rp: david jost

Le nuove storie sono in alto.

Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido (accennato).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Gen, Angst, Slash.
- "Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica."
Note: L'immortalità è un po' la caratteristica principale di questa saga, no? *ride* Ebbene sì, dopo chissà quanti mesi dall'ultimo postaggio a riguardo, il GD torna fra voi per parlarvi di cose di cui non frega a nessuno. No, in realtà non è andata proprio così XD Di base, volevo scrivere una cosa per celebrare i quarant'anni del nostro uomo gay preferito nel mondo, ovvero David Jost, il quale è passato dagli -enta agli -anta esattamente cinque giorni fa, che il buon Dio l'abbia in gloria. Insomma, io volevo scrivere questa compleanno!fic, però il GD mi chiamava, esso voleva che la scrivessi all'interno della sua confusa e confusionaria timeline, ed io non ho potuto fare altro che seguire la sua voce e lasciare che mi conducesse dove voleva. Di base in realtà io credo che questa storia sia incomprensibile, se non avete letto il GD, e per di più credo che al suo interno ci siano riferimenti ad una shot che, per una serie di ragioni inutili, non ho ancora postato. Insomma, abbiate pazienza, con me. *ride*
Partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ispirandosi al prompt #83 (Contando gli anni), e all'ottavo round della Zodiaco!Challenge.
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PICK ME UP WHEN I'M FEELING BLUE

Sipping whiskey out the bottle
not thinking 'bout tomorrow
singing Sweet Home Alabama all summer long

Quando ieri notte sono andato a dormire – molto tardi, ho una regola personale secondo la quale non importa quando scatti la mezzanotte, il nuovo giorno comincia sempre quando mi sveglio dopo aver dormito. Sì, lavorando per i Tokio Hotel mi è capitato spesso che certi giorni durassero quarantotto o anche settantadue ore – l’ho fatto sperando che l’indomani non dovesse mai arrivare. Ieri sera sono uscito, ho acciuffato Dave – unico essere umano rimastomi amico da quando la mia intera esistenza ha smesso di ruotare attorno a quattro ragazzini con evidenti comportamenti asociali per spostarsi sull’asse di un tunisino pazzo, immortale e rompipalle – e l’ho portato in giro per locali come usavamo fare quando eravamo ancora entrambi single, in cerca di ragazzo e disperati abbastanza da pensare che, mal che andasse, potevamo sempre ritirarci in una villetta sul mare nel Devonshire ed allevare gatti finché la senilità non ci avesse uccisi nei nostri letti.
Ogni tanto, ad un uomo, cose come questa servono. Intendo, gli serve recuperare un buon vecchio amico, uno che non c’entri niente con tutti i casini che ha vissuto nel passato recente della sua esistenza, ed uscire con lui, recandosi in qualche allegro posto sperduto di periferia in cui uomini che di giorno fanno i lavascale indossano un costume da pompiere e si denudano per la tua gioia. Ad un uomo serve stare con quell’amico in quel posto e perdersi dentro una pinta di birra nel ricordare episodi divertenti della propria giovinezza, gli serve giusto per ricordarsi che, per quanto tremenda possa essere la sua vita in questo momento, c’è stato un periodo della sua esistenza in cui è stato giovane e stupido, mortalmente stupido, e nessun guaio può essere abbastanza da rimpiangere una cosa del genere.
Io, per dire, sapendo che, il giorno dopo, mi sarei svegliato quarantenne, avevo un bisogno estremo di chiacchierare con Dave e rivangare quell’agghiacciante periodo della mia esistenza in cui indossavo jeans oversize, portavo i capelli come Nick Carter dei Backstreet Boys ed osavo presentarmi in queste condizioni per dei photoshoot che poi finivano fra le pagine patinate di riviste per ragazzine preadolescenti.
Perfino compiere quarant’anni è meno imbarazzante di questo.
Intorno alle tre del mattino, ed intorno alla quinta birra, con gli occhi semichiusi e pesanti di sonno, Dave s’è voltato verso di me e, guardandomi con palese sofferenza, mi ha detto che, se non intendevo salire su un cubo e rimorchiare uno spogliarellista, sarebbe stato molto meglio chiudere lì la serata. Io ho guardato l’uomo dagli ondeggianti pettorali che si agitava come un tarantolato indossando solo un tanga leopardato ed un papillon rosso annodato attorno al collo, ed ho sospirato. “D’accordo,” ho detto, “torniamocene a casa.”
Sono arrivato sano e salvo al mio appartamento dopo un’ora e una decina di chilometri percorsi a passo d’uomo per evitare di attirare l’attenzione di qualche vigile urbano di pattuglia – perché sui rotocalchi mi bastano le facce della gentaglia che rappresento per un motivo o per l’altro, non ho alcun interesse a finirci anch’io ritratto dall’obbiettivo dell’autovelox, peraltro dopo non essere neanche riuscito a mettermi in posa – e dopo aver salutato Dave mi sono ritirato in camera da letto.
Attirato come una falena dalla luminescenza dello schermo del portatile rimasto acceso quando ero uscito, mi sono seduto per qualche istante davanti al computer ed ho lanciato un’occhiata falsamente distratta alla mia bacheca su Facebook ed ai circa cinquecento messaggi d’auguri che s’erano andati accumulando da mezzanotte alle quattro.
Sospirando pesantemente, mi sono alzato in piedi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, l’ho riacceso – dopo averlo colpevolmente tenuto spento per tutta la serata, completamente incurante del fatto che qualcosa di grave avrebbe potuto succedere e qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di sentirmi con urgenza – ed ho aspettato che, per i successivi venti minuti, tutti gli sms, i messaggi in segreteria e gli avvisi di chiamata di chi mi aveva cercato per farmi gli auguri finissero di scaricarsi. Dopodiché, ho posato il telefono sul comodino, mi sono lasciato ricadere a quattro di bastoni sul letto e, nascondendo la testa sotto il cuscino in un’abile imitazione di struzzo africano, e sono crollato in coma etilico.
Qualche mese fa, quando sono stato trascinato in un capannone in periferia e lì sono stato aperto in due, nel momento in cui ho chiuso gli occhi mi sono sentito tragicamente depresso, perché ero convinto che la mia vita stesse per finire e trovavo questo pensiero assolutamente inaccettabile.
Qualcuno avrebbe dovuto dirmi allora che, qualche mese dopo, mi sarei addormentato fra le comode e morbide lenzuola di seta del mio letto indossando ancora i miei mocassini scamosciati blu, ed avrei desiderato di non svegliarmi più solo per non dover per forza compiere quarant’anni.
Sono sicuro che, se l’avessi immaginato, avrei accolto la possibilità della morte imminente con minor sconforto.
*
Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica. Se pensate di aver sofferto, nella vostra esistenza, se pensate di aver avuto una vita sufficientemente difficile da poter dire che passare dagli –enta agli –anta non sarà in grado di sconvolgervi nemmeno un pochettino, be’, vi sbagliate. Non è neanche una questione di vecchiaia in sé – naturalmente è anche una questione di vecchiaia in sé, chi voglio prendere in giro? Ma non è solo quello il problema, ecco – ma piuttosto una questione di traguardi.
A quarant’anni sei più o meno a metà della tua vita. Poi okay, magari arrivi a cento, ma quando hai quarant’anni questo non lo puoi sapere, ti basi sull’aspettativa di vita che la tua società di riferimento, le tue condizioni fisiche e psicologiche ed il modo generico in cui stai al mondo ti danno, e dici d’accordo, ci sono, sono al giro di boa, sono sulla cima del monte, da qui è tutta discesa, devo solo rotolare a valle. Ma mentre mi arrampicavo fino a qui, che cosa ho fatto?
E questa domanda, te la poni lì. A quarant’anni. Non a trenta, quando sei ancora troppo giovane per pensare di poter essere arrivato da qualche parte, e non a cinquanta, che peraltro è un’età talmente lontana che quando ti immagini nel futuro neanche la pensi, ma a quaranta. Quaranta è un bel numero, tondo, rassicurante, e allo stesso tempo spaventosamente netto. Quaranta è quel numero di anni raggiunto il quale per la società che ti ha cresciuto tu devi esserti realizzato.
Credetemi, è un bel casino, quando ci arrivi, capire se ci sei riuscito o meno.
Passare dai ventinove ai trenta, a ripensarci oggi, non è stato così traumatico. Insomma, sì, naturalmente avevo la sensazione di stare entrando in un nuovo periodo della mia vita, cominciavo a sentirmi sulle spalle il peso degli anni, cominciavo a notare in me stesso certi cambiamenti che mi obbligavano a rendermi conto di quanto fossi cresciuto nel tempo, ed anche a chiedermi come fosse stato possibile non notarlo tanto a lungo, ma lì è finita. Sapete quella sensazione che ogni tanto ti prende quando ti convinci che un certo avvenimento cambierà la tua vita, o quantomeno la tua percezione delle cose, e invece poi quella cosa accade ed il giorno dopo tu ti svegli e, di base, non è cambiato niente? E da un lato ti senti deluso per tutta quell’aspettativa sprecata, ma dall’altro sorridi perché ti senti quasi rassicurato dal fatto che la tua vita sia rimasta la stessa, perfettamente controllabile, perfettamente monotona come, in fondo, ti piace che sia?
Ecco, per me i trent’anni sono stati questo. Non ho fatto grandi tragedie, ho accolto con sorrisi di circostanza le battutine degli amici e dei parenti circa le rughe, gli anni che passano e l’essere ormai dei bimbi grandi, sono rimasto al telefono più di mezz’ora ascoltando pazientemente e senza risentimento le lagne di mia madre sul suo essersi ormai rassegnata a non diventare mai nonna, poi mi sono fatto una doccia, mi sono cambiato, sono uscito e mi sono presentato alla festa a sorpresa che i miei amici credevano di avere organizzato tanto perfettamente da non avermi fatto capire dove si fosse tenuta. È stata una bella serata, ne ho ricordi piuttosto chiari.
Ho riso senza falsità, mi sono concesso un capriccio o due, ho bevuto più di quanto non faccia di solito ma senza mettermi in ridicolo e, quando sono andato a dormire, l’ho fatto pensando che dal giorno dopo tutto sarebbe stato diverso, più bello, più entusiasmante, più vero, ma quando mi sono svegliato e ho capito che invece non sarebbe successo, non mi sono sentito triste. Per niente. Ho sorriso, ho fatto colazione, mi sono lavato i denti e sono andato a lavorare, e mi sono sentito contento così, anche se era palese che la mia pelle non fosse più la stessa dei vent’anni, anche se era vero che probabilmente non avrei mai dato un nipote a mia madre, anche se non avevo passato la notte con nessuno ed in generale non avevo diviso la mia vita con qualcuno in un lungo periodo di tempo. Ero a posto. Felice non direi, la felicità è un sentimento così breve e fugace, una scintilla che si accende ed è così preziosa proprio perché si smorza subito. Felice no, ma contento, contento sì.
Alla fine, sapete, la grande questione della gioia, nella vita, sta tutta lì. Nel tuo grado di contentezza quando vai a dormire dopo una giornata pesante, e nel tuo grado di contentezza quando ti svegli al mattino prima di affrontarne un’altra. È davvero tutto lì, in quel pensiero minuscolo col quale di coccoli prima di addormentarti e in quell’altro altrettanto minuscolo col quale ti dai la forza di uscire dal letto.
Ogni tanto può capitare che quel pensiero dolce, quel pensiero incoraggiante, manchino del tutto.
Che poi è il motivo di base per cui io, stamattina, non voglio neanche aprire gli occhi.
*
E invece squilla il telefono.
Tra le svariate miriadi di cose che lo squillo del telefono rappresenta – quasi tutte brutte, specie quando hai un incarico di responsabilità come il mio – ce n’è una molto reale, tangibile e particolarmente sgradevole: il suono del telefono è sempre forte, penetrante ed improvviso. Spezza il silenzio, fa automaticamente sobbalzare, non tanto per la paura, ma per quell’automatica reazione di allarme con la quale l’organismo umano reagisce a suoni simili.
Negli ultimi anni, la gente ha provato in ogni modo ad attutire questa sensazione spiacevole; ha cambiato le classiche suonerie con i toni polifonici, poi ha sostituito anche loro con suoni più particolari e scherzosi, come il miagolio di un gatto o una buffa voce che ti chiama in modi stupidi per attirare la tua attenzione, e poi anche questi suoni sono spariti per lasciare posto alle canzoni che più ci piacciono in un determinato periodo, o alle nostre preferite di sempre.
L’effetto non cambia. Il nostro cellulare potrebbe squillare anche con la canzone con cui ci addormentava nostra madre da bambini, e l’effetto continuerebbe a non cambiare. Quando squilla, improvviso, spaccando il silenzio che ti eri costruito attorno ed all’interno del quale ti eri rifugiato come in un bozzolo caldo e rassicurante, perdi il controllo sul tuo corpo e sobbalzi, sgrani gli occhi, ti volti automaticamente verso la fonte del suono per assicurarti che sia tutto a posto.
Il mio cellulare suona la Lambada, quando mi chiamano, e Dio solo sa se non ho ricordi meravigliosi legati a questa canzone e ad un avvenente portoricano di nome Gael col quale ho ballato su una spiaggia a notte fonda mentre l’eco di questa canzone giungeva a noi tramite la radiolina accesa di una panineria lì vicino, ma nonostante questo, quando squilla io sobbalzo, mi volto a guardarlo con terrore per un secondo e poi, già il secondo successivo, aggrotto le sopracciglia, fissandolo adesso con astio.
Sono ufficialmente le dieci del mattino del dodici agosto, io mi sono appena svegliato e perciò non posso più fingere di avere ancora trentanove anni e di essere ancora fermo al giorno prima, e fa un caldo tale che anche qualcuno con molta più voglia di vivere di me farebbe fatica a trovarne, se dovesse necessariamente alzarsi dal letto.
Sospiro ed allungo una mano verso il telefono, sollevandolo per scrutare il display. È Bill, naturalmente. Se non è mia madre, è sempre Bill.
Mentre sospiro un’altra volta chiedendomi quante possibilità ci siano che il mio figlioccio adottivo onorario decida di chiamare la polizia e denunciare la mia scomparsa se persisto nel non rispondergli, realizzo che a conti fatti non posso continuare ad ignorare la questione. Non è che ci siano possibilità che scompaia, che il tempo torni indietro o che in qualche modo i compleanni vengano cancellati dalla legislazione mondiale, se io insisto a non rispondere al telefono. In realtà, che io risponda o meno, non cambierà proprio niente, nella mia età. Ma almeno, se risponderò potrò smettere di ascoltare la Lambada.
Devo decisamente cambiare suoneria.
- Pronto?
- David! – Bill mi strilla nelle orecchie, la voce già rotta dal pianto liberatorio che immagino si starà lasciando scorrere lungo le guance assieme agli usuali venti chili di kajal, - Dio mio, David, ma sei impazzito? Ma sei impazzito? Hai idea di quanto mi hai fatto preoccupare? Ma come ti è saltato in testa di ignorare le mie chiamate, con tutto quello che è successo negli ultimi mesi?
In realtà, negli ultimi mesi non è successo niente di particolarmente assurdo, fatta eccezione per un viaggio negli Stati Uniti che si è concluso con un matrimonio inatteso e per la breve parentesi di momentaneo dolore emotivo durante la quale il mio ragazzo mi ha lasciato per andare a curare la malaria in Africa con la sola imposizione dei propri pettorali scolpiti nel marmo. L’avvenimento al quale Bill si riferisce, invece, è accaduto mesi fa, ha coinvolto solo me, le mie budella e un coltello non particolarmente affilato, e non avrebbe più modo di ripetersi, dal momento che Bushido, dopo l’accaduto, ha cominciato a pagare uomini perché mi proteggessero seguendomi nell’ombra e terrorizzandomi a morte quando, tornando a casa alle tre del mattino dopo una bevuta, me li vedo spuntare di fronte avvolti nei loro completi neri mentre mi rassicurano dicendo “è tutto a posto, signor Jost, vada pure”.
- Sono vivo, Bill. – annuncio pazientemente, staccandomi di dosso le lenzuola appiccicate alle gambe e sollevandomi faticosamente a sedere mentre ascolto Bill confermare il mio attuale stato in vita a qualcuno accanto a lui, qualcuno che deduco essere Bushido dal modo annoiato in cui risponde “ma te l’avevo detto, Bill”. – Posso andare, adesso? Ho bisogno di una doccia.
- No. – risponde Bill, perentorio, - Cioè, sì, potrai andare a farti una doccia presto, ma prima: tanti auguri! – mi strilla nelle orecchie, inutilmente eccitato per qualcosa che non eccita nemmeno me, figurarsi se dovrebbe avere lui qualche diritto a sentirsi eccitato al mio posto.
- Grazie. – concedo svogliato, - Ora posso andare?
- No! – sbotta Bill, offesissimo, - Ma che ti prende? Ho bisogno di sapere a che ora sei libero, stasera.
- No, Bill, non hai bisogno di saperlo. – gli spiego io con un sospiro stanco mentre costringo il mio vecchio corpo a sollevarsi dalla dolce comodità del materasso memory foam.
- No? – chiede lui, vagamente smarrito. Posso immaginarlo sbattere le lunghe ciglia ricurve, gli occhi di quel brillante castano dorato che fanno capolino da sotto le palpebre pittate di grigio metallizzato.
- No. – confermo, dirigendomi serenamente verso il bagno, - Perché non intendo partecipare ad alcuna festa, per i miei quarant’anni, - spiego, cercando di utilizzare il tono di voce più pacato che i nervi repressi che tremano sottopelle mi consentano, - Non intendo organizzarla a casa mia, non intendo lasciartela organizzare a casa tua, non intendo aprire regali e sorridere fingendo di essere contento nel festeggiare l’inesorabile restringersi della finestra di tempo che mi separa dalla morte e non intendo neanche stare ad ascoltarti mentre cerchi di convincermi che invece sarà una bella festa e ci divertiremo un sacco.
Dall’altro lato della cornetta, Bill resta in silenzio per tre minuti netti. Un record.
- Bill? – lo chiamo, - Sono stato chiaro?
- È scappato. – mi risponde Bushido. Non riesco a decifrare il tono della sua voce. – Gli hai detto che non vuoi saperne niente?
- In sostanza, sì. – annuisco, - Ed è quello che ripeto adesso anche a te. Inoltre, sto per spegnere il cellulare. Ti prego di non inscenare il finimondo, se non mi senti nell’arco delle prossime ventiquattro ore. Gradirei trascorrere questo giorno senza che mi venga ricordato continuamente che sono un vecchiaccio.
Bushido ride appena, lo immagino scuotere il capo.
- Jost, sei un cretino. – mi rimprovera, - Ma d’accordo.
Mi fermo, immobile, una mano sulla maniglia della porta del bagno, l’altra stretta attorno al telefono.
- D’accordo? – domando per conferma.
- D’accordo. – ribadisce lui con sicurezza, - Ci sentiamo, Jost.
D’accordo. Mi sarei aspettato una maggiore insistenza.
*
È una doccia lunga e rilassante, all’avocado e ai minerali del Mar Morto – sebbene io non abbia idea di quale sia l’odore dei minerali del Mar Morto, per cui principalmente è una doccia all’avocado e basta – quella che mi concedo e alla quale mi concedo come non mi sono mai concesso a nessun altro essere con una declinazione al femminile. Lei è buona, con me, mi tratta con rispetto, non sente il bisogno di farmi gli auguri e, pertanto, di farmi sentire vecchio.
Per la verità, dal momento che è una doccia ipertecnologica di ultima generazione, dotata di ogni comfort e di un dispositivo elettronico incredibilmente efficiente che le permette di esprimersi attraverso una voce femminile dalle tonalità suadenti e placide, se avessi attivato il programma “buongiorno del mattino” so che, dopo aver acceso la radio, mi ricorderebbe la data di oggi, l’orario di inizio della doccia, le principali notizie del mattino, gli aggiornamenti sulla viabilità e il traffico e, alla fine, mi farebbe anche gli auguri di compleanno. Fortunatamente, sono stato abbastanza furbo da disattivare quella modalità al secondo giorno di utilizzo, e pertanto la voce di Serafine, che poi è il nome con cui la voce suadente s’è presentata durante la configurazione al primo utilizzo, si limita ad augurarmi il buongiorno e a chiedermi se preferisco doccia semplice, idromassaggio o cromoterapia.
Opto per la doccia semplice, all’avocado e ai minerali del Mar Morto, come vi dicevo, e ne vengo fuori qualcosa come tre quarti d’ora dopo, raggrinzito come una prugna e stupefatto dal fatto che il guanto di crine che ho usato per lo scrub mi abbia lasciato ancora della pelle addosso. È una sensazione abbastanza meravigliosa, e posso sorridere sinceramente mentre, dopo essermi accuratamente asciugato, esco dal bagno avvolto in un microasciugamano che mi copre appena i fianchi. Vado in cucina, bevo una tazza del caffè che la caffettiera ha provveduto a preparare da sé una mezz’oretta fa, poi recupero il nuovo numero di Vanity Fair e passo la successiva ora seduto al tavolo della colazione, le gambe stese sull’unica altra sedia libera, a fingere di leggere mentre in realtà fantastico su immaginari lavori di ristrutturazione alla facciata del palazzo e immaginari operai unti di sudore e sporchi di gesso e cemento armato che fanno educatamente irruzione in casa mia dalla finestra, chiedono un bicchiere d’acqua per dissetarsi dalla calura estiva e poi mi prendono ripetutamente contro il piano in marmo bianco sopra la lavastoviglie. Uno dopo l’altro, a volte anche in coppia.
Dopodiché, ho bisogno di un’altra doccia.
*
Decidere dove andare, o cosa fare del resto della mia giornata, non è così semplice. Non facciamo mai caso a quanto i nostri impegni, intendo quelli che ci scandiscono le giornate, siano per lo più dipendenti dagli altri, più che da noi stessi, fino a quando non spegniamo il telefono. Nel momento in cui quel dettaglio viene a mancare, ecco che improvvisamente ci ritroviamo con un mucchio di tempo libero per le mani e nessuna idea su come impiegarlo.
Dopo essermi assicurato che il sole splenda e che la temperatura esterna oscilli fra i ventinove e i trentadue gradi, stabilisco che restare a casa non ha senso. Primo perché è un luogo facilmente identificabile. Chiunque volesse pensare di volermi trovare, cercherebbe qui per prima cosa. E io non intendo farmi trovare.
Secondo perché fa veramente troppo caldo, ed un uomo attento all’ambiente e al riscaldamento globale quale io sono non può in alcun modo sopportare di risolvere questo problema chiudendosi in una stanza col condizionatore a temperature polari. Qualche pinguino mi ringrazierà per questo, penso con orgoglio mentre indosso il costume da bagno, un paio di bermuda ed una maglietta e, infradito ai piedi, mi lancio verso Steglitz-Zehlendorf.
Tutte le mie buone intenzioni, il mio accorato sostegno verso la causa ambientalista e il mio affetto per i pinguini disagiati che perdono le loro case di ghiaccio a causa del riscaldamento globale, viene meno in un soffio quando, arrivato alla spiaggia del Wannsee, la trovo gremita di gente come non l’ho mai vista da che sono al mondo. E, ricordiamolo, stiamo parlando di quarant’anni. Evidentemente, oggi tutti devono avere avuto la mia stessa idea. Quanti eroi che vogliono salvare il mondo un condizionatore spento alla volta. Greenpeace sarà soddisfatta.
Tanto vale, mi dico, ormai sono qui. Recupero il borsone e mi faccio strada fra ragazzini impegnati a tirare su monumenti di sabbia, donne impegnate a diventare esse stesse monumenti cospargendosi abbondantemente il corpo di creme solari di ogni tipo e uomini che preferirebbero diventare monumenti anch’essi, pietrificandosi possibilmente sul posto, in modo da non dover passare un secondo in più della loro vita ad annoiarsi disperatamente sotto quel sole cocente.
In mezzo a questo acquerello di umanità varia, trovo un posticino grande abbastanza per ospitare il mio telo da mare e me stesso, entrambi piegati in due in modo da occupare il minor numero di metri quadrati possibile.
Ci sono tanti di quei colori, su questa spiaggia, tanti di quei suoni. Gli ombrelloni di ogni dimensione, aperti e puntati verso il sole, sono così tanti che sono sicuro che, se sorvolassi la spiaggia, li vedrei come pois multicolori sul vestito di una ragazza. I gabbiani strillano con forza, ma non abbastanza forte da sovrastare il mormorio incessante del chiacchiericcio delle persone, ognuno perso nelle proprie cose, ognuno annodato nel groviglio dei propri drammi personali, o coccolato nel tepore di qualcosa di bello. Una donna sta parlando del vestito da sposa di sua figlia con un’amica, lo descrive così minuziosamente che quando ha finito potrei disegnarlo senza sbagliare un dettaglio. Una bambina di una decina d’anni sta cercando di spiegare al fratellino, credo, o ad un amichetto più piccolo, come funzionano le onde del mare. Lui fatica a starle dietro e ad un certo punto lei, frustrata, strilla “ma sei stupido?!”, e corre a tuffarsi in acqua. Un uomo parla con un coetaneo, probabilmente un amico. Ha lo sguardo triste, dice “non ce la faccio più”. Non riesco a cogliere i dettagli del discorso, in realtà nemmeno voglio.
Mi appoggio al telo con entrambe le mani, le braccia tese ai lati del corpo. Mi piego indietro e scruto il cielo terso, macchiato qua e là da qualche sbuffo di nuvola. Sembrano fiocchi di panna montata. Nei pressi del sole, il colore del cielo si fa più chiaro, sbiadito, brillante, quasi trasparente. Dà proprio l’impressione di non essere altro che una campana di vetro, tutta attorno al pianeta, attraverso la quale i raggi del sole passano appena. Tuttavia, riesco a sentirli sulla pelle, ed è una sensazione piacevole.
Dietro di me, una famiglia composta da una madre e tre ragazzini di varia età si decide ad andare via, liberando un po’ di spazio. Me ne approfitto, prima che arrivi qualcun altro. Stendo per bene il telo, e mi ci stendo per bene sopra anch’io. Chiudo gli occhi, sorridendo appena. Li tengo chiusi a lungo.
*
La giornata scorre così tranquillamente da sembrare finta. Intorno a mezzogiorno, mi rifugio in uno dei numerosi ristoranti che affollano il lungolago, ed in barba a tutti i miei principi etici e morali passo un paio di piacevolissime ore rifocillandomi – cioè gozzovigliando come un maiale su metà del menu del giorno – e pascendomi nell’aria freddissima che riempie la stanza al punto che, entrando, pare di non essere nemmeno più in estate. Tutta questa gente con le loro giacchettine addosso mentre fuori le persone vorrebbero strapparsi ogni indumento e bruciarlo pur di sentire un minimo di fresco, sono esilaranti. Li osservo con divertimento, facendo punto d’onore nel restare in maniche corte per tutto il tempo nonostante la pelle d’oca da freddo.
Quando comincio a sentire le estremità del mio corpo perdere sensibilità, decido che ne ho avuto abbastanza. Pago, esco dal ristorante e l’escursione termica fra interno ed esterno è tale che un qualsiasi uomo meno fisicamente preparato di me sverrebbe all’istante. Fortunatamente, io sono ancora in forma, e sopporto con stoica testardaggine gli schiaffi del vento caldissimo che scompiglia i capelli di tutte le signore presenti, e poi torno in spiaggia.
C’è molta meno gente, adesso. Il sole sta cominciando ad abbassarsi, le ore migliori per la tintarella sono già finite e chi è qui dalla mattina comincia ad avere troppo caldo, e ad essere troppo stanco, per non desiderare di trovarsi altrove.
Io mi approprio di un paio di metri di sabbia umida in riva, e mi seggo a guardare il lago. L’acqua è meravigliosa, tutta azzurra e bianca, e si arriccia capricciosa attorno ai corpi dei ragazzi e delle ragazze che fanno il bagno. Con ogni schizzo, sembra di sentirla ridere.
Ci vogliono ore, prima che qualcosa cambi. Osservo il sole disegnare un arco perfetto nel cielo, e perdo completamente di vista la cognizione del tempo e dello spazio. È come essere solo, su questa spiaggia. Siamo solo io e il sole che scandisce i minuti e le ore fino alla fine di quella giornata, e gli sono grato, perché da un certo punto in poi sembra che si sia messo a correre, per far calare la notte il prima possibile. Molto premuroso, da parte sua. Starò sicuramente molto meglio, quando queste ventiquattro ore saranno finalmente passate.
E poi, improvvisamente, appena il sole fa tanto di bagnarsi la punta dei piedi, qualcuno si siede accanto a me, posa una bottiglia di whiskey sul mio telo, in mezzo a noi, e tira fuori un walkman – un walkman – dalla borsa nera che porta a tracolla.
Nel momento in cui capisco che si tratta di Bushido, lui mi ha già infilato un auricolare in un orecchio, e le note di Sweet Home Alabama cominciano a farsi strada dentro di me.
- Sul serio? – dico, voltandomi verso di lui con gli occhi sgranati, - Vuoi consolarmi per la mia triste vecchiaia e mi porti un walkman, del whiskey e una cassetta dei Lynyrd Skynyrd?
Bushido ride, il suono della sua voce è dolce, quasi tenero. Non mi guarda nemmeno, impegnato com’è a fissare il lago ormai praticamente vuoto.
- Hai il coraggio e la faccia tosta di dirmi che questa canzone non ti piace? – domanda.
Io sospiro, abbassando lo sguardo.
- La adoro. – ammetto, - Ma questo non significa—
- Bill c’è rimasto malissimo, sai? – mi interrompe. Io faccio una smorfia. Naturalmente, Bill. Lo dico senza risentimento, come il dato di fatto che è: con Bushido, tutto, sempre, è una questione di Bill. Qualsiasi cosa quest’uomo faccia o non faccia, la fa o non la fa tenendo sempre in considerazione Bill per primo, e poi, secondariamente, se necessario, tutto il resto del mondo. – Ci teneva un sacco.
- Non mi stupisce affatto. – commento con un mezzo sorriso, - Adora dare feste.
- Non è solo quello. – mi corregge Bushido, perfettamente calmo, - Tu sei stato come un padre, per lui. Tom ha avuto Gordon, ma Bill ha avuto te. Sei stato il suo mentore, e ricordati che è completamente a causa tua che oggi lui è quello che è. – lo osservo sospirare e poi sorridere, - Devi capire che è così felice di non averti perso che non farebbe che dare feste in tuo onore. E tu pretendi che non festeggi il tuo compleanno? – ridacchia appena, scuotendo il capo, - Ma non capisci che, se facessi il compleanno ogni giorno, lui organizzerebbe ogni giorno una festa diversa, solo ed esclusivamente per celebrare il fatto che esisti?
Non fingo nemmeno di provare a trattenere le lacrime. La cosa più odiosa è che tutto questo io lo so. L’ho sempre saputo, Bushido non è venuto qui a snocciolarmi verità sconosciute come il dio immortale che in realtà sospetto sia veramente. È solo venuto qui al momento giusto, nella cornice giusta, perfino con la giusta colonna sonora, per ricordarmelo.
- Sono veramente egoista, - sospiro, asciugandomi gli occhi, - vero?
- Sì. – risponde lui, sinceramente, - Ma dal momento che lo siamo tutti, almeno sei in buona compagnia. Tieni, - aggiunge poi, sollevando la bottiglia verso di me, - bevi. Ne avrai bisogno.
Obbedisco senza neanche chiedergli perché.
- Come hai fatto a trovarmi? – chiedo fra un sorso e l’altro. Bushido si limita ad indicare con un cenno del capo i due uomini vestiti di nero che mi sorvegliano attentamente dal molo. Poveretti, devono soffrire parecchio, con le cravatte annodate e le maniche lunghe. Chissà da quanto sono qui. – Lo sai, questo è stalking.
Bushido scrolla le spalle.
- Fammi causa. – butta lì, rubandomi la bottiglia. Gliela richiedo indietro pochi istanti dopo, e per molti minuti, finché non ne vediamo il fondo, restiamo lì in riva a bere e a lasciarci bagnare i piedi dalle onde.
*
Il motivo della bottiglia di whiskey lo capisco solo qualche ora dopo, intorno a mezzanotte. La festa, per la gioia di Bill, è stata splendida. Non è che mi abbia fatto dimenticare che sono depresso e che probabilmente mi chiuderò in una SPA per tutto il resto della prossima settimana per farmi massaggiare da giovani tailandesi finché non sarò ringiovanito abbastanza da poter mostrare nuovamente la mia faccia in pubblico, ma almeno è stato un modo piacevole per passare le ultime ore di questa giornata da cancellare con persone di cui m’importa, ed alle quali importa di me. La spiaggia era un luogo bellissimo, impersonale e rassicurante, ma in effetti il calore umano ha qualcosa in più rispetto a quello del sole. Quando capiranno cos’è e riusciranno a imbottigliarlo, scommetto che gran parte dei problemi del mondo potrà essere facilmente risolta.
Al momento, Chakuza è sdraiato a terra con un imbuto di dimensioni preoccupanti in bocca. Fler è disteso al suo fianco, e conta “uno! Due! Tre!” per ogni secondo che il suo nuovo marito riesce a passare in apnea bevendo birra bavarese che Eko Fresh versa direttamente nell’imbuto dalla spalliera del divano sul quale è appollaiato. Tom, che ha bevuto pure lui come un tacchino, è seduto su un divano, arrabbiato per chissà quale oscuro motivo, mentre suo fratello, ridendo come un deficiente per chissà che battuta, gli tira le treccine a casaccio.
Bill è raggiante. C’è come un alone di gioia e santità, attorno a lui. Praticamente vederselo passare di fronte è come avere una visione della vergine Maria quando era un’adolescente dark. O forse, appunto, è solo il whiskey ad aver reso più semplice una cosa complicata, più piacevole una cosa dolorosa. A volte anche fuggire così va bene, sapete, purché ci siano le braccia di qualcuno a tenerti ancorato a terra.
- Ehi. – mi saluta Bushido, il quale, con questo bicchiere di vino rosso che tiene in mano e il completo elegante che indossa, sembra quasi l’uomo serio che in realtà non è. Non potrò mai dimenticarmi che quest’uomo è venuto a recuperarmi su una spiaggia, al tramonto, portando con sé un walkman e i Lynyrd Skynyrd. – Tutto a posto?
- Direi di sì. – sorrido, accettando l’altro bicchiere di vino che mi porge, - Non sono già abbastanza ubriaco? – rido.
- No, sei ubriaco al punto giusto. – ride anche lui, e poi si sistema accanto a me, osservando la festa andare avanti con curiosità e divertimento, proprio come ho fatto anch’io fino ad ora. – Senti, - dice quindi, - lo sai qual è la cura per la malattia del non avere più vent’anni? – domanda.
Mi volto a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Avere qualcuno che ce li abbia ancora. – ghigna lui. Io spalanco gli occhi. – Seconda stanza a destra al piano di sopra. – dice quindi, consegnandomi una chiave di ottone. – Va’ e riproduciti.
- Stai scherzando. – balbetto sconvolto.
Ma no, non sta scherzando. Ed ecco che il whiskey torna utile mentre scoppio a ridere, accettando di buon grado il suo gentile presente e lasciando che il giovanotto al piano di sopra mi aiuti a dimenticare quanti anni ho – e il mio nome, anche – prima di tornare a dormire.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza, Sido/Bushido/Bill/Fler/Chakuza (wut?).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Fivesome.
- Tom Kaulitz ha cinque certezze. Sono poche, ma sono buone. O almeno così crede.
Note: Vorrei potermi liberare di un po’ di responsabilità concernenti questa storia, per cui: l’ha plottata Tab, Meg s’è rifiutata di scriverla passandomi la palla e Def me l’ha betata e mi ha istigata a postarla, mentre Gra, con la sua meravigliosa challenge per DispariSome, mi ha fornito il pretesto perfetto per farlo davvero. Oltre ciò, non ho poi molto da dire, a parte il fatto che dovreste avere molta pietà di me e di Tom. Ma molta davvero. *piange*
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PRINCIPLE OF UNCERTAINTY

Nel corso del mio ultimo anno di vita, gran parte delle mie certezze sono state prese, gettate in terra come pezze vecchie e poi calpestate senza ritegno né dignità come non avessero il benché minimo valore. Io capisco che la vita è sempre un divenire, non c’è mai nulla che sia uguale un minuto dopo averla vista, sono grato a David per il corso di filosofia accelerata cui mi ha sottoposto prima dell’Abitur e tutto il resto, ma comprendetemi, non è bello quando credi in qualcosa fino a un determinato secondo della tua esistenza e poi in quel determinato secondo succede qualcosa che devasta tutto come una specie di uragano, lasciandoti in mutande e con nient’altro in mano oltre alla tua disperazione.
E sì, mi rendo conto di stare esprimendomi in termini catastrofistici, emodepressivi e generalmente iperdrammatici, ma ci sarà un motivo per il quale condivido il cento percento del mio corredo genetico con mio fratello Bill; in qualcosa dovevamo pure assomigliarci, ed evidentemente questo qualcosa è la propensione al drammatismo spicciolo da tragedia catastrofenaturalistica americana. Oltre al talento nell’usare le parole, naturalmente, voglio dire, visto quanti termini nuovi di zecca sono stato in grado di coniare in meno di cinque minuti di monologo? Sono meraviglioso.
Comunque, mia meraviglia personale a parte, parlavo delle mie certezze. Ne avevo poche, ma tutte erano ben salde e costituivano le fondamenta del mio intero essere, per svariati motivi.
La prima e più importante di tutte era: Bill non è gay.
…non osate ridere né guardarmi in quel modo! Io sono la persona che conosce Bill meglio in assoluto in tutto l’intero universo, lo conosco da prima che venissimo al mondo, da prima che venissimo generati, da prima che la grande volontà dell’universo decidesse che era giusto che due Kaulitz uguali calpestassero il suolo del pianeta Terra contemporaneamente, io e Bill siamo una cosa sola da che il Big Bang è esploso generando l’universo e via discorrendo, se vi dico che mio fratello non aveva mai dato segno della sua inclinazione omosessuale dovete credermi. No, trucco, unghie e capelli non sono segno di inclinazione omosessuale, furbastri supponenti che non siete altro – e nemmeno i vestiti! Bill non era gay, posso giurarlo, so che scopava con delle donne e non fate queste facce sconvolte e nauseate, era un ragazzo assolutamente normale. Oh.
Poi, Bushido è piombato nelle nostre vite. Prego inserire musica drammatica in questo punto.
Ora, io non ho mai nascosto la mia preferenza per il lato cattivo del rap tedesco. Voglio dire, di fronte a una scelta, ho sempre scelto l’Aggro Berlin e Sido. Senza nemmeno rifletterci su, in realtà. Però, ecco, Bushido mi piaceva, per il semplice fatto che – voglio dire: è sfrontato, è cazzuto, è stato arrestato, è un rapper. Come poteva non piacermi?
Quindi, insomma, quando David mi ha detto che probabilmente ci sarebbe stata una collaborazione con uno dei suoi uomini, per il nuovo album, io naturalmente mi sono esaltato, e non dico di essermi messo a squittire come una fangirl – a questo proposito, non chiedete mai a Georg di raccontarvi la mia reazione, poi dovrei uccidere lui e voi e temo che questo causerebbe dei problemi non indifferenti alla mia carriera – dicevo, non mi sono certo stracciato le vesti di dosso crollando a piangere di commozione, anche perché le vesti che avevo addosso dovevano valere sul migliaio di euro tutto compreso, ma sono comunque stato molto felice. Certo, Kay One non era assolutamente il mio preferito nel mucchio degli artisti sotto contratto all’Ersguterjunge & Co., ma era meglio di niente. Ero ancora vagamente dubbioso riguardo quando fosse opportuno inserire del rap nelle nostre canzoni, ma mi fidavo di David.
Naturalmente non avrei dovuto. Alla fine non siamo riusciti a infilare il rap in nemmeno una delle nostre canzoni. In compenso, Bushido è riuscito a infilare le mani nelle mutande di mio fratello.
Voglio dire.
La seconda certezza fondante la mia esistenza, dato che apprezzavo l’uomo e tutto il resto, era Bushido non è gay. Poi l’uomo arriva, sparge sorrisi smaglianti e acqua di colonia da non so quante centinaia di euro per tutto lo studio e il minuto dopo lo trovo lì che flirta spudoratamente con mio fratello, costringendolo a stringersi imbarazzato nelle spalle esili e spostare altrove lo sguardo brillante di emozione. Io lo conosco mio fratello, lo so quando si sente compiaciuto, e il primo passo per scalare la montagna di gambe chilometriche che conduce al suo cuore è lusingarlo. Bushido ci stava riuscendo.
Insomma, per me è stato un disastro umano! Due certezze spazzate via in un colpo solo da un tunisino con un opinabile taglio di capelli ed un’ancora più opinabile propensione verso l’inchiostrazione indiscriminata del proprio corpo! Non si fa così, non è corretto.
Come potrete abbondantemente immaginare da voi, venire a patti con tutto ciò non è stato semplice. Vi risparmierò la cronaca dei lunghi mesi che ho passato, nell’ordine, a: ostracizzare mio fratello da qualsiasi mia decisione, fosse essa mettere o meno i cetrioli in un panino o cambiare radicalmente taglio di capelli; combattere una guerra di grugniti e ringhi di varia natura nei confronti di Bushido per aver privato mio fratello della sua innocenza o almeno di un’emanazione della stessa; combattere una guerra di pari violenza e pari intensità dotata però anche di scazzottate ai limiti del legale con David, che ritenevo primo e principale colpevole del disastro in atto, visto che avrebbe dovuto dire a mio fratello di piantarla una buona volta e stare lontano dal tunisino o, in alternativa, avrebbe dovuto prendere il suddetto tunisino e trascinarlo di fronte a un tribunale per circonvenzione e abuso di incapace e costringere i giudici a rinchiuderlo in uno sgabuzzino in compagnia di turchi che non vedono da anni la luce del sole, per tutto il resto della sua vita, tipo, e invece non stava facendo niente del genere e si limitava anche lui a spargere sorrisi e acqua di colonia come non ci fosse un domani, così, al solo scopo di mandarmi ai pazzi.
Alla fine, dopo numerose tribolazioni, ho accettato la realtà – nel senso che mi sono rassegnato, ecco. Accettare è un termine un po’ forte, ti fa pensare ad un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, spalanca la finestra, alza gli occhi al cielo, inspira a pieni polmoni ed esclama “io posso farcela e ce la farò!” richiamando a sé le forze della natura perché lo pervadano e lo aiutino ad uscire dalla brutta situazione in cui s’è cacciato. Ecco, io non direi di essermi comportato proprio così, per questo “rassegnare” è un termine più preciso, perché ti fa pensare a un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, incurva le spalle, sospira e sbotta “va be’, poteva andare peggio, poteva mettersi con Chakuza”. Per dire.
Comunque, da lì in poi le cose hanno cominciato a migliorare. Io ho ripreso a parlare con Bill, ho smesso di picchiare David e ho anche scoperto che in fin dei conti il Billshido diventato realtà non era nemmeno così male. Voglio dire, mio fratello era parecchio frustrato, ultimamente, e da quando andava a letto con Bushido invece le cose sembravano andare sensibilmente meglio, perciò evidentemente Madre Natura sapeva cosa fare quando li aveva chiusi entrambi in uno sgabuzzino per indagare sulle nuove frontiere della loro sessualità. Bisognerebbe sempre fidarsi di Madre Natura, lei sa cosa fa e non sbaglia mai. Ha fatto me etero perché non poteva privare le donne della mia bellezza, ha fatto Georg e Gustav etero perché non poteva dare agli omosessuali anche questa sfiga e ha fatto Bushido e Bill omosessuali perché potessero trovarsi e ristabilire gli equilibri dell’universo, evidentemente. Chi sono io per oppormi? Nessuno. E quindi non mi oppongo.
I problemi hanno ricominciato a bussare alla mia porta quando la storia fra Bill e Bushido ha cominciato a farsi seria. Intendiamoci, io non avrei avuto nulla in contrario se quei due avessero continuato a scopare come ricci fino ad esaurire la forza che li spingeva l’uno verso l’altro, ma loro no, volevano fare i romantici, gli innamorati, e si sa come finiscono queste cose, che poi ci si appiccica come crauti ai wurstel e non ci si stacca più nemmeno coi lacrimogeni. E quindi è cominciata la lunga trafila di cose che odio e che succedono sempre in questi casi: presentazione dei genitori – che poi in realtà è stata la cosa meno devastante, perché Bushido per qualche motivo adora la frittata con le cipolle di mia madre ed io per motivi ancora meno comprensibili adoro lo spezzatino con le patate della signora Luise Maria – pellegrinaggi continui negli appartamenti altrui, spostamento dei primi vestiti e, dulcis in fundo, presentazione degli amici.
E lì crolla la mia terza certezza. Nello specifico: se anche Bushido fosse gay, i rapper in generale non potrebbero esserlo.
Immagino lo sappiate già, comunque: Bushido vive in un’enorme villa gialla che io suppongo possa essere vista dallo spazio al pari della grande muraglia cinese, se non altro perché il suo colore è tale da dover essere per forza catarifrangente, quindi immagino che catturi la luce del sole e poi la proietti nell’universo per centinaia di migliaia di anni luce. Scommetto che esiste un qualche pianeta perso nel nulla dal quale vedono i suoi bagliori giallastri, e scommetto anche che la credono una stella. E l’avranno nominata in qualche modo tipo B-Ush1d0. O chessò io. Comunque! Il nostro tunisino preferito vive in questa villa, e naturalmente non ci vive da solo. Fino a qualche tempo fa ci viveva con Kay One e D-Bo, poi Kay One ha deciso giustamente di fuggire per rincorrere il miraggio dell’eterosessualità e D-Bo ha deciso di imitarlo per rincorrere quello dell’indipendenza, e quindi Bushido s’è visto costretto a cambiare coinquilino.
E qui entra in gioco Fler.
Dunque, Fler è un uomo che mi sono ritrovato ad apprezzare parecchio, in passato, se non altro perché Sido diceva un gran bene di lui, se lo portava ovunque e tutto il resto. E poi, ammettiamolo, l’uomo col rap ci sa fare, e ci dà dentro che è una meraviglia. L’ultimo album, poi, è una delle cose più grandiose siano state prodotte all’AB nei suoi quasi dieci anni di meravigliosa esistenza, perciò io, ecco, gli volevo del bene.
Quando ha deciso di riappacificarsi col vecchio amico e poi arcinemico, non è che ci abbia trovato qualcosa da ridire. Trovo però decisamente qualcosa da ridire nell’entrare in casa di Bushido in compagnia del sovrano della baracca e della sua regina – mio fratello – e ritrovarmi appunto Fler sul divano che limona selvaggiamente con Chakuza. Ecco, questo mi turba parecchio, ed ho da ridire eccome, per due motivi fondamentali: il primo è che una cosa del genere ovviamente distrugge la mia certezza sui rapper che non sono mai gay, il secondo è che non si limita a distruggere solo questo ma distrugge anche la quarta delle mie certezze – che, ve lo anticipo fin d’ora, sono cinque, quindi sopportate stoicamente, che il martirio sta per concludersi. Tale certezza era: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, per nessun motivo al mondo Chakuza sarebbe un essere umano sessualmente attivo. E invece, tutto insieme, scopro che non solo il rap tedesco in parata ha deciso di seguire le orme del suo principale esponente, ma ha deciso di farlo anche Chakuza e, cosa peggiore di tutte, ha deciso di farlo con Fler. Di fronte ai miei occhi!
Poi, per dire, mi sarei aspettato una reazione alla “cielo! Mio marito!” pur senza mariti implicati. Capite cosa intendo? Qualcosa tipo Fler e Chakuza che si tirano un inesistente lenzuolo fin sotto il mento ed urlano cose random tipo “oddio! Non ci aspettavamo una vostra visita! Ci dispiace! Ci spostiamo immediatamente al piano di sopra, e non certo per continuare ma per fare harakiri a seguito della nostra intimità violata” e via così. E invece niente, io mi vedo questi due uomini adulti che restano nell’esatta posizione in cui erano quando li abbiamo beccati – per la precisione e nel caso vi interessi, anche se ne dubito: Chakuza seduto sul divano con Fler a cavalcioni nell’atto di sollevarsi per liberarsi più facilmente dei jeans – e si voltano a sorriderci e salutarci come niente fosse, e insomma, mi prendo male! Chiunque si prenderebbe male, in una situazione del genere! E quindi raccolgo ciò che di mio è caduto fin sul pavimento di Bushido – la mascella, per lo stupore, non le palle, quelle le tengo sempre in gran conto e al loro posto – e fuggo via il più lontano possibile. Letteralmente.
È un peccato che mio fratello abbia gambe così lunghe, sia così leggero e, soprattutto, sappia esattamente dove trovarmi quando entro in depressione e mi chiudo in posizione fetale rinnegando l’esistenza del mondo esterno.
Insomma, sono stato riportato indietro al grido di “ma dai, Tomi, sono così carini!” e non ho potuto fare a meno di rassegnarmi ancora e prendere atto del fatto che la mia vita aveva deciso di tradirmi ribaltandosi al contrario mentre io dormivo o ero comunque momentaneamente assente, e senza nemmeno lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Ci sono tragedie alle quali uno dovrebbe essere preparato prima, e invece niente, un attimo prima sei un uomo felice e l’attimo dopo ti ritrovi su un divano giallo dentro una casa gialla che mangi pasticcini gialli bevendo tè al limone mentre un rapper tunisino divora di baci tuo fratello da un lato e altri due rapper dall’altro lato si fanno prendere da una sorta di delirio pro-gay e ti raccontano tutta la loro vita e, soprattutto, come e quanto in meglio sia cambiata la loro vita da quando hanno scoperto di amarsi. Che sono cose che uno non vorrebbe mai sentirsi dire, intendo, ascoltare Chakuza che ti racconta dei suoi piani di vita matrimoniale con Fler aggiungendo che prima o poi gli piacerebbe anche adottare dei bambini o, in assenza, almeno qualche cane? No, grazie, vivo felice anche senza.
Comunque niente – e aiutatemi a ripetere niente – di tutto questo poteva prepararmi al dramma cosmologico che da lì a poco si sarebbe verificato. Perché uno vede tante cose, nel corso della propria vita, e io ne ho viste un mucchio, credetemi, e dopo un po’ si convince che niente potrà più stupirlo o piombarlo in un baratro di disperazione, perché ci si riprende da tutto, no? Io mi sono ripreso da mio fratello, tanto per cominciare, poi mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido e ha due amici che sono Chakuza e Fler e che stanno insieme!, e dopo tutto questo pensavo che nulla più avrebbe potuto scalfirmi. E invece no. Non avevo tenuto conto del fatto che al peggio non c’è mai fine.
E tutto ciò mi riporta ad oggi. A una cena con tutta la crew di Bushido che è finita da almeno mezz’ora e a me che, svaccato su questa poltrona e con un bicchiere di vino rosso ancora quasi del tutto pieno in mano, osservo la scena che si presenta di fronte ai miei occhi e che coinvolge mio fratello, Bushido, Chakuza, Fler e Sido, che s’è fermato a chiacchierare un po’ dopo la fine del pasto.
Ricordate della quinta certezza cui accennavo prima? Ecco, recita pressappoco così: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, e se pure Chakuza dovesse rivelarsi un essere umano sessualmente attivo, una cosa non potrà mai cambiare, e questa cosa è che Sido non è gay né mai lo diventerà.
Capite bene che è un po’ difficile ripeterlo adesso che lo stesso Sido che mai e poi mai dovrebbe essere gay si spinge e sgomita per cercarsi uno spazio fra le braccia di mio fratello mentre Bushido lo tiene stretto da dietro strusciandosi contro di lui e Fler e Chakuza si danno alla pazza gioia baciandosi e spogliando contemporaneamente tutti gli altri, aiutati da una maestria che dimostra esperienza di un tipo che non sono certo di voler conoscere. E tutto questo qui, di fronte ai miei occhi.
- Ragazzi… - azzardo incerto, osservando il mio bicchiere di vino e allontanandolo con aria dubbiosa, sia mai il problema non sia negli appetiti sessuali ma nelle bevande, - non credete di stare un po’ esagerando? Siete tutti ubriachi e… - mi rispondono solo mugolii incomprensibili, che si protraggono a lungo come in una nenia.
- Shai qual è il tuo problema, Tooomi? – borbotta Bill, cadendo un po’ da un lato e un po’ dall’altro, sorretto dalle braccia malferme di Bushido che lo sistema esattamente nel mezzo fra il suo corpo e quello di Sido, mentre Fler e Chakuza si avvicinano, circondandolo ai lati con una serie di spaventose risatine compiaciute, - Che tu… non ti shai divertirrrre. – sentenzia mio fratello ridacchiando a propria volta e lasciandosi maneggiare come una bambola.
Io mi passo una mano sugli occhi, disperato. Dovrei fare qualcosa, tipo alzarmi, piantarmi in mezzo a tutti questi uomini concupiscenti e fuori di testa, prelevare mio fratello e portarlo il più lontano possibile da qui prima che abusino della sua persona…
- Oh, sì, A-Anis, così! – mugola Bill, allungando braccia e gambe a caso come se, oltre ad Anis, volesse inglobare dentro di sé pure tutti gli altri che lo stanno accarezzando baciando sfiorando ovunque in questo stesso momento. E lì io sospiro ancora, poso il vino e mi alzo in piedi diretto al piano di sopra, senza prelevare nessuno. Anche perché mi rendo conto che il piano originario, quello di salvare Bill prima che abusassero della sua persona, non posso più portarlo a termine: non sono più tanto sicuro di chi stia abusando di chi altri, in questo momento.
Le mie certezze ormai sono tutte sparite nel nulla. Non sono più sicuro di niente. Una cosa, comunque, la so: la prossima volta che Bill e Bushido mi invitano a cena, li mando tutti a fanculo senza nemmeno passare dal via.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- "Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo."
Note: Ma buongiorno *_*v Non ve l’aspettavate quasi più, uh? XD Mi rendo conto che vi ho costrette ad aspettare tantissimo e ciò è orrendo, ma spero che vi siate godute questa shot enorme – per quanto sia godibile, visto ciò che accade al suo interno… *riflette* …okay, credo che almeno una di voi se la sia goduta sufficientemente XD Comunque u.u Perdonate il mio Bimbo mentre sfiora nuove vette di perfezione dove non si credeva nemmeno che sarebbe stato possibile (ormai è oltre anche il concetto stesso di Gary Stu. Esiste un Gary Stu alla seconda o anche alla terza? Ecco). E insomma, per il resto, aspettatevi novità nel prossimo futuro: haters to the left, SE continua imperterrita u.u
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YOUR LOVE ALONE IS NOT ENOUGH

Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, David/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie."
Note: Perché serviva spiegare un po’ com’è che si siano mosse le cose al di là del triangolo Bu/Bill/Chaku XD E perché David mancava con amore a tutti noi (o almeno mi auguro o_ò A me sì, comunque XD).
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WHEN THE GOING GETS TOUGH THE TOUGH GET GOING

Le questioni di parruccheria e cosmetica, con Bill, non sono mai state un problema. Per ciò che riguarda se stesso e il proprio aspetto, Bill segue fondamentalmente due criteri base, sui quali poi si può creare di tutto ma che vanno seguiti scrupolosamente. Bill è molto più creativo di ciò che la gente immagina guardandolo, solo che il suo strumento non è davvero la voce: Bill utilizza se stesso, ed è per questo che lui e Bushido sono tanto simili; hanno praticamente lo stesso modo di approcciarsi alla vita, prendendola di petto, sentendola su ogni centimetro della propria pelle. Non per coraggio, ma perché il loro corpo è la loro unica arma e il loro unico scudo. Perciò, il corpo è una cosa sulla quale Bill sente di dover avere un enorme controllo, ma allo stesso tempo è fantasioso per ciò che riguarda il suo utilizzo. I cambiamenti, per lui, non sono mai stati momenti difficili, quanto più gli unici istanti in cui Bill sentisse di poter esprimere appieno tutto il proprio talento. Tutto il contrario di suo fratello, che invece è una persona molto più normale ed il proprio corpo lo usa solo per scopare, perciò, se trova uno stile in cui si sente a proprio agio e nel quale si trova piacevole, tende a cercare di preservarlo per evitare di avere problemi.
Comunque, i due criteri base sui quali si basano le concessioni che Bill fa a truccatori e stilisti quando gli lavorano addosso sono: che lo mantengano il più femminile possibile e che, in mancanza di una femminilità sfacciata, si impegnino almeno a mantenerlo bellissimo. Sono le uniche due cose che Bill pretenda davvero quando si lascia andare alle mani esperte dei professionisti. Femmina. Se non femmina, talmente bello che ad un maschio non deve importare del suo sesso. È su questo che Bill ha basato tutta la propria carriera ed è per questo che Bill è diventato famoso. Perciò è questo che Bill vuole, sempre e comunque. Non so perché Bill odi il genere umano al punto da desiderare così ardentemente di metterlo in difficoltà ogni volta che mostra pubblicamente il musetto, così è, comunque, ed è per questo che si mostra struccato e trasandato solo di fronte agli occhi di chi ama: sono le uniche persone che non sente il bisogno di mettere a disagio o in imbarazzo.
Il motivo per cui sto dicendo tutto questo è che sto cercando di spiegare anche a me stesso quanto sia stato difficile convincere Bill a sottoporsi al solito restyling preventivo in attesa dei frutti del lavoro di Bushido, quando invece non mi è mai capitato neanche che fosse necessario chiederla, a Bill, una cosa del genere. Faceva tutto parte dello stato di esaltazione in cui Bill entrava in modo del tutto naturale ogni volta che gli veniva annunciata la data di uscita del nuovo lavoro. Era anche il motivo per cui lavorava alacremente, cercando di non sbagliare e mettendocela tutta, finanche a sfinirsi: tutto in previsione del momento in cui sarebbe potuto tornare a lavorare nel suo ambiente favorito, non lo spazio piccolo e chiuso delle sale di registrazioni, ma gli ampi spazi aperti dei palchi e degli stadi di tutto il mondo.
A questo giro, niente del genere di è verificato. Ho spiegato a Bill tutto quello che questo singolo avrebbe comportato – apparizioni pubbliche, un tour, riarrangiamenti di vecchi lavori, collaborazioni, presenze ovunque su qualsiasi canale televisivo, tutte cose che fino ad un anno fa l’avrebbero reso felice da scoppiare, ma la sua reazione è stata così tragicamente apatica da togliere perfino a me la voglia di lavorare.
Non mi aspettavo, naturalmente, di vederlo saltare in aria in preda alla gioia, questo è ovvio. Anche un idiota capirebbe che, in questo periodo della sua esistenza, Bill preferirebbe anche trovarsi completamente da solo appollaiato sulla punta di un iceberg in scioglimento al Polo Nord, piuttosto che restare qui a rimbalzare da un lato all’altro di Berlino nel tentativo di sbrogliare la matassa che ha al posto del cervello. Però speravo che il lavoro riuscisse a distrarlo. Ancora di più, speravo che riuscissero a distrarlo le fasi precedenti al lavoro, che sono quelle che gli piacciono di più. Quelle, appunto, in cui si restaura. Quelle in cui può chiudere gli occhi e lasciare che le persone lo coccolino, lo plasmino e squittiscano soddisfatte mentre lo osservano diventare stupendo sotto le loro dita, prima di lasciarlo tornare a guardarsi ed osservarlo sorridere soddisfatto di se stesso, perché ancora una volta ce l’ha fatta, ancora una volta è diverso ed ancora una volta è bellissimo. Sono le fasi dei trucchi, delle pettinature sperimentali, dei massaggi, dello shopping sfrenato. Bill ci impazziva, dietro a queste cose, un anno fa. Non posso fare a meno di chiedermi quanto di lui sia morto assieme a Bushido, visto che ci sono pezzi di sé che Bill non è riuscito a recuperare nemmeno grazie a Chakuza.
Bill non si aspettava che sarebbe stato costretto a lavorare con Bushido. C’è stato un tempo – che sembra lontano secoli – in cui l’idea era effettivamente balenata nella mente dei capi, alla Universal. Allora Bushido era vivo, lui e Bill erano la coppia d’oro dello show business tedesco ed erano presi al punto che, pur di stare insieme, avrebbero accettato qualsiasi tipo di contratto lavorativo, a qualsiasi condizione, purché permettesse loro di passare insieme la maggior quantità di tempo possibile.
Alla Universal l’idea del duetto piaceva moltissimo, s’era parlato di inserirla nel primo album disponibile – il nuovo lavoro dei Tokio Hotel, quello che non è mai uscito, visto che per Heavy Metal Payback, che invece è uscito postumo, le registrazioni s’erano già concluse da un pezzo – si stava addirittura cominciando a stilare qualche linea guida del progetto, prima di sottoporla all’attenzione dei diretti interessati.
Poi Bushido è morto e la Universal ha scrollato le spalle pensando di poter guadagnare dall’evento perfino più di quanto avrebbe potuto guadagnare col duetto, perciò l’idea non è mai uscita dagli uffici degli amministratori e non se n’è più nemmeno parlato, neanche per scherzo.
Il ritorno in vita di Bushido, ovviamente, ha cambiato di nuovo all’improvviso tutte le carte in tavola. Ai vertici della Universal, io, la sparizione di Bushido non ho potuto venderla come una trovata pubblicitaria. È gente che ha fiuto, per queste cose, è gente che le conosce, che ne comprende appieno i tempi e i modi. La morte di Bushido non si è svolta né nei modi più corretti né nei tempi più consoni, non c’era la minima possibilità che io potessi dire una balla simile a gente di quel calibro senza che loro mi ridessero dietro e mi licenziassero pure. Perciò, per quanto la cosa potesse farmi girare le palle, ho dovuto sputarla fuori tutta, mettendomici anche in mezzo, parlando dei timori di Bushido, della sua preoccupazione per Bill e del lungo periodo che l’aveva portato a maturare quella decisione.
In cambio per la mia sincerità, ho ottenuto altrettanta sincerità. Non pietà, naturalmente – non c’era speranza che ci si facesse sfuggire una storia simile lasciandola cadere nel dimenticatoio e concedendo a Bushido l’anonimato che voleva – ma non sono stato deriso, non sono stato trattato con sufficienza anche se era palese che nel gruppo qualcuno avesse sbagliato – e quel qualcuno ero io – e, cosa ancora più importante, non sono stato mandato a fanculo, né sono stato privato del mio incarico coi Tokio Hotel o con Bushido stesso. Tra l’altro, il mio impegno con Bushido non era mai stato ufficiale, alla Universal non avrebbero impiegato più di un minuto per togliermelo dalle mani – non avrebbero avuto neanche bisogno di tirare fuori il contratto per mostrarmelo. Insomma, diciamo che, tutto sommato, la trattativa non è andata poi così male.
L’unica cosa che proprio non potevo aspettarmi, da questa trattativa, è che fosse alla pari. Che fosse uno scambio. Quando firmi per una major, guadagni in fama, guadagni in denaro e guadagni anche in soddisfazione, ma perdi irrimediabilmente un pezzo molto consistente della tua indipendenza. Cose come “l’ultima parola sul proprio lavoro” diventano nient’altro che vecchi ricordi, perché neanche al più famoso dei gruppi viene mai consentito di uscire sul mercato se ciò che ha prodotto non è perfetto per l’etichetta, più che per il gruppo stesso.
Questo ragionamento Bushido lo conosce. Perché di fare il salto da indie e major l’ha deciso lui, e quando l’ha fatto sapeva esattamente dove stava andando e come e perché lo stava facendo. Perciò Bushido l’ha sempre saputo che, tornando allo scoperto, il momento delle pretese sarebbe arrivato.
Bill, invece, è sotto contratto da quando aveva quindici anni. Bushido sapeva quantificare ciò che stava perdendo in libertà proprio perché quella libertà, prima di firmare con la Universal, l’aveva vissuta pienamente. Bill no. Bill non ha mai vissuto in una realtà diversa da questa, e non ha mai vissuto nemmeno in una realtà in cui non sa dove andare a sbattere la testa perché ovunque sbatta fa troppo male per poterlo tollerare. Perciò non si aspettava che io arrivassi con la mia bella cartellina portandogli nuovo lavoro da fare. Si aspettava che le due realtà – la major e Bushido di nuovo in vita – non si incontrassero mai. Si aspettava una pausa, si aspettava che il resto del mondo in cui ha vissuto fino ad adesso fosse disorientato da quello che è accaduto esattamente come lui.
Non era preparato alle pretese. Non sapeva che sarebbero arrivate. Ed io non ho mai avuto il tempo né il modo di parlargliene, prima. Perciò il suo sguardo smarrito non mi ha stupito. Rattristato, sfiduciato, incupito. Ma non stupito. Bill è decisamente troppo piccolo, per tutto questo. Crescerà in un colpo, o finirà schiacciato dagli uomini troppo adulti che si è sempre ritrovato ad amare.
Ciò che Bill non ha mai tenuto in considerazione, nell’ultimo anno, nonostante sia uno che all’opinione della gente ci tiene eccome, è appunto cosa pensassero le persone di tutto quello che vedevano o sentivano. Nel corso di quest’ultimo anno, a Bill sono stati attribuiti flirt con chiunque gli gravitasse intorno, e perfino con tutta una serie di persone che invece col suo entourage non avevano niente a che fare. Questo perché la stampa scandalistica è un essere vivente e, in quanto tale, ha bisogno di nutrirsi. Il suo cibo è il pettegolezzo. Niente di diverso. Il lutto è stato un argomento di discussione valido per la stampa per un tempo addirittura minore di quanto non lo sia stato per Bill. Dopodiché i giornalisti hanno cominciato a pensare fosse assurdo che questo ragazzino ancora nel fiore degli anni non si concedesse, di tanto in tanto, qualche piccola scappatella. E si sono messi in moto per trovargliene una.
L’unico motivo per il quale non sono mai riusciti a dimostrare niente è che, in effetti, Bill di scappatelle non se n’è concessa nemmeno una. È passato dalla stretta asfissiante del proprio cordoglio a quella morbida e rassicurante di Chakuza, senza mai uscire allo scoperto con qualcosa di diverso. Per dirla in termini chiari, è stato come se fosse passato da una casa all’altra attraversando un sottopassaggio che le collegava. I giornalisti non lo hanno mai visto andar fuori con nessuno, e quando si è trattato di Chakuza è stato mio dovere coprirlo perché la loro storia restasse confinata in quella casa in cui Bill era passato, senza mai attraversare la porta principale ed uscire allo scoperto. Io non fallisco mai, quando mi si dà un incarico del genere. Deve ancora nascere il paparazzo che riuscirà a fregarmi.
Il risultato di tutto ciò, comunque – un risultato cui Bill non aveva dato la minima importanza, perché sì, per lui l’opinione della gente è importante, ma ogni singolo essere umano esistente al mondo è comunque scavalcato da se stesso, nella lista delle priorità – è che le illazioni dei giornalisti, dalla quasi totalità dell’universo intero, sono state prese, appunto, per semplici illazioni. Niente di diverso. E Bill è diventato una specie di vergine di ferro. Per i romantici, un ragazzino triste che non riusciva a liberarsi del fantasma del primo ed unico uomo avesse mai amato; per tutti gli altri, uno che, dopo aver capito quanti soldi poteva fare mostrandosi in giro al fianco di Bushido, ora aveva capito anche che poteva farne molti di più senza mostrarsi al fianco di nessuno. In entrambi i casi, per l’opinione pubblica, durante tutto quest’ultimo anno, Bill non ha mai combinato niente. Mai. Con nessuno.
Ecco perché, nel momento esatto in cui l’opinione pubblica è venuta a sapere della resurrezione di Bushido – pubblicizzata né più e né meno che con le armi che io stesso avevo fornito alla Universal, lasciando che i giornalisti raccontassero della dura vita del ghetto e di un uomo che non ci viveva più ma che, per quanto fosse andato lontano, non era mai riuscito a liberarsene – dopo il momento di smarrimento iniziale, dopo lo sgomento, dopo la realizzazione, dopo le risate per sdrammatizzare e cercare di tirare su milioni di fan che, per quella morte, avevano sofferto genuinamente, è venuta l’ora di pensare a Bill. E Bill, per tutti, era ancora la vedova sofferente di un anno prima.
Delle indagini di mercato che la Universal ha chiesto per organizzare un piano pubblicitario degno di questo nome e dell’evento che il ritorno di Bushido in Germania era, sono stato incaricato io. La Universal mi ha fornito un team di psicologi, sociologi e statistici e mi ha detto di tornare con dei numeri e delle percentuali ragionate. E quelle, naturalmente, non si sono fatte attendere. Ed erano sempre uguali. La gente li rivoleva insieme. Era la favola più romantica dell’ultimo decennio, più di Lady Diana, più di Carlo e Camilla, più di Letizia e Felipe di Spagna, più di chiunque altro.
Avessi dovuto sbrigarmela da solo, andando d’intuito e di supposizioni come ho fatto quando i Tokio Hotel li ho messi sotto contratto, quelli che sembrano milioni di anni fa, avrei raggiunto le stesse conclusioni di questo gruppo di studio, con la differenza che avrei potuto mentire al riguardo. Sarebbe stato pericoloso e folle e probabilmente mi sarebbe costato il posto di lavoro, ma avrei potuto farlo. A queste condizioni, circondato da gente pronta a parlare anche per cifre irrisorie, non potevo trattenere niente. E quindi il mio responso per la Universal è stato molto semplice e molto chiaro: se c’è qualcosa da organizzare, è fra Bill e Bushido che va organizzata.
Ed è fra Bill e Bushido che la organizzano, in effetti. Studiandola fin nel minimo dettaglio, la collaborazione, la promozione, il video, il packaging, un abbozzo di tour ed un mellifluo “stiamo a vedere come si evolve la cosa, prima di optare per qualcosa di più specifico”, come già questo non fosse specifico abbastanza. Ed è toccato a me andare da Bill ed osservarlo nel pieno della sua confusione mentale, per poi ricordargli che è ora di alzarsi e ricominciare a fare il proprio dovere. Che la sua vita non passa solo attraverso le mani dei due uomini che ha amato ed ama ancora, che la sua vita è qualcosa di più grande, che non appartiene a lui ma ad altri milioni di persone. Che l’ha venduta, la sua vita. “Solo quella pubblica”, mi dice lui, ed io annuisco perché è vero, ma gli ricordo anche che se si rifiuta di mostrarla ancora, quella vita pubblica, la gente comincerà a pretendere il privato. Bill ribatte che la gente lo sta già facendo ed io rispondo che non ha nemmeno idea di cosa possono arrivare a pretendere ancora da lui. Rispondo che il fatto sia ancora una stellina sulla cresta dell’onda non lo salva dal rischio di diventare una stellina che l’onda la guarda dal basso, ed alla quale non resta che lasciarsene travolgere. Gli rispondo che non ha idea di cosa ancora possano arrivare a chiedergli i grandi capi, non ha idea di che lavori umilianti siano costretti a fare i dimenticati dal mondo, per tirare su qualche spicciolo. Cantare alle sagre di paese, presenziare alle feste di compleanno dei ricchi rampolli della borghesia tedesca, è questo che vuoi, Bill? È questo che vuoi? No che non lo vuoi. Per cui non costringermi a ripetermi, Bill, alza il culo, oggi si comincia il restauro.
Morale della favola, per convincere Bill a muoversi non sono bastate le minacce, non sono bastati i rimbrotti, non è bastata la razionalità e suppongo non sarebbe bastata nemmeno una richiesta di Bushido o Chakuza in persona – figurarsi quella di un tizio a caso dalle alte sfere della Universal. Ho dovuto costringere al restauro anche Tom, pure se dall’etichetta per i Tokio Hotel adesso non hanno in programma niente. Se la cosa dovesse muoversi bene, è probabile che anche loro saranno coinvolti nel tour, ma per adesso è tutto molto vago e fumoso ed io preferisco di gran lunga non parlarne né con Tom né con Georg o con Gustav, perché Tom è già abbastanza esasperato dalla situazione e gli altri due ne sono già abbastanza infastiditi, senza che peraltro vedano il minimo motivo per sentirsene coinvolti. Posso capirli: un conto è dover faticare ed irritarsi per qualcosa che si sente come propria, per la quale ci si sente in diritto e in dovere di combattere – ed è quello che sta facendo Tom; un altro conto è osservare una situazione dall’esterno, detestarla già così e dover fronteggiare il rischio di sentircisi catapultati dentro senza la benché minima voglia.
Ciò che ho adesso per le mani, comunque, sono due ragazzini confusi e storditi, esattamente come prima, ma con due acconciature diverse. Non un gran guadagno, ma alla Universal sembra bastare. Almeno, è stato abbastanza per contattare Bushido e sottoporgli un ultimatum molto chiaro – ci diamo una mossa con una nuova canzone, o ce la diamo noi per te, una richiesta di fronte alla quale, lo sapevo, Bushido non poteva che cedere – e, subito dopo, contattare me e chiedermi gentilmente ma fermamente di cominciare a muovermi per un video.
Un video.
Confesso che, quando mi è piovuta la richiesta per telefono, fra capo e collo, un po’ m’è venuto da ridere. Finché si trattava di registrare e mandare il singolo in giro per radio, la cosa non era esageratamente problematica. Problematica sì, assolutamente, ma non era la fine del mondo. Ma un video. Un video. Prendere questi tre uomini ed i loro rispettivi entourage e costringerli insieme in un determinato posto. Follia.
Inutile dire che anche l’idea per il video è partita come suggerimento spassionato dagli uffici dei grandi capi. Naturalmente senza specifiche di alcun tipo, ma nel momento in cui ti senti dire “trova qualcuno che faccia al caso nostro, Jost”, e fino a due minuti prima s’è parlato di come sfruttare adeguatamente l’idea di Bill e Bushido come coppia reale dello showbiz tedesco, ancora viva nei cuori di migliaia di fan, chiaro che la prima cosa cui si pensa è portare il testo ad un regista con una certa passione per un determinato tipo di video, uno che sappia come sfruttare la chimica fra due persone, uno che capisca come funzionino queste relazioni, uno che sappia buttarle giù con uno storyboard spendibile sul mercato e tutto il resto.
Uno come Hans, insomma. Non avevo molta scelta.
Io ed Hans ci conosciamo da una vita. Ci siamo incontrati quando io ancora cantavo nei Bed & Breakfast, durante le riprese del video di Get It Right. Allora era appena uscito dall’accademia delle belle arti e non era che un ragazzino un po’ confuso che Herr Winkler aveva assunto da poco e maltrattava, da bravo regista ultracinquantenne con decenni di esperienza nel campo dei video delle boyband. Non ricordo bene com’è che facemmo amicizia, in realtà credo sia successo perché Hans aveva la brutta abitudine di lamentarsi sempre e comunque di qualsiasi cosa, era molto piagnucoloso – non che abbia mai smesso di esserlo – ed allora io ero un tipo dal cuore molto tenero che da queste cose si faceva prendere facilmente, perciò ci caddi con tutte le scarpe e finimmo per avvicinarci parecchio, anche se mai oltre un determinato limite – Hans è troppo checca perfino per il sottoscritto. Non che questo mi porti a volergli meno bene, ma a non desiderarlo sdraiato al mio fianco su un materasso sì, eccome.
Comunque sia, quando ho capito cos’è che volevano quelli della Universal da me, da Bill, da Bushido e da questa produzione, non ho esitato a contattare Hans. Perché è uno che sa il fatto proprio – almeno adesso – perché è bravo, perché sa lavorare e perché è un rompiballe. Che può sembrare una caratteristica poco meritoria, ma lo diventa improvvisamente tantissimo nel momento in cui si deve avere a che fare con gente ancora più rompiballe.
Nel caso di specie, Bushido.
Ora, ci tengo che non si pensi che il mio giudizio su Bushido sia falsato da ciò che provo per lui. D’altronde, puoi provare più o meno qualsiasi tipo di sentimento per un’altra persona, senza che questo oscuri la tua capacità di vederlo per ciò che è. Anzi, spesso è il contrario: quando provi qualcosa di più profondo per qualcuno è proprio perché l’hai visto in ogni sua sfaccettatura – anche le peggiori – e sei riuscito a dirti non che ti piacciono anche quelle – una cosa del genere è buona solo a riempire le bocche dei romantici, ma non può corrispondere alla realtà, non c’è verso per cui una persona sana di mente possa coscientemente amare un difetto – ma che puoi sopportarle, in favore di tutto il resto.
Quindi io lo so che Bushido è un rompiballe. Lo è per un miliardo di cose diverse, peraltro. Lo è per ciò che riguarda se stesso, lo è per ciò che riguarda la sua immensa e variopinta corte e lo è anche nei confronti di tutto il resto del mondo, perché quell’uomo è davvero fermamente convinto che, potesse mettere le mani su tutto l’intero orbe terracqueo per governarlo, sarebbe in grado di fare un lavoro splendido. Perciò tutto deve girare nel verso da lui prestabilito. È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie. C’è poco da fare, quando uno vuole avere un controllo simile su tutto ciò che lo circonda. Non puoi non concederglielo, ed allo stesso tempo non puoi non limitarlo. Perciò io avevo bisogno di Hans. Avevo bisogno di qualcuno che fosse rompiballe tanto quanto lui, perché almeno ci fosse qualcuno pronto a litigarci, con Bushido, per costringerlo a vedere galassie diverse dalla propria. Per ricordargli che non è Dio ma un impiegato, e come tale deve lavorare.
Bushido, al momento, non è il maggiore dei miei problemi ma indubbiamente è un problema. Non può non esserlo anche quando non me lo trovo sotto gli occhi, perché anche quando non è con me, o io non sono con lui, in alcun modo posso dimenticare che al momento Bill e Chakuza stanno praticamente insieme e lui è praticamente solo. C’è una netta differenza fra ciò che il mondo sa – perché è ufficiale – e ciò che invece è vero e sappiamo solo noi. Il mondo sa che fra Bill e Bushido le cose sono tranquille – magari immaginano non siano più come un tempo, ma niente oltre a questo – non sa che Bill, quando dorme, dorme con Chakuza. E non sa che Bushido dorme solo in casa propria, con la compagnia di Fler in una stanza degli ospiti a caso, quando va bene. Ciò che è reale è questo. È ciò con cui dobbiamo fare i conti. Nessun altro oltre noi fa i conti con questo tipo di realtà, per il resto del mondo non esiste. Eppure è tanto vera che non ci si dorme la notte.
Mi sollevo dalla poltrona sulla quale sono stato affossato fino ad ora, poggiando il portatile bollente sul tavolino basso di fronte a me, e mi sgranchisco le gambe e le braccia, stendendo la schiena e mugolando soddisfatto quando sento le ossa crocchiare, i muscoli sciogliersi e i tendini riacquistare una parvenza di elasticità. Lancio una veloce occhiata all’orologio a muro: sono le undici ed io posso ragionevolmente dire di aver fatto quanto dovevo, per oggi. Il singolo è entrato in decima posizione nella classifica dei più venduti della settimana, e contando l’incertezza delle masse, in questo momento, è un risultato più che soddisfacente. Sarebbe qualcosa di cui gioire, se il gruppo per il quale lavoro fosse disposto alla gioia. Così non è, perciò la prendo come una gratificazione personale neanche tanto desiderata e mi chino ad arrestare il sistema, attendendo che il computer si spenga per chiuderlo e cominciare a prepararmi per andare a dormire.
Naturalmente c’è chi ha deciso che non posso. Potrei dare la colpa al buon Dio nel quale non è che abbia mai creduto, in realtà, ma visto che posso dare la colpa al suo più bravo imitatore qui sulla terra è nei confronti di Bushido che ringhio, nel momento esatto in cui rispondo al citofono e lo vedo apparire sul monitor, che guarda dritto in camera, come a ricambiarmi lo sguardo che gli sto lanciando io.
- Che sorpresa. – sbotto acido. Lui grugnisce qualcosa che somiglia a un “apri” ed io obbedisco roteando gli occhi e lasciandogli la porta aperta mentre torno in salotto e mi abbatto esausto contro il divano, preparandomi a quella che sarà sicuramente una discussione sfiancante. Semplicemente perché Bushido non viene a cercarti se non ha qualcosa da dirti, e non ha niente da dire che non sia sfiancante.
Appare sulla soglia della mia porta in jeans e maglietta, come si fosse appena alzato dal letto e si fosse messo addosso le prime cose trovate in giro per casa. Anche le infradito che porta sembrano ciabatte da casa, e nel complesso è molto buffo perché ha i capelli arruffati e si è appena sprecato a raccoglierli in una cosa disordinata, col risultato che un sacco di ciocche sono sfuggite all’elastico nero e sottile e ora gli incorniciano il viso, scendendo scurissime lungo gli zigomi, arricciandosi appena in punta.
È quasi illegalmente bello ed io distolgo lo sguardo.
Lui comunque non sembra della disposizione d’animo di venirmi incontro mentre mentalmente lo imploro di non essere, solo per una sera, se stesso. Perché quando è se stesso io non ragiono, ed in questo periodo ho bisogno di molta lucidità. E invece niente, Bushido non mi ascolta o non vuole farlo, e continua ad essere tragicamente se stesso mentre si lascia andare sulla poltrona al mio fianco e sospira pesantemente, il petto che si alza e si abbassa sotto il cotone sottilissimo della maglietta. È vecchia e usurata, attraverso le maglie un po’ slabbrate si intuisce il colore della sua pelle.
- Niente sonno? – chiedo fingendo disinteresse, sistemandomi sul divano in modo da poterlo guardare senza dovermi necessariamente voltare per farlo.
- No. – scuote il capo lui, guardando invece un punto a caso fra l’enorme vuoto che ha dentro il cervello e quello altrettanto grande che lo circonda. – Ho pensato di passare a vedere se eri sveglio.
Scrollo le spalle.
- Lo sono, come vedi. Ora, visto che è tardi e sono stanco, se-
- Tu non sei stato per niente un bravo collaboratore, David.
Spalanco gli occhi e non posso proprio, davvero, fare a meno di guardarlo. Perché tu, Bushido, non puoi dirmela una cosa simile. Io ho messo in gioco affetti, culo e credibilità, per te. Tu non puoi dirmi una cosa simile.
- Che intendi? – chiedo, glaciale. Ma perfino il mio astio si smorza quando lui solleva gli occhi nei miei ed io dentro ci vedo tanta di quella tristezza che una morsa mi stringe il petto e mi mozza il respiro, comprimendo la cassa toracica con tanta forza che mi sento mancare. Bushido era un uomo del quale si potevano dire moltissime cose, ma che fosse un entusiasta era indubbio. Perché era abituato a guadagnarsi ciò che possedeva, conosceva il brivido della lotta e del fare di tutto per ottenere qualcosa, ogni giorno era una sfida perché ogni giorno c’era qualcosa da rendere proprio o da mantenere tale. Nei suoi occhi adesso c’è solo un uomo che ha perso tutto e non sa né come riprenderselo, né se valga la pena tentare. E quindi forse è vero, Bushido. Forse non sono stato per niente un bravo collaboratore.
- Io credo che avrei fatto meglio a restare a Miami. – lo dice con una certa serenità, come non avesse fatto altro che pensarci per le ultime ore e questa fosse la naturale conclusione del suo naturale ragionamento, cosa che in effetti è anche possibile, considerata la situazione attuale. – Probabilmente, se avessi saputo che Bill era ancora nel giro ma era felice con qualcun altro… - si interrompe un attimo e si morde un labbro, esitando appena. Poi riprende, - Non ci sarebbe stato bisogno di dirmi che era Chakuza. Quello probabilmente non avrei voluto saperlo. Ma se avessi saputo che era semplicemente okay, non sarei tornato. Avrei trovato un altro modo, credo. L’Ersguterjunge è importante, ma guarda cosa ho fatto a Bill. E lui lo era di più, questa è una certezza. Eppure gli ho distrutto la vita, due volte, e non riesco a fermarmi. Continuo a farlo ogni volta che lo vedo. – lo sguardo è di nuovo fisso nel vuoto, sta ragionando fra sé. È insolitamente calmo, e questo vuol dire che sta insolitamente male.
Credo sia una cosa che succede spesso a chi ha la pretesa di gestire le vite altrui come fossero la propria, come fa Bushido. Quando gestisci la tua vita sai cosa aspettarti da te stesso. Se prendi una decisione, sai che gesti far seguire a quel pensiero. Se succede qualcosa, sai di chi è la responsabilità e puoi muoverti nella maniera più opportuna.
Gestire le vite degli altri non è impossibile. Solo che non puoi farlo come fossero pezzi di te stesso. È molto più complicato di così. Devi tenere ben presenti le differenze che separano ogni essere umano dall’altro, perché è solo grazie a quelle – grazie ai piccoli particolari che distinguono le persone – che puoi provare ad immaginare le loro reazioni ad una determinata decisione o ad un determinato evento. Bushido gestisce benissimo se stesso, ma dimentica di tenere a mente i particolari quando prova a gestire gli altri. Perciò, quando la vita gli ricorda che no, per quanto gli piaccia immaginare chi ama come un pezzo di se stesso, quelle persone comunque non lo sono, lui è sempre un po’ stupito, dalla cosa. Potranno passare anni, ma immagino sarà sempre così. Ora lui è qui che parla di Bill che si rifà una vita, di Bill che soffre nel vederlo tornare, di Bill che non sa più chi scegliere fra lui e Chakuza, e lo fa con rassegnazione, ma è una rassegnazione stupita e poco convinta. Perché non se l’aspettava e non riesce ad ammettere che al mondo possano succedere anche cose come queste. Cose che lui non ha previsto.
- Cos’è che dovrei dirti? – chiedo con un mezzo sospiro, massaggiandomi una tempia, - Hai ragione. Avrei dovuto dirtelo. Non l’ho fatto e se fossi stato più chiaro probabilmente tutto sarebbe andato in maniera diversa. Quindi cosa devo fare, adesso? Chiedere scusa?
Bushido resta in silenzio per un po’, prima di rispondermi.
- No. – dice alla fine, - No, non credo di volere le tue scuse. – si stira indietro contro lo schienale della poltrona, poggiando le braccia sui braccioli e continuando a guardare davanti a sé. – “Scusa” è solo una parola, in fondo. Sentirla o meno non mi cambia l’esistenza. Penso che le scuse andrebbero fatte solo quando possono servire a qualcosa. Salvare un rapporto o ricucire qualcosa che si è strappato. – mi guarda con un paio d’occhi indecifrabili, - Non credo che tu debba chiedermi scusa perché non ce l’ho con te e fra noi non è cambiato niente. Credo anche che sentirti in colpa, da parte tua, sarebbe molto stupido. Ci sono cose – continua con un sospiro, - che è difficile o impossibile prevedere. – e poi ghigna, - Se pretendessi delle scuse da te, dovrei pretenderle anche da me stesso. E non è così.
Ghigno un po’, scuotendo il capo.
- Figurarsi. – lo prendo in giro, - Il solo concetto è impensabile.
Lui ride di cuore, spalmandosi contro lo schienale della poltrona e scrollando le spalle. La sua espressione non cambia anche quando riprende a parlare, è sempre fissa nel vuoto ed ancora sorride, fa un po’ paura perché a vederlo così sereno si fatica ad intuire la tempesta che gli passa negli occhi.
- Sto facendo un casino dietro l’altro. – mi informa, come non lo sapessi già, - Patrick vive praticamente con me. Ed è strano, ed io non gli sto parlando come dovrei. C’è qualcosa che mi nasconde ed io non sto insistendo per farmela dire. – aggrotta un po’ le sopracciglia, pensieroso, - C’è qualcosa che vuole dirmi, sta solo aspettando che glielo chieda. E non glielo sto chiedendo, non voglio chiederglielo. – sospira, massaggiandosi la fronte, - Sto facendo così anche con Bill. Bill sta cercando di dirmi qualcosa ed io non glielo sto lasciando fare.
Traggo un respiro profondissimo, grattandomi distrattamente la nuca.
- Evidentemente non sei ancora pronto. – butto lì, scrollando le spalle. E Bushido lascia andare una risata piccolissima.
- Ho trentun anni. – mi fa notare, - Non c’è niente cui io non sia pronto. Se c’è qualcosa alla quale non sono pronto, vuol dire che sono cresciuto male. O non sono cresciuto abbastanza. Ed io non sono niente di queste due cose. Quindi, qualsiasi cosa sia quello che sto cercando di impedire a tutti voi di non-dire… dovrò accettarla e basta, penso. E decidere per conto mio.
- Continui a ripetere sempre gli stessi errori. – ringhio un po’, spostandomi a disagio sul divano, - Tu non stai impedendo niente a nessuno. Vola basso, Bushido, sei importante ma non sei il cazzo di creatore. Se Fler avesse voluto dirti qualcosa, pensi davvero che avrebbe aspettato una tua domanda? Se Bill volesse davvero dirti qualcosa, pensi che aspetterebbe placidamente che sia tu a lasciarlo parlare? L’aria di Miami ti ha stordito, o quello che è tornato in Germania non è più Anis, ma Tarek, perché ti ostini a dimenticare che siamo esseri umani, non marionette, e in quanto tali facciamo il cazzo che vogliamo, Bushido. Se Fler e Bill non ti stanno dicendo niente, vuol dire che non credono tu abbia il diritto o il dovere di sapere. È così che pensano le persone normali, Bushido. “Non lo so? Non me l’hanno voluto dire”. Non “Non lo so? Sto impedendo loro di dirlo.” Chiaro?
- Io non sono una persona normale. – ribatte lui, guardandomi dritto negli occhi.
- Lo sei! – mi agito io, battendo un pugno contro il bracciolo del divano, - Lo sei, Cristo santo, non sei davvero immortale, tu sei morto, Bushido!
- Non sono morto! – urla, alzandosi in piedi. Mi alzo a mia volta. Non che questo mi aiuti a fronteggiarlo da pari, ma almeno non è come continuare a guardarlo da seduto.
- Lo sei, Bushido! – sbotto gesticolando, - Respiri, il tuo cuore batte e rompi ancora i coglioni all’universo creato, ma tu sei morto! Sei un fantasma! E non sei più quello che eri due anni fa, devi venirci a patti!
Ed è così che mi ritrovo a sbattere contro il muro alle mie spalle, l’avambraccio di Bushido pressato contro il collo ed un dolore sordo che parte dalla base della schiena diffondendosi lungo tutta la spina dorsale, mentre respiro a fatica sotto la pressione del suo peso sul mio corpo.
- Io non sono morto. – ringhia a due centimetri dal mio viso, - È l’unica cosa che dovete davvero ficcarvi in testa, tutti quanti, e sulla quale non transigo. Io sono vivo, Jost. Sono vivo. Non sono un fottuto fantasma, sono vivo, cazzo.
Non rispondo perché non saprei che dirgli e perché non ho abbastanza fiato per farlo. In realtà dovrei dirgli che dargli del morto è inesatto tanto quanto dargli del vivo. Bushido è un uomo in bilico. Una parte di ciò che siamo muore giorno dopo giorno, questo è inevitabile. Con ogni persona cui diciamo addio, ogni posto che smettiamo di frequentare, ogni abitudine sulla quale smettiamo di insistere, va via un pezzo più o meno consistente della nostra esistenza. Quel pezzo muore, è irrecuperabile, ed è anche il motivo per cui siamo sempre persone diverse in qualsiasi momento della nostra vita ci si guardi.
Con Bushido, però, la cosa è ben più complicata. Non è un’abitudine, quella che lui ha ammazzato. Non è una frequentazione sporadica, non è una questione di conoscenza marginale o occasionale. Lui ha preso ciò che era, tutto, intero, completo, ci ha aggiunto ciò che era stato fino a quel momento, ed è quello ciò che lui ha ucciso. C’è un limite rispetto a quanto puoi uccidere di te stesso prima di ucciderti del tutto, e lui quel limite l’ha travalicato come travalica ogni limite gli si ponga davanti, perché – assoluto per com’è – doveva esserlo anche morendo. E quindi no, Bushido, tu non sei vivo. Forse non sei nemmeno morto, ma vivo non lo sei di sicuro, perché hai sacrificato troppo per esserlo ancora. Una persona può sacrificare un rene, può sacrificare un polmone, parti di stomaco o di intestino, parti di fegato, qualsiasi cosa. Ma prendere un cuore, asportarlo per intero e pretendere che un corpo continui a vivere è impensabile. Bushido non ha davvero una misura di ciò che ha fatto. E qualcuno dovrebbe dargliela.
Solo che io non sono capace. Perciò resto in silenzio e non riesco neanche a reggergli lo sguardo. Quando mi vede evitare i suoi occhi, mi lascia andare. Io scivolo un po’ contro la parete e fatico a reggermi sulle gambe, mentre mi massaggio distrattamente il collo indolenzito.
- Io non capisco cosa pretendi, Bushido. – dico sfiduciato, sospirando pesantemente, - Cos’è che vuoi? Che la vita riprenda il suo corso a partire dal momento esatto in cui sei andato via? O da qualche giorno prima, così da risparmiarci la visione del tuo corpo in un lago di sangue?
Stringe le labbra finché diventano due linee sottilissime, e lo vedo perché torno a guardarlo. Perché sono triste, per lui e per tutti, e non so cosa fare. Per la prima volta non ho idea di come risolvere questa situazione. Forse avevi torto, Bushido, forse avevamo torto entrambi. Non sono così bravo a sistemare le cose. Nemmeno quando serve.
- Io non so cosa dirti. – esalo alla fine, allargando arreso le braccia, - Non posso ridarti quello che hai perso, non può ridartelo nessuno. Non può ridartelo nemmeno Bill. Tu non hai perso solo lui, lo capisci questo? Te ne rendi conto?
Stavolta lo sguardo lo abbassa lui. Non muove un passo ma solleva una mano a coprirsi gli occhi. Osservo il movimento farsi sempre più stanco mentre massaggia la fronte e poi scivola fra i capelli, districandone nodi inesistenti e ravviandoli all’indietro, liberandoli dall’elastico e trattiene fra due dita e col quale comincia distrattamente a giocare, prima di tornare a guardarmi.
- Io non so cosa devo fare, David. – dice con sincerità così eccessiva da risultare dolorosa, - Io ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare qui e adesso. Perché se tu non mi dici cosa devo fare della mia vita in questo preciso istante, penso che ne farò brandelli e la butterò nel canale, al suo posto.
Io sospiro, perché quest’uomo non è veramente gestibile. Continua a mettere la sua vita nelle mie mani, quando le mie mani sono l’ultimo posto in cui dovrebbe stare.
- Lo ami ancora? – chiedo a bassa voce, e lui lascia andare una mezza risata amara.
- Non fosse stato così, non sarei tornato. – ammette senza neanche pensarci su.
Io scrollo le spalle e sistemo la maglietta un po’ stropicciata.
- E allora ti sei risposto da solo. Sai già cosa fare. – lo osservo sbuffare un sorriso incerto, abbassando appena lo sguardo, e mi affretto a precisare, - E se interpreti quello che ti ho appena detto come “smetti di combattere e tornatene a Miami”, allora non hai palle.
Bushido ride e ride davvero, stavolta. Scuote lievemente il capo mentre ravvia i capelli fra le mani e li stringe in una coda piccola e alta dietro la testa, decisamente più ordinati rispetto a quanto non fossero quando è arrivato.
- Tu meriteresti di essere massacrato a legnate, Jost. – annuisce simulando serietà e ficcandosi le mani in tasca, - Ad ogni modo, grazie.
Sbuffo scrollando le spalle.
- Non ringraziare. Sono andato in vacanza alle Bahamas due volte, coi soldi che mi hai lasciato andandotene.
Ride ancora un po’, allontanandosi verso la porta dandomi le spalle e salutandomi con due dita, senza più guardarmi. Resto solo meno di due minuti dopo, ho come l’impressione di avere riaperto qualcosa che stava per chiudersi e non sono sicuro che qualcuno mi ringrazierà per questo. Non sono sicuro neanche che io stesso mi ringrazierò per questo, e peggio ancora non sono per nulla sicuro che lo farà Bushido.
Il portatile è spento, ma io non ho più sonno. Passerò la nottata a giocare a Free Cell.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Language, Lime, Slash.
- "Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima."
Note: Questo, signore care, è il Billshido di Schmetterlingseffekt. Vorrei poter stare qui le ore a parlarne, perché il rapporto che si instaura fra loro in questa shot mi manda fuori di testa per ragioni incomprensibili <3 Ma sono tornata tardi da lavoro – checché se ne dica, ho una vita, come tutti XD – ed ho una figlia che attende questo capitolo con trepidazione. Cercate solo di comprenderli, non sono stronzi, solo pazzi XD
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MEIN REVIER

La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo."
Note: Io vorrei dire, a proposito di questa shot, che è evidente che per seguire EKR serve una grande dose si umanità e pazienza, nonché parecchio cuore. In assenza di queste qualità è ovvio che non si capisca niente di ciò che provano i personaggi ed è anche ovvio, credo, volerli sbranare ad uno ad uno. Io spero che voi possiate trovare dentro voi stessi un po’ di quella comprensione umana che serve per star dietro a della gente che, per un motivo o per l’altro, soffre. Altrimenti, lasciatevi pure andare al bashing, prometto che non vi fermerò XD
Comunque, adesso sapete in che termini s’è svolto il Dashido. Adesso, se proprio volete, potete paragonarlo al Bikuza e decidere chi ha più colpe e chi ne ha di meno. O rassegnarvi magari al fatto che nessuno ne abbia XD A voi la scelta. David la sua l’ha detta, e Bushido anche.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NIE WIEDER

Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo. Intorno a me la gente si muove frenetica trascinando borsoni e sacchetti di plastica, sorridono quasi tutti. Partire per Miami, d’altronde, è una cosa che in genere rende allegri. È un bel posto per una vacanza ed è un bel posto anche per gli incontri lavorativi, come dimostrano i numerosi uomini d’affari che si ritagliano un po’ di spazio fra una famiglia e l’altra, avvolti nei loro completi gessati e in compagnia delle loro onnipresenti ventiquattrore. Io forse avrei potuto essere una persona così, una persona che va in giro in gessato e ventiquattrore. Forse potrei esserlo anche adesso, il mio mestiere non me lo vieterebbe, e forse è proprio perché non voglio che invece mi ostino ad andare in giro in jeans, maglietta e giacca di pelle, quando le circostanze non mi obbligano all’abito formale – ed anche lì, in genere, riesco comunque a piegarle al mio volere, le circostanze.
In sostanza sembro un pesce fuor d’acqua in mezzo a tutta questa gente che si muove inequivocabilmente o per turismo o per lavoro. Io perché mi muovo? A guardarmi non lo si saprebbe dire, ho con me solo uno zaino. Se mi guardassi da fuori, non saprei indovinarlo, il perché della mia partenza. In realtà ho difficoltà a capirlo anche guardandomi da dentro. Questo è un po’ un problema, ma penso me ne occuperò a tempo debito – cioè quando sarò già arrivato, perché trovare una risposta a questo perché potrebbe essere sufficiente a costringermi a rimanere qui, e nonostante tutto non voglio farlo. Anche se non so perché sto partendo, voglio partire lo stesso.
Oggi è il ventotto settembre. Quando, stamattina, ho chiamato Tom, per assicurarmi che fosse tutto a posto, attraverso la cornetta e sotto la voce agitata del mio stupido chitarrista preoccupato ho sentito il flusso persistente delle lacrime di Bill venare l’aria in un lamento continuo e regolare, ed ho sospirato.
Io penso che Bushido sia entrato dentro Bill fino ad impossessarsi di ogni singola cellula del suo corpo. Ci sono molti modi di sentire la mancanza di una persona e tutti coloro che hanno vissuto al fianco di quell’uomo – l’avessero fatto per mesi, per anni o per pochi giorni – adesso sentono il vuoto causato dalla sua assenza in modi molto diversi. Ognuno ha il proprio ed ogni modo è intimo e personale, ma nessuno – nessuno – si sente mancare un pezzo di sé come sta succedendo adesso a Bill. Bill, che era una persona della quale si poteva dire tutto meno che fosse incompleta – perché lo vedevi da come andava in giro, da come sorrideva, da come gli brillavano gli occhi, che non gli mancava niente – Bill adesso è una cosa spezzata in due e non riesce a recuperare il pezzo di sé che ha perso. Non oso immaginare cosa dev’essere stato per Tom scoprire che l’altra metà di suo fratello non era più lui, ma so che sono fiero di lui per come si sta comportando adesso, soprattutto perché con Bushido lui non era mai veramente venuto a patti e Bill non l’ha mai neanche aiutato ad avvicinarglisi, quindi è molto bello da parte sua, adesso, mettere da parte il proprio risentimento per stringersi attorno a suo fratello mentre lui piange e strepita come Bushido fosse morto ieri, solo perché oggi è il suo compleanno e non possono più festeggiarlo insieme.
Bushido, naturalmente, non è morto, e questo dovreste già saperlo. Solo che oggi, ventotto settembre duemilaotto, lo so solo io. E lui, dall’altro lato dell’oceano. Anche se non sono proprio sicuro che, nonostante sia sopravvissuto, al momento sia propenso a credersi vivo. Ci sono molti modi anche di morire, in fondo; non mi sembra di mentire, quando ripeto a me stesso che meno di tre mesi fa noi quell’uomo l’abbiamo seppellito per sempre. Quello che c’è adesso in quell’appartamento a Miami non è Bushido e non è nemmeno Anis Mohamed Youssef Ferchichi, e non è il King of Kingz e non è niente di quello che Bushido è stato quando era ancora se stesso ed era qui. Quindi sì, Bushido è morto. Pensarla in questi termini non è sbagliato.
Solo che è morto un nome. Un nome significa tanto, ma non tutto. C’è ancora un corpo, c’è ancora un uomo, quell’uomo è vivo e non riesce ad esserlo.
Questo è probabilmente il motivo per cui sto partendo, dopotutto.
Un bambino sfugge al controllo della madre e si mette a girare in tondo per la pista, facendo lo slalom fra i viaggiatori che un po’ ridono e un po’ sono infastiditi dal suo muoversi così frenetico. Io sbuffo un mezzo sorriso e resto appena il tempo di osservare il bimbo inciampare sui propri stessi piedini incerti e cadere per terra con un tonfo, subito seguito da uno scoppio di pianto accorato e lamentoso che mi ricorda moltissimo il pianto di Bill, motivo per cui distolgo lo sguardo e smetto di restare lì in attesa del niente: stringo una mano con forza attorno alla cinghia dello zaino e risalgo la scala, andando alla ricerca del mio posto. Quando lo trovo, mi siedo ed allaccio la cintura. Sistemo lo schienale del sedile perché sia ben dritto ed infilo lo zaino sotto il sedile di fronte al mio. Poi mi rilasso. Chiudo gli occhi. E non resto sveglio abbastanza da sentire la hostess spiegarmi come dovrò salvarmi la vita in caso di pericolo.
*
Bushido non sa che sono qui e probabilmente neanche se lo aspetta. Quando l’ho sentito l’ultima volta, ieri sera, non sembrava essere abbastanza presente a se stesso da aspettarsi alcunché, d’altronde. Di certo non poteva aspettarsi che avessi già il biglietto in mano mentre lo ascoltavo biascicare qualcosa sulla birra americana che sembra piscio, scuotendo il capo mentre si fracassava il ginocchio contro un mobile non meglio identificato e cominciava poi a mugolare di dolore accasciandosi a terra. Ora – che è più o meno lo stesso orario del giorno dopo – mi auguro solo di non ritrovarlo nello stesso posto in cui l’ho immaginato mentre parlavamo al telefono ieri, ed è con un sospiro sfiduciato che mi infilo in un taxi e ripeto a memoria l’indirizzo al conducente, recuperando poi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e componendo il numero di Tom.
Lui non risponde subito, e quando lo fa il suo tono di voce è soffice e un po’ assonnato.
- David…? – mugola, - Che ore sono…?
Io sorrido appena.
- Un ottimo orario per fare la nanna, in realtà. – lo prendo in giro, - Un po’ presto per i tuoi standard, ma potrebbe diventare un’ottima abitudine.
- Sei un cretino. – borbotta lui in un mezzo sussurro, - Bill dorme. – dice poi, senza attendere che sia io a chiederglielo, - È rimasto qui a parlare piangendo per ore, e poi s’è addormentato. Dovresti vederlo. È sfatto.
Serro la mascella, annuendo meccanicamente, anche se lui non può vedermi.
- Lo immagino. Lo tieni da te, stanotte?
- Ovvio. Che pretendi, che lo riporti a casa sua? – poi sospira e lo sento allungarsi sul materasso, stendendo un braccio. Bill mugola mentre lui lo stringe, ma sento nella cornetta il suo respiro tranquillo e regolare e so che non s’è svegliato, perciò sorrido. – Non ha fatto che parlare di lui. – continua Tom, la voce bassa venata di tristezza. – Non sono riuscito a farlo parlare d’altro.
- È ancora presto… - gli spiego, sospirando appena, - Starà meglio. Fra un po’.
- No, io non credo, David. – dice lui, e ne è talmente sicuro che non trovo la forza di rispondergli che è convinto così solo perché è piccolo e perché, come suo fratello, in questo momento è convinto che, morto Bushido, sia morto anche tutto il resto. Bill e Tom non sono mai stati tanto distanti l’uno dall’altro come lo sono adesso. Al contempo, però, non sono nemmeno mai stati tanto vicini. – Io non credo. – ripete più nervosamente. – Non so cosa fare con lui.
- Devi solo stargli vicino, Tom. – cerco di rassicurarlo, - Solo questo. Andrà meglio.
- Mi sono rotto di sentirtelo ripetere. – singhiozza lui, ed io mi rendo conto che questo ragazzino, perché di ragazzino si tratta, ha ascoltato per tutto il giorno il pianto disperato della persona cui tiene di più al mondo, e non ha potuto versare con lui neanche una lacrima. Perché quando Bill si dispera tu devi restare lucido, perché a Bill viene facile lasciarsi ricadere così profondamente nella propria tristezza da non essere più in grado di tirarsene fuori. E quindi serve qualcuno che resti lì pronto ad afferrarlo saldamente quando cade. Tom oggi non ha versato una lacrima. Tom piange adesso, al telefono con me. – Perché cazzo è dovuto succedere? – si lamenta, - Riportalo indietro. – ed io ho i brividi, perché Tom non sa che potrei farlo davvero, quello che mi chiede. Potrei e al contempo non posso.
- Tom… - lo chiamo a mezza voce, ma lui mi interrompe tirando su col naso.
- Scusami. – dice, asciugandosi le lacrime, - Ora passa. A me passa.
- Mi dispiace. – sospiro io, muovendomi a disagio sul sedile, - Appena torno a casa-
- Sei in viaggio? – cambia subito argomento lui, e nella sua voce non c’è quasi più traccia di pianto, - Dove vai?
- Affari. – rispondo io, vago, - Non preoccupartene. Cerca di badare ad una cosa per volta. – sorrido un po’.
- Sì. – annuisce lui. Non perde neanche tempo a domandare oltre, sa che se avessi voluto dirgli qualcosa l’avrei semplicemente fatto. Ed ha comunque altro cui pensare, al momento. – Allora ci sentiamo.
Annuisco e lo saluto a bassa voce, ascoltando la chiamata interrompersi ed il segnale della linea caduta sostituirsi alla voce impastata di Tom, mentre i freni del taxi stridono sotto di me e l’automobile si ferma di fronte al palazzo di Bushido. La strada è illuminata e piena di gente. Il tassista si volta e dice “arrivati, io pago e scendo dalla macchina senza dire una parola, guardandomi distrattamente intorno per recuperare la memoria fisica dell’ultima volta che sono stato qui e lasciare che siano i miei piedi a guidarmi verso il palazzo giusto, la scala giusta, la porta giusta. Apro con le chiavi, tengo il doppione nel mazzo che uso comunemente in Germania anche per quelle di casa mia.
L’appartamento è buio e, se non sapessi che per forza Bushido deve trovarsi qui, lo penserei disabitato. Le finestre sono tutte chiuse, peraltro, con le serrande abbassate, l’aria è pesante e densa e non si sente volare una mosca. Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza, ed evito di accendere la luce, muovendomi all’interno della casa con un po’ di difficoltà, finché non mi abituo all’oscurità.
Bushido sta dormendo sul divano. O almeno suppongo stia dormendo: non lo sento respirare, mi auguro che non sia morto davvero proprio quando io ho deciso di alzare il culo per venire a trovarlo.
Mi siedo sul bracciolo del divano ed inspiro profondamente.
- Tarek. – chiamo ad alta voce.
Lui non si sveglia.
Io sospiro ancora.
- Anis. – sussurro più dolcemente. E il suo respiro cambia ritmo. S’è svegliato.
Lo sento muoversi sul divano, la pelle crocchia sotto di lui, e poi lo osservo sbadigliare e stendere le braccia per stiracchiarsi, mettendosi seduto. Resta in perfetto silenzio finché non ha chiaro a grandi linee chi sia, dove si trovi, chi sono io e perché sono qui.
- David. – mi chiama quindi, - Andato bene il viaggio? – e la sua voce è ancora impastata di sonno ed alcool. Muovo un piede e si rovesciano per terra due o tre bottiglie di birra. Io sospiro, Bushido ride. – Spero non fossero ancora piene. – commenta. Io evito di rispondere che ho i miei dubbi al riguardo.
- Dormivi già? – chiedo, - È presto.
Lui scrolla le spalle.
- Avevo sonno. – risponde. Non “ero triste”, non “è meglio se dormo perché altrimenti mi ubriaco fino a vomitare l’anima”, nemmeno “mi annoiavo e non c’era nulla da fare”, che sarebbe sì una bugia ma comunque meno sfacciata di quella che ha detto. “Avevo sonno”, dice lui.
- E quando hai sonno non ti viene mai in mente di andare almeno a letto? – lo rimprovero, - Ti fotterai la schiena, continuando a dormire qua sopra.
Lui scrolla ancora le spalle. Giustamente, non gliene frega un accidenti di quello che succederà alla sua schiena da questo momento in poi.
Io, ancora appollaiato sul bracciolo, resto in silenzio qualche secondo in più, prima di parlare ancora.
- Ti ho portato un regalo. – affermo, recuperando lo zainetto e sistemandomelo in grembo mentre lo apro e comincio a rovistare all’interno. – Tanti auguri, a proposito.
Lui lascia andare un ghigno e sbuffa.
- Non ho voglia di festeggiare i trent’anni. – risponde, - Sto diventando vecchio.
- Ah, grazie mille. – ringhio io, tirandogli addosso il pacchetto avvolto nella carta argentata e lucida, - Ora chiudi la bocca e aprilo.
Lui frena la caduta del pacco lungo il suo petto, con una mano sola, e poi lo solleva all’interno del viso, guardandolo attentamente, come potesse sbirciare oltre la carta per scoprire di cosa si tratti.
- Cos’è? – chiede, rigirandoselo con cura fra le mani.
- Dio, ma aprirlo e basta no? – borbotto scivolando giù dal bracciolo sul cuscino accanto a lui.
Lui segue il consiglio, fortunatamente. Prende il pacchetto con entrambe le mani e lo scarta con una lentezza esasperante, stando bene attento a non strappare la carta né l’adesivo dorato che la teneva sigillata. Mi viene quasi voglia di rubarglielo di mano ed aprirlo io, il più in fretta possibile. Bushido è un uomo che le attese e i silenzi sa manipolarli bene. Io, in questo momento, non dovrei stare praticamente saltando sul divano, frustrato dall’aspettativa di vedere come reagirà a ritrovarsi il regalo sotto gli occhi, quando l’avrà aperto. Eppure lo sto facendo.
Quando il CD viene fuori dalla carta, Bushido lo guarda a lungo in silenzio, prima di voltarsi e sollevarlo a mezz’aria, guardandomi da sotto le sopracciglia inarcate. Non dice niente, me lo mostra e basta, e non capisco cosa mi stiano chiedendo i suoi occhi.
- Be’? – chiedo alla fine, - Il packaging è come lo volevi?
- Potevate usare la foto della sega elettrica. – borbotta lui, tornando a rimirare la custodia da ogni lato, - Mi piaceva di più, lo sapevi anche. E poi in questa sembro una specie di meccanico appena uscito da sotto una macchina.
- E questo ha mandato in delirio la Germania intera, se t’interessa saperlo. – comincio con entusiasmo, - Non hai nemmeno idea della quantità di ragazzine che… - ma mi fermo, quando capisco, dalla sua espressione, che no, non ha idea della quantità di ragazzine che, e soprattutto non gli interessa. – Comunque abbiamo usato anche quella. Quella della sega elettrica, dico. Lo so che ti piaceva di più.
Lui annuisce distrattamente.
- Come stanno andando le vendite? – chiede. Non che gliene freghi qualcosa. Comunque è già tanto averlo trovato in stato semicosciente e non semicomatoso, immagino, perciò se vuole fare un po’ di conversazione io di certo non gliela negherò.
- Ovviamente benissimo. – rispondo con un sospiro, - La Germania ti idolatra, Bushido. Sei diventato una specie di santo.
- E non sono nemmeno dovuto morire sul serio… - commenta con un ghigno fra l’ironico e l’incattivito, - L’Ersguterjunge?
Scrollo le spalle.
- Non si può pretendere si rimettano già al lavoro. È stato abbastanza faticoso costringere la Universal a fare pressione su Saad perché si decidesse a finire di produrti l’album e metterlo in commercio. Non erano mica d’accordo. Chakuza ha tirato su il bordello.
Lui sbuffa una mezza risata, rilassandosi contro lo schienale del divano.
- È ancora arrabbiato, Chaky? – chiede, gli occhi socchiusi e la testa reclinata all’indietro. Mi chiedo se non abbia intenzione di riaddormentarsi qui ed ora. E questo mi ricorda Bill durante tutto il suo primo mese di lutto, dopo la sua morte. Non faceva che dormire. Si svegliava, piangeva fino a sfinirsi e poi dormiva ancora. Tom mi ha detto che pensava fosse l’unico modo in cui suo fratello riuscisse a far trascorrere le giornate. Se non si fosse esaurito e poi addormentato, quelle non sarebbero mai passate. Credo che per Bushido sia più o meno la stessa cosa, adesso.
- È scosso. Come tutti. – sospiro. A Bill non accenno. – La settimana prossima saremo a TRL. Hanno organizzato con l’occasione del tuo compleanno, ma sono riuscito almeno a farla spostare di modo che non cadesse proprio oggi. Non sarebbe stato il caso.
Bushido annuisce lentamente.
- Suppongo di no. – concorda, stendendosi appena sul divano. Il CD è poggiato sul cuscino accanto a lui, e lui nemmeno lo tocca più. – Queste cose potevi anche dirmele per telefono, comunque. – ride poi, - Non c’era bisogno del viaggio transoceanico.
- Dico, uno si prodiga tanto… - borbotto, rimettendomi in piedi e tirando su i jeans che, nel mentre, minacciano di rovinare a terra. Poi gli tendo una mano. – Coraggio, in piedi.
Lui schiude gli occhi e mi guarda come fossi un alieno.
- Eh? – chiede, sollevando il capo dal divano.
- In piedi, ho detto. – ripeto, scandendo bene le parole perché siano chiare. – È il tuo fottuto compleanno. Per i miei trent’anni, sono andato in giro per bar fino alle sei del mattino. Non intendo riportarti a casa prima di allora.
Lui si irrigidisce, schiude le labbra e fa per dire qualcosa – so anche precisamente cosa: sta per dire “no”. E siccome i no di Bushido non sono semplici no, sono “no, non se ne parla, toglitelo dalla testa e se solo fai tanto di ostinarti ti faccio del male fisico”, gli impedisco di dirlo afferrando un cuscino proprio lì di fianco a lui e schiacciandoglielo contro il viso.
- Jo- - annaspa lui, agitando le mani mentre io premo contro la stoffa col palmo bene aperto, - Jost! – abbaia, e si libera della pressione scivolando sotto al cuscino e poi in piedi, - Avevi intenzione di ammazzarmi sul serio, Cristo santo?! – urla, a due centimetri dal mio viso.
- Be’, - lo affronto a muso duro, - sempre meglio farlo io che non osservarti mentre ti… ti consumi su questo divano, Bushido! Dico, ma ti sei guardato allo specchio, ultimamente?! Da quanto non ti radi? Da quanto non ti lavi, Dio mio, da quanto non mangi? – e lo spintono, rimettendolo a sedere sul divano e guardandolo dall’alto, i pugni piantati sui fianchi, piegandomi appena in avanti per fissarlo negli occhi. È così che rimprovero i piccoli, quando è necessario. È così che rimprovererò anche lui. – Sei magro, sfatto e inguardabile. Ti ho permesso di sopravvivere senza sputtanarti e sono intenzionato a costringerti a sopravvivere anche con dignità, se tu non senti il bisogno di farlo per te stesso. D’accordo? Quindi ora – lo afferro per le spalle e lo rimetto dritto. È dimagrito davvero. – alzati in piedi e muovi il culo, stronzo. Ti aspetto il tempo della doccia.
Lui mi fissa per un minuto buono con un paio di occhi da pesce lesso che mi fanno venire il nervoso. Sto giusto chiedendomi se non dovrei farlo cadere a terra con uno sgambetto e poi pestarlo con violenza fino a lasciare di lui solo un mucchietto d’ossa sanguinolente, quando lui prende e ride. Saranno mesi che non lo sento ridere così, Dio. Una bella risata piena, di quelle fatte con convinzione. Lo vedo gettare indietro il capo – i capelli arruffati che gli si scompongono appena sulla testa – e stendere il collo mentre chiude gli occhi e schiude le labbra, pressandosi una mano contro lo stomaco, la maglia bianca e larghissima che si arriccia in sbuffi attorno alle sue dita scure e bene aperte.
Imbarazzato, aggrotto le sopracciglia.
- E allora… - borbotto, spintonandolo contro una spalla. Lui ride ancora un po’, ed asciuga una lacrima dall’angolo di un occhio, scuotendo il capo.
- D’accordo, papà. – continua a ridere in singhiozzi minuscoli. Dico, che cretino. – Vado a rendermi guardabile, visto che me lo chiedi con tanta insistenza.
Quando esce dal bagno, in realtà, è molto più che guardabile. Faccio fatica a non distogliere lo sguardo perché – davvero – sarebbe ridicolo abbassare gli occhi adesso, ma è dura. È dura perché lui è seminudo, ancora un po’ umido di doccia, sbarbato e coi capelli scompigliati sulla testa. Stanno crescendo, e il fatto siano ancora pesanti d’acqua li porta ad appiccicarglisi sulla fronte. Lui li scosta con un gesto lento e distratto, sistemando meglio l’asciugamano attorno ai fianchi e piazzandosi davanti allo specchio del salotto – le gambe semidivaricate e il bacino lievemente sporto in avanti – per riavviarli con più cura sulle tempie e sulla nuca.
- Stanno allungando. – mi fa notare, guardando la propria immagine riflessa, - Non ho pensato di tagliarli.
- Non ti stanno male. – rispondo io con una scrollata di spalle, decidendomi finalmente a smettere di fissarlo.
- Vanno bene per Tarek. – continua lui, perso in chissà che cosa dentro la propria testa, - Magari li faccio allungare ancora.
- Potrebbe essere una buona idea. – annuisco io, fingendo interesse per la sua copertura qui, - Saresti ancora meno riconoscibile. – e ancora più bello, anche, ma è un pensiero che mi attraversa solo marginalmente, senza colpirmi in pieno. Ho imparato ad evitare cose simili, nei tre anni che hanno visto quest’uomo frequentare i miei ambienti più spesso di quanto già non facesse prima per cause lavorative.
Bushido non risponde alla mia ultima nota. Pianta le mani sui fianchi, sospira e si volta a guardarmi.
- Allora. – comincia quindi, - Dove mi porti?
Io inarco le sopracciglia.
- Nudo, da nessuna parte. – rispondo, accennando col capo all’asciugamano che è ancora l’unica cosa che lo copre, - Se ti vesti, andiamo a bere da qualche parte. E se fai il bravo magari ti compro anche una torta.
Lui sorride e non aggiunge altro, voltandomi le spalle ed infilandosi in camera da letto. Quando ne viene fuori, ha addosso una camicia bianca e un paio di jeans scuri. Infila le scarpe da tennis saltellando prima su un piede e poi sull’altro, quindi mi si para davanti a braccia larghe.
- Be’? – chiede, - Bello?
- Bushido, piantala. – ringhio io, tirandogli una spinta contro una spalla, - Ti preferivo depresso. – borbotto, muovendomi verso la porta.
- Balle. – ghigna lui, - E poi sciogliti un po’, Jost, è il nostro primo appuntamento, in fondo!
- Bushido, sei avvertito. – insisto, chiudendo la porta quando lui esce dietro di me, - Continua a fare il deficiente e prima ti ubriaco e poi ti lascio ad un angolo di strada.
Lui ride e solleva le mani all’altezza del viso, bene aperte, in segno di resa.
- Okay, okay, Jost. Hai vinto. Te lo concedo.
- Da quando… - mi lamento, girando le chiavi nella toppa, - Da quando le vittorie si concedono? Di solito le vittorie le vince chi le ha vinte.
Bushido ride ancora.
- Mi sono perso alla prima ripetizione del verbo vincere. – commenta, sistemandosi addosso la camicia mentre io cerco disperatamente di non guardarlo, - Comunque l’idea di andare in giro a bere mi piace. Anche se non saprei dove portarti. – e ride un po’, - Dovrei conoscerlo, questo posto, ormai. Sono tre mesi.
Mi volto a guardarlo con aria un po’ sconvolta.
- E non sei mai uscito di casa?
- Per la verità sì… - borbotta lui, scrollando le spalle, - Ma il minimarket è proprio qui sotto. Quindi, insomma, non è che abbia avuto veramente occasione di spingermi tanto in là nell’esplorazione del quartiere.
Io sospiro, passandomi una mano sulla fronte.
- Va bene, va bene… non mi va di litigare. – mi arrendo, sconfitto, - Adesso ti porto al Palms. O al Chico Loco. Magari se non vogliamo casino ci infiliamo al Tropical Paradise, conosco personalmente il proprietario e potrebbe trovarci un privè. O magari… - e continuo sulla stessa traccia per quelli che mi sembrano una decina di minuti, sciorinando un nome di locale alla moda dietro l’altro, al punto che al quindicesimo la cosa comincia a diventare disturbante perfino per me, ed è a quel punto che alzo lo sguardo su di lui e capisco che non è disturbante solo per me.
- Tu – dice Bushido, indicandomi con un dito, - sei veramente un esemplare perfetto di omosessuale in carriera. Io non ho parole.
Io cambio colore e lo sferzo con un’occhiataccia che spero lo uccida definitivamente, risolvendo in un colpo sia i miei che i suoi problemi. Bushido però non muore, la cosa non mi stupisce ed io smetto di arrabbiarmi. D’altronde, non è che possa dirgli “no, non sono un perfetto esemplare di omosessuale in carriera”. Sono un esemplare, sono un omosessuale, sono in carriera e sono indubbiamente perfetto, anche. Perciò pace.
- Diamoci una mossa. – dico quindi, - Se arriviamo tardi potremmo non trovare più privè. – e mi muovo verso l’ascensore. Bushido mi segue, e nello specchio dell’ascensore, quando le porte si aprono, scorgo l’ombra di una smorfia ad increspargli le labbra. – Qualcosa non va? – chiedo immediatamente.
- Niente di particolare. – scrolla le spalle lui, - Solo che pensavo che magari, invece di andarci a chiudere in un qualche locale alla moda pieno di fighetti ubriachi, potremmo andare in qualche pub meno frequentato. Una roba tranquilla, insomma. – lui osserva il mio sopracciglio sinistro inarcarsi in maniera convincentemente dubbiosa, e si affretta a precisare. – Mi diverto, Jost, promesso. Solo che non c’ho voglia di casini. Non mi va di vedere gente.
- Sono sconosciuti. – gli faccio notare. Non vedo che problema debba esserci ad avere a che fare con gente che non ti conosce, non vuole nemmeno conoscerti e probabilmente dimenticherà il tuo viso prima del sorgere del sole, il giorno dopo.
- Sono gente. – risponde semplicemente Bushido, e il suo tono di voce è netto e deciso. – Ora, visto che sai perfettamente che faccio già abbastanza fatica ad uscire di casa, al momento, - ed è raggelante la calma serafica con cui ne parla. Come fosse normale. Magari è convinto lo sia, - potresti almeno cedere se ti dico che non voglio vedere gente? Mi basti tu. Davvero.
Ed io cedo, che altro dovrei fare? D’altronde, Bushido è il mio datore di lavoro – e praticamente nient’altro – mi paga profumatamente per ciò che faccio ed io non dovrei prendermi certe libertà come cercare di salvarlo dalla depressione, quando è palese che l’ultima cosa che vuole è proprio essere salvato. Non mi paga per questo. Io dovrei ricordarmelo. Anche se probabilmente, proprio perché non è per questo che mi paga, questa è la cosa che dovrei fare con maggiore attenzione.
Alla fine non andiamo al Palms, non andiamo al Chico Loco e non posso neanche passare a salutare Micah al Tropical Paradise. Passeggiamo sul lungomare, invece, ed io osservo Bushido prendere lentamente coscienza del luogo in cui si trova. Quando mi ha detto che probabilmente Miami sarebbe stata la soluzione migliore per quella fuga assurda, io ho approvato per due motivi: primo, era abbastanza lontano da essere un luogo sufficientemente sicuro; secondo, era abbastanza bello da rappresentare una distrazione.
Il problema è che Bushido, in questi mesi, non s’è mai concesso di distrarsi. Lo sta facendo ora per la prima volta e si sta rendendo conto di aver vissuto in un paradiso senza mai lasciarsi la possibilità di esplorarlo. I suoi occhi si perdono seguendo la linea dell’orizzonte affogata nel mare, e la sua pelle si colora dei toni aranciati del tramonto che si sfuma in sera, e quando lo sento respirare a pieni polmoni respiro improvvisamente meglio anch’io. Perciò non mi lamento quando ci fermiamo in un localino proprio lì, sulla spiaggia, una specie di casotto di legno col tetto spiovente e un sacco di ghirlande di fiori che pendono dal soffitto decorando cocchi, manghi, papaye ed altri frutti di cui non conosco nemmeno il nome.
Il bancone gira tutto attorno al locale, io e Bushido prendiamo posto su due sgabelli e cominciamo a farci servire da bere. So che non dovrei permettergli di ingurgitare altro alcool dopo tutto quello che sicuramente ha mandato giù negli ultimi giorni, ma cazzo, è il suo compleanno. Non intendo impedirgli niente proprio oggi. Che beva pure. Tra l’altro, avere a che fare con lui ubriaco è comunque molto più semplice che avere a che fare con lui da lucido. Che poi è il motivo per cui lo stronzo cerca di ubriacarsi il meno possibile, quando è in compagnia. Gli piace rendere complicate le cose alla gente.
Oggi no, però. Evidentemente il divertimento che proverebbe nel rendermi difficile l’esistenza è surclassato in necessità dal bisogno che ha di stordirsi, perciò non ci pensa nemmeno a mantenersi lucido, e butta giù una birra dopo l’altra, chiedendo di tanto in tanto anche un cocktail o qualcosa di diverso per cambiare gradazione alcolica e stordirsi di più e più in fretta. Io bevo il minimo indispensabile, se non altro perché almeno uno dei due dovrà ricordarsi la strada di casa, quando questo strazio sarà finito.
Nel mentre lo ascolto parlare, e Bushido mi dice un sacco di cose, anche se nei fatti non mi sta dicendo praticamente niente. Lo so che Miami è un bel posto, Bushido, è assurdo che ancora non lo sapessi tu. Lo so che ti manca Berlino, Bushido, lo so. Lo so che ti manca tua madre. Sta bene tua madre, Bushido. Lo so che ti mancano i tuoi ragazzi, manchi tantissimo anche a loro. Lo so che qui fa troppo caldo per te, no, non ti ci potevo mandare in Antartide, Bushido. Lo so che non riesci a chiedermi di Bill. Sta male, Bushido. Sta un sacco male. Ma visto che non chiedi non rispondo. Per ora è meglio così.
Quando ci allontaniamo dal locale, molte ore più tardi, la luna è alta nel mezzo di un cielo nerissimo ed abbiamo speso un capitale in bibite. Bushido si regge a stento sulle gambe, tant’è che devo sostenerlo io, e meno male che è leggerissimo altrimenti ci accasceremmo entrambi per strada in un angolo e dovrebbero venirci a recuperare con un carro attrezzi prima di bloccare il traffico, domattina.
L’appartamento è sempre buio e incasinato, quando torniamo, e Bushido sta ancora blaterando roba, con la differenza che adesso lo sta facendo completamente steso contro di me, ad un centimetro dal mio orecchio, e mi sfiora piano il lobo con le labbra ogni volta che dice una parola.
- Sono stanco, - mi dice, - non mi piace stare qui. Posso tornare a casa?
- No, Bushido. – rispondo stendendolo sul proprio letto perfettamente rifatto e immacolato al punto che mi chiedo se ci abbia mai veramente dormito, - Non puoi, lo sai.
- Ma mi sento solo. – borbotta. Come fosse una giustificazione alle sue richieste assurde. Non lo è, Bushido, non ci sono giustificazioni per le tue richieste e non potrei lasciarti tornare anche se invece ce ne fossero. Mi dispiace. Dio sa che mi dispiace, cazzo. Ma non posso proprio.
Sfilo via le coperte da sotto il suo corpo e cerco di rimboccargliele sotto il mento, ma lui prima le scosta con una mano e poi, quando io insisto, si mette a scalciare come un moccioso.
- Va bene, va bene! – mi arrendo, - Dormi scoperto, come preferisci! Io vado di là. – affermo irritato, e faccio per mollarlo lì e trasferirmi sul divano, che ho sonno, il jet lag comincia a farsi sentire nonostante l’abitudine e domani a non-mi-ricordo-che-orario-devo-ricontrollare-la-carta-d’imbarco ho l’aereo per rientrare in Germania. Scemo io e fanculo ai viaggi transoceanici.
E invece niente, non mi allontano, non faccio nemmeno un centimetro, perché le dita della sua mano si chiudono come una tenaglia attorno al mio polso ed io quasi finisco steso sul letto accanto a lui. Riesco a tenermi in piedi per puro miracolo, e mi volto a guardarlo con un sopracciglio inarcato in segno di muta richiesta.
- Resti? – mi chiede a mezza voce. Ha gli occhi chiusi. Credo non voglia vedermi. Credo non voglia vedere niente.
- Sto già restando. – gli faccio notare, senza neanche provare a forzare la sua stretta, - Sono qui a due metri, se hai bisogno.
- Resta qui. – specifica lui, stringendo con maggiore decisione e tirandomi un po’, - Nel letto.
Mi giro per guardarlo attentamente, anche se lui ha ancora gli occhi chiusi e quindi di certo non può accorgersene. Schiude appena le dita per permettermi di girare anche il polso, così da non dovermelo torcere, e poi torna a stringermi. Non è che abbia bisogno di trattenermi. Vuole solo sentirmi sotto i polpastrelli.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce, - Non fare il coglione.
Lui stringe ancora la presa e non dice niente. Non dice niente tanto a lungo che finisco per sentirmi io il coglione della situazione. E quindi pianto un ginocchio sul materasso e lui, quando sente la pressione del mio corpo, si scosta per farmi spazio, così da lasciarmi distendere accanto a lui.
La situazione è assurda. La nostra posizione, anche. Io non dovrei essere qui disteso e lui non dovrebbe volere da me ciò che penso voglia. Sono io che dovrei volere queste cose da lui. Sono io che le voglio, in realtà, ma non dovrei potermele prendere. Bushido non dovrebbe volermele dare.
- Toccami. – dice piano, la sua voce è un sussurro pieno di bisogno.
- Bushido… - cerco di richiamarlo un’ultima volta, ma lui mi ferma.
- Ssh. – sospira, stendendosi meglio sul materasso. – Toccami.
Io mi mordo un labbro e sollevo una mano, e per un secondo la lascio lì a mezz’aria perché non ho idea di come dovrei o potrei toccarlo. Insomma, non è un uomo qualsiasi. È Bushido. Non so nemmeno da che lato prenderlo.
Mentre penso che farò sicuramente qualche cazzata colossale, e che anzi probabilmente la mia cazzata colossale la sto già facendo, poso una mano sul suo petto e la lascio scorrere verso il basso. Le dita si impigliano una ad una fra i bottoni della camicia e li slacciano uno dopo l’altro. Bushido rabbrividisce ogni volta che mi muovo. Schiude le labbra e stira indietro il capo, i capelli che si scompigliano contro il cuscino.
- Di più. – mormora fra le labbra, e spinge il bacino verso l’alto nello stesso momento in cui la mia mano ci finisce sopra, sfiorandolo appena. Slaccio i pantaloni e lo accarezzo piano, stringendo le dita attorno alla sua erezione ancora incompleta e pompando lentamente. Dio mio, cosa sto facendo? Perché lo sto facendo? Resto qui, il gomito piantato sul materasso, lievemente sollevato per guardarlo meglio, e lo osservo inarcarsi sotto i miei movimenti, ed è praticamente l’unica cosa che fa. Non mi cerca con le mani, non mi cerca con le labbra, non mi cerca neanche coi pensieri, Bushido, lo so perfettamente cos’è che sta cercando. Non posso ridartela io la tua principessa, Bushido. Non può ridartela nessuno. Ti toccherà accontentarti.
Quando smette di farsi bastare la mano, quando comincia a volere di più, io non lo capisco perché me lo dice. Lo capisco perché si mette seduto in un movimento lento e strascicato, insospettabilmente sensuale – ci resto a bocca aperta, non me lo aspettavo per niente, ma Dio mio, appena lo vedo sollevarsi in quel modo, la testa piegata su una spalla e le braccia tese, deglutisco a fatica e respiro con difficoltà se possibile ancora maggiore.
Sfilo la mano e lui si volta verso di me, mettendosi in ginocchio sul materasso.
- Stenditi. – sussurra piegandomisi addosso, - Voltati.
Obbedisco e in aggiunta mi spoglio anche. È chiaro che lui non lo farà ed è chiaro che invece si aspetta lo faccia io per lui. continua a tenere gli occhi chiusi, non mi guarda, non mi parla se non per lo stretto indispensabile e soprattutto non mi bacia nemmeno. Da nessuna parte. Si regge sulle braccia, sospeso sopra di me, sento il suo calore intorno ma non addosso, e aspetta che io mi sia spogliato abbastanza per lasciarmi scivolare un paio di dita umide fra le natiche. Rabbrividisco sotto la leggera pressione dei suoi polpastrelli e mi inarco contro di lui, lasciando scivolare fra le labbra un ringhio roco.
- Mi manchi. – lo sento sussurrare contro la mia spalla, - Dio… mi manchi. – ed affonda dentro di me, sostenendosi sul materasso con entrambe le mani, - Cazzo, mi manchi. – lo so che ti manca, Bushido. Cazzo, lo so. Lo so che stai male. Non avrei mai dovuto permetterti niente di simile. Non avrei mai dovuto lasciarti uscire dai confini della fottuta Germania, non avrei mai dovuto lasciarti andare, non avrei – cazzo, sì – non avrei mai dovuto permetterti di mettere su questa commedia del cazzo – Dio, Bushido, più forte – e adesso dovrei prenderti a ceffoni – – dovrei riportarti a casa per i capelli – sì, cazzo, sì – dovrei – cazzo, sì – non lo so, affondo il viso nel cuscino mentre vengo e lo sento spingere ancora un paio di volte, ma lui non viene. Non viene, cazzo. Le spinte si smorzano e basta, il suo respiro, da concitato che era, si regolarizza, ed esce dal mio corpo insoddisfatto, lasciandosi rotolare sulla schiena e poi su un fianco senza guardarmi neanche per sbaglio.
Mi volto anch’io, mettendomi seduto a fatica e passandomi una mano sulla fronte.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce. Lui non mi risponde. Respira piano. Non dorme. Resta immobile.
Mi risistemo appena ed esco dalla stanza, abbandonandomi esausto sul divano appena incrocia la mia traiettoria, perché non mi reggo più in piedi. Quando chiudo gli occhi, lo faccio esattamente per lo stesso motivo per cui l’ha fatto Bushido. Non voglio più vedere niente. Anche se dubito che stanotte riuscirò a dormire.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Rape, Slash.
- "Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene?"
Note: Storia ispirata ad una splendida poesia di Emily Dickinson, che ho letto perché partecipante a questo concorso indetto da Harriet sul suo LJ. Non avrei mai letto la poesia, non fosse stato per il contest, quindi sono contenta di averlo letto XD E andate a leggerla anche voi, pure se non è che vi serva per la comprensione della storia in sé. È la storia in sé che, temo, non è granché comprensibile XD Spero lo sia e spero faccia male a voi leggerla quanto male ha fatto a me scriverla ;_; Billi ;_;
Devo dire che in genere io le storie così non le apprezzo per niente. La maggior parte della gente che ne scrive, non sa come farlo e si esibisce spesso in clamorosi buchi nell’acqua. Spero non lo sia anche questa, ma non vi assicuro niente, dal momento che non ho mai scritto niente di simile XD
Ultime due precisazioni. Primo: scrivere questa shot mi ha fatto venire voglia di scrivere una long di cui questo sia praticamente il prequel. Quindi è anche probabile che prima o poi la vediate su questi schermi XD Secondo: il titolo della storia è rubato all’omonima – e bellissima – canzone degli Strokes.
Grazie per aver letto e arrivederci :)
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HEART IN A CAGE

Specchio entra sempre per primo, perché visto che mi somiglia tanto gli altri magari credono che poi loro mi faranno meno paura, quando entreranno. Ma io non ho paura per niente, sai mamma?, io non ho paura per niente perché ormai sono un sacco abituato a loro che vanno e vengono dalla stanza, e sorrido a tutti, anche perché sono sempre gentili con me – ma sempre sempre – e poi non mi hanno mai fatto niente di male, lo sai?, quindi non ho per niente paura. Però loro sono convinti che io abbia paura, infatti sono sempre un sacco timorosi, sai che mi toccano a stento, mamma?, non lo so mica perché, io sono un sacco forte, non mi servono queste delicatezze, però a loro non posso dirlo, poverini, fanno tanta strada per venire dal loro mondo fino nel mio, solo per vedermi, quindi non li posso rimproverare, lo capisci, mamma?, non posso proprio.
Che poi secondo me Specchio me l’hanno pure costruito in laboratorio, sai mamma?, apposta per me. Perché mi assomiglia veramente tantissimo, tipo che è uguale, tipo che se ricalco i suoi lineamenti coi miei siamo la stessa persona, tipo che abbiamo lo stesso odore, la stessa forma, tipo che se lo tocco su un braccio lui ha il mio stesso calore – ma proprio uguale, mamma, è una cosa stranissima! – tipo che se lo guardo negli occhi non c’è solo il mio stesso colore, ci sono proprio io. Tipo che lo sento – mi crepita sulla pelle come una scintilla – lo sento che siamo proprio identici. A volte guardo Specchio e mi chiedo – ma non è che mi hanno rubato qualcosa una notte che dormivo e l’hanno plasmato proprio da un pezzo di me? Perché quando Specchio va via, sai mamma, mi sembra un po’ che stia andando via con lui una parte del mio corpo. E fa un po’ male. E poi torna tutto a posto quando Specchio ritorna. Per questo dico che forse l’hanno creato in laboratorio apposta. Ma è una cosa stupida, vero?, vero mamma?, i fantasmi non si fanno in laboratorio, i fantasmi sono fantasmi e basta. Magari Specchio è il mio fantasma, magari io sono morto. Magari sono io il suo fantasma, visto che Specchio è un sacco luminoso e io invece sono un sacco spento.
Papà, quando viene a trovarmi, mi dice sempre che Specchio ha pianto un po’. Lo chiama con un nome che non conosco, non lo chiama Specchio, ma d’altronde anche quando io lo chiamo papà lui scuote il capo e mi risponde che no, non si chiama papà, non è papà, non è papà, Bill, papà è a casa, è venuto a trovarti la settimana scorsa, lo ricordi, Bill?, non lo ricordo no, sei tu papà, perché non ti fai chiamare papà?, io non mi chiamo Bill, io non ce l’ho un nome. Papà non mi vuole bene, non si lascia chiamare papà e non mi ha nemmeno battezzato. Non è giusto chiamarmi in quel modo, quello non è il mio nome. Mamma, neanche tu dovresti chiamarmi Bill. Nessuno dovrebbe chiamarmi Bill. Bill non esiste.
Comunque, anche quando papà mi dice che Specchio ha pianto, mi dice sempre anche che non devo sentirmi in colpa, non è colpa mia se Specchio piange. Specchio non dovrebbe mai piangere, comunque, è troppo bello per piangere. Io preferirei che non piangesse. Però non posso farci niente. Anche se papà mi dice che il modo per farlo smettere di piangere è stare meglio. Ma io sto bene, mamma, diglielo anche tu, com’è che non lo vedete? Sono perfettamente guarito, non ho più male da nessuna parte, non c’è più sangue, sono di nuovo pulito. Però non posso uscire, è l’unico problema, non posso uscire perché non riesco a camminare. Quando ci riuscirò uscirò, papà e mamma, è una promessa, quindi dite a Specchio che la smetta di piangere, per favore, tutto a suo tempo, mi rimetterò in piedi, piano piano. Piano piano, però. Piano piano.
E poi c’è Amore. Quando Amore entra nella stanza io sorrido senza sforzarmi. Amore sono quasi certo che non si chiami proprio Amore, ma io non riesco a ricordare il suo nome, ed è l’unica cosa che mi fa male. Sono sicuro che lui c’era da prima, non viene a trovarmi da adesso, lui c’era da prima che entrassi qua dentro. E non riesco a ricordare come si chiama. E lui ogni tanto me lo chiede, mi chiede se lo so come si chiama, lo sai come mi chiamo, Amore?, e io non me lo ricordo e scuoto il capo, ma lo chiamo Amore perché lui chiama Amore me, ed è così che voglio chiamarlo, anche se il suo sorriso, quando lo chiamo così, è un sacco triste.
Amore ha dei colori bellissimi. È colorato come il caramello, anche se non ha lo stesso sapore. E ha gli occhi come il cioccolato e i capelli come l’ebano, e le mani grandi, le mani grandi e forti, ed è l’unico che mi tocca tantissimo, mi tocca fino a darmi fastidio, però è un fastidio a cui non riesco a rinunciare, sai mamma? Lo so, mamma, lo so che queste cose non si fanno, lo so che sono cose sporche, lo so che non dovrei lasciarmi baciare da lui, lo so che non dovrebbe toccarmi. Lo sa anche lui, mamma, te lo giuro, si ferma sempre prima di andare troppo oltre, è buono, le sa queste cose, non mi farebbe mai del male. Te lo giuro, mamma, mi bacia e mi accarezza soltanto. Lo so che secondo te è sbagliato, ma ti prego, non dirgli più di smetterla, io ne ho bisogno, mi piace tantissimo.
Amore poi porta sempre un sacco di gente strana, mi viene tanto da ridere quando arrivano. È che sono tanti tantissimi, non è che ho un nome per tutti, però le loro facce, quelle sì, quelle le conservo tutte, sono tutti divertenti. Lui sembra un re, quando viene con quelle persone, perché loro sembrano la sua corte. È così bello il mio Amore quando me li presenta, te li ricordi loro? Questo è… questo è… non mi ricordo i nomi, mi dispiace, mi dispiace signore tondo con gli occhi verdi, mi dispiace signore strambo coi baffetti, mi dispiace ragazzo abbronzato che assomiglia a un porcellino, io vi voglio un sacco bene, lo so, lo sento, però non mi riesce di ricordare come vi chiamate, perdonatemi.
E poi arriva il momento che Amore dice ai ragazzi che è ora di andare, ed io comincio a rabbrividire e non sto più nella pelle, perché quando i ragazzi vanno Amore si avvicina. E mi sfiora le spalle, con le sue mani grandi, ed io piego il capo e lui mi bacia sul collo e poi si siede al mio fianco. E io gli scivolo addosso e mi strofino contro il suo corpo, che è caldo e forte, e sento che mi manca anche se non ricordo di essere mai stato con lui – Amore, mi perdoni se non me lo ricordo? Perché devo ricordarmi solo cose tristissime quando penso a cose come questa? Perché non ricordo le tue mani, perché ricordo solo quelle di un’altra persona? Non voglio ricordare, Amore, chiudimi gli occhi, tappami le orecchie, serrami le labbra, e Amore lo fa, Amore è bravissimo, Amore mi stringe, ti amo, Amore, e lui mi dice di non dirlo. Non dirlo, Amore, me lo dirai quando starai meglio. Amore, sto bene. Posso dirtelo. Amore, ti amo, ti amo tantissimo.
Poi Amore va via ed arrivi tu, mamma. Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene? Sento la testa tanto leggera. Posso andare a casa con Amore? Magari Specchio smetterebbe di piangere. Pensi che papà sarebbe d’accordo? Perché tu non lo sei, mamma? Io sono felice. Non lo vedi che sono felice? Sto piangendo di gioia. Sto piangendo di gioia, non lo vedi? È gioia, vero? Ho la testa vuota e il cuore pienissimo, mamma. È gioia, vero? È gioia?
Non dirmi che non lo sai, mamma. A me sembra gioia. Io voglio credere che lo sia, ti dispiace?
Comunque d’accordo. È okay. Sto bene, comunque. Le caramelle?


*

- Non abbiamo rilevato dei miglioramenti veri e propri, nell’ultimo mese di terapia. Ma siamo sicuri che sia solo una questione di tempo. Ai farmaci reagisce bene, l’umore è ottimo, non presenta più cambiamenti eccessivamente repentini. Suppongo che-
- Dovrei poterlo portare a casa.
- …no, signor Ferchichi. È ancora presto.
- È un fottuto anno che-
- Anis, per favore.
- No, Tom, Anis il cazzo, è-
- Signor Ferchichi, devo ricordarle che siamo in un ospedale?
- …
- Quando pensa che potremmo portarlo via, dottoressa?
- Non saprei dirle, signor Jost. Come cercavo di dire prima, suppongo che dovremo semplicemente avere pazienza.
- Io non ne ho.
- Anis.
- Io non ne ho. Lo porterò fuori di qui, dottoressa. Ragazzi, andiamo.

*

Amore va via, dietro di lui ci sono i ragazzi, c’è papà, c’è anche Specchio. Li saluto dalla finestra muovendo la mano, e loro mi sorridono tutti. Che belli che sono. Tornate domani? A domani. Buonanotte.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- "Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile."
Note: Provo dell’amore profondo, per questa shot *-* Per due motivi molto semplici. Primo fra tutti, il fatto che io voglio molto bene a Chakuza in questo periodo di questa serie. È un uomo che s’è comportato bene, s’è comportato alla perfezione per tutti gli ultimi nove mesi della sua esistenza. E conoscendolo, sapendo che Chakuza in sé è un uomo portato a fare danni, so che deve essergli costato tantissimo stare tranquillo e non combinare casini per non fare soffrire Bill. E invece niente, torna Bushido – che è una cosa sulla quale Chakuza non ha il minimo controllo e per la quale non ha la minima colpa – e Bill gli si getta fra le braccia. E per quanto io possa adorare il legame assurdo e inesplicabile che c’è fra Bill e Bushido, e per quanto comprenda che è quel legame a motivare (non giustificare: ciò che fa Bill in Crash Into Me non è assolutamente giustificabile) ciò che succede in quella shot, mi dispiace un casino per il Chaku che s’è visto crollare il mondo addosso senza poter fare niente per cercare di fermare la frana. È una cosa tremenda ._. Poi, ok, mi si potrebbe obiettare “eh, sì, ma intanto da un paio di settimane il Chaku stava facendo allegramente il cretino con Fler”. E io potrei dire “sì, vero”. Ma poi dovrei anche partire con uno sproloquio immenso su ciò che penso del Flerkuza, e non ne usciremmo prima di una quantità esagerata di pagine XD Perciò ve lo risparmio. E dico solamente che sì, Chakuza probabilmente ha delle colpe non irrilevanti, ripensando alle ultime settimane della sua vita. Ma di Bill è innamorato davvero, e ciò che Bill gli combina il Chaku non lo merita per niente. Poi, insomma, libere di pensare come volete XD Così la penso io.
Il secondo motivo per cui amo questa shot è che il bimbo è bellissimo <3<3<3 L’amore folle che nutro per Fler è ormai cosa nota, e sebbene io lo trovi delizioso ed adorabile soprattutto quando si arrende al Chaku, devo dire che ho provato dell’orgoglio per lui mentre lo osservavo dirgli no e costringerlo con le buone a mettere da parte i cattivi propositi. Forza bimbo, siamo tutti dalla tua parte, sappiamo che puoi farcela a staccarti dal nano malefico e riprendere la tua esistenza ç_ç! XD
Spero abbiate gradito anche voi <3 A lunedì col prossimo aggiornamento *_*v
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HASS

La prima cosa che ha fatto Fler quando Jost ci ha detto che forse era meglio lasciare Bill e Bushido da soli per un po’, è stata poggiarmi una mano sulla spalla. Il primo pensiero che è saltato fuori dalla nebbia confusa che avevo al posto del cervello in quel momento, è stato “fottiti, non mi serve la tua cazzo di mano sulla spalla, il mio ragazzo sta baciando il suo ex qui di fronte a me, come se io neanche esistessi più. Cazzo vuoi che mi serva la tua mano?”.
Ho capito poi che, in quel momento, lui la mano lì sopra l’ha messa non per consolarmi, ma per trattenermi. Questo perché Fler lo conosce bene, il mio corpo. Lo legge alla perfezione, ed anche in un tempo brevissimo. Perciò si è accorto della tensione nei miei muscoli e dello scatto in avanti che ho fatto, e l’ha fermato prima ancora che potessi realizzare coscientemente di aver desiderato quel movimento. In sostanza, non mi sono mosso di un millimetro. Ho realizzato che avrei voluto farlo solo dopo. E adesso ho in corpo una furia repressa che non riesco ad incanalare in nessun modo.
La mano di Fler, comunque, è ancora lì.
Mi volto appena e c’è Jost ancora nei paraggi della porta che s’è chiuso alle spalle. Sembra incerto fra la possibilità di andarsene e quella di restare.
- Quindi tu lo sapevi. – sibilo guardandolo, gli occhi ridotti a due fessure, - Ci hai presi tutti per il culo. Per tutto questo tempo.
I suoi occhi sfidano i miei. Sono azzurri ma non tanto azzurri. Fler mi ha abituato a sguardi ben più pesanti. Jost non ha possibilità di competere, perciò reggo tranquillamente la tensione dello scontro. La mano è lì e non si sposta.
- Ho fatto il mio lavoro.
- Il tuo lavoro – urlo, stringendo i pugni, - dovrebbe essere prenderti cura di Bill!
- Il mio lavoro – risponde lui, gelido, - è stato prendermi cura della situazione perché non degenerasse.
Ghigno ironico.
- Bel lavoro hai fatto. Questa ti sembra una situazione non degenerata?!
Esita per un attimo, probabilmente perché lo sa, cazzo, se ne rende conto che è vero, ho ragione io, questa situazione è degenerata sì. Eccome se è degenerata. Siamo in un fottuto casino. E se Bill ha spento il cervello e magari al momento non l’ha ancora realizzato, la stessa cosa non si può dire di noi tre. Che stiamo qui a dare aria alla bocca – David davanti alla porta, neanche stesse facendo la guardia, io immediatamente di fronte a lui e Fler poco dietro di me, la mano sempre lì – e siamo in assoluto le persone che l’entità di questo casino indescrivibile la capiscono meglio.
- Non sono affari tuoi. – risponde infine, rilassando disinvoltamente le spalle. – Io non rispondo a te.
- Risponderai a Bill. – gli faccio notare, ringhiando sottovoce. Lui annuisce.
- Sì. Appena porrà le domande, risponderò a lui. Fino ad allora, io rispondo solo a Bushido.
E io, cazzo, li odio. Odio lui, odio Bushido, odio Bill ed odio anche la fottuta mano di Fler. Odio chiunque non si senta come mi sento io in questo momento. Ed odio anche quelli che ci si sentono. Perché la rabbia mi sta divorando e mi sembra di essere l’unico che abbia il diritto di perdercisi.
Grugnisco frustrato, voltandomi di scatto. La mano di Fler e la mia spalla perdono contatto per un secondo netto. Il tempo di girarmi. Poi è di nuovo lì.
- E mollami, Cristo. – chiedo burbero, lanciandogli un’occhiataccia irritata.
Lui scuote il capo.
- Ti dà fastidio? – chiede, indicando la mano con un cenno del capo.
Io sbuffo.
- Non particolarmente.
- E allora resta lì dov’è. – conclude serio, - Almeno finché non la pianti di voler sfondare la porta a calci.
- Non voglio niente del genere. – nego, distogliendo lo sguardo.
Fler sorride. Non lo vedo ma lo sento nell’aria.
- Come preferisci. – risponde. E la mano non si sposta.
Resta lì mentre mi chiede se voglio andarmene. La risposta è “no”, ma annuisco. Perché è meglio che Fler mi porti via. Resta lì anche mentre scendiamo le scale verso il piano di sotto, oltrepassiamo la porta, il vialetto e il cancello, e ci infiliamo in macchina. Eravamo in tre, in questa macchina, quando siamo arrivati. Tutto mi aspettavo meno di trovarci Fler, qui da Bushido. O meglio, un po’ me l’aspettavo, ma evitavo di pensarci. Comunque era qui. In macchina c’eravamo io, Bill e Jost. Adesso ci siamo io e Fler. Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile. Sempre lui. E la mano non si sposta. È scomparsa solo mentre ci mettevamo seduti. È di nuovo lì, adesso.
Rilasso la schiena contro il sedile e sospiro profondamente, gettando indietro il capo e chiudendo gli occhi. Sono furioso. Non serve a niente che faccia la sceneggiata dell’uomo triste ma tranquillo, Fler me lo sente addosso che non sono niente del genere. Non sono triste, sono furioso. Per niente tranquillo. Potessi, prenderei a mazzate un muro. Per il solo piacere di sentirmi dire “guarda che non puoi abbatterlo” ed abbatterlo comunque, fottuto mattone dopo fottuto mattone.
Un po’ mi dispiace che ci sia Fler in giro mentre sto così. Fler non ha molta fortuna. Almeno non con me. Finisce sempre che mi gira intorno quando ho voglia di devastare qualcosa. Non voglio finire di nuovo a devastare lui.
La mano di Patrick si stringe attorno alla mia spalla, massaggia un po’ i muscoli contratti – le dita bene aperte, il palmo aderente al tessuto della mia maglietta – e poi si ferma.
- Chaku, andiamo un po’ a casa tua, ti va? – e lo dice con un tono dolce che gli ho già sentito usare, qualche volta. Quelle volte in cui io e lui continuavamo a stare bene l’uno con l’altro anche quando non stavamo scopando, per esempio. Fler non ha una voce cattiva, ha una voce che può diventare tremenda se è gelida e furente, ma a livello base, quando è di buon umore, quando la ammorbidisce coi toni dolci, quando sorride, non è cattiva affatto. È piacevole.
Lo guardo, gli occhi socchiusi, e lui per qualche motivo arrossisce.
- Vuoi venire da me? – glielo chiedo non perché sono uno stronzo, ma perché voglio essere sicuro di aver capito bene. “Venire da me” non è mai stato privo di conseguenze, fra me e Fler. Ha sempre significato una cosa ben precisa. Stranamente, non mi sento in colpa nei confronti di Bill, a pensarlo adesso. Sarà perché so perfettamente cosa sta succedendo dietro la porta cui Jost sta facendo la guardia.
Fler spalanca gli occhi e, invece di ritrarsi come sarebbe ovvio, buono e giusto, stringe di più la presa.
- Peter… - mi dà i brividi che mi chiami per nome. Ultimamente, questo nome l’ha usato quasi solo Bill. Mi piace sentirlo su labbra non sue, da una voce non sua. Per una volta, cazzo, voglio che le prossime ore siano differenti dagli ultimi mesi della mia vita. C’è stato solo Bill nella mia vita, per nove fottuti mesi. Ciò che ho in cambio adesso è la sua bocca su quella di Bushido, le sue braccia attorno al suo collo e lui stretto al suo corpo come nel mondo intero non esistesse nient’altro. E allora no. Allora no, vaffanculo. Fa male. Non ci sto.
- Patrick. – lo chiamo a mia volta. Non distolgo lo sguardo e non mi muovo. La sua mano è ancora lì. Mi piace che sia ancora lì. Sono contento di non averlo scacciato.
È ridicolo, ci siamo appena chiamati per nome senza un perché.
- Forse è meglio se andiamo da qualche altra parte, invece di andare a casa tua.
- Forse è meglio se la smettiamo di nasconderci dietro un dito.
Fler arretra un po’. Solo qualche centimetro, poi si rende conto che è comunque seduto in macchina e non può certo attraversare lo sportello come fosse un fantasma. Si rende conto che per allontanarsi ancora dovrebbe per forza lasciarmi andare, voltarsi, tirare la maniglia, spingere ed uscire. Per qualche motivo che non comprendo – come al solito: non l’ho mai capito, io, perché Fler si ostinasse a restare – non si muove oltre. Resta lì. La mano trema appena, incerta.
- Peter, - continua a chiamarmi per nome, - io non ti sto mentendo. Mi manchi. Mi andrebbe. Ma non possiamo.
Mi muovo, accendendo la macchina ed ingranando la marcia, dirigendomi verso casa.
- Loro stanno potendo. Eccome. – ringhio, aggrottando le sopracciglia.
- Non sai se sta succedendo davvero. – dice lui, lasciando scivolare la mano lungo il mio fianco. Non può più tenerla lì dov’era ma non vuole interrompere il contatto. Comunque questo discorso potrebbe anche concludersi qui, perché io non gli ho neanche detto cosa penso e lui l’ha già capito. L’ha già capito perché anche lui l’ha pensato. E se lui l’ha pensato – e lui lo conosce bene, Bushido. E conosce bene anche Bill – allora sta succedendo. Cristo, io me lo sento nelle ossa, che sta succedendo. È una cosa così evidente e palese che mi sembra perfino ridicolo starne a discutere. – Non ti fidi?
- No. – sbotto senza neanche pensarci, - Non c’è scritto da nessuna parte che amare qualcuno significhi fidarsi di lui. Oltretutto, non mi pare che Bill mi abbia dato modo di fidarmi, negli ultimi dieci minuti. – mi fermo al semaforo, schiacciando la frizione con furia. – Magari, ok, glielo concedo, magari non scoperanno. Mi viene da ridere a pensarci, perché è una cosa ridicola, tu lo sai ed io lo so che scoperanno, ma ammettiamo per un istante che non lo facciano. In ogni caso, appena l’ha visto gli è saltato fra le braccia. Classica scena epica, ci aveva abituati tutti così, giusto?, Bushido gli si è inginocchiato di fronte, gli ha fatto il baciamano, “ciao, principessa”, e il secondo dopo eccolo che gli si scioglie addosso. A questo punto, scusa la franchezza, me ne sbatto il cazzo se scoperanno o meno. Mi sembra di avere già motivi a sufficienza per essere incazzato.
Non ribatte – ovviamente non ne ha il coraggio: ‘cazzo puoi ribattere se uno ha ragione? – perciò è così che restiamo – in silenzio, io mani sul volante, lui mano sul mio fianco – finché non arriviamo a casa mia. Non gli chiedo se vuole salire, a questo punto o sale con le sue gambe o lo trascino su io per il cappuccio della felpa.
Fortunatamente sceglie le proprie gambe. Io non so dove trovo la forza, la decenza e la presenza di spirito per non saltargli addosso appena ci chiudiamo la porta alle spalle. Fatto sta che, malgrado io non mi senta né forte né armato di decenza né tantomeno presente – allo spirito, a me stesso o a chicchessia – decido di prendermela comoda. Fler è qui, non penso intenda scappare ed al momento, se gli metto le mani addosso, mi sfogo. Non voglio sfogarmi. Non mi piace sfogarmi su di lui. Se dev’esserci qualcosa, oggi, non sarò io che gli faccio male. Non è questo che voglio. Lui è gentile a restare. Non se lo merita.
Comunque è nervoso. Lo vedo dal modo in cui cammina e si muove per l’appartamento, tirando su da terra le cose che incontra al proprio passaggio e continuando a lanciare occhiate incerte al frigorifero.
- Magari ci prendiamo qualcosa da bere? – biascica, indicandolo da qualche metro di distanza.
Scrollo le spalle.
- Non funziona. Non aprirlo. Ne viene fuori un odore nauseante. Non ti ci avvicinare nemmeno, fidati, è meglio. – e così dicendo, visto che non ho niente di meglio da fare, sfilo il cappellino e la felpa, restando in maglietta e pantaloni. Fler deglutisce.
- Potremmo provare ad aggiustarlo. – suggerisce a bassa voce, distogliendo lo sguardo.
Tolgo anche la maglia. Non intendo dirglielo ad alta voce. Non intendo dire ad alta voce che scoperò con qualcun altro che non sia Bill. Però voglio farlo. Voglio farlo ma non voglio dirlo, perché me ne vergogno. Mi torna in mente Fler che mi dice “mai vergognarsi delle proprie azioni, è da sfigati e noi non lo siamo”. Mi sa che sbagliavi, Pat. Sbagliavi alla grande.
- Sei un elettricista, per caso?
- No, ma so-
- Non mi interessa. – sfibbio il primo bottone dei jeans, - Non ti ho chiesto aiuto per sistemare il fottuto frigo.
Fler si inumidisce le labbra e resta in silenzio per qualche secondo. E poi indietreggia. Cristo, mi viene quasi da ridere. Indietreggia! Neanche lo stessi minacciando di pestarlo o chissà che. Cazzo. Si tratta di una scopata, cazzo. Ne abbiamo a decine in memoria, è una cosa quasi logica. A toccarsi solo un po’, andiamo avanti senza nemmeno rendercene conto. Lo so. Lo so che sarebbe così. Dovrebbe solo lasciarsi toccare, Cristo santo, e dopo sarebbe tutto normalissimo e naturalissimo. Dovrebbe concedermi solo questo.
- Patrick. – lo chiamo. Non so perché mi ostino ad usare il suo nome di battesimo. Sarà che oggi è strano. Se uso un nome che non uso spesso, posso fingere che non sia lui, posso fingere di non stare distruggendo qualcosa di bello che c’è nella mia vita per la frustrazione di una sera.
Fler mi ha detto no più volte di quante io riesca a contare. Mi ha detto una quantità sconcertante di no prima che mi mettessi con Bill ed ha ripreso a dirmi no quando io ho ripreso a mettergli le mani addosso. Posso tranquillamente dire che, da quando è morto Saad, le mie uniche costanti immancabili sono state Fler e i suoi no. Adesso, solo perché sono incazzato con Bill, le sto calpestando entrambe. E non mi va di farlo a Fler, perciò lo faccio a Patrick.
Lui mi guarda. È fantastico che non riesca a staccarmi gli occhi di dosso. Non posso dire che avessi dimenticato che era questo, l’effetto che facevo a Fler, perché in realtà non ho mai smesso di leggergliela negli occhi, la voglia. Così come lui non ha dimenticato come si fa a leggerla nei miei, suppongo. Ecco perché se n’è uscito con la questione dell’andare via. Perché ha visto la voglia tornare ed ha avuto paura di combinare qualche danno.
A me, in questo preciso momento, non frega più un cazzo. A non combinare danni per nove mesi, non ho guadagnato niente. La principessa mi perdonerà se, per qualche ora, la mando a fanculo, visto che lei lo sta facendo in favore di un re che dovrebbe – cazzo – essere morto.
Perciò niente, mi avvicino ancora e sfibbio un altro bottone. Fler indietreggia di un altro passo e trova il muro. Mi fissa con sgomento, quando solleva gli occhi su di me e mi trova a ghignare.
- Sei un tantino arrivato alla parete. – gli faccio notare con un mezzo sorriso.
Lui stringe le labbra, prima di parlare.
- Mi dai i brividi. – dice. E lo so. Do i brividi anche a me stesso. – Non voglio, Chaku.
- Peter.
- Chaku.
Scrollo le spalle e sfibbio l’ultimo bottone.
- Come vuoi. – faccio un altro passo verso di lui e siamo distanti appena un paio di centimetri. Sta schiacciato contro il muro, tanto è il bisogno che ha di non toccarmi. – Fler. Visto che ci tieni.
- Per favore. – chiede, ed a me viene ancora voglia di ridere. Potrebbe stendermi a cazzotti, se solo volesse. Potrebbe mandarmi a sbattere contro la parete opposta con uno spintone. Potrebbe rimettermi a posto in due minuti, non gli costerebbe nemmeno della vera fatica. Ma non lo fa. È debole, contro di me, ha una soglia di resa bassissima. Non so se questa consapevolezza, in questo momento, mi esalta o mi diverte di più. – Smettila.
- No. – dico seccamente, - Mi sono rotto i coglioni di smetterla. – lo afferro per i fianchi, tirandomelo contro. Impatto, scariche elettriche. Come sempre. Questo non cambia mai, Fler, come fai a non sentirlo?
- Chakuza! – mi chiama, più deciso, e fa il grave, gravissimo errore di posarmi le mani sul petto per cercare di spingermi via. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Quella che sembra vera solo a guardarla dall’esterno. Perché io che mi sento le sue mani addosso non l’avverto per niente. E mentre mi tocca se ne accorge anche lui, che non mi sta allontanando davvero. Glielo leggo negli occhi, che lo capisce. E che si chiede che cazzo stia succedendo. Che cazzo stia facendo io e che cazzo stia permettendomi di fare lui.
- Andiamo, Fler. – lo schiaccio contro il muro, le mani sotto la maglietta a divorare centimetri di pelle, - Non mi prendere in giro.
- Non voglio. – dice a fatica. La sua voce mi vibra sulle labbra mentre gli mordo il collo.
- Vuoi. – lo correggo, sporgendomi un po’ verso la sua bocca, - Non mentire.
- Tu sei uno stronzo. – ansima mentre armeggio con la cintura dei suoi pantaloni, - Sei uno stronzo e sei un bugiardo. Non dire a me di non mentire.
- In questo momento, non ti sto mentendo. – ringhio, infilando una mano oltre l’orlo dei jeans ed accarezzandolo lentamente attraverso il tessuto sottile dei boxer, - Quello che voglio lo sai. Manca solo che te lo chieda ad alta voce. Devo farlo?
- No! – ringhia, piegando un po’ il capo e socchiudendo gli occhi, lasciandomi scivolare le mani dal petto fino alle spalle e stringendo forte, - Cristo, no. Smettila. Non voglio.
E non l’ho ancora baciato. Non riesce nemmeno a lasciarmi andare. Non ho ancora neanche fatto finta di baciarlo.
Lo faccio, perché a Fler piace baciare. Ci si perde. Mi spingo in avanti e gli catturo le labbra con le mie. Le sto forzando con la lingua il secondo successivo, anche se forzare non è il termine più adatto, perché le trovo già schiuse in attesa di me appena le sfioro. Come dicevo, a Fler piace baciare, oh sì, gli piace un monte. Ci si perde del tutto e non capisce più niente. È l’effetto che su di me ha il sesso. A lui bastano i baci. Ciò dimostra che è un ragazzino, lo è sempre rimasto malgrado tutto ed io sono davvero lo stronzo che dice lui. Molto semplice. Non ho voglia di sentirmi in colpa anche per questo, al momento. Basta già il pensiero di star tradendo Bill. Che, cazzo, se lo merita. Ma mi fa sentire in colpa lo stesso.
- Chaku… - ansima esausto quando mi allontano da lui e faccio per tirargli via la maglietta di dosso, - Cristo, sei una merda. Smettila, per favore.
- Stai piagnucolando come un ragazzino. – gli faccio notare, mordendogli una spalla da sopra il tessuto, - Se mi vuoi fuori dai coglioni, prendimi a calci. Altrimenti lasciami fare senza lamentarti.
- …sto cercando… - deglutisce, piegando il capo mentre risalgo con le labbra la linea del suo collo, - …di non farti del male. Stai già male.
- Sto alla grande. – ritorco, spogliandolo di prepotenza, - Mai stato meglio.
Lui non mi guarda. Quando non mi guarda è perché sa che mi basterebbe guardarlo negli occhi per leggerci dentro che pensa io abbia torto. Non vuole darmi torto. Cristo. Perché dev’essere così? Sarebbe molto più facile – sarebbe molto, molto più facile – se fra me e Fler non ci fosse niente. Almeno non lo conoscerei così a memoria. E non potrei elencare così alla perfezione tutte le centinaia di modi in cui gli sto facendo del male adesso.
Lo so, Fler. Lo so che ti sto passando addosso come un fottuto carro armato. Lo so che ci stai di merda. Lo so. So anche perché non riesci a dirmi no, cazzo, da qualche parte dentro di me l’ho sempre saputo. Ma non ce la faccio a fermarmi. Non voglio. Non riesco a trovare un motivo per farlo, non ci riesco neanche provandoci. Bill non è un motivo, in questo momento. E Bill è stato un motivo per quasi tutto l’ultimo anno della mia esistenza. Perciò mi fa male che non lo sia più. E non ce la faccio a fermarmi, a queste condizioni. Non ce la faccio e basta.
- Spegnimi il cervello. – glielo soffio addosso come un’implorazione. Suona affranto e sconfortato allo stesso modo, almeno alle mie orecchie. Gli sfioro una guancia con le labbra, non è un vero bacio, è solo uno sfregamento, però è una cosa intensa. Lui si irrigidisce e si tende tutto sotto le mie mani. Lo guardo negli occhi, prima di continuare. – Spegnimi il cervello. – ripeto, - Sei sempre stato bravo a farlo. Non dirmi di no. Per favore.
E lui in effetti non me lo dice. Le sue mani – che sono ancora sulle mie spalle. Lo sono come lo erano quando siamo usciti da quella dannata stanza. Il modo in cui Fler mi tocca non è mai davvero cambiato – scivolano verso l’alto, lungo il mio collo. Mi aggancia alla nuca e mi accarezza con una tenerezza che con il sesso non c’entra niente.
Ecco, questo mi calma.
…questo mi calma.
La sua fronte sfiora la mia e restiamo a guardarci negli occhi da una distanza minuscola.
- Devo farlo. – mi sussurra sulle labbra, con un mezzo sorriso, - Bill non resterà per sempre chiuso in quella stanza, Peter. Quando ne uscirà, dovrete parlare. Ed allora desidererai di non aver scopato con me. – si prende una pausa, continua ad accarezzarmi la nuca ed io mi sento esplodere il cuore. – Non voglio essere un rimpianto. Tu me lo devi, questo. Non puoi fare di me un rimpianto.
Saranno le carezze, non lo so. Sarà la sua voce, che è di nuovo dolcissima.
Sarà che ha ragione. Non posso. Nemmeno voglio. Fare questo, che sia a Fler o che sia a Patrick… no, non voglio.
Comunque mi allontano. Lo faccio senza piacere, perché staccarmi da lui è difficile. Dio, lo è sempre stato, anche quando passavamo il tempo a cazzeggiare, figurarsi se non lo è adesso che è tutto diverso, tutto complicato e tutto doloroso.
Mi allontano e gli lascio spazio. Lui mi ringrazia con un sorriso e si china a recuperare la maglietta. La indossa, riabbottona i jeans e si dà una sistemata generale senza guardarmi. Io non gli stacco gli occhi di dosso. Non sono pentito di aver lasciato perdere. Mi manca il suo calore, la forma del suo corpo e il suo odore, sì, ma in un certo senso mi mancano sempre. Quando non c’è Bill, quando sto facendo qualcosa di insopportabilmente noioso, quando guardo una cosa a caso che mi ricorda lui, queste cose mi mancano sempre. Quindi non c’è niente di diverso. Sono calmo. È riuscito a calmarmi e vorrei poterlo odiare per questo, ma non ci riesco.
- Mi dispiace. – ammetto a mezza voce mentre lui recupera la giacca e si muove verso la porta.
Lo sento ridacchiare piano.
- Lo so. – annuisce indossandola, - Tu sei un disastro. Ormai ci ho fatto il callo.
- …mi dispiace anche per questo. – sospiro. Lui annuisce ancora e mi saluta. È già sparito, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che possa realizzare che lo sta facendo.
A questo punto mi guardo intorno. I soprammobili sono a posto. Non c’è quasi niente per terra. È tutto molto ordinato.
Conto le opzioni che ho per passare il resto della nottata. Non sono molte, penso, mentre afferro soprammobili a caso e comincio sistematicamente a lanciarli in giro per la stanza.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla."
Note: …ebbene è successo XD Non so se ve lo aspettaste e, in caso ve lo aspettaste, se ve lo aspettaste così. Io e Tab – che questa shot l’abbiamo scritta insieme per il semplicissimo motivo che ci saremmo entrambe strappate i capelli dalla testa se avessimo dovuto scriverla da sole, per motivi diversi ma complementari XD – sappiamo con certezza che almeno una di voi (senza fare nomi e cognomi ma solo nickname: FedyKaulitz XD) ci era arrivata molto – ma molto – vicina. Per il resto, speriamo che nulla di ciò che è stato scritto qui sopra vi abbia deluso. Liz ci tiene a specificare che ama moltissimo Bushido e l’ha amato in questa shot in pratica come mai prima XD Tab ci tiene a rimarcare il suo odio, BTW. Quanto al resto, ci si vede venerdì per lo spin-off :)
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CRASH INTO ME

Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill, David/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo."
Note: …*risata malefica in dissolvenza*
Ed io tendenzialmente il mio lavoro l’ho concluso *indica la risata* ma a questo punto vi aggiungo anche che “La sospensione dell'incredulità è un particolare carattere semiotico che consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un'opera di fantasia”. A mio modesto parere (mio di liz) questa storia non è incongruente. Se avrete la bontà di aspettare, tutto sarà spiegato. Ma Tab ci tiene perché è paranoica *annuisce* E comunque è un concetto che piace molto anche a me, quello della sospensione d’incredulità, perciò, ecco, sospendetevi :*
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Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo.

