedere di accompagnarti in giro? Chessò, il tuo manager?
- Non voglio andare in giro con David. – si lamentò con una smorfia. Poi tornò a guardarmi e trasse un sospiro così enorme che il suo petto piccolissimo si gonfiò al punto che temetti potesse scoppiare. – Senti. – balbettò, improvvisamente più lucido, - Non so dove ho trovato il coraggio di chiedertelo. Probabilmente io non ti piaccio, però… è solo un giro, okay? Nulla di compromettente.
Ovviamente mi terrorizzò. Non starò certo qui a negarlo. Non capita tutti i giorni che un ragazzino palesemente ubriaco venga a chiederti una passeggiata notturna. A me, per dire, non era capitato proprio mai. Comunque, non c’era veramente un motivo per il quale dovessi negargli il piacere della mia compagnia – o per il quale dovessi negare a me stesso il brivido caldo di quegli occhi addosso – perciò accettai. Non mi preoccupai neanche di recuperare la giacca. Non faceva neanche freddo.
Bill rimase perfettamente in silenzio, per tutto il tempo. La notte era tiepida e piacevole. C’era una luna stupenda. Lo ricordo perché la sua pelle brillava.
Io non avevo nulla da dire, perciò, piuttosto che riempire i vuoti con stupide battute o frasi fatte, imitai il suo esempio. Lasciai che la passeggiata andasse come doveva. Quando ritornammo nei pressi del locale, suo fratello Tom lo stava aspettando, caracollando nervosamente da un lato all’altro dell’ampio ingresso del club, con quella sua strana camminata da papera. Bill lo vide ed accennò un saluto. Tom lo imitò, ma la sua mano si fermò a mezz’aria quando capì che al suo fianco c’ero io. Lo osservai guardarci interdetto per un lunghissimo minuto, prima di scoppiare a ridere scuotendo il capo e rientrare nell’edificio.
Quando tornai a guardare Bill, era arrossito in maniera indecente.
Supposi dovessero essersi detti qualcosa senza parlare. Ripetevano spesso di essere in grado di farlo, durante le interviste.
- Penso di dover andare. – mi salutò con un breve cenno del capo, - Anche se non mi hai risposto.
Inclinai il capo.
- Dev’essermi sfuggita la domanda. – ammisi.
Probabilmente la mia espressione rifletteva in pieno ciò che stavo pensando. Cioè che mi sentivo molto stupido. In ogni caso, quando Bill tornò a guardarmi, non poté trattenere una risatina che, in teoria, avrebbe dovuto infastidirmi – ma non lo fece.
- Ti ho chiesto se ti piaccio. – rispose a bruciapelo, incrociando le braccia dietro la schiena.
Deglutii.
Probabilmente io non ti piaccio, però…
Sì, lo ricordavo.
Cercai di sorridere.
- Non si fanno domande simili senza rispondere per primi. – cercai di difendermi strenuamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Che vigliacco sei! – rise, dandomi un colpetto sulla spalla, - La mia risposta, comunque, era implicita nella domanda.
Ridacchiai.
- Come sei enigmatico.
- Dunque? – chiese lui, ansioso, lanciando uno sguardo all’ingresso del locale, dal quale Tom era tornato ad affacciarsi sporgendo solo occhi e naso, come una talpa curiosa di esplorare la superficie.
Sospirai.
- Dipende da cosa vuoi sentirti dire. – risposi roteando gli occhi, - Cerchi una dichiarazione d’amore?
Bill arrossì furiosamente e si coprì gli occhi con una mano.
- Possiamo uscire insieme qualche altra volta? – chiese a bassa voce, - Voglio sapere solo questo.
Sorrisi e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, porgendoglielo.
- Lasciami il tuo numero. – risposi, - Ti chiamo io.
*
Sarebbe stato un modo molto figo e molto fascinoso per chiudere la storia, suppongo. Ricordo che rimasi qualche giorno a pensare al numero che mi aveva lasciato, chiedendomi se non potesse trattarsi di uno stupido scherzo da adolescente risentito. Non sarebbe stato impossibile. A diciassette anni, io, appena lasciato il liceo, ero andato a trovare la Keller e l’avevo presa in giro più o meno allo stesso modo. A quei tempi avevo scoperto le gioie del sesso già da qualche anno, ma ero in grado di padroneggiare davvero la questione solo da poco. Il sesso era più che altro un passatempo, ma come vendetta avrebbe potuto dimostrarsi perfino più piacevole.
Andai a trovarla a scuola, all’uscita. Una canottiera ed un paio di jeans strappati addosso – stavo scontando la mia condanna per vandalismo imbiancando i muri di Berlino, in quel periodo. “Frau Keller”, la salutai con un cenno del capo. Lei sussultò – stava assicurandosi che i bambini raggiungessero tutti le macchine dei loro genitori senza intoppi. Appoggiato alla rete del cortile, le braccia incrociate ed il petto gonfio di un orgoglio storto e meschino, io la guardavo, sorridendo sfacciatamente.
Non mi riconobbe. Ciononostante, il colore della mia pelle non sembrò più essere un problema, per lei. Io non mi sprecai a dirle chi fossi nello specifico. Mi presentai come un suo ex allievo, inventai un nome tedesco per confonderla un po’ e, nel complesso, ci provai così spudoratamente da farmi quasi schifo da solo. Il suo petto grasso e flaccido si sollevava ansioso seguendo il ritmo incontrollato nel suo respiro, ed io la guardavo come volessi mangiarla.
Le diedi il mio numero di cellulare. Le dissi di chiamarmi.
Quando mi chiamò, le rispose Fler. Minacciandola di morte. O qualcosa di simile, al momento non ricordo. Fler aveva molto estro, per queste cose. Ricordo comunque con certezza che la chiamò vecchia pervertita. Non riesco ancora a pensarci senza ridere come un pazzo, nonostante tutto.
In ogni caso, fissavo il numero di Bill Kaulitz e continuavo a ripetermi “magari lo chiamo e risponde suo padre che minaccia di denunciarmi. Oppure suo fratello che minaccia di denunciarmi. Oppure il suo manager che minaccia di denunciarmi”.
Alla fine lo chiamai perché il pensiero si stava facendo ossessivo. Continuavo a sognare denunce. Dovevo porre fine a quel circolo vizioso.
Oltretutto, ero vagamente curioso di capirci qualcosa, se non si trattava di uno scherzo.
Ero curioso di…
…be’. Bill Kaulitz è Bill Kaulitz. Non mentivo e neanche esageravo, quando dicevo che, se me l’avesse chiesto, non avrei pensato per più di due secondi alla possibilità di andare a letto con lui. Di cosa fossi curioso è abbastanza intuibile.
Comunque, mentre stavo lì ad arrovellarmi e prospettare lunghi procedimenti legali che si sarebbero conclusi soltanto con una lunga serie di zeri su un assegno, ascoltando con panico sempre crescente il tu-tu nella cornetta del telefono, Bill rispose.
Sospirai di sollievo, e non fu per la mancata denuncia, temo.
- Pronto?
- Ce ne hai messo di tempo a rispondere, Kaulitz.
- …credevo non mi avresti più chiamato.
Suppongo siano le tre battute più abusate della storia del cinema.
In ogni caso, fra noi cominciò così.
Zero certezze. Bill Kaulitz, comunque, aveva già cominciato a stupirmi.
*
Seguì un breve periodo di allegria alla Heidi. Sapete, l’entusiasmo dell’inizio di una relazione. Quello che ti esplode dentro indipendentemente da quanto tu possa rimanere a riflettere sulla possibilità di restare coi piedi per terra eccetera. Non esiste, questa dannata possibilità. Quando t’innamori, voli. Fine.
Tra l’altro, venne fuori che il fratello, all’afterparty, non mi stava platealmente prendendo in giro: rideva perché, già da qualche mese, Bill gli riempiva la testa di “dovrei dichiararmi o no?”. Quando ti senti approvato, voli anche più in alto.
Io e Bill volammo altissimo. Per un bel po’ di tempo.
La mia lunga e lenta agonia è cominciata nel maggio di quest’anno. Con tutti i problemi che Bill ha avuto alla gola – la cisti e tutto il resto – non è stato facile trovare un po’ di tempo per incontrarsi. I paparazzi assediavano l’ospedale, i suoi appartamenti, perfino casa di sua madre. Non c’era proprio modo. Perciò, quando mi ha chiamato al telefono – la voce ancora un po’ rauca ed affaticata – e mi ha detto “posso uscire, ci vediamo?”, mi sono messo a ringraziare un po’ tutti gli dei possibili. In questi casi non importa se ci si creda o meno.
Perciò arrivo sotto casa di Bill e lui è lì che brilla letteralmente. Non so, non era truccato e sembrava femmina quanto me, aveva i capelli appiccicati al viso e schiacciati da una cuffia di lana assolutamente improponibile – soprattutto vista la stagione – un paio di enormi occhiali a coprire metà del viso ed il colletto della giacca tirato su fino al mento. Ma era stupendo.
Non ci penso neanche un secondo, lo afferro per la giacca e me lo tiro contro. Lui mugola un qualcosa tipo “ci vedranno tutti”, io lo zittisco nel modo che entrambi preferiamo per fermare la sua logorrea, lui mugola ancora ma un qualcosa di diverso. Sorrido soddisfatto, lo trascino fino alla macchina, lo porto a casa mia. Lui ridacchia per tutto il tempo, mi racconta cose assurde sulla sua convalescenza per minuti interi, “lo sai che mi hanno infilato in una camicia da notte che era tremenda? A pois, ti rendi conto?! Ero orribile” ed io che sorrido ancora come un deficiente e penso che ad immaginarlo a me sembra una fantasia sessuale niente male anche in una camicia da notte a pois, che dire, sono gusti, e lui parla parla parla ed io sono felice davvero, al punto che quando me ne rendo conto mi do del cretino da solo per non averlo capito prima. Arriviamo sotto casa, lo prelevo quasi di peso, salutiamo la portinaia con un educato cenno del capo, corriamo su per le scale e mi fiondo sulla sua bocca appena varcato l’uscio, chiudendomi la porta alle spalle con un calcio tale da scheggiarla. Ed io sono lì che penso “Dio quanto mi sei mancato” e non so se darmi del deficiente o fustigarmi o godermi il momento, ma lui è lì, sotto di me, sul mio letto, che si fa spogliare e miagola e mi chiama per nome ed io impazzisco, quando mi chiama per nome, e poi a un certo punto lo dice.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Ti amo”.
Dovrebbe essere vietato – assolutamente vietato – dirlo in una situazione simile.
Mi ritrovo seduto sul materasso, di fronte a lui. Indossa solo i boxer ma non ho più nessuna voglia di saltargli addosso. La mia camicia s’è persa non so dove e neanche mi interessa. Lo guardo negli occhi e lui mi fissa di rimando.
Allungo una mano, gli sfioro una guancia, lo bacio sulle labbra e rispondo.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Anch’io”.
Gli si apre sul viso un sorriso fantastico.
A quel punto, se io fossi stato un vero uomo, mi sarei preso ciò che mi spettava e l’avremmo finita lì. Non nel senso che ci saremmo lasciati, nel senso che probabilmente avrei dato il via ad una lunga e soddisfacente relazione sessuale e sentimentale e saremmo stati tutti felici per sempre e bla bla. Ma io non sono veramente un uomo, sono un cretino. È palese. Sono un cretino che si lascia influenzare dalle chiacchiere di un’amica che fa paura, perché dannazione, se una che si chiama Cassandra viene da te e ti dice che rovinerai tutto, tu le credi. Se non le credi sei un pazzo suicida, ecco.
Perciò – Dio, mi rivedo con una chiarezza sconcertante – eccomi lì che lo guardo con l’aria dell’amante appassionato ma dolce e gentile e gli dico “Bill, non devi dimostrarmi niente. Se non sei ancora pronto, aspetterò”.
E lui che sorride.
Tenero come un cucciolo.
Ed annuisce.
Lì ho capito – per la seconda e definitiva volta nella mia esistenza – che, certezze o non certezze, è uguale. Tanto la vita ti smerda comunque.
*
Da quel momento, ho dato per scontato che Bill me l’avrebbe fatto sapere, una volta che fosse stato pronto. Cioè, non mi servivano dichiarazioni pubbliche o altre cose simili tipo “Bu, sono pronto a darti la mia verginità”, mi sarebbe bastato, non so, che mi si arrampicasse addosso mentre guardavamo la TV, o anche solo un accenno, qualsiasi cosa purché fosse un indizio. Anche un indizio fraintendibile! Dopo mi sarei scusato, ma almeno sarei riuscito, non lo so, ad infilargli una mano nelle mutande o convincerlo a farlo a propria volta! Non lo so.
Non sono neanche sicuro di riuscire a spiegarmi. Voglio dire, io lo amo. E lo desidero, cazzo. Per certi versi, pretendere una concessione era un mio diritto. Era un suo dovere darmela, no?
Invece niente.
Lui passava i pomeriggi da me – ed io gli morivo dietro, giuro. Una cosa indecente. Non poteva neanche lavarsi i denti senza che io mi ritrovassi a fissarlo con aria ebete dalla soglia del bagno. Povero ragazzo, devono pure essere stati momenti d’imbarazzo incredibili. Lavava i denti, asciugava lo smalto soffiandoci sopra, pettinava i capelli, sistemava la maglietta, qualsiasi cosa mi faceva venire voglia.
Ma lui non diceva niente. Non si faceva avanti, cazzo. Ogni tanto lo sorprendevo a guardarmi con le sopracciglia aggrottate ed un broncio adorabile sul volto, sembrava ce l’avesse con me. Io mi chinavo a baciarlo – perché non so resistere a quelle labbra – e poi gli chiedevo quale fosse il problema. Lui distoglieva lo sguardo e scuoteva il capo. “Niente”, rispondeva. Non ho fatto che pensare ai suoi “niente”, per tutto il tempo che è stato in tour in America. Probabilmente gli davano fastidio i miei sguardi. Non lo so, a me non avrebbero dato fastidio, anzi, sarei stato felice che lui mi guardasse nel modo in cui io guardavo lui, ma… be’, ho detto che l’avrei aspettato. Devo farlo, no?
No?
*
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Il Berlin-Schönefeld è, come al solito, un incredibile e spaventoso casino. Mi guardo intorno e mi chiedo chi me l’abbia fatto fare. Andarlo a prendere all’aeroporto, Dio. Probabilmente non mi lasceranno neanche portarlo con me. Non avrebbe senso. Io, se fossi in Jost, non lo lascerei andare a casa con Bushido.
In ogni caso.
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Questa è una delle frasi che ricordo con maggiore insistenza, dei miei diciott’anni. È stato un periodo abbastanza incasinato – incasinato più o meno come questo aeroporto, sì – c’era la droga, c’era la fottuta prigione, c’era Fler, c’erano un sacco di cose alle quali ogni tanto penso con rabbia, perché mi hanno rubato tempo, ogni tanto con gratitudine, perché mi hanno reso ciò che sono, ed ogni tanto con tenerezza, perché ero proprio un piccolo imbecille.
Appena finito di scontare la pena per vandalismo, non potendo tornare a scuola, andai a cercare lavoro un po’ ovunque. Cominciai cercando di impiegarmi come operaio da qualche parte. Andavo, facevo il colloquio, lasciavo il mio recapito, incassavo con un sorriso il mio “le faremo sapere” e poi smadonnavo come un posseduto quando arrivava la lettera di rifiuto. Se si sprecavano a farmela arrivare.
Ma sto tergiversando.
Ciò che intendevo dire è che mi capita spesso di sentirmi esattamente in questo modo, quando sto con Bill. Non credo che sia colpa sua – o meglio, non credo che lo faccia apposta. È un senso di disagio che mi prende all’improvviso, quando sono particolarmente frustrato o stanco. Vedo lui, così giovane, così tenero, così… stavo per dire spensierato, ma in realtà Bill non è spensierato, è solo luminoso. Anche quando ha qualche grana per le mani, non perde la sua brillantezza.
Mi sento inadeguato. Solo a volte.
Fortunatamente, poi, succede sempre l’unica cosa che è davvero in grado di farmi sentire a posto con me stesso e con questa relazione. Bill arriva. E mi sorride. Io guardo le sue labbra e i suoi occhi e so che sta sorridendo per me. E tanto mi basta.
- Bentornato… - lo saluto, mentre lui mi vola fra le braccia ridacchiando come un deficiente.
- Non credevo che saresti venuto! – cinguetta aggrappandosi al mio collo e sollevandosi quei due centimetri che gli mancano per arrivare a baciarmi, - Sei fantastico… - mugola piano, abbandonandosi contro di me.
- Sono passato solo a salutarti. – spiego con una scrollatina di spalle, - Immagino tu sia stanco.
- Un po’ sì. – medita con un mezzo broncio pensoso, - Però se vuoi possiamo stare un po’ insieme.
Lancio un’occhiata a Jost.
- Siamo sicuri che… - accenno un po’ titubante, indicandolo con un cenno del capo.
- Portatelo via. Dove vuoi. L’importante è che sparisca. – è la stanca risposta dell’uomo, mentre si allontana senza uno sguardo di più.
Una risatina divertita si unisce a quella di Bill, e Tom abbraccia suo fratello come fosse una coperta, come fa sempre quando lo deve salutare per un lungo periodo di tempo – il lungo periodo di tempo, in genere, scatta già dopo due ore.
- Non badarci. – dice il biondo, riferendosi a Jost, - Durante i tour fa sempre così, va in overdose. Poi torna ad amarci più di prima, ma non penso avrà nulla in contrario a liberarsi di Bill per un po’.
Bill solleva gli occhioni su suo fratello ed espone un broncio adorabile.
- A te non mancherò? – pigola querulo, incrociando le braccia sul petto.
Tom ride e gli lascia un bacio proprio sul neo che ha sotto al labbro inferiore.
Io guardo e deglutisco e probabilmente dovrei essere infastidito. Probabilmente. Ma comunque non lo sono. I Kaulitz li prendi come sono. Ciò significa che o li prendi entrambi o non ne prendi nessuno.
- Adesso molla il mio ragazzo, Atze, prima che la gente cominci a pensare sia il tuo. – ridacchio infilando un braccio fra loro ed attirando Bill a me.
- Ma lui è mio. – ghigna furbo Tom, facendogli l’occhiolino.
Bill ride e mi si spiaccica addosso.
- Ho abbastanza amore per entrambi. – conclude con un sorrisino.
Ed io forse sono davvero un cretino, ma a me basta.
*
Neanche il tempo di entrare in casa, che già Bill mi sta guardando come se l’avessi offeso personalmente. Ripercorro con la memoria gli ultimi istanti: okay, non gli ho aperto lo sportello della macchina, sono entrato prima di lui, non gli ho tenuto spalancato il portone e… ma queste cose non le faccio comunque mai!
- È tutto a posto? – chiedo incerto, guardandolo storto.
Bill sbuffa.
- Un bacio? – chiede con aria scazzata, sporgendo il viso.
Cerco di sorridere e lo bacio lievemente sulle labbra.
- Tutto qui?! – borbotta non appena mi separo da lui.
Scrollo le spalle.
A volte non capisco davvero a che gioco stia giocando.
Lui si passa una mano sulla fronte, fra i capelli, sul collo. Seguo il movimento delle sue dita come ipnotizzato e mi mordo le labbra.
- Non so perché, - riprende, - ogni volta che devo parlare seriamente con te mi tocca ubriacarmi per prendere coraggio, oppure esasperarmi abbastanza da non badare alla paura.
Spalanco gli occhi.
- Bill?
- Insomma, cos’è? Ti fa schifo che io sia maschio? È per questo che non vuoi scoparmi?! Oppure sono le relazioni serie a frenarti? Cazzo! – batte una mano sul tavolo, fissandomi rabbioso, - Se l’avessi saputo, non ti avrei mai detto che ti amavo! Vaffanculo!
Questo ragazzino dev’essere fuori legge. Sono convinto che sia illegale.
Sul serio.
- Rispondimi, almeno!
- Aspetta, aspetta, Bill… - mi faccio avanti, prendendogli le mani e stringendole nello stesso momento, - Sono confuso. Quando ti ho detto che avrei aspettato finché non fossi stato pronto…
- Io ho pensato che fosse un modo per dirmi che tu non eri pronto! – sbraita, cercando di liberarsi, - Impreparato, io! Ma ti venivo dietro da mesi, Cristo, non vedevo l’ora di infilarmi nelle tue mutande! Ma quanto cretino puoi essere?!
- Bill! – lo rimprovero, sinceramente sconvolto, - Adesso datti una calmata!
- Non mi calmo neanche per un cazzo. – sibila lui, occhi bassi ed espressione serissima. Si sporge in avanti e neanche mi bacia, m’invade. La lingua e le labbra ed i denti e quel piercing tremendo. – Capito l’antifona?
C’è poco da fare.
Uno si dice tante cose. Che non può stupirsi, che non ha certezze, che tanto è sempre così, nulla può veramente darti una scossa e farti sragionare.
È stupendo che io abbia trovato Bill. È l’unico che ci riesce.
Lo afferro per i fianchi, schiacciandolo contro il muro e spostando immediatamente le mani sulle sue natiche, saggiandone la consistenza attraverso il tessuto ruvido dei jeans. Lui ansima quando i nostri bacini si scontrano, e tira indietro il capo, cercando le mie labbra.