SCHMETTERLINGSEFFEKT

C’è il sole, oggi. È una bella giornata, bella davvero, di quelle che poi da queste parti sono rare, perché il cielo di Berlino è quasi sempre una macchia grigia uniforme che ti dà l’impressione di essere un blocco di cemento. Ti sembra pesante allo stesso modo, almeno, ti sembra che a lasciartela cadere sulla testa ti schiaccerebbe a morte.
Dentro l’Audi nera d’ordinanza che mi è stata esplicitamente richiesta per mantenere il più possibile l’anonimato, io guardo il cielo di oggi – che non è grigio, ma di un bel celeste arioso e fresco – e penso che sto andando a tirarlo giù. Lo sto facendo consapevolmente e colpevolmente. Ed anche se, col cemento, quest’azzurro non c’entra niente, penso che, quando ci cadrà in testa, sarà pesante comunque.
Mi chiedo se Bill sia diventato forte abbastanza da reggere il colpo. Mi chiedo se sia maturato abbastanza, se le sue spalle si siano inspessite, se le sue gambe siano diventate più robuste, le sue braccia più salde. Me lo chiedo e lo rivedo come l’ho visto due giorni fa, prima che Chakuza lo caricasse in macchina per portarlo a Disneyland. Lo vedo piccolo e sottile e stupidamente felice come ha reimparato ad essere solo di recente. E realizzo che potrebbero passare anche anni, ma un colpo simile Bill non riuscirebbe a sostenerlo proprio mai.
*
Osservare le cose dall’esterno, in questi ultimi mesi, è stato come osservare delle piante ricrescere in giardino dopo l’inverno. Tra l’altro, il paragone è più che appropriato – suppongo che le metafore azzeccate siano ciò che mi resta in eredità dei Bed&Breakfast e degli aiuti a Bill quando ancora si rivolgeva a me se doveva scrivere una canzone – perché intorno a dicembre io mi sono guardato intorno e, proprio come un giardiniere, ho portato con desolazione le mani ai capelli e mi sono detto che, come niente, avrei perso tutto il roseto.
I problemi sono cominciati la notte – o meglio, l’alba – in cui Tom, strillando come una scimmia isterica, mi ha chiamato al telefono, implorandomi di andare subito a casa sua, perché Bill “palesemente s’era rincoglionito e lui aveva bisogno di una mano per tirarlo fuori dal pantano di merda in cui era caduto”.
Tom tende ad iperreagire, quando si tratta di suo fratello, questo c’è da dirlo. Basta toccarglielo e lui impazzisce. Gli ho visto fare delle cose assurde – investire la discografia di Bushido non è stata neanche la più allucinante; per dire, sono stato io ad applicare cerotti su cerotti su quella sua allucinante faccia da schiaffi, quando è tornato una notte alle quattro abbaiando che “quelli non erano rapper ma animali”. Alla mia domanda legittima – “Cosa hai fatto per meritare le botte, Tom?” – lui ha risposto altrettanto legittimamente – “Ho dato a Bushido del pedofilo” – e, a quel punto, sono stato io ad abbaiare “tu non sei un chitarrista, sei un microcefalo”. Questo per dire che, quando entra in conto Bill, Tom smette di ragionare e segue il flusso dell’amore indiscusso che prova per lui. Solo che è un cretino, quindi come si muove sbaglia.
In ogni caso, questa tendenza all’esagerazione di Tom mi ha portato a prendere sottogamba la questione. Voglio dire, io dormivo, quando lui ha chiamato. Per cominciare a ragionare con un minimo di senso, a me serve del caffè. E non ho mai del caffè in casa prima delle sette, perché per preparare del caffè devo prima alzarmi dal letto, naturalmente, e ciò non avviene quasi mai prima di quell’orario, a meno di casi straordinari. Quindi, in poche parole, ho cercato di calmarlo e rimandarlo a nanna – sperando che ci fosse stato, a nanna, almeno per qualche ora.
Il problema – enorme – di Tom è che, quando sragiona, si fissa. Non ne esce più. Ha odiato Bushido per anni, cominciando vagamente ad accettare l’idea della sua presenza – e più con rassegnazione che con piacere – solo qualche mese prima che morisse, per dire. E tutt’ora prova dell’antipatia palese per Chakuza, nonostante non sappia cosa c’è in realtà fra lui e suo fratello, perché a suo dire è troppo presente nella vita di Bill. E, ripeto, Tom non ha idea dei modi e delle misure in cui Chakuza è presente nella vita di Bill. Non sa che la vita di Bill è ancora una vita e non un insieme di vuoti solo perché Chakuza li riempie tutti. Non sa che c’è lui dietro ad ogni sorriso, ad ogni occhiata dolce, ad ogni gesto tenero di suo fratello. Non sa che Bill ha ricominciato a respirare davvero solo perché ora può farlo anche dalle sue labbra. E, pur non sapendo tutte queste cose, lo malsopporta.
Tom si è fissato anche quella notte. Mattina. Insomma. Non c’è stato verso di scollarlo dal telefono, perciò alla fine mi sono rassegnato, mi sono vestito, ho mandato giù del latte di soia nella speranza che risvegliare il mio apparato digerente servisse anche a risvegliare il resto del mio corpo e mi sono messo in macchina, alla volta dell’appartamento del mio angosciato chitarrista.
All’arrivo, Tom mi ha accolto con aria tesa. In genere, quando sclera, Tom è molto buffo, perché si agita tanto, strilla e strepita. Se ritiene tu non stia capendo abbastanza profondamente il motivo del suo sgomento, ti scuote per le spalle. Come se servisse a qualcosa. Quella mattina, invece, me lo sono ritrovato che mi fissava serio, le sopracciglia aggrottate, tutto intento a torturare coi denti il labbro inferiore, fino a screpolarlo.
“Sono sconvolto,” mi ha detto, mentre mi invitava ad entrare ed a chiudermi la porta alle spalle.
“Sì, lo vedo,” ho risposto io, appendendo la giacca all’attaccapanni e sbirciando lungo il corridoio verso l’unica luce che vedessi, e che proveniva dal salotto, “Qual è il problema?”
Tom ha esitato, prima di rispondere. Ha deviato un po’ lo sguardo verso un punto vuoto oltre le mie spalle, e poi è tornato a guardarmi fisso ed ha schiuso le labbra.
“Che Bill non lo è. Non è sconvolto. È questo, il problema.”
In realtà, questo era parte del problema. Io sono abituato a guardarli tutti in faccia e nel complesso, i drammi. Il mio mestiere è sbrogliarli. Risolverli. Fare in modo che tutto si concluda bene. E sono bravo a farlo – è questa la ragione per cui mi trovo oggi in questa posizione del cazzo. Tom no, Tom del problema vede solo quello che gli interessa. Come quando suo fratello è stato male e ciò ci ha costretti a cancellare un tour; per Tom, l’unica cosa importante era il dolore di Bill, non il dramma economico e pubblicitario che da quelle cancellazioni sarebbe derivato. In quel caso, fu la stessa cosa.
Suo fratello aveva ucciso Saad. Saad era l’uomo che aveva ucciso Bushido. Fler e Chakuza gli erano rimasti accanto per tutto il tempo e non avevano mosso un dito che fosse uno per fermarlo. Questo era il problema nella sua completezza. Ovviamente, però, a Tom interessava solo che suo fratello non fosse turbato quanto sarebbe stato giusto dall’aver premuto il grilletto e spedito un proiettile nel mezzo della fronte di un altro essere umano.
L’apatia di Bill – se poi di apatia si poteva parlare; io, per dire, l’avrei descritta più come serena accettazione – non era dunque tutto il problema. Ne era però una consistente parte, e questo era abbastanza chiaro. Io, Bill, lo trovai seduto sul divano che guardava fisso davanti a sé senza particolare interesse, come stesse guardando scorrere l’acqua di un fiume. Pure un po’ annoiato, per la verità.
Quando mi raccontò cos’era successo – ripetendo le stesse parole che aveva già detto al fratello, immagino, perché sembravano rodate. Di quei discorsi che vengono fuori dopo che te li sei ripassati mentalmente almeno una ventina di volte – lo fece con incredibile calma. Con enorme compostezza. Le mani rigide strette in grembo, le ginocchia che si sfioravano, il petto scosso appena dai respiri. Sul volto, un sorriso rassicurante e serafico che mi diede i brividi. Me li dà ancora, a ripensarci.
Bill non ha omesso niente, nel racconto. Tant’è che quando, per scrupolo, sono andato da Fler a chiedergli la sua versione dei fatti – anche per capire cosa ne avessero fatto del corpo. Ed è incredibile con quanta freddezza si possa arrivare a pensare, quando hai già visto un altro uomo morire – non l’ho trovata differente nemmeno in un punto.
Bill non ha cominciato ad avere un problema quel giorno. Bill ha cominciato ad avere un problema quando il suo problema principale è svanito.
Durante i mesi precedenti all’assassinio di Saad, Bill aveva vissuto con l’unico obiettivo di mettere il punto a quella storia. Voleva essere lui a farlo perché lo sentiva come un suo diritto. Anzi: perché Bushido gli aveva dato quel diritto. L’aveva fatto portandoselo a letto, dicendogli di amarlo, rendendolo una parte tutt’altro che ininfluente della propria esistenza. Facendolo suo, in pratica. Bill, quel diritto, l’aveva per concessione regale, per dirla con parole che a Bushido farebbero anche un gran piacere. Non credo che Bill pensasse di farlo fuori fin dall’inizio, eh. Penso però che volesse essere lui a trovare il modo in cui concludere la storia. E penso che, quando ha guardato Saad negli occhi – forse anche prima, forse anche solo pensando a come si sarebbe sentito guardando Saad negli occhi – abbia deciso che quello andasse bene. Che un proiettile fosse sufficiente.
Risolta la questione, Bill ha cominciato ad appassire. È una cosa piuttosto normale, credo: il fiore ha un fine. Il fine del fiore è il frutto. Il fiore muore, appena il frutto nasce.
Cosa sia successo fra Bill e Chakuza, io non lo saprò mai con certezza. Bill non ne parla volentieri. Neanche con me, pure se ha dovuto per forza informarmi almeno in parte di ciò che stava succedendo, visto che – come sempre – a me è toccato coprirlo. Con suo fratello, con la stampa, col mondo, sostanzialmente. Mi è sembrato di ripetere l’esperienza Bushido, per certi versi. Quasi avrei voluto dire a Bill “l’hai visto, com’è andata la prima volta. Allora?”.
Bill non parla di Chakuza perché Bill ha un modo molto intenso di vivere le storie d’amore, quando iniziano. Visto che è una testa dura e si caccia sempre in situazioni complicate, è naturale che poi abbia paura di distruggere tutto e vedere il frutto della propria fatica spargersi sul tavolo come un castello di carte abbattuto da un soffio. “Meno ne parlo”, pensa, “più facile sarà che resti tutto in piedi”. Quindi, anche se io so dove va a dormire, e con chi esce, e con chi scappa a Disneyland, e di chi sono i segni rossi che ha sul collo quando arriva agli studi brillando di luce propria, non saprò mai nel dettaglio com’è che i fatti si sono svolti. Come si siano mossi. Quando abbiano cominciato.
Per certi versi, è molto meglio così. Perché sono bravo a coprire le cose, ma ci sono persone alle quali non riesco a nascondere quasi niente.
Purtroppo, da un annetto a questa parte, lavoro alle dirette dipendenze di una di queste.
*
Fatto sta: Bill e Chakuza stanno insieme, e per quanto io abbia svariati milioni di motivi per pensare questo sia l’errore del secolo, per quanto io continui intimamente a credere che probabilmente avrei dovuto recuperare Bill per i capelli e riportarlo dalla parte giusta della Germania quando Bushido è morto, devo purtroppo ammettere che Bill non sarebbe qui – bello, in salute, possibilmente neanche vivo – se non ci fosse stato Chakuza. La tensione che ha tenuto Bill insieme quando Chakuza non c’era era la furia con la quale lui cercava di sfuggire a ciò che stava provando nei suoi confronti. Quando quella tensione si è sciolta – quando Bill ha smesso di fuggire – si sarebbe certamente disfatto, se a quel punto non ci fosse stata una forza di tutt’altro tipo a tenerlo insieme. La forza di tutt’altro tipo, nel caso di specie, è quella delle braccia di Chakuza. Delle sue spalle, della sua strana, complicata maturità e di quello che prova per Bill.
Chakuza, Dio mio, lo adora. Anche Bushido lo adorava, ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso, nei loro sguardi, che è evidente se solo li si sa guardare. Bushido guardava Bill come fosse una cosa propria, quasi un pezzo di corpo. I suoi occhi riflettevano un senso di appartenenza che rendeva Bill orgoglioso.
Chakuza, invece, lo guarda come se fosse un regalo. Qualcosa di totalmente inaspettato, che è nuovo ogni volta che cambia la luce, il giorno, l’angolazione o la prospettiva. Qualcosa di diverso che non riesce ancora a capire perfettamente e che, anche per questo, lo avvince. I suoi occhi riflettono un senso di gratitudine che rende Bill orgoglioso. Ancora. Credo che Bill abbia pensato che non avrebbe mai più provato niente del genere. Ed invece è capitato di nuovo. È per questo che Bill guarda Chakuza con la stessa gratitudine con la quale viene osservato.
Per certi versi, ciò che lega loro due è molto più maturo di ciò che un tempo ha legato Bill a Bushido.
Questa sarebbe una cosa bellissima. Se solo io oggi non fossi in questa dannata Audi nera di merda. Direzione aeroporto.
*
Bushido era un uomo molto organizzato. Il fatto che, generalmente, si comportasse come un cretino – divertendosi a tirare scemo chiunque, per esempio – mi ha spesso fatto perdere di vista la verità fondamentale per la quale, per fare il suo mestiere e gestirsi adeguatamente, uno debba per forza esserlo.
Il mestiere di Bushido… è complicato definirlo. Bushido era un cantante. Fin qui, tutto chiaro. Bushido era anche un personaggio pubblico, e questo faceva mestiere a sé indipendentemente anche dal canto. Era famoso perché cantava, ma non era rimasto famoso solo perché aveva cantato. Mantenere un’immagine pubblica che ti tenga di continuo sulla cresta dell’onda non dipende solo da quanti biglietti riesci a vendere in occasione di un concerto, o da quanti dischi d’oro riesci a piazzare appesi alle pareti dei tuoi studi. Serve altro, servono le sbruffonate, l’iperpresenza sugli schermi – di qualsiasi tipo – serve del fascino e serve saperlo usare. Bushido, in tutto questo, è sempre stato bravissimo. Suppongo fosse così perché s’è sempre gestito da solo, fin da piccolo. Errori su errori, a un certo punto impari.
In aggiunta a tutto questo, l’altro mestiere di Bushido – un lavoro a tempo pieno – era quello di non perdere contatto con le proprie origini. Quando vivi in un bel quartiere residenziale, circondato da alberi rigogliosi, con una piccola piscina sul retro, Spongebob in televisione e World Of Warcraft sempre acceso sul pc, ci può anche stare che ogni tanto ti dimentichi di essere venuto da un ghetto, dallo spaccio e da tutto il resto.
Bushido non era un criminale.
Non più, almeno.
Ma c’era un pezzo di lui che era rimasto a Tempelhof. Era un pezzo di lui che aveva il suo valore. E che in caso di bisogno doveva farsi valere.
Quindi no, Bushido non era un criminale. Ma aveva ancora un nome che sapeva farsi rispettare, se qualcuno aveva bisogno di un favore.
Ed anche questi sono mestieri, suppongo.
È evidente, comunque, che quando devi gestire tre situazioni così diverse fra loro – devi cantare e devi essere un pagliaccio e devi anche ricevere all’Ersguterjunge gente che ti parla dei suoi problemi in stile Padrino, ecco cosa intendo – devi anche saperti organizzare. Devi essere uno che guarda piuttosto avanti nel futuro, uno che capisce come andranno le cose prima ancora che quelle comincino a muoversi in una determinata direzione. Perché non puoi permetterti di essere impreparato di fronte ai casi della vita, no, devi prevederli sempre e devi prevederli tutti.
Nella maggior parte dei casi, non puoi nemmeno farcela da solo. Anche se Bushido, ammetto, si destreggiava più che bene anche prima che arrivassi io.
Io non ho capito cosa Bushido intendesse esattamente quando mi ha chiesto se ero bravo a sistemare le cose, almeno fino a che non ho avuto qualcosa da sistemare per lui. E questo è successo tre giorni prima che morisse.
Tre giorni prima che morisse – prima ancora di andare da chiunque altro, sospetto – Bushido è venuto da me. Mi ha detto chi era, mi ha tenuto fermo in una kebaberia per circa tre ore solo per descrivermi da dove veniva, cosa c’era nella sua testa e, soprattutto, cosa stava preparandosi ad affrontare.
Dopodiché, senza nemmeno chiedermi se per caso mi andasse di farmi assumere da lui, ha cominciato a darmi direttive.
Non è che abbia dato per scontato il mio assenso, eh. Questo ci tengo a precisarlo, perché Bushido non ha mai dato per scontato nulla. Anzi, è probabilmente l’uomo che si aspetta di meno in assoluto, dalla vita. Direi quasi che non si aspetta proprio un bel niente. E tutto il suo modo di pensare, di agire e di risolvere le cose, si esprime così. Proprio perché non si aspetta nulla di gratuito, lui le cose se le prende. Il mio assenso – la mia complicità… quello che ora si esprime in me che viaggio verso l’aeroporto – lui non l’ha dato per scontato. Se l’è preso. Punto.
Insomma, gli ordini erano molto semplici: “nel caso dovessi morire – nel caso, Jost, non fare quella faccia, lo so che ti mancherei più di quanto potresti sopportare, ma cerca di essere uomo e forte” “Bushido, fottiti” “Oh! Come sei sboccato” una risata delle sue, “Nel caso dovessi morire, Jost, a Bill sto già pensando da adesso. Chakuza, uno dei miei, non è ancora nel giro come gli altri. Non che sia un pivello, è solo che la sua testa fa più resistenza. Sarà che è austriaco. Sarà che è un cuoco. Sarà che stava in fattoria coi genitori, tipo. Sarà che era biondo ossigenato, quando l’ho conosciuto” e giù altre risate, “Comunque a Bill penserà lui. Lo terrà su di morale. Ma non posso contare sul suo lavoro per tenerlo anche lontano dai guai con la stampa. Quello posso tranquillamente affidarlo a te – posso, vero? – tu le sai sistemare, queste cose”.
Al di là del suo essere come al solito un intollerabile buffone, si capiva lontano un miglio stesse parlando con estrema serietà. Questo per il semplice fatto che Bushido era un uomo molto orgoglioso. Non arrivava a chiedere niente, se non sapeva di averne effettivo bisogno. È uno dei motivi per cui, quando Bushido chiedeva, la gente non si tirava mai indietro. Perché ci si rendeva tutti immediatamente conto del fatto che c’era evidente necessità.
Quando, tre giorni dopo, Tom mi chiamò per dirmi che lo stronzo era morto, che Bill piangeva avvinghiato al suo dannato cadavere fino a pochi minuti prima e che adesso il corpo era in viaggio verso l’ospedale – “…l’ospedale, Tom?” “…sì. Era ancora… respirava. Poco. Ma respirava. A Bill non l’ho detto.” – io sono andato lì solo perché dovevo preparare l’ospedale all’arrivo del mio protetto. Era ciò che mi aveva chiesto Bushido, in fondo, no? E conoscevo Bill abbastanza da sapere che, una volta realizzato che il corpo del suo uomo non era più lì, non gli stava piangendo addosso e non lo stava sentendo sotto le mani, la prima cosa che avrebbe chiesto – e l’avrebbe anche ottenuta, perché Tom, alla fine, non riesce a negargli mai niente – sarebbe stato farsi portare dovunque fosse lui.
Dovevo disporre la sicurezza. Dovevo parlare coi medici. Dovevo parlare con le infermiere.
Di certo non mi aspettavo che, appena messo piede nell’edificio, un medico mi raggiungesse e, con aria piuttosto seria, mi rivelasse candidamente che “avevano avuto esplicita richiesta di conferire solo con me”.
A ripensarci, rivedo la scena con una perfezione tale che non sembrano passati nemmeno due giorni. E invece è quasi un anno. Il medico che mi si avvicina – “Il signor Jost?” – io che esito – “Sono qui perché-…” – lui che mi interrompe – “Abbiamo ricevuto esplicita richiesta di conferire solo con lei” – io che lo fisso disorientato – e penso: è arrivato fino a questo punto, quell’essere assurdo? È venuto a parlare perfino coi medici, in previsione della propria morte? – e lui che mi poggia una mano sulla spalla e mi conduce di là. E Bushido sul lettino.
Mentre i miei ricordi indugiano sul suo volto pallido e provato – Bushido aveva la capacità di diventare, tipo, bianco, quando stava male. Non un bianco da carnagione chiara, un bianco spaventoso, cadaverico. Appropriato, direi, vista la situazione in cui si trovava in quel momento – le porte a vetri smerigliate e scorrevoli della sala arrivi dell’aeroporto si spalancano, ed io osservo il flusso di turisti americani che sfilano allegramente fra i nastri trasportatori per recuperare i bagagli e godersi un po’ di sane vacanze europee; osservo anche i tedeschi che tornano dalle spiagge d’oltreoceano, arrossati dal sole e con certi sorrisi da pubblicità – non tanto per la perfezione, quanto per la felicità che mostrano – che ti riempiono il cuore; e fra una persona e l’altra, un po’ mescolato fra la folla, i capelli lunghi che sfiorano il collo, gli occhiali da sole a coprire quasi metà del viso ed il pizzetto curato a rendere anonima e irriconoscibile l’altra metà, osservo anche lui.
Si guarda intorno. Sta cercando me. Le linee nere e definite del tatuaggio sul collo spuntano appena, giocando a nascondino col colletto della camicia bianca che spunta dallo scollo a v del maglioncino di cotone blu che indossa. È, forse, un po’ troppo leggero per il periodo in cui siamo. È roba primaverile, mentre qui le porte dell’autunno si schiudono lasciando passare i primi spifferi di freddo. Immagino che i lunghi mesi di soggiorno a Miami abbiano un po’ sfasato il suo termostato naturale. Ed era già sfasato di suo, eh, capacissimo di andare in giro in maniche corte in pieno inverno. L’ho visto coi miei occhi.
Quando finalmente mi trova, sorride. Ed anche se al momento vorrei alternativamente prenderlo a cazzotti, rispedirlo negli Stati Uniti con un calcio o terminare il lavoro che Saad non è stato evidentemente capace di concludere, sorrido anch’io. Perché mi tira fuori uno di quei sorrisi brevettati ai quali non puoi sfuggire. Sono cose solo sue.
Peraltro…
- Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?
Bushido ride ad alta voce e posa l’enorme trolley rosso che si trascina alle spalle.
- Ti sono mancato, Jost? – chiede con aria fascinosa, piantando una mano sul fianco.
Io inarco un sopracciglio.
- Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro.
Lui finge disperazione ed inarca le sopracciglia verso il basso, sfilando gli occhiali da sole per potermi somministrare più disinvoltamente quella specie di occhiata da cucciolo bastonato che non so come riesca a tirare fuori all’occorrenza, dall’alto del suo abbondante metro e novanta.
- Ma mi hai fatto tornare tu! – si lamenta con aria affranta.
Io sospiro.
- Sì. – ammetto, - Ti ho chiamato io. – “e me ne sto già pentendo”, vorrei aggiungere. Ma lui ha ricominciato a sorridere. E insomma. – L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente.
- Sdrammatizzo, Jost. – mi corregge, riprendendo a muoversi disinvoltamente verso l’uscita. Ricorda ancora tutto perfettamente, un po’ mi fa pensare che sia venuto altre volte, nel corso dell’ultimo anno. Altrimenti non si spiega la sicurezza con la quale si riappropria degli ambienti. Poi però ricordo che lui è Bushido, che le cose non le vive, le possiede, perciò non mi pare più nemmeno tanto strano che ricordi ancora perfettamente Berlino-Schönefeld.
Io sospiro ancora e gli vado dietro. Non ho nemmeno bisogno di guidarlo verso la macchina, ricorda anche lei. Pure se l’ultima volta che l’ha vista è stata quando l’ho accompagnato proprio a questo aeroporto, un anno fa. L’altra volta era in partenza, però. Stavolta è di ritorno. E non so ancora per quanto.
- Allora. – comincia tranquillamente, aspettando che abbia aperto il portabagagli per posare al suo interno la valigia, - Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. – aggiunge con una risata naturale.
È cambiato, tanto per cominciare, che il Chaky non ti vuole solo chiudere l’azienda, ma si diverte anche a chiudere il tuo ex ragazzo nel proprio appartamento. Con la di lui complicità e per la sua gioia, peraltro. Gioia che condividono solo loro due, inoltre, perché in quei periodi Tom sclera – e sto finendo le scuse plausibili al riguardo, lo ammetto. Credo di aver raschiato il fondo con “è in beauty farm”, la settimana scorsa – ed io non me la passo mai in maniera piacevole, quando Tom sclera. C’è di nuovo anche che, ricordi l’altra tua ex? Cassandra? Ecco, quando Tom non è impegnato a sclerare perché non capisce con chi sta uscendo suo fratello, si vede con lei. E non credo giochino a scacchi, quando lo fanno. C’è poi quell’altro tuo ex ragazzo, quello che non è mai diventato tale, Patrick, lo ricordi lui? Ecco, lui me lo sto perdendo. Non credo di aver mai visto Fler triste com’è in questo periodo. Ed è un anno che ci gira intorno, sai? Non è bello quando vedi uno che sta decorosamente bene ridursi così. Ed i motivi, peraltro, sfuggono a tutti meno che a me, perché grazie a te – o per colpa tua – ho imparato ad osservare.
Sono cambiate un mucchio di cose, Bushido. Del tipo che prima si stava bene. E adesso è un casino. Ma come si fa a dirtelo?
- Be’, fa più freddo. – annuisco con aria competente, - Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?
Lui scrolla le spalle ed entra disinvoltamente in macchina.
- Non ho lasciato niente lì. – risponde sovrappensiero, quando mi osserva sedermi al posto del guidatore. Lo guardo con sincero sgomento. – Intendo… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-
- Bushido… - lo recupero dal vortice di pensieri assolutamente inopportuni in cui si sta allegramente gettando, - ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-
- Tranquillo, Jost. – mi interrompe con uno sbuffo infastidito, - Non ho intenzione di restare più del necessario.
Al che, giustamente, mi viene da rispondere “No, noi avevamo concordato che non saresti rimasto più di un mesetto, giusto il tempo di risolvere la questione. Com’è che adesso un mesetto è diventato il necessario? E perché il necessario mi fa paura, come periodo di tempo?”. Però non lo faccio.
- Sarà. – borbotto scontento, mettendo in moto. – Comunque sia-
- Non mi farò vedere da anima viva. – mi interrompe ancora, - Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?
- Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, - sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo, al momento. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo perché ricordo fin troppo bene che nove mesi fa le dita che adesso pestano sulla tastiera del cellulare, scrivendo messaggi diretti non so e non voglio sapere a chi, sfioravano la mia pelle. Non mi fa bene. Non mi fa bene per niente. Sono evidentemente un cretino. - …bentornato, ecco.
Bushido ride, non solleva gli occhi dal cellulare e mi molla un paio di pacche sulla spalla.
- Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu.
E se da un lato penso che, grazie a questa sfacciata naturalezza, per certi versi avere a che fare con lui è incredibilmente facile, dall’altro lato penso che lo odio. La mia giornata di oggi è un continuo realizzare che, da questa situazione, non riusciremo mai ad uscire vivi.
*
Ho appena lasciato Bushido in uno dei numerosi appartamenti che ha continuato a tenere qua a Berlino nonostante, quando è andato via, non si pensasse minimamente all’eventualità che potesse tornare. In realtà, il fatto che ci fossero ancora tutti questi appartamenti a suo nome, qui nei dintorni, avrebbe dovuto darmi da pensare in tal senso. Voglio dire, non tieni la zavorra inutile di dieci dannati posti vuoti, se non pensi che prima o poi tornerai a utilizzarli. Soprattutto, non li tieni quando sai che la tua etichetta è destinata a chiudere e sai anche perfettamente che, vendendo quelli, potresti tranquillamente sopravvivere di rendita per tutto il resto della tua esistenza. Quindi sì, in effetti avrei dovuto pensarci. O avrei dovuto costringerlo – convincerlo, Bushido non lo costringi mai – a venderli.
Gli ho promesso il kebab per cena. Quell’uomo, alle volte, è un bambino. Nel senso che se gli prende un capriccio, vallo a smuovere, poi. Non si può. Avrei potuto fargli la spesa e preparargli un buon piatto di pasta – dice di aver imparato a cucinare, mentre stava a Miami, ma che vuoi che si impari a cucinare in America? Gli hot dog? – ma lui no, lui vuole il suo intruglio malefico e disgustosamente piccante che peraltro io non posso mangiare in quanto riempito fino a esplodere di carne varia ed eventuale, ovviamente. Niente pasta, il kebab, per lui. È stato palesemente troppo lontano da casa.
Perciò, è cercando una kebaberia che chiamo Bill al cellulare. Giusto per capire se sta bene e se si diverte. O forse solo perché mi sento in colpa.
- David! – strilla lui, la voce che sprizza gioia ad ogni nota, come nei migliori casi di esaltazione zucchero-indotta. Chakuza deve averlo ingozzato di dolcetti.
Sorrido intenerito, anche se, da qualche parte dentro di me, sto strillando “santo cielo” in tutte le lingue che conosco. E non sono così poche.
- Bill, ciao. – lo saluto, individuando finalmente una kebaberia ed introducendomi all’interno dell’ambiente caldo e saturo dell’odore forte delle cipolle, delle olive, delle salse piccanti e della carne che ruota sullo spiedo. – Dove sei?
- Disneyland! – riprende a strillare. E lo immagino sollevare un braccio in segno di gioia. Come il bambino che sta ricominciando ad essere da quando può. – Puoi crederci? Siamo appena usciti… entrati… cioè, siamo usciti dal parco ed entrati in albergo! – e sottolinea l’imbarazzante confusione da allegria con una risatina sottile e divertita.
- Aha, capisco… - mugugno, indicando al ragazzo dietro al bancone di preparare due panini con… be’, tutto quello che vuole metterci, è indifferente. – Sei con… - ed esito, perché ho paura a parlarne con Bushido che mi aspetta in quell’appartamento buio e silenzioso a qualche strada da qui.
Bill, comunque, non mi lascia rispondere. È ansioso di dirlo lui, quel nome.
- Sìsì! – miagola entusiasta, - Sono con Peter, stiamo decidendo se andare fuori a cena! E oggi mi ha comprato un mucchio di caramelle, non è carino?
- …già. – annuisco a fatica, - Molto. Senti… pensate di rientrare in settimana? O comunque a breve?
- Assolutamente no! – ride ancora lui, - Avanti, David, è il nostro mesiversario, te l’ho detto tre giorni fa! Non starai mica per dirmi che c’è del lavoro da fare…
Per un secondo, accarezzo l’opportunità di smontargli i piani. Non perché non voglia che sia felice, tutt’altro, dubito che esista un’altra persona al mondo – a parte Tom – che voglia Bill felice più di quanto lo voglia io. Solo che mi viene da pensare che fra poco ricorrerà il compleanno di Bushido. Sarebbero trentun anni, se non fosse morto. Che poi non è morto davvero, d’accordo, ma certe volte – in maniera del tutto irrazionale – mi viene da pensare che Bill questo lutto non l’abbia vissuto per niente bene. Che si sia distratto troppo.
Non lo so, in realtà non mi pare che il lutto di Bushido sia stato davvero vissuto per bene da qualcuno. Forse solo da sua madre. La cosa è un po’ ironica e un po’ – tanto – triste. Vorrei solo che Bill non fosse con Chakuza, adesso. E lo penso mentre il ragazzo dietro al bancone mi consegna i due panini incartati e insacchettati.
- No, no. – lo rassicuro con una mezza risata, porgendo al ragazzo una banconota da dieci, e attendendo il resto, - È tutto a posto. Volevo solo esserne sicuro. Per stasera non ci sentiamo più, giusto?
- No, infatti. – annuisce lui, più tranquillo, - Pensavamo di fare tardi. – aggiunge poi, con una mezza risatina.
Sospiro profondamente, intascando le monetine e tornando in strada.
- D’accordo, Bill. Avete il mio benestare, anche se volete andare fuori a cena. Però, ti prego, non costringermi a correre dietro i paparazzi sventolando assegni nella speranza di salvaguardare la tua carriera e la tua immagine pubblica, d’accordo? – anche perché, vorrei aggiungere, pure se non lo faccio, dato che il giorno si avvicina, ovunque si stanno organizzando trasmissioni celebrative, concerti all’onore e bla bla bla. Tutta roba che quando la racconto a Bushido lo fa ridere di gusto. “Non sono mai stato amato tanto,” si lamenta giocosamente, “quando ero vivo”. Mi sa che ha ragione.
Bill non coglie il sottinteso del mio discorso. Meglio così, in fondo.
- Sì, sì, lo so. – si lagna sbuffando, - Niente baci, niente carezze, niente di niente in pubblico.
- Bravo. – mi complimento subito. – E… per quando tornerete a Berlino… - mi faccio forza perché devo dirlo. Devo dirlo per forza, perché non posso rischiare niente e se Bushido è in città io non posso mettere Bill nelle condizioni di farsi beccare da lui con Chakuza. Anche per un caso fortuito. Anche se quell’idiota decidesse davvero di non uscire ma si limitasse a guardare fuori dalla finestra e casualmente li vedesse. - …ho saputo da fonti fidate che Bravo è in cerca della paparazzata del secolo. Mi sa che non siete stati granché discreti ultimamente. – non è vero, sto inventando. Bill, però, non può saperlo. – Magari è meglio che tu e Chakuza vi vediate un po’ di meno, per le prossime settimane. D’accordo?
Il suo silenzio mi raggiunge come una stilettata in mezzo ai polmoni. Sento voci di persone, risate di bambini ed altri miriadi di rumori, tutti attorno a lui, ma lui resta in silenzio.
- …ma non ci siamo visti per niente, la scorsa settimana… - mugola scontento, - E presto dovremo rimetterci al lavoro…!
Ha ragione, insomma. Ha ragione.
- Bill, non mi deludere adesso. – ringhio, e sono irritato perché ho torto. – Un po’ di professionalità, Cristo.
Dall’altro lato della cornetta, lui esita, incerto.
- Non… - balbetta insicuro. Poi sospira. - …mi dispiace. È che ci vediamo così poco che… mi dispiace. Faremo come vuoi tu, David.
Il mio sospiro fa eco al suo. È ugualmente profondo e ugualmente affranto, almeno.
- Lo so, Bill. Lo so che è difficile. – e sono triste per Bushido, ma è Bill il mio bambino, in fondo. – Facciamo che alla prima pausa disponibile vi do due settimane solo per voi. – suggerisco con un mezzo sorriso che spero lui senta fra le vibrazioni delle mie parole.
- …due settimane? – chiede Bill, incredulo, - Intere?
- Sì. – confermo io senza un’esitazione. E non m’importa, in questo momento, se ciò significa che dovrò rispedire Bushido a Miami quanto prima, anche a costo di fare carte false. – Due settimane piene, senza nemmeno un impegno. Dì a Chakuza di organizzarsi. – concludo con una risatina.
L’urlo di gioia di Bill si fa attendere solo un secondo. Poi arriva, come previsto, spaccandomi i timpani e, in buona misura, anche il cuore. Io, davvero, non so che pesci prendere. Dovunque guardo vedo profilarsi disastri a lungo termine. Di quelli che rovinano la vita a lungo.
Io non ci credo che Bushido potrà passare per il suolo tedesco per poi tornarsene negli Stati Uniti senza colpo ferire. Io non ci credo, per il semplice fatto che quell’uomo non… non passa mai senza lasciare traccia. Non è neanche colpa sua. Non gli riesce e basta.
Allontano la cornetta dall’orecchio e parto con le lamentele di routine. Del tipo “Sono troppo buono, palesemente ti vizio, sei venuto su diva perché ti ho lasciato fare tutto quello che volevi” e così via. Bill mi ferma come al solito, ringraziandomi con quel tono dolce che non ammette repliche per il semplice fatto che, quando lo usa, ti sta parlando col cuore in mano.
- Saremo buoni buonissimi, David. Promesso. – cinguetta al settimo cielo.
Sorrido, inspiegabilmente soddisfatto di me stesso.
- Bravo. Ora vai, su. E divertiti.
Lui ridacchia appena.
- Lo farò. Grazie, David.
Mi si stringe il cuore.
- Figurati. Buonanotte.
Chiudo la telefonata prima che possa dire altro. Me lo vedo già che corre verso Chakuza, che chissà dove lo stava aspettando per non disturbarlo. È discreto, con lui. È gentile. È palesemente la scelta perfetta. La più perfetta che Bill poteva fare dopo Bushido.
Sospiro pesantemente.
- E tutto questo… - borbotto, incamminandomi verso l’appartamento, - perché quello mi ha scopato, una volta. Io devo essere completamente pazzo.
Genere: Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Al venti dicembre duemilaotto, Bill Kaulitz si aspetta un Natale normale. Ed invece gli capita fra le mani il Babbo. E va tutto per il verso sbagliato - ma chissà che invece non sia proprio il verso giusto, alla fine.
Note: C’è qualcosa di meraviglioso nel svegliarsi al mattino e rendersi conto di aver scritto qualcosa come nove pagine di storia (seimila parole, all’incirca) tutte di seguito XD Anche nell’assoluta incertezza della loro qualità effettiva, il pensiero di avercela fatta è esaltante XD Accidenti, comunque, a questa mia assurda mania di plottare storie destinate palesemente allo sviluppo in più capitoli e convincermi a farle partecipare ai contest come oneshot.
Questa storia è stata scritta per il Fidelity X-Mas Party ’08, proposto da Lokex. I punti da cui prendere ispirazione erano tre: bisognava ci fosse un cavallo (e Palla di Neve spero ricopra adeguatamente il ruolo con la sua apertura alare da tre metri e mezzo circa XD), un personaggio della letteratura (ed io ho deciso arbitrariamente che Babbo Natale è tale personaggio) e dovevano essere presenti le parole “fino a Natale”.
Il difetto principale di questa storia è che nella seconda parte si mette a correre in maniera spaventosa, e quindi, poverina, si rovina un sacco. Ma la prima parte mi piace molto e l’idea originale era meravigliosa: giustamente non era mia, ma di Nai. Me l’ha plottata in dieci minuti e poi abbiamo coccolato insieme l’idea finché non siamo state soddisfatte di ogni più minuscolo dettaglio, e solo dopo l’ho scritta XD In un certo senso, quindi, è decisamente una collaborazione. E c’è un pezzo di Nai in questo contest <3
A parte questo, non molto altro da dire: mi dispiace per l’aberrante lunghezza e spero non annoi XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A CHRISTMAS CAROL

Quello era indubbiamente Babbo Natale. Bill ne era sicuro. Da qualsiasi lato lo si guardasse, non c’erano dubbi che tenessero: era tondo, era vestito di rosso, aveva le guanciotte lucide e sporgenti, una lunga e morbida barba bianca ed un cappello col pon pon sulla testa. Lo fissava bonario come non avevano mai fatto nemmeno i suoi nonni e la sua pancia si sporgeva in avanti fin quasi a sfiorarlo ogni volta che respirava.
Oltretutto, era uscito dal suo camino.
Non poteva che essere Babbo Natale.
La cosa poneva Bill di fronte a tutta una serie di interrogativi che valeva la pena porsi. Del tipo “ma allora esiste davvero?”, molto differente dal più classico “ma allora non è vero che non esiste?”, perché in realtà Bill aveva sempre tenuto moltissimo a quell’intimissima parte di sé che non aveva mai smesso di credere alle fiabe. Perciò sì, sarebbe valsa la pena di prendersi un momento per rifletterci e sbottare in un “ha! Allora avevo ragione!” che poi sarebbe stato il caso di infiocchettare un po’ e passare a Tom come appropriatissimo regalo di Natale – “chi è che aveva ragione, Tomi? Ripeti dopo di me: Bill”.
L’uomo di fronte a lui, comunque, non gli diede tempo di riflettere su niente, perché si espresse in un rotondissimo “ho ho ho” e poi gli diede un paio di pacche sulla spalla, tranquillo, gioviale, serafico, come fosse perfettamente normale avere Babbo Natale in salotto.
Bill si guardò intorno. In casa non c’era nessuno.
Erano lui e il nonnino lappone. Un incredibile testa a testa.
- Caro Bill… - disse il vecchietto, sempre sorridendo, ed a Bill quasi venne da ridere a propria volta nel pensare che lui, da piccolo, ne aveva scritte tante letterine a Babbo Natale, cominciando appunto con “Caro Babbo Natale”, - sicuramente ti starai chiedendo perché sono qui.
Bill inclinò il capo e si grattò una guancia.
- Fra le altre cose, sì. – ammise annuendo.
Babbo Natale rise ancora.
- E ti starai probabilmente chiedendo anche perché io sia qui il venti dicembre, visto che i regali si portano il ventiquattro notte…
Okay, quindi Babbo Natale portava davvero i regali. Questo apriva delle prospettive meravigliose: se era davvero lui che portava i regali, perché tutti – perfino lui! – ricordavano sempre i pomeriggi di shopping festivo prima della fatidica sera? Babbo Natale governava le loro memorie? Dava loro dei ricordi falsi perché si illudessero sulla sua non-esistenza? La cosa cominciava a farsi complessa.
- …anche. – annuì Bill, che in realtà non se l’era chiesto perché era ancora impegnato a cercare un modo abbastanza crudele e sfacciato per dirlo a Tom.
- Ebbene… - Babbo Natale si chinò e recuperò da terra il sacco di iuta che aveva mandato in avanscoperta lungo la canna del camino, e sul quale poi Bill l’aveva visto agilmente cadere qualche secondo dopo, - ho un regalo in anticipo per te! – e, così dicendo, tirò fuori dal sacco un minuscolo cucciolo di unicorno.
Che era indubbiamente un unicorno. Bianco, col musetto tondo e rilassato, dormiva amabilmente e stava tutto raggomitolato su se stesso, la lunga criniera azzurra e lucente a scivolare sul collo, confondendosi con la foltissima coda ripiegata contro una zampetta. Ed un ridicolo abbozzo di corno tondo e dall’aspetto gommoso ad uscire dalla fronte, proprio sopra gli occhietti chiusi. Era talmente piccolo che stava tutto sul palmo della mano di Babbo Natale.
Il primo istinto di Bill fu sollevare una mano ed accarezzarlo. Il secondo, gongolare fra sé ripetendo al fratello immaginario che aveva nella testa “ma allora vedi che esistono anche gli unicorni? Haha!”. Il terzo – che poi fu ciò che fece – fu puntare un dito contro Babbo Natale, inorridire e strillare.
- Ma tu ci sei caduto sopra!!! Avresti potuto ucciderlo!!!
Babbo Natale rise bonario – il solito serafico “ho ho ho” che era davvero un suono tondo – e sistemò sul naso gli occhialini – minuscoli e cerchiati d’oro, Bill sospettava fossero anche abbondantemente inutili, visto che erano perfino più piccoli delle sue pupille. Occhiali decorativi, insomma.
- Bill, il sacco di Babbo Natale è un sacco magico. – spiegò, - Sai quante ernie mi verrebbero, altrimenti? I miei poveri reni ne risentirebbero. – aggiunse annuendo, - Le cose si materializzano solo quando io ne ho bisogno.
Bill inarcò le sopracciglia.
- Ma allora perché usare il sacco? Se le materializzi così…
Babbo Natale s’imbronciò come un bambino.
- Ma così è molto più carino! – motivò infervorandosi, e Bill non poté che dargli ragione. – Comunque sia, mi aspettavo di trovarti molto più ricettivo! – continuò sbuffando.
Bill si sentì tremendamente in colpa. Insomma, era Babbo Natale! Venuto a trovarlo anzitempo con un unicorno in mano, addirittura! Avrebbe dovuto essere più carino, con lui. Decisamente.
- Mi… mi dispiace. – mugolò affranto, stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, - Scusami, Babbo, è che la tua è stata una visita inaspettata, quindi… - si fermò e rifletté. Poi tornò a sollevare gli occhi in quelli puntuti e azzurrissimi del nonnino, e s’illuminò in viso. – Aspetta qui! – disse, allontanandosi a saltelli verso la cucina.
Tornò due minuti dopo con un piattino colmo di biscotti al cioccolato ed un bicchiere pieno di latte fino all’orlo.
- Ho ho ho! – rise felice Babbo Natale, poggiando l’unicorno sul pancione sporgente e battendo le mani, - Questa sì che è una bella accoglienza! – si complimentò, sedendosi al tavolo senza chiedere il permesso e poggiando sul ripiano di legno il cucciolo prima che finisse schiacciato fra il pancione e il bordo.
Bill si sedette accanto a lui e lo osservò ruminare biscotti ed annaffiarli col latte per una quantità di tempo indefinito, prima di poggiare il mento sul palmo della mano e guardarlo con aria inquisitoria.
- Dunque, Babbo… cosa ti porta da queste parti? – chiese, col tono più casuale possibile. Non voleva essere più sgarbato di quanto già non fosse stato.
- Ah, già! – disse il nonnino, tornando subito serio e ripulendosi le labbra col dorso della mano guantata, - Ho un enorme favore da chiederti, Bill.
Il moro lo osservò recuperare l’unicorno ancora dormiente e riposarlo sul palmo della mano, porgendoglielo.
- Come forse saprai, gli unicorni sono animali piuttosto rari. – cominciò ad istruirlo con aria professionale, annuendo fra sé, - Si dice siano estinti, ma non è così. In realtà qualche esemplare c’è ancora, ma sono molto pochi. Tanto pochi che, generalmente, i genitori stanno molto attenti a non perdere i piccoli in giro. – il nonnino inarcò le sopracciglia verso il basso, scontento. – Per qualche motivo, però, i genitori di questo cucciolino sono scomparsi. Ed è veramente molto piccolo, come vedi non gli sono ancora cresciute le ali…
Bill annuì partecipe, piegando le labbra in un broncio triste e giungendo le mani sul petto.
- Ma è terribile… - commentò, - ed i suoi genitori non si possono trovare…?
- Ho già messo una squadra di elfi alla ricerca. – annuì il nonnino, serissimo, - Ma ci vorrà del tempo, capisci?
Bill annuì e sfiorò teneramente il musetto dell’unicorno con due dita. Lui non mostrò neanche di accorgersene e continuò a dormire beato.
- Ora… fossimo in un altro periodo dell’anno, - ricominciò a borbottare Babbo Natale, mentre Bill si perdeva sulle lunghissime ciglia del cucciolo, - non ti chiederei mai un favore simile. Ma siamo proprio sotto le feste e sia io che Mamma Natale che gli elfi siamo molto impegnati coi preparativi, e con una squadra in missione in giro per il mondo non è tanto semplice conciliare il tutto, e i cuccioli di unicorno hanno bisogno di molte attenzioni, e…
Bill sollevò gli occhi sul nonnetto.
- …aspetta un attimo, Babbo. – cominciò allarmato, - Di che favore stiamo parlando?
“…ma soprattutto, vogliamo parlare di Mamma Natale?”, gli venne quasi naturale aggiungere. S’interruppe giusto in tempo, riportando alla memoria un’antica lezione impartitagli da David durante gli anni della loro gavetta e splendidamente riassumibile in “i filtri, Dio, Bill!, i filtri, quando parli!”.
Babbo Natale, comunque, si strinse imbarazzato nelle spalle.
- Ho bisogno di una persona fidata cui lasciare l’unicorno. – spiegò, - Capisci, qualcuno che possa prendersene cura. Solo per qualche giorno! – si affrettò a rassicurarlo, - Il venticinque sera verrei immancabilmente a riprenderlo, e per allora conto anche di avere ritrovato i suoi genitori!
Bill lo fissò, gli occhi enormi.
- Ed io sarei una persona fidata…? – chiese incerto, indicandosi. Generalmente, solo suo fratello era tanto stupido da pensare di lui una cosa simile senza pensare anche a quanto fosse drammaticamente inesatta, per voler usare un eufemismo.
Babbo Natale annuì compiaciuto.
- Sì, Bill. Tu ti affezioni alle cose e credi nella mia esistenza ed anche in quella degli unicorni, quindi sei la persona più adatta. Ma soprattutto… - aggiunse con aria grave, agitandogli un dito guantato di fronte al naso, - sei ancora vergine. E, com’è noto, solo i vergini possono domare gli unicorni.
Incerto fra la possibilità di sprofondare in un baratro da aprire nel pavimento grazie alla forza del proprio imbarazzo, e quella di scappare via il più lontano possibile più o meno per lo stesso motivo, Bill arrossì.
- Io non… - biascicò, ma si rese presto conto dell’inutilità di mentire di fronte a Babbo Natale. - …sì, capisco. – annuì quindi alla fine, abbassando gli occhi.
Era ingiusto che uno dei motivi più gravi della sua sofferenza interiore fosse anche uno dei motivi che gli avrebbe dato la possibilità di prendersi cura di un cucciolino tanto bello. Oltre che di dimostrare a se stesso e al mondo che aveva sempre avuto ragione lui su tutto, ovviamente.
- Solo una cosa devi sempre tenere a mente. – disse a quel punto Babbo Natale, posando il cucciolo sul tavolo di fronte a lui, - L’unicorno può stare solo con gente che creda nella sua esistenza. Come tutte le creature fatate, se qualcuno nega la sua realtà… - pausa enfatica che Bill non apprezzò, se non altro perché la situazione era già abbastanza complessa senza aggiungerci pathos non necessario, - …morirà.
Bill deglutì. E poi fu il panico.
- Mio fratello… - boccheggiò, - lui non ha mai creduto… - si perse nei propri pensieri, - nessuno che frequenti abitualmente questa casa ha mai creduto negli esseri fantastici, Babbino!!! – strillò confuso, - Come farò?! Forse David nella sua infanzia può aver creduto nelle fiabe, ogni tanto i suoi occhi scintillano ancora della luce della fantasia, ma tutti gli altri… Georg!!! Gustav crede in Dio, però, quindi forse…
- Dio non c’entra niente con la fantasia, Bill, è una favoletta che si racconta ai bambini per farli stare buoni! – lo blandì Babbo Natale con una risata divertita, mentre il cervello di Bill andava in palese overload di irrazionalità. – Sta’ tranquillo. – lo rassicurò alla fine il vecchietto, - So per certo che troverai una soluzione ed andrà tutto bene.
Bill non era tanto sicuro che il nonnino lappone avesse ragione, sotto molti aspetti. Non era tanto sicuro di essere affidabile, tanto per cominciare, non era nemmeno tanto fiducioso da pensare che una soluzione si sarebbe comunque trovata. In poche parole, l’unica certezza che aveva era quella di essere vergine, ed era una certezza che avrebbe volentieri fatto a meno di portarsi dietro, peraltro.
Così era, comunque. Babbo Natale ringraziò per latte e biscotti e si accomiatò con un abbraccio bonario, prima di ricordargli che si trattava comunque di un breve periodo di tempo – “solo fino al venticinque sera, Bill!” – e lasciarlo solo col cucciolo dormiente ancora sul tavolo. E neanche la più pallida idea di come risolvere quel garbuglio.
*
Lui ed Anis s’erano conosciuti – conosciuti davvero, non incrociati e salutati – durante il backstage dei Comet del 2005. Ciò che Bill sapeva di quell’uomo era riconducibile a ciò che Tom gli aveva detto di lui, disperandosi fra un ascolto nostalgico e l’altro di fronte alla rottura fra l’Aggro Berlin ed uno dei suoi rapper preferiti. La cosa lo aveva segnato nel profondo, e Bill poteva ancora ricordare, senza nemmeno sforzarsi troppo, i piagnistei infiniti di suo fratello ed i pomeriggi passati ad ascoltare i sampler dell’Aggro conditi dal racconto di una storia di gangster di strada che un po’ l’aveva sempre affascinato, anche se non capiva esattamente cosa tutto ciò avesse a che fare con la musica. Ma Bill aveva sempre avuto un’idea molto romantica, della musica, perciò non era strano che non capisse cosa c’entrassero una mandria di uomini imbufaliti con la delicatezza perfetta di un ritornello in armonia con le strofe che lo seguono e precedono.
Lui aveva quindici anni e Tom non aveva ancora deciso se fosse più opportuno odiare Bushido e restare fedele all’Aggro o mollare l’Aggro e seguire Bushido nella sua nuova avventura. Di qualsiasi tipo fossero i pensieri che vorticavano nella testa di quel suo assurdo fratello, sembravano essere molto seri, drammatici ed epici: Tom la vedeva come una questione della massima importanza. Tant’è che tutto era cominciato proprio perché a quei Comet lui non aveva la benché minima intenzione di trovarsi davanti al proprio idolo senza sapere cosa dire. Perciò, quando Bushido aveva fatto tanto di avvicinarsi, con addosso il sorriso suadente e tranquillo delle rare occasioni in cui voleva solo congratularsi senza sentire il bisogno spasmodico di aggiungere in cosa al complimento qualche cavolata delle sue, Tom era letteralmente scappato verso i bagni. Le sue ultime parole nei confronti del fratello erano state “Tienilo impegnato mentre io cerco di evadere attraverso le prese d’aria”.
Bill aveva sospirato teatralmente, osservando con occhio vagamente divertito lo sguardo di Bushido seguire suo fratello fino a che non lo perse di vista, e poi aveva aspettato candidamente che fosse l’uomo ad avvicinarsi e cominciare a discutere.
“Ma… tuo fratello?”, aveva chiesto Bushido, usando un tono incredibilmente confidenziale, neanche si conoscessero da sempre.
Bill aveva ridacchiato appena. Si sentiva talmente piccolo, di fronte a lui, da non riuscire proprio ad evitare l’imbarazzo.
“È un tipo emotivo,” aveva risposto dopo un attimo d’incertezza. Bushido aveva riso di gusto e gli si era seduto accanto senza chiedere il permesso.
La chiacchierata era proseguita senza intoppi: lui e Bushido avevano parlato del più e del meno come non avrebbe mai creduto possibile, Bushido era stato schietto e sincero e ad un certo punto s’era perfino lamentato della sua età.
“Sei troppo piccolo, per quest’ambiente,” gli aveva detto, e quando Bill aveva provato a replicare che con lui non poteva parlare di gangsta-rap perché, nonostante il fratello che si ritrovava, lui e quel tipo di musica erano lontani anni luce e bene intenzionati a restarlo, Bushido aveva replicato schernendolo con una mezza risata. “Parlo della musica in generale. È facile consumarsi, quando si è piccoli come te.”
“…e tu ne hai visti tanti? Consumarsi, intendo…” era stata la sua risposta incuriosita, venata appena da una nota più dolce e intimidita provocata probabilmente dalle almeno sei bottiglie di birra che aveva in qualche modo convinto Bushido a recuperargli sottobanco per tutto il tempo della loro conversazione.
“Mi stai dando del vecchio, ragazzino?”, aveva replicato Bushido con una risata divertita. Bill era arrossito istantaneamente e s’era affrettato a negare, agitandogli le braccia di fronte al viso come se le parole fossero state fisiche e lui avesse avuto il potere di cancellarle. Si era calmato solo quando Bushido aveva riso ancora, più dolcemente, e l’aveva rimesso a sedere scompigliandogli i capelli con una grande mano color caramello. “Sì, ne ho visti tanti,” aveva risposto quindi, annuendo appena, “Non è una bella cosa. Ti servirebbe una protezione. Niente di eclatante,” aveva spiegato, gesticolando disinteressato, “giusto qualcuno con cui parlare quando ti sembra di non farcela. A volte aiuta.”
Era stato in quel preciso istante – mentre portava per l’ennesima volta la bottiglia di birra alle labbra per farsi coraggio e scacciare l’imbarazzo con un sorso d’alcool – che Bill aveva deciso di essersi innamorato. Ci aveva fantasticato su un sacco – sul primo amore e tutte quelle cose che credeva di aver già provato per Linda e che invece s’erano spente in un niente quando s’era allontanato da Magdeburgo – ed in effetti gli sembrava un po’ strano ritrovarsi a capire lucidamente di essersi innamorato, quando invece con Tom aveva sempre parlato di cose tutte diverse, brividi inconsci, incertezze, tremori eccetera eccetera. Non c’era niente del genere. Però guardare Bushido lo scaldava più della birra e, quando lui aveva parlato di una persona con cui parlare quando avesse avuto paura di non farcela, nella mente di Bill s’era formato il suo nome. Prima ancora di quello di Tomi o di Andi o di sua madre.
Quindi sì, era stata una decisione perfettamente consapevole: quella di cominciare a ronzargli intorno perché era lui, Bushido, non chiunque altro, che avrebbe dovuto proteggerlo ed impedirgli di consumarsi.
Bushido, però, fondamentalmente, non era mai cresciuto davvero. O meglio: per certi versi era molto maturo e saggio e tutto quanto, ma per altri era un disastro. Tutto, in lui, faceva pensare ad un’infanzia non goduta e quindi rincorsa finché fosse stato possibile. Perfino i suoi modi di divertirsi erano assurdi – a partire dai sabati notte su World of Warcraft per concludere con i modi decisamente opinabili che aveva di prenderlo pubblicamente in giro flirtando in maniera spudorata e perfino pesante. Col tempo, Bill aveva imparato ad abituarsi, ma la cosa sconvolgente del tutto era stata percepire chiaramente che nulla del suo amore s’era mai perso neanche di fronte alle cose peggiori. Non di fronte all’uscita sul sesso orale, non di fronte alla proposta di matrimonio estemporanea, nemmeno di fronte alle centinaia di volte in cui quegli scherzi Bushido li faceva in privato, quando uscivano insieme sotto copertura o quando Bill si presentava a casa sua.
Con Linda il sentimento sfioriva appena litigavano. Era una cosa automatica.
Con Anis persisteva. Non c’era modo di tirarlo via.
Unico guaio, come nella migliore delle tradizioni da sfigato che l’avevano sempre perseguitato – a partire dai bulli del liceo per continuare con le doppie punte e la frustrazione del non riuscire ad abbinare quel fantastico giubbino bianco con le ragnatele con nulla, col risultato di sembrare ogni volta inguainato in una tuta spaziale – non si era mai dichiarato. Erano passati tre dannatissimi anni – ormai quasi quattro – e non solo non aveva mai confessato i propri sentimenti a Bushido, ma nemmeno li aveva mai fatti in qualche modo trapelare. Con nessuno, poi. Neanche uno sfogo. Tomi l’aveva più o meno capito da solo, ma Bill non avrebbe confermato neanche a morire – gli prendeva un batticuore assurdo ogni volta che ci pensava. Si sentiva sempre incredibilmente stupido.
La cosa, fortunatamente, non aveva mai minato i rapporti fra lui ed Anis. Perciò, quando quel venti dicembre Bill si ritrovò con un unicorno – un unicorno! – in mano e l’ordine di Babbo Natale - …Babbo Natale!!! – di prendersene cura fino a Natale, il suo primo pensiero, nonché l’unica soluzione avesse trovato, era stato andare da Bushido.
S’era attaccato al campanello della casa gialla con la furia di un disperato, pregando in un centinaio di lingue – molte delle quali inventate – che Bushido fosse in casa, solo e ben disposto nei suoi confronti e, quando poi aveva sentito la serratura della porta scattare, aveva serrato gli occhi e stretto forte al petto il cucciolo d’unicorno addormentato ed aveva pregato ancora, stavolta perché non scomparisse.
Quando era tornato a guardare il mondo, la prima cosa che l’aveva colpito era stata la presenza caldissima del cucciolo ancora stretto fra le braccia. Il battito del suo cuoricino, lento e calmo, si spandeva all’interno del suo piccolo e morbido corpo e si diffondeva poi anche dentro il suo petto, facendosi sentire fino in gola.
Di fronte all’inevitabile consapevolezza di essere capitato davanti a qualcuno che, evidentemente, negli unicorni credeva eccome – dato che il piccolo era ancora lì – Bill si prese un secondo per realizzare il pensiero, digerirlo e venirci a patti. Poi sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti un Bushido in perfetta tenuta da scazzo casalingo – tuta enorme ed anonima maglietta bianca – i cui occhi giocavano a rimpiattino saltando ansiosi dal suo viso al cucciolo e poi di nuovo al suo viso.
- Bill…? – esalò appena l’uomo, decidendosi finalmente a fissarlo negli occhi, in cerca di una risposta.
- Ciao. – rispose lui, abbozzando un sorriso incerto e sollevando una mano per salutarlo, - Posso entrare?
Bushido annuì meccanicamente.
- Sì, certo che… Bill, cos’è questo? – concluse in un mezzo rantolo, indicando il cucciolo.
Bill deglutì a fatica e lo sollevò un po’, perché Bushido potesse vederlo meglio.
- …esattamente quello che sembra, temo. – rispose annuendo e tornando a nascondere il piccolo fra le braccia.
Bushido si prese qualche secondo per riflettere, prima di tornare ad aprire bocca.
- Non è possibile, Bill. – disse alla fine, gli occhi ancora spalancati, - Ha le ali. Queste cose non… - ma non ebbe tempo di concludere, perché Bill scattò in avanti e pressò il palmo di una mano contro le sue labbra, cercando di spingerlo indietro per quanto gli consentissero quegli abbozzi di muscoli che si ritrovava e che, in confronto alla strenua resistenza del fisico fermo e compatto di Bushido, sembravano ancora più ridicoli.
- Non dirlo! – disse allarmato, agitandosi tutto, - Ti prego, se lo dici morirà!
Bushido smise di resistere e si lasciò spingere in casa, osservando un po’ sconcertato Bill chiudersi la porta alle spalle con un calcio, il cucciolo ancora stretto al petto e la mano libera ancora impegnata a chiudergli la bocca. Lo lasciò solo quando fu certo di aver chiuso bene la porta ed essere solo con lui nell’ampio salotto che accoglieva chiunque mettesse piede nella villa.
- Bill, che diavolo sta succedendo qui? Cos’è questo animale e cosa significa che potrebbe morire?!
Bill non rispose subito. Il palmo della sua mano conservava ancora qualche traccia del calore delle labbra di Bushido, ed il ragazzo trovò difficile ignorare il pensiero per concentrarsi su fatti di maggiore importanza, per molti secondi. Bushido dovette chiamarlo un paio di volte per ottenere un qualche cenno di vita.
- È… - cercò di spiegare Bill, deglutendo agitato, - È una creatura di fantasia, Bu, se dici che non… insomma, scompare!
Bushido continuò a guardarlo e poi si passò una mano sugli occhi, inspirando ed espirando con calma.
- Bill… - lo richiamò con aria stanca, - …quello che hai detto non ha senso, te ne rendi conto? Una creatura di fantasia, dici? È qua, lo sto guardando, è un… un accidenti di cavallo con le ali-
- E il corno. – precisò Bill, indicando la fronte vagamente sporgente del cucciolo, - È un unicorno, infatti. Non si vede perché è ancora piccolo…
- …un unicorno.
Bill annuì e lo osservò cercare a tentoni con la mano un divano alle sue spalle, per poi lasciarcisi ricadere sopra con un tonfo non appena l’ebbe trovato.
- Bu…? – lo chiamò debolmente, andandogli vicino ed esitando un po’ prima di sedersi al suo fianco, cosa che alla fine fece comunque. – Tutto bene?
Bushido non rispose alla domanda, ma lo guardò intensamente.
- Un unicorno, Bill?
Bill annuì di nuovo.
Bushido prese atto, annuendo a propria volta.
- Bill, credo dovrai raccontarmi questa storia dall’inizio.
Il ragazzo fece una mezza smorfia, sistemando il cucciolo su un cuscino ricamato appoggiato al bracciolo.
- Odio quando ripeti così spesso il mio nome. – borbottò scontento, - Sembri mio padre, sempre sul punto di rimproverarmi o chissà che.
Bushido si massaggiò lentamente le tempie, chiudendo gli occhi.
- In effetti ho voglia di rimproverarti, B-… insomma. Ma non saprei per cosa farlo esattamente, quindi aspetterò che tu abbia finito di raccontare. E poi vedremo.
Bill incrociò le braccia sul petto e sbuffò teatralmente.
- Senti, non è colpa mia, è stato Babbo Natale che-
- Babbo Natale, Bill?!
- La pianti di ripetere il mio nome? So come mi chiamo.
Bushido respirò ancora, sempre più profondamente, e tornò ad alzarsi in piedi, cominciando a camminare nervosamente intorno al tavolino basso nel centro del salotto, le mani sui fianchi e la maglietta che si arrotolava in sbuffi attorno alle dita.
- …spiega meglio. – lo invitò, continuando a camminare.
Bill lo guardò, inclinando lievemente il capo.
- Non ti fermi?
- No. – rispose con naturalezza l’uomo, scuotendo il capo, - Scarico. Parla.
Il ragazzo annuì incerto.
- Be’, tutto è cominciato stamattina verso l’una del pomeriggio, quando mi sono svegliato-
- Bill, ti prego, evita le incoerenze, è già tutto abbastanza confuso… - lo implorò l’uomo, massaggiandosi la fronte, - Mattina o pomeriggio?
- Mi confondi! Ti muovi! – si agitò il ragazzo, spiegazzando la fodera del divano sotto le dita, - Era mattina perché io mi ero appena svegliato, ma era pomeriggio perché io mi sveglio di pomeriggio, quando sono in vacanza!
Bushido annuì lentamente, continuando a camminare.
- …d’accordo, ci sono. Quindi eri sveglio e…?
- E c’era Babbo Natale in salotto.
Bushido si fermò. Solo per qualche secondo. Poi riprese la sua marcia.
- Bu?
- Sì, sì. Babbo Natale. Vai pure avanti.
Bill inarcò le sopracciglia, incerto, e si concesse una smorfia impaurita prima di portare il cuscino con sopra il cucciolo di unicorno sulle ginocchia e cominciare ad accarezzarlo delicatamente.
- Be’, lui mi ha consegnato questo… Bu, non mi stai credendo per niente, vero?
- Ho un unicorno sotto agli occhi, Bill. – gli fece notare l’uomo, guardandolo distrattamente, - Non sono nella posizione di non credere. Qualsiasi cosa tu mi dica.
Bill annuì lentamente, insicuro.
- …insomma, - riprese, - mi ha consegnato il cucciolo e mi ha chiesto per favore di prendermene cura fino a Natale, visto che lui e Mamma Natale… - sollevò gli occhi e si ritrovò di fronte Bushido che lo guardava come non l’avesse mai visto prima, fermo nel centro del salotto con gli occhi spalancati e le braccia molli lungo i fianchi. Sospirò. – Scusa, Bu. Vado via subito. – mugolò, recuperando il cucciolotto e rimettendosi in piedi.
- No, ehi, ehi, aspetta. – si affrettò a fermarlo Bushido, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e spingendolo delicatamente a sedere, - Non ti ho chiesto di andartene. – si sedette al suo fianco, continuando a tenere una mano sulla sua spalla e massaggiando un po’ per rassicurarlo, - …Bill, perché sei venuto da me? In poche parole.
- Devo… tenere il cucciolo fino a Natale. – ammise il ragazzo, - L’ho promesso a Babbo Natale, non potevo dire no a Babbo Natale, e lo so che sembra assurdo, ma è così. E non potevo restare a casa, Tomi non ci crede negli unicorni, e nemmeno in Babbo Natale, perciò ho pensato-
- Che io invece ci credessi? – lo interruppe Bushido, vagamente divertito.
Bill sbuffò, sollevandogli addosso un broncio adorabile ed un paio di occhioni ostinati.
- Be’, avevo ragione, no? – e Bushido sorrise. - …però no, non ho pensato quello. In realtà… non ho pensato affatto, ho solo sentito che dovevo venire da te, ecco.
Bushido sorrise ancora, più apertamente, mentre se lo tirava contro e lasciava che si accomodasse contro il suo petto, l’unicorno un po’ schiacciato fra i loro corpi, ma ancora placidamente addormentato.
- Vuoi restare qui fino a Natale? – gli chiese a bassa voce, sussurrandogli all’orecchio, - Non sei spaventato? Sono un uomo poco raccomandabile e ti ho fatto un sacco di avances, negli ultimi anni…
“Ne avessi anche mai concretizzata una…” si ritrovò a pensare tristemente Bill.
- No, sono… tranquillo. – ammise con un mezzo sospiro. – Pensi che potrei restare?
Bushido guardò lui e l’unicorno e poi si espresse in un mezzo sbuffo incerto.
- Non hai portato niente con te… - Bill scattò in piedi senza neanche lasciargli il tempo di concludere la frase.
- Oh, posso tornare a casa, preparare la borsa ed essere di nuovo qui in, facciamo, mezz’ora! – strillò saltellando eccitato da un piede all’altro, - Bu, mi hai salvato la vita! Cioè, a me ed al cucciolo! – rise, gettandogli le braccia al collo.
Bushido sospirò, accarezzandogli distrattamente i capelli mentre recuperava l’unicorno che, nella foga dell’abbraccio, Bill aveva dimenticato di dover stringere.
- Ecco, bravissimo. – annuì il ragazzino quando si fu separato di lui, non appena si accorse di come Bushido tenesse saldamente il cucciolo tutto nel palmo della mano, - Tienilo tu. Io faccio subito!
L’uomo lo osservò uscire come una furia – esattamente com’era entrato – e poi lanciò un’occhiata all’unicorno, sollevandolo fino all’altezza del viso per osservarlo da vicino. Il piccolo dischiuse le palpebre quasi subito, e lo fissò a propria volta con un paio di enormi ed acquosi occhioni azzurri.
- Dio, sei vero… sul serio. – commentò Bushido, avvicinandosi fin quasi a sfiorarlo con la punta del naso. Il cucciolo si sporse in avanti e lo morse, stringendogli saldamente il naso fra le gengive prive di denti. - …e sei anche pericoloso. – borbottò l’uomo, staccandoselo di dosso e ripulendosi con il dorso della mano libera. Sorrise. – Più o meno come quello che ti ha portato qui, mi sa. – concluse, poggiandolo nuovamente sul cuscino. E cominciando a chiedersi di cosa, esattamente, si nutrissero gli unicorni.
La pace durò all’incirca due secondi. Si interruppe precisamente quando il cucciolo si fu ripreso dal suo placido sonno abbastanza da capire esattamente dove fosse, con chi si trovasse e, soprattutto, con chi non si trovasse. Bushido lo osservò curiosamente sollevare il capino, guardarsi intorno e poi, con una naturalezza quasi sfacciata, saltare giù dal divano e trotterellare spedito verso la porta.
Lo seguì con lo sguardo e, quando si rese conto che il cosino non sembrava intenzionato a fermarsi, gli andò dietro anche coi piedi.
- Dov’è che staresti andando? – gli chiese, chinandosi e cercando di riprenderlo in mano.
Vigile e attento, il cucciolo si scostò e, incerto sugli zoccoli, rotolò lateralmente, caprioleggiando per qualche centimetro di moquette prima di rimettersi dritto, scuotere il collo per sistemare la corta criniera argentata e riprendere la propria marcia impettita verso la porta.
Bushido continuò a seguirlo, sempre più attonito, finché il cucciolo non arrivò alla porta e batté un paio di volte con uno zoccolo contro la superficie in legno.
- …devo aprire? – chiese l’uomo, piegandosi sulle ginocchia per guardarlo più da vicino e molleggiando sulle punte dei piedi per mantenere l’equilibrio.
Il cucciolo si limitò a fissarlo con aria supponente, battendo nuovamente lo zoccolo contro il legno.
- Bill mi ucciderà, se ti lascio fare. – gli fece presente, mettendo comunque una mano sulla maniglia.
Il cucciolino nitrì – o meglio, vagì un’idea di nitrito – e Bushido sospirò. Quegli occhi azzurri lo stavano fissando con tanta di quella disapprovazione che si sentiva quasi fuori luogo.
Tutto ciò che poté fare a quel punto il pover’uomo fu rimettersi in piedi ed aprire la porta. E sarebbe stato ciò che doveva essere. Punkt. Lui non credeva nel destino, ma non credeva di credere neanche ad unicorni e Babbi Natali vari ed eventuali, fino al giorno prima, perciò…
Il cucciolo trotterellò felice sulla ghiaia del sentiero davanti casa per qualche metro, e dopodiché Bushido lo vide spiegare le piccole ali ancora immature e spiccare un salto da record, per le dimensioni del suo corpo. Planò disinvoltamente fra le braccia di Bill, che stava lì fermo come in attesa e lo guardava con enormi occhi adoranti.
- Bill? – chiese, uscendo a propria volta di casa e raggiungendolo sul selciato, - Come mai sei ancora qui?
Bill tirò fuori la lingua e sorrise appena, come per scusarsi.
- Ho dimenticato di dirtelo. – biascicò poi, stringendosi nelle spalle, - Il cucciolo non può stare solo in compagnia di persone non vergini, perché solo un vergine può… - si interruppe ed arrossì istantaneamente, - …domarlo.
Bushido aprì la bocca.
Non seppe sinceramente che dire.
- Ah. – si rassegnò alla fine, tornando a cercare di darsi un contegno, - Capisco.
Bill abbassò lo sguardo, imbarazzato a morte.
- Bu, credo che… dovrai andare tu a prendere qualcosa per il mio cambio. – mormorò, consegnandogli direttamente in mano le chiavi di casa.
Bushido chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Non servì a calmarsi.
Sarebbero stati cinque giorni decisamente pesanti.
*
Tom era un ragazzo che Bushido non aveva ancora capito completamente. Era, se possibile, ancora più umorale del fratello, e riusciva a passare da uno stato d’animo all’altro con una velocità spaventosa, a tratti disorientante. Perciò, quando Bushido lo osservò entrare tranquillamente in casa, posare le chiavi sulla consolle e poi voltarsi sorridendo alla ricerca di Bill, incassò la testa nelle spalle e si preparò al peggio.
Certo, avere le mani nel cassetto della biancheria intima di Bill non aiutava i suoi disperati tentativi di darsi un tono. Pregò che Tom capisse, anche se non era sicuro di cosa ci fosse in effetti da capire.
Gli occhi di Tom si spalancarono ed il ragazzo lasciò cadere in terra il giubbotto che ancora stringeva nella mano ed attendeva di essere appeso all’attaccapanni.
- Bushido…? – esalò incerto, mentre lui, per evitare di fargli pensare stesse facendo qualcosa di sconveniente, continuava a rovistare con nonchalance fra le mutande di Bill. Cosa che forse non era la più appropriata da fare, dopotutto. - …cosa stai facendo?
Bushido si decise finalmente ad afferrare quante più paia di boxer poté ed infilarle di gran corsa nello zainetto che teneva per le bretelle con la mano libera.
- Ciao, Tom. – disse con un sorriso, cercando di distrarlo.
Tom deglutì ed annuì.
- Oh… - disse, arrossendo vagamente, - Ciao, sì, scusa, è che… - indicò con un gesto distratto Bushido, il cassetto ancora aperto ed i boxer che sporgevano dall’apertura dello zaino, - …capisci, non è una cosa tanto normale.
Bushido sospirò.
Ciclicamente, Tom ritornava sempre sullo stesso punto.
- Tom, non pensare male, per favore.
- Oh, no, ma Atze, sul serio, lo sai che a me puoi dirlo.
Appunto. L’uomo richiuse il cassetto e cominciò a marciare verso il bagno, ben deciso a non perdere altro tempo recuperando dei vestiti per Bill – gli avrebbe dato qualcosa di suo – prendere solo lo stresso indispensabile – spazzolino, trucchi e lacca, in poche parole, ovvero cose che non poteva fornirgli da sé – e poi fuggire immediatamente da quell’appartamento. Possibilmente senza dare spiegazioni a Tom.
- Non c’è niente da dire, Tom, lo sai. – biascicò mentre armeggiava con la trousse di Bill – sei chili almeno di beauty case – chiedendosi se potesse eliminare qualcosa o dovesse rassegnarsi a portare proprio tutto.
Tom aveva un problema, con lui. O lui aveva un problema con Tom. In ogni caso, c’era un problema nella loro relazione, e questo problema era l’adorazione cieca che il chitarrista nutriva nei suoi confronti. Il classico amore profondo che riservi agli idoli, le cose che non ti passano mai, anche con gli anni, quelle che possono portarti ad arrossire per il sorriso di un uomo anche se non hai alcuna intenzione di andarci a letto insieme – cosa che Tom faceva spesso, con lui. Arrossire, non andarci a letto. Per carità.
Insomma, lo adorava. Tutta quell’adorazione, però, non poteva avere uno sfogo pubblico, perché Tom era un piccolo gangsta-rapper fedele e mai e poi mai avrebbe potuto rinnegare l’Aggro Berlin di fronte ai microfoni ed alle telecamere. Perciò, se tutte le dichiarazioni d’amore pubbliche erano per Sido e compagnia, era nel privato che invece Tom “si faceva perdonare”, ronzandogli intorno come un moscone e sommergendolo di attenzioni. In un modo, peraltro, drammaticamente sbagliato.
- Atze, sul serio, è orribile che né tu né Bill vogliate ancora ammetterlo! Non dico pubblicamente, ma io sono suo fratello e noi siamo amici!
…ovvero decidendo arbitrariamente di diventare suo confidente personale – un po’ come il fratello aveva deciso arbitrariamente di diventare una specie di animale da compagnia ed accoccolarglisi addosso ogni piè sospinto – ed autoconvincendosi per chissà quale motivo che lui e Bill stessero insieme. Certo, immaginava che la quantità enorme di tempo che il Kaulitz minore trascorreva a casa sua potesse essere un indizio in tal senso, ma Bill era tragicamente piccolo, minorenne nell’aspetto ed anche in tutto il resto, per quanto l’anagrafe cercasse di convincere tutti del contrario. Non l’avrebbe mai toccato, non in quel senso e con niente che andasse oltre un flirt un tantinello spinto. E solo per ridere un po’.
- Tom… - borbottò, rassegnandosi a recuperare la trousse per intero e chiudendo lo zaino con uno scatto secco. Bill odiava che lui ripetesse così spesso il suo nome, come volesse rimproverarlo? Ebbene, Bushido detestava che i gemelli gli dessero in effetti quintali di occasioni per riprenderli esalando il loro nome in un rimprovero da padre sconfitto. – Ti ho detto e ripetuto almeno cinquecento volte che tuo fratello non è il mio ragazzo.
Tom annuì ed indicò lo zaino.
- Stai prendendo il suo cambio per la notte? – chiese innocentemente. Bushido annuì. – E quanto si ferma da te? – proseguì il ragazzo. Bushido rimase in silenzio. Tom annuì vittorioso. – Non è il tuo ragazzo, eh?
Bushido provò l’intenso desiderio di dargli un colpo di zaino sulla testa, tramortirlo e fuggire dalla finestra. Ma sarebbe stato ridicolo e sospettava Bill non l’avrebbe mai perdonato, per una cosa simile, perciò si trattenne.
- Non si ferma da me per i motivi che immagini tu. – borbottò in un mezzo ringhio frustrato, caricando lo zaino – incomprensibilmente pesante – in spalla e dirigendosi verso la porta.
- No, naturalmente. – annuì Tom, battendogli una pacca sulla schiena, - E allora perché?
Bushido fu tentato di rovesciargli addosso tutta l’intera storia dell’unicorno e di Babbo Natale. Ma questo sarebbe stato ancora più ridicolo del dargli uno zaino in testa, e probabilmente Bill sarebbe stato altrettanto incapace di perdonarlo, se l’unicorno fosse scomparso perché Tom aveva detto ridendo “ma cose simili non esistono!”, perciò si costrinse al silenzio. Lo salutò a bassa voce e Tom rimase ad agitare festosamente la mano sulla soglia della porta strillando “verrò presto a trovarvi!” per tutto il tempo che lui impiegò a scendere le scale e rimettersi in strada.
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa, ma il pensiero ci fosse Bill solo con l’unicorno – e con la possibilità che uno qualsiasi della sua crew passasse di lì per impossessarsi della Wii come al solito – lo convinse a non fuggire in vacanza a Miami e tornare alla villa.
Già sul selciato, quando ancora non aveva toccato la porta di casa, cominciò ad avere paura: dall’interno dell’abitazione provenivano rumori sospetti.
- Cosa sta succedendo? – disse ad alta voce, introducendosi in casa e lasciando ricadere lo zaino per terra. Di fronte a lui, un dramma aveva luogo. Del cucciolo di unicorno grande una spanna che aveva lasciato prima di uscire, non restava niente. S’era però tramutato in un puledro di dimensioni tutt’altro che trascurabili, con un paio d’ali larghe almeno un metro, perfettamente formate ed anche perfettamente dispiegate. Proprio nel centro del suo salotto.
Si guardò intorno, adocchiando la decina buona di narghilè nei più svariati materiali frangibili che campeggiavano su gran parte dei mobili della sala e tirò un mezzo sospiro di sollievo: non ne mancava nessuno all’appello – ancora. In compenso c’erano due poltrone rovesciate ed il tappeto arrotolato in un angolo.
Anche Bill stava arrotolato. Sul divano. Con le mani nei capelli.
- Bu! – strillò, saltando in piedi non appena lo vide, - Gli ho dato solo un po’ di latte!
Bushido annuì vagamente, osservando l’ampia macchia bianca che copriva per metà la maglietta di Bill. Doveva essere stato davvero poco, visto che la maggior parte del liquido sembrava finito addosso a lui.
- Ti sei sporcato tutto… - gli fece notare, indicandolo e rimpiangendo di non avergli preso dei vestiti per cambiarsi. Nei suoi sarebbe letteralmente annegato.
- Sì, ma non importa! – protestò il ragazzo, agitandosi, - Non riesco a fermarlo!
Bushido sospirò.
- Hai provato a chiederglielo? – propose, sentendosi un idiota fatto e finito e chiedendo silenziosamente ad Allah perché gli stesse facendo una cosa simile. Bill lo fissò per qualche secondo, inclinando il capo. – Sì, be’… - aggiunse quindi lui, imbarazzato, - quando sei andato via… non dico che io ed il cucciolo abbiamo dialogato, ecco, però insomma, sembra capire. – scrollò le spalle. – Magari, se glielo chiedi…
Il ragazzo annuì lentamente e si spostò verso il puledro che, nel mentre, aveva preso a brucare le frange del tappetino sotto al mobile del televisore, con evidente soddisfazione.
- Palla di Neve…? – lo chiamò, mettendo le mani avanti in caso fosse improvvisamente impazzito. Il puledro non diede segno di volerlo fare ma neanche di volergli dar retta, e continuò a ruminare placidamente il persiano. – Palla di Neve, potresti smetterla?
L’unicorno alzò il musetto e sbatté gli occhioni. E, mentre Bushido cercava di non ridere per il nome che Bill gli aveva affibbiato, cercò col naso il musetto di Bill e lo strofinò un po’, in un tacito assenso, prima di salire con gli zoccoli sul divano ed accucciarsi per una sana dormita.
Bill batté le mani, entusiasta.
- Visto? – rise Bushido, recuperando lo zaino da terra e consegnandolo a Bill, - È un animale ragionevole. – Bill annuì. – Ed ora… - continuò l’uomo, sospirando teatralmente, - vieni di là. Dovrò darti qualcosa da mettere, visto che non sono riuscito a prenderti dei vestiti.
- E come mai? – chiese Bill, giustamente curioso, seguendolo verso la camera da letto.
- C’era tuo fratello in casa. Mi ha trovato con le mani nel cassetto delle mutande. Puoi immaginare il dialogo che ne è seguito.
Bushido si aspettò una risata, ma Bill non rise affatto. E lui cercò di non farci caso.
*
La notte avrebbe potuto essere più piacevole, se le operazioni di nanna fossero andate nel verso giusto. Avere a che fare con Bill, però, significava senza dubbio avere a che fare con un bambino molto piccolo e molto capriccioso, e con individui simili – Bushido aveva imparato a capire – c’era poco da stare a contestare. Perciò, quando Bill s’era intrufolato nel suo letto alle nove di sera ed aveva stabilito del tutto arbitrariamente che ci sarebbe pure rimasto causa bagno personale raggiungibile tramite porticina accanto all’armadio, Anis s’era ritrovato con poco altro da fare che non chinare la testa ed andare a rifugiarsi nella camera degli ospiti, pregando intensamente che la donna delle pulizie le avesse dato una rinfrescata generale, l’ultima volta che era venuta.
Bill aveva anche provato a chiedergli se gli andasse di dormire con lui – facendolo peraltro con un candore disarmante, al punto che Bushido s’era un po’ chiesto se non fosse il caso di tenerlo con lui, tipo, per sempre, e proteggerlo dai mali del mondo – ma Anis aveva appena avuto il tempo di rimirare il proprio meraviglioso letto a tre piazze con amore profondo e valutare la proposta – pro e contro… più contro che pro, Bill a letto era un pericolo sotto svariati punti di vista – che l’unicorno aveva deciso di far valere la propria autorità di animale fatato e s’era appollaiato sul letto accanto a lui, testolina sul cuscino ed ali morbidamente ripiegate attorno al corpo.
Non c’era stato modo di rimuoverlo dal suo posto – anche quando Bill gliel’aveva chiesto – perciò Bushido aveva ipotizzato l’animale non lo volesse proprio fra i piedi: e piuttosto che fare arrabbiare il cucciolo di unicorno di Babbo Natale, aveva preferito ritirarsi in camera degli ospiti. Col risultato di ritrovarsi recluso in un letto singolo – non toccava materassi tanto piccoli da quando aveva sedici anni – sul quale non poteva neanche espandersi come sarebbe stato buono, naturale e giusto. E non chiudere occhio per tutta la notte, ovviamente.
Alle otto del mattino, frustrato e stanco morto e con un pensiero fisso che suonava più o meno “dovrò cambiare le lenzuola nel mio letto? Chissà se gli unicorni sporcano come i cavalli normali…”, Bushido si alzò in piedi, spalancò le tende e salutò il nuovo giorno con un’imprecazione furiosa nel ritrovarsi davanti al cancello di casa la solita mandria di giornalisti attaccati con la colla al culo di Bill, e che per questo motivo alle vicissitudini di quel benedetto culo erano anche incredibilmente interessati.
Sospirò.
Spalancò la finestra.
Si affacciò.
- Dorme ancora e no, non me lo sono scopato!
Una risatina timida lo raggiunse alle spalle e Bushido si voltò per ritrovarsi davanti Bill in groppa al puledro. Che era cresciuto ancora.
- Bill…? – lo chiamò incerto, e lui rise ancora, rimettendo i piedi per terra, - Stamattina mi sono svegliato presto e gli ho dato un biscotto mentre facevo colazione. – lo indico, - Questo è il risultato.
L’uomo si passo una mano sugli occhi.
- Scusa, Bill, ma visto che sappiamo che appena mette qualcosa in bocca cresce a dismisura, non potremmo smettere?
- Non vorrai mica che lo lasci morire di fame? – rispose seccamente Bill, guardandolo con disapprovazione neanche stesse davvero progettando di far morire di stenti il povero unicorno. Poi indicò la finestra, - C’è gente?
Bushido scrollò le spalle.
- La solita. – rispose con falsa noncuranza.
Bill annuì e si affacciò a propria volta, salutando la folla con ampi gesti del braccio e trascinando per un polso Bushido perché lo raggiungesse.
- No, di nuovo no, Bill… - provò a mugolare stancamente lui, ancora provato dalla mancanza di sonno ed ancora privo di un caffè per renderla meno fastidiosa.
- Ma non capisci, Bu? – disse il ragazzo, continuando a tirarlo finché ebbe raggiunto il proprio scopo, - Se ci comportiamo in maniera losca otteniamo l’effetto contrario a quello desiderato… sorridi, foto.
Bushido sorrise ed agitò un braccio in segno di saluto verso il fotografo di Yam!.
- E se ci comportiamo da novelli fidanzati, invece, che effetto otteniamo? – chiese tra i denti mentre si lasciava immortalare da almeno un’altra decina di paparazzi.
- Ah, non ne ho idea. – scrollò le spalle Bill, sorridendo amabilmente, - Vedremo con l’uscita della settimana prossima.
Era appena cominciato il ventuno dicembre, al ventiquattro notte mancavano quattro giorni pieni e Bushido non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto per vedere l’alba del giorno dopo. Sospirando pesantemente, richiuse la finestra e richiuse le tende, muovendosi con aria afflitta verso l’uscita della stanza. L’unicorno, ancora appollaiato sulla soglia, gli diede una musata sulla testa, come a dirgli “non ce l’ho con te, è la situazione complicata”. Bushido lo fissò malissimo e scese le scale in direzione della cucina. Si fermò con un principio d’infarto quando, adocchiando il salone – del quale si aveva una visione quasi completa, dal pianerottolo del piano di sopra – lo vide già infestato dalla crew al gran completo.
Allargò istintivamente le braccia, spingendo Bill e l’unicorno indietro perché nessuno potesse vederli.
- Ragazzi! – sbraitò con aria falsamente cordiale, - Che sorpresa! Qual buon vento?
Kay One sollevò una mano e la agitò gioiosamente.
- Ciao Bu! Speriamo non ti dispiaccia, c’era la finale di pattinaggio artistico maschile e-
- Pattinaggio artistico maschile…? – chiese allucinato, e i ragazzi scoppiarono a ridere.
Chakuza sollevò un DVD.
- Volevano vedere questo. – spiegò pacatamente. Fra le sue mani campeggiava il porno che gli avevano regalato l’anno scorso per il compleanno, per puro spirito di scherzo. E che invece sembrava aver riscosso un successo di gran lunga maggiore rispetto alle aspettative – un po’ come la riedizione di King Of Kingz senza Fler.
- ...non so nemmeno cosa dirvi prima. – biascicò Bushido in preda ai principi di una crisi di nervi, - L’avrete già visto ottomila volte. I film porno non si guardano in gruppo. Sono le otto del mattino. Questa è casa mia. – agitò una mano con aria disinteressata, - Scegliete il rimprovero che vi piace di più e poi fate quello che vi pare. Io mi preparo un caffè.
Chakuza annuì mentre premeva play sul telecomando e la familiare eco dei gemiti di una donna si diffondeva per la casa, assieme alle urla da stadio di tutta la crew. Viveva a stretto contatto con un branco di animali. Questa cosa era assolutamente disdicevole, per uno della sua risma.
- Ohi, ragazzi, - annunciò Saad sollevandosi in piedi dopo essersi faticosamente districato dal groviglio di arti umani che infestava il divano, - io vado in bagno.
E Bushido si fermò a due passi dalla moka.
I bagni erano al piano superiore.
Al piano superiore c’era Bill.
E il dannato unicorno di Babbo Natale.
- No! – si voltò di scatto, afferrando Saad per le spalle un attimo prima che cominciasse a salire le scale e sperando che Bill, nel mentre, avesse avuto almeno il buonsenso di nascondersi.
Bill. Buonsenso. Doveva immediatamente buttare tutti fuori da quella casa.
- Atze, che ti piglia? – chiese giustamente Saad, fissandolo con gli occhioni verdi spalancati, - Devo farmi una pisciata!
- I bagni sono fuori uso. – disse lui, secchissimo, senza mollare la presa.
- Qualcosa in casa tua non funziona? – si intromise Chakuza, inarcando supponente le sopracciglia, - Credibile come un duetto con Sido, Atze. – poi sorrise crudele, - Hai qualcuno di sopra, mh?
Il problema con Bill era fossero tutti abituati alla sua presenza, sì. Ma di giorno. Bill non si fermava mai a dormire da lui – per ovvi e ragionevoli motivi – e Bushido non poteva presentarlo in quel momento e in quel modo, non con un unicorno alle spalle, soprattutto, e comunque non ci sarebbe stato niente da presentare, che diavolo andava pensando?!, il suo raziocinio stava prendendo degli svarioni non indifferenti, quella mattina.
- Di sopra non c’è nessuno e fate conto che non ci sono neanche i cessi. – rispose lui a muso duro, - Ora alzate il culo e, se proprio volete darvi ad una sessione di porno comunitario, fatelo sul selciato di fronte casa, almeno quegli stronzi dei giornalisti avranno qualcosa di serio di cui parlare.
- Atze, io non intendo tornarmene a casa mia per una-
- Io non intendo tenervi qui un secondo di più, perciò-
- Bu? Ho un problema con l’unicorno, non vuole… oh.
E l’aria, nella grande casa gialla, si fece immobile.
Bill stava affacciato dal pianerottolo, i capelli ancora scomposti dal sonno e gli occhi grandi e curiosi. L’unicorno s’era affacciato accanto a lui, entrambi guardavano Bushido con aria cucciolosa e sembravano incerti su quale fosse la loro posizione nel mondo. Saad, le spalle ancora strette fra le mani di Bushido, si irrigidì all’istante, seguito a ruota dal resto della crew.
L’unicorno non morì né scomparve nei lunghi minuti di silenzio che seguirono il suo arrivo. Il che avrebbe dovuto preoccupare Bushido più di tutto il resto, probabilmente. Poteva anche andare bene che l’unicorno non fosse scomparso di fronte a lui – non andava bene per niente, in realtà, ma poteva con enorme sforzo accettarlo, ecco – ma l’idea di avere un’intera crew composta da ragazzini che ancora credevano negli unicorni lo sgomentava abbondantemente. E quella avrebbe dovuta essere la sua banda, il non plus ultra del virilissimo german-rap, insomma, i bad boys di Berlino. Probabilmente Fler aveva ragione, i veri deutscha bad boys stavano all’Aggro.
Saad sollevò una mano puntando il dito verso l’unicorno. Bocca e occhi spalancati, lo fissò a lungo, fino a quando l’unicorno non nitrì il proprio disappunto e Bill non fu costretto a specificare “credo gli dispiaccia essere indicato. È molto maleducato, Saad”. Al che, il braccio del libanese cadde come morto lungo il suo fianco e l’uomo annuì pesantemente, senza staccare gli occhi dall’animale.
Le sue prime parole, qualche istante dopo, furono “credo che andrò a pisciare a casa mia”. Guadagnando un cenno di approvazione da parte di tutta l’intera crew, che si mise in piedi abbandonando il divano – e il porno ancora acceso – con sincronia perfetta, neanche si fosse trattato di un unico corpo.
Bushido si passò stancamente una mano sugli occhi.
- Mi pare scontato che non voglio che questa cosa esca da questa casa. – disse con aria burbera, prima che i ragazzi uscissero dall’appartamento. Chakuza si fermò sulla soglia della porta e lo fissò, allucinato.
- Ti pare che siamo così idioti da andare pure a parlarne in giro, Atze?
La domanda, in effetti, si rispondeva da sola. Perciò Bushido non aggiunse altro.
*
Adattarsi a convivere con l’unicorno non fu particolarmente difficile: Bushido capì già all’alba del ventidue dicembre – quando se lo ritrovò steso addosso, naturalmente dalla parte meno piacevole, non appena aprì gli occhi – che quel cavallo aveva con lui un enorme problema indecifrabile di cui non riusciva a parlargli – strano, perché sapeva essere molto eloquente, quando voleva. E poi Bill traduceva per lui. Come Bill potesse comprenderlo era una domanda che non voleva porsi, ma rimaneva il fatto che, quando qualcuno della crew passava per la casa, ad esempio, Palla di Neve ci tenesse a dire la propria sulla presenza di estranei in casa, e Bill traduceva meticolosamente ogni educato invito a togliersi dalle palle. Per qualche motivo, però, quando l’unicorno indirizzava un nitrito di disappunto a Bushido, non c’era verso di costringere Bill a spiegargli perché ce l’avesse con lui. Il che poteva essere frustrante, visto che l’animale si stava facendo enorme e Bushido cominciava a temere per la propria vita – soprattutto quando si vedeva sbattuto contro una parete a causa di un colpo di coda.
In ogni caso, stabilito che lui e Palla di Neve erano l’uno l’antitesi dell’altro e che, per questo motivo, sarebbe stato molto meglio tenerli lontani, la convivenza era stata perfino piacevole. L’unicorno era educato, si scostava per farlo passare, non intralciava la via verso il bagno ed a parte soffocarlo di dispetti come lo scherzetto del sedere sulla faccia non faceva niente di particolarmente molesto.
Il problema era Bill, che Allah l’aiutasse.
Bill era pieno di fissazioni assurde. Erano così tante che non erano nemmeno calcolabili. Bushido le approssimò ad un numero tendente all’infinito e, quando lo fece, gli venne da pensare di essere stato perfino troppo generoso nel sottrarne qualcuna di poco conto. Bill non mangiava mele. A Bill piaceva la cioccolata ma solo a determinate condizioni. Bill non mangiava quasi niente non contenesse più conservanti che ingredienti naturali. Bill aveva bisogno di piastrare giornalmente i capelli perché odiava i boccoli. Bill odiava gli insetti e non usciva mai in giardino per paura delle punture. Bill era di una pigrizia sconcertante ed era capacissimo di richiamare te – che stavi in camera da letto dall’altro lato della casa a farti un’abbondante quantità di cavoli tuoi – per farsi portare dalla cucina – vicino al salotto – un bicchiere d’acqua – in salotto dove stava lui, appunto.
Bushido sospirò, posando il dannato bicchiere d’acqua sul tavolino basso accanto al divano dove Bill stava svaccato, sfogliando una rivista mentre con la mano libera accarezzava Palla di Neve, morbidamente accucciato sull’altro cuscino, ai suoi piedi. Inarcò le sopracciglia.
- Palla, potresti anche lasciami un po’ di spazio per sedermi… - si lamentò, piantando le mani sui fianchi ed osservando l’unicorno, ormai grande quanto un normalissimo cavallo e con un’apertura alare da albatros, mentre sonnecchiava sul divano.
L’unicorno sollevò appena una palpebra e sbuffò un nitrito disinteressato.
- Dice che c’è l’altro divano. – tradusse distrattamente Bill, senza sollevare gli occhi dalla rivista.
Bushido aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, deluso.
- Insomma, ho smesso di essere padrone di casa mia nel momento in cui siete entrati da quella porta. – si lamentò, accucciandosi sull’altro divano e cercando a tentoni il telecomando fra i cuscini, - E a Natale mancano ancora tre giorni!
Bill gli sollevò addosso un paio di occhi incredibilmente brillanti, allungandosi a recuperare il suo bicchiere d’acqua dal tavolino.
- Mi dispiace di darti tanto disturbo…
Bushido grugnì con disappunto.
- Non ti dispiace affatto. – borbottò, - Ti piace da morire farti servire e riverire, eh?
Bill lasciò andare una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Assolutamente sì. – ammise annuendo. E poi esitò solo un secondo, abbassando appena lo sguardo, - …fosse per me, rimarrei qui per sempre.
Bushido inarcò le sopracciglia. Fece per rispondere qualcosa – una cosa qualunque, la prima battuta che gli fosse capitata sulla punta della lingua – ma dovette interrompersi causa campanello martellante direttamente nelle orecchie. Sospirò e si mise in piedi.
- Vedi di far sparire quell’animale, mentre vedo chi è.
Bill annuì e saltò in piedi.
- Palla di Neve? Fuss! – ordinò con ingenua gioia.
Bushido sospirò: era assurdo che Bill si fosse convinto di essere stato in grado di addestrare l’unicorno in due giorni. Quell’animale palesemente lo idolatrava e lo seguiva ovunque, non c’era bisogno di trattarlo come un pastore tedesco, per portarlo in giro per casa.
Il campanello strillò ancora, offeso dal suo disinteresse.
- Ho capito, ho capito… - biascicò Bushido, sporgendosi per spiare l’identità dell’ospite al di là dello spioncino. Quando capì di chi si trattava, gli venne voglia di prendere a cazzotti Babbo Natale, e si ripromise che, qualora l’avesse visto, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. – Merda… mormorò scontento, - Bill, c’è tuo fratello! – urlò poi, in direzione delle scale che portavano al piano di sopra.
Bill si affacciò e lo fissò, attonito.
- E che ci fa qui? – chiese incerto.
Bushido scrollò le spalle.
- È il tuo gemello, siete voi quelli della telepatia gemellare-
- Non usare quel termine, a Tomi non piace, lui non crede nella telepatia.
- No, ma dice di sapere sempre cosa ti passa nella testa, per quanto io creda impossibile anche solo intuire cosa ci sia là dentro. – precisò lui, indicandolo con un dito, - Comunque sia, io non intendo averci a che fare.
Bill continuò a guardarlo con la stessa aria stupita.
- Io devo stare con Palla di Neve, Bu. – gli fece notare.
- Palla può stare da solo, per un po’! – cercò di convincerlo lui, per quanto sapesse perfettamente che no, Palla non poteva stare da solo. Palla sclerava appena Bill si chiudeva in bagno, figurarsi. – Tuo fratello mi stressa, Bill!
Bill scrollò le spalle.
- Vuoi che Palla di Neve fugga dalla finestra? – gli chiese, - È già successo, lo sai!
Bushido ringhiò.
- Tu e le tue dannate due ore di ricostruzione ogni volta che ti strucchi. – borbottò disperato, - Sparisci. – disse poi con un gesto vago, - Cerco di rimandarlo a casa.
Bill rise e scomparve oltre le scale, mentre Bushido sospirava profondamente e si preparava ad affrontare il dramma.
Tom apparve sulla soglia fissandolo con l’aria navigata dell’uomo che della vita ha capito tutto, e Bushido si chiese distrattamente come avrebbe reagito se fosse salito su, avesse recuperato Palla di Neve e gliel’avesse graziosamente posato di fronte.
Sospirò.
Probabilmente Tom avrebbe riso e gli avrebbe detto qualcosa tipo “non è più assurdo di te che cerchi di farmi credere che in realtà tu e Bill non state insieme”.
- Ciao, Tom. – lo salutò atono, - Qual buon vento?
Lui avanzò all’interno dell’appartamento senza chiedere il permesso, guardandosi intorno con aria sospettosa. Bushido temette si mettesse ad annusare l’aria, in cerca chissà di che cosa, poi.
- Allora… - chiese invece il ragazzo, voltandosi a guardarlo con malizia, - mio fratello?
Bushido sospirò.
- È uscito.
- Aha… - disse Tom, palesemente senza credergli, - quindi se vado di sopra e lo cerco in camera da letto non lo trovo, eh?
L’uomo deglutì.
Bill aveva preso possesso della camera da letto al punto che Tom non avrebbe faticato a pensare tutto e il contrario di tutto anche solo a metterci piede dentro: vestiti ovunque, trucchi sparsi in giro sulla toletta, un quintale di scarpe affiancate in un’ordinatissima fila contro la parete…
- Non ti farò entrare in camera mia, Tom, non siamo ancora abbastanza intimi. – scherzò, cercando di porre freno al dramma in atto. Tom non ne fu granché impressionato.
- Guarda che i flirt con me non funzionano. – ghignò invece, piantando una mano sul fianco e sporgendo appena un’anca, come il fratello faceva anche troppo spesso. – Allora, che mi racconti?
“Che tuo fratello mi fa ammattire, il suo unicorno mi odia ed ho un Bravo in cui io e Bill salutiamo i giornalisti dalla finestra della camera degli ospiti, come la fottuta famiglia reale inglese, in uscita entro la fine di questo mese. Ho una vita molto piena, sì.”
- Niente, Tom. – biascicò, andandosi ad abbattere contro il divano poco distante, - Tuo fratello mangia sempre chili di dolciumi, non muove mai un dito in casa ed è generalmente il solito ragazzino lamentoso coccola-dipendente. Ti basta così?
Tom aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Sei un mostro. – lo accusò infine, fissandolo con estremo disappunto, - Non dovresti parlarne così!
Bushido mugolò sconfitto e si passò una mano sugli occhi.
- Lo sai che voglio bene a tuo fratello, Tom-
- È il tuo ragazzo! – sbottò lui, - Dovresti volergliene di più!
- Ma non è il mio ragazzo!
Tom si spiaccicò una manata esasperata sulla fronte e sospirò teatralmente, andando a sedersi accanto a lui sul divano.
- Ascoltami bene. – gli disse poi, fissandolo intensamente negli occhi e piantandogli un dito proprio nel mezzo della fronte, - Io ho capito che piaci a mio fratello nel momento stesso in cui sono tornato in albergo con lui dopo i Comet, millemila secoli fa, e lui mi ha detto con occhio sbrilluccicoso “Bushido è una persona fantastica!”. – disse, cercando con poco successo di imitare la voce di Bill, vagamente più acuta della sua. – Io. – precisò, indicandosi, - Io sono un tonto. – annuì, - Io le cose non le capisco a meno che non siano palesi.
- Oppure – protestò Bushido, sbuffando annoiato e scuotendo il capo per cercare di liberarsi dall’indice puntato contro la fronte, - capisci fischi per fiaschi. Visto che io e tuo fratello non stiamo insieme e lui non mi ha mai detto-
- Non te l’ha mai detto perché guardati!, - riprese Tom, roteando gli occhi, - ti basta che io faccia tanto di insinuarlo e scleri! Chiaro, me l’hai terrorizzato, povero piccino, non ti dirà mai niente!
Bushido spalancò gli occhi, fissandolo sgomento.
- Tom. – sospirò alla fine, passandosi una mano sulla fronte, - cos’è che stai cercando di dirmi?
Tom sospirò a propria volta, con l’aria di uno che decisamente deve dare fondo a tutte le proprie riserve di pazienza, per star dietro ai tonti coi quali si ritrova ad avere a che fare.
- Sto cercando di dirti che tu non ascolti abbastanza. – rispose quindi, liberandogli la fronte dal peso di quell’indice puntato ed incrociando le braccia sul petto, - Non ascolti abbastanza Bill, o te ne saresti accorto da te. Già da un sacco di tempo, peraltro. – sospirò ancora, - E non ascolti me. Che, non a caso, non ho mai usato le parole “state insieme”.
Bushido ringhiò.
- Tom, non ho più neanche idea di quante volte mi hai ripetuto che tuo fratello è il mio ragazzo!
- Appunto. – sorrise trionfante Tom, inclinando furbo il capo, - E su questo, Atze, non puoi proprio darmi torto: magari non state insieme, ma lui di sicuro è tuo da anni. E quanto al suo essere un ragazzo, se vuoi posso confermartelo per iscritto. Ma credo che sarebbe meglio se controllassi tu di persona.
E così se ne andò: trascinandosi dietro tutto il proprio carico di inopportuna quanto fastidiosa sincerità. Bushido rimase lì, sulla porta, a fissare il vuoto. Per un sacco di tempo, poi. Fin quasi a sentirsi ridicolo da solo, perfino: il che, per uno che in genere non si sentiva ridicolo neanche quando rincorreva i propri compagni di crew con un carrello, era davvero inquietante.
Tornò presente a se stesso ed al mondo che lo circondava soltanto quando Bill tossicchiò appena da qualche parte alla sua sinistra. Mentre lui rimaneva in ascetica contemplazione del nulla, il ragazzo aveva avuto tutto il tempo di uscire dalla stanza in cui si augurava si fosse nascosto, scendere le scale e piantarglisi là di fianco con l’espressione tipica di uno pronto a chiedere scusa anche solo per essere venuto al mondo.
Bushido lo guardò. Piccolo e spaurito, Bill non riusciva nemmeno a guardarlo. Era talmente rosso in viso che c’era da chiedersi se per caso non avesse la febbre – e, in caso di risposta affermativa, preoccuparsi: Jost non aveva fatto che chiamarlo una volta ogni tre ore per assicurarsi che stesse bene e minacciarlo di violente e tremende ripercussioni legali in caso succedesse qualcosa al suo bambino. Bushido comprendeva quell’uomo e provava anche della sincera pietà, nei suoi confronti, ma sapeva che poteva essere un discreto rompimento di palle, se solo ci si metteva, perciò no, non aveva nessuna intenzione di rovinargli il cucciolo. Soprattutto perché, oltre Jost, se fosse successo qualcosa al leader dei Tokio Hotel, gli avrebbero voluto male davvero in tanti.
L’uomo si schiarì la voce, sporgendosi verso di lui ed allungando un braccio quasi a volerlo consolare per chissà cosa, ma Bill lo stupì nel modo più impensabile e normale di tutti: aprendo bocca e parlando. Il punto di Bill era proprio quello: parlava continuamente, ma tirargli fuori di bocca le cose veramente importanti era difficile quanto raggiungere la luna saltando.
- Mi dispiace che tu l’abbia dovuto sapere così. – disse invece Bill, dando probabilmente fondo a tutte le proprie riserve di sincerità, - Tomi tende ad avere la bocca troppo larga. – sospirò, - Spero solo tu non ti sia arrabbiato.
Bushido deglutì faticosamente.
- Bill… - cominciò, ma si fermò subito, incerto su come continuare. Era sempre stato una persona piuttosto fisica, e questo valeva anche per i tentativi di consolazione. Ma come diavolo faceva a consolare quel ragazzino? Se toccarlo sembrava fuori discussione proprio a causa del motivo della sua tristezza…
Palla di Neve, neanche stesse intuendo i suoi pensieri più nascosti, si parò fra lui e Bill, scrutandolo con occhi disapprovanti. Bushido resse il suo sguardo ed aggrottò le sopracciglia, resistendo appena al desiderio di ricoprire quel dannato cavallo d’improperi e tirargli pure una botta sul muso. Cercò di calmarsi ripetendosi che si trattava del dannato unicorno di Babbo Natale, non avrebbe dovuto volere far del male al dannato unicorno di Babbo Natale, ma per qualche strano motivo pensieri simili gli facevano venire voglia solo di ricoprire d’improperi e dare una botta sul muso anche al dannato vecchio, perciò lasciò perdere.
Fece per eludere il cavallo e raggiungere Bill alle sue spalle. Anche solo per accarezzargli un po’ la testa. Giusto per non fargli capire che non era arrabbiato, non era disgustato e non era niente di negativo in generale, ma Palla di Neve nitrì di scazzato disappunto e non gli permise nemmeno di fare un passo.
- Palla… - lo chiamò rabbioso, ma si fermò appena il pigolio incerto della voce di Bill lo raggiunse da dietro il corpo possente dell’animale.
- Palla di Neve… - lo chiamò il ragazzino, e subito quello si voltò a guardarlo, - Sitz.
Ed obbedì all’istante.
Tutto ciò che Bushido riuscì a pensare, osservando Bill risalire mestamente le scale, diretto probabilmente in camera da letto, fu “dannazione. Mi sa che l’unicorno l’ha addestrato davvero”. E, mordendosi un labbro mentre decideva di passare la notte al piano di sotto – visto che la sola idea di dormire ad un paio di metri da Bill lo turbava in maniera non descrivibile – gli venne quasi da pensare che l’addestramento dell’unicorno di Babbo Natale non fosse l’unico danno combinato da Bill prima da quando era arrivato in quella casa. Probabilmente non era nemmeno il più grave.
*
Il ventitre dicembre scivolò lentamente sotto le loro dita senza che neanche si guardassero, quasi. La mattina fu pigra e silenziosa – Bill non aveva chiuso occhio e si aggirava per casa come uno zombie, fissando il vuoto con occhi spenti ed evitando il suo sguardo a tutti i costi. A Bushido non era poi andata tanto meglio – il bracciolo del divano non s’era rivelato un cuscino piacevole, e per la verità neanche il suo turbamento s’era rivelato granché simpatico, come compagno di sonno, ragion per cui, praticamente, non aveva dormito affatto.
Fra una telefonata ridacchiante di Tom, una minacciosa di Jost e gli spettri invisibili della crew che spuntavano all’improvviso per rubare un po’ di Wii – per poi naturalmente dileguarsi alla prima comparsa di Bill o di Palla di Neve – Bushido non aveva posato quasi per nulla gli occhi sul proprio ospite; a parte un breve momento d’imbarazzo verso mezzogiorno – cioè quando Bill aveva deciso di scendere al piano di sotto per la colazione – occasione in cui Bill s’era ritrovato senza zucchero e Bushido s’era ritrovato abbastanza soprappensiero da biascicare un distratto “è qui sopra”, prima di sollevarsi a recuperare il barattolo sul ripiano della credenza senza curarsi del corpicino del ragazzo che finiva schiacciato fra il suo e la superficie rigida e legnosa del mobile.
Il respiro di Bill gli aveva sfiorato la pelle del collo ed il suo calore era giunto chiarissimo attraverso i vestiti, colpendolo nel centro del petto ed annullando qualsiasi traccia di pensiero razionale dentro di lui, per moltissimi secondi. Non riusciva a capire se quello fosse solo imbarazzo, se si sentisse a disagio perché Bill l’aveva conosciuto che era uno scricciolo ed il pensiero di doverlo guardare da adulto per la prima volta lo mandava in confusione… o le radici di quel turbamento fossero differenti.
Se per caso non avesse ragione Tom, ad esempio. Se i suoi continui tentativi di mantenere quella relazione fra il vago e l’incerto non fossero in realtà i trucchi furbi di un trentenne che sa esattamente come rigirarsi i ragazzini fra le mani. Di un trentenne magari perfino spaventato dalla possibilità che il ragazzino che ha coccolato fino a poco tempo prima possa ritrovarsi cresciuto e senza più alcun bisogno di lui.
Bill era parte della sua vita da un sacco di tempo, ormai.
Era difficile identificare adesso dove finisse lo scherzo e cominciasse il desiderio.
Il ventiquattro dicembre, la consapevolezza che quel gioco del silenzio non sarebbe potuto durare in eterno lo raggiunse come un pugno in pieno viso nel momento in cui, verso le quattro del pomeriggio, Bill si presentò al suo cospetto in salotto, accompagnato come al solito da Palla di Neve. Con la piccola aggiunta dello zainetto che Bushido aveva portato per lui da casa sua.
- …che? – chiese l’uomo, indicando lo zaino con un cenno del capo.
Bill ne torturò le bretelle fra le dita, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- È praticamente Natale… - disse dopo un po’, sguardo basso ed aria afflitta, - e penso che tu abbia di meglio da fare che non badare ad uno come me. – sospirò, - Anche perché non riesco a parlarti. Né a guardarti. Né a fare nient’altro.
- …Bill, ascoltami-
- No. – scosse il capo lui, riuscendo solo per un secondo a sostenere i suoi occhi, prima di tornare a puntare i propri sui ghirigori del tappeto, - Questa cosa… mi è caduta addosso come un macigno. – spiegò a fatica, - Io non avevo alcun problema con… con il fatto che mi piacessi. Ma ora che lo sai è tutto diverso. E siccome è evidente che non… - tornò a guardarlo fugacemente e poi si disperse ancora sul pavimento, - insomma, penso che andrò a casa e parlerò con Tomi. Se riesco a parlare con lui prima che veda Palla di Neve, allora magari-
- Ma Bill… - cercò di riportarlo in sé lui, massaggiandosi la fronte e mettendosi in piedi, - cerca di ragionare. Palla è diventato enorme. Non puoi uscire da qui con quell’animale appresso!
Bill si morse ancora il labbro, a disagio.
- …ti sta rovinando tutto il parquet, al piano di sopra. – lo informò, - Sono gli zoccoli, credo. Ti sto distruggendo casa e ti sto distruggendo la vita e-
- E magari invece non mi stai proprio distruggendo niente. – lo interruppe l’uomo, andandogli incontro e posandogli le braccia sulle spalle. Non lo toccava da un sacco di tempo e, quando i loro corpi vennero in contatto, si ritrovò letteralmente ricoperto di brividi. – Adesso ti calmi. – lanciò un’occhiata a Palla di Neve che, nel mentre, allarmato da tanta vicinanza, stava per mettersi di mezzo, - E tu ti levi di torno. Raus. – borbottò infastidito nei suoi confronti. Palla di Neve rispose con uno sbuffo risentito, accucciandosi lì di fianco senza spostarsi di un millimetro. – Bill, - sospirò Bushido, roteando gli occhi prima di tornare a guardarlo, - qui nessuno ha problemi con nessun altro, d’accordo? Non c’è niente che non vada. Non sono offeso e comunque ti ho chiesto io di restare fino a Natale. E non sarà Natale prima di stanotte a mezzanotte. – Bill lo guardò con aria smarrita, perdendosi un po’ nei suoi occhi, e Bushido si ritrovò a sospirare ancora, esplicitando ulteriormente, - Quindi adesso ci mettiamo in cucina e prepariamo qualcosa di buono, ok? Un bel cenone. E ci godremo la serata. E del resto parleremo poi.
Bill aveva sorriso ed aveva fatto quello sguardo lì, quello allegro e brillante che in genere precedeva i momenti in cui mandava a quel paese il buonsenso e ti saltava al collo riempiendoti di baci a caso – senza badarci se per caso uno dei baci finiva sulle labbra. Senza badarci o badandoci eccome, c’era quasi da chiederselo.
Non fu tanto piacevole osservarlo spegnere di prepotenza quella luce e trattenersi dall’abbracciarlo. Comunque, le due ore successive passarono piacevolmente, mentre entrambi stavano immersi in cucina fra chili di pentole e pentolini alla ricerca di qualcosa di commestibile fra credenza e frigorifero.
Palla di Neve seguì con cipiglio critico tutte le operazioni di cottura, senza mai intralciarle ma nemmeno favorirle; quando, alla fine, Bill si mise in testa di fare i biscotti di pan di zenzero – “perché stanno tanto bene attaccati all’albero, Bu, non hai idea quanto!” – pretese anche che lui uscisse dalla cucina, e di buttarlo fuori s’incaricò proprio l’unicorno, spingendolo a musate fuori dalla stanza senza la minima delicatezza.
Bushido si augurò che Babbo Natale lo buttasse fuori di casa al secondo giorno, visto il brutto carattere, ma non protestò e si svaccò sul divano mentre attendeva che Bill riemergesse da quell’incredibile frenesia da casalinga festosa.
Cosa che successe puntualmente un paio d’ore dopo: Bushido lo vide venir fuori dalla cucina completamente ricoperto di farina e zucchero, ma con un sorriso talmente smagliante sul volto da non riuscire neanche a prenderlo in giro.
- Non voglio nemmeno immaginare il delirio che ci sarà in cucina… - sbuffò divertito, senza nemmeno alzarsi in piedi. Bill gli regalò una linguaccia ed una mezza risata.
- La cucina è ok… sono io da ristrutturare!
Bushido lanciò un’occhiata all’orologio a muro e rise a propria volta.
- Be’, sono quasi le sette e mezza. Se vai a farti in bagno adesso, c’è una qualche possibilità tu sia già ristrutturato per l’ora di cena?
Bill aveva tirato di nuovo fuori la lingua, mostrando il piercing e lanciando un’occhiatina all’albero di Natale illuminato che i ragazzi della crew erano venuti a sistemare poco a poco come scusa per essersi defilati ed averlo mollato da solo con Bill Kaulitz ed un unicorno, ma aver continuato a gravitare di nascosto per la casa solo in virtù delle consolle per i videogiochi.
In realtà non c’era proprio da stupirsi che tutti quanti credessero negli unicorni, se poi in effetti si comportavano da bambini di dieci anni. Fler doveva indubitabilmente avere ragione.
- È un po’ triste che sotto non ci siano regali. – commentò appena, spolverandosi un po’ la maglietta.
- Ti sbagli. – rise Bushido, indicando con un cenno del capo Palla di Neve placidamente accoccolato sotto le fronte dell’abete, sul tappeto parzialmente ricoperto di aghi, - C’è lui.
Bill ridacchiò.
- E quello lo chiami regalo? – chiese ironico.
Bushido scrollò le spalle.
- Quello proprio no. La tua compagnia, però, può essere.
Lo osservò arrossire e borbottare qualcosa di confuso, prima di cominciare a correre a rotta di collo verso il piano superiore senza nemmeno guardarsi indietro, e si ritrovò a riflettere su quanto in realtà fosse davvero poco netto il confine fra i suoi sentimenti. In realtà, nella sua vita, erano sempre stati chiari solo gli odi. Per tutto il resto – ed anche per qualcuno di quegli odi stessi – vagava in un limbo d’incertezza in cui un sentimento avrebbe tranquillamente potuto essere qualsiasi altro.
In sostanza, gli piaceva avere Bill intorno.
In sostanza, probabilmente, se non l’aveva mai visto come un probabile compagno, era stato perché si era ostinato a non volercelo vedere. Oltre che perché lui era Bushido e quell’altro Bill Kaulitz, naturalmente. Sono cose, queste, che già da sole frenano i rapporti, in genere.
Bill ridiscese nel tempo record di un’ora e mezza, quando già Palla di Neve aveva ripreso conoscenza dal pisolino pomeridiano e si apprestava a piantare grane – tipo mangiando i babbi di stoffa appesi ai rami dell’albero – perché al suo risveglio non aveva trovato Bill a fargli le coccole.
Bushido sollevò lo sguardo e se lo ritrovò immerso in un accappatoio bianco dalle cui maniche spuntavano appena le mani. Attorno alla sua vita, la cintura faceva almeno due giri ed era ancora molle al punto che, quando si muoveva, i lembi dell’accappatoio si separavano e si poteva scorgere al di sotto qualche spicchio di pelle bianchissima ed ancora umida di doccia. Da sotto il cappuccio e le pesanti ciocche di capelli neri ancora bagnati, Bill lo fissava con estremo imbarazzo, stringendosi nelle spalle.
- …ho dimenticato di chiederti qualcosa per cambiarmi, quando sono andato in bagno. – biascicò incerto, abbassando lo sguardo.
Bushido sospirò pesantemente e si alzò in piedi, raggiungendolo di fronte alle scale con un sorriso bonario ad increspare le labbra.
- Tu sei un danno. – gli fece presente, sollevando le mani per frizionargli i capelli col cappuccio, mentre pesanti gocce trasparenti scendevano la china di quella cascata d’ebano per infrangersi contro il pallore delle sue scapole. – Guardati qui. Siamo a dicembre inoltrato e non ti sei nemmeno asciugato per bene.
Bill sorrise appena, e sotto le ciglia ancora bagnate i suoi occhi brillarono di una luce incredibilmente intensa. Intensa al punto che Bushido ebbe quasi difficoltà a sostenerla.
Gli venne in aiuto la sfiga, perché la luce saltò in quel preciso istante.
- Merda… - imprecò, stringendo la presa su Bill neanche avesse paura di sentirselo svanire sotto le mani col favore del buio. Il ragazzo, per contro, gli si strinse addosso, agitandosi appena. – Deve essere saltata la luce. Con tutte le decorazioni che ci sono accese per ora nelle strade… - ringhiò, - Aspetta, dai. Vado a controllare il quadro elettrico.
Fece per allontanarsi, ma Bill scattò immediatamente a stringerlo per un braccio. Nel buio e nel silenzio, le sue dita ossute serrate attorno al polso erano quasi inquietanti. Ma erano umide e calde, e Bushido non faticò a cedere alla loro richiesta di fermarsi, tornando a cercare di scorgere il suo profilo nel buio profondissimo che annegava la casa.
- Bu… - lo chiamò Bill, la voce tremante, - sai cos’è che dice sempre Palla di Neve quando mi vieni così vicino?
Bushido scosse appena il capo, e si rassegnò a tirar fuori un “no” umanamente comprensibile soltanto quando capì che, con quel buio, Bill non avrebbe mai potuto vederlo.
- Dice sempre che sei pericoloso. – continuò Bill in un sussurro. Era così vicino che Bushido poteva sentire il suo respiro sul viso. Sapeva di zucchero e cose dolci. Era un buon odore. – E dice anche che dovresti starmi lontano.
- Forse – sussurrò a propria volta, molto più incerto di quanto avrebbe voluto, - dovrei dargli retta.
Bill rise piano, un trillo appena percettibile, e gli posò entrambe le mani sul petto.
- Palla di Neve non può vederci, adesso.
E Bushido l’aveva schiacciato contro il muro il secondo successivo. L’aveva baciato subito dopo. L’aveva condotto su per le scale quasi di seguito. E s’era chiuso alle spalle la porta della propria camera da letto non più di due minuti più tardi.
Quando la luce tornò in casa – da sola, senza che nessuno ce la riportasse – il salotto venne illuminato solo dal bagliore delle lucine intermittenti che adornavano l’albero di Natale. Di Palla di Neve non c’era più traccia. A meno di non voler considerare una traccia una finestra spalancata.
*
Bill era scoppiato a piangere nel momento stesso in cui s’era reso conto del danno che avevano combinato. In un primo momento, ancora perso nell’assonnato sfinimento che aveva seguito il loro incontrarsi e scontrarsi pelle contro pelle fra le lenzuola fresche di bucato, era rimasto immobile contro il suo petto e non aveva detto nulla, ma quando finalmente avevano ripreso a parlare e Bushido gli aveva fatto notare quanto le premesse di quella relazione fossero sbagliate e disastrose – l’età! Due mondi diversi! Il tuo manager mi ucciderà, Bill – il ragazzo l’aveva zittito con un bacio veloce pregandolo di non sparare cavolate a raffica quando non poteva insultarlo come giusto e poi, d’improvviso, aveva spalancato gli occhi, mormorato un “Palla” afflitto ed era scoppiato in lacrime. Singhiozzando talmente forte, poi, da dare a Bushido l’impressione potesse spaccarsi. Un’impressione che, per la prima volta, lo terrorizzava – e non solo per le possibili ripercussioni legali.
Quando erano scesi di sotto, era bastata una breve perlustrazione della casa – fra un “Babbo Natale mi ucciderà” e l’altro – per rendersi conto che sì, le previsioni di Bill si erano avverate: non era più vergine; l’unicorno era scappato. Volando via dalla finestra ed immettendosi nel traffico notturno del ventiquattro dicembre a Berlino, peraltro. Fossero almeno stati in campana… ma no, proprio nella capitale tedesca.
Bushido sospirò pesantemente e si strofinò gli occhi con una certa forza, cercando di recuperare lucidità mentale. Quando ci riuscì, l’unica cosa che pensò fu che quello era proprio il momento di mettere in campo la crew: una manciata di uomini forti, asserviti, indipendenti e fondamentalmente stupidi. Una manciata di uomini, soprattutto, che quell’unicorno lo vedeva senza dubbio. Perciò, perfettamente sfruttabili.
- Tu non ci stai con la testa, Atze. – fu il commento di D-Bo quando, di fronte a tutto il resto della crew, gli venne spiegata la situazione.
- Cioè, tu e Bill – precisò Eko, spalancando smisuratamente gli occhi, - avete scopato. E già questo basterebbe a sconvolgermi. Ma oltretutto tu mi vieni a dire che quell’allucinante creatura stava qui solo perché il ragazzino qua era vergine e che ora che non lo è più è fuggita chissà dove…
- …ed a noi tocca cercarla?! – rincarò la dose Chakuza, agitandosi nervosamente attorno al divano, - Noi siamo rapper! È già allucinante ci fosse un unicorno in casa tua, io non intendo prestarmi a-
- Tu ti presterai a qualsiasi cosa io ti chiederò. – fu il secco commento di Bushido, spedendoli tutti fuori casa e tirandosi appresso Bill mentre si immetteva a propria volta per le strade della città, - Altrimenti io ti licenzierò e farò in modo da non farti più mettere piede in qualsiasi etichetta della città.
Mentre Chakuza borbottava inascoltato un “vorrà dire che andrò da Sido e Fler, sia mai loro siano meno cazzoni di te!”, Bushido si affiancò a Bill e gli strinse protettivo una spalla.
- Guarda che lo ritroviamo. – cercò di rassicurarlo, preoccupato dai suoi lineamenti tesi. Bill era sempre sull’orlo del crollo. Pensare di doverlo rimettere in piedi dopo una caduta era spaventoso: se non altro perché lui era così fragile da minacciare di rompersi in una quantità infinita di minuscoli pezzi, in caso fosse caduto davvero.
- Bu, non capisci… - mugolò il ragazzo, asciugandosi le guance, - io avevo fatto una promessa a Babbo Natale… - continuò mentre Saad borbottava un “bah!” sconvolto alle sue spalle, - ed invece Palla di Neve è scappato per colpa mia e… - Bushido lo osservò sollevare lo sguardo e poi spalancare gli occhioni, prima di puntare il dito verso un punto imprecisato di fronte a lui e prendere fiato neanche dovesse apprestarsi a cantare per i successivi dieci minuti di seguito senza avere la possibilità di respirare. E poi esplose: - Palla!!!
L’unicorno stava in effetti immobile a qualche metro di distanza da loro. I passanti sembravano non vederlo e continuavano a vivere la loro gioiosa festività senza curarsi del delirio in cui invece loro stavano immersi.
Bill cercò di andargli incontro, ma Palla di Neve nitrì adirato e s’impennò.
- Palla, non… non fare così, ti prego… - provò il ragazzo, ma l’unicorno non lo ascoltò. Nitrì ancora, sempre più indignato, e poi partì al galoppo quasi stesse inseguendo una preda.
Bushido non attese che un paio di secondi prima di afferrare Bill per il polso e trascinarselo dietro alle calcagna dell’animale impazzito, mentre tutto il resto della crew ammetteva che rimanere comunque lì al freddo e al gelo senza combinare niente era perfino più assurdo che seguire il proprio capo in quell’impresa allucinante: e decideva pertanto di mettersi a correre a propria volta.
Tutto ciò che Bill riuscì a commentare, fra uno sbuffo di fiato e l’altro, mentre Palla di Neve si fermava di fronte ad un palazzo e spiegava le ali per volare fino al decimo piano, fu “io questo posto lo conosco”. E poi più niente, perché quel palazzo era casa sua: e perché Palla di Neve ci fosse tornato era un mistero che si sarebbe dipanato solo quando l’avrebbero seguito.
*
All’interno dell’appartamento, Tom stava disperatamente cercando di non morire dalle risate mentre Gustav passava a Georg il proprio regalo di Natale commentando distrattamente “c’è anche la piastra per il frisé” prima ancora che il bassista riuscisse a scartarlo.
- E che cazzo, Gusti, sarà il quarto anno consecutivo che mi regali una piastra per capelli, a Natale! – borbottò il ragazzo mentre Tom rotolava sul divano andando ad impattare contro un povero manager esausto che tutto avrebbe voluto tranne ritrovarsi la notte della vigilia a babysitterare tre adolescenti palesemente mononeuronici.
- Ma ti dico che questa ha la piastra per il frisé! – insisté Gustav, oltraggiato da tanta ingratitudine, - Quella dell’anno scorso non ce l’aveva!
- Io non la uso, la dannata piastra per il frisé! – sbraitò Georg, agitando in tondo il proprio regalo ancora mezzo impacchettato, - Ti pare che io sia tipo da frisè?!
Gustav scrollò le spalle.
- Uno non può mai sapere, magari ti viene voglia di cambiare.
E su quell’ultima battuta la finestra s’era infranta ed un’enorme cavallo alato aveva fatto irruzione in salotto. Un cavallo alato con un enorme corno bianco e lucidissimo nel mezzo della fronte. Un cavallo alato e cornuto con un paio d’occhi talmente azzurri e acquosi da sembrare finti, peraltro.
Insomma, un unicorno.
Tom guardò Georg. Che guardò Gustav. Che non se la sentì di tirare nuovamente in ballo il frisé per motivare l’assurdità dell’accaduto. Alla fine, tutti e tre guardarono David come si aspettassero da lui una soluzione definitiva.
Il manager fissò l’unicorno, la bocca spalancata e le braccia molli lungo i fianchi.
- Ragazzi… lo vedo solo io?
La scrollata di capo simultanea che seguì la sua domanda non lo rassicurò per niente. Invece di dirsi “ah! Allora non sono pazzo!”, lo portò a commentare “ah! Allora siamo pazzi in quattro!”.
- Palla! – strillò qualcuno aprendo la porta di scatto. E quel qualcuno era Bill. Seguito da Bushido. E dall’Ersguterjunge al completo. Compreso Eko, che magari non era più sotto contratto all’etichetta ma, quando c’era da seguire il capo, sembrava sempre pronto ad obbedire.
David deglutì a fatica.
- Loro li vedo solo io, però, giusto?
Tom, Gustav e Georg scrollarono nuovamente il capo in sincrono.
Ed a quel punto ci sarebbe davvero stato da chiedersi cosa diavolo stesse succedendo, ma l’unicorno li batté tutti sul tempo guardandoli uno per uno con sincero scazzo… prima di posare i propri enormi occhioni acquamarina su Tom e dirigersi con aria innamorata verso di lui.
- Ehi! – sbottò Tom, sulla difensiva, - Stai lontano, eh?!
- No, Palla! – strillò ancora Bill, tendendo una mano verso l’animale, - Morirai!
Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Aspetta. – suggerì, fissando curiosamente la scena, - Sembra che sappia quello che fa.
Ed in effetti Palla di Neve lo sapeva davvero. Ne ebbero tutti la conferma nel momento in cui lo videro accucciarsi placidamente ai piedi del chitarrista e lì restare, sprofondando immediatamente in un tranquillo sonno ristoratore. Il volo doveva averlo sfiancato.
- Ho ho ho! – disse a quel punto Babbo Natale, carambolando giù dal camino e rotolando felice fin nel centro del salotto, - Ouch. Dovrei ricominciare ad usare gli abiti imbottiti. Erano incredibilmente d’aiuto, in queste situazioni.
Una bolla di silenzio si espanse per tutta l’estensione della stanza.
Ed esplose solo quando Bill si mise a piagnucolare.
- Babbino! – disse con tono lamentoso, - Mi hai preso in giro!
Babbo Natale sistemò gli occhialini tondi sul naso, prima di rimettersi in piedi e guardare Bill con aria critica.
- Io ti ho preso in giro, Bill? Mi pare che qui quello che non ha onorato la sua promessa sia stato tu…
- Ma tu mi avevi detto che l’unicorno poteva stare solo con i vergini! – continuò a borbottare Bill, del tutto sordo ai rimproveri, come in effetti tutti si aspettavano, - E invece guardalo, sta lì e fa le fusa a mio fratello!
Il nonnino si voltò a guardare Tom, squadrandolo compitamente da capo a piedi.
- Infatti, non c’è nessun errore. L’unicorno ha individuato il vergine più vicino e-
- I-Io non sono vergine! – protestò Tom, agitandosi convulsamente ed arrossendo imbarazzato, - Io non sono vergine proprio per niente! Che diavolo di storia è questa?!
Babbo Natale gli si avvicinò, lanciandogli un’occhiataccia critica.
- A-ah, Tom! – lo rimproverò, agitandogli un dito guantato davanti agli occhi, - Niente bugie! O quest’anno, per te, niente regali!
Il silenzio piombò nuovamente nella stanza, e le attenzioni di tutti furono concentrate su Babbo Natale che, dopo aver controllato che l’unicorno stesse bene, si sedeva compostamente sul divano, intrecciando le dita sul ventre sporgente e guardando il suo attonito pubblico con aria placida e pacifica.
- State tranquilli, ragazzi miei, ho un regalo per tutti voi, tranne che per quelli che l’hanno già ricevuto. – li rassicurò bonario, lanciando un’occhiata di paterna soddisfazione a Bill e Bushido, - Ora, se avrete la pazienza di starmi a sentire, vi racconterò la storia di un cucciolo di unicorno, di un ragazzo innamorato e di un uomo parecchio distratto. E poi vi darò i vostri regali. – si interruppe un attimo, guardandosi intorno con aria curiosa. – Ma prima, non ci sarebbe mica un bel bicchiere di latte e qualche biscotto?
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero."
Note: Mi chiamo liz e non pubblico una shot di EKR dalla fine di ottobre o.o Sono turbata quanto voi, ma se avete continuato a seguire la saga sapete perfettamente che non sono rimasta con le mani in mano, bensì mi sono dedicata a salvare Tab dal baratro. Riguardo questa shot in realtà ci sarebbero tante cose da dire. Tanto per cominciare che speriamo che il POV scelto non vi abbia mandate ai pazzi XD Sappiamo che non è la scelta più razionale possibile (dovevate vederci in fase di scrittura:
liz: ricordami perché abbiamo scelto questo POV.
Tab: non… non lo so.). Comunque speriamo vi sia piaciuto e che abbiate sofferto tanto *_* Per noi è stato un parto. Be’, per la liz almeno. Tab scriveva stile treno.
Comunque questo capitolo è schizofrenico. Il Bu si tirava fuori roba lol dal cappello – o, com’è anche più probabile, in quanto puro spirito è circondato da gente lol che fa e dice cavolate. *liz si prostra davanti ad Eko e lo idolatra come una statuina sacra del Buddha*
Fler palesemente è un mito e le sue avventure sono già leggenda. L’infermiera è nata per caso. Ci stiamo ancora chiedendo come sia stato possibile.
Comunque, da qualche parte dentro di noi il Bu è ancora vivo *riot*
PS: Il titolo è rubato ai Coldplay. E comunque di questa shot abbiamo una diapositiva. =P
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE HARDEST PART

Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Bill e Bushido si preparano per andare alla festa di Halloween che David ha organizzato a casa propria, ma qualcosa li fermerà lungo il cammino...
Note: Questa storia – scritta per il primo concorso di Fidelity, l’Halloween Fest – è nata dal desiderio del tutto assurdo di far dire a Bill che voleva chiamare sua figlia Samhain XD Non chiedetemi perché, visto che un motivo non esiste non saprei cosa dirvi. So che l’idea mi piaceva ed ho voluto buttarla giù. Era nata per essere una shot breve, fluff, abbastanza divertente, ed alla fine è di una tristezza sconcertante. Questo, suppongo, perché io credo che sia Bill che Bushido vivano la paternità in modo molto… sentito, ecco. Perciò, che dire, si sono fatti un sacco di film pucciosi. E poi arriva la madre e… ;_; Prima o poi riuscirò a dar loro dei figli. <- ha già plottato tre o quattro storie in cui accade.
Gli obblighi per il contest erano la zucca (e c’è XD) un colore (ed ho usato il nero della piuma e dei vestiti di Bill), la presenza di Halloween (…che mi pare sia palese XD) e la contestualizzazione della città (con Berlino, ho fatto il meglio che ho potuto XD). Spero di non aver toppato XD
Mi è piaciuto scrivere questa storia, nonostante odi farmi del male scrivendo. E me ne sono fatta XD Non c’è niente di più doloroso, per quanto mi riguarda, delle illusioni che si spengono nel nulla. Questa storia ne è schifosamente piena. Però la vita è anche questo, punkt. Per una Billshido felice aspetterò il prossimo schizzo d’ispirazione =P
PS: Un grazie e un enorme bacio a Nai per il betaggio.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SAMHAIN

La serata era cominciata – e proseguita – così bene, che Bill stava seriamente cominciando a sentirsi fiducioso rispetto al mondo che lo circondava. Generalmente, quando usciva con Anis l’universo intero sembrava mettersi di mezzo per ostacolarli – Tom si faceva prendere da uno scoppio di gelosia acuta, David ricordava improvvisamente che il giorno dopo avevano delle interviste e non poteva andare a letto tardi, la madre di Anis pretendeva il figlio a cena, Chakuza si spaccava la testa contro un armadio e si doveva correre tutti in ospedale e così via discorrendo – perciò era davvero raro perdersi in tutta quella piccola serie di normalissimi gesti che compongono una normalissima serata fra fidanzati e be’, sì, godersela. La doccia mentre lui si fa la barba, asciugare i capelli mentre lui si veste, vestirsi mentre lui si lamenta che si sta facendo notte, raggiungerlo in salotto, i baci, gli “andiamo”, perdere tempo sulla soglia indecisi fra uscire e rituffarsi in camera da letto…
Decisamente non erano cose che potessero godersi tanto spesso. Perciò Bill era felice. Ed il fatto fosse la notte di Halloween lo rendeva solo più emozionato.
Halloween in Germania non era esattamente fra le feste più sentite – troppo americana, troppo confusionaria, non ce lo mandi il tuo bambino a bussare alle porte di ogni casa di Berlino, si sa mai cosa ci trovi dietro quando ti aprono – ma a Bill i travestimenti erano sempre piaciuti, perciò aveva letteralmente obbligato David ad organizzare una festa nel mega-appartamento che aveva comprato quando anche loro si erano trasferiti nella capitale. Qualcosa di semplice, giusto una cinquantina di persone, solo gli amici più intimi, il loro staff, la crew, qualche imbucato, cose così.
Ed Anis, naturalmente. Anis che, come da fantasia sessuale ricorrente, aveva provveduto ad avvolgere in cinquecento strati di tessuto dalle tonalità oscillanti dal blu notte all’azzurro cielo, prima di sentirsi rivolgere uno scocciato “Bill, da cosa cazzo sarei vestito?” cui aveva reagito con un sospiro rassegnato, prima di rispondere “Da tuareg, anche se ti manca il fascino, il mistero, la sensualità-”, “Il cammello,” aveva concluso Anis chinandosi a baciarlo sulle labbra, e la questione s’era chiusa lì.
Bill s’era vestito da principe – o almeno quella era stata la sua intenzione iniziale, ma quando aveva cominciato ad aggiungere borchie su borchie, reti su reti e chili di trucco su chili di trucco, Anis s’era giustamente voltato a guardarlo ed aveva commentato che dovrebbe essere vietato travestirsi da Bill Kaulitz ad Halloween. Se non a tutti, almeno a Bill Kaulitz stesso.
“Non sono travestito da me stesso!” aveva obiettato lui, offesissimo, mostrando con cipiglio fiero la lunga piuma nera che pendeva dal cappello a tesa larga, “Sono un principe! Un bellissimo principe!”.
“Con seri problemi di orientamento sessuale,” aveva sghignazzato Bushido, dandogli una pacca sul sedere.
“Esistono anche i principi gay,” era stata la sua secca e lapidaria risposta. Anis non aveva ribattuto – anche perché, se poteva esistere un re del ghetto, di sicuro poteva esisterne anche un principe. E se era gay il re, figurarsi il resto della famiglia reale.
Erano usciti nel gelo di fine ottobre avvolti in tanti di quegli strati di lana che i loro costumi neanche s’intravedevano, sotto. Tutto ciò che restava erano i pantaloni azzurrissimi di Anis, quello sciocco turbante che Bill gli aveva calcato sulla testa e la piuma nera del ragazzo, che ondeggiava libera lungo la sua schiena, fra le scapole magrissime e appuntite, mascherate appena un po’ dalla forma dal giaccone imbottito.
Stavano ancora camminando verso casa di David – a pochi isolati dalla loro – quando l’avevano sentito. Nella perfetta indifferenza generale – un ghiaccio, quello del popolo tedesco, che Anis riusciva a comprendere solo marginalmente e solo perché in Germania aveva sempre vissuto, e che a Bill invece non era mai appartenuto, probabilmente perché a Bill non importava moltissimo del proprio luogo di provenienza, preferiva divertirsi a conquistare il mondo piuttosto che restare attaccato alle proprie radici di sfigato campagnolo senza speranze.
L’avevano sentito, comunque, il pianto di un bambino. E non avevano potuto ignorarlo.
Anis aveva guardato Bill, Bill l’aveva fissato di rimando e poi s’erano annuiti a vicenda ed avevano cominciato a perlustrare la zona con gli occhi. L’avevano trovato accanto a un cassonetto dell’immondizia, come in ogni classico del genere. Non particolarmente nascosto, per la verità, era solo lì, dove non è che ti aspetti esattamente di trovare una culla addobbata di giocattoli come un albero di Natale prematuro, che custodisce al proprio interno un bambino frignante bianco e lucido di lacrime, una piccola perla, però più rumorosa.
Bill si avvicinò col timore che Anis gli aveva visto usare solo nei confronti delle cose fragili. Il timore col quale approcciava il proprio fratello quando lo vedeva triste, ad esempio. O quello col quale si avvicinava a lui dopo un brutto litigio – quando aveva paura di perderlo.
Sorrise rassicurante, stringendosi a lui mentre si chinavano a sbirciare all’interno del passeggino.
- Ma è piccolissimo… - fu il commento del ragazzo, esalato appena fra uno sbuffo di fiato condensato e l’altro, - Avrà un paio di mesi…
Per la verità il fagotto di copertine, peluche e sonagli era un po’ troppo grassoccio per essere davvero così piccolo, ma all’uomo non sembrò il caso di farlo notare al proprio compagno che, sempre più esitante, allungava una manina bianca e ghiacciata verso la creatura, probabilmente nel tentativo di sincerarsi della sua effettiva esistenza.
- Anis… - mormorò Bill sfiorando la guancia del bambino ed ottenendo in cambio un pianto ancora più dirotto ed un sacco di agitazione sotto le coltri di lana, comprensiva di braccina agitate e gambette scalcianti, - che facciamo? Non possiamo mica lasciarlo qui.
L’uomo si morse un labbro e cercò di riflettere, mentre Bill lasciava scivolare le dita lungo la guancia del bambino ed andava a cercarne la piccola mano – ora esposta al freddo della notte – fino a farsi catturare da quei salsicciotti paffuti che continuavano ad aprirsi e chiudersi convulsamente alla ricerca di qualcosa da stringere.
- Forse dovremmo portarlo alla polizia… - cercò di suggerire facendo leva sulla parte più razionale di sé e cercando di ignorare il proprio cervello che, alla vista di Bill che pasticciava col bambino piangente, aveva già fatto le valigie da tempo. – Magari i suoi genitori lo stanno cercando, non sembra… un bambino abbandonato.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- Che esperienza hai tu, esattamente, circa i bambini abbandonati? – protestò animatamente, rimboccando le coperte attorno al corpicino ancora scosso dai singhiozzi, - E poi, che vuol dire? Se non sono chiusi in un sacchetto di plastica allora non possono essere stati abbandonati? È accanto a un dannato cassonetto dell’immondizia! Che altro ti serve?!
In realtà a Bushido non sarebbe servito altro, teoricamente. Solo che pensava anche ci fosse una bella differenza fra il rimanere colpiti da un bambino piangente e solo nella notte ed il prendersene la responsabilità.
Non era una cosa loro, di lui o di Bill. Era una cosa che gli era capitata fra le braccia.
Triste quanto vuoi, ma non da prendere sottogamba.
Gli occhi di Bill, comunque, urlavano “teniamolo”, e Bushido dovette farsi violenza per non ricordargli che non si stava affatto parlando di un cucciolo o di qualcosa di altrettanto semplice trovato per strada.
Sospirò profondamente e scrollò le spalle. Era una tipica situazione in cui, qualsiasi cosa fosse uscita dalle sue labbra, sarebbe stata quella sbagliata. Perciò preferì stare zitto e lasciare che Bill si esibisse in una delle proprie attività preferite – fingere di saper risolvere i problemi proponendo soluzioni al limite dell’assurdo, alle quali tutti poi sottostavano perché… perché lui era Bill e non esisteva davvero qualcuno capace di resistere a quelle labbra, quegli occhi e quelle sopracciglia, quando si atteggiavano in un determinato modo.
- Facciamo così, Anis… - sorrise infatti il ragazzo, posandogli distrattamente una mano sul braccio, in corrispondenza del tatuaggio col nome di sua madre che, quando veniva chiamato in causa, come in quel momento, risvegliava sempre la parte più tenera, più morbida e più drammaticamente scema della sua personalità, - Stanotte lo portiamo a casa, così almeno si scalda un po’. Domani mattina, con calma, ci ragioniamo su e vediamo se è il caso di portarlo alla polizia o procedere diversamente.
Sarebbe stata una soluzione perfettamente razionale, e Bushido sarebbe stato perfino d’accordo, non fosse stato per il piccolo particolare che lui amava Bill e, siccome lo amava, lo conosceva anche. Conoscerlo, nella situazione specifica, implicava leggergli dentro, però. E nel fondo degli occhi di Bill c’era ancora lo stesso urlo di pochi minuti prima. Teniamolo.
Sospirò.
- D’accordo. – concesse estenuato. D’altronde, erano comunque quasi le undici di sera ed aveva i suoi dubbi che portare il pargolo alla polizia avrebbe sortito effetti immediati. – La festa? – chiese quindi, estraendo già il cellulare dalla tasca del cappotto per avvertire chi di dovere che non si sarebbero presentati.
Bill inarcò un sopracciglio e lo fissò con curiosità.
- Che c’entra la festa? – chiese, con aria perfettamente ignara.
- …ci andiamo o no? – esplicitò lui, facendo scattare il flick del cellulare per invitare chiaramente Bill a rispondere “no, naturalmente torniamo a casa”. Bill non colse l’invito.
- Ovviamente sì. – rispose, disincastrando le ruote del passeggino dai sacchetti di plastica sparsi per terra, - Anzi, diamoci una mossa. Congelerà, se continua a stare qua fuori.
Bushido annuì e si mise al suo fianco per accompagnarlo lungo le poche vie che ancora li separavano dall’appartamento di David, dove, dato l’orario, tutti dovevano già aspettarli da almeno una buona mezz’ora, se non di più. A quel punto, riflettere sulla propria condizione di uomo asservito sarebbe stato deleterio ed inutile: poteva solo immaginare il putiferio che sarebbe scoppiato quando, alla festa, tutti i loro amici e conoscenti avrebbero posato gli occhi sul nuovo membro temporaneo della loro famiglia. Più che lanciarsi a peso morto sul materasso dell’autocommiserazione, gli conveniva restare attento e vigile e badare che Bill non perdesse troppo la testa.
*
David Jost era una persona estremamente semplice da capire, come tutte le persone puntigliose ed ordinate. Solo persone come lui potevano svolgere un mestiere come il suo con tanta bravura, perché per riuscire a governare quattro scalmanati in odore di successo ti serve comunque mantenere una certa rigidità. Uno schema mentale molto solido, insomma, qualcosa cui aggrapparti quando ti svegli al mattino e ti trovi immerso nel caos di un gruppo di adolescenti fuori di testa che sbraitano incolpandosi vicendevolmente per l’estinzione del latte all’interno del frigorifero, e tu non puoi fare altro che guardarti intorno, renderti conto di esserti addormentato sulla tastiera del computer e sperare di non avere i segni dei tasti su tutta la faccia, perché rimproverare dei ragazzini in quelle condizioni di certo non aiuta a renderti autoritario e serio.
A Bushido erano bastate un paio d’ore per inquadrarlo. Quando, spinto da un Bill in palese ansia da approvazione, s’era presentato all’ufficio del manager per ufficializzare la loro relazione, Jost aveva ascoltato ciò che aveva da dire e poi gli aveva posto tre semplicissime domande.
Numero uno: ci tieni davvero a lui?
Numero due: sai in cosa ti stai cacciando?
Numero tre: sei proprio sicuro di volertici cacciare?

Aveva incassato i suoi tre sì di risposta, aveva annuito e poi, semplicemente, aveva agito.
Tempo una settimana, il mondo sapeva che la relazione che migliaia di fangirl avevano immaginato per mesi era semplicemente diventata realtà. Tempo un’altra settimana, il fuoco fatuo della morbosa curiosità dei paparazzi s’era un po’ attenuato ed era tornato ai livelli – altissimi, ma tutto sommato normali – sui quali si attestava in qualsiasi altro periodo dell’anno.
Se le cose si erano svolte così pacificamente, Bushido sospettava lo si dovesse unicamente a quell’uomo. La sua metodicità era qualcosa di incrollabile ed incredibilmente utile.
Bushido, perciò, si fidava di Jost. E, entrando nel suo appartamento, si disse che non aveva niente di cui preoccuparsi, non sarebbe stato da solo a fronteggiare la palese follia di Bill – che aveva continuato a chiacchierare di stanzette con le pareti rosa o celesti per tutto il tempo della strada – e la giustificata curiosità del resto dei loro amici.
Jost, grazie a Dio, non lo deluse.
Stava appollaiato su una sedia a fianco di un’enorme zucca intagliata che sovrastava tutti gli ospiti di almeno una spanna. Non poteva essere vera, ma era bella come lo fosse. Non era palesemente fasulla: non era lucida né eccessivamente liscia e plastificata. Era, invece, opaca e piena di bitorzoli. Ed emanava anche un buon profumo.
Bushido e Bill fecero il loro ingresso all’interno dell’appartamento del manager che l’orologio aveva appena finito di scoccare l’undicesimo rintocco, e la zucca fu in effetti la prima cosa che Bushido vide. Fu anche la prima cosa che vide Bill, naturalmente, e fu per questo che squittì di gioia e batté le mani e per un secondo – un solo secondo – Bushido ricordò che era un ragazzino e sperò potesse essere infantile proprio in tutti i campi: compreso quello delle decisioni avventate.
La verità, però, era che Bill fosse sì un tipo da decisioni avventate, ma anche uno che quella stessa decisione, una volta che l’aveva presa, la portava avanti fino alle sue estreme conseguenze.
Anis pregò semplicemente che quella di Bill non fosse ancora una decisione. E sollevò una mano per salutare.
Tom, che aveva aperto loro la porta, li squadrava dalla soglia con un’espressione indecifrabile sul volto.
- …non capisco da cosa siete travestiti. – confessò alla fine, inclinando un po’ il capo, - Una famiglia di immigrati, tipo? – chiese, puntando il dito verso il passeggino. – Bill, ma dove l’hai trovata questa bambola? Dio mio, è così realistica che fa impressione… - mugolò con orrore mal dissimulato, lasciandosi andare perfino ad una smorfia.
Bill distolse gli occhi dalla zucca e li portò sul proprio fratello.
- Non è una bambola. – precisò candidamente, - È un bambino vero.
Il silenzio, che era ovvio crollasse su tutti loro dopo una rivelazione del genere, fece esattamente ciò che Bushido si aspettava. L’uomo si ritrovò quindi ad osservare Bill e suo fratello squadrarsi con aria incerta mentre, tutto intorno, i vari invitati – poteva perfino intravedere l’immancabile cappellino di Chakuza qualche metro più in là – si voltavano a spiare la scena.
In tutto questo, l’unico suono che sentì fu quello della sedia sulla quale David stava appollaiato. La sentì strisciare contro il pavimento per molti lunghissimi e sfiancanti secondi e poi fermarsi. L’uomo li guardava entrambi. Lui e la zucca sembravano guardarli con lo stesso cipiglio carico di… non era esattamente disapprovazione. Qualcosa più sul tipo del “ma esattamente, per quale motivo siete così stupidi?”. Una cosa più da padre rassegnato e bonario che non da uomo giudicante.
Già il secondo successivo, la perfetta illusione di silenzio che avevano vissuto s’era dissolta come una bolla di sapone e tutti gli invitati s’erano raggruppati attorno al passeggino per sbirciare all’interno. Il bimbo dormiva tranquillo, per niente disturbato dal vociare che riempiva la stanza. Bill osservò le sue guanciotte tonde prendere colore mentre il pancino si alzava e si abbassava al ritmo un po’ accelerato del suo respiro, e Bushido sorrise.
David si fece strada attraverso il capannello di invitati con un semplice colpo di tosse. La marea si aprì come di fronte a Mosè e lui poté guardare all’interno del passeggino, per poi scrutare le espressioni dei nuovi arrivati ed incrociare le braccia sul petto.
- Prima di tutto, Tom, - disse, rivolgendosi al rasta, - chiudi la bocca. Non ti hanno mica appena detto di averlo partorito. – sospirò pesantemente mentre Tom, imbarazzato, obbediva, e poi tornò a guardare Bill. – L’avete trovato da qualche parte, vero?
Il moro annuì, stringendosi lievemente nelle spalle.
- Era vicino ad un cassonetto. – spiegò sommessamente, in un tono che utilizzava solo col proprio manager, lui che in genere era tutto un’esplosione di esuberanza o, al limite, di scazzo cronico. – Non potevamo lasciarlo lì.
David annuì e si voltò a guardare Bushido, una domanda palese e silenziosa negli occhi.
Bushido scrollò le spalle e scosse il capo, arreso. David tornò a guardare il proprio cantante e fece la domanda di cui Anis aveva più paura in assoluto.
Ma avrebbe dovuto aspettarsela. David era un tipo da domande. Se non sai, non puoi gestire.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese a bruciapelo, come fosse un’informazione ordinaria, qualcosa di cui hai giusto bisogno per organizzarti la giornata, ed invece si stava parlando di organizzare un’intera esistenza. La loro, quella del bambino, tutte.
Bill si morse un labbro.
- Non potevamo lasciarlo lì… - ripeté con meno decisione. Bushido osservò la sicurezza vacillare nei suoi occhi e ricordò per quale motivo Jost riusciva ancora a stare dietro a quei ragazzi nonostante tutti gli anni passati e le confidenze condivise, cose che in genere trasformano i rapporti lavorativi in rapporti affettivi. Con lui non era successo, lui era riuscito a mantenere con i ragazzi un rapporto affettivo completamente avulso e parallelo a quello lavorativo. Era questo l’unico motivo per il quale ancora riusciva a portare un po’ di sale in quelle zucche.
David annuì a prese atto.
- Intendete tenerlo? – precisò dunque, e Bill sbiancò, terrorizzato.
- David, non mi sembra il caso- - cercò di intromettersi Bushido, che sì, non aveva alcuna voglia di ritrovarsi una responsabilità simile fra capo e collo così all’improvviso, ma non aveva nemmeno voglia di stare ad osservare il proprio ragazzo sciogliersi in un mare di lacrime perché si rendeva conto di essersi perso in fantasie poco raccomandabili nell’illusione di una notte stregata come quella.
Il manager, comunque, lo zittì con un cenno del capo.
- È una cosa importante. – spiegò a mezza voce, senza il minimo astio e senza neanche un pizzico d’irritazione, solo con competenza: da bravo amministratore di vite altrui. – Intanto, c’è da pensare alla denuncia. Poi, se pensate ci sia la possibilità di tenerlo, avviare le pratiche per l’adozione. Quando e se la madre dovesse ripresentarsi, naturalmente andrebbe tutto a quel paese, ma in caso contrario si dovrà formalizzare il tutto e-
- David, ma Cristo santo, non lo vogliono mica tenere, il moccioso! – sbottò Tom, scioccato, piantando una mano sul fianco e sporgendo un po’ l’anca in una posa molto simile a quelle tanto tipiche di Bill.
David inarcò un sopracciglio e tornò a guardare il Kaulitz minore.
- Bill? – lo chiamò, palesemente alla ricerca di una conferma o di una smentita rispetto alle parole del fratello.
Bill continuò a mordersi il labbro.
Bushido sospirò.
- Sarà il caso di pensarci domattina, David. – disse infine, stringendo con un braccio Bill attorno alle spalle, - È quasi mezzanotte, ormai, e siamo venuti qui per festeggiare. Il bambino, semplicemente, non potevamo lasciarlo lì. Al resto penseremo domani. D’accordo?
David lo guardò ed annuì sbrigativamente. Nei suoi occhi c’era ancora soltanto efficienza.
- D’accordo. – confermò, - Era solo per prospettarvi ogni possibilità. – poi sorrise, addolcendo lo sguardo e stendendo i lineamenti del volto, - Ma possiamo sicuramente farlo anche domani mattina. – concesse sereno.
Bill forzò un sorriso poco convinto, Tom sbuffò e si mosse verso il tavolo colmo di drink e stuzzichini e Bushido realizzò coscientemente di aver appena evitato al mondo una crisi isterica del proprio ragazzo.
Il mondo avrebbe dovuto cominciare a pensare ad un adeguato compenso nei suoi confronti.
- Ehi… - mormorò, rivolgendosi al ragazzo quando la folla si fu dispersa, - È tutto a posto, sì?
Bill ridacchiò nervosamente.
- Sì, certo. – annuì, - È che non mi aspettavo che gli altri la prendessero così seriamente.
- Così seriamente, Bill? – ritorse con un sorriso incredulo e vagamente ilare.
Bill esitò incerto.
- Lo so che un bambino è una cosa seria, Anis. – sospirò profondamente, - Solo non mi aspettavo che… va be’. – si arrese alla fine, scrollando le spalle, - Meglio trovare un posto silenzioso dove metterlo.
Bushido annuì e lo osservò allontanarsi a sguardo basso verso David, che ciarlava allegramente con Tobi accanto alla zucca. Bill richiamò l’attenzione del manager tirandogli la maglia – un gesto infantile che Bill ripeteva spesso con chiunque e che Bushido sospettava fosse stato generato dai vestiti extralarge di Tom, che imploravano per essere tirati – e poi Bushido li vide sparire insieme lungo il corridoio.
- Atze. – si sentì quindi chiamare, e quando si voltò trovò a guardarlo Chakuza, o almeno ciò che in una vita passata doveva essere stato Chakuza e che in questa era, invece…
- …da cosa sei travestito, Chaky?
- Uh? Da Peter Pan.
…un Peter Pan con un berretto da baseball calcato fin quasi sotto le orecchie.
Scoppiò a ridere senza ritegno e ringraziò Dio di avergli dato un amico naturalmente ridicolo, perché in situazioni come quelle ci si ricordava sempre che cose simili erano davvero indispensabili.
- Non mi prendere per il culo, Atze, ci ho messo due secoli a sceglierlo… - borbottò Chakuza, incrociando le braccia sul petto.
Bushido continuò a ridere, cercando invano di fermarsi.
- Scusa, scusa… - concesse quando infine gli riuscì di porre un freno a quello scoppio d’ilarità, - È che… è una calzamaglia, quella, Chaky?
- Era nel costume!!! – si giustificò lui, arrossendo furiosamente e macchiando di rosso quella tondissima faccia bianco latte.
- E non c’era anche un cappellino, assieme al costume? – inquisì, indicando il berretto con un cenno del capo.
- Sì, ma che cavolo, c’era una piuma sopra! Volevo far contento Bill perché sembrava tenerci a tutta questa storia dei costumi, ma ho ancora una dignità. – spiegò seriamente, annuendo. Poi si interruppe un secondo e fece una cosa che Bushido aveva imparato ad interpretare come segno di guai: assottigliò gli occhi. Quando Chakuza assottigliava gli occhi era perché stava per farti una domanda scomoda. E stava per fartela a bruciapelo, scorrettamente, di modo che non potessi proprio evitarla. – E tu? – chiese infatti, inarcando un sopracciglio inquisitore.
Bushido sospirò.
- Io… sono vestito da tuareg. – rise sfibbiando il cappotto e lasciandoselo scivolare lungo le braccia, prima di appenderlo alla spalliera di una sedia.
Chakuza ridacchiò scuotendo il capo.
- Non era quella la domanda. – precisò con un’occhiata dubbiosa.
Bushido scrollò le spalle e sospirò ancora.
- Non lo so se ho ancora abbastanza dignità per dirgli no su questo punto. – rispose guardando altrove, visibilmente in imbarazzo.
Chakuza gli allungò una poderosa pacca in mezzo alle scapole.
- Ti ha ridotto uno straccio, Atze. – commentò divertito, - Ma si tratta sempre di un bambino. Non vostro, oltretutto.
- Sì, sì! – esalò lui con tono lamentoso, alzando gli occhi al cielo, - Credi che non ci abbia pensato? È assurdo, ci è capitato fra le mani meno di un’ora fa e lungo la strada Bill è riuscito a farsi tanti e tali film da confondermi.
- …confonderti in che senso? – inquisì Chakuza, sospettoso.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente lui, - In tutti i sensi, temo. È che mi piacerebbe-
- Alt, alt! – lo fermò l’uomo, agitandogli le mani davanti al viso, - Fermati. Stai per dire una cosa di cui potresti pentirti fra qualche minuto.
Bushido si morse un labbro e rimase in silenzio.
Jost, nel mentre, era tornato in salotto. Da solo. Bill doveva essere rimasto con il bambino.
- È questa la cosa che mi spaventa. – disse alla fine, allungandosi a recuperare una lattina di birra dal tavolo poco distante, - Forse invece non me ne pentirei.
*
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
David era andato via da dieci minuti ed era da quando s’erano ritrovati costretti a spogliarla e cambiarla – visto che aveva ricominciato a piangere e non aveva smesso fino a quando non avevano capito che il fastidio era nel pannolino, e perciò dovevano eliminarlo – che Bill non faceva che pensare a quel particolare.
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
Fu per questo che, quando Tom, certo di trovarlo ancora lì, entrò in camera e si gettò sul letto accanto a lui, le prime parole di Bill furono proprio quelle.
- È una femminuccia, dovrò trovarle un nome.
Tom rise e si stese per tutta la lunghezza del materasso, allargando gambe e braccia e tirandolo per un lembo della maglia traslucida che, in teoria, doveva rappresentare la camicia del bellissimo principe che era.
- Cos’è, le hai sbirciato sotto la gonna? – chiese suo fratello quando ebbe ottenuto ciò che desiderava, cioè che lui gli si distendesse praticamente addosso, poggiando il capo contro la sua spalla ed una mano sul suo petto.
- No, scemo. – borbottò Bill, pizzicandolo attraverso la maglia, - Le ho cambiato il pannolino. – Tom inarcò un sopracciglio, dubbioso. – Be’… David le ha tolto il pannolino e l’ha avvolta in un telo di lino ripiegato in quattro… e poi l’ha fissato con una spilla da balia.
Il rasta scoppiò a ridere, passandosi una mano sugli occhi.
- Quando penso che quell’uomo non potrebbe essere più gay di com’è, ecco che lui mi contraddice! – commentò divertito. Bill lo punì con un altro pizzicotto.
- Non essere cattivo con David, la piccola aveva bisogno di essere cambiata! - ...ed io non avrei saputo dove mettere le mani per farlo, pensò distrattamente ed un po’ amaramente, ma evitò di dirlo ad alta voce. – E comunque da cosa diavolo saresti vestito? Mi sembrava di essere stato chiaro, costume obbligatorio!
Tom roteò gli occhi.
- Sono vestito da me stesso! – spiegò annuendo.
- Ma non puoi vestirti da te stesso! – protestò Bill, incredulo.
- Be’, tu l’hai fatto. – scrollò le spalle suo fratello.
Bill sbuffò.
- Ma perché lo dite tutti? Sono vestito da principe…
Tom ridacchiò e gli lasciò un bacino sulla tempia, stringendolo un po’ per le spalle.
- Non cambiare discorso, comunque. – lo riprese teneramente, - Stavamo parlando della bambina.
- Oh, sì. – annuì lui, - È femminuccia, - ricominciò immediatamente, - perciò-
- Non puoi tenerla, Bill. – lo interruppe seccamente Tom, stringendo un po’ di più la presa sulla sua spalla. – Non è tua.
- …be’, chi l’ha fatta non la voleva. – ritorse lui in un mugugno triste.
- Magari l’ha solo persa. – cercò di farlo ragionare il biondo.
- Ma non si perdono i bambini, Tomi! – sbottò, sollevando di scatto il capo per guardarlo negli occhi. Tom non lo evitò.
- Si perdono tante di quelle cose, nel mondo. – rispose con una scrollatina di spalle, - Comunque non puoi tenerla lo stesso. Non sei in grado. Guarda in faccia la realtà.
Bill tornò ad affondare il naso nel suo petto, giusto per ribadire ulteriormente che, in quel momento, di guardare in faccia la realtà non aveva proprio nessunissima voglia.
- Bill… - lo richiamò suo fratello. Il moro rispose con un mugolio indecifrabile e Tom sospirò e continuò a parlare. – Presente quell’enorme zucca che c’è in salotto? – chiese dal nulla, con tono divertito, - Ecco, pensa se ti dicessi: prendi quella zucca ed abbine cura fino all’anno prossimo. La voglio ritrovare nelle stesse precise identiche condizioni fra trecentosessantacinque giorni. Sarebbe una responsabilità mica male, eh? – Bill non rispose. Strinse la presa delle dita attorno alla sua maglietta e si limitò a sospirare. – Pensa tu con un bambino. Il bambino non deve neanche rimanere nelle stesse precise identiche condizioni, no, deve crescere, diventare più forte, imparare cose nuove. Tu ti stanchi di tutto dopo una settimana, Billi-
- Sarebbe diverso! – protestò finalmente lui, agitandosi furiosamente, - Non sarei solo, tanto per cominciare, e poi non potrei mai stancarmi di un bambino, non è mica un hobby del cavolo, è… - si morse un labbro, - …sarebbe una cosa mia e di Anis, capisci? L’abbiamo trovata insieme, sarebbe una cosa tutta nostra…
Tom rise sommessamente e lo circondò anche con l’altro braccio, stringendoselo contro.
- Tu stai facendo un mucchio di capricci, ma non sei proprio in grado di agire da persona responsabile. Una persona responsabile avrebbe preso il passeggino con tutti i sonaglini e, per prima cosa, l’avrebbe portato in centrale. Magari in ospedale, in alternativa, ma di certo non qui. E non fantasticando su quanto sarebbe bello tenerselo in salotto, quello stesso passeggino. – gli spiegò, coccolandolo lentamente, le dita fra i capelli ed il mento contro la fronte. – Né tu né Bushido avete fatto niente del genere. E questo dimostra che non siete ancora pronti per fare i genitori. – scrollò le spalle, - Prima o poi lo sarete. Ma adesso la bambina ha bisogno di un papà che sappia effettivamente come cambiarle un pannolino, non credi?
La bambina pensò bene di dargli ragione ricominciando immediatamente a miagolare scontenta, agitandosi fra le copertine. Bill si mise seduto e sbirciò all’interno del passeggino.
- Ma farà continuamente così…? – chiese sovrappensiero, allungando una mano ad accarezzarla su una guancia e sorridendo appena quando la vide calmarsi al suo tocco.
Tom si sedette al suo fianco.
- Non che io abbia un’esperienza particolarmente ricca, quanto a bambini, ma mamma si lamentava sempre dei bambini piagnoni, ricordi? Perciò probabilmente sì, fin quando non crescono, piangono.
- Mh. – annuì lui, vagamente triste.
Tom gli mise una mano sulla spalla.
- È che hanno solo questo modo di farsi capire. – spiegò con un sorriso.
Bill sorrise di rimando e si ripiegò contro di lui, alla ricerca di un altro po’ di coccole.
- Secondo te cos’è che sta cercando di dire adesso? – chiese a mezza voce, continuando a guardare la piccola.
Tom sospirò.
- Credo che le manchi qualcuno, Bill. Credo anche che a te manchi qualcuno come lei, ma… insomma. Lei dovrebbe venire prima, no?
Bill si morse un labbro ed annuì.
*
Si svegliò con la lieve risatina di Anis nelle orecchie e sorrise a propria volta, schiudendo gli occhi.
- Dormivi? – gli chiese l’uomo, sedendosi accanto a lui e facendogli passare un braccio attorno alla pancia, tirandoselo contro.
- Nnho… - mentì, mugolandogli addosso e stendendo il capo sulla sua spalla.
Anis rise ancora, fra i suoi capelli, e gli lasciò un bacio sulla tempia.
- Ho visto uscire tuo fratello e non te e mi sono un po’ preoccupato… - confessò, lanciando un’occhiata alla bambina profondamente addormentata nel passeggino.
- Deve essere andato via appena mi sono appisolato… - ipotizzò Bill, stringendosi nelle spalle. Poi lo guardò: - Appisolato, non addormentato, c’è differenza.
Bushido rise e scosse il capo, intenerito.
- Allora, oltre ad esserti appisolato, cosa stavi facendo?
Bill sorrise.
- La guardavo.
- …la?
- Già. – annuì entusiasta, - È una femminuccia. Dovremo trovarle un nome.
Bushido rise ancora, stavolta contro il suo collo, e lo strinse più forte.
- Se fai così, Bill, sarà difficile lasciarla andare.
Bill intrecciò le dita con le sue, mugolando mentre le labbra dell’uomo tracciavano una scia di calore un po’ umido lungo il suo zigomo.
- Non dobbiamo per forza. – protestò debolmente, chiudendo gli occhi.
- E invece sì. – gli sussurrò l’uomo, baciandogli la nuca, - Anche se eri bellissimo mentre la accarezzavi, per strada.
- Ed io muoio dalla voglia di vedertela prendere in braccio, Anis… - mugolò Bill, cercando di rivoltarsi nella sua stretta per baciarlo sulle labbra.
L’uomo lo lasciò muoversi e rispose al bacio perdendocisi dentro, Bill lo sentì abbandonare ogni resistenza in punta di lingua, mentre lasciava che l’abbraccio e le carezze sciogliessero ogni esitazione. Da qualche parte nella testa di Anis, Bill lo sapeva, c’era un mondo speciale in cui quella bambina era già loro e trotterellava felice per casa alla ricerca di un giocattolo o di qualcosa da mordicchiare. Quel posto, Bill lo conosceva bene. C’era anche nella sua, di testa.
Era orribile che l’unica realtà nella quale fosse proprio impossibile trovarlo, fosse anche l’unica realtà che contava qualcosa.
Si separarono l’uno dall’altro senza fare neanche un suono, restando per qualche secondo a respirare e basta, fronte contro fronte.
- Come la chiameresti? – chiese Anis senza aprire gli occhi.
Bill aggrottò le sopracciglia.
Il condizionale feriva un po’.
- Samhain. – rispose d’un fiato, stringendo le braccia attorno al suo collo.
Bushido sbuffò una mezza risata.
- Sarebbe?
- Celtico. – rispose Bill con un sorriso, - È la notte di Halloween in celtico.
- E pensi che sarebbe un nome adatto, per una bambina?
Il moro scrollò le spalle, abbandonandosi più comodamente contro di lui.
- Tu pensi che saremmo due genitori adatti, per una bambina?
Bushido strinse la presa attorno alla sua vita. Poi sospirò.
- Torniamo a casa?
*
C’era ancora molto freddo ed era decisamente molto tardi, ma Samhain s’era svegliata e, per la prima volta da quando l’avevano trovata, sembrava di buonumore. Appena aveva aperto gli occhioni aveva trovato Bill a fissarla dall’alto con una tenerezza disarmante, e non aveva avuto paura. Bill aveva sorriso. “Ciao stellina…” le aveva detto, “sei sveglia?”. Lei non aveva risposto, naturalmente, ma aveva afferrato un sonaglino a caso ed aveva cominciato a mordicchiarlo con quelle gengive rosa ed infantili, sbavando copiosamente sia sul giocattolo che sul telo di spugna che David aveva steso sulle coperte.
Bill e Bushido erano scesi per strada una decina di minuti dopo, nelle orecchie ancora le raccomandazioni del manager – controllare il pannolino, darle del latte tiepido come prima cosa appena tornati a casa, tenerla al caldo, coccolarla – e s’erano avviati sulla stessa strada che avevano percorso al contrario per arrivare da David.
Samhain stringeva fra le mani il sonaglio, Bill stringeva fra le mani il manubrio del passeggino e Bushido stringeva fra le mani le spalle fragilissime del proprio ragazzo.
Né Bill né Bushido – e probabilmente nemmeno Samhain – se ne accorsero, quando passarono di fronte al cassonetto dell’immondizia che li aveva visti unirsi. Era già nascosto sul fondo della mente, l’avrebbero riportato alla luce l’indomani mattina, quando tutto non sarebbe più stato magico e perfetto come in quell’istante ed avrebbe improvvisamente assunto toni più cupi e seri.
Davanti al cassonetto, però, ci passarono comunque. Ed anche quella seconda volta sentirono qualcosa.
- Karen!
L’urlo di una donna.
Si fermarono istantaneamente, stretti tutti l’uno all’altro, e si voltarono verso la fonte di quell’urlo: un corpo magro e slanciato, una donna bionda e pallida con un paio di enormi occhi celesti, avvolta in un cappotto beige ed affiancata da un bambino paffuto biondo anche lui, che stringeva per un polso.
- Oh mio Dio, Karen! – ripeté la donna, avvicinandosi a loro e tirando il bambino per il polso per un metro circa, prima di chinarsi e prenderlo in braccio per velocizzare le operazioni di spostamento, - Grazie a Dio!
Bill serrò automaticamente le dita attorno al manubrio. Bushido fece lo stesso con le sue spalle.
Era la madre.
Piangeva.
Era la madre.
La osservarono chinarsi sul passeggino e sfiorare la bambina con affetto e timore, come a volersi sincerare fosse ancora tutta intera, mormorando paroline dolci fra un singhiozzo e l’altro mentre il piccolino, accucciato accanto a lei, prendeva a piangere a propria volta, scosso dai suoi singhiozzi.
Samhain la imitò presto.
Bill si morse una guancia.
- I bambini… piangono molto spesso, Anis. – commentò a mezza voce, mentre si allontanava impercettibilmente dal passeggino, lasciandolo andare. Bushido non lasciò lui.
I due osservarono la donna riprendersi lentamente, smettere di singhiozzare e rimettersi in piedi, le mani strette saldamente attorno a quelle minuscole della bambina.
- Karl m’è scappato di mano… - spiegò la donna, asciugando le lacrime del bambino con un fazzoletto di carta, - C’era molta confusione e l’ho perso, ho dovuto rincorrerlo, non potevo lasciarlo andare via così, solo che quando sono tornata qui Karen era scomparsa e… - si morse un labbro, - Grazie a Dio siete tornati qui… grazie a Dio. Scusatemi. Grazie.
Bushido annuì lentamente. Bill si nascose contro di lui senza neanche un po’ di vergogna.
Quando la madre e i bambini furono spariti dietro l’angolo, i primi singhiozzi cominciarono a riempire l’aria, sovrastando il rumore dei tacchi dei passanti contro il marciapiede ghiacciato. Bushido li soffocò tutti uno dopo l’altro contro il proprio cappotto, stringendosi addosso Bill come il bambino fosse stato lui.
- Anis… - mormorò il ragazzo, andando alla ricerca di calore nell’incavo del suo collo, - Samhain…
- Va bene così, cucciolo. – lo rassicurò accarezzandogli la nuca, - Saremmo stati due genitori fantastici.
Bill annuì freneticamente contro la sua pelle, incapace di frenare le lacrime.
Prima o poi lo sarebbero stati davvero. In ogni realtà possibile.
Genere: Comico.
Pairing: Bill/Bushido, David/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash.
- Bill ha avuto un'idea geniale: una collaborazione Bushido/Tokio Hotel che possa soddisfare le fangirl molto più di quanto non facciano i flirt pubblici. Il problema è che questa stessa idea finisce per rivoltarsi non solo contro chi l'ha avuta, ma pure contro tutti gli altri. Buongusto delle fangirl lettrici a casa compreso ._."
Note: Questa storia nasce in un modo molto perverso – come perfettamente intuibile dalla tematica, immagino. Nasce, precisamente, con me che, in crisi d’astinenza da Billshido, mi piego a leggere una Billshido/Torg AU decisamente opinabile che non vi linko perché ci sono cose che vanno tenute nascoste alle masse no matter what. Nella storia in questione, Bill era un gioioso allievo un po’ ribelle che finiva in punizione, sorvegliato dal prof di storia – vi lascio indovinare chi fosse. Tom e Georg erano due giocatori di football e l’unica loro utilità era rotolarsi fra i documenti del povero prof di storia di cui sopra – povero non perché fosse in sé sfigato, ma perché non puoi mettere Bushido a fare il prof e non aspettarti che io ci rida su. E anche parecchio.
Comunque. Niente, m’è venuta voglia di infilare Bill in una divisa da scolaretta XD La colpa è del crossdressing. Perciò di Sar@. La colpa del crossdressing è sempre sua. La colpa del Tost – e quindi del conseguente inserimento di Tom che ha dato da solo un perché alla fic – invece, è di Yul, che si lamentava (come al solito) che nessuno le scrive mai fic sulla coppia che piace a lei. Toh XD
Insomma, come vedete io sono completamente innocente °_° La colpa è tutta di altri XD Ma spero comunque che queste cinque paginette di follia vi siano state gradite <3
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FOREPLAY

Tom lo stava guardando come fosse pazzo già da una decina di minuti abbondanti e, sinceramente, la cosa cominciava a farsi un puntino irritante. Bill incrociò le braccia sul petto e sporse un broncio molto offeso, aggrottando le sopracciglia e dardeggiandolo con un’occhiata risentita.
- Be’? – borbottò, - Che hai da fissarmi così?
Tom deglutì e si sistemò meglio sul divano.
- …non avrei affatto dovuto dirtelo. – concluse annuendo lentamente per darsi ragione da solo, - Avrei dovuto continuare a lasciarti nella tua ignoranza, perso nel tuo idillio amoroso col tuo rapper dal cuore di panna, così non avresti mai saputo che…
- …che tu te la fai col mio manager.
- Che è anche il mio manager. – precisò piccato. – Sì, comunque. Non l’avresti mai saputo e non saremmo mai arrivati a questo punto.
Bill batté un piedino a terra e si espresse nel migliore dei suoi bronci da diva insoddisfatta.
- Non mi pare di averti mai dato fastidio, fino ad ora! Ed è un mese che lo so! – si premurò di fargli sapere, fissandolo astioso.
- Ed infatti m’era sembrata troppa grazia! – strillò Tom, scattando in piedi e prendendo a muoversi ossessivamente intorno al divano, - Non lo farò, Bill.
Bill si tirò indietro, i tratti del viso che denunciavano un profondo sgomento – la bocca spalancata, il cipiglio oltraggiato, gli occhi liquidi e brillanti – e lo puntò col dito.
- Come puoi…!
- Non lo farò! – ripeté più duramente Tom, - Ma poi, che utilità potresti ricavarne?!
- Be’, almeno non sarei solo!
- Ma che vuol dire, io non sarei mica lì con te!
- Non fisicamente, ma spiritualmente sì!
- Ma è follia!!! E poi perché, se tu vai a sputtanarti col tuo uomo, devo farlo anche io col mio?!
- Per gemellarità! Che gemello di merda sei?!
- Un gemello che ci tiene alla propria dignità!
- Ti fai David, che dignità può esserti rimasta da difendere ancora?!
Tom ringhiò e concentrò sulla punta della lingua tutto l’astio ed il fastidio di cui si riteneva capace.
- La dignità di uno che per scopare non ha bisogno di infilarsi in un costume e fingere di essere una cosa che non è!
Bill serrò le labbra, risentito.
- Non è un costume! – precisò poi, indicando l’enorme sacchetto di plastica trasparente che giaceva immobile ai suoi piedi, - È una divisa. E quale migliore occasione di utilizzarla, se non questa? È l’unico momento in cui possiamo rischiare di beccarli insieme!
- Io non scoperò con David nella stessa stanza in cui tu stai scopando con Bushido, Bill!
- Ma chi te l’ha chiesto?! – continuò ad urlare lui, sempre più sconvolto, - Dobbiamo solo andarci insieme, poi prenderemo ognuno una stanza!
Tom roteò gli occhi.
- Lo sapevo io. – mormorò con la furia depressa di un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, - L’avevo detto a David. Ai Tokio Hotel non serve una collaborazione con Bushido. È pericoloso dare a quei due l’opportunità di stare insieme anche per lavoro. Sarà un dramma.
Bill trasalì.
- Vuoi dire che hai provato a sabotare il mio magnifico piano fin dall’inizio, Tomi?!
Suo fratello lo guardò e non ebbe neanche la forza di deprimersi oltre.
- Sapevo che doveva essere una tua macchinazione malvagia. – disse invece, tornando a lasciarsi andare sul divano. – Bill, non puoi essere serio. Quei due stanno lavorando, e sono peraltro gli unici lo stiano facendo. Se andiamo a romper loro i coglioni, il nuovo album dei Tokio Hotel non vedrà la luce né oggi né domani né mai. E tu non vuoi che questo accada, vero?
- Ovvio che non voglio! – protestò Bill, disgustato da tanta sfacciataggine, - Che domande. Però per un giorno non andrà mica tutto a puttane!
- Ma perché, Dio mio, perché non puoi aspettare che finiscano di registrare?! Già Bushido è una frana, in sala di registrazione, David sarà isterico, ci presentiamo noi conciati… così! – sbraitò, indicando a propria volta il sacchetto di plastica con un dito, - Sarà la fine!
Bill roteò gli occhi e si preparò ad usare il proprio asso nella manica.
- Tom. Seriamente. Da quando hanno cominciato a lavorare, tu hai più scopato? – Tom fece per aprire la bocca ma Bill lo fermò puntandogli un ditino perfettamente smaltato sulle labbra. – A-ha! – lo rimproverò bonario, - Sii sincero.
E Tom deglutì. Deglutì perché sapeva perfettamente che, quando Bill ti chiedeva di essere sincero, era perché conosceva già la verità. Perciò l’avrebbe saputo all’istante, in caso di menzogna. E le rappresaglie sarebbero state multiformi e spaventose e più variegate di una coppa di gelato fruttato in cinque o sei gusti diversi.
- …no. – si decise a rispondere mestamente alla fine.
- E non ti manca? – chiese Bill, avvolgendolo in un abbraccio improvvisamente comprensivo e simpatetico.
- …sì. – singhiozzò Tom, che già vedeva profilarsi l’Apocalisse all’orizzonte.
- E non vuoi ricominciare a farlo?
- …mh. – annuì, lasciandosi andare contro la sua spalla e chiudendo gli occhi nella speranza di riaprirli poi ed accorgersi di essersi appena svegliato da un orrendo incubo.
Naturalmente non accadde.
- E allora indossa la tua divisa, Tomi… - ghignò Bill, separandosi da lui, - Prima che ti rifili la mia.
Tom guardò in basso al sacchetto e vide le gioiose piegoline di una gonnella alla marinaretta sbucare fuori dalla chiusura in alto. Deglutì ancora e si chinò a raccogliere i pantaloni.
*
David Jost ed Anis Mohamed Youssef Ferchichi erano due uomini molto simili, in svariati ambiti della loro esistenza. Non avere avuto un padre per la maggior parte della loro vita li aveva resi abili a sbrogliare le situazioni complicate per fatti propri, senza creare problemi e capendo sempre in anticipo quale fosse la strada più giusta da intraprendere.
Per tale motivo, era bastato loro guardarsi negli occhi due-minuti-due per capire che, dalla strampalata eppure convincente idea di Bill – io ed Anis siamo sempre in giro a flirtare! Diamo soddisfazione seria alle fangirl! Baciamoci! O forse è meglio incidere un brano insieme?, e naturalmente la scelta era caduta sulla seconda ipotesi – si sarebbe potuto cavare fuori qualcosa di sensato solo a patto di sedersi amabilmente al tavolino e scrivere.
“Scrivere” significava semplicemente che Anis avrebbe dovuto sedersi al suddetto tavolino e buttare giù la solita fiumana di parole non necessariamente dotate di senso ma possibilmente non troppo orrende da sentire una dietro l’altra. Per quanto riguardava David, invece, dal momento che era palese che Bill non si sarebbe mai e poi mai davvero deciso a dare un perché alle idee sparse che spiaccicava un po’ ovunque su qualsiasi superficie disponibile, gli sarebbe toccato sedersi a propria volta e cercare di buttar giù qualcosa di abbastanza poppeggiante da non preoccupare nessuno ma non abbastanza smorto da uccidere di noia i loro fan.
Fu in questa situazione – chinati entrambi su un foglio di carta a scrivere alacremente come ai tempi della scuola – che li colse un lieve ticchettio alla porta dell’ufficio nel quale si erano rintanati per scrivere – o per pomiciare indisturbati, come aveva insinuato Natalie facendo sfoggio di incredibile quanto fuori luogo ironia.
David sollevò gli occhi per posarli su un paio completamente diversi dai suoi – più scuri e più grandi e con delle ciglia da Maybelline che, dannazione, ma si truccava? – ma macchiati della stessa incredula curiosità.
Bushido si premurò di dare voce ai pensieri di entrambi alzandosi in piedi e battendo un pugno contro il tavolo.
- Ma chi cazzo rompe i coglioni?! – disse l’uomo dirigendosi a passi veloci verso la porta, mentre David gettava uno sguardo al foglio e motivava quell’astio con le lunghe ed arzigogolate linee d’inchiostro che il rapper aveva tracciato sul quadernetto, per poi cancellarle invariabilmente e pure con una certa furia.
David osservò l’uomo pararsi di fronte alla porta e spalancarla con tanto impeto da potere arrivare a scardinarla senza problemi.
- Non è il momento di- - iniziò, ma le parole gli morirono in gola quando, di fronte ai suoi occhi, si parò esattamente l’ultimo spettacolo che potesse aspettarsi di vedere in una situazione come quella. Forse in un sogno, forse ad Halloween, forse in un universo alternativo avrebbe potuto accettare come normalità vedere Bill vestito come una scolaretta, ma non – assolutamente non – quando stava cercando di scrivere una canzone. Per lui, peraltro.
- Buonasera, signor Ferchichi… - cominciò Bill, stringendosi pudicamente nelle spalle e piegando un po’ le gambine per guardarlo dal basso come una lolitina un po’ scema, - io e Tomi siamo qui per le ripetizioni… se anche il signor Jost è in casa.
Nella mente di Bushido si formarono tutta una serie di giustificatissime domande. Signor Ferchichi?, tanto per cominciare. E poi, a seguire, ripetizioni? In casa? Signor Jost?
- Che succede? – riecheggiò alle sue spalle la voce del manager, e l’uomo, non riuscendo a trovare parole adeguate per spiegare cosa stesse guardando, si limitò a farsi da parte e lasciare che Bill e Tom si stagliassero contro la soglia della porta in tutto il loro – presunto – splendore.
Se già Bill poteva definirsi uno spettacolo inquietante – in molti sensi, peraltro – con quell’indecente gonnellina blu a piegoline che non riusciva a coprire neanche tutti i boxer e la maglia leggera che si fermava ondeggiando proprio sull’orlo del tatuaggio sull’inguine, Tom era addirittura straniante: s’era infilato dentro una divisa da damerino svogliato – camicia semiaperta, cravattino allentato, mani mollemente abbandonate nelle tasche dei pantaloni chiari – che lo rendeva… perfino conturbante. Più di quanto già non fosse di solito, almeno.
- …oh. – fu il commento del manager.
Bushido lo guardò.
- Oh? – chiese, inarcando un sopracciglio e puntando i gemelli con un dito, - Questa ti sembra una cosa da “oh”? Non da “Cristo santo” o da “siete indecenti” o chessò io?
David deglutì e si ritrovò costretto ad abbassare lo sguardo, mentre Bill ghignava in maniera così cattiva da fare paura.
- Sì, be’, sapevo… - deglutì, - …sapevo delle divise, ecco.
Bushido lo guardò. Bill rideva. Tom fissava il proprio gemello ed il proprio manager con una curiosità venata appena dall’ebetismo tipico di chi non sta capendo un accidenti di ciò che si sta verificando di fronte ai propri occhi.
- Sarebbe a dire? – chiese il rapper, impaziente, senza riuscire a tornare a guardare Bill, che nel mentre aveva incrociato le braccina dietro la schiena e stava ondeggiando felice da un piede all’altro, facendo frusciare la gonna.
- Sarebbe a dire, - cinguettò appunto il moro, palesemente divertito, - che erano nel suo armadio. Gliele ho rubate.
L’invocazione di Tom – un “David…?” che probabilmente sentì solo Bushido, tanto era basso e tremolante – era quanto di più vicino al lamento disperato di un condannato a morte che l’uomo avesse mai sentito.
- Stavo… - motivò il manager, furiosamente imbarazzato, - …aspettando il momento giusto per tirarle fuori… - sollevò gli occhi sul proprio ragazzo, - Ma non erano per te e per Bill, erano per… te e me…
Bill continuò a sorridere trionfante come avesse capito tutto perfettamente fin dall’inizio e anzi fosse stato lui a manovrare i desideri del manager apposta per obbligarlo a comprare due divise da scolaretti di modo che poi lui potesse sgattaiolare felicemente in camera sua e rubargliele.
Bushido si chiese ragionevolmente come avesse potuto passare tanto tempo con quell’uomo senza capire le oscenità che gli vagavano per la testa.
Tom, semplicemente, scattò in avanti con un ringhio furioso e strillò un “Ma io ti ammazzo! Tu volevi infilarmi in una gonna!” che sarebbe stato sicuramente il preludio di una morte certa – visto che Jost stava a capo chino e non sembrava intenzionato a difendersi – se Bushido non avesse allungato una mano e fermato il Kaulitz assassino arpionandolo per la collottola e riportandolo letteralmente coi piedi per terra, borbottando con una certa competenza “Adesso ci calmiamo e facciamo le persone serie, ok?”.
Tom continuò a ringhiare oltraggiato fra le sue mani, mentre Bill, naturalmente, ignorava il suo invito a calmarsi tutti e, soprattutto, tornare tutti sani maschi etero – cosa che non sarebbe guastata, visto come si finiva a trentasei anni, scivolando su quella china – preferendo saltellare felice per la stanza fra incredibili sollevamenti di gonna e planare disinvoltamente sul tavolo, accavallando le gambe e rovesciando uno zainetto pieno di libri sulla superficie che, fino a pochi secondi prima, ospitava il lavoro di tutta una settimana, ora inesorabilmente disperso sul pavimento.
Jost rimase immobile seduto al proprio posto con gli occhi bassi, cosa di cui Bushido gli fu anche in parte grato, visto che, da quell’angolazione lì, si doveva avere una panoramica di un certo sederino davvero niente male. E il sederino era suo, ringhiò interiormente Bushido.
No, tornare sani maschi etero sarebbe stato parecchio difficile.
- Io e Tomi abbiamo problemi con certe equazioni… - disse Bill, angelico, aprendo un libro d’inglese a caso e puntando il dito su qualcosa che doveva probabilmente essere una qualche coniugazione di un qualche verbo che, di numeri, non ne vedeva implicati neanche per sbaglio.
- Bill, potresti almeno essere meno palese. – commentò Bushido, mentre Tom si liberava dalla sua stretta ed andava a schiantarsi contro un divano, lanciando alternativamente occhiate d’odio a Jost, al fratello e perfino a lui che, in tutto quel disastro, era l’unica persona veramente incolpevole.
Il moro aggrottò le sopracciglia, offeso, ed accavallò le gambe in un’imitazione di Basic Instinct così perfetta – mutande a parte – che avrebbe potuto valergli l’Oscar.
- Domani c’è un compito in classe… - raccontò ritrovando immediatamente il proprio entusiasmo e ignorando per contro la sua protesta, - Vero, Tomi?
“Tomi” grugnì.
- Tomi?
- Sì, sì. – confermò il rasta con un vago gesto della mano, tornando a fissare il proprio manager con aria omicida.
Bushido roteò gli occhi e poi si volse implorante verso David, alla ricerca di un po’ d’aiuto e, chissà, di una camicia di forza. Magari nell’armadio aveva anche quella. Si ritrovò di fronte uno spettacolo ancora più agghiacciante dell’imitazione di Sharon Stone: David Jost stava raggomitolato sulla propria sedia, con la testa fra le mani, e mugolava indistintamente “è la fine, è la mia fine” ondeggiando pure un po’.
- Signore dammi la forza. – sospirò il rapper esasperato, per quanto si rendesse perfettamente conto dell’inutilità di stare lì ad invocare l’inesistente rompicoglioni che, apparentemente, si divertiva a rendere le loro vite un inferno in terra. – Bill, hai veramente bisogno d’aiuto per studiare o vuoi solo rompere i coglioni e sabotare la tua band?
Bill s’infuriò e gli sollevò il libro a un palmo dal naso.
- La matematica! – borbottò offeso.
- Questo – puntò il dito Bushido, scostandosi il libro di dosso, - è inglese.
Bill tirò il manuale a sé e lo guardò con un certo interesse. Poi scrollò le spalle e tornò a spiaccicarglielo in faccia.
- Potrebbe spiegarmi l’esercizio numero ventuno, signor Ferchichi?
Dal momento che Bill non sembrava disposto a ragionare in tempi utili – posto lo fosse mai stato, naturalmente – Bushido sospirò e si voltò verso Tom, che quantomeno sembrava ancora in sé. O meglio: era fuori di è, ma aveva ragione ad esserlo. In tutta onestà non avrebbe saputo immaginare in che modo Tom potesse aiutarlo a sistemare la situazione, ma era un tentativo da fare comunque.
- Tom, - disse conciliante, - so che sei arrabbiato-
- Io non sono arrabbiato. – ringhiò il biondo, assottigliando gli occhi come quelli di un gatto, - Io sono perfettamente lucido. Io lo ucciderò. Lo legherò al letto, lo avvelenerò e così morirà fra atroci dolori mentre io incido sulla sua pelle le fottute piegoline della fottuta gonna che voleva farmi indossare.
Al sentire quelle parole, il mugolio indistinto di David si fece più forte. Bushido cominciò a temere seriamente per la vita di tutti in quell’angusto studiolo. Principalmente per la propria, oltretutto. Ne sarebbe uscito vivo solo Bill, come la sottospecie di angelo della morte che in effetti era.
Sospirò.
- Tesoro. – chiese poi al proprio ragazzo, fissandolo intensamente, - Ti senti mica trascurato, ultimamente?
Bill lo fissò con sincera incredulità.
- Sì. – rispose quindi, annuendo compunto.
Tom ringhiò e David sollevò il capino – gli occhi veramente colmi di lacrime. Bushido si chiese se fosse possibile consolare con un abbraccio un uomo di quell’età, ma poi decise che non sarebbe stato il caso di abbracciare qualcuno di fronte a Bill neanche se quel qualcuno avesse avuto dodici o tredici anni. Anzi, forse sarebbe stato peggio.
Indicò con un vago gesto della mano il bizzarro abbigliamento del suo ragazzo.
- Questi… - disse, abbracciando con lo sguardo camicetta e gonnellina, - sono un sintomo del tuo disagio?
Bill continuò a fissarlo con incredulità.
- Sì. – rispose ancora, sempre annuendo compunto.
Bushido incrociò le braccia sul petto e meditò.
- Vuoi mica scopare? – chiese infine, come illuminandosi d’immenso.
Bill sollevò la gonnellina dall’orlo ed inarcò un sopracciglio come se la risposta fosse implicita in quel movimento.
Bushido annuì e poi sorrise, scuotendo il capo, divertito. Si chinò verso di lui, stringendolo alla vita con un braccio fino a trascinarlo in piedi e schiacciarselo contro, fissandolo negli occhi ad un centimetro dal suo viso.
- E non bastava chiedere…? – gli soffiò addosso, osservando compiaciuto gli effetti del proprio respiro sul suo corpo – il rossore delle guance, gli occhi improvvisamente luminosi, la lingua a saettare fra le labbra per inumidirle nella speranza di ricevere un bacio.
Bill sollevò una gamba e la insinuò fra le sue.
- Allora forse è meglio se mi porta di là, signor Ferchichi… e studiamo anatomia.
Bushido rise.
- Questa era orribile, Bill.
- Sì, è vero. – rise anche il ragazzo, stringendosi nelle spalle, - Comunque io volevo anche aiutare loro due, eh. – borbottò accennando col capo sia a Tom sempre seduto sul divano a ringhiare che a David sempre seduto sulla sedia a piangere, - Non siamo mica gli unici che hanno smesso di scopare causa lavoro.
Bushido scosse il capo.
- Hai fatto più danno che altro, mi sa. – commentò come se gli altri due non fossero presenti e non potessero sentire. La reazione di Tom fu incassare ancora di più la testa fra le spalle ed intensificare la quantità d’odio fuoriuscente dagli occhi.
David guardò Bushido con aria persa.
- Non vorrete veramente andarvene… - piagnucolò indecentemente, deglutendo terrorizzato.
Bushido scrollò le spalle.
- Sei un uomo piacevole, Jost, ma, che dire?, Bill ha decisamente bisogno di una mano.
- O anche due. – rincarò il moro, annuendo freneticamente in un frusciare di capelli che Bushido si ritrovò controvoglia ad immaginare stretti in due graziosi codini legati ai lati della testa.
Mentre trascinava il ragazzo in una stanza adiacente, pensò d’altronde che magari, prima di farlo, il tempo per un po’ di foreplay si sarebbe pure trovato.
Né Bill né Bushido avvertirono le urla provenire dall’altra stanza, quando Tom portò a termine la propria vendetta. Non sembravano, in ogni caso, segnali della morte di nessuno.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst (lievissimo), Slash.
- "Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì."
Note: …*l’amore la sommerge* Dio quanto mi mancavano ;___; Bill e Bu, vivi, felici ;O; *muore* Sono in iperventilazione, al momento, perché l’ho riletta alla ricerca di correzioni da fare per pubblicarla, e mi è pure piaciuta. Miracolo & sconvolgimento emotivo *annuisce*
DAVID!!! X’D *progetta grandi cose per lui* No, davvero, non ho niente da dire è.é Però questa cosa andava scritta. Punto. XD
PS: Il titolo è rubato all’ennesima canzone del Bu e significa “quest’unico desiderio” <3
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DIESER EINE WUNSCH

Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì. Che non sono i suoi occhi normali, perché in genere Bill quando ti guarda in maniera normale non ti fa paura. È quando dà alle sue occhiate quell’inflessione cucciolosa ed amorevole e apparentemente innocua che mira a scioglierti il cuore per assoggettarti al suo volere, che tu cominci a tremare. Ma tremare davvero.
Perciò, quando lo vidi entrare nella stanza, timido e timoroso e tutto occhi, io tremai, e cercai di farmi minuscolo sulla poltrona in pelle marrone, quasi per sparirci dentro.
Naturalmente non c’era alcuna possibilità che una cosa simile avvenisse. Eravamo solo io e lui nella stanza, lui non parlava ancora ma io sapevo perfettamente che l’avrebbe fatto da lì a poco, e che quello sarebbe stato l’inizio della fine. E non c’era niente che potessi fare se non prepararmi al peggio e sperare di contenere i danni.
Che sarebbero stati enormi.
Lo seppi con certezza nel momento in cui si sedette – senza avere ricevuto alcun invito in proposito, s’intende – e si dedicò per qualche secondo alla complicata operazione di torturarsi le dita, prima di sollevarmi addosso quelle pozze castane e schiudere le labbra per garantire una via di fuga a cinque minuscoli sussurri – l’inizio della fine, appunto: sai, David, Anis ed io…
- No. – risposi pacatamente, sistemando dei documenti sparsi sulla scrivania. Avrebbero tranquillamente potuto essere carta straccia o fogli bianchi, non era importante: ciò che importava era darsi un tono e, soprattutto, dare ad intendere a Bill fossi indaffaratissimo e non fossi perciò disposto ad ascoltare le sue follie.
Lo vidi combattere per un secondo fra la possibilità di mantenere l’espressione da cucciolo o mettere su un broncio molto indispettito. Probabilmente non sapeva quale fra i due potesse avere, a lungo andare, maggiore effetto sul sottoscritto. Sperai imboccasse la strada sbagliata.
Lui si mantenne cucciolo ed io imprecai contro il mio cattivo karma.
- Non sai neanche cosa stavo per dirti… - mugolò dispiaciuto, sorridendo appena in un modo lieve e lontano da diva delusa dalla vita.
Io finii di rassettare le inutili scartoffie e mi chinai verso di lui, guardandolo severamente.
- Non ne ho bisogno, Bill. – spiegai, - Hai nominato Bushido. Qualsiasi cosa sia, non può che essere un disastro, visto che saremo in giro per la Germania per tutta la prossima settimana. – mi fermai un attimo. – In tour. – precisai poi, nel caso l’avesse dimenticato.
Bill annuì freneticamente, un sorriso un po’ più fiducioso a farsi strada sul suo volto.
- È proprio per questo che pensavo che magari Tom avrebbe potuto trasferirsi nel tourbus di Georg e Gustav e-
Lo fermai con un cenno della mano, guardandolo negli occhi con la fissità di un pazzo.
- Cioè tu vuoi mandare tuo fratello da Georg e Gustav per tenere Bushido nel tuo tourbus. – esplicai con aria assente, - Vuoi distruggere ciò che resta dei Tokio Hotel, Bill?
Lui inarcò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, palesemente colpevole.
Niente da dire riguardo le capacità quasi schizofreniche di Bill di cambiare umore ogni qualvolta se ne presenti la necessità. E io ci casco come un cretino, sempre.
- Bill, non puoi chiedermelo. – cercai di farlo ragionare. Sarebbe stata la guerra. Io non potevo permettermi di dare all’unico chitarrista che accettasse di suonare nei Tokio Hotel un’occasione per mollarli definitivamente e diventare un uomo del ghetto come desiderava. Soprattutto perché, se fosse diventato un uomo del ghetto in quel periodo, come minimo avrebbe scatenato una guerra fra bande nel tentativo di massacrare di botte Bushido e tutta la sua compagnia. Il che mi avrebbe portato a dover organizzare un funerale che non ero davvero sicuro di voler organizzare – anche se avrebbe risolto un mucchio di problemi alla base.
- Ci vediamo così poco, David… - rispose semplicemente lui, riprendendo a torturarsi le dita, - È davvero troppo poco. È riuscito a ritagliarsi una settimana libera. Lo capisci, David? Tu lo sai perfettamente quanto costi una settimana di libertà. – tornò a guardarmi, improvvisamente serio. Nei suoi occhi, una luce matura che mi spaventò non poco. – Per favore. Solo questa volta.
Sospirai.
- Naturalmente dovrò vedermela io, con tuo fratello. – borbottai irritato, ricominciando ad affastellare fogliame di fronte a me, sperando, chissà, di creare una pila e nascondermi agli occhi dei miei impegni.
Bill ridacchiò lievemente.
- Ancora con me non parla. – disse a bassa voce, e non aggiunse altro.
Feci un vago gesto con la mano.
- Sparisci. – buttai lì, disperdendo la pila di inutili fogli e cercando di capire cosa farne, - E digli di venire solo all’ultimo momento! – aggiunsi mentre Bill letteralmente scattava in piedi, scavalcava la scrivania e mi saltava addosso, affogandomi nei propri capelli.
Non riuscii a scollarmelo di dosso per tutta la successiva mezz’ora, ma non posso dire che mi dispiacque.
Mi dispiacque moltissimo ciò che fui costretto a fare dopo, però.
Entrai in camera di Tom che lui già subodorava guai. Tom ha questo talento particolarissimo per le situazioni di pericolo: quando sa che nel giro di poco tempo potrebbe succedere qualcosa di brutto per se stesso o per suo fratello, scatta sull’attenti e dà il via alle manovre di fuga. Chessò: fugge alle Maldive, o torna a casa a Loitsche o si dà alla macchia. In ogni caso, scompare e si tira fuori d’impaccio.
Quella volta arrivai in anticipo – se sia stata fortuna o sfortuna non saprei dirlo – e lo trovai nel bel mezzo di una frenetica preparazione di borsone per la notte.
Guardai lui. Il borsone. Di nuovo lui.
- Dove stai andando? – chiesi in tono casuale, come fosse una normale curiosità di manager.
Lui deglutì e rispose con la stessa falsa neutralità.
- Da Andi. – disse annuendo, - Mi andava di cambiare aria, per un po’. Almeno fino all’inizio del tour.
Annuii.
- Perfetto. – concordai, - Mi sembra un’ottima idea. Ma prima dobbiamo parlare.
E lì Tom naturalmente cominciò ad andare fuori di testa. Probabilmente non immaginava cosa stessi per dirgli di preciso, ma dalla curva delle mie sopracciglia doveva averne intuito la generica gravità. Fui per un attimo orgoglioso di lui, ma tornai subito in me.
- Tu non ti arrabbierai. – ordinai tranquillamente, puntandolo con un dito.
Tom aggrottò le sopracciglia.
- David, non dirmelo neanche.
Sospirai.
- Devo prepararti al-
- Non dirmelo neanche!!! – ripeté, strillando come un indemoniato, - Non dirmelo, cazzo, no!
- Tom, calmati! – cercai di fermarlo afferrandolo per le braccia, prima che cominciasse a lanciare tutto intorno il contenuto del borsone. Lui mi ignorò.
- Dimmi che viene stasera. Cazzo, dimmi che sta con lui stasera perché io stasera non ci sono, David. Posso sopportarlo, se sto a chilometri di distanza!
- Tom… - sospirai pesantemente, spingendolo con tanta forza da mandarlo seduto sul letto. Non ne servì molta, in realtà. Tom è piuttosto gracile, ed anche quando è davvero arrabbiato la sua forza non aumenta, perché con la rabbia Tom ci si svuota del tutto. - …tuo fratello ci tiene moltissimo. – partii, sperando che questa fosse la via giusta.
Non lo era, naturalmente, ma non me ne stupii più di tanto. Qualcosa nel mio karma era decisamente storto.
- Non me ne frega un cazzo di ciò a cui tiene lui! – sbraitò furiosamente, cercando di rimettersi in piedi. Glielo impedii.
- Si vedono poco.
- Potrebbero non vedersi mai!
- Bushido ha faticato per prendersi una settimana di ferie.
- Poteva risparmiarselo! – si fermò. - …quale settimana?
- Tom, tu non ti arrabbierai.
- Io. Sono. Già. Arrabbiato. – e lo disse con freddezza. Con una specie di furia immobile che mi diede i brividi. Guardandomi negli occhi, lo disse, senza evitare i miei neanche per un secondo.
Sospirai ancora.
- Starai nel tourbus con Georg e Gustav.
- No.
- Solo per una settimana!
- No, Cristo!
Scattò nuovamente in piedi e non fui abbastanza veloce da fermarlo. Me lo trovai che mi fissava dai dieci e passa centimetri di cui mi stacca in altezza, ed il fuoco che bruciava nei suoi occhi nocciola aveva veramente qualcosa di inestinguibile che faceva paura.
Non mi stupì che Tom non volesse parlare con suo fratello. Probabilmente quello sguardo era l’unica cosa che si sentisse davvero in obbligo di risparmiargli. Più degli insulti o delle incomprensioni o della mancata accettazione.
- Qualsiasi cosa tu possa dire o fare, Tom, non cambierà la situazione. – mi sforzai di dire seccamente. Lui aggrottò le sopracciglia ed il suo sguardo si fece distante. Io non stavo parlando solo del tour e lui l’aveva capito.
- Ho bisogno di… - biascicò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte. Poi si rese probabilmente conto del fatto che ripetere la stessa lagna di sempre – ho bisogno di tempo per abituarmi, la colonna sonora delle ultime settimane – sarebbe stato completamente inutile, e lasciò perdere. – Tanto devo per forza accettarlo, no? – ringhiò cattivo, - Bill ha sempre ragione, alla fine dei giochi.
Sospirai e scrollai le spalle.
- Bill è innamorato.
Tom ringhiò ancora e non rispose. E meno male, perché non so cosa avrebbe potuto dirmi con precisione, ma immagino piuttosto bene che sarebbe stato qualcosa di davvero poco piacevole.
Viste le premesse, avrei dovuto aspettarmi che la cosa potesse solo peggiorare, da quel momento in poi. Ed infatti me lo aspettai. Tornai da Bill, lo rassicurai sul fatto che suo fratello non avrebbe compiuto una strage ma che gli sarebbe convenuto comunque stargli alla larga se non voleva mettere alla prova la propria fortuna e poi mi preparai ad accogliere Bushido in casa mia. Più o meno.
Con Bushido avevo avuto pochi scambi ridotti al minimo, fino a quel momento. Il periodo di tempo più lungo mi fosse capitato di condividere con lui era stato quando, asfissiato dalle lamentele di un Tom sull’orlo di un crisi isterica per la preoccupazione, m’ero diretto all’infausta Villa Gialla degli Orrori e mi ero eretto contro la porta per poi sgonfiarmi subito dopo nel ritrovarmi davanti una donnina alta un metro e venti che mi invitava ad accomodarmi e chiedeva al padrone di casa, all’interno, se mi sarei fermato a cena.
Bushido non mi chiese se mi andasse di mangiare con loro. Aspettò che lanciassi uno sguardo un po’ incerto a Bill – accucciato in un angolo del divano in una tuta palesemente ottomila taglie più larga di quella che gli sarebbe servita – e poi mi fece strada all’interno della villa.
Restai solo per il tempo della cena e, per qualche strano motivo, Bushido mi convinse. Non dovette fare nulla di particolare – nulla più che sorridere e… suppongo indossare una camicia bianca sotto un maglione blu. Ma questo non deve necessariamente essere reso noto. – ma lo fece. Andai via che mi sentivo bene.
Ciò non toglieva che Bushido rappresentava la fonte primaria dei miei problemi, in quel momento. Non potevo prenderlo alla leggera.
Allora non immaginavo che sarebbe stata una maledizione dura a morire. A ripensarci adesso è quasi divertente. Quasi.
La partenza era fissata per le quattro del pomeriggio. Erano le due e Bill stava saltellando, chiaro segno che Bushido sarebbe arrivato a minuti. Osservai il minore dei Kaulitz specchiarsi in qualsiasi superficie riflettente lo circondasse e poi decidere che doveva necessariamente andare in bagno a darsi una risistemata. Sparì nel corridoio e sentii i suoi passi frenetici muoversi ticchettando sul pavimento e poi la chiave girare nella toppa.
Suonò il campanello in quel preciso istante e la casa venne avvolta nel silenzio.
Deglutii profondamente e mi diressi verso la porta. Quando la aprii, mi trovai di fronte Bushido in posa plastica, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite ed una mano in tasca. Il solito sorriso brevettato. Il maglioncino e la camicia.
Mi diedi dell’idiota.
- Tu. – notificai, cercando di mantenere un’impassibile freddezza che non mi facesse sembrare uno stronzo irritato – perché non lo ero – ma neanche gli desse a intendere che lo trovassi simpatico – perché così non era.
Il sorriso sul volto di Bushido si allargò e lo vidi rimettersi dritto in una posa che non dovesse necessariamente ricordare quella di una foto da poster, prima di farsi avanti, trascinandosi alle spalle una valigia di dimensioni – ringraziando il cielo – piuttosto contenute.
- Non sono qui per te, Jost. – mi prese giovialmente in giro, - Anche se possiamo organizzarci.
Mi allontanai, aggrottando le sopracciglia. Alle mie spalle, risuonò la voce di Bill.
- Anis! – lo sentii sillabare in tono di rimprovero, - Che dici?!
Bushido mi staccò gli occhi di dosso e li portò su Bill. E per un istante potei capire esattamente per quale motivo Bill fosse disposto ad andare perfino contro l’altra metà di se stesso, per tenersi attaccato a lui. Lo si vedeva chiaramente nei loro sguardi che in fondo – ma neanche troppo in fondo – ne valeva semplicemente la pena.
- Vieni qui. – rise Bushido, giocosamente.
Bill gli si catapultò fra le braccia. Quando lo sentii mormorare “un’intera settimana! Puoi crederci?”, ritenni più opportuno farmi da parte. Tom andava aiutato a preparare valigie che non voleva assolutamente essere costretto ad usare.
*
Bushido era, invero, un uomo molto discreto. Non si sarebbe detto, e in effetti forse “discreto” non è la parola più adatta per descriverlo. Probabilmente era solo… opportuno, ecco. Era la grande differenza che correva fra lui e Tom, una differenza motivata principalmente dallo scarto d’età che li separava. Bushido aveva imparato a memoria pregi e difetti della propria posizione e della propria personalità, e li usava con discernimento e disinvoltura. Tom no. Tom era un bambino che si agitava a casaccio. Proprio per questo motivo, creò molti più problemi lui che non l’uomo, durante il passare della lunga settimana di tour che ci accompagnò in giro per tutta la Germania.
Bill non si accorse di nulla. Un po’ perché, quando scendeva dal palco, si catapultava nel tourbus e da lì non usciva fino al giorno dopo. Un po’ anche perché le manovre contenitive a base di birra pizza e cazzeggio sul tourbus di Gustav e Georg sortirono i loro positivi effetti e Tom riuscì non dico a rasserenarsi ma almeno a svagarsi un po’.
In ogni caso, non successe nulla di irreparabile. Bill uscì da quella settimana come trasfigurato. Mi piaceva vederlo in quel modo. Era raro vederlo così felice, prima di Bushido.
- Non sei proprio una completa e totale dannazione. – gli dissi una mattina, preparando il caffè sul loro tourbus. Bill dormiva felicemente, mi aspettavo lo facesse anche lui e mi stupii non poco quando invece me lo vidi apparire accanto in maglietta e pantaloncini.
Lui rise, palesemente divertito.
- Non sapevo mi considerassi una dannazione. – commentò distrattamente, mentre si allungava a recuperare dei biscotti dal ripiano.
Risi anch’io.
- È difficile considerarti un miracolo, visto lo sconvolgimento che porti.
Scrollò le spalle, aprendo il frigorifero e mandando giù circa mezzo litro di latte direttamente dal cartone.
- Tu sei uno bravo a sistemare le cose, vero, Jost? – chiese, senza aggiungere niente al mio precedente commento.
Inarcai le sopracciglia, inclinando lievemente il capo.
- Quando serve. – risposi vagamente, tornando a concentrarmi sul caffè.
Lui annuì.
- Perfetto. – rispose con una mezza risata ed una scrollatina di spalle, - Allora non hai nulla di cui preoccuparti, sistemerai anche me.
Lo fissai, ancora un po’ intontito dal sonno, mentre recuperava una tazza, versava il latte rimanente e vi lasciava piovere sopra una cascata di biscotti, spezzettandoli distrattamente a colpi di cucchiaio prima di tornare verso le cuccette.
- …non si mangia in zona notte! – fu tutto ciò che riuscii a dire. Passai naturalmente ignorato.
Titolo originale: id.
Autrice: Cynical_Terror.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Lemon, Slash, Traduzione.
- E' partito tutto con uno scherzo. Ma non sta ridendo più nessuno.
Note: WIP.
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INVITATION
Capitolo 1

Bill siede da solo nella propria camera d’albergo, arricciato sul letto con addosso solo il pigiama, e fissa con aria assente il televisore.
- Sono solo, grandioso… - mugugna, raccogliendo l’orlo del pantaloni che usa per dormire. L’hanno lasciato di nuovo lì, o meglio, è stato lui a rifiutare di uscire con loro. Si sente come una pezza usata, lo sa perfettamente, ed è stufo di discoteche, alcool e ragazze che si fanno carine solo per lui.
Avevano programmato di non uscire, quella sera. Avevano bisogno di un po’ di pausa dalla frenesia del tour, avevano semplicemente bisogno di un po’ di calma. Quella sarebbe stata la prima serata, dopo una settimana, in cui non ci si aspettava da loro che dovessero trovarsi da qualche parte. E, davvero, Bill era emozionato fin nel profondo dalla prospettiva di annoiarsi fino alle lacrime.
Avrebbero guardato un film e poi Tom aveva promesso che sarebbe rimasto un po’ con Bill per lavorare a qualche canzone. Bill aveva un sacco di idee, frasi e pezzetti di melodie che volteggiavano nella sua testa, ma non poteva fare niente senza che Tom rimanesse al suo fianco a provare accordi sulla chitarra.
Ma ovviamente, come al solito, niente era andato secondo i piani. Tom aveva incontrato una bionda sorprendentemente carina dopo il concerto. A Bill non era sembrata particolarmente diversa dalle altre, ma Tom aveva insistito col dire non avesse mai visto niente di simile. Lei era diversa, meravigliosa, e cazzo, lui aveva bisogno di una scopata. Ed aveva altre tre splendide amiche nel proprio appartamento, perché non organizzarsi per andare un po’ in giro per club, quella sera?
David aveva acconsentito, se non altro perché meritavano un po’ di libertà.
Bill sospira e fa zapping, fermandosi su una stupida commedia americana doppiata in tedesco. Osserva le loro bocche muoversi in maniera completamente diversa rispetto alle parole che sente.
Fare un giro dei club con un fratello sbronzo ed un gruppo di fangirl eccitate non era affatto l’idea che Bill aveva di una pausa. Preferisce di gran lunga restare seduto da solo nella propria camera, ed è esattamente ciò che sta facendo. E sono solo le dieci. Lo aspetta una lunga notte.
Normalmente, Bill sarebbe uscito con gli altri, avrebbe sorriso e si sarebbe ubriacato abbastanza da divertirsi un po’. Avrebbe fatto finta di ignorare il fatto che a Tom non fregava un cazzo del fatto lui ci fosse o meno. Non è mai stato bravo a fare da spalla, perciò Tom finisce sempre per fare coppia fissa con Georg, nei club, lasciando Bill e Gustav per i fatti loro.
- Mi sono rotto. – dice Bill. Dà un calcio al piccolo beauty case poggiato ai piedi del letto, e percepisce la propria frustrazione infiammarsi mentre la borsetta cade sul pavimento, spargendo intorno a sé il proprio contenuto. Si accovaccia sul materasso ed osserva il disastro. Fra le bottigliette di smalto e gli eyeliner sparpagliati per terra, c’è anche una piccola busta argentata, brillante del riflesso del televisore.
Sospira pesantemente mentre la fissa.
È stasera, giusto?, pensa, raggiungendola e trattenendola fra le dita. È indirizzata a lui, ma lui ha già capito molto più di quanto la busta in sé non dica. È tutto uno scherzo. La apre, per tirarne fuori il piccolo invito di compleanno.
- Ventotto settembre. – mormora, - Stasera.
È la festa per il compleanno di Bushido, e Bill è invitato.
- Naturalmente non mi ha invitato davvero.
L’invito era arrivato nella cassetta della posta più di una settimana prima, e s’erano fatti tutti una bella risata in proposito. Bushido continuava ad infastidire Bill da un sacco di tempo, ma era solo uno scherzo, anche se a Bill non sembrava poi così divertente. Tom aveva aperto la busta di fronte all’intera band, deridendo le poche frasi scritte a mano con le quali si richiedeva la presenza di Bill all’evento.
- Stupido Tom. – borbotta Bill, aggrottando le sopracciglia. Anche se Tom odia Bushido, lo odia davvero, deve essersi divertito un mondo a sbattergli tutta l’intera faccenda sul viso. Bill s’era sentito in imbarazzo già per l’invito, e s’era sentito ancora più a disagio perché, grazie a Tom, adesso tutti sapevano.
“Dovrei andarci solo per farlo arrabbiare”, pensa Bill. Ma ovviamente gli è stato impedito di muoversi. Come se ci avesse davvero pensato su, poi, come se…
- …avessi bisogno di farmi dire cosa posso o non posso fare. – ringhia ad alta voce. È improvvisamente furioso, e si alza in piedi, scavando sul fondo della valigia, incasinando la stanza mentre getta i vestiti qua e là sul pavimento. Riesce finalmente ad afferrare un paio di jeans ed un pullover nero a costine. Vestiti normali.
Li indossa, senza neanche starci a pensare mentre stende un po’ di trucco leggero; poco sugli occhi ed il lucidalabbra. Inforca un enorme paio di occhiali da sole, ridicoli per la notte, ma indispensabili, ed un morbido cappellino fatto a maglia sopra i capelli lisci. Getta un’occhiata a se stesso nello specchio e decide: è fottutamente bello, anche vestito così informalmente.
Senza pensare a ciò che sta facendo né a dove sta andando, chiama una macchina e sgattaiola dietro Saki all’ingresso dell’hotel. Lui non sembra neanche vederlo, è troppo impegnato a flirtare con la receptionist.
Bill accende una sigaretta proprio appena la BMW nera appare di fronte all’albergo. Lascia che l’autista scenda ed apra la portiera per lui, e gli passa il piccolo invito.
- Mi porti qui. – dice, salendo sulla macchina. All’interno, il fumo lo fa tossire, intrappolato sul lussuoso sedile posteriore. Attraverso il vetro oscurato che lo separa dell’autista, può ancora vedere l’invito argentato, tenuto su fra due dita per una breve ispezione. “Non pensare”, si dice mentre la macchina si mette in moto.
*
La macchina si ferma appena fuori dal club. C’è la fila, davanti alla porta d’ingresso, ed è lunga fino alla fine della strada. Bill deglutisce.
“Il programma è entrare, farmi scattare qualche foto, evitare Bushido e comportarmi esattamente come se non mi fossi mai divertito così tanto prima”, pensa. L’autista si gira e lo guarda attraverso il vetro.
- Chiamerò io. – dice Bill, - Qui faccio da solo.
Apre lo sportello e prova a respirare. È uscito da solo e, davvero, non dovrebbe essere così nervoso. Non c’è Tom, non c’è David e non c’è nessun’altro stronzo che possa permettersi di dirgli cosa fare.
E cosa dovrebbe fare adesso? È stato invitato e, che sia uno scherzo o meno, sa di essere in lista. China il capo: è nervoso; qualcuno potrebbe riconoscerlo. Si dirige verso l’inizio della fila.
Il buttafuori lo guarda dall’alto in basso.
- Invito? – chiede bruscamente.
Bill sorride, realizzando di aver lasciato la busta all’autista.
- Bill Kaulitz. – si limita a dire.
L’uomo inarca un sopracciglio e Bill abbassa lievemente gli occhiali. Gli occhi dell’altro si spalancano e la corda di velluto che blocca l’entrata viene spostata per lui.
- Da questa parte, Signore. – dice l’uomo, e Bill entra nel locale scuro, ridacchiando dentro di sé. È stato tutto molto semplice, ed in qualche modo si sente come un bimbo cattivo. Se solo gli altri sapessero dov’è… se solo lo sapesse Tom…
All’interno del club, Bill si sente quasi a casa. È uguale a qualsiasi altro club abbia frequentato di recente, scuro, rumoroso, pieno di corpi danzanti. Non riconosce nessuno nella folla, ed una sorta di eccitazione nervosa lo scuote tutto in un brivido. È davvero per conto proprio.
“È il momento di confondersi nella folla”, pensa. Confondersi nella folla è una parte del suo lavoro, è un professionista in questo. Scivola in mezzo alla calca, appare nelle foto, parla con qualche ragazza. Si sente uno scemo mentre stringe alla vita una ragazza e mentre ride assieme a lei, quando lei realizza chi è che la sta stringendo.
Firma un po’ di autografi, sbocconcella un po’ di stuzzichini e non gli importa affatto quando sempre più persone cominciano a notarlo. I fotografi all’interno del club, assoldati per documentare l’evento, si compiacciono enormemente di spingerlo a mettersi in posa per loro. Lui lo fa, sfila gli occhiali e il cappello e li ripone nella larga borsa che porta sulle spalle.
L’ultima cosa che poteva aspettarsi era di divertirsi, eppure sta succedendo. Prima ha individuato Bushido e la sua crew in un angolo della stanza, e tutto ciò che riesce a pensare è che, finché staranno lontani da lui, lui continuerà a divertirsi.
Dopo l’ennesimo incontro con una fangirl ridacchiante, Bill decide che ha bisogno di un drink. Si avvicina al bar, spintonando la folla ed atterrando finalmente di fronte al barista per ordinare un cosmopolitan. Mentre si appoggia al bancone, in attesa del proprio drink, qualcuno picchietta sulla sua spalla.
Si volta, ed i suoi occhi si allargano un po’. Riconosce quell’uomo immediatamente. È Chakuza, un amico di Bushido, che lo produce, in effetti.
- Cazzo, non posso crederci! – dice Chakuza.
Bill sorride.
- Uhm. Ciao.
Chakuza non sorride di rimando, e Bill si sente vagamente a disagio. È più alto di lui, ma si sente veramente minuscolo mentre Chakuza ghigna nella sua direzione.
- Cosa cazzo stai facendo qui? – chiede l’uomo.
- Io… - Bill arrossisce, - Non sono stato invitato?
- Era un fottuto scherzo! – dice Chakuza. Sta rendendo Bill nervoso, fissandolo direttamente negli occhi mentre gli parla. – Uno scherzo, no? E tu… e tu vieni sul serio?
- Be’, mi avete mandato un invito. – replica Bill.
Chakuza sta per dire qualcos’altro, qualcosa di spiacevole, Bill può quasi sentirlo, ma poi Bushido appare improvvisamente dietro di lui e lo spinge di lato. Bill resta a bocca aperta e lo fissa; si sente in trappola. Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe mai riuscito ad evitare Bushido per tutta la sera. Avrebbe dovuto sapere che gli sarebbe toccato comunque almeno parlargli.
Avrebbe preferito continuare ad avere a che fare con Chakuza.
- Stai indietro, Atze. – dice Bushido a Chakuza, il tono basso e profondo. Guarda Bill e solleva un sopracciglio, chiaramente divertito dalla sua presenza, - Non è passata l’ora di andare a letto?
- Non ho un orario per andare a letto. – scocca Bill, immediatamente infastidito dal tono conciliante dell’uomo.
Lui ghigna in risposta.
- Non mi hai portato un regalo? – Chakuza grugnisce in sottofondo, e Bushido si avvicina di più a Bill, - Mh?
Lui scrolla le spalle, rifiutandosi di indietreggiare mentre Bushido si avvicina ancora.
- Ti offrirò un drink.
- Open bar. – dice Bushido. – Che ne dici di regalarmi la tua compagnia?
Il suggerimento lo fa arrossire, e gli attorciglia lo stomaco in una maniera strana. Bushido odora di sigaro, alcool e muschio. Bill cerca di comportarsi come non si sentisse intimidito – ed invece lo è.
- Um. – è la sua risposta.
Non ha veramente una scelta. Bushido si allunga oltre la sua spalla, afferra il drink di Bill e lo accompagna verso il privè. Bill non può scappare, il braccio di Bushido pesa sopra la sua spalla e Chakuza gli cammina stretto a fianco dall’altro lato, intrappolandolo.
Il primo impulso appena si avvicina al tavolo è di voltarsi e fuggire via, ma Bushido urla agli altri di mettersi in piedi per lasciarlo passare. Bill china il capo e si precipita all’interno, senza riuscire ad ignorare le occhiate degli uomini che lo circondano.
Bushido lo segue, sedendoglisi accanto. Presenta Bill ed il suo drink, e Bill arrossisce follemente, all’improvviso consapevole di quanto femminile sia il proprio cocktail, soprattutto paragonato alle birre di tutti gli altri. Chakuza scivola al suo fianco, dall’altro lato, e Bill smette istantaneamente di pensare al proprio drink. Può sentire il respiro di quell’uomo sul collo, stanno tutti strettissimi attorno al tavolino.
- Signori, - dice Bushido, - Bill ha deciso di graziarci della propria presenza.
Allarga quelle braccia muscolose e ne avvolge una attorno alle spalle di Bill, che si tende mentre l’uomo lo stringe.
- Ovviamente non sa come interpretare gli scherzi. – dice Chakuza, stridulo. Gli altri ridono e Bill può solo stringersi nelle spalle, umiliato, e fissare il tavolo, ricoperto di cicche di sigarette, bicchieri vuoti, cellulari e, Bill nota, anche un po’ di preservativi ancora sigillati. Deglutisce pesantemente; perché ha dovuto fare il cretino e scappare dall’albergo?
- Ti stai divertendo? – chiede Chakuza.
Bill solleva appena il viso.
- Molto. – riesce a rispondere.
- Così circondato da maschi, non mi riesce difficile crederlo. – ribatte l’uomo.
Questo fa ridere l’intera tavolata, e Bill vorrebbe semplicemente arricciarsi in una palla e morire. Bushido grugnisce al suo fianco, palesemente poco compiaciuto da ciò che sta accadendo, e tutti smettono all’istante di ridere.
- Siate gentili col mio ospite. – dice serio.
Bill scuote il capo e cerca di sorridere.
- Sto bene.
- Assolutamente. – dice Bushido, lasciando finalmente la presa sulla sua spalla.
Chakuza batte il proprio bicchiere contro il tavolo, guardando Bill con occhi pieni di disgusto.
- Frocio. – sputa fuori, la sigaretta che si agita un po’ troppo vicina al viso di Bill. Lui semplicemente abbassa il capo.
- Porta il tuo “frocio” fuori di qui. – dice Bushido, strappandogli la sigaretta dalle mani. Chakuza lo fissa da sopra la testa di Bill, e c’è della tensione, Bill può sentirla. Bushido annuisce brevemente e Chakuza cede, corrucciato. Si mette in piedi e spinge chiunque stia sulla sua strada verso l’uscita del privè.
- Qualcun altro ha dei problemi? – chiede Bushido. Nessuno dice niente e Bill manda giù velocemente il proprio drink, solo per trovarsi qualcosa da fare.
- Al ragazzino serve un altro drink. – dice l’uomo che sta seduto adesso accanto a Bill, - Cosa bevi? – si mette subito in piedi, perciò Bill non può dire no.
- Um. Un Cosmo. – mormora.
- Un che?
Per qualche ragione, Bill è più imbarazzato adesso di quanto non sia stato per tutto il resto della serata.
- Prendigli uno shot. – dice Bushido, - Prendine per tutti, e dì al barista di continuare a mandarne.
L’uomo annuisce e Bill si schiarisce la gola.
- Non lo so… - mormora, allontanandosi lievemente da Bushido. Ha paura del calore che si sprigiona dal suo corpo. – Forse dovrei andare…
- Non puoi andartene adesso, non abbiamo ancora tagliato la torta! – dice un altro uomo.
Bushido sogghigna.
- Uno shot.
Bill sente un piccolo sorriso farsi strada sul proprio volto, e sospira.
- Okay, ma solo uno.
*
Un’ora dopo, Bill è completamente andato, del tutto fuori di sé. Lo sono tutti, in realtà, e Bill ha anche smesso di interessarsi di ciò che gli altri potrebbero pensare di lui. E comunque, sono stati tutti dannatamente gentili, da quando Chakuza è andato via.
Bill ride senza nessun motivo e si stende accanto a Bushido, rubando uno shot ad uno dei suoi nuovi amici, e quasi cade in grembo all’uomo mentre manda giù il drink. Non sa nemmeno cosa ha bevuto.
Bushido lo aiuta a tirarsi dritto e Bill scivola indietro contro il divano, ghignando.
- Il ragazzino continua a bere. – dice uno dei nuovi amici. Bill gli solleva contro il medio senza nessuna ragione e tutti ridono.
- Vi sta battendo tutti. – commenta Bushido, fumando il sigaro.
Bill si sente orgoglioso e, con aria presuntuosa, biascica “Voi tutti… mi fate una sega”.
Questa battuta si guadagna la risata più fragorosa della serata, e Bill sente perfino qualcuno battergli una pacca sulla spalla. Li ha fatti ubriacare tutti, li tiene per le palle, questo è certo. Sa di essere carino, sa come battere le ciglia ed anche come sporgere le labbra. Funziona sempre con le piccole fangirl che si presentano ai loro concerti, ed è eccitante sapere che funziona anche con uomini più maturi capaci di intimidirlo.
Si rimette seduto, guarda Bushido.
- Ehi. – dice, allungando una mano. – Dammelo. – vuole il sigaro di Bushido.
L’uomo lo allontana dalla bocca.
- Vuoi succhiare questo, mh?
Bill scopre che gli piacciono i riferimenti sessuali del discorso, lo fanno sentire accaldato, più caldo di quanto non riesca a farlo sentire l’alcool. Annuisce, la mano ancora tesa, ma Bushido la spinge via e mette da sé il sigaro sulle sue labbra.
All’inizio il sigaro si limita a colpire le labbra di Bill.
- Apri. – dice Bushido. Bill ride ed il sigaro s’infiltra nella sua bocca. Aspira profondamente, inspirando il fumo, e l’attimo dopo si ritrova piegato in due a tossire come se dovesse sputare i polmoni.
I ragazzi ridacchiano e Bushido tira indietro il sigaro.
- Non devi mandare giù. – lo rimprovera.
Gli occhi di Bill si riempiono di lacrime e lui si passa una mano sopra le labbra. Guarda in alto, oltre Bushido, e si accorge che Chakuza è tornato e sta in un angolo, accigliato.
- È ora di tagliare la torta. – annuncia. Guarda Bill, ma a Bill non potrebbe interessare di meno. Si appoggia contro la spalla di Bushido.
- Falla portare qui, stiamo comodi. – dice Bushido. Chakuza va via e torna qualche minuto dopo, mentre tutti i partecipanti alla festa si avvicinano e mettono via i propri drink per la torta.
Bill ricorda improvvisamente perché si trova lì. È il compleanno di Bushido. È in un locale con Bushido ed è per i fatti propri.
Sta diventando tutto confuso; vede le candele accese, osserva il fuoco macchiare la sua visuale. Vuole toccarlo. Presto si mettono tutti a cantare. Bill poggia la testa contro la spalla di Bushido e si unisce al coro. Canta più forte di tutti, ride mentre lo fa, e guarda Bushido soffiare sulle candeline e spegnerle tutte insieme.
Bushido soffia anche contro il suo collo, ed una delle sue mani gli stringe una coscia. Qualcosa che assomiglia molto al fuoco brucia la sua pelle dalla coscia allo stomaco.
Bill si china più vicino a Bushido, incapace di frenarsi. Il filtro fra giusto e sbagliato è scomparso, lavato via dall’alcool. Si sono sempre infastiditi a vicenda, c’è sempre stato uno strano modo di provarci, fra loro. È sempre stato lì. L’ha sempre fatto sentire a disagio, gli faceva sudare le mani, ma anche…
Si avvicina ancora e sussurra roco “Buon compleanno” direttamente contro il suo orecchio.
*
È molto tardi. Esausto, Bill guarda appena lo schermo del proprio cellulare, incapace di processare le informazioni che gli sta dando. Tom gli ha inviato più di dieci messaggi di testo e ne ha lasciato uno anche in segreteria. Il telefono continua a cinguettargli di controllare i messaggi.
Bill lo ripone nella borsa.
Scuote il capo, aguzzando la vista. È in una camera d’albergo, in un piccolo salotto. Si lascia andare contro lo schienale del divano; ci sono persone sulla soglia della stanza. Stanno andando via, salutando, abbracciandosi, alcune si baciano. Bill non ricorda com’è arrivato lì, ma non è molto spaventato.
La sua mente è del tutto alla deriva e si sente come stesse dormendo, può sentirsi affondare più in profondità in qualcosa di così pesante ed invitante. Ma poi qualcosa tocca il suo viso e lui apre gli occhi. È Bushido.
- Non ce l’hai una casa?
Bill ride.
- Nessuno mi vuole a casa.
Bushido rimane sospeso sopra di lui e per un secondo Bill pensa che sia pronto per girarsi e andarsene. Ma si siede accanto a lui, troppo vicino.
- Ah, sì? E pensi che qualcuno ti voglia qui? – Bill lascia ricadere il capo contro la sua spalla, - Mh?
Bill ride ancora, stavolta proprio sul suo collo.
- Ti ho portato un regalo. – biascica.
- Stai giocando con me, piccolo? – la voce di Bushido e un po’ divertita, un po’ cupa e inquisitoria.
Bill si arrabbia e lo scosta indietro, improvvisamente pieno d’emozioni ed energia.
- Non sono piccolo! – quasi grida. Bushido sembra troppo sorpreso per muoversi. Bill si sposta verso l’uomo più maturo, poggiandogli le mani sulle spalle. – Non sono piccolo. Vaffanculo. – inspira un po’ del profumo di Bushido e poi non può più fermarsi, pressa il naso contro il suo collo e, semplicemente, inala.
Bushido ringhia e lo rimette seduto.
- Piccolo. – sibila, scandendo bene ogni lettera. Gli si appoggia contro e Bill può sentire quanto lui sia grande. Non solo alto, è tutto il suo corpo ad essere fitto di muscoli, e forte. Il peso di Bushido è quasi insostenibile. Non c’è più nessun flirt, non è uno scherzo. Chi è che l’ha portato così lontano?
Bill trema e dice “no”, soffice come un respiro.
- No? – chiede Bushido. Lo sta deridendo, lo diverte spingerlo in questo modo. – Cos’è che mi hai regalato? – pressa con forza una mano sul suo inguine e stringe piano. Bill è già eccitato. – Questo?
Bill squittisce e chiude gli occhi.
- No.
- Io non sto giocando. – dice Bushido.
Bill si sente male, gli duole lo stomaco, e può ancora respirare il profumo di Bushido, può ancora sentire il suo calore. È eccitato e disgustato in egual misura mentre Bushido si pressa contro di lui, strofinandosi forte contro il suo petto ed il suo ventre. Il suo peso lo domina completamente.
Bushido lo afferra per i fianchi e Bill geme, cercando di spingerlo via. Non ha mai avuto nessuno così addosso, mai.
- Sai solo parlare. – dice Bushido, guardandolo dritto negli occhi. Il suo alito puzza di tequila.
- Tu mi vuoi. – sospira Bill. La stretta dell’uomo sui suoi fianchi si fa più forte, e Bill ansima. Cerca di sfuggire alla presa di Bushido, alla ricerca di un po’ d’aria e di una via di fuga da quel calore. Ma Bushido la pensa diversamente. Lo afferra, afferra i suoi polsi e lo tiene fermo. Bill gli scivola in grembo, aggrappandosi alle sue spalle.
Tutto il suo corpo impazzisce di calore quando sente l’erezione di Bushido contro il sedere. Senza pensare si muove contro il rigonfiamento nei suoi pantaloni, solo un po’, e Bushido lo spinge in avanti, stringendogli i polsi, facendogli male, e poi, finalmente, baciandolo.
Nessuno l’ha baciato in più di due anni, e tutto ciò che Bill può fare e affondare in quel bacio e mugolare. È un bacio duro, bagnato e doloroso. È tutto ciò che Bill non vuole, ma lo costringe a contorcersi in grembo a Bushido, come una puttana.
L’uomo lo allontana da sé e ringhia.
- Voglio scoparti.
Bill scuote il capo e Bushido lo bacia ancora, famelico. Bill ha paura, ma tutto ciò che fa è strusciarsi contro l’erezione di Bushido, sentendosela crescere fra le gambe. Annaspa, e le mani di Bushido scivolano lungo la sua schiena fino alle sue natiche.
- Hai paura? – chiede l’uomo, stringendone una fra le dita.
Bill scuote il capo, le labbra un po’ umide.
Bushido stringe ancora, un dito a scorrere lungo le pieghe, seguendo le cuciture dei pantaloni di Bill.
- Mmh. Stai tremando. L’hai mai preso prima?
Bill scuote nuovamente il capo, ridotto ormai ad un tremolante mucchietto d’ossa nel grembo di Bushido.
Lui ride.
- Sei completamente ubriaco, vero? Sì che lo sei. Dovrei approfittarmi di te, piccolo?
- Fottiti. – balbetta Bill.
Bushido risponde spostandosi su di lui. Bill sospira, improvvisamente colpito da un’idea. Dimenandosi, ritaglia una via di fuga oltre la stretta dell’uomo e rotola sul pavimento. Oscilla e poi si aggrappa alle ginocchia di Bushido, allontanandole l’una dall’altra. Bushido non oppone molta resistenza. Lascia che Bill gli cada fra le gambe. Lui si curva in avanti e posa una guancia contro il suo inguine. Volta il capo e si strofina contro di lui, compiaciuto del calore che se ne sprigiona e dalla sua durezza. Non pensa a cosa sta per fare. È passato direttamente dalla paura alla determinazione. Mostrerà esattamente a Bushido quanto è adulto e quanto capace può essere.
- Cazzo. – sibila Bushido. Bill si aggrappa alla lampo, tutto si sfuma e Bushido gli accarezza una guancia. Non riesce a far scendere la zip e grugnisce.
- Lo vuoi, vero? – chiede Bill, - Hai detto che lo volevi.
Bushido ride, ma la risata viene fuori strozzata. Prende Bill per i capelli e lo tiene fermo.
- Era uno scherzo.
- Non ti credo. – dice Bill. Stringe con più forza la zip, la forza verso il basso e poi pressa il viso contro i suoi boxer. Può sentire l’erezione bollente di Bushido attraverso il tessuto; è dura. Bill le lascia sopra un piccolo morso attraverso gli indumenti. Bushido impreca, la mano stretta con più forza sui suoi capelli, ma Bill è troppo ubriaco per sentire davvero dolore. – Vuoi che lo faccia?
Strofina le mani contro i fianchi dell’uomo e sfiora con le labbra il rigonfiamento al di sotto dei boxer.
- Posso farlo. – dice, - Se vuoi che lo faccia. – si china a succhiare distrattamente la punta della sua eccitazione e mugugna. Non ha neanche mai pensato di fare una cosa simile prima, e questo lo fa tremare. È troppo spaventato per tirare fuori il suo membro e succhiarlo davvero. In qualche modo, spera ancora sia tutto un gioco e che Bushido non scoprirà il suo bluff.
L’uomo lo allontana da sé e lascia andare i suoi capelli. I suoi occhi sono pericolosi; Bill lo osserva infilarsi una mano nei boxer e tirarne fuori il proprio cazzo, direttamente sulla sua faccia. Quella cosa è enorme, e Bill fa una smorfia. Bushido si limita a ridere, tenendo stretto il proprio pene fra le dita e spingendolo verso Bill.
Lui trasale, osservando il prepuzio che si tira indietro per mostrarne la testa già bagnata. Non può farlo. Non può.
- Prendilo in bocca. – ordina Bushido, - Cosa c’è? È troppo grande? Non sei abituato a vederne di queste dimensioni? Non ne hai mai succhiato uno prima, piccolo Bill? Mmh?
Bill chiude gli occhi e si spinge in avanti, le labbra a sfiorare appena la punta.
- No. – ammette, pressando le labbra contro di lui.
Bushido sbuffa e pressa due dita contro la sua fronte. Bill le può sentire lì, è come se cercassero di marchiarlo. Bushido spinge dolcemente e Bill squittisce – completamente fuori di sé a causa dell’alcool – prima di ricadere seduto indietro. Rotola su un fianco, abbracciandosi stretto, e tutto diventa scuro e silenzioso.
Bushido si china accanto a lui e solleva il suo corpo arreso. Bill non si sveglia e Bushido lo rimette disteso sul divano.
- Stupido ragazzino. – mormora prima di lasciare la stanza.

Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Violence.
- La routine delle sere di David è molto semplice. Torna a casa, cena, fa una doccia, guarda la TV. Poi risponde al citofono e fa entrare Bill, preparandosi ad ospitarlo per la notte.
Note: Prima di tutto, credit vari ed eventuali.
- A Yul per il secondo concorso sulla JostFic che mi ha ispirato la storia.
- A Tab perché mi ha costretto a scriverla XD
- Ai Depeche Mode, perché la citazione all’inizio è tratta da Personal Jesus (album: Violator), e la storia è ispirata alla canzone. Intesa in modo più positivo rispetto alle intenzioni originali (dannato gruppo emodepresso!).
- A Sara per la traduzione del testo di Beichte che appare in quella meraviglia di quote che è “Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello” (perché se c’è una cosa che Bill sa fare, ecco, quella è scrivere), ed – ovviamente – ai Tokio Hotel per la canzone in sé.
- A Juccha per il titolo >*< E per il concetto sul provare a dire “ti amo” solo per sentire l’effetto che fa. Ti lovvo <3
Per il resto, non ho molto da dire. Anzi, non ho niente da dire. Riesce ad essere – in modi del tutto assurdi – una storia semplicissima ed anche una delle più difficili che io abbia mai provato a raccontare. Un disastro, insomma ._.”
Per quanto mi riguarda, la trovo molto affascinante. Ma forse mi sto facendo ammaliare dall’emoangst XD Grazie per aver letto fino a qui (e grazie a Yul, lei sa perché XD). Grazie a Misa, grazie alla Lemmina, grazie a Nai. Baci :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNDEAD UNWASHED UNHOLY

Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who’s there

- Stavolta con quale dei due hai litigato?
Bill mi passa davanti, sfrecciando veloce verso il soggiorno. Si lascia alle spalle la porta aperta, il fruscio dei propri capelli e l’odore familiare delle proprie lacrime. Lo so che in teoria le lacrime non dovrebbero avere un odore, ma l’odore di quelle di Bill si sente sempre, ed è riconoscibilissimo. È il trucco che si scioglie. Che cola lungo le guance. È l’odore del sangue che esce in una singola goccia quasi asciutta sulle sue labbra – le morde sempre con una violenza inaudita, quando cerca di smettere di piangere. È l’unica persona che conosco che, per smettere di piangere, sopprime il dolore più grande con un dolore più piccolo. Non ha senso. Niente di lui ha mai avuto senso.
Lo osservo fermarsi davanti al divano, passare velocemente le dita sotto le ciglia e sulle guance e poi voltarsi finalmente a guardarmi. Sul suo viso non c’è quasi più traccia di niente. Cerca sempre di ripulirsi, prima di voltarsi verso di me.
- Posso restare da te stanotte? – chiede con un’incertezza solo mal simulata. Lo sa lui e lo so io che non dirò di no. E lo sappiamo entrambi semplicemente perché ci aspettavamo questo momento.
In realtà non ho neanche bisogno di chiedergli con quale dei due abbia litigato, posso intuirlo piuttosto facilmente solo osservandolo: ha il borsone in spalla. Il borsone è una vecchia borsa Adidas di quelle che in genere si usano per la palestra. Come faccia Bill – che è notoriamente più pigro di un bradipo – a possedere una cosa simile, va oltre la mia capacità di comprensione. Comunque, quando deve dormire fuori è sempre con questa cosa – piena fino all’orlo di cianfrusaglie che per la maggior parte neanche usa – che si muove. Senza, non esce neanche di casa.
Quando Bill dorme fuori, è perché ha litigato con Tom.
In genere, però, litigare con Tom non basta per presentarsi qui.
Quando Bill litiga con Tom, prepara il borsone e va da Bushido. Bushido è il suo… ragazzo? Uomo? Compagno? Non so. Non riuscirò mai a trovare un appellativo che non suoni stonato. Comunque è suo. È da lui che va a stare, quando litiga con Tom.
È quando litiga anche con Bushido, che viene da me.
*
La situazione di Bill è complicata. E non è affatto buona.
Ogni volta che ci penso non lo faccio con l’indifferenza dell’estraneo che osserva una situazione all’interno della quale non è affatto coinvolto. Io lo faccio con apprensione. Io sono davvero terrorizzato per Bill.
Ma d’altronde, sfido chiunque: la situazione di Bill preoccuperebbe anche un estraneo, anche uno che ne avesse appena sentito parlare, pure distrattamente, pure per sbaglio, pure origliando per caso una conversazione sull’autobus. Ed io – che questo ragazzino me lo sono cresciuto, un po’ – non posso fare a meno di andare in completa paranoia, ogni volta che ci penso.
Per inciso: ci penso ogni volta che Bill me ne dà l’occasione. Cioè ogni volta che piomba a casa mia. Cioè ogni volta che litiga con Bushido. Cioè ogni volta che litiga con Tom.
Cioè sempre.
La situazione di Bill è sempre stata complicata, da che lo conosco, e questo semplicemente perché la situazione di Bill è sempre stata legata indissolubilmente alla situazione di Tom. E la situazione di Tom non è complicata, la situazione di Tom è un dannato disastro.
Quando li ho conosciuti, i gemelli erano due ragazzini piccoli e stupidi. Il mio non è un giudizio impietoso, è un giudizio il più obiettivo possibile – ed è dato comunque con molta tenerezza di fondo. Troppa, temo.
Erano molto stupidi nel senso che erano convinti – fermamente convinti – il mondo stesse aspettando solo loro. Non avevano la più pallida idea dei sacrifici che si sarebbero ritrovati a compiere. Forse per questo accettarono di immergersi fin sopra la testa in un mondo che, dietro le quinte, non conserva niente dei glitter e delle paillette di cui ricopre la scena: erano disposti a tutto. E basta.
Ciò che mi ha sconvolto – ciò che mi ha dato la spinta finale, ciò che mi ha convinto a sceglierli fra tutte le enormi masse di ragazzetti alternativeggianti che già allora affollavano i palchi delle periferie – è stata l’abnegazione totale che provavano l’uno nei confronti dell’altro.
Bill e Tom sono sempre stati così. Strani.
Era una base buona dalla quale partire per fare soldi, ecco.
Io non ero un poveraccio. La mia non era una vita triste. Non andavo stancamente avanti nel tentativo di sbarcare il lunario giorno dopo giorno. Non avevo bisogno di una trovata pruriginosa che andasse a battere proprio lì dove i pensieri cattivi di tutti si fermano e si schiantano contro il muro del buonsenso.
Io stavo solo facendo il mio lavoro. Non avevo alcuna intenzione di venire a conoscenza di un segreto tanto grande. Non volevo essere partecipe di una cosa tanto spaventosa. Non volevo neanche fomentarla, lo giuro.
Non mi sento davvero in colpa, perché penso fosse inevitabile che fra Bill e Tom scoppiasse una cosa simile. Attaccati per com’erano, era solo questione di tempo. Certe cose rimangono sopite solo se la vita che uno si ritrova a vivere rimane sempre piatta ed immobile. Se sei circondato solo ed esclusivamente da persone che ti vogliono bene, se hai una madre devota che ti supporta, se hai un patrigno benevolo che ti sostiene, se hai degli amici intelligenti che scorgono oltre la superficie il bravo ragazzo che sei, non hai alcun bisogno di aggrapparti con tanta foga a tuo fratello.
La vita dei gemelli, però, non è rimasta piatta ed immobile. A tredici anni, Bill e Tom sono saliti su una trottola che non si è ancora fermata. E gira, gira. Non c’è mamma, non c’è papà, non ci sono amici. Sono solo Bill e Tom.
A qualcuno dovevano pure aggrapparsi, se non volevano volare via.
Hanno scelto di aggrapparsi l’uno all’altro. Era inevitabile. Non è stata colpa mia. Io ho solo favorito le condizioni, ma loro avrebbero potuto opporsi strenuamente – come Bill sta ancora cercando di fare, come Tom si ritrova a tentare di fare sempre più stancamente – e non sarebbe accaduto niente.
Siamo ad un passo dalla rovina.
E non sto parlando dei Tokio Hotel.
Sto parlando di Bill e Tom. Del ragazzino magrissimo che stringe una borsa enorme al fianco e mi chiede se può dormire a casa mia. Dell’altro ragazzino – uguale, identico, speculare – che sta tutto solo in un enorme appartamento, qualche isolato più in là, e probabilmente sta spaccando qualcosa. Perché è così che Tom reagisce al dolore, Tom distrugge.
Tom, ogni tanto, prova a distruggere anche suo fratello.
È per questo che Bill scappa. È per questo che fugge da Bushido.
Bushido.
Ogni tanto penso alla sua presenza in tutta questa storia e provo molta compassione per lui. Mi ritrovo quasi immerso in una sorta di empatia immotivata e pure un po’ pericolosa.
È che so cosa vuol dire avere a che fare coi gemelli.
È che so cosa vuol dire avere davanti Bill che piange e non vuole dire perché.
È che so cosa vuol dire avere addosso lo sguardo arroventato di Tom quando viene a riprenderselo.
Bushido fa quel che può. Anche lui non ha colpa di niente.
È questa storia, che è tutta una follia.
È ciò che ci sta dietro che non ha senso.
Immortale, sporco e sacrilego.
Io so di non avere motivi per avercela con me stesso.
Però quando ce l’hai con qualcuno in genere non stai neanche tanto a domandarti perché. Purtroppo.
*
Facciamo il punto della situazione.
Bill sta dormendo nel mio letto. Gli ho messo le sue lenzuola – un coordinato di cotone bianco finissimo del quale s’è letteralmente innamorato la prima volta che è venuto a passare la notte qui – gli ho sprimacciato il cuscino, gli ho posato accanto quell’orrore di peluche cui non rinuncerebbe neanche se fosse sposato e l’ho calmato abbastanza da fare in modo che potesse chiudere gli occhi senza che il semplice movimento lo portasse a piangere ancora.
Per le prossime cinque o sei ore, Bill starà bene. O meglio: non starà – non sentirà nulla, non avrà nulla di cui preoccuparsi, rimarrà avvolto nel sonno e nel silenzio senza pensare a niente.
Il suo cellulare è posato sul tavolino di cristallo basso proprio davanti al divano sul quale sto seduto adesso. È l’una. Bushido chiamerà al massimo fra un quarto d’ora – lo fa sempre.
Mentre aspetto, posso chiamare Tom. È quello che faccio sempre io.
- Pronto?
La sua voce è venata da una sorta di speranza un po’ infantile e demotivata. La speranza che ti trascini dietro, quella che sai di non dover continuare a nutrire ma conservi comunque.
Bill non lo chiama mai, ma Tom non fa che aspettare.
- Sono io. – rispondo in un sussurro, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa della mia camera da letto.
La speranza di Tom vola via in un sospiro. Nel sospiro stanco col quale pronuncia il mio nome.
- David. È lì?
Annuisco, anche se lui non può vedermi.
- Dorme. – preciso, - Cos’è successo?
Tom sospira ancora, ma è un sospiro diverso.
Lo so che è difficile, Tom. Lo so.
- Niente. – sbotta lamentoso, - Abbiamo litigato. Almeno adesso so che è lì e non devo preoccuparmi.
Mi lascio andare ad una risatina divertita.
- Sì, lui è al sicuro. – confermo, - Tu come stai?
Posso immaginarlo scrollare le spalle e lasciarsi andare di peso sul divano – lo fa davvero, sento lo sbuffo d’aria e lo scricchiolio della pelle sotto di lui.
- Così. – borbotta, - Domani lo riaccompagni tu?
- Domani ci vediamo direttamente agli studi. Non farmi brutti scherzi.
Ridacchia.
- No, tranquillo. – mi rassicura, - Allora adesso vado a dormire.
- Ecco, bravo. – lo rimbrotto spiccio, - I mocciosi come te a quest’ora dovrebbero essere già a letto da un pezzo.
Non protesta, neanche mi risponde. Quando parla di nuovo, non si sta rivolgendo a me.
- David, quando si sveglia digli che… - si ferma, cerca le parole. Dev’essere tremendo. Forse, dentro di sé, fa la prova. “Digli che lo amo”. Giusto per vedere come suona sulla punta della lingua. - …va be’. Magari poi glielo dico io.
È questa la cosa che temo, Tom. È questo ciò che teme anche Bill.
Che tu possa dirglielo veramente.
*
Non ho quasi neanche il tempo di chiudere la conversazione con Tom, che il cellulare di Bill squilla. Generalmente, non faccio che allungarmi verso il tavolino, recuperarlo e rispondere a Bushido che s’informa sulla salute del proprio ragazzo, uomo, compagno o quel che è. Davvero, per me è imbarazzante starci a pensare. Sarà che siamo praticamente coetanei, sarà che fra noi non s’è mai davvero creato un rapporto – neanche di conoscenza, Bill è talmente geloso della loro relazione che è quasi più difficile incontrarsi adesso rispetto a quando lui era solo un collega, e neanche mio – sarà che be’, pur non sapendo niente so tutto ciò che c’è dietro – a lui, a Bill, a Tom, ecco, proprio tutto – ma insomma. Non lo so. Comunque preferisco evitare di parlare con lui, quando posso.
Il problema è che capisco la sua preoccupazione, ecco. Quando Bill litiga con qualcuno lo fa come se, da quel momento in poi, ritenesse implicito un addio. Bill litiga, cioè, e va via di casa sbattendo la porta e senza salutare, esattamente come fai quando la vista della persona che ti sta davanti ti è così insopportabile che il solo pensiero di rimanere a subirla un secondo di più ti nausea e ti ferisce a morte. Quando Bill imbocca la porta si ha sempre un po’ paura che non torni.
Giustamente, Bushido a lui ci tiene. E se ne sente responsabile, se non altro perché è stato chiaro fin dall’inizio Bill si stesse mettendo completamente nelle sue mani, senza riserve. Perciò chiama.
Io lo capisco fin troppo bene per negargli una rassicurazione. Perciò vinco l’imbarazzo ed il disagio, rispondo al dannato cellulare e gli dico puntualmente di stare tranquillo, che Bill dorme, lo informerò della sua chiamata e lo farò rintracciare l’indomani mattina appena sveglio.
È sempre così.
Stavolta no.
Mi allungo verso il tavolino ma sento uno scalpiccio di piedi nudi sul parquet dietro di me, perciò mi fermo e mi volto a guardare. Bill – maglietta e boxer, i capelli sciolti e scomposti lungo le spalle e gli occhi ancora rossi di pianto – corre fino al cellulare, lo afferra e lo porta all’orecchio in un gesto tanto veloce da sembrare unico.
- Anis? – risponde ansioso, stringendo l’apparecchio fra le mani con una violenza inaudita, - No, sono da David. Sì, lo so. Lo so, scusa. No, non dicevo sul serio. Ti giuro che… non dicevo sul serio.
È la prima volta che li sento parlare. Cioè, in realtà sto sentendo solo Bill, ma è una prima volta anche questa. In genere, quando parlano al telefono, Bill si nasconde. Che sia per sfuggire alle ire di Tom – che ogni volta che riesce anche solo a subodorare un qualche contatto fra lui e Bushido comincia a comportarsi come un pazzo assetato di sangue – o per proteggere in qualche modo un’intimità che, negli ultimi mesi – anche a causa della Universal ed anche a causa mia – è stata talmente pubblicizzata da non conservare d’intimo neppure il nome, non lo so. Comunque sia, si nasconde.
Evidentemente, stavolta aveva troppa fretta per pensarci.
…o, più semplicemente, non c’è Tom nei paraggi.
Sospiro, abbandonandomi contro lo schienale del divano, mentre Bill continua a sciorinare scuse in un singhiozzo continuo.
Il problema non è l’intimità resa pubblica, no. Il problema è Tom. Come sempre.
*
Bill chiude la conversazione con un sospiro stremato, e si lascia andare seduto accanto a me. Si piega in avanti come accartocciandosi su se stesso, e quando capisce che, continuando ad avvolgersi in questo modo, cadrà dal divano, tira su le gambe e si accuccia nell’angolo più lontano del sofà, stringendo le ginocchia al petto come un bambino piccolo.
- Voleva passare a prendermi. – mi informa atono, - Gli ho detto di restare a casa. Tanto ci vediamo domani. Non mi va proprio di vederlo adesso.
Sorrido lievemente.
- Ma se gli hai appena detto che non volevi lasciarlo e ti sei scusato per aver litigato qualcosa come tremila volte?
Bill si stringe nelle spalle, evitando il mio sguardo.
- Non mi va lo stesso di vederlo. – borbotta, - Scusa, lo so che dovrei dormire. Non ci riesco.
Annuisco.
- Ha chiamato tuo fratello. – lo informo con falso disinteresse, - Era preoccupato.
Bill aggrotta le sopracciglia, contrariato, e stringe con più forza le braccia intrecciate sotto le ginocchia.
- Mio fratello continua a sbagliare i tempi. – asserisce cupo, - Dovrebbe smetterla. Se sapermi in giro lo preoccupa tanto, perché non la pianta di costringermi ad andarmene?
Bill non sa – o non si rende conto. O non vuole capire – che l’intenzione di Tom è del tutto diversa. Bill non sa che Tom rinuncerebbe a qualsiasi cosa, per convincerlo a rimanere con lui per sempre. Bill non lo sa. Bill non se ne rende conto. Bill non vuole rendersene conto.
- Voleva che ti riferissi qualcosa. – dico, quasi lasciando sospesa la frase, solo per osservare la sua reazione. Bill solleva il viso e mi guarda: gli occhi spalancati e luminosi, le labbra socchiuse, sul volto un misto di ansia, felicità e paura che renderebbe chiaro perfino al più stupido che cosa sta aspettando di sentire. – Non mi ha detto cosa, però. – Bill abbassa lo sguardo. Si morde un labbro. Sospira pesantemente. – Ma ha aggiunto che te l’avrebbe detto lui stesso. – concludo.
Anche Bill conclude, sì. Di respirare.
Gli poso una mano sulla spalla.
- Ehi. – cerco di richiamarlo, preoccupato, - Stai bene?
Lui annuisce ma non risponde.
È un terrore giustificato, il suo. È anche il mio terrore. È il terrore di tutti tranne che di Tom, che si sta gettando contro questo disastro a testa bassa, neanche fosse l’unica soluzione possibile.
Bill – io. Bushido, forse, perfino lui – sa che è solo questione di tempo. Che prima o poi Tom dirà o farà qualcosa di talmente inequivocabile che, a quel punto, non potremo fare più niente per nasconderlo. Non ci saranno luoghi in cui scappare né bugie da orchestrare ad arte. Saremo solo noi di fronte al disastro. Con la speranza di sopravvivere. Con la certezza di soffrirne.
Bill ha paura. Bill ha ragione.
Tom, però, è innamorato. E chi potrebbe dire che ha torto?
*
Quand’ero più giovane, io volevo fare lo psicologo. Credevo di avere un vero e proprio talento per capire le persone. Credevo fosse un dono. Ne andavo perfino orgoglioso, perché mi aveva aiutato tanto in svariate occasioni della mia vita – non ultima il divorzio dei miei genitori, per non parlare di quello che ne seguì.
Credevo fosse un dono e lo credevo per davvero.
Naturalmente mi sbagliavo. Capire gli altri è evidentemente una punizione per un qualche tragico errore in una vita precedente. Quando capisci gli altri – cosa si muove nelle loro teste, i dolori che agitano le loro anime, le ansie che bloccano il battito dei loro cuori – ti precludi per principio qualsiasi possibilità di odiare qualcuno. Di riconoscergli una qualche crudeltà gratuita priva di movente. Di percepirne le assurdità.
Giustifichi tutto. Comprendi tutto. Assolvi tutto.
Io, purtroppo, non mi sono fermato a comprendere le ragioni di Bill, no. Per quanto sia sbagliato e controproducente – nonché vagamente irrazionale – comprendo anche le ragioni di Tom. Tom che, forse, è quello che ha più ragione di tutti – ma tutto il mondo contro. Anche se solo in prospettiva.
Tom è sempre stato così, per dire la verità. È per questo che insisto col fatto che dovevamo aspettarcelo. Tom non è cresciuto negli intenti, è cresciuto solo in intensità. Cioè quello che prova oggi è identico a ciò che provava ieri. Il problema è che è dannatamente più intenso. Mille volte più intenso. Perché fra ieri ed oggi ci sono state mille notti di silenzio. Mille notti in cui ha potuto semplicemente rimanere a pensare.
Pensare fa male.
Tom ha una fama che non gli rende giustizia. A lui piace passare per un puttaniere, davvero, gli piace un sacco. Forse gli piace proprio perché, se lascia che il mondo pensi il suo unico interesse sia portarsi a letto le groupie, allora il mondo non sospetterà mai nemmeno per sbaglio che il suo interesse reale sia un altro. A volte la mente usa meccanismi simili – sciocchi, subdoli, sostanzialmente inutili – per illuderti di stare facendo tutto il possibile per proteggerti.
In realtà sei nudo sotto un fuoco incrociato di domande sempre più pressanti.
Tom, alle domande su suo fratello, risponde né più né meno che come un innamorato. E lui lo sa.
Bill ha cominciato ad accorgersene, finalmente.
Noialtri… all’inizio l’abbiamo presa perfino con un certo orgoglio. “Guarda come l’abbiamo istruito bene. Guarda con che scioltezza risponde. Guarda che bel lavoro sta facendo. Guarda come s’ingrazia le fangirl”. C’era davvero di che essere orgogliosi.
Però, chiaramente, quando abbiamo visto che continuava a ripetere le stesse identiche cose pure in privato, abbiamo cominciato a nutrire seri dubbi sull’artificiosità di quanto aveva detto – nonché diversi altri dubbi su quanto avesse appreso dai nostri insegnamenti, ovviamente.
A lungo andare, l’ha capito pure Bill. Bill che, per contro, continua a non capire un accidenti di se stesso. O forse io sbaglio, vedo cose che non esistono e traggo conclusioni affrettate dal poco che conosco.
Ma, sinceramente, ne dubito.
Se mi sbagliassi, ovviamente, Bill non scapperebbe costantemente di casa per evitare proprio quella rivelazione lì. Quella che cambierebbe le vite di tutti.
Se mi sbagliassi – se non fosse esattamente come penso – Bill non avrebbe scelto Bushido nel disperato tentativo di porre Tom di fronte ad una sfida insostenibile – “non vorrai davvero cominciare ad odiare me, che sono tuo fratello, e lui, che è uno degli artisti che rispetti di più in assoluto?” – nella speranza di tenerlo a bada ancora per un po’ – fallendo miseramente, ma non poteva sospettarlo.
Se mi sbagliassi, nessuno dei drammi che ho già prefigurato così chiaramente nella mia testa avrà mai luogo, e Bill sarà autorizzato a darmi del cretino senza aspettarsi rappresaglie punitive, quando glielo racconterò.
Il punto, però, è un po’ diverso.
Il punto è che, se io mi sbagliassi, non si spiegherebbe un accidenti di ciò che sta succedendo.
Tom, a volte, picchia suo fratello. Io capisco perché lo fa. Bill dice di no, ma mente. Tom fa così, prende e gli tira un pugno. È la furia repressa, la gelosia, il senso di mancanza che avanza rispetto al senso di un’appartenenza che si sfalda giorno dopo giorno. Vedo arrivare Bill a notte fonda con certi lividi che fanno paura. E, se io mi sbagliassi, questa rabbia non avrebbe senso. Queste fughe notturne da un lato all’altro dalla città, queste fughe che si concludono qui, nel mio letto, a piangere sul cotone bianco finissimo, non avrebbero senso. Bushido non avrebbe senso – non avrebbe il minimo senso, davvero.
Ho provato a chiederlo a Bill. Ho provato a capire se se ne rendesse conto.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con tuo fratello?”, e lui ha risposto “mi fa male”.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con Bushido?”, e lui mi ha risposto che quando stanno insieme si sente al sicuro.
Lui forse non lo capisce. Lui forse si rifiuta di capirlo.
Io non ho rifiutato mai niente. Io capisco tutto sempre troppo bene. Troppo, troppo bene. Tanto bene che a volte rinuncerei volentieri al privilegio.
Il punto è che a scappare all’infinito non perdi niente. Bill tiene fra le mani Bushido – che s’è ritrovato letteralmente addosso un’anima da salvare. Scommetto che dev’essere dura, durissima – e tiene sulla corda suo fratello. Tom sta impazzendo e Bushido sta perdendo la testa.
Bill non ha nessuna colpa, di tutto questo.
Non ha neanche fatto niente per fermarlo, però.
E questo è un dannato problema. Per tutti.
- Bill. Adesso dovresti proprio andare a letto.
Bill si morde un labbro e stringe ancora di più le ginocchia al petto.
- Posso restare a dormire qui…?
- Stai già restando a dormire qui.
Scuote il capo.
- No, dico… qui. Sul divano. Dico con te.
Sospiro.
A quanti altri sarebbe capace di aggrapparsi pur di sfuggire all’amore della persona che ama?
- Vai a dormire. Nel letto ci sono le lenzuola che ti piacciono tanto.
*
I Kaulitz sono sempre stati strani.
I Kaulitz sono sempre stati anche un po’ stronzi, devo dire.
Quando sei come Bill e Tom – quando, cioè, hai un te stesso che ti completa in tutto e per tutto – è facile rinchiuderti in una sorta di bolla in cui, oltre all’altra metà di te, non esiste nient’altro. Perciò tutto il resto perde importanza. Tutto il resto non conta. Tutto il resto – pure se è un manager chiaramente in apprensione che cerca da una mattina di capire che diavolo di fine abbiano fatto il suo cantante ed il suo chitarrista – è zero.
Stamattina, Tom mi ha fatto lo scherzetto. Sinceramente me lo aspettavo: la serata di ieri minacciava di essere stata ben più scombinata rispetto a quanto riuscissi ad immaginare – e Bill era davvero troppo troppo triste per non denunciare qualcosa di veramente grave. Sapevo che Tom non si sarebbe sprecato a muovere il culo e venire a lavorare, così come sapevo con certezza che nemmeno Bill l’avrebbe fatto, a meno di tirarlo giù dal letto con la forza e spedirlo in bagno a calci.
Chiaramente, Bill ha passato l’intera mattinata a mordicchiarsi le labbra e telefonare a Bushido. Con la furia del pazzo, davvero. Neanche le labbra fossero Tom stesso e Bushido l’unico che sapesse dove trovarlo.
Tom non ha risposto al cellulare. Non ha risposto a casa. Non ha risposto e basta.
Alle undici e mezzo, Bill ha recuperato la borsa ed ha detto che andava a controllare, senza neanche salutare. È andato da solo. Per la verità avrebbe dovuto chiedere il permesso – o chiedermi di seguirlo – ma non l’ha fatto – nessuna delle due cose – e m’è sembrato assurdo insistere di fronte alla palese realtà per la quale voleva e doveva andare da solo.
Non s’è più fatto sentire, da allora.
Verso l’una ho detto a Georg e Gustav di prendersi il resto della giornata libera. Dubbiosi, loro hanno obbedito, se non altro perché sapevano non ci fosse altro da fare.
Adesso, alle due meno un quarto, io guardo Dave, Dave guarda me e poi sospiriamo in sincrono. Lo facciamo come se fossimo abituati ad assurdità di questo tipo, ma in realtà è una maschera che ci siamo costruiti addosso nell’eventualità che scene simili si fossero davvero realizzate. Cosa che non era mai successa, fino ad ora.
Prendo le chiavi dell’Audi e mi fiondo verso l’ascensore, macino metri di moquette, divoro la strada, arrivo di fronte casa dei gemelli, annullo le distanze spaziali ed in due secondi sono davanti alla porta dell’appartamento. Suono, nessuno risponde. Tiro fuori il mazzo cumulativo dalla tasca del giubbotto. Cerco il doppio delle chiavi. Ce l’ho? Ce l’ho. Apro.
Bill è seduto sul divano.
Inequivocabilmente solo. Inequivocabilmente immobile. Inequivocabilmente disperato.
Mi avvicino, guardandomi intorno con aria smarrita.
- Bill… dov’è Tom?
Fa spallucce.
- Bill?
- Non c’era. Non lo so. Se n’è andato.
Annuisco.
Potrebbe essere una cosa momentanea. Potrebbe essere uscito a comprare le sigarette – solo? Senza Saki, David? Quanto lo ritieni stupido? – potrebbe tornare da un momento all’altro. Magari mi sono davvero sbagliato, ho montato un casino sul nulla ed in realtà non è successo niente. Magari torna.
- Ha lasciato un biglietto?
Tremo, nel chiederlo. Tremo perché in realtà i gemelli sono sempre stati pure un po’ melodrammatici, nelle loro manifestazioni, e quindi non mi stupirebbe – non mi stupirebbe affatto – una bella lettera d’addio con tanto di confessione finale.
Bill, però, scuote il capo.
- No. – risponde con una voce talmente lontana e spaventosa da non sembrare neanche la sua.
Mi siedo al suo fianco e gli poggio una mano sulla spalla. Non so se per consolarlo o per avere una prova della sua presenza fisica accanto a me. Non è importante. Bill serra le labbra e sopprime un singhiozzo, ma non dice una parola di più.
Siccome capisco sempre tutto troppo bene – accidenti a me – capisco anche questa volta. Bill si sta pentendo non so quanto – non lo sa neanche lui, temo – di tutte le fughe ed i litigi degli ultimi mesi. Si sta pentendo di essere sfuggito alla confessione di Tom, così come di averne ignorati uno dopo l’altro tutti i segnali. Si sta pentendo di non aver reagito alle botte e si sta pentendo di essersi nascosto fra le braccia di un uomo che, poverino, non ha la minima idea della cosa dalla quale Bill lo accusa di proteggerlo – o almeno credo. Si sta pentendo di essere venuto a dormire da me. Invece di tornare qui. Da Tom. Che voleva solo sentirgli dire “Va bene, Tomi. Dimmelo. Lo accetterò comunque. Ti accetterò comunque”.
Tom, dal canto proprio, è stato gentilissimo. Bill non voleva sentire la sua confessione? Ebbene, non l’ha sentita. Né ad alta voce né affidata alle premure di un foglio troppo scarno per contenere davvero tutto ciò che la motivava.
Io lo so cosa si sta dicendo Bill in questo momento. Si sta ripetendo in una cantilena parole che ha scritto da sé. Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello. Era anche quella una confessione, anche se con intenti tutti diversi. Quando l’hai scritta, te lo aspettavi? Lo sapevi già? Lo sospettavi, almeno?
Bill, ancora al mio fianco, si accartoccia su se stesso come fa sempre quando il peso della situazione che sta vivendo sembra del tutto insostenibile ed ingiusto. Stavolta – rispetto alle mille volte in cui l’ha fatto per capriccio – non ha nemmeno torto. Mi chino su di lui e cerco di abbracciarlo. Non è facile, perché lui non vuole essere abbracciato.
- C’è qualcosa che posso fare? – chiedo, quando il senso di colpa torna a pungere fortissimo sotto le ciglia.
Bill scuote il capo. Poi si ferma e dischiude le labbra.
- Voglio vedere Anis. – bisbiglia confusamente, - Però non voglio chiedergli di venire. Lo chiami tu per me?
Per un attimo, non so che fare. Vorrei sinceramente rispondere “non mi pare la soluzione migliore, Bill”. Poi, però, cambio idea. Bill è scappato fino ad adesso, anche se non era giusto lo facesse. Adesso che, però, anche Tom s’è deciso per la fuga, a Bill non si può proprio più togliere il diritto di niente.
Se vuole scappare in eterno, che lo faccia.
Se vuole provare a rialzarsi dalle proprie macerie, io lo aiuterò.
Se vuole dare a tutti noi una possibilità per cercare di risolvere questa situazione, io sono d’accordo.
Lentamente, allungo un braccio verso il tavolo. Recupero il cellulare. Cerco in rubrica il numero di Bushido.
- Pronto? – risponde lui, un po’ incerto.
- …salve. – deglutisco io, dopo un attimo di confusione. Non so mai come parlare, quando si tratta di lui. – C’è un problema… - lo informo vagamente, - Potresti venire qui a casa di Bill?
Lui non focalizza immediatamente. Di sicuro ha trovato strano che io mi riferissi a questo appartamento come “casa di Bill”. Lo capisco, l’ho trovato strano anche io. L’ha trovato strano anche Bill, che ora si raggomitola contro il mio fianco e comincia a piangere nel modo silenzioso e disperato dei dolori assoluti, stringendo un lembo della mia maglietta come avesse paura di scivolare giù dal divano.
Bushido lo sente.
- Arrivo fra dieci minuti. – mi informa spiccio, prima di chiudere la conversazione.
Poso il cellulare e mi volto verso Bill – adesso sì, adesso vuole essere abbracciato; tende le braccia, singhiozza pesantemente… adesso vuole un abbraccio.
Lo accontento. Lo so che non sono quello che vuole. Né quello che gli serve.
Al momento, però, non è importante.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Anis Mohamed Youssef Ferchichi è totalmente pazzo. Ecco perché.
Note: È una cretinata che mi ha ispirato ieri sera una chiacchierata su MSN con Lost White XD Parlavamo dell’eroismo del Bu e lei mi ha detto che, se lui fosse stato davvero un eroe, sarebbe andato fino in Messico a rapire Bill per il suo compleanno XD Da qui è nata una gioiosa battuta che faceva più o meno così:
Bu: *con aria eroica* Andiamo!
Bill: *con aria preoccupata* Aspetta, Bu, devo prendere il beauty…
Bu: *scioccato* Sono in volo da ventiquattro ore e tu pensi al beauty?! D:
Ovviamente poi la battuta me la sono completamente dimenticata e, una volta arrivata alla fine, mi sono accorta che non c’entrava più niente con quello che era venuto fuori “XD Io sono palesemente fuori come un citofono (cit. Tab <3).
Comunque. Questa storia è il fluff. Ed io la amo per una serie di ragioni idiote, tipo il fatto che l’ho scritta in un’ora “XD
Il titolo è preso da una canzone del Bu u.u Significa “momento, attimo, istante”. <3.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
AUGENBLICK

- Atze… tu sei completamente pazzo.
Bushido non saprebbe come giustificarsi. Cosa dire o cosa fare. Pertanto, non dice e non fa niente, a parte restare a fissa le punte di un paio di mocassini marroni che – ricorda solo in questo momento – Bill odia. Non avrebbe dovuto metterli. Potrà cambiarsi nel bagno dell’aereo, magari?
- Ma mi spieghi cosa diavolo ti sei messo in testa?! – Saad continua a parlargli nell’orecchio come se lui lo ascoltasse davvero, - Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido scrolla le spalle e recupera da terra lo zaino che ha preparato in fretta e furia. Lo apre, rovista metodicamente all’interno, cerca il sacchetto con le scarpe, lo trova. Le nike beige. Non ricorda se a Bill piacciano. Almeno non sono gli altri mocassini, quelli neri: Bill li odia perfino più di quelli marroni, dice che lo fanno sembrare frocio.
Quando Bill dice cose del genere, la faccia di Bushido si trasforma sempre nell’espressione fisionomica di un punto interrogativo. Non sa se dovrebbe chiedersi prima “ma cosa ci faccio io con lui?” o “cosa ci fa lui con me?”. In genere, non ha tempo di chiedersi un bel niente: Bill ride del suo sgomento e lo bacia con forza. Bushido ama i baci di Bill perché non somigliano affatto a quelli delle femmine.
Ed in effetti questo dovrebbe turbarlo, forse.
- Anis, Cristo santo, è un viaggio di ventiquattro fottute ore! E tu hai una biografia ed un singolo in uscita fra una settimana, cazzo, Mirko andrà fuori di testa! – continua Saad, rosso come un pomodoro. Bushido ridacchia: suo cugino è pallido come una mozzarella, e quando si arrabbia è una delle cose più comiche del mondo. – Non avrai intenzione di cambiarti le scarpe adesso?! Perché vorresti cambiarti le scarpe?!
- No… - mormora, posando nuovamente il sacchetto nello zaino. Sono le prime parole che dice da quando sono partiti da casa, - No, non le cambio. – specifica.
- Okay. – annuisce Saad, palesemente esasperato, - E tutto il resto?
- Quale resto?
- Il resto delle cose che ho detto!!!
Bushido scrolla ancora le spalle perché non se le ricorda.
- Andrà tutto bene. – butta lì a mo’ di rassicurazione.
Saad scuote il capo e sospira pesantemente.
- Atze… - ripete con aria rassegnata, - Tu sei completamente pazzo.
*
Alle dieci a trentacinque di sera del trentuno agosto, Bushido siede su uno scomodo seggiolino dell’aeroporto di Madrid ed aspetta l’aereo dell’una e venti, quello che lo porterà a Città del Messico.
Ha cambiato le scarpe, ma non sull’aereo, perché l’hostess continuava a guardarlo male. Avrebbe voluto urlarle che non se l’era scelto lui l’aspetto da terrorista talebano, poteva anche risparmiarsi, la stronza, di farlo sentire così fottutamente a disagio. Per qualche motivo, sembrava pronta a saltargli addosso e stordirlo con un colpo in testa al primo movimento sospetto. Alzarsi per andare in bagno sarebbe stato un movimento sospetto, forse, perciò Bushido è rimasto seduto al proprio posto, senza scomporsi, fissando il vuoto e, ogni tanto, l’odiosa hostess, nel disperato tentativo di far passare il tempo.
Cambiare le scarpe è stata la prima cosa che ha fatto una volta sceso a Barajas. S’è infilato nel bagno degli uomini, ha sfilato i mocassini ed ha resistito all’impulso di buttarli nel cestino della carta straccia. Ha recuperato le nike, le ha indossate, ha deciso che non stavano bene coi jeans che indossava e che comunque faceva troppo caldo per tenerli ancora, perciò ha tolto anche i jeans ed ha infilato i pantaloni neri corti al ginocchio.
La maglietta blu ci stava sopra uno schifo. Ha messo via anche quella e ne ha recuperata una bianca. S’è chiesto se avesse portato altro, in caso si fosse sporcato in qualche modo ed avesse sentito il bisogno di cambiarsi, ma poi ha scrollato le spalle, s’è dato del cretino ed è tornato in sala d’aspetto.
Mentre attende, l’eco della voce di suo cugino riaffiora alla sua memoria, e si rende conto che, in effetti, di tutta la miriade di stronzate che Saad ha detto a Berlino, qualcosa ha registrato.
Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido non ha una giustificazione, per questo. Se suo cugino glielo chiedesse di nuovo, in questo momento, risponderebbe “Bill al telefono sembrava triste”.
È felice che suo cugino non sia lì per chiederglielo.
*
La conversazione fra lui e Bill s’è svolta più o meno in questi termini.
“Che fai?”, ha chiesto Bushido.
“Dopodomani faccio il compleanno”, ha risposto Bill.
“Lo so”, ha ribattuto lui, “Non c’è bisogno che me lo ricordi”.
Bill ha sospirato.
“Non si sa mai”.
Bushido ha aggrottato le sopracciglia e, per nessun motivo in particolare, ha guardato l’orologio.
Probabilmente ha deciso in quel momento. Comunque non se n’è accorto.
Il respiro di Bill s’è fatto un po’ più affrettato.
“Mi manchi…”, s’è sentito sussurrare piano, ed è stato come sentirselo scivolare sulla pelle.
Ha deglutito con forza.
“Ti senti bene, Bill?”, ha chiesto, vagamente preoccupato.
“Mi manchi e basta”, è stata la secca risposta del ragazzo, “Sono solo, sai? Tomi non dorme in camera con me, oggi”.
“Che tragedia”, ha risposto con un mezzo ghigno.
Bill ha ridacchiato.
“A te manco?”.
Bushido s’è inumidito le labbra.
“Sì.”
“Vorrei che fossi qui, adesso”.
Fruscio di lenzuola. Respiri affaticati.
“Anche io, piccolo”, ha annuito, facendosi scorrere addosso una mano ed immaginando fosse quella di Bill.
Probabilmente aveva già deciso, prima di quel momento. Ma è stato con quella fantasia in mente che ha prenotato il biglietto aereo, tre quarti d’ora dopo.
*
Jost ha un momento d’esitazione, quando sente la sua voce al telefono.
- Disturbo? – chiede educatamente Bushido, cercando di trovare un cantuccio riparato dalle millemila voci dei turisti che affollano l’aeroporto di Città del Messico.
- No, non… Bushido? – chiede David con aria scioccata, ed Anis può immaginarlo perfettamente stringere isterico il cellulare fra le dita, come fa sempre quando qualcosa di totalmente inaspettato arriva a sconvolgere la sua tranquillità.
- Già. – ridacchia, - Senti, una cosa veloce: volevo solo sapere dove alloggiate, così-
- Ma dove sei? – è la naturale domanda del manager, più motivata da un certo amore per l’efficienza e la praticità che non da pura sorpresa.
- Al momento, all’inferno. – risponde Bushido con uno sbuffo esasperato, - Allora? Prendo un taxi o mandi qualcuno a prendermi?
David sospira.
Ed ha un altro momento d’esitazione quando se lo ritrova davanti, di fronte all’uscita passeggeri dell’aeroporto.
- Dio santo… - commenta impietoso, - Sei uno straccio. Da quando sei in volo?
- Per come mi sento adesso, suppongo che dovrei rispondere “da quando sono nato”. – borbotta, - Non hai detto niente a Bill, vero?
David sorride, aprendogli lo sportello della macchina.
- Sono un uomo molto romantico.
*
Il JW Marriot è un hotel a cinque stelle ma fa schifo. È organizzato male, incasinato e, già a guardarlo da fuori, non sembra molto altro che un blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti. Bushido odia gli alberghi pseudo-moderni come questo: a lui piacciono le regge; non è Re mica per niente.
Comunque, all’interno di questo osceno blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti, c’è Bill. Tanto basta per ignorare l’orrore estetico che suscita e passare oltre.
Jost si muove perfettamente a proprio agio fra gli intricatissimi corridoi della struttura, e saluta gente a caso, spandendo sorrisi a destra e a manca come dovesse vendere i Tokio Hotel ad ogni messicano che incontra. Bushido crede che il piano base sia questo, ma cerca di non pensarci perché gli viene troppo da ridere.
- A Bill verrà un colpo. – commenta il manager, indicando una stanza in fondo al corridoio.
- Non se lo aspetta? – chiede Bushido con un mezzo sorriso.
David lo guarda enigmatico.
- Tu te lo aspetteresti, da te stesso?
Bushido guarda altrove.
In effetti no.
*
Le prime parole che sente entrando nella suite, sono di Bill.
- David, finalmente sei tornato! – si lamenta, con la solita voce piagnucolosa di quando qualcuno gli fa un torto assolutamente idiota che lui però prende come peccato capitale, - Tomi è uno stronzo, non mi ha fatto il regalo!
- Bill, voi non vi fate mai regali. – cerca di calmarlo David, mentre Bushido comincia a sentirsi talmente fuori luogo che preferirebbe rifare tutti i corridoi al contrario e perdersi in quello schifo d’albergo altre centomila volte, piuttosto che entrare e salutare come si deve.
- Ma i diciannove anni sono diversi! – strilla Bill, Bushido ancora non può vederlo ma sa che deve avere addosso l’espressione più carina del mondo. – Sono gli ultimi prima dei venti! Da qui in poi smetterò di crescere e comincerò ad invecchiare! È drammatico!
- Come sei insensibile. – borbotta Tom, stravaccato su un divano che, per come lo vede Bushido, dall’angolo ombroso in cui aspetta il coraggio di farsi notare, varrà almeno il doppio di quanto non valga il chitarrista stesso, - Non dire queste cose a David, che poi si sente un rottame.
Anis sospira e stringe i pugni.
Prima o poi dovrà buttarsi e basta, no?
- Già. – concorda entrando finalmente nel salottino, - Io, per dire, mi sento ancora nel pieno delle mie forze.
Il silenzio cala glaciale su tutte le tre stanze che compongono la suite.
Tom spalanca gli occhi e sul suo viso nasce un sorriso irridente che costringerebbe Bushido ad arrossire, se non avesse dimenticato come si fa anni ed anni addietro.
Lentamente, come in un vecchio film romantico, Bill porta una mano alle labbra e singhiozza con forza.
- Sorpresa. – dice Bushido con un mezzo sorriso, - Neanche io ho portato un regalo. Posso restare lo stesso?
Bill si alza in piedi con un movimento fulmineo che, considerata la sua abilità pressoché nulla nel gestire le proprie reazioni corporee, è comico all’inverosimile. Si sbilancia, sembra sul punto di cadere, Bushido fa per sorreggerlo ma non ne ha bisogno, perché Bill si mette letteralmente a saltellare su una gamba, recupera l’equilibrio e poi gli corre fra le braccia, saltandogli addosso con tanto impeto da lasciarlo quasi steso a terra.
David – Bushido lo nota appena – fa un cenno a Tom, che borbotta qualcosa sull’andare a rompere le palle a Georg, e poi i due abbandonano la stanza senza una parola di più.
Bushido stringe le braccia attorno alla vita sottilissima di Bill.
Bill singhiozza.
- Oddio, come hai fatto… - pigola contro il suo collo. Non è una domanda, perché Bill non cerca mai risposte, da lui. È una constatazione sconvolta.
- Avevi voglia di vedermi, no?
Bill lo pizzica forte dietro la nuca.
- E tu no? – chiede lamentoso.
Bushido si scosta un po’ e lo bacia sulle labbra.
- I diciannove anni ti donano. Sei carino.
Bill arrossisce come una liceale e scuote il capo, tornando a nascondersi contro il suo petto.
- Non ho chiuso occhio, stanotte, devo essere impresentabile.
Bushido gli fa scorrere una mano sotto la maglietta, sulla schiena, sul ventre, sulle braccia. Non è un atto sessuale, ha solo voglia di sentirlo sotto i polpastrelli. Bill fa lo stesso, ma Bill è più romantico di lui, perciò non lo fa con le mani ma con le labbra. Lo bacia sotto un orecchio, lungo il profilo della B tatuata sul collo, sul mento, sul pomo d’Adamo.
- Io ti trovo bene. – commenta Bushido, stringendolo tanto forte da avere quasi paura di romperlo.
Bill non si lamenta.
Ogni tanto Bushido dimentica quanto Bill sia forte. Ricordarlo in questo modo è effettivamente molto bello.
- Questo posto, comunque, fa schifo. – riprende il controllo Bill, separandosi da lui e tirandolo per una mano verso il letto, - Toh, senti. – borbotta, spingendolo sul materasso, - Ti pare morbido?
Bushido piomba sul materasso con un tonfo sordo e comincia a ballonzolarci su in un gesto che fa ridere Bill in maniera incontrollata.
- Non è malaccio.
È morbido davvero.
Bill sbuffa.
- A me non sembra.
Bushido gli lascia scivolare una mano lungo il braccio – dalla spalla in giù – e poi lo stringe delicatamente per il polso.
- Non l’hai provato per bene. – argomenta, tirandolo verso di sé.
Bill sorride e si lascia trascinare.
- Convincimi. – concede.
Qualche ora più tardi, quando si sveglieranno, Bill lo accoglierà con una battuta che Anis non dimenticherà tanto facilmente.
Tu dovresti vendere materassi.
La cosa lo riempirà d’orgoglio, di divertimento e di tutta un’altra serie di cose che non è necessario dire ad alta voce.
Per il momento, la sua testa è piena solo di Bill e di un tanti auguri che, più che detto, va mostrato. In fondo, è per questo che è volato fino in Messico, no?
“Atze…”, borbotta Saad nella sua testa, prima che lui riesca finalmente a dimenticarlo del tutto, “Tu sei completamente pazzo”.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Storia di una relazione e del malinteso più enorme e fustrante di tutti i tempi XD
Note: Okay, io amo questa storia XD Prima di tutto, il titolo: in realtà la canzone di Bushido da cui è tratto e di una tristezza immonda XD Ma tutte o quasi le canzoni di quell’uomo sono di un deprimente colossale, perciò non c’è niente di cui stupirsi °-° Comunque sia! In realtà all’inizio voleva essere usato in modo molto lol e basta, però alla fine la storia stessa è un po’ più seria di quanto avessi preventivato (sebbene io la trovi comunque molto divertente e basta XD). Comunque vuol dire “quando un gangster piange”. Capite, è ridicolo X’D
Comunque è_é Dicevo, a me questa storia piace tanto, anche perché è un concentrato di cose che amo. C’è perfino un po’ di sano adorabile twincest fasullo! XD Non è la cosa più carina del mondo, Tomi che bacia Billi sul neo sotto il labbro? *____* *abbraccia i gemelli*
Okay, basta, c’è Yul che è curiosa di leggerla XD Spero vi sia piaciuta :*
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WENN EIN GANGSTER WEINT

Ho smesso molto tempo fa di credere che la vita potesse essere un insieme di certezze. Anzi, in realtà non l’ho mai creduto, perché fin da piccolo ho sempre saputo che nella vita la certezza è proprio l’ultima cosa che uno possa aspettarsi. È certa solo la morte, dicono alcuni, ma potrei avere da ridire. Se così fosse, io sarei morto qualcosa come un centinaio di volte. Il fatto io sia ancora in piedi dimostra piuttosto chiaramente che no, nella vita non c’è proprio niente di certo, e neanche nella morte.
Per dire, all’asilo tutti i miei compagni di classe avevano una mamma ed un papà. Alcuni papà o alcune mamme erano andati via di casa e vivevano altrove, ma continuavano ad esistere, prendevano i loro figli nel weekend e li portavano al parco, facevano loro splendidi regali eccetera eccetera. C’era anche un bambino il cui padre non c’era più, perché era morto. Ma prima di morire c’era stato. Ed il bambino ne parlava sempre come un eroe.
Mio padre, invece, non era proprio mai esistito. Il tunisino che mi aveva dato il colore della pelle, i lineamenti duri e rozzi e gli occhi scuri da arabo, nonché il nome più lungo che ricordi d’aver sentito a memoria d’uomo, svanì come uno sbuffo di fumo prima che io venissi al mondo. Mia madre non me ne ha mai parlato meno che rispettosamente – in un estremo tentativo di non riempirmi d’odio fin da piccolo, suppongo – ma la cosa non aiutò: penso di essere nato arrabbiato.
Comunque sia, mio padre non c’era. I padri degli altri, sì. Eppure io un padre avrei dovuto averlo. Ero nato, no? Ero vivo. Un padre doveva esserci. E invece non c’era. Prima certezza svanita.
Seconda certezza che mia madre aveva cercato di inculcarmi a forza nella testa: il mondo è un posto buono. Tempelhof non era male, a guardarla in cartolina. Lei mi portava lungo il canale di Teltow, mi mostrava le papere e rideva quando mi arrabbiavo perché non mangiavano le foglie che tiravo nell’acqua. Era il suo modo per farmi vedere che c’era anche qualcosa di bello, in giro per il mondo.
Poi però in prima la signora Keller – una donna talmente stronza e razzista che, al suo cospetto, pure il vecchio Adolf sarebbe sembrato un chierichetto – mi disse che dovevo, appunto, fare il bigliettino della festa del papà. Ritagliare il cartoncino con tanto di fottuto bordo a zigzag, scrivere ich liebe dich papa, ricoprire di colla, spargere la porporina e disegnare una pipa da colorare di marrone.
Sollevai lo sguardo, la troia mi guardava talmente schifata da far venire la nausea perfino a me. Le dissi “ich habe keine papa” e cercai di non mostrarmi furioso com’ero. Ero uno scricciolo alto un metro e ribollivo rabbia come una pentola a pressione. Lei batté due grosse ed arcuate dita smaltate di rosso sul cartoncino bianco e rispose che dovevo fare esattamente quello che facevano tutti gli altri miei compagni di classe. “Perciò fai il tuo biglietto della festa del papà, Anis”.
Pronunciò il mio nome con un tale disgusto che cominciai ad odiarlo. Anis non sarebbe stato tanto male come nome per un rapper, ma quando cominciai a rappare lo odiavo già così tanto che di pseudonimi me n’ero scelti altri due.
Vedete, non è certo neanche il nome, nella vita di un uomo.
Risultato: non avere nessuna certezza è proprio uguale ad averne troppe; non ti stupisci più di niente.
Quando Bill Kaulitz è entrato di prepotenza nella mia vita – in maniera molto più consistente rispetto a quanto non fossi già entrato io nella sua, peraltro – perciò, io non mi sono affatto stupito.
*
Cassandra fa girare il ghiaccio del proprio drink, giocando con la cannuccia rosa. Le lunghe unghie trasparenti terminano con una french bianca che mi ricorda Bill. Accidenti a me.
- Quindi il ragazzino torna domani dopo… quanto? Una ventina di giorni?
Ventidue, per la precisione. E comunque, per le relazioni appena cominciate, anche solo una settimana è già tantissimo.
- Sì, all’incirca.
Lei ride e beve un sorso del proprio Martini.
- È così palese che non vedi l’ora, Bu… sei comico da morire!
Aggrotto le sopracciglia ed affondo nella mia virilissima Berlinerweiße.
- È tutto a posto. Doveva lavorare.
- Certo. – ride lei, - È anche ligio al dovere, questo ragazzino. Mamma mia, scommetto che riuscirà nell’impresa nella quale hanno fallito tutte tranne una.
- …sarebbe?
- Farsi sposare, è ovvio! – conclude con una risata, trattenendo un cubetto di ghiaccio fra i denti.
- Prima di tutto, in Germania il matrimonio omosessuale non è consentito…
- Non ancora. – cinguetta lei, - Ma le unioni civili sì!
- Secondo poi, - proseguo ignorandola, - non parliamo di matrimonio. Io ho chiuso. Anzi, non sono mai stato sposato.
- Questo puoi negarlo in pubblico, ma non davanti a chi ti conosce! – mi fa notare in una mezza risatina tronfia, mandando giù un altro po’ di Martini.
Non posso che chinare il capo. Ha ragione.
- In ogni caso, sembra delizioso. – aggiunge con una scrollatina di spalle, - È stato uno zucchero, quando ci hai presentato. E poi ha degli effetti adorabili sulla tua personalità. Ti rende tenero! – faccio per organizzare una protesta dettagliata, dal momento che mi sta assalendo una nausea non meglio identificata, ma lei mi zittisce con un rapido cenno del capo. – Perciò, vedi di non rovinare tutto. Gli uomini rovinano sempre tutto.
- Mi conosci come un tipo che rovina le cose? – chiedo sarcastico, svuotando il boccale.
- Sì! – annuisce lei con una risata allegra, - E comunque, per quanto buono e bravo tu possa essere nei tuoi sogni, sei sempre un uomo.
O quello che ne resta.
*
È assurdo che a dirlo sia io e mi rendo conto possa sembrare uno sciocco espediente per togliersi responsabilità di dosso, ma è vero: è stato Bill a gettarsi fra le mie braccia. Io non avevo pianificato niente del genere. Mi ero limitato a constatare fosse una persona migliore rispetto a quella che pensavo, fine.
Vivere per strada ti insegna un sacco di cose utili – io, per dire, so aprire le macchine per ripararsi dalla pioggia, e senza far scattare l’allarme! – però ti riempie pure di pregiudizi. Ogni tanto mi ritrovo a guardare gli altri con un sorrisetto superiore sul viso, ripetendomi che non valgono niente perché non hanno vissuto esattamente quanto ho vissuto io.
Certe volte ho ragione, altre volte no.
Per quanto riguarda Bill, ero davvero convinto fosse un ragazzino viziato completamente incapace di venire a patti con i sacrifici che non solo il mondo della musica, ma il mondo stesso impone. Ad esempio, quando nel 2006 cominciò a girare quel gossip riguardo il fatto io l’avessi fatto piangere… be’, no, la notizia in sé era falsa perché non avevamo mai davvero fatto un’intervista a due ed io non gli avevo mai chiesto quello che si diceva in giro gli avessi chiesto – non del tutto, almeno – ma quando scherzai sul fatto del pompino mi sarei aspettato che piangesse davvero. Non mi avrebbe stupito, proprio per niente. Era piccolo, sembrava molto, molto montato e per giunta si vedeva lontano un miglio che nel suo entourage lo tenevano sotto una campana di vetro e con molti morbidi cuscini sui quali adagiarsi, perciò diedi per scontato potesse essere un’eventualità plausibile. Neanche mi sentii in colpa, voglio dire, prima o poi qualcuno doveva pur farlo piangere.
Ci incontrammo poi non mi ricordo a che premiazione. Gli chiesi senza mezzi termini se gli fosse passata l’offesa. Non so se fosse sincero quando quel giorno mi guardò, inarcò le sopracciglia e disse che non aveva nulla da farsi passare perché nulla era mai effettivamente cominciato. In ogni caso, la sua sincerità non era il punto. Mostrarsi così tranquillo e disinteressato, nonché disponibile a parlare con me senza schiaffeggiarmi o cavarmi gli occhi, era quello il punto. Era quello il suo merito.
Insomma, il ragazzino, come Cassandra ama chiamarlo, non era poi tanto male. Offrirgli una birra mi sembrò il minimo. Speravo lui la prendesse, non so, come un armistizio. A Tempelhof per firmare gli armistizi ci facevamo favori a vicenda. Una birra era un modo elegante per sottintendere lo stesso concetto, no?
Chakuza me lo disse appena tornai dal bar. “Che fai, Atze, ti metti a discutere coi ragazzini? Guarda che è un problema, non si scollano più”.
Scrollai le spalle e guardai altrove.
Purtroppo, fra me e Bill non è mai stato così semplice. Intendo: ci siamo incollati a vicenda.
*
Dicevo, comunque, fu Bill a saltarmi addosso.
Letteralmente.
Niente di sessuale, chiaro, ma mi saltò addosso lo stesso. Altra premiazione, altre vittorie schiaccianti, altri premi fioccati a destra e a manca per tutti quanti. Per me, per loro.
Erano i Comet del 2007. E no, non sto parlando del modo indecente in cui mi premiò, perché dare la colpa a quello sarebbe troppo semplice. Con quello, Bill dimostrava solo di aver recepito più che bene la lezione e di essere stato indottrinato a dovere. I litigi tirano, ma mai quanto le supposte relazioni. Lo faceva già con suo fratello… farlo con me probabilmente era perfino meno pericoloso, nonché meno straniante.
Non mi prese di sorpresa, non quello, a quello mi adattai subito.
Fu il dopo, che cambiò tutto. Fu un afterparty noioso e stantio dal quale mi allontanai presto, per fare un giro intorno al locale. Fu il momento in cui tornai all’ingresso per rientrare, recuperare la giacca ed avvertire che stavo andando via. Fu la soglia che superai e fu la luce che mi investì e che mi costrinse ad alzare lo sguardo. Su di lui. Che mi rovinò addosso.
- Merda… mi scusi… - biascicò mentre cercava di rimettersi dritto sui piedi. Non trovavo difficile reggerlo – era leggerissimo. Comunque, era divertente che non mi avesse riconosciuto.
- Già ubriaco a quest’ora? – lo schernii con un mezzo ghigno sul quale lui spalancò quegli enormi occhi color cioccolata, confondendomi. Le parole di Chakuza cominciarono a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Nei miei pensieri annoiati e distorti, lo stronzo sorrideva pure. Ma sopra tutto c’erano gli occhi di Bill. “I ragazzini si appiccicano”.
- Non sono ubriaco… - mormorò lui, strascicando le parole, - Ti cercavo.
Non avrei potuto essere più confuso di quanto già fossi, perciò il senso di smarrimento non aumentò. Si fece più ansioso, però.
- Per dirmi…?
Bill si strinse nelle spalle.
- Non lo so. – biascicò, - Prima c’eri, poi non c’eri più. Volevo capire dove fossi andato.
Inarcai le sopracciglia, incerto.
- Perché?
Lui abbassò lo sguardo e si morse un labbro.
- Ti va di fare una passeggiata? – mi chiese invece di rispondere.
- …non hai un altro trentenne a cui chiedere di accompagnarti in giro? Chessò, il tuo manager?
- Non voglio andare in giro con David. – si lamentò con una smorfia. Poi tornò a guardarmi e trasse un sospiro così enorme che il suo petto piccolissimo si gonfiò al punto che temetti potesse scoppiare. – Senti. – balbettò, improvvisamente più lucido, - Non so dove ho trovato il coraggio di chiedertelo. Probabilmente io non ti piaccio, però… è solo un giro, okay? Nulla di compromettente.
Ovviamente mi terrorizzò. Non starò certo qui a negarlo. Non capita tutti i giorni che un ragazzino palesemente ubriaco venga a chiederti una passeggiata notturna. A me, per dire, non era capitato proprio mai. Comunque, non c’era veramente un motivo per il quale dovessi negargli il piacere della mia compagnia – o per il quale dovessi negare a me stesso il brivido caldo di quegli occhi addosso – perciò accettai. Non mi preoccupai neanche di recuperare la giacca. Non faceva neanche freddo.
Bill rimase perfettamente in silenzio, per tutto il tempo. La notte era tiepida e piacevole. C’era una luna stupenda. Lo ricordo perché la sua pelle brillava.
Io non avevo nulla da dire, perciò, piuttosto che riempire i vuoti con stupide battute o frasi fatte, imitai il suo esempio. Lasciai che la passeggiata andasse come doveva. Quando ritornammo nei pressi del locale, suo fratello Tom lo stava aspettando, caracollando nervosamente da un lato all’altro dell’ampio ingresso del club, con quella sua strana camminata da papera. Bill lo vide ed accennò un saluto. Tom lo imitò, ma la sua mano si fermò a mezz’aria quando capì che al suo fianco c’ero io. Lo osservai guardarci interdetto per un lunghissimo minuto, prima di scoppiare a ridere scuotendo il capo e rientrare nell’edificio.
Quando tornai a guardare Bill, era arrossito in maniera indecente.
Supposi dovessero essersi detti qualcosa senza parlare. Ripetevano spesso di essere in grado di farlo, durante le interviste.
- Penso di dover andare. – mi salutò con un breve cenno del capo, - Anche se non mi hai risposto.
Inclinai il capo.
- Dev’essermi sfuggita la domanda. – ammisi.
Probabilmente la mia espressione rifletteva in pieno ciò che stavo pensando. Cioè che mi sentivo molto stupido. In ogni caso, quando Bill tornò a guardarmi, non poté trattenere una risatina che, in teoria, avrebbe dovuto infastidirmi – ma non lo fece.
- Ti ho chiesto se ti piaccio. – rispose a bruciapelo, incrociando le braccia dietro la schiena.
Deglutii.
Probabilmente io non ti piaccio, però…
Sì, lo ricordavo.
Cercai di sorridere.
- Non si fanno domande simili senza rispondere per primi. – cercai di difendermi strenuamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Che vigliacco sei! – rise, dandomi un colpetto sulla spalla, - La mia risposta, comunque, era implicita nella domanda.
Ridacchiai.
- Come sei enigmatico.
- Dunque? – chiese lui, ansioso, lanciando uno sguardo all’ingresso del locale, dal quale Tom era tornato ad affacciarsi sporgendo solo occhi e naso, come una talpa curiosa di esplorare la superficie.
Sospirai.
- Dipende da cosa vuoi sentirti dire. – risposi roteando gli occhi, - Cerchi una dichiarazione d’amore?
Bill arrossì furiosamente e si coprì gli occhi con una mano.
- Possiamo uscire insieme qualche altra volta? – chiese a bassa voce, - Voglio sapere solo questo.
Sorrisi e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, porgendoglielo.
- Lasciami il tuo numero. – risposi, - Ti chiamo io.
*
Sarebbe stato un modo molto figo e molto fascinoso per chiudere la storia, suppongo. Ricordo che rimasi qualche giorno a pensare al numero che mi aveva lasciato, chiedendomi se non potesse trattarsi di uno stupido scherzo da adolescente risentito. Non sarebbe stato impossibile. A diciassette anni, io, appena lasciato il liceo, ero andato a trovare la Keller e l’avevo presa in giro più o meno allo stesso modo. A quei tempi avevo scoperto le gioie del sesso già da qualche anno, ma ero in grado di padroneggiare davvero la questione solo da poco. Il sesso era più che altro un passatempo, ma come vendetta avrebbe potuto dimostrarsi perfino più piacevole.
Andai a trovarla a scuola, all’uscita. Una canottiera ed un paio di jeans strappati addosso – stavo scontando la mia condanna per vandalismo imbiancando i muri di Berlino, in quel periodo. “Frau Keller”, la salutai con un cenno del capo. Lei sussultò – stava assicurandosi che i bambini raggiungessero tutti le macchine dei loro genitori senza intoppi. Appoggiato alla rete del cortile, le braccia incrociate ed il petto gonfio di un orgoglio storto e meschino, io la guardavo, sorridendo sfacciatamente.
Non mi riconobbe. Ciononostante, il colore della mia pelle non sembrò più essere un problema, per lei. Io non mi sprecai a dirle chi fossi nello specifico. Mi presentai come un suo ex allievo, inventai un nome tedesco per confonderla un po’ e, nel complesso, ci provai così spudoratamente da farmi quasi schifo da solo. Il suo petto grasso e flaccido si sollevava ansioso seguendo il ritmo incontrollato nel suo respiro, ed io la guardavo come volessi mangiarla.
Le diedi il mio numero di cellulare. Le dissi di chiamarmi.
Quando mi chiamò, le rispose Fler. Minacciandola di morte. O qualcosa di simile, al momento non ricordo. Fler aveva molto estro, per queste cose. Ricordo comunque con certezza che la chiamò vecchia pervertita. Non riesco ancora a pensarci senza ridere come un pazzo, nonostante tutto.
In ogni caso, fissavo il numero di Bill Kaulitz e continuavo a ripetermi “magari lo chiamo e risponde suo padre che minaccia di denunciarmi. Oppure suo fratello che minaccia di denunciarmi. Oppure il suo manager che minaccia di denunciarmi”.
Alla fine lo chiamai perché il pensiero si stava facendo ossessivo. Continuavo a sognare denunce. Dovevo porre fine a quel circolo vizioso.
Oltretutto, ero vagamente curioso di capirci qualcosa, se non si trattava di uno scherzo.
Ero curioso di…
…be’. Bill Kaulitz è Bill Kaulitz. Non mentivo e neanche esageravo, quando dicevo che, se me l’avesse chiesto, non avrei pensato per più di due secondi alla possibilità di andare a letto con lui. Di cosa fossi curioso è abbastanza intuibile.
Comunque, mentre stavo lì ad arrovellarmi e prospettare lunghi procedimenti legali che si sarebbero conclusi soltanto con una lunga serie di zeri su un assegno, ascoltando con panico sempre crescente il tu-tu nella cornetta del telefono, Bill rispose.
Sospirai di sollievo, e non fu per la mancata denuncia, temo.
- Pronto?
- Ce ne hai messo di tempo a rispondere, Kaulitz.
- …credevo non mi avresti più chiamato.
Suppongo siano le tre battute più abusate della storia del cinema.
In ogni caso, fra noi cominciò così.
Zero certezze. Bill Kaulitz, comunque, aveva già cominciato a stupirmi.
*
Seguì un breve periodo di allegria alla Heidi. Sapete, l’entusiasmo dell’inizio di una relazione. Quello che ti esplode dentro indipendentemente da quanto tu possa rimanere a riflettere sulla possibilità di restare coi piedi per terra eccetera. Non esiste, questa dannata possibilità. Quando t’innamori, voli. Fine.
Tra l’altro, venne fuori che il fratello, all’afterparty, non mi stava platealmente prendendo in giro: rideva perché, già da qualche mese, Bill gli riempiva la testa di “dovrei dichiararmi o no?”. Quando ti senti approvato, voli anche più in alto.
Io e Bill volammo altissimo. Per un bel po’ di tempo.
La mia lunga e lenta agonia è cominciata nel maggio di quest’anno. Con tutti i problemi che Bill ha avuto alla gola – la cisti e tutto il resto – non è stato facile trovare un po’ di tempo per incontrarsi. I paparazzi assediavano l’ospedale, i suoi appartamenti, perfino casa di sua madre. Non c’era proprio modo. Perciò, quando mi ha chiamato al telefono – la voce ancora un po’ rauca ed affaticata – e mi ha detto “posso uscire, ci vediamo?”, mi sono messo a ringraziare un po’ tutti gli dei possibili. In questi casi non importa se ci si creda o meno.
Perciò arrivo sotto casa di Bill e lui è lì che brilla letteralmente. Non so, non era truccato e sembrava femmina quanto me, aveva i capelli appiccicati al viso e schiacciati da una cuffia di lana assolutamente improponibile – soprattutto vista la stagione – un paio di enormi occhiali a coprire metà del viso ed il colletto della giacca tirato su fino al mento. Ma era stupendo.
Non ci penso neanche un secondo, lo afferro per la giacca e me lo tiro contro. Lui mugola un qualcosa tipo “ci vedranno tutti”, io lo zittisco nel modo che entrambi preferiamo per fermare la sua logorrea, lui mugola ancora ma un qualcosa di diverso. Sorrido soddisfatto, lo trascino fino alla macchina, lo porto a casa mia. Lui ridacchia per tutto il tempo, mi racconta cose assurde sulla sua convalescenza per minuti interi, “lo sai che mi hanno infilato in una camicia da notte che era tremenda? A pois, ti rendi conto?! Ero orribile” ed io che sorrido ancora come un deficiente e penso che ad immaginarlo a me sembra una fantasia sessuale niente male anche in una camicia da notte a pois, che dire, sono gusti, e lui parla parla parla ed io sono felice davvero, al punto che quando me ne rendo conto mi do del cretino da solo per non averlo capito prima. Arriviamo sotto casa, lo prelevo quasi di peso, salutiamo la portinaia con un educato cenno del capo, corriamo su per le scale e mi fiondo sulla sua bocca appena varcato l’uscio, chiudendomi la porta alle spalle con un calcio tale da scheggiarla. Ed io sono lì che penso “Dio quanto mi sei mancato” e non so se darmi del deficiente o fustigarmi o godermi il momento, ma lui è lì, sotto di me, sul mio letto, che si fa spogliare e miagola e mi chiama per nome ed io impazzisco, quando mi chiama per nome, e poi a un certo punto lo dice.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Ti amo”.
Dovrebbe essere vietato – assolutamente vietato – dirlo in una situazione simile.
Mi ritrovo seduto sul materasso, di fronte a lui. Indossa solo i boxer ma non ho più nessuna voglia di saltargli addosso. La mia camicia s’è persa non so dove e neanche mi interessa. Lo guardo negli occhi e lui mi fissa di rimando.
Allungo una mano, gli sfioro una guancia, lo bacio sulle labbra e rispondo.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Anch’io”.
Gli si apre sul viso un sorriso fantastico.
A quel punto, se io fossi stato un vero uomo, mi sarei preso ciò che mi spettava e l’avremmo finita lì. Non nel senso che ci saremmo lasciati, nel senso che probabilmente avrei dato il via ad una lunga e soddisfacente relazione sessuale e sentimentale e saremmo stati tutti felici per sempre e bla bla. Ma io non sono veramente un uomo, sono un cretino. È palese. Sono un cretino che si lascia influenzare dalle chiacchiere di un’amica che fa paura, perché dannazione, se una che si chiama Cassandra viene da te e ti dice che rovinerai tutto, tu le credi. Se non le credi sei un pazzo suicida, ecco.
Perciò – Dio, mi rivedo con una chiarezza sconcertante – eccomi lì che lo guardo con l’aria dell’amante appassionato ma dolce e gentile e gli dico “Bill, non devi dimostrarmi niente. Se non sei ancora pronto, aspetterò”.
E lui che sorride.
Tenero come un cucciolo.
Ed annuisce.
Lì ho capito – per la seconda e definitiva volta nella mia esistenza – che, certezze o non certezze, è uguale. Tanto la vita ti smerda comunque.
*
Da quel momento, ho dato per scontato che Bill me l’avrebbe fatto sapere, una volta che fosse stato pronto. Cioè, non mi servivano dichiarazioni pubbliche o altre cose simili tipo “Bu, sono pronto a darti la mia verginità”, mi sarebbe bastato, non so, che mi si arrampicasse addosso mentre guardavamo la TV, o anche solo un accenno, qualsiasi cosa purché fosse un indizio. Anche un indizio fraintendibile! Dopo mi sarei scusato, ma almeno sarei riuscito, non lo so, ad infilargli una mano nelle mutande o convincerlo a farlo a propria volta! Non lo so.
Non sono neanche sicuro di riuscire a spiegarmi. Voglio dire, io lo amo. E lo desidero, cazzo. Per certi versi, pretendere una concessione era un mio diritto. Era un suo dovere darmela, no?
Invece niente.
Lui passava i pomeriggi da me – ed io gli morivo dietro, giuro. Una cosa indecente. Non poteva neanche lavarsi i denti senza che io mi ritrovassi a fissarlo con aria ebete dalla soglia del bagno. Povero ragazzo, devono pure essere stati momenti d’imbarazzo incredibili. Lavava i denti, asciugava lo smalto soffiandoci sopra, pettinava i capelli, sistemava la maglietta, qualsiasi cosa mi faceva venire voglia.
Ma lui non diceva niente. Non si faceva avanti, cazzo. Ogni tanto lo sorprendevo a guardarmi con le sopracciglia aggrottate ed un broncio adorabile sul volto, sembrava ce l’avesse con me. Io mi chinavo a baciarlo – perché non so resistere a quelle labbra – e poi gli chiedevo quale fosse il problema. Lui distoglieva lo sguardo e scuoteva il capo. “Niente”, rispondeva. Non ho fatto che pensare ai suoi “niente”, per tutto il tempo che è stato in tour in America. Probabilmente gli davano fastidio i miei sguardi. Non lo so, a me non avrebbero dato fastidio, anzi, sarei stato felice che lui mi guardasse nel modo in cui io guardavo lui, ma… be’, ho detto che l’avrei aspettato. Devo farlo, no?
No?
*
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Il Berlin-Schönefeld è, come al solito, un incredibile e spaventoso casino. Mi guardo intorno e mi chiedo chi me l’abbia fatto fare. Andarlo a prendere all’aeroporto, Dio. Probabilmente non mi lasceranno neanche portarlo con me. Non avrebbe senso. Io, se fossi in Jost, non lo lascerei andare a casa con Bushido.
In ogni caso.
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Questa è una delle frasi che ricordo con maggiore insistenza, dei miei diciott’anni. È stato un periodo abbastanza incasinato – incasinato più o meno come questo aeroporto, sì – c’era la droga, c’era la fottuta prigione, c’era Fler, c’erano un sacco di cose alle quali ogni tanto penso con rabbia, perché mi hanno rubato tempo, ogni tanto con gratitudine, perché mi hanno reso ciò che sono, ed ogni tanto con tenerezza, perché ero proprio un piccolo imbecille.
Appena finito di scontare la pena per vandalismo, non potendo tornare a scuola, andai a cercare lavoro un po’ ovunque. Cominciai cercando di impiegarmi come operaio da qualche parte. Andavo, facevo il colloquio, lasciavo il mio recapito, incassavo con un sorriso il mio “le faremo sapere” e poi smadonnavo come un posseduto quando arrivava la lettera di rifiuto. Se si sprecavano a farmela arrivare.
Ma sto tergiversando.
Ciò che intendevo dire è che mi capita spesso di sentirmi esattamente in questo modo, quando sto con Bill. Non credo che sia colpa sua – o meglio, non credo che lo faccia apposta. È un senso di disagio che mi prende all’improvviso, quando sono particolarmente frustrato o stanco. Vedo lui, così giovane, così tenero, così… stavo per dire spensierato, ma in realtà Bill non è spensierato, è solo luminoso. Anche quando ha qualche grana per le mani, non perde la sua brillantezza.
Mi sento inadeguato. Solo a volte.
Fortunatamente, poi, succede sempre l’unica cosa che è davvero in grado di farmi sentire a posto con me stesso e con questa relazione. Bill arriva. E mi sorride. Io guardo le sue labbra e i suoi occhi e so che sta sorridendo per me. E tanto mi basta.
- Bentornato… - lo saluto, mentre lui mi vola fra le braccia ridacchiando come un deficiente.
- Non credevo che saresti venuto! – cinguetta aggrappandosi al mio collo e sollevandosi quei due centimetri che gli mancano per arrivare a baciarmi, - Sei fantastico… - mugola piano, abbandonandosi contro di me.
- Sono passato solo a salutarti. – spiego con una scrollatina di spalle, - Immagino tu sia stanco.
- Un po’ sì. – medita con un mezzo broncio pensoso, - Però se vuoi possiamo stare un po’ insieme.
Lancio un’occhiata a Jost.
- Siamo sicuri che… - accenno un po’ titubante, indicandolo con un cenno del capo.
- Portatelo via. Dove vuoi. L’importante è che sparisca. – è la stanca risposta dell’uomo, mentre si allontana senza uno sguardo di più.
Una risatina divertita si unisce a quella di Bill, e Tom abbraccia suo fratello come fosse una coperta, come fa sempre quando lo deve salutare per un lungo periodo di tempo – il lungo periodo di tempo, in genere, scatta già dopo due ore.
- Non badarci. – dice il biondo, riferendosi a Jost, - Durante i tour fa sempre così, va in overdose. Poi torna ad amarci più di prima, ma non penso avrà nulla in contrario a liberarsi di Bill per un po’.
Bill solleva gli occhioni su suo fratello ed espone un broncio adorabile.
- A te non mancherò? – pigola querulo, incrociando le braccia sul petto.
Tom ride e gli lascia un bacio proprio sul neo che ha sotto al labbro inferiore.
Io guardo e deglutisco e probabilmente dovrei essere infastidito. Probabilmente. Ma comunque non lo sono. I Kaulitz li prendi come sono. Ciò significa che o li prendi entrambi o non ne prendi nessuno.
- Adesso molla il mio ragazzo, Atze, prima che la gente cominci a pensare sia il tuo. – ridacchio infilando un braccio fra loro ed attirando Bill a me.
- Ma lui è mio. – ghigna furbo Tom, facendogli l’occhiolino.
Bill ride e mi si spiaccica addosso.
- Ho abbastanza amore per entrambi. – conclude con un sorrisino.
Ed io forse sono davvero un cretino, ma a me basta.
*
Neanche il tempo di entrare in casa, che già Bill mi sta guardando come se l’avessi offeso personalmente. Ripercorro con la memoria gli ultimi istanti: okay, non gli ho aperto lo sportello della macchina, sono entrato prima di lui, non gli ho tenuto spalancato il portone e… ma queste cose non le faccio comunque mai!
- È tutto a posto? – chiedo incerto, guardandolo storto.
Bill sbuffa.
- Un bacio? – chiede con aria scazzata, sporgendo il viso.
Cerco di sorridere e lo bacio lievemente sulle labbra.
- Tutto qui?! – borbotta non appena mi separo da lui.
Scrollo le spalle.
A volte non capisco davvero a che gioco stia giocando.
Lui si passa una mano sulla fronte, fra i capelli, sul collo. Seguo il movimento delle sue dita come ipnotizzato e mi mordo le labbra.
- Non so perché, - riprende, - ogni volta che devo parlare seriamente con te mi tocca ubriacarmi per prendere coraggio, oppure esasperarmi abbastanza da non badare alla paura.
Spalanco gli occhi.
- Bill?
- Insomma, cos’è? Ti fa schifo che io sia maschio? È per questo che non vuoi scoparmi?! Oppure sono le relazioni serie a frenarti? Cazzo! – batte una mano sul tavolo, fissandomi rabbioso, - Se l’avessi saputo, non ti avrei mai detto che ti amavo! Vaffanculo!
Questo ragazzino dev’essere fuori legge. Sono convinto che sia illegale.
Sul serio.
- Rispondimi, almeno!
- Aspetta, aspetta, Bill… - mi faccio avanti, prendendogli le mani e stringendole nello stesso momento, - Sono confuso. Quando ti ho detto che avrei aspettato finché non fossi stato pronto…
- Io ho pensato che fosse un modo per dirmi che tu non eri pronto! – sbraita, cercando di liberarsi, - Impreparato, io! Ma ti venivo dietro da mesi, Cristo, non vedevo l’ora di infilarmi nelle tue mutande! Ma quanto cretino puoi essere?!
- Bill! – lo rimprovero, sinceramente sconvolto, - Adesso datti una calmata!
- Non mi calmo neanche per un cazzo. – sibila lui, occhi bassi ed espressione serissima. Si sporge in avanti e neanche mi bacia, m’invade. La lingua e le labbra ed i denti e quel piercing tremendo. – Capito l’antifona?
C’è poco da fare.
Uno si dice tante cose. Che non può stupirsi, che non ha certezze, che tanto è sempre così, nulla può veramente darti una scossa e farti sragionare.
È stupendo che io abbia trovato Bill. È l’unico che ci riesce.
Lo afferro per i fianchi, schiacciandolo contro il muro e spostando immediatamente le mani sulle sue natiche, saggiandone la consistenza attraverso il tessuto ruvido dei jeans. Lui ansima quando i nostri bacini si scontrano, e tira indietro il capo, cercando le mie labbra.
- Ragazzino… - gli sussurro addosso, prima di accontentarlo, - Quando ti ho chiesto se non ti sentissi ancora pronto, intendevo esattamente ciò che stavo dicendo. – sorrido. Lui tira fuori la lingua e mi lecca le labbra. Io le schiudo ed il piercing mi batte sui denti. È il suono più erotico che abbia mai sentito. – Non presumere troppo, quando ti parlo. Hai idea da quanto tempo volessi infilarmi io nelle tue mutande?
Bill sorride a propria volta e mi stringe le cosce attorno ai fianchi, issandosi fino a superarmi di qualche centimetro. Guarda in basso, verso di me, un sorriso aperto ad increspargli le labbra e gli occhi semichiusi che mi fissano con bramosia.
- Hai ragione. – mormora, piegandosi per baciarmi ancora, - Abbiamo solo perso un sacco di tempo.
Lancio un’occhiata alla porta della camera da letto. Saranno quattro metri, da qui.
Valuto la situazione.
Oh, be’.
La moquette, in fondo, è morbida e pulita.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill, David/Tom (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Tom è a casa, sta cercando invano di rispettare la promessa che ha fatto a David, ripassando un po' di accordi ed esercitandosi alla chitarra. Anche Bill, teoricamente, dovrebbe esercitarsi: ma c'è Bushido con lui, sul divano, e perciò il cantante sembra avere di meglio da fare. Tom, però, non ci sta. E l'arrivo di David pone le basi per una sfida fra fratelli che non porterà nulla di buono (tranne che per le fangirl u.u).
Note: In realtà questa storia è il mio modo (personalissimo, forse troppo XD) di festeggiare il terzo anniversario dall’uscita del singolo di Durch Den Monsun <3 L’inizio del delirio, lo sbarco del male sulla terra, l’avvento dell’Anticristo eccetera eccetera è_é Non a caso, gli accordi che suona Tomi all’inizio sono proprio di quella canzone ^^ Avevo promesso ad Ana che avrei scritto solo ed esclusivamente dei Tokio Hotel, oggi, senza infiltrazioni Bushidiche varie ed eventuali, ma… cosa devo dirvi? ;_; Io più passano i giorni più amo quell’uomo. È contro la mia volontà (più o meno). Poi, da quando ho scoperto che il Tost si adatta al Billshido con una naturalezza disarmante, è trionfo. *piange*
Ciò detto… il fatto dell’intercalare dei gemelli è vero XD Dicono continuamente “und, um”. E lo dice anche Bushido, ho le prove video XD
A parte questo, nulla da dire. Per il titolo (ed anche per la forzatura morale a scrivere XD) si ringrazia Yul. Dannata istigatrice XD Ma ti lovvo lo stesso <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UND, UM…

Mi… do… mi…

- E insomma, io ero là e lui davanti a me che mi guardava come se gli dovessi dei soldi. Sul serio, non sto scherzando!

Do… mi…

- E poi, e poi?
- Niente, io mi avvicino, freddissimo, tranquillo, voglio dire, io con lui ho chiuso, non avevamo nient’altro di cui parlare… e Fler mi guardava come se si aspettasse delle scuse o chissà che, perciò l’ho ignorato e mi sono semplicemente seduto.

Do… la minore… sol…

- E lui che ha fatto?
- Eh, all’inizio ha provato a fare il figo. Sai com’è, piccolo, di fronte a me si sentono tutti un tantinello in soggezione. – sorriso stronzo e fascinoso, toccatina a caso sulla coscia, mio fratello squittisce, ci casca e lo fa pure apposta – Quindi eravamo lì, io bevevo una birra, lui mi guardava male, intorno c’era tutta la mia crew che stava sull’allerta contro la sua crew, und, um

Le corde della chitarra stridettero con tale forza sotto le sue dita, che Bill e Bushido, comodamente spiaccicati l’uno addosso all’altro sul divano dell’appartamento berlinese dei gemelli Kaulitz, si voltarono a guardarlo con aria sconvolta. Bill trovò anche opportuno fargli notare quanto fosse fastidioso parlare col proprio uomo e dover sentire in sottofondo lui che palesemente non sapeva suonare e si limitava a fare casino con quello strumento diabolico.
- Questo è inaccettabile! – ringhiò Tom posando la chitarra lateralmente con tale indisposto scazzo che non si preoccupò neanche che potesse rovinarsi, cosa che in genere rappresentava il primo punto della sua lista di drammi personali.

Ma da quando c’è Bushido, no.
Da quando lui e Bill stanno insieme, sono loro il primo punto della mia lista di drammi personali.


Bill lo omaggiò di un’occhiata da cucciolo smarrito e innocente, ed inclinò il capo come a dare maggior forza al proprio stupore.
- Cosa sarebbe inaccettabile, Tomi? – pigolò poi, mentre Bushido, rendendosi probabilmente conto di quanto aveva detto, si limitava ad un ghigno estremamente divertito, allungando un braccio dietro la schiena di suo fratello.
- Questo tizio – disse Tom indicando Bushido, - ci copia.
Bill inarcò un sopracciglio.
Bushido rise.
Tom li odiò entrambi.
- Farebbe cosa, scusa? – chiese ancora suo fratello, sempre più innocente.
- Ma l’hai sentito o no?!
- Oh, sì… - mugolò compiacente Bill, lanciando un’occhiata di pura lussuria al proprio uomo, che rispose con un sorriso divertito e compiaciuto, - Lo stavo ascoltando molto attentamente.
- Ma che schifo. – commentò Tom con un vago gesto della mano, mentre Bushido scrollava le spalle come a dire “eh, che ci vuoi fare, è così carino che gli si perdona tutto”. – Comunque, se lo stavi ascoltando tanto attentamente, avrai senz’altro notato che ha detto undum! – disse, pronunciando l’intercalare così velocemente che sembrò una parola unica.
- Undum…? – biascicò Bill, portando un dito alle labbra e lanciando un’occhiata maliziosa ad Anis, dando a Tom l’esatta misura di quanto gl’interessasse quel discorso: zero. – Sarebbe?
- Und, um! Il nostro intercalare! – spiegò Tom, gesticolando come un bambino isterico.
- Pensi di essere l’unico ad usarlo in tutta la Germania? – gli chiese il fratello, distendendosi letteralmente sul petto di Bushido, con tale naturalezza da dargli il voltastomaco.
- No che non ero l’unico! – borbottò Tom, cercando di recuperare una parvenza di razionalità, - Eravamo in due, io e tu!
- E adesso anche Bu.
- Non chiamarlo Bu!
- È il mio uomo e lo chiamo come mi pare e piace!
- Okay, okay, ragazzini, diamoci un taglio. – li interruppe Bushido, agitando bonario le mani, in una perfetta imitazione di un vecchio padre benevolo, - Chiedo scusa, Tom, non volevo appropriarmi di una cosa vostra. È che a passare tanto tempo con le persone si assumono anche le loro abitudini. – si giustificò con un sorriso conciliante.
- Be’, cerca di non farlo più. – biascicò il rasta, incrociando le braccia sul petto e ritrovandosi controvoglia costretto ad abbassare lo sguardo ed arrossire, sentendosi drammaticamente in difetto di fronte al sorriso sereno dell’uomo, - Ed ora mi avete anche rovinato il pomeriggio! Dovevo studiare, l’avevo promesso a David! Per inciso, Bill, anche tu avevi promesso…
- Sì, ma io ho di meglio da fare… - miagolò sensualmente suo fratello mettendosi in ginocchio sul divano e circondando il collo di Bushido con le braccia.
Tom roteò gli occhi, sempre più disgustato.
- Be’, per me puoi fare quello che cavolo vuoi. – mentì, - Ma non puoi permetterti di rovinare i miei piani!
Bill scrollò le spalle, senza staccare neanche per un secondo gli occhi da quelli di Bushido, che nel mentre stava facendo scivolare le mani sotto l’orlo della sua maglietta, per vagare con dita falsamente distratte sulle punte di tre stelle tatuate in uno dei punti più perversi in assoluto che un maschio adulto omosessuale potesse immaginare.
- Potevi sempre andare in camera tua, a studiare. – commentò più per interesse personale che per preoccupazione nei suoi confronti.
- Non posso certo lasciarvi soli qui! L’ultima volta abbiamo dovuto rifoderare il divano!
Bushido rise di cuore, gettando indietro il capo e dando a Bill l’opportunità di chinarsi sul suo collo, per attaccare voracemente con le labbra la pelle sensibile sul pomo d’Adamo.
- Scusa, Atze. – lo apostrofò Bushido, incapace di trattenere un mugolio di piacere, - Non volevamo sporcare.
- Già. – ridacchiò Bill, scendendo a mordicchiargli il colletto della camicia, strattonandolo qua e là come un cucciolo affamato, - Ci siamo fatti un po’ prendere la mano.
- Voi due. Siete. Disgustosi. – li indicò Tom, inorridendo come una scolaretta e vergognandosene profondamente.
- Avanti piccolo, sta’ un po’ tranquillo… - rise Bushido, afferrando Bill per i capelli ed allontanandolo in un gesto che, più che mirato a fermarlo, sembrava bene intenzionato a trascinarselo vicino per un uso di quella bocca che fosse meno stupido che non rovinare i colletti delle sue camicie, - Non vedi che tuo fratello si turba?
- Io non mi turbo!!! – strillò Tom, dirigendosi speditamente verso il divano e prendendo posto accanto all’intreccio di braccia e gambe che erano diventati suo fratello e Bushido, - Cerco solo di porvi un freno, prima di dover costringere nuovamente David a giustificare le spese di tappezzeria di fronte alla Universal!
Bill si voltò a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Cosa diavolo staresti combinando, Tom? – chiese acido, aggrottando le sopracciglia.
- Vi tengo d’occhio! – rispose lui con naturalezza, stringendo ostinatamente le braccia sul petto.
Bushido sorrise e scosse il capo, facendo per scrollarsi Bill di dosso.
- Coraggio bellezza, non possiamo certo dare spettacolo di fronte a tuo fratello. – si giustificò, quando Bill gli si aggrappò addosso e cominciò a mugolare che non voleva essere scaricato perché gli piaceva sentirsi addosso la pressione nei suoi pantaloni, - Non che il voyeurismo mi disgusti particolarmente, ma non è il caso. E piantala di parlare dei miei pantaloni. – sorrise affascinante, chinandosi a lasciargli un bacino sulle labbra prima di posizionarlo sul cuscino come un peluche.
Bill si raggomitolò e divenne una palla di rabbia.
- Ti odio. – ringhiò, voltandosi a guardare Tom, che resistette al suo attacco psichico e rispose con un grugnito gemello ed ugualmente furioso.
La porta all’ingresso fece tlack e poi sbam in quel preciso istante.
- Ragazzi! – cinguettò la voce gioviale di David, facendosi strada attraverso il corridoio fino a loro, - Come vanno gli esercizi? Vi ho portato il gelato!
Il volto sorridente del loro manager si affacciò alla porta del soggiorno, scrutando l’ambiente con grandi occhioni azzurri pieni di devota fiducia.
- Oh. – fu costretto a commentare David quando si rese conto di ciò che aveva sotto gli occhi, - Vi vedo… distratti.
In realtà, “distratti” non rispecchiava efficacemente la situazione nella sua interezza. Bushido, seduto sulla sponda più distante del divano, sollevò una mano e lo salutò piuttosto comicamente, con un breve cenno del capo. Bill, palesemente calato nella parte da reginetta tragica che tanto gli piaceva metter su quando qualcuno rovinava i suoi piani, neanche diede segno di accorgersi della sua presenza. Tom, per contro, lo investì con la classica occhiata luccicante con la quale, in genere, si accolgono i salvatori.
David deglutì.
Non era una bella situazione di partenza.
Entrò nella stanza, poggiando il sacchetto con le vaschette di gelato sul tavolo e guardandosi intorno con aria smarrita.
- …interrompo qualcosa? – chiese timidamente, infilando le mani in tasca per darsi un tono.
Bill sollevò lo sguardo solo per fustigarlo con un’enorme quantità d’odio.
- Si stava cercando di trombare, ma evidentemente è impossibile.
David resistette stoicamente a portare una mano al petto e lasciarsi andare ad un gh di sofferenza, mentre tutti nella stanza si voltavano a guardare il cantante con aria sconvolta e scioccata. Anche Bushido, la cui espressione allucinata era perfino più divertente del solito.
D’altronde, come dargli torto? Probabilmente la sparata di Bill aveva messo a disagio pure il gelato.
- …okay, ho capito. – annuì il manager, mentre Tom si agitava sul divano come un’anima in pena, - Brutto momento. Allora io andrei… il gelato è qua.
- No! – strillò a quel punto il rasta, scattando in piedi ed andando letteralmente a prelevare David dal centro della stanza, per trascinarlo, tirandolo per un polso, fino al divano, - Perché non resti ancora un po’?
David gli lanciò un’occhiata poco convinta. Tom la ignorò e procedette nell’esposizione di un sorriso talmente gioviale – e talmente falso – che avrebbe rassicurato perfino un cieco, solo grazie alle onde positive che da esso di spandevano.
Bill mugolò un lamento disgustato e Bushido rise divertito, guadagnandosi in cambio un pizzicotto che non sembrò né turbarlo né infastidirlo più di tanto.
- Be’, visto che insisti tanto… - borbottò David, accomodandosi meglio contro i cuscini, - Allora… - iniziò incerto, - Come procedeva il pomeriggio, prima che arrivassi? – Bill fece per aprire bocca, ma il manager lo fermò con uno sbrigativo cenno della mano, - La tua opinione l’ho già sentita, Bill. Bushido?
L’uomo si strinse nelle spalle e si accomodò a propria volta in una posa speculare a quella di David, mentre Bill decideva che poteva ancora fare qualcosa per infastidire il mondo intero e quel qualcosa era stendersi letteralmente addosso al proprio uomo e cominciare a molestarlo sessualmente sotto gli occhi di tutti.
- Stavamo… aspetta, Bill… - cominciò il rapper, preso un po’ alla sprovvista dai movimenti chiaramente piccati del proprio ragazzo, - Stavamo chiacchierando un po’ e purtroppo abbiamo disturbato Tom, che si stava esercitando…
- Oh… - annuì David, sorridendo orgoglioso alla volta di Tom, - Allora stavi studiando sul serio. Bravo ragazzo.
- Sì, perché io quando faccio una promessa la mantengo. – disse il biondo, orgoglioso, mentre Bill tirava fuori la lingua e stabiliva il modo perfetto per irritarlo ancora di più, portando una mano dietro la schiena di Bushido ed infilandola sotto la maglietta per accarezzarlo lungo i fianchi.
- Anche io mi stavo esercitando! – protestò Bill, issandosi sulle braccia per poi lasciarsi ricadere morbidamente in grembo ad Anis, - Bu, diglielo anche tu!
Bushido rise, un po’ imbarazzato, ed annuì alla volta del manager.
- Se parlare a macchinetta può dirsi esercizio, allora ne stava facendo tanto. – confermò con una scrollatina di spalle, mentre Bill protestava strusciandoglisi addosso come uno scoiattolo isterico.
Tom sentì il fastidio crescere e montare dallo stomaco al cervello, costringendolo ad ammutolire ed aggrottare le sopracciglia, furioso. Odiava quando Bill usava il sesso per metterlo in soggezione. Sapeva che per lui era difficile avere a che fare col pensiero lui fosse sessualmente attivo. Ed usava questo suo disagio per farlo sentire stupido e piccolo e infantile. Lui non aveva mai usato il sesso con le groupie per fare del male a Bill, ma Bill usava il sesso con Bushido per fare del male a lui, e questo non gli andava giù. Neanche un po’.
Ghignò malefico, stendendosi improvvisamente all’indietro e impattando quasi subito con la schiena contro il petto tonico di David.
La sensazione – quella pressione dura e compatta contro la sua schiena – pur non potendo dirsi spiacevole, di sicuro lo turbò più del necessario, ma smise di pensarci nell’istante esatto in cui gli occhi di Bill si posarono su di lui e, oltre quelle macchie castane brillanti, Tom poté scorgere precisamente tutto lo sgomento che lo stava cogliendo.
Il suo sorriso si allargò, mentre si sistemava meglio addosso al manager che, per contro, un po’ stupito e un po’ infastidito, lo afferrava per le spalle nel tentativo di scrollarselo di dosso.
- E tu, invece? – chiese Bushido, mentre cercava di non soffocare sotto la stretta di Bill che, dopo le manovre del gemello, s’era fatta insopportabilmente pesante, - Come mai sei passato da queste parti?
- Be’… - rispose David, mentre Tom gli si arrampicava letteralmente addosso e gli infilava rudemente un ginocchio fra le gambe, rischiando peraltro di porre fine alla sua vita da uomo per ripicca, - Ho la tendenza a non fidarmi dei ragazzi, e- Tom, che diamine stai combinando?!
- Niente! – biascicò il rasta, infilandogli una mano sotto la maglietta con aria corrucciata, mentre Bill mormorava un acidissimo “lo so io, che sta combinando”, - Continuate a parlare!
David fissò entrambi i gemelli con aria inquisitoria, lasciandosi poi andare ad un sospiro stremato e rassegnato, scuotendo il capo.
- Insomma. – continuò, mentre Tom raggiungeva il suo scopo ed infilava una seconda mano sotto la sua maglietta e Bill, per contro, scendeva a sbottonare i pantaloni di Anis, - Non mi fido, e come vedi faccio bene. Perciò sono passato a controllare. Ma non sapevo ci fossi anche tu.
Bushido annuì comprensivo, schiaffeggiando una mano di Bill ed ottenendo come unico risultato che lui usasse l’altra mano per procedere a slacciare la cintura.
- Sì, mi rendo conto. Io non sapevo che dovessero studiare, Bill non me l’ha detto. Se l’avessi saputo, non sarei mai venuto a disturbare.
David sorrise complice, osservando vagamente confuso Tom armeggiare con la fibbia dei suoi jeans.
- Apprezzo l’intenzione. Ma non c’è proprio modo di governarli. Tom? – il ragazzo sollevò lo sguardo, fissandolo con un broncio terribilmente ostinato e terribilmente carino, - Non ti chiedo di fermarti, tanto sarebbe inutile, ma ti dispiacerebbe fare più piano? Mi stai slogando un’anca.
Tom mugugnò un assenso incomprensibile e lanciò un’occhiata a Bill, che nel mentre stava sfilando l’ingombrante cintura autoreferenziale di Bushido per gettarla per terra. Decise che non era il caso di fermarsi ancora e slacciò il terzo bottone dei jeans di David, esprimendosi in un mugolio soddisfatto quando riuscì a completare l’operazione senza problemi di sorta.
- Sì, vedo. – annuì Bushido. Bill sollevò lo sguardo e lo piantò nel suo. Bushido non fece una piega. Bill sospirò e gli infilò una mano nei boxer. – E qui ti volevo. – borbottò l’uomo afferrandolo per il polso e tirandolo via con uno scatto talmente repentino che Bill mugolò di dolore. A quel punto, anche Tom fermò la propria incuriosita esplorazione dei pantaloni di David, e si voltò per osservare la scena.
- Ma sei duro, l’ho sentito! – si lamentò il moro, prendendo a saltellare sul divano mentre Bushido si rimetteva in piedi.
- E tu non hai decenza, tuo fratello ha ragione. – lo rimproverò il rapper, dandogli un buffetto sulla fronte, - Questo può andare bene, ma solo in privato. Perciò… - argomentò, sollevandolo per i fianchi e caricandoselo in spalla come un sacco di patate, - se volete scusarci. – concluse, rivolgendo un breve cenno del capo a David e Tom, prima di voltarsi e dirigersi verso la camera di Bill.
Tom osservò suo fratello allontanarsi penzolante sulla schiena di Bushido. Si scambiarono uno sguardo allucinato da un lato all’altro della stanza, e stabilirono silenziosamente che avrebbero chiarito dopo.
Stremato, Tom si lasciò andare contro lo schienale del divano, sospirando pesantemente.
David scosse il capo e sospirò a propria volta, risistemando i pantaloni e sospingendo Tom verso un punto meno critico del divano, prima di accostarglisi con aria premurosa.
- Non devi spiegarmi niente. – lo rassicurò con un mezzo sorriso, - Ho capito cos’è successo. Ora stai meglio?
Tom mugolò un lamento sofferto e distolse lo sguardo, mortalmente in imbarazzo.
- Penso che mi farebbe bene un po’ del gelato che hai portato. – biascicò. David fece per alzarsi ed andare a prenderlo, ma Tom lo trattenne vicino a sé, afferrandolo per un braccio. – No. – disse con aria implorante, - Resta. Devo scusarmi.
David sorrise teneramente, lasciandogli un buffetto sulla guancia.
- No, non devi. Ti ho detto che ho capito. So che Bill può essere… fastidioso, quando vuole.
- Sì, lo è. – mugolò Tom, accucciandosi contro di lui, - Certe volte mi sento davvero preso in giro.
David rise, ed attraverso il suo petto il suono vibrò e si espanse dentro il corpo di Tom, dolce e rassicurante come un abbraccio.
- Non ti sta prendendo in giro. È solo che vorrebbe la tua approvazione.
- Questo non è il modo giusto per ottenerla!
- Sì, ma tu gli hai spiegato quale sarebbe, il modo giusto?
Tom mugolò ancora e si nascose più profondamente contro la sua maglietta.
- Possiamo non parlarne? – implorò pietosamente.
David sorrise e lo abbracciò con dolcezza.
- Prima o poi dovremo farlo comunque. Ma non è necessario farlo adesso. – poi indicò il gelato, - Lo vuoi ancora?
Tom guardò l’uomo, poi le vaschette, poi ancora l’uomo.
Scosse il capo.
- Preferisco stare così un altro po’.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Language, Slash.
- L'elaborazione del lutto passa per varie fasi. Durante quarantotto tragiche ore, Tom Kaulitz non solo sarà costretto ad affrontarle tutte, ma costringerà anche i propri innocenti coinquilini a passare attraverso il suo stesso calvario. Il problema? Be', che ovviamente non è morto nessuno :D
Note: La storia di questa fanfiction è interessante XD No, davvero: di solito non lo penso, dei vari iter che descrivo nelle post-fazioni – mi limito a sproloquiare senza senso perché io amo sproloquiare senza senso – ma stavolta è stato come se il mondo intero stesse da un lato cospirando perché io scrivessi questa fanfiction e dall’altro lato perché invece non lo facessi XD
Mi spiego meglio: era il ventisei marzo di quest’anno. Nonostante i concerti del 1000 Hotels Tour fossero stati tutti annullati e rimandati a data da destinarsi, io arrivavo a casa della mia neechan, a Padova, e lei mi mostrava tutti i poster che, nei mesi, aveva accumulato per me. Fra di essi, ce n’era pure uno di Bushido, vi giuro, enorme e bellissimo <3 In realtà, la mia ossessione per Bushido – un’ossessione tutta fangirlante, perché la musica che fa non mi piace affatto – era già cominciata qualche mese prima, sempre a causa della neechan. Potete averne un assaggio nelle note finali di The Point Is, che è stata, in effetti, la prima BushiBill che ho scritto, anche se in realtà è una twincest sotto mentite spoglie.
Comunque sia, è stato in quel momento che ho cominciato a pensare di utilizzare nuovamente Bushido in una storia. Anche se allora non lo dissi a nessuno – e sì che ero circondata di fangirl che magari avrebbero preferito lo facessi: così avrebbero potuto uccidermi lì ed il problema si sarebbe risolto XD
Qualche settimana dopo, da casa di mia zia (era il primo aprile, e la data non è casuale XD) vidi su un fansite sui TH una falsa news che parlava di come Bill, risvegliatosi dopo l’intervento, avesse deciso di dichiarare al mondo il proprio amore per Bushido, e di come i due avessero deciso di lasciare entrambi lo showbiz per trasferirsi alle Maldive e vivere in pace la loro nuova vita da sposini.
La mia reazione poteva essere una sola: prima tormentare tutte le fangirl spacciando il link ovunque per vantarmi di come la “mia coppia” fosse diventata canon XD e dopo scriverci su.
C’è da dire che qui sono pure cominciati i problemi, perché non appena ho cominciato a rivelare in giro il mio piano malefico le fangirl hanno cominciato sistematicamente ad odiarmi (soprattutto la mia neechan, che ha fatto di tutto per, alternativamente, impedirmi di scrivere questa storia o impedirmi di mettere le mani su qualsiasi cosa stessimo scrivendo insieme per evitare potessi far degenerare anche quelle XD).
È così, comunque, che la trama di questa storia comincia a prendere forma.
Per poi degenerare completamente.
Avevo tenuto conto di tutti i fattori: dell’innamoramento di Bill, di un Bushido credibile e lontano dagli eccessi cui il proprio ruolo nel business musicale lo obbliga (non per altro, è solo che ci sono degli elementi, nella storia di vita di Anis, che portano tranquillamente a credere lui sia molto diverso da come appare in video), di una sorta di bonaria collaborazione fra i vari membri della band per preservare la felicità che il frontman sta provando…
Avevo pure provato a tenere conto di Tom (nel senso che sapevo che il suo ruolo in questa storia sarebbe stato quello del fratello geloso), ma davvero, non immaginavo neanche lontanamente che poi la sua gelosia potesse sfociare in questo XD E “questo”, per inciso, non è un affetto di tipo incestuoso – almeno, non nella mia visione del Kaulitzest – ma di sicuro non è qualcosa di molto normale, ecco XD
Maneggiare Tom mi ha divertita tanto, ma in realtà non posso dire di essermi divertita meno con gli altri. Ho messo in atto una situazione totalmente inedita, cercando di rivedere le “solite” caratterizzazioni che di solito impongo a questi personaggi, senza stravolgerle (perché se le uso spesso un motivo ci sarà! XD) ma anche rinnovandole, e concedendomi anche qualche caduta melensa di tanto in tanto – e chi conosce la mia produzione sa che comunque non succede tanto spesso XD
Credo che, al di là del mero fangirling, siano questi i motivi per i quali questa storia mi piace tanto. Questi, ed anche il fatto che è comunque una fanfiction piuttosto comica, già a partire dal titolo: quella dello “spring, spring!” è una formula lollosa che io e la neechan usiamo spesso, parodiando la strafamosa Spring Nicht originale, e so che lei mi odierà per questo, perché aveva giurato che non avrebbe mai letto questa fanfiction, ma questo è esattamente il tipo di titolo che suppongo potrebbe farle cambiare idea XD
Comunque sia, spero che, cadute melense e momenti emoangst gratuiti a parte, questa fic piaccia anche a voi :)
In conclusione (e sarebbe pure ora), questa storia non può che essere dedicata a quattro persone: alla mia neechan, perché non la leggerà mai XD, a Meg, perché il mio Bushido le piace <3, a Yul, perché mi ha offerto appoggio incondizionato ed è una mia fangirl *_* ed a Sara, perché ha cominciato a odiarmi dal primo momento in cui le ho detto che l’avrei scritta, visto che sapeva pure che alla fine le sarebbe toccato leggerla X3
Ovviamente, un ringraziamento speciale va fatto alla splendida Misako, perché se l’è sorbita in anteprima e l’ha pure betata <3 E ci tengo a specificarle che, se questo ringraziamento non era ancora nel documento quando gliel’ho mandato, era perché non ero ancora sicura che le andasse davvero di betare una BushiBill XDDDD :*
Grazie per aver letto fin qui (se davvero l’avete fatto! XD) ed alla prossima <3
PS: La canzone che Bill cita quando dice “questa non è casa mia, è casa loro” è veramente una canzone degli Smiths XD E si intitola There Is A Light That Never Goes Out. Ovviamente è una delle cose più emo che esistano, ma è anche molto bella <3
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BITTE, SPRING, SPRING!

- …e quindi stiamo insieme.
Bill amava dare di sé l’idea di essere un tipo tremendamente egoista. Il classico carro armato che si prende le proprie soddisfazioni a tutti i costi, facendo valere la propria influenza sulle persone su cui ha una certa presa ed asfaltando senza riguardi tutti gli altri, pur di ottenere ciò che vuole.
In realtà, Bill aveva fatto propri con incredibile diligenza tutti gli insegnamenti che Jost gli aveva propinato da quando avevano cominciato a lavorare insieme.
Nello specifico, aveva trovato particolarmente gratificante – ed aveva perciò preso alla lettera ed imparato a memoria – il primo dei suoi personalissimi comandamenti: sei la colonna portante del gruppo. Ciò che farai si rifletterà inevitabilmente sulla reputazione della band. Perciò, qualsiasi cosa tu decida di fare, è alla band che devi renderne conto per prima.
Già. Mentre per Georg e Gustav non esistevano leggi – cosa che sembrava, per certi versi, gratificarli parecchio – e per Tom ne esisteva solo una ma orribile – niente al mondo ti salverà mai da chitarra e solfeggio almeno due volte a settimana – le leggi di Bill sembravano scritte apposta per nutrire il suo già spropositatamente pasciuto ego.
Per questo motivo, Bill non avrebbe mai imbastito una relazione con qualcuno senza prima darne notizia al gruppo.
Il caso di specie non faceva eccezione.
La notizia di quella che a tutti gli effetti era la prima “relazione seria” di Bill dai gloriosissimi tempi in cui era inequivocabilmente eterosessuale e sognava di sposare Linda e riempire la propria madre di nipoti, fu accolta nel loft di Amburgo con sgomento ed incredulità.
Com’era semplicemente ovvio accadesse.
- Bushido…? – articolò confusamente Tom, scrutando il proprio gemello con aria scioccata dal divano in cui era affondato quando lui, entrando in casa, aveva chiesto a tutti di sedersi – e ora gli sembrava di capire profondamente perché – dal momento che aveva da dare loro una grande notizia.
- Anis. – precisò Bill, aggrottando le sopracciglia, - È così che si chiama. Te lo ripeto da settimane.
- Ma è Bushido! – rimarcò Tom, con aria sempre più sconvolta, prendendo a gesticolare animatamente.
Bill sospirò come se avere a che fare con lui fosse la prova più straziante che gli fosse mai capitato di affrontare, e poi scosse lievemente il capo, voltandosi a guardare David, che rimaneva impassibile sul proprio sgabello, il portatile aperto ed acceso sulle ginocchia ed una sigaretta a pendere mollemente dalle labbra.
Il manager si prese il tempo di aspirare ed espirare il fumo un paio di volte, prima di dire qualcosa.
- Potrebbe essere tuo padre. – commentò quindi con un sorriso sarcastico.
- Ha solo trent’anni! – protestò Bill offeso, - Un padre piuttosto precoce, non credi?
Gustav ridacchiò a bassa voce, mentre nella mente di Tom le parole “solo”, “trent’anni” e “padre” assumevano consistenza fisica e si mettevano a palleggiare felici coi suoi neuroni.
- Be’. – riprese il manager, scrollando le spalle, - Sarete sicuramente la coppia più strana si sia vista dai tempi di Beyoncé e Jay-Z…
- Paragone più che azzeccato! – aggiunse Georg divertito, dando finalmente a Gustav la scusa per accasciarsi sul divano e ridere fin quasi a soffocarsi.
- …ma congratulazioni comunque. – concluse Jost, prima di accodarsi allegramente alle risate degli altri due.
Bill li fissò tutti e tre con malcelato disgusto, prima di scuotere teatralmente la setosa massa di capelli che gli scivolavano lungo le spalle e ritirarsi in camera propria.
Accucciato sul divano, con stampata addosso un’espressione di puro smarrimento che mal si intonava al clima ilare che pervadeva l’appartamento, Tom rimase immobile a scrutare il vuoto con aria assente, come fosse in trance ed anche bene intenzionato a restarci il più a lungo possibile.
- Dio mio, Bushido! – riprese David, asciugando una lacrima di divertimento puro dall’angolo di un occhio, - Niente male come prima storia pubblica! Prevedo grossi scossoni in casa!
- Io sono turbato! – ritorse Gustav, deciso a proseguire il gioco fin quando fosse stato possibile, - Conosciamo tutti quanto ambiguo sia il rapporto di Bill con suo fratello… non trovate quantomeno sospetto che sia andato a mettersi proprio con un rapper?!
- Per carità! – rispose David, ormai sul punto di rotolare giù dallo sgabello, stringendo fra le braccia il pc per impedirsi di lasciarlo rovinare a terra, - È il contrario, è Bill che fa presa solo su quel determinato tipo di persona! Bushido non è neanche il peggiore potesse capitargli, in realtà!
Georg si accasciò moribondo sul divano, rotolando contro Gustav e coinvolgendolo in una danza dell’ilarità che aveva dell’inquietante.
Tutto ciò che Tom riuscì a fare fu continuare a fissare il vuoto ed esalare uno sgomento “Ma è Bushido” che, oltre a rimarcare quanto aveva già fatto notare ad un fratello che, di fronte al suo shock, s’era rivelato del tutto insensibile, costrinse i suoi coinquilini a voltarsi verso di lui e prendere coscienza del fatto in quella catatonia risiedesse evidentemente un problema di una certa consistenza.
- Tom… - mugugnò David, riponendo il pc al sicuro sul tavolo, - provaci, almeno, a prenderla bene.
- Ma… è Bushido! – ripeté lui, ricominciando a gesticolare come un bambino di tre anni.
Georg roteò gli occhi.
- Eccolo che comincia…
- È Bushido! – rimarcò nuovamente Tom, - Bu-shi-do!
- Tooom… - riprese il manager, spegnendo il portatile, - Niente paranoie, su! Doveva pur succedere, prima o poi, che tuo fratello si mettesse con qualcuno!
- Ma Bushido non è qualcuno, è Bushido!
Evidentemente non c’era molto altro da dire. O da spiegare. David, Gustav e Georg emisero un sospiro simultaneo che tanto diceva su quanto fossero abituati a scene di simile follia, e poi il batterista commentò che era quasi certo il nome del rapper non fosse mai stato ripetuto tante volte come quel pomeriggio, e che quindi, probabilmente, al fianco di Anis al momento c’era il Kaulitz sbagliato.
Gustav decisamente non poteva capire. Lui non correva il rischio che, tipo, sua sorella andasse a mettersi con Axl Rose! Nessuno di loro poteva capire, perché in effetti nessuno di loro aveva una sorella in pericolo!
Tecnicamente, neanche lui, ma era una questione di insignificanti dettagli.
Si sollevò dal divano, mentre ancora Georg rantolava gli ultimi strascichi della risata che la precedente battuta di Gustav gli aveva indotto, e si diresse cautamente verso la camera di Bill.
- Lascia perdere… - lo ammonì Jost, inarcando le sopracciglia, - Non ne ricaverai niente di utile.
Tom non gli concesse risposta di alcun tipo e sparì lungo il corridoio.
Ristette più di un paio di secondi di fronte alla porta, prima di decidersi finalmente a bussare.
- Bill… - chiamò a bassa voce, scollando le lettere con manifesta difficoltà, - Posso entrare?
I passi di suo fratello si mossero veloci sul parquet, e poco dopo Tom si ritrovò di fronte il suo viso, mestamente sorridente.
- Certo che puoi entrare… - mormorò Bill, scostandosi dall’uscio per farlo passare e richiudendosi la porta alle spalle quando lui fu in camera, - Non ce l’ho con te, mi dà solo fastidio che l’abbiate presa per una barzelletta, perché proprio non lo è.
- Io… - deglutì faticosamente, - non l’ho presa per una barzelletta.
Oh, no. Non avrei proprio potuto prenderla più seriamente di così.
Bill si espresse in un sorriso minuscolo e poi lo invitò a sedersi sul letto, facendolo a propria volta.
- Avanti. – disse infine, strizzando maliziosamente le palpebre, - Chiedimelo.
Tom abbassò lo sguardo e boccheggiò confusamente per qualche secondo.
- …l’avete fatto…? – chiese infine, con aria dubbiosa.
Bill scoppiò a ridere divertito, dondolandosi giocosamente sul materasso.
- Non dovresti porre domande di cui non vuoi veramente sapere la risposta! – gli fece notare, e Tom non poté che annuire di fronte all’incontestabile veridicità di quell’assunto. – Fammi le domande giuste, Tomi. – sorrise suo fratello, sporgendosi lievemente verso di lui, - Quelle importanti.
Tom annuì ancora. Si sentiva incredibilmente stupido: a vagare per la testa, c’erano solo domande idiote. Da quanto tempo? Perché così in fretta? Perché proprio lui?
Perché non potevi restare per sempre il mio adorato fratellino perfetto in eterna attesa del vero amore? Quello che fa battere il cuore e piangere e ridere come mai prima? L’amore perfetto, il più importante di tutti?
In quel modo sarebbe stato più semplice. Uno più importante di me non sarebbe mai arrivato, e…

Scosse il capo, mentre Bill ridacchiava debolmente.
- Non essere vigliacco, Tomi. Prometto che la risposta non ti ucciderà.
Io al posto tuo non ne sarei così sicuro.
Sospirò profondamente e socchiuse gli occhi.
C’era solo da buttarsi.
Spring, spring, Tomi.
- Lo ami? – chiese tutto d’un fiato, anche se non era proprio sicuro di voler sapere la risposta.
Sul volto di Bill si aprì finalmente il primo sorriso davvero felice della giornata.
- Sì. – rispose tranquillamente, arrossendo pure un po’.
Tom digerì l’informazione ed annuì.
Superata questa…
Posso sopravvivere davvero a tutto.
- E lui ti ama? – continuò quindi.
- Dice di sì. – cinguettò Bill, stringendosi nelle spalle.
- E lo dimostra, anche?
Bill non rispose. E non ce ne fu neppure bisogno, perché il suo sorriso era già, da solo, abbastanza eloquente.
- Io proprio non capisco. – esalò infine Tom, scuotendo il capo e grattandosi la fronte, - Come cavolo fa a piacerti un tipo che ha detto in diretta nazionale che gli sarebbe piaciuto farsi fare un pompino da te?!
Bill ridacchiò a bassa voce.
- Anis è un tipo un po’ rude… - giustificò con aria sognante, - Non mi fa passare nessun capriccio, sai? Mi contesta apertamente quando crede che sbagli e non mi tratta come un moccioso cretino incapace di prendersi le proprie responsabilità. E poi non si fa scrupoli a prendermi in giro. A volte prende e mi chiama “bella figa”, per dire. Ammazzerei chiunque altro ci provasse, ma lui…
- Ti piace che ti maltratti, riassumendo? – cercò di chiarire Tom, interrompendolo con una smorfia schifata.
- Mi piace che si sia schietti e sinceri con me, Tom. – precisò Bill, guardandolo dritto negli occhi. Sorrideva ancora. – E questo dovresti saperlo anche tu.
Il biondo sospirò, abbassando lievemente le palpebre.
- Ok. – annuì alla fine, - La domanda è cretina ma devo fartela lo stesso: c’è qualcosa che io possa fare per cambiare questa situazione?
Bill rise divertito, gettando indietro il capo.
- Tomi… - lo richiamò appena, trascinando la risata.
- Sì, sì, ok. – lo fermò lui, agitando una mano, - Almeno non mi sfottere. È difficile, per me…
- Tom, avanti! – mugolò lui, abbattendosi contro una sua spalla e strusciandoglisi addosso come un gattino impaziente, - Non c’è proprio motivo di essere geloso! Eri e rimani mio fratello. – lo rassicurò, - Eri e rimani la persona più importante per me. – Tom sorrise ed annuì lievemente, lasciandogli un buffetto sulla guancia in risposta del quale Bill rise piano. – Ti vedo un po’ troppo scosso, però. – continuò il moro, dubbioso, - Forse è meglio se vai a farti una tisana, no? Vuoi che te la prepari io?
Tom scosse mestamente il capo, cercando di sorridere con più sicurezza.
- Magari vado a bere qualcosa con Georg. – rispose, - A te va di uscire?
Bill inclinò lateralmente il capo, con una smorfia pensosa.
- Penso che passerò la nottata al telefono. – confessò infine, lasciandosi andare disteso sul letto mentre Tom si alzava.
Il rasta ridacchiò a bassa voce, poggiando due dita sulla maniglia della porta.
- Povero Andreas! – ironizzò, lasciando la camera fra le risatine di Bill.
In corridoio, appoggiato in posa plastica alla porta della propria camera, antistante a quella di Bill, Georg – le braccia incrociate sul petto ed una coreografica cascata di liscissimi capelli castani a ricadere sul viso – sembrava stesse aspettando proprio lui e non avesse fatto altro da che era venuto al mondo.
- Georg! – lo richiamò Tom, simulando spavento con un saltello indietro, - Che, siamo finiti in un vecchio western? Ti mancano solo stivali e stellina da sceriffo…
Il bassista lo omaggiò con un ghigno di puro scherno e si separò dalla parete, andandogli incontro.
- Evita di fare il grand’uomo con me, signor “ma-è-Bushido”, che fino a poco fa stavo ridendo di te mentre davi di matto. – lo prese in giro, afferrandolo poi con un braccio attorno al collo e trascinandolo impietosamente verso un posto più sicuro in cui parlare.
La cucina, scelta appositamente in quanto uno dei pochissimi luoghi protetti da quattro mura in quella casa completamente priva di spazi chiusi, era effettivamente deserta. Due bottiglie di birra attendevano ansiose sul tavolo che loro le afferrassero, le stappassero e ci dessero dentro con le confessioni da Veri Uomini.
Anche se, in quel caso, le confessioni dei Veri Uomini sembravano più le lamentele di un fidanzatino tredicenne tradito.
Tom era sempre stato consapevole del fatto il suo rapporto con Bill in quel senso non fosse normale. Erano sempre stati troppo attaccati, troppo gelosi, troppo possessivi, sì, perfino troppo morbosi per potere anche solo pensare di vivere quanto li legava – che in fondo non era che un affetto puro al punto da fare paura – in modo sereno e rilassato.
Non s’erano neppure mai veramente innamorati di qualcuno, però.
Ed ecco che sorgeva il problema.
- Allora? Com’è andata?
A Georg non piaceva prestarsi a quel gioco di insistenze e domande infantili. Più che altro, era della parrocchia “esponi il problema e datti da fare per trovare una soluzione”. Indugiare sul dramma fine a se stesso lo infastidiva. Ma si piegava: in fondo, è questo quello che fai quando vuoi bene a una persona, no? Ti pieghi alle sue regole. Giochi per farla felice.
Avrebbe dovuto farlo anche lui con Bill. E farlo sul serio. Non dire “d’accordo” e poi rifugiarsi in una bottiglia di birra per esprimere tutto il proprio disappunto.
- Dice di amarlo. – borbottò guardando malinconicamente la superficie in fòrmica del tavolo.
Georg sghignazzò.
- Sarà vero. Lo conosci tuo fratello.
Tom annuì distrattamente, appoggiando il mento sul palmo della mano e lasciandosi poi andare con uno sbuffo contro il tavolo.
- Non so che fare. – ammise in un sospiro, socchiudendo gli occhi.
- Perché dovresti fare qualcosa? Non mi pare ci sia nessuna donzella in difficoltà… ed anche quando, tu in genere sei quello che le mette in pericolo, le donzelle, non quello che le salva.
Tom si concesse uno sbuffo ed una risatina divertita, e Georg si sollevò dalla sedia sorridendo vittorioso come faceva sempre quando aveva l’impressione di avere arginato un disastro che altrimenti si sarebbe dimostrato ingestibile. Circumnavigò il tavolo e in due passi gli fu accanto, schiacciandogli con forza una mano sulla spalla.
- Avanti. La mia parcella è una birra. Andiamo?
*
Passando attraverso il salotto e dirigendosi a passo spedito verso la porta, tintinnando neanche fosse stato un campanellino sotto vento a causa dell’incredibile quantità di orridi accessori argentati che indossava, Bill si premurò di informare il mondo – ovvero suo fratello, il suo manager ed i suoi due compagni di band – che stava uscendo con Anis.
Seguendo il proprio fratello con lo sguardo, tutto ciò che Tom riuscì a fare fu scattare in piedi e, sfoggiando un’aria talmente innocente da risultare perfino fastidiosa, chiedere se poteva uscire con loro.
Mentre Georg e Gustav scoppiavano prevedibilmente a ridere, David e Bill si voltarono a guardarlo, sollevando un sopracciglio e sfoggiando peraltro incredibile simultaneità.
Fu il manager a parlare per primo, incrociando le braccia sul petto e sbuffando pesantemente.
- Cos’è, Tom? – si informò acido, - Stai passando al contrattacco?
Tom lo investì con un’altra occhiata carica di studiatissima innocenza, e scrollò le spalle.
- Conoscendo il tipo, mi pare il minimo preoccuparmi per Bill. – rispose con noncuranza.
- Bill starà benissimo. – lo apostrofò duramente suo fratello, arricciando le labbra in una smorfia infastidita, - E starà ancora meglio quando Tomi la smetterà di preoccuparsi.
- Non cominciate a parlare in terza persona, è straniante. – li fermò David, frapponendo simbolicamente le mani lungo l’immaginaria scia di elettricità purissima che collegava i loro occhi, - Tom, lascia andare tuo fratello. E, per inciso, Bill: il fatto io non stia osteggiando la relazione fra te e Bushido-
- Si chiama Anis. – lo interruppe acido il moro, - Ed io ho diciott’anni! Non potresti comunque osteggiare un bel niente!
- Oh! Punti di vista. – scoccò Jost con un sorrisino spaventoso, - Dicevo, il fatto io ti permetta di uscire con Bushido – rincarò, - non deve farti pensare di poter andare impunemente in giro come non fossi tu. Cercate di essere discreti.
Bill scrollò le spalle e, con un ultimo sbuffo da diva insoddisfatta, si trascinò all’esterno dell’appartamento, premurandosi anche di sbattere ogni sfortunata porta incontrasse lungo il proprio cammino.
- Non eravamo d’accordo che non avresti fatto niente per salvare la damigella in pericolo? – scollò laconico Georg, grattandosi la pancia dal divano sul quale era sprofondato, senza staccare gli occhi dal video di LaFee che passava su Viva.
- Non eravamo d’accordo affatto. – grugnì Tom, dirigendosi speditamente verso la propria camera, - È una delle situazioni più del cazzo che abbia mai vissuto.
David lanciò un’occhiata eloquente a Georg, che rispose con un terrorizzato “Ah, no! Io ho già dato ieri!”. La stessa cosa fece con Gustav, il quale neanche lo degnò di una risposta verbale: si limitò a sollevare un sopracciglio in seguito al quale David non poté che sollevare entrambe le mani e mugolare “Ok, ok, ho capito!”, riponendo le armi.
- Pare che dovremo semplicemente aspettare che gli passi. – rifletté a bassa voce. – Perché ho come la vaga impressione che non sarà così semplice?
Georg e Gustav si lanciarono uno sguardo complice ed ugualmente rassegnato, di fronte al quale David eruppe in un sospiro di resa che sarebbe suonato deprimente pure se la situazione non fosse stata tragica come in effetti era.
Tom uscì dalla propria camera, vestito di tutto punto, non più di due minuti dopo.
- Io esco. – annunciò bellicoso, e non aggiunse altro.
Quando fu andato via, David impiegò più di un paio di minuti della propria esistenza semplicemente a rimirare il vuoto, come se questo riponesse nelle pieghe del proprio silenzio il segreto per risolvere tutti i guai che Bill aveva portato con sé riscoprendosi capace d’amare qualcos’altro oltre alla propria messa in piega per la prima volta dopo eoni.
- Contare sul vostro appoggio sarebbe ridicolo, vero? – mugolò infine alla volta del proprio batterista e del proprio bassista, i quali, nel frattempo, avevano approfittato del suo momento di silenzio per darsi ad un’entusiasmante partita di Mario Kart.
I due scoccarono un laconico no simultaneo e tornarono a perdersi nelle sbuffanti nuvolette bianche che uscivano dagli improponibili veicoli dei protagonisti del videogioco, senza più calcolarlo. David sospirò ancora, si alzò in piedi, afferrò una giacca a caso e si preparò a salvare la reputazione di Tom da un disastro pubblico.
*
Più che altro, gli sembrava strano non essere ancora stato riconosciuto.
Insomma: quel posto era ben frequentato. C’erano perfino un paio di ragazze, giovani “promesse” della Universal, con le quali avrebbe potuto giurare d’essere stato a letto – più o meno: in genere non è che ricordasse proprio i lineamenti, già dopo qualche minuto, ecco.
Tutta l’attenzione del locale, comunque, sembrava essersi focalizzata sul piccolo e relativamente appartato tavolinetto al quale avevano preso posto suo fratello e Bushido non appena erano arrivati – dopo di lui. Nonostante fossero partiti prima. Ignorare l’irrazionale rabbia gelosa che da questa consapevolezza derivava sembrava a dir poco impossibile.
D’altronde, non è che potesse proprio lamentarsi del fatto nessuno lo calcolasse: anche la sua, di attenzione, era puntata su quel tavolinetto. Anche se non per la stessa curiosità morbosa che pervadeva gli altri avventori del locale.
…be’, forse un po’ sì.
Ma era preoccupato! Ecco. Era solo preoccupato!
Una cameriera bionda gli si avvicinò e gli chiese con fare amichevole se fosse pronto per ordinare, domanda alla quale lui rispose con sincerità, se non altro perché la sua testa era talmente impegnata a registrare ogni singola azione di Bill e Bushido che non aveva proprio altri neuroni liberi da utilizzare nell’ideazione di una menzogna. E perciò: no, non sono pronto. E in realtà non voglio niente, sono qui solo perché ero preoccupato per mio fratello.
La ragazza lo squadrò come fosse stato un alieno. Lui non vide i suoi occhi, ma se li sentì scorrere addosso, così stupiti e perplessi com’erano. La cosa lo infastidì, ma be’, supponeva potesse essere una reazione normale.
- Ci porti due birre, per favore. – ordinò quindi la lamentosa voce di Jost, che Tom non stentò a riconoscere malgrado non riuscisse a staccare gli occhi dall’idillico quadretto amoroso del tavolino nell’angolo.
- Sì, signor Jost. – rispose la ragazza, con aria sommessa, dileguandosi in un secondo.
David si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte alla sua e si passò una mano sugli occhi.
- Portarlo nel locale che frequentiamo di solito, che mossa geniale! – scollò con palese fastidio, - Non sono ancora riuscito a capire se tuo fratello stia cercando di scaraventarci di peso sull’Olimpo del gossip o se stia semplicemente provando a gettarci tutti in una fossa dalla quale sarebbe troppa fatica anche solo provare ad uscire.
- Mh. – borbottò lui.
- Ovviamente, non hai sentito una parola. – notificò piatto David, inarcando le sopracciglia.
- Mh. – ripeté lui atono.
La cameriera tornò indietro, posando due boccali di birra nel centro del tavolo, e poi scomparve così com’era riapparsa, lasciandoli nuovamente da soli.
- Tom… - lo chiamò David, vagamente infastidito. – Tom, Cristo santo! – sbottò quindi, visto che lui continuava ad ignorarlo, afferrandolo per una spalla e costringendolo fisicamente a notarlo, - Non stanno facendo un cazzo! – lo informò sbigottito, - Vuoi piantarla di guardarli e starmi a sentire? Ti sei almeno accorto che sono arrivato?!
- Ma sì… - mugugnò Tom, attaccandosi alla propria bottiglia con aria offesa, - Certo che me ne sono accorto… solo che Bushido stava-
- Cosa? – chiese acido David, - Stava porgendo a tuo fratello la ciotola dei salatini? No, perché questa è l’unica cosa che gli ho visto fare da quando sono qui, e decisamente non è qualcosa che possa mettere Bill in pericolo di vita. A meno che tuo fratello non sia così idiota da strozzarsi con un’arachide, cosa della quale in effetti mi preoccuperei anche io, se solo non fossi così dannatamente infastidito da-… Tom, hai di nuovo smesso di ascoltarmi?!
Il rasta si limitò a roteare gli occhi, staccandoli nuovamente da Bill e Bushido e decidendo di voltarsi radicalmente dall’altro lato, dando la schiena ai due e tornando a concentrarsi solo sulla birra.
- Parli troppo. – fece quindi notare al proprio manager, - Non ho bisogno che tu mi dica tutte queste cose. Lo so perfettamente anche io che quello che sto facendo è assurdo.
- Ed allora, Dio mio, vuoi spiegarmi per quale accidenti di motivo lo stai facendo?! – si lamentò David, esasperato, - Passi pure il fatto che lo pedini quando esce di casa, ma dire alla cameriera quelle cose… che poi, col cazzo: in realtà, il fatto che pedini tuo fratello non passa affatto. – rifletté, aggrottando le sopracciglia, - Perché diavolo lo pedini?!
- Ma che vuoi che ne sappia… - borbottò Tom annoiato, scuotendo il capo.
- Oh, no. – lo fermò David, deciso, - Con me non funziona quest’atteggiamento. Non sei più un dodicenne.
- E questo significa che non posso più fare cose irrazionali? No, perché se stai dicendo questo, ti assicuro che il mio cervello non è d’accordo. – rimbrottò acido il ragazzo.
- Infatti non stavo dicendo questo. – sospirò rassegnato David, - Puoi pure comportarti in maniera irrazionale quanto vuoi, caro mio, ma a diciott’anni nessuno può salvarti dalla responsabilità delle tue azioni. Tutto qua.
Tom rispose con uno sbuffo infantile, poggiando il mento sul palmo della mano.
- Che vuoi che ti dica? – sbottò, - Posso dirti una qualunque cosa ti faccia stare tranquillo, tanto non cambia la realtà dei fatti. – lo sferzò con un’occhiataccia impietosa, mordendosi un labbro. – Vuoi che ti dica che non sono geloso? Che approvo questa relazione? Che non m’interessa ciò che Bill fa e può andare con chi vuole? Scegli tu. Io ripeto.
David lo fissò sbigottito, restando per qualche secondo con le labbra dischiuse, senza sapere che dire. Tom occupò quei momenti continuando a sorseggiare la birra, forzandosi violentemente a non voltarsi e tornare a guardare suo fratello che flirtava col suo uomo come se la cosa non dovesse avere conseguenze enormi sulla propria sanità mentale.
- Tom, parliamone seriamente. – cominciò David, conciliante, intrecciando le dita sul tavolo con aria professionale, - Quanto ti ha turbato questa cosa?
- Un casino, mi sembra ovvio! – strepitò Tom, posando un po’ troppo rumorosamente la bottiglia, - Altrimenti non starei qui a spiarli, ti pare?
- Perché ti rifiuti ostinatamente di capire ciò che ti dico? – mugolò disperatamente David, - Sto cercando di capire se davvero non ti aspettavi che succedesse.
Il ragazzo lo guardò dall’alto in basso, dubbioso.
- Non ne avevo idea, altro che “non aspettarselo”.
David raddrizzò le spalle, lasciandosi ricadere le mani, ancora intrecciate, in grembo.
- Secondo te com’è che Georg e Gustav l’hanno presa con tanta ironia? – chiese, adesso sinceramente stupito, - E com’è che io non ho afferrato tuo fratello per le spalle per inchiodarlo al muro e punirlo corporalmente per il guaio in cui si stava cacciando?
- Che ne so?! – quasi strillò Tom, improvvisamente più agitato di quanto già non fosse, - Perché siete di mentalità molto aperta?!
- …perché, Tom… - spiegò il manager, visibilmente confuso, - Bill e Bushido si frequentano da mesi, e tuo fratello non ha fatto che parlarne con aria adorante da quando lo conosce…
- Appunto! E questo mi ha dato già abbastanza fastidio da permettermi di… David? Perché mi guardi così?
- Tu sei ridicolo. – asserì l’uomo, incrociando le braccia sul petto, - Non so a che gioco stai giocando, ma non me la fai. Oh, no. Stai cercando di dirmi che tutto il preavviso che tuo fratello ti ha dato non è stato comunque sufficiente per elaborare questo lutto?!
- Bill non mi ha dato nessun preavviso! – corresse lui, stringendo convulsamente fra le dita il collo della bottiglia, - Preavvisarmi sarebbe stato dirmi quando l’ha conosciuto che pensava fra di loro potesse succedere qualcosa! Così io avrei preso le dovute precauzioni e-
- E cosa? L’avresti chiuso in casa? L’avresti costretto a farsi suora? O avresti cominciato a pedinarlo fin dal primo giorno?
- Non lo so, cazzo! – grugnì Tom fra i denti, battendo un pugno sul tavolo, - Non lo so.
- Probabilmente sì, mi avresti seguito fin dal primo giorno. Apposta per mettermi in imbarazzo, suppongo.
Tom sollevò lo sguardo. Bill si stagliava, in tutta la sua altezza, contro le luci al neon azzurrognole che venavano le pareti del locale. La scenografia gli dava un’aria spaventosa, quasi da fantasma vendicatore. I suoi occhi brillanti di rabbia e le gote arrossate di vergogna non lenivano in alcun modo quell’aspetto terrificante.
- Bill, ascolta… - cercò di rabbonirlo David, sollevandosi in piedi ed andandogli incontro, mentre Bushido, dal tavolino poco distante, osservava il tutto con una mano sulla fronte ed un’espressione incredibilmente preoccupata a deformare i tratti del viso.
- Portatelo via, David. – sibilò il moro, irritato, - Forse dovresti crocifiggere lui al muro. – scoccò seccamente, lanciandogli un’occhiata che avrebbe fatto sentire colpevole pure un santo.
- S… - balbettò il manager, - Ehi, adesso calmati…
Bill, però, già non lo ascoltava più. Gli aveva dato le spalle e si stava dirigendo verso il proprio tavolo con noncuranza.
- Cazzo. – mugugnò David, afferrando Tom per un braccio dopo aver frettolosamente lasciato una banconota da dieci sul tavolo, - Avanti, muoviti! – lo incitò brutalmente, trascinandolo verso l’uscita, - Non posso neanche dargli torto, stavolta! Bel casino hai combinato! Sarà un miracolo se su Bravo finiranno loro col loro idillio e non noi con le nostre cazzate!
Tom si lasciò trascinare senza opporre neanche un minimo di resistenza.
- Non volevo… - borbottò a mezza voce, fissando la strada buia mentre il vento gelido dell’Amburgo invernale gli sferzava il viso, ghiacciandolo, - Davvero…
- Certo, certo. – sbottò David con una smorfia, - Raccontalo ad uno che non ti ha sentito vaneggiare per le ultime due… che dico, ventiquattro ore, Tom!
Il rasta non aggiunse neanche una parola. Se non altro perché, in effetti, quelle scuse improvvisate così, propinate a David perché non avrebbe mai davvero avuto il coraggio di rivolgerle a Bill, sembravano false pure a lui che le aveva partorite – e che, diavolo, le pensava davvero, in un certo senso.
Continuò a farsi trascinare. Fino in macchina, fino in casa, fino in camera.
Alle tre del mattino, rinunciando del tutto al proposito di dormire, con Bill ancora disperso da qualche parte con Bushido e quell’orrendo miscuglio di gelosia, preoccupazione e senso di colpa a gravargli sul petto, fu lui stesso a trascinarsi fino al divano del soggiorno, sul quale si lasciò cadere di colpo, pesantemente, e dal quale prese a fissare la parete vuota di fronte a sé, quasi senza neanche battere ciglio.
*
Il campanello squillò alle quattro.
Tom lo benedisse.
E poi scattò in piedi, perché se avesse aspettato che squillasse ancora, probabilmente, avrebbe pure lasciato che si svegliassero tutti. E sentirsi addosso pure gli sguardi colmi di disapprovazione di Georg, Gustav e David, oltre quello che sicuramente avrebbe imbrattato gli occhi di suo fratello, non era affatto una prospettiva piacevole da affrontare.
Quando aprì la porta, però, si accorse che suo fratello non lo stava disapprovando affatto.
In effetti, totalmente ubriaco com’era, suo fratello doveva essersi a malapena accorto di lui.
- Bill… - bisbigliò incerto, mentre lo osservava rotolare mugugnante addosso a Bushido, che lo tratteneva sicuro con un braccio sotto le spalle e l’altro attorno alla vita.
Già. Perché suo fratello non era neanche solo.
- Ehi. – ridacchiò divertito Bushido, - Te lo sei perso per strada.
No, è lui che ha perso me.
O forse hai ragione tu ed io sono solo un enorme cretino.