- Ragazzino… - gli sussurro addosso, prima di accontentarlo, - Quando ti ho chiesto se non ti sentissi ancora pronto, intendevo esattamente ciò che stavo dicendo. – sorrido. Lui tira fuori la lingua e mi lecca le labbra. Io le schiudo ed il piercing mi batte sui denti. È il suono più erotico che abbia mai sentito. – Non presumere troppo, quando ti parlo. Hai idea da quanto tempo volessi infilarmi io nelle tue mutande?
Bill sorride a propria volta e mi stringe le cosce attorno ai fianchi, issandosi fino a superarmi di qualche centimetro. Guarda in basso, verso di me, un sorriso aperto ad increspargli le labbra e gli occhi semichiusi che mi fissano con bramosia.
- Hai ragione. – mormora, piegandosi per baciarmi ancora, - Abbiamo solo perso un sacco di tempo.
Lancio un’occhiata alla porta della camera da letto. Saranno quattro metri, da qui.
Valuto la situazione.
Oh, be’.
La moquette, in fondo, è morbida e pulita.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill, David/Tom (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Tom è a casa, sta cercando invano di rispettare la promessa che ha fatto a David, ripassando un po' di accordi ed esercitandosi alla chitarra. Anche Bill, teoricamente, dovrebbe esercitarsi: ma c'è Bushido con lui, sul divano, e perciò il cantante sembra avere di meglio da fare. Tom, però, non ci sta. E l'arrivo di David pone le basi per una sfida fra fratelli che non porterà nulla di buono (tranne che per le fangirl u.u).
Note: In realtà questa storia è il mio modo (personalissimo, forse troppo XD) di festeggiare il terzo anniversario dall’uscita del singolo di Durch Den Monsun <3 L’inizio del delirio, lo sbarco del male sulla terra, l’avvento dell’Anticristo eccetera eccetera è_é Non a caso, gli accordi che suona Tomi all’inizio sono proprio di quella canzone ^^ Avevo promesso ad Ana che avrei scritto solo ed esclusivamente dei Tokio Hotel, oggi, senza infiltrazioni Bushidiche varie ed eventuali, ma… cosa devo dirvi? ;_; Io più passano i giorni più amo quell’uomo. È contro la mia volontà (più o meno). Poi, da quando ho scoperto che il Tost si adatta al Billshido con una naturalezza disarmante, è trionfo. *piange*
Ciò detto… il fatto dell’intercalare dei gemelli è vero XD Dicono continuamente “und, um”. E lo dice anche Bushido, ho le prove video XD
A parte questo, nulla da dire. Per il titolo (ed anche per la forzatura morale a scrivere XD) si ringrazia Yul. Dannata istigatrice XD Ma ti lovvo lo stesso <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UND, UM…

Mi… do… mi…

- E insomma, io ero là e lui davanti a me che mi guardava come se gli dovessi dei soldi. Sul serio, non sto scherzando!

Do… mi…

- E poi, e poi?
- Niente, io mi avvicino, freddissimo, tranquillo, voglio dire, io con lui ho chiuso, non avevamo nient’altro di cui parlare… e Fler mi guardava come se si aspettasse delle scuse o chissà che, perciò l’ho ignorato e mi sono semplicemente seduto.

Do… la minore… sol…

- E lui che ha fatto?
- Eh, all’inizio ha provato a fare il figo. Sai com’è, piccolo, di fronte a me si sentono tutti un tantinello in soggezione. – sorriso stronzo e fascinoso, toccatina a caso sulla coscia, mio fratello squittisce, ci casca e lo fa pure apposta – Quindi eravamo lì, io bevevo una birra, lui mi guardava male, intorno c’era tutta la mia crew che stava sull’allerta contro la sua crew, und, um

Le corde della chitarra stridettero con tale forza sotto le sue dita, che Bill e Bushido, comodamente spiaccicati l’uno addosso all’altro sul divano dell’appartamento berlinese dei gemelli Kaulitz, si voltarono a guardarlo con aria sconvolta. Bill trovò anche opportuno fargli notare quanto fosse fastidioso parlare col proprio uomo e dover sentire in sottofondo lui che palesemente non sapeva suonare e si limitava a fare casino con quello strumento diabolico.
- Questo è inaccettabile! – ringhiò Tom posando la chitarra lateralmente con tale indisposto scazzo che non si preoccupò neanche che potesse rovinarsi, cosa che in genere rappresentava il primo punto della sua lista di drammi personali.

Ma da quando c’è Bushido, no.
Da quando lui e Bill stanno insieme, sono loro il primo punto della mia lista di drammi personali.


Bill lo omaggiò di un’occhiata da cucciolo smarrito e innocente, ed inclinò il capo come a dare maggior forza al proprio stupore.
- Cosa sarebbe inaccettabile, Tomi? – pigolò poi, mentre Bushido, rendendosi probabilmente conto di quanto aveva detto, si limitava ad un ghigno estremamente divertito, allungando un braccio dietro la schiena di suo fratello.
- Questo tizio – disse Tom indicando Bushido, - ci copia.
Bill inarcò un sopracciglio.
Bushido rise.
Tom li odiò entrambi.
- Farebbe cosa, scusa? – chiese ancora suo fratello, sempre più innocente.
- Ma l’hai sentito o no?!
- Oh, sì… - mugolò compiacente Bill, lanciando un’occhiata di pura lussuria al proprio uomo, che rispose con un sorriso divertito e compiaciuto, - Lo stavo ascoltando molto attentamente.
- Ma che schifo. – commentò Tom con un vago gesto della mano, mentre Bushido scrollava le spalle come a dire “eh, che ci vuoi fare, è così carino che gli si perdona tutto”. – Comunque, se lo stavi ascoltando tanto attentamente, avrai senz’altro notato che ha detto undum! – disse, pronunciando l’intercalare così velocemente che sembrò una parola unica.
- Undum…? – biascicò Bill, portando un dito alle labbra e lanciando un’occhiata maliziosa ad Anis, dando a Tom l’esatta misura di quanto gl’interessasse quel discorso: zero. – Sarebbe?
- Und, um! Il nostro intercalare! – spiegò Tom, gesticolando come un bambino isterico.
- Pensi di essere l’unico ad usarlo in tutta la Germania? – gli chiese il fratello, distendendosi letteralmente sul petto di Bushido, con tale naturalezza da dargli il voltastomaco.
- No che non ero l’unico! – borbottò Tom, cercando di recuperare una parvenza di razionalità, - Eravamo in due, io e tu!
- E adesso anche Bu.
- Non chiamarlo Bu!
- È il mio uomo e lo chiamo come mi pare e piace!
- Okay, okay, ragazzini, diamoci un taglio. – li interruppe Bushido, agitando bonario le mani, in una perfetta imitazione di un vecchio padre benevolo, - Chiedo scusa, Tom, non volevo appropriarmi di una cosa vostra. È che a passare tanto tempo con le persone si assumono anche le loro abitudini. – si giustificò con un sorriso conciliante.
- Be’, cerca di non farlo più. – biascicò il rasta, incrociando le braccia sul petto e ritrovandosi controvoglia costretto ad abbassare lo sguardo ed arrossire, sentendosi drammaticamente in difetto di fronte al sorriso sereno dell’uomo, - Ed ora mi avete anche rovinato il pomeriggio! Dovevo studiare, l’avevo promesso a David! Per inciso, Bill, anche tu avevi promesso…
- Sì, ma io ho di meglio da fare… - miagolò sensualmente suo fratello mettendosi in ginocchio sul divano e circondando il collo di Bushido con le braccia.
Tom roteò gli occhi, sempre più disgustato.
- Be’, per me puoi fare quello che cavolo vuoi. – mentì, - Ma non puoi permetterti di rovinare i miei piani!
Bill scrollò le spalle, senza staccare neanche per un secondo gli occhi da quelli di Bushido, che nel mentre stava facendo scivolare le mani sotto l’orlo della sua maglietta, per vagare con dita falsamente distratte sulle punte di tre stelle tatuate in uno dei punti più perversi in assoluto che un maschio adulto omosessuale potesse immaginare.
- Potevi sempre andare in camera tua, a studiare. – commentò più per interesse personale che per preoccupazione nei suoi confronti.
- Non posso certo lasciarvi soli qui! L’ultima volta abbiamo dovuto rifoderare il divano!
Bushido rise di cuore, gettando indietro il capo e dando a Bill l’opportunità di chinarsi sul suo collo, per attaccare voracemente con le labbra la pelle sensibile sul pomo d’Adamo.
- Scusa, Atze. – lo apostrofò Bushido, incapace di trattenere un mugolio di piacere, - Non volevamo sporcare.
- Già. – ridacchiò Bill, scendendo a mordicchiargli il colletto della camicia, strattonandolo qua e là come un cucciolo affamato, - Ci siamo fatti un po’ prendere la mano.
- Voi due. Siete. Disgustosi. – li indicò Tom, inorridendo come una scolaretta e vergognandosene profondamente.
- Avanti piccolo, sta’ un po’ tranquillo… - rise Bushido, afferrando Bill per i capelli ed allontanandolo in un gesto che, più che mirato a fermarlo, sembrava bene intenzionato a trascinarselo vicino per un uso di quella bocca che fosse meno stupido che non rovinare i colletti delle sue camicie, - Non vedi che tuo fratello si turba?
- Io non mi turbo!!! – strillò Tom, dirigendosi speditamente verso il divano e prendendo posto accanto all’intreccio di braccia e gambe che erano diventati suo fratello e Bushido, - Cerco solo di porvi un freno, prima di dover costringere nuovamente David a giustificare le spese di tappezzeria di fronte alla Universal!
Bill si voltò a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Cosa diavolo staresti combinando, Tom? – chiese acido, aggrottando le sopracciglia.
- Vi tengo d’occhio! – rispose lui con naturalezza, stringendo ostinatamente le braccia sul petto.
Bushido sorrise e scosse il capo, facendo per scrollarsi Bill di dosso.
- Coraggio bellezza, non possiamo certo dare spettacolo di fronte a tuo fratello. – si giustificò, quando Bill gli si aggrappò addosso e cominciò a mugolare che non voleva essere scaricato perché gli piaceva sentirsi addosso la pressione nei suoi pantaloni, - Non che il voyeurismo mi disgusti particolarmente, ma non è il caso. E piantala di parlare dei miei pantaloni. – sorrise affascinante, chinandosi a lasciargli un bacino sulle labbra prima di posizionarlo sul cuscino come un peluche.
Bill si raggomitolò e divenne una palla di rabbia.
- Ti odio. – ringhiò, voltandosi a guardare Tom, che resistette al suo attacco psichico e rispose con un grugnito gemello ed ugualmente furioso.
La porta all’ingresso fece tlack e poi sbam in quel preciso istante.
- Ragazzi! – cinguettò la voce gioviale di David, facendosi strada attraverso il corridoio fino a loro, - Come vanno gli esercizi? Vi ho portato il gelato!
Il volto sorridente del loro manager si affacciò alla porta del soggiorno, scrutando l’ambiente con grandi occhioni azzurri pieni di devota fiducia.
- Oh. – fu costretto a commentare David quando si rese conto di ciò che aveva sotto gli occhi, - Vi vedo… distratti.
In realtà, “distratti” non rispecchiava efficacemente la situazione nella sua interezza. Bushido, seduto sulla sponda più distante del divano, sollevò una mano e lo salutò piuttosto comicamente, con un breve cenno del capo. Bill, palesemente calato nella parte da reginetta tragica che tanto gli piaceva metter su quando qualcuno rovinava i suoi piani, neanche diede segno di accorgersi della sua presenza. Tom, per contro, lo investì con la classica occhiata luccicante con la quale, in genere, si accolgono i salvatori.
David deglutì.
Non era una bella situazione di partenza.
Entrò nella stanza, poggiando il sacchetto con le vaschette di gelato sul tavolo e guardandosi intorno con aria smarrita.
- …interrompo qualcosa? – chiese timidamente, infilando le mani in tasca per darsi un tono.
Bill sollevò lo sguardo solo per fustigarlo con un’enorme quantità d’odio.
- Si stava cercando di trombare, ma evidentemente è impossibile.
David resistette stoicamente a portare una mano al petto e lasciarsi andare ad un gh di sofferenza, mentre tutti nella stanza si voltavano a guardare il cantante con aria sconvolta e scioccata. Anche Bushido, la cui espressione allucinata era perfino più divertente del solito.
D’altronde, come dargli torto? Probabilmente la sparata di Bill aveva messo a disagio pure il gelato.
- …okay, ho capito. – annuì il manager, mentre Tom si agitava sul divano come un’anima in pena, - Brutto momento. Allora io andrei… il gelato è qua.
- No! – strillò a quel punto il rasta, scattando in piedi ed andando letteralmente a prelevare David dal centro della stanza, per trascinarlo, tirandolo per un polso, fino al divano, - Perché non resti ancora un po’?
David gli lanciò un’occhiata poco convinta. Tom la ignorò e procedette nell’esposizione di un sorriso talmente gioviale – e talmente falso – che avrebbe rassicurato perfino un cieco, solo grazie alle onde positive che da esso di spandevano.
Bill mugolò un lamento disgustato e Bushido rise divertito, guadagnandosi in cambio un pizzicotto che non sembrò né turbarlo né infastidirlo più di tanto.
- Be’, visto che insisti tanto… - borbottò David, accomodandosi meglio contro i cuscini, - Allora… - iniziò incerto, - Come procedeva il pomeriggio, prima che arrivassi? – Bill fece per aprire bocca, ma il manager lo fermò con uno sbrigativo cenno della mano, - La tua opinione l’ho già sentita, Bill. Bushido?
L’uomo si strinse nelle spalle e si accomodò a propria volta in una posa speculare a quella di David, mentre Bill decideva che poteva ancora fare qualcosa per infastidire il mondo intero e quel qualcosa era stendersi letteralmente addosso al proprio uomo e cominciare a molestarlo sessualmente sotto gli occhi di tutti.
- Stavamo… aspetta, Bill… - cominciò il rapper, preso un po’ alla sprovvista dai movimenti chiaramente piccati del proprio ragazzo, - Stavamo chiacchierando un po’ e purtroppo abbiamo disturbato Tom, che si stava esercitando…
- Oh… - annuì David, sorridendo orgoglioso alla volta di Tom, - Allora stavi studiando sul serio. Bravo ragazzo.
- Sì, perché io quando faccio una promessa la mantengo. – disse il biondo, orgoglioso, mentre Bill tirava fuori la lingua e stabiliva il modo perfetto per irritarlo ancora di più, portando una mano dietro la schiena di Bushido ed infilandola sotto la maglietta per accarezzarlo lungo i fianchi.
- Anche io mi stavo esercitando! – protestò Bill, issandosi sulle braccia per poi lasciarsi ricadere morbidamente in grembo ad Anis, - Bu, diglielo anche tu!
Bushido rise, un po’ imbarazzato, ed annuì alla volta del manager.
- Se parlare a macchinetta può dirsi esercizio, allora ne stava facendo tanto. – confermò con una scrollatina di spalle, mentre Bill protestava strusciandoglisi addosso come uno scoiattolo isterico.
Tom sentì il fastidio crescere e montare dallo stomaco al cervello, costringendolo ad ammutolire ed aggrottare le sopracciglia, furioso. Odiava quando Bill usava il sesso per metterlo in soggezione. Sapeva che per lui era difficile avere a che fare col pensiero lui fosse sessualmente attivo. Ed usava questo suo disagio per farlo sentire stupido e piccolo e infantile. Lui non aveva mai usato il sesso con le groupie per fare del male a Bill, ma Bill usava il sesso con Bushido per fare del male a lui, e questo non gli andava giù. Neanche un po’.
Ghignò malefico, stendendosi improvvisamente all’indietro e impattando quasi subito con la schiena contro il petto tonico di David.
La sensazione – quella pressione dura e compatta contro la sua schiena – pur non potendo dirsi spiacevole, di sicuro lo turbò più del necessario, ma smise di pensarci nell’istante esatto in cui gli occhi di Bill si posarono su di lui e, oltre quelle macchie castane brillanti, Tom poté scorgere precisamente tutto lo sgomento che lo stava cogliendo.
Il suo sorriso si allargò, mentre si sistemava meglio addosso al manager che, per contro, un po’ stupito e un po’ infastidito, lo afferrava per le spalle nel tentativo di scrollarselo di dosso.
- E tu, invece? – chiese Bushido, mentre cercava di non soffocare sotto la stretta di Bill che, dopo le manovre del gemello, s’era fatta insopportabilmente pesante, - Come mai sei passato da queste parti?
- Be’… - rispose David, mentre Tom gli si arrampicava letteralmente addosso e gli infilava rudemente un ginocchio fra le gambe, rischiando peraltro di porre fine alla sua vita da uomo per ripicca, - Ho la tendenza a non fidarmi dei ragazzi, e- Tom, che diamine stai combinando?!
- Niente! – biascicò il rasta, infilandogli una mano sotto la maglietta con aria corrucciata, mentre Bill mormorava un acidissimo “lo so io, che sta combinando”, - Continuate a parlare!
David fissò entrambi i gemelli con aria inquisitoria, lasciandosi poi andare ad un sospiro stremato e rassegnato, scuotendo il capo.
- Insomma. – continuò, mentre Tom raggiungeva il suo scopo ed infilava una seconda mano sotto la sua maglietta e Bill, per contro, scendeva a sbottonare i pantaloni di Anis, - Non mi fido, e come vedi faccio bene. Perciò sono passato a controllare. Ma non sapevo ci fossi anche tu.
Bushido annuì comprensivo, schiaffeggiando una mano di Bill ed ottenendo come unico risultato che lui usasse l’altra mano per procedere a slacciare la cintura.
- Sì, mi rendo conto. Io non sapevo che dovessero studiare, Bill non me l’ha detto. Se l’avessi saputo, non sarei mai venuto a disturbare.
David sorrise complice, osservando vagamente confuso Tom armeggiare con la fibbia dei suoi jeans.
- Apprezzo l’intenzione. Ma non c’è proprio modo di governarli. Tom? – il ragazzo sollevò lo sguardo, fissandolo con un broncio terribilmente ostinato e terribilmente carino, - Non ti chiedo di fermarti, tanto sarebbe inutile, ma ti dispiacerebbe fare più piano? Mi stai slogando un’anca.
Tom mugugnò un assenso incomprensibile e lanciò un’occhiata a Bill, che nel mentre stava sfilando l’ingombrante cintura autoreferenziale di Bushido per gettarla per terra. Decise che non era il caso di fermarsi ancora e slacciò il terzo bottone dei jeans di David, esprimendosi in un mugolio soddisfatto quando riuscì a completare l’operazione senza problemi di sorta.
- Sì, vedo. – annuì Bushido. Bill sollevò lo sguardo e lo piantò nel suo. Bushido non fece una piega. Bill sospirò e gli infilò una mano nei boxer. – E qui ti volevo. – borbottò l’uomo afferrandolo per il polso e tirandolo via con uno scatto talmente repentino che Bill mugolò di dolore. A quel punto, anche Tom fermò la propria incuriosita esplorazione dei pantaloni di David, e si voltò per osservare la scena.
- Ma sei duro, l’ho sentito! – si lamentò il moro, prendendo a saltellare sul divano mentre Bushido si rimetteva in piedi.
- E tu non hai decenza, tuo fratello ha ragione. – lo rimproverò il rapper, dandogli un buffetto sulla fronte, - Questo può andare bene, ma solo in privato. Perciò… - argomentò, sollevandolo per i fianchi e caricandoselo in spalla come un sacco di patate, - se volete scusarci. – concluse, rivolgendo un breve cenno del capo a David e Tom, prima di voltarsi e dirigersi verso la camera di Bill.
Tom osservò suo fratello allontanarsi penzolante sulla schiena di Bushido. Si scambiarono uno sguardo allucinato da un lato all’altro della stanza, e stabilirono silenziosamente che avrebbero chiarito dopo.
Stremato, Tom si lasciò andare contro lo schienale del divano, sospirando pesantemente.
David scosse il capo e sospirò a propria volta, risistemando i pantaloni e sospingendo Tom verso un punto meno critico del divano, prima di accostarglisi con aria premurosa.
- Non devi spiegarmi niente. – lo rassicurò con un mezzo sorriso, - Ho capito cos’è successo. Ora stai meglio?
Tom mugolò un lamento sofferto e distolse lo sguardo, mortalmente in imbarazzo.
- Penso che mi farebbe bene un po’ del gelato che hai portato. – biascicò. David fece per alzarsi ed andare a prenderlo, ma Tom lo trattenne vicino a sé, afferrandolo per un braccio. – No. – disse con aria implorante, - Resta. Devo scusarmi.
David sorrise teneramente, lasciandogli un buffetto sulla guancia.
- No, non devi. Ti ho detto che ho capito. So che Bill può essere… fastidioso, quando vuole.
- Sì, lo è. – mugolò Tom, accucciandosi contro di lui, - Certe volte mi sento davvero preso in giro.
David rise, ed attraverso il suo petto il suono vibrò e si espanse dentro il corpo di Tom, dolce e rassicurante come un abbraccio.
- Non ti sta prendendo in giro. È solo che vorrebbe la tua approvazione.
- Questo non è il modo giusto per ottenerla!
- Sì, ma tu gli hai spiegato quale sarebbe, il modo giusto?
Tom mugolò ancora e si nascose più profondamente contro la sua maglietta.
- Possiamo non parlarne? – implorò pietosamente.
David sorrise e lo abbracciò con dolcezza.
- Prima o poi dovremo farlo comunque. Ma non è necessario farlo adesso. – poi indicò il gelato, - Lo vuoi ancora?
Tom guardò l’uomo, poi le vaschette, poi ancora l’uomo.
Scosse il capo.
- Preferisco stare così un altro po’.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Language, Slash.
- L'elaborazione del lutto passa per varie fasi. Durante quarantotto tragiche ore, Tom Kaulitz non solo sarà costretto ad affrontarle tutte, ma costringerà anche i propri innocenti coinquilini a passare attraverso il suo stesso calvario. Il problema? Be', che ovviamente non è morto nessuno :D
Note: La storia di questa fanfiction è interessante XD No, davvero: di solito non lo penso, dei vari iter che descrivo nelle post-fazioni – mi limito a sproloquiare senza senso perché io amo sproloquiare senza senso – ma stavolta è stato come se il mondo intero stesse da un lato cospirando perché io scrivessi questa fanfiction e dall’altro lato perché invece non lo facessi XD
Mi spiego meglio: era il ventisei marzo di quest’anno. Nonostante i concerti del 1000 Hotels Tour fossero stati tutti annullati e rimandati a data da destinarsi, io arrivavo a casa della mia neechan, a Padova, e lei mi mostrava tutti i poster che, nei mesi, aveva accumulato per me. Fra di essi, ce n’era pure uno di Bushido, vi giuro, enorme e bellissimo <3 In realtà, la mia ossessione per Bushido – un’ossessione tutta fangirlante, perché la musica che fa non mi piace affatto – era già cominciata qualche mese prima, sempre a causa della neechan. Potete averne un assaggio nelle note finali di The Point Is, che è stata, in effetti, la prima BushiBill che ho scritto, anche se in realtà è una twincest sotto mentite spoglie.
Comunque sia, è stato in quel momento che ho cominciato a pensare di utilizzare nuovamente Bushido in una storia. Anche se allora non lo dissi a nessuno – e sì che ero circondata di fangirl che magari avrebbero preferito lo facessi: così avrebbero potuto uccidermi lì ed il problema si sarebbe risolto XD
Qualche settimana dopo, da casa di mia zia (era il primo aprile, e la data non è casuale XD) vidi su un fansite sui TH una falsa news che parlava di come Bill, risvegliatosi dopo l’intervento, avesse deciso di dichiarare al mondo il proprio amore per Bushido, e di come i due avessero deciso di lasciare entrambi lo showbiz per trasferirsi alle Maldive e vivere in pace la loro nuova vita da sposini.
La mia reazione poteva essere una sola: prima tormentare tutte le fangirl spacciando il link ovunque per vantarmi di come la “mia coppia” fosse diventata canon XD e dopo scriverci su.
C’è da dire che qui sono pure cominciati i problemi, perché non appena ho cominciato a rivelare in giro il mio piano malefico le fangirl hanno cominciato sistematicamente ad odiarmi (soprattutto la mia neechan, che ha fatto di tutto per, alternativamente, impedirmi di scrivere questa storia o impedirmi di mettere le mani su qualsiasi cosa stessimo scrivendo insieme per evitare potessi far degenerare anche quelle XD).
È così, comunque, che la trama di questa storia comincia a prendere forma.
Per poi degenerare completamente.
Avevo tenuto conto di tutti i fattori: dell’innamoramento di Bill, di un Bushido credibile e lontano dagli eccessi cui il proprio ruolo nel business musicale lo obbliga (non per altro, è solo che ci sono degli elementi, nella storia di vita di Anis, che portano tranquillamente a credere lui sia molto diverso da come appare in video), di una sorta di bonaria collaborazione fra i vari membri della band per preservare la felicità che il frontman sta provando…
Avevo pure provato a tenere conto di Tom (nel senso che sapevo che il suo ruolo in questa storia sarebbe stato quello del fratello geloso), ma davvero, non immaginavo neanche lontanamente che poi la sua gelosia potesse sfociare in questo XD E “questo”, per inciso, non è un affetto di tipo incestuoso – almeno, non nella mia visione del Kaulitzest – ma di sicuro non è qualcosa di molto normale, ecco XD
Maneggiare Tom mi ha divertita tanto, ma in realtà non posso dire di essermi divertita meno con gli altri. Ho messo in atto una situazione totalmente inedita, cercando di rivedere le “solite” caratterizzazioni che di solito impongo a questi personaggi, senza stravolgerle (perché se le uso spesso un motivo ci sarà! XD) ma anche rinnovandole, e concedendomi anche qualche caduta melensa di tanto in tanto – e chi conosce la mia produzione sa che comunque non succede tanto spesso XD
Credo che, al di là del mero fangirling, siano questi i motivi per i quali questa storia mi piace tanto. Questi, ed anche il fatto che è comunque una fanfiction piuttosto comica, già a partire dal titolo: quella dello “spring, spring!” è una formula lollosa che io e la neechan usiamo spesso, parodiando la strafamosa Spring Nicht originale, e so che lei mi odierà per questo, perché aveva giurato che non avrebbe mai letto questa fanfiction, ma questo è esattamente il tipo di titolo che suppongo potrebbe farle cambiare idea XD
Comunque sia, spero che, cadute melense e momenti emoangst gratuiti a parte, questa fic piaccia anche a voi :)
In conclusione (e sarebbe pure ora), questa storia non può che essere dedicata a quattro persone: alla mia neechan, perché non la leggerà mai XD, a Meg, perché il mio Bushido le piace <3, a Yul, perché mi ha offerto appoggio incondizionato ed è una mia fangirl *_* ed a Sara, perché ha cominciato a odiarmi dal primo momento in cui le ho detto che l’avrei scritta, visto che sapeva pure che alla fine le sarebbe toccato leggerla X3
Ovviamente, un ringraziamento speciale va fatto alla splendida Misako, perché se l’è sorbita in anteprima e l’ha pure betata <3 E ci tengo a specificarle che, se questo ringraziamento non era ancora nel documento quando gliel’ho mandato, era perché non ero ancora sicura che le andasse davvero di betare una BushiBill XDDDD :*
Grazie per aver letto fin qui (se davvero l’avete fatto! XD) ed alla prossima <3
PS: La canzone che Bill cita quando dice “questa non è casa mia, è casa loro” è veramente una canzone degli Smiths XD E si intitola There Is A Light That Never Goes Out. Ovviamente è una delle cose più emo che esistano, ma è anche molto bella <3
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BITTE, SPRING, SPRING!

- …e quindi stiamo insieme.
Bill amava dare di sé l’idea di essere un tipo tremendamente egoista. Il classico carro armato che si prende le proprie soddisfazioni a tutti i costi, facendo valere la propria influenza sulle persone su cui ha una certa presa ed asfaltando senza riguardi tutti gli altri, pur di ottenere ciò che vuole.
In realtà, Bill aveva fatto propri con incredibile diligenza tutti gli insegnamenti che Jost gli aveva propinato da quando avevano cominciato a lavorare insieme.
Nello specifico, aveva trovato particolarmente gratificante – ed aveva perciò preso alla lettera ed imparato a memoria – il primo dei suoi personalissimi comandamenti: sei la colonna portante del gruppo. Ciò che farai si rifletterà inevitabilmente sulla reputazione della band. Perciò, qualsiasi cosa tu decida di fare, è alla band che devi renderne conto per prima.
Già. Mentre per Georg e Gustav non esistevano leggi – cosa che sembrava, per certi versi, gratificarli parecchio – e per Tom ne esisteva solo una ma orribile – niente al mondo ti salverà mai da chitarra e solfeggio almeno due volte a settimana – le leggi di Bill sembravano scritte apposta per nutrire il suo già spropositatamente pasciuto ego.
Per questo motivo, Bill non avrebbe mai imbastito una relazione con qualcuno senza prima darne notizia al gruppo.
Il caso di specie non faceva eccezione.
La notizia di quella che a tutti gli effetti era la prima “relazione seria” di Bill dai gloriosissimi tempi in cui era inequivocabilmente eterosessuale e sognava di sposare Linda e riempire la propria madre di nipoti, fu accolta nel loft di Amburgo con sgomento ed incredulità.
Com’era semplicemente ovvio accadesse.
- Bushido…? – articolò confusamente Tom, scrutando il proprio gemello con aria scioccata dal divano in cui era affondato quando lui, entrando in casa, aveva chiesto a tutti di sedersi – e ora gli sembrava di capire profondamente perché – dal momento che aveva da dare loro una grande notizia.
- Anis. – precisò Bill, aggrottando le sopracciglia, - È così che si chiama. Te lo ripeto da settimane.
- Ma è Bushido! – rimarcò Tom, con aria sempre più sconvolta, prendendo a gesticolare animatamente.
Bill sospirò come se avere a che fare con lui fosse la prova più straziante che gli fosse mai capitato di affrontare, e poi scosse lievemente il capo, voltandosi a guardare David, che rimaneva impassibile sul proprio sgabello, il portatile aperto ed acceso sulle ginocchia ed una sigaretta a pendere mollemente dalle labbra.
Il manager si prese il tempo di aspirare ed espirare il fumo un paio di volte, prima di dire qualcosa.
- Potrebbe essere tuo padre. – commentò quindi con un sorriso sarcastico.
- Ha solo trent’anni! – protestò Bill offeso, - Un padre piuttosto precoce, non credi?
Gustav ridacchiò a bassa voce, mentre nella mente di Tom le parole “solo”, “trent’anni” e “padre” assumevano consistenza fisica e si mettevano a palleggiare felici coi suoi neuroni.
- Be’. – riprese il manager, scrollando le spalle, - Sarete sicuramente la coppia più strana si sia vista dai tempi di Beyoncé e Jay-Z…
- Paragone più che azzeccato! – aggiunse Georg divertito, dando finalmente a Gustav la scusa per accasciarsi sul divano e ridere fin quasi a soffocarsi.
- …ma congratulazioni comunque. – concluse Jost, prima di accodarsi allegramente alle risate degli altri due.
Bill li fissò tutti e tre con malcelato disgusto, prima di scuotere teatralmente la setosa massa di capelli che gli scivolavano lungo le spalle e ritirarsi in camera propria.
Accucciato sul divano, con stampata addosso un’espressione di puro smarrimento che mal si intonava al clima ilare che pervadeva l’appartamento, Tom rimase immobile a scrutare il vuoto con aria assente, come fosse in trance ed anche bene intenzionato a restarci il più a lungo possibile.
- Dio mio, Bushido! – riprese David, asciugando una lacrima di divertimento puro dall’angolo di un occhio, - Niente male come prima storia pubblica! Prevedo grossi scossoni in casa!
- Io sono turbato! – ritorse Gustav, deciso a proseguire il gioco fin quando fosse stato possibile, - Conosciamo tutti quanto ambiguo sia il rapporto di Bill con suo fratello… non trovate quantomeno sospetto che sia andato a mettersi proprio con un rapper?!
- Per carità! – rispose David, ormai sul punto di rotolare giù dallo sgabello, stringendo fra le braccia il pc per impedirsi di lasciarlo rovinare a terra, - È il contrario, è Bill che fa presa solo su quel determinato tipo di persona! Bushido non è neanche il peggiore potesse capitargli, in realtà!
Georg si accasciò moribondo sul divano, rotolando contro Gustav e coinvolgendolo in una danza dell’ilarità che aveva dell’inquietante.
Tutto ciò che Tom riuscì a fare fu continuare a fissare il vuoto ed esalare uno sgomento “Ma è Bushido” che, oltre a rimarcare quanto aveva già fatto notare ad un fratello che, di fronte al suo shock, s’era rivelato del tutto insensibile, costrinse i suoi coinquilini a voltarsi verso di lui e prendere coscienza del fatto in quella catatonia risiedesse evidentemente un problema di una certa consistenza.
- Tom… - mugugnò David, riponendo il pc al sicuro sul tavolo, - provaci, almeno, a prenderla bene.
- Ma… è Bushido! – ripeté lui, ricominciando a gesticolare come un bambino di tre anni.
Georg roteò gli occhi.
- Eccolo che comincia…
- È Bushido! – rimarcò nuovamente Tom, - Bu-shi-do!
- Tooom… - riprese il manager, spegnendo il portatile, - Niente paranoie, su! Doveva pur succedere, prima o poi, che tuo fratello si mettesse con qualcuno!
- Ma Bushido non è qualcuno, è Bushido!
Evidentemente non c’era molto altro da dire. O da spiegare. David, Gustav e Georg emisero un sospiro simultaneo che tanto diceva su quanto fossero abituati a scene di simile follia, e poi il batterista commentò che era quasi certo il nome del rapper non fosse mai stato ripetuto tante volte come quel pomeriggio, e che quindi, probabilmente, al fianco di Anis al momento c’era il Kaulitz sbagliato.
Gustav decisamente non poteva capire. Lui non correva il rischio che, tipo, sua sorella andasse a mettersi con Axl Rose! Nessuno di loro poteva capire, perché in effetti nessuno di loro aveva una sorella in pericolo!
Tecnicamente, neanche lui, ma era una questione di insignificanti dettagli.
Si sollevò dal divano, mentre ancora Georg rantolava gli ultimi strascichi della risata che la precedente battuta di Gustav gli aveva indotto, e si diresse cautamente verso la camera di Bill.
- Lascia perdere… - lo ammonì Jost, inarcando le sopracciglia, - Non ne ricaverai niente di utile.
Tom non gli concesse risposta di alcun tipo e sparì lungo il corridoio.
Ristette più di un paio di secondi di fronte alla porta, prima di decidersi finalmente a bussare.
- Bill… - chiamò a bassa voce, scollando le lettere con manifesta difficoltà, - Posso entrare?
I passi di suo fratello si mossero veloci sul parquet, e poco dopo Tom si ritrovò di fronte il suo viso, mestamente sorridente.
- Certo che puoi entrare… - mormorò Bill, scostandosi dall’uscio per farlo passare e richiudendosi la porta alle spalle quando lui fu in camera, - Non ce l’ho con te, mi dà solo fastidio che l’abbiate presa per una barzelletta, perché proprio non lo è.
- Io… - deglutì faticosamente, - non l’ho presa per una barzelletta.
Oh, no. Non avrei proprio potuto prenderla più seriamente di così.
Bill si espresse in un sorriso minuscolo e poi lo invitò a sedersi sul letto, facendolo a propria volta.
- Avanti. – disse infine, strizzando maliziosamente le palpebre, - Chiedimelo.
Tom abbassò lo sguardo e boccheggiò confusamente per qualche secondo.
- …l’avete fatto…? – chiese infine, con aria dubbiosa.
Bill scoppiò a ridere divertito, dondolandosi giocosamente sul materasso.
- Non dovresti porre domande di cui non vuoi veramente sapere la risposta! – gli fece notare, e Tom non poté che annuire di fronte all’incontestabile veridicità di quell’assunto. – Fammi le domande giuste, Tomi. – sorrise suo fratello, sporgendosi lievemente verso di lui, - Quelle importanti.
Tom annuì ancora. Si sentiva incredibilmente stupido: a vagare per la testa, c’erano solo domande idiote. Da quanto tempo? Perché così in fretta? Perché proprio lui?
Perché non potevi restare per sempre il mio adorato fratellino perfetto in eterna attesa del vero amore? Quello che fa battere il cuore e piangere e ridere come mai prima? L’amore perfetto, il più importante di tutti?
In quel modo sarebbe stato più semplice. Uno più importante di me non sarebbe mai arrivato, e…

Scosse il capo, mentre Bill ridacchiava debolmente.
- Non essere vigliacco, Tomi. Prometto che la risposta non ti ucciderà.
Io al posto tuo non ne sarei così sicuro.
Sospirò profondamente e socchiuse gli occhi.
C’era solo da buttarsi.
Spring, spring, Tomi.
- Lo ami? – chiese tutto d’un fiato, anche se non era proprio sicuro di voler sapere la risposta.
Sul volto di Bill si aprì finalmente il primo sorriso davvero felice della giornata.
- Sì. – rispose tranquillamente, arrossendo pure un po’.
Tom digerì l’informazione ed annuì.
Superata questa…
Posso sopravvivere davvero a tutto.
- E lui ti ama? – continuò quindi.
- Dice di sì. – cinguettò Bill, stringendosi nelle spalle.
- E lo dimostra, anche?
Bill non rispose. E non ce ne fu neppure bisogno, perché il suo sorriso era già, da solo, abbastanza eloquente.
- Io proprio non capisco. – esalò infine Tom, scuotendo il capo e grattandosi la fronte, - Come cavolo fa a piacerti un tipo che ha detto in diretta nazionale che gli sarebbe piaciuto farsi fare un pompino da te?!
Bill ridacchiò a bassa voce.
- Anis è un tipo un po’ rude… - giustificò con aria sognante, - Non mi fa passare nessun capriccio, sai? Mi contesta apertamente quando crede che sbagli e non mi tratta come un moccioso cretino incapace di prendersi le proprie responsabilità. E poi non si fa scrupoli a prendermi in giro. A volte prende e mi chiama “bella figa”, per dire. Ammazzerei chiunque altro ci provasse, ma lui…
- Ti piace che ti maltratti, riassumendo? – cercò di chiarire Tom, interrompendolo con una smorfia schifata.
- Mi piace che si sia schietti e sinceri con me, Tom. – precisò Bill, guardandolo dritto negli occhi. Sorrideva ancora. – E questo dovresti saperlo anche tu.
Il biondo sospirò, abbassando lievemente le palpebre.
- Ok. – annuì alla fine, - La domanda è cretina ma devo fartela lo stesso: c’è qualcosa che io possa fare per cambiare questa situazione?
Bill rise divertito, gettando indietro il capo.
- Tomi… - lo richiamò appena, trascinando la risata.
- Sì, sì, ok. – lo fermò lui, agitando una mano, - Almeno non mi sfottere. È difficile, per me…
- Tom, avanti! – mugolò lui, abbattendosi contro una sua spalla e strusciandoglisi addosso come un gattino impaziente, - Non c’è proprio motivo di essere geloso! Eri e rimani mio fratello. – lo rassicurò, - Eri e rimani la persona più importante per me. – Tom sorrise ed annuì lievemente, lasciandogli un buffetto sulla guancia in risposta del quale Bill rise piano. – Ti vedo un po’ troppo scosso, però. – continuò il moro, dubbioso, - Forse è meglio se vai a farti una tisana, no? Vuoi che te la prepari io?
Tom scosse mestamente il capo, cercando di sorridere con più sicurezza.
- Magari vado a bere qualcosa con Georg. – rispose, - A te va di uscire?
Bill inclinò lateralmente il capo, con una smorfia pensosa.
- Penso che passerò la nottata al telefono. – confessò infine, lasciandosi andare disteso sul letto mentre Tom si alzava.
Il rasta ridacchiò a bassa voce, poggiando due dita sulla maniglia della porta.
- Povero Andreas! – ironizzò, lasciando la camera fra le risatine di Bill.
In corridoio, appoggiato in posa plastica alla porta della propria camera, antistante a quella di Bill, Georg – le braccia incrociate sul petto ed una coreografica cascata di liscissimi capelli castani a ricadere sul viso – sembrava stesse aspettando proprio lui e non avesse fatto altro da che era venuto al mondo.
- Georg! – lo richiamò Tom, simulando spavento con un saltello indietro, - Che, siamo finiti in un vecchio western? Ti mancano solo stivali e stellina da sceriffo…
Il bassista lo omaggiò con un ghigno di puro scherno e si separò dalla parete, andandogli incontro.
- Evita di fare il grand’uomo con me, signor “ma-è-Bushido”, che fino a poco fa stavo ridendo di te mentre davi di matto. – lo prese in giro, afferrandolo poi con un braccio attorno al collo e trascinandolo impietosamente verso un posto più sicuro in cui parlare.
La cucina, scelta appositamente in quanto uno dei pochissimi luoghi protetti da quattro mura in quella casa completamente priva di spazi chiusi, era effettivamente deserta. Due bottiglie di birra attendevano ansiose sul tavolo che loro le afferrassero, le stappassero e ci dessero dentro con le confessioni da Veri Uomini.
Anche se, in quel caso, le confessioni dei Veri Uomini sembravano più le lamentele di un fidanzatino tredicenne tradito.
Tom era sempre stato consapevole del fatto il suo rapporto con Bill in quel senso non fosse normale. Erano sempre stati troppo attaccati, troppo gelosi, troppo possessivi, sì, perfino troppo morbosi per potere anche solo pensare di vivere quanto li legava – che in fondo non era che un affetto puro al punto da fare paura – in modo sereno e rilassato.
Non s’erano neppure mai veramente innamorati di qualcuno, però.
Ed ecco che sorgeva il problema.
- Allora? Com’è andata?
A Georg non piaceva prestarsi a quel gioco di insistenze e domande infantili. Più che altro, era della parrocchia “esponi il problema e datti da fare per trovare una soluzione”. Indugiare sul dramma fine a se stesso lo infastidiva. Ma si piegava: in fondo, è questo quello che fai quando vuoi bene a una persona, no? Ti pieghi alle sue regole. Giochi per farla felice.
Avrebbe dovuto farlo anche lui con Bill. E farlo sul serio. Non dire “d’accordo” e poi rifugiarsi in una bottiglia di birra per esprimere tutto il proprio disappunto.
- Dice di amarlo. – borbottò guardando malinconicamente la superficie in fòrmica del tavolo.
Georg sghignazzò.