- …grazie per averlo riportato… - esalò, rendendosi conto da solo di quanto suonasse ridicolo da dire, e ringraziando anche interiormente per la sbronza di suo fratello, che, almeno, gli avrebbe impedito di ricordare che stavano parlando di lui come fosse stato un cucciolo smarrito.
- Nnhooo… - borbottò Bill, nascondendo il viso sul collo dell’uomo che lo reggeva, - Ti ho detto che volevo andare a casa tua… questa non è casa mia, è casa loro
Bushido roteò gli occhi, cercando di rimetterlo in piedi, visto che, mentre parlava, aveva pure preso a scivolare inesorabilmente verso il pavimento.
- Scusalo. – disse a Tom, - Non è stato attento a quello che mandava giù. È veramente una fogna, quando ci si mette. – borbottò, - E, ovviamente, - aggiunse, con una nota di esasperazione nella voce che a Tom suonò incredibilmente familiare, - in macchina ha preteso di ascoltare gli Smiths. Senza offesa, eh, ma tuo fratello ha dei gusti musicali veramente di merda.
- …già… - deglutì lui con difficoltà, - glielo… glielo dico sempre anch’io…
Bushido rise apertamente e poi gli consegnò suo fratello fra le braccia.
Prevedibilmente, Bill già dormiva.
- Grazie… - ripeté Tom, abbassando lo sguardo su di lui. Aveva i capelli arruffati, russava e gli stava rotolando un rivolino di saliva giù per il mento.
- Piantala di ringraziare. – scrollò le spalle Bushido, - Non potevo mica portarmelo a casa in queste condizioni, dai. Lo affido a te, so che è in buone mani. Salutamelo, quando si sveglia. – concluse con un sorriso conciliante, prima di sollevare una mano in segno di saluto e ripartire alla volta delle scale quasi di corsa.
*
- Tomi…
Quando Bill mugugnò il suo nome, alle prime luci dell’alba del giorno successivo, Tom aveva appena cominciato a prendere sonno. Non gli ci volle molto per riscuotersi e sollevare il capo dal cuscino sul quale l’aveva posato, piantando un gomito nel materasso e poggiando il mento sulla mano, per osservare suo fratello dall’alto.
- Mio Dio, sto una merda… - si lamentò il moro, disincastrando con difficoltà un braccio dalle lenzuola e portandoselo sulla fronte, dove lo lasciò ricadere a coprire gli occhi, miagolando sofferenza, - Ma che diavolo è successo…?
- Ti sei ubriacato, ieri… - lo informò lui, deglutendo a fatica, - Perché…
- Sì. – lo fermò Bill, annuendo lentamente senza poter fermare una smorfia di dolore a increspargli le labbra, - Ok, ho ricordato. Cristo, ho un mal di testa atroce…
- Vuoi che vada a prenderti un bicchiere d’acqua?
Bill sollevò la mano dagli occhi, lanciandogli uno sguardo dubbioso.
- Lascia perdere… - borbottò alla fine, voltandosi su un fianco ed arrotolandoglisi addosso, - Tomi, perché ti sei comportato in quel modo, ieri?
Tom si mordicchiò un labbro, scivolando lentamente con un dito lungo il profilo pallido ed ossuto del viso e del collo di suo fratello.
- Sei un po’ caldo… - sussurrò, guardando altrove.
- Non cambiare argomento… - lo rimproverò Bill, afferrandogli un fianco fra le dita e minacciando di pizzicarlo a morte. – Rispondi. Non capisco proprio come tu possa essere così vigliacco, avendo un fratello coraggioso come me.
- Che vuoi che ti dica? – rimuginò Tom, scrollando le spalle, - Devi esserti preso tu tutti i geni buoni.
- Il coraggio non è genetico, cretino. – ritorse lui, pizzicandolo davvero, anche se molto più leggermente di quanto la sua minaccia non avesse lasciato intendere, - Vuoi rispondere o no?
Tom si lasciò andare ad un sospiro rassegnato, sbuffando un mezzo sorriso.
- Ero preoccupato per te. – concesse brevemente.
- Ah-ha. Guarda che qui ci sono solo io, eh. Puoi parlare liberamente. – lo rassicurò Bill, ridacchiando piano.
- Forse è proprio a te che non voglio dirlo. Non ci hai pensato? – scoccò, stringendo la presa sulla sua guancia ed evitando il suo sguardo.
Bill si separò lievemente da lui, inarcando le sopracciglia.
- Mi stai facendo un male cane, Tom.
- Oh. – si riscosse lui, lasciandogli il viso, - Scusa.
- Non quello. – rispose suo fratello, afferrandogli la mano con la propria e riportandosela sulla guancia, - Parlami.
Parlargli. Come se quello che aveva da dire fosse così semplice da sputare fuori. Come se quello che aveva da dire fosse giusto, tanto per cominciare. Come se avesse davvero qualche diritto di sentirsi così…
…preoccupato triste solo ansioso e tutto il resto…
- Ho paura che mi mancherai. – sussurrò, abbandonandosi contro di lui, nascondendo il viso sul suo collo, - Anzi, in realtà ho solo paura di perderti del tutto. Perché, per mancarmi, mi manchi già.
Bill sbuffò una risatina intenerita, stringendolo forte per le spalle.
- Guarda che io sono qui e non intendo muovermi.
- Certo, per ora. – sibilò lui, affondando il capo più in profondità, spingendosi contro la sua pelle, - Ma pensa se questa storia con Bushido dovesse andare avanti. Magari fra qualche mese davvero sentirai casa sua come se fosse più casa tua di questa, e vorrai andartene. – sospirò, scuotendo lentamente il capo come a farsi più spazio fra la sua spalla e il suo mento. – Che poi il problema non è neanche davvero Bushido. Probabilmente non sarà lui, ma prima o poi andrai via davvero. Con lui o con qualcun altro.
- Tomi…
- Io no. – lo interruppe ansioso, tornando a sollevare lo sguardo su di lui, - Io non andrò mai via con nessuno. Tu lo sai questo. È come se avessi addosso… uno di quei dannati collari con il guinzaglio che si allunga. Mi allontano, mi allontano, faccio pure il giro del quartiere, se voglio, ma è qui che torno. Sempre. Perché sei tu che lo reggi, quel guinzaglio. – si fermò un secondo, cercando di decifrare una risposta nei suoi occhi confusi e ancora lievemente velati di sonno. – Capisci cosa sto cercando di dirti?
- …a grandi linee. – rispose Bill, passandogli dolcemente una mano fra i capelli. – Però, sinceramente, al momento quello ubriaco sembri tu.
Tom sospirò profondamente, lasciandosi andare di nuovo contro di lui.
- Lo sapevo. Non hai capito.
- Ehi… - sussurrò suo fratello, sollevandogli lievemente il mento con due dita, - Guarda che ho capito. Davvero.
- Sì, certo… - si limitò a biascicare lui, scuotendo piano il capo e sospirando ancora. – Sono stanco. Ti spiace se dormo un po’?
Bill tornò a distendersi sul materasso, facendogli posto, e Tom gli si arricciò addosso esattamente come aveva fatto lui stesso pochi minuti prima.
- Tomi… - lo richiamò poco dopo, accarezzandogli lentamente una spalla, - Sai che io mi sento così ogni volta?
Lui sollevò lo sguardo, incontrando quello vagamente triste di suo fratello.
- Come?
- Ogni sera che incontri qualcuno, prendi e te ne vai… - spiegò Bill, stringendosi imbarazzato nelle spalle, - Io penso che potrebbe essere quel momento. Che “lei” potrebbe essere la ragazza giusta, che tu possa innamorarti e andartene. Davvero, lo penso ogni volta.
- Ma che stai dicendo…? – ritorse Tom, con una smorfia, - Sai che questo è impossibile, io non mi innamoro mai.
- Tu… - sbuffò lui, contrariato, - ti ostini a parlare sempre come se potessi prevedere il futuro, quando in realtà non puoi farlo! Guarda me: avevo tutto un programma, la ragazza dei sogni, quella che mi avrebbe amato per com’ero e non per ciò che mostravo in pubblico, una ragazza dolce e carina con la quale potessi condividere tutto, con cui potessi giocare a Monopoli fino allo sfinimento ogni notte, e mi sono ritrovato con… con Bushido! A lui il Monopoli neanche piace! – borbottò, gesticolando convulsamente, mentre Tom ridacchiava divertito. – Del piano originale è rimasto solo l’amore. – aggiunse poi, teneramente. – Tu non hai neanche idea delle migliaia di forme sotto le quali l’amore ti si può presentare. Una mattina ti sveglierai e ce l’avrai accanto. E magari non sarà neanche una di quelle bombe supersexy che ti ostini ad immaginare tu. – lo redarguì, con un cipiglio serio piuttosto comico, - Magari sarà Georg, chessò! – sbottò, ridacchiando a propria volta, - O comunque l’ultima persona che ti saresti aspettato, ecco.
Tom rise più apertamente, arruffandogli dolcemente i capelli.
- Con questo vuoi dire che…?
- Che non sei il solo ad avere paura. – rispose Bill, sorridendo lievemente, - Tom, noi siamo nati insieme, abbiamo sempre vissuto insieme, e quando penso alla nostra morte, lo sai, penso che anche in quel momento saremo insieme, come sempre. Tu sei in assoluto la persona più importante, per me. Senza di te, io non avrei senso.
Il rasta sorrise, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.
- Questo non cambierà mai. – continuò Bill, stringendoglisi addosso, - Perciò, io potrò pure vivere in un’altra casa, amare altre persone ed avere dei figli o chessò io, ma noi non ci lasceremo mai.
Nel sospiro stremato che Tom gli rilasciò sulla pelle, accompagnato da un sorriso sereno e disteso che era il primo degli ultimi due giorni, sembrò svanire tutta la tensione e l’angoscia delle ultime ore. Svanire davvero: come non fosse mai esistita.
- Certo che è buffo. – borbottò il biondo, accomodandosi meglio sul materasso ed accogliendo Bill sul proprio petto.
- Cosa? – rise l’altro, sistemandoglisi addosso, - Che sia bastato così poco per tranquillizzarti?
- No. – ritorse lui, ridacchiando ironico, - Che tu abbia parlato di figli. Sto cercando di immaginare alternativamente te e Bushido incinti, ma è uno spettacolo disgustoso! – rispose, ridendo sguaiatamente.
Bill lo fissò, orripilato.
- Ma tu fai veramente schifo! – strillò, salendogli a cavalcioni e cercando di soffocarlo con un cuscino.
- Probabilmente, comunque… - sospirò Tom fra le risate, liberandosi del cuscino e trattenendo Bill per i polsi, - sarebbe un buon padre. – concluse, sorridendo serenamente.
Bill sorrise di rimando, scendendogli di dosso ed adagiandosi nuovamente fra le coperte.
- Tomi? – lo chiamò poco dopo, incerto.
- Sì? – lo incitò a continuare lui, recuperando il lenzuolo e coprendo entrambi.
- Questo significa che domani posso invitarlo a cena? – chiese a mezza voce, dubbioso.
Tom si prese un secondo per riflettere.
- Adesso non esageriamo. – borbottò alla fine, scuotendo il capo con decisione. – Buonanotte.
- Ma sono le-
- Buonanotte, Bill.
- Uffa. Sei sempre il solito codardo guastafeste. – sbuffò il moro, incrociando le braccia sul petto prima di scalciare come un puledro imbizzarrito e voltarsi su un fianco, rubandogli tutta la coperta.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Drabble.
- Chiudere gli occhi e cercare di non pensare alle conseguenze alle volte non è l'atteggiamento migliore da adottare.
Note: Scritta poco dopo l’apparizione del famoso video che mostra Tomi fare quello di cui si parla in questa drabble. Ho sentito dire cose tremende da ogni parte, nel corso di questa faccenda. La mia opinione è che naturalmente il torto sta da entrambe le parti, come sempre in ogni ambito della vita, ma solo una delle due parti è comprensibile a livello umano. E quella parte è Tom. Ma naturalmente non saranno le petizioni di un paio di bimbeminkia infoiate a salvarlo dalle sue responsabilità oggettive :D
(Lezione di vita gratuita: amare un personaggio dello spettacolo non vuol dire millantarne la perfezione in ogni campo, ma riconoscerne i difetti e continuare a mantenerlo caro al proprio cuore nonostante essi.)
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HITTEN
3. Don't wanna see what happens next (Arcade Fire)

David si massaggia entrambe le tempie, respirando piano e profondamente, come avesse estremo bisogno di rifornire il cervello della maggior quantità d’aria possibile, per permettersi di pensare efficacemente.
- Era solo uno schiaffo, mh? – dice tetro, e Tom abbassa lo sguardo, mordendosi l’interno di una guancia. – Ti avevo chiesto di essere sincero, Tom, per prepararci bene. E ora viene fuori che l’hai inseguita per tre metri, l’hai buttata per terra e hai comunque continuato a pestarla anche dopo che era caduta?
Il ragazzo non sa che rispondere, perciò non dice niente. Per un secondo ha voglia di lasciarsi andare e chiedere a David se lui ci sia mai passato. Se si sia mai sentito in trappola. Se non abbia proprio mai avuto voglia di non pensare alle conseguenze e tirare un bel cazzotto sul naso a qualcuno che lo stava infastidendo o perseguitando o che continuava a sparare cazzate solo per il gusto di metterlo in difficoltà.
Vorrebbe dirlo davvero, ma non sa se lo aiuterebbe, nella posizione in cui è. Perciò resta in silenzio, e così come non ha pensato alle conseguenze nel momento in cui è sceso dalla macchina ed ha pestato Perrine – perfino con soddisfazione, cazzo, e lo rifarebbe – non ci pensa nemmeno adesso, chiude gli occhi e si scusa. Ma piano, a bassa voce.
- David, per favore. – quasi singhiozza Bill, allungando una mano a stringere la sua senza muoversi dal suo fianco, - Pensaci tu.
David sospira, e anche lui vorrebbe chiudere gli occhi e smettere di pensare a qualsiasi possibile conseguenza. Solo che non può.
Genere: Commedia, Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bill/David, Tom/David, Bill/Georg, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Underage.
- Bill ha fatto a pugni con un paio di bulli a scuola e Tom è rimasto fuori fino a tardi con Andreas: e seguito di tutto ciò, i gemelli finiscono in punizione e si ritrovano a dover passare una notte in casa da soli quando Simone e Gordon vengono invitati a cena fuori. Quando litigano, però, tutto precipita. E precipita anche Bill: in una realtà completamente diversa dalla propria, governata da un misterioso sovrano che manipola i luoghi e i tempi e che, soprattutto, tiene prigioniero suo fratello. Riuscirà Bill a salvarlo, o rimarrà imprigionato nel labirinto senza riuscire a trovarne l'uscita prima delle tredici ore al termine delle quali Tom verrà trasformato in un goblin?
Note: Punto primo: mi scuso enormemente perché, se non avete visto Labyrinth, questa storia probabilmente vi sembrerà una menata pure noiosa con un qualche significato nascosto (c’è è_é lo giuro! è_é) ma assolutamente dimenticabilissima. Lo è *annuisce* Ma io la amo perché, se invece avete visto Labyrinth, ci troverete dentro tante di quelle citazioni che vi verrà da ridere continuamente. Questa non è veramente una fanfiction, è un ridicolo tributo! XD
Ciò detto, il Tost ed il Biorg sono molto forti in questa storia o_ò Per quanto riguarda il Tost, sapevo che ci sarei caduta. Il Biorg invece mi ha preso in contropiede ma l’ho amato parecchio o_ò Il Bu si limita ad essere ridicolo, però insomma, almeno becca i baci =P
E sì, l’omino baffuto è Eko Fresh. Sono spiacente, ma lui era perfetto, punto XD
Poi, be’, insomma, non ho molto altro da dire. Scritta per il terzo contest della Jost Fiction, alla fine avrebbe voluto essere molto più erotica però non ce l’ho fatta XD Era decisamente decisamente underage ed un po’, lo ammetto, mi fa senso, a questi livelli. Quattordici anni sono davvero troppo troppo pochini per farsi mettere le mani addosso da un re dei goblin trentenne ;_;” Chiedo perdono a Tomi che si struscia, povero cuore. Comunque la scena era puccina! XD Mi sa che sono andata un po’ fuori tema, ma Yulin e Tabata mi perdoneranno. Al limite, mi creano un premio apposta. So che lo vogliono anche loro. Questa storia è FOLLE XD
Comunque tendenzialmente sarebbe una Bost. <- wtf. *muore*
Ora basta, sono le cinque del mattino e scrivo ininterrottamente da quasi sei ore. Credo che andrò a morire nel mio letto, per ciò che resta di questa notte assurda. Grazie della lettura e spero non vi siate annoiati troppo <3
PS. Quando ho scoperto che labirinto, in tedesco, si dice allo stesso modo che in inglese, volevo morire. Perché ho già una Labyrinth, fra le mie storie.
Fortunatamente, il tedesco ha degli articoli che con gli articoli inglesi non c’entrano un beneamato. Grazie WordReference -.-“
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DAS LABYRINTH
“Will I hold you again?” (The Space Between – Dave Matthews Band)

Simone, bellissima nel proprio vestito in raso nero, aderente e lungo e liscio e splendido – e Bill avrebbe tanto voluto rubarglielo, tagliuzzarlo qua e là e farne una maglietta niente male da indossare sopra la maglia a rete – rimase ferma sulla porta un paio di minuti abbondanti, squadrando entrambi i propri figli con un cipiglio serio e severo.
- E non si esce. – precisò, - Siete in punizione.
Bill mugolò.
- È Tom che è tornato tardi ieri notte, non io… - disse affranto, arrotolandosi in un angolo del divano mentre suo fratello si inorgogliva ripensando alla precedente nottata, passata con Andreas a fingersi diciottenne per rimorchiare a Magdeburgo.
- Tu devi ancora finire di scontare la tua pena per la rissa, Bill. – gli ricordo Gordon, avvolto in un completo da sera che lo faceva sembrare solo più ridicolo del solito, e già in genere lo era parecchio.
- Ma non è stata colpa mia! – ricordò il ragazzino, agitandosi fra i cuscini, - Sono stati quegli stronzi a-
- Un’altra parola, Bill, - minacciò sua madre con un sorriso bellissimo, fiero e mortale, - e ti aggiungo un’altra settimana alla punizione. D’accordo?
Il ragazzo sbuffò ed afferrò la copertina abbandonata in mezzo al divano, avvolgendocisi stretto col preciso intento di non lasciarne neanche un centimetro al fratello.
- Fate i bravi. – commentò un’ultima volta Simone, già in procinto di uscire. – Torneremo prima di mezzanotte. – e così dicendo abbandonò la casa, seguita a ruota dal proprio compagno.
Bill lanciò un’occhiataccia a Tom, per proprio conto ancora perso nei ricordi della sera precedente e ghignante e felice come se tutto fosse perfettamente perfetto attorno a lui.
- Io ti odio. – sibilò maligno, riportando l’attenzione del fratello su di sé. Lui lo guardò stralunato, come lo stesse vedendo in quel momento per la prima volta.
- Billi…? – fece, spalancando gli occhioni castani ed allungando una mano incerta verso di lui.
- Niente Billi! – strillò il ragazzo, richiudendosi a palla nell’angolo, - È tutta colpa tua! Se ieri non avessi deciso di fare il cretino e restar fuori con quell’altro deficiente fino alle dannate tre del mattino, oggi saremmo fuori a divertirci!
- Be’, io sì. – precisò il biondo, sistemando dietro un orecchio una ciocca di quei suoi disordinati capelli dalla forma improponibile, - Tu no, Bill, perché come ti ha detto mamma prima sei ancora in punizione.
- Non capisco perché solo io sono stato messo in punizione per la rissa! – si lamentò ancora il moro, incrociando le braccia sul petto, - Sei stato coinvolto anche tu!
- Be’, sei stato tu a cominciare… - rifletté Tom, inarcando le sopracciglia, - Io sono solo venuto a ripescarti prima che ti spaccassero qualche osso. – annuì con convinzione.
- Non mi avrebbero spaccato nessun osso. – ringhiò Bill, furioso, - Li stavo riducendo tutti in poltiglia. E comunque il punto non è questo, il punto è che sei uno stronzo e ti odio!
Tom sospirò e sollevò gli occhi al soffitto, come in cerca di un qualche aiuto da parte delle divinità dei piani alti – visto che quelle dei piani bassi avevano già interferito notevolmente sulla sua vita dotandolo di un gemello cattivo.
- Bill, fai il bravo. – suggerì pazientemente, - Niente rotture di palle, ho Lancillotto in ostaggio.
Il ragazzo spalancò gli occhi, oltraggiato.
- Tu hai… - annaspò, stringendo le dita come tenaglie attorto alla coperta, - hai preso Lancillotto!!! Sei senza cuore!!! Ridammelo!!!
- È in un luogo sicuro. – lo prese in giro il biondo con un mezzo ghigno, - Ma lo riavrai solo se riuscirai a passare questa serata con me senza farmi impazzire, fratellino.
Bill mugolò scontento e si raggomitolò ancor di più nel proprio angolo, frugando fra i cuscini alla ricerca di qualcosa. Tom lo osservò incuriosito, inclinando lievemente il capo.
- Cosa stai combinando? – chiese dubbioso, sporgendosi verso di lui.
- Cerco Labyrinth. – borbottò in risposta Bill, riuscendo finalmente a mettere le manine artigliate sulla sua personalissima bibbia foderata di rosso ed aprendola ad una pagina a caso sulle ginocchia. Quale pagina fosse non era importante: aveva letto e riletto quel libro tante di quelle volte che ormai lo conosceva a memoria, perciò era perfettamente in grado di riprendere il filo del discorso qualsiasi fosse la pagina su cui posava lo sguardo.
Tom sbuffò e roteò gli occhi.
- Non potresti, per una volta nella tua vita, mettere via quel coso e stare un po’ con me, visto che ultimamente ci vediamo pochissimo? – si lamentò pigolante.
- Questo perché tu e l’altro deficiente siete sempre in giro a rimorchiare. – borbottò Bill senza staccare gli occhi dal libro.
- Be’, tu potresti venire con noi. – ritorse Tom in un borbottio irritato.
- Tomi, non ha senso dire che vorresti uscire con me per andare a rimorchiare, dato che è implicito che quando si rimorchia si sta con altri… - gli ricordò il moro soprappensiero, già perso fra le righe.
Tom ringhiò e si alzò in piedi di scatto, muovendosi con rabbia lontano dal divano.
- E va bene, fai un po’ quel cazzo che vuoi. – lo rimproverò, - Io vado di sopra a chiamare Andi, sperando che anche lui sia stato messo in punizione. – biascicò lamentoso, dirigendosi verso le scale, - E torturerò Lancillotto per ripicca, sappilo!
Bill sospirò ed annuì. Suo fratello sapeva bene che qualsiasi ferita inflitta al corpo di Lancillotto si sarebbe poi miracolosamente trasformata in una ferita molto più grave al suo, di corpo, e dal momento che Bill era ragionevolmente convinto che suo fratello non ci tenesse poi così tanto a ritrovarsi la punta di un anfibio su per il culo, era piuttosto tranquillo riguardo la sorte del suo orsacchiotto favorito.
Continuò semplicemente a leggere, avvolgendosi nella coperta e lasciandosi trascinare dalla fiaba.
Da sopra, arrivava in un’eco indistinta la voce di Tom che, furioso, strillava nella cornetta quanto fosse orribile avere un fratello gemello, quanto ancora più orribile fosse avere Bill come fratello gemello e quanto invece sarebbe stato meraviglioso che lui e Andreas fossero stati fratelli, magari non gemelli, ma comunque imparentati; sarebbero stati sicuramente molto più complici e si sarebbero divertiti molto di più e bla bla bla… Bill si chinò in avanti, recuperando una scarpa da terra e lanciandola con forza in aria, fino a colpire il basso soffitto sopra di sé, provocando un inquietante rumore contro l’intonaco.
- Vuoi stare un po’ zitto?! – borbottò offeso, - Non riesco a concentrarmi!
La risposta di suo fratello alle sue lamentele fu, ovviamente, continuare a parlare più forte.
Bill serrò la mascella e socchiuse le palpebre, scontento. Tom era arrabbiato ed a lui dava fastidio, quando lo era. Primo, perché la sua rabbia se la sentiva nello stomaco – una delle tante controindicazioni della gemellarità, supponeva. Secondo, perché Tom si arrabbiava davvero solo per cose che riguardavano lui, probabilmente perché, in un certo senso, riteneva che solo lui fosse un argomento tanto serio da meritare rabbia. In tutti gli altri ambiti della vita, Tom era sempre o quasi sempre allegro e spensierato, ma quando si parlava di Bill se la prendeva ogni volta come lo stessero ricoprendo di offese mortali.
Bill odiava essere oggetto d’odio. Perché sentiva il bisogno fisico di odiare a propria volta, quando succedeva.
E lui non voleva affatto odiare Tom.
- Re dei Goblin, Re dei Goblin… - sussurrò quasi a prendersi in giro da solo, perfino sorridendo un po’, - ovunque ti trovi adesso, porta via questo ragazzo, lontanissimo da me… -
“È insopportabile, Andi…”, sbraitò Tom dal piano di sopra, “Certe volte penso che sarebbe stato meglio se non fosse mai venuto fuori, lo stronzo”.
Bill abbassò lo sguardo, incassando la testa nelle spalle.
Quello aveva… fatto male.
- Desidero proprio che i goblin ti portino via… - esalò in un sussurro estenuato, - All’istante.
Dal piano superiore non venne più alcun suono. Non il chiacchiericcio furioso di suo fratello e nemmeno il suo muoversi circolarmente avanti e indietro per la stanza, strisciando sul pavimento con le suole di gomma delle scarpe da tennis. Immaginò dovesse aver chiuso la conversazione ed essersi messo a letto. Tom poteva restare sveglio per giorni e giorni, quando era felice, ma quando si arrabbiava o si intristiva si spossava subito ed era capace di dormire per sempre. Almeno finché non fosse sbollita la rabbia.
Bill sospirò e richiuse il libro, lasciandoselo scivolare giù lungo le gambe per poi recuperarlo e posarlo sul cuscino accanto a sé. Si avvolse meglio nella coperta – c’era un freddo incredibile, in casa, e fuori pioveva a dirotto. Sperò che sua madre e Gordon avessero portato con loro un ombrello – e cominciò a salire pigramente le scale.
- Tomi… - chiamò già a metà della rampa, - Senti, facciamo pace prima che tu ti addormenti e mi tenga il broncio fino alla fine dei secoli…?
Dalla stanza continuò a non giungere alcun suono. Anche la luce era spenta, non filtrava niente da sotto la porta.
Bill deglutì, riportando alla memoria le frasi pronunciate mentre stava ancora rannicchiato sul divano.
Non era veramente possibile che…
- Tomi… - chiamò ancora, aprendo la porta e fermandosi sulla soglia, - Tomi, stai bene…?
La stanza era vuota. Vuota, buia e silenziosa. Dal balcone aperto, il temporale invadeva la casa, bagnando il letto e i mobili e il pavimento e infrangendo col frastuono dei tuoni il silenzio irreale dell’ambiente. Bill deglutì e si strinse nella coperta, raggiungendo la finestra e richiudendola col gancio, mentre abbandonava la stanza e si muoveva lungo il corridoio, alla ricerca del fratello.
Naturalmente, Tomi non era da nessuna parte.
Il cuore stretto in una morsa e tutti i muscoli contratti, Bill tornò in camera e si guardò intorno.
- Tomi, non mi sto divertendo… - mugugnò, sperando solo che suo fratello si ricordasse di essere un epocale cretino ed avesse voglia di ricordarlo anche a lui, magari strisciando fuori dal letto con un urlo per spaventarlo. O qualcos’altro di altrettanto stupido, purché – dannazione – fosse ancora lì da qualche parte.
Una voce ridacchiò alle sue spalle, e Bill si voltò di scatto per trovarsi di fronte… niente. Il buio della stanza e nient’altro.
- C’è nessuno…? – chiese con aria incerta, avanzando verso il luogo dal quale la voce era arrivata e guardandosi intorno con aria circospetta.
Una voce diversa, più roca, ma dallo stesso timbro stridulo della prima lo raggiunse nuovamente alle spalle. Bill fece per voltarsi ma non ne ebbe il tempo: a metà della torsione si accorse di un’ombra – qualcosa di piccolo e peloso – che scompariva dietro il letto. Ed altre risate. Risatine inascoltabili, spaventose, cominciarono a fioccare da ogni angolo della camera, e mentre Bill si metteva al centro, avvolto dalla coperta come dovesse schermarlo contro i mali del mondo, qualcosa di pesante sbatté più volte contro il vetro della finestra – thud thud thud – accompagnato da un battito d’ali che gli diede i brividi e gli annodò lo stomaco. Bill girò sui tacchi e vide un’enorme civetta bianca battere con forza contro le imposte, pressando le zampe artigliate sul legno come a volerle spalancare. Una volta, due volte, tre volte, e poi la finestra cedette sotto il peso dei colpi, aprendosi. Bill si coprì istintivamente il capo, piegandosi un po’ su se stesso mentre l’enorme uccello attraversava la stanza fermandosi dal lato opposto.
Quando Bill riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, il battito d’ali era cessato. Si voltò a guardare verso il punto nel quale avrebbe dovuto trovarsi il volatile, ma la civetta non c’era più. Al suo posto, però, c’era un uomo.
Doveva essere alto più o meno quanto lui, ma sembrava incredibilmente più… vecchio probabilmente non era la parola giusta, perché in realtà sembrava anche incredibilmente giovane. La sua era un’età indecifrabile, ma la sicurezza che si sprigionava dalla sua persona e soprattutto da quegli occhi azzurrissimi che gli teneva puntati contro – con una sfacciataggine che lo turbava – parlava di una saggezza acquisita con anni… secoli di vita.
Era una saggezza strana, comunque.
Era spaventosa. Quegli occhi erano spaventosi.
Bill si avvicinò, muovendosi quasi contro la propria volontà.
- Tu sei… il Re dei Goblin… - disse senza fiato, stringendosi la coperta attorno alle spalle.
L’uomo chinò il capo in segno d’assenso, sorridendo lievemente, quasi fosse solo divertito dalle sue esitazioni.
- M-Mio fratello… - disse Bill, deglutendo appena.
- Ciò che è detto è detto. – rispose l’uomo, rimanendo immobile contro la porta, le braccia incrociate sul petto.
È successo davvero, si disse Bill, mordendosi un labbro, per colpa mia…
- Ti prego… - annaspò, le lacrime agli occhi, - dov’è adesso?
L’uomo sollevò appena il mento squadrato, gli occhi celesti a dardeggiare su di lui ed i corti capelli castani scossi appena dal vento furioso che invadeva la stanza.
- Sai molto bene dov’è. – rivelò severo, senza muoversi di un centimetro.
- Ti scongiuro… - continuò Bill, indifeso e smarrito, - riportamelo.
L’uomo si mosse verso di lui, scuotendo lentamente il capo.
- Bill… - suggerì suadente, a bassa voce, - dimentica tuo fratello.
Il moro spalancò gli occhi.
- Non posso! – strillò, stringendo i pugni, - Non voglio! Ridammi mio fratello!
L’altro non mostrò di essere particolarmente colpito dalla sua disperazione, e si limitò a sollevare una mano.
- Io ti ho portato un regalo… - disse semplicemente, mentre una sfera di luce si concentrava sulle punte delle sue dita fino a concretizzarsi in un globo trasparente. – È un cristallo magico. – rispose con un sorriso furbo alla domanda che Bill non ebbe fiato e coraggio di porre, - Se guardi al suo interno, puoi vedere i tuoi sogni. – si avvicinò ancora, sussurrando, - Quelli più profondi, quelli che non hai nemmeno capito di stare sognando. Però – continuò, separandosi sbrigativamente da lui, - non è certo un regalo da dare ad un ragazzino che si preoccupi di cose futili come un fratello lagnoso.
Bill rimase immobile e silenzioso, in attesa del resto.
- Se lo vuoi, dimentica tuo fratello. – disse infatti l’uomo, sorridendo conciliante.
Il ragazzo si morse nuovamente un labbro, incerto.
- Non posso. – disse poi, - Ti prego, per favore, dimmi-
- Bill. – tuonò l’uomo, mentre la sfera di cristallo si trasformava in un serpente – un serpente, Dio! – fra le sue dita. – Non sfidarmi. – concluse, prima di lanciargli il serpente addosso.
Bill urlò, raggomitolandosi su se stesso mentre percepiva distintamente le spire del rettile avvolgersi attorno al suo collo, ma la sua paura si affievolì e scomparve – ed in breve ne rimase solo il battito un po’ accelerato del suo cuore – quando si accorse che il serpente s’era trasformato in uno scialle colorato ed era poi caduto a terra. Fra le risatine dei goblin alle sue spalle, per le quali neanche si voltò – aveva già capito che non ne avrebbe comunque visto nemmeno uno.
Si rimise dritto e deglutì, stringendo i pugni e cercando di farsi forza.
- Dimmi dov’è. – insistette, - Dimmi dov’è mio fratello.
L’uomo sospirò annoiato e stese un braccio verso la finestra, indicando all’esterno.
- È lì. Nel mio castello. – concesse disinteressato.
Bill seguì il dito puntato e guardò fuori. Il mondo non era più quello che ricordava. Dove avrebbero dovuto esserci la notte e un temporale e le vie scure di Loitsche c’era invece un enorme e intricatissimo labirinto di piante e mura, ed oltre un grande castello che s’intravedeva appena nell’aria rossiccia che avvolgeva tutto e che sembrava infuocata.
Bill lasciò ricadere la coperta – non c’era più nemmeno freddo – e si mosse. Quando si voltò indietro, casa sua era scomparsa. C’era solo un terreno arido e vuoto, qualche sterpaglia, e quell’uomo, che lo fissava sarcastico.
- Torna indietro, Bill. – suggerì con un sorriso strafottente, - Torna indietro finché sei in tempo.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- No! – protestò deciso, - Non posso e non voglio, lo capisci questo?! Lui è mio fratello! – sbottò, tornando a guardare il labirinto ed il castello.
- Be’… - sussurrò l’uomo, - puoi sempre provare a riprendertelo. È un peccato – aggiunse con una risatina, - che tu abbia così poco tempo.
- …poco tempo…? – chiese Bill, confuso e teso.
L’uomo rise, gli occhi sottili e freddi, sempre disturbanti.
- Solo tredici ore. Poi, il tuo lagnoso fratello diventerà uno di noi.
- A-Aspetta… - cercò di fermarlo Bill, ma l’uomo lo zittì ancora con un risoluto cenno del capo.
- Solo tredici ore. – ripeté, - Fai del tuo meglio, Bill. – e scomparve.
*
Faceva caldo. Era incredibile pensare di avere appena lasciato l’inverno in Germania ed essersi ritrovati all’improvviso immersi in un’estate così torrida ed in un posto che non sembrava nemmeno esistere davvero.
Girando attorno all’enorme parete che sembrava circondare l’intero labirinto, Bill si chiese se sarebbe mai riuscito a tornare a casa. O a trovare davvero Tomi.
Si morse una guancia.
Il solo pensare che la sua sparizione fosse davvero una sua colpa gli stringeva il cuore così tanto da fargli male. Non voleva davvero che sparisse. Non voleva affatto che sparisse. E non riusciva a trovare la stupida entrata dello stupido dannatissimo labirinto.
Stava quasi per arricciarsi in un angolino e mettersi semplicemente a piangere – non era un piagnone, non lo era affatto, dava a tutti i bulli del filo da torcere, a scuola, ma lì era diverso, non era scuola, non c’era Tomi, era lontano da casa ed era tutta colpa sua – quando un rumore scrosciante lo colpì. Dove c’era movimento doveva per forza esserci qualcosa a produrlo.
Pregò intensamente che non fosse solo una stupida cascatella a caso e si avvicinò alla fonte del rumore.
Quando vide da cosa era provocato, fu seriamente incerto sulla possibilità di mettersi a ridere o essere felice e basta perché aveva trovato qualcuno.
Un ragazzo dai capelli lunghi fino alla base del collo, forse solo un po’ più corti di quelli di Tomi, e gonfi – doveva avere più o meno la sua età – stava fermo a gambe larghe davanti ad una piccola pozza d’acqua e, semplicemente, faceva pipì.
- Scusa… - disse Bill, titubante, cercando di trattenere le risate.
- Oh? – disse il ragazzo, voltandosi a guardarlo, - Ah, sei tu. – borbottò poi, esaurendo il proprio bisogno e richiudendo i pantaloni, prima di saltare giù dal muretto sul quale era issato e recuperare da terra una specie di diffusore a spruzzo come quelli che la mamma metteva in bagno e cambiava ogni due settimane.
Bill non si fermò a riflettere sul fatto che quell’individuo non fosse stupito di vederlo: aveva altre priorità, al momento. Quando il tizio prese a camminare, il moro si limitò ad andargli dietro.
- Io mi chiamo Bill. - disse incoraggiante.
- Sì, lo so. – rispose lui, con aria annoiata, - Io mi chiamo Georg.
Proprio in quel momento, da una fenditura nel muro venne fuori un minuscolo esserino alato, in tutto e per tutto simile ad un insetto, ma ridacchiante e dalla forma vagamente antropomorfa.
- Queste sono…
- Fate. – concluse per lui il ragazzo, - Quarantasette! – esclamò poi, spruzzando qualcosa sulla fatina ed osservandola cadere a terra, stordita.
- …me le aspettavo più carine. – commentò Bill, scrutando la creatura per terra, - Sembrano mosconi. – continuò con una smorfia.
- Che ti aspettavi? – disse il tipo, acido, - Sono solo fate.
Bill annuì vagamente e poi tornò a concentrarsi sul proprio obiettivo.
- Senti, - disse ansioso, - io devo assolutamente trovare mio fratello. Tu puoi aiutarmi?
- Forse sì, forse no… - rispose quello, sibillino. – Quarantotto! – e mandò al tappeto un’altra fatina. – Cos’è che ti serve?
- Io… - borbottò Bill, confuso, - …dov’è l’entrata?
- Ah, chissà. Sei proprio sicuro di volere andare là dentro? Quarantanove! – e giù un’altra fata.
Bill aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Ma vuoi starmi a sentire?! – protestò infastidito, - Allora, puoi aiutarmi o no?!
Il ragazzo si decise finalmente a fermarsi a squadrarlo con aria disapprovante.
- Tu non mi fai le domande giuste. – rivelò seriamente, piantando le mani sui fianchi.
Bill abbassò lo sguardo e sospirò.
- …come faccio ad entrare? – chiese alla fine, già esausto, passandosi una mano sugli occhi.
Georg sorrise subito.
- Ecco, questa è un domanda a cui posso rispondere! – disse gioviale. – Puoi entrare da lì. – rivelò. E nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, nell’enorme muro di cinta che circondava il labirinto si aprì un pesantissimo cancello.
- …ma… - biascicò Bill, fissando il tutto con aria sconvolta, - Quando ti ho chiesto dov’era l’entrata, tu-
- Devi imparare a chiedere le cose giuste, Bill. – commentò semplicemente il ragazzo, annuendo. – Per esempio… - continuò, accompagnandolo all’interno, - adesso dove pensi di andare? A destra o a sinistra?
Bill guardò entrambe le vie, sporgendosi un po’ per cercare di scrutare il più lontano possibile. Fu inutile: le due strade erano completamente identiche.
- Una vale l’altra. – rispose con una scrollatina di spalle.
Georg inorridì, disgustato.
- È questo il problema con i tipi come te, non date il giusto valore alle cose! Ecco perché tuo fratello è prigioniero!
Bill abbassò lo sguardo, colpevole. Il ragazzo aveva perfettamente ragione.
- Sai cosa ti dico? – continuò Georg, sempre più infuriato, - Non ci riuscirai mai, ad uscire da questo labirinto. Se anche dovessi arrivare al centro, non riusciresti mai a venirne fuori!
- Be’, questo è ancora da vedere! – rispose Bill, sollevando il capo ed aggrottando le sopracciglia, offeso.
Il ragazzo scosse una mano come a scacciare le mosche, deluso.
- Datti da fare, ragazzino, o non ce la farai davvero. – borbottò, prima di lasciarlo lì e tornare a varcare il cancello, richiudendoselo alle spalle senza neanche toccarlo.
Bill sospirò e cercò di farsi forza. C’era poco da fare. A parte cominciare a camminare.
*
Tutto quello che Tom riusciva a fare era stringersi nelle spalle. Era veramente l’unico movimento gli fosse consentito, visto che la corda d’oro che lo stringeva attorno alle braccia non gli permetteva neanche di allontanarle dai fianchi.
Seduto sopra un’enorme poltrona in velluto rosso, reso muto da una fascia stretta con forza attorno alla bocca, il biondo si dibatté un po’ e poi mugolò affranto. Non c’era modo di liberarsi.
L’uomo che lo teneva prigioniero stava seduto su una poltrona del tutto identica alla sua, ma al contrario di lui aveva mani e piedi completamente liberi e, volendo, avrebbe potuto alzarsi ed andare via. Ed invece rimaneva lì immobile a guardarlo con aria furba, posandogli addosso quegli incredibili e freddissimi occhi azzurri mentre l’esercito di creaturine deformi che lo circondavano lo torturava nei modi più assurdi – dal solletico ai pizzicotti – fino a farlo impazzire.
- Hmpf- - si lamentò il ragazzo, cercando di saltare giù dalla sedia. Non gli riuscì nemmeno quello, perché la corda d’oro era assicurata allo schienale della poltrona. Si limitò perciò a lanciare occhiatacce all’uomo che stava seduto di fronte a lui, una gamba posata sul bracciolo della propria poltrona ed un piccolo frustino nero a battere contro lo stivale.
- Tu dovresti imparare il valore del silenzio, Tom. – disse appunto l’uomo, tornando a sedersi composto per guardarlo negli occhi. – È per questo che sei finito qui, no?
Tom si agitò e cominciò un lungo discorso che sarebbe suonato più o meno come un “no, io non lo so perché sono qui e non ho capito un accidenti di questa storia degli gnomi o dei folletti o di qualunque altra cavolata si tratti, è roba per quell’idiota di mio fratello e, a proposito, se vengo a scoprire che tutto questo è opera sua, giuro che lo faccio fuori con le mie stesse mani, e comunque non ho capito bene per quale oscuro motivo dovrei chiamarti Re e perché sto legato a questa stupida dannata sedia con tutte queste creaturine bitorzolute che mi fanno il solletico, voglio dire, è palesemente una violazione dei diritti umani, lo sai che mio padre fa il camionista, eh?, lo sai?, potrebbe passarti sopra col suo camion e di te non resterebbe niente, e dove cavolo è mio fratello, comunque?!”. Sarebbe suonato così, ma naturalmente non poté che suonare invece come un unico e prolungato “hmpf”, visto che la fascia attorno alla bocca teneva fermo anche il mento e gli impediva di articolare suoni comprensibili.
- Sei incredibilmente fastidioso. – commentò ancora l’uomo, inarcando le sopracciglia con supponenza, - Tuo fratello ha fatto bene a mandarti qui.
Tom spalancò gli occhi. L’uomo sorrise.
Il momento successivo vide Tom sconfiggere le leggi della fisica – per quanto si potesse parlare di leggi simili in un mondo popolato di goblin – e tirarsi in piedi. La fisica, comunque, tornò immediatamente a riprendere possesso della realtà, ed in breve Tom si ritrovò in ginocchio per terra, schiacciato dal peso della poltrona e con le braccia strette in una posizione che gli provocava un dolore allucinante alle spalle.
Gli esserini intorno a lui ridevano come stessero assistendo allo spettacolo più divertente della loro intera vita. Ed era probabilmente così.
Anche l’uomo rise – Tom sentì distintamente uno sbuffo fra il compassionevole ed il divertito liberarsi nell’aria e solleticargli fastidiosamente le orecchie – prima di avvicinarsi a lui, afferrare la sedia per lo schienale e rimetterla dritta. Con lui ancora seduto sopra.
- Se hai tutta questa voglia di muoverti, lo farai alle mie condizioni. – disse quindi, chinandosi a guardarlo dritto negli occhi e sorridendo mefistofelico.
Tom non capì esattamente come si svolsero i fatti in successione. Si rese conto solo che, a un certo punto, non aveva più mani e piedi legati. A tenerlo prigioniero era rimasta solo la fascia sulla bocca. Per qualche motivo, comunque, assolutamente contro la propria volontà, stava ballando in tondo con quell’uomo misterioso che cantava you made me believe in magic. E i goblin, intorno, ridevano.
Mentre piroettavano intorno alla stanza, l’uomo fissò gli occhi azzurrissimi in quelli ambrati e luminosi e brillanti di confusione di Tom e sorrise, stringendolo alla vita.
- Se tuo fratello non sarà qui entro nove ore e mezzo… - sussurrò direttamente al suo orecchio, chinandosi su di lui, - …tu sarai mio.
Tom pressò le mani contro il suo petto, ma non riuscì ad allontanarsi.
Deglutì.
*
Nel frattempo, metri e metri sotto il livello del suolo – se un livello del suolo c’era, in quel mondo assurdo – Bill concludeva la propria caduta a precipizio lungo un improponibile tunnel lastricato di mani parlanti.
Palesemente non sarebbe mai arrivato a trovare Tomi.
*
Appena la musica aveva smesso di venare l’aria, Tom era stato gentilmente preso per i fianchi e rimesso seduto al proprio posto – corde d’oro comprese.
Aveva provato a lamentarsi, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un buffetto sulla guancia ed un canzonatorio “slap that baby” che l’aveva fatto rabbrividire fin nel profondo, mentre l’uomo – del quale ancora, per inciso, non sapeva il nome – si chinava su di lui e scrutava qualcosa all’interno di una sfera trasparente.
Spalancò gli occhi quando vide cosa in effetti l’uomo stava guardando.
- Mmnh!!! – strillò, agitandosi convulsamente mentre l’uomo lo tratteneva per le spalle.
- Sì, sì, il tuo fratellino. – sorrise l’uomo, - Che poi è il motivo per cui stai qui, Tom. – il suo sorriso si allargò mentre stringeva la presa sulle sue spalle, - Non ti voleva più ed ha chiesto ai goblin di portarti via… a questo punto, sarebbe perfino meglio se restassi con me di tua spontanea iniziativa, no? – lo prese in giro, sfiorando col naso il profilo della sua guancia, - Piuttosto che sentirti indesiderato…
Tom si irrigidì sotto le sue mani e rimase immobile a guardare l’immagine di Bill che si guardava intorno, smarrito, nel buio.
Magari era davvero Bill che l’aveva mandato in quel posto, ma adesso lo stava cercando. Voleva tornare a riprenderselo.
E quindi no, non si sentiva indesiderato. Assolutamente no.
Scosse il capo.
L’uomo ringhiò e lo lasciò andare, tornando a sedersi al proprio posto e portando la sfera con sé.
- Non sarebbe dovuto arrivare alle segrete. – commentò infastidito, accavallando le gambe. – Georg, comunque, lo riporterà indietro… ed a quel punto, vedendo di dover ricominciare tutto da capo, si arrenderà. – commentò con una mezza risatina.
*
Gli occhi di Bill non ebbero nemmeno il tempo di abituarsi al buio, che subito una candela arrivò a rischiarare l’ambiente. Si trovava in una sorta di grotta, o di qualcos’altro di molto simile. Il tetto era roccioso ed umido e c’erano delle inquietanti catene a pendere immobili verso il pavimento. Deglutì, voltando lo sguardo in giro, e quasi saltò in aria dallo spavento quando, seduto su una tavola a qualche metro da lui, trovò Georg, il ragazzo che aveva incontrato fuori dal labirinto.
- Tu! – strillò, puntandolo con un dito, - Cosa diavolo ci fai qui?!
Georg si tirò in piedi con un sorriso furbo sul volto.
- Sapevo che ti avrei ripescato qua sotto. – lo prese allegramente in giro, - Sei finito in una segreta. Il labirinto ne è pieno. – sorrise ancora, in maniera più sottile e insinuante, socchiudendo gli occhi come quelli di un gatto, - Lo sai a cosa servono le segrete, piccolo Bill?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, infastidito e un po’ spaventato.
- …tu sì? – chiese titubante, guardandolo con diffidenza.
Georg sghignazzò.
- A chiuderci dentro le persone che si vogliono dimenticare. – rivelò il ragazzo, tirando dietro un orecchio una ciocca di capelli. – Fortunatamente, - aggiunse poi, il tono più gioviale ma sempre canzonatorio, - sono venuto a riprenderti! Guardacaso, conosco una scorciatoia per uscire dal labirinto proprio partendo da questa stanza!
- Ma io non posso fermarmi! – strillò ancora Bill, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - Tomi mi aspetta, io lo so! È colpa mia e devo salvarlo! Non posso fermarmi proprio adesso!
- Oh, certo. – borbottò Georg, incrociando le braccia sul petto, - Scemo io a preoccuparmi ed a venire fino a qui per tirarti fuori.
Bill gli lanciò un’occhiata curiosa da sotto le lunghe ciglia scure.
- Eri preoccupato…? Per me?
Georg guardò altrove, agitando una mano.
- Un bel ragazzino come te, tutto solo in questo posto oscuro… - motivò con disinteresse, come fosse normale. – Ora, coraggio, seguimi. Ti porto fuori di qui.
- No! – insistette Bill, - Tu… non capisci. – mugolò, abbassando lo sguardo, - Lui è mio fratello, non c’è nessuno che sia tanto importante quanto lui, e… io questo mondo lo conosco, perché tutti i miei sogni vi appartengono, ma lui… - si morse un labbro, - lui non c’entra niente, non è di qui, sarà spaventato ed io… devo portarlo a casa. Davvero. Devo riportarlo con me. – sollevò nuovamente gli occhi in quelli verdissimi dell’altro ragazzo, - Non ti chiedo di portarmi fino al castello… se non vuoi, va bene, ma… portami almeno fin dove puoi! Dopo me la caverò da solo!
Georg roteò gli occhi, poco convinto.
- Peggiorerà soltanto, da ora in poi. – lo avvisò con piglio serio.
Bill scosse il capo.
- Non m’importa.
Rimasero a fissarsi a lungo, entrambi fermi sulle loro posizioni. Il primo a cedere, però, fu Georg.
- E va bene, - concesse alla fine, sbuffando sonoramente, - vieni con me.
Bill non riuscì a trattenere il gridolino di gioia che nacque spontaneo nel fondo della sua gola, e premette tanto per uscire che lui dovette lasciarglielo fare.
- Sì, ma non entusiasmarti adesso, ragazzino, - disse Georg mentre attraversavano un lungo ed oscuro corridoio, - siamo ancora… - ma si fermò all’improvviso quando in mezzo a loro rotolò una sfera di cristallo perfettamente lucida e tonda, trasparente e liscissima. - …oh.
- Cosa…? – chiese Bill, incerto, notando appena la pallina rotolante.
- Be’…? – chiese una voce gracchiante e sgradevole dal buio. Quando Bill alzò lo sguardo sulla figura, notò che la sfera si era fermata ai suoi piedi e poi aveva preso a volteggiare fino a rimbalzarle in mano. – Che cosa sta succedendo qui?
- …come? – chiese Bill per riflesso, ormai quasi abituato alle stranezze del posto.
Georg rimase immobile e silenzioso, tesissimo. E non sembrò molto stupito quando la figura ammantata si liberò della propria copertura e, da sotto il mantello, venne fuori l’uomo misterioso, lo stesso che aveva rapito suo fratello.
Bill fece istintivamente un passo indietro, prontamente imitato da Georg.
- Niente, mio signore! – si affrettò a difendersi il ragazzo, mettendo le mani avanti.
- Niente?! Niente, Georg?! – insistette l’uomo, avvicinandoglisi con fare intimidatorio, - Lo stavi aiutando!
- No, mio signore, mai! – rispose il ragazzo, - Lo stavo portando all’inizio del labirinto!
- Cosa?! – chiese Bill, oltraggiato, - Come hai potuto?!
- Stai mentendo. – disse l’uomo, piegandosi a guardare Georg negli occhi, - È tradimento questo, Georg, lo sai? Dovrei prenderti ed appenderti a testa in giù nella Gora dell’Eterno Fetore, sai?!
Georg abbassò lo sguardo, colpevole.
- Chiedo perdono, mio signore.
Lui non sembrò badare alla richiesta, tant’è che il perdono non lo concesse affatto. Si voltò però a guardare Bill, avvicinandosi a lui, stavolta, e poggiando un braccio sul muro per poi chinarsi a scrutarlo negli occhi con aria pericolosa.
- Allora, Bill… - disse malizioso, sfiorando quasi il profilo del suo viso con le labbra, - ti sta divertendo, il mio labirinto?
Bill aggrottò le sopracciglia. Quello era lo stesso atteggiamento intimidatorio che usavano con lui i bulli del Gymnasium, nella speranza di obbligarlo ad abbassare la testa. E se lui si trovava in punizione, quella sera, era proprio perché, ad atteggiamenti come quello, reagiva sempre nello stesso modo. Opponendosi.
- È un gioco da ragazzi. – disse con un sorrisetto furbo, inclinando il capo.
L’uomo rise a propria volta, estremamente divertito.
- Un gioco da ragazzi, dici. – annuì, separandosi da lui, - Bene, allora che ne dici di alzare un po’ la posta? – chiese, voltandosi all’indietro verso un enorme orologio, apparso dal nulla. Mosse le dita in un movimento circolare e le lancette, guidate dalla magia, si spostarono in avanti. Una, due, tre ore.
- Questo non è giusto! – protestò Bill, stringendo i pugni.
- Non è giusto, dici? – chiese l’uomo, continuando a ridere supponente, - Mi chiedo quale sia l’idea che hai della giustizia. – replicò, allontanandosi di qualche passo. – E visto che trovi il mio labirinto così semplice da affrontare… vediamo come te la cavi col mio piccolo amico qui dietro. – prese la sfera di cristallo che ancora teneva mollemente in mano e la scaraventò con forza nel buio del corridoio. Subito dopo, scomparve.
Georg deglutì e spalancò gli occhi.
- Oh, no… - lo sentì esalare sconsolato Bill. – No, questo no…
- Questo cosa, Georg?! – chiese Bill, impaurito, appendendosi al suo braccio.
- Non lo senti?! – disse il ragazzo, indicando nel buio, - Gli spazzini!
Bill ebbe appena il tempo di cominciare a sentire lo stridio metallico di un centinaio di lame che sfregavano l’una contro l’altra, che già Georg l’aveva afferrato per un braccio e lo tirava lungo il corridoio, verso il lato opposto, strillandogli di darsi una mossa. Bill lo seguì senza fare storie, voltandosi solo di tanto in tanto e cogliendo appena l’immagine di un gigantesco marchingegno che, velocissimo, abbatteva qualsiasi cosa trovasse sul proprio cammino fra rumori agghiaccianti.
- Merda… - commentò Georg quando arrivarono alla fine del corridoio ed andarono a schiantarsi contro un cancello inoppugnabilmente chiuso, - È la fine! Certo che… la Gora dell’Eterno Fetore prima, gli spazzini poi… ti sta trattando proprio con tutti i riguardi!
Bill ringhiò e tirò un calcio di pura frustrazione contro una parete. Il rumore delle lame era forte, ma non riuscì del tutto a coprire il thud un po’ ovattato che fece il suo piede battendo contro la roccia.
- Oltre questa parete… - disse, lasciandovi scorrere sopra una mano, - È vuoto! Georg! Aiutami a spingere!
Ed era vuoto davvero. Riuscirono a rintanarsi in una specie di antro dopo aver frantumato la friabile parete di finta roccia, giusto un attimo prima che la macchina metallica passasse alle loro spalle, abbattendo il cancello e continuando per la propria strada.
- Ma chi me l’ha fatto fare di aiutarti, ragazzino, me lo spieghi?! – borbottò Georg tirandosi in piedi dopo la rovinosa caduta cui era stato costretto per mettersi in salvo.
- Aiutarmi?! – strillò a quel punto Bill, ricordando il discorso di poco prima con l’uomo misterioso, - Ma se hai detto che mi stavi riportando all’ingresso!
- Questo è quello che ho detto a lui, per distrarlo! – motivò il ragazzo, - Vieni, questa scala dovrebbe riportarci in superficie. – aggiunse poi, indicando una scala a pioli poggiata contro il muro lì di fianco.
- Come faccio a fidarmi ancora di te? – chiese Bill, con tono lamentoso, - Se menti-
- Mettiamola così: - lo interruppe Georg, cominciando la scalata, - che alternative hai?
- …nessuna, in effetti. – ammise il moro, abbassando lo sguardo.
- Infatti. – annuì il ragazzo, già a metà scala, - Ti dai una mossa o no? – osservò Bill annuire e mettersi al suo seguito e sospirò, scuotendo il capo, - Devi capire la mia posizione, ragazzino. – cercò di giustificarsi, nemmeno lui sapeva perché, - Io non sono esattamente quello che si dice un coraggioso. E David mi fa paura.
- David… è così che si chiama.
- Già.
- E ti fa tutta questa paura?
- Lo sai perfettamente che è il Re dei Goblin. Se fossi di queste parti, spaventerebbe anche te. Oltretutto, la Gora dell’Eterno Fetore-
- Oh, che mai potrà fare?! Puzzare?!
- Be’, è dannatamente abbastanza per non essere piacevole, no? Oltretutto, come ci metti piede, sei condannato a puzzare per sempre! Non c’è sapone che tenga! Una vera maledizione. – continuò a lamentarsi fino a che non furono finalmente in superficie. Sbucarono da un vaso nel mezzo di una piazzetta dalla quale partivano molti viali delimitati da siepi altissime.
- E adesso dove andiamo…? – chiese Bill, guardandosi intorno con aria smarrita.
- Ah, no! – borbottò Georg, allontanandosi celermente da lui, - Adesso vai per la tua strada! Ho promesso di accompagnarti solo fin dove avrei potuto! Bene, qui mi fermo!
Bill inarcò le sopracciglia verso il basso, stringendosi nelle spalle.
- …pensavo… che avessi capito le mie ragioni… - commentò tristemente.
Georg sospirò, roteando gli occhi e incrociando le braccia sul petto.
- Le ho capite, le tue ragioni, è solo che-
- Pensavo fossimo diventati amici! – aggiunse Bill, gli occhi pieni di lacrime e le mani strette all’altezza del cuore.
Georg spalancò gli occhi.
- …amici? – chiese con aria stupita, - …non ho mai avuto degli amici…
Bill arrossì un po’, stringendosi nelle spalle.
- Be’, in fondo mi hai aiutato… sai, anche io, non è che abbia tutti questi amici, nel mondo da cui provengo… e tu sei stato… be’, abbastanza gentile. – sospirò, - Perciò sì, ti considero un amico.
Georg annuì lentamente e si prese qualche secondo per riflettere.
- Oh, insomma. – concesse alla fine, - D’accordo. Proviamo ad andare di là.
Bill si lasciò andare ad un urletto di gioia, ma la sua felicità durò poco. Esattamente fino al momento in cui Georg si ricordò di essere un vigliacco.
Appena girato l’angolo, i due vennero infatti investiti da un suono spaventoso – l’ululato di sofferenza di un essere probabilmente altrettanto spaventoso – e Georg ci mise un secondo a girare sui tacchi e dirigersi verso un punto a caso purché fosse il più lontano possibile da lì.
- Ma non avevi detto che eravamo amici?! – si lamentò Bill, cercando di artigliarlo prima che sparisse oltre l’angolo.
- No, ragazzino, l’hai detto tu! E comunque, io non sono amico di nessuno: sono amico solo di me stesso, come tutti.
- Ma non è giusto!
- No, non lo è.
- …ma è così.
E quello decisamente era qualcosa di nuovo imparato sulla giustizia.
*
L’essere probabilmente spaventoso che aveva ululato fino a far scappare Georg, in realtà non era affatto un essere spaventoso. Bill se ne accorse non appena raggiunse la fonte dell’urlo e la spiò da dietro una siepe: si trattava di un ragazzo, probabilmente un po’ più piccolo di lui, sicuramente molto più basso ed anche più tarchiatello. Biondo e pallido.
Ma ululava effettivamente come una bestia.
Il problema era la bestia non fosse lui, bensì le creaturine che lo circondavano: goblin, indubbiamente, ed armati – tenevano in mano lunghi bastoni che ospitavano in punta degli esseri se possibile ancora più rivoltanti dei loro proprietari, piccoli, glabri e rosa, e con enormi bocche dotate di spaventosi denti aguzzi. I goblin usavano quelle armi vive per torturare il povero ragazzo, che pendeva dal ramo di un albero a testa in giù e continuava ad urlare il proprio dolore fra un “lasciatemi andare” e l’altro.
Georg poteva essere un codardo, ma Bill decisamente della codardia era l’antitesi.
- Se solo avessi una pietra da lanciare… - si ritrovò a borbottare, mordicchiandosi un labbro e guardandosi già intorno alla ricerca di un sasso.
Quel mondo magico e spaventoso lo stupì una volta di più: i sassi cominciarono in effetti a rotolare verso i suoi piedi, neanche li avesse evocati con un rito voodoo. Sorridendo un po’, si chinò a raccoglierne uno e lo lanciò in mezzo al gruppetto di goblin, centrandone uno sull’elmo. Il caos che da ciò si generò lo divertì parecchio e si concluse, dopo una serie di impacciati movimenti degli esserini confusi e spaventati, con la fuga dei suddetti esserini impazziti. Per dove, non voleva saperlo.
Il ragazzo continuava a sbraitare.
Bill decise che fosse il momento giusto per tirarsi fuori dal proprio nascondiglio.
- Uhm… ciao. – disse salutandolo timidamente con la mano, - Io sono Bill e-
- Sei stato tu a farli scappare? – ringhiò burbero il biondino, sempre a testa in giù.
- Er… sì, ho usato dei sassi che-
- Io mi chiamo Gustav. – lo interruppe ancora il biondo, annuendo, - Ti dispiacerebbe…?
- Oh, sì! – annuì Bill, dirigendosi verso la radice dell’albero, dove aveva già avvistato il nodo che teneva tesa la corda, - Faccio subito! – annunciò impettito, sciogliendo il nodo ed osservando Gustav cadere a terra di testa il secondo successivo, producendosi in un ululato di dolore dei propri. – Oddio! Oddio, scusami! – disse preoccupato, avvicinandosi di corsa al corpo riverso in terra, - Ti sei fatto molto male?
- No, figurati… - rispose quello, ironico, - Be’, comunque sto meglio di prima. – ammise, prima di concedergli un sorriso, - Grazie.
Bill sorrise di rimando, stringendosi un po’ imbarazzato nelle spalle.
- Senti, Gustav, io dovrei arrivare al castello. Ne ho assolutamente bisogno. Non è che tu sapresti indicarmi la strada da prendere?
Gustav lo guardò per qualche secondo con aria genuinamente curiosa, prima di stringersi nelle spalle.
- Non ne ho la più pallida idea. – ammise alla fine, - Quelle, comunque, potrebbero essere un indizio. – disse, indicando con un cenno del capo due porte.
- Queste prima non c’erano… - borbottò Bill, scontento, - Qui tutto continua a cambiare senza un senso!
- Perché non è detto che ciò che vedi sia esattamente come sembra, Bill. – rispose Gustav con un sorriso sornione.
- Sì. – annuì Bill, - Sto cominciando a capirlo. Come credi si possano aprire, queste porte?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, vagamente divertito.
- Be’, ci sono delle maniglie, in fondo. – rispose.
- …e quindi? – chiese di rimando Bill, per nulla illuminato dalla rivelazione.
Gustav sospirò e lasciò scivolare un dito lungo il cerchio metallico della porta a destra.
- Le maniglie esistono per bussare, no?
*
Tom cercò di divincolarsi, ma la presa dell’uomo non si ammorbidì neanche un po’. Oltretutto, il ragazzo sospettava che continuare ad agitarglisi in grembo in quel modo potesse non essere il modo migliore per risolvere la questione: la situazione era equivoca, il sorriso e gli occhi di quell’uomo erano equivoci e, soprattutto, ciò che sentiva premere contro il sedere, oltre la stoffa dei jeans che indossava, era talmente equivoco da rasentare addirittura l’esplicito.
L’uomo gli sorrise, gli occhi stretti come due fessure e brillanti come la luce stessa del giorno.
- Sei un ragazzino davvero vivace… - commentò, sfiorandogli distrattamente una coscia, - Forse, quando sarai mio, dovrò chiamarti David.
*
Al di là della porta c’era qualcosa che somigliava moltissimo ad un bosco ma era molto più scuro, spaventoso e misterioso di tutti i boschi che Bill avesse visto in vita propria.
Non che, in effetti, ne avesse visti tanti: odiava la natura, odiava gli insetti ed odiava tutto ciò che in generale i salutisti adoravano – compreso il frinire dei grilli e l’aria pura di montagna, anzi, il frinire dei grilli gli dava il mal di testa e l’aria pura lo costringeva a giornate intere passate a letto con la febbre a quaranta; comunque, in quella foresta non c’era proprio niente di simile ai boschi che aveva visto. Non c’era luce, non arrivava neanche un po’ di sole filtrato attraverso le foglie, e l’aria era pesante ed umida come quella di una palude.
- Non credo sia stata una buona idea entrare qua dentro… - commentò Gustav alle sue spalle.
- Non avrai mica paura? – chiese Bill, di rimando.
- Paura, io? – rise Gustav, infilando le mani nelle tasche, - Assolutamente no. È solo che-
Silenzio.
- …è solo che? – chiese Bill, continuando ad esplorare l’ambiente circostante e tentando di trattenere le copiose smorfie di disgusto che affioravano alle sue labbra ogni volta che si bagnava toccando qualcosa di umido e marcio. Dalle sue spalle non giunse alcuna risposta. Si voltò a guardare. – Gustav…? – ma dietro di lui non c’era più nessuno.
*
Su uno scenario completamente differente, Georg si stava dibattendo fra le sterpaglie e le rocce nude di un bosco morto e deserto, borbottando fra sé. Quel ragazzino impossibile che non si rassegnava mai non aveva fatto altro che metterlo nei guai in milioni di modi diversi, e quella stupida faccenda dell’amicizia continuava a tormentarlo senza lasciarlo in pace neanche un secondo.
Quando sentì distintamente la voce di Bill invocare il suo aiuto, tutto ciò che riuscì a pensare fu “Arrivo!”. E non fu neanche abbastanza intelligente da tenerselo per sé, anche se desiderò vivamente di averlo fatto quando, voltandosi per ripercorrere la strada al contrario e raggiungere il ragazzo in pericolo, vide che non c’era nessun ragazzo in pericolo, ma solo David, espressione seria e braccia incrociate sul petto, che lo scrutava con aria severa.
- Dov’è che stai andando, Georg…? – chiese l’uomo, irridente.
- …naturalmente a recuperare il ragazzo per riportarlo all’ingresso del labirinto. – mentì, mordendosi un labbro, - Come da programma.
- Ah, davvero? – chiese David, insinuante, - Perché sai, avrei detto che invece tu stessi correndo in suo soccorso.
- Io? – rise lui, cercando di darsi un tono, - Ma che idee. Dopo gli ordini che mi avete dato…
- Già. – annuì il re dei goblin, - Sarebbe veramente molto stupido, da parte tua, disobbedirmi ancora.
- …già. – concordò il ragazzo, abbassando lo sguardo.
David sorrise.
- Cosa c’è, Georg? – lo prese in giro con un sorriso cattivo, - Non mi dirai che provi qualcosa per lui? Che ti sei fatto irretire da quello stupido ragazzino?
- Assolutamente no! – protestò lui, - Io non-
- Perché – precisò l’uomo, piantandogli il frustino nel petto, - non penserai davvero che un ragazzino carino come quello potrebbe interessarsi minimamente ad un rifiuto vigliacco come te, vero?
Georg abbassò lo sguardo e voltò le spalle.
- No, mio signore. – annuì alla fine.
David sorrise ancora.
- Allora…
- Vado a riportarlo all’ingresso del labirinto. – biascicò Georg, dando all’uomo le spalle e cominciando a muoversi in direzione di Bill, - Come da programma.
David annuì. Poi lo fermò, richiamandolo.
- Aspetta. – disse, mentre una sfera di cristallo appariva fra le sue mani, - Portagli questo. – ordinò, lanciando il globo. Quando giunse nelle mani di Georg, s’era già trasformato in un frutto.
- …che cos’è, mio signore? – chiese timidamente, senza sollevare il capo.
- Un presente, naturalmente. – rispose lui, sereno.
- …voi non gli fareste del male, vero? Perché io… non credo che potrei farlo.
David ringhiò e gli si avvicinò con fare minaccioso, puntandolo nuovamente con il frustino.
- Tu gli darai quel frutto, Georg, o io ti spedisco a calci nella Gora dell’Eterno Fetore, senza pensarci su neanche un momento! – lo minacciò bruscamente, - Sono stato chiaro?
- …sì, mio signore. – annuì il ragazzo, riprendendo la strada verso il proprio obiettivo.
- E… Georg? – lo richiamò un’ultima volta David, prima di sparire, - Se mai lui dovesse baciarti… ti trasformerò in un principe.
- …davvero…? – chiese lui, incredulo.
L’uomo rise.
- Oh sì, eccome. – rispose, - Anche alla Gora dell’Eterno Fetore servirà un principe, no?
*
Bill non era mai scappato strillando, da che era venuto al mondo. Be’, forse da piccolo, di fronte a qualche orrendo insetto palesemente nato per attentare al suo sistema nervoso in primo luogo ed alla sua vita in secondo, ma da quando aveva cominciato più o meno a capire cosa significasse diventare grandi, correre dei rischi e prendersi la responsabilità delle proprie azioni, Bill non era mai scappato strillando di fronte a niente.
All’interno di quel bosco, però, aveva trovato delle creature talmente spaventose – non c’era altro modo per definire quegli enormi uccelli canterini che continuavano a staccarsi teste ed arti vari ed eventuali a vicenda con lo scopo di usare le suddette parti del corpo per i più diversi tipi di sport – che fuggire strillando era diventata l’unica alternativa possibile.
Fu così che rincontrò Georg: intrappolato contro una parete rocciosa e circondato dagli uccelli canterini – che dovevano aver preso piuttosto male il suo staccare tutte le loro teste e lanciarle lontano per guadagnare qualche secondo di vantaggio nella fuga – stava già cominciando a chiedersi quanto fosse doloroso morire per mano di uno stormo di pennuti quando una corda discesa dall’alto lo colpì sulla testa. Sollevò lo sguardo e lì c’era Georg.
- Afferrala! – disse spiccio il ragazzo, mostrandogli la corda ben assicurata contro uno sperone.
Bill non se lo fece ripetere due volte e, per quanto le sue doti fisiche fossero decisamente scarse, la paura irrazionale che provava in quel momento – paura di perdere la vita, di non ritrovare Tomi, di non riuscire a tornare a casa – ebbe un effetto più che benefico sulle sue doti di scalatore, perché meno di un minuto dopo si ritrovava in alto, lontano dai pennuti, a stringere le braccia attorno al collo di un Georg mortalmente imbarazzato.
- Sei tornato! Sei venuto ad aiutarmi! – strillò commosso, saltellando sul posto, - Sapevo che non potevi essere del tutto cattivo! – e, così dicendo, in maniera del tutto naturale e inaspettata, sporse le labbra verso la sua guancia.
- No! – cercò invano di trattenerlo Georg, - Cosa fai?! Non baciarmi! – ma fu del tutto inutile: quando le sue labbra sfiorarono la guancia liscia del giovane, sotto di loro si aprì un baratro e scivolarono per metri e metri, rotolando fra le sterpaglie, fino ad una parete rocciosa che dava su una disgustosa palude di melma.
Riuscirono a salvarsi solo perché Georg ebbe la prontezza di spirito di afferrare uno spuntone che fuoriusciva dalla parete, prima di cadere nella palude, e Bill riuscì a frenarsi un attimo prima di franargli addosso.
- …oddio… - si lamentò, cercando di non respirare quando il puzzo incredibile che si sollevava dall’acqua raggiunse le sue narici, - Ma che posto è questo?
Georg deglutì.
- La Gora dell’Eterno Fetore.
- Dio mio, è veramente disgustoso! – commentò Bill, tirando su il ragazzo finché non si fu assicurato allo stretto corridoio di pietre che costeggiava la fiancata dello strapiombo.
- Dobbiamo… uscire immediatamente da questo posto. – lo avvisò il ragazzo, cominciando a spingerlo lungo il sentiero, - Certo che, anche tu, dovevi proprio baciarmi?!
- Aaah, poche storie! – rise Bill, - Tanto lo so che sei tornato indietro per aiutarmi! E perché siamo amici!
- Nella maniera più assoluta, no! – precisò lui, adirato, - Sono tornato indietro solo per darti questa! – borbottò, ficcando una mano in tasca ed armeggiando alla ricerca di qualcosa. Sfortuna volle che il suo armeggiare, però, avesse luogo proprio mentre la pietra sulla quale si trovava si decideva a porre fine alla propria vita, sfaldandosi in mille pezzi. Nel momento in cui Bill se ne accorse ed allungò un braccio per aiutarlo, anche la sua pietra cedette, ed in breve si ritrovarono entrambi a cadere verso il basso, strizzando gli occhi per la paura di finire proprio in quell’acquitrino disgustoso dal quale proveniva l’olezzo pungente che impregnava l’aria.
- Oh… cazzo! – sbottò invece la persona sulla quale caddero.
Bill sollevò lo sguardo, cercando di riprendersi dalla caduta.
- …Gustav! – disse, saltando anche al collo di quest’ultimo ma evitando inappropriati baci, visto che quello che aveva rifilato a Georg sembrava essere il motivo della loro presenza in quel luogo osceno, - Ma allora sei ancora vivo!
- Dannazione, sì che lo sono! – biascicò il biondo mentre si tirava in piedi, - Sono caduto in una dannata trappola, in quella foresta! – poi il suo sguardo dardeggiò su Georg, che si stava a propria volta risollevando a qualche passo da lui. – E quello chi sarebbe?
- Lui è Georg, - lo presentò Bill con un sorriso, - è un amico anche lui!
- La vogliamo piantare con questa storia degli amici?! – si lamentò il ragazzo, spolverandosi i pantaloni. – Piuttosto: là c’è un ponte. – dichiarò, indicando un punto qualche metro più in là, - Probabilmente porta all’uscita.
Bill annuì ed i tre si incamminarono verso l’unica via di salvezza cui potessero pensare, ma una volta giunti di fronte al ponte, appena provarono a metter piede sull’instabile asse di legno che lo componeva, una voce tonante li fermò.
- Altolà. – disse la voce, e da dietro un albero venne fuori un uomo altissimo e dalla pelle scura, ricoperto di tatuaggi, - Non potete passare. – disse, frapponendosi fra i tre disperati e la libertà.
- Oh, balle! – ringhiò Georg, facendosi avanti e dimenticando perfino di essere un vigliacco, in virtù della puzza, - Noi dobbiamo uscire di qui! Non si respira!
- Nessuno passa di qui senza il mio permesso. – precisò l’uomo, - Il mio nome è Bushido e sono il guardiano di questo ponte. E quelli sono gli ordini.
Gustav gli si parò davanti. Doveva essere alto più o meno la metà dell’uomo, e non era largo nemmeno il doppio.
Bill li osservò prendersi a cazzotti per molti minuti. Perfino con un certo divertimento.
*
Un attimo prima di abbandonare la palude – dopo una scenetta delirante quanto deliziosa durante la quale, dopo aver stabilito di essere entrambi ugualmente bravi a fare a botte, Bushido e Gustav s’erano autoproclamati rispettosamente l’uno il fratello di sangue dell’altro – Georg aveva accarezzato l’ipotesi di prendere il frutto e buttarlo nella melma. Questo l’avrebbe probabilmente condannato a qualcosa di perfino più spiacevole della Gora, ma almeno gli avrebbe impedito di fare del male a Bill.
La voce di David, risuonando nella sua testa, gli aveva consigliato di non compiere gesti avventati, però. E così lui non ne aveva compiuti.
Dopodiché, era venuto fuori che Bushido non solo sapeva come uscire dalla Gora, ma, a quanto diceva, anche come giungere al castello. Bill non era stato per nulla in grado di trattenersi: gli era saltato al collo, l’aveva ricoperto di baci un po’ ovunque, aveva raccontato la triste storia del suo fratellino rapito ed il danno era stato fatto. Bushido promise di portarli tutti al castello entro il sorgere del sole e li obbligò ad una marcia serratissima attraverso un bosco molto più fitto ma, per fortuna, anche molto più luminoso di quello in cui Gustav era sparito ore prima.
Dalla propria stanza del trono, David osservava tutto questo continuando a stringere Tom fra le braccia, pressandoselo addosso in un’esplicita tortura.
- Guarda quanta pena si dà per te… - commentò, sfiorandogli una guancia con due dita, - per un fanciullo così piccolo come te… - aggiunse, con un sorriso pericoloso, - Ma presto tutto questo finirà. – annuì compiaciuto, - Non appena Georg gli darà il mio regalo, Bill dimenticherà tutto… anche di te.
Sotto il bavaglio, Tom avrebbe voluto mordersi un labbro; ma non ci riuscì.
*
- Sì, però io sto morendo di fame. – si premurò di far sapere al mondo Gustav mentre incedeva fiero al fianco di Bushido, che gli ricordava quanto fosse in effetti poco virile andare in giro borbottando cose simili.
- Un guerriero soffre in silenzio. – disse l’uomo, seriamente, e Bill si ritrovò a chiedersi quando fosse diventato un guerriero; se per caso le botte a scuola facessero di lui un guerriero; e soprattutto… se davvero valesse tanta pena un fratello che, chiacchierando al telefono col proprio migliore amico, parlava di quanto migliore sarebbe potuta essere la sua vita se lui non fosse esistito affatto.
Il suo stomaco brontolò proprio nel mezzo di questi allegri pensieri, e Bill rilassò le spalle, sconsolato.
- Ho fame anche io… - borbottò incerto, - Ma non possiamo fermarci.
Georg si fece avanti con un paio di colpi di tosse per schiarirsi la voce.
- Bill… io avrei… - sospirò, prima di tirar fuori dalla tasca una bellissima pesca dal profumo squisito, - questa. – sussurrò, porgendogli il frutto.
Bill spalancò gli occhi – le voci di Gustav e Bushido, ancora impegnati a discutere della mascolinità dell’appetito, erano ormai lontane.
- Georg! – disse entusiasta, - Tu sei un salvavita! – e, così dicendo, addentò la pesca.
*
E poi fu come precipitare in un sogno.
Un incredibile senso di spossatezza lo colse, e riuscì appena a cogliere l’immagine di Georg che si allontanava biascicando “cosa ho fatto…?”, prima di lasciarsi ricadere esausto contro un albero e scivolare lungo il tronco fino a terra, mentre miriadi di bolle di sapone – ognuna con dentro un sogno diverso – lo circondavano e gli annebbiavano la vista.
Nella più grande, nella più bella, nella più luminosa di tutte c’era una chiassosa festa danzante, decine e decine di invitati a ridere e divertirsi, e Bill poteva vedere anche un altro se stesso, no, non era un altro se stesso, era proprio lui, là, in mezzo a tutta quella gente, completamente vestito di bianco e luccicante come una stella, farsi strada fra le miriadi di persone mentre da un lato all’altro della stanza rimbalzava l’immagine di quell’uomo, David.
Stretto fra le sue braccia, suo fratello. Sembrava completamente incosciente: i suoi occhi – solitamente così luminosi – erano vuoti e spenti, la sua bocca piena era coperta da un bavaglio e le mani erano assicurate dietro la schiena con una corda d’oro zecchino.
David lo cullava teneramente, danzando con lui e stringendolo alla vita, pressandoselo contro, e suo fratello non reagiva; David lo sfiorava con la punta del naso e con le labbra ma non lo toccava mai sul viso, anche se tutto il resto del suo corpo era così vicino a quello di suo fratello da confonderli quasi l’uno per l’altro.
Bill annaspò: non voleva vedere Tomi in quelle condizioni, non voleva vederlo fra le mani di quell’uomo, non a causa sua, doveva salvarlo, doveva assolutamente salvarlo, e poi David scomparve e Tomi con lui, e quando Bill sentì la presenza di quegli occhi di ghiaccio contro il collo e si voltò a guardare, David era tornato ma Tomi non era con lui.
- Dov’è- - provò a chiedere, spaventato, ma l’uomo gli posò un dito sulle labbra. Non gli ordinò di stare zitto, ma fu come l’avesse fatto: il fiato volò via e ciò che rimase del suo raziocinio lo seguì quando le braccia forti di David si chiusero attorno alla sua vita e lo strinsero violentemente.
E poi fu lui a danzare.
*
Quando si risvegliò era molto confuso. Aveva una pesca marcia fra le mani – la gettò via con disgusto non appena vide venirne fuori un vermicello dall’aspetto orrendo – e si trovava in un luogo mai visto prima – una discarica colma di oggetti, cianfrusaglie di ogni tipo confuse e mescolate fra loro fino a non riuscire a distinguere cosa fosse cosa in precedenza.
- Vuoi scendere dalla mia schiena?! – disse una vocetta nasale proveniente dal mucchio di cianfrusaglie sotto di lui. Bill si lasciò scivolare a terra e, quando si voltò, si ritrovò di fronte un ometto dalla faccia vagamente allungata – gli ricordava un po’ un topolino – con dei ridicoli baffetti sotto il naso. – Be’? – disse l’ometto, - Cos’hai da fissare?
- Io… non lo so… - rispose sinceramente Bill, passandosi una mano sulla fronte, - Io credo… stavo cercando qualcosa…
- Oh, eccome se stavi cercando qualcosa! – annuì l’altro, rovistando in una borsa che portava a tracolla lungo un fianco, - Ecco quello che cercavi! – disse, tirandone fuori il suo orsetto, - È il tuo Lancillotto, giusto? – chiese con un mezzo sorriso.
Bill prese l’orsacchiotto fra le mani e sorrise a propria volta.
- Sì, è lui, è… che assurdità, avevo dimenticato di stare cercando proprio lui… - aggiunse con una risatina.
L’omino annuì.
- Dunque, già che ci sei… - suggerì, scortandolo verso una tenda, - perché non dai un’occhiata qua dentro e vedi se per caso c’è qualcos’altro che ti interessa?
Bill lo seguì e, quando oltrepassò la soglia dell’ambiente, vide finalmente la prima cosa familiare su cui posasse gli occhi da ore: la propria camera. Perfettamente identica a come l’aveva lasciata: i letti, il disegno di Topolino sulla parete, e tutti i giocattoli della sua infanzia al loro posto. Stringendo al petto Lancillotto, in un impeto di commozione, si gettò sul letto e chiuse gli occhi. Poi si rigirò sul materasso e, quando fu di nuovo supino, tornò a guardare il soffitto.
- È stato solo un sogno… - si disse, rimettendosi seduto fra le lenzuola, - Lancillotto, puoi crederci…? È stato tutto solo un sogno… - scese con un saltello giù dal letto e si diresse verso la porta, per controllare se sua madre e Gordon fossero tornati.
Ma quando mise la mano sulla maniglia, non ebbe neanche il tempo di girarla che la porta si spalancò sullo stesso omino baffuto di prima.
- Resta qua dentro, ragazzino, non c’è proprio niente per te, là fuori. – disse l’omino annuendo e chiudendosi la porta alle spalle, - Tutto ciò che ti serve è qua dentro. – continuò, scortandolo verso la sedia di fronte alla scrivania ed aiutandolo a sedersi, - Vedi? Tutti i tuoi giocattoli, tutto ciò che per te abbia avuto un valore, è qui dentro. C’è anche la Barbie Sirena che hai perso, la ricordi? Ecco qui. – aggiunse, consegnandogli la bambola fra le mani, mentre lui squadrava il tutto con aria assente. C’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che non riusciva a capire, che non riusciva a ricordare, eppure sembrava importante, perché era come gli mancasse un pezzo di cuore.
Lasciò scorrere lo sguardo sulla scrivania e gli occhi si posarono su un libro dalla copertina morbida e rossa. Labyrinth. Lo conosceva, era il suo libro preferito, lo sapeva praticamente tutto a memoria. Lo aprì ad una pagina a caso e cominciò a leggere automaticamente, ad alta voce.
- Con rischi indicibili… - disse in un sussurro, - e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin, per riprendere… - s’interruppe e spalancò gli occhi, - …per riprendere il ragazzo che tu hai rapito! Tomi! – saltò in piedi, ricordando, - Mio fratello! Io devo salvare mio fratello!
- Bill! – strillarono due voci conosciute, ed il ragazzo sollevò gli occhi proprio mentre, tutto intorno a lui, le pareti di quella stanza finta cedevano mattone dopo mattone, rivelandosi inconsistenti come farina, sfaldandosi senza nemmeno un tocco.
Bushido e Gustav si affacciarono fra le macerie, tendendogli ognuno una mano.
- Ci chiedevamo dove fossi finito! – disse il biondo, mentre l’uomo più alto lo aiutava a riaffiorare in superficie, - Siamo quasi arrivati al castello!
- Davvero?! – s’illuminò Bill, speranzoso.
Bushido sorrise trionfante.
- Ebbene sì! – disse orgoglioso, indicando poco distante, - Siamo alle porte della città di Goblin.
*
Non fu difficile entrare all’interno della città – la guardia non guardava proprio un bel niente, anzi, dormiva in piedi, e per scostare le porte bastava spingerle; più difficile fu farlo in silenzio, dal momento che, appena giunti di fronte al cancello, Bushido aveva cominciato a strillare oltraggiato chiedendosi dove fosse finita la cavalleria se, dopo aver bussato più e più volte, nessuno veniva ad aprire e bisognava, in sostanza, fare tutto da soli. Ci volle una grande inventiva – e che Bill prendesse una mira un po’ particolare per i propri baci – per riuscire a far tacere il valoroso guerriero abbastanza a lungo da introdursi all’interno della cittadina.
Fu qui che vennero improvvisamente attaccati da un enorme robot gigante, dall’aria antica ma piuttosto funzionale. Sembrava più che altro un’armatura indossata da un essere veramente gigantesco, ma il punto non era tanto cosa fosse quanto più il fatto che possedesse un’ascia e, in quanto possessore di tale arma, andasse temuto.
Bushido gli diede della caffettiera e lo sfidò a duello. Questo lo irritò molto.
Sarebbero probabilmente finiti tutti molto ma molto male, se in quel momento, dalle mura superiori, non fosse arrivato Georg, correndo come un pazzo e gettandosi addosso al robot per poi afferrarne la testa metallica fra le mani e scardinarla con la forza di un vichingo, gettandola a terra.
A manovrare il bestione era in realtà una bestiolina: un goblin dall’aspetto piuttosto ridicolo. Georg prese fra le mani e scardinò con la forza di un vichingo anche lui.
- Ed ora tocca a me! – disse il ragazzo, prendendo possesso dei comandi del robot, - Vediamo come si guida quest’affare.
A guidarlo non riuscì affatto; in compenso, fu tanto bravo da incastrare l’ascia fra due pietre sopra le testa del robot, e continuò a maneggiare convulsamente tutti i pulsanti, le manopole ed i timoni che gli capitarono sottomano, finché l’enorme armatura non si accasciò priva di vita su se stessa, vittima di un banalissimo quanto ridicolo corto circuito.
Georg venne fuori stremato dalle lamiere, e la prima cosa che fece fu lasciarsi cadere a terra.
La seconda, cercare gli occhi di Bill, che si inginocchiò immediatamente al suo fianco.
- Non chiedo il tuo perdono. – disse il ragazzo, abbassando lo sguardo, - Non mi vergogno di averti dato quella pesca. Erano gli ordini di David, ed io ti avevo avvertito di essere un codardo. Oltretutto, non ho nessun interesse nelle amicizie, e-
- Ma io ti perdono. – disse Bill con un sorriso.
Georg tornò a guardarlo, gli occhi liquidi e persi.
- …davvero?
Bill annuì.
- Certe volte, le cose giuste sono giuste davvero.
*
All’interno del palazzo regnava il silenzio più totale. Di David – e di Tom, naturalmente – non c’era nessuna traccia. Entrare era stato perfino troppo facile, un po’ come se David si aspettasse davvero il suo arrivo ed un po’ anche come se avesse la certezza che comunque non sarebbe mai riuscito a trovarlo.
Mancavano ormai pochi minuti allo scoccare della tredicesima ora. L’unica via da seguire era una scala che partiva dalla sala del trono – immersa nel caos come fosse stata abbandonata in fretta e furia – e si perdeva in alto, chissà dove.
Bill si morse un labbro.
- Non possono che essere andati di là. – rifletté ad alta voce.
- Bene, allora. – disse Bushido, già sul piede di guerra, - Che stiamo aspettando?
Bill si voltò a guardare quegli strani compagni di viaggio che, nel bene e nel male, fra bassi ed alti di vario genere, gli erano stati accanto, e sorrise.
- Mi avete permesso di arrivare fino a qui, e per questo vi sarò sempre riconoscente… - disse sereno, - Ma questa è una cosa che devo fare da solo.
Georg si irrigidì.
- Ma… - provò a protestare, ma Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Se è così che devi farlo, - disse serio, annuendo nei confronti di Bill, - allora è giusto che tu lo faccia così. Sei un valoroso. E te la caverai egregiamente.
Bill sorrise ancora.
- …per qualsiasi cosa dovesse servirti… - disse Georg, abbassando timidamente lo sguardo.
Bill annuì.
- Conterò sempre su di voi.
*
La scala si perdeva nel nulla. In una distesa di macerie scomposte che un po’ facevano da pavimento ed un po’ volteggiavano minacciose nell’aria, quasi volessero caderti sulla testa da un momento all’altro.
Quasi proprio volessero ricordarti quello che la vita in fondo è sempre: un pericolo costante, quello di venire schiacciati da qualcosa di troppo grosso rispetto al peso che si può reggere.
Suo fratello, imbavagliato e privo di conoscenza, volteggiava proprio assieme ad una di quelle macerie, a qualche metro da lui. Fra Bill e il suo obiettivo, però, c’era ancora David.
L’uomo lo fissava incattivito, gli occhi sottili come quelli di un gatto e le braccia rigide lungo i fianchi.
- Ridammi mio fratello. – disse fermamente Bill, senza perdersi d’animo.
David ringhiò, facendoglisi più vicino.
- Non sfidarmi, Bill. – sibilò ad un centimetro dal suo volto, - Sono stato molto generoso, fino ad adesso, ma posso essere anche altrettanto crudele, quando voglio.
- Generoso, tu…? – ritorse Bill con un sorriso stremato, - E quand’è che lo saresti stato?
- Sempre! – replicò David girandogli intorno come un predatore, adirato, - Hai voluto che rapissi tuo fratello, l’ho rapito! Mi sono fatto sempre più terrificante vedendo quanto ti facevi piccolo e spaventato ogni volta che mi vedevi, ed ho sovvertito l’ordine del tempo, di un intero mondo!, solo per seguire esattamente i tuoi desideri, Bill. – si fermò di fronte a lui, sollevando una mano e sfiorandogli teneramente una guancia. – Non lo vedi…? Sono sfiancato dal mostrarmi sempre proprio come tu mi desideri, Bill.
Rosso d’imbarazzo, messo a disagio da un tocco che non avrebbe mai immaginato così caldo, Bill deglutì. Quell’uomo gli offriva un sogno, non aveva fatto altro che offrirgli il suo sogno perfetto da quando aveva messo piede nel suo mondo…
…ma suo fratello era lì a causa sua. E Tomi era troppo importante – troppo più importante del resto – per dimenticarlo. O per preferirgli uno stupido sogno. I sogni potevano tenergli compagnia durante la notte, ma per tutto il resto della sua vita sapeva che, se avesse dovuto scegliere qualcuno cui affidarsi completamente, quel qualcuno non sarebbe stato il re dei goblin, ma il proprio fratello.
Socchiuse gli occhi e poi li riaprì con decisione, cercando di ignorare le sensazioni che la mano di quell’uomo provocava in lui scorrendogli lungo la pelle del collo.
- Con rischi indicibili e traversie innumerevoli, - cominciò a recitare, - io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin. – deglutì, - Per riprendere il ragazzo che tu hai rapito. La mia volontà è forte come la tua, ed il mio regno altrettanto…
- Bill, non farlo. – lo interruppe l’uomo, stringendo la presa della mano attorno alla sua spalla, - Lascia solo che io ti domini, e potrai avere tutto quello che desideri. Io ti darò tutto quello che desideri.
Bill chiuse gli occhi ed andò avanti.
- …il mio regno è altrettanto grande.
- Non hai che da temermi! – ringhiò David, stringendo fino a fargli male, - Temermi, amarmi e fare tutto ciò che ti dirò. Ed io diventerò il tuo schiavo.
Bill si concesse un mezzo sorriso, prima di riaprire gli occhi. Ed andare ancora avanti.
- Il mio regno è altrettanto grande. – ripeté. – Tu… - sospirò, - tu non hai nessun potere, su di me.
E poi fu di nuovo come precipitare in un sogno. Però al contrario.
*
Spalancò gli occhi sul buio del proprio salotto, ansimando forte. C’era qualcosa che decisamente non andava nei suoi pantaloni ed era del tutto assurdo sentirsi così eccitati dopo un sogno simile, ma aveva poco da fare se non prenderne atto e rendersi conto di non essersi mai mosso da quel divano. Probabilmente neppure per provare a fare la pace con Tomi, come dimostrava il libro di Labyrinth ancora aperto a metà sulle sue ginocchia.
Posò il libretto sul cuscino accanto a sé, stiracchiando le gambe e soffrendo con le sue povere giunture che, piegate per tutto quel tempo, sembravano essersi completamente raggrinzite, e sembravano anche bene intenzionate a non sgranchirsi in tempi brevi.
Zoppicando un po’, si avvolse meglio nella coperta e si diresse verso le scale, chiamando suo fratello.
Si incontrarono sul pianerottolo, e si guardarono a lungo. Ad entrambi, però, basto un solo secondo per capire che era successo di nuovo.
- Bill, ma che razza di sogno hai fatto…? – commentò suo fratello con un mezzo sorriso incredulo, - A parte il fatto che c’era gente assurda, permettimi di protestare: mi hai fatto rapire dal re dei goblin! – rise, - Peraltro… un pervertito mica da poco.
Risero insieme per molti minuti, seduti sulle scale. Lì, ancora intenti a commentare i dettagli del sogno, li ritrovarono Simone e Gordon quando tornarono, a mezzanotte precisa. In perfetto orario.
*
Quando, in rapida successione, i gemelli conobbero Georg e Gustav, Simone disse che sembrava quasi che il Destino si stesse preparando a fare qualcosa di veramente grande per loro.
Nessuno si stupì quando David Jost, inviato dalla Universal, propose ai ragazzi un contratto per il loro primo disco. Nessuno si stupì perché era davvero un sacco di tempo che quella Simone diceva che i suoi figli erano davvero destinati a qualcosa di enorme.
Era giusto non stupirsi. Ma quello era il motivo sbagliato.
Bill continuava a dire di averlo visto in sogno, tutto quello.
E Tom gli dava man forte dicendo che l’aveva visto anche lui.
Quando, un giorno, dal nulla, Bill sorrise furbo al proprio benefattore e gli disse “tu… non hai nessun potere, su di me”, David Jost non capì. Si offese pure, in realtà. Non che chiedesse di avere chissà che potere sui loro corpi e sulle loro anime, ma non era mica tanto gentile quel frugoletto coi capelli neri come petrolio e sparati in aria come schegge di vetro, che si presentava così dal nulla a dirgli “tu non sei nessuno”.
David non capì e si offese.
Geog e Gustav non capirono e si chiesero se per caso Bill non avesse intenzione di sabotare la band prima ancora che riuscissero a produrre il disco.
Tom, però, scosse rassegnato il capo e gli sorrise, complice. Questo, per Bill, era più che sufficiente.
Genere: Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: OC.
- Durante i concerti dei Tokio Hotel, Bill Kaulitz ha l'abitudine di invitare una ragazza dal pubblico a salire sul palco per cantare con lui una parte di una canzone. Ogni tanto, però, le cose vanno esattamente nel modo più inopportuno possibile.
Note: Questa storia è gloriosamente dedicata principalmente a Gra e Fae, la prima perché ha partorito l’idea e la seconda perché ci ha seguite nel plottaggio folle che ne è poi derivato XD Vi amo, donne <3
Io, palesemente, amo questa storia. Riesce ad essere a mio parere compiuta nonostante la brevità indecente. Cosa ancora migliore: la brevità indecente era condizione necessaria per partecipare alla V Minidisfida del sito Criticoni *_* C’era un limite massimo di 2000 parole e sono riuscita a scrivere tutto senza sforare. Sono molto commossa. E Victor è, tipo, uno dei personaggi originali più carini che abbia mai partorito XD Grazie per la lettura e grazie altrettanto se vorrete lasciare un commento <3
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INSTANT KARMA

Dunque, io a Martha voglio bene, eh. D’accordo, okay, magari non la amo, ma voglio dire, ho diciott’anni, amo solo la mia Wii, è l’unica cosa al mondo per la quale sarei disposto a rischiare la vita, perciò non rompetemi le palle se dico che non la amo, anche se lo so che lei mi adora. È che lei ha sedici anni, è normale che veda solo me nel mondo, esattamente come io vedo solo la Wii. Intendo, rientra nell’ordine naturale delle cose, non c’è niente per cui io debba sentirmi in colpa, anche perché, ammettiamolo, con lei sono delizioso. Tipo, quando è venuta a casa mia con suo fratello minore e mi ha chiesto di prestare al mostriciattolo la Wii così da farci lasciare un po’ in pace, io l’ho fatto, anche se, mettendo su due piani limonare con lei ed impedire a quel poppante di distruggermi la consolle, avrei decisamente preferito la seconda opzione. Però sono un ragazzo adorabile e non ho fatto storie.
Stavolta il sacrificio è stato anche emotivamente più pesante, volendo metterla in termini che a Martha piacerebbero moltissimo. Insomma, quando si è presentata al mio cospetto con due dannati biglietti già acquistati e quegli enormi occhioni verdi spalancati, mugolando “Avanti, Victor, è solo un concerto! Ti prego, accompagnami!”, io non me la sono sentita di dirle no. Anche se odio visceralmente i Tokio Hotel – non per altro: ne parlano tutti senza un effettivo perché – il loro cantante mi fa impressione e, per il resto, non potrebbe fregarmene di meno di passare otto ore fra fila e concerto in mezzo a vagonate di preadolescenti in minigonna e top che sperano di farsi vedere dal loro amore sul palco.
Okay, d’accordo, forse la questione delle minigonne e dei top – in mancanza di una Wii con cui giocare mentre aspetto che lo strazio si concluda – ha influito sulla mia decisione, ma posso ragionevolmente dire con una certezza di circa il 90% di aver accettato principalmente perché voglio bene a Martha e sono un bravo ragazzo. Oh.
Al momento siamo schiacciati fra la transenna e il resto del mondo. La maggior parte delle mie ore di dramma umano s’è già consumata, intorno a me le ragazze hanno pianto, si sono strappate i vestiti di dosso, hanno avuto un orgasmo spontaneo quando il chitarrista con dei capelli che Tarzan preferirebbe alla solita liana ha spruzzato loro addosso dell’acqua da una bottiglietta e, soprattutto, hanno lanciato sul palco ogni genere di suppellettile, dai reggiseni alle mutandine ai peluche passando per pacchetti di caramelle, lettere avvolte in buste profumate e confezioni formato famiglia di preservativi – che il suddetto chitarrista ha raccolto con evidente compiacimento e infilato in una delle tasche di quegli enormi sacchi che indossa al posto dei jeans con un sorrisetto che non lasciava presagire proprio niente di buono a livello generale.
L’incubo Burtoniano che regge il microfono nel centro del palco adesso sta parlando. Io sono riuscito, dopo circa un’ora, ad identificare le frequenze della sua voce ed escluderle dalla mia capacità di percezione sonora, quindi non lo sto a sentire. Le ragazze intorno a me strillano e saltellano, Martha mi si attacca al braccio brillando di fanatismo ed io sbadiglio sonoramente, grattandomi pigro la nuca.
E poi accade.
L’incubo Burtoniano comincia a zompettare, coordinato come uno struzzo al pascolo, dal un lato all’altro del palco. Si china ed osserva il suo pubblico con aria critica. Non ho idea di cosa stia facendo. Mi fa pure un po’ impressone, in realtà. Sta palesemente scegliendo una vittima. Al che comincio a chiedermi: ma non è che il mega-pacco di preservativi se lo dividono, i due gemelli mica-tanto-gemelli? No, perché la cosa apre prospettive inquietanti. Nel senso: l’incubo Burtoniano scopa? Cioè, no. non è possibile. E se lo fa, con chi o cosa? Non voglio saperlo.
Insomma. A un certo punto si ferma e comincia a squittire. Non è un suono cui sono preparato, intendo, non è la sua voce, perciò lo intercetto. Squittisce, fa squit, proprio, e si ferma. E lo vedo che comincia a gesticolare. Prima richiama l’attenzione di uno degli addetti alla security e poi gesticola. Nella mia direzione.
Mi rifiuto. Mi guardo intorno. A parte Martha, sono circondato da cessi. Questo mi fa venire in mente una cosa che la stessa Martha mi ha detto, cioè che l’incubo Burtoniano tira sul palco solo esseri dalla forma vagamente antropomorfa ma che non puoi mai spacciare per reali esseri umani. Mostri, in sostanza. Ho accanto un essere che risponde in pieno alla descrizione, è alta un metro e un tappo, ha degli insopportabili capelli rossi e crespi sparati per aria, è pallida come un cencio e ricoperta di efelidi. Dev’essere lei l’obiettivo. È lei. È lei, vero?
Vengo prelevato da due mani maschili grandi quanto due cerchioni d’auto, non più di tre secondi dopo. Non sono esattamente un fuscello – okay, d’accordo, magari non sono neanche tutto questo fulgido esempio di robustezza, però insomma – ma vengo sollevato lo stesso con una facilità impressionante. La cosa successiva di cui mi rendo conto è che sono sul palco. Cioè, sul palco. Plano sulle tavole e gli anfibi fanno un rumore intollerabile, lo sento nonostante la musica, che continua miracolosamente.
L’incubo Burtoniano mi fissa. E così mi fissano pure tutti gli altri: mi fissa il chitarrista – che per questo suo fissarmi perde una serie infinita di note, me ne accorgo anch’io che la canzone non la conosco – mi fissa il bassista – che però di note non ne perde – e mi fissa anche il batterista, e come mi fissano loro mi fissa anche tutto il resto del mondo e buona parte dell’universo, comincio a sospettare. Mi auguro stia guardando anche Dio, e non gli sia sfuggita la pesante imprecazione che gli ho telepaticamente inviato.
L’incubo mi fissa, appunto, e ha smesso di cantare già da un pezzo. Ha uno sguardo allucinato che mi fa una paura bestia. “Bill!” lo chiama la liana vivente a qualche metro da noi, e l’incubo si riscuote all’improvviso e riprende lentamente a cantare. Non sembra granché convinto. Mi fissa con aria inquisitoria e non so cosa stia cercando di dirmi. Io non capisco nemmeno perché sono qui, cazzo, io dovrei trovarmi là sotto, in mezzo al pubblico, cosa sto facendo qua sopra, cosa?!
Mi si avvicina qualcuno, da dietro. Panico. Non mi sento al sicuro, su questo palco. È il bassista che mi sibila “canta”, e lo sibila in tono accusatorio, come fosse ovvio e naturale che ogni persona vivente conoscesse le parole di questa stracazzo di canzone melensa che stanno suonando. Non ho idea di cosa vogliano da me! Cantare? Ma cosa?! Io non lo conosco, questo testo, e soprattutto non voglio cantare col nipote di Burton in vacanza-studio in Germania!
Dolore e sofferenza. Resto qui in piedi nel centro del palco come un citrullo. Intorno a me si sviluppa una realtà alternativa in cui io non esisto: vengo ignorato, l’incubo riprende a muoversi per tutto il palco con la grazia di un elefante sulle punte, fingendo di cantare cose che io non sento perché ho ripreso a fare selezione all’ingresso in fatto di suoni, e, in generale, il mondo – compresa Martha, che non riesco più a vedere – ignora la mia esistenza, riprendendo il proprio normale corso mentre io resto qui, disperato, e non so che fare.
Almeno fino a quando, guardandomi intorno con aria persa, non colgo un uomo sulla trentina che si sbraccia col rischio di slogarsi una o più spalle, cercando di attirare la mia attenzione. Mi muovo con circospezione cercando di raggiungere il backstage senza che nessuno mi noti, riesco ad inciampare ovunque nel tentativo ma mi ignorano tutti lo stesso. Magari sono diventato invisibile e l’unico che riesce a vedermi è il tizio di cui sopra.
Tizio che, peraltro, quando arrivo dietro le quinte comincia a darmi addosso.
- CHI SEI?! – strilla, utilizzando una quantità di decibel palesemente superiore rispetto a quella consentita dalla legge, - PERCHÉ SEI QUI?! COSA VUOI?!
Mi faccio forza per non urlare a mia volta “CAZZO NE SO, ME LO SPIEGHI UN PO’ LEI!”, e mi esibisco in un sorriso gentile e un po’ colpevole che, fossimo in un film, da solo varrebbe un Oscar.
- Io veramente- - comincio, con tutte le buone intenzioni del mondo, ma quello mi zittisce ricominciando a strillare.
- Non mi interessa! – sbraita, agitando le braccia con aria invasata, - Resta qui e sta’ zitto, fatti minuscolo, diventa invisibile!, qualsiasi cosa, non m’interessa, purché tu non rompa le palle!
In questo preciso istante – cioè, mentre lui mi sta ricoprendo d’improperi neanche fossi stato io a salire su quel dannato palco di mia spontanea volontà – lo chiamano.
- Signor Jost! – dicono, - Il concerto è appena finito e… c’è stato un disastro!
Il disastro, vengo a sapere poi, si è compiuto perché, a fine concerto, un gruppo di ragazze ha letteralmente abbattuto le transenne ed invaso la piazzola antistante il palco. Sento urlare parole sconnesse, questo Jost diventa improvvisamente una statua di sale e poi comincia a dare direttive in giro neanche fosse un generale dei marines, e tutto quello che so, dopo, è che mi ritrovo improvvisamente circondato da gente che mi spintona da un lato e dall’altro strillando “in fretta! Più in fretta! Verso il tourbus!”.
Non ho la minima idea di cosa mi stia capitando. Sono perso in un delirio cosmico. Il mio karma si sta ribellando contro di me. Giuro che non volevo affogare il criceto di mia sorella nel cesso, quando ero piccolo. È stato un terribile malinteso.
- Signor Jost! – strillo anch’io quando, nel mezzo del disastro, riesco ad intravederlo, - Io dovrei tornare da-
- Tu vieni con noi! – abbaia, afferrandomi per il cappuccio della felpa e trascinandomi dietro di sé, - Non posso mica passare di fronte all’entrata dello stadio e lasciarti lì!
Non capisco perché non possa, in realtà. E sono lì per dirglielo, anche, quando usciamo nel parcheggio e vedo in che condizioni è effettivamente l’ingresso dello stadio: ci saranno almeno tremila ragazze assiepate l’una sull’altra che strillano e piangono e si contorcono e Dio mio, è uno degli spettacoli più spaventosi ai quali mi sia mai capitato di assistere. Comincio a seguire il signor Jost di mia spontanea iniziativa, giusto per non intralciarlo mentre, palesemente, mi salva la vita.
Quando salgo sul tourbus, mi guardo intorno con aria smarrita. Qui si sta mettendo male, questo è evidente, ma il solo pensiero di tornare in mezzo al marasma mi terrorizza, sono ancora troppo giovane per morire e dubito che l’idea mi stuzzicherebbe anche se avessi una cinquantina d’anni, perciò resto buono e zitto e seguo il consiglio di Jost. Invisibilità. Io non esisto.
Mi seggo in un angolo e lì resto.
Il mondo torna ad accorgersi di me quando siamo già in autostrada. E ci siamo da una ventina di minuti buoni, almeno. L’incubo Burtoniano – uscito adesso dal bagno con un turbante di spugna in testa e una faccia da diva annoiata che ispira violenza come nient’altro al mondo – mi nota. Mi fissa. Mi scruta.
Mi fa una paura boia.
- Tu cosa saresti, esattamente?
Sono le uniche parole che mi dice. Ritengo di avere il diritto di rispondergli “potrei chiederti lo stesso” ma, l’ho già detto, sono un bravo ragazzo. Perciò taccio.
Vengo scaricato dieci minuti dopo ad una stazione di servizio nel bel mezzo del nulla. Jost mi ha consegnato personalmente venti euro e mi ha detto “cerca di arrivare a casa sano e salvo”. Io non ho ancora capito nemmeno chi fosse, quell’uomo.
Mentre sollevo il pollice e vengo caricato in auto da un vecchietto dall’aria viscida e dal sorriso inquietante che mi chiede “dove sei diretto, bel bambino?”, penso solo ad una cosa: non amare Martha è decisamente un motivo valido per mollarla. E mandarla pure a fanculo nel mentre, già che ci sono.
Quanto al resto, penso che non uscirò più di casa. Almeno per, facciamo, i prossimi vent’anni. E fanculo anche al karma.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Tom/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Slash.
- Dopo l'uscita del terzo album dei Tokio Hotel ed alla conclusione di un tour mondiale che avrebbe effettivamente potuto portare risultati migliori, dalla Universal giunge per Bill la possibilità di lavorare ad un album solista. Bill accetta. E il mondo di Tom crolla sotto gli occhi di David Jost - un testimone che avrebbe volentieri fatto a meno di questo ruolo.
Note: Tendo ad essere sempre piuttosto sincera ma poco obiettiva, nelle note finali delle mie storie, perché in genere le scrivo a caldo non appena conclusa la storia. Stavolta è diverso perché, appena finito di scrivere, ho chiuso ed inviato la storia a chi di dovere (dato che partecipava alla quarta Disfida dei Criticoni) concedendomi il tempo giusto di un paio di riletture alla ricerca di errori di battitura. Poi l’ho chiusa con una certa furia e l’ho lasciata decantare un paio di giorni, prima di riprenderla in mano.
Il fatto è che la sensazione, dopo due giorni, è la stessa di due giorni prima. Sono arrabbiata con questa storia e sono arrabbiata con me stessa per questa storia è___é La trama originaria – spero la si intuisca nello schifo – era bellerrima. L’ascesa ed il declino di Bill e dei Tokio Hotel erano un argomento di riflessione intrigantissimo ed avrei davvero voluto analizzare anche il rapporto che legava Bill a Brian, oltre che rendere in maniera di gran lunga più decente la strana relazione dei gemelli.
Purtroppo, il risultato finale non è che una bozza. Ebbene sì, questa è la bozza di ciò che avrebbe dovuto essere. E siccome io sono fisicamente incapace di riscrivere, sono perfettamente consapevole di aver sprecato una buona idea ed una buona trama per qualcosa che ritengo di gran lunga sottotono rispetto alla mia produzione e che ho finito per odiare proprio per questo. Anche perché la scena finale dei gemelli – quella dello strusciamento – era nella mia testa (ed è ancora, ma solo in potenza) veramente ma veramente bella. L’ho sprecata, del tutto. È una cosa abbastanza imperdonabile, ma cercherò di passarci sopra e fine XD
Alla fine, l’unica cosa mi piaccia davvero di questa fanfiction – oltre il concetto che ci sta dietro – è il titolo. Licorice vuol dire liquirizia, e l’ho scelto quando ho scoperto che le foglie di liquirizia hanno proprietà cicatrizzanti. Visto che questa storia parla di una frattura e della sua faticosa guarigione, mi è sembrato appropriato :)
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LICORICE

~I grandi eroi, quelli che vengono ghermiti da me, dalla Gloria, non sono mai esseri imperfetti.
Knockin' Hills, di Keiko

Tom non l’aveva presa bene, ma d’altronde nessuno si era mai aspettato che lo facesse, nemmeno per un secondo, perciò la cosa non stupì né David né i ragazzi né tantomeno Bill, che la reazione di suo fratello l’aveva prevista con una precisione così millimetrica da lasciare sconvolti. David, quantomeno, che pure era abituato a momenti di telepatia gemellare che sfioravano il fantascientifico, era rimasto profondamente turbato quando, dopo aver parlato con Bill dei piani dell’Universal nei suoi confronti, il ragazzo aveva sorriso tristemente ed aveva commentato “Tom darà di matto… non sarà mai d’accordo, si chiuderà a riccio e non mi lascerà mai fare senza un’assicurazione”.
Il copione si era dipanato seguendo pedissequamente quella traccia, in effetti: Bill aveva chiesto a David di non dirlo a Tom, di lasciar fare a lui, e David non aveva trovato nulla da ridire, a parte una punta di preoccupazione del tutto giustificata della quale però, col cantante, non aveva affatto parlato. Bill e Tom erano grandi, dopotutto, e si trattava di questioni di lavoro. Avrebbero dovuto adattarsi.
Quando Bill aveva rivelato a Tom che la Universal voleva lanciare la sua carriera da solista, Tom aveva effettivamente dato di matto. David l’aveva saputo per primo perché la prima cosa che il chitarrista aveva pensato di fare era stato mettere mano al telefono, chiamarlo ed informarlo che non se ne parlava nella maniera più assoluta.
“Non puoi rifiutare, Tom, la faccenda non riguarda te.”, aveva risposto lui, cercando di mantenersi serio e impassibile di fronte a quella che era palesemente la furia di un ragazzino ferito, frustrato, deluso e spaventato.
“Senti, David, la faccenda mi riguarda eccome. I Tokio Hotel-”
“I Tokio Hotel non hanno nulla a che vedere con tutto questo.”
“La Universal sta rompendo il cazzo perché l’album e il tour non sono andati bene, ma Bill non è pronto a-”
“Bill”, l’aveva interrotto lui con un sospiro esasperato, “ha già firmato un contratto.” S’era interrotto, dando modo a Tom di respirare pesantemente nella cornetta e cercare, probabilmente, di far spazio nei polmoni per accogliere la notizia. “Individuale”, aveva precisato dopo una lieve esitazione.
“…e quindi è così.”, l’aveva sentito continuare, ma la sua voce era lontana e gelida. Soprattutto, non stava parlando con lui. David sapeva che Bill si trovava lì, proprio al suo fianco, che c’era rimasto per tutto il tempo, e come sapeva questo sapeva che in quel momento stavano parlando fra loro. “Ci molli così?”.
E la voce di Bill era arrivata, lontana e metallica e spezzata.
“No, Tomi. È solo un album. Poi torniamo subito in studio.” E la telefonata si era interrotta.
David aveva evitato di precisare l’ovvio – cioè che dopo un album da solista sarebbe servita della promozione da solista, un tour da solista e dopo, probabilmente, anche un fottuto periodo di riposo da solista, se non volevano perderselo per esaurimento da stress – e si era semplicemente preparato ad affrontare il seguito.
Quando “il seguito” era arrivato, avvolto in un cappotto color crema e decorato di un sorriso sicuro e cordiale, a nessuno era sembrato che per Tom potessero esistere ulteriori motivi per prendersela.
Però era successo. Quando aveva posato gli occhi su quell’uomo, per qualche motivo, Tom se l’era presa di più.
*
Bill si dondolò sulla sedia, stringendo le ginocchia fra le dita intrecciate. Sorrideva ma il suo era un sorriso lontano. Eppure c’era nei suoi occhi la scintilla di chi è felice per davvero. David si chiese per quale motivo, se era davvero così felice, non lasciava che la gioia affiorasse al sorriso.
Si rispose da solo ricordandosi che i sorrisi di Bill tendevano ad essere perfino più sinceri dei suoi occhi.
- Quindi è lui… il mio produttore.
David annuì, sospirando appena.
- Bill, se per qualche ragione-
- Brian Molko… - lo interruppe lui, dondolando ancora un po’, - Hai idea di quanto… non lo so. È una cosa surreale.
- Non è mica la prima volta che lo vedi. – sbuffò il manager, stringendosi nelle spalle.
- No, ma… sapere che dagli studi di registrazione uscirà entro l’anno qualcosa di mio e suo… non è esaltante?
David ridacchiò.
- Solo per un fanboy ossessionato come te, Bill. – lo prese in giro, - Ricordati che è lavoro. Solo lavoro. Lo sai come funziona in questo mondo, non ci sono amici, solo colleghi.
Bill arricciò le labbra in un broncio offeso ed incrociò le braccia sul petto.
- Devi essere sempre così cinico?
- Maturo.
- Vecchio.
David rise e scosse il capo.
- Okay, okay. – concesse alzando le mani, arreso, - L’importante è che tu stia tranquillo.
Anche se non capisco perché non sei felice.
Bill sospirò e stese per bene le gambe, sgranchendosi un po’.
- Secondo te dovrei fargli vedere i testi che ho scritto?
David fece una smorfia.
- Quelli scartati per l’album dell’anno scorso, Bill?
- No, no! – rise il ragazzo, lievemente imbarazzato, - …altri.
- Che non ho visto?
- Mh. – annuì lui.
- Ed io non li ho visti perché…?
Bill scrollò le spalle.
- Conservati per un’occasione speciale.
L’uomo roteò gli occhi e si grattò la nuca. Poi porse la mano.
- Ora posso vederli?
Bill sorrise e ficcò le mani in quel suo enorme valigione d’alta moda che continuava a chiamare borsa. Ne riemerse con un taccuino sgangherato la cui copertina, sotto gli schizzi e i disegni senza senso di cui l’aveva ricoperta, non era più neanche identificabile.
David prese fra le mani quel plico di fogli e ne lesse qualche riga.
- …sembrano buoni. – ammise con non poco stupore. Erano davvero per un’occasione speciale. – Sì, penso che dovresti mostrarglieli, Bill.
*
Tom si stava aggirando attorno alla sua scrivania con la furia di un animale in gabbia. Gli brillavano gli occhi e le labbra erano talmente contratte e sottili da non riconoscersi neanche più sul viso. Praticamente scomparse.
La sua agitazione faceva da contrasto in maniera quasi disturbante con la cupezza priva di espressività di Georg e Gustav, seduti sulle poltrone proprio di fronte a lui. Con loro, David aveva parlato. Sapeva che la situazione non li turbava quanto invece turbava Tom.
Forse era proprio quello, il punto. Tom continuava ad insistere sulla fine annunciata dei Tokio Hotel. Georg e Gustav, però, non ne avevano paura. E non perché non fossero interessati all’eventualità, semplicemente perché non la credevano possibile nel momento specifico.
C’era decisamente un altro motivo, dietro alla rabbia di Tom.
- Le vendite non sono più costanti?
Tom non si era mai interessato del versante economico della carriera dei Tokio Hotel. Gli era sempre bastato, fondamentalmente, avere i soldi per concedersi i propri capricci e fare musica. Lì si fermava il suo raggio d’azione mentale. Lì s’era sempre fermato, almeno.
Adesso che Bill stava chiuso in sala di registrazione con Brian Molko per buona parte delle ventiquattro ore della giornata, però, improvvisamente tutto assumeva importanza più rilevante.
- No, Tom. – rispose David, sistemando sulla scrivania gli ultimi resoconti perché, passandogli alle spalle, il ragazzo potesse dal loro un’occhiata e non capirne comunque un accidenti.
- Che vuol dire questa linea? – chiese il rasta, puntando il dito su uno dei grafici.
- È il grafico dei profitti derivati dalla vendita dell’ultimo album.
- Va verso il basso.
David sospirò.
- Non tanto in basso. È un calo, è fisiologico, prima o poi succede con tutti i dischi. Pensi che, non lo so, Let It Be venda tanto oggi quanto ha venduto nel millenovecentosettanta? – Tom ringhiò e ricominciò ad orbitare attorno alla scrivania. – Oltretutto, il vostro indice di gradimento è stabile. Non sta salendo, ok, ma è stabile. Ti ho rassicurato?
Era buffo ritrovarsi a rassicurarlo per una cosa simile. Il suo compito avrebbe dovuto essere non esattamente quello contrario, ma quasi. In effetti, un calo di vendite dopo l’uscita di un album era fisiologico, ma non quando la linea dei profitti cominciava ad inabissarsi già a metà del tour promozionale. I tempi erano un po’ troppo ristretti. Abbastanza da preoccupare la Universal, almeno. Il nuovo contratto di Bill non era esattamente piovuto dal cielo. Come niente mai piove dal cielo nello show business.
- Voi non dite niente? – chiese Tom, abbattendosi con un salto sulla scrivania e sedendosi praticamente di fronte a lui.
Georg e Gustav non dissero niente davvero.
*
Bill continuava a sorridere in maniera sospetta e David non sapeva come estrarre la verità da quel suo visino da Sfinge.
- Sta andando tutto bene, sì? – chiese, passandogli il Big Mac.
Bill annuì ed addentò il panino con voracità felina. Un morso enorme e giù dritto in gola, come non avesse neanche bisogno di masticare.
- Dio, avevo una fame assurda! – commentò il ragazzo, lasciandosi andare contro la sedia e sospirando sollevato, - Ero chiuso in studio dalle sette del mattino, sai? Allucinante!
David sorrise e sorseggio la propria coca cola.
- Mi racconti un po’?
- Brian è… è fantastico. – partì subito Bill, con aria sognante, - Non so come faccia, mi legge nel pensiero, se io sono lì che mi sto agitando perché non riesco a venire fuori da un verso, lui me lo sbroglia subito! È meraviglioso!
David sorrise ed annuì comprensivo.
- Hai difficoltà a comporre direttamente in inglese?
Bill si strinse nelle spalle.
- Odio quella fottuta lingua. – commentò distrattamente, - Ma Brian è bravo ad usarla.
- E le canzoni che avevi già scritto in tedesco? Gliele hai poi fatte vedere?
- Sì. – annuì Bill, - Ma Brian le ha trovate un po’ infantili. L’idea andava bene, mi ha detto, ma andavano scritte in maniera più consapevole. Sai che ha addirittura ascoltato tutta la nostra discografia per farmi notare che ripetevo le cose un po’ troppo spesso…? È meraviglioso.
David annuì ancora.
- Quindi va… tutto bene, no?
Bill sorrise. Un sorriso piccolo.
Come può andare tutto bene se i tuoi sorrisi sono solo questi? Non sorridevi così, quando registravi con noi. Non sorridevi così a Tom. Questo sorriso è davvero troppo troppo piccolo per contenere la gioia che sei in grado di esprimere quando sei veramente felice.
- Tomi come...?
- È un po’… - esitò, cercando la parola meno allarmante, - turbato.
Bill si morse un labbro.
- Le vendite-
- Non parliamo di questo. – sorrise David, conciliante, - Il tuo panino si fredda.
Bill annuì.
*
Quella rivista scandalistica, Tom gliela gettò sulla faccia. Senza il minimo rispetto.
David annaspò, strinse gli occhi per il dolore assurdo che l’aveva inebetito quando la costina rigida del magazine gli aveva colpito la radice del naso e poi, quando la fottuta rivista ricadde inerme sulla sua scrivania, si ritrovò a fronteggiare un paio d’occhi talmente infuocati da fare male più del dolore stesso.
- Cosa cazzo vuol dire.
E non era una domanda.
David prese la rivista fra le mani, forzandosi di ignorare lo slogan che, già in copertina, attirava gli sguardi su un cerchio fuxia all’interno del quale faceva bella mostra di sé uno scatto che ritraeva Bill e Brian al tavolino di un bar poco distante dagli studi di registrazione. Niente di compromettente, ma David lo sapeva: la roba veramente succosa sta nascosta all’interno, di modo che tu debba per forza comprare per averla.
Pagina dopo pagina, trovò l’articolo. Supposizioni, insinuazioni, basate più che su Bill sulle voci che vedevano Brian in rotta con la propria compagna, slogan offensivi che facevano pressione sulla differenza d’età e sulla palese ammirazione sconfinata che legava Bill all’uomo più maturo.
La Universal avrebbe dovuto muoversi con cautela. Le foto c’erano, ma non erano pericolose come David aveva tenuto. Un abbraccio un po’ tenero e Brian che apriva la portiera a Bill.
Tutto e niente, come al solito quando si parlava di gossip.
- Cosa devo dirti, Tom? – chiese esasperato, stringendosi nelle spalle.
- Devi dirmi cos’è questa merda. E perché è su questo schifo di giornale del cazzo.
Il manager sospirò pesantemente.
- È merda. Ed è questo il motivo per cui sta su questo giornale. Perché è un giornale del cazzo. Contento?
Tom non fu contento, naturalmente.
- Stanno insieme?
- Tom!
- Li hanno visti. Si abbracciano. Perché escono dal cazzo di studio di registrazione? Non dovrebbero.
- Hanno ancora diritto ad una pausa di quando in quando. – protestò lui, aggrottando le sopracciglia.
- Non ce l’hanno, cazzo, no! – ritorse Tom, battendo una mano sulla scrivania, - Devono finire il prima possibile, noi abbiamo un album da realizzare!, e loro perdono tempo al bar, porca troia-
- Tom, calmati! – lo riprese il manager, scattando in piedi e fronteggiandolo da una posizione lievemente meno svantaggiosa, nonostante i numerosi centimetri di cui Tom lo superava in altezza. – Ed, a proposito del prossimo album dei Tokio Hotel-
L’espressione sul volto di Tom lo terrorizzò. Lo vide letteralmente trasfigurare, da furioso a terrorizzato e sconvolto e perso.
- …ci hanno silurati?
Spalancò gli occhi.
- Ma cha cazzo… Tom?! Ma chi ti ha messo in testa quest’idea assurda?
Il ragazzo si morse un labbro, guardando altrove.
- Le vendite-
- La Universal non è sul punto di scindere il contratto, Tom. Dimenticati quest’idea del cazzo e prenditi una vacanza, visto che non avere niente da fare e restare qui ti sta palesemente facendo perdere la testa!
- Non posso andarmene! – sbottò lui, tornando a guardarlo, - Devo… tenerli d’occhio.
David lo fissò, incredulo.
- Non ho idea di cosa tu stia dicendo, Tom. Sono molto preoccupato per te. Parla con Bill, fatti rassicurare, non lo so, qualsiasi cosa. Non puoi essere davvero così geloso.
Ed era quella la parola. Era quello il motivo. David osservò gli occhi di Tom farsi enormi e liquidi e confusi, e se ne rese conto. Finalmente. Il motivo. Gelosia.
- …Tom?
Il ragazzo scosse il capo.
- Io non sono geloso. – rispose seccamente, - Sono preoccupato. Per i Tokio Hotel. Cristo, David, sono la cosa più importante che ho, è naturale mi preoccupi dell’eventualità possano essere silurati!
Il ragionamento filava, tutto sommato.
La falla alla base, però, impediva a David di prenderlo sul serio: la cosa più importante per Tom non erano i Tokio Hotel. Era Bill.
*
Bill non sorrideva neanche più. Il brillio nei suoi occhi restava ma David cominciava a sospettare fosse la maschera che usava per tranquillizzarlo. A guardare Bill negli occhi non si sarebbe affatto detto fosse triste: perché gli occhi erano vivi e ardenti e brillavano in un modo tutto loro, nel modo esaltato in cui brillano quando sei in mezzo ad un progetto cui tieni e che sta andando a gonfie vele.
A guardarlo solo negli occhi, lo si sarebbe detto felice.
Il sorriso, però, s’era spento del tutto.
- Hai parlato con tuo fratello di recente, Bill?
Il ragazzo rise e lo fissò come fosse un nonnetto un po’ scemo che dimentica le cose.
- David, io e Tom viviamo insieme…
- E parlate?
Bill guardò altrove.
- …quanto alto dev’essere il volume della voce perché dal “parlare” si passi al “litigare”? – chiese con aria afflitta.
David scosse il capo.
- Non c’è neanche bisogno di urlare davvero, per litigare, Bill.
Il manager lo osservò abbattersi contro la scrivania e nascondere la testa fra le braccia, sospirando dolorosamente.
- Allora litighiamo. – mugolò, - Non capisco perché, David. Con Brian va tutto così assurdamente bene ed invece con Tom mi sembra di vivere in un disastro. Mi sento male alla sola idea di tornare a casa, perché so che ci sarà lui, là dentro, che mi guarderà come se lo stessi tradendo e… - si interruppe, probabilmente realizzando la portata di ciò che stava per dire. O che forse, fra le righe, aveva già detto. – Noi non siamo tanto normali. – concluse, tornando a rimettersi dritto sulla sedia.
David sorrise conciliante.
- Forse non dovreste realizzare un altro album coi Tokio Hotel, subito dopo il tuo da solista, non credi? – propose esitante, lasciandogli un’amichevole pacca sulla spalla.
Bill spalancò gli occhi.
- Tom mi ucciderebbe.
- E tu prendi e te lo porti alle Maldive, lo infili in una piscina piena più di ragazze seminude che d’acqua e risolvi il problema, no?
Gli occhi di Bill si fecero ancora più grandi, e le sue labbra si piegarono in una smorfia di puro disgusto.
Risolvere il problema? Evidentemente no.
*
David non stava facendo niente di particolare, quando il problema si palesò in tutta la sua enormità. Proprio perché non aveva niente di particolare da fare, anzi, s’era ritrovato testimone involontario di quanto stava accadendo dentro ai gemelli. E pressava per venire fuori.
Girovagava per gli studi senza una meta, alla ricerca di un distributore automatico di caffè che non fosse il solito, dato che era fuori uso, quando notò qualcosa di strano agitarsi in un angolo e gli sembrò di riconoscere quel qualcosa come l’onda morbida e scura dei capelli di Bill.
Ed un mugolio.
Un angolo, un mugolio, i capelli di Bill.
Pregò perché dietro quell’angolo non ci fosse Brian Molko, ma quando si mise a spiare – dandosi a bere la scusa del bravo manager che tiene d’occhio i propri pupilli – ciò che vide gli fece rimpiangere l’altra opzione.
Perché con Bill c’era Tom.
Non stavano facendo niente, ma non era necessario.
Bill era schiacciato contro una parete. Suo fratello era schiacciato contro di lui. Si guardavano.
- Mi stai facendo impazzire, cucciolo. – disse Tom, a due centimetri dalle sue labbra, - Perché mi stai facendo questo?
Bill guardò altrove ma suo fratello non glielo lasciò fare: lo afferrò per il mento e lo riportò occhi nei suoi.
- Non ti sto facendo niente, Tom. – si forzò a rispondere il moro, gli occhi socchiusi, - Sei tu che-
- Non ti ci voglio vedere più, con quel tipo.
- Stiamo lavorando insieme.
- Tu sei mio.
Un attimo di esitazione, un respiro strozzato.
- …lo so.
Tom sospirò e poggiò la fronte contro quella del fratello.
- Le registrazioni stanno andando bene? È un bell’album?
Bill chiuse gli occhi ed aggrottò le sopracciglia, lasciandosi sfuggire un lamento di puro dolore quando Tom si mosse contro di lui.
- Sì. – rispose a bassa voce, stringendo le dita attorno alla maglietta di Tom.
Il rasta annuì.
- Rescindi il contratto. – disse poi, seccamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Tomi-
- Rescindi il contratto. Non voglio che tu finisca quest’album. Non voglio vederlo nei negozi e non voglio neanche vederlo completo. Non voglio sentirlo, non voglio pensare che esista e ti rivoglio con me. Nei Tokio Hotel. Adesso.
Bill scosse il capo.
- Non posso, Tom.
- Tu non capisci. – strinse la presa attorno ai suoi fianchi, pressandoselo contro. – Stanno solo preparando il terreno. Se le vendite del tuo disco andranno bene… - sollevò una mano ad accarezzargli una guancia, - …e lo faranno, cucciolo… - scosse il capo, - se succederà, dei Tokio Hotel non rimarrà niente. Niente di niente. Ti prego, Bill, rescindi il contratto e torna a cantare con noi. Sarà un album meraviglioso, non dovrai pentirtene, ho già un mucchio di idee, ti prego, Bill, ti scongiuro.
Bill deglutì e chiuse gli occhi, sfiorando la guancia di Tom con le labbra.
- Io non lo capisco perché fai così… - sussurrò ad un centimetro dalla sua pelle, arreso ed estenuato.
Tom si mosse contro di lui ed il gemito di Bill diede a David tanti e tali brividi da costringerlo a pressarsi una mano sulla bocca per non rantolare qualcosa.
- Sì che lo capisci, cucciolo. Lo sai perfettamente. Non fartelo dire.
Bill chiuse gli occhi e chinò il capo.
Poi, semplicemente, annuì.
*
Solo in ufficio, David rimase a lungo ad aspettare l’arrivo di Bill. Cercò di capire dove avesse sbagliato, mentre attendeva. Se avesse sbagliato nello scegliere proprio due gemelli come cavallo di battaglia, o se avesse sbagliato dopo, quando li aveva uniti per sempre con un contratto più restrittivo di un accordo prematrimoniale. O se, infine, il suo errore non fosse stato quello di avallare una separazione che in fondo nessuno dei due voleva.
Bill non riusciva a sorridere perché non era per Brian che voleva cantare.
Tom non faceva che pensare alla morte dei Tokio Hotel perché erano i Tokio Hotel l’unica cosa che gli interessava mantenere in piedi. Per Bill, solo per lui. Non per le fan, non per la musica, ma perché era lì che Bill voleva cantare.
Quando il moro entrò in ufficio, si sedette alla scrivania e sciorinò la propria vacua sequela di giustificazioni e lamentele – aveva ragione Tomi, David, io non sono pronto, quest’album non mi convince, non voglio avviarmi come solista, possiamo per favore riportare tutto com’era? Tu puoi, giusto, David? – lui non trovò niente da obiettare. Non perché non potesse: avrebbe potuto rimproverarlo fino alla fine del mondo battendo sull’irresponsabilità palese che dimostrava, sull’impossibilità di fidarsi di lui per progetti alternativi e così via fino a stordirlo di chiacchiere.
Ma lui non aveva voce in capitolo, per quanto riguardava quella decisione.
Lui ne era l’esecutore materiale e lo scomodo testimone.
- D’accordo, Bill. Vedrò cosa posso fare.
Bill sorrise. Sorrise davvero.
- E quello che avete già prodotto? – chiese il manager, inarcando un sopracciglio.
Il ragazzo si strinse nelle spalle.
- Ricicleremo.
E tu, Bill? E Tom? Riciclate il non-detto che continuate a ripetervi da anni o passate al livello successivo?
Evitò di chiederlo. Sospettava che, così esplicitamente, non ne avessero mai discusso neanche gli stessi gemelli. La cosa importante, al momento, era che la frattura si fosse ricomposta. Fosse grazie alle strusciatine dietro un angolo agli studi o grazie all’insistenza di Tom o alla resa di Bill, non l’avrebbe probabilmente mai saputo.
E non era neanche così importante.
Sospirò. Il grafico delle vendite dell’ultimo album dei Tokio Hotel continuava a scendere.
Palesemente non erano i Tokio Hotel, quelli che si sarebbero salvati, alla fine di quella storia.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Tom/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, Slash, Violence.
- Storia breve del turbolento rapporto dei gemelli Kaulitz.
Note: Può non sembrare, ma in questa fic c’è un’attenzione al particolare che è disgustosa. È ambientata fra ieri ed oggi e tutti i tempi combaciano. L’Adolphus esiste davvero – ed è… *O* La cicatrice di Tom c’è sul serio. Bill ha davvero la fissa del lato destro del letto e Tom ha davvero la fissa del lato del telefono – o almeno così dicono. La teoria di Jost – quella che Bill sia “impazzito” e si sia femminilizzato a partire dalla fine del 2005, nasce dal fatto che la neechan mi ha esposto la stessa teoria vedendola nell’ottica delle foto di Tom con Ann-Kathrin. Che risalgono al novembre 2005, appunto. L’idea che ci sta dietro – spero si capisca, perché se no la fic sembra campata per aria XD – è che la “follia” sia scoppiata per gelosia.
Comunque sì, io con i gemelli violenti vado a nozze. E questa è, per certi versi, anche più violenta di Angry Sex. Non so se più bella XD A me, comunque, piace un sacco.
Baci <3
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IL LATO GIUSTO DEL LETTO

Lui e Bill avevano un rapporto turbolento, e questo non era un mistero per nessuno. Non avrebbe mai potuto esserlo, d’altronde, dal momento che litigavano giornalmente e, ogni volta, l’eco delle loro urla risuonava con tanta potenza da costringere chiunque all’attenzione. Pure coloro che se la sarebbero volentieri risparmiata, per dire.
Il loro problema era molto semplice: il loro rapporto era sempre venuto prima di tutto il resto; perciò, se avevano qualcosa da discutere, non c’era nessuna ragione che potesse giustificare il rimandare la questione. Sorgeva un problema? Si litigava e si risolveva.
Volavano botte, a volte, ma andava bene così. Ricordava ancora perfettamente una volta in cui s’era presentato da David con una guancia così gonfia da non poter neanche parlare.
“Dio!”, aveva strillato il manager, sollevando sconvolto le braccia in una movenza omosessuale in maniera così lapalissiana che, se non avesse sentito dolore praticamente in ogni parte del corpo, l’avrebbe costretto ad una risata tale da far tremare le pareti, “Dimmi che hai sbattuto contro un camion in corsa e che non è stato Bill a farti questo!”.
Tom aveva ghignato.
“E dovresti vedere le condizioni in cui è lui”, aveva risposto con aria furba.
In effetti, l’occhio nero di Bill era sopravvissuto per circa una settimana, prima di riassorbirsi e sparire.
In ogni caso, si trattava di episodi. Come nascevano, si esaurivano. Ed a tutti sembrava andare bene – per lo meno, a lui e Bill sembrava andare bene. Gli altri si adattavano, come sempre.
Era per questo che, anche riflettendoci per delle ore, non sarebbe mai riuscito a spiegare cosa cazzo fosse intervenuto a cambiare così tanto la loro normalissima quotidianità.
Da un paio di mesi a quella parte – una nullità, confrontata al resto della loro vita, ma abbastanza lunga da rompergli sufficientemente le palle – lui e Bill avevano cominciato a saltare la parte del “risolvere”, in favore di una specie di enorme guerra prolungata la cui intensità mutava giorno dopo giorno, confondendo il mondo intero. Alle volte erano battaglie di lunghi silenzi risentiti, altre volte scoppi d’ira ferocissimi ed irrefrenabili – anche qui con botte e tutto, sia mai farsi mancare un livido, non è corretto di fronte al kit di pronto soccorso che poi si sente trascurato, come commentava stancamente Gustav di tanto in tanto.
Per Tom, in effetti, la questione era un enorme mistero. A sentire David, tutto era cominciato molto tempo prima, intorno alla fine del 2005, quando Bill aveva deciso di farsi crescere i capelli e cominciare a truccarsi come una zoccola pure poco costosa. “Non te ne sei accorto?”, gli sibilava maligno il manager di tanto in tanto, “Assieme ai capelli è uscita la maggior parte del cervello, e ciò che è rimasto è stato atrofizzato dal kajal. Molto semplice!”.
Se solo avesse davvero voluto cominciare quella discussione con David, Tom avrebbe saputo esattamente cosa rispondergli. E cioè che del suo semplice pensava fosse molto inappropriato e basta. Perché con Bill non c’era mai niente di semplice. La sua testa era un enorme e disastroso gomitolo di complessità.
Bill aveva un talento enorme per complicare le situazioni. Gli piaceva rimuginare sulle cose. Perciò prendeva fatti di per sé innocui e riusciva – chissà come – a rigirarseli fra i neuroni così a lungo da trasformarli in apocalittici disastri.
Ed era sempre così.
Era per questo che riuscire a capire perché nello specifico fosse arrabbiato era così difficile. Perché stavi lì a fare l’elenco delle tue mancanze e sapevi con certezza che non avresti mai trovato l’unica che l’aveva definitivamente indisposto.
Sarà stato perché ho mangiato l’ultima caramella gommosa?
Sarà stato perché ho dimenticato di spruzzare il deodorante dopo essere uscito dal cesso?
Sarà stato perché mi stava dicendo qualcosa ed io non l’ho ascoltato?
Sarà stato perché mi ha chiamato ed io non me ne sono accorto?

Avrebbe potuto continuare all’infinito. La lista degli errori non aveva fine, perché ogni piccolezza poteva farne parte. Perché magari c’erano cose di cui tu neanche ti eri accorto ma che lui aveva preso per tremende offese in prima persona.
Bill era così, ormai c’era abituato.
Ma questo non gl’impediva d’incazzarsi come una bestia, quando accadevano cose simili.
Nell’ultimo periodo accadevano fin troppo spesso, c’era da ammetterlo. E Tom stava decisamente cominciando a sentirsi a disagio. Era per questo che poteva dire con certezza che David avesse torto e non fosse cominciato tutto nel lontano 2005: perché prima di allora Tom non s’era mai sentito a disagio con suo fratello. Alla fine del 2005 magari Bill aveva lasciato crescere i capelli ed aveva cominciato a truccarsi da troia. E magari loro due già litigavano e Bill ogni tanto gli allungava qualche ceffone da manuale, d’accordo.
Ma non gli tirava addosso le tazze col preciso obiettivo di spaccargli la testa.
Non lo colpiva con un gancio alla mandibola nel tentativo di scardinargliela.
Non lo prendeva a calci, stendendo quelle chilometriche gambe sul metro scarso che separava le loro cuccette, fino a riempirgli gli stinchi di lividi al punto da rendergli difficoltoso perfino camminare.
La stessa cosa, d’altronde, poteva essere detta di lui. Dal momento che Bill picchiava forte, nemmeno lui si sentiva in dovere di trattenere alcunché. E perciò giù pesanti col tirargli i capelli fino a torcergli il collo, lanciargli addosso il giubbotto stando bene attento a colpirlo con la zip o i bottoni, e tirargli sui fianchi certi calci da impedirgli di indossare pantaloni a vita bassa per settimane, in attesa della scomparsa del livido.
In realtà le botte con Bill non erano mai state “un problema”.
Cioè, lo erano – ovviamente – per chiunque, loro madre in prima persona, ma non per loro: era un’abitudine che avevano consolidato col tempo e… a pensarci era stato proprio lui ad iniziare. Bill aveva sempre avuto questa propensione smodata per il piagnisteo logorroico – nel senso che, quando cominciava a lamentarsi per qualcosa, andare a fermarlo era un’impresa impossibile; la cosa non lo infastidiva particolarmente, quando Bill si lamentava di altri.
Quando si lamentava di lui, però, diventava intollerabile.
Non sapeva perché. Non era convinto di essere un fratello perfetto. Anzi, sapeva di essere sostanzialmente il contrario, il più delle volte.
Però Bill aveva un liebe dich facilissimo, facile esattamente quanto l’hasse dich. Il punto era che sentirsi scivolare addosso il primo era bello come mangiare la nutella dal barattolo a cucchiaiate; quanto al sentire addosso il secondo…
Quello faceva schifo.
E perciò Tom odiava gli hasse dich di Bill. Li odiava con una furia sconcertante, li odiava dal profondo, non li tollerava nemmeno. Nach Dir Kommt Nichts lo irritava da morire soprattutto per quello, ed era, d’altronde, il motivo per il quale non era mai stata suonata dal vivo. Era una canzone d’impatto emotivo allucinante, David non l’aveva ancora perdonato per avere imposto che venisse estirpata dalla scaletta.
Lui non l’avrebbe mai suonata in pubblico.
Quando Bill cantava quella canzone, si ricordava tutti i motivi – i più stupidi, i più insignificanti – per i quali avrebbe potuto odiarlo.
Quella canzone era piena di hasse dich.
Era insopportabile.
Quindi, dovevano avere dodici anni all’incirca, e Bill aveva stabilito che avrebbe passato l’intero pomeriggio a lamentarsi di quanto Tom fosse un fratello orribile perché non s’era accorto immediatamente appena l’aveva visto che qualcosa era andato storto a scuola.
Il “fratello orribile”, quel giorno, aveva beccato un orribile sei – un sei, Dio – in matematica, e quindi aveva altri cazzi per la testa che non le paturnie di un gemello deficiente che magari non s’era sentito considerato come avrebbe meritato e quindi aveva pensato bene di cominciare a rompere le palle per rimettersi al centro dell’attenzione.
Perciò, il “fratello orribile”, quando il fratello lagnoso aveva cominciato, appunto, a lagnarsi, l’aveva menato. Punto.
Le parole per Bill contavano tutto e niente. Le sue erano importanti come lingotti d’oro, le altre – perfino quelle di Tom – valevano più o meno come la merda, perciò discutere con lui era del tutto impossibile. Un ceffone bene assestato e la sua guancia pallida era diventata improvvisamente rosso fuoco, ma – cosa ancora più importante – il fiume in piena s’era fermato.
Da allora era stato un crescendo. A Bill la novità era piaciuta tantissimo, tant’è che ci aveva preso subito la mano. In tutti i sensi, poi. La cicatrice sul sopracciglio destro – trattata dalle fan con un amore pari solo a quello che portavano al tatuaggio inguinale del suo gemello – non era che lo spiacevole ricordo di una cazzo di porta chiusa sulla faccia. Già.
Tom la nascondeva, non perché la trovasse antiestetica – non aveva un vero a proprio senso estetico, in realtà – ma perché mostrarla in giro gli faceva male. Era come quella dannata canzone: la prova provata che fra lui e Bill gli hasse dich fioccassero esattamente come i liebe dich.
E vallo a capire, quale contava di più per suo fratello.
*
In sostanza: gli ultimi due mesi erano stati impossibili, le botte erano volate con una frequenza spaventosa e David aveva quasi cominciato ad insistere perché uno di loro si spostasse nell’altro tourbus con Georg o Gustav, dal momento che quasi non c’era mattina senza che ci si svegliasse con gli strepiti di Bill ed i grugniti di Tom nella testa.
“Dovrete frenarvi, prima o poi. A meno di non volervi massacrare a vicenda”, era stato il secco commento del manager quando entrambi – uniti e compatti come sempre quando qualcuno cercava di separarli – avevano detto “mai e poi mai”.
Tom ebbe modo di pentirsi di quell’ostinato rifiuto – almeno da parte propria – quando la sera del ventisette agosto, tra grandi sospiri ed ostentata esasperazione, David gli disse che lui e Bill avrebbero dovuto dividere la stanza in albergo.
- …David, mi vuoi morto? – si ritrovò a chiedere con aria allucinata, mentre stringeva tra le mani la carta magnetica della camera. – Quello mi ammazza! Oggi è stato intrattabile tutto il giorno, con quei cazzo di pantaloni che continuavano a scivolargli di dosso non faceva che smadonnare e prendersela con me, cazzo!
In effetti, neanche la cintura quella sera sembrava in grado di tenere a posto i dannati pantaloni ricoperti di zip che Bill amava tanto, ed il continuo doverseli tirare su prima che gli cascassero alle caviglie aveva enormemente indisposto suo fratello, come Tom aveva avuto modo di provare sulla propria persona, quando, per chissà che miracolo, era riuscito a schivare la lattina vuota di Red Bull con la quale Bill aveva provato ad ucciderlo dopo una presa in giro un tantino più cattiva.
- Tom. – rispose David con un enorme sospiro stremato, - Avete voluto l’albergo più bello di Dallas? Vi ho trovato l’Adolphus. Non puoi pretendere anche che tutte le stanze siano vuote per il vostro piacere. Anche Georg e Gustav divideranno la stanza. Quindi, se non vuoi dormire con Georg, piantala di rompere i coglioni. – Tom aveva provato a protestare qualcosa, ma David gli aveva alzato addosso uno sguardo semplicemente incandescente, e le parole gli erano morte in gola. – Tom, è stata una giornata sfiancante ed abbiamo la sveglia alle cinque. Devo metterti a dormire con un colpo in testa?
Ci penserà Bill, tranquillo, fu l’amaro pensiero di Tom, mentre suo fratello rientrava dai cinque minuti di sigaretta che l’avevano tenuto lontano in giardino a smaltire nervosismo.
- Andiamo? – gli aveva chiesto Bill senza guardarlo negli occhi, il tono rude e secco che usava quando non voleva assolutamente sentirsi dire no.
Tom quel no gliel’avrebbe detto volentieri per puro sfregio, ma lasciò perdere.
La suite, in effetti, sarebbe pure valsa la pena di dividere il letto con Bill, se solo Bill non fosse stato così scazzato. Tom poteva leggerglielo negli occhi: c’era la luce cattiva e compiaciuta di quando si preparava a fare qualcosa di veramente scorretto.
- Ovviamente io dormo a destra. – aveva dichiarato il suo gemello, lasciando cadere sull’enorme divano in pelle marrone la borsa per la notte e dirigendosi a passo sicuro verso la camera da letto.
Tom l’aveva seguito subito, giusto per curiosità, preparando già sulle labbra il solito “d’accordo” senza sentimento che riservava alle stronzate come quelle. Tanto in genere il telefono stava a sinistra. Quando dormiva, stare dal lato del telefono era l’unica cosa che gli interessasse davvero.
Ovviamente, quella suite era troppo bella per non avere nemmeno un difetto.
Nel caso di specie, il fottuto telefono a destra.
Sollevò lo sguardo su Bill. Bill lo fissò di rimando.
- Non se ne parla. – intimò crudo il moro, scalciando in un angolo le scarpe da tennis e muovendosi svelto verso il letto.
- Bill, non fare lo stronzo. – si lamentò lui, imitandolo e sfilando anche il cappellino, posandolo con cura sul comodino. – Lo so che oggi sei furioso, ma non voglio litigare pure per dormire.
- Nemmeno io. – concordò Bill con un sorrisetto stronzo, - Perciò tu dormi a sinistra e basta. – concluse sfilando la cintura e lasciandosi scivolare i pantaloni lungo i fianchi. – Tanto, chi vuoi che chiami?!
- Non mi interessa, io dormo dal lato del telefono, come sempre, Bill. – rispose lui, sfilando la fascia e le magliette con una violenza tale che quasi si strappò via un paio di dread dalla testa.
Bill lo sferzò con un’occhiata semplicemente furibonda.
- Scusa, perché la tua routine dovrebbe valere più della mia? – chiese, mantenendo un tono falsamente casuale che si contrapponeva in maniera fastidiosissima al suo sguardo bollente, - Anche io dormo sempre a destra. Perché tu dovresti continuare a dormire dal lato del telefono ed io invece non posso continuare a dormire a destra?
Tom roteò gli occhi e scalciò via i pantaloni, rimanendo in boxer ed arrampicandosi sul letto.
Bill gettò lontano la maglietta e, con la movenza di un gatto che si avventasse sulla propria preda un attimo prima di lasciarsela sfuggire dalle grinfie, prese posto sul lato destro del letto, colonizzandolo. Tom, in ritardo di un paio di secondi, sbatté il viso contro le sue mani tese in avanti. Sbatté le labbra, per la precisione. A voler essere ancora più puntigliosi, il cazzo di piercing che indossava. E che, grazie alla botta, gli ferì il labbro superiore.
- Ma Cristo… - sibilò allontanandosi da lui e mettendosi in ginocchio sul materasso, tastando con aria incerta il labbro dolorante, - Cazzo, Bill, ma vaffanculo, oggi mi vuoi veramente fare fuori o che?!
Bill scrollò le spalle, infilandosi sotto le coperte ed arricciandosi attorno al cuscino.
- È solo un taglietto. – sminuì con aria superiore.
- Un taglietto il cazzo.
Gli ci volle un po’, per capire che l’aveva detto sul serio. In genere, cercava di tenere pensieri simili sepolti sul fondo del cervello; soprattutto quando doveva stare a contatto così ravvicinato con Bill, perché mancargli di rispetto in maniera così palese era un po’ come chiedergli di picchiarlo.
Gli ci volle ancora un po’ per capire che non s’era semplicemente limitato a parlare, no. aveva anche allungato una mano. E l’aveva afferrato per la spalla. E scrollato. Fino a rivoltarlo sul materasso come un’omelette, costringendolo a guardarlo negli occhi.
- Come hai detto, scusa? – chiese Bill, gelido e retorico, artigliandogli un polso con le unghia perfettamente laccate di nero.
- Un taglietto il cazzo. – ripeté Tom, senza abbassare lo sguardo, - Non osare mai più comportarti così con me.
- Strano. – ringhiò Bill, strattonandoselo di dosso e scattando a sedere a pochi centimetri da lui, rischiando di mollargli una sonora testata sul naso. E non era neanche sicuro che quella non fosse l’idea di base. – Stavo per dirti la stessa cosa.
E l’aveva schiaffeggiato.
A Tom servì un po’ anche per capire quello. Per qualche strano motivo – forse la stanchezza? – le sue percezioni sembravano rallentate.
Bill l’aveva schiaffeggiato. Con rabbia ed anche con un po’ di disgusto. In pieno volto. Fissandolo negli occhi.
Non era esattamente come tirargli un bicchiere o una qualsiasi altra cosa addosso. Uno schiaffo era diverso, uno schiaffo era esattamente come un hasse dich.
Lo schiaffeggiò a propria volta.
Ti odio anche io. Ti odio, ti odio, Cristo, ti odio.
Ti odio quando mi odi.
Ti odio perché non mi ami.
Cosa ti costa un liebe dich? Cosa?

Non passò molto prima che si ritrovassero annodati sul lato destro del letto, in un groviglio di pugni, calci, schiaffi e parolacce sussurrate a mezza voce contro le orecchie, contro le guance, contro il collo. La pelle di Bill era bollente come l’Inferno. Tom stringeva le mani attorno alla sua vita, percepiva sotto i polpastrelli la loro consistenza ossuta, lasciava scivolare il pollice contro l’ombra di un tatuaggio appena riconoscibile al buio, e tutto ciò che riusciva a pensare era che odiava il suo calore. Che amava il suo calore. Che voleva il suo calore e nient’altro, probabilmente.
Bill provò a sferrargli una ginocchiata fra le cosce, e Tom glielo impedì gettandoglisi letteralmente addosso, schiacciandolo contro il materasso con tutto il peso del proprio corpo.
Il ginocchio di Bill s’infiltrò comunque fra le sue cosce.
Ma non fu… doloroso.
Bill non se ne accorse comunque e, frustrato, fece l’unica cosa che poteva ancora fare: scattò in avanti e gli morse il collo. Con violenza. Con cattiveria.
Con una possessività che Tom non aveva mai sentito prima nei suoi tocchi.
E che però probabilmente c’era sempre stata.
Perché quando Bill gli metteva le mani addosso, lo faceva col preciso intento di prenderlo e stritolarlo fra le dita. Quando Bill gli faceva del male, lo faceva col preciso intento di lasciargli sulla pelle quanti più lividi possibile: per marchiarlo.
E questo Tom lo capì sentendo i suoi denti affondare nella propria pelle. Lasciare l’impronta e premere ancora, come scavando fra i nervi nel tentativo di raggiungere le ossa.
Lo strinse con più forza per i fianchi, spingendo il proprio bacino in avanti.
Suo fratello era eccitato.
Lui lo era stato dal primo momento in cui il suo ginocchio l’aveva sfiorato in mezzo alle gambe.
Bill si scostò da lui e lasciò andare un mugolio d’approvazione, andando incontro alla sua spinta e cercando di riprendere fiato. Riuscì in qualche modo anche a liberare le braccia, e lo strinse con forza attorno alle spalle.
- A me succede sempre… - confessò con voce roca e bassa, spingendosi a propria volta contro di lui, - Quando litighiamo, mi succede sempre. Cristo.
Tom ringhiò qualcosa di incomprensibile, che probabilmente non aveva senso neanche in partenza, e lo strinse dietro la schiena, continuando a spingersi furiosamente sul suo corpo, strisciando sulla sua pelle e godendo della frizione sublime della propria erezione sulla sua.
- Vaffanculo. – gli bisbigliò in un orecchio, leccandolo voracemente lungo il collo, - Allora lo fai apposta?
- No. – rispose cupamente Bill, ansimando in maniera incontrollata, - Sì. Forse. Non lo so. Me ne frega un cazzo. Muoviti.
Era un ordine perentorio e, per quanto in genere gli seccasse darla vinta a Bill, quella volta Tom non aveva alcuna voglia di disobbedire. Ed infatti non lo fece: continuò a stringerselo forte contro, strusciandoglisi addosso e succhiandogli un lobo, mentre Bill gli ansimava in un orecchio e gli lasciava scivolare addosso un paio di mani affamate e confuse, marchiandogli la pelle con le unghia, facendogli male – perché no, quello non poteva mancare, assolutamente, sia mai la cassetta del pronto soccorso si senta trascurata, eh, Gustav? – e continuò a scoparlo senza scoparlo davvero, a lasciarsi scopare senza neanche sfilare i boxer, finché non venne contro lo stesso tessuto ormai bollente e sudatissimo e, stremato, si abbatté contro di lui, immobile.
Bill provvide a se stesso spingendosi ancora un paio di volte contro la sua gamba.
E poi rimasero in silenzio, ancora annodati, l’uno sull’altro, dal lato giusto del letto.
Nessun vittorioso, nessun vinto.
All’esclusiva si poteva anche rinunciare.
D’altronde, Bill era a destra e Tom era vicino al telefono.
Tutti contenti. No?
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Tom/David, Tom/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, Slash.
- Il sesso raccontato da Tom Kaulitz. In tutte le sue possibili sfumature.
Note: Okay, un attimo fa stavo parlando con Yul e lei mi stava graziosamente ricoprendo di immeritati complimenti, poi sono andata a controllare il pollo per la cena e, nella strada fra la cucina e lo studio, al ritorno, ho realizzato che in questa storia Tom è l’uke. Cioè. Ho scritto sette pagine di porno – più o meno – senza accorgermene. No, sul serio, la mia testa ha dei problemi. Gravi °_°
A parte queste facezie, comunque, è una storia cattiva e sporchissima, e perciò ovviamente io la amo XD Credo di aver superato perfino la schiettezza della Favola Storta. Probabilmente perché quella storia era narrata da Bill che un po’, nelle favole, voleva ancora crederci. Qui, invece, pur non essendoci prima persona, la narrazione è talmente… influenzata, diciamo così, dal POV di Tom, che è… insomma, a me sembra quasi squallida XD In realtà non lo è, però lo sembra. Brr. XD
Il twincest s’è infilato a tradimento. Mi sa che c’è qualcosa di serio da parte di Bill per Tom XD Non lo so con certezza perché in realtà questa storia non l’ho pensata. L’ho sentita, scritta e basta XD Comunque tendenzialmente voleva essere una Tost (per Yul, ovviamente), solo che poi, boh. Cioè, Tom è più Tom così. *abbraccia pansessuale!Tomi*
Altro da dire non c’è XD Se non che nelle intenzioni doveva essere più spinta che cattiva. Ha finito per essere, credo, più cattiva (esibita?) che spinta, ma non me ne pento è_é Spero vi sia piaciuta :*
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WET DREAM WALKING

Tom adorava i sogni bagnati.
Nell’incoscienza del sonno, poteva quasi sentirsi sorridere, quando ne viveva uno. Adorava la sensazione che gli si spandeva per il corpo, riempiendogli il petto, stirandogli le gambe, arrossandogli le guance, inumidendogli le labbra. Adorava sentirsi pieno e teso al limite.
Una volta David l’aveva svegliato nel bel mezzo di uno di quei sogni, chiedendogli di malo modo se si stesse masturbando.
Ancora rintronato, lui gli aveva sbraitato in faccia che non stava facendo niente del genere, stava solo sognando.
David aveva sgranato gli occhi, sconvolto.
“Sembravi a un passo dal venire, giuro…”, aveva balbettato incerto.
Ero ad un passo dal venire”, aveva confermato lui con uno sbuffo infastidito, tornando a dormire.
Era consapevole del fatto fosse una cosa che nessuno riusciva a capire. Perfino Bill – che viveva i sogni erotici nello stesso identico sporchissimo e splendido modo – se ne vergognava come un ladro. Tom lo sentiva, quando succedeva, ed andava ad infastidirlo apposta, chiedendogliene i dettagli. Bill si nascondeva pudico e gli dava del pervertito.
A Tom quel tipo di piacere non causava il benché minimo imbarazzo. Il sesso gli piaceva in ogni forma. Da solo riusciva ad amarsi bene. Quando scopava con qualcun altro, amava ancora meglio. Ma nei sogni non partiva tutto da lui, nei sogni era amato e basta. Non doveva fare niente, dare niente, pensare a niente.
Bastava prendere. Prendere tutto. Fino in fondo. Ed era stupendo.
Adorava in particolar modo il momento in cui entrava nel dormiveglia e continuava a trattenere le sensazioni del sonno profondo, stringendole quasi fra le dita. Aveva un controllo maggiore del proprio corpo, però, e questo significava una mobilità più consapevole, più mirata. Significava che, se c’era qualcosa di morbido contro cui strusciarsi, lo si poteva fare. Significava inarcare la schiena e sentire la tensione accumularsi e poi sciogliersi di colpo in tutti i muscoli. Significare spingere i piedi contro – cos’era quello? Lo scheletro del letto? Il bracciolo del divano? – e sentire quel misto di dolore e piacere che anticipa i crampi e che si scioglie nell’orgasmo quando non puoi più frenarti.
Significava socchiudere gli occhi con un sorriso soddisfatto. Il sorriso di chi se l’era goduta proprio tutta.
Dalla scrivania, per metà nascosto dallo schermo del computer, David lo guardava con palese divertimento, un sopracciglio sollevato ed il sorriso stronzo col quale condiva ogni commento sarcastico.
- Lo stavi facendo di nuovo. – commentò infatti l’uomo, incrociando le braccia sul petto.
Ancora troppo compiaciuto per potersi davvero arrabbiare, Tom sorrise e si stiracchiò, intrecciando poi le mani dietro la nuca e sistemandosi meglio sul divano.
- Avresti dovuto esserci. – rispose invece, guardando il soffitto bianchissimo, - Il miglior fottuto orgasmo della mia vita.
David sbuffò, socchiudendo lo schermo del portatile ed alzandosi in piedi.
- Sai che questa mania è frustrante?
Tom sollevò gli occhi nei suoi, sorridendo furbo.
- E perché mai?
David sorrise a propria volta, chinandosi a baciarlo sulle labbra.
- Come si fa a competere coi sogni?
*
Inizialmente, David gli era piaciuto proprio per quel motivo. Il sesso era stato la ragione principale della loro relazione. L’unica ragione, per meglio dire.
Era successo casualmente – come sempre: il sesso non è mai preventivato; quando lo è, fa schifo – non avevano né bevuto troppo né voglia di provare qualcosa di nuovo, né soprattutto nulla da dimostrare l’uno all’altro o a chiunque altro al di fuori di loro. Era semplicemente successo che Tom sollevasse lo sguardo su David che prendeva il caffè sul tourbus al mattino, e trovasse sexy la rada barba che gli copriva il mento e le guance.
Era stata la suggestione di un attimo, ma gli aveva impegnato il cervello, tutto, per un sacco di tempo. Aveva finito il latte, s’era alzato dal proprio posto, l’aveva raggiunto, afferrato per la nuca e baciato. Non era mai stato tipo da farsi particolari problemi sul chi baciare e sul perché farlo. Lo faceva e basta. Ricordava di una volta in cui le ragazze al liceo l’avevano costretto a giocare al gioco della bottiglia, ed era casualmente capitato gli toccasse di baciare Bill. Se suo fratello non fosse letteralmente scappato in giardino, abbandonando la festa, lui l’avrebbe baciato e basta. Anche Bill era sexy, quella sera. Era un motivo sufficiente.
David s’era separato da lui dopo qualche secondo di confusione. Il bacio era stato sofferto – David non aveva voluto saperne di abbandonarsi e basta – ma il sapore del caffè sulla sua lingua era piacevole sulla propria, perciò poteva dichiararsi soddisfatto.
- …è vero che i ragazzini sanno di latte. – era stato il commento dell’uomo, quando aveva ritrovato il fiato.
Tom aveva riso e l’aveva baciato ancora.
- Stavolta sapeva di cappuccino. – aveva commentato a propria volta, leccandogli malizioso le labbra, prima di staccarsi da lui e tornare a mangiare biscotti un secondo prima che Bill uscisse dalla propria cuccetta, lamentoso a disfatto come ogni mattina.
La giornata era passata in maniera incredibilmente divertente: David aveva continuato a tempestarlo di occhiatacce stranite per tutto il tempo, Bill se n’era accorto ed aveva a propria volta cominciato a tempestare entrambi di domande apparentemente semplici e intimamente complicatissime, al punto che entrambi avevano ritenuto molto più saggio non rispondere.
Alla fine, Bill aveva messo il broncio. Tom gli aveva regalato un polsino. Bill era tornato a sorridere e tutto aveva ripreso a girare secondo il suo giusto corso.
Tranne le occhiatacce di David, che erano rimaste le stesse fino a sera.
- Si può capire perché mi fissi come se ti avessi violentato? – aveva chiesto quella sera stessa, digerendo faticosamente la pizza coi peperoni che Bill aveva provveduto ad ordinare per cena, - Ti ho solo baciato!
David aveva lanciato un’occhiata allarmata al Kaulitz dormiente contro la spalla di quello che gli stava parlando, e Tom aveva risposto con un ghigno consapevole.
- Dorme davvero. – l’aveva rassicurato, - Tranquillo.
Il manager aveva annuito compitamente, intrecciando le dita sul tavolo, di fronte alla tastiera dell’immancabile portatile, e poi aveva deglutito con palese imbarazzo.
- Tom, quello che è successo stamattina…
Tom s’era alzato, adagiando Bill sul divanetto e dirigendosi verso David. Aveva fatto ruotare la sedia e gli si era seduto in grembo.
- …era solo una pallida introduzione rispetto a quello che succederà stanotte. – aveva concluso per lui.
David non aveva risposto.
S’era limitato a deglutire ancora.
*
Le prime parole che gli aveva detto, ancora attorcigliato a lui su quell’indecenza di letto minuscolo nell’area notte del tourbus che divideva con suo fratello, erano state qualcosa di profondamente maleducato e profondamente stronzo, se ne rendeva conto. Qualcosa tipo “vali molto più di quello che ti pagano per contratto!”. Lo disse ridendo e lesse negli occhi di David un tale senso di mortificazione che per un secondo – uno solo – si sentì quasi perfino in colpa.
- Adesso non prenderla male. – si sentiva scemo a dover fare discorsi simili. Di solito è l’adulto del caso che rassicura il ragazzino del caso, non il contrario. – Intendevo che è stato bello.
- È stato… - aveva cominciato David, incerto, - Tom, ma che cazzo stiamo facendo? Che cazzo stai facendo?
Tom era rotolato su se stesso, piantando i gomiti sul materasso ed inarcando la schiena per guardare David dall’alto.
- Mi piace come scopi. – gli aveva detto, - Avevo pensato che mi sarebbe toccato fare fatica, per prendermi ciò che volevo. Sembravi così riluttante… - aveva sospirato e sorriso, chinandosi a scrutarlo da vicinissimo, - Ed invece poi è stato come se volessi darmi tutto senza chiedere nulla in cambio.
David l’aveva afferrato per i dread, allontanandolo con violenza.
- Il mio cazzo stava su per il tuo culo. Ecco cosa mi sono preso in cambio. – aveva detto con una secchezza incredibilmente fastidiosa.
Tom gli aveva regalato il sorriso più storto della sua intera esistenza.
- Bene. – aveva commentato, - Allora non ti sei preso niente più rispetto a quello che volevo darti.
David aveva deglutito a fatica.
- Tu stai scherzando, mi auguro.
Tom aveva riso forte.
Dall’area-giorno del tourbus, Bill aveva mugolato un “Tomi…” piagnucoloso. Tom s’era sollevato sulle braccia, aveva indossato i boxer e l’aveva raggiunto senza una parola di più.
*
Quando, dopo un paio di giorni, Tom era tornato a pretendere soddisfazione, David s’era mostrato sinceramente stupito. Doveva aver davvero pensato che fosse stato un errore, o al massimo una cosa da una sola volta.
Tom gli si era strofinato contro. Era già duro da impazzire.
- Tom?! – aveva strillato David, guardandosi intorno allarmato, - Dove sei stato, fino ad ora? – aveva chiesto poi, indicando l’orario sullo Swatch che indossava.
- Scopavo. – aveva risposto lui senza pensarci, continuando a strusciarsi contro la sua gamba.
- …con chi? – era stata la sofferta domanda del manager.
Tom aveva sorriso.
- Bionda, figa e buona a niente. Non sono venuto. Provvedi tu?
- Cristo… - aveva sussurrato l’uomo, passandosi una mano sugli occhi, - Tuo fratello?
- Importuna Georg. – aveva risposto lui, salendogli letteralmente addosso, - Vuoi darti una calmata, riguardo a Bill? Quando sarà un pericolo, ti avvertirò.
David aveva sorriso stancamente.
- Come se t’interessasse.
- M’interessa.
- Di Bill. Non che sia un problema per me.
Tom aveva sbuffato.
- Queste sono menate che accetto da mio fratello e basta. – s’era lamentato, zittendolo con un bacio rude e violento, - Perché sì, lui è Bill. Tutto il resto è sacrificabile. Se non ti sta bene, mandami a fanculo e smetti di scoparmi. Per me è okay.
Fortunatamente, David aveva trovato molto più piacevole infilargli una mano sotto i millemila strati di magliette che indossava.
Ecco un altro motivo per cui David gli piaceva tanto: molte domande, ma poche che valessero davvero qualcosa.
*
Quando Bill li aveva scoperti, Tom era riverso sul letto e si stava masturbando. David l’aveva preso da dietro e lo stava fottendo con una violenza squisita. Avevano litigato furiosamente perché David era dell’avviso dovesse tornare prima la notte, mentre Tom era fermamente intenzionato a continuare a fare esattamente il cazzo che gli pareva. Aveva giocato la carta della gelosia, gli aveva detto “non stiamo insieme, David, non ti aspettare fedeltà”, ma era stata una furbata e basta: sapeva che David non stava parlando per gelosia ma solo perché addormentarsi alle cinque del mattino in tour e con il soundcheck fissato alle sette poteva non essere una scelta saggia.
Tom non era tipo da scelte sagge, altrimenti non avrebbe mai cominciato a farsi scopare dal proprio manager.
Non avrebbe saputo spiegare esattamente come dal litigio si fosse passati al sesso, comunque era stata un’ottima scelta.
Stava lì, chino sul materasso, David spingeva da dietro schiacciandolo verso il cuscino e Tom poteva sentire solo gli ansiti di entrambi, il dolore netto alla base della schiena per la posizione scomoda ed il piacere del tutto personale della propria mano attorno al cazzo.
E poi, all’improvviso, aveva sentito il profumo della lacca per capelli.
Bill aveva quel profumo lì. Veniva prima del suo sciccosissimo dopobarba, prima dell’odore pastoso dei trucchi, prima del detersivo neutro che usava per lavare i vestiti, prima dello zucchero appiccicaticcio del lucidalabbra e di quello altrettanto fastidioso delle caramelle che teneva perennemente in bocca.
Bill profumava di donna perché Bill profumava di lacca.
- Oddio…
Quando aveva sentito quell’invocazione disperata, Tom sapeva già che Bill era lì. L’aveva sentito eternità prima.
David non avrebbe potuto dire altrettanto, però. Tom lo sentì pietrificarsi, mormorare un’imprecazione sconvolta e cercare di separarsi da lui. L’aveva afferrato per i fianchi, spingendoselo contro fino in fondo, fino a farsi male.
- Se ti fermi ti ammazzo. – aveva minacciato con un ringhio insofferente. Poi s’era rivolto a Bill, che era ancora fermo sulla soglia della zona notte, gli occhi spalancati e le mani serrate attorno alla bocca, - Bill, ti dispiacerebbe aspettarmi fuori? – aveva chiesto, cercando di recuperare la calma, - Ne parliamo, promesso.
Bill aveva annuito, ancora in evidentemente stato confusionale, ed era scivolato oltre le tende, verso i posti a sedere sul retro del tourbus.
Chiaramente, non c’era stato verso di concludere. David aveva cominciato ad agitarsi come un’anguilla nel momento esatto in cui Bill era sparito, e non c’era più stato modo di convincerlo ad andare avanti. Con un grugnito di disapprovazione, Tom gli aveva dato del buono a nulla e l’aveva fermato quando David aveva fatto cenno di volere uscire per raggiungere Bill.
- Se ci vai tu ora, ti cava gli occhi. – l’aveva avvertito atono, - Lascia perdere, è una cosa fra noi.
David aveva protestato vagamente, ma s’era arreso ed era ricaduto sul letto – il letto di Tom. Faceva strano vederlo lì, ansioso teso e nudo, una mano fra i capelli e le lenzuola buttate svogliatamente addosso. Era abituato a vederlo fra quelle lenzuola quando scopavano, ma così no. Era un po’ troppo intimo, per i suoi gusti.
- Vado di là. – aveva annunciato con una scrollatina di spalle, - Ti dispiacerebbe rivestirti e non farti trovare, quando torno? Probabilmente Bill sarà con me.
David gli aveva alzato addosso uno sguardo infuocato, l’aveva mandato a fanculo, si era rivestito ed era uscito ancora prima che Tom potesse infilare i boxer. Tom l’aveva sentito strepitare “fermati!” all’autista con una tale enfasi che il pover’uomo aveva inchiodato all’improvviso, e dal fondo del tourbus s’era sentito qualcosa rotolare e qualcuno mugolare un piagnucolosissimo “ahi”.
Mentre David abbandonava la vettura, facendo ampi cenni al tourbus di Georg e Gustav – che li seguiva a qualche metro di distanza – perché si fermasse, Tom s’era reso vagamente presentabile ed aveva raggiunto Bill. L’aveva trovato ancora per terra, sulla moquette rossa e impolverata che rivestiva tutto l’ambiente, mentre fissava con aria sconsolata una macchia di gomma da masticare sul pavimento, le gambe ripiegate sotto il sedere e le braccia molli a ricadere lungo le cosce.
- Fatto male? – aveva chiesto con un mezzo sorriso, porgendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.
Bill l’aveva guardato con un misto di insofferenza ed imbarazzo.
- Sono ancora insensibile al dolore fisico. – gli aveva risposto, sbuffando platealmente.
Tom si era seduto tranquillamente su una delle poltroncine attaccate alla parete, ed aveva fatto segno a Bill di accomodarsi sulle sue ginocchia.
Bill aveva obbedito, arrotolandoglisi addosso come faceva sempre quando era mortalmente triste.
- Sai di lui… - gli aveva sussurrato nell’orecchio, sfiorandogli una guancia con la punta del naso, - È sexy. Eravate sexy, sul letto.
- Ti è piaciuto lo spettacolo? – aveva chiesto lui di rimando, sorridendo furbo.
Bill aveva sospirato, scrollando le spalle e distendendosi sul suo petto.
- David sembra forte. È bravo?
- Ti risulta che mi conceda meno del meglio?
- Mi risulta tu sia un pervertito e basta. È bravo o no?
Tom aveva sospirato e l’aveva baciato su una guancia.
- È forte davvero. Se vuoi te lo presto un po’. – aveva commentato con una risatina divertita.
Bill l’aveva schiaffeggiato sul braccio.
- Non parlarne così. Io voglio bene a David.
- Anche io.
- Tu vuoi bene solo a te stesso.
- È vero. – aveva riso Tom, stringendolo alla vita, - Ad entrambe le parti di me stesso.
Bill aveva sospirato ancora, mugolandogli sul collo.
- Cosa ti devo dire, Tomi?
- Non lo so. – aveva risposto lui con un’altra scrollatina di spalle, - Per te va bene?
- Mi stai chiedendo il permesso? – aveva chiesto Bill, ridendo forte.
- Non dirlo come fosse una novità. – s’era lamentato Tom, aggrottando offeso le sopracciglia, - Lo faccio sempre.
Bill gli si era rivoltato fra le braccia, salendogli addosso a cavalcioni ed incrociando le gambe dietro alla sua schiena. I loro bacini si erano scontrati con forza e Tom aveva ricevuto chiarissima la percezione fisica di quanto lo spettacolo di poco prima dovesse avere impressionato suo fratello.
- Io vengo sempre prima? – gli aveva sussurrato Bill, fissandolo cupamente ad un millimetro dal suo viso.
- Prima e dopo. – aveva risposto Tom, lasciandogli scivolare una mano fra le cosce. – Sssh. – aveva sussurrato, quando Bill aveva provato a tirare fuori una protesta, - Ti aiuto e basta.
Bill aveva reclinato il capo contro la sua spalla e Tom l’aveva preso per un “ok”.
*
- Che cosa diamine vorrebbe dire che hai risolto la questione?
Erano state queste le prime parole di David quando, l’indomani – dopo aver dormito in poltrona, con Bill, il suo profumo ed il suo orgasmo addosso – era andato a dirgli che non c’erano più problemi di sorta ed avrebbero potuto scopare allegramente senza preoccuparsi di nessuna ritorsione da primadonna offesa.
- Non esiste, Tom, ci siamo divertiti, è durata quanto è durata, ma tuo fratello-
- Mio fratello non ha problemi in merito.
- Tuo fratello ieri stava davanti alle cuccette e ci guardava come fossimo assassini!
- David, e che cazzo, tu non c’eri, non puoi saperlo!
- C’ero, Tom, Cristo santo, c’ero eccome!
Tom aveva incrociato le braccia sul petto, sbuffando sonoramente.
- Non dentro la sua testa. – aveva risposto piano.
David s’era lasciato andare contro il portatile, abbattendosi letteralmente sul monitor che aveva ripiegato sulla tastiera.
- Senti, Tom, questa faccenda della telepatia gemellare era già poco credibile come stronzata da dare in pasto alle fangirl, se tu pensi che me la beva-
- È la verità. – aveva ribadito lui, piccato. Poi, rendendosi conto che, continuando sulla via dell’ostilità, non avrebbe cavato un ragno dal buco, aveva sorriso e gli si era avvicinato, abbracciandolo da dietro e strofinando il naso contro la sua nuca. – Avanti… non succederà niente, Bill l’ho calmato io… non ti piaceva scoparmi? – aveva riso a bassa voce, leccandogli il collo e godendo del sapore salato della sua pelle, - A me piaceva sentirti dentro…
- Tom, smettila. – l’aveva pregato David, chiudendo stancamente gli occhi.
Lui aveva sorriso più apertamente e gli aveva sfiorato l’inguine.
- Sei già duro. – aveva constatato, concedendosi una risatina. S’era separato da lui il minimo indispensabile per sfilarsi le magliette ed osservarlo ruotare sulla sedia, cedendo al bisogno di guardarlo. – Allora? – aveva chiesto, lasciandosi scivolare una mano lungo il petto, - Vieni o no?
David s’era alzato e l’aveva letteralmente inchiodato alla parete.
- Non puoi permetterti di trattarmi così. – gli aveva sibilato addosso.
Tom aveva riso ancora e gli aveva leccato le labbra.
- Insegnami un po’ di buona educazione. Vuoi?
David l’aveva baciato con tanta forza che Tom s’era ritrovato più volte a sbattere la testa contro il muro, dietro. Ed era stato tutto meno che spiacevole.
*
Fosse stata una questione di abitudine, il gioco non sarebbe durato per più di un mese. Tom era un abitudinario in molti ambiti della propria esistenza: i vestiti, i capelli, la musica, Bill, ma sicuramente non nel sesso. Il sesso doveva variare. Il più spesso possibile. O diventava noioso.
Il problema del sesso per abitudine era anche che provava a convincerti ci fosse qualcos’altro sotto. Prendere una groupie e trasformarla in una scopata regolare sarebbe stato un errore madornale, per esempio, perché la tipa poi avrebbe cominciato a pensare “magari torna perché mi ama”, e quella sì sarebbe stata la fine.
No, il sesso funzionava – ed era bello – proprio quando dietro non c’era nulla.
Era per questo che, a parte qualche raro caso, tra lui e Bill non ce n’era. Perché non c’era sesso, okay, ma c’era tutto il resto.
Con David, invece, di sesso ce n’era proprio tantissimo. Sempre, poi. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Era una cosa divertente e pure abbastanza stupefacente, ricordava di aver commentato la sua iperreattività una volta con una risata ed un “sei molto più arrapato di un adolescente, credimi” che David aveva preso malissimo, peraltro.
Ma non era neanche per la quantità che continuava a tornare da lui. Non era per la quantità, non era per presunta tenerezza, non era per affetto e non era nemmeno per capriccio.
David sapeva farlo sentire amato.
Era una cosa che Bill gli aveva detto spesso, in passato. Gli aveva detto “vedrai, troverai qualcuno che ci riuscirà. Ti farà sentire amato”. Dietro gli occhi di Bill c’era anche un “ti darà quello che non posso darti io” che era una delle poche cose nella sua esistenza che fossero state in grado di farlo sentire triste come se l’avessero frantumato, ma non era qualcosa cui potesse pensare con superficialità – non era qualcosa cui potesse pensare e basta – perciò alla fine aveva smesso.
Aveva smesso anche Bill. Di dirglielo. “Rassegnati, cucciolo, nessuno a parte te può farmi sentire amato, perché nessuno a parte te potrà mai sentirsi amato da me”, gli aveva detto un giorno, e Bill aveva sorriso e scosso il capo, prima di baciarlo timidamente all’angolo della bocca.
Alla fine, però, era successo.
Tom non stava facendo niente per far sentire amato David. Perché non lo amava.
Ma David… David sembrava che neanche ci provasse, ma lo faceva sentire amato comunque.
Era il suo modo di muoversi, il suo modo di guardarlo… non era neanche qualcosa che Tom percepisse con nettezza, la maggior parte delle volte, però c’erano dei momenti ben precisi – quando erano completamente soli, o poco prima di addormentarsi – in cui lo sentiva chiaramente sulla pelle. Per esempio, ogni tanto David lo abbracciava. E non lo faceva per sesso né per abitudine né per chissà che altro motivo, erano lì e lo abbracciava, punto. Gli faceva passare un braccio sulle spalle e lo stringeva a sé. Il che era anche un po’ ridicolo, a volte, visto il divario d’altezza che li separava, ma il più delle volte finiva con l’essere tenero e basta, ecco.
Oppure, era perfettamente in grado di capire quando avesse voglia di farsi scopare con foga e rabbia, piuttosto che con una pigra e rilassante lentezza. O viceversa. Intuiva alla perfezione i suoi desideri e li realizzava senza la minima difficoltà.
Forse era proprio per questo che continuava a tornare. Continuava a raggiungerlo.
Ne sentiva perfino la mancanza.
Durante l’ultimo tour europeo s’erano mossi senza di lui, che aveva da fare in Germania a causa dei preparativi per l’uscita del DVD e poi dell’album, ed in effetti a Tom era un po’ mancata, la sua presenza. Nessuno riusciva a dargli quello che gli dava David. Ed a Bill non poteva chiederlo, perché il solo pensiero di fargli male a quel punto lo nauseava.
A David non doveva chiedere nulla. David dava e basta. David era il suo sogno erotico vivente, merda. E non c’era.
Appena rimesso piede in Germania, la prima cosa che aveva fatto era stata salutare Bill e dirgli che si sarebbero rivisti più tardi. Bill non aveva avuto bisogno di chiedergli niente. Aveva riso e poi dato direttive perché la crew portasse a casa i bagagli.
Tom era talmente esausto che, appena arrivato a casa di David, era crollato addormentato sul divano. Ma non era pentito di trovarsi lì, in quel momento.
- Stanotte dormo qui. – annunciò tranquillamente, balzando in piedi e dirigendosi a passo svelto verso la cucina.
David sollevò un sopracciglio e si accomodò meglio sul divano, accavallando le gambe.
- E tuo fratello? – chiese incerto.
- Anche lui. – rispose naturalmente Tom, rubando una scatola di biscotti dalla credenza, - Lo chiamo più tardi.
David sospirò e scosse il capo.
- Posso chiedere il perché di tale onore?
- Mi va di dormire con te, che domande. – mugugnò fra un boccone e l’altro.
- E tuo fratello? – ripeté David, incapace di trattenere un mezzo sorriso.
- No, a lui non va di dormire con te. – disse Tom, scuotendo il capo.
- Intendo… - spiegò l’uomo, esasperato, - perché deve venire qui?
- Abbiamo passato insieme l’ultimo intero mese! – strillò lui, tirandogli addosso un biscotto, - Come pretendi che ci stacchiamo da un momento all’altro?! Sei ingiusto!
David si tirò in piedi e lo raggiunse, sorridendo rassegnato.
Tom lo allacciò alla vita appena entrò nel suo raggio d’azione.
- Sei tu che sei ingiusto, Tom. – disse David, posandogli una mano sulla nuca ed attirandolo a sé.
Tom ridacchiò e lo prese un po’ in giro, avanzando in cerca di un bacio e ritirandosi subito prima di concederglielo.
- Avanti… non ho mica detto che deve dormire nel letto con noi.
David rise e lo tenne fermo per il mento, prendendosi ciò che gli veniva promesso e che si meritava pure, in fondo.
- Non è quello che dici, il problema. È quello che non dici.
Tom gli saltò addosso, stringendolo alla vita con le gambe.
- Tanto quello che vuoi sentirti dire non te lo dirò mai. – concluse con un altro bacio.
David scosse il capo e, senza una parola di più, lo portò in camera.
Genere: Commedia.
Pairing: David/Dave.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- 12 Agosto 2006. Come ogni anno da quando è cominciata la convivenza con David, i Tokio Hotel si ritrovano tutti sfrattati da casa con direzione Kiel in quanto, quando fa il compleanno, David preferisce essere lasciato solo. Stavolta, però, complice un ritardo imprevisto, le cose non andranno come dovevano...
Note: XD Io non sono normale *sospira* Be’, comunque una gioiosa birthday!fic per Herr Jost ci voleva u.u Io amo le birthday!fic, sono cose pucciose u.u L’idea… Uhm, l’idea nasce millemila settimane fa dalla voglia di scrivere di David che gioca con l’ombelico di Dave °_° (sì, l’ho detto che non sono normale XD). Io comunque mi sono innamorata di questo pairing, già a guardarli sono amabili XD David il figo e Dave l’orsacchiotto. Sono così rovesciabili *_*
La colpa è di Yul u.u che ringrazio per avermi obbligato moralmente a scrivere questa vaccata.
Tanti auguri, Herr Jost, ti amiamo tutti tantissimo ç*ç
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SURPRISE!