- Sarà vero. Lo conosci tuo fratello.
Tom annuì distrattamente, appoggiando il mento sul palmo della mano e lasciandosi poi andare con uno sbuffo contro il tavolo.
- Non so che fare. – ammise in un sospiro, socchiudendo gli occhi.
- Perché dovresti fare qualcosa? Non mi pare ci sia nessuna donzella in difficoltà… ed anche quando, tu in genere sei quello che le mette in pericolo, le donzelle, non quello che le salva.
Tom si concesse uno sbuffo ed una risatina divertita, e Georg si sollevò dalla sedia sorridendo vittorioso come faceva sempre quando aveva l’impressione di avere arginato un disastro che altrimenti si sarebbe dimostrato ingestibile. Circumnavigò il tavolo e in due passi gli fu accanto, schiacciandogli con forza una mano sulla spalla.
- Avanti. La mia parcella è una birra. Andiamo?
*
Passando attraverso il salotto e dirigendosi a passo spedito verso la porta, tintinnando neanche fosse stato un campanellino sotto vento a causa dell’incredibile quantità di orridi accessori argentati che indossava, Bill si premurò di informare il mondo – ovvero suo fratello, il suo manager ed i suoi due compagni di band – che stava uscendo con Anis.
Seguendo il proprio fratello con lo sguardo, tutto ciò che Tom riuscì a fare fu scattare in piedi e, sfoggiando un’aria talmente innocente da risultare perfino fastidiosa, chiedere se poteva uscire con loro.
Mentre Georg e Gustav scoppiavano prevedibilmente a ridere, David e Bill si voltarono a guardarlo, sollevando un sopracciglio e sfoggiando peraltro incredibile simultaneità.
Fu il manager a parlare per primo, incrociando le braccia sul petto e sbuffando pesantemente.
- Cos’è, Tom? – si informò acido, - Stai passando al contrattacco?
Tom lo investì con un’altra occhiata carica di studiatissima innocenza, e scrollò le spalle.
- Conoscendo il tipo, mi pare il minimo preoccuparmi per Bill. – rispose con noncuranza.
- Bill starà benissimo. – lo apostrofò duramente suo fratello, arricciando le labbra in una smorfia infastidita, - E starà ancora meglio quando Tomi la smetterà di preoccuparsi.
- Non cominciate a parlare in terza persona, è straniante. – li fermò David, frapponendo simbolicamente le mani lungo l’immaginaria scia di elettricità purissima che collegava i loro occhi, - Tom, lascia andare tuo fratello. E, per inciso, Bill: il fatto io non stia osteggiando la relazione fra te e Bushido-
- Si chiama Anis. – lo interruppe acido il moro, - Ed io ho diciott’anni! Non potresti comunque osteggiare un bel niente!
- Oh! Punti di vista. – scoccò Jost con un sorrisino spaventoso, - Dicevo, il fatto io ti permetta di uscire con Bushido – rincarò, - non deve farti pensare di poter andare impunemente in giro come non fossi tu. Cercate di essere discreti.
Bill scrollò le spalle e, con un ultimo sbuffo da diva insoddisfatta, si trascinò all’esterno dell’appartamento, premurandosi anche di sbattere ogni sfortunata porta incontrasse lungo il proprio cammino.
- Non eravamo d’accordo che non avresti fatto niente per salvare la damigella in pericolo? – scollò laconico Georg, grattandosi la pancia dal divano sul quale era sprofondato, senza staccare gli occhi dal video di LaFee che passava su Viva.
- Non eravamo d’accordo affatto. – grugnì Tom, dirigendosi speditamente verso la propria camera, - È una delle situazioni più del cazzo che abbia mai vissuto.
David lanciò un’occhiata eloquente a Georg, che rispose con un terrorizzato “Ah, no! Io ho già dato ieri!”. La stessa cosa fece con Gustav, il quale neanche lo degnò di una risposta verbale: si limitò a sollevare un sopracciglio in seguito al quale David non poté che sollevare entrambe le mani e mugolare “Ok, ok, ho capito!”, riponendo le armi.
- Pare che dovremo semplicemente aspettare che gli passi. – rifletté a bassa voce. – Perché ho come la vaga impressione che non sarà così semplice?
Georg e Gustav si lanciarono uno sguardo complice ed ugualmente rassegnato, di fronte al quale David eruppe in un sospiro di resa che sarebbe suonato deprimente pure se la situazione non fosse stata tragica come in effetti era.
Tom uscì dalla propria camera, vestito di tutto punto, non più di due minuti dopo.
- Io esco. – annunciò bellicoso, e non aggiunse altro.
Quando fu andato via, David impiegò più di un paio di minuti della propria esistenza semplicemente a rimirare il vuoto, come se questo riponesse nelle pieghe del proprio silenzio il segreto per risolvere tutti i guai che Bill aveva portato con sé riscoprendosi capace d’amare qualcos’altro oltre alla propria messa in piega per la prima volta dopo eoni.
- Contare sul vostro appoggio sarebbe ridicolo, vero? – mugolò infine alla volta del proprio batterista e del proprio bassista, i quali, nel frattempo, avevano approfittato del suo momento di silenzio per darsi ad un’entusiasmante partita di Mario Kart.
I due scoccarono un laconico no simultaneo e tornarono a perdersi nelle sbuffanti nuvolette bianche che uscivano dagli improponibili veicoli dei protagonisti del videogioco, senza più calcolarlo. David sospirò ancora, si alzò in piedi, afferrò una giacca a caso e si preparò a salvare la reputazione di Tom da un disastro pubblico.
*
Più che altro, gli sembrava strano non essere ancora stato riconosciuto.
Insomma: quel posto era ben frequentato. C’erano perfino un paio di ragazze, giovani “promesse” della Universal, con le quali avrebbe potuto giurare d’essere stato a letto – più o meno: in genere non è che ricordasse proprio i lineamenti, già dopo qualche minuto, ecco.
Tutta l’attenzione del locale, comunque, sembrava essersi focalizzata sul piccolo e relativamente appartato tavolinetto al quale avevano preso posto suo fratello e Bushido non appena erano arrivati – dopo di lui. Nonostante fossero partiti prima. Ignorare l’irrazionale rabbia gelosa che da questa consapevolezza derivava sembrava a dir poco impossibile.
D’altronde, non è che potesse proprio lamentarsi del fatto nessuno lo calcolasse: anche la sua, di attenzione, era puntata su quel tavolinetto. Anche se non per la stessa curiosità morbosa che pervadeva gli altri avventori del locale.
…be’, forse un po’ sì.
Ma era preoccupato! Ecco. Era solo preoccupato!
Una cameriera bionda gli si avvicinò e gli chiese con fare amichevole se fosse pronto per ordinare, domanda alla quale lui rispose con sincerità, se non altro perché la sua testa era talmente impegnata a registrare ogni singola azione di Bill e Bushido che non aveva proprio altri neuroni liberi da utilizzare nell’ideazione di una menzogna. E perciò: no, non sono pronto. E in realtà non voglio niente, sono qui solo perché ero preoccupato per mio fratello.
La ragazza lo squadrò come fosse stato un alieno. Lui non vide i suoi occhi, ma se li sentì scorrere addosso, così stupiti e perplessi com’erano. La cosa lo infastidì, ma be’, supponeva potesse essere una reazione normale.
- Ci porti due birre, per favore. – ordinò quindi la lamentosa voce di Jost, che Tom non stentò a riconoscere malgrado non riuscisse a staccare gli occhi dall’idillico quadretto amoroso del tavolino nell’angolo.
- Sì, signor Jost. – rispose la ragazza, con aria sommessa, dileguandosi in un secondo.
David si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte alla sua e si passò una mano sugli occhi.
- Portarlo nel locale che frequentiamo di solito, che mossa geniale! – scollò con palese fastidio, - Non sono ancora riuscito a capire se tuo fratello stia cercando di scaraventarci di peso sull’Olimpo del gossip o se stia semplicemente provando a gettarci tutti in una fossa dalla quale sarebbe troppa fatica anche solo provare ad uscire.
- Mh. – borbottò lui.
- Ovviamente, non hai sentito una parola. – notificò piatto David, inarcando le sopracciglia.
- Mh. – ripeté lui atono.
La cameriera tornò indietro, posando due boccali di birra nel centro del tavolo, e poi scomparve così com’era riapparsa, lasciandoli nuovamente da soli.
- Tom… - lo chiamò David, vagamente infastidito. – Tom, Cristo santo! – sbottò quindi, visto che lui continuava ad ignorarlo, afferrandolo per una spalla e costringendolo fisicamente a notarlo, - Non stanno facendo un cazzo! – lo informò sbigottito, - Vuoi piantarla di guardarli e starmi a sentire? Ti sei almeno accorto che sono arrivato?!
- Ma sì… - mugugnò Tom, attaccandosi alla propria bottiglia con aria offesa, - Certo che me ne sono accorto… solo che Bushido stava-
- Cosa? – chiese acido David, - Stava porgendo a tuo fratello la ciotola dei salatini? No, perché questa è l’unica cosa che gli ho visto fare da quando sono qui, e decisamente non è qualcosa che possa mettere Bill in pericolo di vita. A meno che tuo fratello non sia così idiota da strozzarsi con un’arachide, cosa della quale in effetti mi preoccuperei anche io, se solo non fossi così dannatamente infastidito da-… Tom, hai di nuovo smesso di ascoltarmi?!
Il rasta si limitò a roteare gli occhi, staccandoli nuovamente da Bill e Bushido e decidendo di voltarsi radicalmente dall’altro lato, dando la schiena ai due e tornando a concentrarsi solo sulla birra.
- Parli troppo. – fece quindi notare al proprio manager, - Non ho bisogno che tu mi dica tutte queste cose. Lo so perfettamente anche io che quello che sto facendo è assurdo.
- Ed allora, Dio mio, vuoi spiegarmi per quale accidenti di motivo lo stai facendo?! – si lamentò David, esasperato, - Passi pure il fatto che lo pedini quando esce di casa, ma dire alla cameriera quelle cose… che poi, col cazzo: in realtà, il fatto che pedini tuo fratello non passa affatto. – rifletté, aggrottando le sopracciglia, - Perché diavolo lo pedini?!
- Ma che vuoi che ne sappia… - borbottò Tom annoiato, scuotendo il capo.
- Oh, no. – lo fermò David, deciso, - Con me non funziona quest’atteggiamento. Non sei più un dodicenne.
- E questo significa che non posso più fare cose irrazionali? No, perché se stai dicendo questo, ti assicuro che il mio cervello non è d’accordo. – rimbrottò acido il ragazzo.
- Infatti non stavo dicendo questo. – sospirò rassegnato David, - Puoi pure comportarti in maniera irrazionale quanto vuoi, caro mio, ma a diciott’anni nessuno può salvarti dalla responsabilità delle tue azioni. Tutto qua.
Tom rispose con uno sbuffo infantile, poggiando il mento sul palmo della mano.
- Che vuoi che ti dica? – sbottò, - Posso dirti una qualunque cosa ti faccia stare tranquillo, tanto non cambia la realtà dei fatti. – lo sferzò con un’occhiataccia impietosa, mordendosi un labbro. – Vuoi che ti dica che non sono geloso? Che approvo questa relazione? Che non m’interessa ciò che Bill fa e può andare con chi vuole? Scegli tu. Io ripeto.
David lo fissò sbigottito, restando per qualche secondo con le labbra dischiuse, senza sapere che dire. Tom occupò quei momenti continuando a sorseggiare la birra, forzandosi violentemente a non voltarsi e tornare a guardare suo fratello che flirtava col suo uomo come se la cosa non dovesse avere conseguenze enormi sulla propria sanità mentale.
- Tom, parliamone seriamente. – cominciò David, conciliante, intrecciando le dita sul tavolo con aria professionale, - Quanto ti ha turbato questa cosa?
- Un casino, mi sembra ovvio! – strepitò Tom, posando un po’ troppo rumorosamente la bottiglia, - Altrimenti non starei qui a spiarli, ti pare?
- Perché ti rifiuti ostinatamente di capire ciò che ti dico? – mugolò disperatamente David, - Sto cercando di capire se davvero non ti aspettavi che succedesse.
Il ragazzo lo guardò dall’alto in basso, dubbioso.
- Non ne avevo idea, altro che “non aspettarselo”.
David raddrizzò le spalle, lasciandosi ricadere le mani, ancora intrecciate, in grembo.
- Secondo te com’è che Georg e Gustav l’hanno presa con tanta ironia? – chiese, adesso sinceramente stupito, - E com’è che io non ho afferrato tuo fratello per le spalle per inchiodarlo al muro e punirlo corporalmente per il guaio in cui si stava cacciando?
- Che ne so?! – quasi strillò Tom, improvvisamente più agitato di quanto già non fosse, - Perché siete di mentalità molto aperta?!
- …perché, Tom… - spiegò il manager, visibilmente confuso, - Bill e Bushido si frequentano da mesi, e tuo fratello non ha fatto che parlarne con aria adorante da quando lo conosce…
- Appunto! E questo mi ha dato già abbastanza fastidio da permettermi di… David? Perché mi guardi così?
- Tu sei ridicolo. – asserì l’uomo, incrociando le braccia sul petto, - Non so a che gioco stai giocando, ma non me la fai. Oh, no. Stai cercando di dirmi che tutto il preavviso che tuo fratello ti ha dato non è stato comunque sufficiente per elaborare questo lutto?!
- Bill non mi ha dato nessun preavviso! – corresse lui, stringendo convulsamente fra le dita il collo della bottiglia, - Preavvisarmi sarebbe stato dirmi quando l’ha conosciuto che pensava fra di loro potesse succedere qualcosa! Così io avrei preso le dovute precauzioni e-
- E cosa? L’avresti chiuso in casa? L’avresti costretto a farsi suora? O avresti cominciato a pedinarlo fin dal primo giorno?
- Non lo so, cazzo! – grugnì Tom fra i denti, battendo un pugno sul tavolo, - Non lo so.
- Probabilmente sì, mi avresti seguito fin dal primo giorno. Apposta per mettermi in imbarazzo, suppongo.
Tom sollevò lo sguardo. Bill si stagliava, in tutta la sua altezza, contro le luci al neon azzurrognole che venavano le pareti del locale. La scenografia gli dava un’aria spaventosa, quasi da fantasma vendicatore. I suoi occhi brillanti di rabbia e le gote arrossate di vergogna non lenivano in alcun modo quell’aspetto terrificante.
- Bill, ascolta… - cercò di rabbonirlo David, sollevandosi in piedi ed andandogli incontro, mentre Bushido, dal tavolino poco distante, osservava il tutto con una mano sulla fronte ed un’espressione incredibilmente preoccupata a deformare i tratti del viso.
- Portatelo via, David. – sibilò il moro, irritato, - Forse dovresti crocifiggere lui al muro. – scoccò seccamente, lanciandogli un’occhiata che avrebbe fatto sentire colpevole pure un santo.
- S… - balbettò il manager, - Ehi, adesso calmati…
Bill, però, già non lo ascoltava più. Gli aveva dato le spalle e si stava dirigendo verso il proprio tavolo con noncuranza.
- Cazzo. – mugugnò David, afferrando Tom per un braccio dopo aver frettolosamente lasciato una banconota da dieci sul tavolo, - Avanti, muoviti! – lo incitò brutalmente, trascinandolo verso l’uscita, - Non posso neanche dargli torto, stavolta! Bel casino hai combinato! Sarà un miracolo se su Bravo finiranno loro col loro idillio e non noi con le nostre cazzate!
Tom si lasciò trascinare senza opporre neanche un minimo di resistenza.
- Non volevo… - borbottò a mezza voce, fissando la strada buia mentre il vento gelido dell’Amburgo invernale gli sferzava il viso, ghiacciandolo, - Davvero…
- Certo, certo. – sbottò David con una smorfia, - Raccontalo ad uno che non ti ha sentito vaneggiare per le ultime due… che dico, ventiquattro ore, Tom!
Il rasta non aggiunse neanche una parola. Se non altro perché, in effetti, quelle scuse improvvisate così, propinate a David perché non avrebbe mai davvero avuto il coraggio di rivolgerle a Bill, sembravano false pure a lui che le aveva partorite – e che, diavolo, le pensava davvero, in un certo senso.
Continuò a farsi trascinare. Fino in macchina, fino in casa, fino in camera.
Alle tre del mattino, rinunciando del tutto al proposito di dormire, con Bill ancora disperso da qualche parte con Bushido e quell’orrendo miscuglio di gelosia, preoccupazione e senso di colpa a gravargli sul petto, fu lui stesso a trascinarsi fino al divano del soggiorno, sul quale si lasciò cadere di colpo, pesantemente, e dal quale prese a fissare la parete vuota di fronte a sé, quasi senza neanche battere ciglio.
*
Il campanello squillò alle quattro.
Tom lo benedisse.
E poi scattò in piedi, perché se avesse aspettato che squillasse ancora, probabilmente, avrebbe pure lasciato che si svegliassero tutti. E sentirsi addosso pure gli sguardi colmi di disapprovazione di Georg, Gustav e David, oltre quello che sicuramente avrebbe imbrattato gli occhi di suo fratello, non era affatto una prospettiva piacevole da affrontare.
Quando aprì la porta, però, si accorse che suo fratello non lo stava disapprovando affatto.
In effetti, totalmente ubriaco com’era, suo fratello doveva essersi a malapena accorto di lui.
- Bill… - bisbigliò incerto, mentre lo osservava rotolare mugugnante addosso a Bushido, che lo tratteneva sicuro con un braccio sotto le spalle e l’altro attorno alla vita.
Già. Perché suo fratello non era neanche solo.
- Ehi. – ridacchiò divertito Bushido, - Te lo sei perso per strada.
No, è lui che ha perso me.
O forse hai ragione tu ed io sono solo un enorme cretino.

- …grazie per averlo riportato… - esalò, rendendosi conto da solo di quanto suonasse ridicolo da dire, e ringraziando anche interiormente per la sbronza di suo fratello, che, almeno, gli avrebbe impedito di ricordare che stavano parlando di lui come fosse stato un cucciolo smarrito.
- Nnhooo… - borbottò Bill, nascondendo il viso sul collo dell’uomo che lo reggeva, - Ti ho detto che volevo andare a casa tua… questa non è casa mia, è casa loro
Bushido roteò gli occhi, cercando di rimetterlo in piedi, visto che, mentre parlava, aveva pure preso a scivolare inesorabilmente verso il pavimento.
- Scusalo. – disse a Tom, - Non è stato attento a quello che mandava giù. È veramente una fogna, quando ci si mette. – borbottò, - E, ovviamente, - aggiunse, con una nota di esasperazione nella voce che a Tom suonò incredibilmente familiare, - in macchina ha preteso di ascoltare gli Smiths. Senza offesa, eh, ma tuo fratello ha dei gusti musicali veramente di merda.
- …già… - deglutì lui con difficoltà, - glielo… glielo dico sempre anch’io…
Bushido rise apertamente e poi gli consegnò suo fratello fra le braccia.
Prevedibilmente, Bill già dormiva.
- Grazie… - ripeté Tom, abbassando lo sguardo su di lui. Aveva i capelli arruffati, russava e gli stava rotolando un rivolino di saliva giù per il mento.
- Piantala di ringraziare. – scrollò le spalle Bushido, - Non potevo mica portarmelo a casa in queste condizioni, dai. Lo affido a te, so che è in buone mani. Salutamelo, quando si sveglia. – concluse con un sorriso conciliante, prima di sollevare una mano in segno di saluto e ripartire alla volta delle scale quasi di corsa.
*
- Tomi…
Quando Bill mugugnò il suo nome, alle prime luci dell’alba del giorno successivo, Tom aveva appena cominciato a prendere sonno. Non gli ci volle molto per riscuotersi e sollevare il capo dal cuscino sul quale l’aveva posato, piantando un gomito nel materasso e poggiando il mento sulla mano, per osservare suo fratello dall’alto.
- Mio Dio, sto una merda… - si lamentò il moro, disincastrando con difficoltà un braccio dalle lenzuola e portandoselo sulla fronte, dove lo lasciò ricadere a coprire gli occhi, miagolando sofferenza, - Ma che diavolo è successo…?
- Ti sei ubriacato, ieri… - lo informò lui, deglutendo a fatica, - Perché…
- Sì. – lo fermò Bill, annuendo lentamente senza poter fermare una smorfia di dolore a increspargli le labbra, - Ok, ho ricordato. Cristo, ho un mal di testa atroce…
- Vuoi che vada a prenderti un bicchiere d’acqua?
Bill sollevò la mano dagli occhi, lanciandogli uno sguardo dubbioso.
- Lascia perdere… - borbottò alla fine, voltandosi su un fianco ed arrotolandoglisi addosso, - Tomi, perché ti sei comportato in quel modo, ieri?
Tom si mordicchiò un labbro, scivolando lentamente con un dito lungo il profilo pallido ed ossuto del viso e del collo di suo fratello.
- Sei un po’ caldo… - sussurrò, guardando altrove.
- Non cambiare argomento… - lo rimproverò Bill, afferrandogli un fianco fra le dita e minacciando di pizzicarlo a morte. – Rispondi. Non capisco proprio come tu possa essere così vigliacco, avendo un fratello coraggioso come me.
- Che vuoi che ti dica? – rimuginò Tom, scrollando le spalle, - Devi esserti preso tu tutti i geni buoni.
- Il coraggio non è genetico, cretino. – ritorse lui, pizzicandolo davvero, anche se molto più leggermente di quanto la sua minaccia non avesse lasciato intendere, - Vuoi rispondere o no?
Tom si lasciò andare ad un sospiro rassegnato, sbuffando un mezzo sorriso.
- Ero preoccupato per te. – concesse brevemente.
- Ah-ha. Guarda che qui ci sono solo io, eh. Puoi parlare liberamente. – lo rassicurò Bill, ridacchiando piano.
- Forse è proprio a te che non voglio dirlo. Non ci hai pensato? – scoccò, stringendo la presa sulla sua guancia ed evitando il suo sguardo.
Bill si separò lievemente da lui, inarcando le sopracciglia.
- Mi stai facendo un male cane, Tom.
- Oh. – si riscosse lui, lasciandogli il viso, - Scusa.
- Non quello. – rispose suo fratello, afferrandogli la mano con la propria e riportandosela sulla guancia, - Parlami.
Parlargli. Come se quello che aveva da dire fosse così semplice da sputare fuori. Come se quello che aveva da dire fosse giusto, tanto per cominciare. Come se avesse davvero qualche diritto di sentirsi così…
…preoccupato triste solo ansioso e tutto il resto…
- Ho paura che mi mancherai. – sussurrò, abbandonandosi contro di lui, nascondendo il viso sul suo collo, - Anzi, in realtà ho solo paura di perderti del tutto. Perché, per mancarmi, mi manchi già.
Bill sbuffò una risatina intenerita, stringendolo forte per le spalle.
- Guarda che io sono qui e non intendo muovermi.
- Certo, per ora. – sibilò lui, affondando il capo più in profondità, spingendosi contro la sua pelle, - Ma pensa se questa storia con Bushido dovesse andare avanti. Magari fra qualche mese davvero sentirai casa sua come se fosse più casa tua di questa, e vorrai andartene. – sospirò, scuotendo lentamente il capo come a farsi più spazio fra la sua spalla e il suo mento. – Che poi il problema non è neanche davvero Bushido. Probabilmente non sarà lui, ma prima o poi andrai via davvero. Con lui o con qualcun altro.
- Tomi…
- Io no. – lo interruppe ansioso, tornando a sollevare lo sguardo su di lui, - Io non andrò mai via con nessuno. Tu lo sai questo. È come se avessi addosso… uno di quei dannati collari con il guinzaglio che si allunga. Mi allontano, mi allontano, faccio pure il giro del quartiere, se voglio, ma è qui che torno. Sempre. Perché sei tu che lo reggi, quel guinzaglio. – si fermò un secondo, cercando di decifrare una risposta nei suoi occhi confusi e ancora lievemente velati di sonno. – Capisci cosa sto cercando di dirti?
- …a grandi linee. – rispose Bill, passandogli dolcemente una mano fra i capelli. – Però, sinceramente, al momento quello ubriaco sembri tu.
Tom sospirò profondamente, lasciandosi andare di nuovo contro di lui.
- Lo sapevo. Non hai capito.
- Ehi… - sussurrò suo fratello, sollevandogli lievemente il mento con due dita, - Guarda che ho capito. Davvero.
- Sì, certo… - si limitò a biascicare lui, scuotendo piano il capo e sospirando ancora. – Sono stanco. Ti spiace se dormo un po’?
Bill tornò a distendersi sul materasso, facendogli posto, e Tom gli si arricciò addosso esattamente come aveva fatto lui stesso pochi minuti prima.
- Tomi… - lo richiamò poco dopo, accarezzandogli lentamente una spalla, - Sai che io mi sento così ogni volta?
Lui sollevò lo sguardo, incontrando quello vagamente triste di suo fratello.
- Come?
- Ogni sera che incontri qualcuno, prendi e te ne vai… - spiegò Bill, stringendosi imbarazzato nelle spalle, - Io penso che potrebbe essere quel momento. Che “lei” potrebbe essere la ragazza giusta, che tu possa innamorarti e andartene. Davvero, lo penso ogni volta.
- Ma che stai dicendo…? – ritorse Tom, con una smorfia, - Sai che questo è impossibile, io non mi innamoro mai.
- Tu… - sbuffò lui, contrariato, - ti ostini a parlare sempre come se potessi prevedere il futuro, quando in realtà non puoi farlo! Guarda me: avevo tutto un programma, la ragazza dei sogni, quella che mi avrebbe amato per com’ero e non per ciò che mostravo in pubblico, una ragazza dolce e carina con la quale potessi condividere tutto, con cui potessi giocare a Monopoli fino allo sfinimento ogni notte, e mi sono ritrovato con… con Bushido! A lui il Monopoli neanche piace! – borbottò, gesticolando convulsamente, mentre Tom ridacchiava divertito. – Del piano originale è rimasto solo l’amore. – aggiunse poi, teneramente. – Tu non hai neanche idea delle migliaia di forme sotto le quali l’amore ti si può presentare. Una mattina ti sveglierai e ce l’avrai accanto. E magari non sarà neanche una di quelle bombe supersexy che ti ostini ad immaginare tu. – lo redarguì, con un cipiglio serio piuttosto comico, - Magari sarà Georg, chessò! – sbottò, ridacchiando a propria volta, - O comunque l’ultima persona che ti saresti aspettato, ecco.
Tom rise più apertamente, arruffandogli dolcemente i capelli.
- Con questo vuoi dire che…?
- Che non sei il solo ad avere paura. – rispose Bill, sorridendo lievemente, - Tom, noi siamo nati insieme, abbiamo sempre vissuto insieme, e quando penso alla nostra morte, lo sai, penso che anche in quel momento saremo insieme, come sempre. Tu sei in assoluto la persona più importante, per me. Senza di te, io non avrei senso.
Il rasta sorrise, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.
- Questo non cambierà mai. – continuò Bill, stringendoglisi addosso, - Perciò, io potrò pure vivere in un’altra casa, amare altre persone ed avere dei figli o chessò io, ma noi non ci lasceremo mai.
Nel sospiro stremato che Tom gli rilasciò sulla pelle, accompagnato da un sorriso sereno e disteso che era il primo degli ultimi due giorni, sembrò svanire tutta la tensione e l’angoscia delle ultime ore. Svanire davvero: come non fosse mai esistita.
- Certo che è buffo. – borbottò il biondo, accomodandosi meglio sul materasso ed accogliendo Bill sul proprio petto.
- Cosa? – rise l’altro, sistemandoglisi addosso, - Che sia bastato così poco per tranquillizzarti?
- No. – ritorse lui, ridacchiando ironico, - Che tu abbia parlato di figli. Sto cercando di immaginare alternativamente te e Bushido incinti, ma è uno spettacolo disgustoso! – rispose, ridendo sguaiatamente.
Bill lo fissò, orripilato.
- Ma tu fai veramente schifo! – strillò, salendogli a cavalcioni e cercando di soffocarlo con un cuscino.
- Probabilmente, comunque… - sospirò Tom fra le risate, liberandosi del cuscino e trattenendo Bill per i polsi, - sarebbe un buon padre. – concluse, sorridendo serenamente.
Bill sorrise di rimando, scendendogli di dosso ed adagiandosi nuovamente fra le coperte.
- Tomi? – lo chiamò poco dopo, incerto.
- Sì? – lo incitò a continuare lui, recuperando il lenzuolo e coprendo entrambi.
- Questo significa che domani posso invitarlo a cena? – chiese a mezza voce, dubbioso.
Tom si prese un secondo per riflettere.
- Adesso non esageriamo. – borbottò alla fine, scuotendo il capo con decisione. – Buonanotte.
- Ma sono le-
- Buonanotte, Bill.
- Uffa. Sei sempre il solito codardo guastafeste. – sbuffò il moro, incrociando le braccia sul petto prima di scalciare come un puledro imbizzarrito e voltarsi su un fianco, rubandogli tutta la coperta.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Drabble.
- Chiudere gli occhi e cercare di non pensare alle conseguenze alle volte non è l'atteggiamento migliore da adottare.
Note: Scritta poco dopo l’apparizione del famoso video che mostra Tomi fare quello di cui si parla in questa drabble. Ho sentito dire cose tremende da ogni parte, nel corso di questa faccenda. La mia opinione è che naturalmente il torto sta da entrambe le parti, come sempre in ogni ambito della vita, ma solo una delle due parti è comprensibile a livello umano. E quella parte è Tom. Ma naturalmente non saranno le petizioni di un paio di bimbeminkia infoiate a salvarlo dalle sue responsabilità oggettive :D
(Lezione di vita gratuita: amare un personaggio dello spettacolo non vuol dire millantarne la perfezione in ogni campo, ma riconoscerne i difetti e continuare a mantenerlo caro al proprio cuore nonostante essi.)
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HITTEN
3. Don't wanna see what happens next (Arcade Fire)

David si massaggia entrambe le tempie, respirando piano e profondamente, come avesse estremo bisogno di rifornire il cervello della maggior quantità d’aria possibile, per permettersi di pensare efficacemente.
- Era solo uno schiaffo, mh? – dice tetro, e Tom abbassa lo sguardo, mordendosi l’interno di una guancia. – Ti avevo chiesto di essere sincero, Tom, per prepararci bene. E ora viene fuori che l’hai inseguita per tre metri, l’hai buttata per terra e hai comunque continuato a pestarla anche dopo che era caduta?
Il ragazzo non sa che rispondere, perciò non dice niente. Per un secondo ha voglia di lasciarsi andare e chiedere a David se lui ci sia mai passato. Se si sia mai sentito in trappola. Se non abbia proprio mai avuto voglia di non pensare alle conseguenze e tirare un bel cazzotto sul naso a qualcuno che lo stava infastidendo o perseguitando o che continuava a sparare cazzate solo per il gusto di metterlo in difficoltà.
Vorrebbe dirlo davvero, ma non sa se lo aiuterebbe, nella posizione in cui è. Perciò resta in silenzio, e così come non ha pensato alle conseguenze nel momento in cui è sceso dalla macchina ed ha pestato Perrine – perfino con soddisfazione, cazzo, e lo rifarebbe – non ci pensa nemmeno adesso, chiude gli occhi e si scusa. Ma piano, a bassa voce.
- David, per favore. – quasi singhiozza Bill, allungando una mano a stringere la sua senza muoversi dal suo fianco, - Pensaci tu.
David sospira, e anche lui vorrebbe chiudere gli occhi e smettere di pensare a qualsiasi possibile conseguenza. Solo che non può.
Genere: Commedia, Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bill/David, Tom/David, Bill/Georg, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Underage.
- Bill ha fatto a pugni con un paio di bulli a scuola e Tom è rimasto fuori fino a tardi con Andreas: e seguito di tutto ciò, i gemelli finiscono in punizione e si ritrovano a dover passare una notte in casa da soli quando Simone e Gordon vengono invitati a cena fuori. Quando litigano, però, tutto precipita. E precipita anche Bill: in una realtà completamente diversa dalla propria, governata da un misterioso sovrano che manipola i luoghi e i tempi e che, soprattutto, tiene prigioniero suo fratello. Riuscirà Bill a salvarlo, o rimarrà imprigionato nel labirinto senza riuscire a trovarne l'uscita prima delle tredici ore al termine delle quali Tom verrà trasformato in un goblin?
Note: Punto primo: mi scuso enormemente perché, se non avete visto Labyrinth, questa storia probabilmente vi sembrerà una menata pure noiosa con un qualche significato nascosto (c’è è_é lo giuro! è_é) ma assolutamente dimenticabilissima. Lo è *annuisce* Ma io la amo perché, se invece avete visto Labyrinth, ci troverete dentro tante di quelle citazioni che vi verrà da ridere continuamente. Questa non è veramente una fanfiction, è un ridicolo tributo! XD
Ciò detto, il Tost ed il Biorg sono molto forti in questa storia o_ò Per quanto riguarda il Tost, sapevo che ci sarei caduta. Il Biorg invece mi ha preso in contropiede ma l’ho amato parecchio o_ò Il Bu si limita ad essere ridicolo, però insomma, almeno becca i baci =P
E sì, l’omino baffuto è Eko Fresh. Sono spiacente, ma lui era perfetto, punto XD
Poi, be’, insomma, non ho molto altro da dire. Scritta per il terzo contest della Jost Fiction, alla fine avrebbe voluto essere molto più erotica però non ce l’ho fatta XD Era decisamente decisamente underage ed un po’, lo ammetto, mi fa senso, a questi livelli. Quattordici anni sono davvero troppo troppo pochini per farsi mettere le mani addosso da un re dei goblin trentenne ;_;” Chiedo perdono a Tomi che si struscia, povero cuore. Comunque la scena era puccina! XD Mi sa che sono andata un po’ fuori tema, ma Yulin e Tabata mi perdoneranno. Al limite, mi creano un premio apposta. So che lo vogliono anche loro. Questa storia è FOLLE XD
Comunque tendenzialmente sarebbe una Bost. <- wtf. *muore*
Ora basta, sono le cinque del mattino e scrivo ininterrottamente da quasi sei ore. Credo che andrò a morire nel mio letto, per ciò che resta di questa notte assurda. Grazie della lettura e spero non vi siate annoiati troppo <3
PS. Quando ho scoperto che labirinto, in tedesco, si dice allo stesso modo che in inglese, volevo morire. Perché ho già una Labyrinth, fra le mie storie.
Fortunatamente, il tedesco ha degli articoli che con gli articoli inglesi non c’entrano un beneamato. Grazie WordReference -.-“
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DAS LABYRINTH
“Will I hold you again?” (The Space Between – Dave Matthews Band)

Simone, bellissima nel proprio vestito in raso nero, aderente e lungo e liscio e splendido – e Bill avrebbe tanto voluto rubarglielo, tagliuzzarlo qua e là e farne una maglietta niente male da indossare sopra la maglia a rete – rimase ferma sulla porta un paio di minuti abbondanti, squadrando entrambi i propri figli con un cipiglio serio e severo.
- E non si esce. – precisò, - Siete in punizione.
Bill mugolò.
- È Tom che è tornato tardi ieri notte, non io… - disse affranto, arrotolandosi in un angolo del divano mentre suo fratello si inorgogliva ripensando alla precedente nottata, passata con Andreas a fingersi diciottenne per rimorchiare a Magdeburgo.
- Tu devi ancora finire di scontare la tua pena per la rissa, Bill. – gli ricordo Gordon, avvolto in un completo da sera che lo faceva sembrare solo più ridicolo del solito, e già in genere lo era parecchio.
- Ma non è stata colpa mia! – ricordò il ragazzino, agitandosi fra i cuscini, - Sono stati quegli stronzi a-
- Un’altra parola, Bill, - minacciò sua madre con un sorriso bellissimo, fiero e mortale, - e ti aggiungo un’altra settimana alla punizione. D’accordo?
Il ragazzo sbuffò ed afferrò la copertina abbandonata in mezzo al divano, avvolgendocisi stretto col preciso intento di non lasciarne neanche un centimetro al fratello.
- Fate i bravi. – commentò un’ultima volta Simone, già in procinto di uscire. – Torneremo prima di mezzanotte. – e così dicendo abbandonò la casa, seguita a ruota dal proprio compagno.
Bill lanciò un’occhiataccia a Tom, per proprio conto ancora perso nei ricordi della sera precedente e ghignante e felice come se tutto fosse perfettamente perfetto attorno a lui.
- Io ti odio. – sibilò maligno, riportando l’attenzione del fratello su di sé. Lui lo guardò stralunato, come lo stesse vedendo in quel momento per la prima volta.
- Billi…? – fece, spalancando gli occhioni castani ed allungando una mano incerta verso di lui.
- Niente Billi! – strillò il ragazzo, richiudendosi a palla nell’angolo, - È tutta colpa tua! Se ieri non avessi deciso di fare il cretino e restar fuori con quell’altro deficiente fino alle dannate tre del mattino, oggi saremmo fuori a divertirci!
- Be’, io sì. – precisò il biondo, sistemando dietro un orecchio una ciocca di quei suoi disordinati capelli dalla forma improponibile, - Tu no, Bill, perché come ti ha detto mamma prima sei ancora in punizione.
- Non capisco perché solo io sono stato messo in punizione per la rissa! – si lamentò ancora il moro, incrociando le braccia sul petto, - Sei stato coinvolto anche tu!
- Be’, sei stato tu a cominciare… - rifletté Tom, inarcando le sopracciglia, - Io sono solo venuto a ripescarti prima che ti spaccassero qualche osso. – annuì con convinzione.
- Non mi avrebbero spaccato nessun osso. – ringhiò Bill, furioso, - Li stavo riducendo tutti in poltiglia. E comunque il punto non è questo, il punto è che sei uno stronzo e ti odio!
Tom sospirò e sollevò gli occhi al soffitto, come in cerca di un qualche aiuto da parte delle divinità dei piani alti – visto che quelle dei piani bassi avevano già interferito notevolmente sulla sua vita dotandolo di un gemello cattivo.
- Bill, fai il bravo. – suggerì pazientemente, - Niente rotture di palle, ho Lancillotto in ostaggio.
Il ragazzo spalancò gli occhi, oltraggiato.
- Tu hai… - annaspò, stringendo le dita come tenaglie attorto alla coperta, - hai preso Lancillotto!!! Sei senza cuore!!! Ridammelo!!!
- È in un luogo sicuro. – lo prese in giro il biondo con un mezzo ghigno, - Ma lo riavrai solo se riuscirai a passare questa serata con me senza farmi impazzire, fratellino.
Bill mugolò scontento e si raggomitolò ancor di più nel proprio angolo, frugando fra i cuscini alla ricerca di qualcosa. Tom lo osservò incuriosito, inclinando lievemente il capo.
- Cosa stai combinando? – chiese dubbioso, sporgendosi verso di lui.
- Cerco Labyrinth. – borbottò in risposta Bill, riuscendo finalmente a mettere le manine artigliate sulla sua personalissima bibbia foderata di rosso ed aprendola ad una pagina a caso sulle ginocchia. Quale pagina fosse non era importante: aveva letto e riletto quel libro tante di quelle volte che ormai lo conosceva a memoria, perciò era perfettamente in grado di riprendere il filo del discorso qualsiasi fosse la pagina su cui posava lo sguardo.
Tom sbuffò e roteò gli occhi.
- Non potresti, per una volta nella tua vita, mettere via quel coso e stare un po’ con me, visto che ultimamente ci vediamo pochissimo? – si lamentò pigolante.
- Questo perché tu e l’altro deficiente siete sempre in giro a rimorchiare. – borbottò Bill senza staccare gli occhi dal libro.
- Be’, tu potresti venire con noi. – ritorse Tom in un borbottio irritato.
- Tomi, non ha senso dire che vorresti uscire con me per andare a rimorchiare, dato che è implicito che quando si rimorchia si sta con altri… - gli ricordò il moro soprappensiero, già perso fra le righe.
Tom ringhiò e si alzò in piedi di scatto, muovendosi con rabbia lontano dal divano.
- E va bene, fai un po’ quel cazzo che vuoi. – lo rimproverò, - Io vado di sopra a chiamare Andi, sperando che anche lui sia stato messo in punizione. – biascicò lamentoso, dirigendosi verso le scale, - E torturerò Lancillotto per ripicca, sappilo!
Bill sospirò ed annuì. Suo fratello sapeva bene che qualsiasi ferita inflitta al corpo di Lancillotto si sarebbe poi miracolosamente trasformata in una ferita molto più grave al suo, di corpo, e dal momento che Bill era ragionevolmente convinto che suo fratello non ci tenesse poi così tanto a ritrovarsi la punta di un anfibio su per il culo, era piuttosto tranquillo riguardo la sorte del suo orsacchiotto favorito.
Continuò semplicemente a leggere, avvolgendosi nella coperta e lasciandosi trascinare dalla fiaba.
Da sopra, arrivava in un’eco indistinta la voce di Tom che, furioso, strillava nella cornetta quanto fosse orribile avere un fratello gemello, quanto ancora più orribile fosse avere Bill come fratello gemello e quanto invece sarebbe stato meraviglioso che lui e Andreas fossero stati fratelli, magari non gemelli, ma comunque imparentati; sarebbero stati sicuramente molto più complici e si sarebbero divertiti molto di più e bla bla bla… Bill si chinò in avanti, recuperando una scarpa da terra e lanciandola con forza in aria, fino a colpire il basso soffitto sopra di sé, provocando un inquietante rumore contro l’intonaco.
- Vuoi stare un po’ zitto?! – borbottò offeso, - Non riesco a concentrarmi!
La risposta di suo fratello alle sue lamentele fu, ovviamente, continuare a parlare più forte.
Bill serrò la mascella e socchiuse le palpebre, scontento. Tom era arrabbiato ed a lui dava fastidio, quando lo era. Primo, perché la sua rabbia se la sentiva nello stomaco – una delle tante controindicazioni della gemellarità, supponeva. Secondo, perché Tom si arrabbiava davvero solo per cose che riguardavano lui, probabilmente perché, in un certo senso, riteneva che solo lui fosse un argomento tanto serio da meritare rabbia. In tutti gli altri ambiti della vita, Tom era sempre o quasi sempre allegro e spensierato, ma quando si parlava di Bill se la prendeva ogni volta come lo stessero ricoprendo di offese mortali.
Bill odiava essere oggetto d’odio. Perché sentiva il bisogno fisico di odiare a propria volta, quando succedeva.
E lui non voleva affatto odiare Tom.