I ragazzi non avevano mai capito per quale motivo David, il giorno del suo compleanno, pretendesse sempre l’appartamento libero. Era una routine che si ripeteva da sempre, fin dal secondo anno che avevano trascorso tutti insieme ad Amburgo, e che non aveva mai mancato di bussare alle porte della loro quotidianità, distruggendola.
Di buono, sicuramente, c’era il suo compleanno venisse in agosto, e non rappresentasse quindi un momento di dramma – dobbiamo trovare un posto dove stare, finiremo sotto un ponte, nevicherà, a Bill prenderà una polmonite e Tom di conseguenza morirà di crepacuore! – bensì un sano e liberatorio momento di svago – chi arriva ultimo al primo treno per Kiel porta le borse del mare di tutti! – insomma, in definitiva: non un sacrificio particolarmente pesante.
Ciononostante, dal momento che si trattava comunque di ragazzini, non avevano mai mancato di piantare qualche grana a caso; un po’ per una naturale tendenza a rompere le palle che David non aveva mai gradito – Bill aveva mal di gola, Georg era stitico, Tom aveva la tendinite e Gustav si slogava un polso sempre in concomitanza con l’arrivo del suo compleanno – ed un po’ anche perché trovavano piuttosto fastidioso sia doversi ritrovare sbattuti fuori di casa per un motivo inesistente, sia perché anche a loro avrebbe fatto piacere festeggiare con David il suo compleanno, visto che per l’occasione sembrava sempre chiudersi in casa e restare tutto da solo.
Il dodici agosto del 2006, comunque, i quattro esiliati – cinque, se si includeva nell’elenco il povero Saki costretto per lavoro a seguirli ovunque – si ritrovarono per la prima volta fra le mani un pretesto accettabile per tornare a casa: erano arrivati tardissimo alla stazione ed avevano perso il treno.
- Ma che angoscia… - mugolò Tom, abbandonandosi stancamente su una panchina mentre Saki gli passava una bottiglietta d’acqua, - Quand’è il prossimo?
La guardia del corpo tirò fuori dalla tasca il foglietto con gli appunti che Georg gli aveva affidato il giorno prima, dopo un’intensa sessione pomeridiana di ricerca sul sito delle Ferrovie per scoprire gli orari dei treni, e lo scorse velocemente con gli occhi.
- Fra tre ore. – rispose compitamente, - Salvo ritardi.
Gustav lanciò un gemito di dolore.
- Perfetto. – mugugnò Georg, deluso, - Abbiamo perso una giornata. È già quasi l’una, per arrivare a Kiel ci vuole un’ora e un quarto e noi siamo ancora qui. – si lamentò, sedendosi accanto a Tom ed incrociando le braccia sul petto mentre il rasta gli allungava una gamba sulla coscia per poter espandersi il più possibile e stare così più comodo.
- Be’… - biascicò Bill, saltellando nervosamente accanto a Saki e picchiettando un piede per terra, - Possiamo pure tornarcene a casa, volendo.
- No che non possiamo. – corresse Gustav, squadrandolo diffidente, - È il compleanno di David.
- Sì! – gesticolò animatamente il cantante, - E noi non siamo neanche riusciti a fargli gli auguri, oggi!
- Certo… - precisò Georg, - perché lui ci ha buttati fuori di casa appena svegli. Evidentemente, i nostri auguri non gli interessano tanto quanto averci fuori dalle palle, suppongo. – ridacchiò, mentre Tom al suo fianco gli faceva eco in un ghigno divertito.
Bill sospirò teatralmente e si buttò a peso morto sul fratello, allungandosi per metà sulla panchina e per metà sulle sue ginocchia, mentre Gustav osservava disgustato l’intreccio dei corpi dei suoi tre compagni di band.
- Insomma, non può trattarci così. – continuò a lamentarsi il moro, mentre suo fratello sospirava e cercava senza molto successo di scollarselo di dosso, - Forse ce l’ha con noi per qualcosa…
- Be’, sì… - rifletté Tom, puntandosi un dito sul mento, - Vi ricordate il primo anno che abbiamo passato qui? Eravamo ancora troppo piccoli e lui fu costretto a tenerci pure tutta l’estate… quella volta il suo compleanno fu un po’ noioso, vero?
- Be’, noioso. – borbottò Gustav, offeso, - La mia torta era buonissima.
- La tua torta – precisò Georg ridacchiando, - vide la luce solo dopo che distruggemmo la cucina nel tentativo di prepararla.
- Uh, sì! – rise Bill, stringendosi nelle spalle, - Ricordo ancora la battuta di David… “pensavo di doverlo produrre, il Monsone, non di ritrovarmelo in casa”!
Anche Saki ridacchiò, scuotendo il capo e molleggiando sulle gambe in cerca di una qualche idea.
- Uh, sono un genio! – sbottò ad un certo punto Tom, illuminandosi d’immenso e scrollandosi di dosso in un unico movimento sia Bill che Georg per saltare in piedi, - Compriamo una bella torta multistrato, di quelle veramente enormi, poi un bel regalo tipo… - rifletté, - tipo un karaoke! Adora queste cose oscene, ho visto che ne ha uno nascosto in camera, ma è vecchissimo! E poi torniamo a casa e gli facciamo una sorpresa. – concluse, annuendo come a darsi ragione da solo.
Suo fratello lo guardò come fosse stato un dio appena sceso in terra.
- È un’idea fantastica, Tomi! – cinguettò saltando in piedi a propria volta, - Facciamolo!
Gustav borbottò lamentoso che le sue torte sarebbero comunque sempre rimaste più buone di qualsiasi torta di pasticceria – perfino di una multistrato gigante – ma acconsentì, e lo stesso fece Georg, sollevandosi in piedi e cominciando a seguire i gemelli che già correvano a rotta di collo verso l’uscita della stazione.
Saki sospirò ed andò loro dietro: in fondo, che male poteva esserci in una piccola sorpresa ed in un “tanti auguri” così affezionato?
*
David rotolò sul materasso con un mugolio di pura soddisfazione talmente imbarazzante da rendere il silenzio vuoto che avvolgeva l’appartamento ancora più prezioso del previsto.
Dave, al suo fianco, rise di gusto quando, in quel rotolare, il suo corpo impattò contro il proprio e fu quindi costretto a fermarsi.
- Ti vedo felice… - lo prese in giro, inarcando un sopracciglio divertito.
David rotolò ancora un po’, rovesciandosi a pancia in giù e sollevandosi sui gomiti per guardarlo direttamente negli occhi.
- Lo sono. – rispose con un sorriso sincero, - I ragazzi sono al sicuro, fuori a divertirsi ed io finalmente posso godermi un po’ di pace. Come potrei non essere felice? Ho quasi voglia di riappacificarmi con la mia età!
- Adesso non ti trasformare in uno stereotipo gay. – lo rimbrottò l’altro, - Non è che siccome ti stai avvicinando ai trentacinque il mondo stia per finire.
- …ho detto quasi voglia di riappacificarmi con la mia età, Dave, non c’è bisogno di rinfacciarmelo così! – strillò lui, falsamente inorridito, prendendo poi subito a ridere come un bambino.
- Piantala! – lo rimproverò ancora Dave, allacciandolo al collo con le braccia, fingendo di strozzarlo, - Pensa a me, che sono già entrato nella parte sbagliata dei trenta!
- Maddai, tu sarai bellino anche a quarant’anni… - rispose David, sporgendosi a dargli un bacio sulle labbra, - Con la tua aria da orsacchiotto ed il tuo sorriso tenero… - allungò una mano a pizzicargli il ventre, - e la pancetta, ovviamente! – concluse ridacchiando.
- David!!! – strillò Dave, cercando di sottrarsi alla sua stretta, - Sei un bastardo!
- Ma a me piace, la tua pancetta! – rispose l’uomo, divertendosi a giocare con un dito nel suo ombelico.
In momenti come quello, di anni, non se ne sentiva neanche sedici. Era solo per momenti come quello che accettava di mollare il freno sulle responsabilità che comunque sentiva verso i ragazzi, e lo faceva solo perché, in ogni caso, senza momenti come quello, avrebbe trovato troppo difficoltoso andare avanti e dover continuare a fronteggiare tutto l’enorme casino della propria vita senza impazzire.
Sapeva che prima o poi avrebbe semplicemente dovuto confessarlo agli altri. Lui e Dave stavano insieme da tanto di quel tempo che si stupiva perfino nessuno se ne fosse accorto. Forse era la sua buona stella che vigilava su di lui, forse semplicemente era qualcosa che nessuno aveva voluto capire, in ogni caso il segreto s’era mantenuto intatto durante tutti quegli anni, ma ciò non significava che quella routine schizofrenica di fughe notturne e sfratti improvvisi avrebbe potuto continuare in eterno.
Avrebbe dovuto piegarsi alle regole della convivenza e basta.
Prima o poi.
- David… - mugolò Dave contro il suo collo, - Ti va un piccolo cambio di ruolo…? Lo so che è il tuo compleanno, ma non ti sento da settimane…
Non era sua intenzione fare le fusa, ma uscirono fuori lo stesso.
Be’, si sarebbe piegato, prima o poi. Più poi che altro, comunque.
*
Saltellando felice come una ragazzina, Bill ordinò a Saki di sbrigarsi ad aprire la porta, prima che la torta gelato si sciogliesse completamente.
- Be’, se continuerai a saltare così, - lo rimbrottò Tom, aggrottando le sopracciglia, - ti cadrà prima di avere la possibilità di sciogliersi. Perdio, sta’ un po’ fermo!
Bill ubbidì ma protestò con un mugolio offeso, che dimenticò in un lampo quando finalmente la porta fu aperta e lui poté fiondarsi all’interno dell’appartamento strillando “Daviiiiid!!! Sorpresa!!! Tanti auguri!!!”, rischiando di uccidere quel po’ che rimaneva di una povera torta sballottata da un lato all’altro della città da un quartetto di adolescenti pazzi più guardia del corpo annoiata.
Nessuna risposta giunse da alcuna parte della casa, perciò Bill ritenne opportuno posare la torta sul tavolo della cucina e mettersi a zampettare per le stanze alla ricerca di David, immediatamente seguito dal fratello, curioso tanto quanto lui.
Gustav e Georg si guardarono negli occhi e scrollarono le spalle. Dopodiché, mentre Saki richiudeva la porta e si dirigeva verso il frigorifero per tirare fuori qualcosa da bere, apparecchiarono la tavola in un’imitazione di festività che, nella sua spoglia improvvisazione, era perfino molto carina. Coi piattini di plastica blu ed i sottobicchieri dei Puffi.
- Forse non è in casa… - mugolò Bill con aria depressa, dirigendosi verso l’ultimo posto ancora da controllare – la camera da letto del manager.
- In effetti era un po’ assurdo pensare che passasse davvero tutta la giornata in casa… - annuì Tom, - È il suo compleanno, in fondo. Probabilmente – ridacchiò furbo, - è in giro ad abbordare qualche ragazza, o… - Bill spalancò la porta con una risatina, - …o forse no. – concluse Tom, adocchiando il proprio manager nudo fra le braccia di Dave e deglutendo a fatica, - …o sì? Non lo capisco.
David e Dave si congelarono sul posto, voltandosi a guardare il proprio pubblico con una fissità perfetta per uno scatto pornografico.
Poi, Bill strillò.
- Oddio! – disse, coprendosi il viso con le mani, - David, scusa!!! – quasi pianse, scappando immediatamente in cucina.
- Merda… - biascicò Tom seguendolo. Si fermò dopo qualche passo e tornò indietro. Dave e David erano ancora immobili nella stessa identica posizione e con la stessa identica espressione annichilita sul volto. – Scusa, David, non volevamo… Scusa anche tu, Dave. – biascicò imbarazzato, prima di sparire di nuovo in corridoio.
*
Su uno degli sgabelli della cucina, Bill si mordeva le labbra e, le mani strette in grembo, cercava disperatamente di trattenere le lacrime.
- Ossignore… - mormorò Georg avvicinandoglisi e poggiandogli una mano sulla spalla, - Che è successo? – cercò di ridacchiare, - Era nudo?
- Nudo ed in compagnia. – chiarì per tutti Tom, arrivando in quel momento dal corridoio, - Niente drammi esistenziali, Bill, scommetto che lui sta peggio di te.
- No, non credo! – guaì il moro, coprendosi ancora il viso, - Dio, mi sento così in colpa!
- Sì, e lui probabilmente oltre a sentirsi in colpa per non averci detto niente è anche imbarazzato a morte. Come la mettiamo?
Bill fece una smorfia.
- Ti odio quando sei così razionale.
- È l’unico modo per salvarti dalla psicosi, a volte. – sospirò il rasta, mentre Gustav continuava imperterrito a tagliare fette di torta, sorridendo appena.
- Non ci sto capendo un accidenti. – borbottò Georg, grattandosi la testa, - L’avete beccato a letto con una donna, okay. Dunque? Qual è il problema?
- Il problema… - biascicò a quel punto Dave, apparendo in cucina sotto gli sguardi stupiti dei tre quinti dei presenti e quelli imbarazzati dei restanti due, - è che non era una donna. Ma me.
Georg e Gustav spalancarono gli occhi, mentre Saki optava per una saggia ritirata in bagno.
- …Dave? – mormorò penosamente Georg, deglutendo a fatica, - Cioè tu e David…
- Stiamo insieme. – concluse l’uomo annuendo. – Da un bel po’. David, semplicemente, non si sentiva pronto per dirvelo.
- Sì, be’, - borbottò Tom, incrociando le braccia sul petto, - probabilmente, viste le reazioni, - aggiunse, fissando il fratello, - aveva pure ragione.
Dave sorrise lievemente e si avvicinò a Bill, cercando di consolarlo con qualche pacca sulla spalla.
- È tutto a posto. – disse, - Ce lo aspettavamo. Sappiamo che sarà un po’ dura abituarsi all’idea, ma-
Bill scosse il capo, scattando in piedi.
- Non è dura! – rispose col cipiglio ostinato di un bambino. Afferrò uno dei piattini che Gustav aveva già riempito di torta, prese una forchettina di plastica, un bicchiere di coca cola e, cercando di tenere tutto in equilibrio sulle mani senza rovinare per sempre la preziosa moquette che rivestiva tre quarti dell’appartamento, si diresse speditamente verso la camera di David.
L’uomo stava ancora seduto sul letto, le lenzuola tirate fino ai fianchi ed una mano a massaggiare stancamente la radice del naso.
- Bill… - mormorò con aria affranta quando il ragazzo entrò in camera, ma lui lo zittì con uno spiccio cenno del capo.
- Non è dura da accettare. – asserì serio, sedendosi sulla sponda del letto e posando sul materasso piatto e bicchiere, - Buon compleanno, David. – concluse con un mezzo sorriso.
David guardò lui, poi la torta e poi ancora lui.
Indicò il dolce.
- L’avete comprato per me…?
Bill annuì.
- E farai meglio a mangiarlo in fretta. È gelato. Non vorrai mica vanificare tutti i nostri sforzi…!
David rimase in silenzio ed esitò per un lunghissimo istante. Poi, semplicemente, rise.
- Non sia mai… - sussurrò teneramente, - Grazie mille.
Dalla porta, Tom, Gustav, Georg e Dave sorrisero serenamente, portando ognuno un po’ di ciò che serviva per festeggiare: altri piattini, altra torta, una bottiglia di spumante e qualche pacchetto di patatine raccolto qua e là fra i vari stipetti della cucina.
- Be’, niente male come sorpresa. – biascicò il manager, vagamente imbarazzato, mentre Saki riappariva dalla propria fuga portando in braccio il regalo, - L’anno prossimo, comunque, altro che Kiel. Vi mando alle Maldive, per le vacanze. Così risolviamo il problema alla radice.
Tom ridacchiò e mandò giù una consistente cucchiaiata di gelato al cioccolato.
- Be’, potrebbe essere l’inizio di una piacevole tradizione! – commentò.
Negli anni a venire, David avrebbe avuto modo di pentirsi molte volte di quella proposta.
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack.
- Com'è la convivenza coi gemelli? E, soprattutto, come si fa a sopportare la cleptomania modaiola incipiente di Bill? Ce lo spiega David Jost, un manager che ormai è diventato una vecchia nonna. O forse no?
Note: Questa è la seconda Jostfic che scrivo da quando ho cominciato a fangirlare sui Tokio Hotel XD Nel senso che è proprio la seconda storia che narro in POV di quel pover’uomo bistrattato che è Herr Jost. La prima non potete ancora vederla perché partecipa ad un concorso (strano, da parte mia, eh? XD), ma presto avrete anche lei! Nel mentre, spero vi siate godute questo gioco al massacro che non ha risparmiato proprio nessuno XD e che, sinceramente, io ho adorato scrivere – istigata da Tab e Yul, che sono due fonti di ispirazione come poche al mondo, devo dirlo XD Tutto ciò è infatti nato per colpa di Yul che, un giorno – tipo, l’altroieri – su MSN mi ha mandato queste foto in cui è comprovato che Bill e David o comprano i polsini insieme o se li prestano a vicenda XD Da qui è nato tutto ciò. Non so ancora come sia successo, in realtà, visto che l’avrò scritta in tipo tre ore in tutto XD
Comunque spero abbiate gradito <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CLOTHES

È successo la prima volta circa tre anni fa. Sì, doveva essere appena finito il 2005, o comunque appena iniziato il 2006. Ecco, ecco. Era proprio agli sgoccioli dell’estate del 2005, lo ricordo bene perché Bill era ancora un porcospino ambulante. Un porcospino nella sua versione maschile, intendo. Poi lasciò crescere i capelli e cominciò a trasformarsi in un porcospino versione femminile, ma questo avvenne solo molto tempo dopo.
Comunque ricordo tutto precisamente. Era un agosto piuttosto caldo, e Bill aveva già preso a lamentarsi da un paio di giorni. Dal momento esatto, direi, in cui gli avevo mostrato le bozze per il PS e gli avevo spiegato che, oltre a tenere in mano una bicicletta – “perché, David? Io cado, sulla bici” – avrebbe pure dovuto tenere addosso una giacca a maniche lunghe.
“Perché?!” strillò infuriato in quell’occasione, “Questo fotografo è deficiente! Non voglio averci nulla a che fare! Mi scioglierò in una pozza di sudore, di me non resterà niente, non potrai neanche riprodurmi con la clonazione ed i Tokio Hotel saranno costretti a sciogliersi e tu finirai su una strada!”, profetizzò col tono tragico di una provetta Callas in aria di Medea. Si interruppe solo per riprendere fiato. Poi si voltò verso il fratello, tristemente seduto accanto a lui sul divano con i bozzetti fra le mani, e lo apostrofò duramente: “Vero, Tomi? Diglielo anche tu che ho ragione!”.
Tom sollevò lo sguardo e mi implorò di salvarlo. Io però rimasi in silenzio, sperando in una sua improvvisa prova di coraggio da esibire nel negare a suo fratello la ragione che comunque non aveva.
Ovviamente, le mie speranze si persero in un niente quando Tom sospirò e borbottò “Certo”.
Patetici mocciosi, pensai – piuttosto alterato, devo ammetterlo, perché il caldo stava mangiando vivo pure me e rimanere confinato ad Amburgo con la tabella di marcia più fitta che ricordassi da tempi estremamente lunghi non era certo in cima alla mia lista di modi preferiti per passare l’estate, eppure ero lì a fare il mio lavoro e non mi stavo lamentando. Mi sarei aspettato i gemelli – almeno loro! – fossero disposti a sacrifici di questo tipo, ed invece mi ritrovavo costretto ad ammettere Georg e Gustav fossero molto più razionali e maturi, in quel senso.
Erano i prodromi del disastro, avrei dovuto capirlo che non erano i Kaulitz, quelli ai quali avrei dovuto affidare la band. Purtroppo erano troppo carini – ed anche troppo poco dotati – per stare nelle retrovie a suonare davvero, perciò dovevo arrendermi al mio triste destino e basta.
Comunque sia, li rimproverai entrambi aspramente – mentre Tom mugolava che lui non c’entrava niente e voleva andare in piscina. Così, senza un perché. Non avevo mai ventilato l’ipotesi di portarli tutti in piscina, chissà da dove diavolo doveva aver pescato quell’idea bislacca.
Bill la prese piuttosto male, nel senso che non mi parlò per tre o quattro ore – e sì, è il massimo che Bill riesca a sopportare prima di esplodere – dopodiché si presentò in camera mia col visetto lungo e gli occhi artificiosamente lucidi, mi chiese scusa e, mugugnando come un moccioso di cinque anni, mi disse che per lui andava bene indossare una giacca a maniche lunghe, ma doveva essere una delle mie.
Lo guardai con l’aria di un merluzzo surgelato – anche se, purtroppo, non consolato dalla stessa temperatura corporea.
“Perché?”, chiesi incerto. Mi sembrava un quesito sensato e razionale, ma Bill non fu dello stesso avviso. Nel senso che spalancò gli occhi disgustato e mi strillò addosso che se io potevo permettermi di obbligarlo a morire di caldo dentro una giacchetta senza un perché, allora non dovevo azzardarmi a chiedere il motivo per il quale lui desiderava che la giacchetta succitata fosse una delle mie.
Sinceramente, mi sembrò che non facesse una grinza, come ragionamento; perciò, già stanco ed a corto di pazienza, scrollai le spalle e gli indicai l’armadio. Lui procedette di conseguenza.
Il giorno dopo, alle sette del mattino, nel luogo deputato agli scatti del PS, Georg sbadigliava come un leone marino molto annoiato, Gustav saltellava sul posto per tenersi sveglio, Tom in delirio onirico continuava a chiedermi senza motivo quando saremmo andati in piscina e Bill, serafico, sorrideva coccoloso al fotografo, le braccina innocentemente incrociate dietro la schiena ed il mio meraviglioso giubbotto in pelle nera e bianca e coprire le sue spalle minute da scheletrino in crescita.
Da quel giorno, Bill non ha più smesso di chiedermi vestiti “in prestito”. Le virgolette sono d’obbligo, perché Bill è il tipo di persona che, quando mette le mani su qualcosa, lo fa proprio in tutti i sensi. Qualsiasi cosa gli sia data è persa, poco da fare. Ne vediamo esempi ogni giorno. Non so più quante piastre Georg abbia dovuto ricomprare per sopperire alle indecenti ruberie di Bill. Stessa cosa dicasi per le macchine fotografiche di Gustav: Bill non fotografa quasi mai niente e nessuno, ma ha una passione per gli aggeggi sottili. E Gustav usa praticamente solo accessori elettronici extrasottili. È un miracolo che non gli abbia rubato il cellulare o l’IPod.
Il povero Tom, comunque, è quello che soffre più di tutti. Se è scemo, io non biasimo, perché mi rendo conto che Bill avrebbe tirato scemo pure Einstein, e non mi stupisce, perciò, che ci sia riuscito con Tom che, quanto a materia grigia di partenza, era anche meno dotato. Tom, purtroppo, sì è concesso al fratello – in senso platonico, siamo chiari! – appena nato. Bill non l’ha più restituito a se stesso. È una tragica verità alla quale si deve sottostare.
Chiaramente, in condizioni normali non sarei affatto propenso ad aprire le porte del mio preziosissimo armadio ad una piattola di tali dimensioni, ma Bill non è maturato, è solo cresciuto in altezza: per il resto, il volume delle sue pretese si è espanso proporzionalmente a quello della sua capigliatura, e così ha fatto anche la pesantezza dei suoi capricci. Perciò, dal momento che la sua natura parassitaria ha sopraffatto quel po’ di umano che gli restava in corpo, io non posso fare altro che chinare la testa e concedere.
Ho smesso molto tempo fa di essere un manager. Ormai, sono una vecchia nonna. Perché lo vizio esattamente come fossi una vecchia nonna. Abbastanza disgustoso, sì, ma si cerca di sopravvivere. Pensate a tutti quei poveri maschi di varie razze animali – fuchi, formiche, tarme ed insettame vario – costretti a vivere solo in funzione della regina. Ecco, qui è uguale. Preciso e identico. Solo che la nostra regina ha i capricci di una femmina ed il gancio – nonché il calcio rotante – di un maschio. Perciò si china il capo, ecco. Che altro si potrebbe fare?
Insomma, Bill mi ha rubato tanta di quella roba, da quando lo conosco, che ormai sono rassegnato. Però ci sono momenti in cui un uomo non può arrendersi. Non può chinare il capo. Deve ribellarsi.
Questo è uno di quei momenti.
Sapete, essere un manager di successo ed essere allo stesso tempo omosessuale, nel mio mondo, non è affatto facile. Puoi essere omosessuale ed essere anche solo per questo adorato se sei un attore, se sei un cantante, se sei un modello, perfino se sei un pinco pallino a caso e decidi di spiaccicarti in faccia un metro e mezzo di eyeliner ed un quintale di lucidalabbra per poi andare in giro come una zoccola a farti fotografare solo perché sei carino.
Se sei un manager, però, no. Neanche se il tuo passato – Dio, io ero in una boyband!!! – ti autorizza grandemente in tal senso. Se sei un manager devi essere affidabile, gentile, pratico ed assolutamente etero. Soprattutto se hai a che fare con dei tredicenni. Voglio dire: quale madre – perfino fra le più mentalmente aperte – accetterebbe di mandare i propri pargoli nella grande città spaventosa con un trentenne fighetto e pure omosessuale?
Ma nessuna, è ovvio.
Questa amara riflessione ha un effetto nel reale che ti obbliga semplicemente a prendere le tue precauzioni, se non vuoi finire nel disastro. Nel caso di specie, mi tocca chiedere a Nova un po’ di apparizioni di coppia in pubblico. O qui non basterà la smentita pubblica cui ho costretto la piattola, per zittire le voci di corridoio. Per non parlare di ciò che dicono nelle community.
Insomma, mi tocca uscire, vagabondare un po’ in giro e sembrare per giunta decorosamente figo nel mentre, altrimenti si comincia a dire che stai diventando vecchio eccetera eccetera. Nessuno dovrebbe voler fare il mio mestiere, davvero.
E così si torna ad oggi.
- Bill, ridammi la giacca.
Capisco di avere sbagliato momento nell’istante esatto in cui metto piede in soggiorno. Bill bivacca sul divano come una vecchia matrona romana sul proprio triclinio e, i gomiti accuratamente poggiati sul bracciolo, sistema la french con brevi quanto precisi colpi di batuffolo di cotone imbevuto di acetone.
Il momento è pessimo non perché sia un male che Bill si curi in genere. Solo che, quando gli dai un pretesto per infischiarsene di te, ecco, lui lo fa.
- Bill?
La piattola solleva appena lo sguardo sulla mia persona – affannata, già sudaticcia ed in mostruoso ritardo – ed inarca un sopracciglio sdegnoso.
- Sì? – risponde col freddo distacco di una principessa offesa ma troppo beneducata per risponderti a suon di ceffoni.
- Rivoglio la mia giacca. Quella bianca. Mi serve.
Bill arriccia le labbra in una smorfia pensosa. Lo fa quando vuole darmi ad intendere stia riflettendo. In realtà io so che lui non riflette mai. Al limite, macchina piani malefici.
- Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando. – scolla infine con estrema naturalezza, poggiando lo smalto sul tavolino e rigirandosi sul divano alla ricerca del telecomando.
- Oh, sì che sai di cosa sto parlando. – borbotto io, avvicinandomi minaccioso, - Sto parlando della mia giacca, Bill. Quella che hai rubato un mese fa, sfoggiato ad una quantità indecente di premiazioni, messo in mostra su Youtube il mese scorso e che ora mi serve per uscire.
- Hai tante altre giacche… - commenta annoiato trovando il telecomando, distendendosi pigramente fra i cuscini ed accendendo la TV.
- Ma voglio quella! – strillo io a quel punto, - È mia, la rivoglio, sta bene con questi pantaloni! – affermo con convinzione, indicando i miei meravigliosi jeans Armani neri come la notte.
Lui mi squadra dubbioso per qualche secondo.
- Anche la giacca di pelle nera sta bene su questi pantaloni. – sentenzia infine, convintissimo.
- A parte il fatto che ti sei fregato anche quella, - puntualizzo seccato, - e che mi piacerebbe rivederla fra le mie cose al massimo domattina, ti informo che non sto andando ad un funerale ma ad un appuntamento! Sarebbe carino mettere la giacca bianca!
- Tu non hai una giacca bianca. – corregge lui.
- Sì che ce l’ho! O almeno, ce l’avevo prima che tu me la rubassi!
- Quella giacca non è bianca, è una giacca color perla.
- Bill non ho tempo per questi giochetti da checca alla moda!!! – lo rimbrotto esasperato, - Avanti, dammi la mia giacca!
- A proposito di checche alla moda… - sibila lui, sorridendo falso e viscido come un serpente, - Chi è il fortunato con cui hai un appuntamento?
- Non è un fortunato, è una fortunata, e se non mi ridai la mia giacca immediatamente non ci sarà alcun fortunato perché io sarò costretto a rimanere a casa! Allora?
- …non posso crederci… - sbotta lui, ignorandomi completamente, - Fai ancora la commedia? Quando farai coming out?
- Quando il mio coming out non mi costringerà a rinunciare a ciò che mi permette di essere un omosessuale felice, ovvero belle macchine, bei vestiti e bei locali da frequentare!
- E il sesso?
- Che c’entra il sesso?! E piantala di cambiare discorso, Bill, ridammi la mia giacca!
Lui inarca le sopracciglia e borbotta qualcosa di incomprensibile, accucciandosi con aria da vittima indifesa fra i cuscini a forma di cuore che ha preteso suo fratello gli regalasse come augurio di pronta guarigione subito dopo l’operazione.
- Ma per forza quella color perla…? – biascica lacrimevole.
Io sospiro e roteo gli occhi.
- Una qualsiasi, Bill, ormai non ho più la forza di protestare sulle tonalità. Anche quella nera va bene, dai.
Lui solleva uno sguardo oltraggiato e mi fissa maligno.
- Ma pensavo di usarla per uscire stasera!
- E invece userai- aspetta. Uscire? Stasera? Con chi?
- Con Tomi!
- Non se ne parla!
- Non puoi impedirmelo!
- Posso eccome! E ti dirò di più: lo sto proprio facendo!
- Sono maggiorenne!
- Sei un colossale deficiente! Dov’è che vorresti andare?!
- In giro!
- A cercare un fotografo qualsiasi che sia pronto ad immortalare te o quell’altro cretino del tuo povero fratello in qualche posa compromettente con qualche groupie di poche pretese?! Giammai!
- Ma non volevi la tua giacca? – sbotta a quel punto lui, pentitosi di avere sviato la mia attenzione sui suoi progetti notturni.
- Questo è molto più importante! Bill: ridammi le mie giacche. Tutte.
- Ma così non avrò nient’altro con cui uscire!
- Appunto!
- E io dico a tutti che sei gay!
Inorridisco e gli tiro un cuscino.
- Sei licenziato! – strillo istericamente.
- Non puoi licenziarmi!!! – sbraita lui, cominciando a tirarmi addosso cuscini a ripetizione neanche avesse trenta braccia.
- Ma che diavolo sta succedendo qui…? – annaspa incerto Tom, apparendo sulla porta del soggiorno con i capelli tirati su in uno strano chignon da vecchia nonna francese, i bermuda incastrati sotto l’orlo delle mutande per scoprire le gambe e la maglietta arrotolata dietro al collo a denudare il petto.
Io e Bill ci voltiamo a guardarlo e lanciamo un urlo unico e pure perfettamente sincronizzato.
- Tomi! – comincia Bill, - Come ti sei conciato?!
- Io…
- Tom, sei indecente. – continuo io, rimettendomi dritto ed andandogli incontro con aria disapprovante.
- Ma-
- Copriti subito, sei disgustoso!!! – strillacchia Bill coprendosi gli occhi ed agitandosi come una liceale sbadatamente entrata nello spogliatoio maschile durante le docce.
- Ha ragione tuo fratello, Tom, tira giù maglietta e pantaloni.
- Ma io ho caldo!!! – protesta lui, sgomento, - E sono venuto qui solo per controllare che non vi steste scannando! Perché adesso ve la prendete con me?!
- Perché non puoi andare in giro per casa nudo! – motivo io, mentre Bill, alle mie spalle, annuisce, perfettamente concorde, - Abbiamo paparazzi attaccati con le ventose pure ai vetri delle finestre! Sii un po’ più responsabile!
- Ma c’è un caldo che non si sopravvive!!! Perché non ci porti in piscina?! E perché sei vestito di tutto punto?!
- Esco.
- E perché litigavi con Bill?
- Voglio la mia giacca bianca.
- Ma ha le maniche lunghe!!!
- Sta bene coi jeans.
Tom abbassa lo sguardo sui miei pantaloni, nota la loro peculiare aderenza alle mie gambe e si lancia in un verso inorridito tremendamente simile ad un ew.
Io sospiro e cerco di tornare in me stesso. Insomma, sono un essere umano adulto e razionale. Sono tanto intelligente e tanto figo, posso sicuramente avere la meglio su due ragazzini deficienti senza che questo mi obblighi a perdere la mia dignità così, senza un motivo. Allora…
- …David, se vuoi la giacca te la vado a prendere io. – dice a quel punto Tom con aria serafica, fissandomi come fosse un cucciolo di alieno appena sbarcato sulla Terra e si aspettasse che io diventassi la sua guida spirituale attraverso i numerosi pericoli della vita.
- Nooo, Tomi! – piagnucola Bill dietro di me, senza tuttavia trovare la forza di abbandonare il divano e mettersi in piedi, - Traditore!!!
Tom scrolla le spalle ed io mi commuovo.
Anche lui è capace di prove di coraggio! Anche lui ha un’indipendenza! Un cervello! Un perché! Non è solo una medusa col cervello di un organismo monocellulare!!!
- Saresti molto gentile, Tom. – sorrido bonario, trattenendomi a stento dall’impulso di dargli un affettuoso buffetto sulla guancia.
Lui annuisce e sorride angelico, trotterellando felice in camera del fratello ed uscendone subito dopo con aria afflitta.
Preoccupato, mi avvicino.
- Tom? Dimmi che non è successo nulla alle mie giacche.
- No… - biascica lui, contrito, - Sono ancora tutte là…
…tutte?
- …è che proprio questa giacca bianca non la trovo! – conclude, sollevando improvvisamente uno sguardo cuccioloso e lacrimoso.
- …la mia giacca bianca! Cos’è successo alla mia giacca bianca?! – sbraito furente. Afferro Tom e lo sbatacchio di lato per farmi strada, prima di cambiare idea e cominciare a trascinarmelo dietro per l’elastico delle mutande che sporge dai pantaloni. Mi pianto di fronte all’armadio di Bill, lo spalanco… e la individuo. Immediatamente. Al centro dell’armadio. Perfetta e splendente come la ricordavo. Tenuta in perfetta cura.
- Era qui, razza di deficiente! – sbotto, schiacciandogli uno scappellotto pure piuttosto potente sulla nuca, - Come diavolo hai fatto a non vederla?!
Tom si sporge curioso verso la giacca, come a volerla esaminare da vicino.
- Ma David… - risponde infine, dubbioso, - Questa giacca non è bianca… è color perla!
Bill sghignazza in soggiorno. Non so se sia per questa scena idiota o per l’episodio dei Simpson che sta guardando in TV.
Io mi limito a scrollare le spalle, indossare la giacca e dirigermi con aria stanca verso la porta.
Esco pensando con un po’ di paura al fatto che sembra proprio io non sia l’unica checca alla moda di questa casa.
Sinceramente? Mi fa un po’ rabbia che mi si tolga così il centro della scena!
Fanfiction a cui è ispirata: Tief Wie Das Meer di Sar@.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest.
- "La vita continua.
È l’asserto di uno che non ha vissuto affatto."

Note: Prima di tutto (di nuovo XD) un ringraziamento accoratissimo a Sara. Quattro pagine possono sembrare una cavolata, ma quando non scrivi niente di tanto lungo da una settimana intera (soprattutto se invece sei stata abituata a farlo per tutto l’anno precedente) suonano tanto come un miracolo inatteso quanto piacevole. Quindi grazie dell’opportunità che mi ha dato semplicemente scrivendo <3
Per quanto riguarda la storia, sono stupita del fatto non cozzi con la costruzione originale di Sara stessa <3 Stupita e felice, perché posso pubblicarla senza sensi di colpa <3 Ed a parte questo non ho veramente niente da dire, perché questa storia è stata quasi un dialogo fra me e Bill. Per cercare di capirlo meglio – d’altronde, è noto: io per conoscere i pg li faccio parlare XD
Unica precisazione: quando parlo del destino unico e dell’ossimoro perfetto, in realtà sto proprio citando In Die Nacht. Non alla lettera, ma diamo a Cotopuzzy quel ch’è di Cotopuzzy XD
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“Per Jost non era stato difficile dimostrare la propria paternità della più parte dei testi. Il fatto fossero nati anche da lunghe chiacchierate e confidenze ed appunti di Bill, all’improvviso, non contava più niente.
Tutto sommato, forse, era stato meglio così: del passato non gli era rimasto proprio niente. Se non un’infinita tristezza.”


LIFE GOES ON

Suonava quasi divertente – tanto. Quasi quanto triste – ripensare alle ultime parole che lui e David avevano scambiato. Il posto: un freddissimo atrio antistante la sala del tribunale in cui stava volgendo al termine la controversia legale che l’aveva visto opporsi alla Universal nel tentativo di impedire alla major di rubargli tutto proprio tutto. Il giorno: uno qualunque; non era neanche quello della sentenza: se ne sarebbe riparlato almeno dopo un paio di settimane. E lui aveva comunque deciso che non sarebbe stato presente.
L’atmosfera. Glaciale.
Da qualche parte – nell’angolino rimpolpato di bieco cinismo che Tom aveva scavato di prepotenza proprio accanto al suo cuore – saliva un prurito stupido ed immotivato, che avrebbe voluto obbligarlo a ridere: quell’uomo era stato per lui né più né meno che un padre, fino a quel momento. Ed ecco che si ritrovavano lì, di fronte ad un distributore automatico ronzante in maniera neanche troppo discreta, a fronteggiarsi come due estranei. Con lo stesso senso di disagio appiccicato addosso come una malattia.
David aveva sollevato un braccio, afferrato il bicchierino pieno di caffè dal vano che lo conteneva e poi gliel’aveva porto. Lui aveva accettato con un cenno di ringraziamento – anche parlare sembrava assurdo. Fastidioso, addirittura.
David, però, non doveva pensarla alla stessa maniera. Azionando la macchinetta una seconda volta, in cerca di un caffè che l’avrebbe reso nervoso per un motivo fisiologico – e che quindi sembrava molto più rassicurante del nervosismo irrazionale che lo agitava fin quasi al tremore – aveva deglutito e poi aveva parlato.
Lentamente. A bassa voce. Quasi sentisse il bisogno di riservargli un po’ del rispetto che la Universal stava spensieratamente calpestando proprio in quel periodo.
- In Die Nacht… - gli aveva detto, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi, - non è nella lista, sai?
Non lo sapeva.
La lista delle pretese della Universal lui non l’aveva neanche sfogliata. Alrich Lange, il suo avvocato – un omino nervoso e davvero poco contento di trovarsi nella posizione in cui era – aveva insistito più o meno per tre o quattro minuti, perché fosse più partecipe di quella causa e si rendesse conto del fatto che il diritto al proprio nome su quei testi era qualcosa dalla quale poteva dipendere la sua intera vita. Ma s’era arreso subito, quando s’era accorto che, in realtà, della possibilità di ritrovarsi a vivere una vita da sceicco perso in un dolce far niente che aveva, già in prospettiva, poco di dolce e molto di straziante, non gli interessava poi molto.
Bill voleva cambiare.
Bill voleva andarsene.
Bill voleva solo scappare.
E quindi, non faceva proprio nessuna differenza se la Universal voleva rubargli proprio tutto, fino all’ultima goccia della sua identità. A lui non interessava tenersela.
- Ho pensato che potesse farti piacere tenerla. In qualche modo.
Si era ritrovato quasi senza accorgersene a mordere con violenza il bordo del bicchiere. La plastica aveva ceduto presto sotto la pressione dei suoi denti. S’era spaccata, ed il risvolto arricciato s’era aperto come un fiore, mostrandosi d’improvviso tagliente e appuntito, ferendogli l’interno del labbro.
Se n’era discostato fingendo indifferenza e passando la lingua sulla ferita come a volersi sincerare delle sue condizioni.
Bruciava un po’. Niente di drammatico.
- Grazie. – aveva scollato indifferente.
David s’era concesso un sorriso rammaricato ed aveva scosso il capo.
Era il ringraziamento meno sentito dell’universo.
Probabilmente perché di ringraziare per una cosa come quella Bill non aveva affatto voglia.
Di vedersi in qualche modo riconosciuto quell’amore che non aveva più senso d’esistere, non gli interessava più.
Gli toglievano tutto ma gli lasciavano Tom. Che era un po’ come non lasciargli proprio niente: perché Tom se n’era già andato da un pezzo. O meglio, era stato proprio lui a lasciarlo indietro.

Ma a ragione, Cristo. A ragione.

E così, quella canzone gli era rimasta per le mani.
In Die Nacht.
La prova fisica che qualcosa c’era stato. Qualcosa che l’aveva segnato profondamente. Qualcosa che era stato tutto per lui, per un lunghissimo periodo di tempo. Prima di Melli, prima del successo, prima dei Tokio Hotel, prima perfino della musica: c’era sempre stato Tom. Sotto vesti sempre differenti, e non era stato sempre amore – forse – ma la sua presenza, quella sì, era sempre stata ineludibile.
In fondo non si trattava neanche di una paternità particolarmente onerosa: In Die Nacht era stata solo una traccia nascosta. Una b-side, per di più. Il momento emotivamente più denso di un concerto, a voler essere proprio generosi. Nulla più di questo. Non era stata un singolo. Non era una canzone da spot pubblicitario. Non correva il rischio di diventare una qualche sigla televisiva da reiterare fino alla nausea.
Era una cosa privata. Qualcosa che aveva valore solo per lui.
Davvero solo per lui. E neanche più tanto.
Accucciato in un angolo del divanoletto che era diventato il suo giaciglio in casa di Ross Antony – almeno finché non avesse cominciato a guadagnare abbastanza da pagarsi un alloggio proprio, cosa che suonava perfino ilare, visto che diamine, era Bill Kaulitz e, fino a qualche mese prima, era stato probabilmente uno dei diciottenni più ricchi del mondo – Bill non riusciva effettivamente a pensare ad altro.
A quanto tutto ciò che gli rimaneva in mano fosse sostanzialmente un pugno di niente.
A quanto gli sarebbe piaciuto ritrovarsi davanti almeno per una volta Alrich Lange: per dirgli che, nonostante gliel’avessero spacciato per uno dei migliori del settore, come avvocato faceva proprio schifo.
A quanto, pure, avrebbe dovuto sentirsi fortunato nel trovarsi comunque con un tetto sopra la testa e dei vestiti ancora addosso.
Ma era roba di poco conto. Non c’era nulla che avesse veramente un valore, nel mucchio di certezze spicce che stava recuperando in quei giorni. La vita continua, ti fai degli amici, riprendi a lavorare.
E poi?

La triste verità dei lutti: la ferita non si cauterizza mai. Magari smette di bruciare, ma è lì. La bagni appena e riprende lo strazio. Poco da fare.
Magari lui era presuntuoso a parlare di lutto in una situazione come quella. In fondo, non era morto nessuno. In fondo, anzi, era stato proprio lui ad andarsene, no? A scappare. A mollare tutti senza una spiegazione. Senza neanche una parola.
Ma in realtà qualcosa era morto.
In realtà lui non era la persona che il lutto l’aveva subìto: lui era il lutto stesso.
Era lui che era morto: entrambe le parti che lo componevano, peraltro. Dentro di lui c’era sempre stata una componente di Tom ed una componente di Bill. Bill era ciò che lo rendeva se stesso. Tom era ciò che a quell’affermazione di indipendenza dava valore, perché era il filo che lo legava a suo fratello.
Legati ma non identici.
Due in uno.
Un destino diviso.
L’ossimoro perfetto.
Adesso, però, non restava più niente. Tom era morto d’asfissia: era stato lui stesso a soffocarlo, sull’aereo che lo portava a Parigi, fra le lacrime di disperazione che aveva nascosto dietro al solito paio di ingombranti occhiali da sole talmente fuori luogo da dare perfettamente l’idea di essere solo una maschera. Bill, poi, l’aveva seguito: morto di dolore.
Trovava difficile perfino svegliarsi alla mattina.
Rimettersi in piedi, darsi una ripulita, rendersi presentabile, fare colazione, andare a lavorare, ore di stage fra sconosciuti a volte odiosi a volte cordiali e comunque sempre freddi come marmo, poi tornare a casa, scollarsi di dosso la maschera di scena, cenare, accucciarsi sul divano, piangere un po’, dormire.
E perché?
Anche a pensarci, un motivo non si presentava.

Perché ci sono ancora, in fondo. Respiro. Parlo. Mi muovo.
Ed anche se ogni volta fa così male che preferirei smettere…
…sono ancora qui. Sono qui.


Non era mai stato un cinico – almeno, non prima di scoprire che l’amore era una farsa, tutto, indistintamente, ad ogni grado ed in ogni forma – ma non era mai stato nemmeno un illuso: aveva sempre saputo, o quantomeno sospettato, che la sua vita si sarebbe conclusa in un disastro epico. Un po’ perché fare la rockstar ti impone di pensarla a quel modo – vivi una vita brevissima da stella assoluta, non c’è modo di spegnerti senza che questo provochi un cataclisma mondiale – ed un po’ soprattutto perché la sua vita era davvero Tom. E quando accetti una cosa del genere, ne accetti anche tutti i possibili corollari.
Vale a dire anni e anni di frustrazioni, insoddisfazioni, tristezze di ogni sorta e depressioni feroci.
Vale a dire la scottante certezza d’essere quello sbagliato, proprio come pensano tutti.
Vale a dire, soprattutto, il presentimento di una fine da film drammatico. Separazioni, allontanamenti, litigi furiosi, tradimenti. Cose da cinema.
Ma quando ami tuo fratello, forse, è normale. Quando ami tuo fratello non puoi pretendere una separazione pacifica. Non puoi pretendere un dialogo aperto e maturo. Non puoi pretendere la replica in piccolo del divorzio dei tuoi genitori, insomma: perché già solo il divorzio implica dell’amore precedente. Lì, invece, fra lui e Tom, di amore precedente non c’era proprio traccia. Che non fosse unilaterale, ovviamente.

La vita, comunque, andava avanti. Avanti per davvero.
Fosse anche solo per il fatto che non potevi semplicemente fermarti e decidere di morire – o meglio: potevi anche decidere di farlo, ma la cosa non era poi così automatica – si continuava. Si continuava e basta. Senza liberarsi del dolore né della fatica né di una nostalgia stupida quanto atroce che lo inseguiva come un avvoltoio, ma si proseguiva.
Da Ross e Paul presto non avrebbe più potuto fermarsi – se non altro perché stava per fare il proprio ingresso in quell’appartamento un fagotto tanto piccolo quanto importante, e non era proprio sicuro di volere un bambino fra i piedi nel giro di, uh, per sempre. Probabilmente si sarebbe ritrovato ad accettare l’invito di quel tipo, Laurence du Comb, che sembrava tanto entusiasta all’idea di ospitarlo per un po’. Poteva immaginare perché con fin troppa chiarezza, ma d’altronde era sempre stato piuttosto chiaro riguardo la propria intimità ed i propri gusti.
Dannazione: era stato costretto ad affermarlo perfino in diretta nazionale, vaffanculo. Non era mai esistito nessuno più chiaro di lui, rispetto all’argomento.
Laurence si sarebbe rassegnato e punto.
Lui non poteva continuare a stare in quella casa.
Sarebbe andato.
Era un po’ diventata la sua filosofia di vita, quella, poco da fare. Quando cominci a sentirti scomodo, vai via. Trovati una nuova tana.
Non è detto che le cose migliorino, ma un tentativo puoi sempre farlo, no?

…no.
Perché io non ho un posto mio da quando ho perso le braccia di Tom.
Non ho più una voce da quando ho smesso di cantare.
Non ho più fiducia da quando ho perso quel poco che avevo guadagnato di Melli.
Non ho più niente di mio, tranne questa faccia troppo famosa, un’ambizione smorzata troppo presto ed un amore che amore non era, perché per amare – amare davvero – si dialoga in due. Parli da solo e fai un monologo. Solo un po’ meno squallido di una sega. Ugualmente triste, comunque.

La vita continua.
È l’asserto di uno che non ha vissuto affatto.
Continui a respirare, le cellule del tuo corpo continuano a riprodursi, il tuo cuore continua a battere. Ma sono azioni involontarie. Non pensi, quando le fai. Funzionano in autonomia, come certi muscoli che non hanno bisogno di un ordine per mostrarsi vivi e attivi.
Le funzioni corporee ti tradiscono.
Tu sei morto. E loro respirano al tuo posto.
La vita non continua.
La vita si ferma.
In una boccia di risentimento e nostalgia.
In un ricordo che si blocca a metà perché se solo provi a portarlo a termine ti viene tanto da piangere che non riesci a tollerarlo.
Nel respiro affannoso con cui ti svegli a notte fonda dopo un incubo orrendo.
Nella consapevolezza che indietro non si torna. Che è finito tutto. Tutto, dannazione. Che non riavrai indietro niente.
La vita si ferma.
Si ferma e basta.
È tutto il resto, che ti trascina in avanti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
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PROLOGUE
ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME

If we belong to each other
We belong anyplace, anywhere, anytime

Erano stati il gruppo tedesco più famoso di tutta l’Europa. Di tutti i tempi. Nel bene e nel male, erano stati uno dei gruppi più famosi dell’intero vecchio continente. Ed erano conosciuti perfino negli Stati Uniti. Avevano fan dalla Russia al Messico, dall’Australia alla Norvegia.
Erano i Tokio Hotel.

“Poco prima della conclusione di quella che doveva essere l’ultima data dello Schrei Tour del 2006, la sicurezza è riuscita miracolosamente a sventare un tentativo di rapimento ai danni di Tom Kaulitz, chitarrista dei Tokio Hotel, band pop-rock famosa a livello internazionale. Si è trattato del terzo attentato ai danni del gruppo in due mesi. Ricordiamo i precedenti episodi, a Nizza ai danni di Bill Kaulitz ed a Lione ai danni di Georg Listing, rispettivamente cantante e bassista all’interno della formazione tedesca.
«A questo punto, non possiamo più ignorare l’ipotesi per la quale ci sarebbe un piano specifico ed articolato, mirante alla distruzione fisica dei componenti di questo gruppo.», ha dichiarato oggi David Jost, manager della band, durante la conferenza stampa indetta questa mattina per spiegare quali sarebbero state le misure da prendere per cercare di risolvere la situazione, «Non siamo più in grado di proteggere questi ragazzi come meritano. È per questo motivo che dichiaro ufficialmente i Tokio Hotel sciolti. I componenti si ritireranno a vita privata. Speriamo in tal modo di preservare la loro sicurezza, che naturalmente viene prima di qualsiasi contratto».
Le reazioni non hanno tardato a farsi sentire. La Universal, casa discografica per la quale i Tokio Hotel lavorano, si è dichiarata contraria a quanto stabilito da Jost, ma disposta a trovare un accordo che soddisfi entrambe le parti. La reazione più violenta è stata sicuramente quella delle giovanissime fan della band, che già da qualche ora assediano gli edifici della casa discografica ad Amburgo, piangendo e mostrando il proprio affetto tramite cartelloni che implorano i ragazzi di ripensarci e non mollare.
Curiosamente, ma comprensibilmente, è proprio dai ragazzi che non si è ricevuto alcun commento. Nessuno dei componenti del gruppo ha ancora detto una parola a riguardo della drammatica situazione della quale è protagonista, e il silenzio stampa che David Jost ricorda continuamente ai giornalisti di aver imposto ai propri protetti sembra destinato a non sciogliersi tanto presto.
Continuate a seguirci per nuovi sviluppi della vicenda.”


Ma non era mai venuto fuori nessuno sviluppo. Il silenzio stampa si era protratto tanto a lungo da diventare per sempre. I giornali avevano parlato di loro ancora per un po’ di tempo, quasi un anno, in effetti, ma dagli articoli pieni di domande di giornalisti sempre più increduli di fronte alla verità dei fatti, non veniva fuori nessuna risposta.
La verità dei fatti era molto semplice: ogni membro dei Tokio Hotel sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Gli sforzi che s’erano fatti per ritrovarne qualcuno s’erano dimostrati del tutto vani. Neanche i membri delle loro famiglie ne sapevano niente – e, se sapevano qualcosa, la nascondevano davvero bene.
Nessuna risposta. Perché non era rimasto nessuno.
Alla fine, dopo due anni trascorsi pigri e lenti sulla Germania e sul mondo intero, dei Tokio Hotel non restava che qualche poster su Bravo e un trafiletto su qualche rivista per teenager, di tanto in tanto. Qualcosa di troppo simile ad un memoriale per non terrorizzare a morte.
Ed era per questo che Tom Kaulitz aveva smesso di leggerli.
- Blitz. Sitz.
L’enorme pastore tedesco si accucciò ai piedi del giovane padrone, protendendo il collo per offrire il capo alle sue carezze distratte. Il ragazzo, magro, alto, avvolto in una pesante tuta in pile di un anonimo grigio scuro e scompostamente seduto sulle scale che, dalla cucina, portavano al giardino sul retro della villetta bifamiliare all’estrema periferia di Londra in cui viveva con “suo fratello”, guardava distratto l’orizzonte, cercando di scorgere il sole tramontare fra gli alberi e le colline della campagna poco distante.
- Dovresti smetterla di parlare in tedesco. – disse appunto quel fratello, raggiungendolo alle spalle e sedendosi al suo fianco, mentre Blitz scioglieva la posa plastica alla quale l’ordine di Tom l’aveva costretto, per corrergli incontro e tentare di rubargli a mezz’aria il panino che stava cercando di passargli.
- Georg. – borbottò Tom, afferrando il panino prima che il suo cane riuscisse ad addentarlo, e lasciandolo perciò con un palmo di naso ad aspettare gli avanzi, lingua penzoloni e sguardo vigile, - Non puoi dirmi di smetterla di parlare in tedesco parlando in tedesco.
- Mi chiamo Frank, Timothy. Ormai dovresti saperlo.
- Certamente, Georg. – annuì Tom, lanciando un pezzo d’hamburger al cane, che corse a ripescarlo dal cespuglio nel quale era finito e poi tornò indietro, accucciandosi nuovamente ai piedi del padrone per sbranare in tutta tranquillità la propria cena. – Comunque sia, non stavo parlando in tedesco. Lo sai che Blitz segue solo un certo tipo di ordini.
- Era ovvio che succedesse. L’hai addestrato in tedesco! Oppure vuoi darmi a bere che le sue orecchie fossero naturalmente predisposte per questo tipo di linguaggio?
- Be’, è un pastore tedesco, in fondo, non un pechinese.
- E se lo fosse stato lo avresti addestrato in cinese, Tom?
Il biondo sorrise, ingurgitando l’ultimo morso del panino e regalando al cane il resto della carne.
Si alzò in piedi, sistemando la tuta perché non cadesse lungo le gambe, ampia com’era, e stringendo il laccio elastico alla vita.
- Tim, Georg, non ti confondere. Stasera siamo a cena dai vicini.
Georg roteò gli occhi, allargando le braccia ai lati del corpo in un gesto rassegnato.
- Sei del tutto impossibile. – commentò infine, alzandosi in piedi a propria volta, - Sono passati due anni, Tom. Abbiamo cambiato cognome. Stato di famiglia. Nazionalità. Lingua. Vita. Non credi che sia arrivato il momento di passare avanti e cercare di dare un valore ai sacrifici che tutti abbiamo fatto, cominciando a vivere sul serio?
Tom sorrise appena, lasciando una carezza affettuosa sulla testa del cane, che subito scattò sulle quattro zampe al suo fianco.
- Dopo tutto questo tempo, Frank, mi rifiuto di credere tu non abbia ancora capito.
Georg sospirò infastidito. Tanto infastidito che il suo sospiro ricordò a Tom più un grugnito che altro.
- Cosa c’è da capire, Kaulitz?
- Blitz. – chiamò il ragazzo, battendo una mano sulla coscia ed osservando soddisfatto il cane avvicinarsi, in perfetta posa di condotta, - Fuss. – ordinò dunque, ed insieme all’animale prese a fare il giro del giardino, senza più degnare Georg di uno sguardo.
- Sai cosa, fratellino? – sibilò quindi lui, a corto di pazienza, - Vai a cagare. – concluse, voltandosi verso la casa e risalendo lentamente i gradini per tornare in cucina.
- Io non ho rinunciato, Georg.
La voce di Tom riecheggiò nel silenzio del tardo pomeriggio primaverile, e quando Georg si voltò a guardarlo lo vide di nuovo immobile a fissare l’orizzonte, il cane seduto sull’erba al suo fianco.
- Ho compiuto diciott’anni senza mio fratello. Senza la mia famiglia. E, di tutte le persone che consideravo amiche, mi sei rimasto solo tu. – si lasciò ricadere a terra, incrociando le gambe per lasciare che il cane potesse accucciarsi fra le sue cosce per una sana dose di coccole. – Ma io non ho affatto rinunciato a riavere tutto. La mia famiglia, il mio lavoro, la mia vita. Perché era quella, la mia vita, Georg. Non questa. – sollevò lo sguardo su di lui, e Georg vi lesse con rammarico la solita deprimente e fastidiosa dose di ostinazione e fiducia in se stesso. – Io non mi fermerò fino a quando non avrò ottenuto quello che voglio. L’unico modo che possa concepire, per non rendere vani i sacrifici che abbiamo fatto fino ad ora, è utilizzare questa opportunità di anonimato per trovare un modo per uscire da quest’incubo. E quando ci sarò riuscito, Georg, i Tokio Hotel torneranno. E stavolta saranno imbattibili.
Georg si passò una mano sugli occhi, sospirando pesantemente.
- Va bene, Tom. – concesse infine, risalendo di un altro gradino verso la protezione offerta dalla propria casa, - La cosa spaventosa è che ti credo sul serio. – Tom si lasciò andare ad una risatina che Georg si forzò ad ignorare, mentre Blitz gli si agitava fra le gambe alla ricerca di un altro po’ di cibo. – Ora, saresti così gentile da tornare al tuo alter-ego inglese e risparmiarmi l’ennesimo rimprovero della vecchia Marge per essere arrivati in ritardo a cena per la milionesima volta, Timmy?
Tom rise ancora, alzandosi in piedi con uno scatto che costrinse Blitz a saltare via ad un paio di metri da lui.
- D’accordo, d’accordo. – annuì, - Dammi il tempo di mettere addosso qualcosa che non puzzi di cane bagnato, e poi ci consegniamo alla sposa di Satana.
- Piantala di parlare così di Marge! – lo rimproverò lui, inorridendo ed osservandolo caracollare allegramente verso la porta dopo aver intimato al cane di restare seduto sul prato senza azzardarsi ad entrare in casa, - È sempre stata buona, con noi! E comunque dovresti smetterla di lasciare questa povera bestia al freddo e al gelo.
- Se permettessi a Blitz di entrare in casa, ci ritroveremmo in due ore in un posto molto simile all’inferno.
- Il che dimostra che sei un pessimo addestratore, Timmy. Pessimo davvero.
- Blitz! Beißt!

Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest.
- Anno 2012. Esce Der Letzte Träum, il terzo album in tedesco dei Tokio Hotel. La title-track, sul finale, recita "Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti". Le sue parole si rivelano premonitrici. Nell'anno 2025, i gemelli Kaulitz hanno trentacinque anni ed hanno passato gli ultimi dieci l'uno lontano dall'altro, senza nemmeno vedersi. Il matrimonio di Georg darà loro occasione non solo di rincontrarsi, ma anche di ricordare i motivi per i quali avevano deciso di non rivedersi più.
Note: Sono tornata al twincest T___T!!! Omg T___T!!! Sono commossa T___T!!! In realtà non è che l’avessi proprio abbandonato (è palese che io i fandom non li abbandono proprio mai, possono passare pure anni e magari non ci scrivo più su, ma l’amore resta identico <3), solo che proprio m’era venuta voglia di scrivere di altri tipi di rapporti e dinamiche, perciò, pur non lasciando nel dimenticatoio i gemellini, avevo un po’ trascurato questa parte di fandom.
E in realtà la spinta definitiva per scrivere questa storia me l’ha data Yul, che ad un certo punto in chat mi fa “ma non ti starai un po’ stancando del twincest?”. La mia risposta mentale è stata “omg, no!!!”, e questo è il risultato XDDD
Il desiderio di usare Forbidden Colours (di Ryuichi Sakamoto – piano – e David Sylvian – voce) era nato già tempo prima, solo che, per quanto il testo fosse così disgustosamente e palesemente twincest, non avevo una trama da intrecciarci su. Sapevo solo che mi faceva venire voglia di scrivere dei gemelli che s’erano messi insieme, poi s’erano lasciati ed alla fine si incontravano di nuovo e decidevano di riprovarci. Voglio dire, questa non era una trama, non potevo usarla T_T Così alla fine mi sono messa a ricamarci su ed è venuto fuori questo emostruggimento di palle (cit. Sara <3) del quale non so nemmeno che pensare a parte il fatto che è lungo! XD
A proposito di spropositi: l’idea di una “nuova canzone” (in questo caso Der Letzte Traum – grazie a Meg per la traduzione del titolo ed a Sara per la traduzione dei tre versi che uso nella storia) da intrecciare con le vicende della fanfiction, non è mia. Gli illustri precedenti (le solite note: Sara e Meg, le quali, è ormai evidente, occupano posti speciali nel mio cuore <3 XD) dimostrano pienamente, con le loro storie bellissime, la mia incapacità di usare lo stesso espediente in modo appena decente, ma ho voluto usarlo anche io perché continuavo a ripetermi che sarebbe stato inusuale per dei musicisti rimanere all’asciutto di musica nuova durante tutti quegli anni. Chiedo umilmente perdono ç_ç”
E già che ci sono vi ringrazio tutti, mandando un bacio particolare alla mia Misako di fiducia (i cui betaggi dotati di commento finale sono il bene <3) ed alla Nai (che mi ha aiutato a risistemare a monte delle parti poco chiare <3).
Un ringraziamento speciale (condito da dedica innamorata) a Meg: perché è stata Mezzanotte, la sua storia-paura, a darmi “la forza” (nonché ad obbligarmi moralmente!) per scrivere Forbidden Colours. Grazie <3
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FORBIDDEN COLOURS

You remind me
A lifetime away from you
The blood of Christ
Or the beat of my heart
My love wears forbidden colours
My life believes in you once again

Quando ho detto a Georg che non credevo fosse il caso di presenziare al suo matrimonio, ho seriamente avuto paura che impazzisse. Che cominciasse a strillare, salisse in macchina e venisse a prendermi fino a casa, per poi trascinarmi alla cerimonia per i capelli, come tutti i bravi uomini delle caverne.
L’unica libertà da uomo delle caverne che si è preso, in realtà, è stato un grugnito profondo ed infuriato, di quelli che spaventano sempre l’interlocutore, perché somigliano a ruggiti repressi. Quando la bestia reprime un ruggito è perché non vuole farsi sentire dalla preda.
Dopo il ruggito, comunque, è immediatamente tornato al mondo della civiltà. L’ho sentito sospirare profondamente e l’ho immaginato socchiudere gli occhi e passarsi una mano fra i capelli con fare sconsolato. Era il suo gesto caratteristico di fronte ad ogni cattiva notizia, quando ancora vivevamo tutti insieme e potevamo dirci davvero felici.
Con quel telefono in mano, sorridevo impercettibilmente e lo ascoltavo inspirare ed espirare. Lo immaginavo muoversi esattamente come lo ricordavo, ed allo stesso tempo prendevo laconicamente atto di non avere neanche la più pallida idea di come apparisse Georg oggi, dopo tutto quel tempo.
Erano passati dieci anni da quando avevo lasciato Amburgo. E sei dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Poteva non avere più neanche un capello.
Le sue braccia potevano aver perso tono.
Poteva aver completamente cambiato abitudini, modi di fare, espressioni…
- Bill. – mi disse, con aria angosciata, - Non puoi farmi questo.
Era vero, non potevo farglielo. Così come non avevo veramente potuto abbandonare lui e Gustav, durante tutti quegli anni. Come non avevo potuto rinunciare alle telefonate, alle visite inaspettate che pure erano praticamente sparite durante gli ultimi anni – sempre loro da me, mai io da loro. Non potevo rischiare: la posta in gioco era la mia vita. Troppo alta per qualunque giocatore d’azzardo. – così come non avevo potuto rinunciare alle lettere, o anche solo a pensare a loro.
L’unico che ero stato veramente capace di abbandonare era stato Tom.
E, d’altronde, era esattamente in quel modo che doveva andare.
- Lui ci sarà, vero? – chiesi sottovoce.
- Sì. – rispose Georg, senza attendere neanche un secondo, né mostrare la minima incertezza. – Non voglio che riprendiate a parlare, anche se sai come la penso al riguardo. Non voglio neanche che vi notiate a vicenda. – sospirò ancora. – È troppo pretendere da voi che riusciate a coesistere nello stesso ambiente per una giornata?
Risi debolmente.
- Non lo so. – risposi sincero, - Non abbiamo più provato.
L’ennesimo sospiro di Georg raggiunse le mie orecchie risuonando come un’ultima disperata richiesta.
E davvero non potevo rifiutare.
- D’accordo. – annuii, - Se lui può, posso anch’io. Ci sarò.
*
Sarebbe sciocco negare che sono agitato. È un’agitazione inspiegabile, comunque. Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. L’ho saputo fin dal momento in cui Georg ha cominciato a frequentare Karen. Sapevo che sarebbe successo, perché Gustav ha cominciato immediatamente a scherzare sul fatto che, a guardarli insieme, si sarebbe giurato di vederli già sposati.
Gustav non ironizza mai su cose prive di fondamento.
Gustav, per scherzare, ha sempre bisogno di basi solide.
È per questo che non aveva mai scherzato sul twincest, prima di…
Be’. Prima di quello.
E dopo, ecco, non è che ci fosse poi molto su cui scherzare.
Comunque, anche se l’ho effettivamente saputo solo da quando ho cominciato a subodorare aria di fidanzamento, in realtà ho sempre sentito che questo momento sarebbe arrivato, indipendentemente da qualsiasi motivazione esterna. Esterna a me e Bill, dico.
Ecco perché ho sempre saputo che prima o poi ci saremmo rivisti: Bill e Tom sono sempre bastati, come motivo per rivedersi.
Almeno, prima che il nostro mondo si rovesciasse non una, non due, ma ben tre volte. Annaspando, siamo riusciti a sopravvivere alla prima. Siamo usciti malconci dalla seconda. Ma alla terza nessuno sarebbe sopravvissuto. Nessun legame è tanto forte. Neanche il nostro, no. Perché quando recidi volontariamente un’arteria non c’è nulla che tu possa fare, poi, per legarla nuovamente insieme. Anche se fai un bel nodo, cosa risolvi? Il sangue ha smesso comunque di scorrere.
- Sei teso come una corda di violino.
Mi sforzo di sorridere a Gustav, che mi porge un’enorme tazza di caffé annacquato.
- Cos’è questa brodaglia, Juschtel?! – fingo di indignarmi, stringendo la tazza bollente fra le mani. Ad Amburgo fa sempre dannatamente freddo, in inverno.
In effetti, ci sono cose che non cambiano mai.
- Non voglio che resti sveglio tutta la notte. – mi risponde il mio batterista – ex. Ex, Tomi. Ficcatelo in testa, una buona volta.
Sorrido debolmente, spalmandomi sul divano del suo salotto. È stato carino ad ospitarmi, finché Bill non si farà vedere.
- Quando hai detto che arriva? – chiedo distrattamente, sorseggiando il caffé.
Gustav sospira.
- Domani pomeriggio. Credo di avertelo detto circa un centinaio di volte. Il tuo cervello si rifiuta di immagazzinare l’informazione o godi nel farmelo ripetere fino allo sfinimento? – ribatte con un ghigno.
- Niente del genere… - confesso io con un mezzo sorriso che deve sembrare pure parecchio stupido, - Voglio solo essere sicuro.
- Ti scrivo un post-it. – ironizza lui, inarcando le sopracciglia.
Io rido piano. Non voglio svegliare Marlene né la piccola, si meritano un bel po’ di sonno. Ce la stanno mettendo tutta, per organizzare bene il matrimonio di Georg.
Be’, Marlene ce la sta mettendo tutta. Organizzare matrimoni è il suo lavoro, ma ha preso quello di Georg come una missione di vita, c’è proprio da dirlo. Gira come una trottola impazzita da quando sono qui – vale a dire già quattro giorni. La piccola Franziska, invece, ce la sta mettendo tutta solo nella complicata operazione di sfiancarsi, giorno dopo giorno. Anche lei gira come una trottola impazzita: vede ovunque esclusivamente occasioni di gioco sfrenato. Ed è anche giusto, visto che ha solo cinque anni. Comunque anche lei, a proprio modo, si sta preparando: portare le fedi all’altare non è un compito da prendere sottogamba. Nemmeno se hai solo cinque anni, sei carina da morire e il mondo intero sarebbe pronto a perdonarti anche se facessi cose molto peggiori che non capitombolare lungo la navata principale della chiesa perché sei inciampata nel tuo adorabile vestitino da meringa rosa in miniatura.
- Be’, io vado a letto. – annuncia piano Gustav, allontanandosi verso la porta. Io lo saluto con un sorriso e un breve cenno della mano, accucciandomi sotto al piumone.
Gustav s’è sposato otto anni fa.
Né io né Bill eravamo presenti.
Penso che lui non riuscirà mai a perdonarci, per questo. A suo merito va l’essere riuscito a soprassedere ed avere comunque continuato a sopportarci e volerci perfino bene, ma la cosa lo ha rattristato enormemente. Ed il sapere che, invece, per il matrimonio di Georg saremo qui, non deve rendere di certo più facile la cosa.
Ma allora erano passati solo due anni. Era troppo presto. Non potevamo proprio rischiare.
Adesso ne sono passati dieci. Possiamo fare un tentativo.
*
Odio l’aereo. Dio, Dio, Dio, lo odio a morte. Perché sono andato a vivere in Italia? È troppo distante da casa. Mi obbliga proprio a salire su questi inaffidabili pezzi di ferraglia volanti. E d’accordo che il Lago di Como offre un’invidiabile lenzuolo di discrezione sotto il quale nascondersi, ma l’anonimato non vale proprio questo terrore folle.
E dire che dovrei esserci abituato, ormai. Ho preso aerei per più di metà della mia vita, così spesso che suona quasi assurdo io ne sia ancora così irrazionalmente turbato.
Però c’è anche da dire che prima, quando prendevo l’aereo, con me c’era sempre Tom.
Adesso, invece, non c’è nessuno.
Improvvisamente, ricordo che, se sono andato a vivere così lontano dalla Germania, è stato proprio perché contavo di non ritornarci mai più. Il pensiero mi fa un po’ male, perciò cerco di estirparlo dalla mia mente ficcando più a fondo gli auricolari nelle orecchie ed aspettando che la romantica e sottilissima voce di Chris Martin ne scacci ogni traccia.
L’ultimo album dei Coldplay, comunque, fa veramente schifo. Avrebbero dovuto ritirarsi anni fa. Sapevo che collaborare con Kanye West sarebbe stato deleterio. Sono sempre stato contrario alle commistioni stilistiche, se uno fa pop o rock non ha proprio alcun bisogno di mischiarlo all’hip-hop.
Mio fratello lo sapeva bene. Mio fratello conosceva a memoria i miei gusti, intuiva le mie idee e concretizzava la mia ispirazione senza che io neanche dovessi spiegargli cos’avevo in testa.
Era per questo che i Tokio Hotel funzionavano così bene. Perché ci legava una chimica perfetta.
Io inventavo, Tom rendeva plausibile, Georg realizzava e Gustav coordinava il tutto.
Non c’è che dire: un meccanismo inestimabile.
A ripensarci, era semplicemente ovvio andasse tutto a puttane, dopo quanto è successo. I legami così perfetti sono anche fragilissimi. Incrinali anche solo un po’ e si sfaldano. Quattro persone in equilibrio su una bilancia possono crollare al più piccolo scossone. Abbiamo fatto tutti i funamboli per un sacco di tempo, prima di capire che non c’era proprio più nulla da salvare, perché tutto ciò che stavamo cercando di preservare era crollato alla prima incertezza, tantissimo tempo addietro, e noi non ce n’eravamo nemmeno accorti.
Chissà se al matrimonio sarà presente anche David…
…che sciocchezza. È ovvio che ci sarà. Ci saranno tutti, i fantasmi del mio passato.
Dovrò affrontarli. Poco da fare.
Dio, odio gli aerei.
*
- Tomi, mi sta bene il vestito?
Ogni volta che Franziska mi chiama così mi si riempie il cuore. Non saprei dire esattamente di cosa: potrebbe essere gioia, ma è un sentimento di una malinconia tale che proprio non mi riesce di identificarlo con precisione. Fa male solo guardarlo. Solo accorgersi che c’è.
Eppure, avevo un tremendo bisogno di sentirmi chiamare ancora così. Sono stato io a pretendere lo facesse.
Gustav sorride brevemente, solo per un attimo, prima di prendere la piccola in braccio e rimproverarla.
- Non puoi approfittare dell’assenza di tua madre per disobbedirle. – dice serio, - Cosa ti ha detto prima di uscire, stamattina?
Franny abbassa lo sguardo ed arriccia le labbra in una smorfia contrita.
- Di non mettere il vestito del matrimonio…
- E perché?
- Perché si può sporcare…
Gustav annuisce compiaciuto, rimettendola a terra.
- E quindi cosa fai adesso?
- Vado a toglierlo…
- …e lo posi ordinato sul letto. Ok?
Franziska annuisce e si avvia mogia mogia verso il corridoio, le braccia ciondoloni e le spalle incurvate.
- Ti sta benissimo. – sorrido io, facendole l’occhiolino, - Sei proprio bella.
Sono stato un po’ lento con la risposta, ma a giudicare da come si illumina il suo viso non deve essere arrivata troppo tardi.
- La vizi. – constata Gustav, lanciandomi un’occhiataccia mentre si siede sul divano al mio fianco.
- L’ho sempre fatto. – ridacchio io, - Cosa ti fa pensare che, solo perché sta crescendo, io debba smetterla?
- Sei peggio di un vecchio nonno. – sospira lui, alzando gli occhi al cielo. Poi torna serio. E torna anche a guardarmi. – Io devo andare a prendere Bill all’aeroporto, Tom. – annuncia quindi, grave.
Sento la saliva bloccarmisi in gola.
È una sensazione spaventosa: il solo sentire pronunciare il suo nome mi attorciglia le viscere.
È mai possibile amare una persona a questo punto? Il suo ricordo, la sua immagine, la sua semplice idea?
Dopo tutto questo tempo, non è possibile che io lo senta ancora così tanto. Non così profondamente. Non dopo tutto quello che è successo.
Dieci anni, cazzo.
Dieci anni di vita. Be’, più o meno. Non ho vissuto davvero, ma il tempo m’è passato addosso lo stesso. M’è passato dentro. È passato sulla mia pelle, sui miei occhi, sulle mie gambe. È passato sulle piccole rughe d’espressione che ho agli angoli della bocca, è passato sui miei capelli, che ormai sono corti e leggeri come l’aria, è passato sui miei vestiti, che si sono ristretti, accorciati, sgonfiati e sono poi sfociati nell’anonimato più totale.
Ho trentacinque anni, cazzo.
Non posso ancora sentire Bill come se ne avessi venti.
L’amore, a quest’età, non dovrebbe essere ancora lo stesso. Dovrei avere imparato a viverlo diversamente. Dovrei avere imparato, per il mio stesso bene.
Non mi sono mai amato granché, evidentemente.
Non lo faccio neanche adesso.
In realtà, colui che ho sempre amato era un me stesso ugualissimo e diversissimo da me.
Vista in questa prospettiva, la cosa prende decisamente senso. Anche se non dovrebbe.
- Vuoi accompagnarmi? – prosegue Gustav, prendendo il mio silenzio come un invito in tal senso.
- Non credo. – deglutisco con difficoltà.
- …sì o no? – insiste lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
Scrollo le spalle.
- Aspetterò qui. – concludo, cercando a tentoni sul divano il telecomando, - Così puoi lasciare la bambina.
Gustav sospira e si alza in piedi, scuotendo il capo.
- Meno male che vai a stare da David. – borbotta, - Non riesco nemmeno ad immaginare di avervi nella stessa casa. Scommetto che fareste i turni per uscire ed entrare dalle stanze.
Sorrido mestamente. Il ritorno di David dall’Inghilterra mi ha dato una scappatoia non indifferente. Il fatto che fra lui e Bill le cose non siano andate più tanto bene impedisce loro di condividere casa, ma fortunatamente per me le cose sono state diverse.
Suppongo sia stato solo perché io sono rimasto in Germania e Bill, invece, è fuggito in Italia. David non glielo perdonerà mai, credo.
- È probabile. – sospiro alla fine, accendendo il televisore.
- Già. – annuisce lui, - Ma la cosa sconvolgente non è questa: è che non avreste nemmeno bisogno di organizzarvi, per sincronizzare gli orologi biologici. – commenta con un sorriso triste.
Non rispondo, perché non c’è niente da dire.
Franziska trotterella in salotto e si getta sul divano, arrampicandosi immediatamente sulle mie gambe.
- Voglio guardare i cartoni animati di Barbie! – pretende, cercando di scalare le mie spalle per raggiungere la libreria sulla quale sono stipati i DVD, dietro al divano. Io la lascio fare, reggendola per i fianchi ed aspettando che scelga. Gustav mi lancia un’occhiataccia.
- La vizi proprio. – commenta rassegnato. Poi mi saluta ed esce.
*
Appena entro in casa di Gustav, vengo investito dalla certezza fisica della presenza di Tom. C’è il suo odore, lo sento ovunque. Ha saturato l’aria. Non solo è qui, ma sta qui da un bel po’ di giorni.
Mi guardo intorno con aria spaesata, ma i miei occhi sono in febbrile ricerca. Mi spavento da solo, quando succedono cose del genere. Quando comincio ad esaminare l’ambiente perché ho paura che Tom possa spuntare fuori da un angolo senza preavviso, sono veramente… tremendo.
- È andato via. – mi rassicura Gustav, intuendo i miei pensieri, - L’ho ospitato finché non è tornato David. Ora sta da lui. – mi informa, avvicinandosi alla consolle dell’ingresso e sfiorando con lo sguardo il bigliettino che Tom gli ha lasciato prima di andare via: “Sono uscito. Franny è con me. Ti aspetto da David”.
La scrittura di Tom non è cambiata. Ed io comincio a sudare freddo.
- Scappato appena ha sentito l’odore? – scocco sarcastico, indicando il foglietto con un cenno del capo.
Non so perché dico questa cattiveria gratuita. Non so perché sorrido in modo così crudele. Forse ho semplicemente bisogno di farmi un po’ di coraggio, perché proprio non ne ho.
Tremendo. Tremendo. È tremendo. Sono tremendo.
Gustav mi risponde con l’occhiataccia sconvolta e disgustata che merito.
- Bill! – mi riprende con un tono, in effetti, molto paterno, - Che razza di discorsi fai?!
- Sì, lo so, lo so… - mugolo, roteando gli occhi e trascinandomi dietro la valigia.
- No, non lo sai affatto! – continua lui, inviperito, - Ringrazia solo che tuo fratello non sia ancora qui, perché se ti avesse sentito, come minimo, ti sarebbe saltato al collo.
- No. – correggo, sedendomi sul divano e sfiorandone la fodera con una mano. È ancora tiepida. – No, Tom non l’avrebbe fatto.
- Be’, se fossi stato al suo posto, io sì. – commenta acido, scrollando le spalle.
- Gustav… - sospiro io, socchiudendo gli occhi, - noi l’abbiamo deciso insieme, di non rivederci più. Nessuno ha imposto niente a nessun altro. E nessuno ha qualcosa da rimproverare all’altro.
Lui imita il mio sospiro e si massaggia la radice del naso.
- Mi auguro che tu non lo pensi davvero. – sbotta, rassegnato. – Vado a recuperare la bambina. Tu sistemati pure. Il bagno è in fondo al corridoio, le tovaglie nel mobile dietro la porta e… - si interrompe un attimo, incrociando le braccia sul petto.
- Cosa? – lo incito io, inarcando le sopracciglia.
Lui scuote il capo.
- Credo che mi toccherà rifare il letto nella camera degli ospiti. – borbotta, - Ci ha dormito Tom, fino ad oggi.
*
Il sorriso che si apre sul volto di David appena appaio sulla porta mi consola e riesce in qualche modo a debellare ogni singola ombra dei miei pensieri, riempiendomi d’allegria.
- Tom! – chiama eccitato, abbracciandomi, - Che piacere vederti!
Mi fa sempre più impressione rivederlo, comunque. Si sta facendo vecchio. Piano piano, ma sta succedendo. I capelli brizzolati lo rendono affascinante, in qualche modo, gli danno un’aria più affidabile e meno svagata, ma…
…Dio. Quanto mi fa impressione.
- E tu? – chiede poi, ironico, chinandosi verso Franziska, - Ti sei fatta rapire? – ridacchia, prendendo la piccola in braccio.
Lei ride e gli schiocca un bacio rumoroso sulla guancia.
- Tomi non poteva lasciarmi a casa! – spiega professionale, - Ero tutta sola!
- Certo, certo! – annuisce lui, fin troppo entusiasticamente per non essere comico in maniera quasi irresistibile. Tant’è che ridacchio pure io. – Vediamo se in questa vecchia casa è rimasto qualcosa da farti mangiare per merenda. – riflette serioso, introducendoci all’interno del loft.
Io mi muovo lentamente, sistemando il borsone sulle spalle.
Questa casa mi uccide, ogni volta.
È sempre uguale. È sempre lei.
C’è così tanto di noi che fa paura.
…a ben pensarci, è l’unica cosa sia veramente rimasta di noi.
- Allora, come va? – mi chiede David, mentre rimpinza Franny di caramelle alla fragola, - Stai ancora a Loitsche?
- Già. – sorrido, - Gordon non mi lascia andare. – Lui inarca un sopracciglio, fissandomi scettico. – Ok, ok. – correggo, - Sono io che non voglio andare via. – ammetto, sorridendo mestamente.
Lui ride e mi omaggia di una pacca sulla spalla che solo nella sua mente sovraeccitata può sembrare amichevole. Perché in realtà mi fa un male cane.
Solo fisicamente, però. L’entusiasmo di David ogni volta che mi vede è sempre un balsamo.
Di Bill neanche mi chiede.
Un po’ perché sa perfettamente che non ci sentiamo più. Un po’ perché dubito che, anche se fossimo ancora in contatto, vorrebbe sapere qualcosa di lui.
Sono le controindicazioni degli abbandoni.
C’è sempre qualcuno che la prende peggio di altri.
Gustav e Georg sapevano tutto, di noi, e per loro è stato molto più facile comprendere la nostra scelta. Il povero David, invece, è sempre rimasto all’oscuro di ogni cosa. Non lo biasimo, per essere rimasto così deluso. Credo non lo biasimi neanche Bill, in fondo.
È che ogni azione ha le proprie conseguenze.
Ogni tanto, sono così incredibilmente presuntuoso da credere anche che io e Bill lo sappiamo meglio di tutti gli altri.
*
Nostra madre è morta quando noi avevamo ventidue anni. Stavamo vivendo un periodo talmente glorioso che, se ci ripenso, mi sembra perfino irreale. Der Letzte Traum, il nostro terzo album in tedesco, era stato un tale successo in Europa che la Universal inizialmente non aveva nemmeno sentito il bisogno di realizzarne una versione in inglese per il mercato internazionale.
Ciò che non avevano immaginato era che il successo, stavolta, si sarebbe fatto sentire pure in America. D’altronde, comunque, dopo tutti quegli anni di gavetta, era il minimo potessimo aspettarci dalla vita.
Insomma: l’album in inglese l’abbiamo comunque fatto, alla fine. Le vendite di The Last Dream non sono certo state astronomiche, ma di sicuro non sono state indifferenti.
E perciò tutti noi stavamo vivendo un periodo davvero incredibilmente felice. Io e Tomi avevamo perfino comprato un appartamento a Magdeburg. In parte per stare più vicini a mamma e Gordon ma mantenere comunque un po’ di privacy anche durante le vacanze, ed in parte anche per far pesare di più certe rivincite che sentivamo di meritarci in pieno.
L’infarto di mamma è arrivato del tutto inaspettato. Ha svelato una serie di crepe nella sua salute che noi non immaginavamo nemmeno. Che nemmeno Gordon immaginava. Che neanche nostra madre, probabilmente, doveva aver realmente percepito.
Ci spaventò. No. Ci terrorizzò.
Ci pietrificò.
Cercammo comunque di stringerci attorno a lei, ci prendemmo una pausa dal lavoro, ricominciammo a fare la spola da Loitsche a Magdeburg – e non fu piacevole, non fu piacevole affatto, non fosse altro per il fatto che fummo costretti a fare a ritroso la stessa dannata strada di un tempo che avremmo preferito dimenticare. E la situazione contingente non aiutava, proprio no. – fummo dei bravi figli, davvero. Devoti. Responsabili.
Lei è morta comunque.
Il suo cuore era irrimediabilmente provato. Almeno, così ci disse il medico.
Era stata talmente forte, per tutta la sua vita, che a sentirla, come motivazione, pareva del tutto campata in aria. Provata, nostra madre? Era impossibile. La Simone che conoscevamo noi non sapeva neanche dove stesse di casa la fatica. Era instancabile. Frenetica. Sempre vigile. Attiva. Rumorosa e furbissima e incasinata e brillante e splendida. Tutta splendida.
Tom ed io realizzammo che era esattamente per questo che era morta. E fu orribile.
Fu orribile.
Non saprei descriverlo altrimenti.
Non ci ho neanche mai speso su particolari quantità di parole: era morta mia madre. Bastava, per esprimere lo strazio.
A ripensarci adesso, la title-track del nostro ultimo album suona un po’ come l’estrema presa in giro autoironica di una breve quanto fulminante carriera di successo. Der Letzte Traum è una canzone molto positiva – in realtà credo di non aver mai scritto canzoni veramente e pienamente negative, ecco, ma questa lo è particolarmente. Dice che, una volta che hai esaudito tutti i tuoi sogni, e da sognare non ti resta più niente, puoi cominciare a riposarti. Stare tranquillo. Pensare a te stesso e vivere in pace.
Der Letzte Traum, però, si chiude malissimo. Ripete il concetto, ma lo amplia anche.
Forse avrei fatto meglio ad evitarlo. Almeno, non sarebbe suonato così dannatamente premonitore.

Wenn du deine Träumen erfüllt hast
und Nichts bleibt ungeträumt,
ist der letze Traum trauriger (als alle anderen)

Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti.

*
Dopo la morte di mamma, io e Bill diventammo praticamente una cosa unica. Ogni singola persona del nostro entourage, perfino chi era più abituato a vederci agire in perfetta simbiosi, si stupì e, credo, venne perfino turbato dal nostro comportamento.
Avevamo un album che spopolava più o meno in ogni parte del mondo. Quella dannata canzone si sentiva su ogni stazione radio e pure in una o due pubblicità, se non sbaglio. Il video era ovunque. Avevamo un DVD in uscita. Un best of, dannazione. Coi video e le interviste e tutto.
Nostra madre era morta. E noi non riuscivamo a reggere il peso.
Fondamentalmente, ci alternavamo. C’erano momenti nerissimi in cui io o Bill non riuscivamo proprio a mantenere la lucidità. Erano momenti che tutti aspettavano con timore: sapevano sarebbero arrivati, li giustificavano perfino, ma ne erano spaventati a morte, perché spesso e volentieri coincidevano in scoppi d’ira o di pianto piuttosto violenti, ecco. Quindi, per dire, io cominciavo a lamentarmi e spaccare vetri chiuso in camera mia, e Bill manteneva la calma. Interagiva coi giornalisti, si occupava della promozione, ed a guardarlo non avresti notato, neanche cercando in fondo ai suoi occhi, nemmeno la più piccola traccia di disagio.
Poi Bill crollava inesorabilmente, e allora ero io a prendere in mano le redini della situazione, mentre lui si sfogava a modo proprio.
Reggevamo uno per volta i ritmi che già faticavamo a reggere insieme.
Cose simili non sono mai salutari.
Quindi sì, diventammo una cosa sola. Diventammo perfino troppo uniti. Troppo davvero.
Non ci separavamo quasi mai, se non, appunto, per lavoro. Cominciammo a dividere la stanza. Dormivamo, mangiavamo, ci lavavamo ed andavamo perfino al cesso insieme. Come dannati gemelli siamesi, neanche fossimo stati attaccati per i fianchi.
Io, sinceramente, non so chi pretese il primo bacio. Non so neanche perché, in effetti, cominciammo a baciarci. Sì, suppongo potesse avere a che fare con lo stare male, con l’aver bisogno di tornare vicinissimi come quando Simone ci proteggeva dall’universo intero stringendoci nell’abbraccio caldissimo del suo ventre, però insomma, anche a guardarla da questo punto di vista, non mi sembra una ragione sufficiente per rovinarsi la vita.
Eppure è bastata. Non è spaventoso?
Inizialmente, erano baci innocenti a fior di labbra. Semplici rassicurazioni. O consolazioni.
Poi hanno cominciato a farsi più lunghi. Sempre asciuttissimi, ma potevano durare anche delle ore. Ore intere, sì, potevamo stare ore intere nascosti in un cantuccio buio, solo a sfiorarci le labbra. Senza dire una parola.
Davvero: non ricordo chi fu il primo a pretendere di più. So che fu una pretesa, perché ne ho un ricordo estremamente impetuoso – io, Bill, il muro e nient’altro – ma, in fondo, chi sia stato il primo non importa: era comunque solo questione di tempo; non l’avesse fatto lui, l’avrei fatto io, e viceversa.
Fu un errore. Fu l’ostinazione infantile di credere che se fingi di non vedere qualcosa di brutto quella cosa scomparirà davvero.
Una volta Bill me lo disse chiaramente. Mi disse che gli piaceva baciarmi con la luce spenta, perché così poteva sentirmi ma non doveva necessariamente vedermi.
Mi fece male in maniera indescrivibile. Accesi la luce, lo guardai dritto negli occhi e risposi che a me, invece, piaceva baciarlo con la luce accesa, perché io volevo vederlo.
Parlavo e piangevo. Non perché ci credessi davvero. Non volevo davvero vederlo. Ma avevo la netta sensazione stessimo sbagliando proprio tutto, ogni singola tappa di quello che avrebbe dovuto essere un percorso di ripresa ed invece si stava dimostrando una lunga discesa verso la fossa dei leoni.
E, nonostante tutto, mi sembrava che Bill non mi capisse. Mi sembrava di essere solo col mio dolore. Con la mia nostalgia. Con questi desideri assurdi che provavo, che mi tenevano al caldo e mi avvolgevano di tenerezza, ma mi disturbavano così profondamente che non riuscivo neanche a pensarci senza sentirmi male.
Sapevo che Bill stava provando le stesse cose, non dico di no. Dico solo che era troppo preso da quelle per occuparsi anche delle mie.
D’altronde, per me era lo stesso.
Ci consolammo a vicenda per quanto potemmo, fino a quando le carezze e i baci bastarono.
Poi, però, si fecero insufficienti.
Eravamo di fronte ad un bivio: facciamo il passo avanti definitivo e ci distruggiamo irrimediabilmente la vita o proviamo a ricominciare da zero e vedere se cambia qualcosa?
Io non ho deciso. Non volevo farlo. Non avrei saputo come fare.
Io non ho deciso niente.
Bill ha certamente dimostrato molta più lungimiranza di me.
*
Georg e Gustav lo sapevano. Né io né Tom abbiamo mai detto loro nulla, ed in effetti neanche loro hanno mai confermato niente del genere, ma lo sapevano.
Noi lo capimmo quando cominciarono a coprirci. Anche fisicamente. Ricordo un momento preciso che ce ne diede la certezza matematica. Io e Tom, be’, non è che ci stessimo proprio con la testa, in quel periodo. Perfino nei momenti migliori, ragionare lucidamente sembrava un’impresa impossibile. David, in quel frangente, fu efficientissimo: continuava a propinarci vacanze ogni settimana, era sempre riluttante quando si trattava di farci tornare al lavoro e, quando la cosa si rivelava indispensabile, programmava le giornate fin nei più piccoli e insignificanti dettagli, per assicurarsi che non saremmo mai rimasti privi di un supporto che ci aiutasse a sostenere il ritmo. Finché c’era da eseguire ordini, non avevamo che da seguire la tabella di marcia. Era semplice. Scorrevamo l’elenco, segnavamo gli orari, provavamo le risposte e andavamo.
C’erano comunque ancora delle attività in cui potevamo ritrovarci piuttosto liberi di agire in preda all’ispirazione del momento.
E, quando non stai bene, non è mai una cosa buona.
Quel giorno avevamo sostenuto una delle solite interviste preconfezionate con Bravo, ed era andata discretamente. Monotona e tranquilla e rassicurante, come al solito.
Poi, però, ci dissero che c’era da fare un piccolo servizio fotografico per accompagnare l’articolo.
David montò su tutte le furie. Gli avevano promesso che avrebbero usato qualcuna delle foto mai utilizzate che avevano ancora in archivio. Gli risposero che la direzione aveva preteso qualcosa di nuovo, e Sascha annuì con aria professionale, dicendo che comunque si stupiva della sua riluttanza: far vedere alle fan che i gemelli ormai stavano bene era una mossa auspicabile. La mossa giusta.
Lo era davvero, a livello di marketing.
A livello umano, però, era una colossale menzogna, perché noi non stavamo bene affatto. David lo sapeva: per questo quel servizio fotografico lo irritava, sapeva che era quello – il nostro disagio – che sarebbe venuto fuori quasi trasudando fisicamente dalle pagine patinate della rivista. Niente di particolarmente rassicurante.
Ciononostante, fummo costretti a chinare il capo e fingere una propensione alla professionalità che, in quel momento, non sentivamo affatto.
Il titolo di quell’articolo fu qualcosa di estremamente lungo, adolescenziale, melenso e sciocco. Qualcosa del tipo “Alla fine dei sogni, i Tokio Hotel si preparano a ricominciare a sognare davvero”. Insomma: la classica reprise dei versi di una canzone che tutti quanti avremmo preferito relegare nel dimenticatoio e che invece sembrava destinata a perseguitarci ancora a lungo.
Ciononostante, c’era qualcosa di vero.
Io e Tomi, il nostro nuovo sogno, lo stavamo vivendo davvero.
Quella settimana ero io, quello lucido. Tom non stava affatto bene. Doveva aver mangiato – solo perché costretto – forse appena un panino negli ultimi tre giorni. Era debole. Affaticato. Stanco. Crollava di sonno perché la notte non riusciva a riposare correttamente, e veniva dritto dritto da un attacco isterico che l’aveva colto quella stessa mattina e che si era manifestato nel cominciare a chiedere insistentemente di tornare a Loitsche perché aveva qualcosa da dire a Simone. Continuava a ripetere “Lo so che è morta, non sono impazzito, è alla sua tomba che voglio parlare!”, mentre io provavo a calmarlo accarezzandogli le spalle e David cercava ovunque un tranquillante.
Non era una buona giornata. Decisamente.
All’improvviso, mentre posavamo per il fotografo, mollemente adagiati su un pavimento bianco e immacolato, sentii la mano di Tom posarsi sulla mia e stringersi convulsamente attorno alle dita.
Non potei scansarla. Non potevo farlo a Tom. Sarebbe stato buono e giusto, ma non potei.
Ricordo che pensai “oddio, no”. Nessuno avrebbe dovuto vedere una cosa simile. E invece ecco che si preparava ad andare in stampa. Impressa su pellicola per l’eternità.
Sudai freddo e girai intorno a me uno sguardo disperato, solo per notare che Georg e Gustav, che originariamente stavano seduti rispettivamente alla mia destra ed alla sinistra di Tom, s’erano spostati fino a sedersi davanti a noi, schiena contro schiena, in modo da coprire perfettamente l’intreccio delle nostre dita.
Il fotografo, alla fine, scelse quella foto lì ed un paio di mezzibusti per ciascuno da piazzare in trasparenza come sfondi alle colonnine dell’articolo. In sostanza, ne venne fuori un servizio fotografico molto meno disastroso di quello che avevamo pensato inizialmente. Soprattutto, però, niente di troppo pericoloso era uscito dalla nostra intimità. Eravamo salvi, e non solo: eravamo stati salvati. I nostri salvatori erano stati Georg e Gustav.
Quell’episodio valse a farci capire quanto profondamente ci conoscessero e con quanta attenzione e quanta cura ci avessero tenuto d’occhio fino a quel momento. Allo stesso tempo, però, ci fece comunque capire anche quanto grave e pericolosa fosse la situazione in cui c’eravamo andati a cacciare.
Era un incesto.
Tutto ciò che stavamo provando si risolveva in una parola secchissima e dal suono orrendo – per non parlare delle sue implicazioni.
Suonava perfino sbagliato da definire in quel modo, perché non c’era proprio nulla di orrendo, tra me e Tomi. Solo tanta dolcezza, forse troppa, e tanto dolore, sicuramente troppo – ma era la realtà dei fatti. Le definizioni sono comunque sempre troppo concise, troppo dirette e troppo dolorose. Troppo esatte, in fondo. È per questo che fanno tanto male.
In quel periodo ero io, quello lucido. I nostri periodi non avevano mai una durata fissa. Non erano ciclici, non erano regolari, non erano ordinati e non erano affidabili.
Non potevo aspettare che Tomi rinsavisse, perché a quel punto sarei andato in black out io, e…
…se avessi aspettato, saremmo ancora impantanati in quella situazione. Non potevo proprio ritrarmi, dovevo prendere una decisione. Dovevo fare qualcosa.
The Last Dream aveva appena concluso di scalare faticosamente la classifica dei singoli più venduti in Canada, giungendo ad un primo posto che risuonò come una sinfonia alle orecchie di David, quando annunciai che avrei lasciato i Tokio Hotel e la musica.
L’ultimo sogno era finito.
*
Non posso colpevolizzare Bill. Non posso farlo, perché lui mi parlò a lungo, prima di mollare. Cercò di farmi capire, di prepararmi all’impatto, di motivarmi. “Non posso restare qui, Tomi”, diceva dolcemente, abbracciandomi, “Non posso continuare a girarti intorno. Altrimenti, come farai a dimenticarmi?”.
La verità è che non avrei potuto comunque, ed infatti non l’ho fatto. Continuavo a lamentarmi e piangere, ma non prendevo atto di nulla. Ascoltavo le parole di Bill, mi ferivano in profondità, ma non le immagazzinavo. Preferivo concentrarmi sulla sua stretta, sul battito del suo cuore, sulla gentile carezza del suo respiro sul mio collo.
Purtroppo, dal momento che proprio non riuscivo a ragionare correttamente, ricordo poco dei nostri ultimi giorni insieme. Tutti i pochi ricordi che posseggo sono molto dolci ed anche molto tristi, intrisi di una nostalgia potentissima che ha cominciato a farsi strada nel mio cuore già prima che Bill partisse. Non ricordo niente di come la presero gli altri, di come reagirono. So che ci sono stati dei litigi furiosi, dei tentativi di cambiare ciò che era già stato stabilito, so che fu in quei giorni che il rapporto fra David e Bill si incrinò e poi si spezzò irrimediabilmente nel momento in cui il nostro manager fu costretto a sciogliere il contratto ed accompagnare per l’ultima volta all’aeroporto il figlio che non aveva mai avuto ma che, dannazione, aveva voluto con tutte le proprie forze, e che alla fine gli era sembrato perfino di essersi guadagnato.
Rinsavii nel momento stesso in cui Bill si allontanò da me.
Non riuscii a dire o fare niente. Ricordai tutti i discorsi che mi aveva fatto, con una lucidità ed una chiarezza perfino dolorose, e mi resi conto di non poter fermare l’ingranaggio che era stato messo in movimento.
Non ci saremmo mai più rivisti.
*
Cerco di tenere lo sguardo basso. So che Tom è da qualche parte qua vicino, riesco a sentirlo con estrema precisione, ma non so se sono già pronto a fissarlo negli occhi e chiedergli scusa. So che è questo che dovrei fare, ma è sempre stato lui la mia forza, e da quando lui non è più con me sono diventato irrimediabilmente debole. Non sono sicuro che ritrovarmelo davanti possa ridarmi il coraggio che ho perso. Vorrei fosse così semplice, ma non lo è mai.
- Vorrei farti conoscere una persona… - mormora Gustav, richiamando la mia attenzione su di sé.
Sollevo lo sguardo, forzando un sorriso condiscendente, e mi ritrovo davanti una bambina stupenda.
- Oddio… - mormoro emozionato, - Tu devi essere Franziska…
Non ho ancora avuto modo di conoscerla di persona. Ovviamente, l’ho vista in foto, ma Gustav non l’ha mai portata in viaggio, e d’altronde è così piccina che la cosa proprio non mi stupisce. Ieri, tra l’altro, quando loro sono tornati a casa, io già dormivo come un ghiro – anche perché, in realtà, non avevo alcuna voglia di lasciare che Gustav cambiasse davvero le lenzuola di quel letto. E stamattina mi sono svegliato così tardi che…
…be’. Che sono tremendo l’ho già detto.
- Ma sei uno splendore! – sorrido, protendendo le braccia verso di lei. Franziska si ritrae, stringendosi al petto di suo padre, e mi guarda un po’ incuriosita.
- Papà… perché Tomi non mi riconosce? – bisbiglia incerta.
Ci metto un po’ a capire cosa vuole dire. Rimango a fissarla attonito, mentre Gustav la libera dalla stretta, consentendole di scivolare lungo il suo corpo e scappare via in cerca di qualcosa di meglio da fare. Poi mi sorride tristemente, come volesse scusarsi.
- Perdonala. – mormora imbarazzato, - Tu e Tom vi somigliate così tanto che deve essersi confusa.
Io cerco di abbozzare un sorriso, ma mi riscopro molto più turbato di quanto non vorrei.
- Lo conosce bene, lui? – chiedo a mezza voce, abbassando nuovamente lo sguardo.
Gustav annuisce.
- Tom è stato piuttosto presente, devo dire… - poi si blocca un secondo, e si affretta a correggersi, - D’altronde, era normale: vivendo qui vicino…
Sorrido per rassicurarlo e mi sforzo pure di guardarlo negli occhi.
- Non mi sono mai scusato per non essere venuto… al tuo matrimonio, intendo. – mormoro incerto.
Gustav sorride bonario.
- In realtà l’hai fatto circa un milione di volte.
- Be’… non credendoci davvero. – sorrido mesto, stringendomi nelle spalle. – Le altre volte, anche quando mi scusavo, pensavo comunque di aver fatto la cosa giusta, l’unica possibile. E quindi mi dispiaceva, ma non ero pentito.
- …ed ora lo sei?
Sorrido ancora.
Non voglio veramente rispondere a questa domanda.
E infatti non lo faccio.
*
Franny mi sta guardando come fossi un alieno già da una buona mezz’ora. Inarco un sopracciglio e la guardo allo stesso modo anch’io. Lei mi fissa di rimando, sconvolta, e poi suggella la propria disapprovazione con una linguaccia inviperita. A questo punto, non posso proprio fare altro che ridere di cuore ed avvicinarmi per scompigliarle i capelli, tra le sue proteste. Come mi permetto di scombinarli?! Mamma glieli ha acconciati fino a poco prima di arrivare in chiesa!
- Be’? – chiedo curioso, - Che avevi da guardarmi a quel modo?
Lei aggrotta comicamente le sottili sopracciglia bionde, scrutandomi con sospetto.
- Perché prima hai fatto finta di non conoscermi?! – mi rimprovera, offesa.
Oh.
Mi chino su di lei, cercando di sorridere rassicurante.
- Franny, quello di prima non ero io.
- Sì che eri tu! – protesta lei, - Ti ho visto!
- No. – sorrido ancora io, - Non hai visto me, hai visto il mio gemello, Bill. Lui è uguale a me, sai?
- Non mi fare questo scherzo! L’ha fatto pure Theo alla maestra, l’altra volta, ma lei l’ha scoperto e l’ha messo in castigo! Non ti parlo più, sai?!
- Dovresti credere a Tomi. – dice la mia voce da qualche parte alla mia sinistra. Solo che non è la mia voce. Io ci metto un po’, a capirlo, però decisamente non è la mia voce. – Lui è sempre molto sincero.
Franny solleva lo sguardo prima di me. Spalanca gli occhioni azzurrissimi che ha preso dalla mamma e modula le piccole labbra sottili di papà in una “o” di puro stupore, irrigidendosi tutta.
- Siete proprio due! – esulta, mentre sul suo volto si apre un delizioso sorriso sorpreso e divertito, - Siete ugualissimi!
Io mi rimetto dritto ma non mi volto. Mi sembra che lo smoking che indosso mi trattenga fermo, come fossi marmorizzato.
Sarebbe molto più facile, se fossi una statua.
Franziska evita il mio corpo e trotterella felice alle mie spalle, cominciando subito le presentazioni.
- Scusa per prima, credevo che eri Tomi che mi voleva fare uno scherzo! – trilla gioiosa, - Io sono Franziska e tu sei Bill! Vuoi giocare con me?
Bill ride di cuore, eppure a bassa voce, discreto, come avesse paura di farsi sentire da qualcuno, o come avesse paura che la sua risata potesse risultare offensiva per gli altri.
- Magari dopo. – risponde pacato, - Tuo papà ti sta cercando. È vicino al vaso di fiori gialli che c’è all’entrata. Lo raggiungi?
Franziska non risponde. Immagino abbia annuito e si sia messa a correre verso papà per raccontargli la nuova meravigliosa scoperta che ha effettuato, perché sento il tacco basso delle sue scarpette martellare il pavimento marmoreo della navata laterale all’ombra della quale mi sono nascosto, e poco dopo non sento più nulla.
Se non la presenza di Bill da qualche parte accanto a me.
Riempie già abbastanza i miei sensi. Non voglio sentire nient’altro.
- Tomi. Mi guarderai, prima o poi?
Sì. Certo che ti guardo, Bill. Certo che ti guardo.
Mi volto lentamente. Non so di cosa ho paura, ma so per certo che è proprio paura, quella che sto provando. Paura in piena regola. Con i tremori e i sudori freddi. Mi sembra di avere la febbre, e invece no, è solo paura.
- Bill…
Il suo nome è dolcissimo. È la cosa più dolce che esista. Mi riempie la bocca ogni volta che lo pronuncio, ma in questi dieci anni ogni volta era anche uno spillo nel petto. Adesso no. Adesso suona solo come un bel sorso d’acqua fresca.
Bill sorride. Sta fermo solo per un attimo. E poi mi corre addosso, impattando contro il mio corpo e stringendomi fra le braccia con urgenza, mentre io cerco un varco per stringerlo a mia volta e, non trovandolo, mi lascio semplicemente andare contro il suo collo, inspirando il suo profumo, saggiando il tepore della sua pelle con le labbra, sfiorandogli una guancia con le ciglia.
- Amore mio…
E non so chi l’abbia detto. Non percepisco il mio corpo muoversi. Non riconosco le differenze fra le nostre voci. Forse perché semplicemente non ce ne sono più. Magari la distanza ha cancellato anche quelle.
- Dio… - stavolta so chi sta parlando. È lui. Lo so perché s’è allontanato da me e posso vedere le sue labbra modulare le parole. Avrei preferito rimanesse più vicino, ma mi sta bene anche così, alla fine. – Ora capisco perché Franziska mi ha scambiato per te…
- Sì, è sorprendente! – rispondo io, con entusiasmo perfino eccessivo, - Siamo identici! Non so più da… sono decenni che non siamo più così uguali!
Bill scuote lentamente il capo.
- No. – risponde pacato, - È che sorridiamo allo stesso modo. – la sua tranquillità s’incrina, mentre si stringe nelle spalle ed inarca le sopracciglia, guardandomi tristemente. – Sei stato molto male?
Io cerco di mantenere il sorriso. Non voglio incolparlo di niente, davvero. So che ha già provveduto da solo. Lo so, perché lo conosco. Nonostante tutto il tempo passato, io lo conosco ancora benissimo.
- Non pensiamoci. – dico, scuotendo il capo, - Cielo, sei biondo! Non posso veramente stare a riflettere sulla sofferenza, sei biondo!
- Anche tu! – ride lui, coprendosi le labbra con una mano, - Non fare sensazionalismi!
- Per me essere biondo è la norma! – ribatto competente, socchiudendo gli occhi.
Lui inclina lievemente il capo.
- Anche per me. – ammette in un sospiro, - Ormai da cinque o sei anni, credo. Ho tagliato i capelli, li ho lasciati ricrescere del loro colore… sono diventato un perfetto signor Nessuno. – sorride ancora, intrecciando le braccia dietro la schiena. – Non sei fiero di me?
Io inarco le sopracciglia, ghignando sardonico.
- Quello sempre. – ma il mio sorriso si smorza inevitabilmente. – Hai visto? – chiedo poi, deglutendo agitato. – Non ti ho cercato. Sono stato bravo.
Lui annuisce lentamente.
- Non ne ho mai dubitato. – poi si lascia andare ad un sorrisino brevissimo, triste in maniera quasi dolorosa, e si avvicina nuovamente, - Com’è Karen? – si informa, - È giusta per Georg?
Ridacchio divertito.
- Perfetta.
- E Marlene per Gustav?
- Anche lei.
Ride compiaciuto, rilassando le spalle tese.
- Ognuno ha il suo, vedo. – commenta ironico, - E noi due?
Mi stai provocando o stai solo cercando di dirmi qualcosa?
- Noi ce l’abbiamo da sempre.
Il suo sorriso si fa dolcissimo, ed ancora più triste. In questo preciso momento, non so se vorrei cancellarlo o lasciarglielo addosso per sempre. È stupendo e fa male. È la perfetta sostanza di Bill. Bill è fatto di questi sorrisi qui. Da sempre.
- Io sto in una casa che odio. – dice a bassa voce, - La vista è splendida, ma è enorme. È vuota. La odio e basta.
Fingo di riflettere.
- Be’, il mio appartamento a Loitsche è già piccolo per me e Gordon, però la città è molto diversa da com’era prima. È più grande. Magari un appartamento nuovo si trova.
Il suo sorriso si apre ancora un po’. Si fa più luminoso. Decisamente più sostenibile. E infatti sorrido anche io.
- Non pensi che sarebbe uno sbaglio enorme?
Mi mordo un labbro e scuoto il capo.
No, non lo penso. Mai, mai, mai.
Bill inspira e trattiene l’aria nel petto, come volesse provare a farsi coraggio.
- Tomi… davvero pensi che noi potremmo-
- Non ha importanza quello che penso. – lo interrompo, fissandolo dritto negli occhi, - È ciò che voglio. Tu lo vuoi?
Georg appare al mio fianco, le sopracciglia aggrottate ed un broncio estremamente infantile sul volto.
- Posso anche essere contento di questo riavvicinamento, - commenta, incrociando le braccia sul petto, - ma non posso dire “sì” senza il mio testimone di nozze! Tom, ci diamo una mossa o no?
Io e Bill scoppiamo a ridere nello stesso momento, e Georg ci guarda come fossimo improvvisamente diventati viola, inclinando lievemente il capo.
- Non si dice “sì”, Georg. – lo corregge Bill, avvicinandosi a lui per stringerlo in un abbraccio che è al contempo un “congratulazioni”, uno “scusa” e un “ti voglio bene”. Poi si volta a guardarmi. – Si dice “lo voglio”.
Sorrido.
Possiamo farcela.
Forse non è vero che ad un certo punto i sogni si esauriscono. Forse continuano a nascere sempre. Forse proprio non scompaiono mai.
- Be’, andiamo. – sospiro infine, tirando Georg per il colletto dello smoking e strappandolo letteralmente dalle braccia di Bill, - Con tutta la fatica che hai fatto prima di trovare quella giusta, ci manca solo che ti fai abbandonare all’altare perché sei arrivato in ritardo!
Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Language.
- Durante un incidente d'auto, Tom Kaulitz muore. Ed a Bill, di lui, non resta niente, tranne l'ultima litigata che hanno fatto prima che lui uscisse. Non resta niente... o forse no?
Note: Questa storia è in realtà frutto di una cospirazione è_é L’ultimo concorso di Criticoni si è svolto assegnando dei temi a cui ispirarsi per scrivere tramite sorteggio. Chiaramente, a me è toccato prendere ispirazione da Love Is Dead (che sarebbe la versione anglofona della – a mio parere molto migliore – Totgeliebt che dà il titolo alla fanfiction). Assieme a Love Is Dead avevo da ispirarmi a tutta un’altra serie di cose. Happy Ending di Mika (che si adattava al punto che l’ho pure citata in calce alla storia, toh!), un’immagine con un fuoco, un’altra rappresentante il DNA… e poi una serie di cose che non sono proprio riuscita ad inserire, come una citazione di Woody Allen, un’altra di Nietzsche ed Unwritten di Natasha Bedingfield. Comunque ho fatto del mio meglio >.<
Scrivere una deathfic è stato per me motivo di grande sconvolgimento umano ç_ç Spero solo non faccia troppo schifo. È la prima e sicuramente l’ultima che scriverò sui gemelli. Una basta e avanza. Poi ne ho in mente una mollamy, ma è meno deprimente, prometto è.é” Anche se Nai non condivide questo parere. Comunque, spero che abbiate gradito la lettura ^^
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
TOTGELIEBT

This is the way you left me
I’m not pretending
No hope, no love, no glory
No happy handing
This is the way that we love
Like it’s forever
Then live the rest of our lives
But not together

Noi due, Tomi, ci siamo amati a morte, anche se a morire sei stato solo tu. E non è stata colpa mia.
Ci siamo amati a morte, ma tu non sei morto d’amore. Il che vuol dire che non è stata nemmeno colpa tua.
Eppure, io qualcuno dovrò incolparlo. Quando muore una così importante parte di te, hai proprio bisogno di scaricare un po’ di risentimento gratuito su qualcuno. Anche una persona a caso. Basta trovare uno straccio di motivo. Pure fittizio, pretestuoso… purché conservi quel minimo di consistenza che lo renda giustificato.
Ma in Dio non credo. Non posso prendermela con lui.
E tu eri solo, in macchina. Solo e spaventosamente ubriaco.
E non posso prendermela con l’alcool, perché poi senza di lui comincerei a sentirmi perso. Mi hai detto spesso che rasentavo l’alcolismo patologico. Be’, è vero. Ed ho come l’impressione che, da qui in poi, potrò solo peggiorare. Però è curioso che a morire ubriaco sia stato tu, mentre di fronte a me si prospetta probabilmente una lunga, lunghissima ed intollerabile vita.
Monca. Ma vita.
Io non ti ho nemmeno visto morire, Tomi. Io non c’ero. Io ero in camera, al calduccio, in albergo, protetto da tutto. Pure incazzato con te, perché merda, mi avevi lasciato solo. Col mio stupido mal di gola e le mie stupide lamentele e le mie stupide frustrazioni e le mie stupide paranoie. Quella notte, ho cercato nello specchio la tua immagine, non la mia, e non sono riuscito a visualizzarla. Il perché l’ho scoperto solo la mattina successiva, quando David mi ha detto cos’era successo.
David l’ha visto. Lui sì. Oh, no, non il momento in cui sei andato via… però quello immediatamente successivo. Mi ha raccontato com’era
il posto, quando è arrivato. Mi ha detto del fuoco.
Sai che mi sono messo ad urlare? Perché ho pensato che dovesse essere stata una morte orribile. Perché tu, con l’alcool, perdevi la testa abbastanza da incasinarti l’esistenza, ma non da anestetizzarti del tutto rispetto agli stimoli sensoriali che la vita ti imponeva. Perché tu, la vita, volevi proprio viverla. Senza pensieri. Era a questo che ti serviva sfondarti di superalcolici.
Perciò ho pensato che l’alcool dovesse essere stato sufficiente da costringerti a sbandare, ma non altrettanto da lasciarti morire senza soffrire. Ed ho pensato alle tue urla di dolore, all’abitacolo in fiamme, alle lamiere incandescenti e contorte che ti si chiudevano addosso come una gabbia, e mi è sembrato di sentire sulla pelle la stessa sofferenza che avevi provato tu.
Ed era
atroce. Per questo ho urlato.
Ho pianto, invece, perché ti amavo. E mi saresti mancato. Non nel senso comune col quale si intende l’assenza delle persone. Non quella degli arrivederci. Neanche quella degli addii.
Quella delle amputazioni, quella sì.
Delle privazioni ingiuste e dolorose.
Dei vuoti dove prima c’erano pieni e dei pieni che tali non sarebbero stati mai più.
Io ti amavo, Tomi, ma, anche in questo caso, non nel senso comune col quale si intende l’amore. La gente, quando ama, desidera e bacia e tocca. L’amore si
fa, non si pensa e basta. Però, io non desideravo te e tu non desideravi me. Niente baci. Niente sesso. Neanche una fisicità tanto imponente o onnipresente. Una carezza ogni tanto. Un abbraccio per festeggiare. Un saluto prima di un’uscita. Una stretta di mano prima di un’esibizione. E niente di più.
Noi non abbiamo mai fatto l’amore. Non l’abbiamo neanche mai voluto. Ma ci amavamo lo stesso.
D’altronde, in genere, non si ama mai davvero a morte. Ci si ferma sempre un attimo prima. Sul ciglio.
Io, però, non intendo farlo. Perché ti amo tutto. Perché ti amo sempre. Anche adesso, ti amo troppo. Siamo un unico pezzo. Lo stesso sangue. Lo stesso DNA. Più metaforicamente, la stessa pelle, le stesse ossa, gli stessi muscoli. La stessa anima. Se solo ci credessi. E vorrei davvero.
Noi ci siamo amati a morte. Non siamo morti d’amore.
È stato l’amore a morire per noi.

*
La mattina del primo giorno senza Tom fu apatica.
Bill rimase a letto. D’altronde, il materasso era incredibilmente accogliente. Aveva preso la sua forma ed anche il suo calore. Gli si era adattato addosso come uno splendido vestito. E le lenzuola avevano fatto lo stesso, come ricchi drappeggi. Strinse le dita attorno al tessuto per saggiarne la consistenza. Era morbido e liscio. Emanava un profumo dolcissimo. Purissimo. Di pulito intonso.
Doveva essere lo stesso profumo del lenzuolo che avevano messo addosso a Tom, quando l’avevano tirato fuori dalla carcassa dell’auto. Doveva esserlo, prima di impregnarsi delle tracce insopportabili della sua pelle carbonizzata e del suo sangue rappreso.
Lui quell’odore non l’aveva sentito. Non sarebbe mai riuscito a farsene una ragione: dopo tante promesse, non erano davvero morti insieme. Non c’era stato nessun coreografico salto. Nessun ultimo abbraccio. Solo una litigata afona ed uno schianto furioso.
David entrò in camera dopo aver bussato per almeno dieci minuti. Già al secondo, Bill avrebbe voluto urlargli di lasciarlo in pace, ma dalla gola non usciva proprio niente. Gli sforzi ai quali l’aveva sottoposta durante la notte – fra strilli, grida, lamenti e pianti – dovevano averla messa definitivamente fuori gioco.
Poco male. Non aveva più intenzione di cantare, in ogni caso.
- Come stai? – chiese il manager, con aria preoccupata, chinandosi su di lui per misurargli la febbre con una mano sulla fronte. Bill non rispose. – Qui ci vuole un termometro… - aggiunse l’uomo, prima di allontanarsi verso il comò, aprirne un cassetto e tirarne fuori una scatolina in plastica trasparente. – Ecco. – disse, sollevandogli di peso un braccio per infilare il termometro sotto l’ascella, - Vediamo.
Incandescente. Quella macchina doveva essere stata incandescente.
David estrasse il termometro e constatò la temperatura, commentandola con una smorfia preoccupata ed una decisa scossa del capo.
- Ora ti porto qualcosa. – notificò, allontanandosi verso la porta. Si fermò sul ciglio, senza neanche voltarsi a guardarlo. – Senti, Bill, tu non devi fare niente, ok? Tua madre e Gordon sono già in treno, saranno qui nel pomeriggio. Tuo padre invece era in viaggio, quindi non arriverà prima di sera. Si occuperanno di tutto loro. Appena Simone arriva, te la mando qui…
Bill scosse decisamente il capo, affondando il volto nel cuscino.
- …non vuoi vedere tua madre, Bill?
Lui ebbe un momento d’esitazione. Strinse ancora le dita attorno al lenzuolo e si morse un labbro.
Poi scosse nuovamente il capo, più fermamente.
- …d’accordo. – sospirò David, aprendo la porta, - Adesso torno con la medicina. Cerca di non addormentarti.
Certo. Come fosse una possibilità contemplabile.
*
Il secondo giorno senza Tom, fu quello in cui Tom tornò.
Stava lì, seduto sulla propria bara, e guardava il legno come potesse scrutare attraverso la superficie e fissare il proprio cadavere al di sotto.
Simone era stata efficientissima: aveva preteso di essere lei a prendere contatti con l’agenzia funebre, nonché di organizzare il funerale. E questo nonostante David fosse stato più che sollecito nell’insistere sulla possibilità di lasciar fare tutto a lui.
Era un comportamento assolutamente prevedibile, da parte di sua madre. Bill la conosceva alla perfezione. Stare seduta in un angolo a rimuginare nel proprio dolore, semplicemente non sarebbe stato da lei. Avrebbe cominciato a sentirsi inutile, a pensare e ripensare a quanto fosse stato lontano il suo bambino da lei, nel momento in cui moriva, e probabilmente non sarebbe più riuscita ad uscirne. Mettendosi in movimento esorcizzava il senso di colpa e quello di inadeguatezza. Si sentiva dinamica, sentiva di stare facendo qualcosa di buono per il suo piccolo.
Gordon, distrutto – Tom era sempre stato il suo preferito, in fondo – doveva essere rimasto a guardarla con aria attonita per tutto il tempo, ci avrebbe scommesso.
E quanto a suo padre… be’, suonava un po’ triste – un po’ tanto – da ammettere, ma non lo conosceva abbastanza per avanzare ipotesi sulle sue reazioni.
Lui, comunque, non aveva voluto vedere nessuno. Sua madre doveva esserselo aspettato, tant’è che, dopo un vago tentativo di farsi aprire la porta della camera, aveva lasciato perdere per concentrarsi su attività più utili.
Non era stata organizzata nessuna veglia funebre. Andreas, d’altronde, sarebbe arrivato solo l’indomani. Ed, oltre a lui, non c’era nessun altro che avesse il diritto d’essere ammesso a qualcosa di simile.
Restare tutti in piedi attorno ad una bara chiusa, in conclusione, non era sembrato a nessuno particolarmente indicato.
Bill, però, non aveva resistito. Perciò, durante la notte, mentre tutti dormivano – o almeno provavano a farlo – s’era alzato, era uscito dalla propria camera ed era andato in salotto.
E Tom era lì.
Se Bill avesse avuto ancora anche un solo fiato di voce, l’avrebbe esaurito in quel momento. Perché si sarebbe messo a strillare fino a sputare i polmoni. Fortunatamente, la sua voce era già scomparsa due giorni prima, perciò all’interno dell’appartamento silenzioso non si mosse niente. Neanche una molecola d’aria.
Bill rimase immobile sulla porta, a fissare la figura evanescente appollaiata sulla bara. Tom sembrava intento a rimirare le venature del legno, come fossero la cosa più affascinante del mondo.
E invece la cosa più affascinante del mondo era lui.
Era traslucido. Luminoso. Bianchissimo. Sembrava morbido e caldo come un abbraccio, anche da quella distanza. Ed era anche bellissimo. Come sempre.
- Tomi… - lo chiamò, ma la sua non era una voce, era un rantolo disperato. Cacofonico e intollerabile.
Non voglio più dire neanche una parola.
Il fantasma si voltò a guardarlo, lievemente stupito. I suoi occhi erano grandi e candidi, del tutto diversi da quelli che erano stati gli occhi di Tom, eppure, in qualche modo, incredibilmente simili.
- Mi vedi…? – chiese incerto. Poi scattò in piedi, saltando giù dalla bara e facendosi strada a grandi passi verso di lui, come animato da una fretta sovrannaturale, - Tu mi vedi? Bill, mi vedi sul serio?! – insistette, sollevando le mani a cingergli le spalle.
Bill rabbrividì.
- Ti vedo… - sussurrò pianissimo, sforzandosi sinceramente di infrangere il voto appena formulato, - e ti sento anche… oddio, posso toccarti… - singhiozzò, sollevando a propria volta le mani e posandogliele sul petto.
Tom esalò un sospiro sollevato e sorrise, sporgendosi verso di lui ed abbracciandolo teneramente.
Ed era proprio come Bill l’aveva immaginato. Morbido e caldo.
- Sono in giro da quando è successo… - raccontò quasi trasognato Tom, senza separarsi da lui, - Ho provato a parlare con tutti, ma nessuno mi sentiva… e non avevo idea di dove fossi tu…
- Non volevo… - sussurrò Bill, ma poi scosse il capo, - Lascia perdere. – lo esortò, forzando un sorriso, - …non so che dirti. – aggiunse poi, ridacchiando lievemente.
La risatina di Tom gli fece eco, mentre le sue mani gli risalivano lungo le spalle e si posavano, calde e morbide com’erano, sulle sue guance.
- Neanche io so esattamente cosa dire. – borbottò imbarazzato, - Ma io sono giustificato, sono il morto!
- Affatto! – bofonchiò Bill, aggrottando le sopracciglia, - Dovresti avere un sacco di cose da dire, proprio tu che sei il-… - si interruppe, deglutendo faticosamente.
- …il morto, Billi. – sorrise mestamente Tom, - Il morto. – ripeté ancora.
- Sì. – annuì il moro, sbrigativo, abbassando lo sguardo, - Appunto. Tom, com’è successo? – si ritrovò a chiedere, con un’urgenza inaspettata.
Suo fratello non si mostrò stupito da quella domanda.
- Sono andato a sbattere. – rispose seccamente, - Ho perso il controllo. Non sono neanche stato particolarmente sfigato, voglio dire, non è che ci fosse un albero e, guarda un po’, patapum. – ironizzò, e Bill si lasciò andare ad una risata spezzata, mordicchiandosi un labbro per frenare il singhiozzo dirompente che, partendo dal centro del petto, sembrava intenzionato a devastare ogni singola molecola del suo corpo. – Comunque gli alberi erano tutta una serie. – precisò Tom, scrollando le spalle, - Non potevo proprio evitarli.
- Quella stupida macchina… - mormorò Bill, abbassando ulteriormente gli occhi.
- Non parlare così dell’Escalade! – mugugnò Tom, offeso, - Mi piangeva il cuore al solo pensiero di quel gioiellino agonizzante fra le fiamme!
Bill scosse il capo, simulando una smorfia di disapprovazione.
- Tom… - chiese poi, incapace di frenarsi, - Com’è…
- …morire?
Annuì. Non era curiosità scientifica, affatto. Voleva soltanto sapere come s’era sentito Tom. Cos’aveva provato. Voleva provare a replicarlo nella propria mente, ad immaginare di essere stato lui a provarlo. Voleva solo cercare di stargli vicino, in qualche modo.
- Strano. – rispose il biondo, pensoso, - Sentivo come se mi stessi staccando dal mio stesso corpo. E, per un certo periodo, ho sentito freddissimo, e mi sembrava di essere nudo. Stavo accucciato lontano dall’incendio, vicino ad un cespuglio, e sentivo il vento ghiacciato della sera sulla pelle, l’odore acre della plastica bruciata a pungermi il naso, la terra umida sotto i piedi, le foglie che mi pizzicavano le guance e il collo… - scrollò le spalle, appollaiandosi nuovamente sulla bara con un saltello, - E poi è tornato tutto normale. Mi sentivo di nuovo vestito e tranquillo e ho cominciato a camminare. Ho camminato per un sacco di tempo, ho visto sorgere il sole e tutto il resto. Poi ho pensato a casa e mi sono ritrovato sulla bara.
Bill spalancò gli occhi.
- Hai viaggiato attraverso lo spazio? – chiese, incredulo.
- Eh. – sbottò Tom, - In fondo, sono un fantasma. Probabilmente sono in grado di fare un sacco di cose affatto normali.
- Quindi – cercò di sorridere ancora il moro, - non è cambiato niente, rispetto a prima.
- Ehi! – sbraitò il rasta, afferrandogli il naso con due dita e prendendo a tirarlo debolmente qua e là, - Un po’ di rispetto per il tuo fratello maggiore appena deceduto! – lo rimproverò.
Bill si liberò dalla stretta con uno scatto isterico, stringendosi nelle spalle.
- Potresti, per favore, smettere di parlarne con tanta leggerezza? – chiese, con tono quasi implorante.
Tom sorrise teneramente e si appoggiò alla bara con entrambe le mani.
- A che pro? – chiese retorico.
Bill non rispose. Si limitò ad arrampicarsi silenziosamente sulla bara accanto al fratello, raccogliendo le ginocchia al petto e lasciandosi abbracciare piano da Tom, al suo fianco.
- Tomi? – chiese infine, nascondendo il volto fra le ginocchia, - Perché sei un fantasma?
Tom rise lievemente, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla tempia.
- Pensavi che avrei mai potuto lasciarti così?
*
Il terzo giorno senza Tom cominciò con Tom fra le lenzuola.
Bill si rigirò sul materasso con un sorriso lievissimo a increspare le labbra, dischiuse le palpebre e trovò il fantasma di suo fratello disteso al proprio fianco. Lui lo guardava e sorrideva, ed aveva inarcato le sopracciglia nel classico modo che usava per avvertirlo che stava per cominciare a prenderlo in giro fino allo sfinimento.
- Sai che quando dormi sei proprio-
- Non una parola! – biascicò imbarazzato, dandogli una manata sul naso, - Sei proprio maleducato. Non solo ti infili nel mio letto, ma passi anche la notte a spiarmi!
Tom si girò su un fianco, appoggiando mollemente il capo contro una mano.
- Carino. – concluse, - Volevo dire carino.
Bill arrossì ed abbassò lo sguardo, cercando di sorridere.
- Potrei anche abituarmi ai complimenti, eh. Stai attento.
- Oh, andiamo! – sbuffò Tom, rotolando fra le lenzuola, - Tu sei complimenti-dipendente! Sei praticamente psicotico, in questo senso! Non prendermi per il culo. Guarda che l’aldilà davvero non esiste, non ho nessun San Pietro cui tessere le tue lodi perché ti ammetta fra i cherubini.
- Scusa, ma tu che ne sai che l’aldilà non esiste? – borbottò lui, petulante, - Non ci sei ancora stato!
- Bill, non starai mica decidendo di diventare religioso proprio adesso, eh? – sbottò lui, acido, - Guarda che potrei prenderla come un’offesa personale!
- Non lo so… - mugugnò Bill, pensoso, - In fondo, la tua presenza qui dimostra che l’anima esiste davvero, no? E quindi, magari un Paradiso c’è. Farei meglio a prepararmi per l’eventualità, nel caso avessi ereditato anche parte dei geni che fanno di te un idiota e decidessi di porre fine alla mia vita nel fiore degli anni. Tu che dici?
- Dico in primo luogo che sei un coglione. – sibilò Tom, squadrandolo con manifesto fastidio, - In secondo luogo che non sono un idiota e non ho deciso di porre fine e bla bla. In terzo luogo che sei un coglione.
- L’hai già detto.
- In quarto luogo che sei doppiamente coglione. Ed infine che, a mio parere, se il Paradiso esiste per come lo intendo io, non ho bisogno di alcuna preparazione che non sia una scorta infinita di preservativi. Secondo te gli angeli femmina si possono ingravidare? – s’informò curioso.
- La tua ignoranza è abissale. – sospirò Bill, abbandonando il capo contro il cuscino, - Gli angeli sono asessuati. – s’interruppe e sorrise brevemente, stringendosi nelle spalle, - È per questo che le ragazzine danno dell’angelo a me.
- Cosa che dimostra la loro ignoranza abissale, - ghignò Tom, - perché tu sei tutto meno che angelico.
- Sai, Tom? Sei talmente stronzo che credo che gli angeli non te la darebbero nemmeno se potessero scopare sul serio.
- Piccolo ingrato impertinente! – lo rimproverò il biondo, salendogli a cavalcioni e cominciando sistematicamente a tentare di assassinarlo mediante il solletico. Bill rise e si contorse fra le braccia del proprio fratello, cercando di liberarsi dalla sua stretta. Quando ci riuscì, entrambi si lasciarono cadere spossati sul letto, ridendo ancora come due bambini.
Fu allora che qualcuno bussò alla porta.
- Bill? – chiese una voce preoccupata e familiare.
Tom si drizzò a sedere, fissando l’uscio con aria incerta.
- È Andi… - bisbigliò, mordicchiandosi un labbro. Il piercing sbatteva contro gli incisivi, ma non produceva alcun suono. Bill rabbrividì. – Dovresti farlo entrare… - suggerì quindi, voltandosi a guardarlo tristemente.
Bill scosse il capo, sistemandosi meglio fra le lenzuola.
- Non mi va di vedere nessuno. – si giustificò, nascondendosi dietro al cuscino.
Tom si distese al suo fianco e semplicemente lo guardò, imitando la sua posa intimorita.
- Tomi. – lo richiamò alla fine Bill, sollevando una mano a cingere il tessuto etereo della maglietta bianchissima che il fratello indossava, - Voglio abituarmi davvero. Voglio che tu resti qui per sempre.
Tom si limitò a sorridere.
*
Il quarto giorno senza Tom, Bill si svegliò perché il suo stomaco brontolava.
Tom, sempre disteso al suo fianco, aprì gli occhi nello stesso momento, lo fissò con aria sconvolta e poi scoppiò a ridere.
Bill lo schiaffeggiò senza pietà.
- Bello stronzo sei! – si lamentò, massaggiandosi il palmo della mano, dolorante, - Non so neanche da quant’è che non mangio…
- Un sacco di tempo. – rispose al suo posto Tom, saltando giù dal letto e prendendo a rimirarsi nello specchio. – Dio, guarda che figata, riesco a vederti attraverso il mio corpo!
Bill sorrise lievemente e poi lanciò uno sguardo alla finestra. Oltre le tende sottilissime, le serrande alzate lasciavano intravedere il cielo scurissimo della notte. La sera prima era rimasto a chiacchierare con suo fratello di futilità immani fino ad orari improponibili… era normale che poi avesse usato l’intero giorno successivo per riposarsi.
- Ma tu dormi, Tomi? – chiese soprappensiero, alzandosi a propria volta.
- No. – rispose lui disinvoltamente, - Ma non sono nemmeno stanco. Ti accompagno in cucina?
Bill annuì ed entrambi si diressero verso la porta. Il moro la dischiuse leggermente, sbirciando all’esterno. Il corridoio era buio, e così sembrava anche il resto dell’appartamento.
- Questo mi ricorda quando ero io a sgattaiolare in cucina nottetempo per procurarti schifezze da ingurgitare di nascosto da mamma. – ridacchio Tom, sospingendo delicatamente il fratello fuori dalla stanza.
- Guarda che l’ho fatto anch’io per te. – borbottò Bill, offeso, dirigendosi a grandi passi verso la cucina, - Quando eri ammalato.
- Concorderai che le volte in cui sei stato malato tu superano di gran lunga in numero quelle in cui sono stato ammalato io, spero! – lo riprese suo fratello, allibito, seguendolo.
Bill agitò una mano disinteressata e si fiondò in cucina, attaccando immediatamente il frigorifero, non appena mise piede nella stanza, senza neanche accendere la luce. Si raggomitolò di fronte allo sportello aperto ed utilizzò le proprie ginocchia come ripiano, sul quale preparò un sandwich al salmone. Poi lo divise in due, ficcò la propria metà in bocca, si alzò in piedi e richiuse il frigorifero, voltandosi verso Tom ed offrendogli l’altra metà.
- Buoi? – biascicò, mentre un pezzetto di salmone sfuggiva alle sue labbra e cominciava a pendere da un angolo verso il mento.
Tom fece una smorfia.
- Non so se posso mangiare, e comunque non ho fame. Ma Dio! – esalò sconvolto, - Salmone?! Sono le tre del mattino!
Bill scrollò le spalle e prese possesso di una sedia.
- Ho fame! – motivò tranquillo.
- Ti verrà un blocco intestinale fulminante e ci lascerai le penne.
Bill lo fulminò con un’occhiataccia irritata, inghiottendo l’ultimo boccone.
- Ne parli ancora in maniera fin troppo disinvolta, per i miei gusti. – si lamentò.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – sorrise Tom, sedendosi di fronte a lui, - Tu non riesci neanche a dire che sono morto.
- Non è una colpa. – cercò di difendersi lui, aggrottando le sopracciglia, - Non parlare come se non riuscissi ad accettare… quello che ti è successo. Sono perfettamente consapevole, e lucido, Tom. È solo che non voglio… non me la sento di… - si mordicchiò un labbro, mentre lo sguardo vagava incerto sulle pareti scure della stanza, - …ma io non ho problemi! – argomentò poi, agitato, - Sono triste, ma mi pare anche del tutto normale! A parte questo, io-
- A parte questo, Bill, - sospirò Tom, intrecciando le dita di fronte a sé come faceva spesso da vivo, - io sono ancora qui. E questo non puoi ignorarlo.
Bill deglutì.
- Questo non dipende da me. – rispose gelido.
- Ah, no?
- No. – ribatté. – E mi sono stufato di questa conversazione. Me ne torno in camera, e tu sei esplicitamente invitato a non seguirmi. – concluse. Dopodiché, si alzò da tavola e si diresse frettolosamente verso il corridoio.
- Bill. – lo chiamò piano Tom, prima che riuscisse ad uscire dalla cucina. Lui non poté fare a meno di voltarsi.
- Cosa? – gli chiese, acido.
Tom sorrise e gli porse l’altra metà del sandwich.
- Stai dimenticando questo.
*
Il quinto giorno senza Tom, Bill aprì gli occhi e si rese conto che effettivamente Tom non c’era.
Meccanicamente, strinse le dita attorno al tessuto leggero delle lenzuola e digrignò i denti. Fissò il soffitto con aria persa per molti secondi, prima di saltare letteralmente giù dal materasso e cominciare a vagare come un’anima in pena avanti e indietro lungo la stanza.
Sapeva che Tom era ancora in quella casa. Riusciva quasi a sentirne la voce.
Al di là della porta, in effetti, mille voci s’accavallavano l’una sull’altra. David stava riferendo a Simone le ultime notizie dall’esterno: il funerale andava rimandato ancora. Nel sentire quella parola, Bill non poté fare a meno di chiedersi per quanti giorni quei rinvii dovevano essersi prolungati, perché la risposta di sua madre – una secchissima ed asciutta bestemmia a mezza voce – indicava un nervosismo esasperato che proprio non le apparteneva, e doveva essere stato motivato da qualcosa di incredibilmente grave. David continuò a parlare: l’appartamento era completamente circondato; giornalisti, fan, guardie del corpo, semplici curiosi, non si poteva nemmeno affacciare il naso senza che qualcuno te lo afferrasse e lo usasse per tirarti fuori a forza.
Bill sentì Andreas prorompere in un velenosissimo “E che cazzo”, e poi lo sentì lamentarsi di quanto nessuno là fuori conoscesse la parola rispetto.
- Dovremmo comunque trovare un modo per tirarlo fuori di qui… - continuò il ragazzo, riferendosi evidentemente alla bara, - Non so quanto sia saggio tenerlo in questa casa.
Simone non disse una parola.
- È una situazione del tutto anomala. – sospirò David, confuso, - Sinceramente, non ho la più pallida idea di cosa fare. E Bill si ostina a non uscire…
- Piantatela, tutti e due. – disse a quel punto sua madre, gelida. – Farci prendere dal panico non risolverà un accidenti. – rimase in silenzio per qualche secondo, riflettendo. – La bara rimane. – concluse quindi, - David, cerca di parlare con qualcuno, nel frattempo. Contatta la polizia, i servizi segreti, l’antisommossa, insomma, fai in modo che quell’assembramento di persone là fuori sparisca.
Bill sorrise lievemente. Sua madre era comunque rimasta un toro.
Si appoggiò di spalle alla porta, ritornando a fissare il soffitto e respirando lentamente, come a volersi tranquillizzare.
In realtà non si sentiva agitato. La baraonda dell’esterno non lo turbava minimamente, e l’ansia che coglieva tutti i suoi coinquilini neanche lo toccava.
Però gli mancava Tom. Gli mancava incredibilmente.
Aprì le mani e sfiorò il legno liscio della porta, prima di richiudere i pugni, lasciando che le unghia strisciassero rumorosamente contro la superficie.
- Cucciolo… - bisbigliò la voce di sua madre, dall’altro lato della barriera, - Sto pensando a tutto io. A Tom non mancherà nulla. E neanche a te. Perciò… vedi di essere forte anche tu. – concluse dolcemente, prima di allontanarsi silenziosa lungo il corridoio.
Bill sentì gli occhi pieni di lacrime. Per nessun motivo apparente. E per tutti i motivi del mondo.
Si staccò dalla porta e si lasciò scomparire nuovamente fra le lenzuola.
Il fantasma di Tom non aveva odore. E perciò non aveva lasciato nessuna traccia di sé, né sul cotone, né sul suo corpo, né sul cuscino. Bill si ostinò a premere il naso contro la stoffa, inspirando profondamente, mentre lasciava che fosse lei ad assorbire le sue lacrime, fino a quando non crollò addormentato.
*
Si svegliò a notte fonda. Era appena cominciato il sesto giorno senza Tom.
Non gli servì nemmeno aprire gli occhi, per sentire la presenza del fantasma di suo fratello al proprio fianco.
- Sei un bastardo. – sibilò, ostinandosi a non guardarlo, - Mi hai lasciato solo.
Tom ridacchiò lievemente.
- Sapevi che ero ancora qui.
- Non è vero! – negò Bill, strizzando gli occhi, - Credevo fossi andato via!
Suo fratello gli lasciò scorrere una mano sulla fronte, e poi lungo la guancia, in una carezza lenta e dolcissima. Bill aprì gli occhi.
- Stai mentendo. – sussurrò piano Tom, - Sapevi che ero ancora qui. – ripeté con maggiore decisione, ma senza perdere il sorriso.
- …Tom, perché non sei andato via? – mugolò Bill, inarcando le sopracciglia e voltandosi verso di lui, in cerca di un abbraccio.
- Questo dovresti dirmelo tu! – ridacchiò il biondo, accontentandolo, - Non credo di avere alcuna autorità, in quel senso. Altrimenti, suppongo, sarei sparito ieri, dato che volevo veramente farlo.
Bill sorrise lievemente, stringendosi contro di lui.
- Adesso sei tu che stai mentendo.
Tom ghignò e gli fece una pernacchia.
- Resta il fatto che se non vado via è perché sei tu che non lo vuoi. – ribatté, stringendosi nelle spalle.
Bill abbassò lo sguardo.
- Allora… - mormorò cupamente, - non te ne andrai mai.
- Bill…
- Davvero. – rimarcò, sollevando finalmente gli occhi su di lui. Brillavano di decisione, ed anche di una certa quantità di rabbia. – Non voglio che tu vada via.
Tom sospirò.
- Ma non eri tu quello perfettamente consapevole e lucido e che aveva accettato tutto con estrema naturalezza? – lo rimproverò pacatamente, pizzicandogli una guancia, - Non eri solo un po’ triste?
- Sono mortalmente triste, Tomi. – bisbigliò Bill, liberandosi dalla sua stretta, - Deve esserci un modo per tenerti qui per sempre. Se ti ordino di non andartene, tu non te ne andrai, vero?
- Siamo arrivati agli ordini, adesso? – scoccò Tom, infastidito.
Bill arretrò di qualche centimetro, incerto.
- Io non voglio ordinartelo… non voglio perderti e basta.
- Bill, adesso basta. Questa cosa sta diventando ridicola. Io sono morto.
- Non-
- Sì che lo dico, Bill. – riprese Tom, con più decisione, - Non puoi continuare a nasconderti dietro un dito!
- Sono solo parole… - mormorò il moro, scuotendo il capo, - Per me, non hanno nessun significato…
- Sono parole, ma descrivono uno stato di fatti. – disse suo fratello, cupo. Poi si alzò in piedi, tenendolo stretto per una mano. – Vieni. – ordinò.
- No! – resistette Bill, tirandolo verso il basso, - Dove mi vuoi portare?
- Vieni. – ripeté seccamente Tom, strattonandolo in piedi e trascinandolo verso l’uscita della camera, del tutto indifferente alle sue ritrosie.
- No! Tom, no! Non voglio venire!
Ma le sue proteste caddero nel vuoto. Tom si fermò solo davanti alla propria bara, lo afferrò per la nuca e lo costrinse a guardarla.
- Il mio cadavere sta qua dentro. – disse gelido.
- No! – rispose Bill, coprendosi gli occhi.
Tom lo afferrò con la mano libera per entrambi i polsi, liberandogli il viso.
- Non costringermi a fartelo vedere, Bill. – proseguì, sempre più freddo.
- No! No! Lasciami in pace! No! – continuò a lamentarsi suo fratello, strizzando gli occhi e scuotendo il capo.
- Invece sì. – continuò Tom, - Sono qui dentro. Morto stecchito. Se solo mi vedessi, non mi riconosceresti neanche. Sono carbonizzato. Non ho più capelli. Non ho più ciglia. Le mie mani si sono sciolte per metà. Ho brandelli di vestiti cicatrizzati addosso dal fuoco. I denti scoperti e il naso quasi interamente scomparso. Devo continuare?
- No… - mugolò Bill che, senza più forze nelle gambe, si lasciò andare verso il pavimento.
Suo fratello lo tenne in piedi senza pietà.
- Devi essere forte, Bill. Per la nostra famiglia, per Andreas, per la band.
Della voce di Bill non era rimasto che un brusio di sottofondo. Gli occhi socchiusi, brucianti di pianto, le ciglia colme di lacrime intrappolate e le guance già inondate da quelle cadute, continuava a scuotere il capo e mormorare parole incomprensibili.
- Devi farcela anche senza di me. – continuò Tom, stringendolo teneramente a sé. – Devi farcela per forza, Bill, perché io non ce la faccio a sopportare questo senso di colpa. Non posso pensare che stai così a causa mia, Bill, non lo reggo. Ti prego.
Qualcosa di freddo scivolò lungo la guancia di Tom e scese, scese lungo il suo viso, si gettò a peso morto nel vuoto e piombò sul dorso della mano di Bill. Quella lacrima era talmente gelida che Bill non poté fare a meno di sollevare lo sguardo, per spiare l’espressione del fratello.
- Non posso andarmene finché stiamo entrambi così. – continuò Tom. Il suo viso bianchissimo era bagnato e brillava più di prima. – E finché resto, sto male. Per te e per me.
Bill sollevò una mano, sfiorando il profilo della sua guancia. Una lacrima immacolata e brillante come una pietra preziosa gli inumidì i polpastrelli, e per un secondo anche la sua pelle luccicò tutta, come splendeva Tom.
- …non posso chiederti di portarmi con te, vero? – sussurrò a mezza voce, lasciandosi andare contro di lui.
- Non ti permetto neanche di pensarlo. – rispose dolcemente Tom, stringendolo forte.
Bill si lasciò andare ad un piccolissimo sorriso contro la sua pelle bianca, tiepida e morbida come sempre, e lo strinse a propria volta.
- Allora… - scollò faticosamente, - credo sia arrivato il momento di andare, per te.
Tom sorrise e lo baciò appena sulla fronte.
- Credo anch’io.
*
Il settimo giorno senza Tom, fu quello in cui Tom andò via per davvero.
Bill si svegliò, e non ebbe bisogno di andare a cercarlo, per capire che non l’avrebbe comunque trovato.
Fuori dalla finestra, il sole splendeva alto, e fuori dalla stanza tutti quanti si affaccendavano nei modi più disparati. Sentiva David dare disposizioni perché spostassero la bara. Andreas continuava a gridare a gran voce che non riusciva a trovare lo zucchero, e Georg stava implorando Gustav di andare ad aiutarlo per farlo smettere di strillare. Simone passava e rimproverava tutti indistintamente, continuando a lamentarsi perché non le sembrava che gli impiegati dell’agenzia funebre stessero trattando la bara del suo bambino con la dovuta cautela. Gordon cercava di calmarla, prima di sbottare anche lui che quello decisamente non era il modo giusto di caricare una bara in un ascensore. Jörg si faceva strada in quell’insana follia chiedendo timidamente un caffé, e poi cominciava ad urlare a propria volta contro gli impiegati, obiettando che “era ovvio non riuscissero ad infilarla in ascensore, da che mondo è mondo le bare si scendono a piedi”.
Il moro si sollevò dal letto, raggiunse la porta, la aprì ed uscì dalla camera.
Una quantità infinita di occhi gli si puntò addosso.
Lui ristette un attimo sulla soglia. Poi si portò le mani al viso.
- Oddio. – mormorò incerto, - Devo essere impresentabile.
Non riuscì a contare i sospiri di sollievo che udì in risposta a quella semplice frase.
Andreas si offrì di preparargli le cialde. Simone lo abbracciò ed abbozzò una coda di cavallo alta dietro la sua nuca. David era già in agguato alle porte della cucina, con un termometro in mano. Georg, Gustav e Gordon stavano infine cedendo alle preghiere di Jörg che, constatata l’incapacità degli impiegati, stava cominciando a predisporre tutto perché fossero loro a scendere la bara e caricarla sul carro funebre. Quando lo videro, sorrisero e lo salutarono timidamente, per poi tornare a dedicarsi al loro improvvisato dovere.
Bill sistemò la coda e si diresse pigramente in cucina, cercando invano di sfuggire agli attacchi di Jost ed alle continue domande di Andreas, che non ricordava neanche per sbaglio come si facessero le cialde.
Sembrava che, giocoforza, sarebbe riuscito a trovare un modo per uscirne. Ci avrebbe pensato da sé. O ci avrebbero pensato gli altri per lui.
Sorrise appena, mentre David gli ficcava il termometro sotto un’ascella.
Fidarsi non sembrava un’impresa particolarmente difficile.
Genere: Triste, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Hurt/Comfort.
- Scritta prendendo ispirazione da ciò che sta succedendo ora come ora in casa Tokio Hotel. Bill sta male ed il concerto di Lisbona viene annullato. A Tom tocca fare l'annuncio alla folla e, supportato silenziosamente da Georg e Gustav, pure sostenere una conferenza stampa, mentre suo fratello torna in Germania per farsi visitare al più presto da uno specialista.
Note: Questa storia è nata perché l’angoscia mi stava divorando viva, ecco XD Non so perché ho aspettato i vent’anni, per vivere pienamente “passioni” come questa che nutro per i Tokio Hotel, così tipicamente adolescenziali negli intenti e nei modi da sembrare quasi ridicole. Per certi versi sono consapevole che sarebbe stato meglio l’avessi vissuta a sedici. Sarebbe stato più giustificato, forse anche più giusto. Per altri versi, sono piuttosto convinta che non sarebbe stato “bello” come invece è adesso ^^
Insomma, tant’è: Bill sta male ed io sono in pena per lui ç_ç Quando è arrivata la notizia del concerto di Lisbona annullato (e poi, in una spirale di depressione, Madrid, Douai e Ginevra), sono praticamente andata in paranoia °° Suona cretino dirlo, ma insomma! Ognuno ha i suoi motivi per star giù di morale XD
È venuta fuori una specie di dichiarazione d’amore a Tom, alla fine. Come sempre. Il punto è che è stato veramente molto forte. Fronteggiare la massa di ragazzine infuriate e poi quella di giornalisti curiosi… tra l’altro, non so se David fosse o meno coi ragazzi: certo è che durante la conferenza stampa non si vede. O era attaccato al cellulare con Bill che tornava a casa, o era effettivamente con lui. Quello che resta è che Tom è stato molto forte. E mi ha pure commossa, toh.
Sperando che il criceto si rimetta presto (e ci sono buone possibilità che proprio ci diventi, un criceto, visti gli effetti devastanti che ha il cortisone sulle sue guanciotte XD), vi saluto <3
PS: Comunque il fangirling è malefico. Soprattutto quando esercitato sotto stress. Io e Meg ne abbiamo scritto due contemporaneamente sullo stesso argomento XD Oserei dire siano differenti e simili ed anche complementari. Un po’ come i gemelli. Twinfic <3
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Se la stava facendo addosso. Letteralmente. Sentiva il bisogno fisico di scappare in bagno. E restarci. Il più a lungo possibile.

Coraggio, Tom. Non è mica la prima volta che fronteggi un’orda di ragazze innamorate, deluse e considerevolmente incazzate. Succedeva sempre a Loitsche, no? Succedeva sempre quando le voci cominciavano a circolare troppo diffusamente e tutte le ragazze cominciavano a subodorare di avere davvero solo una cosa le accomunasse tutte: te. Ed allora partivano le spedizioni punitive. Ed era pure peggio di così, no? Lì, ad essere considerevolmente incazzate non erano solo le ragazze, ma anche un buon numero di fratelli maggiori e migliori amici iperprotettivi.
Allora era peggio. Nessuno vuole veramente ucciderti, adesso.
E poi non sarai nemmeno solo. Ci saranno Georg e Gustav, con te. Georg e Gustav sono una buona assicurazione sulla vita, no? Sono forti. In caso di rivolta, ti farebbero scudo col loro corpo, lo sai.
Non c’è proprio niente di cui aver paura.
Coraggio.


Si lasciò andare ad un mugolio preoccupato ed ansioso, scivolando lentamente sulla sedia accanto a quella in cui suo fratello giaceva, raggomitolato in una coperta di lana e totalmente abbandonato contro lo schienale.
- Come stai…? – chiese a bassa voce, sollevando una mano ad accarezzargli una guancia e poi a massaggiargli piano il collo.
La pelle di Bill scottava. La sua, invece, era freddissima.

Magari questa paura fottuta si rivela pure utile per qualcosa, chissà.

Bill piegò le labbra in un sorriso semplicemente stremato, abbandonandosi contro la sua mano e socchiudendo gli occhi sotto le sue carezze.
- Sono stato meglio. – scollò a fatica. E poi deglutì. Tom lo sentì sotto le dita. E deglutì a propria volta. – Mi fa male la gola…
- Bill. – la voce di David suonò ansiosa e freddissima, infrangendo il silenzio del backstage e mettendo in agitazione tutti, - Abbiamo un biglietto virtuale che ci aspetta all’aeroporto. Vuoi che venga qualcuno con te?
Bill scosse il capo, aggrottando le sopracciglia.
- Ho già causato-
- Balle. – lo interruppe Tom, stringendo dolcemente la presa sulla sua nuca, - Non puoi andare da solo. David, vai con lui.
Il manager gli scoccò un’occhiata stupita dalla porta, schiudendo le labbra come per parlare ma restando in silenzio come non sapesse effettivamente cosa dire.
- Tom, dovete parlare coi giornalisti. Io non so se è il caso di lasciarvi soli…
Tom avrebbe voluto rispondere prontamente che sì, era decisamente il caso, perché Bill stava male proprio tanto e lui aveva bisogno di sapere che qualcuno di fidato sarebbe stato con lui per ogni evenienza.
Ma non ne ebbe la forza.
Perché era terrorizzato. Perché avrebbe voluto essere lui a seguirlo mentre tornava in Germania. Perché il solo pensiero che Bill stesse così male evidentemente toccava qualche nervo scoperto del suo corpo. E faceva male.
Fortunatamente, Georg sembrava aver mantenuto quel misero brandello di lucidità che lui aveva immediatamente perso quando aveva capito che Bill non ce l’avrebbe fatta, e che Gustav aveva smarrito conseguentemente quando la cosa era diventata pesante al punto da richiedere il rimpatrio.
- David, possiamo cavarcela. Sappiamo già cosa dire, ci limiteremo a ripeterlo fino alla nausea.
Jost fece una smorfia, avvicinandosi lentamente a Bill e controllandogli la temperatura con una mano sulla fronte, per poi rimboccargli la coperta attorno al corpo, un attimo prima che lui si abbandonasse contro il petto di suo fratello. Che lo strinse a sé mordendosi le labbra, perché era tutto ciò che poteva fare, e tutto ciò che poteva fare era troppo poco.
- Non lo so. Vediamo se almeno con le ragazze possiamo far parlare solo un organizzatore…

Altro che organizzatore.
Quelle vogliono noi.
Se non usciamo, vorranno pure la nostra pelle.


Ed infatti così era stato: per il pover’uomo che aveva ottenuto l’incarico “diplomatico”, non c’erano stati che fischi e boati di disapprovazione.
- Dobbiamo uscire noi. – aveva sibilato Gustav, guardando lo stage da dietro le quinte, senza preoccuparsi di nascondere la nota spaventata che aveva assunto la sua voce.
- Già. – aveva annuito Georg, mentre Tom si perdeva nel respiro un po’ affannoso di Bill, ancora stretto fra le sue braccia, - E voi dovete andare. Appena daremo l’annuncio ufficiale, il palazzetto comincerà a svuotarsi… la cosa potrebbe farsi pericolosa.
- In effetti, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è uno stuolo di ragazzine piangenti che insegue la macchina. – aveva considerato pensosamente l’uomo, dondolando nervoso sulle gambe. – Bill? Te la senti di muoverti?
Bill non aveva risposto. Aveva sollevato lo sguardo su Tom e ne aveva calamitato l’attenzione, fissandolo con una tristezza difficilmente sostenibile. Lui s’era sforzato quantomeno di abbozzare un sorriso, stringendolo con più decisione.
- Vai. Ci mettiamo sul primo aereo appena possibile. – gli aveva sussurrato piano all’orecchio, prima di baciarlo teneramente su una guancia.
Bill aveva tirato le labbra in una smorfia addolorata. Per lui non doveva esistere niente di peggio, probabilmente: mal di gola – con sospetta laringite, giusto perché, quando c’è da infilarsi in una disgrazia, è sempre meglio scegliere la peggiore – un concerto annullato – probabilmente più d’uno, per quanto Tom fosse certo più o meno metà del mondo stesse sperando il contrario, mentre l’altra rideva sadicamente – e, per di più, dover tornare a casa praticamente da solo.
- Vai. – ripeté, consegnandolo letteralmente fra le braccia di David.
Non poteva guardarlo più. Non ci riusciva.
Si alzò lentamente, raggiungendo Georg e Gustav già pronti ad entrare in scena.
Prese un enorme sospiro e si mosse.
*
Io non ce la faccio.
Io non ce la posso fare.


Non riusciva proprio a capire se la quantità enorme di ragazzine che stava fronteggiando li amassero tutti alla follia o li odiassero a morte.
In effetti, non era un particolare veramente rilevante. Si sentiva comunque in pericolo di vita.

Non posso nella maniera più assoluta. Non da solo.
È Bill che parla, in questi casi. Io, al più, dico una cazzata al volo per far ridere tutti.
È Bill quello degli annunci seri. Quello del cuore e del cervello. Quello che spiega le cose come stanno.

Io non ce la posso proprio fare. Sul serio.


- Ci dispiace molto… - cominciò, dondolandosi incerto sulle gambe e torturando la maglietta in maniera del tutto irrazionale, - Bill sta molto male. – e dirlo gli metteva sulla lingua davvero un brutto sapore. Un sapore amaro e pungente. Fastidiosissimo. Aveva la nausea. – Ha perso la voce. – Dio. Dio, Dio, Dio. La sua voce. – In questo momento sta tornando in Germania, per farsi visitare da uno specialista… - il boato che si alzò dalla folla lo terrorizzò ancor più di quanto non fosse già. Georg e Gustav, dietro di lui, respiravano così affannosamente che poteva sentirli nonostante tutto. Era consolante, in un certo senso, sentire un sentimento condiviso in quel modo. Era tremendo, per altri versi, che nessuno potesse condividere il suo sentimento nella sua pienezza. Solo Bill. E Bill non c’era. – Ci dispiace molto, per oggi. Ma torneremo, il ventinove giugno. I vostri biglietti sono ancora validi per quella data.

Lo sono ancora. Anche se in questo momento sto odiando l’Europa intera. E tutte quante voi. E l’Universal, e David, e me stesso ed anche Bill e tutto il mondo a seguito.
Vorrei che questo tour non fosse mai cominciato. Vorrei che Bill non si fosse mai ammalato.
Vorrei essere con lui. Cazzo.


La donna al suo fianco aveva tradotto per le fan. Ulteriori boati. Lacrime a fiumi.

Spero stiate piangendo perché siete in pena per lui.

Aveva preteso il microfono, e salutato tutte un’ultima volta. Non c’era motivo per cui non dovesse credere alla loro buona fede.
Tornando nel backstage, s’era sentito cedere. Di David e Bill non c’era più alcuna traccia. Immaginò suo fratello fosse già in aeroporto. Possibilmente sull’aereo.

Oddio.
Dovrò tornare in aereo senza di lui.


Scosse decisamente il capo. Pensieri come quello erano del tutto fuori luogo.
Gustav gli batté una mano sulla spalla, passandogli frettolosamente accanto.
- Forza. – lo incitò conciliante, - Sbrighiamo questa pratica e torniamo a casa.
*
Gli sembrò di essere in grado di tornare a ragionare normalmente soltanto quando mise piede in casa. C’erano quasi tutte le luci spente, e l’ambiente era avvolto in una cortina di silenzio irreale e spaventosa. Georg e Gustav si ritirarono quasi immediatamente nelle loro camere: erano esausti. Lui, invece, si diresse istintivamente verso la luce.
Davanti al portatile acceso, nel piccolo studio attiguo alla sala, David monitorava qualcosa come dieci forum diversi, mordicchiandosi le labbra con aria perplessa.
Quando lo sentì entrare, sollevò lo sguardo e poi scattò immediatamente in piedi, raggiungendolo sulla porta.
- Meno male. – gli disse, abbozzando un sorriso e stringendogli rassicurante una spalla, - Siete stati bravi. Fermi e concisi.
Anche Tom si sforzò di sorridere, abbassando impercettibilmente lo sguardo.
- È tutto a posto? – chiese poi, indicando il computer con un cenno del capo.
- Solite noie. – sbuffò David con una smorfia, - Niente di irrimediabile.
Lui annuì, inumidendosi le labbra. Era nervoso. Elettrico.
- David…
- Sta bene. – rispose lui, sorridendo, senza nemmeno lasciarlo finire, - Cioè, bene magari è una parola un po’ grossa, ma la situazione non è così drammatica. Certo è che per ora è completamente afono. – aggiunse con un sospiro, - Madrid salta per forza.
Tom annuì meccanicamente. Un movimento così rigido che gli fece male al collo.
- Allora io… vado a dormire… - mugugnò incerto, indietreggiando verso la porta.
- Tom. – lo richiamò David, prima che riuscisse ad uscire, costringendolo a fermarsi, voltarsi indietro e guardarlo. – Tuo fratello… - cominciò, con un sorriso un po’ intenerito ed un po’ irrimediabilmente divertito, - ha preteso che gli facessi vedere il filmato dell’annuncio. Credo che metterlo online sia stato il primo pensiero delle fan, tornando a casa. – rise piano, e rise anche Tom. – Mi ha detto di dirti che è molto orgoglioso di te.
Tom sollevò lo sguardo su di lui, schiudendo stupito le labbra. Ma non disse niente.
- Lo siamo tutti. – concluse David, sorridendo più apertamente. – Buonanotte.
*
Bill dischiuse subito gli occhi, quando sentì la lievissima pressione delle sue dita fra i suoi capelli. Non voleva svegliarlo, solo che la frangia era scesa a coprirgli il viso fino al naso, ed aveva paura che potesse dargli fastidio, e quindi…
…be’, sì, si sentiva molto stupido.
- Scusa. Torna a dormire… - disse, cercando di sorridere tranquillamente.
Bill scosse il capo e non parlò. Non poteva, ma non è che ci fosse davvero qualcosa da dire, in ogni modo.
- Vuoi… - deglutì. Il saporaccio sulla lingua era ancora lì. Forse s’era un po’ attenuato, però. - …posso restare? – si decise a chiedere, torturandosi il labbro inferiore con gli incisivi, - Sai, - aggiunse in una mezza risata imbarazzata, - credo di avere una quantità di coraggio piuttosto limitata. E di averla pure esaurita tutta.
Bill ridacchiò. Pianissimo. Un suono appena percettibile.
Ma si spostò più in là sul materasso, e sollevò le coperte perché Tom potesse prendere posto accanto a lui.
Scivolò sul materasso senza neanche svestirsi, lanciando lontano le scarpe con un calcio disinteressato. Bill mugolò soddisfatto, accoccolandosi contro di lui ed affondando il viso nel suo petto.
Riuscì a prendere sonno solo quando sentì il suo respiro tornare lento e regolare.
Era ancora preoccupato. Ma standogli accanto, in qualche modo, sembrava tutto incredibilmente più facile. Magari, per arrivare alla fine di quella brutta storia, non sarebbe servito poi tantissimo coraggio. Solo qualche abbraccio in più.
…e, probabilmente, un’altra settimana di guance da criceto.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Lemon, PWP.
- Salta fuori che i gemelli sono andati a vivere insieme in un appartamento per due. La produzione pretende un'intervista per parlare apertamente della cosa. A David l'ingrato compito di dirlo a Bill e Tom. Che ne fanno un affare di sesso. E di primaria importanza, anche.
Note: O___O Lo so. Cioè, lo so O_______O È allucinante. È una porcata, è volgarissima ed è assurda O___ò Vorrei anche poter dire “è una PWP”, ma su questo glissiamo, cortesemente. Doveva e voleva esserlo. Non solo è degenerata in una schifezza, ma è degenerata pure in una roba seria. Non ho parole, il mio coefficiente di discutibilità va aumentando di fanfiction in fanfiction. Vi prego solo di non odiarmi e tollerarmi T.T Prima o poi passerà a ricomincerò a scrivere cose vagamente decenti.
Comunque ho una quantità enorme di persone da ringraziare (e con cui scusarmi, per riflesso XD). Quindi: grazie in primo luogo a Bea ed Elisa, che mi hanno mostrato il video in cui Bill e Tom litigano. Video al quale ho reagito sbottando “ma come fa Tom ad essere sexy pure quando litiga?”. Frase che poi è incomprensibilmente sfociata in “devo scriverci su una PWP!”. Intento che poi s’è trasformato in questa fanfiction. E poi la gente mi chiede perché mi ritengo stupida. Voglio dire…!
Grazie anche alla mia neechan, che mi ha fatto un bannerino stupendo <3 Che è stato molto d’incentivo per costringermi a finirla nonostante se ne stesse andando per i fatti propri. E che la leggeva e mi diceva cosa ne pensava, salvandomi dalla paranoia. E devo anche scusarmi con lei, perché nessuno ti farà mai male quanto me è un verso di Konstantine dei Something Corporate. E io non l’avrei mai conosciuta senza di lei. E mi dispiace di averlo usato in questa fic, ma ci stava troppo ç.ç Lo so che serve pure per un’altra cosa ç.ç *si prostra ai piedi della neechan invocando pietà*
Solito ringraziamento a Nai che è evidentemente onnivora (o filolizzica, perché si ostina a leggere tutto ciò che produco nonostante certe volte mi esprima in cagate pazzesche tipo questa). È anche merito suo se la fic ha preso una piega particolare: lei mi ha rivelato che Bill e Tom erano pazzi. Perciò era ovvio che andasse così.
Un grazie immenso anche a Sara: non fosse esistita lei (e non fosse esistito 99 Luftballons), tutta la tirata autocitazionista pseudo-romantica di Tomi non avrebbe mai avuto luogo. Mi scuso anche perché mi pare di aver attinto un po’ ad uno stile piuttosto decadente che ricorda un po’ le sue storie. Spero proprio di non aver toppato niente e di aver rielaborato il tutto per come giusto e doveroso. Comunque la ringrazio, perché le sue storie sono splendide e fonte d’ispirazione perenne e io la amo <3
Con le fangirl (e con l’adorata Meg, soprattutto!) devo scusarmi per la volgarità immane e disgustosa di Bill sul finale X’DDD Ma insomma. Una volta tanto, ci sta pure che non sia solo Tomi, quello zozzo. Oh. Io sono per le pari opportunità!
Ciò detto, ho concluso. Grazie per la pazienza, come sempre la logorrea rischia di ammazzare me e tutti coloro che mi circondano “XD Bacioni ^*^
PS: Mi scuso per eventuali castronerie o errori di battitura, ma ho promesso alla neechan che gliel’avrei fatta trovare pubblicata domattina, perciò non ho tempo per il betaggio >_<
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ANGRY SEX

Tom era rimasto spalmato sul divano in quella sua posa abbandonata e tremendamente caratteristica da quando erano rimasti soli. Quando David era uscito, strillando infuriato che per quel che lo riguardava potevano decidere quel cavolo che volevano, purché si presentassero l’indomani all’intervista con Bravo con qualcosa da dire, Bill s’era immediatamente alzato, ed aveva preso a vagare dal soggiorno alla cucina con aria isterica, digrignando i denti ed ignorando il telefono quando aveva squillato.
Dal canto proprio, neanche Tom aveva fatto qualcosa per sgretolare quella tensione infantile ed ostinata che s’era creata fra loro.
Non aveva fatto niente anche perché dipendeva soprattutto da lui se la situazione era quella.
Avevano litigato come furie, davanti ad un manager del tutto allibito, per una cazzata che aveva assunto proporzioni cosmiche senza un valido motivo. O meglio, per un motivo che Bill trovava validissimo e che Tom non poteva fare a meno di giudicare idiota.
“È trapelata la notizia che siete venuti a vivere qui da soli”, aveva detto loro David, con l’aria pensosa e un po’ scazzata che metteva su quando aveva da ridire con la casa discografica, “La produzione vuole un’intervista. Bravo”.
Bill e Tom avevano prevedibilmente storto il naso e mimato una smorfia di puro disgusto, ritirandosi sul divano come due ricci.
“Lo so, lo so”, aveva continuato il manager, massaggiandosi la fronte, “Non abbiamo alternative, temo. Allora? Che si fa?”.
E poi era precipitato tutto.
Era precipitato tutto perché avevano entrambi sentito proprio il malsano bisogno di ricordare che nonostante la convivenza e l’attaccamento e tutto erano comunque due persone differenti, e perciò avevano sbottato l’uscita contemporanea più triste della loro intera storia.
“Ovviamente confermiamo”, aveva detto Bill.
“Smentiamo tutto”, aveva detto Tom.
David li aveva guardati entrambi con aria curiosa, e loro s’erano voltati l’uno verso l’altro, aggrottando le sopracciglia.
“Tom!”, l’aveva richiamato il gemello, sottintendendo un fin troppo palese non fare il bambino che lui non aveva gradito affatto.
S’era praticamente voltato dall’altra parte, nonostante avesse da tempo passato i cinque anni, lamentandosi che le voci che circolavano su di loro erano già abbastanza fastidiose senza che dovessero per forza metterci il carico da undici annunciando una convivenza con tutti i crismi.
Bill l’aveva presa malissimo.
“Non hai protestato tanto, quando l’abbiamo deciso!”, aveva urlato, tanto per cominciare, per poi proseguire con tutta una sequela di insulti di fronte ai quali perfino David aveva sentito il bisogno fisiologico di impallidire.
David faceva bene a sconvolgersi.
Il problema era che non aveva la più pallida idea del perché effettivo per il quale avrebbe dovuto farlo.
*
La loro relazione era cominciata già da un po’. Almeno, così avrebbe detto Tom, se avesse dovuto ridurre i termini del suo rapporto con Bill su un piano di “normalità”.
La loro relazione era cominciata già da un po’.
In realtà, la loro relazione non era mai cominciata davvero. A meno che non fosse stato concesso loro di mettere il punto d’inizio nel momento esatto in cui erano venuti al mondo. Ma metterla in questi termini suonava un po’ eccessivo anche per loro, che dell’eccesso avevano fatto una politica di vita.
Quindi, “la loro relazione era cominciata già da un po’”. Almeno da quando avevano avuto la sfiga di ubriacarsi entrambi e risvegliarsi da una trance alcolica parecchio agitata nel bel mezzo di un bacio umido e violento che non aveva potuto aspettare neanche una camera da letto, per avere luogo.
Tom avrebbe ancora potuto descrivere con estrema dovizia di particolari il proprio sguardo terrorizzato riflesso in quello ugualmente terrorizzato di Bill. Non è bello riprendere coscienza di te dopo circa tre ore di totale assenza di raziocinio ed accorgerti che se nella tua bocca c’è ancora una sola lingua è unicamente perché la tua è impegnata ad esplorare la bocca di tuo fratello.
L’ubriachezza poi era passata, ovviamente.
Altrettanto però non si poteva dire dei baci.

Seriamente: quanto schifo fanno gli esseri umani? Non riesco nemmeno a guardarlo senza desiderare di…

E “desiderare” era diventato prestissimo “fare”.
Fare era un problema. Era un dannatissimo problema, soprattutto se dovevi condividere la casa con altre tre persone.
Fare era diventato impossibile, nel loft di Amburgo.
Perciò, per fare più tranquillamente, s’erano trasferiti.

Ecco perché David dovrebbe essere irrequieto. Mica per altro.

Vista la situazione, comunque, non c’era da stupirsi se Bill l’aveva presa tanto male, quando lui aveva affermato che, di fronte all’immenso popolo adolescenziale tedesco, avrebbe negato la loro convivenza.
Poteva immaginare perfettamente i pensieri del proprio gemello. Qualcosa di molto simile a “e che cazzo, Tom!”. E basta. Perché non c’era davvero bisogno di aggiungere altro, oltre ad una protesta volgare ed esasperata. Il sottinteso, in effetti, era già fin troppo evidente: non ti chiedo mica di ammettere che scopiamo, stronzo vigliacco che non sei altro, ma almeno non rinnegarmi come fossi una malattia infettiva.
Tom poteva perfino capire la sua rabbia. In fondo, se avesse dovuto avere a che fare con se stesso, si sarebbe detestato da solo. Sapeva di poter raggiungere vette di intollerabilità considerevolmente alti. Era una specie di talento naturale del genere.
In qualche modo, però, non era solo odio ciò che Bill provava per lui. La sua rabbia non faceva che confermarlo.

Fece per alzarsi dal divano e dirigersi stancamente verso la camera da letto, nel tentativo di affogare nel sonno almeno un po’ di quell’angoscia immotivata che l’aveva preso appena aveva capito che avrebbe dovuto ammettere di essersi trasferito in un appartamento per due col proprio fratello, ma non riuscì neanche a compiere un passo prima di essere fermato da una voce tonante, infastidita e che conosceva fin troppo bene.
- Dove credi di andare?
*
Bill sospettava che, anche sforzandosi per mille anni, non sarebbe mai riuscito a capire veramente per quale motivo suo fratello godesse tanto nel farlo infuriare. Eppure erano sempre stati appiccicati, fin dalla nascita. Non si erano mai separati per più di una settimana, a voler esagerare. E non aveva neanche l’alibi dell’“non ti conosco molto bene come persona”, perché accidenti, se esisteva un essere umano in tutto il mondo a poter vantare di conoscerlo, be’, quello era Tom. E sapeva perfettamente cosa lo mandava in bestia, così come sapeva perfettamente quali toni non doveva usare con lui e cosa poteva permettersi di dire senza meritare un calcio nelle palle o meno.
- Dove credi di andare? – gli chiese, trattenendo a stento l’irritazione nella voce, una mano saldamente piantata su un fianco e un piede a scandire il ritmo nevrotico del battito del proprio cuore sul pavimento.
- In camera. – rispose Tom senza cambiare espressione.

Sai anche che voglio litigare. E sei uno stupido stronzo vigliacco, se me lo lasci fare.

- Ti senti a disagio, Tomi? – sibilò, sottolineando il suo nome con una nota sarcastica e pungente che vide riflessa nella piccola ruga che si formò fra le sopracciglia di suo fratello.
- No. Tu invece ti senti particolarmente stronzo?
Non aveva usato soprannomi. Non aveva usato ironia.
Probabilmente voleva solo restituirgli il colpo.

Seriamente: siamo due idioti. Avevamo un rapporto stupendo, prima di imbarcarci in questa follia. Perché abbiamo dovuto rovinare tutto…?