- Re dei Goblin, Re dei Goblin… - sussurrò quasi a prendersi in giro da solo, perfino sorridendo un po’, - ovunque ti trovi adesso, porta via questo ragazzo, lontanissimo da me… -
“È insopportabile, Andi…”, sbraitò Tom dal piano di sopra, “Certe volte penso che sarebbe stato meglio se non fosse mai venuto fuori, lo stronzo”.
Bill abbassò lo sguardo, incassando la testa nelle spalle.
Quello aveva… fatto male.
- Desidero proprio che i goblin ti portino via… - esalò in un sussurro estenuato, - All’istante.
Dal piano superiore non venne più alcun suono. Non il chiacchiericcio furioso di suo fratello e nemmeno il suo muoversi circolarmente avanti e indietro per la stanza, strisciando sul pavimento con le suole di gomma delle scarpe da tennis. Immaginò dovesse aver chiuso la conversazione ed essersi messo a letto. Tom poteva restare sveglio per giorni e giorni, quando era felice, ma quando si arrabbiava o si intristiva si spossava subito ed era capace di dormire per sempre. Almeno finché non fosse sbollita la rabbia.
Bill sospirò e richiuse il libro, lasciandoselo scivolare giù lungo le gambe per poi recuperarlo e posarlo sul cuscino accanto a sé. Si avvolse meglio nella coperta – c’era un freddo incredibile, in casa, e fuori pioveva a dirotto. Sperò che sua madre e Gordon avessero portato con loro un ombrello – e cominciò a salire pigramente le scale.
- Tomi… - chiamò già a metà della rampa, - Senti, facciamo pace prima che tu ti addormenti e mi tenga il broncio fino alla fine dei secoli…?
Dalla stanza continuò a non giungere alcun suono. Anche la luce era spenta, non filtrava niente da sotto la porta.
Bill deglutì, riportando alla memoria le frasi pronunciate mentre stava ancora rannicchiato sul divano.
Non era veramente possibile che…
- Tomi… - chiamò ancora, aprendo la porta e fermandosi sulla soglia, - Tomi, stai bene…?
La stanza era vuota. Vuota, buia e silenziosa. Dal balcone aperto, il temporale invadeva la casa, bagnando il letto e i mobili e il pavimento e infrangendo col frastuono dei tuoni il silenzio irreale dell’ambiente. Bill deglutì e si strinse nella coperta, raggiungendo la finestra e richiudendola col gancio, mentre abbandonava la stanza e si muoveva lungo il corridoio, alla ricerca del fratello.
Naturalmente, Tomi non era da nessuna parte.
Il cuore stretto in una morsa e tutti i muscoli contratti, Bill tornò in camera e si guardò intorno.
- Tomi, non mi sto divertendo… - mugugnò, sperando solo che suo fratello si ricordasse di essere un epocale cretino ed avesse voglia di ricordarlo anche a lui, magari strisciando fuori dal letto con un urlo per spaventarlo. O qualcos’altro di altrettanto stupido, purché – dannazione – fosse ancora lì da qualche parte.
Una voce ridacchiò alle sue spalle, e Bill si voltò di scatto per trovarsi di fronte… niente. Il buio della stanza e nient’altro.
- C’è nessuno…? – chiese con aria incerta, avanzando verso il luogo dal quale la voce era arrivata e guardandosi intorno con aria circospetta.
Una voce diversa, più roca, ma dallo stesso timbro stridulo della prima lo raggiunse nuovamente alle spalle. Bill fece per voltarsi ma non ne ebbe il tempo: a metà della torsione si accorse di un’ombra – qualcosa di piccolo e peloso – che scompariva dietro il letto. Ed altre risate. Risatine inascoltabili, spaventose, cominciarono a fioccare da ogni angolo della camera, e mentre Bill si metteva al centro, avvolto dalla coperta come dovesse schermarlo contro i mali del mondo, qualcosa di pesante sbatté più volte contro il vetro della finestra – thud thud thud – accompagnato da un battito d’ali che gli diede i brividi e gli annodò lo stomaco. Bill girò sui tacchi e vide un’enorme civetta bianca battere con forza contro le imposte, pressando le zampe artigliate sul legno come a volerle spalancare. Una volta, due volte, tre volte, e poi la finestra cedette sotto il peso dei colpi, aprendosi. Bill si coprì istintivamente il capo, piegandosi un po’ su se stesso mentre l’enorme uccello attraversava la stanza fermandosi dal lato opposto.
Quando Bill riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, il battito d’ali era cessato. Si voltò a guardare verso il punto nel quale avrebbe dovuto trovarsi il volatile, ma la civetta non c’era più. Al suo posto, però, c’era un uomo.
Doveva essere alto più o meno quanto lui, ma sembrava incredibilmente più… vecchio probabilmente non era la parola giusta, perché in realtà sembrava anche incredibilmente giovane. La sua era un’età indecifrabile, ma la sicurezza che si sprigionava dalla sua persona e soprattutto da quegli occhi azzurrissimi che gli teneva puntati contro – con una sfacciataggine che lo turbava – parlava di una saggezza acquisita con anni… secoli di vita.
Era una saggezza strana, comunque.
Era spaventosa. Quegli occhi erano spaventosi.
Bill si avvicinò, muovendosi quasi contro la propria volontà.
- Tu sei… il Re dei Goblin… - disse senza fiato, stringendosi la coperta attorno alle spalle.
L’uomo chinò il capo in segno d’assenso, sorridendo lievemente, quasi fosse solo divertito dalle sue esitazioni.
- M-Mio fratello… - disse Bill, deglutendo appena.
- Ciò che è detto è detto. – rispose l’uomo, rimanendo immobile contro la porta, le braccia incrociate sul petto.
È successo davvero, si disse Bill, mordendosi un labbro, per colpa mia…
- Ti prego… - annaspò, le lacrime agli occhi, - dov’è adesso?
L’uomo sollevò appena il mento squadrato, gli occhi celesti a dardeggiare su di lui ed i corti capelli castani scossi appena dal vento furioso che invadeva la stanza.
- Sai molto bene dov’è. – rivelò severo, senza muoversi di un centimetro.
- Ti scongiuro… - continuò Bill, indifeso e smarrito, - riportamelo.
L’uomo si mosse verso di lui, scuotendo lentamente il capo.
- Bill… - suggerì suadente, a bassa voce, - dimentica tuo fratello.
Il moro spalancò gli occhi.
- Non posso! – strillò, stringendo i pugni, - Non voglio! Ridammi mio fratello!
L’altro non mostrò di essere particolarmente colpito dalla sua disperazione, e si limitò a sollevare una mano.
- Io ti ho portato un regalo… - disse semplicemente, mentre una sfera di luce si concentrava sulle punte delle sue dita fino a concretizzarsi in un globo trasparente. – È un cristallo magico. – rispose con un sorriso furbo alla domanda che Bill non ebbe fiato e coraggio di porre, - Se guardi al suo interno, puoi vedere i tuoi sogni. – si avvicinò ancora, sussurrando, - Quelli più profondi, quelli che non hai nemmeno capito di stare sognando. Però – continuò, separandosi sbrigativamente da lui, - non è certo un regalo da dare ad un ragazzino che si preoccupi di cose futili come un fratello lagnoso.
Bill rimase immobile e silenzioso, in attesa del resto.
- Se lo vuoi, dimentica tuo fratello. – disse infatti l’uomo, sorridendo conciliante.
Il ragazzo si morse nuovamente un labbro, incerto.
- Non posso. – disse poi, - Ti prego, per favore, dimmi-
- Bill. – tuonò l’uomo, mentre la sfera di cristallo si trasformava in un serpente – un serpente, Dio! – fra le sue dita. – Non sfidarmi. – concluse, prima di lanciargli il serpente addosso.
Bill urlò, raggomitolandosi su se stesso mentre percepiva distintamente le spire del rettile avvolgersi attorno al suo collo, ma la sua paura si affievolì e scomparve – ed in breve ne rimase solo il battito un po’ accelerato del suo cuore – quando si accorse che il serpente s’era trasformato in uno scialle colorato ed era poi caduto a terra. Fra le risatine dei goblin alle sue spalle, per le quali neanche si voltò – aveva già capito che non ne avrebbe comunque visto nemmeno uno.
Si rimise dritto e deglutì, stringendo i pugni e cercando di farsi forza.
- Dimmi dov’è. – insistette, - Dimmi dov’è mio fratello.
L’uomo sospirò annoiato e stese un braccio verso la finestra, indicando all’esterno.
- È lì. Nel mio castello. – concesse disinteressato.
Bill seguì il dito puntato e guardò fuori. Il mondo non era più quello che ricordava. Dove avrebbero dovuto esserci la notte e un temporale e le vie scure di Loitsche c’era invece un enorme e intricatissimo labirinto di piante e mura, ed oltre un grande castello che s’intravedeva appena nell’aria rossiccia che avvolgeva tutto e che sembrava infuocata.
Bill lasciò ricadere la coperta – non c’era più nemmeno freddo – e si mosse. Quando si voltò indietro, casa sua era scomparsa. C’era solo un terreno arido e vuoto, qualche sterpaglia, e quell’uomo, che lo fissava sarcastico.
- Torna indietro, Bill. – suggerì con un sorriso strafottente, - Torna indietro finché sei in tempo.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- No! – protestò deciso, - Non posso e non voglio, lo capisci questo?! Lui è mio fratello! – sbottò, tornando a guardare il labirinto ed il castello.
- Be’… - sussurrò l’uomo, - puoi sempre provare a riprendertelo. È un peccato – aggiunse con una risatina, - che tu abbia così poco tempo.
- …poco tempo…? – chiese Bill, confuso e teso.
L’uomo rise, gli occhi sottili e freddi, sempre disturbanti.
- Solo tredici ore. Poi, il tuo lagnoso fratello diventerà uno di noi.
- A-Aspetta… - cercò di fermarlo Bill, ma l’uomo lo zittì ancora con un risoluto cenno del capo.
- Solo tredici ore. – ripeté, - Fai del tuo meglio, Bill. – e scomparve.
*
Faceva caldo. Era incredibile pensare di avere appena lasciato l’inverno in Germania ed essersi ritrovati all’improvviso immersi in un’estate così torrida ed in un posto che non sembrava nemmeno esistere davvero.
Girando attorno all’enorme parete che sembrava circondare l’intero labirinto, Bill si chiese se sarebbe mai riuscito a tornare a casa. O a trovare davvero Tomi.
Si morse una guancia.
Il solo pensare che la sua sparizione fosse davvero una sua colpa gli stringeva il cuore così tanto da fargli male. Non voleva davvero che sparisse. Non voleva affatto che sparisse. E non riusciva a trovare la stupida entrata dello stupido dannatissimo labirinto.
Stava quasi per arricciarsi in un angolino e mettersi semplicemente a piangere – non era un piagnone, non lo era affatto, dava a tutti i bulli del filo da torcere, a scuola, ma lì era diverso, non era scuola, non c’era Tomi, era lontano da casa ed era tutta colpa sua – quando un rumore scrosciante lo colpì. Dove c’era movimento doveva per forza esserci qualcosa a produrlo.
Pregò intensamente che non fosse solo una stupida cascatella a caso e si avvicinò alla fonte del rumore.
Quando vide da cosa era provocato, fu seriamente incerto sulla possibilità di mettersi a ridere o essere felice e basta perché aveva trovato qualcuno.
Un ragazzo dai capelli lunghi fino alla base del collo, forse solo un po’ più corti di quelli di Tomi, e gonfi – doveva avere più o meno la sua età – stava fermo a gambe larghe davanti ad una piccola pozza d’acqua e, semplicemente, faceva pipì.
- Scusa… - disse Bill, titubante, cercando di trattenere le risate.
- Oh? – disse il ragazzo, voltandosi a guardarlo, - Ah, sei tu. – borbottò poi, esaurendo il proprio bisogno e richiudendo i pantaloni, prima di saltare giù dal muretto sul quale era issato e recuperare da terra una specie di diffusore a spruzzo come quelli che la mamma metteva in bagno e cambiava ogni due settimane.
Bill non si fermò a riflettere sul fatto che quell’individuo non fosse stupito di vederlo: aveva altre priorità, al momento. Quando il tizio prese a camminare, il moro si limitò ad andargli dietro.
- Io mi chiamo Bill. - disse incoraggiante.
- Sì, lo so. – rispose lui, con aria annoiata, - Io mi chiamo Georg.
Proprio in quel momento, da una fenditura nel muro venne fuori un minuscolo esserino alato, in tutto e per tutto simile ad un insetto, ma ridacchiante e dalla forma vagamente antropomorfa.
- Queste sono…
- Fate. – concluse per lui il ragazzo, - Quarantasette! – esclamò poi, spruzzando qualcosa sulla fatina ed osservandola cadere a terra, stordita.
- …me le aspettavo più carine. – commentò Bill, scrutando la creatura per terra, - Sembrano mosconi. – continuò con una smorfia.
- Che ti aspettavi? – disse il tipo, acido, - Sono solo fate.
Bill annuì vagamente e poi tornò a concentrarsi sul proprio obiettivo.
- Senti, - disse ansioso, - io devo assolutamente trovare mio fratello. Tu puoi aiutarmi?
- Forse sì, forse no… - rispose quello, sibillino. – Quarantotto! – e mandò al tappeto un’altra fatina. – Cos’è che ti serve?
- Io… - borbottò Bill, confuso, - …dov’è l’entrata?
- Ah, chissà. Sei proprio sicuro di volere andare là dentro? Quarantanove! – e giù un’altra fata.
Bill aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Ma vuoi starmi a sentire?! – protestò infastidito, - Allora, puoi aiutarmi o no?!
Il ragazzo si decise finalmente a fermarsi a squadrarlo con aria disapprovante.
- Tu non mi fai le domande giuste. – rivelò seriamente, piantando le mani sui fianchi.
Bill abbassò lo sguardo e sospirò.
- …come faccio ad entrare? – chiese alla fine, già esausto, passandosi una mano sugli occhi.
Georg sorrise subito.
- Ecco, questa è un domanda a cui posso rispondere! – disse gioviale. – Puoi entrare da lì. – rivelò. E nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, nell’enorme muro di cinta che circondava il labirinto si aprì un pesantissimo cancello.
- …ma… - biascicò Bill, fissando il tutto con aria sconvolta, - Quando ti ho chiesto dov’era l’entrata, tu-
- Devi imparare a chiedere le cose giuste, Bill. – commentò semplicemente il ragazzo, annuendo. – Per esempio… - continuò, accompagnandolo all’interno, - adesso dove pensi di andare? A destra o a sinistra?
Bill guardò entrambe le vie, sporgendosi un po’ per cercare di scrutare il più lontano possibile. Fu inutile: le due strade erano completamente identiche.
- Una vale l’altra. – rispose con una scrollatina di spalle.
Georg inorridì, disgustato.
- È questo il problema con i tipi come te, non date il giusto valore alle cose! Ecco perché tuo fratello è prigioniero!
Bill abbassò lo sguardo, colpevole. Il ragazzo aveva perfettamente ragione.
- Sai cosa ti dico? – continuò Georg, sempre più infuriato, - Non ci riuscirai mai, ad uscire da questo labirinto. Se anche dovessi arrivare al centro, non riusciresti mai a venirne fuori!
- Be’, questo è ancora da vedere! – rispose Bill, sollevando il capo ed aggrottando le sopracciglia, offeso.
Il ragazzo scosse una mano come a scacciare le mosche, deluso.
- Datti da fare, ragazzino, o non ce la farai davvero. – borbottò, prima di lasciarlo lì e tornare a varcare il cancello, richiudendoselo alle spalle senza neanche toccarlo.
Bill sospirò e cercò di farsi forza. C’era poco da fare. A parte cominciare a camminare.
*
Tutto quello che Tom riusciva a fare era stringersi nelle spalle. Era veramente l’unico movimento gli fosse consentito, visto che la corda d’oro che lo stringeva attorno alle braccia non gli permetteva neanche di allontanarle dai fianchi.
Seduto sopra un’enorme poltrona in velluto rosso, reso muto da una fascia stretta con forza attorno alla bocca, il biondo si dibatté un po’ e poi mugolò affranto. Non c’era modo di liberarsi.
L’uomo che lo teneva prigioniero stava seduto su una poltrona del tutto identica alla sua, ma al contrario di lui aveva mani e piedi completamente liberi e, volendo, avrebbe potuto alzarsi ed andare via. Ed invece rimaneva lì immobile a guardarlo con aria furba, posandogli addosso quegli incredibili e freddissimi occhi azzurri mentre l’esercito di creaturine deformi che lo circondavano lo torturava nei modi più assurdi – dal solletico ai pizzicotti – fino a farlo impazzire.
- Hmpf- - si lamentò il ragazzo, cercando di saltare giù dalla sedia. Non gli riuscì nemmeno quello, perché la corda d’oro era assicurata allo schienale della poltrona. Si limitò perciò a lanciare occhiatacce all’uomo che stava seduto di fronte a lui, una gamba posata sul bracciolo della propria poltrona ed un piccolo frustino nero a battere contro lo stivale.
- Tu dovresti imparare il valore del silenzio, Tom. – disse appunto l’uomo, tornando a sedersi composto per guardarlo negli occhi. – È per questo che sei finito qui, no?
Tom si agitò e cominciò un lungo discorso che sarebbe suonato più o meno come un “no, io non lo so perché sono qui e non ho capito un accidenti di questa storia degli gnomi o dei folletti o di qualunque altra cavolata si tratti, è roba per quell’idiota di mio fratello e, a proposito, se vengo a scoprire che tutto questo è opera sua, giuro che lo faccio fuori con le mie stesse mani, e comunque non ho capito bene per quale oscuro motivo dovrei chiamarti Re e perché sto legato a questa stupida dannata sedia con tutte queste creaturine bitorzolute che mi fanno il solletico, voglio dire, è palesemente una violazione dei diritti umani, lo sai che mio padre fa il camionista, eh?, lo sai?, potrebbe passarti sopra col suo camion e di te non resterebbe niente, e dove cavolo è mio fratello, comunque?!”. Sarebbe suonato così, ma naturalmente non poté che suonare invece come un unico e prolungato “hmpf”, visto che la fascia attorno alla bocca teneva fermo anche il mento e gli impediva di articolare suoni comprensibili.
- Sei incredibilmente fastidioso. – commentò ancora l’uomo, inarcando le sopracciglia con supponenza, - Tuo fratello ha fatto bene a mandarti qui.
Tom spalancò gli occhi. L’uomo sorrise.
Il momento successivo vide Tom sconfiggere le leggi della fisica – per quanto si potesse parlare di leggi simili in un mondo popolato di goblin – e tirarsi in piedi. La fisica, comunque, tornò immediatamente a riprendere possesso della realtà, ed in breve Tom si ritrovò in ginocchio per terra, schiacciato dal peso della poltrona e con le braccia strette in una posizione che gli provocava un dolore allucinante alle spalle.
Gli esserini intorno a lui ridevano come stessero assistendo allo spettacolo più divertente della loro intera vita. Ed era probabilmente così.
Anche l’uomo rise – Tom sentì distintamente uno sbuffo fra il compassionevole ed il divertito liberarsi nell’aria e solleticargli fastidiosamente le orecchie – prima di avvicinarsi a lui, afferrare la sedia per lo schienale e rimetterla dritta. Con lui ancora seduto sopra.
- Se hai tutta questa voglia di muoverti, lo farai alle mie condizioni. – disse quindi, chinandosi a guardarlo dritto negli occhi e sorridendo mefistofelico.
Tom non capì esattamente come si svolsero i fatti in successione. Si rese conto solo che, a un certo punto, non aveva più mani e piedi legati. A tenerlo prigioniero era rimasta solo la fascia sulla bocca. Per qualche motivo, comunque, assolutamente contro la propria volontà, stava ballando in tondo con quell’uomo misterioso che cantava you made me believe in magic. E i goblin, intorno, ridevano.
Mentre piroettavano intorno alla stanza, l’uomo fissò gli occhi azzurrissimi in quelli ambrati e luminosi e brillanti di confusione di Tom e sorrise, stringendolo alla vita.
- Se tuo fratello non sarà qui entro nove ore e mezzo… - sussurrò direttamente al suo orecchio, chinandosi su di lui, - …tu sarai mio.
Tom pressò le mani contro il suo petto, ma non riuscì ad allontanarsi.
Deglutì.
*
Nel frattempo, metri e metri sotto il livello del suolo – se un livello del suolo c’era, in quel mondo assurdo – Bill concludeva la propria caduta a precipizio lungo un improponibile tunnel lastricato di mani parlanti.
Palesemente non sarebbe mai arrivato a trovare Tomi.
*
Appena la musica aveva smesso di venare l’aria, Tom era stato gentilmente preso per i fianchi e rimesso seduto al proprio posto – corde d’oro comprese.
Aveva provato a lamentarsi, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un buffetto sulla guancia ed un canzonatorio “slap that baby” che l’aveva fatto rabbrividire fin nel profondo, mentre l’uomo – del quale ancora, per inciso, non sapeva il nome – si chinava su di lui e scrutava qualcosa all’interno di una sfera trasparente.
Spalancò gli occhi quando vide cosa in effetti l’uomo stava guardando.
- Mmnh!!! – strillò, agitandosi convulsamente mentre l’uomo lo tratteneva per le spalle.
- Sì, sì, il tuo fratellino. – sorrise l’uomo, - Che poi è il motivo per cui stai qui, Tom. – il suo sorriso si allargò mentre stringeva la presa sulle sue spalle, - Non ti voleva più ed ha chiesto ai goblin di portarti via… a questo punto, sarebbe perfino meglio se restassi con me di tua spontanea iniziativa, no? – lo prese in giro, sfiorando col naso il profilo della sua guancia, - Piuttosto che sentirti indesiderato…
Tom si irrigidì sotto le sue mani e rimase immobile a guardare l’immagine di Bill che si guardava intorno, smarrito, nel buio.
Magari era davvero Bill che l’aveva mandato in quel posto, ma adesso lo stava cercando. Voleva tornare a riprenderselo.
E quindi no, non si sentiva indesiderato. Assolutamente no.
Scosse il capo.
L’uomo ringhiò e lo lasciò andare, tornando a sedersi al proprio posto e portando la sfera con sé.
- Non sarebbe dovuto arrivare alle segrete. – commentò infastidito, accavallando le gambe. – Georg, comunque, lo riporterà indietro… ed a quel punto, vedendo di dover ricominciare tutto da capo, si arrenderà. – commentò con una mezza risatina.
*
Gli occhi di Bill non ebbero nemmeno il tempo di abituarsi al buio, che subito una candela arrivò a rischiarare l’ambiente. Si trovava in una sorta di grotta, o di qualcos’altro di molto simile. Il tetto era roccioso ed umido e c’erano delle inquietanti catene a pendere immobili verso il pavimento. Deglutì, voltando lo sguardo in giro, e quasi saltò in aria dallo spavento quando, seduto su una tavola a qualche metro da lui, trovò Georg, il ragazzo che aveva incontrato fuori dal labirinto.
- Tu! – strillò, puntandolo con un dito, - Cosa diavolo ci fai qui?!
Georg si tirò in piedi con un sorriso furbo sul volto.
- Sapevo che ti avrei ripescato qua sotto. – lo prese allegramente in giro, - Sei finito in una segreta. Il labirinto ne è pieno. – sorrise ancora, in maniera più sottile e insinuante, socchiudendo gli occhi come quelli di un gatto, - Lo sai a cosa servono le segrete, piccolo Bill?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, infastidito e un po’ spaventato.
- …tu sì? – chiese titubante, guardandolo con diffidenza.
Georg sghignazzò.
- A chiuderci dentro le persone che si vogliono dimenticare. – rivelò il ragazzo, tirando dietro un orecchio una ciocca di capelli. – Fortunatamente, - aggiunse poi, il tono più gioviale ma sempre canzonatorio, - sono venuto a riprenderti! Guardacaso, conosco una scorciatoia per uscire dal labirinto proprio partendo da questa stanza!
- Ma io non posso fermarmi! – strillò ancora Bill, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - Tomi mi aspetta, io lo so! È colpa mia e devo salvarlo! Non posso fermarmi proprio adesso!
- Oh, certo. – borbottò Georg, incrociando le braccia sul petto, - Scemo io a preoccuparmi ed a venire fino a qui per tirarti fuori.
Bill gli lanciò un’occhiata curiosa da sotto le lunghe ciglia scure.
- Eri preoccupato…? Per me?
Georg guardò altrove, agitando una mano.
- Un bel ragazzino come te, tutto solo in questo posto oscuro… - motivò con disinteresse, come fosse normale. – Ora, coraggio, seguimi. Ti porto fuori di qui.
- No! – insistette Bill, - Tu… non capisci. – mugolò, abbassando lo sguardo, - Lui è mio fratello, non c’è nessuno che sia tanto importante quanto lui, e… io questo mondo lo conosco, perché tutti i miei sogni vi appartengono, ma lui… - si morse un labbro, - lui non c’entra niente, non è di qui, sarà spaventato ed io… devo portarlo a casa. Davvero. Devo riportarlo con me. – sollevò nuovamente gli occhi in quelli verdissimi dell’altro ragazzo, - Non ti chiedo di portarmi fino al castello… se non vuoi, va bene, ma… portami almeno fin dove puoi! Dopo me la caverò da solo!
Georg roteò gli occhi, poco convinto.
- Peggiorerà soltanto, da ora in poi. – lo avvisò con piglio serio.
Bill scosse il capo.
- Non m’importa.
Rimasero a fissarsi a lungo, entrambi fermi sulle loro posizioni. Il primo a cedere, però, fu Georg.
- E va bene, - concesse alla fine, sbuffando sonoramente, - vieni con me.
Bill non riuscì a trattenere il gridolino di gioia che nacque spontaneo nel fondo della sua gola, e premette tanto per uscire che lui dovette lasciarglielo fare.
- Sì, ma non entusiasmarti adesso, ragazzino, - disse Georg mentre attraversavano un lungo ed oscuro corridoio, - siamo ancora… - ma si fermò all’improvviso quando in mezzo a loro rotolò una sfera di cristallo perfettamente lucida e tonda, trasparente e liscissima. - …oh.
- Cosa…? – chiese Bill, incerto, notando appena la pallina rotolante.
- Be’…? – chiese una voce gracchiante e sgradevole dal buio. Quando Bill alzò lo sguardo sulla figura, notò che la sfera si era fermata ai suoi piedi e poi aveva preso a volteggiare fino a rimbalzarle in mano. – Che cosa sta succedendo qui?
- …come? – chiese Bill per riflesso, ormai quasi abituato alle stranezze del posto.
Georg rimase immobile e silenzioso, tesissimo. E non sembrò molto stupito quando la figura ammantata si liberò della propria copertura e, da sotto il mantello, venne fuori l’uomo misterioso, lo stesso che aveva rapito suo fratello.
Bill fece istintivamente un passo indietro, prontamente imitato da Georg.
- Niente, mio signore! – si affrettò a difendersi il ragazzo, mettendo le mani avanti.
- Niente?! Niente, Georg?! – insistette l’uomo, avvicinandoglisi con fare intimidatorio, - Lo stavi aiutando!
- No, mio signore, mai! – rispose il ragazzo, - Lo stavo portando all’inizio del labirinto!
- Cosa?! – chiese Bill, oltraggiato, - Come hai potuto?!
- Stai mentendo. – disse l’uomo, piegandosi a guardare Georg negli occhi, - È tradimento questo, Georg, lo sai? Dovrei prenderti ed appenderti a testa in giù nella Gora dell’Eterno Fetore, sai?!
Georg abbassò lo sguardo, colpevole.
- Chiedo perdono, mio signore.
Lui non sembrò badare alla richiesta, tant’è che il perdono non lo concesse affatto. Si voltò però a guardare Bill, avvicinandosi a lui, stavolta, e poggiando un braccio sul muro per poi chinarsi a scrutarlo negli occhi con aria pericolosa.
- Allora, Bill… - disse malizioso, sfiorando quasi il profilo del suo viso con le labbra, - ti sta divertendo, il mio labirinto?
Bill aggrottò le sopracciglia. Quello era lo stesso atteggiamento intimidatorio che usavano con lui i bulli del Gymnasium, nella speranza di obbligarlo ad abbassare la testa. E se lui si trovava in punizione, quella sera, era proprio perché, ad atteggiamenti come quello, reagiva sempre nello stesso modo. Opponendosi.
- È un gioco da ragazzi. – disse con un sorrisetto furbo, inclinando il capo.
L’uomo rise a propria volta, estremamente divertito.
- Un gioco da ragazzi, dici. – annuì, separandosi da lui, - Bene, allora che ne dici di alzare un po’ la posta? – chiese, voltandosi all’indietro verso un enorme orologio, apparso dal nulla. Mosse le dita in un movimento circolare e le lancette, guidate dalla magia, si spostarono in avanti. Una, due, tre ore.
- Questo non è giusto! – protestò Bill, stringendo i pugni.
- Non è giusto, dici? – chiese l’uomo, continuando a ridere supponente, - Mi chiedo quale sia l’idea che hai della giustizia. – replicò, allontanandosi di qualche passo. – E visto che trovi il mio labirinto così semplice da affrontare… vediamo come te la cavi col mio piccolo amico qui dietro. – prese la sfera di cristallo che ancora teneva mollemente in mano e la scaraventò con forza nel buio del corridoio. Subito dopo, scomparve.
Georg deglutì e spalancò gli occhi.
- Oh, no… - lo sentì esalare sconsolato Bill. – No, questo no…
- Questo cosa, Georg?! – chiese Bill, impaurito, appendendosi al suo braccio.
- Non lo senti?! – disse il ragazzo, indicando nel buio, - Gli spazzini!
Bill ebbe appena il tempo di cominciare a sentire lo stridio metallico di un centinaio di lame che sfregavano l’una contro l’altra, che già Georg l’aveva afferrato per un braccio e lo tirava lungo il corridoio, verso il lato opposto, strillandogli di darsi una mossa. Bill lo seguì senza fare storie, voltandosi solo di tanto in tanto e cogliendo appena l’immagine di un gigantesco marchingegno che, velocissimo, abbatteva qualsiasi cosa trovasse sul proprio cammino fra rumori agghiaccianti.
- Merda… - commentò Georg quando arrivarono alla fine del corridoio ed andarono a schiantarsi contro un cancello inoppugnabilmente chiuso, - È la fine! Certo che… la Gora dell’Eterno Fetore prima, gli spazzini poi… ti sta trattando proprio con tutti i riguardi!
Bill ringhiò e tirò un calcio di pura frustrazione contro una parete. Il rumore delle lame era forte, ma non riuscì del tutto a coprire il thud un po’ ovattato che fece il suo piede battendo contro la roccia.
- Oltre questa parete… - disse, lasciandovi scorrere sopra una mano, - È vuoto! Georg! Aiutami a spingere!
Ed era vuoto davvero. Riuscirono a rintanarsi in una specie di antro dopo aver frantumato la friabile parete di finta roccia, giusto un attimo prima che la macchina metallica passasse alle loro spalle, abbattendo il cancello e continuando per la propria strada.
- Ma chi me l’ha fatto fare di aiutarti, ragazzino, me lo spieghi?! – borbottò Georg tirandosi in piedi dopo la rovinosa caduta cui era stato costretto per mettersi in salvo.
- Aiutarmi?! – strillò a quel punto Bill, ricordando il discorso di poco prima con l’uomo misterioso, - Ma se hai detto che mi stavi riportando all’ingresso!
- Questo è quello che ho detto a lui, per distrarlo! – motivò il ragazzo, - Vieni, questa scala dovrebbe riportarci in superficie. – aggiunse poi, indicando una scala a pioli poggiata contro il muro lì di fianco.
- Come faccio a fidarmi ancora di te? – chiese Bill, con tono lamentoso, - Se menti-
- Mettiamola così: - lo interruppe Georg, cominciando la scalata, - che alternative hai?
- …nessuna, in effetti. – ammise il moro, abbassando lo sguardo.
- Infatti. – annuì il ragazzo, già a metà scala, - Ti dai una mossa o no? – osservò Bill annuire e mettersi al suo seguito e sospirò, scuotendo il capo, - Devi capire la mia posizione, ragazzino. – cercò di giustificarsi, nemmeno lui sapeva perché, - Io non sono esattamente quello che si dice un coraggioso. E David mi fa paura.
- David… è così che si chiama.
- Già.
- E ti fa tutta questa paura?
- Lo sai perfettamente che è il Re dei Goblin. Se fossi di queste parti, spaventerebbe anche te. Oltretutto, la Gora dell’Eterno Fetore-
- Oh, che mai potrà fare?! Puzzare?!
- Be’, è dannatamente abbastanza per non essere piacevole, no? Oltretutto, come ci metti piede, sei condannato a puzzare per sempre! Non c’è sapone che tenga! Una vera maledizione. – continuò a lamentarsi fino a che non furono finalmente in superficie. Sbucarono da un vaso nel mezzo di una piazzetta dalla quale partivano molti viali delimitati da siepi altissime.
- E adesso dove andiamo…? – chiese Bill, guardandosi intorno con aria smarrita.
- Ah, no! – borbottò Georg, allontanandosi celermente da lui, - Adesso vai per la tua strada! Ho promesso di accompagnarti solo fin dove avrei potuto! Bene, qui mi fermo!
Bill inarcò le sopracciglia verso il basso, stringendosi nelle spalle.
- …pensavo… che avessi capito le mie ragioni… - commentò tristemente.
Georg sospirò, roteando gli occhi e incrociando le braccia sul petto.
- Le ho capite, le tue ragioni, è solo che-
- Pensavo fossimo diventati amici! – aggiunse Bill, gli occhi pieni di lacrime e le mani strette all’altezza del cuore.
Georg spalancò gli occhi.
- …amici? – chiese con aria stupita, - …non ho mai avuto degli amici…
Bill arrossì un po’, stringendosi nelle spalle.
- Be’, in fondo mi hai aiutato… sai, anche io, non è che abbia tutti questi amici, nel mondo da cui provengo… e tu sei stato… be’, abbastanza gentile. – sospirò, - Perciò sì, ti considero un amico.
Georg annuì lentamente e si prese qualche secondo per riflettere.
- Oh, insomma. – concesse alla fine, - D’accordo. Proviamo ad andare di là.
Bill si lasciò andare ad un urletto di gioia, ma la sua felicità durò poco. Esattamente fino al momento in cui Georg si ricordò di essere un vigliacco.
Appena girato l’angolo, i due vennero infatti investiti da un suono spaventoso – l’ululato di sofferenza di un essere probabilmente altrettanto spaventoso – e Georg ci mise un secondo a girare sui tacchi e dirigersi verso un punto a caso purché fosse il più lontano possibile da lì.
- Ma non avevi detto che eravamo amici?! – si lamentò Bill, cercando di artigliarlo prima che sparisse oltre l’angolo.
- No, ragazzino, l’hai detto tu! E comunque, io non sono amico di nessuno: sono amico solo di me stesso, come tutti.
- Ma non è giusto!
- No, non lo è.
- …ma è così.
E quello decisamente era qualcosa di nuovo imparato sulla giustizia.
*
L’essere probabilmente spaventoso che aveva ululato fino a far scappare Georg, in realtà non era affatto un essere spaventoso. Bill se ne accorse non appena raggiunse la fonte dell’urlo e la spiò da dietro una siepe: si trattava di un ragazzo, probabilmente un po’ più piccolo di lui, sicuramente molto più basso ed anche più tarchiatello. Biondo e pallido.
Ma ululava effettivamente come una bestia.
Il problema era la bestia non fosse lui, bensì le creaturine che lo circondavano: goblin, indubbiamente, ed armati – tenevano in mano lunghi bastoni che ospitavano in punta degli esseri se possibile ancora più rivoltanti dei loro proprietari, piccoli, glabri e rosa, e con enormi bocche dotate di spaventosi denti aguzzi. I goblin usavano quelle armi vive per torturare il povero ragazzo, che pendeva dal ramo di un albero a testa in giù e continuava ad urlare il proprio dolore fra un “lasciatemi andare” e l’altro.
Georg poteva essere un codardo, ma Bill decisamente della codardia era l’antitesi.
- Se solo avessi una pietra da lanciare… - si ritrovò a borbottare, mordicchiandosi un labbro e guardandosi già intorno alla ricerca di un sasso.
Quel mondo magico e spaventoso lo stupì una volta di più: i sassi cominciarono in effetti a rotolare verso i suoi piedi, neanche li avesse evocati con un rito voodoo. Sorridendo un po’, si chinò a raccoglierne uno e lo lanciò in mezzo al gruppetto di goblin, centrandone uno sull’elmo. Il caos che da ciò si generò lo divertì parecchio e si concluse, dopo una serie di impacciati movimenti degli esserini confusi e spaventati, con la fuga dei suddetti esserini impazziti. Per dove, non voleva saperlo.
Il ragazzo continuava a sbraitare.
Bill decise che fosse il momento giusto per tirarsi fuori dal proprio nascondiglio.
- Uhm… ciao. – disse salutandolo timidamente con la mano, - Io sono Bill e-
- Sei stato tu a farli scappare? – ringhiò burbero il biondino, sempre a testa in giù.
- Er… sì, ho usato dei sassi che-
- Io mi chiamo Gustav. – lo interruppe ancora il biondo, annuendo, - Ti dispiacerebbe…?
- Oh, sì! – annuì Bill, dirigendosi verso la radice dell’albero, dove aveva già avvistato il nodo che teneva tesa la corda, - Faccio subito! – annunciò impettito, sciogliendo il nodo ed osservando Gustav cadere a terra di testa il secondo successivo, producendosi in un ululato di dolore dei propri. – Oddio! Oddio, scusami! – disse preoccupato, avvicinandosi di corsa al corpo riverso in terra, - Ti sei fatto molto male?
- No, figurati… - rispose quello, ironico, - Be’, comunque sto meglio di prima. – ammise, prima di concedergli un sorriso, - Grazie.
Bill sorrise di rimando, stringendosi un po’ imbarazzato nelle spalle.
- Senti, Gustav, io dovrei arrivare al castello. Ne ho assolutamente bisogno. Non è che tu sapresti indicarmi la strada da prendere?
Gustav lo guardò per qualche secondo con aria genuinamente curiosa, prima di stringersi nelle spalle.
- Non ne ho la più pallida idea. – ammise alla fine, - Quelle, comunque, potrebbero essere un indizio. – disse, indicando con un cenno del capo due porte.
- Queste prima non c’erano… - borbottò Bill, scontento, - Qui tutto continua a cambiare senza un senso!
- Perché non è detto che ciò che vedi sia esattamente come sembra, Bill. – rispose Gustav con un sorriso sornione.
- Sì. – annuì Bill, - Sto cominciando a capirlo. Come credi si possano aprire, queste porte?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, vagamente divertito.
- Be’, ci sono delle maniglie, in fondo. – rispose.
- …e quindi? – chiese di rimando Bill, per nulla illuminato dalla rivelazione.
Gustav sospirò e lasciò scivolare un dito lungo il cerchio metallico della porta a destra.
- Le maniglie esistono per bussare, no?
*
Tom cercò di divincolarsi, ma la presa dell’uomo non si ammorbidì neanche un po’. Oltretutto, il ragazzo sospettava che continuare ad agitarglisi in grembo in quel modo potesse non essere il modo migliore per risolvere la questione: la situazione era equivoca, il sorriso e gli occhi di quell’uomo erano equivoci e, soprattutto, ciò che sentiva premere contro il sedere, oltre la stoffa dei jeans che indossava, era talmente equivoco da rasentare addirittura l’esplicito.
L’uomo gli sorrise, gli occhi stretti come due fessure e brillanti come la luce stessa del giorno.
- Sei un ragazzino davvero vivace… - commentò, sfiorandogli distrattamente una coscia, - Forse, quando sarai mio, dovrò chiamarti David.
*
Al di là della porta c’era qualcosa che somigliava moltissimo ad un bosco ma era molto più scuro, spaventoso e misterioso di tutti i boschi che Bill avesse visto in vita propria.
Non che, in effetti, ne avesse visti tanti: odiava la natura, odiava gli insetti ed odiava tutto ciò che in generale i salutisti adoravano – compreso il frinire dei grilli e l’aria pura di montagna, anzi, il frinire dei grilli gli dava il mal di testa e l’aria pura lo costringeva a giornate intere passate a letto con la febbre a quaranta; comunque, in quella foresta non c’era proprio niente di simile ai boschi che aveva visto. Non c’era luce, non arrivava neanche un po’ di sole filtrato attraverso le foglie, e l’aria era pesante ed umida come quella di una palude.
- Non credo sia stata una buona idea entrare qua dentro… - commentò Gustav alle sue spalle.
- Non avrai mica paura? – chiese Bill, di rimando.
- Paura, io? – rise Gustav, infilando le mani nelle tasche, - Assolutamente no. È solo che-
Silenzio.
- …è solo che? – chiese Bill, continuando ad esplorare l’ambiente circostante e tentando di trattenere le copiose smorfie di disgusto che affioravano alle sue labbra ogni volta che si bagnava toccando qualcosa di umido e marcio. Dalle sue spalle non giunse alcuna risposta. Si voltò a guardare. – Gustav…? – ma dietro di lui non c’era più nessuno.
*
Su uno scenario completamente differente, Georg si stava dibattendo fra le sterpaglie e le rocce nude di un bosco morto e deserto, borbottando fra sé. Quel ragazzino impossibile che non si rassegnava mai non aveva fatto altro che metterlo nei guai in milioni di modi diversi, e quella stupida faccenda dell’amicizia continuava a tormentarlo senza lasciarlo in pace neanche un secondo.
Quando sentì distintamente la voce di Bill invocare il suo aiuto, tutto ciò che riuscì a pensare fu “Arrivo!”. E non fu neanche abbastanza intelligente da tenerselo per sé, anche se desiderò vivamente di averlo fatto quando, voltandosi per ripercorrere la strada al contrario e raggiungere il ragazzo in pericolo, vide che non c’era nessun ragazzo in pericolo, ma solo David, espressione seria e braccia incrociate sul petto, che lo scrutava con aria severa.
- Dov’è che stai andando, Georg…? – chiese l’uomo, irridente.
- …naturalmente a recuperare il ragazzo per riportarlo all’ingresso del labirinto. – mentì, mordendosi un labbro, - Come da programma.
- Ah, davvero? – chiese David, insinuante, - Perché sai, avrei detto che invece tu stessi correndo in suo soccorso.
- Io? – rise lui, cercando di darsi un tono, - Ma che idee. Dopo gli ordini che mi avete dato…
- Già. – annuì il re dei goblin, - Sarebbe veramente molto stupido, da parte tua, disobbedirmi ancora.