- Sei stato scorretto! – lo rimproverò, andandogli vicino con incedere bellicoso, - Scorretto ed offensivo! Cosa ti costa ammettere che vivi con me? Tanto ormai lo sanno già tutti!
- Mica è normale andare a vivere con tuo fratello quando ci si potrebbe permettere anche due o tre appartamenti per ciascuno. – ritorse lui, guardando altrove.
- Non è normale neanche scopartelo, il fratello con cui vivi. – asserì cupo.
Tom digrignò i denti. Un rumore minuscolo, appena percettibile, eppure spaventoso e densissimo.
Bill si ritrovò coi brividi su tutto il corpo.
- Vado in camera. – annunciò Tom, dopo essersi preso abbastanza tempo per calmarsi ed evitare di vomitargli addosso la sequela di insulti che avrebbe meritato.
- Tu non vai da nessuna parte. – soffiò Bill, ed in due passi gli fu accanto, lo arpionò per il polso e lo trattenne vicino a sé, stringendo tanto da farsi male da solo.
Tom era tesissimo. I suoi lineamenti erano duri e contratti. I suoi occhi brillavano di fastidio. Tremava quasi. Anzi, tremava proprio: il suo labbro inferiore sembrava incerto fra la prospettiva di aiutare la bocca a rovesciargli addosso tutta la frustrazione che stava provando e quella di obbligarla a chiudersi e restare in silenzio.
Bill rimase immobile a guardarlo, senza lasciarlo andare, e Tom si sporse verso di lui.
- Stai passando il segno. – gli bisbigliò addosso, - Non mi fare incazzare, Bill.
Lo affrontò a muso duro, senza spostarsi di un millimetro, nonostante il suo fiato sulle labbra lo avesse completamente terrorizzato. Tom era un ragazzo dolce, ed era anche un ragazzo inoffensivo. Ma Tom sapeva pure farti paura. Tom non aveva bisogno di minacciarti, per farti sentire sotto scacco.
La minaccia di Tom era di tipo incredibilmente fisico. Gli stava dicendo “guarda che non abbiamo più tredici anni. Non sarei più io, a prenderle”. Glielo stava dicendo e non solo non aveva bisogno di dirglielo, ma neanche di farglielo notare in maniera particolarmente smaccata. In fondo, lo stava solo guardando. In fondo, era solo il suo dannato respiro addosso. In fondo, era solo la sua bocca ad un centimetro dalla propria. In fondo, erano solo i suoi occhi a scrutarlo con quella vena di cattiveria priva di scrupoli che può esistere solo tra fratelli, perché solo tra fratelli sei sicuro che anche se tiri la corda un po’ troppo, anche se la tiri tanto da lasciare i segni sulla pelle, prima o poi sarai perdonato. Perché le corde a lungo andare si spezzano, certi legami invece no.
Era un po’ frustrante che Tom potesse avere simili privilegi. Poteva essere scorretto come un fratello e concedersi anche i capricci di un amante. Non doveva giustificare mai praticamente niente.
Poteva dirgli cose come quella.
E passarla liscia.
Come fratello e come amante.
Su tutta la linea, sempre.
Bill strinse le dita sottili attorno al suo polso, più di quanto non avesse fatto fino a quel momento. Vide la decisione di Tom incrinarsi, nello stesso istante in cui un brevissimo segno di dolore gli attraversò gli occhi, prima che lui potesse tornare perfettamente padrone delle proprie sensazioni.
Bill lo osservò con attenzione. Tom si passò la lingua fra le labbra e poi si mordicchiò il labbro inferiore, come volesse resistere all’impulso di spaccargli la faccia, e potesse farlo soltanto investendo la propria aggressività in qualche altra attività.
Il movimento della sua lingua era ipnotico, accidenti a lui.
Tutti gli svantaggi sia dei fratelli che degli amanti.

Ho davvero fatto male a scegliere proprio mio fratello come amante.

Si sporse in avanti, ed erano talmente vicini che le loro labbra si incontrarono praticamente subito. Meglio: un tragitto troppo lungo avrebbe costretto Bill a pensare e pentirsi.
Un tragitto troppo breve, però, non gli dava modo di riflettere abbastanza.
Dischiuse le proprie labbra su quelle di Tom, e cercò la sua lingua con la propria, ma suo fratello non rispose con la stessa sollecitudine. Anzi, si tirò indietro, strattonando violentemente il braccio e liberandosi anche della sua stretta, rimanendo poi a guardarlo con aria infastidita.
- Non sono proprio in vena. – gli disse Tom, stringendosi il polso con una mano e massaggiandolo dolcemente.
- Neanche io. – scollò lui a mezza voce, non prima di aver buttato giù deglutendo un magone non meglio identificato che s’era formato e fatto immenso nella sua gola in quei pochissimi secondi, - Non lo so perché ti ho baciato. – concluse, abbassando lo sguardo sul polso di Tom, sulla cui pelle dorata spiccavano dei segni rossastri che sarebbero probabilmente diventati lividi a breve.

Non lo so davvero, giuro.
Forse perché quando riporto tutto al piano fisico smetti subito di essere arrabbiato con me.
Forse perché voglio fartela pagare.
Forse perché sei sempre bellissimo.

Ma in realtà non so neanche perché abbiamo litigato, Tomi. Non lo so e non m’interessa, perché al momento desidererei solo non averlo mai fatto. Non averti mai chiesto niente. Non aver mai preteso quella dannata conferma. Non aver mai preteso neanche un bacio, da te.
E dire che so di avere ragione…
So che le mie pretese sono legittime. Perché perfino la parola amore è troppo riduttiva per noi, troppo scontata, troppo labile, non abbastanza densa. Tutte le mie pretese sono legittime. Perché dopo di te non viene niente, e tu lo sai.

Però io ti odio quando tu odi me. E non puoi negarlo: ci sono dei momenti in cui mi odi con tutto te stesso.


Sì, forse era proprio per questo che adesso aveva tanta voglia di baciarlo, di accarezzarlo, di spogliarlo. Perché lo odiava. Perché sentirsi odiato da lui lo riempiva di una paura irrazionale e di una quantità di rabbia tale che da solo proprio non riusciva a sopportarla. E per questo giocava anche con la rabbia di Tom. La istigava, la fomentava, la coltivava come una piantina e poi la osservava affacciarsi e germogliare.
Senza nessuna soddisfazione. Ma almeno non era più l’unico a covare sentimenti tanto meschini.
Si sporse ancora, afferrando Tom per il colletto della maglia e tirandoselo vicino, cercando le sue labbra con più prepotenza. Lui combatté, ribellandosi un poco, tirandosi indietro fino a lambire la parete con la schiena, e poi, quando capì che nessuna rivolta fisica avrebbe potuto fermarlo, mentre insisteva a giocare con la sua lingua, riversò tutta la propria rabbia nel loro bacio. Lo afferrò a propria volta per il colletto, tirandoselo contro esattamente come aveva fatto Bill poco prima.
Era un gioco di supremazia.
Un gioco che aveva vinto sempre Tom.
Perché era lui il più capriccioso fra loro due. Era lui il più spaventato.
Era lui il meno… coinvolto, forse?

Vaffanculo. Il solo pensiero mi dà la nausea.
Vaffanculo, vaffanculo, Tom. Se è vero, non te lo permetto.


Si separò da lui, richiudendo immediatamente le labbra sulla pelle sensibile del suo collo, prendendo a succhiarla avidamente, come un vampiro. Pericoloso come una bestia affamata. Tom lasciò andare un lamento che aveva poco di compiaciuto e molto di stupito e sofferente.
Non era affatto delicato.
I suoi modi erano sempre stati bruschi.
Non era lui quello bravo a letto.
Non era lui quello che sapeva sempre cosa fare.
Non era lui quello sempre gentile premuroso buono dolce tutto.
Quello era Tom. Tom sapeva sempre dove mettere le mani. Tom sapeva sempre cosa toccare e quando farlo. Tom era il re.

Non oggi, fratellino.

Lo costrinse a voltarsi, afferrandolo per la vita e schiacciandolo contro il muro, mentre Tom sbottava in un altro lamento improvviso e portava avanti le mani, per frapporle fra il proprio viso e la fredda solidità della parete.
Era leggerissimo.
Davvero leggerissimo.
Gli si gettò addosso, aderendo completamente a lui. Poteva sentire la sua schiena inarcarsi contro il proprio petto. Era una sensazione incredibilmente inebriante: aveva preso il potere dove Tom lo reggeva più saldamente. Stava comandando lui.
Era solo l’illusione di un attimo, e lo sapeva bene, ma era dolce. Dolcissima.
- ‘Cazzo fai? – ansimò Tom, spingendosi contro di lui per allontanarsi dal muro, ed ottenendo come unico risultato soltanto che lui si sentisse ancora più eccitato dalla situazione.
Bill non rispose. Si limitò a scivolare con le mani sotto la sua maglietta, divorando centimetri su centimetri di pelle caldissima, dall’inguine al ventre al petto, e fermandosi a giocare distrattamente con i capezzoli.
- …hai le dita fredde… - borbottò a bassa voce Tom, ansimando pesantemente un paio di volte, prima di riacquistare potere sul proprio respiro. – Smettila.
Suo fratello scosse il capo, chinandosi sulla curva del suo collo ed assaggiando la pelle salata dalla nuca alla sommità della spina dorsale. Sentì Tom rabbrividire sotto le sue labbra, ed inarcarsi ancora di più contro il suo petto, fino a fare aderire completamente i loro bacini.
Fu in quel modo che si accorse della sua erezione.
- Che ti sei messo in testa? – gli chiese ancora. Ma sapeva già che Bill non avrebbe risposto.
Le sue dita continuarono inesorabilmente a marcargli la pelle in un viaggio lento e quasi sfiancante, tornando indietro dal petto fino all’elastico dei boxer, al quale si appesero con falso disinteresse.
Tom rimase in silenzio per un po’, considerando con cura la pressione lieve di quelle curatissime dita addosso alla sua pelle ormai bollente, e poi si lasciò andare ad un ghigno poco divertito e molto infastidito, poggiando la fronte contro la parete.
- Se devi farlo, fallo.
Bill si mordicchiò un labbro.
- Non se tu non mi guardi. – disse a bassa voce. Ed era un sibilo incattivito. Quanto di più lontano dal sesso potesse esistere. Ed anche quanto di più vicino.
Afferrò Tom per le spalle, costringendolo a voltarsi e schiacciandolo di nuovo contro il muro. Affrontò con coraggio tutta la rabbia e la disapprovazione che leggeva nei suoi occhi, ricevendo in cambio solo un’occhiata di schermo che lo ferì davvero profondamente – ma d’altronde, suo fratello era sempre stato un campione nel fargli del male. In ogni modo possibile. Non c’era nessun dolore che potesse essere paragonato a quello che gli procurava suo fratello quando lo feriva consapevolmente.
Lo baciò ancora, senza neanche chiudere gli occhi. Tom invece lo fece. Abbassò le palpebre e si rifiutò di guardare oltre.
Un’altra piccola vittoria.
Un’altra vittoria inutile.
Gli sbottonò i jeans, pressandosi contro di lui e prendendo macchinalmente atto dell’erezione che, alla fine, aveva colto anche lui.
Era più un dato di fatto che una constatazione stupita.
C’era più qualcosa che potesse davvero meravigliarlo? S’era giocato perfino la più minuscola traccia di felicità, innamorandosi – se poi amore era davvero – di quello stronzo di suo fratello?
I jeans di Tom caddero a terra immediatamente – enormi e ingombranti e totalmente inutili com’erano – nel momento stesso in cui Bill lo liberò dalla cintura. Eliminato l’ostacolo dei vestiti, non fu difficile ritrovarsi a breve completamente coperto contro la pelle di suo fratello – completamente nudo.
Era dannatamente eccitante.
Lo stava odiando in quel momento come mai.
Perché era uno stronzo, un bugiardo, un codardo ed un egoista.
Lo desiderava al punto da stare male.
Tom gli sollevò gli occhi addosso e rise apertamente.
- Ed ora che intendi fare? – chiese, sfidandolo.

Bastardo. Tu dovresti sentirti in soggezione. Dovresti sentirti piccolo e stupido.
Sei nudo.
Ed io sto comandando l’azione.
E sto per mettertelo nel culo, brutto stronzo.
Io ti odio, ti odio a morte, ti odio, ti odio…


Lo afferrò per i fianchi, spingendoselo ancora contro. Voleva scoparselo. Voleva essere lui a scoparselo. E voleva che Tom lo guardasse in faccia, mentre lo faceva. Voleva che lo vedesse distaccato e padrone e cattivo ed impietoso. Voleva dimostrargli che poteva esserlo anche lui. Che non doveva passargli neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di essere lui “a comandare”.

Non c’è nessuno che comanda, qui, Tomi.
Neanche io, è tanto ovvio che mi sento quasi stupido.
Non comando neanche io, ma quanto è vero che ti odio e ti amo e ti vorrei morto e solo mio, non comandi neanche tu.


Tom era davvero leggerissimo. Quasi neanche sentiva il suo peso, nonostante fosse lui l’unico a reggerlo, a più di un metro da terra, schiacciato contro la parete congelata. Le gambe intrecciate dietro la sua schiena, Tom aveva piantato le dita sulle sue spalle ed aveva cercato una posizione che non fosse scomoda né eccessivamente ridicola, e poi s’era sdraiato leziosamente contro il muro, osservandolo con un sorriso irridente sulle labbra.
Bill aveva sollevato due dita ed aveva studiato attentamente il suo profilo coi polpastrelli, neanche dovesse premurarsi d’imprimerselo nella memoria in modo quasi fisico – anche più di quanto già non fosse. E quelle stesse dita, poi, le aveva fatte passare attraverso le sue labbra. L’aveva obbligato a leccarle, succhiarle, bagnarle e renderle scivolose e sfuggenti. L’aveva obbligato ad essere lui stesso il garante di ciò che stava per accadere.

Ed allora perché? Perché, anche se sono io ad importi le cose, sembra sempre che sia tu a concedermele?

Lo accarezzò lentamente fra le natiche, stuzzicando con le dita umide la sua apertura, senza però mostrare segno di volerla forzare. L’aveva guardato ancora in faccia, ma Tom era su un altro pianeta: gli occhi chiusi ed il capo abbandonato fra spalla e parete, respirava pesantemente e probabilmente s’era pure reso conto della sentenza che s’era tirato addosso.
Bill lo afferrò per il mento, strattonandolo poco delicatamente verso di sé e costringendolo a guardarlo, mentre, in un gesto quasi unico, lo penetrava sbrigativamente con un dito. Tom si morse un labbro con inaspettata violenza, ma non gli concesse neanche la soddisfazione di un mugolio. Piuttosto, si sporse in avanti e gli afferrò un labbro fra i denti, mordendolo con la stessa violenza con la quale s’era morso da solo.

Il tuo sangue ed il mio sangue hanno esattamente lo stesso sapore.

Non ho intenzione di risparmiarti niente.


Non aspettò neanche che Tom si fosse abituato alla presenza estranea del suo dito nel proprio corpo, prima di sfilarlo senza alcuna dolcezza e sostituirlo con qualcosa di ben più pericoloso.
E sarebbe stato stupendo, per Tom, che il dolore fosse una questione di poco conto. Perché così avrebbe potuto continuare a ricoprirlo di ghigni e supponenza, ed oltre a frustrarlo non avrebbe cambiato niente.
Ma il dolore non era una questione di poco conto.
E perciò Tom urlò.
Urlò e si gettò indietro, sbattendo lievemente la testa, prima di tornare a spingersi in avanti ed affondare il viso fra i capelli di Bill, mentre lui continuava a penetrarlo.

Senza la minima pietà.
Cos’è che si prova, Tomi?
Fa male, vero?


E dire che suo fratello non l’aveva mai fatto soffrire in quel senso. Era sempre stato discreto, delicato, dolce, devoto. Gentilissimo. Era sempre stato capacissimo di anestetizzarlo con mille cure, mille rimedi, mille droghe naturali tutte proprie. Il suo profumo, le sue carezze, i suoi baci, quelle mani caldissime ed incredibilmente talentuose, perfino in quel frangente.
Ma Tom era immune a qualsiasi tipo di sofferenza emotiva. Perché rispondeva alla cattiveria con la rabbia e con altra cattiveria, mai con la tristezza. Era intoccabile.
L’unico modo in cui poteva farlo soffrire, l’unico modo in cui poteva fargli pagare almeno una parte di tutto il dolore che gli causavano le smentite, le battutacce e le groupie che continuava a frequentare in nome di una reputazione che non poteva in alcun modo essere ridimensionata, o “cos’avrebbero pensato tutti?”, era quello.
Male fisico in cambio di male sentimentale.

Non potrei mai dirtelo.
Non capiresti mai.


Continuò a spingersi impietoso dentro di lui. Senza neanche offrirgli il sollievo di una carezza.
Tom, per conto proprio, non ne cercò.
Quando gli si abbatté addosso, ansante, dopo essere venuto, Tom rise pianissimo contro il suo orecchio, prima di baciarlo.
- Me lo sono meritato, eh…? – lo sentì sussurrare.

Non so se ridere o piangere.
Pure se lo sapessi, credo non farei niente del genere.

*
Anche a voler essere particolarmente indulgente con se stesso, Tom non si sarebbe mai perdonato per ciò che aveva lasciato accadesse quella notte. La notte in cui, per la prima volta in assoluto, lui e Bill s’erano concessi di riposare in un abbraccio caldissimo e privo di schermi, non avevano perso solo il candore e l’innocenza del loro rapporto: avevano perso anche l’amore.
Di amore in senso stretto non avevano nemmeno mai parlato, per dirla tutta. Suonava scontato, suonava banale, suonava pure assurdo svegliarsi una mattina ed ammettere ad alta voce qualcosa che in fondo avevano sempre saputo.
Però, da quel giorno in poi, di amore non c’era stata proprio più traccia. Restava l’odio di quando litigavano furiosamente, la gelosia di quando non si dedicavano abbastanza tempo e la frustrazione derivante dal dover vivere i loro sentimenti nel più discreto e perfetto silenzio.
Andando a letto con Bill, Tom aveva perso un fratello. E non aveva guadagnato niente.

Se non è sfiga questa.

Se non è idiozia…


Seduto sul divano accanto a lui, Bill fissava il vuoto con aria assorta. Le sopracciglia aggrottate e le labbra strette in una smorfia di disagio e disappunto, sembrava un bimbetto che avesse appena capito di aver compiuto l’errore più madornale della sua intera esistenza.
Era mortalmente carino.
Sollevò stancamente un braccio, poggiandoglielo sulla guancia e ravviandogli dietro un orecchio una ciocca di capelli scivolata a solleticargli il viso.
- Che c’è? Prima fai le cose e poi ti incupisci? Così uno come fa a rimproverarti?
Tutto il suo corpo si tese, e Bill si raggomitolò ancora di più su se stesso, allontanandosi da lui. Tom si lasciò andare ad una risata breve quanto assassina, prima di scivolargli addosso.
- Fammi un po’ di spazio, va’. Sono tutto dolorante. – borbottò, costringendolo a distendere le gambe per poggiare il capo sul suo grembo. – Non sei affatto bravo. Sei un egoista pure nel sesso. L’avevo sempre sospettato, ma ora ne ho le prove. – si lamentò. Ma sorrideva. E questo era un dettaglio che a Bill proprio non poteva sfuggire.
- …scusa… - sussurrò infatti, mordendosi l’interno di una guancia, probabilmente per non scoppiare a piangere come un moccioso.
Tom scrollò le spalle.
- Se mi prometti che la prossima volta sarai più delicato, te lo faccio rifare.
Anche Bill sorrise lievemente, chinandosi su di lui per rubargli un bacio a fior di labbra.
- Guarda che non mi hai lasciato fare niente… - precisò, tornando a raddrizzare la schiena, - Quello che mi hai “dato”, me lo sono preso io…
Tom rise, sollevando giocosamente una mano a tirargli piano i capelli.
- Presuntuoso pure!
- E tu sei una merda. Lasciami andare, mi fai male! Ma chi cavolo me l’ha fatto fare di accettare quest’assurdità…
Tom piegò le labbra in un ironico sorriso di scherno.
- Nessuno ti farà mai male quanto me. – commentò a mo’ di risposta.

Già. Ed io non sono me stesso quando tu non sei accanto a me, e nella luce della luna restiamo solo noi due, e dopo di te non viene niente, e nella notte… nella notte…
…vero, Bill?


Bill non aggiunse una parola.
Aggiunse solo un bacio. Di quelli che mettono punto e suonano pure come una – l’ennesima – resa incondizionata.
Forse non era neppure così fondamentale parlare d’amore, in fin dei conti.
- …ma sono le tre del mattino! – strillò Bill, scattando in piedi e rovesciandolo violentemente sul divano, - Ma ‘cazzo abbiamo nella testa?! Domani abbiamo l’intervista alle otto! Cristo! Che diremo a David?!
- …wir wollten nur redden?
Bill lo sferzò con una tale occhiataccia che non solo Tom desiderò di non aver mai suggerito quell’ipotesi, ma anche di non aver mai avuto delle labbra per parlare né una mente per ideare pensieri – dementi o sensati che fossero.
- Tom? Comincio a pensare che non dovevo tapparti il culo, ma la bocca.
Tom spalancò gli occhi, rabbrividendo letteralmente dalla punta dei piedi alla punta dei capelli. Dopodichè, si premurò di procurarsi una coperta ed un cuscino decorosamente morbido: quando Bill cominciava ad essere sboccato, era decisamente meglio stare alla larga.

E sia.
Forse non è neppure così fondamentale parlare d’amore.
Forse neppure parlare e basta.
Genere: Comico, Demenziale, Parodia.
Pairing: BillxTom, MattxBrian, principalmente, ma ci pieghiamo alle esigenze del lol quando serve XD
Rating: R
AVVISI: Boy's Love, CrackFic, RPS.
- Una raccolta contenente una serie di oneshot demenziali ispirate alle fiabe tradizionali (o della Disney X'D) rivisitate in chiave demenziali con protegonisti Muse, Placebo e Tokio Hotel.
Note: Inserirò un commento quando avrò concluso la storia è_é
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Fairytales Gone Bad
1. CAPPUCCETTO BILL
Storia di una bella bimba (?), di suo fratello e delle loro disavventure nella Foresta del Lupo Cattivo

Before you begin… Questa storia è STUPIDA. Ma proprio stra-stupida come non ne vedete da tanto tanto tempo su questi lidi XD In compenso (dicono) è divertente è_é Voi godetevela e fatemi sapere ù_ù
Comunque né i gemelli né Brian né Matthew mi appartengono, ovviamente XD Niente lucro. Solo tanta idiozia XD Veniteci a patti è_é!
Ah, e Brian e Matthew non hanno alcun legame con Tom e Bill °_° Per carità, non sono legati neanche tra di loro!!! Ma le fic AU demenziali permettono questo ed altro, perciò viva le fic AU demenziali *_*!!!

*

C'era una volta una bambina molto carina che viveva un in bel paese con la sua mamma.
Solo che questa bambina si chiamava Bill.
E in realtà era un bambino. Eggià.
E non viveva solo con la sua mamma, ma anche col suo fratellino gemello, Tom, uguale a lui in tutto e per tutto a eccezione del fatto che Tom, be’, al contrario del fratello Tom sembrava maschio. Infatti, che la piccola Bill fosse in realtà un piccolo Bill, era un segreto; anche perché al piccolo Bill piaceva vestirsi da donna, e quindi sarebbe stato faticoso per mamma e Tom spiegare la situazione, se si fosse scoperto che era un maschio.
Comunque.
Un giorno, la mamma dalla cucina chiamò il piccolo Bill, e il piccolo Bill uscì dalla propria cameretta, scese le scale e la raggiunse.
- Che c’è mamma? – chiese, sorridendo allegramente.
- Piccolo Bill! La tua nonna s’è molto ammalata. – disse la mamma con aria grave, - E perciò ho bisogno che tu vada a trovarla a casa e le porti questi biscotti. – concluse, porgendogli un adorabile cestino di canapa intrecciata ricolmo di ogni ben di Dio.
Il piccolo Bill lo guardò come avesse contenuto scarafaggi e poi, arricciando il naso, afferrò una copertina spuntata dal nulla e se l’arrotolò addosso, crollando sul divano poco distante e accendendo la tv con aria distratta.
- Mammaaaah, - disse, con tono lamentoso, - non mi vaaaah!
La mamma, che ben conosceva il suo pargolo, non si arrese di fronte alla sua ritrosia, e si preparò a sfoderare la sua arma più potente: Tom.
- Ma dai, Bill, amore! – cinguettò allegra, afferrando Tom per il colletto della maglietta (mentre lui non si accorgeva di nulla e continuava a suonare la chitarra – o almeno a provarci – come stava facendo prima che sua madre lo prelevasse), - Ti accompagnerà Tomi!
La reazione di Bill non fu immediata, ma la mamma sapeva di non aver sbagliato i propri calcoli. E infatti gli occhi del suo figliolo cominciarono presto a sbrilluccicare come stelline.
“Uuuuh”, pensò Bill, “se prendiamo la strada del bosco saremo soli… potrò stare da solo con Tomi… potrebbe essere un’ottima occasione per farci le coccole!!!”.
Simone osservò il proprio figlio emanare luce come un piccolo sole, afferrare il fratello per la collottola e trascinarlo gioiosamente fuori casa, dopo aver indossato l’immancabile mantellina rossa che gli aveva regalato tempo prima e grazie alla quale tutti la conoscevano come Cappuccetto Bill, e poi ritornò tranquilla alle faccende domestiche.

*

Una volta che furono nel bosco, i ragazzi presero a dilettarsi con le loro attività preferite: mentre Tom riprendeva a fare del male alla propria chitarra, cercando di suonarla, Bill cominciò a vagolare in giro per la selva, ammaliato dai colori dei fiori e dai mille cinguettii diversi degli uccellini che lo circondavano.
- Tooooomiiiii!!! – chiamò entusiasta, roteando su sé stesso come una principessa Disney, - Guardati intorno!!! Non è bellissimo?!
- Mh-hm. – disse Tom, senza neanche sollevare lo sguardo dalle corde, facendo una smorfia crudele a un accordo nato sbagliato.
Bill gonfiò le guanciotte e aggrottò le sopracciglia.
Detestava essere ignorato! Avrebbe solo desiderato che suo fratello gli regalasse un fiorellino! Che lo guardasse, gli sorridesse, gli porgesse una margherita, sfilasse il cappellino, sciogliendo i rasta al vento come un modello in riva al mare e gli dicesse “Bill, sei il ragazzo più bello dell’universo! I miei occhi vorrebbero essere pieni solo ed esclusivamente della tua immagine! Ti voglio bene!”.
Ma no, Tom era troppo impegnato ad amoreggiare quella sua stupida chitarra, per accorgersi di lui! Cosa diavolo aveva quella chitarra in più di lui, in fondo? Era anche stupida! Aveva bisogno di essere suonata, per produrre quel rumore! Mentre Bill era perfettamente in grado di produrre rumore anche senza essere toccato!
Di quella immensa tristezza si accorse un lupo che passava di lì per caso, avvolto in una camicetta molto fashion, con un paio di jeans attillati anch’essi molto fashion, due graziose orecchiette lupose in cima alla testa e una lunga e morbida coda altrettanto luposa ad uscire con naturalezza da un buco sul sedere.
- Ciao, bella bambina! – disse il lupo, avvicinandosi a Bill e fissandolo con occhi bramosi, - Cosa c’è che non va?
Bill sollevò un paio di enormi occhioni castani truccati all’inverosimile, fissandoli in quelli grandi e grigi e altrettanto truccati del lupo.
- Non sono una bambina! – piagnucolò deluso, - Tutti mi scambiano per femmina solo perché sono carino e gracilino e ho i capelli lunghi e i lineamenti delicati e mi trucco e mi vesto da donna! Ma in realtà io sono maschio!
Il lupo lo guardò da capo a piedi, annuendo comprensivo.
- Be’, per me non fa nessuna differenza. – concluse deciso, - Io mi chiamo Brian, e tu?
- Io mi chiamo Bill! – rispose lui, sorridendo felice perché qualcuno lo stava prendendo in considerazione.
- E come mai piangevi? – si informò il lupo, premuroso.
- In realtà non piangevo, ero solo triste, ma evidentemente l’autrice pensava fosse più carino che tu mi chiedessi questo… comunque!!! È colpa di mio fratello Tom! Lui mi ignora! Continua a suonare la sua stupidissima chitarra e non perde neanche un secondo per dimostrare che tiene a me!
Brian lanciò uno sguardo a Tom, che continuava a tentare di suonare senza molto successo, sbagliando gli accordi e saltando le note, e pensò “oh, come lo capisco! Continua a provarci, povero caro, anche se il mondo è contro di te vedrai che un giorno anche tu strimpellerai bene come il sottoscritto!”.
- Signor Lupo! – strillò Bill, sentendosi nuovamente ignorato, e Brian tornò a dedicargli tutta la propria attenzione.
- Oh, povera bamb- ehm, povero bambino! – disse, giungendo le mani sotto al mento, - Che vita triste, la tua! Ecco, tieni un fiorellino! – e così dicendo gli porse una margherita.
- Yay! – gridacchio Bill, commosso, sistemando il fiorellino fra i capelli, - Grazie!
- E adesso che ne dici di divertirci un po’? – propose Brian, malizioso, avvicinandoglisi con fare ammiccante, da bravo lupo famelico.
Bill, però, non era uno sprovveduto! Era ben cosciente degli effetti che la sua persona poteva avere sui lupi famelici come Brian, e perciò si tirò indietro.
- Ti pare che io sia una sciacquetta qualsiasi?! – disse contrariato, - Io ho una dignità! Io non mi svendo così! Io non-
- Vuoi andare a farlo in un posto più comodo, vero?
- Esatto! – concluse Bill, battendosi un pugno sul palmo della mano come se quella fosse l’espressione che aveva sempre cercato durante tutta la propria vita.
- Allora perché non andiamo a casa da tua nonna? – propose Brian, sospirando di sollievo, - Ci liberiamo della vecchia e avremo il lettone tutto per noi!
- Yeeeh! – disse Bill, e poi entrambi, festanti, cominciarono a correre allegramente verso la dimora dell’ignara nonnina, mano nella mano, saltellando gioiosi con gli uccellini che continuavano a cinguettare felici sulle loro teste.
Nel frattempo, Tom aveva smesso di giocare con la sua chitarra e s’era guardato intorno, notando con estremo disappunto che sua sor- ehm, suo fratello era scomparso.
- Bill, tesorino, dove sei? – chiamò, - Vieni fuori, dai, che mamma mi ammazza se- ehm, che mi dispiacerebbe moltissimo se tu dovessi perderti!!!
Ma nonostante i suoi ripetuti richiami, dal folto del bosco non venne nessuna risposta!
Preoccupato, cominciò a vagare per la foresta, fino a quando non incontrò un cacciatore.
- Signore! – lo chiamò, avvicinandosi, - Scusi, sa, non è che per caso ha visto una bella bambina coi capelli lunghi e un cappottino rosso che vagava da queste parti?
- Un cappottino rosso come questo? – chiese a sua volta il cacciatore, facendo un giro su sé stesso per mostrare a Tom il proprio cappottino in tutto il suo splendore.
- Sì, sì! Esattamente come questo! – disse Tom, entusiasta.
Il cacciatore lanciò un urlo.
- Ommioddio! Ragazzo! Tua sorella è in grave pericolo! – disse, allarmato.
Tom si trasfigurò nell’Urlo di Munch.
- Perché in pericolo?! Cosa può esserle successo?!
- Devi sapere… - spiegò tenebroso il cacciatore, - che in questo bosco c’è un lupo maniaco che attacca qualsiasi cosa sia carina e pucciosa!
- E mio fratello è carino e puccioso!
- …ma non era una sorella?
- …be’, più o meno.
Il cacciatore annuì seriamente.
- Capisco. Il lupo ci andrà a nozze.
- È un lupo pervertito?!
- Il più pervertito che si sia mai visto sulla faccia della terra!!! – annuì il cacciatore, che ormai, visto il cappottino, abbiamo capito essere Matthew Bellamy, rabbrividendo, - Devi sapere che anche io… - cominciò a raccontare, ma Tom lo fermò.
- Non credo di voler conoscere i dettagli… andiamo a salvare mio fratello! – affermò Tom con convinzione.
- Sì! – disse Matt, imbracciando il fucile, - Dove possono essere andati?
- Probabilmente sono a casa della mia nonnina! Bill si sarà diretto lì in tutta la sua innocenza, e il dannato lupastro l’avrà seguito!
- Bene! – disse Matthew, - Andiamo! – ed entrambi si mossero verso la casa della nonna, al limitare del bosco.
Frattanto, Bill e Brian erano già arrivati a destinazione, si trovavano proprio di fronte alla porta di casa e stavano intensamente pensando a un modo per sbarazzarsi della nonna, conquistare l’appartamento e fare i loro porci comodi fino a quando sarebbe loro andato.
- Ma tua nonna che tipo è? – chiese Brian, come fosse interessato a scoprire se era una signora compiacente per organizzare un mènage a trois, sfilando celermente dalle spalle di Bill il cappottino rosso, per dimezzare i tempi una volta che fossero entrati.
- Oh, una signora tranquilla! – rispose Bill, mentre cercava anche lui di spogliare Brian sul selciato, - Una di quelle che preparano i biscotti e quando ti guardano dicono “oh, ti sei fatta proprio una bella signorinella!” – disse il ragazzo con uno sbuffo, liberandosi della propria camicia.
- Ah bene! – gioì Brian, facendosi avanti e puntando minaccioso alle labbra di Bill, - Allora non sarà difficile liberarsi di lei.
Bill rispose con un sorrisetto malizioso e soddisfatto, avventandosi sul lupo e scaraventandolo a terra, per poi arrampicarglisi addosso.
- CHI È CHE FA OSCENITÀ SUL TAPPETINO WELCOME DI CASA MIA?! – ululò all’improvviso un vocione, mentre qualcuno spalancava la porta della casa della nonna.
Fu in quel momento che Bill sollevò lo sguardo e vide la sua amata nonnina.
O meglio.
Era ovvio che fosse la sua amata nonnina, perché aveva la sua vestaglia rosa a fiorellini e i suoi occhialini spessi come fondi di bottiglia e la sua cuffietta celeste e le sue pantofole pelose a forma di coniglio e il suo mattarello in mano.
Ma in effetti quella roba non somigliava granché alla donnina gracilina e bassina che Bill ricordava.
- Nonna! – disse stupito, - Che mascelle grandi che hai!
- È perché non sono tua nonna, razza di deficiente, ma David Jost! – tuonò l’uomo, brandendo il mattarello a mo’ di ascia bipenne.
- E che fine ha fatto la mia nonnina? – chiese il ragazzo, mentre Brian, terrorizzato, cercava di fuggire senza riuscirci, dal momento che Bill lo teneva ancorato a terra con tutto il suo peso.
- Me la sono mangiata! – rispose David con un poderoso rutto, - Quella stronza andava in giro dicendo che sfrutto troppo te e tuo fratello! Avesse almeno una minima idea di quanto è difficile fare il mio lavoro!!!
- Oddio, David!!! Ti sei mangiato la mia nonnina!!! Ora come lo spiegherò alla mamma?! – chiese Bill con gli occhi pieni di pianto, cercando di ammorbidire il manager infuriato.
David però si mostrò completamente insensibile ai piagnucolii di Bill, e si limitò a scoccare uno sguardo crudele a Brian, che rabbrividì fino alla punta della coda luposa che gli era stata data in dotazione per la fanfiction.
- E lui chi sarebbe? – chiese il manager incuffiettato, con tono grave.
- Lui è Bri! – sbrilluccicò Bill, ignaro di tutto, mentre Brian continuava a tremare.
- E cos’è che avrebbe intenzione di fare qui? – proseguì impietoso David, incrociando le braccia sul petto.
- Io e lui volevamo farci tante coccole!!! – continuò a sbrilluccicare Bill, senza neanche un pensiero per la testa.
A quel punto, Brian pensò che fosse il caso di scappare, una buona volta, e così lanciò in aria Bill e scattò in piedi, ma non riuscì ad allontanarsi neanche di un passo, perché David lo afferrò per il colletto della camicia fashion che indossava e lo costrinse a rimanere fermo dov’era.
- TU! Dannato pervertito!!! Cos’è che avevi intenzione di fare al mio protetto?!
- Ma nulla! – si giustificò Brian, sorridendo terrorizzato, - Assolutamente nulla!!! Giuro!!! Ho famiglia e cucciolo a casa, sono un lupo rispettabile io, è il moccioso che ha frainteso tutto!!!
- Ma Bri! – piagnucolò Bill, - Quando ti ho chiesto se poi mi avresti sposato, mentre venivamo qui, hai detto “sì certo”!!!
- Perciò avevi anche intenzione di prenderlo con l’inganno!!! – sbraitò Dave, strapazzando Brian qua e là, - Non sai che certi favori si pagano a peso d’oro?! Bill è ancora vergine!!! E poi comunque c’è una tassa speciale da pagare, perché Bill può essere rappresentato in atteggiamenti sconci solo con suo fratello, dal momento che noi abbiamo delle fangirl da soddisfare!!!
Brian stava per inginocchiarsi e chiedere perdono implorando pietà, ma proprio in quel momento un potentissimo acuto fece tremare tutti gli alberi del bosco e la casa della nonna fin nelle sue fondamenta, e il cacciatore Matt e Tom apparvero davanti ai tre litiganti, strillando “Fermi tutti! Nessuno si muova!!!”.
- Ah! Il cacciatore!!! – disse Brian.
- Ah! Tom!!! – disse David, incapace di sopprimere un altro rutto.
- Ah! Che cappottino adorabile!!! – disse Bill.
- Grazie, anche il tuo!!! – sorrise Matt, facendo un altro giro su sé stesso per mostrare il cappotto.
- David! – strillò Tom, accorgendosi del proprio manager, - Che ci fai qui?! E perché sei vestito come mia nonna?!
- Perché me la sono mangiata! – rispose David, - E comunque, invece di indagare sul mio passato, dovresti ringraziarmi! Ho salvato il tuo amato fratello da questo lupo malvagio!
Nel momento in cui le parole “amato” e “fratello” affiancate raggiunsero le orecchie di Bill, il ragazzo ricominciò a brillare.
- Amato… amato… amato fratello…? – chiese il giovane cantante, come in trance, - Che vuol dire amato…?
Proprio in quel momento, Georg apparve su un albero, vestito da scoiattolo, e accese un enorme riflettore retto con delle stampelle metalliche che arrivavano a terra, tenute in piedi da Dom, Chris, Stef e Steve vestiti da coniglietti pacioccosi, che andò a puntarsi direttamente sulla figura di Gustav, appollaiato su un altro ramo e vestito da gufo tedesco (nel senso che aveva addosso un costume tipico tedesco) con un paio d’occhiali finti sul becco, che sollevò un’ala e recitò candidamente:
- Amata o Amato che dir si voglia: il nome ha origine latina con chiaro significato. Questo nome fu molto usato nel Medioevo, come nome augurale per un bimbo molto desiderato e, appunto, amato. Amata si festeggia il 24 settembre in ricordo di Santa Amata vergine e martire. Amato, invece, viene festeggiato il 13 settembre in ricordo di Sant'Amato vescovo di Sens.
- Ebbene sì, Bill. – disse Dave, cercando di riportare il discorso sul serioso andante, - Tuo fratello in realtà è innamorato di te!
Una strana musica ricordante tanto un TA-TA-TA-TAAAAN! si diffuse nell’aria, e Bill intensificò l’attività sbrilluccicante della propria pelle, arrossendo fino alla punta dei capelli e giungendo le mani come in preghiera.
- Oooooh, Tomi!!! Anche io sono innamorato di te!!! – disse entusiasta, gettando le braccia al collo del fratellone.
- Come posso crederti?! – disse Tom, scuotendo teatralmente il capo e causando un uragano col movimento turbinoso dei rasta, facendo così volare via tutti gli animaletti della foresta sopraccitati, - Tu stavi venendo qui a fare sozzerie col lupo!!! Vi abbiamo visti amoreggiare prima che Dave spalancasse la porta!!!
- Ma no, Tom! – disse Bill, abbracciando più decisamente il ragazzo, - In realtà lui era solo un ripiego perché tu mi ignoravi e non volevi regalarmi un fiorellino!!!
- Ehi… - provò a dire Brian, sentendosi trattato come un uomo-oggetto, ma uno sguardo furioso di Dave, accoppiato a un mattarello roteante incombente sopra la sua testa e la bocca del fucile di Matthew puntata contro la tempia lo zittirono.
- Se è così, Bill… - disse Tom, strusciandosi amorevolmente contro il fratellino, - posso perdonarti! Scappiamo insieme dove nessuno potrà ostacolare il nostro amore!
- Oh, sì! – annuì Bill, entusiasta.
- Fate che sia un posto raggiungibile in elicottero. – puntualizzò Dave, sistemandosi la cuffia sulla testa, - Avete un servizio fotografico, domani.
I due ragazzi annuirono responsabilmente, e poi si diressero mano nella mano verso un luogo sconosciuto, per coronare il loro sogno d’amore.
- Be’, il mio lavoro qui è finito. – commentò Dave con un altro rutto, - E la digestione si prospetta lunga e complicata, perciò buonanotte! – concluse, e si rintanò in casa in un fruscio di vestaglie.
Fuori dalla porta rimasero solo Matt e Brian.
- Adesso a noi, lupastro! – strillò Matthew, piantando il fucile in mezzo agli occhi del lupo, - Finalmente potremo chiudere i conti, e io potrò vendicarmi per quello che mi facesti anni fa, rubando la mia innocenza e-
- Oh, avanti! Falla finita! – lo fermò Brian, scostando il fucile con una zampata e rimettendosi in piedi, pulendo i pantaloni fashion sporchi di terra, - Ti è pure piaciuto, quella volta!
- No che non mi è piaciuto!!! – strillò Matt, diventando rosso come il cappottino che indossava, - E poi… e poi… tu mi avevi giurato che sarei stato l’unico!!! – piagnucolò, - E invece sei sempre in giro ad adescare ragazzini compiacenti!!!
Brian sospirò, si sistemò il colletto della camicia e poi pensò di sistemare definitivamente la situazione sfoggiando il più seducente degli sguardi che aveva in repertorio.
- In realtà, Matthew… - disse sensualmente, avvicinandoglisi, - nessuno dei ragazzini che adesco può essere anche solo lontanamente paragonabile a te… il ricordo di quella meravigliosa notte che passammo insieme è ancora vivo dentro di me… ed è lui che mi spinge a cercare di provare ancora quelle fantastiche sensazioni… ma non riesco con nessuno, perché Matt, solo tu sei in grado di farmi sentire in quel modo…
Matthew lo ascoltò parlare e, molto semplicemente, si sciolse.
- Oh… Brian… come ho potuto dubitare di te…? – disse, con voce rotta dalla commozione, - Adesso ricordo il grande amore che ci univa, e com’eravamo felici insieme…!!!
- Esatto!!! – annuì Brian, abbracciandolo, - Perciò riproviamo ancora quelle meravigliose sensazioni! La mia caverna ci aspetta!
- Sì!!! – disse Matt entusiasta, ed entrambi si diressero a braccetto verso la caverna del lupo.
…e tutti vissero felici e contenti.


*


Dall’autrice… Ossignore santo XDDDD Allora, prima di tutto: ogni riferimento a nomi, cose, città, animali, personaggi famosi e persone reali è assolutamente vol- ehm, non voluto, non previsto e non intelligente >_< Davvero, che nessuno si offenda per questa roba, perché è talmente cretina e insensata che sarebbe assurdo farlo XD
Nata perché la Lemmina un giorno è apparsa su MSN e mi ha chiesto “Dai, raccontami una storia!”. E io, per pronto accomodo, ho tirato fuori questa ROBA XD Totalmente improvvisata in chat, eh ù_ù La versione che avete sotto gli occhi al momento, invece, è la storia trasformata in fanfiction seguendo il “copione” della chatlog (ed è in gran parte copiata da quella XD che dire, era venuta bene XD).
Sono inoltre le prove generali del quartetto vincente Brian/Matthew/Bill/Tom che, prima o poi, vedrete ANCHE in una fic vera e propria ù_ù Della quale ho parlato entusiasticamente con circa la metà dei miei contatti MSN e anche con buona parte del resto del mondo, e che si intitola Teenage Angst, e che scriverò presto, anche se non so quando ._.””””
In ogni caso questa storia non è che la prima di una serie di rivisitazioni di varie fiabe che intendo fare XD Aspettatevi (non tanto) presto anche BiancaBill E I Sette Pseudo-Nani e La Bella Bill Addormentata Nel Bosco, per non parlare di Billerentola e Billahontas XDDDDDD
Stay tuned è_é
PS: Si ringrazia con affetto la neechan per avere trovato il titolo della raccolta nel tempo record di due secondi e mezzo X***** E già che ci siamo ringraziamola anche per gli uccellini cinguettanti, per la tassa da pagare al twincest, per il secondo giro su sé stesso di Matt, per il significato della parola amato/amata e per l’effetto dell’uragano sugli animaletti della foresta X’D Neechan, sei un concentrato di lol <3
Scritta in coppia con Ana.
Genere: Malinconico, Triste, Commedia, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Slash, AU, Angst.
- Bill non vuole ricordare. Tom non vuole ricordare.
Nessuno dei due sente il bisogno di farlo. Perché fa male, fa troppo male, fa male come uno spiacevole ago conficcato in un fianco.
...entrambi, probabilmente, hanno tanto bisogno di ricordare che se non lo faranno scoppierà loro la testa.
Se poi Jorg Kaulitz decide di "dar loro una mano" inconsapevolmente...
Note: Scrivere questa storia è stato in parte veramente facile XD e in parte veramente difficile. E' una storia comunque particolare, nel suo genere, per quanto io resti comunque convinta del fatto che la trama non sia poi così incredibilmente originale come si è detto. Certo, si vedono poche fic del genere sui gemelli, ma dire che sia originale in assoluto... ma comunque questi sono discorsi spiccioli che non valgono niente. Miles Away è una puccina. Credo che la sua forza stia soprattutto nel fatto di essere una storia narrata semplicemente. Direttamente. Senza troppi fronzoli. Quella era, e quella, io e Ana, abbiamo messo giù. Credo sia abbastanza normale sentirti trascinato dentro una storia quando ti sembra che il personaggio stia dialogando con te, parlandoti direttamente. E credo sia successo esattamente questo, fra Bill, Tom e i lettori di Miles Away.
C'è da dire che ho fatto davvero la preziosa, con questa storia XD Dal momento che ero incasinata su più fronti, avrei preferito cominciare a scriverla più avanti, all'incirca verso Novembre. E invece ad Agosto eravamo già lì al lavoro. E per Settembre era tutto finito (missing moment a parte XD). E' stata una cosa un po' strana, e quasi... mah, non so, forse dolorosa °_° E' che, per quanto iniziare i capitoli fosse difficile (perché appunto ero sempre presissima da altro), Ana riusciva sempre in qualche modo a scrivere delle scene che poi mi ispiravano un casino, e io le andavo dietro come una matta, e in ventiquattr'ore in genere i capitoli erano davvero praticamente finiti, rivisitazioni successive a parte °_° E' una cosa quasi inquietante.
Per i missing moment stiamo seguendo una linea un po' diversa. A parte che sono io a rompere le palle per scriverli X'D Riusciamo davvero a finirli in pochissimo perché li scriviamo praticamente insieme su MSN, e poi, essendo vaccate, non hanno bisogno dell'attenzione spasmodica al particolare che invece dedicavamo alla storia madre. Spero solo che al pubblico piacciano altrettanto ù.ù
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Miles Away
- Prologo -

Cerco di concentrarsi sulle nuvole.
Le nuvole avevano un aspetto rassicurante. Bianche, tondeggianti, morbide. Solo a guardarle ci si poteva sentire molto più calmi, più rilassati, quasi felici. Ecco, sì. Sì. Se puntava gli occhi su quella bianca, bianchissima, a forma di patata perfettamente ovale – o pallone da rugby? Non era mai stato un genio dello sport, nonostante il corso di karate che, da piccolo, aveva frequentato con…
…no, meglio non pensarci.
Il suo cervello era già abbastanza sovraccaricato dal pensiero di doverlo rivedere. Non era necessario aggiungere anche il pensiero di lui in quanto lui. Decisamente.
La nuvola, dicevamo.
La patata ovale.
Il pallone da rugby.
Chi per loro, insomma.
Certo che le nuvole erano creature affascinanti…
…cioè, non erano creature. Avrebbe dovuto trovare un termine migliore per definirle.
Mordicchiandosi l’interno della guancia, faticò a trovarne uno, perciò lasciò perdere. Erano comunque cose parecchio affascinanti. Davano tanto l’idea di essere degli enormi cuscini comodi sui quali adagiarti senza pensieri dopo una giornata sfiancante… e invece, se qualcuno avesse realmente provato a distendersi su una di quelle enormi masse d’aria, non solo avrebbe provato tanto di quel freddo che si sarebbe sentito ghiacciare fin nelle ossa, non solo avrebbe corso il rischio d’essere attraversato da parte a parte da una potentissima scarica elettrica, ma invece di ricevere l’abbraccio caldo e confortante dei cuscini di quelle gigantesche finte poltrone si sarebbe anche trovato a galleggiare precariamente nell’aria, in attesa di schiantarsi al suolo.
Le nuvole non avevano pietà.
Esattamente come i ricordi.
I ricordi erano dannatamente uguali alle nuvole. Così amichevoli e dolci quando li intravedevi da lontano affacciarsi fra le pieghe della mente e dei sogni ad occhi aperti… così duri e spiacevoli quando ti decidevi ad avvicinartici e guardarci dentro.
I ricordi, come quasi tutti i bauli antichi delle case delle nonne, possedevano sempre un doppio fondo. C’era quello che vedevi col primo colpo d’occhio, che era quasi sempre delicato e semplice e nostalgico e terribilmente piacevole. E poi c’era quello che sentivi quando allungavi la mano per afferrarlo in un pugno.
E quello era duro.
Spigoloso.
E doloroso.
Sempre, sempre, sempre.
Lasciarsi andare contro una nuvola e lasciarsi andare ai ricordi potevano essere entrambe attività mortali. Praticamente allo stesso livello. Anche se si trattava di morti diverse.
Il segnale che avvisava i gentili passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza si accese, e fu presto seguito dalla voce suadente e vagamente smorfiosa di un’hostess, che informava tutti che l’atterraggio si sarebbe svolto nel giro di una quindicina di minuti, come previsto e in perfetto orario.
Tom ubbidì al segnale e alla signorina, strinse la cintura in vita e si aggrappò distrattamente con le mani ai braccioli del proprio sedile.
Lanciò un altro sguardo alle nuvole e provò ad immaginare come sarebbe stato passarci dentro.


Quando, dopo un quarto d’ora, l’aereo uscì dall’area di turbolenza e si diresse punta in basso verso la pista d’atterraggio, Tom ebbe la sua risposta.
Passare in mezzo alle nuvole faceva schifo.
Esattamente come passare in mezzo ai ricordi.

Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Lime, OC (in un certo qual modo), Slash, Song-Fic, Threesome, What If?.
- Ipotesi. L'idea base sulla quale ruota il video di Spring Nicht è stata partorita da Tom Kaulitz. Ipotesi. Suo fratello si fa male durante le riprese. Ipotesi. Tom si sente in colpa. Ipotesi. Ed è come la fine del mondo.
Note: Ummamma, mi sembra assurdo scrivere queste note °_° Davvero, non potete capire °_° La trama per questa storia risale a tanti (ma tanti) mesi fa… io e la mia neechan Ana avevamo appena cominciato a fangirlare sui Tokio Hotel, avevamo da poco capito verso chi si orientavano le nostre preferenze XD ed a me è venuta in mente questa idea folle in cui, dopo il video di Spring Nicht, il povero Bill finiva in coma e da lì prendevano il via tutti gli eventi che si sono susseguiti in questa storia >.< Così, candidamente, sono andata da Ana e, sbrilluccicando come una bimba di fronte a un enorme cono gelato, le ho chiesto un modo per mandare in coma Bill *___* (mandando in paranoia lei, che aveva appena capito di amarlo X’D).
Poi, per una cosa o per l’altra, il progetto è stato accantonato. Se non altro perché io sono fermamente convinta che le trame più disparate possono nascere in qualsiasi momento, ma quando verrà il momento di metterle su carta sarà il tuo corpo a fartelo sapere è____é
Il tuo corpo o, come è successo in questa occasione, le circostanze °_° Perché non è normale che io ho questa storia in cantiere e sul forum dell’EFP vedo il concorso di Shian sui doppelgänger °_° Cioè, era come se il dio del fangirling stesse in qualche modo obbligandomi a scriverla °____° È indecente!
E così mi son messa al lavoro. E all’inizio pensavo sarebbe stata una cosa normale… voglio dire, non ho mai avuto il sospetto che me ne sarei uscita facile in cinque o sei pagine, ma di sicuro non sospettavo minimamente le proporzioni di drammone emo-twincest che la mia modesta storiella avrebbe preso °____° Infatti in più punti durante la stesura mi sono fatta prendere da insicurezze allucinanti perché mi pareva proprio che la storia stesse perdendo la verve iniziale per spegnersi nel niente ç_ç”””” Grazie al cielo le varie fangirl cui l’ho mandata in prelettura mi hanno rassicurata sulla resa (e a questo proposito vorrei ringraziare Ana, Meg, Lem, Ele ed anche Nai, che pur non essendo una fangirl dei gemelli è una mia fangirl, evidentemente XD e questo l’ha aiutata a sopportare questo dramma fino alla fine! Preoccupandosene anche °_°), altrimenti in più di un’occasione temo mi sarei arenata ._.
Un ringraziamento enorme anche a Yul, che sul mio archivio, in tag-board, mi ha fatto notare il testo di Use You, di Dave Gahan, dimostrando che lo showbiz fa paura. E siccome era una canzone troppo incest e cupa ed emoangst per non usarla… be’, l’ho usata appunto XD E un grazie a Shian per aver messo su il concorso e avermi di conseguenza obbligato “moralmente” a scriverla XD
Ah, importante: l’idea del video di Spring Nicht non è veramente di Tom XDDDDD (seh, figurarsi -.-) e durante le riprese Bill non s’è fatto assolutamente niente ù.ù
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DOPPELGÄNGER
wide awake on sleepy lust

Una enorme quantità di cavolate sciorinate nei momenti più improbabili – ovvero quando ci si trovava a dover fronteggiare un’intervista con qualche stronzo di conduttore desideroso di affondare quanto prima il fenomeno Tokio Hotel, e quindi ci si sarebbe aspettati da lui la quantità minima di buon senso da permettere al resto del mondo di prenderlo sul serio assieme a tutto il suo gruppo – aveva contribuito a renderlo “lo scemo” fra i gemelli Kaulitz. Non c’era alcun dubbio riguardo quella definizione.
Bill passava per quello intelligente, quello con la prontezza di spirito giusta, con le idee giuste, con l’atteggiamento giusto, con l’educazione giusta, eccetera eccetera. Tanto giusto da meritare un cenno d’approvazione perfino da parte di David – il più spietato fra i loro giudici, malgrado si trovasse fra le loro fila e non indossasse la divisa del nemico.
A Tom… be’, a Tom andavano gli scapaccioni, i rimproveri, gli “è mai possibile?!” ed i “sei disgustoso”. Ma non solo da parte del loro manager, no. Perfino da parte di Bill, di Gustav, di GeorgGEORG!!!, l’uomo la cui sensibilità ed educazione rasentavano quelle di un nerboruto vichingo incazzato e anche particolarmente affamato!
Neanche parlare liberamente di masturbazione e rivolgersi al proprio uccello chiamandolo “pennarello” fosse un crimine. Gli piaceva vedere tutti ridere, quando parlava in quel modo – e succedeva sempre – ma sapeva anche che era solo questione di tempo prima che la lucetta della telecamera si spegnesse, il conduttore li salutasse con un sorriso cordiale e si rifugiasse in camerino a commentare con malcelato disgusto la volgarità di quello coi rasta. Lo sapeva, perché era esattamente quello che facevano i suoi compagni. Primo fra tutti Bill.
In onda, si limitava ad una risata imbarazzata, trattenuta a stento da una mano a pressare forte sulle labbra.
Fuori onda, gli scoccava occhiatacce omicide e sibilava “Quando imparerai l’educazione, sarà troppo tardi”.
Per questo, adesso che stava vivendo il proprio tanto atteso momento di gloria, non poteva fare a meno di andarsene in giro per il backstage, il petto gonfio come quello di un galletto da combattimento – ma appena intuibile sotto l’ampia felpa e il voluminoso giaccone in piuma d’oca che indossava per proteggersi dal freddo – e il naso orgogliosamente puntato verso l’alto. Una camminata da principe.
- Piantala di andare in giro come un cretino.
La voce di Bill, lievemente velata da una punta di acidità, più che altro scherzosa, resa appena incerta da un tremito di freddo, interruppe i suoi sogni fantastici un attimo prima che cominciasse a vagheggiare di una possibile conquista del mondo, raggiungendolo alle spalle come uno sgambetto particolarmente vigliacco.
Ed infatti lui quasi inciampò, fermandosi a metà di un passo e rischiando di perdere l’equilibrio e capitombolare per terra da fermo come il peggiore degli idioti.
Bill si limitò a ridere come faceva sempre quando qualcosa lo divertiva molto ma non voleva darlo a vedere: una risatina piccola e incerta, appena un trillo fra le pieghe del silenzio del backstage, attraverso il quale non passava più nessuno, dal momento che regista ed operatori erano impegnati sul set a mettere a punto gli ultimi dettagli prima di cominciare a girare.
- Non mi dare del cretino. – protestò Tom, voltandosi a guardarlo, - Sarà merito mio se questo video verrà ricordato nei secoli dei secoli come la nostra migliore produzione.
Bill si strinse nelle spalle, arricciando le labbra.
- Per ora, è merito tuo solo il fatto che dieci minuti fa mi sono dovuto lasciare cadere dalla terrazza di un palazzo alto cento milioni di piani. – puntualizzò, strofinandosi le braccia sotto il giubbotto leggero appoggiato sulle spalle. – E non ero preoccupato dalla possibilità che i fili che mi reggevano potessero cedere, tanto quanto dal fatto che ero a maniche corte. Ti rendi conto di quanto freddo c’era?!
- Ero lì accanto a te… - gli ricordò il biondo, squadrandolo come fosse il più irriconoscente dei fratelli e piantando le mani sui fianchi.
- Sì, ma circondato di piuma d’oca. – ci tenne a precisare il moro, inarcando le sopracciglia.
Tom roteò gli occhi, esasperato.
- Ma sei mai contento, tu?! – protestò, andandogli incontro e passandogli un braccio attorno al collo. Finse di stringere come per strozzarlo quando in realtà, al più, quella stretta avrebbe potuto essere interpretata come una carezza affettuosa.
Bill rise ancora. Quella volta diversamente. Quella volta, come quando era semplicemente felice. Rise e si appese al suo avambraccio con le mani, affondando nel piumino con le unghie come a voler raggiungere pelle e carne sotto.
- Lo sarei moltissimo, se mi trovassi, chessò, in albergo, a letto e sotto un piumone caldissimo!
- Sì, certo! – annuì Tom, stringendo ancora un po’, - E magari poi vorresti anche una groupie di quelle più disponibili e una cioccolata calda per quando avrete finito! Te lo dico io, fratellino, tu non hai alcuno spirito di sacrificio!
Ennesima risata.
Però a Tom fece male, perché era la risata imbarazzata di quando erano in onda. Quella nascosta per finta. Quella piena di compassione. E irritazione. E fastidio. Quella di quando diceva una cazzata, e Tom odiava dire cazzate a Bill in privato. Aveva sempre come l’impressione di costringerlo ad allontanarsi da lui, quando lo faceva.
Ma il momento passò, e Bill tornò ad affondargli contro, cercando di riscaldarsi con la sua vicinanza.
- Ha parlato l’asceta! – si sentì in dovere di commentare. E quindi Tom si sentì in dovere di rispondere.
- Devi comunque ammettere che l’idea che ho avuto per il video è stata geniale. – argomentò, trascinando il fratello, senza lasciarlo neanche per un attimo, fino a una rampa di scale, sulla quale prese posto, tirandoselo addosso e lasciando che si sistemasse sul gradino inferiore, fra le sue gambe. Da quella posizione era anche più facile abbracciarlo, considerò con soddisfazione, affondando il mento fra i suoi capelli.
- In effetti è vero. – rispose Bill, pensoso. Le vibrazioni della sua voce raggiungevano Tom attraverso le ossa, su fino alla gola. Era come sentirlo parlare dall’interno di sé stesso, una sensazione magnifica. – David infatti non poteva crederci. – concluse il minore, con aria di superiorità.
- È uno stronzo. – commentò semplicemente Tom, affondando di più fra i suoi capelli, fino a strofinarli contro la punta del naso, gelata perché priva di protezioni, - E anche tu lo sei! Ma io so che l’idea di due Bill in giro per il mondo farà impazzire le fan. Tutti mi ringrazieranno per questo!
- Frena, frena… - lo riprese Bill, senza pietà, aderendo con la schiena al suo petto mentre Tom gli sistemava la giacca sulle spalle, - Guarda che è solo un video…
- E meno male! – aggiunse il rasta, strizzandolo con un briciolo di crudeltà in più, - Già tu da solo sei abbastanza una piaga!
Bill gli scoccò un’occhiataccia di traverso, provando senza particolare successo a liberarsi dalla sua stretta, e Tom ghignò vittorioso.
- Quando avete finito di amoreggiare… - rimbrottò David, mani sui fianchi e corteo agitato di cameramen capitanati da regista ansioso al seguito, - Bill, ci faresti la grazia di portare il culo sul set? Vorrei concludere le riprese di questo video entro il prossimo millennio, se non vi dispiace.
I due si separarono immediatamente, scattando in piedi come scolari appena rimproverati dal professore di matematica. Bill annuì e si avvicinò a Jost, che sorrise ironicamente, cercando di nascondere il divertimento che sempre provava nel vedere che quei due piccoli teppisti erano perfettamente in grado di mandare a cagare senza troppi complimenti la loro stessa madre, ma davanti a lui non si azzardavano ad esalare un fiato neanche per forza.
Questione di educazione troppo permissiva, si disse. Bisogna saper riconoscere quando è il caso di utilizzare il pugno di ferro.
- Sei crudele, Dave! – protestò Tom con una smorfia scema sulle labbra, - Ed io che avrei potuto seguire l’illuminato esempio di Georg e Gustav e rimanermene in albergo a poltrire! Invece eccomi qui, che mi sacrifico per amore di mio fratello, ed entrambi mi trattate di merda, nonostante il merito di tutto questo sia mio!
David agitò una mano e sospirò, come per dire “sì, come ti pare”, e Bill ridacchiò sommessamente, muovendosi assieme al resto del gruppo per raggiungere la scena e concludere, finalmente, quelle riprese.
Erano stati due giorni spaventosi. E Tom aveva bisogno di un caffè.
Dato che conosceva a memoria quel momento – l’aveva ripassato in mente mille volte, se l’era rigirato fra i neuroni come fosse stata una cosa fisica da trattenere fra le mani, Bill su un ripiano di plastica rigida perfetto per imitare il parapetto della terrazza, il materasso doppio davanti a lui, retto da quattro fra i più forti e attenti membri della troupe, lui che fissa i pochi centimetri che lo separano da quel riparo morbido, lui che fa un passo, lui che si lascia andare, lui che finge di cadere, lui che simula un suicidio idiota, “in perfetta sicurezza”, gli avevano assicurato, “questa è l’idea migliore che abbiamo mai sentito!” – decise che poteva anche prendersi una pausa dall’osservazione ostinata del proprio fratellino in azione, e si diresse tranquillamente verso il distributore di bevande in fondo al corridoio.
Inserì l’adeguato compenso all’interno della macchinetta – per quanto adeguato potesse considerarsi un euro per una decina di gocce di liquido nerastro ed insapore, che nulla aveva di anche solo vagamente somigliante al caffé – ed aspettò che il bicchierino si riempisse prima di recuperarlo dal suo scomparto.
Alla fine, pensò, era sempre in quel modo che si risolveva, fra lui e Bill. Lui protestava di essere un genio incompreso, Bill lo prendeva in giro, questa cosa puntualmente lo infastidiva e perciò rispondeva all’attacco con una difesa meschina e sciocca.
Non gli piaceva l’idea di far sentire Bill come qualcosa in meno che adorato. Perché lui lo adorava.
Ma, a volte, quelle stupide battute erano gli unici paletti che riusciva a porgli davanti per evitare che il gemello lo facesse sentire abissalmente stupido.
In fondo, però, era una consolazione vana e di durata brevissima. Lo dimostravano i sensi di colpa che, come al solito, lo presero allo stomaco nel ripensare all’ennesima bastardata che gli aveva propinato.

Non penso davvero che tu sia una piaga…

Sospirò e, sorseggiando distrattamente il proprio caffé, cercò nelle tasche dei jeans un’altra moneta. Faceva effettivamente freddo, nonostante fossero al chiuso. Il sistema di riscaldamento non era abbastanza potente per riscaldare l’intero ambiente, e lo stanzone nel quale stavano girando la scena finale era enorme. Difficilmente lì suo fratello non avrebbe sofferto. Tanto più che era costretto a stare di nuovo senza giacca, solo con la maglietta.
Avrebbe dovuto pensare a un cappottino di pelle anche per il Bill suicida.
Dato che, in quel momento e solo in quel momento, la sua genialità l’aveva abbandonato per dedicarsi ad altro, così che lui non aveva potuto dotare il Bill suicida della giusta protezione contro le intemperie dell’inverno tedesco, si sarebbe fatto perdonare con un bel bicchierone di tè caldo. Era consapevole del fatto si trattasse giusto di un beverone appena aromatizzato, ma era sicuro che Bill avrebbe capito. Ed apprezzato l’intenzione.
*
S’era appunto chinato, molleggiando sui talloni davanti alla macchinetta per osservare il lento scorrere dell’acqua bollente dal beccuccio al bicchiere di plastica, attendendo che si esaurisse, quando alle spalle lo raggiunse un boato.
Non avrebbe saputo descriverlo meglio.
Perché non era un urlo.
Non era un urlo, quella massa di voci così enorme e indistinta e forte, tanto da far tremare le pareti. Non era un urlo, era un terremoto, al più. Scattò in piedi, dimenticando del tutto il bicchiere dentro l’apparecchio, e si voltò. Dall’apertura in fondo al corridoio, all’inizio non venne fuori niente. Soltanto altro vociare indistinto. Meno forte, meno spaventoso. Ugualmente ansioso.
Fra le mille parole, non ne riconobbe che una.

Ambulanza.

Ambulanza? Ambulanza perché?
Ambulanza per chi?

Pietrificato, rimase lì, in mezzo al niente, con la sola compagnia di un distributore automatico ronzante alle spalle.
Poi, David.
O meglio, una voce che ricordava quella di David. Quella di David quando era veramente infuriato, quando lui disubbidiva e trascinava Bill in qualche follia del cazzo, o quando le prove andavano male, o quando durante un soundcheck rompevano le palle a un qualche tecnico del suono o delle luci, o quando Georg si sfondava d’alcool da qualche parte e finiva col provarci con tutte le cameriere che gli capitassero sottomano, o quando Bill aveva un attacco di nostalgia improvvisa e si faceva lagnoso e intollerabile, oltre che assolutamente ingestibile. Una voce simile, ma molto più preoccupata. Molto più agitata. Molto più nervosa.
- State zitti, cazzo, non sento niente! – strillava.
Solo allora, solo quando lo vide mettere un piede in corridoio ed allontanarsi dal set, Tom osò muovere un passo. Lo mosse nella sua direzione, ma David non si accorse di lui. Girò su se stesso e prese a camminare avanti e indietro, come un ossesso, dando indicazioni al telefono per spiegare all’operatore dall’altro lato della cornetta come raggiungere il luogo esatto in cui si trovavano. Il luogo esatto in cui trovare ciò che avrebbero dovuto prendere.
Che doveva essere sicuramente un tecnico. Sicuramente qualcuno che aveva fatto un errore e s’era bruciato. O qualcuno che era caduto e s’era fatto male.
Qualcuno.
Che.
Non.
Fosse.
Bill.

Ma nessuno, nessuno a parte Bill avrebbe potuto giustificare quello sguardo negli occhi di David, quella camminata isterica, quel contorcersi di viscere che Tom stesso sentiva appena sotto lo stomaco, quella paura immotivata, improvvisa, tanto forte e antica e sconosciuta da sembrare un impulso primitivo. Solo Bill.
Solo Bill.
- Bill… - disse a mezza voce. Quasi non si sentì neanche lui.
Ma David, lui lo sentì. Si fermò nel mezzo del corridoio, gli alzò addosso uno sguardo terrorizzato ed allontanò il cellulare dall’orecchio, annuendo un’ultima volta, come l’operatore potesse vederlo.
- Tom. – disse David, sollevando le braccia come avrebbe fatto se si fosse trovato davanti ad una bestia feroce, ed andandogli incontro lentamente, - Calmati.
- Bill! – ripeté Tom, e lo ripeté perché in quel preciso istante si sentiva in grado di pensare solo al suo nome. Non c’era spazio per nessun’altra parola, non esisteva niente.
Nient’altro oltre Bill.
Perché nient’altro poteva giustificare tutto quel dolore.
Si slanciò in avanti, e David lo afferrò per le spalle. Tom non era infastidito dalla propria gracilissima costituzione, ma in quel momento avrebbe desiderato essere un gigante alto più di due metri e largo almeno tre, per sfondare la resistenza dei muscoli compatti di David, forzare la sua stretta e oltrepassarlo, calpestandolo come fosse stato una formica.
Per fiondarsi da Bill.
Per vedere come stava.
- Non è niente di grave, Tom! – gli urlò David nell’orecchio, - L’ambulanza sta arrivando!
- Perché l’ambulanza?! – strillò lui a propria volta, - Cos’è successo a Bill?!
Una lenta nenia di “niente, niente, non preoccuparti, è tutto a posto” prese il posto dei pensieri irrazionali che gli avevano invaso il cervello fino a quel momento. Era irrazionale anche farsi cullare dalla voce di Jost, dal suo tono adesso morbido e rassicurante, da padre, di più, da fratello, ma lo fece lo stesso. Di quelle parole si riempì le orecchie. E la testa. E tutto il resto del corpo, finché non gli sembrò di riuscire a contenere solo quelle.
È tutto a posto.
Non preoccuparti.
Non è niente.

Si sistemerà tutto.

E non sarebbe stato meglio non ci fosse proprio niente da sistemare…?


- Il materasso ha ceduto… - una pausa. Forse David si stava chiedendo se fosse giusto dirglielo. Era sbagliato, ma Tom non glielo disse, perché tanto non sentiva più niente. In quel momento non lo stava davvero ascoltando. Il problema era che il suo cervello non poteva impedirsi di registrare quelle informazioni. – Un angolo è scappato di mano da uno dei tizi che lo reggevano. – E quindi? E quindi cosa, David? – Bill… - Bill cosa, David? – è stato sbalzato via… - E poi? – Ha battuto la testa…
Tom si fermò. Smise di strepitare, smise di agitarsi.
Probabilmente anche di respirare davvero.
Malgrado volesse vedere Bill, malgrado volesse andargli vicino, malgrado volesse toccarlo per assicurarsi fosse ancora tutto a posto, tutto come prima, tutto come una risata tenera soffiata a bassa voce prima di allontanarsi con un cenno di saluto, in realtà lui non voleva davvero guardarlo. Non voleva guardare suo fratello steso per terra in un lago di sangue. Non voleva guardare i suoi capelli bagnati e gocciolanti, non voleva guardare la ferita che probabilmente gli deturpava la fronte o chissà cos’altro, non voleva davvero guardare niente di tutto questo.
Perciò si abbandonò come svenuto fra le braccia di David. E, come sempre, David non lo tradì. Lo resse in piedi. Lo tenne ben stretto.
- Non si è ancora ripreso. Ma l’ambulanza sta per arrivare. Perciò sta’ tranquillo.
*
Nell’ambulanza diretta all’ospedale, con Bill privo di sensi mollemente adagiato su una barella ricoperta di carta immacolata già sporca del sangue che gli infermieri non erano riusciti tempestivamente a tamponare con le garze, non c’era chi avrebbe dovuto esserci.
Non c’erano Simone e Gordon, ancora a Loitsche ed ancora all’oscuro di tutto – perché David aveva pensato fosse più opportuno avvertirli solo quando avessero saputo qualcosa di certo.
Non c’era Jörg, che probabilmente sarebbe stato avvertito da Simone stessa – solo quando avesse saputo e solo quando avesse metabolizzato.
Non c’erano Gustav e Georg, che pure erano stati tempestivamente chiamati ed avvisati, e contro i quali David aveva dovuto minacciare di sguinzagliare l’intera security dell’albergo nel quale alloggiavano perché “smettessero di piagnucolare come mocciosi isterici e tornassero a dormire, che tanto Bill non si sarebbe rimesso in piedi solo per il loro convulso starnazzare notturno”.
Non c’era neanche David, che appena aveva visto Tom abbandonarglisi fra le braccia aveva pensato “merda” ed aveva deciso di rimanere con lui fino a quando non fosse stato necessario, perché tanto, per Tom, i medici non avrebbero potuto fare niente, mentre un buon medico era tutto quello che servisse a Bill.
E naturalmente non c’era Tom.
Tom che, in quel momento, stava semidisteso sul sedile posteriore della macchina di David, che seguiva l’ambulanza come un segugio fedele, a pochi metri di distanza, e fissava il vuoto buio oltre il finestrino, mordicchiando insistentemente il labbro inferiore e facendo occasionalmente tintinnare il piercing quando entrava in contatto coi denti.
David lo adocchiava nello specchietto retrovisore – spostato ad arte perché inquadrasse perfettamente la sua figura, centrato e per intero, come dentro una telecamera – ad intervalli regolari ogni dieci secondi, come volesse assicurarsi non usasse il finestrino per gettarsi in strada e porre fine alla massa enorme di sentimenti e sensazioni fangose che lo stavano ricoprendo e soffocando al punto da impedirgli di parlare se non per monosillabi.
- Va meglio? – gli chiese, stringendo la presa delle dita attorno al volante.
- No. – rispose Tom senza pensarci su più di mezzo secondo.
Non poteva andare meglio.
Sentiva che Bill non si era ancora ripreso.
E sarebbe stato sciocco ed infantile dirlo, oltre che vagamente falso, perché non riusciva davvero a percepire come stesse il proprio fratello, a quella manciata di metri che li separava, chiuso nell’ambulanza come in una scatola di sardine. Però riusciva a sentire benissimo come stava da sé. Riusciva a sentire che stava male, male da morire, male come mai. E si sentiva talmente preoccupato, e deluso da sé stesso, e colpevole, e inutile, e assente, che nella sua testa non c’era proprio spazio per l’ipotesi che le condizioni di Bill potessero essere migliorate, che lui potesse stare un po’ meglio.
Era caduto, aveva perso sangue, era svenuto e non s’era più ripreso, e tutto per colpa di una sua stupida idea.
Della più stupida delle sue idee.

Nessuno s’era ancora premurato di accusarlo. Neanche David, che in genere era sempre propenso a mollargli uno scapaccione sulla nuca ed insultarlo nelle maniere peggiori, s’era azzardato a dirgli una sillaba.
E dire che, per la prima volta in molto, moltissimo tempo, la sua colpa era così palese che a lui quasi veniva da ridere. E l’avrebbe fatto, se non fosse stato così sistematicamente certo che appena avesse schiuso le labbra sarebbe scoppiato a piangere come un idiota.
E non poteva piangere.
No. Nessun diritto di piangere.

*
- Tu aspetta qua fuori.
Si lasciò andare su una sedia in sala d’aspetto, impattando col sedere contro la plastica dura, fino a sentirla scricchiolare sotto di sé.
Avrebbe voluto afferrare David per un braccio e dirgli che quel teatrino di sicurezza, quella pallida imitazione di “è tutto a posto, reggo tutto io, non succederà niente di male”, poteva anche ficcarsela nel culo o usarla per pulirselo, perché era del tutto inutile. Tanto glielo si leggeva negli occhi che era terrorizzato a morte.
Come lo si poteva leggere nei suoi.
- Ci metterò un secondo.
Annuì meccanicamente, voltando lo sguardo intorno a sé. L’ospedale, o almeno la sala d’aspetto, era semivuota. Sembravano esserci più infermieri che pazienti bisognosi di cure.
Complimenti a Jost per la scelta.
L’avrebbe ringraziato per la discrezione in un altro momento. Un momento in cui fosse stato… più razionale.
Doveva essere proprio vero, quello che si diceva della paura. Che la fiuti, la scorgi nei cuori e negli occhi degli altri, e che ti atrofizza i sensi, paralizzandoti.
Tom aveva annuito senza volerlo realmente fare, e aveva rilasciato il capo all’indietro, contro il muro, cogliendo di sfuggita la figura di David imboccare un corridoio e sparire.
La paura poteva anche farti impazzire, e lui sapeva che nel suo caso aveva perfino buone possibilità di riuscirci.
Ne fu certo quando, un momento prima di chiudere gli occhi, vide Bill seduto su una sedia di fronte a sé. Capelli sparati in aria, cappotto di pelle e, stampato sul viso, il sorriso delle grandi occasioni. Quello soffice e tenero di quando si scusava. E sembrava voler dire non lo faccio più, Tomi. Perdonami.
Ma quello non poteva essere davvero Bill.
E, se anche lo fosse stato, Tom si sarebbe premurato di staccargli quel sorriso dalle labbra a morsi, se fosse stato necessario.
*
It’s killing me
To be in this room
I’ve gotta get out
I’ve gotta get out soon

Quando si risvegliò, il secondo di David si era prolungato in un millennio, e lui era tanto vecchio e stanco che avrebbe tranquillamente potuto dire di essere già pronto a morire.
- Dovresti tornare in albergo. – si sentì dire, e perciò spalancò gli occhi e li portò sulla figura del manager, incredulo.
- No! – disse, alzando la voce. E avrebbe aggiunto altro. Avrebbe cominciato a strillare che lui non aveva alcun diritto di chiedergli, no, di obbligarlo ad andarsene, e che si trovava esattamente nel posto in cui avrebbe dovuto trovarsi fin dall’inizio, ovvero al fianco di Bill, dal momento che non poteva essere al suo posto. E avrebbe strillato tanto che perfino Bill l’avrebbe sentito, in qualsiasi posto si trovasse.
Ma David lo conosceva. Abbastanza da provvedere con una mano sulla bocca, per zittirlo appena in tempo.
- Non dare di matto, Tom. È l’ultima cosa che ci serve. – disse il manager, seriamente, sedendoglisi accanto. Continuò a tenergli la mano pressata sulle labbra e, respirando affannosamente contro la sua pelle calda e leggermente sudata, Tom pensò che era ridicolo. Che tutta quella situazione era completamente ridicola. Erano ridicoli loro due, seduti in quella sala d’aspetto bianchissima e semivuota, era ridicola l’agitazione di Saki, che era andato in ambulanza con Bill e che, da quando ne era sceso, non aveva fatto che rimanere attaccato alla barella, col risultato che, adesso che la barella era stata portata in sala per l’operazione d’urgenza, s’era appiccicato al muro più vicino come fosse stato uno di quegli stupidi robottini incapaci di vedere che davanti hanno una parete e non possono attraversala, e quindi continuano a sbatterle contro nella speranza di sfondare le resistenze e passare altrove.
Ed era ridicolo anche lui. Bill.
Era ridicolo che potesse starsene su un lettino, sotto i ferri, incosciente.
Era ridicolo che potesse davvero farlo senza sentirsi in colpa per tutto il dolore che stava loro causando.
Si morse un labbro, e nel movimento sbavò un po’. Se ne accorse, lo trovò imbarazzante e disgustoso, ma David non tolse la mano.
- Saki. – chiamò invece a bassa voce, e la guardia del corpo sembrò come ridestarsi da un lungo sonno, andando loro incontro. – Riporta Tom in albergo. Per carità, fa’ in modo che entri senza che Georg e Gustav lo vedano. – si interruppe, per una breve riflessione. – Scusa se te lo chiedo, ma già che ci sei potresti controllare che quei due stiano realmente dormendo?
Saki annuì, sbuffando un sorriso intenerito e poggiando una mano sulla spalla di Tom.
Che non si mosse.
David lo guardò. Dritto negli occhi. Pochissimi secondi. La pressione delle dita appena un po’ più forte attorno alla mascella.
Dal momento che Tom sapeva che David non l’avrebbe mai abbracciato, e che quello sarebbe stato il contatto più consolatorio che avrebbe ricevuto fino a quando suo fratello non si fosse ripreso – e fino a quando, cioè, quello da abbracciare fosse stato lui – se lo fece bastare. Sospirò ed annuì.
David sorrise e spostò la mano sulla sua spalla, cercando di infondergli quel po’ di forza che gli era rimasta attraverso un paio di pacche decise.
Era ridicolo anche quello, in fondo, pensò Tom alzandosi e seguendo Saki verso l’uscita dell’ospedale. Nel momento in cui l’avesse visto uscire e fosse rimasto solo, David si sarebbe afflosciato su se stesso, avrebbe nascosto gli occhi dietro alle mani ed avrebbe esalato un sospiro tanto stremato e sconvolto che se qualcuno l’avesse sentito avrebbe pensato che non fosse solo un po’ d’aria ad abbandonargli i polmoni, ma la stessa vita. Chissà, probabilmente avrebbe perfino pianto, anche se prima di farsi vedere da qualcuno sarebbe andato a chiudersi in bagno.
- Non ti preoccupare, Tom, andrà tutto bene. – gli disse Saki, quando furono arrivati in albergo. – I medici sull’ambulanza hanno detto che non sembrava molto grave.
Era privo di conoscenza, avrebbe voluto ricordargli Tom, tu l’hai visto. E non di sfuggita, come me. Non hai dovuto accontentarti di un frammento di lui mentre la barella correva veloce per il corridoio fino in sala operatoria. L’hai guardato bene, per tutto il tempo. Come fai ad essere così tranquillo?
- Sì. – disse invece, annuendo come a rafforzare la validità della propria risposta. Sapeva che Saki avrebbe riferito tutti i particolari del suo comportamento a David, una volta che fosse tornato in ospedale, e non voleva preoccuparlo ulteriormente. Era meglio che la persona più vicina a Bill in quel momento non avesse altro che lui a cui pensare.
Le rassicuranti parole di Saki lo accompagnarono fino in camera, mentre si spogliava e si lasciava cadere esausto fra le coperte. Sapeva che non avrebbe dormito, ma era piacevole farsi cullare da qualcosa di morbido. E mentre si girava fra le lenzuola, sistemando il cuscino dietro la testa e fissando il soffitto con aria assente, quelle parole continuarono a girargli per la testa come una canzone un po’ stonata. E giravano, e giravano.
Giravano ancora, quando il telefono sul comodino squillò e lui si chinò a recuperare la cornetta per rispondere.
Forse fu per questo – perché ancora nella sua mente c’era solo la voce di Saki – che il timbro incerto eppure grave di David suonò così strano alle sue orecchie. Così irreale.
- È in coma.
Non doveva essere una cosa affatto grave?
Non doveva risolversi tutto in fretta?
Non doveva andare tutto a posto?

- I dottori sono fiduciosi. Dovrebbe riprendersi. Se… se supera la notte è fatta, dicono.
La progressione dei verbi era interessante.
Dal presente al condizionale in meno di dieci parole.
L’ipotetica finale, poi… il colpo di grazia.
- Tom? Ci sei?
Deglutì, sperò che David lo sentisse e lo prendesse come una risposta. E smettesse di parlare, una buona volta. Perché adesso no, non c’era proprio più niente da dire.
- …d’accordo. Senti, ti richiamo domani mattina. Non uscire dalla tua stanza, per favore. Per favore, Tom. Mi ascolti? Non uscire. Cerca di dormire. Dimmi che cercherai di dormire, Tom.
Schiuse le labbra, ma ne uscì solo un rantolo. Avrebbe voluto essere un sì – un sì, almeno, avrebbe chiuso la questione. Sarebbe stato falso, ma definitivo – ma non fu che un lamento strozzato.
- Ok… - rispose David, sospirando pesantemente. Tom poté immaginarlo passarsi una mano fra i capelli e poi lasciarla scivolare fra gli occhi, a massaggiare l’estremità superiore del naso. – Senti, vi sto rimandando Saki. Starà lui con voi. Se hai bisogno di qualcosa, chiamalo. Non… - Non dirmi di non preoccuparmi per Bill, David, non dirmelo, davvero, perché se me lo dici quant’è vero che sono vivo salto in piedi, ti raggiungo dovunque tu sia e ti azzanno alla giugulare, lo giuro, David, non dirmi di non preoccuparmi per Bill. – A Bill ci penso io. Cerca di riposare.
Tom tirò un respiro – il primo che gli sembrasse vero, per quella sera – ed interruppe la conversazione, rilasciando il capo sul cuscino e lasciando cadere il telefono al suo posto senza alcuna delicatezza.
Seguì il complicato disegno di ghirigori che decorava il soffitto, fino a quando non divenne una serie di macchie scure arrotolate su loro stesse, indistinguibili le une dalle altre. E si rese conto che non era un effetto ottico, no. Erano le lacrime. Quelle stesse che stavano rotolando giù lungo le sue guance, schiantandosi sul cuscino. Erano loro che gli impedivano di vedere bene.
Si morse l’interno di una guancia per non scoppiare in singhiozzi, e cercò di abituarsi allo spettacolo confuso, perché tanto non sarebbe cambiato per tutto il resto della notte.
*
Il primo pensiero sensato che gli attraversò la mente quando si svegliò, fu che il corpo umano è talmente inaffidabile ed infedele da dare la nausea, se solo ci si riflette su. Aveva giurato e spergiurato – be’, non consciamente, ma l’aveva fatto – che non avrebbe dormito. Non avrebbe chiuso occhio. Per quanto potesse sembrare stupido e infantile e melenso e deprimente, avrebbe pianto fino a non poterne più ed anche oltre, per tutta la notte. Questo era quello che s’era detto, fissando il soffitto.
E poi s’era addormentato.
Quel bastardo del suo corpo traditore aveva ceduto alla spossatezza e s’era addormentato.
Si lasciò andare ad un grugnito irritato, rigirandosi sul materasso per cercare di sfilarsi il cuscino di bocca – e come vi fosse finito in quel momento non lo interessava affatto, anche se supponeva potesse essersi trattato di un pallido tentativo di arginare i singhiozzi soffocandoli nel cotone – quando realizzò che il motivo per cui s’era svegliato era il bussare insistente che aveva percepito mentre ancora dormiva. E che continuava ad accompagnarlo anche adesso che era sveglio.
Toc toc.
Non poteva trattarsi di un sogno. Era un suono, era quasi fisico – lo sentiva rimbombare nel cervello come lo stessero prendendo a martellate – doveva essere reale.
Si sollevò a sedere e fissò la porta.
Toc toc.
Potevano essere Georg e Gustav. Magari avevano eluso la sorveglianza di Saki e intendevano torchiarlo finché non avesse detto loro cosa diavolo era successo.
O forse era proprio Saki. Magari voleva assicurarsi che fosse tutto a posto. Magari l’aveva ascoltato piangere per tutto quel tempo e poi, quando l’aveva sentito smettere, s’era preoccupato, e voleva vedere se era ancora vivo.
Oppure poteva essere David. Magari aveva pensato che stare ancora a rotolarsi nell’angoscia sul seggiolino scomodo della sala d’aspetto di un ospedale semivuoto potesse rivelarsi inutile, e dopo aver lasciato il proprio numero per essere contattato in caso di eventuali sviluppi, aveva deciso di tornarsene in albergo, e ora passava di lì per assicurarsi che fosse tutto a posto.
Toc toc.
Toc toc.
Continuo, incessante.
Si alzò in piedi. La moquette che ricopriva il pavimento non era affatto morbida. Era quanto di più fastidioso e pungente avesse mai sentito sotto la pelle. Infilò le pantofole e raggiunse la porta della camera mugugnando un “arrivo” poco convinto.
E poi aprì.
E lui e la persona dall’altro lato della porta sollevarono gli occhi nello stesso identico istante.
E quegli stessi occhi, l’uno nello sguardo dell’altro, riflessero lo stesso identico castano.
- Bill… - esalò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, come fosse già distrutto solo dopo aver pronunciato il suo nome, - Bill, che… che ci fai qui…? – si sforzò di chiedere, ricacciando indietro, giù per la gola, le lacrime che minacciavano di impossessarsi nuovamente dei suoi occhi.
Bill ridacchiò. Una risata che non gli aveva mai sentito veramente addosso. Che ogni tanto aveva immaginato, ma che non era mai realmente appartenuta a suo fratello. Qualcosa di malizioso, qualcosa di subdolo e sottile, qualcosa di… vagamente sgradevole.
Bill ridacchiò e gli posò una mano sul petto, spingendolo con delicatezza all’interno della stanza e richiudendosi la porta alle spalle.
Fu allora che Tom si accorse che quello non poteva essere altro che un sogno. Se ne accorse e quasi sorrise di sé stesso, chiedendosi come avesse potuto sperare, anche solo per un attimo, che quella visione potesse essere reale. Bill era in coma, sdraiato inerte su un letto d’ospedale. E se pure s’era ripreso, se pure aveva riaperto gli occhi, ricominciato a respirare da solo, a parlare normalmente, a sorridere ed a muoversi, di certo non si sarebbe mai potuto trovare lì. Non a quell’ora. Non quella notte.
Non con addosso lo stesso cappotto di pelle del video di Spring Nicht, non con tutto quel trucco, non con i capelli perfettamente in piega. Non con quel sorriso sulla faccia, non con quell’aria da folletto furbo, non senza neanche un segno della caduta, dell’operazione, del ricovero.
- Sto sognando… - disse ad alta voce, mentre Bill lo superava, scendendo a sfiorargli una mano con la propria e intrecciando le dita con le sue per condurlo più velocemente verso il letto, sul quale lo costrinse a sedersi prima di accomodarsi al suo fianco. – Sto sognando, è ovvio…
- No che non stai sognando, Tomi… - lo rassicurò Bill, anche se la sua voce sembrava provenire da molto, troppo lontano, e niente dei suoi gesti o della sua persona ricordava quella di suo fratello… se non il fatto che fossero due dannate gocce d’acqua.
Proprio come nella sua idea geniale.
Due Bill in giro per il mondo.
Anche se, al momento, uno in realtà era inchiodato ad un letto.
- Tu non puoi essere qui. – obiettò Tom seriamente, guardandolo dritto negli occhi.
Bill sorrise e trascinò una sua mano a sfiorargli la guancia.
- Mi puoi sentire…? – gli chiese poi, strofinando il viso contro la sua pelle, come un gattino in cerca di coccole.
E sì, Tom lo poteva sentire.
Lo poteva sentire al punto che mandò a fanculo la consapevolezza si trattasse solo di un sogno e lo strinse fra le braccia con impeto, quasi stritolandolo. Ma era un sogno, e quella era una certezza. Lo divenne incontestabilmente nel momento esatto in cui Tom lo strinse a sé e Bill non mostrò neanche un attimo di incertezza, o una nota di stupore, nel lasciarsi stringere.
Solo i sogni sono così ubbidienti.
Solo i sogni non chiedono mai perché.
- Scusa, Bill… - mormorò Tom contro la sua pelle, lasciandogli scorrere le mani sotto il cappotto, lungo la schiena, sentendo il cotone leggero della maglietta arrotolarsi in sbuffi sotto la pressione delle dita, - Non volevo che andasse così… mi avevano detto che sarebbe stata una scena sicura, da girare… c’erano quattro persone a reggere quel fottuto materasso, non so com’è che-
- Sssh… - lo interruppe Bill, scostandosi da lui solo qualche centimetro, ritrovando subito il contatto nello sfregamento delle loro fronti, e guardandolo negli occhi con affetto, - Non sono arrabbiato con te, Tomi… non è colpa tua… - ridacchiò, arricciando il naso in una smorfia tenerissima, - Come hai potuto pensare, anche solo per un momento, che potessi darti la colpa di quello che mi era successo? È stato un caso, una fatalità… la tua idea era comunque bellissima, sai…?
- Ma tu – riprese Tom, singhiozzando prepotentemente, pur continuando a ricacciare indietro le lacrime, - adesso sei in coma… in coma Bill… e non è neanche sicuro che ti riprenderai… - si interruppe un secondo, mordendosi le labbra, perché di dire ciò che doveva dire non aveva alcuna voglia. Ma le parole scalciavano sul fondo della gola, dove tutte le lacrime s’erano concentrate. Non c’era più spazio per entrambe. Ed allora, meglio che le parole uscissero, perché erano decisamente meno pericolose del resto. – Se tu dovessi morire…
- Non dirlo neanche per scherzo! – rise Bill, divertito, stringendogli le braccia attorno al collo e tornando ad affondare il viso nell’incavo della sua spalla, - Io non morirò! Non sto affatto male, Tom! Che c’è, non mi senti?
- Sì… - annuì Tom, tornando a stringerlo alla vita, - Sì, certo che ti sento, ma-
- Ma cosa? – insistette Bill, separandosi da lui, stavolta più nettamente, e tornando a guardarlo, - Non ti basta? Vorresti sentirmi di più?
Tom deglutì, scrutando le profondità dei suoi occhi cerchiati di nero senza riuscire a venire a capo del mistero di quel sogno così… tangibile. Caldo, profumato e solido sotto le mani.
- Vorrei avere la sicurezza che stai bene… - bisbigliò, scivolando con le labbra sulla sua fronte fino a scorrere anche sul profilo del naso, risalendo con le mani a sfiorare la nuca, come cercasse il segno di una qualche ferita.
Niente di niente.
- Sto bene, Tomi. – disse Bill, accarezzandogli le guance con entrambe le mani. – Posso pensare solo ad un modo per fartelo capire.
Non lo vide avvicinarsi.
Doveva aver approfittato dell’unico momento in cui si fosse concesso di sbattere le palpebre, staccandogli gli occhi di dosso.
Sentì direttamente il calore delle sue labbra contro le proprie. Morbide, sensuali, rassicuranti.
Il modo perfetto per fargli capire che sì, stava bene, e sì, era ancora al suo fianco.
Spaventato, incerto e un po’ intontito, si tirò indietro, senza però riuscire a togliergli le mani di dosso.
- Bill, cosa fai…? – chiese a mezza voce, anche se sapeva che era una domanda del tutto inutile: i sogni non rispondono. Per i sogni non esistono vere domande.
Perché i sogni fanno solo ciò che tu gli ordini di fare.
- Stai tranquillo, Tomi… - gli disse Bill, inginocchiandosi sul materasso di fronte a lui e sporgendosi in avanti per raggiungere ancora le sue labbra, in una serie di baci brevi e veloci, appena umidi, molto infantili, - Era tanto tempo che volevi farlo, vero Tomi…?
Provò a scostarsi, come in una protesta muta, ma Bill non lo lasciò andare.
- No, io… - provò allora a dire, ma Bill non lo lasciò neanche parlare.
- Quando hai saputo che ero in coma hai pensato che non avresti mai potuto farlo, vero Tomi…? – e ancora una cascata di baci, sempre più piccoli, sempre meno incerti, sempre meno contrastati.
- Smettila di parlare così! – disse Tom, socchiudendo gli occhi e stringendo la presa delle dita attorno ai suoi fianchi sottili, stupendosi della straordinaria consistenza della pelle, della carne e delle ossa fra le mani, - Non chiamarmi Tomi, tu non sei Bill…
Bill – l’altro Bill – ghignò. Si alzò e gli si parò di fronte, poggiandogli le mani sulle spalle. Poi lo scavalcò e gli si sedette in grembo, ancorandosi a lui e intrecciando le gambe dietro la sua schiena.
- Se non sono Bill… allora quello che stiamo facendo non è un problema… - gli mormorò sulle labbra, prima di tornare a coprirle di baci.
E Tom si stupì nel ritrovarsi a rincorrerli, quegli stessi baci. Quando le labbra di Bill si allontanavano, erano le proprie a protrarsi in avanti e seguirle. Alla ricerca della loro traccia morbida e calda. Di tutto ciò che di tangibile gli restasse di Bill. Del proprio adorato fratellino steso su un letto in un ospedale bianco, triste e semivuoto, a causa sua.
- Tomi, anche io volevo farlo da tanto tempo, sai…? – disse ancora Bill in un sussurro, leccandogli lentamente le labbra, ancora una volta simile a un gattino, per costringerlo a schiudere le proprie.
E Tom ubbidì.
Perché i sogni fanno solo ciò che ordini loro.
E se l’altro Bill stava facendo quelle cose…
…Tom lo sapeva, che era solo perché era lui ad ordinargliele.
Non capiva se fosse uno strano tentativo di chiedere perdono o… qualcosa di peggio, ma erano ordini precisi. Ordini chiari.
Ordini che lui non si sentiva in diritto – né in dovere – di mettere in discussione.
Perché quello che fai nei sogni resta nei sogni.
Non si riversa nella vita reale.
E perciò, quello che fai nei sogni non diventa mai un problema.
- Scusami, Tomi… - bisbigliò Bill, passandogli le mani sul petto nudo, scivolando lento come lo scorrere delle ore, - Ti ho fatto preoccupare tanto… ma adesso sono qui, non c’è più niente di cui aver paura…

Ma io ho paura di te, Bill.
E ho paura anche di me stesso.
Questo non vale niente…? Proprio niente…?


- Nei sogni no, Tomi. – rispose Bill, sicuro, come lo avesse sentito – e probabilmente era davvero così – forzandolo a distendersi sul materasso.
*
La sensazione umida, pastosa e un po’ appiccicaticcia di un sogno troppo realistico, lo accompagnò per tutta la notte. Per tutta la notte ebbe come l’impressione di muoversi all’interno di un dormiveglia spaventosamente vigile e allo stesso tempo ovattato come da un oceano di bambagia. Anche se riusciva a lanciare uno sguardo da qualche parte alla sua sinistra, sul comodino, per rendersi conto del trascorrere del tempo, ed anche se era sicuro di trovarsi a letto, e cominciava ragionevolmente a credere di non essersi mai mosso, la strana sensazione di aver toccato Bill lo perseguitava come un incubo. O una maledizione.
La sua pelle calda sotto le dita.
Le vene pulsanti sotto i polpastrelli.
I muscoli tesi sotto i palmi.
I movimenti lenti.
Sensuali.
Il bisbigliare dritto al suo orecchio, parole irripetibili, segreti inconfessabili, dichiarazioni impronunciabili. La loro traccia era ancora nella memoria, marchiata come a fuoco vivo.
L’odore del suo sudore, il solletico dei suoi capelli contro la pelle.
La sensazione inebriante provata entrando dentro di lui. Trovandolo accogliente e perfetto come e meglio di una donna. Un incastro ad arte, quasi miracoloso.
Il calore umido del suo sperma fra le dita.
Il richiamo indelebile del sesso ad aleggiare nell’aria attorno a lui come un fantasma. Le particelle d’ossigeno erano intrise di quel richiamo, gli sembrava di aver smesso di respirare aria pura, poteva respirare solo sesso.
Sesso era tutto ciò che c’era stato quella notte in quella camera d’albergo.
Lui. Ed il proprio gemello.
E un sogno finto, come di gesso. Che se lo stringi fra le dita un po’ troppo forte, si sgretola.
*
Passare dal sonno alla veglia con tanta immediatezza, pensò Tom, scattando a sedere sul letto e afferrando il telefono squillante sul comodino, dovrebbe essere vietato. Vietato per legge.
Non poteva esserci niente di peggio di quel dolore sordo sepolto nelle profondità del cervello, e non poteva esserci niente di peggio di quell’intorpidimento diffuso su ogni centimetro del corpo, al punto da renderlo dolente per ogni movimento, e non poteva esserci niente di peggio neanche di quel saporaccio osceno sulla lingua, e di quel raschiare della gola anche solo mentre si cerca di respirare.
Rispose alla chiamata quando lo squillo fu lì lì per farsi intollerabile.
- Tom?
Era David.
Era David ed era felice.
Senza neanche pensarci, si voltò a guardare l’altro lato del letto. Era sicuro che non ci avrebbe trovato niente… era solo per controllare.
E, controllando, scoprì che, in effetti, poteva esistere qualcosa di peggio rispetto ai risvegli bruschi.
Infatti quasi urlò, quando vide che, contrariamente a quanto pensava – speravaqualcuno c’era. L’altro Bill era ancora là. Completamente nudo, coperto appena dal lenzuolo, assopito al suo fianco. Respirava lentamente, profondamente, era un suono così dolce… I capelli scendevano a lambirgli le scapole in ciocche e si disperdevano sul cuscino tutto intorno a lui.
- Dimmi… - ansimò, sperando che David non si accorgesse del suo sconvolgimento.
David non se ne accorse. Perché era davvero, davvero felice.
- Bill si è svegliato! – annunciò esultante, mentre una voce flebile e ancora bassa – Bill! Bill!!! Quello vero! Era lì, parlava, Dio, parlava!!! – esalava un “yeeeh!” festoso, almeno nelle intenzioni, e si lasciava andare ad un risolino divertito. – Sentito? – chiese il manager, cercando di trattenere a propria volta le risate, - Sta bene!
- Bill… - mormorò incredulo, continuando a fissare la copia addormentata al proprio fianco, - Passamelo!
- Meglio se vieni direttamente. – consigliò David, sospirando sollevato, - Vuole vederti. E porta anche Georg e Gustav. Basta che recuperiate Saki dovunque si trovi… non azzardatevi ad uscire da soli, mi hanno detto che sono trapelate delle notizie dalla location del video e c’è già un capannello di giornalisti, qua fuori.
Bill, dall’altro lato della cornetta, lontanissimo eppure incredibilmente vivido, si lasciò andare ad un “che palle” disperato.
Tom sorrise, stringendo il telefono fra le dita.
- Saremo lì in un minuto. – assicurò, interrompendo la chiamata.
Poggiò il cellulare sul comodino e si rivoltò sul materasso.
In teoria avrebbe… avrebbe dovuto chiamarlo? Dirgli di svegliarsi? Che era tardi, che doveva… sparire? Perché i sogni non restano, dopo che gli occhi si sono aperti. I sogni, a quel punto, si dissolvono, se non si sono già dissolti prima.
Allungò una mano verso il suo corpo, ma l’altro Bill lo precedette, mugugnando infastidito ed accucciandosi per un secondo fra le lenzuola, prima di stiracchiarsi e girarsi supino, aprendo faticosamente gli occhi.
Tom non avrebbe saputo che dire.
E infatti non disse niente.
L’altro Bill si voltò a guardarlo e gli sorrise.
- Te l’avevo detto, che stavo bene. – disse ironico, stiracchiandosi ancora ed allungando un braccio sul pavimento per recuperare i boxer.
Tom lo osservò sedersi e schioccargli un bacio sulle labbra, prima di alzarsi in piedi e rivestirsi, cappotto compreso.
- Allora io vado. – disse il sogno, salutandolo con una mano, - Non dimenticare di venire a trovarmi in ospedale. – ricordò ridacchiando, - E comunque ci rivedremo presto.
- Aspetta! – cercò di fermarlo Tom. E avrebbe davvero potuto chiedergli qualsiasi cosa, ma per i sogni le domande sono inutili. Perciò non lo fece. – Ti… ti vedranno tutti, si chiederanno cosa ci faccia tu qui… - bisbigliò incerto, abbassando lo sguardo.
Bill rise allegro.
- Non mi vedrà nessuno. – lo rassicurò.
E poi sparì oltre la porta, richiudendosela delicatamente alle spalle.
*
- Scommetto che in questo momento ti sta odiando perfino Bill. – borbottò Georg, contrariato, battendo nervosamente un piede per terra. – Hai detto tu che aveva voglia di vederci! E invece arriviamo e ci tieni qua fuori per la paternale…
- Non sarà una paternale… - sospirò stancamente David, passandosi una mano fra i capelli, - Ho solo detto che voglio dirvi due parole prima di farvi entrare.
Gustav annuì, battendo due colpi d’incoraggiamento sulla spalla di Georg e fermandolo un attimo prima che ricominciasse a lamentarsi. Annuì perfino Tom, nonostante si trovasse evidentemente perduto da qualche parte all’interno della propria testa, troppo intento a correre come un matto alla ricerca dell’uscita per rendersi veramente conto di cosa stesse succedendo attorno a lui.
- Quando entrerete, non lanciate gridolini idioti. – disse quindi il manager, incrociando le braccia sul petto.
Gustav inarcò un sopracciglio.
- Ma allora vedi che avevo buoni motivi per odiarti?! – riprese Georg, stringendo i pugni, - Seriamente, ti sembra che entreremmo là dentro e-
- L’hanno rasato. – spiegò l’uomo, interrompendo il bassista con voce bassa ma ferma. – A zero. E voi adesso siete felici come mocciosi davanti ad un triciclo nuovo. Perciò no, non mi fido della vostra capacità di giudizio autonoma. E voglio assicurarmi che non farete o direte qualche cazzata, presi dall’entusiasmo. – si fermò qualche secondo, inumidendosi le labbra con la lingua e spostando il peso del corpo da un piede all’altro. – Quando s’è svegliato stamattina ho temuto che impazzisse, scoprendolo. Invece ovviamente è stato bravissimo, ha sorriso e ha detto che non è importante e ricresceranno. Ma è chiaro che sta da cani. Perciò – concluse, risollevando lo sguardo sui propri pupilli e squadrandoli severamente uno ad uno, - sensibilità.
*
Rivedere Bill dopo un avvenimento sconvolgente metteva sempre Tom in condizione di superare il momento e ricominciare a ragionare come una persona normale. Era una cosa provata. Era sempre stato così, fin dalle prime volte in cui era stato possibile osservare il comportamento dei gemelli.
Ad esempio, quando durante una delle prime session di registrazione, Tom non era stato in grado di eseguire decentemente la linea di chitarra di Durch Den Monsun, ed era stato perciò necessario tenerlo in studio fino alle otto passate di sera – dalle dieci del mattino – era stato rivedere Bill che aveva salvato Tom dallo strillare che con quel mestiere di merda non avrebbe voluto avere più nulla a che fare e che, per quanto lo riguardava, avrebbero potuto cominciare a cercarsi un sostituto, perché il Kaulitz numero uno si ritirava.
Era su un meccanismo simile che contava David, quando aprì la porta della camera di Bill e lasciò che Tom entrasse e si precipitasse al suo fianco, seguito a pochi centimetri di distanza da Georg, Gustav e un insospettabilmente bonario Saki.
Come quella volta di tanti anni prima, infatti, gli occhi di Tom si riempirono di uno stupore sollevato e commosso – uno di quegli sguardi che sembravano dire “grazie a Dio esisti tu, almeno, a rendere questo mondo un posto meno schifoso”, e che David aveva osservato spessissimo durante il lungo periodo di frequentazione che l’aveva unito ai gemelli Kaulitz – e le sue labbra si dschiusero in un sorriso sincero e spontaneo, mentre si lasciava ricadere sul letto accanto al gemello e gli afferrava una mano fra le proprie, salutandolo con calore.
Ovviamente, nessuno accennò al cappellino di lana che Bill aveva preteso gli fosse calato sulla testa prima che tutti entrassero, per coprire l’enorme fasciatura che gli avvolgeva il capo.
Piuttosto, la prima cosa che Bill fece, adocchiando i propri amici avvicinarglisi, fu sorridere, stringendosi nelle spalle mentre Georg gli dava automaticamente dell’idiota e, di fronte al suo sguardo offeso e colmo di disappunto, precisava che non solo non aveva idea di cosa cavolo avesse combinato per finire addirittura in ospedale, ma che per giunta non gli andava affatto di saperlo, tanto la sua opinione sarebbe rimasta la stessa: Bill era un idiota e non avrebbe mai dovuto permettersi di tirar loro uno scherzetto simile.
Gustav annuì e rincarò la dose minacciandolo di morte – morte vera, ci tenne a rimarcare – in caso ci avesse riprovato.
Mentre David scuoteva il capo, disapprovando la facilità con la quale i ragazzi riuscivano ad abbandonarsi all’umorismo nero in un momento come quello, Tom eruppe in un singhiozzo stremato che nessuno a parte lui sembrò notare. Bill lo percepì, e infatti tremò appena, dentro alla sua leggera vestaglietta di finto tessuto, ma non sembrò accorgersene davvero. E Georg e Gustav erano troppo impegnati a fingere di non essersi commossi per la ripresa di Bill per accorgersi di una qualsiasi cosa.
Ma Tom aveva singhiozzato. E David l’aveva sentito. E di sicuro non poteva ignorarlo.
Perciò gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, cercando di rassicurarlo.
- È tutto a posto. – rispose meccanicamente il biondo, sollevandogli addosso un sorriso incerto, - Sto bene, sono ancora un po’ scosso.
- Non c’è niente per cui scuoterti… - bisbigliò il manager, sorridendo sereno, - Bill sta bene.
- Sì. – annuì Tom, mordicchiandosi un labbro. – Lo vedo.
Il problema è che non mi sento più tanto in grado di fidarmi dei miei occhi.
Era questo, quello che Tom avrebbe voluto aggiungere. Ma dire una cosa simile l’avrebbe obbligato a delle spiegazioni. Spiegazioni che, nella maniera più assoluta, non si sentiva in grado di fornire.
Perciò tacque. E tornò a guardare Bill, sperando fosse quello vero. Quello sano. Quello che non avrebbe mai potuto sfiorare come aveva sfiorato quel fantasma nella notte.
*
Era sicuro al cento per cento che le vicende ospedaliere di Bill fossero appena cominciate. Forse perché né lui né suo fratello s’erano mai lasciati sfuggire una puntata di Doctor House, e forse perché in show del genere la parola più ricorrente dopo “morte”, in caso di coma, era sempre “riabilitazione”, aveva creduto che da quel momento in poi la vita del proprio fratello sarebbe stata scandita per un periodo interminabile da continue visite mediche e lunghissime sedute fisioterapeutiche, che gli avrebbero impedito la piena ripresa delle attività lavorative per tempi irragionevolmente lunghi.
Invece, la prima cosa che il dottore disse, entrando in camera di Bill con un enorme sorriso sul volto, fu “Molto presto potrà andare a casa! E speriamo di non vederla mai più qui dentro, signor Kaulitz!”.
Tom aveva realizzato di avere addosso un’espressione da perfetto idiota solo quando il fratello s’era premurato di fargliela gentilmente notare.
In seguito, il dottore aveva spiegato che l’intervento era andato perfettamente, che in effetti il coma di Bill non era durato più di tre o quattro ore e che dalle analisi non risultava nessuna complicazione che potesse giustificare un ricovero in ospedale. Perciò, giusto il tempo di risolvere qualche pratica burocratica – “Lei è il padre?”, chiese il dottore a David. “Una specie”, rispose lui. – e in men che non si dica si sarebbe ritrovato a poter riposare nel proprio letto.
Al solo sentire quelle due parole, Bill s’era voltato a guardare il manager con aria supplicante. “Andremo in albergo prima, Bill”, aveva però risposto Dave, con aria vagamente afflitta, “Poi si vedrà”.
Alla fine s’era deciso di rimanere a Berlino, dove si trovavano in quel periodo. Bill aveva sempre saputo che le possibilità di tornare davvero a Loitsche per un periodo di vacanza erano sempre state del tutto nulle, perciò non ne soffrì più di tanto – o almeno, se ne soffrì non lo diede a vedere. In compenso, David si premurò di deglutire a vuoto, afferrare il telefono e chiamare Simone per avvertirla dell’accaduto. Dopo essersi assicurata che fosse tutto a posto, la donna chiese l’indirizzo esatto dell’albergo e disse che sarebbe arrivata al più tardi l’indomani dopo pranzo, e di non muoversi di lì. David la implorò di non portare nessun altro – “qua la situazione è già abbastanza incasinata” – lei annuì e gli assicurò che si sarebbe mossa con discrezione. Poi lo ringraziò ed interruppe la telefonata.
- Verrà? – chiese Bill, speranzoso, sistemando il cappellino che non aveva voluto sfilare dalla testa.
David sorrise.
- Certo che verrà. Domani. Ma adesso devi chiuderti in camera tua… - lanciò uno sguardo afflitto fuori dalla finestra, sospirando mentre constatava che la folla di giornalisti e curiosi per strada non si era affatto sfoltita, - …possibilmente cementandotici dentro… - aggiunse, causando un breve scoppio d’ilarità nei gemelli che lo fissavano dal divanetto ad angolo della sua camera, - E riposare. – concluse infine il manager, tornando a guardarlo seriamente. – Hai decisamente bisogno di riposo. Tom, riportalo tu in camera, d’accordo?
Il biondo annuì, alzandosi in piedi ed aspettando che il gemello facesse lo stesso prima di condurlo in corridoio.
- Finalmente soli! – esultò Bill quando si ritrovarono in corridoio, saltandogli addosso e stringendogli le braccia attorno al collo prima di schioccargli un sonoro bacio bagnato sulla guancia.
- Ehi, ehi… - ridacchiò Tom, imbarazzato, eludendo la sua stretta ed afferrandolo per i polsi per riportargli le mani in un punto che non fosse troppo pericoloso – ovvero abbastanza lontane dal suo corpo da non causargli improvvisi quanto intollerabili innalzamenti di temperatura. – Attento, potrebbe vederci qualcuno…
Bill fece una smorfia contrariata, liberando i polsi dalla stretta del fratello e riprendendo a camminare lentamente verso la propria camera.
- Non ti sei mai preoccupato di cose simili… - si limitò a fargli notare, deluso, piantando lo sguardo sulla moquette rossa che rivestiva il pavimento del corridoio.
- Ma la situazione adesso è diversa… - motivò lui, fissando dritto davanti a sé, - Sei appena uscito dall’ospedale, l’albergo è circondato da giornalisti… non è il caso… dai, lo sai…
Il moro scrollò le spalle, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
- Sarà. – borbottò deluso, guardando altrove.
Tom gli lanciò un’occhiata di sfuggita, mordendosi un labbro. Dio solo sapeva quanto gli costasse rifiutare il contatto con Bill. Sfiorarsi, abbracciarsi, accarezzarsi, perfino scambiarsi qualche bacetto tenero sulla guancia, quando nessuno li guardava, era per loro una routine quasi banale. Erano sempre stati particolarmente appiccicati, fin da piccoli. La cosa non li aveva mai messi in imbarazzo, e oltretutto non si era mai rivelata d’ostacolo per le interazioni con l’altro sesso. Non è che passassero tutta la loro giornata attaccati l’uno all’altro come gemelli siamesi. Ma c’erano dei momenti, momenti particolari, momenti di estrema debolezza da parte di entrambi, momenti di nostalgia, momenti di sfiducia, perfino momenti di felicità o grande emozione, in cui il bisogno di contatto fisico si faceva urgente come fosse stata una sete ancestrale. Immotivata e inestinguibile, finché non fosse stata soddisfatta.
Era così felice di sapere Bill sano e salvo che gli sarebbe saltato addosso fin dal primo momento in cui l’aveva visto.
Ed il problema era esattamente quello.
- Entri un po’? – gli chiese Bill quando furono davanti alla porta di camera sua.
- No, dai, sarai stanco… - cercò di difendersi lui con un sorrisetto stupido, arretrando verso la propria stanza, dall’altro lato del corridoio.
Bill aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Non è che adesso perché sono stato una notte in ospedale in seguito a un incidente del cazzo dobbiamo azzerare i rapporti, eh, Tom?
Tom sbuffò una risatina incredula. Forzata e imbarazzante.
- Ma che idiozia. Non sto azzerando i rapporti! Sto dicendo che domani ti servirà energia…
- Ed esattamente per fare cosa? Per sostenere l’enorme fatica che comporterà stare costretto a letto con mamma che mi sorveglia per impedirmi di alzarmi?
Anche Tom aggrottò le sopracciglia, stringendo i pugni.
- Sono stanco io. – disse alla fine, fissandolo con rabbia. – Non dormo da ieri.
L’espressione di Bill si fece spaurita e confusa, mentre scioglieva le braccia e le lasciava ricadere come morte lungo i fianchi.
- …ah… - articolò con un filo di fiato, - Sì, scusa, dimenticavo che… - abbassò lo sguardo, sorridendo debolmente, - …eravate tutti preoccupati, già…
Una voragine.
Nel centro del petto.
Proprio in mezzo ai polmoni.

- Bill, non è che-
- No, hai ragione. Hai ragione. – disse, sollevando lo sguardo e piantandoglielo addosso. Sereno. Limpido. – Ora che ci penso, ho sonno anche io. Ci vediamo domani.
E in meno di un secondo era oltre la porta. Scomparso.
Almeno alla sua vista.
Sospirò, voltandosi lentamente verso la propria porta per aprirla.
Perfetto.
Sto sbagliando tutto.
Anche l’impossibile.

Entrò in camera e si abbandonò contro il muro, chiudendo gli occhi e godendo dell’oscurità dell’ambiente. Le tende pesanti erano l’invenzione più meritevole di tutta la storia del genere umano.
- Bel colpo, Tomi. – disse la voce di Bill nel buio, - Basso, ma bello.
Spalancò gli occhi e si guardò intorno. Nel nero fisso e compatto della stanza non riusciva a vedere niente, ma la voce l’aveva sentita. Era impossibile da confondere.
- Bill… tu sei…
Bill ridacchiò.
- Sei stato bravo, Tomi.
Quel modo insinuante e malizioso di pronunciare il suo nome…
- Sei di nuovo qui…
Bill si distese sul letto – sentì il fruscio delle coperte sotto il suo corpo in movimento – e raggiunse il lume sul comodino, accendendolo.
Era tutto proprio come la notte prima. Lunghi capelli dritti sulla testa, trucco pesante e cappotto di pelle.
- Ti sono mancato? – chiese ridacchiando.
Tom deglutì, mentre le labbra si tendevano in una smorfia stupita e vagamente impaurita.
- Credevo fossi un sogno. – disse a mezza voce, restando immobile contro il muro.
Bill si lasciò andare ad una risatina divertita, e si alzò in piedi, andandogli incontro.
- Come sto senza capelli?
Il biondo aggrottò le sopracciglia, incerto.
- Ricresceranno. – disse, scostando lo sguardo verso un punto vuoto oltre la figura alta e scura davanti a sé.
Bill rise ancora.
- Vuol dire che sto male. – commentò distrattamente. – Quindi ti fa piacere vedermi così, no?
Tom gli riportò lo sguardo addosso, scrutandolo come volesse misurarlo. O modellarlo.
- …sì. – rispose. Sollevò una mano a sfiorargli una guancia, - Ma anche mio fratello tornerà così. È solo questione di tempo.
- E tu… - insinuò l’altro Bill, malizioso, scivolando col viso contro il suo palmo aperto, - …aspetterai che io sia tornato così bello come mi vedi adesso, per baciarmi…?
L’ennesima smorfia rimescolò i tratti del suo viso, e Tom staccò la mano da Bill privandolo di quel contatto caldo quasi con violenza.
- Io non voglio baciare mio fratello. – si difese ostinatamente, oltrepassandolo e raggiungendo il letto, per sedersi in punta sul materasso.
Bill si voltò a guardarlo mentre compiva il movimento, e con l’ennesimo risolino lo seguì, accomodandosi al suo fianco.
- Sì che vuoi. – gli disse, afferrandogli il mento tra le dita e costringendolo a guardarlo. – Prima lo ammetti, meglio sarà. Per entrambi. – poi il suo sorriso si allargò, assumendo un tono di crudele e impietosa malignità che non gli aveva ancora mai visto addosso. – Anche perché Bill lo vuole esattamente quanto te, sai?
Tom si separò da lui ancora una volta, sfuggendo alla stretta ora lievemente più forte delle sue dita sulla mascella e muovendo qualche passo agitato all’interno della stanza.
- Tieni fuori Bill. – gli disse, senza riuscire a guardarlo, - Di me, dì quello che cazzo vuoi. Ma tieni fuori Bill da questa schifezza.
L’altro Bill rise ancora. Quasi sguaiatamente. Si sollevò dal materasso e lo raggiunse alle spalle, circondandolo con le braccia e posando baci teneri sulla sua nuca dopo aver scostato la coda che teneva stretti i dread.
- Hai ragione. – annuì, mentre Tom si rivoltava contro di lui, lasciandosi abbracciare fronte contro fronte, circondandolo a propria volta con le braccia attorno alla vita, - Di te posso parlare senza problemi. Quello che provi, lo so. Quello che provi, lo sai anche tu. – Tom aprì gli occhi, fissandolo quasi con dolore. – Io sono te, Tomi. – riprese il fantasma, sfiorandogli le labbra con un bacio, - Sono così solo perché è così che tu mi vuoi. Però non sono veramente Bill. E quindi non posso conoscere i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Non più di quanto non li conosca tu stesso. – si interruppe, scivolando con le labbra sul suo collo e fermandosi appena sotto l’orecchio. – Quando dico che anche Bill vorrebbe baciarti, Tom… - sussurrò spietato, mentre lui si paralizzava nel suo abbraccio e strizzava gli occhi, terrorizzato, - …è perché sei tu a sperarlo.

I’m hurting you
With everything I do
It’s too long
Too long in this place

*
Fra tutti coloro che ebbero a che fare con lui in quel periodo, sua madre fu l’unica a capire di cosa realmente avesse bisogno.
- Quando vi ho partorito, ho creduto di aver dato un cervello a ciascuno di voi. Ma, a quanto pare, mi sbagliavo di grosso. Tu che ne pensi, Tom?
No, non di sentirsi attaccato per una colpa – pure ingenua, pure involontaria, ma sempre una colpa – che comunque intimamente sentiva di avere. No.
- Avanti mamma… lo sai che non è stata colpa sua.
Ma di sentirsi difeso da Bill, quello sì. Di ascoltare la sua voce negare risolutamente che una qualsiasi delle conseguenze di quell’errore grossolano e stupido fosse da ricondurre a lui. Non i capelli tagliati, non l’enorme fasciatura da cambiare ogni sera, non la sottile cicatrice che sarebbe rimasta – “ma no, Tom, neanche si vedrà!” – non i brevi momenti di confusione che ancora coglievano Bill a tradimento, quando nessuno se lo aspettava, impedendogli di trovare una parola pure semplice o di ricordare le parole di canzoni che aveva cantato e ricantato fino alla nausea per anni.
Simone sospirò, sporgendosi in avanti, sul letto, per abbracciare Bill. Un po’ goffamente, come sempre succedeva da quando entrambi erano diventati due giganti. Se erano loro ad abbracciarla non sembrava poi così strano. Ma quando era lei ad allargare le braccia e cercare di inglobarli come fossero stati ancora bimbi piccoli, d’improvviso la sproporzione enorme delle loro dimensioni si faceva sentire, rendendo quegli abbracci quasi caricature di abbracci.
Tom li adocchiò distrattamente e nascose un breve risolino dietro una mano, mentre Simone si rimetteva dritta e lo sferzava con un’occhiataccia colma di disappunto.
- Togliti questo cappellino, tesoro. – disse poi accorata, rivolgendosi a Bill e sfiorando il bordo doppio con le dita, - È pesante, non vorrei ti accaldassi troppo…
Lui sorrise tranquillo.
- Fa freddo. Sto bene. – rispose con noncuranza.
Tom lo osservò solo per un secondo. Passato il quale non riuscì, fisicamente, a tenergli ancora gli occhi addosso. Bill era ancora e comunque la cosa più pura che avesse mai conosciuto. Una presenza che nella sua mente non aveva mai nemmeno sfiorato la sensualità. Una cosa… intonsa, virginale.
Dipendeva anche, in parte, dall’idea di sé che suo fratello amava spacciare in giro, probabilmente. La storia del sesso solo con il vero amore. Un amore da attendere con fedeltà. E da coccolare e proteggere con devozione, una volta che fosse giunto.
Cose in cui Tom non credeva. Cose che, dette da chiunque altro, avrebbe ritenuto stupide. Semplicemente perché, da chiunque altro, non avrebbero acquistato la stessa credibilità. Chiunque altro avrebbe buttato lì quelle parole e poi alla prima occasione si sarebbe scopato una tizia qualunque, solo perché gli tirava e non gli andava di ridursi per l’ennesima volta ed una sega in camera prima di andare a dormire.
Ma Bill no. Perché Bill non si limitava a dirlo. E non si limitava neanche a pensarlo. Lui agiva esattamente per come ragionava. Quindi ogni suo pensiero ed ogni parola da esso derivata era pesante come un macigno. Non puoi dare della stronzata ad una cosa che non lo è, e in maniera così palese. Per questo motivo non aveva mai potuto dare della stronzata a ciò che suo fratello diceva, e non era mai neanche riuscito a ritenerlo uno stupido o un ingenuo perché agiva in quel modo, anche se, a livello generale, riteneva stupido e ingenuo quel modo di agire.
Lo stesso, invece, non si poteva dire di lui.
Lui pensava che ciò che faceva con l’altro Bill fosse disgustoso.
Lui pensava che non avrebbe mai voluto coinvolgere Bill in qualcosa di simile, neanche indirettamente, neanche idealmente.
Lui pensava di non voler davvero fare quelle cose.
Ma il suo modo di comportarsi non rifletteva affatto i suoi pensieri. Il suo modo di comportarsi rifletteva in pieno, però, ciò che lui intimamente era. La sua essenza più reale, più concreta. Quella di uno stronzo che quando è stuzzicato da qualcosa fa di tutto per prendersela. Passando sopra qualsiasi regola senza quasi neanche vederla. Fosse per capriccio o per desiderio effettivo, non importava.
Quello dei capricci era un vizio che lui e Bill avevano preso insieme.
Ed in entrambi era ancora evidente.
Ma, Tom ne era sicuro, i capricci di Bill non avrebbero mai potuto essere sporchi come i suoi.
*
We’re counting down
Only seconds now
I gotta hang on
Hang on to you

Per quella settimana non fece che cercare di stare lontano da lui. Non che lo evitasse, anzi. Stare con lui, nella stessa stanza, era l’unica fonte della sua gioia. Sua madre, peraltro, non sembrava pensare davvero che la colpa di quanto successo fosse sua; infatti, appena aveva trovato un momento per appartarsi con lui, l’aveva abbracciato – facendolo sorridere una volta di più – e gli aveva chiesto come stesse, come si sentisse, se gli andasse di parlare. Per questo motivo, non gli aveva impedito di stare con loro in camera di Bill.
Suo fratello aveva avuto ragione, quando gli aveva detto che non avrebbe poi avuto bisogno di una riserva di energia particolarmente grande: Simone, in effetti, l’aveva tenuto ancorato al letto nel solito modo. Non gli aveva impedito di alzarsi. Si era limitata a sconsigliarglielo caldamente.
Entrambi sapevano che uno sconsiglio era ben più pericoloso di una minaccia. Perciò, quando Simone l’aveva detto, incrociando le braccia sul petto e socchiudendo gli occhi, si erano guardati ed avevano sorriso, e Bill si era arreso ancora prima di cominciare a protestare.
Non l’aveva evitato, quindi.
Si era limitato ad evitare di toccarlo.
Anche quando, durante uno dei rari momenti di intimità che il mondo concedeva loro, Bill si sporgeva – per una carezza, un abbraccio, un tocco anche lieve e distratto – Tom si ritirava. Come se suo fratello scottasse. Ma ancora prima di provarne il bruciore.
D’altronde, era molto facile continuare in quel modo. Bastava stringere i denti. Non pensare a quanto di Bill stesse perdendo mentre rifiutava anche solo di sfiorarlo. Concentrarsi sul pensiero che, una volta solo, qualcun altro l’avrebbe fatto star meglio. L’avrebbe consolato.
Qualcuno che da sé aveva plasmato ad immagine e somiglianza della persona per lui più importante.
Della persona che amava.
Che desiderava.
Che avrebbe voluto stringere a sé continuamente, senza pause.
E che non si azzardava neanche a guardare per paura di distruggerla.
- Allora, posso fidarmi? – chiese Simone, poggiando le mani sui fianchi e guardando entrambi i propri figli con aria inquisitoria.
Bill sbuffò e roteò gli occhi, mentre Tom si stringeva nelle spalle, lasciandosi andare ad un sorrisetto che avrebbe tanto voluto essere ironico e distaccato, ma che risultava solo contrito e vagamente colpevole.
- Mamma, a meno che un cataclisma non si abbatta su Berlino, devastandola, sopravvivremo. – commentò il moro, seccato.
- Mi auguro facciate di tutto per sopravvivere anche in caso di cataclisma, comunque! – precisò Simone, ridacchiando, prima di abbracciarli entrambi un’ultima volta e uscire dall’albergo per infilarsi nel taxi che l’avrebbe portata alla stazione.
Bill continuò a salutarla sorridendo finché non la vide sparire oltre la porta d’ingresso. Dopodichè lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e s’incurvò su sé stesso, esalando un sospiro stremato.
- Dio mio, non ne potevo più! – articolò, passando una mano sul cappellino come per sistemarlo.
Tom sorrise.
- Era solo preoccupata, dai…
- Ma sì, lo so… - continuò il ragazzo, mordicchiandosi il labbro inferiore, - Però mi infastidisce che tutti mi trattino come fossi appena tornato dal mondo dei morti. – si lamentò, irritato. – Sto bene, cazzo. In che diamine di lingua devo dirlo?
Suo fratello rise più apertamente, indicando gli ascensori con un cenno del capo e cominciando a muoversi verso di loro, presto seguito dal più piccolo.
- Non è una questione di dirlo in un modo piuttosto che in un altro. – gli spiegò, chiamando uno degli ascensori non occupati, - È che ci siamo tutti preoccupati moltissimo per te. Non puoi pretendere che ora-
- Fino a prova contraria, – sbottò Bill, interrompendolo, - dovrei essere io quello in diritto di avanzare pretese in quel senso. Cioè… - mugugnò incerto, - dovrei essere io quello che dice “non mi sono ancora ripreso, ho bisogno di tempo”. Invece io sto perfettamente, e siete tutti voi che mi guardate come fossi pazzo e mi dite “eh, ma noi abbiamo bisogno di tempo per riprenderci”. Ti rendi conto che è assurdo?
Tom scrollò le spalle.
Se suo fratello avesse realmente voluto avere un’idea del significato più profondo della parola “assurdo”…
…no, probabilmente neanche in quel caso gli avrebbe parlato dell’altro Bill.
Quello andava oltre anche all’assurdo.
Quello era folle.
- Comunque, per certi versi, tu sei tornato indietro dal mondo dei morti. – gli fece notare scherzosamente.
- Eccome. – rise Bill, ammiccante, - Satana in persona mi ha detto che non faccio per lui.
- Sei troppo pure per il demonio, piaga?
- Puoi dirlo forte! Il demonio mi fa una sega.
- Però. Devo dire che dall’oltretomba sei tornato sboccato… - commentò dubbioso, incrociando le braccia sul petto e fermandosi lungo il corridoio proprio davanti alla porta della camera di Bill.
- È la compagnia. – sospirò Bill, scrollando teatralmente le spalle, - L’Inferno non è posto per nobili. – si interruppe un attimo, riflettendo. Poi spalancò gli occhi e lo afferrò per un orecchio, tirando verso il basso. – Ma poi, proprio tu…!
- Ahi, ahi! Bill! Mi fai male!
E fu in quel momento che Tom se ne accorse.
La mano di Bill non scottava affatto. Non era scoppiato un incendio solo perché si erano toccati, la sua pelle non stava bruciando ed era tutto esattamente uguale a prima. Non naturale come prima, non ovvio come prima e non privo di implicazioni come prima, ma ugualmente innocuo.
Si tirò dritto, guardandolo spaesato.
- Ma si può capire che diavolo hai? – gli chiese Bill, lasciandolo e incrociando le braccia sul petto, - Sembri deficiente, da un po’ di tempo.
Tom fece una smorfia, contrariato.
- Avresti potuto dirlo con un po’ di delicatezza in più.
Bill rise.
- Ti va di entrare un po’ in camera e parlare? – gli chiese, sempre sorridendo.
- Mmmh… - mugugnò Tom, lanciando uno sguardo sconsolato alla porta della propria stanza, - È tardi…
Bill spalancò gli occhi.
- Sono appena le dieci, dai… non fare il cretino, Tom! – e così dicendo lo afferrò per una manica e lo trascinò oltre la porta, richiudendosela alle spalle, e fino al letto, sul quale lo scaraventò senza delicatezza.
- Ok, ok! – rise Tom, mettendosi seduto, - Capito l’antifona, ti sono mancato!
Bill arricciò le labbra, imbarazzato.
- Be’, è vero! – ammise, infilando entrambe le mani nelle tasche dei jeans. – Però non è bello che tu mi sfotta con tanta disinvoltura…
Tom sorrise teneramente, battendo piano una mano sul copriletto accanto a sé, per invitare Bill a sedersi. Lui lo fece con un mezzo sorriso.
- Non hai… - cominciò il biondo, incerto, - Non hai pensato che io avessi smesso di volerti bene, vero?
Bill ridacchiò, stringendosi nelle spalle.
- Ho pensato tante cose… - buttò lì, quasi casualmente, guardando altrove.
- Ma non che io avessi smesso di volerti bene, vero? – insistette Tom, sporgendosi cautamente verso di lui.
Bill gli lanciò un’occhiata di sbieco.
- Avrei dovuto? – insinuò a bassa voce.
- Avanti! – si lamentò Tom, inclinando il capo, - Adesso non facciamolo passare per un litigio fra fidanzati! – borbottò. Poi si fermò. Sentì bruciare, da qualche parte della gola. E si disse che il suo corpo non era mai stato tanto esplicito con lui, per quanto riguardava i segnali di pericolo. Mai tanto quanto in quel periodo. – Voglio dire…
- So esattamente cosa vuoi dire. – sospirò Bill, abbassando lo sguardo, - E no, Tomi, non l’ho pensato. David mi ha detto… - lo guardò, un po’ incerto, abbozzando un sorriso imbarazzato, - di quando sono caduto. Di come sei stato. Mi ha… fatto piacere. – si interruppe anche lui, distogliendo istantaneamente gli occhi, - Oddio, che stronzo egoista sono…
- Cazzate. – lo fermò lui, posandogli una mano sulla spalla. – Non sei niente del genere.
Rimasero qualche secondo in silenzio, semplicemente guardandosi.
- Bill, per favore. – disse Tom, dopo un po’, sporgendosi verso di lui fino a sfiorargli la fronte con la propria, - Non stupirti più, la prossima volta che mi preoccupo per te. È… terribile, che tu possa davvero stupirtene.
Bill si mordicchiò un labbro e sorrise.
- Scusa. – biascicò.
Anche Tom sorrise, socchiudendo gli occhi e abbandonandosi più tranquillamente contro di lui, quasi obbligandolo a sostenere il peso di entrambi. Bill, comunque, ci riuscì più che bene. Gli orli dei loro cappelli si sfioravano, producendo un rumore un po’ ovattato. Era quasi divertente.
- Tomi… - lo richiamò Bill dopo qualche secondo, quasi piagnucolando, - Senti, resti a dormire con me, stanotte…?
Tom si separò da lui, spalancando gli occhi.
- Non siamo un po’ grandicelli, per-
- Non è paura del buio. – disse il moro, senza neanche un’incertezza. – Non è neanche nostalgia di casa. Non sono triste. E non sto male. È solo che sei stato… lontano. Solo un po’. – sorrise silenziosamente, un sorriso piccolo e infantile, immensamente tenero. – Vuoi restare con me? Solo stanotte…
In camera, quasi sicuramente c’era già l’altro ad attenderlo. In un abbraccio caldo di passione e fresco di lenzuola pulite. Un altro, con la faccia di Bill, che non gli avrebbe chiesto di dormire insieme, no. Un altro che se lo sarebbe preso. Un altro dal quale desiderava farsi prendere.
…ma non quella notte.
Ridacchiò.
- E va bene. – concesse bonario, - …ma domattina lo spieghi tu a David!
*
Nel buio fitto della camera d’albergo, che neanche un filo di luce riusciva a spezzare, Bill dormiva già da un pezzo, respirando lentamente e profondamente al suo fianco mentre lui continuava a rigirarsi sul materasso in preda a un’inspiegabile quanto insopprimibile angoscia. In parte dipendeva anche da quell’oscurità spaventosa. Lui non riusciva a dormire in un’oscurità talmente tetra. Bill, invece, era il tipo che per addormentarsi pretendeva il buio più totale. O meglio: non che non fosse in grado di addormentarsi ovunque ed a qualsiasi condizione – soprattutto quando era veramente stanco – ma se si trattava di fare le cose con ordine – una doccia lunga e rilassante, un pigiama caldo e morbido, mettersi fra le coperte, leggere un po’ e solo dopo addormentarsi… e non era una successione di eventi che riuscisse a replicarsi tanto spesso, purtroppo – allora pretendeva il buio più profondo.
Tra le lamentele di Tom, quando già entrambi sonnecchiavano pigramente al calduccio sotto le coperte, lui aveva mugugnato, s’era alzato in piedi, aveva raggiunto il balcone e l’aveva praticamente sprangato.
Tom si voltò su un fianco e cercò di scorgere il profilo di Bill, ma non ci riuscì. Non riusciva a vedere niente di niente.
Poi, all’improvviso e per un solo secondo, il suo campo visivo venne investito da un fascio di luce giallastra. Una luce che gli permise di scorgere la figura di Bill accoccolata in posizione fetale accanto a lui, e che poi morì in un attimo, lasciandogli sulle labbra solo un sorrisetto breve, quasi incompiuto, nato spontaneamente quando aveva incontrato l’immagine di suo fratello così tranquillo e placido.
Solo quando fu tornato al buio si rese conto che quel fascio di luce improvviso non era stato una cosa normale.
Allarmato, si puntellò coi gomiti sul materasso e girò uno sguardo intorno al letto, alla ricerca di un qualche segno che potesse confermargli l’invasione che sentiva di aver subito: quella luce non poteva essere stata che quella del corridoio; perciò, qualcuno doveva aver aperto la porta.
- C’è qualcuno…? – bisbigliò a mezza voce, cercando di non svegliare Bill.
E qualcuno c’era.
Qualcuno che rispose con una risatina divertita, poggiandogli una mano sulla guancia e lasciandola scivolare poi lungo il collo, rilasciandola sul petto.
- Bill… - mormorò, trattenendo il fiato ma non la sorpresa, cercando di identificarlo nello spazio nero attorno a loro.
- Oggi non sei venuto… - disse l’altro, piagnucolando come un bambino, - Ti aspettavo…
Tom serrò le labbra, percependo la spinta della mano di quel fantasma sopra il petto, pesante come un macigno. Era di quel tipo di sensazione che parlavano le persone che avevano avuto incontri simili con gli ectoplasmi? Quel fantomatico senso d’oppressione, quel timore di venire schiacciati, la mancanza di fiato e l’incapacità di respirare normalmente… era davvero con uno di quei fantasmi che aveva a che fare?
E se sì… cos’è che era morto? In lui, in Bill… cos’è che era morto?
L’altro lo fissò a lungo e poi lasciò guizzare gli occhi su Bill addormentato al suo fianco. Sorrise crudelmente, assottigliando gli occhi e chinandosi su di lui.
- Adesso comincerai a trascurarmi, Tomi? – sibilò astioso a un centimetro dalla sua pelle, - Adesso che hai ripreso a parlare con tuo fratello fingerai che io non sia mai stato il tuo amante e mi ignorerai? Ricomincerai a comportarti come hai fatto fino ad ora?
- No, io…
Che stava facendo? Consolava un fantasma?
- …sarà tutto come prima, Tomi? Ricomincerai a giocare al bravo fratello maggiore e… - risalì con la mano dal petto alla spalla e poi lungo il collo, fermandosi lì, appena sotto l’orecchio, ghiacciandolo. - …e non mi toccherai più? Non pensi a quanto questo ci farà soffrire, Tomi…?
- …ci…?
L’altro ghignò, baciandogli lievemente una guancia.
- Te. Me. Lui.
Tom si morse un labbro, spalancando gli occhi sotto quel tocco umido e freddo e stringendo convulsamente le mani attorno a un lembo di lenzuolo.
- Non si salverà nessuno di noi, Tom. – proseguì il fantasma, scavalcandolo e sedendoglisi in grembo, - E sarà solo colpa tua. – poi si fermò, baciandolo sulle labbra e scostandosi con una smorfia quando vide che non solo lui non le schiudeva, ma nulla della sua espressione sembrava in procinto di spostarsi. Immobile e congelato nel tempo, Tom si limitava a guardarlo. E lui sorrise condiscendente, quasi tenero, e lo abbracciò. – Ma io non voglio che succeda, amore mio… non voglio che Bill ti odi e non voglio che tu cominci a odiare te stesso. Non ti permetterò di fingere ancora.
Si scostò da lui e gli poggiò le mani sulle spalle, costringendolo a tornare disteso lungo il materasso. Il respiro di Bill gli lambiva le orecchie, caldo e tranquillo. Una delle sue mani giaceva immobile accanto alla sua, riusciva a percepirne il tepore attraverso i pochi centimetri d’aria che le separavano. Il calore di Bill si irradiava da lui e lo avvolgeva come una coperta, rendendo tiepido anche il corpo altrimenti ghiacciato che continuava a sovrastarlo, le cosce chiuse attorno al suo bacino come una tenaglia e ugualmente ineludibili.
Tom si lasciò anestetizzare da tutte quelle sensazioni. Si lasciò distendere, si lasciò sfiorare, si lasciò scaldare.
E baciare, e toccare.
- Non possiamo farlo… - biascicò senza convinzione quando l’altro prese a spogliarsi, - Bill è proprio qui… ci sentirà…
E il fantasma sorrise, baciandolo ancora.
- Allora farai meglio a far piano.

We have each other
You are my brother
Sitting here beside you
I just wanna use you

*
Dal giorno dopo, Bill cominciò a dare segni di cedimento. S’era comportato in maniera impeccabile, fino a quel momento, nonostante tutto quello che aveva passato. Ma da quel giorno in poi cominciò ad andare tutto storto.
All’inizio erano sciocchezze. Nel senso che continuavano a beccarlo – tutti – davanti allo specchio, col cappellino sollevato, mentre scrutava la benda con sospetto, provando a sollevarla per cercare di capire se i capelli stessero cominciando a ricrescere o meno. Oppure lo si vedeva fermo nella stessa posizione, a fissare il beauty-case sigillato da quando era uscito dall’ospedale, squadrandolo con occhiate oblique neanche fosse stato un traditore.
Tom non si sarebbe mai sognato di avvicinarglisi e chiedergli perché non ricominciasse a truccarsi. Fortunatamente, non era Tom l’unico altro componente dei Tokio Hotel oltre a Bill, e del lavoro sporco si caricò – come sempre – Georg, il quale, facendo fruttare per qualcosa di utile la propria proverbiale insensibilità, lo assaltò un giorno armato di mascara aperto – rubato proprio al beauty che Bill teneva sotto chiave, ed alla violazione del quale, fino a qualche settimana prima, come minimo avrebbe reagito staccando teste e braccia a morsi – puntando alle sue ciglia e strillando “Bill, sei un cesso, per carità, passati almeno un filo di trucco sugli occhi!”. Bill aveva riso e l’aveva evitato con grazia, sfilandogli il mascara dalle dita con un gesto lieve e fulmineo e ficcandoselo in tasca dopo averlo richiuso, rispondendo con noncuranza che non si sentiva in vena.
Questo aveva fatto preoccupare perfino David.
Bill aveva un modo proprio di far sapere al resto del mondo che non stava bene. Ed ovviamente non era dire “non sto bene”, ma nascondersi dietro a un vago “non mi sento in vena”. Che nella lingua comune può voler dire una quantità infinita di cose, ma nel linguaggio di Bill Kaulitz significava sempre la stessa: “mi sento uno schifo e non voglio rotture”.
E, in genere, anche “peggiorerà, statene certi”. Perché il passo successivo era scoppiare in lacrime per nessun motivo particolare – o per un motivo talmente piccolo che nessuno era riuscito a notarlo in tempo – e cominciare ad urlare di voler tornare a casa propria.
Bill era un ragazzo adorabile, e professionale, e tutto, ma non c’era modo di farlo ragionare, quando dava di matto. A meno di infilarlo in una stanza da solo con Tom ed aspettare che si fossero sbranati a vicenda per poi aiutarli a ricomporsi una volta che avessero scaricato rabbia e tensione.
A una decina di giorni da quando erano tornati in albergo, con la produzione che non riusciva a prendere una decisione per quanto riguardava il video di Spring Nicht, e che perciò li obbligava a restare lì a Berlino fino a nuovo ordine, che Bill impazzisse, scoppiasse a piangere e si facesse prendere da un attacco di nostalgite acuta, era l’ultima cosa di cui David Jost avesse bisogno.
Fu per questo che, nel momento esatto in cui, inspiegabilmente senza una lacrima, Bill irruppe in camera sua – con la solita discrezione silenziosa ma del tutto impossibile da ignorare – piagnucolando di voler tornare ad Hamburg, la lampadina d’allarme che David aveva imparato a sviluppare da quando lavorava coi ragazzi si accese e lo spaventò.
Se non altro, era già qualcosa che non pretendesse di tornare a Loitsche ora e subito. Generalmente lo faceva. Quella volta, magari, aveva solo voglia di ritrovare i propri spazi e la propria incasinata e adolescenziale quotidianità fatta di orsetti gommosi ed enormi e disgustose pizze familiari da dividere con gli amici guardando un orribile film per famiglie in televisione.
- Devo parlarne con la produzione, Bill. – mentì, omettendo la parte secondo la quale aveva già parlato con la produzione e, a dirla tutta, aveva chiesto loro anche di lasciare che i ragazzi se ne tornassero a casa, ottenendo come unica risposta un “le faremo sapere” tanto diplomatico quanto falso. – Io capisco che tu non abbia la minima voglia di tornare a girare il video, ma ti renderai conto-
- Ma a me non seccherebbe girare. – lo interruppe lui, saldo nelle proprie intenzioni, - Almeno lo facessimo. Ma, ozio per ozio, preferisco farlo a casa mia!
- Adesso non fare il bambino.
Non lo stava facendo, chiaramente. Ma non poteva cedere così facilmente. Soprattutto nel momento in cui si rendeva conto di non avere alcun potere decisionale a riguardo.
Bill aggrottò le sopracciglia e guardò per terra, arricciando le labbra in una smorfia infastidita e delusa. David odiava vedergli quella smorfia addosso. Perché Bill era davvero adorabile, ed era davvero un piacere lavorare con lui; quindi gli faceva male doverlo ogni volta disilludere, ripetendogli in tutti i modi possibili che no, Bill, lo show business non ti ringrazia e non ti concede sconti, anche se gli hai dato il corpo e l’anima senza risparmio per anni.
- Avanti… - mormorò, in preda ai sensi di colpa, posandogli una mano sulla spalla e stringendo teneramente, percependo la clavicola sottile sotto la pressione del pollice, - Perché non vai un po’ a giocare con Georg e Gustav? Sono chiusi in camera a sparare ai vampiri da ore, vedrai che un joystick per te lo trovano. – suggerì, consapevole del fatto che Bill non avrebbe mai trovato interessante un gioco che implicasse la possibilità di rovinare intere mezz’ore di manicure per ammazzare esseri già biologicamente morti.
E infatti Bill scrollò le spalle, del tutto indifferente.
- …nel frattempo, ti prometto che io chiamo la produzione e cerco di strappar loro una vacanza.
I sorrisi di Bill somigliavano agli schiaffi, in un certo modo. Erano repentini e veloci al punto che spesso neanche li vedevi arrivare. Ma poi, quando si aprivano del tutto, e lui ti guardava con quegli occhi pieni di gioia e gratitudine… ti colpivano. Sì, proprio come schiaffi. Ma più piacevoli.
David sorrise a propria volta e strinse ancora un po’ sulla spalla, prima di lasciarlo andare ed osservarlo cinguettare un “grazie” e fuggire trotterellando lungo il corridoio, diretto verso la camera di Georg dove sapeva essere stata montata la consolle.
Ovviamente, nel momento in cui rimase solo, prendere il cellulare e mantenere la propria promessa non fu un pensiero contemplato. Piuttosto, si fiondò in corridoio, con la chiara intenzione di irrompere in camera di Tom e obbligarlo a fare qualcosa, non importava cosa, per riportare la situazione ad un livello di allarme meno preoccupante. Solo che, quando arrivò di fronte alla porta e provò a sfondarla – ricordava male, o aveva esplicitamente chiesto a quei mocciosi di tenere aperte le porte per ogni evenienza?! Tanto, chi volevano andasse a rompere loro le palle in un’ala di albergo completamente deserta?! – si ritrovò di fronte ad una verità piuttosto scomoda. La porta era chiusa a chiave, e dall’interno venivano dei rumori di natura inequivocabile.
- Tom! – urlò, battendo un paio di volte il pugno contro la porta.
Non sapeva come diavolo avesse fatto quella groupie ad entrare là dentro, ma l’avrebbe scoperto, oh, sì. E, se fosse stato necessario, avrebbe cementato ogni condotto d’areazione di quella dannata stanza.
Tom non rispose. Ma almeno i rumori si fermarono.
- Deficiente, apri questa maledetta porta! Lo so che ci sei!
- Sì, sì! Arrivo! – ansimò il chitarrista, agitato, caracollando velocemente verso la porta e aprendola pochi secondi dopo.
David lo scaraventò sul letto con una manata e prese a guardarsi intorno come un predatore.
- Dov’è?! – sbraitò poi, dal momento che non riusciva a vedere nessuno.
- …chi? – fu la stupita risposta di Tom, che, immobile sul letto, non riusciva a staccargli quello sguardo terrorizzato di dosso.
- Lo so cosa stavi facendo, dannato moccioso infoiato. – si limitò ad accusarlo lui, fissandolo con severità. – Dove hai nascosto la tizia con cui eri?
Tom arrossì fino alla punta delle orecchie.
David non l’aveva mai visto arrossire quando parlava di sesso.
Il che, unito alla consapevolezza che in quella stanza non c’era effettivamente profumo di donna e tutto sembrava avvolto in un silenzio religioso e quasi irreale, poteva voler dire solo che…
- …ah. – articolò, spalancando a propria volta gli occhi e incrociando le braccia sul petto. – Scusa.
Il rasta deglutì e non disse altro, abbassando lo sguardo con l’aria di uno che avrebbe gradito scomparire sotto quintali di terra.
- Volevi dirmi qualcosa? – si sforzò comunque di chiedere, grattando la moquette con la suola delle scarpe da tennis.
Complimentandosi interiormente con la forza d’animo del ragazzo, David si ostinò a svolgere il proprio dovere di tutore, come gli piaceva pensare quando era semplicemente preoccupato per Bill e cercava di darsi da fare per farlo star meglio.
- Che ha tuo fratello? – gli chiese a bruciapelo, sedendosi sul letto accanto a lui.
Tom gli sollevò addosso un’occhiata stupita.
In effetti, David si rendeva conto di star ponendo una domanda presuntuosa. D’accordo che erano gemelli, d’accordo che erano appiccicati l’uno all’altro come piattole, d’accordo che erano sempre stati uniti da qualcosa che andasse al di là di ciò che tutti gli altri riuscivano a comprendere, ma era forse troppo pretendere anche che Tom conoscesse precisamente ogni sfumatura degli stati d’animo di Bill. Ed il problema, con quel benedetto ragazzo, erano proprio le sfumature. Bill non viveva i sentimenti con pienezza, ne viveva solo parti. Li prendeva a morsi. Non potevi dire semplicemente “è arrabbiato”, perché i suoi stati d’animo non erano definibili con una tale nettezza. Erano sempre una commistione varia ed eventuale di cose slegate fra loro.
Tom non riusciva sempre ad esprimerli a parole.
Riusciva spesso, però, a migliorare la situazione anche solo imponendo la propria presenza.
In fondo, il rapporto che legava i gemelli era dannatamente speculare. Proprio come il loro aspetto.
David ci contava. Ci contava forse troppo.
*
Come fai a dire al tuo manager – la cosa più vicina a un padre che tu abbia avuto da quando sei andato via di casa alla tenera età di tredici anni – che non hai la più pallida idea di come aiutare tuo fratello perché a stento riesci ad aiutare te stesso a camminare nonostante lo schifo in cui stai immerso fino alle ginocchia? Come fai a dirglielo, quando è palese che ti sta mettendo nelle mani non solo il futuro della propria sanità mentale, ma anche dell’unità del gruppo stesso – che, per inciso, è la cosa più importante che tu abbia dopo il succitato fratello?
Certe volte aveva come l’impressione che il resto del mondo si lavasse le mani rispetto ai problemi di Bill, perché “tanto ci sarebbe stato comunque lui a risolverli, in un modo o nell’altro”. Era una sensazione pesante… l’aveva sempre fatto sentire in qualche modo responsabile del proprio fratello, fin da quando era… davvero troppo piccolo per ricordare l’anno esatto.
Come poteva guardare Dave e dirgli “C’è un problema: qualche giorno fa ho scopato un fantasma uguale a Bill, proprio nel letto di Bill, con lui che dormiva placidamente accanto. Dici che possiamo risolvere prima questo e solo dopo passare a mio fratello, o no?”.
Scrollò le spalle.
- Non parliamo molto, ultimamente.
- Lo immaginavo. – annuì David con competenza, - Tom, lo so che è stato un periodo duro per tutti. Lo so che l’incidente ti ha scosso molto, lo so che dover rimanere chiusi in albergo ventiquattro ore su ventiquattro è uno strazio, lo so che le cose non sono facili. Ma devi capire che se per te è uno schifo, per Bill lo è di più.
- Se hai un modo per misurare la quantità di dolore che una persona sta provando, brevettalo. – rispose astioso, aggrottando le sopracciglia, - E non rompere le palle a me.
- Tom, lo sai che i ceffoni non me li sono mai risparmiati. Non farteli tirare addosso per forza. – si interruppe, sospirando rumorosamente. – Dimmi che hai, su. Che avete entrambi. È un disastro!, lo capisci che così non può continuare?
Certo che lo capiva. Lui lo capiva meglio di tutti loro messi insieme. Ma non poteva dirlo, perché non poteva dire a nessuno quello che combinava in camera propria quando nessuno poteva vederlo. Non poteva dire a nessuno di stare scopando col sosia del proprio fratello un attimo prima che David entrasse in camera. Non poteva dire di averlo visto salutare e uscire dalla finestra per scomparire subito dopo, perché quello avrebbe voluto dire troppe, troppe, davvero troppe cose, e lui non era preparato per… non sarebbe mai stato preparato ad ammetterle.
Stava crollando, era vero.
E stava portando a picco con sé anche Bill.
E questo, probabilmente, avrebbe distrutto tutto. E non voleva, davvero, ma come… che altro avrebbe potuto fare…?
- Tom. – sbottò David dopo un po’, indispettito dal suo silenzio, - Ascoltami. Avete bisogno di distrarvi. Inforcate un bel paio di occhiali da sole e andate da qualche parte, chessò… a fare shopping, a mangiare un panino da McDonald’s, una cosa qualunque…! Scommetto che è l’aria di questo stupido albergo. Scommetto che è questo che vi opprime.
Questo, e un fantasma tentatore, David.
Da lui posso fuggire…?

- Per favore, Tom. – concluse il manager, prima di battergli un’affettuosa pacca sulla spalla ed avviarsi verso l’uscita, - Qualcosa dovrai pur fare! E sei l’unico che possa.
*
- Voglio solo tornare ad Hamburg.
Ebbene sì. Alla fine aveva ceduto. Aveva messo da parte tutti i propri problemi, s’era sforzato di non pensarci, s’era sforzato di credere che, ignorando anche quell’enorme disastro in cui s’era cacciato, poco a poco sarebbe riuscito a farlo sparire, ed era andato da Bill a chiedere conto e ragione dell’atteggiamento allarmato di David.
- Non mi sembra di chiedere tanto. – aggiunse il gemello, senza staccare gli occhi dai piedi dell’armadio in fondo alla stanza, dove li aveva piantati nel momento in cui Tom l’aveva raggiunto ed aveva cominciato a chiedergli se ci fosse qualche problema.
- Non chiedi tanto. – si affrettò a precisare Tom, sedendosi al suo fianco, - Non è questione di chiedere tanto o poco. È questione di chiedere una cosa che, per quanto minuscola, per ora è impossibile. Capisci, è come se, nel mezzo del deserto, tu pretendessi di vedere, chessò, una carota che sbuca dalla sabbia! Una carota è una cosa piccola, ma ciò non toglie che-
- Non voglio una carota. Voglio solo tornare a casa nostra.
Ecco. Quando Bill cominciava ad ignorare le parti razionali del discorso per travisare il resto e mugugnare sciocchezze, era segno che ci fosse davvero un problema. Un problema di quelli di cui non riusciva a parlare, perché quella era la sua tecnica preferita per glissare le discussioni.
- Bill… - sospirò stancamente, - Se hai-
- E comunque, David poteva venire a dirmelo da solo, che non ci avrebbe fatto andare. Poteva risparmiarsi di prendermi in giro.
- Non prendertela con lui, adesso. – sbuffò contrariato, - Non è venuto da me a dirmi “non ho le palle per confessare a Bill che non posso lasciarvi andare, potresti dirglielo tu per conto mio?”. È venuto a chiedermi come stessi. E, francamente, Bill, adesso voglio saperlo pure io. – lo afferrò per il mento, costringendolo a farlo voltare verso di sé. Ma gli occhi di Bill rimasero lontani, piantati nel vuoto, come fossero incapaci di metterlo a fuoco. Non per impossibilità. Ma per mancanza di voglia. - …fino a qualche giorno fa eri felice come una pasqua, e adesso guardati…
- Sto bene!
- Senti, Bill: fai almeno finta di crederci, quando spari una balla, ok?
- Vaffanculo! – strillò, separandosi da lui con uno scatto e saltando in piedi neanche l’avesse punto con un milione di spilli. – Non puoi pretendere di…
Si fermò, serrando le labbra ed aggrottando le sopracciglia, gli occhi che si riempivano lentamente di lacrimoni spaventosi.
- Ma Bill, ero solo preoccupato per te… - replicò Tom a bassa voce, cercando di capire cosa avesse solo fissandolo.
Il moro lo sferzò con un’occhiataccia improvvisamente lucida e presente.
- Smettila di dire che sei preoccupato per me. Proprio tu che… - ma si fermò ancora. Era come se, arrivato ad un certo punto, non trovasse più la forza né il modo di andare avanti.
Qualcosa – qualcosa di troppo simile al cuore – si mosse lentamente, spostandosi dal petto di Tom fino alla sua gola, e lì restando. Soffocandolo.
- C’è qualcosa che devi dirmi? – cercò di dire, simulando sicurezza.
- C’è qualcosa che tu devi dire a me? – ritorse Bill, stringendo i pugni lungo i fianchi.
E qualcosa c’era. Ci doveva essere. Perché la linea tesa delle labbra di Bill e l’onda delle sue ciglia umide di pianto ormai asciutto – no, non “ormai”: sempre asciutto. Bill non aveva mai pianto. – stavano parlando così ad alta voce che sembrava stessero gridando. Bill rimaneva in silenzio, Bill lo sfidava a parlare, Bill pretendeva una confessione della cui entità non aveva minimamente idea.
Tom ne era sicuro: era per questo che la pretendeva. Perché non capiva quanto fosse terribile.
Deglutì, alzandosi in piedi ed avvicinandoglisi lentamente. Lo vide tremare impercettibilmente e combattere con furia il desiderio di indietreggiare, uscendo vittorioso dal conflitto. Lo vide rimanere fermo, rigido sulle gambe, proteso in avanti. Non era più solo il suo sguardo a sfidarlo, era tutto il suo corpo.
- Bill… - cominciò, pacato. Erano proprio in guerra. Talmente in guerra che lui stava parlando come un ambasciatore. Con la stessa codarda prudenza. - …non litighiamo adesso. Io non voglio litigare. – Bill sembrò sciogliersi, rilasciando le dita dalle nocche ormai bianche, e schiudendo le labbra, - Se ci sono cose che non vuoi dirmi… andiamo, lo so che ci sono cose che uno non vorrebbe mai dire agli altri. Lo capisco. Mi sta bene. Solo… non mi va di stare in tensione con te. È una situazione del cazzo… - sorrise appena, increspando le labbra, - Possiamo solo sostenerci l’un l’altro, no?
E Bill rilassò le spalle, che si curvarono quasi sotto il peso di un enorme macigno.
Mai come in quel momento Tom provò fortissimo il desiderio di stringerlo a sé. E nient’altro. Solo abbracciarlo, cercare di fargli capire in quel modo che non era solo, che anche lui portava un peso, che anche lui sapeva cosa significasse soffrire sotto un carico impossibile da lasciarsi indietro. Che, pure se non sapeva cosa stesse pensando, come sempre riusciva a capirlo benissimo. A sentirlo benissimo. Quasi quella di Bill fosse una seconda pelle, o un’estensione del proprio stesso corpo.
- Scusa… - esalò Bill, esausto, chinando il capo.
- Senti… - disse allora lui, cercando di abbozzare un sorriso e sollevando le mani a stringergli le spalle, - David mi ha detto una cosa, sai? – Bill sollevò lo sguardo e lo fissò con aria da cucciolo triste e curioso insieme. Tom sbuffò un sorriso intenerito e continuò, - Lui pensa che dovremmo metterci addosso un travestimento e andarcene in giro. – Bill ridacchiò, socchiudendo le palpebre e scuotendo il capo, - No, no, davvero. – insistette Tom, convinto, - C’è un luna park qui vicino, sai? Tu non ti trucchi, io nascondo i rasta, ci mettiamo addosso i vestiti di Georg, un paio di occhiali da sole e ci siamo! Nessuno si accorgerà di noi! Ok?
- Le fan sanno che siamo bloccati qui… l’ho letto anche io su internet… - mugugnò Bill, - Scommetto che sono organizzate in squadre e ci danno la caccia per tutta la città…
- Eh, chissenefrega. – sbottò Tom, scrollando le spalle, - In caso fuggiamo. Ma sono sicuro che andrà tutto bene, vedrai.
- E se non dovesse andare tutto bene? – insistette lui, preoccupato, mordicchiandosi un labbro, - Non voglio essere visto, non voglio che mi si veda in questo stato
Anche Tom si morse un labbro, aggrottando le sopracciglia.
- Non sei in nessuno “stato”, ok? – lo rassicurò, - Stai benissimo. Sei… - sospirò e socchiuse gli occhi, - …stupendo. Come sempre.
Come sempre.
Bill sorrise debolmente, inclinando appena il capo. E poi annuì.
Non serviva che ringraziasse.
- Allora? Andiamo a travestirci da Listing o no?
*
Prima o poi avrebbe dovuto pensarci. Mettersi seduto ad un tavolo e riflettere seriamente su ciò che provava per Bill. Cercare di capire se fosse solo una suggestione della sua mente, se per caso non fosse colpa dell’altro, se non fosse soltanto un rigurgito della paura di perderlo che aveva provato quando aveva saputo che era in coma… o se davvero quello che sentiva per lui fosse amore. Perché se lo era, se quella spinta al sapore di inevitabilità era reale, lui doveva saperlo. Doveva prenderne atto. E risolvere.
In realtà non aveva mai creduto possibile “risolvere”i sentimenti. Men che meno per ciò che riguardava l’amore o l’attrazione. Perché “risolvere”, in quel campo, indicava solo una cosa: sopprimere. A sopprimere i propri sentimenti – in realtà, a sopprimere i propri istinti – lui non ci aveva neanche mai provato. Nonostante perfino ai suoi occhi offuscati dal desiderio fosse chiaro quanto oscena e disgustosa fosse l’inclinazione che stavano prendendo le sue voglie, nemmeno quella volta ci aveva provato. Nemmeno allora che rischiava di far del male a Bill, nel caso la situazione fosse venuta fuori, si era detto “fermati, rifletti e smetti di concedertelo”. Se l’era concesso, prima perché credeva fosse un sogno – o semplicemente gli faceva comodo pensare che fosse così – e poi perché, sogno o non sogno, non aveva più potuto farne a meno. Provare piacere, essere soddisfatti, non farsi mancare niente, erano un po’ le basi di tutto il suo agire.
Niente rinunce. Niente no.
Sì, decisamente era lui il più viziato fra i due.
- Voglio assolutamente andare anche lì! – cinguettò allegro Bill al suo fianco, indicando l’enorme ruota panoramica che troneggiava nel mezzo del parco.
Tom lo fissò di sbieco.
- Ma se l’hai sempre trovata mortalmente noiosa…
- Sì, però abbiamo già fatto quasi tutto… - argomentò Bill, sbuffando, - E poi non ci sono mai stato, mi piacerebbe vedere ancora Berlino dall’alto…
Tom sorrise teneramente, dandogli un buffetto su una spalla.
- Ti è piaciuta così tanto la prima volta? – lo prese in giro, - Ed io che pensavo fosse una città grigia e noiosa!
- È splendida… - negò Bill, con aria sognante, - Non puoi nemmeno immaginare…
- Ehi, adesso. – borbottò lui, contrariato, - Mi sembra di aver già specificato che su quel tetto c’ero anche io, non eri da solo…
Bill scosse ancora il capo, sorridendo debolmente.
- Non puoi capire. – ribadì, - Sei lì, sul ciglio del niente… il vuoto a due passi, la città ai tuoi piedi… enorme, luminosa e nonostante tutto piena di punti oscuri… solo che tu ti senti quasi in grado di arrivare a vederli, quei punti oscuri… a percepirne le forme, gli odori, perfino il sapore dell’aria… è-
- Dio mio, sento una canzone in arrivo! – scherzò ridacchiando e dandogli una pacca sulla spalla.
Bill fece una smorfia e lo fissò offeso.
- Sei uno stronzo. – sbottò, - Stavo esprimendo un concetto! Ora, mi rendo conto che per te arrivarci possa essere uno sforzo troppo grande, ma-
- Sì, sì, come vuoi. – concesse lui, chiudendo gli occhi per darsi un tono ed agitando mollemente una mano davanti al viso. Bill borbottò ancora qualcosa e ficcò le mani nelle tasche del giubbotto, guardando altrove con aria irritata. – Comunque… - riprese Tom con un breve sorriso, - ti ci porto, ok. Ma non prima di avere fra le mani una sufficiente dose di zucchero!
Bill si voltò repentino, guardandolo con un sorriso enorme e altrettanto enorme gratitudine riflessa negli occhi. Poi sembrò riflettere sulle sue ultime parole, ed arricciò le labbra in una smorfia curiosa.
- Zucchero…? – chiese incerto, inclinando il capo.
Tom sorrise più apertamente.
- Bianco o rosa? – si limitò a domandare a propria volta, scatenando definitivamente lo scoppio di risate di Bill che, dopo aver strillato “Bianco, e che cavolo!!!”, cominciò a dirigersi esultante verso il bancone dello zucchero filato, poco distante da dove si trovavano in quel momento.
Lo osservò saltellare felice fino al tavolinetto, chiedere una porzione per sé ed una anche per lui e poi attendere che fossero pronte, le mani sui fianchi, un sorriso sereno e genuino ad arricciare teneramente le labbra un po’ scure per il freddo, e pensò che gli sarebbe piaciuto scaldarle. Che gli sarebbe piaciuto non essere suo fratello per accostarglisi e baciarlo. Che gli sarebbe piaciuto non essere neanche maschio, per poterlo fare senza dover sentire stupide risatine o versetti disgustati da parte dei più puritani fra gli altri presenti in quel luogo. Gli sarebbe piaciuto poter mostrare al mondo intero quanto e come l’amava. Con quale intensità l’avrebbe fissato negli occhi, se solo avesse potuto. Con quanto desiderio avrebbe fatto scorrere un braccio attorno alla sua vita, stringendolo a sé.
Ma non poteva.
E la cosa peggiore era che non poteva mostrarlo neanche a Bill.
In realtà, proprio non avrebbe dovuto avere niente da mostrare.
- Non puoi fermarti quando vuoi. – sibilò una voce alle sue spalle, direttamente contro il suo orecchio, - Non è un gioco, Tomi. L’amore non lo ignori.
Si irrigidì, incapace di voltarsi.
- Ti vedranno tutti.
- Non mi vedrà nessuno. Non mi vede mai nessuno. Secondo te perché, Tomi…?
- Non lo so. – si morse un labbro, - Non voglio saperlo. Cosa vuoi ancora?
- Te l’ho detto. – rispose l’altro, stringendolo da dietro attorno al collo, - Non posso lasciare che tu finga ancora. Tu non vuoi che io ti lasci fingere ancora. Tu non hai fatto che aspettarmi, perché potessi liberarti.
- Non voglio essere liberato. Non c’è niente di cui liberarmi. Non c’è proprio niente.
L’altro Bill ghignò apertamente, e così crudelmente che Tom percepì quasi la sensazione di averlo addosso, quel ghigno. Sulla pelle come una ferita. Che brucia e tira e si spacca e sanguina. Sgradevole.
- Il tuo corpo sembra pensarla diversamente… - mormorò sensuale, scivolandogli sul collo con le labbra mentre ritirava le mani per poi agganciarlo alla vita e stringere il cavallo dei pantaloni insolitamente stretti sulla sua eccitazione pulsante.
- Non è per Bill… - si difese blandamente lui, chinando il capo ed arrossendo, - Vattene…
- Se io me ne vado, tu mi seguirai. – lo ammonì il fantasma, muovendosi sul suo bacino, lieve e lento e insopportabile, - Lo sai che lo farai. Non hai il coraggio per prenderti da Bill ciò che vuoi e quindi lo prendi da me. Mi sta bene. Prima ancora, non avevi il coraggio neanche per prendertelo da me, e te lo prendevi da ragazze sconosciute di cui non ti importava un accidenti. Mi stava bene anche quello, ma com’è cambiato cambierà anche questo.
- Non c’entra niente… - si lamentò lui, pregando da un lato che Bill tornasse in fretta con lo zucchero filato e lo liberasse da quell’angoscia, ma dall’altro perché non tornasse più, e non lo vedesse mai in quelle condizioni, e non capisse mai niente di quanto storto e sconvolto fosse suo fratello maggiore, - Quello che c’era con le ragazze… quello che c’è con te… con Bill non c’entra…
- Devi fidarti di me, Tomi… - insistette lui, accarezzandolo più decisamente, - Io la so la verità. Non puoi prendermi in giro, non ci riuscirai.
- Vattene. – ripeté, stringendo i pugni per non cedere alla tentazione di sollevare a propria volta una mano e posarla su quella dell’altro Bill, perché, contrariamente a quanto stava dicendo, restasse lì per sempre.
Bill ridacchiò e smise di toccarlo. Tom aprì gli occhi e vide che suo fratello era ancora fermo davanti al tavolinetto del venditore ambulante; molleggiava, spostando il peso da un piede a un altro, arricciando le labbra, infastidito dall’attesa. Non sembrava essersi accorto di quanto era successo.
Si guardò intorno.
Be’, nessuno sembrava essersi accorto di quanto era successo.
- Sono pazzo… - mormorò fra sé, quasi dolorosamente.
Prima ancora di riflettere per cercare di capire se fosse innamorato o meno, avrebbe dovuto riflettere per cercare di capire se ancora ci stesse con la testa o fosse partito del tutto. Anche perché il primo punto avrebbe potuto tranquillamente essere la diretta conseguenza del secondo.
Il primo bastoncino di zucchero filato era ora fra le mani di Bill, che si voltò e lo guardò, agitandolo in aria con un sorriso trionfante dipinto sul volto. Lui mosse un saluto a fendere il vento con una mano, sorridendo debolmente.
E poi si guardò intorno.
E l’altro Bill era ancora lì. Splendido come sempre. Le braccia incrociate dietro la schiena ed un sorriso furbo sul volto.
- Ce ne hai messo di tempo. – si sentì dire in uno sbuffo condito d’ironia, - Voglio andare nella stanza degli specchi… tu e Bill non ci siete ancora stati, vero?
- Aspetta…
Ma l’altro non lo ascoltò. Si voltò e prese a dirigersi velocemente – troppo velocemente, per essere reale – verso un edificio basso e grigio.
- Aspetta! – ripeté più ad alta voce, correndogli dietro.
Da qualche parte, alle sue spalle, Bill – suo fratello – aveva recuperato anche il secondo bastoncino di zucchero filato, aveva pagato e s’era voltato a guardarlo. E, voltandosi, l’aveva visto correre via verso la stanza degli specchi.
Lui se ne accorse. Razionalmente, sapeva che avrebbe dovuto fermarsi. Indietreggiare. Tornare da Bill, mangiare con lui lo zucchero filato, accompagnarlo docilmente sulla ruota panoramica mentre lo prendeva in giro per l’espressione meravigliata che avrebbe assunto il suo volto quando fossero arrivati abbastanza in alto da avere ai piedi tutta Berlino…
Ma il suo corpo non poteva tollerare un rinvio. Né una negazione. Perciò continuò a correre. E non s’interessò di nient’altro.
Nemmeno di quando, con la coda dell’occhio, vide suo fratello lanciare a terra i bastoncini di zucchero filato e prendere a inseguirlo di corsa.
*
Gli specchi, per lui, non erano mai stati semplicemente specchi. Sia per lui che per Bill, in effetti, avevano sempre rappresentato un modo come un altro per ritrovarsi. Per specchiarsi in un’immagine uguale e visualizzare, al suo posto, un’immagine simile ma non del tutto identica. L’immagine del gemello. Dell’altra metà di loro stessi.
Tom aveva scoperto di essere in grado di vedere Bill, guardandosi allo specchio, quando, da piccolo, era stato costretto a passare qualche giorno lontano da lui, al campeggio. Quando Bill, in preda ad un attacco di nostalgia, aveva preteso di essere rimandato a casa, lui aveva voluto mantenere intatta la propria maschera di “Kaulitz duro” ed era rimasto lì, per quanto il solo pensiero di separarsi dal fratello anche solo per un giorno lo annichilisse in maniera quasi devastante.
Ecco, sì. Senza Bill s’era annichilito. Nessuna attività sembrava più stuzzicarlo, non aveva più voglia di fare niente o di parlare con qualcuno.
Poi, una mattina, mentre si lavava i denti, fissandosi con aria annoiata nell’enorme specchiera del bagno comune, invece di vedere sé stesso aveva visto Bill. Erano ancora del tutto identici, in quel periodo, perciò solo lui era in grado di vedere effettivamente in cosa differissero le loro immagini. La disposizione dei nei, i lineamenti lievemente più affilati, gli occhi più grandi e liquidi. Quello nello specchio era Bill. E sorrideva.
Quella era stata la prima volta.
Le volte successive non era stato più così improvviso. Era stato lui a richiamarlo. Ad evocarlo, come per magia, per consolarsi della sua assenza, del vuoto enorme che sentiva quando pensava che magari avrebbe potuto fare qualcosa di interessante che comunque sarebbe risultato del tutto inutile e privo di validità, per il semplice fatto che non avrebbe potuto condividerlo con lui.
Era ironico che il luogo in cui sarebbe morto dovesse essere interamente composto di specchi.
Perché lui, in quel posto, ci sarebbe morto.
Lo immaginò piuttosto chiaramente quando, entrando nell’edificio, si ritrovò a fronteggiare da vicinissimo – appena un paio di centimetri – l’altro Bill che, invitante, si protendeva verso di lui, sollevando le mani e poggiandogliele sul petto, sfiorandolo attraverso il giubbotto, la felpa e la maglietta, riuscendo comunque a farlo sentire talmente bollente da bruciare.
Ma lo seppe – lo seppe con certezza – quando all’immagine dell’altro riflessa negli specchi tutto intorno si sovrappose anche l’immagine del suo Bill. Il suo piccolo Bill. Quello che aveva cercato di tenere alla larga, di proteggere fino a quel momento. E che ora lo fissava attraverso le decine di superfici riflettenti che lo circondavano, facendolo sentire sotto assedio, mentre due mani del tutto uguali alle sue lo accarezzavano senza pietà e due labbra affamate e ghiacciate – sì, proprio identiche alle sue – gli succhiavano la pelle del collo.
E lui rimaneva lì, immobile.
A fissarsi nello specchio.
Disgustato.
Ed a guardare Bill.
Terrorizzato.
- Tom… - mormorò suo fratello alle sue spalle.
L’altro Bill non smise di baciarlo.
Tom strinse le labbra e deglutì rumorosamente.
Suo fratello rimase immobile, gli occhi spalancati e un’espressione sconvolta a distorcere i lineamenti del viso. Muoveva impercettibilmente le punte delle dita, come fosse incerto su cosa farsene. Chiudere le mani a pugno? Stenderle come avesse bisogno di sciogliere i tendini?
Dire qualcosa?
Ma dire cosa?

L’altro Bill finalmente si staccò da lui e li guardò entrambi. Ed a Tom sembrò che ghignasse. Che lo facesse con pietà e con una vena di crudele compiacimento.

E se tu sei un parto della mia mente, perché ridi così?

- Doveva succedere, prima o poi. – sussurrò tagliente il fantasma, separandosi definitivamente da lui e muovendosi lento verso Bill. Tom si voltò a guardarlo, ma non mosse un dito per fermarlo. Neanche quando lo vide sollevare una mano e posargliela sulla guancia, scendere verso il mento seguendo il suo profilo e lì afferrarlo, per costringerlo a guardarlo fisso negli occhi, stringendolo con violenza. Non si mosse neanche quando vide la scintilla di paura negli occhi di Bill trasformarsi in puro terrore. Non si mosse, perché era lui il colpevole. Non poteva salvare Bill da quello che stava succedendo, semplicemente perché non poteva salvarsi da sé stesso.
Era un animale. Era un criminale. Gli stava facendo del male. Era completamente pazzo.
E non poteva fare niente per impedirselo.
- Tom! – lo chiamò Bill, cercando di voltare lo sguardo a cercarlo, malgrado il fantasma lo tenesse ancora bloccato e immobile.
E Tom abbassò lo sguardo. Abbassò lo sguardo e si morse un labbro e poi strizzò le palpebre e pregò fosse un sogno. Pregò di essere veramente pazzo, pregò di trovarsi in un delirio, in un’allucinazione, pregò d’essere in una camera dalle pareti imbottite, stretto in una camicia di forza, rinchiuso al sicuro in un manicomio criminale. Pregò che niente di tutto quello che aveva visto e vissuto fino a quel momento fosse stato vero. Pregò intensamente, malgrado non avesse mai avuto fede in nulla.
Non si stupì così tanto, quando Dio non rispose. Quando l’aria si riempì di mugugni e lamenti soffocati con violenza. Quando sollevò lo sguardo e vide che il fantasma stava baciando il suo piccolo Bill, lo stava baciando con cattiveria, forzando le sue labbra con le proprie da assassino, mugolando di piacere per questo. Mentre Bill teneva gli occhi spalancati e fissava il vuoto, spingendo inutilmente contro il petto dell’intruso per separarlo da lui.
- Ti piace, Tomi? – chiese il fantasma staccandosi da lui e lasciandolo intontito e senza fiato, - Quanto ti senti perverso?
Malato.
Era quella la parola.
- Bill… - trovò appena la forza di esalare, portando entrambe le mani al viso e nascondendovisi dietro, - Mi dispiace… non volevo…
- Bugia… - cantilenò il fantasma, prendendo Bill per mano e trascinandolo senza delicatezza fino a lui, - Apri gli occhi, Tomi. Apri gli occhi e guardalo.
Tom scosse il capo, pressando più forte le mani sul viso, ma il fantasma sollevò le proprie e lo liberò da quella prigionia volontaria, costringendolo a sollevare lo sguardo. Bill era una maschera di paura e incertezza. Il volto magro era contratto in una smorfia allarmata, e gli occhi castani saettavano sulla sua figura alla ricerca di un perché, di una rassicurazione, di un riparo. Di una bugia. Della bugia che avrebbe potuto mettere fine a quella situazione assurda. Del “non c’è niente di strano” che avrebbe lasciato il fantasma a svanire nel niente. Del “sei solo il mio adorato fratellino” che avrebbe chiuso per sempre le porte alla verità e a qualsiasi sciocca speranza fosse nata nella mente di Tom in quei giorni.
E lui voleva davvero salvare Bill. Anche a costo di vivere una menzogna per sempre, fino alla morte. Anche a costo di seppellircisi, sotto alle mille menzogne che avrebbe dovuto tirar fuori da quel momento in poi. Anche a costo di prenderle tutte in bocca e soffocarcisi.
Perciò dischiuse le labbra.
E si preparò a mentire.
- Ti amo. – spalancò gli occhi. – Ti voglio…

Cosa diavolo stava succedendo?

- Te l’ho detto, Tomi. – rise impietoso il fantasma, - Niente più bugie. Non ti lascerò più scappare.
E Bill, Bill…
Bill restava lì, inerme a guardarlo…
Piangeva, finalmente… piangeva e singhiozzava forte, e stringeva la mano attorno a quella del fantasma perché fino a quel momento l’aveva visto come l’unico nemico ma adesso gli serviva qualcosa cui aggrapparsi per non cadere, e quella cosa non avrebbe mai potuto essere Tom, perché era Tom che lo stava spingendo, sì… era Tom che lo stava spingendo di sotto.
- Scusa… - biascicò ancora Tom, sollevando una mano a sfiorare la guancia di Bill, che sotto il suo tocco si tese impercettibilmente, - Io ti amo sul serio… non avrei mai voluto farti male…
Bill si morse un labbro e deglutì, stringendo ancora di più la presa sul fantasma, che ghignò apertamente.
- Tu… - tirò fuori a forza, cercando di non abbassare lo sguardo, - …dici di amarmi… amare me… tu… con lui
Li aveva visti.
Li aveva visti.
Quasi lo trovava divertente. Perché era stato tanto stupido da credere… da sperare…
No.
Era stato tanto presuntuoso da essere certo che ogni sua azione folle sarebbe rimasta circoscritta all’interno della sua mente.
Ma la sua mente non era tanto forte.
Niente di lui era abbastanza forte da reggere quel peso enorme.
- Questo posto è perfetto… - sibilò freddamente il fantasma, liberandosi dalla stretta di Bill e sospingendolo con una delicatezza tutta nuova verso il fratello, - Con tutti questi specchi, nessuno può dire chi è chi. Io posso essere lui, tu puoi essere me, lui può essere te… non è bellissimo, Tomi? Non è meraviglioso?
Lo era sul serio. Se solo faceva lo sforzo di non ascoltare non sentire neanche percepire quello che aveva intorno… se solo faceva lo sforzo di ignorare la voce di Bill, così sostanzialmente differente da quella del fantasma, o il suo calore, del tutto ignoto al suo corpo di aria e immaginazione, privo di appigli reali se non quelli che la sua mente si ostinava a dargli – un letto, un muro, una qualsiasi superficie sulla quale abbandonarsi e perdersi in mezz’ora di sospiri – per poter credere di non essere solo, per poter credere di essere ricambiato, per poter credere che per ogni amore c’è speranza, perfino per il più lurido ed ingiusto.
I sospiri di Bill non gli davano nessuna speranza, invece. Il suo tepore sotto le dita, mentre le lasciava scivolare sulla pelle, non lo aiutava a sentirsi amato. Si sentiva sporco. Lo stava ferendo. Lo stava obbligando a… Dio, no…
Il fantasma si allungò verso di lui, obbligandolo a guardarlo negli occhi. E poi lo baciò. Lasciò che si perdesse nella sua totale assenza di sapore e consistenza e poi lo guidò gentilmente fino alle labbra di Bill. Che si lasciò baciare senza protestare, si lasciò invadere senza un mugugno di dissenso. Continuò a lasciarsi divorare, e Tom si ostinò a tener gli occhi chiusi e buttare fuori la realtà, ma non c’era niente di reale in quello che stavano facendo, e perciò, se anche la realtà stava lontana, da tutto il resto lui non poteva scappare. Dalle mani del fantasma che si insinuavano prima sotto i suoi vestiti e poi sotto quelli di Bill, liberandoli dal loro abbraccio caldo e protettivo, conducendoli come in una danza i cui passi fossero loro del tutto ignoti, aiutandoli a muoversi come fosse lui a doverli guidare, lui a dover mostrare loro la via, lui a sapere cosa fosse meglio per loro, lì ed in quel momento.
E forse era proprio così.
Perché dopo un po’ le mani che lo toccavano smisero di essere fredde. No. Smisero di essere false. E si trasformarono in mani vere. Le mani di Bill. Si trasformarono nelle mani di Bill, e non perché lui, strizzando gli occhi fino a sentirli bruciare, s’era convinto della loro presenza fino ad immaginarle pure dove non erano, no. Le mani di Bill erano lì. E scivolavano lente lungo il suo petto e il suo ventre, arrampicandosi fino alle spalle e rigettandosi poi lungo le scapole, cercando fra di esse il disegno appuntito della spina dorsale. Affondando anche con le unghia fino alla carne, mentre la bocca di Tom si faceva strada sul suo collo, nell’incavo appena sotto il pomo d’Adamo, sul petto, a raccogliere i respiri fra le labbra come volesse nutrirsene o dissetarsene in lunghi sorsi.
Bill non disse una parola. Continuò ad accarezzarlo e lasciarsi accarezzare. Continuò ad ansimare ed ascoltare i suoi ansiti senza protestare, senza negarsi, senza ritrarsi. Neanche quando il gioco si fece ancora più pericoloso, neanche quando furono i pantaloni a sparire, neanche quando sentì il sesso di Tom premere contro al suo. Neanche quando il fantasma lo forzò ad aprire gli occhi e voltarsi, intrattenendolo con baci freddissimi, brevi e asciutti a fior di labbra mentre Tom si faceva strada dentro il suo corpo, lento, incerto, spaventato almeno quanto lui.
L’aria era piena solo dei loro respiri. Affannati e profondi e spezzati. E della voce di Tom. Che cantilenava scuse su scuse alternandole al suo nome e a dichiarazioni d’amore accorate al punto da sembrare fossero nate fra le lacrime. E così, probabilmente, era.
Al dolore di Bill, Tom rimase sordo. Alla certezza che, da qualche parte davanti a lui, i suoi occhi fossero serrati e le sue labbra tese in una smorfia sofferente, non volle credere. I suoi occhi e le sue labbra non riusciva davvero a vederli. Il fantasma teneva il suo viso immobile, incastrato contro la sua spalla. Era su quella pelle fredda e rarefatta che andavano ad infrangersi i sospiri di Bill. Non sulla propria. Lui non li sentiva sul serio. Non voleva proprio.
Si chinò su di lui, uscendo un attimo prima di venire. Lo schiaffeggiò con violenza la consapevolezza di essersi comportato né più né meno come aveva fatto con tutte le ragazzine senza nome e, ormai, anche senza volto che s’erano susseguite nelle decine e decine di camere d’albergo che aveva occupato in quegli anni.
Usa sempre il preservativo, ripeteva sempre David, e se sei tanto cazzone da dimenticarlo, esci sempre prima di venire. Serve a poco, ma almeno è qualcosa.
A cosa serviva, adesso che era venuto addosso a suo fratello, insudiciando la pelle candida e madida di sudore della sua schiena arcuata e in lento movimento dal basso verso l’alto, mentre Bill cercava di ristabilire un ritmo meno malsano per il proprio respiro e, davanti a sé, Tom non riusciva a vedere altro che gli occhi e le labbra di un fantasma spaventoso sorridere cattive nella sua direzione, stuzzicandolo e sfidandolo a ritirarsi adesso, adesso che era tutto scoperto, adesso che veniva a galla tutto lo schifo che aveva nascosto per anni?
Il fantasma strinse appena le palpebre, e l’ultima cosa che sussurrò prima di sparire fu una frasetta ad effetto. Sarebbe stato divertente se non fosse stata la dimostrazione manifesta della propria pochezza intellettuale.
- Qui non avete più bisogno di me. – sussurrò infatti, lasciando andare Bill, che si accasciò a terra, sfinito e dolorante, e ritirandosi nell’ombra. La sua immagine continuò a riflettersi sugli specchi intorno a loro, fino a quando Tom non si accorse che non era più la sua. Che non era neanche quella di Bill. Che non era nemmeno la propria e che, soprattutto, se anche lo fosse stata lui non sarebbe riuscito a distinguerle.
Si chinò al suo fianco, incerto sulla possibilità di toccarlo o meno.
Allungò una mano nella sua direzione e la poggiò delicatamente sulla sua spalla, accarezzandolo con dolcezza. Bill non si ritrasse e lui sospirò di sollievo. Ascoltò i suoi singhiozzi placarsi e farsi via via sempre più sordi e attutiti, fino a quando non lo sentì deglutire un’ultima volta e respirare pesantemente.
Perdeva sangue.
Si forzò ad ignorare il dettaglio e gli si chinò addosso, sfiorandogli una spalla con le labbra.
Bill rabbrividì, ma non si mosse.
Di solito, alla fine dei film o dei romanzi, il cattivo di turno muore. Quando non muore – e, se c’era una cosa che sapeva con certezza, era che in quel momento l’avrebbe preferito – è solo perché il buono riesce “a far breccia nel suo cuore” e convincerlo della possibilità di cambiare le proprie azioni e diventare buono a propria volta. Così il cattivo crolla a terra, in ginocchio, e piangendo confessa ogni crimine commesso. Ogni sofferenza arrecata agli altri. Ogni errore cui non ha voluto porre rimedio. E il buono poi si accoccola al suo fianco, lo consola e gli offre aiuto. Gli promette che gli resterà accanto. Che insieme ne verranno fuori. Che risolveranno tutto.
Lui non voleva sentire promesse simili da Bill. Perché Bill era ferito e sofferente sotto di lui, anche in quel momento, e qualsiasi promessa di quel tipo sarebbe suonata falsa.
Ma suo fratello non era una persona falsa.
Suo fratello non stava pensando che voleva salvarlo.
Non stava pensando neanche che voleva salvarsi.
Non stava pensando a niente, probabilmente.
- Convincerai David a lasciarci tornare a casa…? – chiese in un respiro spezzato e sommesso, senza sollevare gli occhi dal pavimento lurido, stringendosi nelle spalle per cercare di evitare almeno un po’ il freddo pungente che rendeva congelata perfino quella stanzetta.
Tom si morse un labbro. Strisciò sul pavimento fino a recuperare il proprio giaccone e lo utilizzò per coprire le spalle sottili e tremanti di Bill. Poi annuì, lo aiutò ad alzarsi in piedi e, insieme ed in silenzio, si rivestirono.

We have each other
You are my brother
Sitting here beside you
I just wanna use you
Genere: Comico, Erotico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, PWP.
- Tom adora passare del tempo da solo con suo fratello. Bill lo diverte, lo riempie di ricordi piacevoli e lo fa stare bene. Ma stare con Bill può essere anche molto pericoloso. Soprattutto quando sente degli strani suoni provenire da un punto imprecisato del mondo intorno a lui e, per verificarne la provenienza, decide di calarsi sul balcone di sotto, combinando un disastro.
Note: Prima di tutto: i gemelli Kaulitz SONO DAVVERO dei guardoni X’D Nel dvd Leb Die Sekunde (che io e la neechan abbiamo amabilmente guardato insieme dopo aver affrontato la TORTURA di passarcelo tramite cartelle condivise di MSN), Bill racconta di questo momento allucinante in cui lui e tutti gli altri ragazzi del gruppo hanno assistito praticamente alla stessa cosa cui assistono in questa modesta storiella XD Quindi sì, questa parte è veritiera. Tutto il resto è fangirling XD E porno, chiaramente. Perché il porno? Perché il fandom inglese LETTERALMENTE pullula di PWP smut su Bill e Tom. È semplicemente INDECENTE che in Italia non ce ne sia neanche una perché… perché un archivio ha vietato l’incest graficamente esplicito fra le proprie pagine! Chissene, dico io! Pubblicheremo altrove! Oh. *angst*
E poi, cosa può esserci di meglio per augurare i migliori venti anni possibili a una neechan stupenda come la mia, che non un’enorme dose di porno-lol fra i gemelli Kaulitz…? :D Tanti auguri Ana >*<
(Tra l’altro, PER CARITA’: Ask For Answers dei Placebo sta diventando tipo la canzone ufficiale dei gemelli Kaulitz?! È tipo la MILLESIMA volta che la uso per una fic su di loro! Qui, nel caso specifico, per il titolo: “these bonds are shackle free / wrapped in lust and lunacy” <3)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
YOUR PIDGEON AND THE DAMAGE DONE

Era un tranquillo e uggioso pomeriggio ottobrino. I Tokio Hotel, a bordo del fedele tour-bus, compagno di mille avventure più o meno piacevoli, stavano dirigendosi alla volta di Toulon, dove avrebbero dovuto esibirsi per il pubblico francese per l’ultima volta prima di trasferirsi a Milano per l’unica data italiana dell’European Tour.
Dal momento che era un pomeriggio uggioso, e dal momento che Bill era metereopatico, il povero frontman non faceva che sbuffare, malamente abbandonato contro il tavolino nel mezzo della vettura, facendo sciocchi disegnini con le dita sul piano lucido in finto legno e mugolando come fosse sul punto di morire.
Dal momento che Bill era triste, e dal momento che il resto della band, più che essere metereopatica, era Billpatica, anche gli altri ragazzi non si trovavano in perfetta condizione. Tom vagolava infelice da un finestrino all’altro, fissando preoccupato il cielo e pregando perché non si mettesse a piovere, Georg guardava il vuoto abbandonato nella propria cuccetta e Gustav si rigirava le bacchette fra le dita, ascoltando musica in cuffia.
Nonostante il pesante alone di depressione che gravava sull’ambiente, erano tutto sommato ore tranquille, e perciò nessuno si lamentava più di tanto.
I quattro giovani tedeschi si stavano già rassegnando a passare in quel modo l’intero pomeriggio, quando successe qualcosa che cambiò irrimediabilmente non solo i loro programmi immediati, ma anche tutto il resto della loro vita: un enorme piccione grasso, grigio e palesemente folle fece irruzione attraverso un finestrino aperto e, sbattendo le ali come un ossesso, guardandosi intorno con occhi pallati iniettati di sangue, andò a schiantarsi contro il finestrino chiuso dall’altro lato del bus, proprio sopra la testa di Bill.
- Gluglu! – disse il piccione, spiccicandosi dal finestrino e lasciandosi ricadere morbidamente sulla testa di Bill, dopo aver riconosciuto i suoi capelli come un luogo sicuro.
- Cosa diamine…? – balbettò il ragazzo, che aveva seguito il movimento dell’animale solo distrattamente e, perciò, non era riuscito a riconoscerlo, - Che cavolo era?!
Gustav sollevò appena lo sguardo da terra, ma tornò subito a piantarlo sul pavimento quando capì cosa stava succedendo. Dal momento che Georg si trovava nella zona notte, e non poteva essere perciò molto d’aiuto, Bill si rivolse unicamente a Tom, cercando di attirare la sua attenzione con un calcio da sotto il tavolo.
- Tomi! – disse deciso, - Ho un cerchio alla testa.
- Mmh. – mugugnò il chitarrista, senza neanche guardarlo, continuando a scrutare il cielo.
- Tomi!!! – lo richiamò il cantante, sfilando una scarpa e tirandogliela addosso, - Non ignorarmi!
- No, no… - si arrese il biondo, sospirando pesantemente e voltandosi a guardare il fratello. – Dimmi, cosa- - ma si interruppe prima di poter concludere, rimanendo a fissare il proprio gemello come lo avesse visto per la prima volta.
- Tom…? – lo chiamò ancora lui, incerto sul da farsi.
- Sssh! – soffiò immediatamente il giovane, portando l’indice davanti alle labbra e avvicinandoglisi con fare circospetto.
Quando fu abbastanza vicino, Bill riuscì finalmente a capire che ciò che Tom stava guardando con tanto idiotissimo stupore non era lui, bensì qualcosa di non meglio definito sopra la sua testa.
- Ma si può capire-
- Ti ho detto di stare zitto! – insistette il ragazzo, spiaccicandogli poco delicatamente una mano sulla bocca, - Sto cercando di instaurare un dialogo!
- Mfhghrthddfghg?! – si agitò Bill, ma Tom non lo liberò dalla stretta e quindi nessuno poté comprendere il significato profondo delle sue obiezioni.
Frattanto, sopra la testa del moro, Tom e il piccione si scrutavano con reciproco interesse.
- Glu. – disse il piccione, agitando la testolina tonda avanti e indietro nell’usuale gesto dei volatili della sua razza.
- Ghhg?!?!?! – si agitò ulteriormente Bill, muovendo la testa allo stesso modo, nel tentativo di liberarsi, facendo in modo che il piccione dovesse sollevarsi sulle zampette artigliate e agitare le ali per non perdere l’equilibrio, in un tripudio di piume un tempo bianche ma ormai grigio sporco che turbinavano attorno a loro.
Tom deglutì, stringendo la presa della mano attorno alla mascella del gemello.
- Glu. – rispose seriamente, dopo un attimo d’esitazione.
A quel punto, Bill non riuscì più ad ignorare ciò che stava succedendo, e si staccò da lui con un gesto repentino e violento.
- Tom, dimmi immediatamente cosa diavolo ho sulla testa!!! – strillò, agitando le braccia sul capo e scuotendosi come un ramo nel vento.
Per tutta risposta, il gemello si sollevò di qualche centimetro, molleggiando sulle punte, protese le braccina verso di lui e afferrò l’inquilino misterioso, stringendolo poi fra le braccia, lasciando che si accovacciasse sul suo petto come una piccola, lurida gallina.
Bill lo fissò.
Tom scorse le avvisaglie di un tic nervoso all’occhio delinearsi sul suo volto e cercò di sorridere rassicurante, per evitare la catastrofe, ma servì a poco.
- CHE COSA DISGUSTOSA!!! – ululò infatti Bill, facendo un salto indietro, - Uno schifosissimo piccione! Sulla mia testa!!! – lo guardò meglio, - FRA LE TUE BRACCIA!!!
- Oh, avanti, Bill! – si lamentò Tom, sollevando il piccione all’altezza del suo viso come fanno i fratellini crudeli con le sorelline spaventate quando trovano uno scarafaggio particolarmente enorme e disgustoso nel giardino di casa, - È carino, in fondo!
Bill si tirò indietro con una smorfia inorridita.
- È sporco! – osservò, agitando una mano davanti all’uccello, che seguì il movimento delle sue dita smaltate con enorme interesse, - Portalo via!
- Glu!!! – protestò il piccione, offeso.
- E fallo smettere di guardarmi!!! – aggiunse il frontman, offeso, - È estremamente maleducato!
- È un piccione… - cercò di difenderlo debolmente Tom.
Il piccione sembrò annuire.
- Ma che sta succedendo…? – mugugnò irritato Georg, spalancando la tenda della zona notte e sollevandosi dalla propria cuccetta, tornando alla vita comunitaria, - Bill s’è rotto un’unghia…?
- Georg! – strillò Bill sollevato, saltandogli praticamente in braccio, felice della possibilità di aver trovato un alleato al punto da ignorare l’offensiva presa in giro nascosta nel suo commento, - Tom è impazzito! Ha adottato un piccione!
- Ma è simpatico! – motivò il biondo, agitando il piccione davanti ai due come dovesse essere una prova della sua buona fede, - Ed è anche carino! Non capisco perché non ti piace! – si lamentò, rivolgendosi al fratello.
- Perché è una malattia ambulante! Che schifo, non vorrai mica che mi spunti qualche macchia sulla faccia?! Va bene se succede a te, perché tanto nessuno ti guarda, ma io ho una reputazione da difendere! E le mie fan-
- Le tue fan ti adorerebbero se ti vedessero andare in giro con un piccione appollaiato sulla testa!!! – commentò Tom con aria entusiasta, continuando ad agitare l’uccello su e giù, fra i suoi gluglu disperati.
Bill si arrampicò sulle spalle di Georg, tirando su le gambe perché non strisciassero a terra, ed emerse dalla massa di capelli del bassista solo per spalancare la bocca e strillare un verso disgustato random.
Fu allora che il piccione decise che non era più il caso di subire le angherie di quello zoofilo pazzo del chitarrista dei Tokio Hotel e, grazie anche alla notevole quantità di viscida sporcizia che gli ricopriva le ali, sgusciò fuori dalla sua stretta. La propulsione che si diede per la fuga, però, si rivelò talmente elevata che non solo l’uccello riuscì a liberarsi, ma anche a percorrere in poco meno di due centesimi di secondo lo spazio che lo separava dalla terrorizzata figura di Bill Kaulitz, che non ebbe neanche il tempo di richiudere le labbra, prima di ritrovarsi una coda terribilmente agitata a dimenarsi davanti agli occhi e mezzo piccione in bocca, che continuava a gorgogliare sulla sua lingua.
- GGGGGGGGGGGGGGGGGGH! – strillò disperato, scrollando Georg per le spalle con l’unico risultato di spostarlo di mezzo centimetro dal luogo in cui si trovava.
- Ossignore! – strillò spaventato Tom, - Piccione! Soffocherai! Tirati fuori di lì!
- GGGGGGGGGH!!! – ripeté isterico Bill, gli occhi a girandola, provando ancora a scuotere Georg per far sì che si accorgesse del suo enorme problema.
Georg sospirò svogliatamente e afferrò Bill da sotto le ascelle, aiutandolo a tornare coi piedi per terra.
- Povero tesoro… - commentò dispiaciuto, - Guardati qui, con un piccione in bocca… Gusti, che si fa? Lo si lascia lì? Almeno parleremmo un po’ di più durante le interviste…
- GGGGGGGGGGGGH!!! – si ostinò a motivare Bill, assolutamente sconvolto da quanto stava accadendo.
- Non potrei mai fare questo a Piccione! – s’infastidì Tom, raggiungendo il fratello e strappando l’uccello dalla sua bocca con un suono che ricordò vagamente quello delle bottiglie che vengono stappate, - Ormai siamo amici!
- Stronzo! – sputacchiò Bill, - Come osi anche solo pensare una cosa simile?! Tuo fratello gemello, sangue del tuo sangue!!!, è qui che soffre con uno stupido piccione in bocca, e l’unica cosa di cui tu ti preoccupi è questo dannato uccello!
- La cosa sta diventando ambigua. – commentò Georg, sollevando le sopracciglia, - Non so se voglio continuare ad assistere a tutto questo.
- Ragazzi, state facendo troppo casino. – borbottò irritato Dave, apparendo dalla porticina che divideva il vano del guidatore dal resto del tour-bus, - Dovreste stare più tranquilli, stasera avete un concerto e se Bill perde la voce è la fine.
- Oh, non è colpa mia, chiaro?! – sbottò Bill, incrociando le braccia sul petto, - Questo stupido piccione s’è innamorato di me e ha provato a baciarmi!
Il manager si guardò intorno con aria smarrita.
- Eh? – chiese, cercando uno sguardo intelligente all’interno della stanza e ritrovandolo in Georg.
- Pare che un piccione sia entrato nel tour-bus. – spiegò pacatamente il bassista, - Ed abbia fatto amicizia con Tom.
- Ah. – registrò l’uomo, scivolando con lo sguardo sulla figura di Tom e individuando il piccione ancora sconvolto e umido di saliva a languire fra le sue braccia.
- Solo che la cosa a Bill non piace. Anche perché il piccione gli si è infilato in bocca a tradimento.
- Ah-ha! – scosse il capo Dave, in disaccordo, - Bill, ne abbiamo già parlato: niente uccelli in bocca se non in circostanze del tutto particolari! – aggiunse con un risolino crudele.
- Possiamo evitare che questa storia diventi un concentrato di cattivo gusto?! – si lamentò il frontman, passandosi una mano fra i capelli, - E comunque il problema resta: quel dannato topo con le ali deve sparire.
- Mh. – rifletté Jost con aria seria, - In effetti i piccioni sono veramente portatori di malattie. Su, Tom, andiamo a-
- Mai!!! – gridò il biondo, balzando agilmente sul tavolo e stringendo al petto il piccione ancora troppo tramortito per protestare contro il suo tentativo di soffocamento mascherato da tentativo di salvargli la vita, - Piccione è mio amico!
- Coraggio Tom… - esalò David, già esasperato, - Nessuno conta sulle tue facoltà intellettuali, ma mi auguro tu possa quantomeno arrivare a capire che questo è il tour-bus dei Tokio Hotel, non dei Tokio Hotel con la loro uccelliera…
- Ma io non voglio altri uccelli! Voglio solo Piccione! – si ostinò il ragazzo, schiacciandosi contro il finestrino alle proprie spalle.
- Accidenti a te, idiota di un moccioso! – s’innervosì dunque Dave, cercando di scalare il tavolo per raggiungerlo, - Non voglio che Bill diventi isterico, e se per raggiungere il mio scopo dovrò sfrattare questo dannato piccione, be’, sfratterò questo dannato piccione!!!
- No, no e ancora no!!! – continuò Tom, scuotendo velocemente il capo e i rasta, fino a frustare David coi dread, impedendogli di completare la sua ascesa al tavolino.
Fu in quel momento che si sentì un enorme sospiro sollevarsi da qualche parte nella stanza, e tutti si voltarono a guardare Gustav. Il batterista si alzò in piedi, sfilò velocemente le cuffie dalle orecchie, impugnò saldamente le bacchette fra le dita e si diresse tranquillo verso il tavolo. Lì sollevò appena le braccia e, sotto lo sguardo attonito di Tom, tramortì definitivamente il povero piccione con un paio di colpi sulla testa e, aiutandosi con le bacchette per prenderlo come fosse un tocchetto di pollo alle mandorle, lo accompagnò con malagrazia fuori dal finestrino, osservandolo cadere tragicamente sull’asfalto dietro di loro.
Dopodiché, come niente fosse successo, tornò a sedersi al proprio posto, agitando il capo al ritmo di una qualche canzone degli AC/DC.
- Evviva! – strillò Bill quando si rese conto di quanto era accaduto, saltando in grembo al proprio batterista e strusciando una guancia contro la sua per esprimere la propria gratitudine, - Gusti, sei stato grande!
- Non è vero!!! – strillò Tom, cercando di riprendersi, - Il tuo comportamento con gli uccelli è ignobile!
- E ne vado fiero. – commentò svogliatamente il batterista, senza neanche degnarsi di guardarlo, - E per inciso, Bill, sei un “uccello” anche tu. – disse, cercando di scrollarselo di dosso, - Aria.
- Oh, be’. – scrollò le spalle Dave, - Una soluzione come un’altra. – commentò tranquillo, dirigendosi a passo spedito verso la propria cuccetta, velocemente imitato da Georg, che sbottò un qualcosa di molto simile a “ma che ci faccio io con questi cretini?”, prima di sparire in zona notte.
Tom rimase immobile, ancora in piedi sul tavolo, a fissare l’ambiente circostante come l’avessero lobotomizzato.
Almeno fino a quando non saltò giù sul pavimento e, sul piede di guerra, non strillò “Autista! Fermati immediatamente!”.
Non sapendo se stesse succedendo qualcosa di grave, l’autista pensò bene di ubbidire, accostando veloce sul lato della strada.
Tom divorò in quattro passi il corridoietto del tour-bus e si catapultò fuori, raggiungendo il piccione ancora privo di sensi sull’asfalto e riprendendolo fra le braccia, mentre quello pigolava una protesta gorgogliante che un buon ornitologo avrebbe sicuramente tradotto come “mi avete già fatto abbastanza, lasciatemi almeno morire in pace”.
- Non preoccuparti, Piccione! – disse il chitarrista accorato, - Vedrai che te la caverai!
Il piccione sbuffò un ultimo glu di protesta e poi si fece riportare all’interno del tour-bus.
- NON DI NUOVO!!! – strillò senza pietà Bill, quando vide che quel diavolo di suo fratello aveva riportato il Male a bordo, - Fallo sparire! – sentenziò, nascondendosi dietro le spalle di Gustav.
- Sei senza cuore! – si lamentò Tom, agitando il piccione davanti al viso del fratello, per farlo sentire in colpa, - Guarda in che condizioni è!
- Non me ne frega un accidenti di niente! Per quanto mi riguarda, potrebbe stare anche peggio!
- Sei un malvagio!
- E tu sei un idiota!
- Meglio idiota che bastardo!
- Scusami se dissento!
- GLU! – strillò il piccione, interrompendo il battibecco.
I due gemelli abbassarono lo sguardo sulla creaturina ansimante sul tavolo, e la osservarono attentamente. Il piccione si sollevò stancamente sulle zampette, poi spalancò le ali con un gesto lento e doloroso e spiccò pesantemente il volo.
Non dovette fare molta strada. Si lasciò infatti andare quasi come assopito sulla testa di Bill, accomodandosi nella morbida matassa di capelli; e mentre il moro strillava come un ossesso, scappando da un lato all’altro del tour-bus come avesse davvero potuto fuggire dall’ombra dell’uccello incombente sul suo capo, il piccione si lasciò andare ad un ennesimo glu sommesso, e Tom strillò “ASPETTA!”, e allora Bill si fermò, immobile, e aspettò.
Il rasta gli si avvicinò, scrutandolo con attenzione.
- Cosa?! – chiese il frontman, spaventato, - È già spuntata qualche macchia?! Oddio!
- No. – disse sbrigativamente il ragazzo, riprendendo il piccione fra le mani per poi abbandonarlo sul tavolo con un gesto sufficientemente distratto da far supporre che la sua fissazione per la bestiola si fosse estinta, - Ha deposto le uova.
E così dicendo allungò ancora una mano, recuperò due piccole uova bianche dal nido improvvisato sulla testa di Bill e le mostrò al gemello.
- Uova? – chiese quest’ultimo, stupito, fissando con attenzione le sfere, - Non sono come quelle della gallina…
- Be’, Piccione non è una gallina.
- Uhm…
- …
- …chissà se sono buone da mangiare. – si domandò Bill, accarezzandosi il mento.
- Già. – annuì partecipe Tom. – E se provassimo?
I due si sorrisero malevoli a vicenda, e dopo pochi secondi si avviarono impietosi verso il cucinino.
Quando David riemerse dalla propria cuccetta, grattandosi la testa con aria assonnata, chiese a Gustav dove fossero finiti i gemelli.
- Hanno trovato un altro passatempo. – rispose lui, soprappensiero.
Il manager si guardò intorno.
A tavola, Bill e Tom divoravano uova alla coque con due buffi bavaglini ricoperti di cani sorridenti annodati attorno al collo.
Il povero piccione pigolava disperato, ancora abbandonato su un angolo del tavolo.
- Che angoscia, Dave! – commentò Tom, addentando voracemente un pezzo di pane, - Fa’ sparire quest’uccello! È terribilmente antigienico!
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack, Incest.
- Sono le cinque del mattino. Dopo una nottata di follie, Tom Kaulitz si avvia verso casa. Non sa che ad attenderlo troverà il Demonio, alias il suo manager, David Jost, che non aspetta altro che punirlo per "certi atti sconsiderati"...
Note: Una storia totalmente idiota nata grazie a – indovinate un po’? XD – Ana (che si ringrazia anche per il betaggio puntuale e pieno di spunti lol, come al solito <3), grazie alla quale ho fangirlato per un’intera mattinata su Muse e Placebo e presunte collaborazioni che poi si sono rivelate pacchi colossali XD Cosa c’entrano i Tokio Hotel? C’entrano perché a un certo punto, dato che si parlava di Muse, s’è parlato di “Showbiz”, che è una loro MERAVIGLIOSA canzone, e io ho pensato che si applicasse bene alle hint twincest che i due poveri gemelli Kaulitz sono costretti a dare al loro fandom di fangirl, per necessità di, appunto, show business X’D
È la prima volta che prendo in mano questi due tati, è stato molto piacevole *-*
Li userò ancora X3
David Jost, sei il male ma ti amo <3
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SHOWBIZ

La notte s’era fatta gigantesca sulla sua testa senza che neanche lui se ne accorgesse. Gli sembrava di essere entrato nel locale intorno a mezzanotte, e nel momento in cui ne era uscito aveva pensato fossero passate giusto un paio d’ore; ma nel momento in cui aveva abbassato lo sguardo sull’orologio e lui gli aveva rivelato che in realtà erano le cinque del mattino un lungo, spaventoso e debilitante brivido l’aveva percorso lungo tutta la schiena e aveva dato una carica non indifferente alle sue gambe, che avevano preso a dirigersi di corsa verso casa, come se lo stesse inseguendo un assassino munito di sega elettrica.
In realtà non stava fuggendo da qualcosa.
In realtà stava per gettarsi consapevolmente fra le braccia del demonio.
David lo aspettava sulla soglia di casa, le mani sui fianchi, le gambe semi-divaricate, un piede a picchiettare nervosamente sul marmo del pavimento dell’ingresso e un paio d’occhi talmente furenti che sembravano sprizzare scintille.
- Tom Kaulitz, tu, dannato delinquente!!!
Tom si congelò sul posto, irrigidendo le braccia lungo i fianchi e mettendosi sull’attenti.
- Chiedo scusa!!! – strillò terrorizzato, quasi prostrandosi ai piedi del suo manager, - Giuro che non lo farò più! Da domani in poi a letto alle undici! Perdono, ti prego!
David lo afferrò per i capelli, aiutato dalla ragguardevole lunghezza dei suoi ciuffi rasta, e prese a farlo roteare vorticosamente sopra la sua testa, come volesse lanciarlo lontano.
- David!!! Daviiiiid!!!
- CRIMINALE!!! Non è per l’orario DEMENTE che sono furioso!!!
Attirato dalle urla, suo fratello Bill apparve sulla soglia di casa. Indossava un pigiama celeste tappezzato di mucchine di varie dimensioni e aveva perso una mano nell’enorme matassa di capelli scompigliati dal sonno che portava sulla testa.
Era totalmente rincretinito dal brusco risveglio. Gli occhi, stretti come due fessure, e miracolosamente non provvisti del solito alone di matita nera senza il quale bill non sembrava in grado di ragionare come un normale essere umano, saettavano irrequieti dalla figura di David a quella roteante di Tom, e sembravano dire “sono stupido, non capisco, potreste illuminarmi?”.
- Bill! – sbraitò David, continuando ad agitare Tom a destra e a manca, - Torna a letto! Le tue dodici ore di sonno non sono ancora finite! Se poi ti spunta una ruga come facciamo?!
Bill sbatté le palpebre e sbuffò.
- Ho diciassette anni, che diamine di rughe vuoi che mi spuntino? – disse giustamente, con la voce ancora impastata.
David non lo prese in considerazione e gettò Tom per terra, piantandogli un piede sul petto e squadrandolo con cattiveria dall’alto.
- David… - mormorò Bill, comprendendo solo in quel momento cosa stesse succedendo, - Si può sapere cos’è che stai facendo a mio fratello e al mio chitarrista?
- Questo idiota! – motivò l’uomo, schiacciando il piede più in profondità nel suo sterno, - È un idiota!
- …sì, se l’hai detto, immagino che tu ne sia convinto…
- Non è che ne sono convinto, lui lo è!
Tom si riprese appena, sollevandosi da terra.
- D-David… - mormorò, sconvolto, - P-Prometto… rientrerò in orario… s-scusa…
- La vuoi finire di scusarti per qualcosa che non mi interessa?! – tuonò il manager, ripescandolo da terra e rimettendolo in piedi.
Bill si massaggiò la fronte e corse in aiuto del fratello, rimettendogli a posto i vestiti ormai laceri e imbrattati di terra.
- David, temo che Tom non capirà mai, se ti ostini ad essere così criptico.
Il manager incrociò le braccia sul petto e riprese a picchiettare il pavimento con la punta della scarpa.
- Tom, ricordi che discorso abbiamo fatto quando abbiamo cominciato questa meravigliosa avventura nel mondo del pop-rock adolescenziale?
Tom lo fissò con occhi vuoti.
- …che… che… Bill…?
Bill sospirò e scosse il capo, demoralizzato.
- Era qualcosa… - si sforzò il ragazzo… - su… tipo… la tua percentuale…?
- A parte quello!
- …ehm… i riposini di bellezza…?
- Non dire idiozie!!!
- Ehm… ehm… io… i… i vestiti…?
- LE QUESTIONI SENTIMENTALI, brutto cretino che non sei altro!!!
Tom spalancò gli occhi e abbandonò le braccia lungo i fianchi.
- …in che senso? – chiese innocentemente, senza capire.
David si mise le mani fra i capelli e cominciò a sbraitare come un ossesso, mentre un cane abbaiava in lontananza e qualche luce del palazzo si accendeva, mostrando le sagome di persone frustrate che avrebbero voluto dormire ma che non ci riuscivano a causa dei suoi schiamazzi.
Bill prelevò suo fratello dallo stato di catatonia in cui si trovava e lo costrinse a sedersi sui gradini, per poi accucciarsi al suo fianco e stringerglisi contro, cercando di ripararsi dal freddo dell’alba – con sommo compiacimento di David che, pur disperandosi per l’ottusità del suo chitarrista, continuava ad osservare con attenzione ogni mossa dei due fratelli.
- Tom, devi essere più cauto quando vai in giro per discoteche a pomiciare con le ragazze.
- Che?! Come fai a-
- Lo sai come sono i paparazzi… c’è già il web invaso dalle foto…
Il ragazzo si passò una mano sugli occhi, comprendendo improvvisamente il perché di tutto quel disastro.
- Le ha viste…?
- Le ha viste. – annuì Bill, battendogli cordialmente una mano sulla spalla.
- Non cercare di sfuggire alle tue responsabilità!!! – gridò David, afferrandolo nuovamente per la collottola e rimettendolo in piedi, - Adesso ricordi quali erano i termini dell’accordo?
Tom sospirò.
- Dare corda alle fangirl. – esalò, demoralizzato.
- Più precisamente?
Il ragazzo sospirò ancora, e lanciò uno sguardo strappalacrime a suo fratello, che si limitò a scuotere le spalle e guardare altrove, come dire “che ci vuoi fare, lo sai che è così”.
Tom si rassegnò a rispondere.
- Dal momento che siamo gemelli… - iniziò.
- …sì? – lo incitò il manager, stringendo minacciosamente la presa sul suo collo.
- …e dal momento… ossignore…
- Parla!
- …dal momento che alle ragazze… senti, David, lo so io e lo sai tu, mi dici che motivo ho di ripeterlo?!
- Devi imparare la lezione! Tu, ottuso ragazzino sessualmente iperattivo!
Tom socchiuse gli occhi e incurvò le spalle.
- Dal momento che alle ragazze piace immaginare il twincest… - mormorò, - …Dio ci salvi e ci perdoni, twincest è ciò che dobbiamo dare loro.
- Esatto! – esclamò trionfante David, lasciandolo finalmente andare, - Anche perché, se dovessimo affidarci alla vostra musica per vendere, rimarremmo poveri in canna fino alla fine delle nostre vite, e sareste costretti a prendervi cura di me fino a quando non sarò vecchio come il cucco e semi-decomposto!
- Ew, David, un po’ di delicatezza, mi sono appena svegliato… - si lamentò Bill, con una smorfia di disgusto.
- E non è tutto! Vivremmo sotto un ponte e dovreste cambiare i miei pannolini della vecchiaia, e puzzerei come una carogna, e sarebbe solo per farvela pagare!
I due fratelli chinarono il capo ed annuirono ubbidienti – come ci fosse qualcosa cui annuire.
- Quindi, qual è la morale della fiaba? – chiese il manager per concludere, sollevando un dito con fare minaccioso.
Tom e Bill sollevarono una mano.
- Promettiamo di fare i bravi, da oggi in poi. – dissero all’unisono.
David approvò con un deciso cenno del capo.
- Benissimo! Ora possiamo tornare tutti a nanna, e ci rivediamo domattina, freschi e riposati, alle otto in punto!
Dopodiché, scomparve oltre la porta, lasciando i due poveri gemelli ancora un po’ sconvolti sull’uscio di casa.
- Bill… - lo chiamò Tom, lamentoso, - Ricordami perché abbiamo deciso di formare un gruppo?
Gli occhi del ragazzo si fecero immensi e brillanti come palle da discoteca.
- Ma perché la Musica è la nostra vita, ovviamente! – dichiarò appassionato, giungendo le mani sul petto poco prima di rientrare in casa, saltellando come uno stambecco.
Tom fissò la porta ancora spalancata con un misto di rassegnazione e disperazione negli occhi.
Era totalmente perduto.
Genere: Comico, Demenziale, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack, Incest.
- E se il twincest fosse una meravigliosa realtà? Be', non sarebbe poi tanto meravigliosa. Almeno a detta dei protagonisti.
Note: WIP.
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QUANDO L’AMORE BRUCIA I NEURONI
GUSTAV SCHÄFER SI RACCONTA

Lasciatevelo dire da uno che col twincest – quello vero – è costretto ad avere a che fare tutti i giorni che il buon Dio manda sulla terra: non c’è niente, niente di bello in due gemelli che scopano.
O, a voler essere totalmente sinceri, non c’è niente di bello in due gemelli che stanno insieme ma non scopano.

Quando, nell’innocenza dei miei tredici anni, ho deciso che i gemelli Kaulitz sarebbero stati la chiave per il coronamento del mio sogno più infantile e remoto, ho deciso anche che i loro insopportabili caratteracci valevano bene l’obiettivo finale, e che, perciò, potevo sopportarli, e farlo con gioia, se questo avesse significato la possibilità di suonare a livello internazionale.
Era evidente che mi stavo condannando a morte e ancora non lo sapevo.
- Tu non capisci.
Lascio roteare lo sguardo, sbuffando annoiato e fissando il paesaggio bianco di neve oltre la finestra della mia camera, con una sorta di tenerezza nostalgica. Nel senso che preferirei trovarmi sotto una bufera piuttosto che continuare questo discorso.
Voi fangirl decisamente non avete idea.
Io vi conosco.
Voi state lì, protette dalle quattro mura delle vostre stanzette tappezzate di poster e dall’anonimato tipico di internet, e vi limitate a buttare giù fantasie più o meno erotiche che avete perfino il coraggio di spacciare in giro con orgoglio, e le credete intriganti, sexy, tenere; e poi andate sui forum e argomentate seriamente che no, non credete che fra Bill e Tom ci sia veramente una storia, e che no, non vorreste mai che ci fosse sul serio, perché poverini non potrebbero mai essere felici, dal momento che la società fa schifo, l’umanità è composta da personaggi osceni che non comprendono l’importanza del Vero Amore, eccetera eccetera.
Lo ripeto. Voi non avete idea.
Avere a che fare coi gemelli era già difficile prima. Da quando poi hanno deciso di fare outing – seppure solo all’interno della ristrettissima cerchia di persone che, lo sapevano, non li avrebbero abbandonati neanche di fronte a confessioni ben peggiori – ormai qui non si vive più una vita normale: si vive in un delirio. Per di più, totalmente disorganizzato.
- Gustav! – si lamenta il Kaulitz maggiore, agitando i pugni in aria, - Mi stai ascoltando?!
- No. – rispondo sinceramente, lasciandomi andare di schiena sul letto, - Facevo considerazioni interiori sulla vita di merda che mi avete costretto a vivere da quando avete deciso di mettervi insieme, da cretini che non siete altro.
Se c’è una cosa, una sola, che mi solleva dalla depressione, è stuzzicare Tom su questo argomento. È così deliziosamente irritabile, quando si parla di Bill… si vede che si sente in colpa, dal momento che è stato lui ad irrompere in camera di suo fratello una mattina e fargli presente che ciò che provava per lui non era più considerabile “amore fraterno”.
E non sto esagerando, con le dinamiche.
Ma per questa storia dovreste chiedere a Georg, davvero. Non fosse una tragedia, sarebbe uno spasso.
- La prossima volta che m’innamoro di mio fratello, Schäfer, mi assicuro di scriverti prima una lettera di avviso. – borbotta infatti il nostro incazzosissimo Tomi, acido come sempre, mostrandomi il medio.
- Fortunatamente non hai altri fratelli. – rispondo io, gelido. – E guai a te se cominci a considerarmi tale. Ti assicuro che non lo sono, il nostro non sarebbe considerabile incesto.
- Non è che… - comincia a protestare lui. Poi, probabilmente, si rende conto del fatto che cercare di argomentare seriamente una difesa contro una presa per il culo è del tutto inutile, e si rassegna a provare a tirarmi uno scappellotto sulla fronte, che però io evito con grazia rimettendomi seduto. – Fanculo, stronzo! – si limita quindi a commentare, sfilandosi una scarpa e tirandomela addosso senza tanti complimenti.
Ora, io so che Tom non è completamente stupido. O meglio, so che non lo è affatto. Solo che si ostina a dimostrare la propria intelligenza solo in ambiti della propria esistenza del tutto imbecilli. Per dire, il Monopoli, che suo fratello ama tanto. Mai una volta che lo si riesca a battere! Un po’ anche perché David ha fiutato in lui una certa scaltrezza a livello manageriale, e lo sta allevando come un piccolo di alligatore perché segua le sue brillanti orme, ma sono propenso a credere che la maggior parte del merito vada comunque a Tom.
Quindi io so che la persona che ho davanti in questo momento non è idiota.
Solo che, davvero, in occasioni come questa mi riesce difficile crederlo.
- Vuoi piantarla di perderti dentro la tua testa e stare ad ascoltarmi? – si lamenta, sconvolto dalla facilità con cui mi distraggo pur di non starlo a sentire.
A questo punto mi arrendo e annuisco. Neanche io sono stupido.
- Avanti. – incito bonario, - Qual è il problema?
- Che non me lo scoperò mai, è ovvio. – confessa lui tranquillamente.
Se questo fosse un cartone animato, io come minimo finirei gambe all’aria mentre in lontananza una palla di fieno rotola fra i cactus.
Trovandomi invece palesemente catapultato in una kaulitzest neanche tanto originale, sono fregato.
- Tom, fai schifo. – borbotto, fissandolo basito, - È di questo che blateri da mezz’ora?
- Ovviamente no! – ammette lui, recuperando la scarpa dal mio letto e rinfilandosela, - Ma dal momento che non mi hai ascoltato sicuramente non lo sai! Sto parlando del Natale, cretino di un batterista che non sei altro.
- Mancano ancora tre dannatissime settimane al venticinque, Kaulitz! Cosa diavolo vuoi da me?!
Odio perdere la calma, ma Tom mi ci costringe ogni santissima volta, è indecente.
- C’è che, da cretino quale sono – argomenta con fare esagitato, - mi ritrovo al quattro con trenta euro e la drammatica certezza di scoprire le mie stesse tasche sempre più vuote giorno dopo giorno finché non avrò esaurito i liquidi! E non ho idea di cosa comprargli!
- …Tom, che c’entra questo col sesso?
Lui mi fissa come fossi scemo.
- Non capisci un cazzo di femmine, Gustav.
- Neanche tu, se non hai ancora realizzato che tuo fratello non lo è. – è la mia serafica risposta, mentre mi tiro indietro sul materasso per poggiarmi di schiena alla parete.
- Sai cosa intendevo! – sbotta lui, sfilando di nuovo la scarpa e lanciandomela addosso, abbastanza lentamente perché io possa sollevare una mano e bloccarla prima che vada a colpirmi in viso.
- Tom, cosa vuoi che ti dica? – protesto mugugnando e facendo roteare la scarpa, tenendola per i lacci, - Non posso farci niente se non hai un centesimo e neanche uno straccio d’idea per un regalo che ti renda scopabile agli occhi del tuo stesso fratello. – mi interrompo, e anche la scarpa smette di girare, afflosciandosi lungo il mio avambraccio. – Dimmi che non ho davvero detto qualcosa di simile…
Tom scuote il capo, serio ma vagamente compiaciuto.
- È bello che tu stia cominciando ad abituarti! – mi rassicura, mentre io medito di raggiungere il mio manager e chiedergli una rescissione di contratto immediata. – Comunque, - continua imperterrito, ignorando il palese disgusto che provo nei confronti suoi, per essere così drammaticamente idiota, e miei, per essere altrettanto drammaticamente scemo, - è anche affar tuo. Se non riesco a risolvere questo problema, sarò molto irritato. E se io sarò irritato, anche Bill lo sarà. E se lo saremo entrambi, anche David si irriterà.
- …questo elenco finirà prima di arrivare ai vertici del tuo albero genealogico o…?
- Schäfer, mi stai facendo incazzare!
- Ma scusa, Tom, vieni a rompere le palle per motivi del tutto discutibili, per usare un eufemismo, e dovrei pure prenderti sul serio?!
- Te lo do io un motivo per prendermi sul serio: voglio che mi accompagni a cercare un regalo carino per Bill.
Sapevo che stamattina avrei dovuto scendere dal lato destro del letto.
- …oggi?
- Ora. Subito.
- Ma…
- Per forza. O i miei soldi scompariranno e arriverò alla vigilia di Natale a mani vuote. E sarò costretto a sventrarti e offrire a Bill le tue viscere come dono.
Deglutisco rumorosamente, osservando ancora la bufera che imperversa all’esterno. Non so che prospettiva sia meglio, se essere assassinato dal mio chitarrista fra tre settimane o da una quantità abnorme di neve fra dieci minuti. La scelta è ardua.
- Va bene. – concedo infine.
Tanto so già che sarà una giornata di merda.
*
- È ovvio che non lo scoperò mai.
Gli sollevo addosso uno sguardo disgustato, e lui deve percepirlo, perché mi guarda a propria volta e bisbiglia un infastidito “che vuoi?!”, prima di tornare a rigirarsi fra le mani il peluche a forma di ratto che ha trovato in un cestone.
- Che voglio, chiede lui. – borbotto irritato, sfilandogli il topo di mano e gettandolo in un mucchio di pinguini, - Primo: non è che siccome noi siamo stati così dolci, meravigliosi e comprensivi da accettarvi senza farvi problemi, allora deve farlo anche il resto del mondo. Quindi abbassa la voce. E in secondo luogo, comunque, non è che siccome noi siamo stati così dolci, meravigliosi e comprensivi da accettarvi senza farvi problemi, allora io devo essere costretto ad ascoltarti parlare impunemente di sesso, o meglio, del sesso che non riesci a fare! Quindi piantala.
- Non capisco perché il sesso possa essere un argomento naturale per chiunque tranne che per me e Bill! – strilla lui a quel punto, completamente dimentico di essere in un centro commerciale, - Non ho mai dovuto aspettare tante settimane per una scopata, sono allibito!
Lo fisso, sconvolto.
- Tom, se fossi tuo fratello neanche io te lo darei. Sei un uomo veramente pessimo!
- Come osi?! – ricomincia a strillare l’idiota, recuperando il sorcio dal mucchio di pinguini e prendendo a sprimacciarlo senza delicatezza, - Io sto qui che mi ammazzo per cercare un regalo carino, e tu mi dai del pessimo! È questo posto, che è pessimo! – aggiunge, evidentemente insoddisfatto della quantità enorme di stronzate già dette, - Visto che il regalo migliore che si riesce a trovare è questa specie di topo di fogna imbottito!
Io sospiro e libero il topo dall’agonia cui è costretto, nascondendolo più a fondo nel mucchio dei pinguini, perché Tom non possa più ritrovarlo.
- Abbiamo visto anche delle cose carine, prima. – gli ricordo puntuale, scrollando le spalle.
- Sì, certo. Tipo cosa, secondo te? La paletta per la pasta con le canzoncine di Natale incorporate?! Dico, scherzi?! Se mi presento con una roba simile, altro che sesso: come minimo Bill me la ficca su per il culo. E poi fa partire Jingle Bells!
- Ma lo vedi che fai schifo?! – rabbrividisco io, allontanandomi da lui in un gesto repentino e sconvolto, per quanto del tutto giustificabile. – E comunque c’era anche altro!
- Se parli di quello stupido salvadanaio a forma di porcello al quale si allungava la coda man mano che lo riempivi di soldi, neanche ti dico come potrebbe usarlo Bill su di me se glielo regalassi.
- Te ne sono grato. – sbuffo demoralizzato. – Ma c’era anche quell’altro salvadanaio… quello a forma di piantina, che più lo riempivi più cresceva…
Tom rotea gli occhi e si allontana a grandi passi verso il reparto cosmetici.
- Mio fratello va dal parrucchiere tre volte a settimana e si trucca quanto la versione alta e magra di Christina Aguilera, cosa cazzo vuoi che se ne faccia di un posto dove conservare i soldi che non conserva?!
Be’, che dire. Ha ragione anche lui.
- Tom, si può sapere cosa stai andando a fare di là? – mi limito a chiedere, alquanto esasperato, seguendolo controvoglia, - Non mi risulta che Bill sia a corto di trucchi, sinceramente.
- Ma che ne so! – sbraita, totalmente rincretinito dagli odori e dai colori tipici di quel reparto, - Sto cercando di farmi venire un’idea, e per inciso, tu non sei affatto d’aiu-…!!!
Vedendolo fermarsi nel mezzo del nulla, con un’espressione idiota sulla faccia, tutto rigido sulle gambe come la pertica che è, quasi mi preoccupo.
- Tom, che diavolo hai? – cerco di capire, sollevandomi sulle punte per verificare che nei suoi occhi sia ancora presente la scintilla della vita. Se muore mentre è con me, poi vallo a sentire Jost.
- Gustav…! Guarda!!! – ansima lui, sconvolto, indicando uno scaffale mentre sul viso gli si apre un sorriso beota.
Io seguo la mano e raggiungo una papera. Sì. Proprio una papera. Quindici centimetri d’altezza, dieci di larghezza e un’altra quindicina abbondante di profondità di papera bianca e arancione in plastica.
- Che cavolo sarebbe quello?
- Come fai a non capirlo?! – mi riprende lui, afferrandomi per la collottola e spingendomi più vicino all’aggeggio, - È uno di quei cosi che asciugano lo smalto!!!
Mi avvicino ancora un po’ e, non capendo, prendo l’oggetto fra le mani, per esaminarlo più attentamente.
È una papera del tutto normale, a parte il fatto che, in effetti, l’apertura del becco è larga più o meno quanto lo sono le dita di una mano. Faccio la prova, infilandole nell’apposito spazio dall’indice al mignolo.
- Ehi, è vero! – ammetto, sbigottito.
Tom mi strappa l’affare di dosso – rischiando di portar via assieme a lui pure un buon numero di falangi – e, disinteressandosi completamente della tragedia alla quale avrebbe condannato i Tokio Hotel se mi avesse menomato, saltella compiaciuto verso le casse.
Io neanche mi lamento, tanto so che sarebbe inutile. Non ce la faccio proprio, però, a non lasciarmi sfuggire un versaccio disgustato mentre ascolto ciò che borbotta felice mentre si mette educatamente in fila.
- Se non me lo dà dopo questo, non me lo darà proprio mai più!

È questo che intendo quando dico che voi fangirl non capite. Non avete la più pallida idea di cosa significhi avere a che fare con due gemelli innamorati. Anche perché l’amore è pericoloso. Non si limita a bruciare tutti i neuroni presenti nel cervello di chi lo prova, no, contagia anche i cervelli di quelli che li circondano!
Costringendo tutti a un’incipiente e precoce demenza senile.
Che, sinceramente, mi sta più che bene se affligge il mio manager ultra-trentacinquenne.
Mi sta un po’ meno bene se affligge me, che di anni ne ho venti. E sono ancora tragicamente pieno di belle speranze, a dimostrazione che della vita, è ovvio, non ho ancora capito un accidenti.
*
Io e Tom rincasiamo nell’esatto momento in cui rincasano Georg e Bill. Dallo sguardo del mio povero bassista, e dal pacchetto incartato e infiocchettato che Bill sbatacchia in giro per la casa, comprendo che la sua giornata non dev’essere stata granché migliore della mia, perciò sospiro e gli schiocco un’amichevole pacca su una spalla, mentre lui mugugna disperato e corre verso il divano, sul quale si abbandona esausto mentre, dall’altro lato del loft, David rimprovera aspramente i gemelli per essere usciti con un tempo che “neanche i vichinghi sarebbero stati in grado di sopportare”.
Scuoto il capo e mi avvicino a Georg, sprofondando sul divano al suo fianco e accendendo la televisione. Su MTv becco Ready, Set, Go! e ritengo più opportuno spegnere nel momento esatto in cui Georg ricomincia a mugolare come se stessero cercando di ammazzarlo.
- Giornata stressante, eh? – chiedo partecipe, cercando di consolarlo con qualche altra affettuosa pacca.
- Non puoi neanche immaginare. – borbotta lui, riportando dietro l’orecchio una ciocca di quell’improponibile tenda che si ostina a chiamare frangia e che passa la propria intera giornata a cercare di accecarlo ficcandoglisi negli occhi quando meno se lo aspetta. Poi si ferma, tossicchia e aggiunge: - Il twincest fa schifo.
Io ridacchio. Sollevo lo sguardo e adocchio Bill e Tom che, nel mezzo del corridoio che separa le loro stanze, cercando di nascondersi i pacchi regalo a vicenda e finendoo con lo scontrarsi a metà dell’aria fra loro in bacetti fugaci e terribilmente teneri a fior di labbra. David li fissa da qualche metro di distanza, scioccato, e poi si rifugia in cucina borbottando qualcosa sull’indecenza, mentre Tom prende a trascinare Bill verso il bagno, tra le sue deboli quanto inutili proteste.
Scrollo le spalle.
Georg si lascia andare a tutto il repertorio di versetti disgustati che inscena quando è invidioso del fatto che i gemelli pomicino comunque più di lui.
- Che vuoi farci? – sbotto divertito, - Sono canon!

Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, Tom/OFC.
Rating: R
AVVISI: Slash, Angst, OC, What If?, Het, Underage.
- "Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
"
Note: Che io sia riuscita a finire questa storia, tanto per cominciare, è un miracolo XD L'ho cominciata all'incirca un paio d'anni fa, dopo aver messo le mani su questo articolo e anche su quest'altro. Fermo restando che non credo a una sola parola, l'idea era così sfiziosa che non ho proprio potuto impedirmi di plottare a riguardo XD Solo che dopo un po' le cose da fare, i fandom e tutto il resto, come spesso accade, si sono accavallate, ed ho lasciato perdere la scrittura quando ero più o meno a metà della storia.
Dopo due anni (che poi sono il motivo per cui lo stacco stilistico fra la prima e la seconda parte della storia è così evidente, soprattutto nell'uso dei corsivi ma anche in generale nelle scelte narrative, e ci mancherebbe altro che non fosse evidente, aggiungerei), non credevo che sarei riuscita a riprenderla e concluderla, ma il COW-T ha fatto anche questo miracolo. Il prompt Famiglia per la seconda missione della terza settimana era troppo perfetto per non convincermi a muovere il culo e contribuire alla causa con quella che sapevo sarebbe stata una storia piuttosto corposa. Così, anche se fa schifo, posso illudermi che abbia una sua validità lo stesso. *gocciolone*
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LOVE IS NOISE

Io ho sedici anni. Sono svizzera. O tunisina. Sono tedesca, suppongo, perché la Germania è tutto ciò che riesco a ricordare da che ero molto piccola. Comunque, non sembro tedesca. Non sembro neanche svizzera. La mia pelle è scura – non nera, però: color caramello, identico a quello della mia madre biologica.
A Vati piace il colore della mia pelle. Anche allo zio piace tanto. Io sono convinta che Mutti lo odi, comunque. Per quanto riguarda me, non saprei: non odio i miei colori, ma se Vati, alla fine, sceglie sempre Mutti, vuol dire che gli piace anche la sua pelle bianchissima e così orgogliosamente tedesca. Ogni tanto mi piacerebbe essere bianca.
Ah, mi chiamo Luise Maria. È un nome orrendo ma non riesco ad odiarlo. Primo, perché è il nome di nonna, e nonna è stupenda. Secondo, perché Vati è un mammone, ed è orgoglioso del fatto che sua figlia si chiami come la sua adorata mamma. Terzo, perché Vati questo nome se l’è tatuato sul braccio. E sì, okay, lo so che non l’ha tatuato per me ma per nonna, ma non c’entra, mi porta comunque scritta sulla pelle. Ed è una sensazione bellissima, perché lui si scrive addosso solo le cose irrinunciabili: c’è la B che è il suo marchio da guerriero, c’è Berlino che l’ha visto crescere, c’è la Verità che è ciò in cui crede, c’è quell’orrido Electro Ghetto che gli ha dato i soldi e poi c’è Luise Maria, che sono io e che è la nonna.
Vati è molto geloso di ciò che si scrive sul corpo. Davvero, ci mette solo la roba importantissima: non s’è scritto addosso niente neanche su Mutti, sebbene ogni tanto mi venga da pensare che la B sul collo non stia solo per Bushido. Cioè, intendo, forse è come il Luise Maria: un tempo era solo per nonna, ora è anche per me. La B un tempo era solo per Bushido, forse oggi è anche per Mutti.
Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
Ah, dimenticavo: la mia Mutti non è una donna. È Bill Kaulitz.
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Mutti la mette sempre in questo modo, quando racconta la storia: se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima e molto più facilmente. Ora, quando Mutti comincia in questo modo poi possono succedere tre cose diverse: se io sono in modalità “Vati-è-meraviglioso-e-chiunque-lo-tocchi-merita-di-morire”, litighiamo; se Mutti è in modalità “Diva-lamentosa-random” ed io non mi sento troppo acida, la ascolto lamentarsi di Vati e poi ci facciamo una risata; se, infine, Vati è in modalità “sono-un-figo-il-cui-unico-errore-è-stato-prendervisi-in-casa”, allora ci arrabbiamo tutti e tre, litighiamo furiosamente, io vado a dormire da zio Tom e Vati dorme sul divano.
La prima situazione alla fine si risolve sempre bene, perché io vado a farmi coccolare un po’ da Vati e dopo qualche minuto Mutti si scusa – perché può sostenere un carico di sensi di colpa molto limitato, la mia Mutti, con quelle spalle così sottili, è solo per questo che alla fine è così dolce.
La seconda situazione non presenta mai problemi di sorta.
La terza fa schifo perché odio quando Vati si arrabbia. Anche se significa che posso restare a dormire da zio Tom con una scusa valida, non mi piace lo stesso.
In ogni caso, queste situazioni non si sviluppano mai abbastanza in fretta da impedire a Mutti di raccontare tutta la storia con dovizia di particolari, perciò la so quasi a memoria, ormai. Ed è una bella cosa, perché quanti altri ragazzi possono dire di conoscere a memoria l’intera storia della propria esistenza? La maggior parte di loro si affida agli album di fotografie, e non saprà mai di aver fatto o detto cose tremende o bellissime, quand’era più piccolo, semplicemente perché nessuno lo ricorda, ed anche se lo ricorda nessuno lo ripete abbastanza da imprimerlo nella memoria di tutti.
Mutti invece è così: se non ricorda tutto tutto, va in paranoia. Detesta perdersi pezzi di ciò che ama. Che poi è il motivo per cui si ostina a ricordare con orrore i pochi infausti giorni che, da bambino, passò lontano da zio Tom, quando tornò prima dal campo estivo. Odia essersi perso i particolari.
A volere dire esattamente le cose come stanno, io non ricordo proprio tutto della mia esistenza. Ho un buco enorme, e il buco enorme sono i cinque anni di vita che precedono il mio arrivo in questa casa. Non credo mi sia successo qualcosa di spiacevole – non ho brutti ricordi della mia madre biologica e non credo affatto che mi maltrattasse, se è questo che vi state chiedendo – è solo che nessuno me li ha mai raccontati, quei cinque anni. Ed io perciò non ne so niente.
È per questo che ho qualche difficoltà ad iniziare questo racconto: non so da che parte prenderlo. Perché la mia storia in effetti comincia con la mia nascita, non col mio arrivo a Berlino. Solo che ho difficoltà a ricondurre la mia nascita all’inizio di qualcosa, visto che la mia nascita, in teoria, non avrebbe dovuto essere l’inizio di niente.
Neanche di me.
Mettiamola così: il mio Vati è stupendo, okay?, ed io lo amo tantissimo. Non ne avrei voluto un altro neanche a poter scegliere. Oddio, non lo so, forse se a cinque anni me l’avessero proposto ne avrei scelto uno diverso. Comunque, ora come ora, non ne vorrei un altro neanche per scherzo.
Ciò non toglie che abbia fatto i suoi bravi errori nella vita. E con errori non mi riferisco al ridicolo taglio di capelli che ancora portava fino a qualche anno fa o a certe patacche che tutt’oggi indossa al posto di orologi umani ed eleganti – per non parlare dei mocassini.
Il mio Vati mi voleva morta.
È brutto da dire senza filtri, ma io stessa preferisco pensarla così, con secchezza, schiettamente, perché fa meno male che non aggiungendoci sopra melodramma gratuito.
Mi consolo dicendomi che non è che volesse morta proprio me, ecco, voleva morta un’idea. L’idea di potersi ritrovare a ventinove anni con una bambina da accudire ed una tizia da tenersi in casa con la quale aveva passato insieme quanti, sei, sette giorni? Avrebbe spaventato anche me.
Forse anch’io avrei pagato per uccidermi, ecco.
Per questo non ce l’ho con lui. Non più, almeno.
Insomma, ha pagato. Sui giornali, a quanto ho capito, è uscito fuori che la gravidanza di mia madre era stata una truffa, che non c’era di mezzo nessun bambino. Questo perché allora Vati andò in giro apposta a smentire tutto. Buttò lì una storia di ricatto… ne uscì pure maluccio, peraltro, perché era un periodo un po’ burrascoso per il suo rapporto coi media, avevano già cominciato a dargli addosso in tutte le lingue per altri motivi e quindi, quando lui andò in giro a fare la voce grossa e a borbottare “Nessuno ricatta Bushido”, tutti diedero ragione a mia madre, anche se non sapevano se ci fosse davvero un bambino di mezzo. Io c’ero, sì, ma loro non potevano saperlo. Mia madre poteva davvero essere una delle tante in cerca di denaro che truffano un tizio ricchissimo basandosi sul niente, ma Vati era Bushido, il King of Kingz, quello che spaccava le teste dei diciannovenni in Austria e che scatenava le risse e che aveva il passato da criminale di strada e un mucchio di canzoni che non era neanche possibile riprodurre in pubblico perché vietate per legge, perciò per tutti loro aveva automaticamente torto.
Quale che fosse la reazione comune, comunque, Vati pagò. Mia madre prese i soldi ma non portò a termine la missione. Mi tenne. A tutt’oggi – forse perché di lei non ricordo quasi niente – non so perché lo fece. Non voglio pensare che mi ritenne più utile da viva. È un pensiero meschino – non tanto nei suoi confronti, quanto più nei miei. Significherebbe farsi male gratuitamente, e siccome ho già abbastanza casini di mio, almeno da un anno a questa parte, non ho proprio bisogno di altri motivi per cui soffrire.
Che poi è il motivo per cui sto buttando giù queste memorie, perché forse se raccolgo tutto e faccio una cosa per bene magari trovo anche le parole per dire la verità a Vati e Mutti senza rischiare la morte di nessuno. Al limite, se non funziona la via della razionalità, passo il malloppo a Mutti e le dico qualcosa di carino tipo “l’ho scritto per farti piacere”. Mutti ci cascherà sicuramente – è il vecchio trucco alla Notebook, funziona sempre – ed eviterà di darmi addosso per i contenuti.
Nota per me: cancellare le ultime cinque righe.
Mi lascio andare contro la sedia e ticchetto sulla scrivania con la matita. Punta-gomma, punta-gomma, punta-gomma. Smetto quando vedo la superficie in fòrmica ricoprirsi di puntellini di grafite. Karima mi lapiderà. O mi ucciderà. O prima mi lapiderà e poi mi ucciderà. Ci credo che fa la tata a Vati da due secoli e mezzo, sono uguali, affettuosi ma burberi.
Sospiro pesantemente e cancello i puntellini.
Trottolo si mette a vibrare quasi immediatamente, mandando il tavolo in rivolta sotto le mie mani. Trema tutto, è divertentissimo. Trottolo è il mio cellulare, si chiama così da quando la suoneria ha smesso di funzionare. Vati si rifiuta di comprarmene uno nuovo perché il cellulare s’è ridotto in queste condizioni in seguito ad un volo che gli ho fatto fare fuori dalla finestra. Ero nervosa, che dire. Da allora funziona solo la vibrazione, e per sentirla anche a distanza ho dovuto metterla ad un livello assurdamente alto, e DaDa una volta sentendolo ha sbottato “che è ‘sto trottolio?!”, sentendo provenire il suono dagli abissi della mia borsa. Da quel momento è Trottolo.
Mi allungo e recuperarlo e rispondo con un sorriso quando vedo chi sta chiamando.
- Dimmi che la Madre Badessa e il Sovrano Assoluto non sono in casa.
Rido di cuore.
- Ma non dovevi lavorare oggi, - sghignazzo maliziosa, - zio Tom?
- Dio, Lu! – sbotta lui oltraggiato, - Mi vengono i brividi quando mi chiami così!
- Be’, sei mio zio, no? – ridacchio, coprendomi le labbra con una mano.
- Tecnicamente no! – asserisce lui, esaltandosi improvvisamente, - Quindi, che ne diresti—
- Che ne diresti di parlare di meno e muoverti di più? – suggerisco a bassa voce, - Saranno a casa fra un’ora al massimo.
- …sono già per strada.
Interrompo la conversazione e mi lascio andare ad un risolino stupido mentre finisco di togliere le macchie di grafite dal tavolo.
Sono i drammi della vita familiare; hai un Vati un po’ severo ed una Mutti comprensiva ma facilmente preoccupabile, hai una cameriera burbera ma complice, ma soprattutto hai uno zio che non è veramente tuo zio, che è bellissimo e che ami follemente da quando eri tanto piccola che hai smesso di contare gli anni.
Può capitare di mettertici insieme. Succede.
È questo, il mio piccolo grande segreto. Quello che devo trovare il coraggio di dire a Vati e Mutti. Quello per cui sto scrivendo questa storia.
Non è esattamente la fine del mondo, ma oh, ci si avvicina parecchio.
*
Mi annoio a morte. Zio Tom sta blaterando al telefono con DaDa da mezz’ora e fra un’altra mezz’ora Vati e Mutti saranno qui. Non abbiamo ancora scopato e non penso che scoperemo oggi. La cosa mi frustra perché aspetto il ciclo da un momento all’altro e il cretino non capisce che deve cogliere l’attimo se non vuole rimanere a bocca asciutta per la prossima settimana – be’, quattro giorni, ma tre glieli aggiungo per punizione di mia spontanea iniziativa, vaffanculo a lui.
- David, ti giuro che ho mal di stomaco. – cerca di giustificarsi di fronte all’uomo che lo rimprovera al telefono, - E che cazzo, uno non può neanche andare ad agonizzare sul cesso di casa propria, quando sta male? – si ferma. Nel silenzio assoluto, sento l’eco della voce di DaDa strillare “non quando per ‘cesso di casa propria’ si intende tutt’altro, Tom!”, col tono paternalistico che usa anche con Mutti quando arriva in ritardo. – Senti… - sospira, guarda l’orologio, - Fra tre quarti d’ora torno. Promesso. A dopo. – interrompe la chiamata e si lascia ricadere sul divano accanto a me, gettando di malagrazia il telefono sul tavolino.
- …ci tieni a dare un gemello a Trottolo? – chiedo teneramente, adagiandomi contro di lui. È depresso, lo sento dal modo in cui respira, pesantemente, con difficoltà. Oggi non si scopa proprio.
Lui mi fa passare un braccio attorno alle spalle e mi stringe a sé, mugolando deluso. È facile dimenticare che ha quasi il doppio dei miei anni.
- Mi dispiace, piccola. – biascica, ed io rido perché Vati chiama Mutti allo stesso modo, ma al maschile. – David non si decide a mollare l’osso.
- E tu digli la verità. – suggerisco rotolandogli in grembo e sollevando una mano ad afferrare una di quelle intricate meraviglie che si ritrova per capelli, arrotolandomela attorno al dito.
- Sì, certo. – borbotta lui aggrottando le sopracciglia in un modo tutto suo, che non c’entra niente neanche con Mutti; un modo dolcissimo che esprime tutta la sua preoccupazione ed il casino enorme che ha in testa. – Mi vedo già: “ehi, David, ciao! Hai presente Luise Maria? Sì, la figlia di Bushido e Bill, quella che vorresti far sfondare come cantante entro la fine dell’anno? Stiamo insieme già da parecchi mesi. Hai sentito chi è il nuovo allenatore della nazionale?”. – scuote il capo, disperatamente. Io rido e scendo con un dito a disegnare il profilo della sua fronte. Mi fermo fra le sopracciglia e stendo la piccola ruga che gli invecchia i tratti del viso. Lui sorride e si china a baciarmi. Amo quando lo fa. Amo quando sorride prima di baciarmi, gli resta il sorriso sulle labbra ed essere baciati da un sorriso è una cosa stupenda. – Penso che stia capendo qualcosa, sai? – ammette in un soffio, rimettendosi seduto. – Mi conosce troppo bene.
Io sbuffo e mi sistemo meglio contro il suo petto, sfilando le scarpe e tirando i piedi sul divano per stare più comoda.
- Dovresti dirgli che hai una ragazza. – biascico, stringendo un lembo della sua maglietta, - Così almeno smetterebbe di essere sospettoso quando ti vede sparire.
- Cucciola, se vuoi veramente lavorare con David, fai tesoro di questo prezioso consiglio: - solleva un indice con aria superiore, fissandomi serio. – i manager, se gli dai un dito, si fregano il braccio, la spalla e anche buona parte del collo. – sghignazza, - Assieme alla manica della magliettina alla moda che la tua Mutti ti ha regalato per il compleanno. – aggiunge, pizzicandomi sulla spalla al di sopra della suddetta maglia, mentre io ridacchio e mi arrotolo come un riccio attorno a lui. – Seriamente, - riprende, baciandomi sulla fronte, - se gli dicessi che sto con qualcuno poi comincerebbe il calvario del chi è. Ed una volta che sai che qualcuno c’è… - sospira e scuote il capo, - non è così difficile risalire all’identità. Non per David, almeno. – sorride a metà, - L’ha già fatto in passato, so di cosa parlo.
- A-ha, quindi sei già stato con un’altra sedicenne figliastra di tuo fratello e David l’ha scoperto! – lo prendo in giro con aria falsamente stupita.
Lui grugnisce qualcosa e mi tira una guancia.
- Fai meno la spiritosa. E piantala di ricordarmi che sei figlia di Bill!
Mi sollevo sulle ginocchia, piantandomi a cavalcioni sopra di lui.
- Posso provare a fartelo dimenticare, se vuoi. – soffio direttamente sulle sue labbra, e lui si arrende perché per qualche strano motivo non sa proprio resistermi. Non so se sia perché mi tiene vicinissima a sé da quando avevo cinque anni o per qualche altro motivo, so solo che non è mai stato in grado di dirmi no. Per fortuna.
Mi chino a baciarlo e sento subito le sue mani risalire la curva dei miei fianchi e stringersi attorno alla mia vita, possessive. Sono gli unici momenti in cui non importa di chi sono figlia: i momenti in cui sono una cosa sua, i momenti in cui le nostre pelli diventano una, i momenti in cui mi tiene tutta per sé. I momenti che preferisco della giornata.
Interrompe il bacio per scivolarmi lungo il collo – le labbra ancora umide, calde e perfettamente aderenti alla mie pelle.
- Zio… - mugolo estasiata. E lui, inspiegabilmente!, si interrompe all’istante.
- E che cazzo, Lu! – borbotta, abbattendosi esasperato contro la mia spalla, - Ma la vuoi piantare con questo zio di merda?!
- Che palle sei! – mi arrabbio a mia volta, scavalcandolo e lasciandomi ricadere sul divano al suo fianco, - Quando ti fissi sulle cose è la fine!
- Scusa se mi fa senso sentirmi chiamare zio mentre sto cercando di scopare!
- Ma ti chiamo zio da sempre! – protesto io, arrotolandomi in un angolo, - È come se Mutti si svegliasse un bel giorno e decidesse di scoparmi! Io mica smetterei di chiamarlo Mutti!
Lo vedo impallidire e tirarsi indietro.
- Tu sei proprio figlia di tuo padre… - commenta allucinato, - È un’immagine agghiacciante!
Sospiro.
- Se uso Vati per fare lo stesso esempio?
- Lu!!!
- DaDa?
- Ma Diocristo, avrà un centinaio d’anni!!!
- Perché ti sconvolge più DaDa di Vati?
- È… una questione di età!
- È vero, Vati è più giovane di DaDa. Quindi lui va bene?
- Lu!!!
Rido e mi abbatto contro di lui, cadendogli addosso con tanto impeto che finiamo entrambi distesi sul divano, e zio Tom è costretto a manovre incredibili per impedirci di cadere a terra come sassi.
- Ti stavo prendendo in giro… - lo rassicuro baciandogli il mento e tirandogli i dread, - È l’unico modo che ho per farti smettere di chiedere!
- Smetterei di chiedere se tu smettessi di chiamarmi zio, una buona volta. – mi sbuffa contro una guancia. Il telefono sul tavolino ricomincia a squillare, riempiendo l’aria delle note dell’ultimo successo di Samy Deluxe. Zio Tom ha dei gusti orrendi, nemmeno Vati ascolta Samy Deluxe, anche se dovrebbe farlo per mestiere. – Ma non molla proprio mai?! – sbotta istericamente, allungando un braccio a recuperare l’apparecchio. – David, Cristo santo! Finisco di cagare e arrivo!
Non riesco a trattenere una risatina e zio Tom mi fissa con aria omicida. Vicina come sono, posso sentire perfettamente il silenzio dall’altro lato della cornetta cristallizzarsi per qualche secondo, prima di erompere in uno scioccato “Caghi in tandem, Tom?” che mi uccide definitivamente, obbligandomi a ridere se non voglio soffocarmi da sola.
Zio Tom mi guarda, sempre più scioccato, e mi manda a rotolare dall’altro lato del divano con uno spintone tutt’altro che affettuoso.
- Era la televisione! – butta lì, rivolgendosi a DaDa.
La risata del mio aspirante manager è talmente tonante che la sento fino a qui. Ed allo stesso modo sento distintamente il suo “Caghi di fronte alla tv, Tom?”, che mi stende una volta per tutte, costringendomi a schiacciare il naso contro un bracciolo se non voglio farmi riconoscere all’istante.
Il battibecco continua per qualche secondo, ma io non lo seguo più. Poggio la testa contro il braccio e mi lascio andare, osservando zio Tom muoversi nervosamente intorno al tavolino, gesticolando furioso. È così bello che non sono neanche più arrabbiata per il sesso che non abbiamo fatto.
- Perfetto. – lo sento sospirare quando, alla fine, riesce a staccarsi dai rimproveri di DaDa, - Mi ha detto di salutare da parte sua la mia misteriosa ragazza, ed ha aggiunto che si compiace per il suo senso dell’umorismo, visto che rideva per tutte le sue battute.
- Da quando hai una ragazza, Tomi? – borbotta Mutti spuntando alle sue spalle, seguito a ruota da Vati che, quando si accorge che c’è anche zio Tom, grugnisce un saluto indistinto a va a chiudersi nel suo salottino privato.
Mentre zio Tom suda tutte le sette magliette che indossa per lo spavento, io lancio a Mutti un’occhiata inquisitoria.
- È andata male. – risponde lui con un sospiro così teatrale che, se potessi, lo filmerei, lo riprodurrei come l’ologramma della principessa Leila e lo terrei sul comodino per sempre. Io annuisco, abbassando lo sguardo. - Va' a fargli un po' di coccole, su. - mi incita lui, sorridendo conciliante.
Io e zio Tom ci salutiamo con un cenno del capo e basta; è il massimo che ci concediamo in presenza di Mutti e Vati, ultimamente. È stata un'idea di zio Tom, quella di diminuire i contatti. “Siamo sempre stati appiccicati”, ho cercato di oppormi io, “s’insospettiranno, se smettiamo”. Lui mi ha guardato sorridendo come avessi ancora cinque anni ed ha risposto che ormai sono una signorinella, e sicuramente mio padre avrebbe preferito evitare di vedermi comportare ancora come fossi stata una bambina. “A sedici anni non stai ancora seduta in braccio a tuo zio”, ha detto con un sorriso un po’ storto, “a meno che non te lo scopi”, ha concluso dandomi un bacio. Da quel giorno, niente più baci e abbracci in presenza dei miei genitori. Ovviamente, Mutti se n’è accorto ed ha dato di matto: s’è convinto avessimo litigato o chissà cos’altro, ho fatto una fatica bestiale a convincerlo che semplicemente non mi andava più di stargli così attaccata. Ho fatto una fatica bestiale soprattutto perché non era vero che non mi andava più di stargli così attaccata.
Comunque sia, adesso Vati ha bisogno di me, perciò anche volendo non avrei tempo per le smancerie. Trotterello silenziosamente verso la sua tana mentre Mutti rovescia parole addosso a zio Tom pretendendo di sapere tutto della sua giornata nello stesso istante in cui gli racconta della propria. Busso con cautela ed aspetto il permesso di entrare, e nel mentre mi fisso le punte dei piedi nudi con aria un po' incerta.
Quando cinque anni fa la Universal non ha rinnovato il contratto ai Tokio Hotel, il mondo l'ha presa in maniera meno drammatica di quanto non ci si sarebbe aspettati. Me lo ricordo bene, perché non penso potrò mai dimenticare tutte le lacrime che mi ha versato addosso Mutti. Che ha versato addosso a me, addosso a Vati, addosso a zio Tom, addosso a Georg e Gustav, addosso a DaDa, a chiunque. Mutti ha pianto tanto che nessun altro ha sentito il bisogno di farlo. Ha pianto lui per tutti. S'è riempito della tristezza di tutti quanti e l'ha rovesciata tutta da solo, dev’essere stato faticoso da morire, ed infatti alla fine era drenata, la mia povera Mutti. Drenata e stanca e triste ed avrebbe voluto piangere ancora ma erano finite le lacrime, pure quelle degli altri.
È stata la prima volta in cui ho avuto paura per la vita di qualcuno. È una sensazione orribile. Non è come quando sei semplicemente preoccupata e basta, è una cosa più profonda, più disturbante. È quando ti fermi, guardi un corpo emaciato e pallido e ti chiedi “ma io, senza questa persona, potrei mai stare?”. E ti rispondi “no”. Quando ti rispondi “no”, è la fine.
Mutti è dimagrito. Di più.
Ha avuto un sacco di problemi. È finito su un sacco di giornali.
Vati è andato fuori di testa nel giro di due giorni. Non si staccava dal letto, non riusciva a fare niente, stava immobile accanto a Mutti e cantava Schmetterling perché è l'unica sua canzone che a Mutti piaccia davvero. E Mutti piagnucolava e ringraziava ed abbracciava e tirava su col naso e mi chiamava, “Lu, tesoro, vieni qui”, e per un po’ ho pianto io al posto suo, così che lui potesse riprendersi. Solo un pochino.
Ne siamo usciti proprio grazie al fatto che Mutti non aveva permesso a nessun altro di piangere. Zio Tom per primo e di seguito tutti gli altri, non potendo essere tristi, si sono dati da fare, sono corsi ai ripari, hanno rilasciato dichiarazioni, sedato i media, letteralmente barricato la casa quando c’è stato bisogno. Non penso che potrò mai dimenticare l'epica notte del dodici agosto duemilaquattordici, in cui da questa villa non si poté uscire, perché da qualsiasi lato la si guardasse le ombre dei giornalisti appostati si stagliavano minacciose contro le mura gialle. Ed erano siepi di ombre.
Avevo undici anni allora. Avevamo appena finito di mangiare, Vati mi preparava la cioccolata della buonanotte ed io, arricciata sul letto accanto a Mutti, disegnavo palloncini. Mutti guardava fuori dalle finestre, si rigirava i miei ricci fra le dita come anelli e mormorava imprecazioni sottovoce. Era bellissimo ed era anche sciupato da fare paura.
Qualcuno doveva aver fatto la spia sul compleanno di DaDa e sul fatto che intendevamo festeggiarlo con una cena informale proprio qui, visto che Mutti non riusciva ancora a muoversi. C’eravamo ritrovati tutti in trappola prima di poter fare o dire alcunché.
Io non ero veramente spaventata per la mia incolumità – erano già sei anni che mi confrontavo con quella vitaccia, gli appostamenti stavano diventando parte della mia abitudine – più che altro c'era un senso di fastidio che mi scorreva inarrestabile sotto la pelle, ed i palloncini che stavo disegnando li avrei voluti davanti per farli scoppiare tutti a mani nude.
Gli altri, invece, sembravano davvero preoccupati. Suppongo lo fossero proprio, per Mutti: poteva succedere qualunque cosa, nelle condizioni in cui era, e non sarebbero neanche stati in grado di chiamare un’ambulanza senza che il fatto finisse in prima pagina su tutti i giornali della nazione.
È stato allora che è successo: Vati s’è bruciato con la cioccolata, zio Tom ha riso e lui e Georg si sono guardati in quel modo speciale in cui ogni tanto si guardano, quello che sottintende anni di complicità basata su un'amicizia talmente maschia da esprimersi solo in prese per il culo. E solo in senso figurato.
Gustav ha riso a propria volta, indovinando la domanda nei loro occhi esattamente come, suppongo, deve essersi ritrovato a fare spesso quando militava nei Tokio Hotel.
DaDa ha sbuffato.
“Voi non lo farete”, ha detto.
Io mi sono guardata attorno con aria smarrita, perché in tutta sincerità non avevo la più pallida idea di cosa stesse capitando.
Zio Tom s’è alzato in piedi. Gli altri l’hanno seguito. Vati s’è affacciato dalla cucina succhiandosi un pollice, Mutti l’ha guardato, ha riso e ha scosso il capo.
“Tomi...”, ha detto, dolcissimo come solo lui sa essere quando vuole, “Non dovete per forza”.
Zio Tom ha scrollato le spalle.
Georg ha sbottato “Sono secoli che non meno qualcuno. Mi prudono le mani”.
Gustav s’è alzato dalla poltrona con un sospiro falsamente esasperato e intimamente eccitato.
E li ho visti scivolare fuori dalla villa e fronteggiare i giornalisti a muso duro come criminali, esattamente come certi tipi di cui mi raccontava Vati quando Mutti era troppo stanco per darsi da fare con le favole della buonanotte.
Fieri, decisi, arrabbiati.
Il resto è storia, su tutti i giornali.
Zio Tom che sbotta “Avete rotto i coglioni”. Un giornalista che si lancia comunque in qualche domanda sul futuro dei componenti della band. Zio Tom che precisa “Forse non avete capito... avete rotto i coglioni!”. Un altro giornalista che accenna una protesta.
E le botte da orbi che cominciano a volare ovunque nel momento stesso in cui i tre folli si lanciano proprio in mezzo al vespaio. Ridendo come bambini e menando calci e pugni come ne andasse della loro stessa vita.
Dentro casa, Mutti teneva una mano pressata sulle labbra. Per nascondere il sorriso.
DaDa scuoteva il capo e rideva, dando loro dei pazzi, incerto fra la possibilità di chiamare la polizia per porre un freno al disastro in tempo utile o godersi lo spettacolo fino alla fine.
Io, estasiata, stavo col naso appiccicato al vetro e strillavo felice “Mutti, Mutti, i tre moschettieri!”. Vati entrò sbrigativamente in camera, mi rimise seduta sul letto e poggiò la tazza di cioccolata fumante sul comodino.
“Bevi”, disse burbero, lanciando un’occhiata fuori. Poi sospirò ed uscì.
Tenendo la Heckler in mano.
Ci finì in tribunale, per quella piazzata. Ma riuscì a frenare l’Apocalisse e disperse i giornalisti, e Mutti, al mio fianco, sospirò languidamente ed aggiunse “C’è anche D’Artagnan”. Ed è una cosa che spero gli ripeta spesso, perché Vati se la merita proprio.
“Mi dispiace solo non aver filmato niente”, fu il secco commento di DaDa quando gli altri adulti di casa rientrarono, ridendo come deficienti. “Adesso possiamo per favore tagliare la torta prima che arrivi la polizia?”.
In effetti, DaDa arrivò appena a spegnere le candeline.
Comunque, da quel giorno in poi le cose andarono un pochino meglio. Per quanto meglio possano andare delle cose in generale quando la quasi totalità della tua famiglia è sotto denuncia per percosse, minacce e possesso illegale d’arma da fuoco.
I nomi e le vicende sui giornali furono, come spesso accade in quest’ambiente, più benedizioni che maledizioni, e da quel momento in poi le opportunità di lavoro fioccarono per tutti: zio Tom decise di accettare la proposta di DaDa e si gettò nella produzione, Gustav partì in tour coi Foo Fighters come seconda batteria – un sogno diventato realtà, né più né meno – Georg ebbe appena il tempo di laurearsi, finalmente, che subito lo chiamarono a sostituire il bassista degli U2 per un frammento del tour americano, mentre Adam Clayton recuperava da una brutta tendinite. Ed a Mutti venne offerto un intero programma radiofonico, un programma tutto suo.
Che poi è il motivo dello scazzo serale di Vati.
Fra gli anni che ha passato sul fronte del palco e quelli di cui ha avuto bisogno per leccarsi le ferite, Mutti ha sviluppato per lo showbiz musicale un’acredine piuttosto violenta. Una volta me l’ha esplicitata in maniera molto chiara: “A me nessuno ha regalato niente”, ha detto astioso, mentre discuteva con Vati sull’accettare o meno l’offerta di RTL, “Solo prese per il culo da quando ho cominciato a cantare a quando ho smesso”. Un mezzo ghigno. “Ed ora mi offrono un programma e mi dicono per iscritto che potrò gestirlo come vorrò e scrivere tutti i testi delle interviste”.
Vati ha ghignato con lui.
“Ti vogliono vedere litigare con un po’ di gente”, ha chiarito per me che ruminavo spinaci e non capivo.
Mutti ha riso.
“Perché non mi hanno mai visto litigare”, ha aggiunto con un certo orgoglio.
“E non sanno che coi cazzotti vai forte nonostante la french”, ha annuito Vati, compiaciutissimo, mentre posava la forchetta sul bordo del piatto e scendeva ad accarezzargli una mano.
E mentre io li fissavo sognante, trovandoli bellissimi, Mutti ha detto “E sia”. Ed è stato davvero.
BK non è soltanto uno dei programmi radiofonici più ascoltati in Germania. Ha un sito cliccatissimo anche all’estero sul quale vengono caricati i podcast e le traduzioni, perciò in verità il sogno di Mutti è ancora vivo – raggiungere tutti e ovunque – ma quel programma è un disastro: è cattivo.
Io non do torto alla mia Mutti se vuole vendicarsi un po’ in giro. Non gli ho dato torto quando s’è ritrovato i Killerpilze in studio ed ha chiesto lumi sul concept del video di una certa Letzte Minute, così come ha cercato di informarsi sulla nascita del testo, mettendoli mortalmente in imbarazzo. Ed ho riso come una pazza quando ha salutato in diretta l’arrivo di LaFee con un secco “Oddio, tesoro, il vestito ti stringe, sei sicura che la costumista ti abbia dato la taglia giusta?”.
Mutti è così, è scorretto.
Mutti è anche molto coerente.
Ed oggi Vati accompagnava Kay One a presentare il nuovo album solista proprio al BK.
- Sì. – risponde finalmente la voce cavernosa di Vati da dentro la propria tana, - Arrivo fra poco.
Lancio un’occhiata all’orologio da polso. Sono quasi le sette.
- Non sono venuta a chiamarti per la cena. – biascico, - Posso entrare?
Vati grugnisce qualcosa che potrebbe essere un assenso come un diniego, ma è la cosa che fa sempre quando è arrabbiato. Vorrebbe farsi consolare ma non te lo dirà mai ad alta voce, perciò ringhia ed osserva che succede: se ti metti paura e vai via, affonda sempre di più nella propria rabbia ed è capace di riempirti di astio finché campi; se sei coraggioso, se rischi ed entri, se ce la fai a stargli dietro, però, i premi sono abbracci e sorrisi.
Deglutisco e faccio ruotare la maniglia, entrando nella stanza. Vati ha lanciato via la polo nel momento stesso in cui è entrato. Me ne accorgo perché la trovo appesa allo spigolo della libreria, sulla parete a sinistra. Quando a Vati succede qualcosa di brutto è come se avesse immediatamente bisogno di dimenticarselo, di togliere via tutte le tracce. Probabilmente non s’è tolto tutti i vestiti solo perché immaginava che sarei arrivata io.
La polo, comunque, pende dallo spigolo. Io mi muovo verso di lei e la recupero, appallottolandomela fra le mani mentre mi avvicino a lui. Vati, disteso su un tappeto e circondato da cuscini ammonticchiati dietro la schiena e sotto i gomiti, stringe fra le dita con una certa violenza il narghilè e fissa silenzioso il vuoto.
- Non posso credere che tu sia così depresso per Kay! – mugolo contrariata, abbandonandomi al suo fianco con uno sbuffo che scuote l’aria e che lui non mostra di apprezzare particolarmente. – Avanti, ha trent’anni e conosce Mutti da più di undici… sa perfettamente come difendersi dalle sue frecciate!
Vati mi lancia un’occhiata un po’ ambigua, di quelle delle quali non riesci a cogliere il senso perché ha degli occhi talmente scuri che a volte ti ci perdi e ti sembrano vuoti. In realtà ti ci perdi proprio perché invece sono densissimi.
- Lui sì. – butta lì, tirando una boccata dal narghilè, - Sono io che non ho ancora imparato.
Inarco le sopracciglia.
- Sapevi che se la sarebbe presa anche con te. – cerco di farlo ragionare, mentre lui borbotta qualcosa sulle figlie ingrate.
- Ma se l’è presa solo con me! – precisa, lamentandosi come un bambino.
- Ma è perché trova Kay cuccioloso! Avanti, lo troviamo tutti cuccioloso! Anche tu lo trovi cuccioloso!
Vati mugola qualcosa di assolutamente incomprensibile e si arriccia attorno a un cuscino. Io trovo che ci sia un palese spreco di abbracci, in tutto questo, perciò elimino l’impedimento in morbida piuma d’oca e mi sostituisco a lui. Vati mi strizza forte. Il suo petto profuma d’incenso ed è caldo e liscio. Vati è sempre stato bravissimo ad abbracciare.
- Dice che sto cercando di far diventare Kay una copia venuta male di Chakuza.
Annuisco.
- Questo perché ad entrambi Chaku piace. Quindi tu ci trasformi le persone e Mutti si offende quando lo fai. – confermo ridacchiando.
- Sai che sei tutta Bill? Sei d’aiuto quanto un mattone di cemento ancorato ai piedi, cazzo… - borbotta fra i miei capelli, e io rido e mi stringo a lui.
Affondo nel suo profumo e lui mi stringe ancora.
- Mutti ha bisogno di prendersela con qualcuno. – spiego pazientemente.
È una cosa che Vati sa alla perfezione, ed è una caratteristica di Mutti che gli piace pure, perché ce l’hanno in comune, ma ogni tanto gli fa bene sentirselo ripetere. Così lo prende per la maledizione inestinguibile che è e si mette il cuore in pace, ecco. Non so quand’è che si sia messo in testa la vana speranza che Mutti potesse trattarlo come un’eccezione… è che Mutti lo tratta già da eccezione in così svariati campi della propria esistenza che chiedergli pure di farlo mentre lavora è insensibile, oltre che assurdo.
Insomma, se lo tiene nel letto da una quantità enorme di anni.
Io non so se potrei tenere nel mio letto zio Tom altrettanto a lungo.
- Sì, lo so. – biascica lui, - Torniamo di là, Karima avrà già preparato la cena. Hai finito di rendere una pezza la mia povera maglietta? – chiede, indicando con un cenno del capo la polo spiegazzata fra le mie mani.
Sbuffo e gliel’appoggio sulla testa come un cappuccio.
- Mi ci vorranno secoli per rimettere i capelli a posto… - continua a borbottare mentre ci alziamo in piedi, sfilandosi la polo dalla testa per indossarla.
- Scusa, Mutti, credevo fossi Vati. – lo prendo in giro, pizzicandolo su un fianco. Lui ride e non risponde.
Quando torniamo di là, dalla cucina arriva un odore fortissimo di aceto. Io amo l’odore dell’aceto, mi fa sentire ubriaca. Soprattutto quando è in grande quantità.
- Karima fa la frittella? – tiro a indovinare, mentre ringrazio in tutte le lingue che conosco (poche, Vati e Mutti parlano quasi esclusivamente tedesco ed io non sono meno pigra di loro, in questo senso) che il mio Vati si sia scelto una tata che cucina crucco solo se indispensabile, - Strano, lo fa solo quando siamo tanti e non può fare la carne…
E mi muore il respiro in gola quando vedo che in effetti in sala da pranzo oltre a Mutti c’è ancora zio Tom. Ed all’allegro quadretto s’è aggiunto anche DaDa.
Ora. Io amo tantissimo DaDa, perché è un uomo che porta bellezza ovunque vada. No, sul serio, è una cosa incredibile: zio Tom è un figo ma è un insetto stecco infilato in una tenda; Mutti è bellissimo, ma è altamente opinabile; Vati è un concentrato di testosterone, ma è volgarissimo; Chaku è caruccio, ma è praticamente un peluche; Saad ha degli occhi stupendi, ma anche il sorriso cattivo; Eko mi fa ridere, ma è un topo; Kay è cucciolo, ma sembra una scimmia; Gustav è fascinoso, ma è il figlio segreto di Knut o di uno a caso dei suoi discendenti; Georg ha dei bicipiti per i quali potrei anche lasciare zio Tom, ma per il resto è un Picasso. Gli uomini che fanno parte della mia vita sono palesemente quanto di più lontano dalla perfezione sia mai stato visto solcare questa terra.
DaDa no, però. DaDa, tanto per cominciare, è tanto bello che potrebbe essere uscito direttamente dalla copertina di un Harmony, e non me ne stupirei. Cioè, tipo, se apparisse all’improvviso con una camicia bianca aperta fino a metà petto, pantaloni in pelle e stivali di cuoio al ginocchio, presentandosi come il nuovo stalliere, penso che lo guarderei e finirei per sposarlo l’attimo dopo. Una cosa incredibile.
Poi, DaDa ha un sorriso da pubblicità. Bianco ed enorme e assolutamente perfetto. Che basta guardarlo e ti senti bene, ecco.
Oltretutto, DaDa mi ama profondamente e vuole farmi diventare famosa, quindi è ovvio che in pratica sia il mio essere umano preferito nell’universo.
Però, ecco. DaDa ha quasi scoperto la mia storia con zio Tom. E Vati odia questa sua ambizione a rendermi famosa. È un’altra delle poche cose sulle quali lui e Mutti litigano di continuo – indipendentemente da ciò che possa pensarne io, oltretutto; il fatto non ha nulla a che vedere con me, perché io posso effettivamente fare quello che voglio, e lo faccio. È una cosa di principio fra loro due.
Vati è già abbastanza arrabbiato.
Zio Tom è già abbastanza teso.
Mutti è già abbastanza nervoso.
Io sono già abbastanza stanca.
Non sarà una cena facile.
Comunque sia, appena mi vede DaDa mi sorride felice come se nulla nel mondo potesse girare nel verso sbagliato, ed io sul suo sorriso da boybander mi ci sciolgo, come sempre; lascio il braccio a Vati e mi fondo verso di lui, stringendolo al collo mentre lui mi tira su per la vita.
Sento lo zio sbuffare ma evito di fargli la linguaccia che meriterebbe.
- Tesoro, ciao! – mi saluta DaDa giulivo, mentre io gli saltello intorno, - A Briegmann piaci, ragazzina.
Sorrido. Non potevo proprio andare buca col presidente della Universal Music Deutschland.
- Perché gli piace la mia voce o per quei due disgraziati che mi hanno cresciuta? – domando sarcastica, indicando Vati e Mutti con due cenni del capo.
Vati borbotta che lui la Universal l’ha mollata secoli fa ed è stata la scelta migliore della sua esistenza. Mutti, invece, si lascia andare ad un sorriso un po’ triste e un po’ dolce, ma non commenta.
DaDa scrolla felicemente le spalle.
- Ti ritiene vendibile, tutto qua.
- E quando non lo sarai più, ti scaricherà. – aggiunge Vati, quasi in un ringhio.
- Come capita a tutti. – scocca zio Tom, vagamente amareggiato.
Vedo Vati e Mutti dirigersi contemporaneamente verso la porta del soggiorno nel disperato tentativo di abbandonare il campo. Quando capiscono di starsi muovendo in sincrono, si fermano. Mutti ricomincia a sistemare le posate attorno ai piatti. Vati gli si affianca e sistema i tovaglioli.
DaDa sospira pazientemente.
- Abbiamo un appuntamento per dopodomani alle nove.
- Ha scuola. – butta lì Vati.
- Ti giustifico io. – mi rassicura Mutti.
Non so se stanno semplicemente cominciando a litigare per la solita questione del “non la voglio nel mondo dello spettacolo/invece io sì” o se questo è solo uno strascico di ciò che è successo al BK questo pomeriggio. Comunque, non mi piace. Odio che in questa casa si litighi perché sono tutti maschi, perciò volano botte. Le botte sono eroiche e sexy solo quando le prende qualcuno che non ami.
In ogni caso, da quando Mutti mi ha adottata legalmente, oltre che sentimentalmente, questa cosa delle giustificazioni per le assenze manda Vati su tutte le furie. Spero che non gli dica la solita stronzata di rito per cui—
- Il coglione sono stato io che ti ho portato i documenti, vaffanculo a me.
…appunto.
Mutti non ha degli occhi normali, no, Mutti ha dei laghi. Non sono dello stesso colore, ma non è quello il punto: quando piove troppo s’ingrossano ed esondano. E non è una questione di lacrime – Mutti piange spesso, ma non così spesso – è una questione di sentimenti. Te li rovescia addosso. E adesso, nei suoi occhi, è riflessa solo una rabbia cieca ed un incredibile desiderio di fare male. Diretto tutto contro Vati.
Io lo so che si amano. Non ne dubito neanche adesso.
Forse è per questo che vederli così mi fa tanto male.
- M’è passata la fame. – biascico, abbassando lo sguardo.
Mutti smette di provare ad uccidere Vati con gli occhi e si volta verso di me.
- Tesoro, non—
- Non ho fame. – ribadisco scuotendo il capo. – Vado in camera mia.
Mi lascio alle spalle gli “è colpa tua” che Mutti comincia immediatamente a riversare su un silenziosissimo Vati, e mi chiudo in camera, abbandonandomi sul letto e nascondendo il viso contro il cuscino.
Io non odio la mia vita. Sono un’adolescente felice. Ho una bella famiglia— fuori di testa, ma bella. Non ho nessun motivo per essere triste. Questi però sono i casi in cui fatico a ricordarmelo. Quando Mutti urla e Vati tace per non dire di peggio. Quando esco di qui a notte fonda per andare a bere e trovo Vati raggomitolato sul divano, o sento la musica a basso volume venire fuori da sotto la porta della sua tana. Possono smettere di parlarsi anche per settimane intere, perché Vati è l’unico – proprio l’unico – di fronte al quale Mutti diventa impermeabile ai sensi di colpa.
Forse perché, penso, sono cattivi entrambi. Io lo so, questo. Forse non lo erano un tempo, forse lo sono solo diventati, ma comunque è questo che sono, profondamente. Ce l’hanno con tutti. E quindi ce l’hanno anche l’uno con l’altro.
È difficile da capire, se non lo vivi. Ma si amano tanto quanto si odiano. E per me è una cosa normale. Anche se fa male.
*
Ho aperto il quaderno sulla scrivania ed ho infilato le cuffie nelle orecchie. So che di là non stanno ancora litigando: la cena per Vati è sacra e silenziosa; ed è proprio questo, ciò che non voglio sentire, il loro silenzio. I silenzi, in questa famiglia, sono sempre molto pesanti, perché sono obbligati. Mutti è logorroico, oltretutto, perciò non sentirlo parlare è tremendo. Non parla solo quando vorrebbe dire cose orribili, ecco. Odio i silenzi perché so che ci sono le cose orribili dietro.
Comunque, sto ascoltando Unter der Sonne a palla. C’avrà pure dieci anni, questa canzone, ma è sempre un qualcosa di stupendo. Io adoro la voce di Chaku, mi piace più di quella di Vati perché è ruvida e maschile e quando ti parla sembra che ti stia rimproverando. Io credo sia questo che deve fare il rap, rimproverarti. Con la voce che ho, non ci riuscirei mai, è per questo che ho rinunciato al proposito fin da subito e, su consiglio di DaDa, mi sono data all’R&B. Ho una voce squillante ma dolce, quindi mi ci adatto meglio.
Comunque per un sacco di tempo avrei voluto fare rap, perché a me fondamentalmente piace parlare, mi piace dire le cose, ed il rap per fare questo è perfetto.
Sotto il sole le cose sembrano brillare di più, ma la sporcizia resta sporcizia, questo mi dice Chaku in questo preciso momento, ed io chino il capo a ritmo delle sue parole e penso che è vero, e che questo riflette non solo la mia vita, ma la vita di tutti.
Per dire, io sono molto amata. Sono molto amata e mi sento molto amata.
Ma sono stata molto odiata, in passato. È una traccia che mi porto dentro e non potrò mai estirpare.
Mutti mi ha molto odiata. Ed anche questo non potrà mai essere estirpato. Anche se ora c’è il sole e ridiamo e stiamo tutti insieme. Nei silenzi dei miei genitori resta la traccia dell’odio di un tempo.
E forse è per questo che ci sto tanto male.
Vati e Mutti erano molto felici, prima del mio arrivo. La loro è una storia d’amore molto eroica, nel suo piccolo che piccolo non è. Si sono accerchiati per un sacco di tempo convinti di stare semplicemente giocando, poi è capitato del tutto casualmente di trovarsi vicinissimi ed hanno capito che forse non stavano giocando proprio per un cavolo.
È sempre divertente quando Mutti me lo racconta e Vati per caso è lì ad ascoltare – magari ti sembra che sia distratto e non ci badi, e invece pende letteralmente dalle sue labbra. Mutti parte sempre in quarta con il discorso degli amanti predestinati e compagnia cantante, ed il tormentone di questo racconto è sempre “Lo sai che non baciavo un essere umano da tre anni? Tre anni! E non sono impazzito nel mentre. È evidente che stavo aspettando tuo padre”. E Vati risponde puntualmente “No, è evidente che eri talmente represso che, pure se avesse provato a baciarti un cammello, ti ci saresti buttato a pesce”. Ed io rido e Vati ride e Mutti lo guarda e sorride e ripete con più convinzione “Io aspettavo te”, ed allora tu ci credi. Perché quando Mutti parla in quel modo, tu gli credi. Può pure mentire, in quel preciso istante, ma nei suoi occhi c’è l’universo che brilla e ti confonde, perciò tu gli credi e basta.
Gli crede anche Vati. A Vati piace tantissimo credere alle fantasie di Mutti. Io so che è perché hanno abitato l’uno le fantasie dell’altro per una quantità spropositata di tempo. È come me con zio Tom: lui è stato nei miei sogni tanto a lungo – anni e anni e anni – che quando le sue mani mentono intrecciandosi alle mie, quando le sue braccia mentono stringendomi alla vita, quando le sue labbra mentono incollandosi alla mia pelle, quando il suo intero corpo mente fondendosi col mio e regalandomi mezz’ora di illusione in cui non c’è Mutti non c’è Vati non c’è DaDa ed io sono sua e lui è mio, io ci credo. Ciecamente. Poi torno alla realtà, ma per quei trenta fottuti minuti io ci credo e basta.
E lo stesso è per Vati, credo. Lui lo sa che Bushido e Bill Kaulitz non sono mai stati gli amanti del destino, lo sa che la loro relazione ha portato più danni che altro, lo sa che è anche colpa sua se il contratto dei Tokio Hotel con la Universal è saltato, ma quando Mutti lo guarda negli occhi e gli dice che stava aspettando lui e ne è certo, Vati ci crede. È bello crederci. Ci credo anche io.
Vati e Mutti hanno un sacco di fangirl. E un fanclub. Non ufficiale, ma piuttosto attivo, devo dire. Io mi ci diverto un casino, ogni tanto mi intrufolo ai raduni ed è sempre il delirio cosmico perché Vati si mette a strillare come un’aquila quando sa che ci vado. Mutti è d’accordo con lui, peraltro; le fangirl non gli sono mai piaciute particolarmente, però con me ha sempre seguito il principio fondamentale del fai ciò che vuoi, che è una cosa che suppongo abbia imparato direttamente da quella sciroccata di nonna Simone, perciò non mi rimprovera quasi mai.
Insomma, il fanclub ha anche creato un adorabile canale su YouTube al quale Mutti – nonostante l’antipatia per le fangirl! – ricorre sempre, quando gli salta in testa di raccontarmi la sua storia con Vati. Ha bisogno del supporto audiovisivo, dice. In realtà gli piace rivedersi giovane e bello. Non che adesso sia meno bello, ma gli anni passano per tutti, è così che va la vita. E poi si diverte a sfottere Vati, che ai tempi era oggettivamente improponibile, la maggior parte delle volte.
Il primo contatto fra Vati e Mutti è, credo, il più famoso abbordaggio della storia della musica tedesca. Fondamentalmente, Vati era in TV e lo stavano intervistando, e lui si prese un secondo di diretta per annunciare al mondo che gli sarebbe piaciuto farsi fare un lavoretto di bocca proprio da Mutti.
Seguì una vera e propria rivoluzione. Non c’era una – una che fosse una – fan dei Tokio Hotel non desiderasse Bushido morto. Possibilmente anche sodomizzato da uno o più animali a scelta fra buoi, cavalli e tori. In famiglia, DaDa la prese sudando freddo, zio Tom la prese come un’offesa personale – ma gli passò presto, zio Tom non è fisicamente in grado di restare arrabbiato a lungo – e Mutti la prese scoppiando in lacrime e strillando che non era un dannatissimo frocio e s’era rotto i coglioni di sentirsi apostrofato in quel modo da tutti i pezzi di merda che pensavano di poterselo permettere.
Mutti aveva diciassette anni. Vati undici di più.
Probabilmente avrei pianto anche io, ma il destino che piace tanto a Mutti quando si parla di relazioni amorose ha voluto che mi prendessi una sbandata colossale per uno che ha quattordici anni più di me. Penso di aver battuto i miei genitori su tutta la linea, e se le nuove generazioni sono i passi avanti della specie allora mi sa che con me il passo l’ha fatto un po’ troppo lungo, l’umanità.
Comunque. Vati scoprì che ad insistere pubblicamente sull’argomento ci si poteva pure guadagnare sopra, e siccome per gli affari ha sempre avuto un fiuto niente male – ed è sempre stato bravissimo a vendersi – ha proseguito. Ha aggiustato il tiro, non è stato più così esplicito con le richieste, ha cominciato ad infilare nei propri discorsi anche veri e propri complimenti, non soltanto apprezzamenti di tipo sessuale, ed infine ha sferrato l’assalto finale chiedendo ripetutamente – e in più occasioni – ai propri fan di votare per i Tokio Hotel in qualunque manifestazione musicale fossero in lizza per un premio.
Non so se Vati fosse consapevole di stare preparando Mutti alla cotta più devastante, violenta ed invasiva della propria vita. Io non credo lo fosse. Io credo fosse solo stupidamente divertito dalla cosa.
Fatto sta che in quei tre anni Mutti non baciò nessuno. Andava pure lamentandosene in giro, il che è piuttosto comico, se ci si pensa, perché non è questione di cliché, lui avrebbe davvero potuto farlo con chiunque in qualsiasi momento, ma niente. È anche per questo che un po’ gli si crede per forza, quando dice che stava aspettando Vati. Perché è vero che in fondo l’ha fatto.
Alla fine, dopo tre anni di incontri semicasuali a premiazioni varie ed eventuali, Mutti fece la propria mossa. Intervistato a riguardo delle continue avances di Bushido, rispose con una scrollatina di spalle ed un sorriso da manuale. “Bushido promette, promette… ma non mantiene mai”. È un altro degli eventi che in casa vengono ricordati in modo sempre diverso, dipende dalla persona a cui hai chiesto. DaDa, per dire, è ancora traumatizzato. Ci sono certe cose che con lui non si possono proprio discutere. Zio Tom ci si fa su una risata che è stupenda, da stare ad ascoltare, perché è a metà fra l’intenerito e il derisorio. Non so come faccia, ma zio Tom ha un sacco di talenti nascosti. Mutti ne parla con un certo orgoglio, come la ribellione di una principessa tenuta troppo a lungo sotto una campana di vetro – e poco importa lui non fosse quasi niente di tutto questo, Mutti ha sempre avuto il pallino della lotta per l’indipendenza e nessuno ha mai il coraggio di smontare le sue fantasie a riguardo. Vati invece è stupendo: quando glielo chiedi inarca le sopracciglia e borbotta “Cristo, mi fece paura!”. Ho sempre avuto questi flash mentali di lui che si volta verso Saad e strilla “un biglietto per l’Australia, prego”. Meraviglia.
Alla fine, si beccarono agli EMA. I Tokio Hotel erano lì perché nominati per il Best Headliner, Vati e Chaku premiavano il Best German Act. “Io mi stavo cagando addosso”, precisa sempre Vati. “Cioè, Bill non era normale. Non che lo sia mai diventato, poi, ma voglio dire… non si dicono queste cose in tv”. Chiaro che Mutti lo picchia, ogni volta che dice così. “E comunque anche io ero spaventato”, aggiunge fra un ceffone isterico e l’altro, “Avevo l’impressione di avere tirato un po’ troppo la corda ed ero lì a menarmela chiedendomi ‘e se lo fa davvero?’”.
L’incontro di quella notte mi piace sentirmelo raccontare da Chaku e zio Tom. Perché sono spassosi, quando li imitano. Zio Tom si butta contro il primo ripiano disponibile – se siamo in cucina la cosa è ancora più divertente, perché ha a portata di mano tutto ciò che gli serve per imitare al meglio Mutti – infila un cucchiaio in un bicchiere e poi si ficca il manico in bocca come fosse una cannuccia, e comincia a sballottarlo qua e là con la lingua.
Chaku gli si avvicina cercando di farsi alto e disinvolto. Disinvolto lo è, alto un po’ meno, ma quando sfotte Vati mette su un’espressione mitica a metà fra l’incazzatura e la strafottenza che è un qualcosa di stupendo. Già a questo punto io soffoco dalle risate, in genere.
Zio Tom alza lo sguardo e finge di arrossire come una vergine, Chaku lo inchioda al ripiano imprigionandolo fra le braccia.
“Chi è che promette, promette e non mantiene mai?” dice quindi, imitando la voce di Vati.
E poi generalmente a questo punto Mutti sclera e li separa prima che imitino anche il resto, visto che i report di MTV della serata li ritraggono avvinghiati in un angolo a fare sconcezze fino alle cinque del mattino circa. Vati dice che Mutti gli saltò letteralmente addosso e lui quasi rischiò di cadere e finire col sedere per terra. “Sono rimasto in piedi per miracolo e sono riuscito a trascinarlo in un angolo solo perché evidentemente Dio esiste”, dice, anche se lui a Dio continua a non credere. Peraltro, Mutti annuisce freneticamente e conferma. “Gli sono saltato addosso, è vero. Ma è colpa sua, era troppo vicino!”, borbotta, come se servisse a giustificarlo.
Vati e Mutti hanno vissuto l’amore più romantico di cui abbia mai sentito parlare. L’unica altra storia altrettanto romantica alla quale riesco a pensare è quella di Eko e Valezka, che pur di amarsi in santa pace hanno scatenato tipo una guerra fra bande. Ma Vati e Mutti sono meglio, perché non si sono bruciati subito come quegli altri due. Tant’è che Eko e Valezka si sono persi di vista, mentre Vati e Mutti sono ancora qui, l’uno appiccicato all’altro come il primo giorno.
Allontano il quaderno – sono esausta – e mi tiro un po’ indietro sulla sedia, sgranchendo le dita. Apro e chiudo il pugno, lo riapro e quando lo richiudo sento la voce di zio Tom gettare fuori una bestemmia da manuale e poi sento sbattere la porta d’ingresso. Dopo, silenzio.
Mi alzo ed esco da camera mia, aggirandomi furtivamente per il corridoio buio. Di fronte all’attaccapanni, DaDa sta recuperando il cappotto.
Mi avvicino. Non so neanche cosa dirgli.
- Lu, tesoro, scusami. – mi precede lui con un sorriso stanco, - Doveva essere una serata allegra. Giuro che sono venuto con le migliori intenzioni, volevo solo parlarti dell’appuntamento con Briegmann.
Annuisco.
- Hai rimproverato zio Tom? – chiedo timorosa, giocando con l’orlo della sciarpa bianca che gli pende dal collo.
- Non ho più l’autorità per rimproverare nessuno, in questa casa. Né fuori. – chiarisce lui seccamente, scrollando le spalle. – Vorrei solo che non fosse così misterioso. Tom è un cretino e un chiacchierone, lo sai, perciò quando non parla… - sospira pesantemente, - Ho paura che stia nascondendo qualcosa di grave. Sono solo preoccupato, ecco tutto.
Annuisco ancora perché il suo ragionamento non fa una piega. Io e zio Tom siamo in torto. Lo siamo sempre e comunque. Perché abbiamo sbagliato fin dall’inizio – io ad innamorarmi di lui, lui a concedermi il suo amore – e perché non abbiamo abbastanza coraggio per rimediare all’errore, ma non ne abbiamo abbastanza neanche da confessarlo. Questa storia non può che finire male.
- Stai lontana dal soggiorno, per un po’. – mi avverte alla fine DaDa, già sulla soglia della porta e pronto ad andare, - I tuoi si stanno “confrontando” e non vorrei che ti arrivasse un piatto vagante sulla testa.
Ridacchio richiudendogli la porta alle spalle, ed ovviamente la prima cosa che faccio, una volta rimasta sola, è avvicinarmi con cautela al soggiorno e spiare Vati e Mutti che si confrontano da un punto d’ombra nel corridoio. Mutti ha lo sguardo basso e triste, sta impilando i piatti sporchi della cena. Vati è di schiena e versa la frittella avanzata in un unico piattino, per metterla in frigo.
Non è inusuale vederli sparecchiare. Sono entrambi due pigroni viziati – Vati ha sempre avuto Karima, Mutti ha sempre avuto zio Tom – ma le piccole cose del quotidiano casalingo li attraggono in maniera oserei dire morbosa. Oltretutto, è con le faccende domestiche che tengono impegnate le mani quando vorrebbero saltarsi addosso e prendersi vicendevolmente a sberle. La tensione violenta del loro silenzio si diluisce nel cozzare tintinnante delle stoviglie, ed i loro lineamenti si rilassano tic dopo tic, fino a quando Vati non butta fuori un sospiro tale che lo vedo quasi sgonfiarsi e Mutti si morde un labbro e lo fissa intensamente, solo per un secondo, prima che Vati gli si avvicini e lo stringa a sé allacciandolo alla vita, tirandoselo contro con una furia possessiva che è arrabbiata e innamorata insieme; una furia che scioglie il nodo che ho sullo stomaco e mi costringe a un singhiozzo sollevato che soffoco solo perché ho paura di venire scoperta.
Vado via quando si baciano. Passo in camera a prendere il pigiama e vado in bagno, dove apprendo con orrore che, a coronamento di una serata di merda, le mestruazioni sono finalmente arrivate. Dopodomani ho un appuntamento con l’uomo che può cambiare il mio futuro e sarò mestruata ed isterica, perfetto. Ritiro tutto: non sono un’adolescente felice, sono una sfigata. E mi sa che è ereditario. La genetica è un’opinione.
*
Il mio primo ricordo è anche l’unico che ho di mia madre. È un ricordo principalmente visivo e sonoro, ma quella visiva e quella sonora sono due caratteristiche stridenti, non armoniche. La prima mi parla di un foglio di album liscio, grande, talmente grande che la mia mano premuta su quella superficie bianchissima sembrava come persa in un deserto di neve, macchiata appena di tanto in tanto da sbuffi colorati tracciati coi pastelli a cera sparsi alla rinfusa sul tavolo. Sono così tanti che non riesco nemmeno a contarli. Sto fissando questo foglio bianco scarabocchiato a caso e sto cercando di capire cosa potrei disegnarci sopra, quando ecco che la traccia visiva si mescola a quella sonora.
Mia madre che sussurra “mi gira la testa”. E poi un tonfo.
Non ho la minima idea di cosa possa essere successo dopo. Immagino che una delle amiche di mamma, o un suo parente, o un vicino, o comunque qualcuno abbia bussato alla porta, mi abbia sentito piangere e sia quindi entrato in casa con la forza, per poi prendere atto di ciò che era successo e chiamare la polizia.
Mia madre se l’è portata via un aneurisma. Il primo aereo che ho preso è stato quello che, in seguito a quest’evento, mi ha portata dalla Svizzera in Germania. Ricordo l’hostess che mi prese in consegna, aveva gli occhi dolci e grandi e lunghi capelli biondi. Mi parlava dolcemente ed io capivo molto poco di ciò che mi diceva.
Dopo questo, nella mia memoria c’è un altro buco. Le successive immagini che ho appartengono alla villa gialla di Vati, ma suppongo di non essere andata direttamente lì, perciò posso solo ipotizzare di essere rimasta qualche ora in un qualche centro di assistenza sociale mentre qualcuno si occupava di avvisare Vati del mio arrivo.
Ricordo la sua faccia quando mi vide, però. Sono solo flash, niente di concreto, ma ricordo i suoi occhi spalancati su quel viso così squadrato e allungato, la barba che gli copriva le guance, e il fatto che non ebbe il coraggio di abbracciarmi. Io indossavo un vestitino lungo alle ginocchia, calzette bianche e scarpette di vernice nere. Le ricordo dondolare giù dalla panchina sulla quale stavo appollaiata, rimpiangendo i peluche che qualcuno mi aveva infilato in valigia, senza lasciarmene in mano neanche uno. Mi sarebbe piaciuto poter stringere qualcosa, in quel momento, visto che quell’uomo così alto e magro al quale sembrava mi volessero dare non sembrava avere alcuna intenzione di stringere me.
Rimasi lì immobile per non so quanto tempo, mentre aspettavo fuori dall’ufficio all’interno del quale l’assistente sociale stava spiegando bene a Vati chi ero, perché mi trovavo lì in quel momento e quale decisione tutti aspettavano che lui prendesse. Vidi uscire prima le sue scarpe, perché avevo gli occhi piantati sul pavimento e non mi arrischiavo a sollevarli nemmeno per sbaglio. Erano dei mocassini scamosciati semplicemente orrendi. In quel momento, però, ricordo di averli trovati carini, in qualche modo teneri. Rassicuranti. Non saprei dire.
- Luise. – mi chiamò piano, accucciandosi di fronte a me e molleggiando un po’ sulle gambe, - Hai un bellissimo nome.
Arrossii, stringendomi nelle spalle.
- Chi sei tu? – domandai, arricciandomi una ciocca di capelli attorno a un dito giusto per darmi qualcosa da fare e smettere di torturare l’orlo della gonna che stavo stropicciando da minuti interi.
Lui prese un respiro profondissimo, prima di rispondermi.
- Sono il tuo papà. – disse, appoggiandosi con le mani alla seduta della panchina per non perdere l’equilibrio.
- Mamma diceva che eri impegnato. – buttai lì io, sempre fissando altrove. Lui sollevò una mano e mi accarezzò una guancia, e solo allora sollevai gli occhi nei suoi, permettendomi di perdermi nel suo sguardo caldo e avvolgente come una coperta.
- Da adesso in poi, non lo sarò più. – tagliò corto lui con un sorriso, e poi allargò le braccia.
Non so da quanto tempo non ricevessi un abbraccio. Il suo, quel giorno, comunque, mi sembrò il più bello che mi avessero mai dato.
Sospiro profondamente, abbattendomi contro lo schienale della sedia in sala d’aspetto. Rileggo la scena che ho scritto da capo, e mi colpisce la forza di questo ricordo. Il suo profumo, il calore del suo corpo, la morbidezza del maglione che stringevo fra le dita mentre, aggrappandomi a lui e piangendo, mi nascondevo contro il suo petto. Improvvisamente, il fatto che Vati non approvi di questo mio incontro con Briegmann e delle porte che potrebbe aprirmi inizia ad avere un suo peso specifico. Non che mi senta costretta a rinunciare solo perché lui non vuole e io gli sono grata per tutto quello che ha fatto per me quando qualcun altro magari non avrebbe creduto a niente e mi avrebbe piazzata in un orfanotrofio in attesa che qualcun altro mi adottasse, ma un po’ mi pesa non avere la sua approvazione in questo momento.
- Sei pronta? – mi chiede DaDa, apparendomi di fronte come la Fata Madrina di Cenerentola, paragone che, peraltro, gli calza a pennello, - Ancora pochi minuti e poi ti toccherà dimostrare quanto vali. – Mi stringo nelle spalle, tirando su le gambe fino al petto e rannicchiandomi sulla sedia. Lui mi guarda inarcando un sopracciglio, e poi si siede al mio fianco. – Duecento anni fa circa, c’era un bellissimo principe tedesco di nome David Jost. Egli era conosciuto come il ragazzo più snodato che il glorioso regno di Germania avesse mai visto. Purtroppo, ormai è vecchio e stanco, e in questo momento ti sta invidiando con ferocia e violenza. – annuisce compitamente, e io mi metto a ridere, nascondendo il viso dietro agli avambracci incrociati. – C’è qualcosa che non va? – mi chiede lui, accarezzandomi lentamente i capelli. Io mi sciolgo, arrotolandomi addosso a lui ed inspirando con forza il profumo delizioso del suo dopobarba.
- Vati non sarà contento. – considero mestamente, - Comunque vada, peraltro.
Lui si stringe nelle spalle, sbuffando teatralmente.
- Lascia che ti dica che tuo padre non è mai contento, a meno che le cose non vadano esattamente come vuole lui, cosa che, per inciso, accade molto più di rado di quanto uno non possa pensare. – risponde atono, stringendomi a sé.
- Sì… lo so. – sospiro, nascondendo il viso contro il suo collo, anche a costo di rovinarmi il trucco e macchiargli il colletto della camicia. Lui sospira, accarezzandomi ancora un po’ i capelli, il collo e la spalla.
- Lu, c’è qualcosa che mi devi dire? – chiede quindi, - Qualcosa che non sappia già, intendo.
Mi allontano, vagamente spaventata.
- Ma no. – scuoto il capo, cercando di suonare naturale, - È tutto a posto.
- Lo è? – insiste lui, lanciandomi un’occhiata severa. Lo vedo sospirare profondamente, prima di addolcire lo sguardo e sorridere appena. – Sai di cosa non sarebbe contento tuo padre? – mi chiede, - Di sapere che menti. – e nel momento stesso in cui lo dice io mi sento esplodere nel centro del petto un dolore sordo che quasi mi toglie l’aria. – Lu, sai che non devi farlo per forza? – domanda dolcemente, allungandosi ad accarezzarmi una guancia, - Se non è cantare quello che vuoi dalla tua vita, non hai che da dirlo. Io non voglio che tu salga su un palco e ti esibisca, se questo non è esattamente anche quello che vuoi tu.
Lo guardo senza sapere cosa dire per un paio di secondi. Io voglio cantare, DaDa. Non so se sia la mia vocazione, ma farlo mi piacerebbe. Sai cosa invece non voglio? Sai cosa non voglio proprio, al punto che sarei disposta a rinunciare a qualsiasi cosa per impedirlo?
Far soffrire il mio papà.
- Scusami. – sussurro in un gemito sconnesso, sollevandomi in piedi. Il quadernetto che tenevo in grembo cade per terra, aprendosi in due. La penna che avevo riposto fra le pagine per tenere il segno vola lontano. Mi chino a recuperare entrambe le cose, afferrando lo zainetto posato sulla sedia ed infilando tutto dentro alla rinfusa. Colgo appena un frammento dello sguardo che DaDa mi lancia, ed è un frammento sufficientemente doloroso da convincermi a non guardarlo più. Mi mordo un labbro, correndo verso l’ascensore proprio mentre la segretaria esce dal proprio ufficio e ci informa che Herr Briegmann è pronto a riceverci.
*
Mutti non sapeva di me. Nel senso che non solo non sapeva della mia esistenza, ma non sapeva nemmeno che cinque anni prima che io piombassi anche nella sua vita c’era stata la possibilità che nascessi e Vati aveva provato ad impedirlo pagando mia madre perché abortisse. Quando Vati ricevette la telefonata degli assistenti sociali che lo convocavano per discutere della mia sorte, lui già da qualche giorno sapeva che avrebbe dovuto prendere una decisione. L’avevano avvertito immediatamente dopo la morte di mia madre, prima di portarmi in Germania, lasciandogli un margine di qualche giorno per riflettere senza la spada di Damocle di una bambina che lo guardava da dietro un vetro attendendo di sapere cosa sarebbe stato di lei da quel momento in poi.
Non ho difficoltà a capire per quale motivo Vati non abbia ritenuto opportuno dire a Mutti cosa stava succedendo. Immagino debba essergli costato un grande sforzo, oltretutto, conoscendo il suo amore per la sincerità in tutte le sue manifestazioni. Per dire, il mio Vati non è uno che si consoli dicendosi “non sto mentendo, sto semplicemente omettendo una verità”. Per lui, le cose si equivalgono, e dovrebbe essere per tutti così, perché sarebbe molto meglio se tutti fossero onesti abbastanza da riconoscere che mentire non è soltanto dire qualcosa di falso, ma anche non dire qualcosa di vero. Io, per dire, sarei una persona migliore se… ma non è questo il punto, adesso. Fatto sta che non biasimo il mio Vati perché ha mentito alla mia Mutti nascondendogli la mia esistenza. Era spaventato, e quando hai paura di perdere le persone a te care fai cose pazze. Come mentire, che poi è la cosa più pericolosa da fare in assoluto, ma le bugie ti cullano nell’illusione che, se riesci a tenerle a bada, allora forse riuscirai a non perdere nessuno. Ma sono bugie, e in quanto tali mentono anche quando ti illudono di avere ancora questa possibilità quando invece tutte le menzogne che dici non fanno che allontanarti da tutte le persone che ami.
Fu per questo che Mutti si arrabbiò. Perché arrivò alla villa gialla, aprì con le proprie chiavi e dentro ci trovò un uomo con una bambina, e quest’uomo era il suo uomo ma i suoi occhi erano diversi, e quell’uomo uguale al suo uomo ma con occhi distanti gli presentò questa bambina come propria figlia e gli disse che lei sarebbe rimasta ma lui, se voleva, poteva anche andare.
Immagino che Vati abbia pensato che solo imponendomi avrebbe potuto chiarire fin da subito che intendeva tenermi e che tutto il mondo avrebbe dovuto semplicemente rassegnarsi di fronte a questo fatto. E non posso biasimarlo per questa scelta, ma come non posso biasimare lui non riesco a fare lo stesso neanche con Mutti, che si mise a strillare, strillare, strillare e piangere, piangere, piangere fino a farmi scoppiare la testa. Era la prima volta che lo vedevo e già non volevo vederlo più. Vati, poi, era così preso dal cercare di contrastarlo che sembrò come dimenticarsi totalmente della mia esistenza. Quando Mutti cominciò a prendere Vati a schiaffi, e quando lui prese a rispondere colpo su colpo senza la minima remora, scappai. Avevo paura di uscire fuori di casa, ma non conoscevo la villa e non sapevo dove avrei potuto andare a nascondermi, per cui semplicemente mi lanciai fuori dalla porta e lungo il sentiero che conduceva al cancello, oltrepassai anche quello e cominciai a correre a perdifiato lungo il marciapiedi.
- Ehi! – gridò qualcuno, ed io, preoccupata che Mutti o Vati si fossero accorti della mia assenza e mi fossero venuti dietro, presi a correre più forte, piangendo così tanto che mi faceva male il petto.
Mi fermai solo quando zio Tom piombò su di me, inchiodandomi a terra. Mi sbucciai un ginocchio e piansi ancora di più, lui mi guardò con aria sconcertata e cercò di tirarmi su e tapparmi la bocca contemporaneamente, senza riuscire davvero a fare nessuna delle due cose, peraltro.
- Lasciami, lasciami! – mi lagnai io, strofinandomi gli occhi coi pugni anneriti dallo sporco dell’asfalto. Lui si alzò in piedi e mi prese in braccio, resistendo ai calci che continuavo a sferrargli nello stomaco.
- Ma tu chi diavolo sei? – mi chiese, cercando di tenermi ferme le gambe. Io non risposi, continuando a piangere. – D’accordo, d’accordo, non dirmelo! – sbottò lui, quasi offeso, - Comunque sei uscita da casa di Bushido e sei troppo piccola per andartene in giro da sola. Ti riporto là.
- No! – strepitai io, ricominciando a scalciare, - No, non ci voglio andare! Non ci voglio andare! – strillai, aggrappandomi con forza ai dread biondi che gli scivolavano lungo le spalle.
- AhI! Ahi!!! – gridò a propria volta lui, strabuzzando gli occhi ed afferrandomi da sotto le ascelle per allontanarmi da sé, ottenendo come risultato solo quello di allontanare me assieme ai dread che continuai a stringere nei pugni come se dalla forza che ci avrei messo potesse dipendere la mia vita stessa. – Ferma! – si lamentò lui, stringendomi nuovamente al proprio petto ed utilizzando una mano per sciogliere le mie dita intrecciate attorno ai suoi capelli, - Per carità. Mi spieghi che diavolo è successo?!
- Quella ragazza è entrata e si sono messi a urlare! – cercai di raccontare. Mi faceva male la gola per quanto avevo pianto. Mi bruciavano gli occhi e mi sentivo sporca, stupida e spaventata.
- Ragazza…? – biascicò lui, - Oddio, mio fratello. – sospirò, sollevando gli occhi al cielo. – Ma tu chi sei? – chiese quindi. Io abbassai lo sguardo.
- È mia figlia. – disse Vati, raggiungendoci di corsa. Aveva il fiatone. – Cristo, Lu, scusami. – sospirò avvicinandosi a me e tendendomi le braccia. Io mi strinsi al petto di Tom, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. - …scusami. – ripeté Vati. Quando tornai a guardarlo, erano i suoi occhi a rimanere bassi, fissi sul marciapiedi.
- Mio fratello? – chiese zio Tom. Vati sospirò. Mutti stava camminando per strada strillando come un’aquila. Aveva già sorpassato l’enorme automobile nera dalla quale zio Tom era venuto fuori per inseguirmi, e sembrava bene intenzionato a tornarsene a casa sua a piedi. – Bill, per piacere, fermati. – gli gridò con aria esasperata.
- Vattene a fanculo. – ribatté Mutti, continuando per la propria strada, - Andatevene a fanculo tutti quanti! – ribadì. Piangeva. Zio Tom sospirò ancora, cercando di ridarmi a Vati, ma quando io tornai a stringermi a lui lasciò perdere.
- Ehi, - sussurrò, - senti, se vuoi posso portarti a prendere un gelato, così ti calmi. Ma poi devi tornare qui, perché io devo prendermi cura di quella bella ragazza che hai visto prima, che in realtà non è una bella ragazza ma un bel ragazzo, al più, ed è mio fratello. E sicuramente in questo momento avrà il cuore un po’ incrinato.
Vati distolse lo sguardo, anche se il tono di zio Tom non sembrava quello di un rimprovero.
- Che vuol dire incrinato? – domandai, giocando con la punta di uno dei suoi dread. Zio Tom sorrise appena, lasciandomi fare.
- Che non si è ancora spezzato, però c’è andato vicino. – spiegò dolcemente.
- E tu puoi rimetterlo a posto? – domandai ancora. Lui rise piano, stringendosi nelle spalle.
- Posso provarci. – rispose. E io ricordo distintamente di averlo guardato negli occhi e di aver pensato che se i principi delle fiabe esistevano, dovevano essere esattamente uguali a lui. Con quei capelli, con quel sorriso, con quegli occhi. Principi che riaggiustavano cuori spezzati. E sperai che un giorno, quando sarei stata grande, se si fosse spezzato anche il mio, ad aggiustarlo ci avrebbe pensato lui.
Non posso dire che fu lì che m’innamorai di lui, ma sicuramente fu lui il primo a darmi un motivo per restare, prima chiedendo a Vati se gli dispiaceva che mi portasse un po’ in giro e poi tenendomi con sé fino a tarda sera.
In realtà non mi ha più lasciata andare. Anche dopo che Vati e Mutti furono tornati insieme, quando Mutti mi accettò, quando divenni parte integrante della famiglia, quando diventammo effettivamente una famiglia dove prima c’erano solo due persone che si amavano, zio Tom non smise mai di tenermi con sé. Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo incontrato da quando questa cosa s’è fatta più complicata, lui non mi ha mai lasciata andare.
Mi spezza il cuore dover essere io a lasciarlo andare per prima.
- Non ti aspettavo. – dice sorridendomi e scostandosi dall’uscio per lasciarmi passare, - David è andato via pochi minuti fa.
- …è stato qui. – considero a bassa voce, annusando l’aria. C’è ancora il suo profumo ovunque.
- Già. – ridacchia lui, chiudendo la porta e passandomi un braccio attorno alle spalle mentre mi trae a sé, stringendomi forte. – Era disperato. Non sa come dirlo a tuo padre e a Bill. O meglio, non sa come dirlo a Bill. Tuo padre suppongo che tirerà un sospiro di sollievo e si getterà questa storia alle spalle come tutte le cose brutte che gli sono capitate e che poi si sono risolte e che lui è convinto di aver risolto da sé quando in realtà a risolverle è stato il caso.
Premo le mani contro il suo petto e mi allontano, cercando i suoi occhi per un secondo ed abbassando immediatamente lo sguardo quando mi rendo conto di non poterlo reggere.
- Forse invece stavolta l’ha risolto lui davvero. – mormoro. Sento il suo sguardo incuriosito addosso, lo percepisco mentre si fa via via sempre più consapevole, e quando una delle sue mani mi afferra una spalla, per tenermi ferma, posso in qualche modo prevedere le due dita che, delicatamente, mi costringono a sollevare il mento e tornare a guardarlo.
- Hai mollato David in quel modo facendo saltare l’appuntamento con Briegmann solo perché sai che tuo padre non approva l’idea di farti fare carriera nel mondo dello spettacolo? – mi domanda, e la sua voce è dolce, sebbene venata da una sorta di nervosa preoccupazione che la rende tesa e un po’ indispettita. In qualche modo, riesco a capire che quel fastidio non è rivolto a me, e perciò non lo sento come una minaccia.
- Credo di sì. – ammetto, distogliendo lo sguardo senza riuscire ad abbassare il viso come vorrei solo perché le sue dita pressate contro il mento me lo impediscono. Lui ride un po’ tristemente, allungandosi verso di me per abbracciarmi ancora.
- Sei una ragazzina. – sussurra sulla mia pelle, - Non puoi lasciare che siano gli umori di tuo padre a regolare la tua vita. Altrimenti, - aggiunge con un’altra risata, - mi sa che ti tocca anche lasciarmi, visto che credo che approverebbe anche meno questo che non vederti cantare su un palco.
Faccio uno sforzo e torno a guardarlo. In qualche modo sento di doverglielo, anche se fa così dannatamente male.
- Forse è quello che dovrei fare. – sussurro, la voce rotta da un singhiozzo che non riesco in alcun modo a trattenere. Lui spalanca gli occhi, mentre poggia entrambe le mani ai lati del mio viso, avvicinandosi appena.
- Lu. – comincia, - Lu, non dire stronzate, adesso.
Cerco di abbassare di nuovo lo sguardo ma lui mi tiene immobile, ed allora chiudo gli occhi, strizzando forte le palpebre.
- Scusami. – mormoro.
- Lu, non dire stronzate, adesso! – ripete lui, a voce più alta, ed io chiudo gli occhi con più forza mentre sollevo le mani a coprirmi le orecchie.
- Ti prego. – piagnucolo, ma non so nemmeno per cosa lo sto pregando. Perché mi lasci andare, forse, o forse perché provi in tutti i modi a farmi cambiare idea.
- Non mi pregare. – ribatte lui, stringendo più decisamente la presa sul mio viso, - Non mi pregare, cazzo. Lu, cos’è successo?
- Niente…
- Cos’è successo?!
- Non voglio che stia male!
- Quindi preferisci soffrire tu? Preferisci che stia male io? Preferisci distruggere tutto quello che abbiamo solo perché così non dovrai mentirgli, né spezzargli il cuore dicendogli la verità?! È più importante che lui sia sereno, rispetto alla nostra vita, al nostro futuro, al—
- Tom, è mio padre! – strillo interrompendolo, ed allontanandomi da lui con uno strattone così forte da rischiare quasi di inciampare nella foga con cui indietreggio, - È mio padre, è l’inizio e la fine della mia vita, è la cosa più importante che ho, è il motivo per cui sono qui, è anche il motivo per cui ho te! Come puoi— come puoi non capire?! È mio padre, è lui che mi ha dato la vita.
- Ed è anche lui che te l’avrebbe tolta, se solo tua madre non avesse deciso di tenerti. – dice amaramente lui, ed io trattengo il respiro, indietreggiando ancora.
- Sì, forse. – annuisco cercando a tentoni la maniglia della porta, - Ma non è andata così. Io sono viva e lui ha già fatto ammenda per quello. Sono— sono dieci anni che fa ammenda per quello, Tom. – insisto, incapace di trattenere le lacrime, – Spero solo che non mi tocchi fare ammenda per un periodo altrettanto lungo per tutte le bugie che gli ho detto.
Di lui non resta che una macchia chiara sfocata davanti ai miei occhi.
Quando chiudo la porta, neanche quella.
*
Dopo quella scenata, le urla e i pianti isterici e i vaffanculo urlati per strada come in uno sceneggiato italiano, non rividi Mutti per molto tempo. Da un certo punto di vista fu un bene, perché in quel modo io e Vati riuscimmo a cominciare a conoscerci, ci ritagliammo i nostri spazi e poi li incollammo nuovamente insieme come in un collage, facendo in modo che coincidessero. Non è mai semplice quando devi cambiare le abitudini di una vita intera per far spazio alle abitudini di qualcun altro, soprattutto quando per certi versi questo cambiamento ti viene imposto, ma noi, devo dirlo, ce la cavammo alla grande. Mentre Vati prendeva confidenza con lo svegliarsi solo nella propria camera e venire a controllare che stessi ancora dormendo nel mio lettino nella stanza accanto, invece che svegliarsi accanto a Mutti e passare il resto della mattinata con lui prima di dover uscire per lavoro, io mi abituavo a tutte le differenze che c’erano fra la mia vecchia casa e quella nuova, il mio vecchio letto e quello nuovo, la mia vecchia vita e quella nuova. Non c’era più una mamma ma c’era un papà. Non c’erano più abbracci dal profumo dolce, ma c’erano strette forti dall’odore penetrante che mi rimaneva attaccato alla pelle, ai vestiti, ai capelli. Non c’era più la voce sottile e rassicurante che mi cantava le ninne nanne per conciliarmi il sonno, ma ce n’era un’altra, più profonda e intensa, quasi ipnotica, che mi riempiva la testa di fiabe con principesse guerriere, sovrani armati, draghi coi manganelli e castelli del ghetto, catapultandomi in sonni sempre ricchi di sogni che adoravo disegnare quando mi svegliavo, se erano rimasti abbastanza impressi.
Mutti non si fece mai vedere. Passarono delle settimane prima che si presentasse. Ogni tanto, lui e Vati parlavano al telefono, ma finivano sempre con l’urlarsi addosso. Urlavano così tanto che sentivo la voce di Vati anche se in quel momento mi trovavo in un’altra stanza, e se per caso invece quando accadeva ero proprio lì accanto a lui non di rado mi capitava di sentire strillare Mutti nonostante il telefono. Era un rumorino acuto e torrenziale, aspro e incattivito. Quando lo sentivo, non potevo fare a meno di ricordare la sua faccia stravolta dalle urla e dal pianto la prima volta che l’avevo visto. Scappavo sempre in camera, ogni volta che ci ripensavo. E poi chiedevo a Vati di chiamare lo zio Tom per farmi portare fuori a prendere un gelato.
Per quasi un mese, la mia mente si prese la libertà di rielaborare l’immagine di Mutti che aveva a disposizione – quella di un ragazzino addolorato e frustrato, in sostanza – e trasformarla in qualcosa di spaventoso, qualcosa di quasi fiabesco, una strega cattiva dai capelli irti e neri, dai denti aguzzi e dagli occhi iniettati di sangue, qualcosa che non avrebbe sfigurato in nessuna delle storie che Vati mi raccontava prima di spegnere la luce ed augurarmi la buonanotte. Qualcosa di molto cattivo, ma anche molto epico.
Per questo, fu quasi una delusione quando lo rividi. Si presentò in un pomeriggio piuttosto caldo e piacevole. Credo che Vati volesse portarmi al parco, perché ero vestita di tutto punto e lui stava cercando di convincermi che non era il caso di portare con me la bambola di porcellana che nonna Luise mi aveva regalato un paio di giorni prima e dalla quale io non avevo la benché minima intenzione di separarmi. Suonarono al campanello, Karima andò ad aprire ed eccolo là. C’era anche zio Tom, con lui, cosa che in qualche modo forse ridimensionò la sua apparizione nella mia testa, perché ricordo distintamente di averlo visto molto piccolo e indifeso, quel pomeriggio. L’immagine che mi dava era così lontana da quella che avevo immaginato per tutto quel tempo.
- Bill. – lo chiamò Vati. Era così incredulo che la sua faccia era quasi comica. – Cosa ci fai qui? – chiese. Mutti lo sferzò con un’occhiataccia infastidita.
- Non sono venuto per parlare con te. – scoccò superbo, - …non ancora, almeno. – sospirò, voltandosi verso di me e chinandosi sulle ginocchia per potermi guardare negli occhi. – Tu sei Luise Maria, vero? – chiese con aria un po’ timida, stringendosi nelle spalle. Era così magro, sembrava un ragazzino. Portava i capelli raccolti in una coda bassa che spioveva sulla sua spalla, solleticandogli il collo. Provai immediatamente il desiderio di toccarla. C’era qualcosa, in lui, che mi ricordava Tom. Potrei dire che fosse il profumo, ma fraintendereste. Non sto parlando dell’odore della pelle, ma di qualcosa di più profondo, quel qualcosa che ti avvolge quando sei di fronte a qualcuno, e che è capace di farti sentire a tuo agio o, al contrario, completamente fuori posto. Lui e Tom ce l’avevano, ce l’avevano uguale. Fu quella la prima volta che notai quanto si somigliassero. Annuii, nascondendomi per quanto potevo dietro la bambola di porcellana, che era alta quasi quanto me. Mutti sorrise, e quello fu un sorriso così bello che la bambola quasi mi scivolò via dalle braccia. – Vuoi uscire a prendere un gelato con me e Tomi? Mi piacerebbe parlarti un po’.
Annuii, tendendo le braccia verso zio Tom perché fosse lui a prendermi in braccio.
- La bambola… - dissi, non sapendo dove metterla. La sua generale enormità ci ingombrava.
- Lasciala qui, - suggerì Vati, - così non si rompe.
- Posso prenderla io, se vuoi. – mi sorrise ancora Mutti. Io considerai le opzioni per un po’. Volevo davvero portare quella bambola con me. Finii per lasciarla a lui, che la tenne in braccio esattamente come zio Tom stava tenendo in braccio me, per tutto il tempo.
Andammo al parco. Comprammo il gelato. Ci sedemmo su una panchina. Zio Tom si rifugiò nell’angolo più lontano, come gli desse fastidio la sola idea di intromettersi in quello che aveva tutta l’aria di voler essere un discorso molto privato. Appena ci fummo seduti, dopo aver finito il gelato, Mutti mi ridiede la bambola e lasciò che me la sistemassi in grembo.
- Tuo padre, sai, è un cretino. – mi disse quindi. Io lo guardai. Ero ancora arrabbiata perché lui aveva insistito tanto per cercare di impedirmi di portare la mia bambola con me. Annuii vigorosamente, e Mutti rise divertito. – Sai cosa? – disse quindi, - Se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima, e molto più facilmente.
Quella fu la prima volta che mi raccontò tutta la storia, quella che ormai da mesi sto cercando di mettere per iscritto su questo quadernetto per capire se c’è un punto al quale posso ritornare per rimettere a posto le cose. Per smettere di mentire. Per dire a tutti che sono innamorata, che non l’ho chiesto io, che è semplicemente successo e non posso farci niente se è andata così.
Ma immagino che a questo punto non mi serva più.
L’autobus si ferma a due passi da casa. Metto a posto il quaderno nello zainetto e medito di buttarlo via, più tardi. Potrei anche organizzare qualcosa di simbolico. Potrei bruciarlo, o seppellirlo. Gettarlo nel cestino della carta straccia sembra un po’ troppo poco per riuscire a cancellare dalla mia memoria quello che c’è scritto dentro, e anche tutto quello che non c’è scritto ma che scrivendo m’è venuto da pensare.
Pioviggina. Fa freschetto, ma è un bel tempo. Uggioso e malinconico. L’aria non è grigia, ma azzurrognola. Il sole è appena tramontato. Sono stanca perché sono fuori da stamattina, e mi sembra di aver buttato via una giornata intera. Una carriera, una vita, una storia d’amore.
Mi sento patetica quando, oltrepassando il cancello di casa, vedo Mutti steso sul dondolo sotto il porticato e, al solo posargli gli occhi addosso, mi metto a piangere. Lui si tira su, sollevandosi sulle braccia per mettersi a sedere non appena mi scorge.
- Lu? – mi chiama piano, eppure la sua voce sottile mi rimbomba nelle orecchie. Stringo i pugni lungo i fianchi e, quando sento il peso delle lacrime gonfiarsi nel petto, lo lascio andare tutto assieme con un singhiozzo stremato, lanciandomi verso di lui ed accucciandomi contro il suo petto quando mi stringe fra le braccia, accarezzandomi lentamente i capelli e sussurrandomi all’orecchio parole dolcissime per tranquillizzarmi. – Tesoro, cosa è successo? – mi domanda, baciandomi sulla fronte e sulle tempie, - David è stato qui, un paio d’ore fa. Eravamo così in pensiero per te.
- Sono una stupida… - mormoro fra i singhiozzi, nascondendo il viso fra le pieghe dell’ampia maglia che indossa, - Mi dispiace così tanto, Mutti…
- Calmati, adesso. – sorride lui, senza smettere di accarezzarmi neanche per un secondo, - Smetti di piangere e raccontami cos’è successo.
- Mi sono rifiutata di parlare con Briegmann… - comincio, restando nascosta contro di lui.
- Non vuoi cantare? – mi chiede lui, cullandomi fra le proprie braccia, - Credevo ti piacesse.
- Mi piace! – mi affretto a rispondere, - Mi piace, ma non lo so se è quello che voglio, e comunque non è quello il punto, Mutti, è che… - inspiro in un singhiozzo stremato, - ho una grande confusione in testa… Mutti, sono innamorata…
- Cosa…? – chiede lui, agitandosi immediatamente. Prova a mettersi seduto, ma visto che io non accenno a spostarmi e non glielo lascio fare si limita a stringermi il viso fra le mani, obbligandomi a guardarlo. – Perché non me l’hai detto, tesoro? Chi è?
- Non— non potevo. – singhiozzo, cercando di nascondermi un’altra volta contro il suo petto ma trovando la resistenza decisa della sua stretta ancora forte sui miei zigomi, - È… è successo tanto tempo fa, va avanti da un po’, io… mi vergognavo così tanto…
- Perché avresti dovuto? – insiste Mutti, e i suoi occhi sono pieni di dolore. Mi stringono il cuore. – Tesoro, tieni sempre a mente che per quanto complicata possa essere una situazione in cui ti cacci, io e tuo padre siamo qui per aiutarti. Anche per indirizzarti in quei momenti in cui ti sembra di non avere nessuna scelta. Ce l’hai sempre, una scelta, solo che a volte non riesci a vederla.
- Questa volta no. – mugolo, socchiudendo gli occhi per sottrarmi al suo sguardo così profondo e dolce, - Questa volta non ne avevo proprio una.
- Perché dici così? – mi chiede Mutti, e la sfumatura addolorata che prima era solo nei suoi occhi si è trasferita anche nella sua voce, che s’incrina appena. Non vorrei deluderlo così. Odio fargli questo. Odio questo momento e odio essere innamorata e odio non riuscire a smettere di pensare a quanto amo Tom e odio essere qui, piangere, stare così male e singhiozzare fino a sentirmi rimbombare nella testa i battiti del mio stesso cuore.
- Perché è innamorata di tuo fratello. – dice Vati. La sua voce è gelida, e ci paralizza entrambi. I miei occhi si spalancano all’improvviso su quelli di Mutti, che non stanno più guardando me, ma un punto oltre la mia spalla. La sua presa si fa più morbida e io ne scivolo via come tanti anni prima la bambola di nonna Luise è scivolata via dalle mie braccia.
Se non cado per terra, se non mi rompo in mille pezzi, è solo perché mentre scivolo un paio di braccia forti si chiudono attorno a me e mi sostengono, esattamente come hanno fatto le mie con quella bambola in quel pomeriggio estivo che nell’aria cupa di questa sera che odora di pioggia sembra così insopportabilmente lontano.
Il profumo di Vati mi avvolge all’improvviso. Oltre la sua spalla, vedo zio Tom appoggiato allo stipite della porta. Ci guarda e ha gli occhi grandi e rossi e lucidi. Sembra improvvisamente molto più giovane di quanto non sia, mi ricorda il ragazzino che mi è corso dietro quando l’unica cosa che volevo era scappare il più lontano possibile da questa casa.
Non ho mai smesso di scappare, da allora. Forse ho smesso di correre, ma di scappare, di nascondermi… non ho mai smesso di farlo.
- Mi dispiace. – sussurro senza fiato, stringendo le mani attorno al tessuto della sua maglietta. Mutti, ancora seduto sul dondolo accanto a noi, ha gli occhi spalancati e pieni di lacrime ed una mano premuta sulla bocca.
- Dispiace anche a me. – sussurra Vati, stringendomi così forte da darmi l’impressione di volermi nascondere dentro il suo stesso corpo. Al caldo, al sicuro, dove niente potrà ferirmi. – Mi dispiace che tu non me ne abbia parlato. Mi dispiace che tu mi abbia mentito così a lungo. Mi dispiace che, spinta dal senso di colpa, tu abbia incasinato ancora di più la situazione, facendo soffrire David, facendo soffrire Tom e facendo soffrire alla fine anche noi. Ma più di ogni altra cosa… - si allontana, accarezzandomi una guancia con due dita e poi appoggiando la fronte alla mia, chiudendo immediatamente gli occhi mentre io lo imito, fingendo che non esista nient’altro al mondo oltre al battito sincronizzato dei nostri cuori, - più di ogni altra cosa mi dispiace che tu abbia potuto pensare che sarei stato più felice sapendoti triste perché ti eri privata di qualcosa che amavi solo per farmi contento.
Mi si spezza il respiro in un singhiozzo sollevato, mentre sulle mie labbra si fa strada un sorriso più sereno. Mutti piange silenziosamente, allungando una mano ad accarezzarmi i capelli. Vati torna ad abbracciarmi stretta, ed io vorrei soltanto che zio Tom potesse avvicinarsi solo un po’, perché mi basterebbe sentire addosso il tepore del suo corpo per rendere questo momento finalmente perfetto.
Allungo un braccio alla mia destra, cercandolo nell’aria umida della sera. Le sue dita si intrecciano con le mie quasi subito. Sono tiepide e ruvide e sue. Quest’unione, invece, è nostra. Di tutti noi.
- Non so se voglio tornarci, da Briegmann. – confesso in un sospiro, - Forse non è cantare, quello che voglio.
- Qualunque cosa tu voglia, - sospira Vati, dondolandomi un po’ prima di lasciarmi andare, - a me andrà bene. – poi si ferma e riflette. – Cioè, non qualunque. Faremo una lista. Più tardi. – si corregge, annuendo a se stesso. Io sorrido, e sorride zio Tom, e sorride Mutti, e sta sorridendo anche Vati. Mi chino a recuperare lo zainetto che ho abbandonato per terra quando sono arrivata, rovisto al suo interno e ne tiro fuori il quadernetto gonfio della nostra storia. Lo porgo a Mutti, che lo prende a lo guarda da ogni lato prima di aprirlo e leggerne le prime frasi, per poi lanciarmi un’occhiata grande e gonfia di pianto.
- Forse è questo quello che voglio fare. – sorrido, - Ti piacerebbe leggerlo?
Mutti si stringe il quaderno al petto. Poi fa lo stesso con me.
Mentre rientriamo in casa, con la voce di Vati che continua a borbottare di quel famoso elenco che dovremo comunque assolutamente redigere, faccio in tempo a chiedermi se ho un quadernetto ancora nuovo, in camera. Il seguito voglio cominciare a scriverlo da stasera stessa.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, David/OMC.
Rating: PG-15
AVVISI: Slash, Lime, OC.
- "Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti."
Note: Sì, lo sappiamo, questa shot è inutilmente enorme ma è divisa in cinque comode rate (una per ogni POV) in cui vi sarà più facile leggerla, magari mentre siete al gabinetto e avete finito il venerdì di Repubblica. Come sia nata questa faccenda dei pantaloni io non me lo ricordo, ma quasi sicuramente risale a due anni fa perché questa serie, che ci crediate o no, era in programmazione da che Bushido e morto, ed è stata plottata nei dettagli all'inizio di SE, quindi figuratevi xD
Con questo le scosse di assestamento sentimentale si considerano concluse. Possiamo dare il via... a tutto il resto.
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L’INCRESCIOSO CASO DEI PANTALONI DI PELLE (A MEZZANOTTE)

Il telefono squilla, ed io ho tutto il tempo per rimpiangere i bei tempi andati in cui tutta la gente che frequentavo abitualmente si odiava o non poteva vedersi per motivi vari ed eventuali, prima di rotolare sulla pancia – e su J.J. steso accanto a me, naturalmente – ed artigliare il cellulare abbandonato sul comodino accanto alla sveglia. Sveglia che, peraltro, indica le ore sette del mattino. Nessun cantante ha mai da fare alle sette del mattino. I cantanti dormono ancora profondamente, alle sette del mattino, e così fanno i loro manager, naturalmente. Prego che non sia Bill, prego che sia mia madre che mi chiama per annunciarmi qualcosa di incredibilmente grave, prego sia Tom che mi cerca nel panico perché dal suo losco passato di sedicenne imbizzarrito è venuta fuori una groupie con un figlio di tre anni in cerca di un assegno di mantenimento, prego che sia qualcosa, insomma, che dia un senso a questo mio svegliarmi all’alba mentre sotto di me un uomo con addominali perfettamente scolpiti anche nella placidità del sonno inspira ed espira profondamente, sistemandosi appena per permettermi di restargli appoggiato addosso mentre prendo il cellulare fra le mani e ne scruto il display illuminato con aria perplessa.
Prego intensamente per tutto ciò, e invece, ovviamente, è solo Bill.
Mi abbatto già esausto su quella paradisiaca superficie che è la meravigliosa pancia di J.J., e lui comincia immediatamente ad accarezzarmi la nuca. Non capisco se dorma ancora o meno, ma comunque non m’importa, quest’uomo è palesemente il modo in cui il karma cerca di riequilibrarsi ridandomi gioia dopo avermi riempito di dolore fino ad ora, e quindi egli, se vuole, può continuare a dormire mentre mi accarezza come fossi un gatto. Dio lo benedica.
- Pronto? – biascico con aria palesemente poco compiaciuta, sperando che Bill capisca l’antifona e strilli “ho sbagliato momento, penso fuggirò in Papuasia per i prossimi tre mesi!”. Naturalmente, però, è di Bill che stiamo parlando, perciò lui strilla comunque, ma naturalmente per dirmi tutt’altro.
- Dada! – cinguetta felice, - Come ti senti oggi?
- Assonnato, Bill. – rispondo, - Come ogni giorno a quest’ora. Si può sapere cosa ci fai già in piedi? Il tuo tappeto rosso non si srotolerà prima di un altro paio d’ore almeno, all’incirca.
- Anis non ne voleva proprio sapere di lasciarmi in pace, stamattina. – borbotta lui, falsamente corrucciato, mentre io realizzo che ha usato l’espressione stamattina e che ciò implica una mattina più mattiniera di questa, che a me pare già mattiniera a sufficienza. Bushido, io e te dovremo parlare a lungo, quando mi sarò rimesso completamente in forze. – Ha cominciato subito a tocchicciarmi appena gli ho portato la colazione, e allora—
- Non voglio sapere i particolari, Bill. – sospiro stancamente, - Sono cose che ho avuto modo di apprendere con dovizia di particolari negli anni, il ripasso conservalo per quando avrai dei figli gay a cui somministrarlo.
Lui borbotta confusamente qualcosa che assomiglia molto ad una protesta perché non lo lascio esprimere nel modo che lui trova più consono, ma fa presto a riacquistare il buonumore quando insisto a chiedergli cosa voglia da me in questo preciso istante. Lo sento trillare come un campanellino scosso dal vento e battere entusiasticamente le mani come il mentecatto treenne che diventa quando crede di avere avuto un’idea meravigliosa, ed alzo gli occhi al cielo perché so già che invece non sarà proprio niente di eccezionale.
- Senti, senti, - mi dice infatti, con aria vagamente cospiratoria, - ho avuto un’idea meravigliosa.
- Sento, sento. – gli faccio eco io, abbattendomi sul fianco di J.J. Al momento, le sue dita fra i miei capelli sono l’unica cosa che mi tenga lontano dalla pazzia.
- Ho pensato, sono passati già un paio di giorni da quando sei stato dimesso, no? – chiede con gioia. Io inarco un sopracciglio.
- No, Bill. – rispondo, - Sono stato dimesso ieri. Meno di dodici ore fa, in realtà.
- Dettagli. – mi liquida lui, del tutto disinteressato alla precisazione che io invece ritengo essere di una certa importanza, - È passato comunque abbastanza tempo da non dover temere che, per esempio, mangiando un piatto di sciorba tu possa aprirti e spargere budella nel mio salotto, no?
- Bill. – mugolo con dolore reale, passandomi una mano sugli occhi, - Un piatto di sciorba mi ucciderebbe anche se fossi perfettamente in salute. E poi c’è la carne, io non la mangio la carne, ma che te lo ripeto a fare? Mi conosci da un millennio e se non ti è ancora entrato in testo dubito che lo farà mai.
- Sì, infatti sarebbe senza carne, mi pare ovvio. – ribatte lui, quasi oltraggiato dalla mia palese mancanza di fiducia nei suoi confronti. – Senza carne va bene?
- La carne è il minore dei problemi della sciorba, Bill. – gli faccio presente, - In quella roba, fra fagioli, ceci, triplo concentrato di pomodoro e peperoncino, c’è tanto di quel potenziale omicida che non riesco a credere che cucinare e servire una pietanza simile, pur nel privato, possa essere una pratica legale in un paese civile quale la Germania è.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, ponderando la questione, e poi sbuffa.
- Non importa, ne mangerai di meno. – conclude quindi.
- Bill! – lo rimprovero io, sconvolto, e lui sbuffa ancora.
- Non voglio andare da Karima per dirle di cambiare menu! Ha già preparato tutto! Non c’è abbastanza tempo per chiederle di cucinare altra roba! – butta lì, come se queste fossero cose che nella mia testa dovessero avere un senso. Non ce l’hanno, però, è evidente. Non c’è abbastanza tempo perché? Che appuntamento è stato preso al posto mio mentre io mi rilassavo fra le possenti braccia di J.J.? Ho quasi paura a chiederlo. Ma devo.
- Bill. – dico piano, inspirando ed espirando profondamente, - Di cosa diamine stai parlando?
Bill si interrompe ancora, riflessivo.
- Ho invitato tutti! – dice quindi, ostinandosi a non dirmi quale sia invece il fulcro della questione, limitandosi a lasciarlo scivolare fra le parole.
- Bill. – lo chiamo con disappunto. Lui mi ignora.
- Ho pensato fosse una cosa carina! – insiste.
- Bill! – insisto anch’io.
- Non arrabbiarti! – piagnucola lui, - Ho organizzato una cenetta qui a casa di Anis, in tuo onore, s’intende, e ormai è tutto organizzato, vi aspettiamo tutti per le sette e mezza, quindi più o meno fra altre dodici ore esatte, quando sarai stato dimesso da ventiquattro ore piene, e volevo avvertirti! Mi sembra che la scelta di tempo sia stata sufficientemente buona, tu che dici? – chiede quindi. Faccio per protestare che no, ma mi rendo conto che non sta parlando con me, perché Bushido gli risponde con una risata incredibilmente divertita, e allora io capisco.
- Bill. – lo chiamo per l’ennesima volta, atono, - Passami tuo marito.
- Ma Dadaaa. – sbuffa lui, mugolando risentito. Io non dico una parola e spero che lo sguardo disapprovante che sto lanciando alla parete bianca di fronte a me travalichi i limiti spaziotemporali che lo separano da Bill e gli appaia come in sogno. Forse questo non succede davvero, ma un paio di secondi dopo sento una risata familiare alla cornetta e so che sono stato telefonicamente introdotto di fronte al signore e padrone di tutti i popoli e specialmente di questo sparuto gruppo di persone che siamo e che non hanno ancora deciso di prendere tutti il primo aereo per i quattro angoli più distanti del globo al solo scopo di liberarci dal suo giogo oppressore.
- Bushido. – dico severamente, - È stata una tua idea?
- La cena no. – risponde lui, con tutta la sincerità di questo mondo, - Chiamarti alle sette del mattino sì.
- Ma sei un cretino o cosa?! – strillo io, agitandomi e piantando un gomito nella parete addominale di J.J., che sarà perfetto ma in fin dei conti è fatto di carne e sangue anche lui, e nel momento in cui il mio gomito si piazza fra le sue povere viscere strabuzza gli occhi, sputa un considerevole sbuffo di fiato e si piega in due, obbligandomi a rotolare fino ai piedi del materasso mentre ancora mi dimeno come un esagitato. – Ma ce l’hai un minimo di rispetto per l’altrui persona?! E, cosa ancora più importante, ma non hai proprio un cazzo da fare nella vita, tu?! Hai un ragazzo, adesso, vivaddio ti è stato restituito pressoché intatto perché palesemente anche il karma ti è asservito senza un motivo ben preciso, e tu cosa fai? Perdi il tuo tempo chiamando me, o facendomi chiamare dal suddetto ragazzo, invece di approfittare del suo giovane corpo fremente di desiderio al tuo fianco! Sei una vergogna per la tua razza, ritirerò il tuo patentino di omosessualità immediatamente, appena verrò a casa tua.
Bushido, naturalmente, ride per tutto il tempo, dalla prima all’ultima parola. J.J. striscia sul materasso rantolando e poi si alza in piedi, annunciandomi che si farà una doccia e poi andrà a lavorare, lui che un lavoro serio ce l’ha. Io mugolo “nooo, non te ne andare”, e J.J. ride, e Bushido ride pure lui, e riesco perfino a sentire la risata di Bill, un po’ più distante, perché lui è come i neonati, che quando ti vedono ridere ridono pure loro per imitazione. Siccome immagino cosa dev’essere vedere Bushido ridere mentre il suo viso è incorniciato dai suoi lunghi e morbidi capelli corvini e tutto il mondo ritrova la pace sul suono della sua voce, non fatico a credere che Bill stia ridendo come un mentecatto perfino in questo momento, ma il risultato finale è solo che tutti ridono, e ridono di me, e io li odio. Mi rannicchio ai piedi del letto e sbuffo platealmente, sono molto arrabbiato e Dio, mi sento così bene che alla fine scoppio a ridere a mia volta, nella soddisfazione di tutti, mentre dal bagno cominciano a venire i suoni tintinnanti dell’acqua lungo le pareti della doccia e Bushido schiocca un discreto bacio di trionfo sulla guancia di Bill. Sospiro profondamente. Sono felice davvero.
- Jost. – mi chiama Bushido, la sua voce è allegra ma è venata da quel pizzico di serietà che utilizza sempre quando sta per dirti qualcosa di veramente importante, perciò mi metto sull’attenti e drizzo le orecchie, per ascoltarlo al meglio. – È una cosa di cui abbiamo tutti molto bisogno. – mi dice con franchezza. Io penso a loro due, penso a quegli altri due e alla loro inaspettata quanto inopportuna entrata a pieno titolo nel mondo delle coppie omosessuali dello showbiz tedesco ed annuisco.
- D’accordo. – confermo a voce, visto che nessuno qui può vedermi, - A stasera.

Tutti noi qui abbiamo bisogno di una cena in famiglia, e ciò è molto vero. È vero soprattutto perché fino a un mese fa, non volendo considerare il ritorno di fiamma fra i gemelli, l’unica coppia che avesse ancora senso definire tale era quella composta da Tom e Cassandra, mentre tutti noialtri andavamo in giro ramenghi, privi di un amore e di uno scopo per cui valesse la pena vivere.
Ebbene tutto questo è cambiato nel giro di tre giorni quando, dopo un mese di convivenza a casa di Bushido – a mio parere inutile e paragonabile solo ad un lungo e melenso preliminare platonico – la coppia reale s’è ritrovata rifulgendo splendore e spargendo nell’aria tedesca un miliardo di minuscole particelle subatomiche cariche di energia omosessuale positiva. Tale energia ha permesso a me e J.J. di continuare a vederci anche se lui non doveva più passarmi creme cicatrizzanti sulla pancia, e non solo, ha portato alla luce anche delle tragiche vibrazioni nella forza, e queste vibrazioni nella forza hanno prodotto una relazione fra Fler e Chakuza. Per molto tempo, tutti noi abbiamo aspettato che anche Eko Fresh ci presentasse il proprio ragazzo, cosa che almeno ci avrebbe rassicurato sulla follia generale, ma ciò non è mai accaduto, per cui ci siamo dovuti arrendere al fatto che fra Fler e Chakuza non c’era proprio niente di folle, e che quindi questa gente ci doveva quantomeno delle spiegazioni.
Insomma, viene fuori che in realtà ad accostare le parole Fler, Chakuza e gay si ottengono un mucchio di ricerche correlate stile Google, di alcuni risultati delle quali Bill era perfino a conoscenza!, che portano alla luce numerosi dettagli come il fatto che in realtà Fler e Chakuza avevano già una storia un millennio di anni fa, poi s’erano lasciati, poi s’erano ripresi, e via così lasciandosi e riprendendosi a fasi alterne a seconda che Bushido fosse vivo o morto, che Bill fosse o meno disponibile e che gli astri fossero o meno allineati. Nella storia, a un certo punto, s’è inserito un ragazzino minorenne biondo di cui so poco e intendo continuare a sapere poco. Le uniche informazioni in mio possesso sono il suo nome – Daniel – la sua età e il dettaglio per cui mentre Bushido era in tour a farsi uccellare da Bill e Chakuza, lui invece era a Berlino e si occupava di Fler, rimasto solo a leccarsi le ferite, facendosi in un certo senso uccellare anche lui, ma in modo diverso.
Ora, vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione di Bushido a tutto questo: io e lui eravamo in pratica gli unici in qualche modo coinvolti a non sapere un beneamato piffero di tutti questi intrecci sentimentali, ma mentre per me si trattava in fondo solo di una serie di informazioni di cui prendere atto, per lui è stata una tragedia; era un uomo felice, stava vivendo una nuova primavera, e in un colpo solo scopre non solo che Chakuza gli ha manomesso entrambi i fidanzati, ma che uno dei due, mentre lui era lontano, l’ha tradito con un imberbe del ghetto. Onta e disonore. È rimasto immusonito per settimane.
In pratica, nel giro di un periodo di tempo troppo breve e palesemente insufficiente a metabolizzare il tutto come sarebbe stato giusto, ci siamo ritrovati a passare dall’essere un gruppo di persone eterogeneo con variabili di omosessualità sparsa, a diventare una cooperativa gay a tutti gli effetti, di quelle che hanno tesserini, liste elettorali e tasse d’iscrizione. Non so se rendo l’idea. Non è che ci serva una cena, ce ne servono trecento per entrare nell’ordine di idee, ed altre trecento almeno per abituarci al tutto.
Perciò, è non dico con piacere, ma con coraggioso spirito di sacrificio che mi presento a casa di Bushido all’orario convenuto, portando J.J. con me. Tra l’altro, lui è stato meraviglioso: avrebbe tranquillamente potuto dirmi che lui con questa mandria di scoppiati non ha niente a che fare, che non è nemmeno il mio medico, cosa peraltro vera, e che solo una combinazione di eventi e l’anzianità del dottor Neuer l’hanno portato a doversi prendere cura di me e poi a diventare il mio ragazzo, e che per tale motivo potevo venire qui da solo e ci saremmo visti al limite in nottata o al massimo l’indomani mattina, e invece s’è dimostrato molto disponibile, e brillando di luce propria s’è offerto di staccare prima da lavoro per passare da casa mia e venire qui insieme, invece di presentarci separatamente. Dopo questo, gli ho chiesto di sposarmi, ma lui ha riso e mi ha scompigliato i capelli come se fossi un tredicenne. Qui nessuno capisce che il mio desiderio di metter su famiglia con un Adone buono come un santo è tremendamente reale e forte.
Comunque, a cena ci sono tutti. Ci sono Tom e Cassandra, Fler e Chakuza, Eko e Kay One – non nel senso di coppia, fortunatamente, solo nel senso degli unici due uomini spaiati presenti a tavola, anche se in realtà Kay One la ragazza ce l’ha e tutti sappiamo che esiste perché è Mandy delle Monrose, ma non ce l’ha mai presentata e suppongo sia perché lei davvero con questa follia non vuole avere niente a che fare – io e J.J. e naturalmente i padroni di casa. Del minorenne del ghetto non c’è traccia, probabilmente perché Fler l’ha lasciato e lui non deve averla presa molto bene, come qualunque minorenne del ghetto o meno, e anche Karima non c’è, ha la serata libera, e questo dà a Bill l’occasione di fingersi una massaia e portare a tavola pietanze come fossero frutto del suo duro lavoro, cosa che tutti quanti sappiamo non essere vera, anche se nessuno, vedendolo così felice e soddisfatto di sé, ha cuore di farglielo notare.
La conversazione inizialmente è stagnante. Non ci ritroviamo così tutti assieme da… forse non è mai successo di ritrovarsi così tutti assieme, per dire la verità, per cui i primi minuti siamo tutti molto freddi e ingessati. Facciamo i complimenti (immeritati) a Bill per la sciorba, che nonostante non abbia neanche un pezzettino di carne in sé è pesante come un macigno, parliamo del lavoro, di quanto sia dura ultimamente per le case discografiche investire alla cieca visto il clima di recessione generale, parliamo perfino del tempo e del fatto che quest’anno abbia cominciato a fare freddo prima del solito, e poi, quando siamo qui sull’orlo della tragedia che pensiamo già con disperazione di parlare della morte del polpo Paul giusto per darci qualcos’altro da dire, Eko comincia a delirare qualcosa di sostanzialmente incomprensibile su quanto sia buffo stare a tavola tutti insieme e quanto tutto questo lo faccia sentire in una puntata di Verbotene Liebe “ma più gay, cioè, ancora più gay”, e questo fa la magia.
Non è che succeda qualcosa di particolare, semplicemente ci mettiamo tutti a ridere e sentiamo che queste risate non sono false, non suonano strane, anzi, c’è una certa chimica che le avvolge, le fa risuonare nel modo giusto in questa stanza ed alle nostre orecchie, e quando smettiamo di ridere ci guardiamo e c’è una nuova consapevolezza che ci pervade tutti. È una vocina sottile e ancora un po’ timorosa che ci spiega che adesso è troppo presto per fare passi da giganti, per dire “è già tutto a posto”, ma al contempo ci rassicura sul fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta, e non sarà stasera, e probabilmente neanche durante la prossima cena che faremo, ma se continueremo di questo passo prima o poi ritornerà tutto a posto davvero, e questi fili monchi che pendono potremo riallacciarli correttamente, e i nodi saranno stretti abbastanza da non sciogliersi più.
È con questa voce carezzevole che ancora mi riecheggia nelle orecchie che, un paio d’ore più tardi, mi appresto a salutare tutti ed andare via. Una decina di minuti fa, Bill ha fatto una marea di scene, s’è stiracchiato, ha sbadigliato ampiamente almeno trenta volte e poi, con voce fintamente impastata dal sonno, ha annunciato di essere molto stanco e di volere andare a dormire. Un modo molto tenero per dirci che la rimpatriata gli era piaciuta ma ora voleva restare solo con Bushido, per cui se avessimo potuto levarci di torno senza fare grandi storie lui l’avrebbe apprezzato moltissimo.
Unanime, un coro di “sì, effettivamente s’è fatto un po’ tardi” s’è sollevato da tutti gli astanti, e questo nonostante fossero appena le dieci e mezza. Il potere della persuasione, dei cui mistici segreti Bill è sempre stato gran custode e conoscitore. Quindi Bill s’è alzato da tavola, ha salutato tutti come quei bambini che vanno a letto presto e lasciano i grandi a discutere delle loro faccende e s’è defilato al piano di sopra. Noi ci siamo lanciati tutti una serie di occhiate vagamente confuse e vagamente divertite, e poi abbiamo cominciato a defluire verso l’uscita.
Io e J.J. ci allontaniamo per primi, anche perché la sciorba comincia a fare effetto e io sento di essere pronto alla morte. Lo faccio presente a J.J. che si offre di restare con me stanotte, cosa che io apprezzo enormemente. Di ciò che segue la mia dipartita verso casa non posso parlare, perché non c’ero, ma alla luce di ciò che se ne racconterà favoleggiando nei giorni successivi, penso che passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo. E se si tiene presente che questa cena e questa serata sono stati i punti fermi su cui abbiamo poggiato il primo mattone per la ricostruzione di ciò che eravamo… be’, è abbastanza evidente che il futuro non poteva che presentarsi come parecchio complicato già in partenza.

*

Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti. Non è che fossi uscito di casa con l'idea di fare spese – anche perché non sono proprio in condizione di spendere più di quanto guadagno, che poi è niente visto che non abbiamo ancora un'etichetta – ma loro erano lì in vetrina che mi imploravano di comprarli e io non ho avuto cuore di passare oltre e lasciarli al loro destino. Sono costati un occhio della testa ma, visto che li ho comprati soprattutto per usarli con Anis, li considero una specie di piccolo investimento. Serviranno per riaccendere il fuoco della passione; anche se in realtà non è che si sia mai spento, anzi, tra tutte le cose possibili, forse si è addirittura propagato, dal momento che Anis non mi lascia in pace un minuto e ho sempre le sue mani addosso, molto più di quanto le avessi prima. Il fatto è che Anis si annoia in fretta, quindi se voglio che questa situazione si perpetui nei mesi a venire, devo lavorare di fantasia.
Adesso io mi infilerò questi pantaloni di pelle e magari quella maglietta che Anis finge non sia da donna solo perché lo fa impazzire il modo in cui mi esce una spalla dallo scollo a barca, e poi scenderò al piano di sotto dove lui potrà possedermi selvaggiamente sulla prima superficie disponibile, dopo avermi strappato i vestiti di dosso a morsi. Metaforicamente parlando, s'intende.
Quest'idea di vestirmi in un certo modo solo per farmi spogliare il più velocemente possibile e battere così ogni nostro precedente record di preliminari, la covo già da un po', da molto prima di comprare i pantaloni in realtà. E' che durante il giorno Karima è sempre in casa e quando arriviamo alla sera e lei finalmente si ritira nella sua cuccia in cantina – o dovunque dorma, non lo so, in una catapecchia in giardino forse – alla fine mi passa di mente e con Anis finiamo a fare sesso a letto, che è sempre una cosa meravigliosa, ma non quella che volevo fare io.
Questa è la serata perfetta per portare a termine il mio piano geniale perché è il giorno libero di Karima, il che significa che una volta salutati i nostri amici e chiusa a doppia mandata la porta d'entrata, questa casa gigantesca sarà solo mia e di Anis, con tutti i benefici del caso. Se penso che stamattina quella strega malefica voleva mandare tutto all'aria rinunciando alla sua partita settimanale di canasta con le amiche e restare qui a cucinare e servire per un reggimento quell'unica volta che nessuno le aveva chiesto di farlo, mi sale di nuovo la rabbia.
Mi sono svegliato presto, forse qualche minuto dopo le sette, e non potete capire il disappunto di scendere le scale, attraversare il corridoio, infilarsi in cucina con l'idea di mettere insieme una colazione decente per poi organizzare l'intera giornata e trovarci lei, con la sua divisa color grigio topo che rimesta dentro un paiolo gigante. Soprattutto quando mi ero addormentato la sera prima con la convinzione che non l'avrei più rivista per almeno ventiquattro ore.
Nessuno dovrebbe mai svegliarsi in questo modo, la sola presenza di quella donna disturbava l'intera estetica della villa illuminata dal sole, di Anis che ancora dormiva nudo tra le lenzuola di seta del nostro letto imperiale, ma soprattutto la mia, visto che io odio fare colazione circondato dall'olezzo di mille cipolle. Interrogata, per altro, lei ha avuto il coraggio di dirmi che qualcuno doveva pur preparare la sciorba per la cena di stasera visto che né io né tantomeno il signor Ferchichi sappiamo farlo. Ora, questo è tragicamente vero, ma ciò non significa che lei non potesse preparare questa cosa raccapricciante ieri e lasciarla in una pentola dentro al frigorifero perché noi potessimo usarla come ci pareva, e perfino buttarla se poi a guardarla ci avesse fatto ribrezzo e avessimo voluto farci una pizza.
E invece no. Lei ha risposto che la sciorba non si può preparare il giorno prima, che non può mica stare in frigo che sennò si sciupa e un sacco di altre cose che però non ho ascoltato perché mentre lei le diceva io ho prendevo la colazione mia e di Anis e tornavo in camera, dove mi sono ampiamente lamentato dell'intera faccenda.
Anis, però, queste cose non le prende mai sul serio perché trova Karima adorabile, il che non mi sorprende poi molto perché quella fa la strega soltanto con me e quando poi io lo chiamo per dimostrarglielo, lei diventa uno zucchero e fa tutto quello che le dico senza protestare. Così alla fine Anis non crede mai a quello che gli riferisco e dice che sono esagerato e che non è vero niente.
Lo ha detto anche stamattina mentre si mangiava da solo tutte le brioche che avevo portato senza lasciarmene neanche una. Ovviamente mi sono lamentato anche di quello e gli ho fatto notare che in questa casa non mi si tratta da principessa nemmeno un pochino, ma da lì in poi non ricordo bene come sia andata; so solo che Anis si è messo a ridere e mi ha spogliato di nuovo, così abbiamo finito per fare l'amore e io mi sono dimenticato tutto quello che volevo da lui, almeno fino a quando non abbiamo finito e lui ha ceduto dicendo che le avrebbe parlato.
Alla fine si sono messi d'accordo perché Karima si prendesse solo mezza giornata libera e facesse l'altra mezza domani mattina, il che mi torna ancora più comodo perché adesso lei non c'è e non ci sarà nemmeno quando domani ci sveglieremo, così se vogliamo possiamo pure addormentarci sul tappeto del salotto e lei non potrà svegliarci tirando le tende e dicendo che è tardi e dobbiamo alzarci o, ancora peggio, con la solita storia che siamo due uomini e non sta bene e il cielo ci fulminerà riducendoci in cenere.
Comunque infilarsi questi pantaloni non è facilissimo. Nel camerino del negozio ho fatto delle scene molto ridicole, saltellando per riuscire a tirarli su senza dover necessariamente chiamare qualcuno a darmi una mano e anche adesso non è che mi riesca meglio, nemmeno se mi distendo sul letto e allungo le gambe. Spero che ad Anis non venga l'idea di salire a cercarmi perché potrei dire addio all'atmosfera, e poi comunque sono ancora mezzo nudo, cosa che rovinerebbe un po' tutta l'idea dello scendere e farlo come animali su uno a caso tra i mobili del soggiorno, magari anche senza spogliarsi – anzi, di sicuro senza spogliarsi visto che una volta che sarò riuscito ad infilarmi questi pantaloni né io né Anis saremo mai in grado di togliermeli del tutto in un tempo ragionevole a mantenere una certa libido.
Ci metto quasi dieci minuti, ma alla fine i pantaloni cedono un po', e le mie gambe ci finiscono dentro alla perfezione, la pelle non fa nemmeno una piega. Quando mi guardo allo specchio, penso che mi salterei addosso da solo se non mi piacessero gli uomini più virili di me; il che mi ricorda che Bushido è al piano di sotto e mi viene da ridere all'impazienza che mi fa saltellare e mi arriccia le dita dei piedi.
Non mi sentivo così bene da non so nemmeno quando. Non ho solo voglia di stare con lui, ho proprio voglia di giocare e mi sembra giusto ricominciare a farlo stasera, dopo questa cena che ha fatto tornare le cose più o meno com'erano prima.
Altri cinque minuti per sistemare lo scollo della maglia in maniera strategica e sono pronto. Tendo l'orecchio al piano di sotto ma non sento più il chiacchiericcio degli ospiti che hanno evidentemente colto il mio velato invito a levarsi di torno e se ne sono tornati a casa loro mentre io mi cambiavo; così scendo le scale con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e non aspetto di arrivare in fondo alla rampa, mi basta scorgere il profilo di Anis vicino alla porta per annunciargli la mia presenza. “Amore, dammi un parere, come mi stanno questi pantaloni?” La butto lì così, come se fosse una questione di poco conto e naturalmente mi aspetto una reazione entusiasta che possa dare il via ad un dialogo più o meno azzardato da concludersi nella maniera più classica, il che a ben guardare sembra l'inizio di uno di quei terribili porno di serie zeta che ogni tanto guardano tutti insieme nemmeno fossero tredicenni con una casa libera a disposizione e quindi la possibilità di masturbarsi mentre mamma non c'è.
Comunque quello che sembra non importa affatto, perché qualunque cosa fosse viene eclissato da ciò che poi effettivamente succede, ossia che la risposta entusiasta mi arriva da due voci diverse e per un attimo il tempo si ferma, la Terra smette di girare e rimane sospesa nel buio gelido dell'universo, in attesa che la forza di inerzia si esaurisca e la lasci andare alla deriva chissà dove.
Bushido mi guarda e risponde “Sei bellissimo” ma sono le note più basse della voce di Chakuza che dice la stessa identica cosa nello stesso identico istante a far calare il gelo nella stanza.
All'improvviso mi sento a disagio e penso che questa sia stata una pessima idea, o almeno lo è stata non guardare se c'era effettivamente qualcuno nella stanza insieme ad Anis.
Il silenzio pesantissimo che ci avvolge ha appena distrutto qualunque tipo di serenità avessimo raggiunto nelle ultime due ore.
Mi sento a disagio e vorrei correre di sopra a cambiarmi, o farmi inghiottire qui dove sono dalla rampa di scale, ma Peter è mortificato e Anis lo guarda così male che ho paura stia per saltargli alla gola. Così resto e provo a sistemare le cose, anche se non ho mai prevenuto un omicidio violento prima d'ora e sono quasi sicuro che mormorare “Ragazzi...” con voce incerta non sia la maniera giusta di farlo.
Nessuno si volta nella mia direzione, come se io e i miei pantaloni di pelle fossimo scomparsi subito dopo il disastro che abbiamo generato.
E' Fler che fa ripartire il tempo e la porta che sbatte, uscendo furioso da questa casa, fa girare di nuovo la Terra, che forse non andrà più alla deriva ma di certo ha un grosso problema.