- …già. – concordò il ragazzo, abbassando lo sguardo.
David sorrise.
- Cosa c’è, Georg? – lo prese in giro con un sorriso cattivo, - Non mi dirai che provi qualcosa per lui? Che ti sei fatto irretire da quello stupido ragazzino?
- Assolutamente no! – protestò lui, - Io non-
- Perché – precisò l’uomo, piantandogli il frustino nel petto, - non penserai davvero che un ragazzino carino come quello potrebbe interessarsi minimamente ad un rifiuto vigliacco come te, vero?
Georg abbassò lo sguardo e voltò le spalle.
- No, mio signore. – annuì alla fine.
David sorrise ancora.
- Allora…
- Vado a riportarlo all’ingresso del labirinto. – biascicò Georg, dando all’uomo le spalle e cominciando a muoversi in direzione di Bill, - Come da programma.
David annuì. Poi lo fermò, richiamandolo.
- Aspetta. – disse, mentre una sfera di cristallo appariva fra le sue mani, - Portagli questo. – ordinò, lanciando il globo. Quando giunse nelle mani di Georg, s’era già trasformato in un frutto.
- …che cos’è, mio signore? – chiese timidamente, senza sollevare il capo.
- Un presente, naturalmente. – rispose lui, sereno.
- …voi non gli fareste del male, vero? Perché io… non credo che potrei farlo.
David ringhiò e gli si avvicinò con fare minaccioso, puntandolo nuovamente con il frustino.
- Tu gli darai quel frutto, Georg, o io ti spedisco a calci nella Gora dell’Eterno Fetore, senza pensarci su neanche un momento! – lo minacciò bruscamente, - Sono stato chiaro?
- …sì, mio signore. – annuì il ragazzo, riprendendo la strada verso il proprio obiettivo.
- E… Georg? – lo richiamò un’ultima volta David, prima di sparire, - Se mai lui dovesse baciarti… ti trasformerò in un principe.
- …davvero…? – chiese lui, incredulo.
L’uomo rise.
- Oh sì, eccome. – rispose, - Anche alla Gora dell’Eterno Fetore servirà un principe, no?
*
Bill non era mai scappato strillando, da che era venuto al mondo. Be’, forse da piccolo, di fronte a qualche orrendo insetto palesemente nato per attentare al suo sistema nervoso in primo luogo ed alla sua vita in secondo, ma da quando aveva cominciato più o meno a capire cosa significasse diventare grandi, correre dei rischi e prendersi la responsabilità delle proprie azioni, Bill non era mai scappato strillando di fronte a niente.
All’interno di quel bosco, però, aveva trovato delle creature talmente spaventose – non c’era altro modo per definire quegli enormi uccelli canterini che continuavano a staccarsi teste ed arti vari ed eventuali a vicenda con lo scopo di usare le suddette parti del corpo per i più diversi tipi di sport – che fuggire strillando era diventata l’unica alternativa possibile.
Fu così che rincontrò Georg: intrappolato contro una parete rocciosa e circondato dagli uccelli canterini – che dovevano aver preso piuttosto male il suo staccare tutte le loro teste e lanciarle lontano per guadagnare qualche secondo di vantaggio nella fuga – stava già cominciando a chiedersi quanto fosse doloroso morire per mano di uno stormo di pennuti quando una corda discesa dall’alto lo colpì sulla testa. Sollevò lo sguardo e lì c’era Georg.
- Afferrala! – disse spiccio il ragazzo, mostrandogli la corda ben assicurata contro uno sperone.
Bill non se lo fece ripetere due volte e, per quanto le sue doti fisiche fossero decisamente scarse, la paura irrazionale che provava in quel momento – paura di perdere la vita, di non ritrovare Tomi, di non riuscire a tornare a casa – ebbe un effetto più che benefico sulle sue doti di scalatore, perché meno di un minuto dopo si ritrovava in alto, lontano dai pennuti, a stringere le braccia attorno al collo di un Georg mortalmente imbarazzato.
- Sei tornato! Sei venuto ad aiutarmi! – strillò commosso, saltellando sul posto, - Sapevo che non potevi essere del tutto cattivo! – e, così dicendo, in maniera del tutto naturale e inaspettata, sporse le labbra verso la sua guancia.
- No! – cercò invano di trattenerlo Georg, - Cosa fai?! Non baciarmi! – ma fu del tutto inutile: quando le sue labbra sfiorarono la guancia liscia del giovane, sotto di loro si aprì un baratro e scivolarono per metri e metri, rotolando fra le sterpaglie, fino ad una parete rocciosa che dava su una disgustosa palude di melma.
Riuscirono a salvarsi solo perché Georg ebbe la prontezza di spirito di afferrare uno spuntone che fuoriusciva dalla parete, prima di cadere nella palude, e Bill riuscì a frenarsi un attimo prima di franargli addosso.
- …oddio… - si lamentò, cercando di non respirare quando il puzzo incredibile che si sollevava dall’acqua raggiunse le sue narici, - Ma che posto è questo?
Georg deglutì.
- La Gora dell’Eterno Fetore.
- Dio mio, è veramente disgustoso! – commentò Bill, tirando su il ragazzo finché non si fu assicurato allo stretto corridoio di pietre che costeggiava la fiancata dello strapiombo.
- Dobbiamo… uscire immediatamente da questo posto. – lo avvisò il ragazzo, cominciando a spingerlo lungo il sentiero, - Certo che, anche tu, dovevi proprio baciarmi?!
- Aaah, poche storie! – rise Bill, - Tanto lo so che sei tornato indietro per aiutarmi! E perché siamo amici!
- Nella maniera più assoluta, no! – precisò lui, adirato, - Sono tornato indietro solo per darti questa! – borbottò, ficcando una mano in tasca ed armeggiando alla ricerca di qualcosa. Sfortuna volle che il suo armeggiare, però, avesse luogo proprio mentre la pietra sulla quale si trovava si decideva a porre fine alla propria vita, sfaldandosi in mille pezzi. Nel momento in cui Bill se ne accorse ed allungò un braccio per aiutarlo, anche la sua pietra cedette, ed in breve si ritrovarono entrambi a cadere verso il basso, strizzando gli occhi per la paura di finire proprio in quell’acquitrino disgustoso dal quale proveniva l’olezzo pungente che impregnava l’aria.
- Oh… cazzo! – sbottò invece la persona sulla quale caddero.
Bill sollevò lo sguardo, cercando di riprendersi dalla caduta.
- …Gustav! – disse, saltando anche al collo di quest’ultimo ma evitando inappropriati baci, visto che quello che aveva rifilato a Georg sembrava essere il motivo della loro presenza in quel luogo osceno, - Ma allora sei ancora vivo!
- Dannazione, sì che lo sono! – biascicò il biondo mentre si tirava in piedi, - Sono caduto in una dannata trappola, in quella foresta! – poi il suo sguardo dardeggiò su Georg, che si stava a propria volta risollevando a qualche passo da lui. – E quello chi sarebbe?
- Lui è Georg, - lo presentò Bill con un sorriso, - è un amico anche lui!
- La vogliamo piantare con questa storia degli amici?! – si lamentò il ragazzo, spolverandosi i pantaloni. – Piuttosto: là c’è un ponte. – dichiarò, indicando un punto qualche metro più in là, - Probabilmente porta all’uscita.
Bill annuì ed i tre si incamminarono verso l’unica via di salvezza cui potessero pensare, ma una volta giunti di fronte al ponte, appena provarono a metter piede sull’instabile asse di legno che lo componeva, una voce tonante li fermò.
- Altolà. – disse la voce, e da dietro un albero venne fuori un uomo altissimo e dalla pelle scura, ricoperto di tatuaggi, - Non potete passare. – disse, frapponendosi fra i tre disperati e la libertà.
- Oh, balle! – ringhiò Georg, facendosi avanti e dimenticando perfino di essere un vigliacco, in virtù della puzza, - Noi dobbiamo uscire di qui! Non si respira!
- Nessuno passa di qui senza il mio permesso. – precisò l’uomo, - Il mio nome è Bushido e sono il guardiano di questo ponte. E quelli sono gli ordini.
Gustav gli si parò davanti. Doveva essere alto più o meno la metà dell’uomo, e non era largo nemmeno il doppio.
Bill li osservò prendersi a cazzotti per molti minuti. Perfino con un certo divertimento.
*
Un attimo prima di abbandonare la palude – dopo una scenetta delirante quanto deliziosa durante la quale, dopo aver stabilito di essere entrambi ugualmente bravi a fare a botte, Bushido e Gustav s’erano autoproclamati rispettosamente l’uno il fratello di sangue dell’altro – Georg aveva accarezzato l’ipotesi di prendere il frutto e buttarlo nella melma. Questo l’avrebbe probabilmente condannato a qualcosa di perfino più spiacevole della Gora, ma almeno gli avrebbe impedito di fare del male a Bill.
La voce di David, risuonando nella sua testa, gli aveva consigliato di non compiere gesti avventati, però. E così lui non ne aveva compiuti.
Dopodiché, era venuto fuori che Bushido non solo sapeva come uscire dalla Gora, ma, a quanto diceva, anche come giungere al castello. Bill non era stato per nulla in grado di trattenersi: gli era saltato al collo, l’aveva ricoperto di baci un po’ ovunque, aveva raccontato la triste storia del suo fratellino rapito ed il danno era stato fatto. Bushido promise di portarli tutti al castello entro il sorgere del sole e li obbligò ad una marcia serratissima attraverso un bosco molto più fitto ma, per fortuna, anche molto più luminoso di quello in cui Gustav era sparito ore prima.
Dalla propria stanza del trono, David osservava tutto questo continuando a stringere Tom fra le braccia, pressandoselo addosso in un’esplicita tortura.
- Guarda quanta pena si dà per te… - commentò, sfiorandogli una guancia con due dita, - per un fanciullo così piccolo come te… - aggiunse, con un sorriso pericoloso, - Ma presto tutto questo finirà. – annuì compiaciuto, - Non appena Georg gli darà il mio regalo, Bill dimenticherà tutto… anche di te.
Sotto il bavaglio, Tom avrebbe voluto mordersi un labbro; ma non ci riuscì.
*
- Sì, però io sto morendo di fame. – si premurò di far sapere al mondo Gustav mentre incedeva fiero al fianco di Bushido, che gli ricordava quanto fosse in effetti poco virile andare in giro borbottando cose simili.
- Un guerriero soffre in silenzio. – disse l’uomo, seriamente, e Bill si ritrovò a chiedersi quando fosse diventato un guerriero; se per caso le botte a scuola facessero di lui un guerriero; e soprattutto… se davvero valesse tanta pena un fratello che, chiacchierando al telefono col proprio migliore amico, parlava di quanto migliore sarebbe potuta essere la sua vita se lui non fosse esistito affatto.
Il suo stomaco brontolò proprio nel mezzo di questi allegri pensieri, e Bill rilassò le spalle, sconsolato.
- Ho fame anche io… - borbottò incerto, - Ma non possiamo fermarci.
Georg si fece avanti con un paio di colpi di tosse per schiarirsi la voce.
- Bill… io avrei… - sospirò, prima di tirar fuori dalla tasca una bellissima pesca dal profumo squisito, - questa. – sussurrò, porgendogli il frutto.
Bill spalancò gli occhi – le voci di Gustav e Bushido, ancora impegnati a discutere della mascolinità dell’appetito, erano ormai lontane.
- Georg! – disse entusiasta, - Tu sei un salvavita! – e, così dicendo, addentò la pesca.
*
E poi fu come precipitare in un sogno.
Un incredibile senso di spossatezza lo colse, e riuscì appena a cogliere l’immagine di Georg che si allontanava biascicando “cosa ho fatto…?”, prima di lasciarsi ricadere esausto contro un albero e scivolare lungo il tronco fino a terra, mentre miriadi di bolle di sapone – ognuna con dentro un sogno diverso – lo circondavano e gli annebbiavano la vista.
Nella più grande, nella più bella, nella più luminosa di tutte c’era una chiassosa festa danzante, decine e decine di invitati a ridere e divertirsi, e Bill poteva vedere anche un altro se stesso, no, non era un altro se stesso, era proprio lui, là, in mezzo a tutta quella gente, completamente vestito di bianco e luccicante come una stella, farsi strada fra le miriadi di persone mentre da un lato all’altro della stanza rimbalzava l’immagine di quell’uomo, David.
Stretto fra le sue braccia, suo fratello. Sembrava completamente incosciente: i suoi occhi – solitamente così luminosi – erano vuoti e spenti, la sua bocca piena era coperta da un bavaglio e le mani erano assicurate dietro la schiena con una corda d’oro zecchino.
David lo cullava teneramente, danzando con lui e stringendolo alla vita, pressandoselo contro, e suo fratello non reagiva; David lo sfiorava con la punta del naso e con le labbra ma non lo toccava mai sul viso, anche se tutto il resto del suo corpo era così vicino a quello di suo fratello da confonderli quasi l’uno per l’altro.
Bill annaspò: non voleva vedere Tomi in quelle condizioni, non voleva vederlo fra le mani di quell’uomo, non a causa sua, doveva salvarlo, doveva assolutamente salvarlo, e poi David scomparve e Tomi con lui, e quando Bill sentì la presenza di quegli occhi di ghiaccio contro il collo e si voltò a guardare, David era tornato ma Tomi non era con lui.
- Dov’è- - provò a chiedere, spaventato, ma l’uomo gli posò un dito sulle labbra. Non gli ordinò di stare zitto, ma fu come l’avesse fatto: il fiato volò via e ciò che rimase del suo raziocinio lo seguì quando le braccia forti di David si chiusero attorno alla sua vita e lo strinsero violentemente.
E poi fu lui a danzare.
*
Quando si risvegliò era molto confuso. Aveva una pesca marcia fra le mani – la gettò via con disgusto non appena vide venirne fuori un vermicello dall’aspetto orrendo – e si trovava in un luogo mai visto prima – una discarica colma di oggetti, cianfrusaglie di ogni tipo confuse e mescolate fra loro fino a non riuscire a distinguere cosa fosse cosa in precedenza.
- Vuoi scendere dalla mia schiena?! – disse una vocetta nasale proveniente dal mucchio di cianfrusaglie sotto di lui. Bill si lasciò scivolare a terra e, quando si voltò, si ritrovò di fronte un ometto dalla faccia vagamente allungata – gli ricordava un po’ un topolino – con dei ridicoli baffetti sotto il naso. – Be’? – disse l’ometto, - Cos’hai da fissare?
- Io… non lo so… - rispose sinceramente Bill, passandosi una mano sulla fronte, - Io credo… stavo cercando qualcosa…
- Oh, eccome se stavi cercando qualcosa! – annuì l’altro, rovistando in una borsa che portava a tracolla lungo un fianco, - Ecco quello che cercavi! – disse, tirandone fuori il suo orsetto, - È il tuo Lancillotto, giusto? – chiese con un mezzo sorriso.
Bill prese l’orsacchiotto fra le mani e sorrise a propria volta.
- Sì, è lui, è… che assurdità, avevo dimenticato di stare cercando proprio lui… - aggiunse con una risatina.
L’omino annuì.
- Dunque, già che ci sei… - suggerì, scortandolo verso una tenda, - perché non dai un’occhiata qua dentro e vedi se per caso c’è qualcos’altro che ti interessa?
Bill lo seguì e, quando oltrepassò la soglia dell’ambiente, vide finalmente la prima cosa familiare su cui posasse gli occhi da ore: la propria camera. Perfettamente identica a come l’aveva lasciata: i letti, il disegno di Topolino sulla parete, e tutti i giocattoli della sua infanzia al loro posto. Stringendo al petto Lancillotto, in un impeto di commozione, si gettò sul letto e chiuse gli occhi. Poi si rigirò sul materasso e, quando fu di nuovo supino, tornò a guardare il soffitto.
- È stato solo un sogno… - si disse, rimettendosi seduto fra le lenzuola, - Lancillotto, puoi crederci…? È stato tutto solo un sogno… - scese con un saltello giù dal letto e si diresse verso la porta, per controllare se sua madre e Gordon fossero tornati.
Ma quando mise la mano sulla maniglia, non ebbe neanche il tempo di girarla che la porta si spalancò sullo stesso omino baffuto di prima.
- Resta qua dentro, ragazzino, non c’è proprio niente per te, là fuori. – disse l’omino annuendo e chiudendosi la porta alle spalle, - Tutto ciò che ti serve è qua dentro. – continuò, scortandolo verso la sedia di fronte alla scrivania ed aiutandolo a sedersi, - Vedi? Tutti i tuoi giocattoli, tutto ciò che per te abbia avuto un valore, è qui dentro. C’è anche la Barbie Sirena che hai perso, la ricordi? Ecco qui. – aggiunse, consegnandogli la bambola fra le mani, mentre lui squadrava il tutto con aria assente. C’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che non riusciva a capire, che non riusciva a ricordare, eppure sembrava importante, perché era come gli mancasse un pezzo di cuore.
Lasciò scorrere lo sguardo sulla scrivania e gli occhi si posarono su un libro dalla copertina morbida e rossa. Labyrinth. Lo conosceva, era il suo libro preferito, lo sapeva praticamente tutto a memoria. Lo aprì ad una pagina a caso e cominciò a leggere automaticamente, ad alta voce.
- Con rischi indicibili… - disse in un sussurro, - e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin, per riprendere… - s’interruppe e spalancò gli occhi, - …per riprendere il ragazzo che tu hai rapito! Tomi! – saltò in piedi, ricordando, - Mio fratello! Io devo salvare mio fratello!
- Bill! – strillarono due voci conosciute, ed il ragazzo sollevò gli occhi proprio mentre, tutto intorno a lui, le pareti di quella stanza finta cedevano mattone dopo mattone, rivelandosi inconsistenti come farina, sfaldandosi senza nemmeno un tocco.
Bushido e Gustav si affacciarono fra le macerie, tendendogli ognuno una mano.
- Ci chiedevamo dove fossi finito! – disse il biondo, mentre l’uomo più alto lo aiutava a riaffiorare in superficie, - Siamo quasi arrivati al castello!
- Davvero?! – s’illuminò Bill, speranzoso.
Bushido sorrise trionfante.
- Ebbene sì! – disse orgoglioso, indicando poco distante, - Siamo alle porte della città di Goblin.
*
Non fu difficile entrare all’interno della città – la guardia non guardava proprio un bel niente, anzi, dormiva in piedi, e per scostare le porte bastava spingerle; più difficile fu farlo in silenzio, dal momento che, appena giunti di fronte al cancello, Bushido aveva cominciato a strillare oltraggiato chiedendosi dove fosse finita la cavalleria se, dopo aver bussato più e più volte, nessuno veniva ad aprire e bisognava, in sostanza, fare tutto da soli. Ci volle una grande inventiva – e che Bill prendesse una mira un po’ particolare per i propri baci – per riuscire a far tacere il valoroso guerriero abbastanza a lungo da introdursi all’interno della cittadina.
Fu qui che vennero improvvisamente attaccati da un enorme robot gigante, dall’aria antica ma piuttosto funzionale. Sembrava più che altro un’armatura indossata da un essere veramente gigantesco, ma il punto non era tanto cosa fosse quanto più il fatto che possedesse un’ascia e, in quanto possessore di tale arma, andasse temuto.
Bushido gli diede della caffettiera e lo sfidò a duello. Questo lo irritò molto.
Sarebbero probabilmente finiti tutti molto ma molto male, se in quel momento, dalle mura superiori, non fosse arrivato Georg, correndo come un pazzo e gettandosi addosso al robot per poi afferrarne la testa metallica fra le mani e scardinarla con la forza di un vichingo, gettandola a terra.
A manovrare il bestione era in realtà una bestiolina: un goblin dall’aspetto piuttosto ridicolo. Georg prese fra le mani e scardinò con la forza di un vichingo anche lui.
- Ed ora tocca a me! – disse il ragazzo, prendendo possesso dei comandi del robot, - Vediamo come si guida quest’affare.
A guidarlo non riuscì affatto; in compenso, fu tanto bravo da incastrare l’ascia fra due pietre sopra le testa del robot, e continuò a maneggiare convulsamente tutti i pulsanti, le manopole ed i timoni che gli capitarono sottomano, finché l’enorme armatura non si accasciò priva di vita su se stessa, vittima di un banalissimo quanto ridicolo corto circuito.
Georg venne fuori stremato dalle lamiere, e la prima cosa che fece fu lasciarsi cadere a terra.
La seconda, cercare gli occhi di Bill, che si inginocchiò immediatamente al suo fianco.
- Non chiedo il tuo perdono. – disse il ragazzo, abbassando lo sguardo, - Non mi vergogno di averti dato quella pesca. Erano gli ordini di David, ed io ti avevo avvertito di essere un codardo. Oltretutto, non ho nessun interesse nelle amicizie, e-
- Ma io ti perdono. – disse Bill con un sorriso.
Georg tornò a guardarlo, gli occhi liquidi e persi.
- …davvero?
Bill annuì.
- Certe volte, le cose giuste sono giuste davvero.
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All’interno del palazzo regnava il silenzio più totale. Di David – e di Tom, naturalmente – non c’era nessuna traccia. Entrare era stato perfino troppo facile, un po’ come se David si aspettasse davvero il suo arrivo ed un po’ anche come se avesse la certezza che comunque non sarebbe mai riuscito a trovarlo.