*

Io stamattina non mi ero affatto svegliato con l'intenzione di essere la farfalla che sbattendo le ali in Europa provoca uragani in Cina. Innanzitutto perché mai nella mia vita ho desiderato essere una farfalla, e poi perché mi ero appena ripreso dalla fatica di riparare i danni del mio ultimo uragano e tutto volevo tranne che scatenarne altri, che fossero dall'altra parte del mondo oppure nel salotto di casa dell'uomo che meno li avrebbe apprezzati.
Quella di oggi, in realtà, si era rivelata una giornata molto piacevole e niente aveva lasciato presagire che sarebbe finita in tragedia. Fler ha dormito da me ieri sera, come la sera prima e tutte quelle precedenti – in realtà ha quasi tutta la sua roba da me quindi forse già viviamo insieme da settimane, solo che non ne abbiamo mai seriamente parlato, quindi è come se fosse ancora un ospite – così stamattina abbiamo fatto colazione insieme e poi siamo passati alla EGJ a provare qualcosa, giusto per vedere se ci riusciva ancora.
Gli uffici non sono ancora del tutto attivi ma il grande capo vuole riaprili a breve e, da quanto ho capito di quello che Fler non mi dice con le sue risposte vaghe e imbarazzate, credo che Bushido abbia in mente di far entrare anche lui a far parte della nostra grande famiglia, il che immagino porterà ad una guerra fratricida con l'Aggro Berlin durante la quale Sido e il tunisino si sfideranno a colpi di pistola per decidere chi dei due debba tenere Fler e chi invece dovrà pagare gli alimenti e potrà vederlo soltanto un fine settimana ogni quindici giorni.
Ad ogni modo, stamattina in studio non ci abbiamo trovato nessuno, perché questa crew è in realtà composta da lavativi che per più di un anno e mezzo non hanno fatto assolutamente niente e continueranno a farlo finché l'intera produzione non ricomincerà a pieno regime, ossia quando il grande capo non andrà a prenderli a casa uno per uno e li trascinerà in ufficio dove, in realtà, nessuno farà nulla lo stesso, ma l'importante è che il gruppo sia di nuovo compatto. Io e Fler ci siamo appropriati di una cabina di registrazione e mentre io gli mandavo le basi e missavo, lui ha fatto un po' di freestyle così come veniva, e non è andata affatto male.
E' strano lavorare sulla voce di Fler, perché sono abituato a sentirla e ne conosco ogni singola sfumatura ma non mi era mai capitato di metterci sopra le mani, prima d'ora. Ha una bella voce, molto simile a quella di Bushido ma più alta, e un rappato molto più pulito e lineare del suo. Me ne accorgo soltanto ora che posso lavorarci sopra perché lo avevo ascoltato solo nelle canzoni che ha fatto con l'Aggro Berlin, che sono un vero e proprio scempio; non sono stati in grado di valorizzarlo per niente, sporcando le tracce invece di semplificare le basi per dare più spazio al suo modo di cantare.
Quello su cui abbiamo lavorato stamattina è un accenno di canzone che Fler attacca ormai da una settimana quand'è sotto la doccia. All'inizio nemmeno se n'era accorto, io ero lì che mi lavavo i denti e lui cominciava a prendersela col sistema, il governo e la Berlino borghese che lascia i ragazzi liberi di ammazzarsi in strada per un etto di eroina purché che lo facciano lontano dalle case per bene.
L'ho ascoltato in silenzio per giorni, cercando la base giusta da mettergli sotto, e poi quando mi è sembrato di avere qualcosa, gliel'ho proposto e lui l'ha trovata una buona idea. Il ritornello è già piuttosto chiaro, quindi dobbiamo solo limare tutto il resto e cambiare un paio di rime perché funzionano solo con lo scroscio diseguale della mia doccia dell'anteguerra a coprirne la metà, un suono che mi rifiuto di inserire, nonostante l'insistenza di Fler, visto che rovinerebbe l'idea ben precisa che ho per questa canzone. Tra le altre cose io credo che ci vorrebbe una doppia voce, ma non una come la mia, qualcosa di molto più alto e caldo; una donna, probabilmente.
Stamattina sono uscito dallo studio molto soddisfatto del risultato, anche se in realtà per il momento abbiamo solo pasticciato; potrebbe essere un'ottima idea per ridare vita a quest'etichetta, ma per metterla davvero in cantiere devo parlarne con Bushido, più che altro perché la base è mia ma la canzone è di Fler e dobbiamo capire dove realizzarla. Naturalmente potrei chiedere a Patrick di produrla con la Beatlefield, ma questo scatenerebbe le ire di Bushido.
Io avrei avanzato volentieri l'ipotesi alla cena di stasera, ma Patrick mi ha chiesto per favore di non litigarci di proposito, quindi se non l'ho fatto è stato solo per lui.
Alla fine, durante questa bella rimpatriata – che è stata una palese idea di Bushido al quale, più di ogni altra cosa, piace stare seduto a capo tavola e guardare con aria soddisfatta un numeroso gruppo di persone fingendo di avere il comando assoluto – non c'è stato modo di tirare fuori l'argomento, anche perché le spirali di follia generatesi qualche settimana fa negli occhi di Bushido alla notizia che io sto con Fler non si sono ancora spente e quindi Patrick ha fatto di tutto per non farmi aprire bocca in quel senso.
Per quanto l'illuminato sovrano mi guardasse male, comunque, aveva ben poco da protestare e difatti è stato zitto. Non credo che lo farà adesso, però, e se devo essere sincero non me la sento nemmeno di dargli torto.
Siamo io, lui, Fler e Bill congelati nell'ultimo istante trascorso da quando Bill ci ha chiesto come stava con quei pantaloni praticamente disegnati addosso e io gli ho risposto che era bellissimo.
Cazzo! E' la prima cosa che penso non appena mi rendo conto di quello che ho detto. Avete presente quando dite qualcosa e nell'attimo stesso in cui la dite già sapete che è una stronzata ma ormai non potete più fare niente per evitarlo? Io questa sensazione non la provo così spesso, perché in genere non mi accorgo che quello che sto dicendo è una stronzata, sono anzi piuttosto sicuro di non stare facendo niente di male. Stavolta, però, ci arrivo anch'io e ci arrivo subito, nel momento stesso in cui quel “Sei bellissimo” mi esce di bocca, solo che esce così naturale e sovrappensiero che quando sarebbe l'ora di rimangiarselo lui è già lì che svolazza nell'aria dove tutti possono vederlo e sentirlo.
A mia discolpa posso dire che ero appunto impegnato ad informare Bushido che io e Fler, stamattina, stavamo lavorando ad un canzone e che se voleva poteva darci un'occhiata. Il mio cervello era talmente concentrato su questo che si è dimenticato di aggiornare la data e con essa il fatto che Bill non poteva stare parlando con me, visto che a quanto pare abbiamo rotto mentre ero in Austria.
Ad ogni modo la reazione di Bushido mi è completamente indifferente, sento il suo sguardo infuocato che mi perfora il cranio ma in sostanza lo ignoro perché in questo momento l'unica cosa che davvero mi preme è arginare la rabbia di Fler, che in piedi alle mie spalle si è acceso come una torcia umana e probabilmente esploderà nel giro di qualche secondo. Non faccio in tempo a girarmi per cercare di arginare il disastro che mi sono lasciato scappare di bocca che di lui non c'è già più traccia e la porta della villa ancora vibra per la forza con cui la sbattuta.
Gli corro dietro e intanto cerco di mettere insieme le parole giuste per scusarmi e spiegargli la situazione, anche se forse dovrei semplicemente scusarmi e basta perché non credo voglia sentirmi giustificare un bel niente. Si è trattato di una risposta automatica e non stavo pensando a Bill fino al momento in cui effettivamente non ho alzato lo sguardo e l'ho visto sulle scale, ma Patrick non sarà affatto disposto a sopportare anche questa dopo l'incidente al ristorante polacco.
Mi aspetto di dover chiamare un taxi perché avrà preso la macchina e se ne sarà andato, e invece lo trovo ancora in giardino che prende a calci la cancellata ricoperta di siepi. Ci mette tanta di quella violenza che ogni tanto il cespuglio di gelsomino sbuffa una nuvola di petali.
Quando si accorge che sono lì, mi guarda così male che perdo ogni speranza.
Se c'è mai stata una volta in cui avevo già perso in partenza, con lui, allora è sicuramente questa.

*

Chakuza ha due problemi fondamentali.
Il primo è che è una persona inopportuna, il secondo è che non si rende conto di esserlo; e anche se lo fa il suo ritardo è così oltraggioso che non lo si può giustificare in ogni caso. E' una di quelle persone capaci di farti gli auguri ad un funerale e le condoglianze ad un matrimonio, e in entrambi i casi accorgersene quando ormai è tornato a casa e si è messo il pigiama.
Così adesso si presenta qui davanti a me e la prima cosa che riesce a dirmi è che se continuo di questo passo probabilmente finirà per non rimanere più niente di questa dannata siepe di gelsomino.
Chi se ne frega del gelsomino, cazzo. E allora si rende conto e si scusa, in ritardo naturalmente.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” gli dico.
Mi chiedo se sia consapevole del motivo per cui dovrebbe essere qui in questo momento, o se ha agito secondo il buon senso di qualcun altro.
“So che sei incazzato...”
“Io non sono incazzato Chakuza, io sono furioso,” preciso.
Lui si schiarisce la gola e guarda per terra, credo forse alla ricerca degli altri sei nani nascosti nell'erba per suggerirgli quello che deve dire. “D'accordo, so che sei furioso e hai tutti i motivi per esserlo, ma posso giurarti che non mi sono reso conto di quello che stavo dicendo.”
“Questa non è una novità, Chaku. Tu non hai mai la minima idea di quello che ti esce di bocca. Se questo fosse il mio problema, fra di noi sarebbe finita molti secoli fa e io, starei sicuramente molto meglio.”
Mi viene in mente che starei con Nicole, o starei con Daniel. Sarei con qualcuno che non si sarebbe mai sognato di volgere lo sguardo adorante verso il suo ex fidanzato e dirgli che è bellissimo quando è inguainato in un paio di pantaloni che sono così attillati che tanto varrebbe fosse nudo.
“Se non è quello che ho detto, allora...”
“Allora cosa?”
“Allora qual è il problema?” mormora incerto.
Io smetto di devastare il giardino di Bushido a calci e mi fermo ad osservarlo, ma nemmeno mi stupisco che sia qui di fronte a me e non abbia la minima idea di quello che ha fatto perché io lo sapevo che era così, quindi sarei stupido anche a sorprendermi. “Non sono le cazzate che dici il problema, perché quelle sono un flusso continuo ventiquattr'ore al giorno per tutti i giorni della settimana e non c'è modo di arginarle perché sono fatte della stessa merda di cui è foderato il tuo cervello! Il problema è tutto quello che c'è dietro.”
“Ma non c'è niente dietro!” Protesta lui che non ha mai capito che nelle discussioni in cui ha palesemente torto – cioè la quasi totalità di quelle in cui finisce – lui non ha nessun diritto di protestare. Mai.
“Certo come no.”
“Pat, dico sul serio.”
Sono felice che il suo catorcio sia di nuovo dal meccanico – d'altronde l'ho ridipinta e le ho messo un nuovo portellone, ma non è che potessi trasformarla in una macchina vera – così siamo venuti con la mia auto e posso decidere che ce ne andiamo ora. Anzi, posso anche decidere di lasciarlo a piedi, così può rimanere qui a fare la corte alla sua stupida principessa. Magari se aspetta un po' riesce a prenderla al volo quando Bushido la butterà fuori dalla finestra.
Lui invece mi segue allungando il passo e alla fine lo lascio salire, perché tanto alla fine devo andare a casa sua, quindi finirei per ritrovarmelo comunque tra i piedi. “Non stavo affatto pensando a Bill,” mi dice, chiudendo la portiera e regolando la cintura del sedile del passeggero perché non gli seghi la gola. Ogni volta che chiudo la macchina, quella li riporta automaticamente all'altezza iniziale, così le poche volte che si fa scarrozzare in giro, deve sempre rimetterci mano per non venirne strangolato.
“No, tu pensavi agli unicorni rosa che attraversano correndo gli arcobaleni del tuo cervello” commento lanciandogli un'occhiata impietosita mentre metto in moto. “Ed è ad uno di essi che hai detto che era bellissimo, casualmente nello stesso istante in cui Bill scendeva le scale.”
“Stavo parlando con Bushido, è stata una risposta automatica.”
“Vuoi peggiorare la situazione?”
“No, sto solo cercando di spiegarti come sono andate le cose,” insiste. “Ero distratto, lui ha detto quella cosa e ho risposto.”
“Quello che lui ha detto è: come mi stanno questi pantaloni, amore,” gli ricordo. “E mi pare chiaro che ti senti ancora compreso nella definizione.”
“Non mi sento affatto compreso nella definizione.”
Rido. “Oh ma ti piacerebbe tanto, vero?”
Chakuza tace perché sappiano entrambi che ho ragione, quindi è meglio se non replica dicendo che ormai Bill è acqua passata perché non è vero. Se quel ragazzino si svegliasse un giorno con la voglia di prenderlo a calci nelle gengive, Chakuza lo lascerebbe fare e gli chiederebbe pure di usare la punta rinforzata. Fa tanto l'uomo furioso, e poi si scioglie non appena la principessa lo guarda un po' più del necessario. E anche Bill avrebbe bisogno di una bella strigliata, ogni tanto, perché è vero che ora non vede che Bushido, ma se si risparmiasse di abbassare lo sguardo con le guance rosse quando Chakuza è in giro, risparmierebbe a tutti un sacco di acidità di stomaco.
Tutto il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. O meglio, lui prova a dire qualcos'altro ma tanto sono solo cazzate per cui gli dico di stare zitto e almeno stavolta mi fa la cortesia di starmi a sentire.
Come se questa serata non fosse già stata abbastanza, torniamo a casa per scoprire che il tecnico che abbiamo chiamato nemmeno una settimana fa, in realtà non ha riparato un cazzo perché la caldaia è di nuovo rotta e nell'appartamento ci saranno due gradi e mezzo. In realtà non dovrebbe fare così freddo, perché non è ancora stagione, ma visto che viviamo in un perenne stato di sfiga nera, era anche piuttosto ovvio che la caldaia andasse a rompersi nell'unico anno in cui a settembre fa freddo come se fossimo in pieno inverno. Senza contare che questa casa ha i muri così sottili che basta un soffio di vento e c'è bisogno della sciarpa anche solo per passare un paio d'ore davanti alla TV in salotto.
Proviamo ad aprire al massimo i termosifoni ma non succede niente perché il problema è in cantina, come al solito. “Vado a dare un'occhiata,” dico prendendo la torcia. “Tu intanto cerca delle coperte pesanti, perché non credo che ci sia molto da fare. E guarda nel ripostiglio, dovrebbe esserci ancora quella ridicola stufa elettrica che abbiamo usato a Capodanno.”
Vado nel locale caldaie più per non averlo sotto gli occhi che per risolvere la situazione, anche perché sono quasi sicuro che non ci sia assolutamente niente da fare. Il tecnico ha detto che si trattava di un qualche pezzo – naturalmente costosissimo – da riparare e, dopo aver emesso una fattura che al confronto le estorsioni di Arafat sono plausibili richieste di pagamento per un servizio offerto, se n'è andato fischiettando e lasciando la caldaia esattamente com'era prima. La luce in questa specie di cantina non funziona mai e non c'è da sorprendersi visto che l'unica fonte di illuminazione è una lampadina da 25W appesa ad un filo che uno dei vecchi condomini deve aver tirato trent'anni fa, alla faccia dei sistemi di sicurezza dell'impianto elettrico. E' fulminata, naturalmente. E Meno male che il quadro elettrico è saltato di recente e Chakuza ha chiamato anche l'elettricista, sennò chissà che buio.
Quando apro la porta, che ovviamente cigola, la lampadina si mette ad oscillare macabra e io vedo l'ombra muoversi sul pavimento, nel cono di luce che ho creato entrando. Sembra la scena di un film dell'orrore. Adesso scendo per queste scalette anguste e chissà che cazzo ci trovo là sotto.
Accendo la torcia ed illumino un po' intorno, come se questo potesse salvarmi nel caso qualche esperimento genetico fosse davvero sfuggito da un laboratorio qui vicino e si fosse introdotto in questo palazzo fatiscente passando attraverso le fogne.
La caldaia che corrisponde all'appartamento di Chakuza è naturalmente quella più lontana dall'entrata e incastrata in un rientro nel muro che per raggiungerla devo fare i chilometri e lasciarmene alle spalle altrettanti di buio. Questa stanza non mi era sembrata così inquietante l'ultima volta che sono stato qui, forse perché ero troppo impegnato a tenere a bada Chakuza e le sue mani.
Quando alla fine arrivo alla caldaia, scopro che era esattamente come pensavo, ossia quella se ne sta lì e mi dice che non c'è pressione e io non so cosa farci. Provo a tirargli un paio di colpi con la torcia, ma quella rimane della sua idea e non funziona. Giusto per essere sicuri controllo anche un paio delle altre e sono tutte morte come quella del Chaku, quindi direi che è un problema dell'intero palazzo.
Torno all'appartamento recando pessime notizie, e trovo Chakuza che cerca di rimettere nel ripostiglio tutto il ciarpame che dev'essere esploso fuori quando ha aperto la porta. Là dentro c'è stipata talmente tanta roba sotto pressione che è sempre un pericolo passarci davanti, perché potrebbe esplodere. Almeno ha trovato la stufa e una pila di coperte.
“Non c'è pressione,” annuncio rientrando in casa, e vedo la sua testa che si affaccia subito dal corridoio. “Ma non è la tua caldaia. Tutto l'impianto è andato.”
“Fantastico,” commenta. Lotta con il mostro di cianfrusaglie che vive nel suo ripostiglio, ma alla fine vince lui e riesce a chiudere la porta. “Almeno la stufa funziona.”
“Bene. Vuoi quella o le coperte?”
“In che senso?” Chiede puntualmente lui.
“Non ho alcuna intenzione di dormire con te,” rispondo. “Quindi prendo il divano. Stufa o coperte?”
Lui trasfigura, come ogni volta che per qualche motivo succede qualcosa del genere. Se io sono qui in questa casa, la possibilità che non passi la notte nel suo letto non è nemmeno contemplata; quando ciò avviene, occupa istantaneamente il secondo posto nella sua scala delle tragedie. Visto che rimane con la bocca aperta un tempo sufficiente a farmi credere che sia morto in piedi, decido io. “Okay, tu prendi la stufa, io tengo le coperte,” dico, recuperandone un paio e sistemandole sul divano.
Solo allora lui si libera dall'incantesimo che lo aveva trasformato in pietra e mi segue, disfacendo il letto dove io lo faccio. “No, tu non dormi sul divano.”
“Invece è esattamente quello che farò,” ribadisco.
Sistemo il cuscino e lui lo toglie. “Tu non puoi dormire sul divano,” si corregge.
“Posso eccome, Chakuza.”
“Questa è casa mia e io non voglio che tu dorma sul divano,” sbotta lui, strappandomi dalle mani una coperta e gettandola via con stizza. Mi ricorda un po' quei ragazzini che prestano il loro pallone per giocare a calcio e poi se lo riprendono non appena iniziano a perdere.
“Ho capito,” annuisco e mi giro per rimettermi il cappotto.
Lui sospira, maledicendosi a voce abbastanza alta perché lo senta perfettamente anch'io. “No, Fler! Fler, aspetta! Non era questo che volevo dire. Mi è uscita male,” mormora, mentre mi segue verso l'ingresso.
“La cosa non mi sorprende affatto.”
“Non voglio che tu dorma in salotto perché sono io che ho fatto casino, quindi al massimo è il sottoscritto che deve dormire sul divano,” dice tutto d'un fiato, prima che io riesca ad aprire la porta. “Anche se preferirei che dormissimo entrambi nel letto.”
Io rimango fermo con la mano sulla maniglia qualche minuto e poi mi giro molto lentamente. “Peter...” mormoro frustrato. Giuro che a volte mi drena.
“Ho aperto bocca a sproposito, d'accordo. Allora fammi scusare. Se dormi sul divano è l'inizio della fine. Il passo successivo sarà riprenderti lo spazzolino da denti e la tazza per la colazione. Alla fine della settimana avrai già fatto le valige e sarai tornato da tua madre.”
“Peter, stai delirando!” Esclamo sconvolto.
“E allora fammi smettere di delirare e dormi nel letto!” Protesta lui, sgranando gli occhi.
Io scoppio a ridere, perché davvero non so che cos'altro fare.
Sono qui sulla porta e sto per andarmene senza sapere nemmeno se tornerò e lui si fa quasi prendere da una crisi isterica, cominciando a parlare di spazzolini da denti. E' una situazione surreale, eppure direi che dovrei esserci abituato.
“Per favore?” Tenta lui, in ritardo, come al solito.
Sospiro e mi tolgo il cappotto per la terza volta stasera. “D'accordo, Peter, ma sia ben chiaro che il fatto che io accetti di dormire nel letto con te non significa assolutamente che ti toccherà qualcosa stasera, anche perché sono ancora incazzato.”
“Naturalmente,” annuisce lui, tutto convinto.
Dieci minuti dopo siamo distesi a fissare il soffitto e io so che lui sta cercando nella sua testa le parole da dirmi, lo so perché non parla da un sacco di tempo e non tenta nemmeno di allungare le mani, il che può significare soltanto due cose, che dorme – ma dal respiro direi di no – o è molto concentrato.
“Ti esploderà il cervello con tutto questo pensare,” dico alla fine, perché voglio sapere se posso dormire oppure se devo aspettare che mi dica qualcosa.
“Non voglio sbagliare a parlare, stavolta,” si giustifica.
Sospiro, piegando una mano dietro la testa. “Sono quasi sicuro che lo farai lo stesso ma, andiamo, provaci. Ti sto ascoltando.”
Lui prende bene fiato, prima di rispondere. “Lo so che sentirmi rispondere in quel modo non è stato piacevole, ma ti giuro che non l'ho fatto apposta e che, se potessi, tornerei indietro e me lo rimangerei. Non posso farlo, però.”
“Va' avanti.”
Fa un sospiro di quelli fatti bene, che preannunciano cose che voglio sentire anche se non mi piacciono affatto. “Ho ancora difficoltà a dimenticare Bill,” ammette infatti “questo è vero e già lo sai, ma quella risposta non aveva nessuno significato. Mi è uscita di bocca come poteva uscirmi di bocca 'ancora cinque minuti' quando mia madre mi svegliava la mattina. Non è niente.”
Io rimango in silenzio e continuo a fissare il soffitto solo ed esclusivamente per farlo preoccupare ancora un po'. In realtà la rabbia mi è passata da un pezzo, più o meno quando ha cominciato ad agitarsi come se avessi minacciato di cambiare continente, ma voglio godermi un po' questo momento in cui, miracolosamente, sono una priorità.
“Fler?”
“Hmn.”
“Mi dispiace.”
Sorrido e mentre lo faccio, lui già mi scivola addosso, segno che mi stava osservando in attesa di una reazione. Dovrei dirgli di smettere perché non se lo merita, ma me lo merito io.
Quindi lo lascio fare.

Mattine come questa sono quelle che preferisco. Quelle in cui posso prendermi il mio tempo per aprire gli occhi, stiracchiarmi, stendere le gambe nel tepore immobile delle coperte e sgranchirmi tutto, piano piano, senza fretta. Mattine piacevolmente vuote, rilassate, tranquille. Di quelle che pensi di poter sentire sotto le mani, morbide. Mattine pigre come sbadigli, in cui il pensiero di non avere niente da fare ti culla un po’, e tu lo lasci fare perché sul serio, quante volte capita di potersi svegliare dicendosi che oggi potresti stare anche tutto il giorno a letto e non sarebbe un dramma perché tanto non sei atteso da nessuna parte, non devi incontrare nessuno e non c’è nessun beat ancora da limare che ti aspetta in sala incisioni per essere perfezionato e diventare una base.
Spesso, per non dire ogni volta, proprio perché una condizione simile è molto rara, in realtà non è vera. È una bugia che la tua mente ti sta raccontando. Tu sei lì al calduccio che ti fai i fatti tuoi e progetti vite intere sotto le coperte, chiedendoti se potrà esistere un modo per collegare con un filo e un paio di tubi, o magari una catena di montaggio elementare, il tuo letto, la cucina e il cesso, per avere tutto ciò che ti serve senza doverti praticamente muovere, e la tua testa avalla questi tuoi pensieri bisbigliando “ma sì, credici pure, progetta quanto vuoi, tanto oggi non c’è niente da fare!”, quando in realtà non potrebbe esistere niente di più lontano dalla verità. Però tu in quel momento non te ne accorgi.
La cosa vale anche per me, ma naturalmente in quel momento lì, come ho detto, non ci penso. E sono molto felice.
Quando apro gli occhi, c’è luce in tutta la stanza. Chakuza non chiude quasi mai le tapparelle, ma è raro che io riesca a vedere la luce del sole invadere completamente l’ambiente, perché quando mi sveglio in genere è troppo presto per assistere ad uno spettacolo simile. Le cose da fare, appunto, ci sono sempre. Quando ti svegli ogni mattina alle sette, sia perché devi andare agli studi o sia perché non è il caso di prendertela troppo comoda, visto che non sei a casa tua, al più puoi vedere le prime luci pallidissime che rischiarano l’ambiente, quando non è inverno e quindi di tiri su ancora col buio, ma stavolta invece c’è luce ovunque, si stende in lunghe strisce oblique per tutte le pareti, prendendone la forma, seguendone le linee.
Sollevo un braccio e il sole batte contro la mia pelle. Sulla parete si forma una macchia d’ombra, la guardo, sorrido e tiro giù il braccio, lasciandolo ricadere sul materasso per ridare alle strisce di luce la loro ordinata continuità.
Chakuza, qui accanto a me, all’improvviso si mette a ridere. Non mi ero accorto che fosse sveglio.
- Che stai facendo? – mi chiede. Io scrollo le spalle ed affondo fra i cuscini, ma non rispondo. Mi limito a sorridergli. Anche stanotte mi sono fermato a dormire qui come se fosse una cosa normale. Dopo aver scopato, esausti com’eravamo ci siamo lasciati ricadere sul materasso con un grugnito di approvazione. Chakuza s’è liberato del mio braccio che, in qualche modo, gli era planato sulla faccia nel movimento, e poi s’è voltato per dormire. Stessa cosa ho fatto io. E lui non mi ha chiesto conferme – niente domande del tipo “resti?”, che fino a qualche tempo fa un sacco frequenti, fra noi, anche se naturalmente parlo di un “qualche tempo fa” lontanissimo nel tempo – ha preso la mia presenza per un dato di fatto e io in realtà gliene sono stato grato, perché talvolta ricordarsi di mantenere un certo distacco e pensare di doversi alzare in piedi e fare almeno finta di cercare i vestiti per rimetterseli addosso a ritornare a casa prima che lui mi fermi chiedendomi di rimanere è talmente fastidioso – e ridicolo – da sfiorare l’assurdo.
Ieri sera, dunque, sono rimasto, e ora mi sento vagamente in difetto. Voglio dire, so che è assurdo, so che non dovrei, e tra l’altro è davvero ridicolo che due anni fa fossi già riuscito a superarlo, questo problema che adesso sembra tornato a farsi avanti, però davvero. Non è neanche il dormire con una persona che mi scombussola, con Danny l’ho fatto continuamente per mesi – Danny, santo cielo, devo proprio smettere di pensare a Danny, anche se negli ultimi giorni ha ricominciato a farsi sentire e io non sono granché sicuro di riuscire a gestirlo come dovrei, cioè allontanandolo di nuovo – è proprio lo stare con Chakuza, stare con lui come si sta in coppia che ogni tanto mi… non lo so. Mi turba troppo. È semplicemente strano, come sono strane quelle cose buffe che sembrano non avere spiegazione, come ad esempio quei trucchi di scena con cui i maghi ti fanno credere di aver segato in due il corpo della loro procace assistenza. Tu sai che dietro c’è una spiegazione perfettamente razionale, ma per quanto ci pensi non riesci a trovarla, quindi finisci per rimanere a fissare il tutto con aria ebete, come un bambino che non ha ancora visto nulla del mondo, e per quanto stupido ti sembri accetti quella cosa impossibile come possibile pure senza spiegartela, perché tanto, ti dici, non ci arrivi, è così e basta. E per me ora è uguale, io mi sento strano, sono convinto che ci sia una spiegazione razionale dietro, ma non la capisco. Che posso farci?
Talvolta, seriamente, credo di aver solo bisogno di sentirmi dire che sono normale, che sono ancora io, lo stesso che ero a quattordici, a diciotto, a venti, a venticinque anni. La cosa non è più tanto scontata com’era un tempo.
Nel mentre continuiamo a restare in silenzio, che non è una cosa brutta, in realtà, perché non è un silenzio di quelli imbarazzati. Non è che ci guardiamo negli occhi con aria confusa chiedendoci che cosa diamine stiamo facendo in questo letto così vicini, anche perché peraltro lo sappiamo benissimo cos’è che stiamo facendo in questo letto così vicini. Io guardo un po’ fuori, e c’è un bel sole. Dagli alberi che costeggiano la strada giunge il canto degli uccellini di città – questi esserini piccoli, fragili e spenti, che cantano solo alla mattina perché per tutto il resto del tempo la loro voce sarebbe inutile, sommersa dal traffico e dai rumori dei passanti – e io penso due cose contemporaneamente. Una è che sono ancora convinto di non avere niente da fare oggi, e vorrei che questa convinzione potesse durare ancora un po’, ma non è facile che sia così se penso alle ore che passano, al traffico che ci sarà e a quello che scorre fuori da quella finestra, motivo per il quale smetto di guardarla e torno a fissare la luce sulla parete. L’altra è che, malgrado io non abbia ancora ben chiaro quasi niente della giornata di oggi, quello che invece riguarda la giornata di ieri riesco a richiamarlo alla memoria senza la minima fatica.
Decido che è il momento di parlare, e dato che sto pensando a ieri tanto vale battere il ferro finché è caldo.
- Certo che non ho mai capito cosa ci trovi tu in Bill. – butto fuori d’un fiato, ma abbastanza tranquillamente da sperare di non preoccupare Chakuza. Non è che voglia farlo sentire attaccato o che, è solo che sono profondamente convinto che uno dei motivi per cui da questa cosa non ci si muove risiede nel fatto che Chakuza non ne parla. Mai. È il suo più grande tabù, non c’è modo di scucirgli informazioni al riguardo, e io se devo dire la verità non ci ho nemmeno provato granché, voglio dire, sono masochista ma non così tanto, ma è evidente che devo risolvere questo problema, se non voglio che scene come quella di ieri continuino a ripetersi all’infinito, anche quando noi quattro cavalieri dell’Apocalisse saremo vecchi decrepiti e Chakuza, Bushido ed io staremo seduti sulle nostre sedie a dondolo nel porticato della casa al mare che palesemente divideremo, e Bill uscirà chiedendoci se sta bene con la nuova dentiera. Ecco, vorrei evitare che allora Chakuza si permettesse ancora di rispondergli che sta benissimo all’unisono con Anis, perciò rimbocchiamoci le maniche e risolviamola adesso, finché siamo ancora in tempo.
Ovviamente, Chakuza si preoccupa lo stesso, perché nominare Bill di fronte a lui è un po’ come prendere una pistola e darla in mano al primo passante capiti a tiro: magari è un tipo freddo e tranquillo e la posa senza fare danni; magari invece è uno nervoso e isterico e fa partire un colpo, però. Quando nomini Bill non sai mai se Chakuza stia abbastanza bene da tenere ferma la mano, o se comincerà a tremare e sparerà a qualcuno.
- Niente. – risponde infatti, sulla difensiva, aggrottando le sopracciglia nell’unica espressione al mondo che fa sembrare cattivi i suoi lineamenti rotondi, l’espressione brevettata dei video musicali.
Io inarco un sopracciglio.
- Ci sei andato a letto per simpatia? – gli chiedo, con una mezza risata, e non posso davvero credere che stia cercando di rifilarmi la storia del non-è-stato-davvero-così-importante. Nel senso, ok, Chaku, capisco dove vuoi arrivare, sei molto carino a preoccuparti per me e a non volermi dire cose che potenzialmente credi che sarebbero in grado di farmi male, ma… no. Cioè, c’ero anch’io mentre accadeva, ricordi? Via.
- È carino. – insiste lui, socchiudendo gli occhi e grattandosi la fronte, naturalmente sordo alle mie mute protesta, - Fine.
Sospiro. È mai possibile che con quest’uomo non ci sia mai modo di avere una conversazione normale?
- È… strambo. – dico io, - E dolce. Secondo me è tutto qui. È come avere una sorellina. Almeno per me. – preciso, perché mi pare evidente che per lui non era così, anche se ora sta cercando di fare di tutto per darmi a bere il contrario.
La mano che grattava la fronte di Chakuza si abbatte contro il suo viso e poi scende a coprirgli gli occhi, mentre lui si lascia andare ad un sospiro affranto. A Chakuza non piace granché parlare, lo so, non è bravo a spiegarsi – non sempre, almeno. Anche lui ha i suoi momenti, comunque – io, invece, mi ci diverto da morire. Mettere in difficoltà il prossimo, irritarlo anche fino a fargli perdere il lume della ragione, è sempre stato un gioco divertente. Quando sei piccolo e cresci in un ambiente come il mio, la prima cosa che capisci è che ti devi fare grosso e muscoloso, perché devi costantemente avere a che fare con tipi che saranno sempre più grossi e più muscolosi di te, motivo per il quale devi cercare quantomeno di avvicinarti al loro standard per poter pensare di uscire vivo da una rissa. In attesa di quello, però, quando sei ancora un ragazzetto pelle e ossa senza un pelo e con gli occhi troppo grandi su una faccia troppo magra, devi sopperire ciarlando, e sperando che chi ti incontra sia stupido abbastanza da permetterti di rincoglionirlo quel tanto che basta da sfuggirgli dalle mani. Se hai la velocità delle gambe dalla tua, quella della lingua può completare il quadro che può riuscire a salvarti il culo anche in situazioni disperate. Il più delle volte è stato così che mi sono salvato io, nel periodo in cui cercavo di fare di tutto per portare a termine i miei compiti da solo, senza Anis in giro, per impressionare Arafat.
Chakuza, e lo dico con tutto l’affetto del mondo, credetemi, è abbastanza scemo da concedermi svaghi di questo tipo. Dico, non vuoi parlare seriamente di Bill per esorcizzarlo? D’accordo, va bene per me, ma allora lasciati torturare.
- Ma ti senti quando parli? - si lamenta, la voce un po’ attutita dalla mano ancora pressata con forza sul volto, - Come una sorellina? Mi sento male.
E certo che ti senti male, Chaku. Questo dimostra che tu non l’hai mai visto come una sorellina, tanto per cominciare, e anche che tutti quei bei discorsi di prima sul fatto che è solo carino ed è per questo che ci sei andato a letto per una vita e mezzo non erano altro che fesserie. Ma va be’.
Resto in silenzio per un intervallo di tempo che non sembra solo enorme, lo è. Chakuza ha bisogno di riprendersi, palesemente, e io gliene dà modo, perché non mi va di troncare la conversazione. Scherziamo? Mi sono divertito e vendicato ancora troppo poco, non esiste indisporlo al punto da costringerlo ad alzarsi in piedi e fuggire lontano. Voglio rosolarlo a fuoco lento.
- E a letto com’è? – chiedo quindi dopo un po’, senza muovermi di un millimetro.
- Fler! – sbotta lui, sconvolto, girandosi impercettibilmente a guardarmi.
- Be’, che c’è? – insisto io, scrollando le spalle e mantenendo una calma apparente tale che non capisco com’è che i membri dell’Academy non fanno irruzione dalla finestra appesi a delle funi per consegnarmi un Oscar estemporaneo per meriti acquisiti sul campo, - Sono curioso! Avrà delle qualità non da tutti, se è riuscito a rincoglionirvi senza speranza tutti e due.
Chakuza non risponde. Allunga una mano ad afferrare il cuscino in più che sta in mezzo fra i nostri guanciali e se lo schiaccia sul viso con un lamento disperato. In realtà in questi momenti così io mi diverto sempre tantissimo. Era una cosa che capitava spesso quando abbiamo cominciato a vederci più spesso, intendo, dopo l’incidente del tappeto e tutto. Ho usato una quantità spaventosa di armi, contro Chakuza, non solo la lingua. E non solo nel senso di usarla per parlare. E so che questi sono i momenti in cui Chakuza è sempre un po’ sul punto di mandarmi via, perché lo spalla che, in mezzo a tutti i poteri che lui ha su di me, ce ne sia uno che solo io posso vantare su di lui, ed è quello di riuscire a metterlo in imbarazzo. Lui, un uomo che non s’imbarazza praticamente mai. Quindi sì, lo so che in questo momento, come in tanti altri, si copre il volto e sta zitto solo perché vorrebbe potermi mandare via. In realtà mi esalta che non lo faccia mai.
Rido e mi giro sullo stomaco, sistemandomi a pancia in giù sul materasso ed allungando un braccio per togliere il cuscino di mezzo.
- Allora? – insisto curioso, - Dimmi!
- Non lo so! – si lamenta lui, cercando di coprirsi di nuovo con le mani.
- Sì che lo sai! – ride ancora io, - Anzi, dal fatto che non lo dici, immagino che debba essere parecchio bravo. Questo almeno spiega la follia di ieri sera.
- Possiamo smettere di avere questa conversazione? – implora debolmente Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica. Io rido ancora, e naturalmente non gli do retta.
- Quante volte al giorno lo facevate? – chiedo, avvicinandomi un po’ per guardarlo in viso.
- Fler… - mugola lui, arreso.
- Una? – insisto io.
- Ma non hai niente da fare, stamattina? – piagnucola Chakuza. Qualche campanello dovrebbe suonare nella testa di entrambi, in questo momento, ma non suona. Io sono ancora perfettamente immerso nell’aura di beatitudine che mi accompagna dal risveglio, peraltro, convintissimo che il mondo non avrà mai più bisogno di me e che perciò posso anche mettere radici su questo materasso per tutto il tempo che mi resta da vivere, e nessuno avrà mai di che lamentarsene.
- No. – rispondo infatti, e sto mentendo, ma ancora non lo so. Che non se ne accorga neanche Chakuza, però, è abbastanza grave. – Due? – ritorno a insistere, - Tre, magari?
Chakuza non dice nulla, si limita a sospirare.
- Tre volte al giorno?! – sbotto sconvolto, e sento aprirmisi sulle labbra un sorriso incredulo ma anche parzialmente divertito. – Wow! Devi dirmi tutto. Cioè, seriamente, mai visto Bill in quelle vesti lì. Adesso sono curioso sul serio.
- Sei una piaga, Fler! – sbotta lui, scuotendo con decisione il capo, - Che devo fare per farti stare zitto?!
Io ridacchio, sistemandomi fra le lenzuola e piantando i gomiti sul materasso.
- Non so, che ne dici di rispondere? – suggerisco, - Quando sono soddisfatto, smetto.
Lui si volta a lanciarmi un’occhiata truce.
- Giuralo. – intima freddamente.
- Ma sì, sì, giuro. – concedo io, con un breve cenno del capo. – Allora?
Chakuza si prende il proprio tempo per sospirare ancora e sistemarsi meglio contro il cuscino. Solleva la schiena ed il lenzuolo che lo copre scivola giù lungo il suo corpo, arrotolandoglisi pigramente in grembo. Seguo il movimento del tessuto forse con un po’ troppa insistenza, ma mi riprendo subito, anche perché se si accorge che lo sto fissando troverà sicuramente modo di usare il dettaglio contro di me, e allora addio tortura.
- Cos’è che vuoi sapere? – si rassegna a chiedere, già palesemente esasperato prima ancora di cominciare a parlare.
- Be’, la prima volta, tanto per cominciare. – annuisco io, incrociando le braccia sul materasso, - Com’è stato?
Chakuza mi getta addosso un’occhiata dubbiosa.
- Non ti prenderà una delle tue solite paranoie, quando ti risponderò, giusto?
Rido ancora. Chakuza, ti prego, ma sei convinto di che? Guarda che lo sto portando avanti io il gioco in questo momento. Certo che ti sfuggono certi passaggi fondamentali che io veramente, boh, non so, alle volte, guardandoti, come sia possibile che tu esista. O sia sopravvissuto a te stesso.
- Ma va’. – rispondo rassicurante, - Avanti, sono solo curioso.
Chakuza sospira ancora ed aspetta qualche altro secondo. E in quei secondi riesco a vedere una sorta di soddisfazione mal dissimulata farsi strada nei suoi occhi e poi nella piega delle sue labbra, che si fa meno tirata e severa. La naturalezza con cui quest’espressione viene fuori è tale che, anche se dovrei arrabbiarmi un po’ – un bel po’ – nonostante l’abbia rassicurato sul contrario, non riesco. Sembra tutto così innocente che davvero non mi pare il caso.
Quando Chakuza parla, subito dopo, lo fa come si stesse tirando fuori dal petto un peso insostenibile.
- È stato grandioso. – annuncia seriamente, annuendo pure, come per dare forza alla cosa.
Mi viene da ridere in modi che nessuno che non sia me può comprendere. Cioè, guardatelo, tutto serio e compito, come se stesse dando un giudizio di merito di quelli che si danno durante le gare sollevando il cartellino col numero. No, ma io seriamente con quest’uomo non ce la posso fare, la sua pazzia è tale che pure nei momenti di normalità mi surclassa. E io tanto sano non sono di certo.
Comunque, riesco a trattenere le risate ed imito la sua espressione seriosa, annuendo a mia volta.
- Grandioso in che senso? – chiedo, - È stato come con una femmina o la faccia è tutta un bluff? – ridacchio. Mi fa bene prenderlo un po’ in giro, di tanto in tanto, il ragazzino. Davanti a lui non si può, che poi gli si riempiono gli occhi di lacrimoni perché non capisce mai se stai scherzando o sei serio, ma con Chakuza che non ci capisce niente, neanche che fra le altre cose sto prendendo per il culo anche lui, è molto più semplice.
- Ma non c’entra niente con le femmine, è tutta un’altra roba. – precisa infatti, agitando la mano come a voler dissolvere quell’ipotesi assurda, totalmente dimentico del fatto che pure io lo so perfettamente bene che con le femmine non c’entra niente. Dio, quant’è facile. – Cioè, di base è lo stesso, - mi illustra. Chaku, grazie, senza di te non l’avrei mai saputo, - ma ci ho perso la testa perché non me lo aspettavo, capisci, che la pressione fosse così forte. Insomma, Bushido nudo per voglia o per forza l’abbiamo visto un po’ tutti, - aggiunge, lanciandomi un’occhiata che nella sua testa è carica di allusioni. Ah, Chaku. Ti prego. – e conoscendo le dimensioni e sapendo quanto tempo erano stati insieme non me l’aspettavo per niente.
Annuisco ancora. Io non so se seriamente si rende conto del discorso totalmente allucinante che sta facendo, ma comunque starlo a sentire è uno spasso. Peraltro mi sovviene che la sua prima volta con un maschio è stata con me, che di sicuro non avevo il traforo del Monte Bianco nel culo, perciò mi viene da pensare che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, probabilmente da quel momento in poi avrebbe decantato il mio sedere come la cosa più meravigliosa mai concepita da qualsiasi essere umano o divino che abbia mai calcato l’orbe terracqueo. Poi naturalmente c’è da dire che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, difficilmente mi avrebbe piegato a novanta sul tappeto del suo salotto, per cui niente. Ho avuto la prima volta, ma non mi prenderò mai i complimenti dello chef. La vita a volte è ingiusta.
- È davvero così stretto? – chiedo con entusiasmo, - Dovrò provarci, qualche volta.
Chakuza si irrigidisce tutto come un pezzo di legno, e si allontana impercettibilmente. Oh, Dio. Lui doveva essere al bagno quando la mamma distribuiva i cervelli.
- C’è altro che volevi sapere? – butta lì frettoloso, spasimando per cambiare discorso.
- Non andare in paranoia, - lo prendo in giro, - non mi avvicinerei mai alla nostra illustre principessa. – aggiungo in un ghigno, al quale lui risponde con un’occhiataccia offesa. Fra le tante regole che vigono in questa casa, oltre alla prima che è quella di non nominare il nome di Bushido invano, c’è anche quella per cui è vietato perfino accennare alla sua esistenza e alle conseguenze che ha sul mondo circostante, almeno fino a quando non è impossibile fare altrimenti. Il fatto che io possa chiamare Bill “principessa” è palesemente una di queste conseguenze e, in ogni caso, adoro non rispettare nessuna delle regole che Chakuza crede di potermi imporre. Ha. – Comunque, - riprendo, - voglio sapere quante volte l’avete fatto quella notte. E se è venuto. E come l’hai fatto venire. E se è venuto tutte le volte. – mi fermo, faccio mentalmente il conto, poi torno a guardarlo, - E quante volte sei venuto tu, anche!
Chakuza lascia andare un mugolio irritato e confuso.
- E cosa vuoi, un resoconto dattiloscritto…? – biascica, - Comunque due. – risponde alla fine, cercando di ricordare tutte le domande, - E sì. Con la mano. Ancora sì. E… due. No, - precisa poi, - tre. – ammette con un certo imbarazzo.
A questo punto, il buon dio che protegge gli sfigati mi perdonerà, non ce la faccio più: rido e mi abbatto di faccia contro il materasso, affondando il viso sul cuscino per evitare di svegliare tutto il vicinato.
- Sei venuto tre volte?! – strillo incredulo, battendo un pugno fra le coperte, - Dev’essere stato bello davvero! E bravo Chaku!
Lui risponde con un borbottio indefinito, incrociando le braccia sul petto ed affondando col collo fra le spalle, fissando dritto la parete di fronte, come esistesse solo quella. Io cerco di riprendermi, per quanto non sia semplice, e torno a mettermi dritto. Ci metto un po’, a formulare la domanda successiva, perché è un tipo di domanda che conosco molto bene: quella che in genere ci porta lungo la china scivolosa di una mezza litigata che finisce per affogare invariabilmente nello stesso identico posto – fra le lenzuola. Oppure andandocene alternativamente di casa, ma più spesso fra le lenzuola, sì.
- E… - chiedo alla fine, - è stato così bello solo con lui?
Chakuza lascia andare un sospiro la cui traduzione letterale è “lo sapevo”. E io mi rimetto a ridere. Però più piano.
- Qui ti volevo… - commenta, scuotendo lentamente il capo, - No, non lo è stato solo con lui. – ammette infine, voltandosi a guardarmi, - Tu sei tutta un’altra cosa, però. Non ci sono paragoni da fare.
Rido ancora, e so che gli ho detto di non preoccuparsi, che l’avrei presa bene e tutto, ma un po’ mi piace sentirmi rassicurare così, anche su cose così idiote. E comunque gli riesce molto meglio quando dice la verità.
- Non fare il figo, adesso… - sbuffo divertito, - E comunque non volevo sapere se sono meglio di lui o no… solo se sono bravo anche io. – mi fermo per intercettare lo sguardo incredulo e vagamente ilare di Chakuza, ma blocco sul nascere qualsiasi battuta aggrottando le sopracciglia e tornando ad incrociare le braccia. Sia mai che ora mi faccia perculare da lui dopo essermelo rigirato sul palmo della mano per l’ultima mezz’ora. – E non guardarmi così. – borbotto, - Uno poi se le chiede, certe cose, se non è un cagasotto. Puoi rispondere, voglio saperlo. Ne va del mio onore di uomo.
Chakuza ride lievemente e mi guarda, ed a me per un secondo sembra di poter vedere solo i suoi occhi, sottili e verdi da far paura. Come riesca a sconfiggermi con un’occhiata nonostante tutto quello che gli ho fatto passare stamattina, proprio non lo so. È uno dei misteri che mi tengono attaccato a lui, suppongo.
- Hai detto che non hai niente da fare stamattina, giusto? – mi chiede, apparentemente senza nessun motivo. Qui non dovrebbe squillare un campanello, ma l’intero campanile di una chiesa. Solo che non ce n’è, nelle vicinanze, per cui continuiamo a illuderci rotolandoci idealmente nella deliziosa sensazione di ozio prolungato in cui ci siamo immersi senza pensare.
- No. – ribadisco, e visto che ormai sono quasi le nove la mia menzogna è talmente enorme che potrebbe quasi fare il giro e diventare una verità, - Ma che c’entra?
Chakuza si solleva e l’attimo dopo mi è addosso, ogni centimetro di pelle perfettamente aderente alla mia, il petto forte contro la schiena, il bacino già duro di desiderio contro il sedere, le gambe a cercare spazio fra le mie.
- Ottimo. – commenta solamente, chinandosi a baciarmi la schiena, seguendo il disegno della colonna vertebrale.
Io rido – ho i brividi fin nello stomaco – e faccio per scappargli da sotto le mani.
- Sei scorretto… - biascico, cercando di afferrare il cuscino per tirarlo via e scavarmi di prepotenza una via di fuga.
Chakuza allunga le braccia a coprire le mie e mi si spinge un po’ contro, in una domanda silenziosa.
- Mh-mh. – annuisce, - Anche tu, a fare certe domande. – e mi sospira sul collo, mentre io mi mordo un labbro.
- Mmmh… - mugolo, socchiudendo controvoglia gli occhi, - È vero, lo ammetto. Però… - m’interrompo un attimo, lanciando a Chakuza un’occhiata incerta oltre la spalla, e qui non ho davvero idea di cosa volessi aggiungere, perché appunto nel momento in cui mi volto a guardarlo del tutto accidentalmente i miei occhi finiscono sulla radiosveglia poggiata sul comodino e, tutto insieme, mi rendo conto di che ore sono, di che giorno e oggi e anche del fatto che la mia mente mi ha preso per il culo fino ad ora esattamente come fino a due secondi fa stavo facendo io con Chakuza, ed anche esattamente come lui avrebbe cominciato a fare in senso meno metaforico da qui in avanti se non l’avessi fermato. – Cazzo! – sbotto, agitandomi sotto di lui, - Cazzo, cazzo, cazzo, Chakuza!
- …sì, ne ho uno che si sente molto tirato in causa, al momento. – risponde lui, inarcando un sopracciglio ma scostandomisi di dosso quando vede che non accenno a placarmi. – Ma che ti prende? – domanda incerto, steso su un fianco, mentre io scatto in piedi e comincio a cercare i miei vestiti.
- L’Ersguterjunge! – sbotto io, infilando le mutande e i calzini al volo, saltellando prima su un piede e poi sull’altro, - La presentazione! Cazzo, devo andare a firmare il contratto! Siamo già in ritardo! Cazzo, cazzo, cazzo!
La luce della consapevolezza si fa strada negli occhi ancora un po’ annebbiati di Chakuza, e il secondo dopo lo vedo alzarsi dal letto come una furia, afferrando al volo il primo paio di mutande che incontra e correndo in bagno.
- Bushido mi ammazzerà. – annuncia lapidario, pallido come un cencio.
A me scappa di nuovo da ridere, e continuo a farlo anche se penso che è vero, ma che mi sa che se perdiamo altro tempo ammazzerà con gioia entrambi.

*

Ieri notte, io e Bill siamo andati a letto presto. Dopo che Chakuza è corso dietro a Fler nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, lasciandomi lì sullo zerbino a chiedermi nelle mani di chi stavo lasciando uno dei pochissimi esseri umani per la cui felicità darei volentieri la vita, non è che ci rimanesse molto altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi per un lungo, infinito istante e poi Bill è arrossito tutto all’improvviso, come se solo in quel momento si stesse rendendo conto del casino che, palesemente senza volerlo, peraltro, aveva combinato. Si è voltato repentinamente e, visto che era ancora a metà delle scale, ha cominciato a correre per tornarsene in camera, senza lasciarsi sfuggire neanche un suono. Io ho sospirato pietosamente, lanciando uno sguardo supplice al cielo stellato fuori dalla villa prima di rassegnarmi a chiudere la porta e seguirlo in camera.
- Bill? – l’ho chiamato piano, schiudendo la porta e sbirciando all’interno. L’ho trovato già senza maglietta, tutto preso ad armeggiare coi pantaloni, - Bill, è tutto ok?
Lui s’è voltato a guardarmi con un paio d’occhi che sembrava l’avessi insultato invece di chiedergli come stesse.
- Come, scusa? – mi ha chiesto, basito, strattonando i pantaloni qua e là nel palese tentativo di strapparseli di dosso.
- Ti ho chiesto se è tutto ok. – ho sospirato ancora io, entrando nella stanza e chiudendomi la porta alle spalle. Ancora una volta, lui m’ha guardato con incredulità evidente.
- Ma che domanda è?! – ha sbottato quindi, tirando i pantaloni ancora un po’ e non ottenendo neanche una piccola vittoria all’interno della grande guerra che stava conducendo contro di loro, - Dovrei chiederlo io a te!
- E invece, guarda un po’, te lo sto chiedendo io. – gli ho sorriso, sedendomi ai piedi del letto. – Vieni qui, dai. – l’ho chiamato, schiudendo appena le gambe per fargli posto, - Ti do una mano con quelli, o finirai per distruggerli.
Lui ha abbassato lo sguardo, ma s’è avvicinato comunque, restando in piedi di fronte a me.
- Non me ne frega niente. – ha borbottato con aria colpevole, mentre sfilavo il bottone dalla sua asola e lasciavo scivolare la zip verso il basso, - Meglio se si rompono. Non li voglio più mettere.
- Bill, saranno costati un patrimonio. – ho riso, tirandoli delicatamente lungo le sue cosce bianche e magre, - E oltretutto sembra che te li abbiano disegnati addosso. Ti stanno molto bene.
- Ma cosa vuoi che me ne freghi dei soldi e di come mi stanno! – ha sbottato ancora lui, appoggiandosi alle mie spalle mentre lo invitavo a sollevare una gamba e poi l’altra per sfilarglieli del tutto. – Combino solo casini anche quando voglio fare cose belle. – ha mugolato quindi, stringendo la presa attorno alla mia maglietta, - Giuro che non volevo che andasse a finire così.
Ho sollevato lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri e brillanti pur nella luce fioca dell’abat-jour.
- Lo so. – ho risposto annuendo, - Non sentirti in colpa.
Lui ha sollevato una mano, accarezzandomi lentamente una guancia.
- È piuttosto difficile non sentirmi in colpa con te. – ha detto quindi, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Io ho aggrottato le sopracciglia.
- Non voglio che sia così. – ho detto severamente, e lui ha sorriso un po’, piegando appena un angolo della bocca.
- Lo sai che non puoi farci niente? – ha ribattuto con dolcezza, - Fra le tante cose che puoi fare… - ha sussurrato sfiorandomi le labbra con due dita, - e sistemare… - le sue dita si sono fermate appena sotto il mio labbro inferiore, - e riaggiustare, - ha sospirato profondamente, - la possibilità di togliermi il senso di colpa dal petto quando ti ferisco non rientra nella lista.
Ho sospirato e scosso il capo, stringendogli la vita con le mani. Lui ha poggiato le braccia sulle mie, sfiorandomi appena il collo con la punta delle dita.
- Non mi hai ferito. – l’ho rassicurato.
- Non l’ho fatto intenzionalmente, forse, - ha protestato lui, - ma—
- No. – ho scosso il capo io, - Non mi hai ferito. Bill, - ho sospirato profondamente, - durante tutto l’anno scorso, sono successe molte cose. – lui ha trattenuto il fiato, serrando le labbra, - E tante di queste cose sono state spiacevoli, per usare un eufemismo. E come lo sono state per me, lo sono state per te. Non credere – sono tornato a sollevare lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi, - non credere neanche per un minuto che io possa mai perdere di vista questo dettaglio fondamentale. È stata dura per tutti e due. Io non sono una vittima. Non lo sei neanche tu. Abbiamo fatto un casino infernale e ne abbiamo entrambi pagato le conseguenze, ma siamo qui, adesso. E tu – ho riso un po’, inarcando un sopracciglio con presunzione, - credi davvero che, dopo l’anno scorso, un paio di pantaloni che combinano un mezzo disastro possano ferirmi? Io sono d’acciaio, piccolo. – ho detto, accogliendo sulla pelle la sua risata un po’ triste ma soprattutto sollevata quando mi si è seduto in grembo, circondandomi le spalle con le braccia, - Niente mi scalfisce.
Bill ha pianto un po’, accucciato fra le mie braccia. L’ho sentito piangere molte volte, da quando lo conosco, ma questo è stato un pianto tutto diverso rispetto agli altri pianti che s’è fatto da quando sono entrato nella sua vita, e credetemi quando vi dico che stiamo parlando di numerosi pianti. S’è trattato di un pianto dolce, sommesso, sollevato. Venato da un pizzico di felicità che mi ha stretto il cuore. Giuro che non mi sono mai sentito bene come in questo periodo, in cui io e Bill ci stiamo affrontando con onestà, sciogliendoci poco a poco, ritrovandoci poco a poco, imparando a conoscerci di nuovo, con tutte le cose che sono cambiate in noi e che inevitabilmente non potremo più riavere, ma anche con tutte quelle altre cose che invece sono rimaste uguali, o comunque molto simili, rispetto a quelle che avevamo un tempo. È come riscoprirlo da capo. Ma è sempre lui. Credevo fosse impossibile tenere fra le mani qualcosa di così antico e così nuovo allo stesso tempo, eppure Bill per me lo è.
Per cui, sì, abbracciati com’eravamo poi siamo andati a dormire, perché seriamente, fare altro per quella sera non era proprio plausibile. E poi c’era anche da pensare a stamattina, naturalmente.
Stamattina ci siamo svegliati non prestissimo, ma di buon’ora, entrambi molto emozionati. Ho una idea abbastanza precisa di quello che è successo qui fra Bill e Fler mentre io non c’ero. Ne ho un’idea abbastanza precisa non soltanto perché Bill e Fler mi hanno più o meno raccontato tutti i fatti, ma anche perché conosco entrambi a memoria ed avrei potuto dirvi con largo anticipo come avrebbero reagito e come si sarebbero comportati l’uno con l’altro nel caso si fossero conosciuti, anche senza dover sapere niente delle situazioni che li avevano spinti a incontrarsi. Non fatico per niente a capire che Bill è felice per quello che sta per avvenire esattamente quanto me. Ed infatti il suo viso sembra splendere di luce propria ora che siamo qui nel mio ufficio all’Ersguterjunge, e attendiamo.
Eko, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, si guarda intorno con aria incerta, come se lui in quel momento c’entrasse poco. Kay riempie il mondo di entusiasmo blaterando a caso su quanto sia una figata questa decisione, e su quanto è evidente che ci stiamo vendicando proprio bene su quegli stronzi dell’Aggro Berlin, quantomeno a livello commerciale.
- Vuoi mettere – mi dice, - la quantità di dischi venduti che si porta dietro Fler, rispetto a quelli che si porta dietro Nyze? Cioè, dai, palesemente ci stiamo guadagnando noi.
Io borbotto un assenso indefinito, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio. Fler e Chakuza, naturalmente, sono in ritardo. Potrei approfittare di questo tempo concessomi per spiegare a Kay che prendere Fler sotto contratto all’Ersguterjunge ha ben poco a che fare con la guerra fra noi e l’Aggro, e ha ben poco a che fare anche con la quantità di dischi venduti in più che porteremo a casa a fine anno. È solo che lo rivoglio con me, li rivoglio tutti con me, e non intendo lasciarmene sfuggire uno che sia uno. Fler è solo il primo passo. Sto pensando a qualcos’altro. Ma prima devo parlarne con Jost, ed è ovvio che non posso farlo finché lui sarà ancora troppo impegnato a fingersi invalido per poter trascorrere le sue giornate a letto con Schüster. Ma non ha senso parlarne ora. Verrà il tempo.
E quello a mia disposizione adesso finisce nel momento in cui Fler e Chakuza fanno il loro ingresso nel mio ufficio, scompigliati e trafelati, scusandosi con tutti a destra e a manca. È abbastanza ovvio cosa abbiano avuto di così urgente da fare per non riuscire a presentarsi qui in orario. È ovvio non soltanto nel modo in cui si comportano o nel modo in cui sono conciati, ma nel modo in cui si sfiorano casualmente, si guardano, si sorridono, si parlano.
È inevitabile, per me, essere un po’ geloso. Stranamente, nei confronti di entrambi. Ma non m’importa più quando Fler si fa avanti e sorride, brandendo una penna.
- Dove devo firmare? – chiede.
- Sì, diamoci una mossa. – borbotta Chakuza, - Abbiamo tutti di meglio da fare.
Bill si lascia sfuggire una risatina divertita. Ed io faccio lo stesso, porgendo a Fler il suo contratto ed indicandogli il punto esatto in cui deve mettere la firma.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, David/OMC.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lime, OC.
- "Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è."
Note: Bushido era così impaziente di parlare (di nuovo) che stavolta non ce l'abbiamo fatta a mantenerci entro dei limiti umani XD Quindi, sì, altra shottona lunghissima, in cui probabilmente accade ciò che tutti voi stavate aspettando. O forse magari no. Chi può dirlo, se prima non leggete? :D
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WILL YOU RELEASE ME WITH A KISS?

Ricordo di aver già vissuto una situazione simile, anche se a parti invertite. Stiamo parlando di molti anni fa, di un periodo in cui io e Bill stavamo insieme da forse un annetto e non c’erano nubi sul nostro orizzonte. O forse c’erano già e io mi rifiutavo di prenderle in considerazione. Sì, sicuramente era così. E tra l’altro è terribile ripensare già a quel periodo come “molti anni fa”. Faccio una gran fatica a star dietro allo scorrere del tempo, da quando sono morto. Probabilmente perché per i morti il tempo non ha un valore granché fondamentale, ed io, chiuso nella mia bara di sole e mare a Miami, non lo sentivo scorrermi addosso. Vivevo in un presente immutabile in cui ogni giorno si susseguiva al precedente per inerzia, senza cambiamenti di alcun tipo se non in dettagli insignificanti che dimenticavo subito dopo aver notato, sempre che riuscissi a notarli.
Comunque, erano molti anni fa, ed io andavo spesso a trovare Bill nell’appartamento che condivideva con suo fratello. Fu durante una di quelle occasioni che Bill si decise una volta per tutte a comprare un appartamento tutto per sé, anche se alla fine non ci ha trascorso tanto tempo, finché sono stato in vita. In ogni caso, allora era molto facile osservare me e Tom mentre ci scrutavamo dubbiosi sulla porta, lui dall’interno dell’appartamento, io dal pianerottolo. Era divertente, perché Tom era molto più piccolo ed era molto più facile e più divertente prenderlo in giro. Da allora sono cambiate troppe cose, anche – assurdamente – nel rapporto fra me e lui, e non è più così semplice fronteggiare i suoi occhi limpidi e sinceri. Per qualche strano motivo, è ancora meno semplice adesso che sul pianerottolo c’è lui, e io invece sono al sicuro dentro casa mia.
- Ho portato il cambio per domani. – dice Tom, dubbioso, e mentre lo dice io so che si sta ripetendo per la cinquecentesima volta da quando questa routine è cominciata che tutto ciò non ha senso. E io so che ha ragione, e so anche che non dovrei vivere in maniera tanto comoda la permanenza di Bill in questa casa, che si protrae ormai da un paio di settimane, soprattutto perché peraltro si basa su regole ridicole e assurde, come ad esempio il fatto che Karima non debba lavargli la biancheria perché “tanto è una cosa provvisoria”, e quindi Bill abbia bisogno del cambio portatogli da suo fratello ogni giorno. Tuttavia, è una routine alla quale ho fatto in fretta ad abituarmi. Perché sono un uomo molto più debole di quanto non abbia mai pensato.
- Grazie. – rispondo annuendo e recuperando il sacchetto di plastica dalle sue mani. – Vuoi entrare? – chiedo risollevando lo sguardo sul vuoto, perché mentre io controllavo che dentro il sacchetto ci fosse tutto ciò di cui Bill aveva bisogno Tom, sottile com’è, è scivolato attraverso la fessura della porta e s’è già introdotto in casa mia senza che io avessi bisogno di invitarlo. – Tom? – domando chiudendo la porta e inarcando un sopracciglio, - Cosa stai facendo?
Lui si guarda intorno come se non conoscesse questa casa a memoria, e scruta ogni angolo con attenzione, neanche si aspettasse di veder saltare fuori assassini ninja mimetizzati con la carta da parati da dietro ogni vaso.
- Controllo che tu tenga mio fratello in un ambiente consono alla sua persona. – risponde lui, gettandosi dietro le spalle le treccine nere.
- E ti sembra consono, quest’ambiente? – chiedo, posando il sacchetto su un divano e incrociando le braccia sul petto. Tom si lascia andare ad un ghigno che ho imparato a vedergli addosso solo di recente, e del quale inizialmente non conoscevo il significato. Figurarsi, sono andato fino da Jost in clinica, disturbandolo mentre, come mi ha detto, “si faceva visitare dal dottor Schüster” (qualcosa che penso non mi perdonerà mai. Più ancora dell’essere la causa del suo sventramento, lui mi odierà per sempre perché ho interrotto la sua sessione pomeridiana di petting selvaggio col suo medico curante. E questo è l’uomo che ci gestisce. E ho detto tutto), e gli ho chiesto che cosa diavolo stesse ad indicare questo sorriso un po’ sghembo ed esageratamente indisponente, e lui ha sorriso trionfante ed ha detto “è tornato?”, e poi mi ha spiegato che si tratta del sorriso che affiora spontaneamente sulle labbra di Tom quando sta pensando che in ogni caso, nella lotta per il cuore del proprio fratello, fra tutti i partecipanti ha vinto ancora una volta lui. E Jost ha riso, spiegandomelo, perché è la prima volta che io ho a che fare coi gemelli Kaulitz come gemelli, e non come fratelli in rotta perché uno dei due ha deciso di sposarsi contro il parere dell’altro. Per dire.
Questa cosa è tragicamente vera, e devo dire che se c’è una cosa che mi dà veramente sui nervi, al momento, del tutto irrazionalmente, è la consapevolezza che non esista essere umano che abbia influenza sul pensiero di Bill più di suo fratello, ora come ora. Naturalmente, Bill fa sempre di testa sua, come ha fatto per ogni minuto della propria esistenza da quando è nato, ma le parole di suo fratello molto spesso bastano a cambiargli l’umore o a condizionarlo a sufficienza da fargli cambiare idea su certe cose. Per dire, io so che se Tom avesse approvato incondizionatamente la permanenza di Bill in questa casa, Bill non avrebbe avuto alcun problema a stabilirvisi in maniera un po’ più onesta, magari continuando a dormire nella stanza degli ospiti, ovviamente, ma facendosi lavare la roba sporca da Karima, quantomeno. E invece no, Tom non gradisce, quindi Bill resta qui lo stesso perché è quello che vuole, o si rende conto che è la cosa migliore da fare, ma lo fa cercando di dargli l’impressione di essere sempre sul punto di andarsene.
Probabilmente è così solo perché si sono persi per tanto di quel tempo che, ora che si sono ritrovati, Bill si farà strappare il cuore dal petto prima di rassegnarsi a perderlo di nuovo, e quindi magari è una cosa provvisoria. Peraltro, so che non dovrei essere geloso di tutto questo, in nessun caso e in nessun senso, ma lo sono. Non posso dirlo a Bill, né a nessun altro, ma lo sono.
- Mio fratello? – chiede a un tratto lui, e sono sicuro che, per tutto il tempo, mentre io mi perdevo in questi pensieri molesti, è rimasto a guardarmi con quel ghigno insopportabile stampato sulla faccia. Ne sono sicuro anche perché poteva benissimo chiedermi di Bill, e invece mi ha chiesto di suo fratello, lo stronzetto indisponente. Cerco di ricordarmi che non posso prendere a sberle il suo bel visino da copertina di Bravo, e cerco di ribattere con un sorriso ugualmente odioso, tirando su solo un angolo della bocca.
- E se io non volessi lasciartelo vedere? – chiedo sfidandolo, ed è a quel punto, naturalmente, che Bill appare dietro le spalle di suo fratello, uscendo dal corridoio con un sorriso beato sulle labbra ed entrambe le mani sui fianchi.
- Da quando sono segregato? – chiede inarcando un sopracciglio. Karima sceglie quel momento per urlarmi che Skyline s’è introdotto in camera mia e ha sventrato a morsi il mio cuscino preferito. Ho capito di non essere stato un uomo buono, nella mia vita precedente, ma penso di aver già pagato per tutti i miei peccati. E invece no, sono lo zimbello del karma.
- Billi. – dice Tom, voltandosi a guardarlo. Nel movimento, il suo sorriso si addolcisce immediatamente, petali di rosa avvolgono la sua persona e una musica melensa si diffonde nell’ambiente.
- Tomi. – risponde lui, intrecciando virginalmente le dita sotto al mento e guardandolo con occhi colmi d’amore e gratitudine. Io mi appoggio con una mano allo schienale del divano e li osservo, trattenendo a stento i conati di vomito. Hanno dei momenti in cui diventano di un romanticismo esagerato, roba che uno poi non può neanche chiedersi perché le fangirl si facciano certe idee e le mettano pure su carta, perché la risposta è lì, davanti ai suoi occhi, palese come il sole a mezzogiorno. – Prego, accomodati. – dice quindi. Le loro mani si stringono e restano strette mentre si siedono entrambi sul divano, proprio sotto i miei occhi, e vorrei alzare un dito e dire che questa è ancora casa mia, ma Bill si volta verso il corridoio e strilla a Karima di portare del tè, ed io sento a pelle la consapevolezza che le mie convinzioni non sono altro che menzogne: questa casa non è più mia da quando Bill ne ha preso possesso. Devo rivedere le regole di questo gioco, perché così come sono non mi piacciono.
- Come stai? – chiede Tom, i pollici che accarezzano in gesti circolari il dorso delle mani di Bill. Sta bene, Tom, sta bene. Viene servito, riverito e protetto ventiquattro ore su ventiquattro, come vuoi che stia?
- Così così. – risponde naturalmente lui, con un gran sospiro, - Sono molto afflitto, Tomi.
- Bushido non ti tratta bene? – chiede subito lui, premuroso.
- Bushido è qui e vi osserva. Ma soprattutto vi ascolta. – mi intrometto io, ma vengo ignorato, cosa che mi fa dubitare di ciò che ho detto. Forse Bushido non è davvero qui, forse sono ancora morto e sono un fantasma, e sto raccontando questa storia sotto forma di spirito incorporeo che può vedere e sentire tutto ma non può essere visto né sentito da nessuno.
Mi fermo un attimo. Mi osservo nell’enorme specchio parietale di fronte a me. Che sciocchezze vado cianciando?
- No, Anis mi tratta bene. – risponde Bill, abbassando teatralmente lo sguardo. Io lascio perdere le rimostranze, vedo Karima apparire col tè e ne sono felice, fino a quando non noto che ci sono solo due tazze sul vassoio. Sono annichilito da quanto sta accadendo. La mia casa si ribella contro di me, il mio cane mangia il mio giaciglio, la mia cuoca mi affama, la mia donna mi ignora e il di lei fratello mi massacra dieci a zero in casa mia. Miami ritorna improvvisamente un’ipotesi plausibile. – Sono angosciato da questa storia. David è ancora in ospedale, sai?
- Sì, sono stato a trovarlo ieri. – ride Tom, - Non preoccuparti troppo per lui, si sta dando molto da fare per tornare in forma, se capisci cosa intendo. – È evidente che perfino Jost, un uomo che è stato sventrato ed è quasi morto due settimane fa, si diverte più di quanto non mi diverta io. Questa cosa è estremamente ingiusta. – A parte questo, Bill, credo che non sia più il caso, per te, di restare qui. – dice quindi, risoluto, allungandosi a recuperare la propria tazza di tè. Io aggrotto le sopracciglia. Non dico una parola ma sento il bisogno quasi fisico di buttarlo fuori di casa. Bill, però, mi lancia un’occhiata repentina e profonda, di quelle con le quali a volte sembra studiarmi. Prende un paio di zollette di zucchero e le immerge nel tè bollente, lo mescola meticolosamente e poi prende la tazza con tutto il piattino, e me la passa con un mezzo sorriso. Mi basta questo per calmarmi. Mi basta davvero, solo sapere che ogni tanto mi guarda ed è consapevole del fatto che io sono qui, che c’è anche lui, che siamo qui insieme, adesso. Mi basta così tanto che a volte è quasi troppo.
- Non è ancora sicuro. – dice Bill, sorridendo teneramente, tornando a guardare suo fratello. – Preferirei restare qui ancora un po’, per ogni evenienza. Solo qualche giorno ancora. Almeno finché David non esce dalla clinica.
Tom rotea gli occhi, alzandosi in piedi.
- Ti rendi conto di quanto è assurdo? – dice quindi, guardandolo dall’alto in basso. Bill non risponde, perché sa che suo fratello ha ragione. Ciò che Tom sta dicendo, implicitamente, è che è ormai chiaro al mondo intero che Bill non corre alcun pericolo, ma non ha la minima intenzione di andarsene. Non so se voglia restare semplicemente perché vuole farlo o perché ha l’impressione che se mollerà anche solo di qualche centimetro, se retrocederà di un passo soltanto dal ruolo che ha silenziosamente accettato di ricoprire ancora una volta restando al mio fianco in questa situazione complicata, allora gli scivolerà tutto via dalle mani. E sospetto che la mia principessa abbia qualche problema molto serio con tutto ciò che le scivola via dalle mani senza il suo esplicito consenso.
- Tomi, voglio solo— - prova a ribattere, ma suo fratello non gliene lascia il tempo. Disperde le sue parole nell’aria agitando una mano con fare disinteressato e dirigendosi a grandi passi verso la porta. Bill si alza in piedi e gli va dietro, le sopracciglia incurvate verso il basso e un accenno di broncio già nascente sulle labbra.
Io sorseggio il mio tè con noncuranza, e lo faccio solo perché ancora non so che fra qualche secondo mi toccherà sputacchiarlo.
- Almeno combinaste qualcosa. – borbotta infatti Tom, guardandoci entrambi malissimo. Bill impallidisce e diventa bianco come un lenzuolo. Io, appunto, sputacchio il tè. – E invece niente, siete— siete quasi frustranti, nella vostra assurdità. Lo sareste, se me ne fregasse qualcosa di voi due come esseri coinvolti in una relazione interpersonale, dico. – sospira ancora, scuotendo il capo. – Va be’, come non detto. – dice quindi. Come non detto il cazzo, Tom. – Bill, - lo chiama, allungandosi a baciarlo su una guancia, - fatti sentire quando hai bisogno. A presto. – lo saluta, e poi esce, chiudendosi da sé la porta alle spalle. Ormai non ho più nemmeno diritto a buttare la gente fuori da casa mia. Si butta fuori da sola.
Quando restiamo soli, l’aria è così pesante che entrambi facciamo fatica a respirare. Lo facciamo in silenzio, inspirando boccate lunghe e lente. La sensazione di tensione che ci avvolge è così fisica che ho l’impressione di percepirla stringermi realmente all’altezza della gola. Bill si porta una mano al collo e lo massaggia un po’, come volesse liberarlo da qualcosa di troppo stretto che vi sta annodato attorno, e il mio cuore manca un battito.
Sento Karima entrare e portare via il vassoio con le tazze in perfetto silenzio, e poi uscire, lasciandoci nuovamente soli. Bill deve avere racimolato abbastanza coraggio, nel mentre, perché finalmente si volta a guardarmi. Ha le labbra piegate in un sorriso mesto e imbarazzato.
- Scusalo. – dice a bassa voce, stringendosi nelle spalle, - Non la sta prendendo bene.
- Già. – ridacchio nervosamente io, - L’ho notato. – e poi deglutisco a fatica, - Bill, lo sai che puoi andartene quando vuoi, vero?
Lui mi solleva addosso un paio d’occhi sgranati e un po’ smarriti, e per molti secondi non risponde perché non sa che cosa dirmi. Schiude le labbra, le muove un po’, cerca di modellare parole che abbiano senso, ma non ne trova. Perciò finisce per abbassare nuovamente lo sguardo e sorridere appena, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Penso che andrò di là ad ascoltare un po’ di musica. – conclude, passandomi accanto e scomparendo in corridoio. Io resto immobile fino a quando Karima non appare alle mie spalle chiedendomi se può procedere a rimpiazzare il cuscino in camera da letto o voglio prima dargli un’occhiata. A che dovrebbe servire dare un’occhiata ad un cuscino fatto a pezzi adesso, Karima?, vorrei chiederle. Qui nessuno mi interpella per le cose importanti, ma tutti hanno sempre pronta una qualche domanda sciocca da rifilarmi quando mi sento troppo ignorato, per farmi credere che in realtà non sia così.
Per un attimo, accarezzo l’idea di andare in camera di Bill, spegnere la musica e provare a fargli sentire quanto ci sono per davvero. Ma poi lascio perdere, e seguo Karima in camera da letto.
*
Io e Bill ci alziamo di buon mattino. Lo facciamo sempre e lo abbiamo sempre fatto, quando stavamo insieme. È una cosa buffa, perché sia io che lui, quando siamo da soli, siamo incredibilmente pigri. Mi capitava di chiamarlo e trovarlo ancora assonnato alle undici del mattino, quando non si fermava a dormire da me e per un motivo o per l’altro era costretto a tornarsene al proprio appartamento. E nonostante questo, quando poi la sera successiva o due sere dopo tornava a dormire qui alla villa, al mattino avevamo entrambi già gli occhi spalancati per le otto massimo, senza che dovesse tirarci su di forza la sveglia, o Karima. Non so perché succedesse, forse il pensiero di essere insieme e dormire quando avremmo potuto fare altro – una qualsiasi altra cosa – era abbastanza per costringerci a spalancare gli occhi, forse semplicemente era un’abitudine che avevamo preso per chissà che motivo, comunque accadeva sempre.
Accade anche oggi, com’è accaduto per ogni giorno durante le ultime settimane. Mi sveglio, mi metto in piedi, indosso la vestaglia ed esco in corridoio. Mi dirigo istantaneamente verso il bagno, ma quando sento la porta della stanza in cui dorme Bill aprirsi tiro dritto e mi infilo in cucina, così che possa andarci lui per primo. Karima mi attende con una tazzina di caffè fumante in mano, ed io l’accetto volentieri, ringraziandola con un cenno del capo.
- Quali sono i suoi programmi per oggi, signor Ferchichi? – chiede lei con aria austera. Come al solito, non parla come se riconoscesse Bill come parte integrante di questa casa. Si è inserita alla perfezione fra le regole sbilenche che Bill ha stabilito per questa convivenza, perciò nella sua visione delle cose Bill è solo un ospite, un ospite che con i miei normali programmi quotidiani non ha niente a che fare, come fosse un cugino venuto a passare qualche settimana di vacanza a casa mia e che approfitta di trovarsi qui per visitare tutta Berlino. Qualcuno, insomma, i cui programmi non debbano coincidere con i miei come invece i programmi di Bill, in barba a tutte le regole, finiscono spesso per fare.
- Quando saremo pronti, - rispondo, usando volutamente il plurale perché lei capisca che Bill resterà con me, - andremo a trovare David in clinica. Passeremo lì qualche ora, non credo che sia il caso di preparare il pranzo.
Karima annuisce, prendendo nota del fatto senza fare una piega.
- Allora, - dice, - se il signor Ferchichi non ha più bisogno di me, io comincerei a rassettare il piano di sopra.
Io annuisco, e lei prepara la colazione per Bill – una tazza di latte bianco e cereali – prima di uscire dalla cucina ed andare verso lo stanzino per recuperare ciò che le serve.
La principessa arriva pochi minuti dopo, i capelli tutti scompigliati sulla fronte e la testa un po’ ciondolante, ma i suoi occhi sono svegli e attenti, e so che se cominciassi a parlargli all’improvviso di qualcosa di fondamentale riuscirebbe a seguirmi senza la minima difficoltà. Lo lascio in pace, comunque. Sa già che dopo colazione dovrà prepararsi e poi seguirmi da David, non è necessario che io glielo ripeta adesso, perciò mi limito a sorridergli e ad augurargli il buongiorno. Lui ricambia sia il sorriso che il buongiorno, e poi affonda il naso nel suo latte e cereali, concentrandosi solo ed esclusivamente su quello con una devozione quasi commovente.
Io giro sui tacchi e vado in bagno, cercando di fare mente locale sulla situazione. L’ultima volta che siamo stati da David, abbiamo discusso a lungo sulla prima possibilità che avevamo, ossia quella di vuotare il sacco con la polizia. Per molti sarebbe stata non solo la cosa più ovvia, ma anche l’unica da fare davvero. Correre alla prima stazione di polizia – ma non due settimane dopo, il mattino dopo – e denunciare l’accaduto. Per molte ragioni, per noi non poteva essere così.
David mi ha chiesto subito se al magazzino fossero rimaste tracce di quanto accaduto. Gli ho risposto di no, naturalmente. Non sapevamo se se la sarebbe cavata e non potevamo correre il rischio di restare con un cadavere sfregiato e zero testimoni su cui fare affidamento. Lui ha annuito, comprendendo perfettamente. La cosa mi ha un po’ turbato, ma immagino che quando riesci a manipolare l’universo per fargli credere che un uomo sia morto quando invece così non è, più o meno sei pronto a manipolarlo ancora per fargli credere qualsiasi altra cosa, perciò in quel momento Jost stava semplicemente prendendo informazioni in vista del proprio prossimo compito. Qualcosa che ho sempre ammirato in lui, peraltro.
In ogni caso, tutto ciò che sappiamo è che Nyze ha voluto mandarci un messaggio. Gli sono già andate storte le cose quando David è sopravvissuto – cosa che credo non avesse previsto, e d’altronde quell’enorme vendetta inciso in profondità nel ventre di David sarebbe bastato a indirizzarmi verso la risposta esatta anche se lui, risvegliandosi, non me l’avesse detta a viva voce – e di questo dobbiamo considerarci fortunati, ma è tutto ciò che abbiamo. Non sappiamo chi sia la gente che ha mandato, dove l’abbia pescata, ed andare a cercare informazioni a Tempelhof adesso sarebbe una condanna a morte. David non saprebbe riconoscere chi l’ha attaccato neanche sotto tortura, naturalmente, e quando ho preso contatto con qualche amico dei tempi andati per chiedere discretamente in giro se Nyze avesse un alibi per quella serata è spuntato fuori che sì, ce l’aveva, e che dal momento che stava cantando ad un concerto di gruppo con l’Aggro Berlin ci sarebbero stati non solo fior di testimoni, ma anche biglietti pagati pronti a dimostrare che lui era davvero lì quella sera.
“Con la credibilità che ho,” ha aggiunto David, lo sguardo basso e venato di rabbia, “non posso pretendere che qualcuno si basi sulla mia testimonianza di quella notte. Tutti sanno in che rapporti siamo io e te, se facessi il nome di Nyze potrebbero pensare ad una montatura con la complicità di una clinica privata pagata fior di quattrini, solo per mettere in cattiva luce un rivale.”
Ho concordato, immaginando che se era ormai chiaro per tutti che David fosse stato capace di farmi sparire per quasi un anno agli occhi del mondo, chiunque l’avrebbe creduto perfettamente in grado anche di farsi apparire degli sfregi sospetti sullo stomaco, all’occorrenza. Non che la cosa avesse un vero senso, ma si sa come funzionano gli scandali, e io lo so meglio di tutti perché quando ero ancora un rapper all’apice del proprio successo gli scandali li cavalcavo tutti come le onde su una tavola da surf. Queste situazioni ci mettono pochissimo a diventare televisive, soprattutto nel nostro mondo, ed una volta che lo diventano è la fine, perché alle persone piacciono le spiegazioni semplici, vogliono un colpevole che sia facile da individuare, possibilmente il più debole, quello con le spalle più fragili e tanti, tanti motivi per cui essere disprezzato, ed è meglio tenerci il più lontano possibile da una prospettiva del genere, perché ho idea che la situazione ci sfuggirebbe di mano molto facilmente. E non è qualcosa che possiamo permetterci, ora come ora.
Il discorso s’è chiuso con una serie di puntini di sospensione, perché il dottor Schüster è entrato in camera ed ha avvertito giovialmente David di prepararsi per il suo trattamento quotidiano a base di creme ed unguenti lenitivi, e a quel punto David ci ha buttato fuori col desiderio di non vedere più i nostri brutti musi per almeno un paio di giorni, motivo per cui io e Bill, ridendo divertiti, siamo usciti ed abbiamo stabilito di lasciargli qualche giorno per riposare.
Bill è estremamente preoccupato per David, anche ora che è fuori pericolo. Fosse per lui, gli risparmierebbe anche queste visite estemporanee che ogni tanto gli facciamo per discutere la situazione, ma sa bene non solo che la situazione va discussa, ma anche che David, nonostante quanto si lagni, desidera essere informato su ogni svolta, ogni particolare ed ogni cosa che decidiamo di fare. Posso capirlo, peraltro: se io e Bill siamo tanto arrabbiati per ciò che gli è successo, posso solo immaginare quanto debba esserlo lui stesso.
Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è. E siccome anche lui, a qualche livello inconscio dentro di sé, lo capisce, non riesce a trovare il modo corretto per porgere le proprie scuse, e lo fa nei modi più disparati. Offrendomi il proprio tè per non farmi sentire invisibile, ad esempio. O truccandosi come dovesse diventare la prova vivente dell’esistenza dell’orgoglio gay quando va a trovare David. Non ne sono sicuro, ma credo che ci sia fra loro un qualche discorso sospeso speciale su questa questione dell’omosessualità. La trovo una cosa divertentissima.
Bill, come preventivato, è pronto solo tre quarti d’ora abbondanti dopo. È splendido, avvolto in una felpa sottilissima con un cappuccio enorme che gli cade sulla testa e attorno al viso come un velo. Gli occhiali da sole a mascherina coprono gli occhi il cui trucco sgargiante ed eccessivo sono appena riuscito ad intravedere, ed è, come al solito, talmente pieno di gioielli addosso che tintinna ad ogni passo. Conto almeno tre collane di diversa lunghezza sovrapposte e qualcosa come sei bracciali per polso. Dovrei trovarlo ridicolo, e in ogni caso dovrebbe essere quanto di più lontano possa esistere dalla mia idea di bellezza. Lo è, in realtà. Eppure lo guardo e mi manca il fiato, e quando lo vedo lanciarmi un’occhiata da dietro le lenti scure mi precipito ad aprirgli la portiera della macchina.
Lui inarca un sopracciglio che fa capolino da sopra la montatura nera, e le sue labbra si piegano appena in un mezzo sorriso divertito.
- Non devi farlo, sai? – mi dice, sedendosi comunque al proprio posto. Io non rispondo subito. Aspetto di aver fatto nuovamente il giro della macchina ed essermi seduto al suo fianco. Poso le mani sul volante e guardo dritto davanti a me mentre il cancello automatico in fondo al garage si apre.
- Tu non devi davvero restare a casa mia. – ribatto. Lo sento tendersi tutto accanto a me, ma dura solo per un attimo. Poi si scioglie in un sorriso intenerito, me lo sento addosso, e so che sa dove voglio andare a parare.
- Già. – risponde quindi. Si sistema sul sedile e, nello spostarsi, si avvicina impercettibilmente. Ogni volta che cambio marcia, le nocche della mia mano sfiorano appena il suo ginocchio. Non diciamo altro per tutto il tragitto fino alla clinica, ma d’altronde non ne sentiamo il bisogno, per cui va bene così.
*
Quando arriviamo, David e il dottor Schüster stanno pomiciando allegramente, ma non in modo normale, nel modo in cui ti aspetti che un medico e un paziente possano pomiciare – se è lecito aspettarsi che un medico e un paziente pomicino – col paziente steso sulla propria branda e il medico chinato premurosamente sulle sue labbra, no: David si è alzato, portando con sé la sua flebo con tutta l’asta come fosse un bastone da passeggio, ed è arrivato fino al davanzale della finestra in fondo alla stanza, sul quale s’è appoggiato con una posa molto tragica da diva del cinema muto – ogni tanto mi basta guardare lui per capire che Bill non avrebbe potuto essere diverso da com’è nemmeno in un universo parallelo – e addossato al quale ha probabilmente aspettato che il dottor Schüster lo raggiungesse guardandolo con aria severa ma al contempo indulgente, rimproverandolo perché tornasse a letto, salvo poi avventarsi su di lui dimenticando che quest’uomo meno di tre settimane fa è stato sventrato ed avrebbe bisogno di molte cose, ma decisamente non del proprio medico che lo ribalta e lo denuda di fronte alla finestra per scoparselo in favore di luce naturale, che gli fa risaltare l’incarnato.
Bill, al mio fianco, stringe convulsamente le mani attorno all’enorme mazzo di girasoli e gerbere che ha voluto fermarsi a comprare mentre eravamo per strada, e lancia un urletto fra il pudico e il sorpreso, sollevando il mazzo stesso fino a coprirsi metà del viso, lasciando saggiamente scoperti gli occhi. Sollevo uno sguardo pietoso al cielo perché la teatralità è palesemente un vizio di famiglia, e lo faccio pensando che in realtà è molto teatrale in sé anche questo sguardo supplice che sto lanciando al paradiso, se c’è, perché mi venga in aiuto.
- Oh. – dice il dottor Schüster, allontanandosi da David come uno che non ha per niente voglia di allontanarsi dalla cosa con la quale stava intrattenendosi così piacevolmente. Il suo camice è aperto ed abbassato sulle spalle, e la maglietta verde che indossa al di sotto è sollevata fino al petto, e lascia scoperti sia la pancia piattissima che i pettorali prominenti, dai quali sporgono con aria quasi di sfida i capezzoli piccoli e appuntiti. Si risistema sommariamente, mentre David si stringe nel proprio pigiama e ci lancia un’occhiata estremamente disapprovante.
- Salve. – dico io, con un sorriso incoraggiante, agitando una mano nella loro direzione. Bill capisce che coprire tutta la metà inferiore del viso lasciando scoperta quella superiore non è un atteggiamento abbastanza pudico, e solleva ulteriormente le mani. I fiori frusciano nel movimento, e lui si stringe nelle spalle così tanto che diventa minuscolo, e al mio fianco com’è quasi scompare. – Non volevamo disturbare.
- Avreste potuto restarvene a casa, dunque, così non avreste corso il rischio di farlo. – sbotta Jost, roteando gli occhi e tornando velocemente a letto, trascinandosi dietro la flebo. Mi chiedo velocemente per quale motivo sto continuando a pagare questa stanza quando è evidente che quest’uomo resta qui non perché sta male ma perché vuole dei figli dal suo medico. Cosa che, per inciso, non riuscirebbe ad ottenere in modo naturale neppure in un milione di anni.
- Non avete disturbato. – sorride angelico Schüster, i lunghi capelli biondi che gli incorniciano il viso, - Avevo giusto finito di somministrare al signor Jost la sua terapia giornaliera.
Bill abbassa il mazzo di fiori, ma in compenso solleva un sopracciglio.
- Per via orale? – domanda curiosamente. Il dottor Schüster sorride con molta convinzione, mentre io cerco di non soffocare dalle risate e David si stampa sul viso un’espressione oltraggiata che, considerate le condizioni in cui l’abbiamo trovato, penso sia del tutto fuori luogo.
Alla fine, Schüster abbandona la stanza riuscendo in qualche modo a non perdere nemmeno un pizzico della sicurezza di sé che io e Bill, trovandolo a fare cose decisamente inopportune col proprio paziente, avremmo dovuto abbattere a sprangate con la nostra sola presenza. Così non è, brillava come il sole quando siamo entrati e continua a brillare quando esce. Posso quasi sentire l’eco di stuoli di infermiere che svengono aprendosi come il mar Rosso al suo passaggio. Quelle donne non sanno che in realtà è gay e il suo cuore selvaggio, sotto la pelle abbronzata, batte solo per David Jost. E forse è meglio che non lo sappiano.
Quando riporto lo sguardo su David, lui è seduto a gambe incrociate sul proprio letto e sul viso non porta più i segni della furia che l’ha preso poco fa, quando l’abbiamo interrotto. Sta abbracciando Bill e si sta lasciando sommergere dal solito flusso infinito di parole in libertà col quale la principessa usa stordirti – non solo lui, proprio in generale – quando non vuole essere rimproverata.
Io mi avvicino, trascinandomi dietro una sedia abbandonata in un angolo. La sedia già posizionata accanto al letto di David sarà quella sulla quale si accomoderà Bill quando avrà finito di sistemare il mazzo di fiori nel vaso che David ha sul comodino. Lo osservo togliere i fiori vecchi nonostante non siano nemmeno un po’ avvizziti e cambiare l’acqua facendo la spola fra il frigorifero e il bagno privato sulla parete opposta, e il suo viso in questo momento è il ritratto della serenità. Sa che non sta facendo qualcosa di particolarmente utile, ma almeno sta facendo qualcosa per David, e questo gli è sufficiente perché sente che a David fa piacere.
- Come stai? – chiedo a David quando i miei occhi riescono a staccarsi dalla figura di Bill.
- Benone! – risponde impulsivamente lui, e poi lo vedo accartocciarsi un po’ su se stesso, tossicchiando. – Cioè, abbastanza bene. Intendo, miglioro. Naturalmente miglioro. Ma non sono ancora—
- Non vuoi uscire da questo posto neanche se ti puntano una pistola alla tempia, sbaglio? – rido io, e David ride con me, grattandosi distrattamente la nuca.
- Sto tranquillo, qui. – risponde quindi, stringendosi nelle spalle, - Ho bisogno di stare un po’ tranquillo. E poi ho la certezza che, almeno finché starò chiuso qua dentro, tu non potrai fare niente di stupido, visto che mi hai dato la tua parola. Quindi è un accordo vantaggioso per tutti.
- Per la verità… - comincio io, cogliendo la palla al balzo, - è proprio per questo che siamo venuti a interrompere il tuo rituale di accoppiamento, oggi. Dobbiamo parlare.
Lui aggrotta le sopracciglia, sedendosi immediatamente in maniera più composta.
- È successo qualcosa? – chiede allarmato, mentre Bill si siede al proprio posto e giunge le mani in grembo.
- No. – scuoto il capo io, - È proprio questo il punto. Ormai sono passate quasi tre settimane, e non ci siamo mossi in nessuna direzione. C’è qualche possibilità che la gente che ti ha aggredito sia stata reclutata e Tempelhof, se non altro perché lì ce n’è di gente disposta a tutto per incasinarmi l’esistenza, ma se non ci muoviamo adesso rischiamo di perdere anche quel po’ di tracce che devono essere rimaste ancora in giro. Ora, non so bene chi potrei mandare a farsi un giro nel ghetto, quando si trattò della questione della mia morte mi hai detto che il giro se lo sono fatti Fler e Chakuza, ma con tutta la visibilità che hanno avuto recentemente non mi sembra il caso di mandarli in un posto dove rischierebbero grosso. – sospiro profondamente, non mancando di notare il brivido che ha percorso tutto il corpo sottile di Bill mentre parlavo della visibilità che Fler e Chakuza hanno acquistato con gli ultimi avvenimenti. – Qualche suggerimento? – concludo infine, tornando ad alzare lo sguardo su David.
Lui riflette per qualche secondo, incrociando le braccia sul petto. Il suo sguardo si fa cupo, visibilmente preoccupato, ed improvvisamente l’atmosfera della stanza, fino a qualche secondo fa gioviale e serena, si appesantisce tutta insieme, al punto che me la sento gravare addosso, tutta sulle mie spalle.
- Io penso—
- Se posso… - lo interrompe Bill, la voce bassa ma decisa. Entrambi ci voltiamo a guardarlo con più stupore di quanto il momento non lo richiederebbe. Io, soprattutto, dovrei essere abituato a vederlo intervenire in una discussione come questa, considerato il fatto che lo faceva spesso, quando stavamo insieme. A volte anche del tutto a sproposito. Ma da quel periodo sembrano passati decine d’anni, secoli addirittura, e quindi la sua voce suona quasi stonata, alle mie orecchie, come provenisse da un tempo diverso, arrivando al presente sotto forma di un’eco lontana e un po’ irreale. – Se ho capito bene, vorresti provare a capire qualcosa di quanto è accaduto, magari raccogliendo informazioni sparse per il ghetto, e poi… poi? Andare da Nyze e chiedergli conto e ragione di ciò che hai scoperto?
Scrollo appena le spalle, annuendo brevemente.
- Almeno così lo metteremmo alle strette. Sarebbe più facile cavargli qualcosa di bocca, se riuscissimo a trovare le informazioni giuste.
Bill riflette per qualche secondo. Non noto il sorriso divertito sulle labbra di David. Lo vedo, ma non ne prendo atto, non capisco che quest’uomo sa già cosa uscirà dalla bocca di Bill adesso e sta già ridendo in anticipo. Avendo tutte le ragioni per farlo, peraltro.
- Mi sembra una stronzata. – dice quindi Bill, e per poco non cado giù dalla sedia.
- Cosa…? – boccheggio, mentre David lascia andare la risata che ha trattenuto fino ad adesso. Bill si concede una smorfia, incrociando le braccia sul petto.
- Rifletti un attimo… - mi invita, pensieroso, - Se anche qualche informazione dovesse venire fuori, chi ti dice che sarebbe sufficiente a inchiodarlo? Ma poi… - sospira, - …due anni fa la situazione era diversa. Quello che abbiamo fatto Peter, Patrick ed io… quello che è successo quella notte non possiamo ripeterlo adesso. – abbassa un po’ lo sguardo, - Non puoi ripeterlo tu, è pericoloso, e… Dio, Anis, non sei stufo marcio di tutte queste pose da ghetto? – solleva nuovamente gli occhi, cercando i miei e trovandoli all’istante, - David è vivo per miracolo. Non posso dirti che… se fosse morto, ecco, forse anche io sarei con te, adesso, e vorrei soltanto vedere Nyze aperto in due come un vitello in macelleria, ma… - sospira ancora, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle, - Se provassimo a lasciar perdere? Possiamo almeno provarci? A non sollevare un polverone ancora più grosso?
Schiudo le labbra, giusto perché mi pare il caso di informare la principessa che questa non è una questione che dipende solo da noi, che c’è un’altra parte, in gioco, e che quella parte potrebbe ritorcerci contro il nostro silenzio, attaccandoci di nuovo per indebolirci ancora di più, ma David mi interrompe prima ancora che io possa iniziare, schiarendosi la voce ed aspettando di avere la mia completa attenzione prima di cominciare a parlare.
- Io penso che Bill abbia ragione. – dice quindi, - Magari non funziona, e fra un paio di mesi verrà sventrato qualcun altro al posto mio… o magari tornano indietro e concludono il lavoro con me ricalcando quello che hanno già fatto. – aggiunge, deglutendo a fatica, - Ma magari invece va bene e riusciamo a smorzare la vicenda prima che diventi troppo ingombrante. Sai cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire lasciare in pace il mondo perché il suo tempo scorra come natura comanda, senza imporsi stile deus ex machina sull’universo, e vedere se si può tornare ad uno stato di normalità. – sorride con convinzione non simulata, quando mi appoggia una mano sulla spalla, - Il rischio è grosso, ma lo sarebbe anche mandando qualcuno dei ragazzi a Tempelhof. E le prospettive in questo secondo caso sono quelle di guerra aperta, mentre se funziona come suggerisce Bill… be’, la prospettiva è di pace. Non ti alletta l’idea?
Sospiro, già sconfitto in partenza. Il discorso di David fila, se non si tiene conto delle probabilità che avvenga una delle due cose piuttosto che un’altra. Probabilità che nel mondo del rap arrivi infine la pace e tutti ci si sieda attorno ad una tavola rotonda brindando alla nostra salute ed augurandoci vicendevolmente una vita prospera e serena? Zero. Probabilità che Nyze si senta incoraggiato a farmi trovare una testa di cavallo nel letto stasera appena mi ritiro a casa? Magari un numero piccolo, ma comunque superiore allo zero.
Lascio perdere, comunque, perché alla fine non è solo della mia vita che stiamo parlando qui, ma anche delle loro, e di quella di persone alle quali siamo tutti affezionati, e che nessuno di noi vuol vedere spegnersi sul pavimento sporco di un altro magazzino, che sia ora o fra un mese. Posso decidere di mettere a repentaglio la mia incolumità, se voglio, ma non posso giocare con quella degli altri. È per questo che sono morto due anni fa, perché mettere a rischio Bill non era un’opzione contemplabile. Quella deve essere la mia unica priorità, adesso, con la differenza che purtroppo le cose sono cambiate al punto che non si parla più solo di proteggere Bill, ma anche un sacco di altra gente. Non so se sarò in grado di proteggerli tutti— al diavolo. Certo che lo so. E certo che lo sarò.
Mentre usciamo dalla camera di David, una mezz’ora dopo, lasciandolo sul letto a stiracchiarsi fintamente sonnacchioso per darci ad intendere che si metterà immediatamente a dormire dopo che saremo andati via quando invece attenderà Schüster per due minuti e, quando non lo vedrà arrivare di sua spontanea iniziativa, si attaccherà al telecomando che ha appeso al letto premendo il tasto di chiamata finché il suo eroe non sarà giunto a salvarlo in risposta al suo grido d’aiuto, io penso che posso accettare questa improvvisa svolta nella politica interna del mio regno, ma forse non sono pronto ad accettarne le conseguenze. Prima fra tutte il fatto che, se voglio imporre la pace, non posso comportarmi come se fossi ancora in guerra.
E quindi, giocoforza, la principessa dovrà abbandonare la fortezza reale.
*
Faccio a pugni col pensiero per tutta la settimana successiva. Bill se ne accorge, naturalmente, perché è impossibile non vedere quanto diversamente mi comporto nei suoi confronti. Anche il fatto che cerchi il più possibile di non stare con lui nella stessa stanza, o il fatto che, alla fine, per la gioia di Karima i nostri programmi giornalieri abbiano cominciato a non coincidere più, se non nelle volte in cui siamo andati a trovare David, deve suggerirgli che qualcosa è cambiato, e quel qualcosa è il bisogno di trovarsi in questa casa. Riesco perfettamente ad immaginarmelo al mattino, nel bagno che mi sono premurato di lasciargli usare per primo come sempre, guardarsi nello specchio e chiedersi cosa stia facendo ancora in questa villa, perché non se ne sia tornato nel proprio appartamento, come sarebbe stato forse più giusto. Ieri Tom è venuto a trovarlo per portargli il cambio, e ha insistito ancora per convincerlo dell’opportunità di andare a stare altrove. “Puoi venire anche da me, se vuoi,” gli ha detto, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore e giocando distrattamente col piercing, “Ma stare qui è… davvero poco conveniente, Bill, per un sacco di motivi.” E ha ragione, Tom, ha ragione da vendere.
Tanta ragione che ho visto Bill vacillare, nell’ascoltarlo, e non mi ha stupito. Così come non mi stupisce oggi entrare in camera sua e trovarlo con lo zainetto sul letto, intento a rassettare le proprie cose. Fuori dalla finestra, agosto finisce e si appresta a diventare settembre, e lo fa discretamente. Sembra che niente sia cambiato da quando Bill ha messo piede in questa casa, ma in realtà è passato un mese. Un mese sono un sacco di giorni. Non saprei dire se siano giorni persi.
- Bill? – lo chiamo piano. Lui non deve avermi sentito entrare, perché raddrizza la schiena all’improvviso e fa un passetto indietro mentre si volta a guardarmi, sussultando visibilmente.
- Sei tu. – dice con un piccolo sorriso, tornando a rilassarsi e lanciando un’occhiata imbarazzata al proprio zainetto. Probabilmente avrebbe preferito che non lo vedessi prepararlo. L’avrei preferito anch’io.
- Cosa fai? – gli chiedo, e glielo chiedo anche se lo so benissimo, perché spero che gli manchi il coraggio di rispondermi. Forse, se non sarà in grado di dirmi che va via, resterà. Penso a quanto mi sono lamentato, all’interno della mia testa, ovviamente, delle stupide regole che Bill aveva stabilito per far durare indeterminatamente questa convivenza, ed ora mi sento ridicolo nell’aggrapparmi a quelle stesse ridicole regole, arrivando a dirmi che forse se non sento qualcosa quella cosa non accadrà, pur di concedermi una speranza. Una sola. Di poterlo avere qui un po’ più a lungo. Fossero anche solo un paio di giorni.
Bill schiude le labbra, e vedo la fatica che fa nel provare a parlare. Lo capisco lì, che non vuole farlo davvero. Prima ancora che lui possa dirmi qualcosa a voce, il suo corpo mi sta già dicendo che se ci fosse anche solo un altro motivo per cui restare, resterebbe, perché i motivi che ha utilizzato fino ad oggi hanno perso validità giorno dopo giorno, e lui ha fatto di tutto per rimanere attaccato ai fili sottilissimi che erano diventati, ma ormai deve mollare la presa. E che se voglio che resti, devo dargli un motivo nuovo per farlo. Qualcosa di reale, con una fibra forte. Qualcosa che non si consumerebbe col tempo, che gli darebbe motivo di restare a lungo senza dover accampare pretesti e scuse uno dietro l’altro.
- Io penso… - esala stancamente, distogliendo lo sguardo e fissandolo insistentemente su un punto a caso nella parete dietro di me, - Anis, penso che dovrei—
- Non farlo. – lo interrompo, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lui serra istantaneamente le labbra, tornando a guardarmi. I suoi occhi sono spalancati e colmi di paura ed emozione allo stesso tempo. Ricordo di aver visto una luce simile in questi stessi occhi, tanti, tanti, tanti anni fa. Lui era molto più piccolo, io molto più stupido. Entrambi eravamo molto più felici. Improvvisamente, quei giorni sembrano lontanissimi e incredibilmente vicini insieme. Impalpabili come sogni, ma straordinariamente reali. Non me ne accorgo consciamente, ma semplicemente escono dalla dimensione di incertezza in cui li avevo racchiusi chiedendomi per lungo tempo se fossero stati veri o meno, e ridiventano ricordi. Qualcosa di concreto, qualcosa che è successo davvero. Qualcosa a cui aggrapparmi.
Mi avvicino cautamente, perché il suo corpo trema impercettibilmente e ho paura di vederlo scattare di lato per evitarmi e fuggire attraverso la porta ancora aperta alle mie spalle. Un passo alla volta, sento il suo calore farsi più intenso, i suoi occhi più grandi, il suo profumo più forte, le sue labbra più invitanti. Mi sto lasciando guidare dall’istinto e non sto riflettendo su ciò che sto facendo. Non so se questo mi renda più o meno colpevole circa il baratro nel quale sto per ripiombare entrambi.
Bill, in ogni caso, non si muove. Non si muove mentre mi avvicino e non si muove nemmeno quando mi fermo, ad un paio di centimetri da lui. Basterebbe che mi dondolassi appena in avanti per sfiorare le sue labbra con le mie, ma non voglio che sia un movimento casuale a riunirci adesso. Non c’è mai stato praticamente niente di casuale in ciò che ci ha uniti, è sempre stata una nostra scelta. Impulsiva a volte, ben ponderata in altri casi, ma consapevole.
Sollevo le braccia e prendo il suo viso fra le mani. Accarezzo i suoi zigomi coi pollici mentre lui respira profondamente e si inumidisce appena le labbra. I suoi occhi non si staccano dai miei neanche per un secondo, almeno fino a quando, con un sospiro liberatorio, li chiude. Mi si stringe lo stomaco in una morsa di desiderio ed impazienza, e mi chino su di lui, poggiando le mie labbra sulle sue ed assaporandolo lentamente prima di bussare appena con la punta della lingua, implorandolo nella mia testa perché mi lasci passare. E lui si aggrappa con forza alla maglietta che indosso, ne strattona l’orlo con violenza e con rabbia, e quando accoglie la mia lingua nella sua bocca la cerca immediatamente con la propria, allacciandomi repentinamente al collo per tirarmi il più possibile contro di sé mentre le mie mani scivolano lungo il profilo del suo viso e del suo corpo, stringendosi attorno ai suoi fianchi.
E poi mi confondo, perché non so più dove sono, e per dove non intendo solo il luogo fisico, intendo anche il quando. Il tempo, il punto della mia vita in cui mi trovo adesso.
Le sue labbra che si muovono contro le mie sono affamate e cariche di desiderio bruciante, sono bollenti e dolci e sue, sue in un modo che mi ricorda quello che era un tempo, ma più profondo, sue come se quel pezzo di lui, quel pezzo che era stato mio e che è rimasto sepolto dentro di lui per tutto il tempo da quando me ne sono andato, stesse lentamente riaffiorando. È un Bill più piccolo e ingenuo, stropicciato e malconcio, che è stato male da morire e s’è consumato a furia di piangere, e per smettere di soffrire s’è conservato in un cassetto così da non dover più pensare di esistere e stare male anche solo per quello. E ora fa capolino, coi capelli scompigliati – e sono le mie mani che li scompigliano perdendocisi dentro, anche se ora sono molto più corti di quanto non fossero allora – e le guance arrossate – e sono i miei baci ad arrossarle, a dare loro quel colore acceso e brillante che tanto amavo – e si guarda intorno e mi chiede se può venire fuori, se adesso è sicuro, se non c’è qualche altro motivo per piangere.
E io me lo stringo contro e lo faccio con dolcezza, piano, perché è già abbastanza fragile e non voglio rischiare di spezzarlo. Voglio solo rassicurarlo. Sì che puoi venire fuori. Salta giù da dove ti sei nascosto. Io sono proprio qui sotto. Ti prendo al volo.
- Resta. – sussurro sulle sue labbra, mentre lo sollevo appena e lui stringe le cosce attorno al mio bacino. I suoi occhi sono persi nei miei, il suo respiro è affannoso e so che in questo momento, per lui, in tutto il mondo non esiste altro che sia degno di tutta l’attenzione che sta concentrando su di me.
- Mi viene da piangere. – mi confessa in un rantolo soffocato, - Dio, Anis. Mi viene da piangere.
Indietreggio appena, tenendolo stretto per la vita mentre chiudo la porta con un colpo secco e poi lo conduco verso il letto. Lo stendo sulle coperte e, appena si ritrova su una superficie morbida, lui si mette seduto e poi in ginocchio, sfila la maglietta, sbottona i jeans e poi allunga le braccia, cercando il mio corpo. Mi avvicino subito, puntando un ginocchio sul materasso mentre lui afferra la mia maglietta e la solleva fino a farmela passare sopra la testa, avventandosi immediatamente sul mio collo quando riesce a tirarla via, per poi lanciarla lontano.
Si lascia andare supino sul materasso e schiude le gambe per farmi posto. Io gli sfilo i pantaloni, prima di sistemarmi su di lui, e nel movimento lo zainetto rotola per terra, e mi rendo conto che era ancora vuoto. Sorrido mentre mi chino sul suo collo, riempiendolo di baci e succhiandone piano la pelle morbida e profumata, mentre lui prima getta indietro il capo in un ansito perso e poi affonda i denti sulla mia spalla, stringendo forte senza preoccuparsi di quanto male mi fa. Sa che posso sostenerlo, ed è così davvero, così come io so che nonostante tutti i mugolii sofferenti che mi sta propinando adesso, lui può sostenere un po’ di lentezza, perciò mi prendo il mio tempo per entrare nuovamente in confidenza col suo corpo, con le sue forme, col suo profumo. Sento le ossa appuntite del suo bacino premere contro la mia carne quando, ormai nudi, ci strofiniamo l’uno contro l’altro, e sento la morbidezza della sua pancia contro la punta della mia erezione quando, strusciandomi su di lui, salgo abbastanza in alto da sfiorargli l’ombelico.
Lui geme con una forza nuova, afferrandomi sotto le orecchie ed inarcando la schiena mentre mi spinge verso il basso, ed io percorro in punta di lingua tutto il suo corpo, baciando a lungo la stella sul suo inguine e riscrivendo con le dita il tatuaggio che gli ricopre il fianco sinistro, mentre sfioro con le labbra la punta della sua erezione e poi la prendo appena in bocca, accarezzandola per tutta la lunghezza con la lingua ed accogliendola il più profondamente possibile dentro di me.
Bill lancia un mezzo grido, affondando le dita fra i miei capelli e percorrendoli dalla radice alle punte mentre muove lentamente il bacino, aumentando il ritmo delle proprie spinte pian piano. E capisco che trova difficile fermarsi quando all’improvviso mi chiama per nome, la voce spezzata dagli ansiti di piacere.
Mi allontano da lui, risalendo un bacio dopo l’altro la stessa scia che mi ha portato verso il basso. Appena torno all’altezza del suo viso, Bill pretende le mie labbra, e mi stringe al collo con tanta forza che mi sento quasi mancare l’aria.
- Non lasciarmi andare più. – mi sussurra addosso mentre premo piano contro la sua apertura, - Mai più.
In qualche modo sento che mi sta dicendo che se lo voglio adesso mi impegno a volerlo per tutto il resto della mia vita. Ci stiamo legando in questo momento più di quanto non ci sia mai capitato in passato, ci stiamo legando ora più di quanto ci abbia stretti insieme il momento in cui il nostro sangue s’è mescolato sul letto del suo appartamento il giorno in cui sono morto. Ci stiamo dicendo adesso che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo tutto quello che è successo, siamo ancora disposti a prenderci e stringerci fra le dita per tutti i giorni che ci separano dal momento in cui moriremo davvero.
Bill mi sta dicendo di non fare l’amore con lui se non ci credo quanto ci sta credendo lui adesso.
Ma non è solo per fare l’amore con lui che annuisco e lo bacio per sancire la promessa prima di entrare dentro il suo corpo e riprendermi un posto che non ha mai smesso di essere mio di diritto.
*
È molto facile e molto naturale, poi, ricadere sdraiati sul letto nella nostra solita posizione. È molto più faticoso, per la verità, andare a ripescare nella memoria prove tangibili che questa fosse davvero la nostra posizione, perché sto parlando di un periodo che sembra troppo lontano perfino per esistere davvero, come quando a scuola ti parlano della preistoria, dell’uomo di Neanderthal e tutto. Ora, io non ho passato molto tempo fra i banchi di scuola a lasciare che il sapere venisse a me, ma ricordo la sensazione che provavo quando da ragazzino stavo seduto sulla mia seggiola ed ascoltavo la maestra parlare di cose avvenute centinaia e centinaia di anni fa, e non riuscivo a sentirle reali. Era come se mi stesse raccontando belle favole, forse realistiche, ma del tutto prive di concretezza. Fino a ieri, quando pensavo a me e Bill felici e insieme, mi sentivo allo stesso modo. Era una cosa che sapevo essere esistita. Potevo credere al fatto che fosse esistita. Ma non la percepivo più come mia. E anche se l’ultima mezz’ora ha ribaltato passato e presente rendendo reali tutte le cose che credevo di aver soltanto sognato, è difficile rientrare da subito in quell’ordine di idee.
Proprio per questo, in qualche modo, è straniante la facilità con la quale io mi sistemo disteso sul materasso e Bill si sistema disteso su di me. Passa le dita sul mio petto disegnando ghirigori invisibili e privi di senso, e io faccio lo stesso arrotolandomi fra le dita le ciocche un po’ più lunghe sulla sua nuca. Restiamo in silenzio a lungo, lo sento sorridere debolmente sulla mia pelle e guardo il soffitto perché ho paura di guardare in basso e non trovarlo lì. So che sentirei la voce della mia vecchia maestra cominciare immediatamente a parlare di quel periodo storico in cui centinaia di anni fa il re e la sua principessa vivevano felici nel loro prospero regno, e so che non riuscirei più a crederci. Perciò evito, e non voglio guardarlo, anche se me lo sento addosso e questo dovrebbe bastarmi a rassicurarmi. Non ci riesce. Perciò non lo guardo finché, all’improvviso, non si mette a parlare.
- Quando ho deciso che era meglio non vedersi per un po’… - la sua voce è un po’ impastata, incerta, come stesse cercando di raccontarmi un sogno essendo ancora in dormiveglia, - ero molto lucido. Presente a me stesso, dico. Ma non era sempre così, in quel periodo. Sia prima che dopo.
Lo osservo dall’alto, vedo le sue spalle sottili muoversi appena al ritmo del suo respiro. Appoggio una mano sul suo braccio pallido e magro, me lo stringo contro. Lui mugola un po’.
- Com’era quando non eri lucido? – chiedo a bassa voce. Sento il suo corpo vibrare ad ogni mia parola. È così sottile, Dio. Così piccolo, nonostante tutto. La ragione mi chiede uno sforzo, mi chiede di trattarlo da uomo, ma per me resterà sempre un ragazzino infreddolito in piedi accanto alla porta di casa mia mentre la notte oltre i lampioni che costeggiano la strada si fa scura e senza stelle.
- Pauroso. – risponde lui, continuando a giocherellare con le dita sul mio petto, - Non riconoscevo le cose. O le persone. Alle volte… - ride appena, nervosamente, - Una volta mi sono svegliato dopo aver dormito tipo per quattordici ore consecutivamente, e non ho riconosciuto Tomi. L’ho guardato e non sapevo chi fosse. Sapevo solo che era uno con la mia faccia ma un po’ diversa, e mi sono spaventato così tanto, Anis, così tanto che ho creduto che sarei morto. Ti è mai successo? Il mio cuore stava battendo troppo forte, avevo troppa paura, mi mancava troppo il respiro. Avrei potuto morire davvero.
Stringo la presa sul suo braccio, e lui sorride ancora un po’.
- Succedeva spesso?
Bill scrolla appena le spalle.
- Ogni tanto. – risponde, - Non ti saprei dire ogni quanto, perché per lo più non… non ero in me, capisci? Facevo cose che poi… non è che le dimenticassi, era come se non fossero successe davvero. Non ero io. – inspira ed espira a fatica, muovendosi un po’ fra le mie braccia per trovare una posizione più comoda. Glielo lascio fare, e torno ad adattarmi a lui non appena ha finito. – Il mio corpo, Anis, alle volte agiva in maniera completamente scoordinata rispetto alla mia mente. Puoi immaginare cosa significhi? – solleva una mano e la guarda con aria un po’ malinconica. La gira e la rigira, ne studia la forma. Lo faccio anch’io. Non posso immaginare cosa significhi, piccolo. Io ho sempre avuto il controllo del mio corpo. Ho perso il controllo di tante cose, ma mai di me stesso. – Non avevo più nulla. E non avevo più nemmeno un’identità. L’avevo uccisa, l’avevo uccisa da solo. Non avevo idea di come uscirne, mi sentivo così solo, Anis, e inutile, e senza speranza. – lo sento muoversi con un po’ di difficoltà. Si rigira, pianta una mano sul materasso ed una suo mio petto e si solleva un po’. Mi accorgo solo dopo qualche secondo che sta cercando i miei occhi, e quando lo capisco gli concedo all’istante la mia completa e totale attenzione. – Anis, noi stiamo facendo una cosa molto pericolosa. – mi dice. È incredibilmente lucido, fa quasi paura. – Io però la voglio fare, perché ti amo. Tu però— tu devi esserci. Perché io ho paura che potrei non esserci, ogni tanto. E quando io non ci sarò, devi esserci tu. Devi tenermi qui. – si stende nuovamente su di me, così che il suo corpo possa aderire completamente al mio, ma non smette di guardarmi negli occhi. È un contatto che non ha nulla di sessuale, questo. Credo voglia solo sentirmi addosso. Per me è la stessa identica cosa. – Devi tenermi con te quando mi perdo. Ho bisogno che tu lo faccia. Puoi farlo per me? Per noi?
Mi inumidisco le labbra, sollevando una mano ed accarezzandogli una guancia, dallo zigomo fino al mento. Gli sorrido il più serenamente che posso, e non posso dirgli che non ho paura, perché ce l’ho. Mi sta consegnando la sua vita in mano, di nuovo, come tanti anni fa. Ma ora è più grande, lo sta facendo con una consapevolezza maggiore. Questo aumenta anche la mia responsabilità. Ma se mi chiede se sono disposto a prendermela, la mia risposta non può essere che una.
- Lo farò.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza (entrambi accennati).
Rating: R
AVVISI: Slash.
- "È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi."
Note: Immagino che molte di voi si stessero chiedendo se io fossi ancora parte di tutto ciò o non fossi piuttosto saltata giù dalla nave ammiraglia perdendomi fra i flutti XD Ci sono ancora, per vostra disgrazia. E anche per disgrazia di David, visto che tocca di nuovo a lui parlare. Aha! Già, non è morto. Come il titolo della storia suggerisce, d'altronde. :D
Vorrei dedicare questa shot a tutte le donne fra voi che hanno pensato "ma omg, da quand'è che le shot sono diventate così lunghe?" XDDD Il mio avvento nella LTP di USW si compie con una shot brevissima. Ma piena di sorprese. E di meraviglie.
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E IL GIORNO IN CUI SONO RISORTO

Apro gli occhi senza crederci, perché giuro che quando li ho chiusi ero convinto che non ce l’avrei fatta. La cosa che sento maggiormente, più ancora del dolore un po’ sordo, un po’ attutito, all’altezza dello stomaco, è un gran senso di confusione e, al contempo, vuoto in testa. È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi. Sai che sotto dev’esserci qualcosa, ma appena ci metti piede non hai idea di cosa. Quindi è come se non ci fossi niente, tu guardi questa distesa di bianco ingrigito e ti dici “oddio, ma cosa c’è qui dentro? Non c’è nulla”, quando magari hai sotto il naso un originale di Mirò, solo che non lo sai perché non puoi vederlo. Ecco, la mia testa è come se fosse questa enorme stanza piena di roba coperta di cui mi sembra di non sapere niente. Ho un po’ paura di sollevare i teli, però, perché magari se quei teli ci sono, in primo luogo, c’è un motivo. Uno non va in giro coprendo opere d’arte a caso, se lo fa dev’esserci una buona ragione.
- Signor Jost…? – la prima voce che sento non mi è nota. È una voce femminile un po’ acuta, piuttosto dolce, e non ricordo di averla mai sentita. – Oddio, s’è svegliato… dottor Schüster! – la sua voce si fa più alta e più fastidiosa, mi pizzica il timpano con violenza e per qualche secondo, mentre serro gli occhi infastidito dalla luce che entra dalla finestra, mi chiedo quanto tempo abbia passato qui a dormire se luci e suoni anche moderati mi sembrano così insopportabili.
Sento un frusciare di vestiti al mio fianco e mi forzo ad aprire almeno un occhio, per sbirciare cosa stia accadendo. Vedo poco, comunque, la mia vista è ancora annebbiata. Spero sia qualcosa di temporaneo.
- Abbassate le luci… - borbotto, e la mia voce suona aliena alle mie stesse orecchie. È gracchiante e ruvida, come non la usassi da mesi. Ho la gola secca. Comincio a preoccuparmi davvero: da quant’è che sono qui?
- Signor Jost, ricorda perché è qui? – chiede una voce maschile profonda ma calda, che immagino appartenga al dottor Schüster.
- Non proprio… - rispondo. Cerco di identificare la sua figura, ma la luce del sole si riflette sul biancore candido del suo camice e mi abbaglia, impedendomi di riconoscere la sua fisionomia. – Abbassate le luci, per favore.
- Infermiera. – dice immediatamente il dottor Schüster, e in pochi secondi la luce diventa più fioca. Sbatto le palpebre un paio di volte e poi, finalmente, apro gli occhi, trovandomi di fronte un uomo alto e abbronzato, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e vagamente arricciati sulle punte e un pizzetto perfetto ad incorniciare labbra ugualmente perfette, mentre occhi azzurri dal taglio elegante mi scrutano con apprensione e partecipe benevolenza. Penso di essermi innamorato. – Signor Jost, sono il dottor Schüster, il medico di turno. Il dottor Neuer l’ha affidata alle mie cure. Mi dica come si sente.
- Ora molto meglio. – ammetto, ma tralascio di aggiungere “perché ho potuto posare gli occhi su di te, o divina creatura. Sfila il camice e mostrami i tuoi pettorali, li cospargerò di unguenti profumati e ti nutrirò coi frutti della terra. Infermiera! Spalanchi le finestre, che la luce entri e investa questo figlio dei cieli”. Mi sovviene all’improvviso che ancora non so da quanto sono qui. Guardo il dottor Schüster e cerco di non lasciar trasparire quanto voglio che butti fuori chiunque ci sia in questa stanza oltre noi, si denudi e mi prenda qui su questo letto. – Quanto tempo è passato da quando sono arrivato? – chiedo con finta serietà, mentre lo immagino sollevarmi tra le proprie possenti braccia e invitarmi a ballare la Lambada.
- Una settimana. – risponde lui, sedendosi sul bordo del letto. Oh, sì, dottor Schüster, perfino il cigolio delle molle del materasso sotto il tuo dolce peso è musicale. – È arrivato privo di conoscenza e quasi del tutto dissanguato. È un miracolo che siamo riusciti a prenderla in tempo, ed è ancora più miracoloso che lei sia riuscito a svegliarsi. È un uomo molto coraggioso, signor Jost.
No, vorrei dirgli, se fossi un uomo molto coraggioso mi solleverei, ti guarderei dritto negli occhi e ti direi di possedermi con forza, tanto da far sbattere la testiera del letto contro la parete fino a sfondarla. Lui però mi sorride all’improvviso, e il cielo si apre mostrando cori di angeli che cantano a festa per celebrare il momento, mentre il mondo diventa più bello, le guerre finiscono, la fame e la povertà nel mondo vengono sconfitte e putti alati coi sederini tondi suonano l’arpa volteggiando attorno a noi, leggeri come bolle di sapone. Mi sposi, dottor Schüster. Lei è l’uomo della mia vita.
- Che cosa mi è successo? – chiedo, ma non sono sicuro se gli sto chiedendo di spiegarmi com’è che sono finito qui o se piuttosto non voglio sapere se per caso nella mia flebo sia disciolta qualche sostanza stupefacente, o del viagra, o comunque qualcosa che possa giustificare le condizioni mentali pietose in cui mi trovo adesso guardando quest’uomo che riluce come una stella e sprizza testosterone da ogni poro della pelle caramellata e del tutto priva di imperfezioni.
- Per la verità, speravamo potesse dircelo lei. – dice lui, stringendosi appena nelle spalle, - Il dottor Neuer ha mantenuto il più stretto riserbo, sulla sua condizione, su esplicita richiesta del signor Ferchichi. Perciò immagino che se lei non ricorda cosa le è successo l’unica soluzione sia aspettare che il signor Ferchichi venga qui, non appena l’avremo avvertito, e possa spiegarglielo in prima persona.
Mi basta sentir parlare di Bushido perché nella mia testa improvvisamente tutto ritorni chiaro. Osservo quest’uomo stupendo entrare nella soffitta nascosta dentro al mio cervello e, invece di prendermi sul divano polveroso disteso sopra il quale io lo attendo nudo e con le gambe già spalancate e issate fin sopra le spalle, mettersi a sollevare tutti i teli da tutte le cose che coprono. Vengono fuori i tizi che mi hanno rapito, viene fuori l’incisione sul mio stomaco, che non ho ancora nemmeno visto, viene fuori il mio sangue, il magazzino buio e sporco, le casse accatastate in un angolo ed io che mi spacco qualcosa finendoci sopra. Viene fuori la storia degli ultimi mesi della mia vita, e non solo della mia, ma di quella di un’etichetta della quale non dovrebbe interessarmi niente, e che invece mi sta a cuore, perché ormai ne sono parte.
Soprattutto, comunque, vengono fuori le ultime parole che ho sentito prima di essere torturato fin quasi a morte. E sono parole che devo riferire a chi di dovere.
Sollevo gli occhi sul dottor Schüster e mi mordo un labbro per non pensare niente di sconveniente.
- Lo chiamo io. – dico. Lui inarca un sopracciglio perfettamente curato. Da ciò – dal sopracciglio e dal modo in cui lo inarca, dico – deduco che è gay, ma riprenderò la questione in seguito.
- Signor Jost, - mi informa, - non è la prassi.
Sorrido serenamente.
- Lo chiamo io. – ripeto. Il dottor Schüster sospira, solleva la cornetta, digita un codice sulla tastiera e poi mi appoggia il telefono in grembo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla stanza dopo aver fatto cenno all’infermiera di seguirlo. Il telefono squilla un paio di volte, e poi Bushido risponde.
- Pronto? – dice, col tono casuale di chi non aspetta una telefonata importante. Io prendo un bel respiro, prima di parlare.
- Muovi il culo. – dico quindi, - Devo parlarti.
A lui il respiro manca del tutto, per qualche secondo.
- David? – annaspa. Sento accanto a lui un urletto agitato. È con Bill. – David, stai bene?
- Be’, sono ancora vivo. – rispondo scrollando le spalle. – E ora muoviti e vieni qui. Abbiamo un problema.
Bushido esita ancora per qualche secondo, e poi probabilmente intuisce di cosa sto parlando. Arriva meno di mezz’ora dopo, e con lui, come avevo immaginato, c’è anche Bill.
Nel tempo che passa fra il momento in cui la nostra chiamata s’interrompe e quello in cui lui arriva, io faccio mente locale e cerco di trovare un senso alle ultime parole che l’uomo col volto coperto mi ha sussurrato prima di cominciare ad aprirmi in due. Sono parole che in un mondo normale non dovrebbero avere senso, ma vivere a stretto contatto con Bushido, sapere che il suo uomo migliore, il più vicino a lui, voleva vederlo morto mi ha dato un’idea molto precisa di cosa significhino i legami fra uomini nel mondo da cui Bushido proviene, e che ha trascinato di forza nello show business tedesco perché voleva metterci le mani sopra, e poteva farlo solo conoscendolo bene. Ha dovuto portare il suo mondo nel nostro per stravolgerne le regole e riuscire a governarle, manipolarle come ha sempre fatto, in proprio favore, e quindi, sapendo questo, le ultime parole che ho sentito quando credevo sarei morto non solo assumono senso, ma assumono improvvisamente anche un peso non indifferente. Mentre aspetto, spero che Bushido porti con sé un paio di uomini di scorta in più, per lasciarmeli, perché ora che sono vivo si saprà in giro, ed è evidente che non posso restare da solo.
Vorrei chiederglielo subito, appena lo vedo spuntare, ma appunto noto che c’è Bill, con lui, perciò mi trattengo.
- David! – strilla Bill immediatamente, avanzando verso di me così velocemente che ho l’impressione che, se non avessi la flebo e fili che mi collegano a svariati macchinari da tutte le parti, mi salterebbe addosso e mi si siederebbe in grembo. Cosa che sono felice lui non possa fare, in parte perché oddiolamiapancia e in parte perché i segni del passaggio del dottor Schüster sono ancora evidenti sul mio corpo. Ciò che non può evitare di fare, comunque, è portare con sé un enorme cesto di frutta. Naturalmente non lo porta lui, anche perché deve pesare un quintale, e naturalmente non lo porta nemmeno Bushido, perché figurarsi, motivo per il quale due poveri infermieri un po’ sfigati, di cui uno con pancetta che tende il camice fino a sollevarlo e scoprire un po’ i fianchi, sono stati reclutati ad uso e consumo della sua tranquillità, e nel momento in cui lui fa il suo ingresso in questa stanza loro lo seguono con aria mesta, posano il cesto sul mio comodino e poi escono borbottando che la loro laurea non doveva servire a questo.
- Bill. – gli sorrido io, - Ma cos’è questa roba?
- Frutta. – risponde lui, annuendo compitamente ed aspettando che Bushido gli avvicini la sedia di plastica al mio letto per sedersi compostamente, la schiena dritta e le mani in grembo. – Mi hanno detto che fa bene.
- Ti hanno detto, eh? – rido io, e non appena lo faccio il dolore mi scoppia dentro così forte e improvviso da costringermi a piegarmi in due. Non riesco nemmeno a lamentarmi, ho il terrore che qualsiasi suono esca dalla mia bocca lo renda più forte, e voglio soltanto che smetta. Bill mi si piega addosso, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Dada, stai bene? – chiede con aria preoccupata.
Mi volto a guardarlo per un secondo, e tra le lacrime – lacrime di dolore: di nuovo – riesco a vedere che sono pieni di lacrime anche i suoi occhi. Cerco di riprendermi, mi metto dritto, appoggio la schiena al cuscino sollevato dietro di me e respiro lentamente.
- Starò meglio quando le ferite si saranno richiuse, suppongo. – rispondo in un borbottio basso. Bill si morde un labbro, stringendosi nelle spalle.
- Che cosa ti hanno fatto? – mi chiede. Io esito, lancio un’occhiata a Bushido. Lui si schiarisce la voce e poggia entrambe le mani sulle spalle di Bill, in un gesto collaudato e paziente che mi fa inarcare un sopracciglio. Quant’è che ho dormito? Come ha detto il dottor Schüster? E cosa mi sono perso, nel mentre?
- Bill, forse è meglio se esci un attimo. – dice quindi. Bill si gira a guardarlo, oltraggiato.
- Cosa? – strilla, - No! Non esco affatto, stiamo parlando di David, qui, voglio sapere che gli è successo!
Mi allungo a stringere una delle sue mani fra le mie, e lui torna immediatamente a posarmi gli occhi addosso. Ha le sopracciglia inarcate verso il basso e l’espressione di chi sa già di dover cedere.
- Ti racconterò tutto dopo, Bill. – dico condiscendente, - Ora lasciaci da soli per un paio di minuti, vuoi?
Non vuole, naturalmente, ma lo fa. Se ho capito cosa sta succedendo – e l’ho capito – è solo una di tante cose che, per certi versi, riprenderanno a funzionare come un meccanismo ben oliato. La situazione è quella che è, e tutti noi non possiamo che affidarci alle mani di quest’uomo morto e risorto e sperare che non gli si aprano delle stimmate enormi sui palmi mentre noi cerchiamo di trovare posto per tutti fra le sue dita lunghe e proporzionate.
Sono ancora convinto che ci sia del viagra nella mia flebo.
Quando restiamo soli, l’atmosfera è tesa. Lui sa che ho qualcosa da dirgli, qualcosa di grave, e sta pensando che la situazione gli sembra già abbastanza brutta adesso che non la sa, perciò si chiede se sia effettivamente opportuno peggiorarla ulteriormente aggiungendo dettagli al quadro. Io, però, sono un manager. Sono uno che risolve i problemi. I dettagli sono il mio pane quotidiano. Quando Bushido è morto, si è affidato a me perché non poteva morire da solo. Ora gli toccherà fare lo stesso, se non vuole che capiti qualcosa di peggio.
- Chi è il medico? – gli chiedo quindi, - Lo conosci?
- Ma di chi parliamo? – chiede lui, preso alla sprovvista, spalancando gli occhi e sedendosi dove stava seduto Bill fino a poco fa, - Neuer?
- No. – rispondo io, scuotendo il capo, - Schüster. È lui che mi ha visitato quando mi sono svegliato.
- Ah. – annuisce Bushido, - È uno bravo. Lo conosco poco, ma sembra affidabile. Perché me lo chiedi?
- Perché voglio sposarlo. – annuisco compitamente, - È bellissimo. Dammelo. Me lo sono meritato. Sarà il mio indennizzo per essermi quasi fatto sventrare a causa tua.
Bushido ride di gusto, mentre io mi limito ad un sorriso divertito, visto che ho scoperto che da ora fino a chissà quando le risate rientreranno nella lunga lista di cose che non potrò fare.
- Mi dispiace. – dice quindi. Sta ancora sorridendo ed è bello come il sole. Io palesemente non potrò farcela a lungo. Medito di far causa all’ospedale. – Non ho mai voluto che ti succedesse una cosa simile.
- Ma sei venuto a salvarmi. – dico quindi, sistemandomi meglio contro il cuscino.
Lui mi lancia un’occhiata intensa, facendosi subito serio.
- Non ti avrei mai lasciato lì. Se anche mi fossi morto fra le braccia per strada— Non voglio nemmeno pensarci. Ti avrei portato in ospedale comunque e lo avrei messo sottosopra finché non ti avessero ricoverato.
Sorrido appena, piegando un po’ il capo.
- Anche se ciò avrebbe significato far ricoverare un cadavere? – chiedo a bassa voce.
- Sarebbe stato un cadavere a cui tenevo. – chiude il discorso lui. Io sorrido ancora.
- Grazie. Ma spero tu abbia pensato alle guardie del corpo da lasciarmi, perché ora che sono vivo—
- C’erano anche mentre eri morto. – mi interrompe lui. Alle volte, quando parlo con Bushido mi rendo conto che, quando siamo insieme, usiamo i termini vivo e morto con una naturalezza disturbante, come se entrambi stessero ad indicare due condizioni passeggere e semplicemente reversibili. Questa cosa mi dà i brividi. Per un lungo periodo, non sono riuscito a capire perché Bushido riuscisse ad usare espressioni tipo “quando sono morto” invece di “quando ho finto di morire”. Adesso che, fosse anche solo per una settimana, sono morto anch’io, riesco a capirlo meglio. Alla fine, l’unica conseguenza che ha la morte sul morto è quella di togliergli pezzi di vita. E questo è capitato a Bushido come pure a me, anche se nessuno di noi due è morto davvero, nel senso definitivo del termine.
Scivolo un po’ lungo il materasso, digrignando i denti quando sento i punti tirare. Devono essere un’infinità. Dio mio, la mia pancia sarà sfigurata per sempre. La mia bellissima, piattissima pancia. Sto soffrendo così tanto che il solo pensiero che Bushido possa rifiutarsi di regalarmi il dottor Schüster per il mio compleanno mi sembra un’eresia, un’ingiustizia bella e buona. Guarda cosa hai fatto alla mia pancia, Bushido. Dammi la mia ricompensa.
Lui mi aiuta, comunque. Scosta le lenzuola dal mio corpo e le tiene sollevate mentre io sollevo il camicione patendo le pene dell’inferno. Finalmente riesco a vedere quello che mi hanno scritto addosso.
Bushido schiude le labbra e spalanca gli occhi. Allunga una mano e sfiora i contorni delle lettere con la punta di un dito, così lieve che nemmeno lo sento. È come se si rendesse conto di quello che è successo per la prima volta, e probabilmente è davvero così dato che, per come mi avevano aperto e per tutto il sangue che dovevo avere addosso, non doveva essere semplice capire che forma avessero le mie ferite quando mi hanno trovato.
- Vendetta. – mormora pianissimo, deglutendo a fatica. Poi mi solleva gli occhi addosso, e il suo sguardo è pieno di timore. – Tu sai chi è stato. – dice, e gli trema la voce.
Io annuisco e inspiro. Moderatamente, però, sennò fa male.
- Nyze. – dico in un soffio, e vedo gli occhi di Bushido tornare indietro di mesi mentre ripensa all’etichetta che ha lasciato sprofondare nel nulla e agli uomini che ha perso e a Nyze, Nyze soprattutto, che non riusciva ad arrendersi al fatto che l’Ersguterjunge sarebbe affondata assieme al suo signore e padrone, e che ha piantato su un casino epocale prima, durante e dopo essersene andato. E mentre Bushido ricostruisce pezzi di storia e si rende conto di ciò che ci aspetta, io mi dico per un attimo che sono quasi morto per una lite fra rapper e poi mi correggo da solo. No, io non sono quasi morto per una lite fra rapper, io sono morto per una guerra del ghetto. Perché in qualche modo assurdo il ghetto è casa mia, anche se non ci ho mai messo piede. Perché Bushido l’ha portato di forza nella mia vita, perché qui non stiamo parlando di due rapper che si insultano a caso, qui stiamo parlando di fratelli che fanno giuramenti e si uniscono e fanno fronte comune contro sa Dio solo cosa, perché il problema del rap è che per farlo bene devi essere arrabbiato, ma arrabbiato davvero, e questa gente, in un modo o nell’altro, lo è, lo è tutta. E io non ho rischiato la vita per un’etichetta, ma per una famiglia. Una famiglia spaccata i cui membri adesso sono sparsi in giro per la città, e Nyze ne faceva parte, ma ora vuole solo distruggerla. E Dio solo sa fino a che punto.
Bushido deglutisce, annuendo lentamente. Ha le mani posate sulle ginocchia, adesso, e sono talmente in tensione che posso vedere le linee di tutti i tendini. I polpastrelli sono bianchi, tanta è la forza con cui li affonda contro il tessuto ruvido e spesso dei jeans scuri.
- Ho capito. – dice quindi, alzandosi in piedi. – Non preoccuparti di niente. Pensa solo a rimetterti. Riusciremo a gestire la cosa in maniera congrua.
- Qual è la maniera congrua? – chiedo stancamente, abbassando nuovamente il camicione e sistemandomi addosso il lenzuolo, - Rapirai uno dei suoi e gli scriverai addosso “marameo”?
Bushido ride un po’, grattandosi nervosamente la nuca.
- No, penso che—
- Non fare niente finché non sarò uscito da qui. – dico serio, - Aspettami, prima di prendere una qualsiasi decisione. Non fare niente di avventato.
La sua espressione un po’ stupita dall’interruzione si trasforma in un sorriso carico di tenerezza, mentre si avvicina e mi accarezza con una mano bene aperta la testa e il collo, prima di chinarsi a lasciarmi un bacio sulla fronte.
- Stavo appunto dicendo: “penso che aspetterò che tu sia uscito da qui”. E poi vedremo insieme, Jost. Per risolvere i problemi mi serve uno che sia capace di farlo.
Sorrido, tirando su un angolo della bocca con aria spavalda.
- E io, sfigurato o no, sono capace eccome.
- Appunto. – ride ancora lui. Poi mi volta le spalle, salutandomi con un cenno della mano. – Non addormentarti subito. – mi dice quindi, e io non capisco che intenda fino a quando, un paio di minuti dopo, il dottor Schüster mi raggiunge in camera.
- Il signor Ferchichi mi ha detto che aveva bisogno di me. – dice con un sorriso affabile, avvicinandosi e maneggiandomi con premura. – Sente fastidio da qualche parte?
Sorrido con estrema soddisfazione, mentre mi appresto a spiegargli esattamente dove il fastidio sia più pressante e come aiutarmi ad estinguerlo.
Genere: Commedia, Romantico, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom, Tom/David.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Incest, What If?, Slash.
- La maggior parte degli abitanti della Terra non lo sa, ma ciò che molti credono governato da un dio superiore - le leggi della fisica, l'equilibrio del pianeta, vita e morte di ogni organismo che calchi la superficie terrestre - è regolato in realtà da due dei, incarnazioni divine dei principi di Yin e Yang. Grazie a loro il pianeta può continuare a vivere, guidato dall'unico principio di compensazione che riesce a tenere in equilibrio tutto, togliendo da qualche parte per aggiungere altrove e preoccupandosi di rimettere tutto in pari quando gli equilibri vengono sconvolti.
Si tratta, comunque, di divinità un po' particolari: caricate dai sentimenti degli esseri umani, sopravvivono per un periodo di tempo ben preciso alla fine del quale la loro energia si esaurisce, ed esse decadono, costringendo i pochi esseri umani custodi di questo mistero a prendere provvedimenti, trovando qualcun altro che possa sostituirli.
Bill e Tom Kaulitz hanno una parte, in questo gioco del quale non conoscono le regole. Il loro destino sembra scritto dal momento stesso in cui hanno aperto gli occhi sul mondo, ma qualcosa, nel corso delle loro vite, è accaduto, qualcosa che ha cambiato le carte in tavola e che ora rischia seriamente di condannare al fallimento ciò per cui i protettori delle divinità stanno lavorando da ormai quasi vent'anni. Assieme al futuro del pianeta.
Note: Questa storia esiste ormai da anni. Avrei voluto scriverla per la scorsa edizione del Big Bang, ma in realtà già allora si trattava di un'idea vecchia, una cosa che avevo plottato almeno l'anno precedente e che mi tormentava, perché la amavo profondamente XD e morivo dalla voglia di buttarla giù, ma la consapevolezza della sua enormità mi rendeva impossibile il mettermi lì e farlo. Sapevo che mi avrebbe rubato le vite (poi invece è bastato mettermici tranquilla e credo di averla finita in un paio di settimane, ma ciò non è assolutamente il punto della questione u.u;;;), perciò me ne tenevo lontana. Alla fine, il Big Bang mi ha dato la spinta definitiva per scriverla per bene, e di questo sono molto felice <3 Anche perché così sono stata tanto fortunata da ricevere in dono l'art della Claudia, e voglio dire. *piange splendore* ♥
(Citazione iniziale rubata dalla splendida Hass, di Bushido e Chakuza. ♥)
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STARCHILDREN

Die Engel kamen wieder zu spät
ja der Teufel hat den Hass in meine Wiege gelegt
und er zwang mich seit dem es in mir zu tragen
deswegen hab ich mich als Kind oft geschlagen

Il sole era già alto nel cielo mattutino eppure vagamente fosco di quell’assaggio d’autunno a Lipsia, quando Jörgen Larsen, in un elegante completo nero liscio il cui unico tocco di colore era la camicia, di un bell’arancione acceso, che faceva capolino dal bavero della giacca chiusa, fece il proprio ingresso all’interno della clinica. Alle sue spalle, due ragazzi incastrati in completi simili ma decisamente fuori luogo sulle loro figure esili e giovanili, avanzavano silenziosi, cercando di tenere il passo. Li si sarebbe detti sui diciassette, massimo diciotto anni.
- Ora fate i bravi. – disse l’uomo, ufficialmente CEO della Universal Music International ma giunto di gran corsa a Lipsia sotto ben altre vesti, - E siate silenziosi. Parlate solo se interpellati, ma nessuno vi interpellerà, perciò limitatevi a tacere e basta. – ordinò senza voltarsi a guardarli.
David Jost, il più piccolo dei due, non visto, si lascio andare ad una mezza pernacchia silenziosa, ma fu l’occhiata truce del suo compagno, Frank Briegmann, proprio lì al suo fianco, a zittire sul nascere qualsiasi altro desiderio di rivolta simile, e David tornò a camminare silenziosamente dietro Larsen, lasciandosi condurre con decisione attraverso i bianchi e splendenti corridoi dell’ospedale, finché non fu invitato a fermarsi di fronte ad una porta chiusa, dall’interno della quale veniva il suono cristallino della risata di una donna.
Raccomandandosi un’ultima volta perché il silenzio fosse mantenuto dai suoi sottoposti, Larsen sorrise apertamente e spalancò la porta, osservando una donna piuttosto bella e giovane, per quanto forse un po’ troppo magra, giocare con un neonato paffuto coi capelli neri e la pelle arrossata, mentre un altro neonato, in tutto e per tutto uguale, restava silenzioso e dormiente fra le braccia dell’uomo che ai piedi del letto sedeva, e che i due ragazzi guardarono con curiosità, inquadrandolo subito come un uomo molto nervoso e tremendamente a disagio, nel suo completo pantaloni e camicia di lino bianco.
- Simone! – salutò Larsen, facendo il proprio ingresso nella stanza, - Carissima! Come stai?
- Jörgen. – lo salutò a propria volta lei, sorridendo estasiata e ravviando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, - Sto bene, è un piacere vederti. Non credevo saresti arrivato così presto.
- Sarei venuto anche prima, mia cara, – rise lui, chinandosi a stringerla in un abbraccio fraterno e baciandola lievemente su una guancia, - se non avessi creduto che sarebbe stato poco opportuno, da parte mia, presentarmi nel mezzo del tuo travaglio. Ho pensato – aggiunse con una risatina, - di lasciarti tempo per riprenderti. Ecco perché sono qui oggi e non c’ero già ieri.
Simone si allungò a stringergli cordialmente una mano, sorridendo ancora.
- Grazie. – annuì, gli occhi lucidi, - È importante per me sapere che mi siete vicini.
- Non potrebbe essere altrimenti, cara. – la rassicurò lui, spostando la propria mano libera su quella di Simone, e stringendo a propria volta. – Dunque! – disse poi, sedendosi sul materasso sottile, proprio al fianco della donna, - Guardiamoli, questi due prodigi!
Simone ridacchiò imbarazzata, mostrandogli il neonato che teneva stretto fra le braccia.
- Questo è Tom. – disse, indicando il bambino con un cenno del capo, - E il dormiglione lì con Jörg è Bill.
- Due nomi deliziosi. – annuì deciso Jörgen, mentre sia David che Frank non potevano fare a meno di pensare a quanto, più che deliziosi, quei nomi sembrassero adatti a due personaggi dei fumetti. – E due bambini deliziosi, in realtà. Ma non potevamo aspettarci niente di diverso da te, mia cara, sei sempre stata brillante e importantissima per tutti noi. Che gioia è stata quando in Sede abbiamo saputo che i Divini avevano scelto proprio te per continuare la loro eterna opera!
- Già… - annuì la donna, lanciando un’occhiata allarmata al marito, sempre più nervoso, ed osservandolo alzarsi in piedi e deporre il bambino nella propria culla, prima di uscire dalla stanza senza neanche salutare. – Perdonatelo. Non riesce proprio… - e scosse il capo, come a cacciare via i pensieri molesti. – Piuttosto, Jörgen, siete davvero sicuri che siano…
- I segni, mia cara! – la interruppe l’uomo, entusiasta, - I segni lo confermano! Presto il muro verrà smantellato, l’equilibrio si spezzerà ed i prodromi della Fine saranno chiari a tutti. Ma ci stiamo preparando, cara, e questi bambini sono la chiave. I nostri indovini – aggiunse con un sorriso, stringendole rassicurante una spalla, - concordano tutti, cara. Il tempo è giunto. Da qui a una ventina d’anni il mondo sarà sull’orlo del collasso, ma noi saremo pronti. Tu lo sarai. E questi meravigliosi bambini lo saranno.
Simone sorrise a propria volta, allungandosi a deporre Tom al fianco del fratello per poi lasciarsi stringere da Jörgen, commossa.
- Grazie. Davvero, grazie mille.
- E qui entriamo in gioco noi. – continuò subito l’uomo, sciogliendo l’abbraccio per indicare alla donna i due ragazzi, i quali – sentendosi improvvisamente investiti di un’attenzione che, fino ad un momento prima, non li aveva nemmeno sfiorati – si irrigidirono ai loro posti, stringendo i pugni lungo i fianchi. – Oltre che per congratularmi, naturalmente, sono venuto per presentarti David e Frank, mia cara. Saranno i tuoi referenti per il futuro, quando ci sarà bisogno.
- Ma sono poco più che ragazzini… - commentò lei, fissandoli entrambi con un certo stupore e costringendoli a distogliere lo sguardo, imbarazzati.
- Be’, lo sono adesso! – la corresse Larsen con una risata tonante, - Ma abbiamo già cominciato ad istruirli nel modo più completo possibile, e vedrai: saranno pronti, quando avrai bisogno di loro. Ora, mia cara… - aggiunse quindi, nella voce una nota grave del tutto straniante rispetto a quella cordiale di poco prima, - per quanto mi secchi ribadire l’ovvio, temo vada fatto. I bambini non dovranno mai sapere niente di tutto questo e, almeno fino ai quindici anni, farò in modo che non vi siano contatti fra voi e la Santa Sede.
- Quindici anni… - annuì mestamente Simone, - Così tanto?
- Sì, cara. – la consolò lui, accarezzandole bonariamente la schiena, - È necessario, perché nessuno sospetti niente. La prossima volta che sentirai parlare di noi, - aggiunse con un sospiro, - i tuoi bimbi saranno grandi, ed anche David e Frank lo saranno. Ed io… io spero solo di esserci ancora.
- Non dire così, ti prego. – disse la donna, un’espressione più triste a turbare i lineamenti dritti e fieri del viso, - Andrà sicuramente tutto bene.
- Oh, Simone, - sorrise ancora lui, - su questo non c’è il minimo dubbio. Credimi.
Simone rispose al suo sorriso e poi lo girò anche ai due ragazzi, salutandoli e ringraziandoli con un cenno del capo, prima di invitarli ad avvicinarsi alla culla, per sbirciare i bambini assopiti fra le lenzuola. David sorrise, allungando una mano verso il bambino ancora sveglio.
- Tom, mh? – chiese sottovoce. Il bambino gli strinse l’indice fra le dita paffute, e continuò a farlo finché, piangendo, suo fratello Bill si svegliò.
*
- Tomi… - lo chiamò Bill, mettendo su il tipico broncio sulle linee del quale acconciava le labbra ogni volta che voleva farlo sentire in colpa perché non gli concedeva qualche favore di importanza a suo dire fondamentale, - Ti prego, ho bisogno del tuo aiuto!
- Ed io ho bisogno che tu mi tenga fuori dalla tua storia con Bushido. – sputò fuori lui con disgusto, senza staccare gli occhi dallo schermo della tv, né le mani dal joystick.
- Tomi! – insistette lui, piagnucolando un po’, e Tom rispose con una mezza occhiata indispettita.
- Ne abbiamo già parlato. – disse seccamente, - Non posso impedirti di uscire con chi vuoi, ma non posso neanche favorirti mentre lo fai. Odio quell’uomo, è spregevole. Se proprio vuoi consegnarti nelle sue mani, fallo, ma non aspettarti aiuto da parte mia.
- Dici che non puoi impedirmi di uscire con chi voglio, - gonfiò le guance Bill, offeso, ignorando tutto il resto del suo discorso, - ma a conti fatti, rifiutandoti di coprirmi, è quello che stai facendo.
- Cristo santo— Bill. – sbottò, poggiando in terra il joystick e voltandosi verso di lui mentre lasciava che il proprio personaggio andasse a schiantarsi contro il primo muro con tutta la macchina e qualche pezzo di arredamento urbano raccattato nel mentre. – Non sei più un ragazzino, ok? Hai diciannove anni, e questa tortura fra alti e bassi va avanti da tre, ormai. Direi che non ti serve più la mia approvazione, ti pare? La mia, o quella di chiunque altro, visto che comunque fai sempre di testa tua.
- Infatti non cerco l’approvazione di nessuno. – ringhiò Bill, - Non la tua né quella di nessun altro, per tua informazione. Ho solo bisogno d’aiuto, perché approvazione o meno David non mi lascerà uscire.
Tom abbassò impercettibilmente lo sguardo al solo sentire il nome di David, ma tornò a fissarlo negli occhi abbastanza in fretta da impedire a Bill di registrare quel movimento come qualcosa di importante.
- Mi sono rotto di sentirti lagnarti ogni minuto. – sbuffò Tom, saltando in piedi ed afferrandolo per un polso, costringendolo a fare lo stesso. – Vuoi aiuto? D’accordo, l’avrai. – lo tirò dietro di sé fino a raggiungere la porta della camera. Da lì lungo il corridoio, ignorando le sue proteste ed ogni “Tomi” pigolato dapprima con tono incerto, poi con tono sempre più infastidito, e lo ficcò dentro il primo ascensore disponibile. – Ora vado da David, in camera sua. – gli disse, guardandolo a muso duro. Non era come gli stesse facendo un favore, sembrava più che volesse liberarsi di lui, - Così te lo tengo occupato. Tu va’, e fai il cazzo che vuoi, ma vedi di tornare ad un orario umano, e fammi sapere quando dovrò coprirti per la seconda volta, perché già mi basti tu, come rottura di palle, non voglio che ci si aggiunga anche lui, con le sue paternali del cazzo.
- Tomi… - mugolò Bill, guardandolo con aria colpevole e massaggiandosi il polso dolorante, - Io vorrei parlarti. Vorrei—
- Non c’è altro da dire. – mormorò Tom, rifiutandosi di guardarlo negli occhi, - Tu hai fatto la tua scelta. Non sono cose che si discutano.
Le porte si chiusero di fronte alla sua espressione ancora corrucciata, e Bill restò pensieroso per tutto il tragitto dell’ascensore fino al piano terra, stringendosi alla borsa e dentro la giacca e ricordandosi solo all’ultimo minuto di recuperare cappellino ed occhiali da sole, per schermarsi almeno in parte di fronte agli occhi del mondo. Sperò che Anis non fosse in ritardo – controllò l’orologio, lui era in orario – e si chiese ancora una volta di che razza di scelta stesse parlando il suo gemello. Lui non aveva mai avuto scelte, da quando aveva conosciuto Anis non c’era stata la possibilità di scegliere fra una cosa e l’altra, era sempre stato innamorato di lui. Odiava quando suo fratello si metteva su quello stesso piano di pensiero: scambiare l’affetto che provava per lui con quello che provava per Anis, metterli a paragone, pretendere di equipararli e poi tirargli addosso quella sciocca questione della scelta era assolutamente scorretto, nonché impensabile.
Di fuori, il tempo era pessimo. Bill osservò con un misto di paura e sconcerto gli enormi nuvoloni neri addensatisi nel cielo durante tutto il giorno, e si mordicchiò un labbro, perplesso.
- Aprile dovrebbe essere molto meno nuvoloso. – borbottò soprappensiero, appoggiandosi al muro e poi cambiando idea, prendendo a muoversi intorno per evitare di star sempre fermo in un punto e dare nell’occhio.
Passeggiò solo per pochi minuti, poi il cellulare, al riparo nella tasca posteriore dei jeans, prese a vibrare insistentemente. Lo tirò fuori col sorriso sulle labbra, rispondendo alla chiamata senza neanche sprecarsi a guardare il numero sul display.
- Sei in ritardo. – commentò con tono petulante, fermandosi in mezzo al marciapiedi e piantando una mano sul fianco, prendendo a battere ritmicamente un piede per terra, del tutto dimentico dei propri propositi riguardo al non dare nell’occhio.
- Davvero? – ridacchiò Anis, dall’altro lato della cornetta, - Non mi pare. Piuttosto, credo sia tu quello in ritardo, perché io sono dal lato della strada opposto rispetto a quello in cui stai andando.
- Sei già qui? – chiese immediatamente lui, illuminandosi all’improvviso e stringendo il telefono con entrambe le mani, come per paura che l’emozione potesse portarlo a lasciarlo cadere, - Perché non mi hai chiamato subito?
- Perché volevo guardarti, per un po’. – rispose lui, la voce soffice, eppure un po’ roca, quasi allusiva, - Volevo guardarti per bene.
- Anis! – lo richiamò Bill, a bassa voce, fingendo di essere arrossito per l’imbarazzo quando tutto ciò che rendeva più calda la sua pelle era pensare che di lì a poco sarebbe stata sfiorata da lui, - Sei terribile.
- E ti piaccio per questo. – rise lui. Bill si lasciò andare ad uno sbuffo intenerito, voltandosi intorno e fermandosi solo una volta che ebbe individuato la BMW nera parcheggiata di fianco al marciapiedi di fronte.
- E per un sacco di altri motivi. – aggiunse in un soffio, interrompendo la chiamata e riponendo il telefono nella borsa, prima di avviarsi nella sua direzione.
*
- Il presidente – attaccò Frank, mentre David approfittava dell’assenza di una webcam in camera propria per roteare gli occhi, annoiato, - non è affatto contento, David.
- Mi rendo conto. – disse, cercando di fare in modo che il suo tono sembrasse quanto più contrito possibile, - Mi dispiace enormemente, ma Bill—
- Il ragazzo va tenuto sotto controllo. – insistette Frank, aggrottando le sopracciglia, immobile dietro la propria scrivania, tanto fermo da sembrare finto, - Questa sua… relazione con Bushido è sulla bocca di tutti. Non possiamo permettercelo. Non è per questo che siamo stati nominati responsabili di questa questione, e tu dovresti saperlo bene.
- Lo so, infatti. – ribatté David, incrociando le braccia sul petto, irritato, - Sono pienamente consapevole delle mie responsabilità, così come dei miei compiti. E sto facendo tutto il possibile.
- Ebbene, non è abbastanza! – berciò l’uomo, battendo un pugno contro il tavolo nel primo movimento in cui si produceva da quando la sua conversazione con David aveva avuto inizio. – Insisti. Sii più convincente. Per gli dei, rinchiudilo a doppia mandata in camera con suo fratello, se devi! Ti rendi conto di cosa stiamo rischiando? E non parlo di te e me, parlo dell’intero cosmo, David!
- Lo so! – si permise di alzare la voce a propria volta, nonostante Frank gli fosse superiore sia in quanto ad età che in quanto a grado all’interno dell’Organizzazione, - Credi che non sappia a cosa stiamo andando incontro, o che non riesca nemmeno a guardarmi attorno? I maremoti, le trombe d’aria, la terra si sta sgretolando sotto i nostri piedi e ne sono perfettamente consapevole, Briegmann!
- E allora – gli rispose lui, gelido, - non dirmi che stai facendo il possibile. Di’ che ti spiace di non aver ancora fatto abbastanza. – concluse, prima di interrompere la videochiamata.
David rimase a fissare lo schermo del portatile con aria sconvolta, per parecchio tempo. Alle volte ignorava cosa s’aspettassero da lui— le scritture parlavano chiaramente: doveva essere amore perché i Prescelti potessero assurgere al divino. La loro unione doveva essere spontanea, intensa e passionale, nessuno poteva forzarla ad avere luogo, o ne avrebbe contaminato la purezza. L’Organizzazione esisteva per preservare i gemelli, per prendersene cura, per rivelare loro la verità al momento più opportuno e per istruirli sul da farsi quando il loro destino avrebbe dovuto compiersi, ma non poteva avere ragione dei loro desideri, erano quei desideri che avrebbero dovuto avere ragione di tutto il resto.
Quando sentì bussare alla porta, si prese solo pochi secondi per spegnere il portatile ed inspirare profondamente, prima di chiedere chi fosse. Il solo sentire la voce di Tom rese più pesante che mai il macigno che portava sulle spalle. Contrito ed amareggiato, lo accolse all’interno dell’ufficio con un sorriso mesto.
- Scusa, Dada. – sospirò Tom, visibilmente abbattuto, - Ti disturbo?
- Lo sai che tu non mi disturbi mai. – gli sorrise conciliante, chiudendosi la porta alle spalle mentre lo osservava girare un po’ per la stanza, prima di andarsi ad abbattere esausto sul divanetto poggiato alla parete, gettando gambe e braccia ovunque nel tentativo di accomodarsi più possibile. – È successo qualcosa?
Tom gli lanciò un’occhiata brevissima e incerta, prima di tornare a fissare la punta delle proprie scarpe come l’inizio e la fine dell’universo fossero posizionati esattamente lì – e non sapendo quanto un pensiero simile potesse essere vicino alla verità.
- È andato di nuovo con Bushido. – confessò alla fine, sospirando ancora, - Non sono riuscito a fermarlo. Né a dirglielo.
David sospirò a propria volta, andando a sedersi al suo fianco e poggiandogli una mano sulla spalla in una carezza consolatoria. Tom era, per certi versi, il loro splendido capolavoro. Era cresciuto esattamente come loro l’avevano voluto, forte e maschio e coraggioso e soprattutto perdutamente innamorato del proprio fratello, fin da tempi immemori, al punto che, quando aveva preso il coraggio a quattro mani ed aveva confessato i propri sentimenti a David, lui aveva faticato a non sorridere e trattenersi dal dargli un buffetto sulla guancia, rispondendo qualcosa di estremamente sciocco come “e dove sarebbe la novità?”.
Non c’era nessuna novità, in effetti: il presidente Larsen, che aveva sempre osservato i gemelli da lontano, ma anche da più vicino di quanto non si potesse sospettare, aveva capito fin dall’inizio che Tom sarebbe stato il primo a rendersi conto del proprio sentimento. “C’è qualcosa nei suoi occhi,” aveva detto a David, dopo una delle sue numerose visite ad Amburgo, ufficialmente per controllare il lavoro dei Tokio Hotel ed ufficiosamente per verificare che tutto stesse muovendosi come previsto, “C’è qualcosa nel modo in cui brillano quando parla del fratello. È qualcosa che Bill non ha ancora,” aveva aggiunto con preoccupazione.
In quel tempo, David era ancora giovane, pieno di fiducia nella propria missione, e soprattutto Bushido non si era ancora fatto abbastanza vicino da rappresentare una minaccia per tutti i loro piani, motivo per il quale nell’occasione specifica aveva sorriso e si era premurato perfino di rassicurare il presidente con parole cariche di fiducia. “Non si preoccupi, Herr Larsen,” aveva detto orgoglioso, “È solo questione di tempo. Presto ogni tassello troverà il suo giusto incastro.”
“Di questo non dubito, David,” aveva risposto Larsen con un sorriso sottile, “Non ho mai dubitato.”
David aveva capito solo molto tempo dopo che la fede di Larsen era qualcosa di molto più concreto rispetto alla propria. Larsen non poteva avere dubbi perché, qualora anche qualcuno si fosse presentato, l’avrebbe spazzato via in favore del bene superiore che era stato incaricato di proteggere – un bene superiore del quale non puoi rifiutare la responsabilità.
La sua fede, invece, aveva perso forza quando quel bagliore che Larsen tanto apprezzava negli occhi di Tom era germogliato precipitosamente anche in quelli di Bill, ma rivolto ad un uomo che non era suo fratello, e che anzi era quanto di più distante da lui potesse esistere al mondo.
“La fede,” gli aveva detto Frank durante una delle sue paternali, leggendo direttamente da una missiva a lui indirizzata ed inviata dal presidente Larsen in persona, “è una cosa degli uomini, non degli dei. Gli dei non possono che esistere, ma sono gli uomini a dover costruire ciò in cui credono, con le loro mani. Noi siamo i creatori dei nostri dei, David. Vedi di non dimenticarlo. Noi siamo i nostri dei.”
Questo era un insegnamento che in lui non aveva mai attecchito davvero. La sola idea di poter plagiare un corpo celeste intriso di divinità come era quello di Bill per piegarlo al volere degli uomini lo disgustava, il solo pensare che l’organizzazione di cui faceva parte potesse pensare a forzarlo come metodo per ottenere ciò che s’era prefissa gli dava i brividi dall’orrore. La conclusione alla quale era giunto, riflettendo molto a lungo, era stata che se i Prescelti non erano in grado di trovarsi, forse era perché i Divini non volevano. O perché i ragazzi non erano ancora pronti. O per chissà quale altro motivo, non era comunque importante abbastanza quanto la devastante consapevolezza che una cosa che era sempre andata a posto autonomamente nei secoli, per la prima volta da che l’uomo era al mondo rischiava di non potersi concretizzare se non con una decisa spinta da parte dell’uomo stesso.
Era una consapevolezza agghiacciante: David non poteva fare a meno di pensare che era triste che l’uomo fosse abbandonato a se stesso al punto da dover pensare da sé perfino per chi invece avrebbe dovuto pensare per lui.
- Non è colpa tua, Tom. – gli disse, cercando di sorridere conciliante, - Conosci tuo fratello, sai che non è facile fermarlo.
Tom mugolò un assenso indefinito, prima di sottrarsi alla sua carezza come la sua mano fosse stata incandescente e prendere ad aggirarsi per la stanza come un’anima in pena, lo sguardo perso e le sopracciglia corrugate, le labbra strette e sottilissime, acconciate in una smorfia colma d’ansia.
- Ci sto male. – disse, passandosi una mano sugli occhi ed appoggiandosi stancamente alla parete, - Tutta questa cosa, David, suona troppo male. È troppo sbagliata. Voglio dire, dev’esserci un motivo per cui la legge t’impedisce di innamorarti di un consanguineo tanto stretto, no? Probabilmente è solo sbagliato e basta.
- Ne abbiamo già parlato, Tom. Non è sbagliato solo perché sei innamorato di qualcuno che è anche tuo fratello. – disse David, alzandosi in piedi e facendo appello a tutte le proprie forze per non aggiungere “però sembra sbagliato perché ti fa tanto male”.
- Ma che discorso è?! – scattò subito Tom, lasciandosi scivolare lungo la parete fino a ritrovarsi praticamente seduto per terra, le braccia molli appoggiate alle ginocchia, - Forse dovrei semplicemente dimenticarmene. D’altronde, è stato mio per un sacco di anni. Ho potuto stargli vicino come nessun altro, ed il nostro tempo… forse è semplicemente finito.
David chiuse gli occhi, passandosi una mano fra i capelli. Se il loro tempo era finito, allora lo era anche quello del mondo intero.
Si accucciò al suo fianco, accarezzandogli la testa, quasi divertito dal solletico che il profilo delle treccine causava al palmo della sua mano.
- Sei un ragazzo forte, Tom. – gli sorrise, - Solo tu puoi scegliere cosa vuoi per te stesso. È un diritto che ti sei meritato.
Tom lo guardò e si sforzò di sorridergli a propria volta, ma aveva gli occhi lucidi.
- È un modo non troppo invadente per dirmi che non è il caso di arrendermi? – chiese, e poi si lasciò andare ad una risata vagamente amara, - Ti rendi conto che è mio fratello, David? Cosa posso fare se viene e mi dice di essersi innamorato di un’altra persona? Al di là del fatto che questa persona sia Bushido, poi… io non ho diritti, su di lui.
- Ed è appunto quello che stavo dicendoti. – insistette lui, lasciando scivolare la mano sulla sua spalla e stringendo la presa in una carezza colma di rassicurazione, - Non ne hai su di lui, ma ne hai su te. Tom, nessuno – cominciò, e si prese una pausa perché ciò che stava dicendo avrebbe potuto metterlo presto in guai ben più grossi di quelli in cui già non si ritrovava, - nessuno può obbligarti ad amare qualcun altro. Se non—
- Io sono innamorato di Bill! – ribatté Tom, scattando in piedi come una bestia ferita cui fosse appena stato rigirato un dito nel taglio aperto, - Io non… non posso improvvisamente smettere, non funziona così, David! È dentro di me da così tanto tempo che… - si morse un labbro, pensieroso, - Sono un essere umano, Dada, non posso… non ho diritti neanche su me stesso.
Ancora accucciato ai suoi piedi, David sollevò gli occhi nei suoi e pensò alla propria condizione ma anche alla sua. Era inspiegabile, inaccettabile, che un essere come Tom, uno dal quale dipendeva il futuro del globo, ma che sarebbe stato altrettanto importante e sarebbe valso allo stesso modo anche se fosse stato un uomo comune, potesse pensare cose simili. Potesse sentirsi così triste, abbandonato ed impotente.
Si alzò in piedi, poggiandogli una mano sulla spalla e massaggiando piano.
- Tom, ascoltami. – cominciò, fermamente intenzionato a rivelargli tutto, ma Tom lo scostò con un movimento brusco, allontanandosi di qualche passo, dapprima confusamente e poi con maggiore decisione, verso la porta.
- No, non mi va di ascoltare altro. – disse cupo, scuotendo il capo. – E… non… non toccarmi sempre così tanto. – aggiunse incerto, cercando i suoi occhi come volesse essere sicuro di non avergli fatto troppo male dicendolo, - È strano. Mi… - si morse un labbro e distolse lo sguardo. – Lasciamo perdere, non farlo e basta. – concluse, prima di uscire dalla stanza senza una parola di più.
David non provò a fermarlo, ed accolse quasi con gioia la sua decisione di andarsene, perché se fosse rimasto, se l’avesse fatto parlare, probabilmente nient’altro sarebbe riuscito a impedirgli di combinare un disastro che avrebbe avuto incalcolabili ed imprevedibili quanto drammatiche conseguenze. Abbassò lo sguardo sulla propria mano, studiò la punta delle proprie dita e cercò d’ignorare il calore che ne divampava. Non ricordava di aver letto da nessuna parte di un Guardiano la cui pelle bruciasse al solo sfiorare la pelle di un Predestinato. Il suo guaio, ammise con una certa preoccupazione, era perfino più ampio di quanto immaginasse.
*
All’inizio, era stata solo frizione. Non qualcosa di esclusivamente sessuale, non era solo uno sfregamento, non era così definito né così circoscritto, ma era questo, in definitiva: frizione. Li aveva accompagnati ogni volta che si erano incontrati, e non era stata nemmeno una conseguenza dovuta al frequentarsi o all’uscire insieme: c’era stata già da prima. Era stata lì da sempre, per tutto il tempo, come un istinto – con la stessa indisponente e ineludibile forza rabbiosa e magnetica.
Era frizione. Era così ancora prima che si conoscessero.
La prima cosa Bill aveva sentito quando, in quel video su YouTube, lo aveva sentito parlare di lui in termini che non avrebbe permesso nemmeno ad un amico di vecchia data, erano state le scintille. Non erano state piacevoli – era stato un misto di fastidio e rabbia e orgoglio in frantumi: lui, che dell’essere orgoglioso di ciò che era aveva fatto una religione – ma erano state scintille. Le aveva sentite sfrigolare nel centro del petto e poi farsi strada con le unghie lungo la gola, fino a bruciare sulla lingua e dietro agli occhi. Scintille, né più né meno. Ed era in fondo questo ciò che comporta la frizione: scintille. Se l’era sentite scoppiettare addosso, come le bollicine di una bevanda frizzante.
Era una sensazione che non l’aveva abbandonato per un sacco di tempo. Bushido aveva continuato a parlare pubblicamente di lui come non potesse impedirselo, e lui allo stesso modo aveva continuato a sentire le scintille. Era stata frustrazione, principalmente. Bushido, d’altronde, stava senza ombra di dubbio giocando, e Bill non era riuscito a trovare il modo di ribattere o di farsi valere. Era rimasto lì a subire. E bruciare.
Tom non era stato in grado di aiutarlo, né in quel momento specifico né successivamente. Nel momento specifico, era rimasto a guardare la TV al suo fianco e poi l’aveva osservato impotente alzarsi in piedi e cominciare a urlare minacce vuote contro uno schermo spento. E successivamente non aveva saputo cosa dirgli, dal momento che non sembrava capace di fare altro che ripetere ciò che lui stesso era già stato bravissimo a definire. Cose come “lo odio, è un individuo disgustoso, mi irrita”. Era facile dargli ragione, più difficile trovare un modo di aiutarlo a dare sfogo a tutta quella rabbia repressa.
Aveva dovuto pensarci Bushido, in buona sostanza: s’erano incontrati ai Comet qualche tempo dopo, ed erano riusciti a mantenere una parvenza di decenza solo fino all’afterparty; durante la premiazione avevano fatto i simpatici, giocato secondo le regole, ma era stato quando finalmente si erano ritrovati faccia a faccia, liberi di discutere la questione come meglio preferivano, che quella bolla di energia elettrica che li circondava era come esplosa. Non erano riusciti nemmeno a scambiarsi qualche parola, la prima cosa che Bushido aveva fatto dopo averlo avvicinato era stata spingerlo contro il primo angolo d’ombra trovato in fondo alla stanza e baciarlo. E Bill non aveva mai, neanche per un secondo, pensato di rifiutargli quel bacio. La sua lingua era rovente, così come le sue mani sui suoi fianchi, sotto la camicia nera troppo corta a leggera per poter rappresentare davvero una copertura, soprattutto se sommata ai jeans portati tanto bassi da rasentare la volgarità.
Mentre Bushido lo baciava, strappandogli l’aria dai polmoni e il cuore dal petto, tanto faceva fatica a respirare e tanto forte e concitato era diventato il suo battito cardiaco, Bill s’era chiesto distrattamente se per caso non fosse esattamente questo il tipo di sfogo di cui aveva bisogno, se non fosse questo quello che aveva sempre voluto da quell’uomo, fin dal primo momento in cui aveva sentito il suono della sua voce.
Poi, il bacino di Bushido s’era scontrato contro il suo, e lui aveva smesso di pensare.
“In bagno,” gli aveva detto, “adesso,” e non aveva aspettato più di un altro secondo per trascinarlo per un polso lungo i corridoi scuri del locale, sperando che il bagno fosse comodo, pulito e soprattutto sgombro di fastidiosi ostacoli pronti a frapporsi fra lui e ciò che voleva. E non aveva nemmeno idea di cosa fosse, perché era un ragazzino, perché era eccitato, perché era stupido, perché non riusciva nemmeno a pensare a cosa fare, a dove fermarsi, o comunque da dove partire; perché la risata di Bushido, dietro le sue spalle, lo stordiva e lo confondeva, e tutto ciò che riusciva a realizzare con chiarezza era che voleva sentire nuovamente addosso il sapore delle sue labbra, il calore delle sue mani, lo sfrigolare dell’energia elettrica che scaturiva da ogni singolo sfregamento della sua pelle contro la propria.
Bushido l’aveva guardato sorridendo strafottente, quando s’era chiuso la porta alle spalle.
“Non sai cosa stai facendo,” gli aveva detto, prima di avvicinarglisi e schiacciarlo contro un lavandino. “Fortunatamente, nemmeno io.”
Bill non avrebbe mai potuto spiegare quello che successe quella notte con qualcosa di diverso rispetto a “ho sentito tutto scivolare naturalmente al proprio posto”, che poi erano state le parole con cui, successivamente, aveva raccontato l’accaduto a Tom, Georg e Gustav, guadagnandosi una serie di risatine divertite da parte degli ultimi due ed uno sguardo parzialmente confuso e parzialmente preoccupato da parte del primo.
Eppure, per quanto Georg e Gustav potessero faticare a capire, e per quanto Tom si rifiutasse con tutte le proprie forze di ammettere che quanto stava accadendo era reale, ed era bellissimo, era proprio così che era andata. Bill non avrebbe saputo neanche ricordare se avesse fatto male – sicuramente era stato così, ma il dolore doveva essersi perso da qualche parte sulle labbra di Anis, intente a lenirlo in baci brevi, soffici e umidi, mentre le sue mani tracciavano disegni invisibili sulla sua schiena e sul suo ventre sudati, prima di scendere ad accarezzarlo fra le cosce e fra le natiche, dandogli alla testa come una droga.
E le scintille non avevano mai smesso di sfrigolare. Era una sensazione straniante, quel calore diffuso, bruciante e quasi fastidioso che lo ricopriva intensamente come si trovasse sotto una pioggia di fuoco, ogni volta che Anis lo toccava. E per quanto potesse suonare sconveniente, soprattutto sulle labbra di uno che, come lui, aveva sempre parlato di aspettare il vero amore e conservarsi vergine finché non fosse stato il momento giusto e via così, c’era da ammettere che lui ed Anis stavano insieme principalmente per quello, per il calore, per il fuoco, per la sensazione totalizzante, bellissima e spaventosa di volersi strappare la pelle di dosso a morsi ogni volta che scopavano, per cercare al di sotto e vedere se anche così bruciava ancora.
Poi, sì: stavano bene insieme, Bill si sentiva felice ogni volta che riusciva a farlo ridere o a convincerlo ad interessarsi di qualcosa che, non fosse dipeso da lui, non avrebbe considerato neanche per sbaglio, e si sentiva orgoglioso di se stesso e di quanto aveva ottenuto ogni volta che Anis gli sussurrava un “ti amo” improvviso e non richiesto, ma principalmente, alla base, era il fuoco a tenerli vivi. Il loro amore si consumava in una fiamma enorme ed eterna, e Bill, dopo tre anni, stava cominciando a credere che, contro tutti i principi della fisica, non si sarebbe mai esaurito.
Drenato come ogni volta, si lasciò ricadere al fianco di Anis, tanto vicino da poterlo comunque continuare a sfiorare ad ogni respiro, e rise un po’, completamente a corto di fiato.
- Non riuscirò mai a tornare in tempo. – commentò divertito, - David mi farà una paternale delle sue.
- E allora resta. – disse Anis, e sorrideva anche lui, girandosi sulla pancia ed imprigionandolo fra le sue braccia. La sua pelle era caldissima e Bill si sentì avvampare all’improvviso sentendolo strofinarsi inavvertitamente contro di lui. – Oggi, domani, quanto vuoi. Resta, una buona volta, sono stufo di questo andirivieni, e anche di doverci comportare come fossimo due criminali.
- Be’, tecnicamente tu mi hai scopato quand’ero ancora minorenne, per cui… - rise Bill, direttamente sulle sue labbra, un attimo prima che Anis lo zittisse con un altro bacio.
- Tecnicamente, – gli fece il verso lui, - se non ti avessi spogliato io, mi avresti strappato tu i vestiti di dosso, per cui
Bill rise ancora, allungando le braccia fino a stringerlo al collo e godendo della sensazione di protezione mista a tenerezza di cui tutti i suoi abbracci lo riempivano.
- Non posso restare, lo sai. – gli disse all’orecchio, strofinando il naso contro il suo collo, - Ma ci rivedremo presto.
- Promesse, promesse. – rise Anis, allungando una mano a stringere una delle sue e baciandone lievemente il dorso e poi il palmo, prima di guardarlo negli occhi, - Non ti posso domare in alcun modo, vero?
Bill sorrise furbo, strizzando gli occhi fino a renderli sottili come quelli di un gatto.
- Il fuoco non lo domi, lo spegni e basta.
Anis lo baciò col preciso intento di ricordargli per l’ennesima volta che si sarebbe guardato bene dal farlo.
*
Quando rientrò in camera propria ed accese la luce, Bill portò una mano al petto ed indietreggiò spaventato nello scorgere una figura seduta sul letto intenta ad aspettarlo. Ci mise effettivamente un po’ – il tempo di lasciare che i suoi occhi potessero abituarsi alla luce, dopo aver fatto al buio tutto il tragitto dalla porta di casa a quella della sua stanza – a riconoscere in quella figura suo fratello.
- Cos’è, adesso la mia sola vista ti terrorizza? – chiese Tom con un sorriso mesto, sistemandosi un po’ a disagio sul bordo del letto.
- Che sciocchezze. – borbottò Bill, scalciando lontano le scarpe e gettandosi sul letto al suo fianco, non prima di averlo salutato con un bacio sulla guancia, - Solo che non mi aspettavo di trovarti qui. Non riesci a dormire?
- Già. – rispose Tom, sistemandosi con la schiena contro la testiera mentre Bill tirava via pantaloni e maglietta e li lanciava alla rinfusa in giro per la stanza, sperando di prendere al volo qualche poltrona o, al massimo, la scrivania, - Hai sentito del vulcano?
- Mmhn? – chiese lui, passandosi le mani fra i capelli per scioglierli un po’, - No, non so niente. Che è successo?
- Un vulcano islandese, - scrollò le spalle Tom, - Eyaqulcosa, ha eruttato dopo tipo uno sproposito di anni. Un disastro, ci sono i cieli di mezza Europa completamente intasati dalla cenere. Non si muove un aereo neanche se lo comanda Dio in persona.
- Scherzi? – spalancò gli occhi Bill, mettendosi a sedere e recuperando le lenzuola da sotto il proprio corpo, per potersi coprire, - Ma che diavolo sta succedendo al mondo? Ogni giorno ce n’è una.
- Sì, vero? – rise Tom, sollevandosi appena perché suo fratello potesse coprirsi per bene, - Magari i Maya avevano sbagliato qualche conto. O forse hanno trascritto male ed hanno trasformato uno zero in un due, e moriremo tutti nel giro di due giorni.
- Altre sciocchezze. – ridacchiò Bill, - Io non intendo morire prima di essermi magicamente trasformato in Brian Molko, mi spiace. – osservò Tom ridere ed alzarsi in piedi, palesemente intenzionato a lasciarlo solo, e non poté fare a meno di allungare un braccio e trattenerlo, tirandolo per la manica dell’ampia camicia a scacchi che indossava. – Resti? – chiese, inarcando le sopracciglia verso il basso. Tom lo guardò per qualche secondo come non l’avesse mai visto prima, ma alla fine si decise a sfilare le scarpe e sistemarsi sul letto al suo fianco, permettendogli di prendere posto sul suo petto come erano abituati a fare anni prima, quando ancora Bushido non era entrato nelle loro vite e tutto poteva dirsi considerevolmente più facile. – Dici che a noi sta succedendo la stessa cosa che sta succedendo al mondo, Tomi? – chiese con un filo di voce, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- …in che senso? – chiese lui, guardando il soffitto ed accarezzandogli lentamente i capelli corti sulla nuca.
- Ci stiamo disintegrando come si sta disintegrando la Terra? – insistette lui, gli occhi ormai semichiusi ed il corpo pesante, già quasi per metà scivolato nel sonno.
- Questo mai, Billi. – lo rassicurò Tom, stringendo involontariamente i denti e, più volontariamente, la sua presa attorno al suo corpo, in un abbraccio affettuoso. – Te lo giuro. Noi non ci disintegreremo mai.
*
L’unica certezza inoppugnabile della sua esistenza era sempre stata Bill. Questa era la spaventosa realtà di Tom, una realtà dalla quale trovava impossibile fuggire. C’erano state delle ragazze – c’erano state numerose ragazze – ma nemmeno una di loro era riuscita a durare abbastanza da offuscare anche solo in minima parte la spinta quasi animalesca e irrazionale che Tom aveva sempre sentito nei confronti del proprio fratello.
Era riuscito per parecchi anni ad ignorare il risvolto puramente fisico di quella spinta, il desiderio che provava quasi continuamente di mettergli le mani addosso, sentire il suo corpo cambiare forma, temperatura e colore sotto le sue dita. Per parecchio tempo era davvero stato convinto di essere solo un fratello un po’ troppo possessivo, un po’ troppo appiccicoso, un po’ troppo affezionato, forse, e niente di più. E fino a quando suo fratello non era stato suo ma nemmeno di nessun altro, aveva potuto continuare a crogiolarsi in quell’illusione, cullato dalle menzogne che raccontava a se stesso e sempre vicino al suo profumo rassicurante, al calore del suo corpo e al bagliore dei suoi sorrisi.
Quando Bill aveva deciso di donarsi a Bushido, però, qualcosa era esploso nel centro del suo petto. Era stato come se qualcuno lo avesse squarciato in due per prendergli il cuore, spremerne il sangue e poi rimetterlo a posto drenato, asciutto ed ormai del tutto inutile. A pensarci, alle volte, si sentiva mancare il respiro: nulla l’aveva debilitato quasi fisicamente quanto non avesse fatto il sentirsi per la prima volta derubato di qualcosa, come quando suo fratello gli aveva detto di essersi innamorato di un altro.
Sarebbe stato impossibile sopportare da solo una cosa del genere, il dolore devastante che lo scuoteva tutto ogni volta che la chiara consapevolezza del corpo di suo fratello fra le mani grandi ed abili di Bushido arrivava a schiaffeggiarlo, che fosse sveglio o in sogno. Era stato per questo motivo che era semplicemente crollato ed aveva vuotato il sacco con David, solo per questo. Fosse stato abbastanza forte, avrebbe nascosto la verità al mondo intero e si sarebbe portato il segreto nella tomba, ma evidentemente non lo era abbastanza.
David era l’unico che lo sapesse, l’unico al quale avrebbe mai potuto pensare di poter confessare una cosa simile. Era davvero stato quasi come un terzo padre, per loro, posto che il primo lo ricordava a malapena – non perché fosse stato esattamente assente, quanto più perché non aveva davvero rappresentato una parte attiva della loro vita – ed il secondo era stato molte cose – un compagno per mamma, un insegnante di chitarra, un cretino col quale scherzare fino a notte fonda quando non aveva voglia di dormire – ma decisamente non un papà. David era una figura rassicurante, uno dal quale si sarebbe volentieri fatto abbracciare per darsi un po’ di tregua e smetterla, almeno per qualche secondo, di sentirsi così dannatamente solo contro l’intero fottuto universo in rivolta.
Era anche per questo che quello che stava succedendo ultimamente fra loro era così disturbante. Non che qualcosa fosse cambiato, nei fatti – anzi: per dirla proprio tutta, era cambiato molto più il rapporto che lo legava a suo fratello rispetto a quello che continuava a legarlo a David – era una questione di sensazioni. Non puoi stare davvero accanto a qualcuno in grado di metterti a disagio con un solo sguardo. Non puoi lasciare che ti abbracci quando ogni volta che ti tocca hai l’impressione che le sue dita ti lascino un marchio a fuoco sulla pelle. Era una sensazione straniante, troppo fisica per loro due, che non avevano mai diviso più che qualche amichevole pacca sulle spalle e qualche altrettanto amichevole sguardo d’intesa. Tom aveva paura di dove quelle nuove sensazioni potessero portarlo, soprattutto dal momento che, senza più Bill costantemente al proprio fianco, si sentiva come una barca a riva ma senza ancora. Salvo, ma chissà ancora per quanto.
*
Le visite di Larsen ai loro studi di produzione non erano certo frequenti, ed ancora più rare in effetti erano le volte in cui, avvisando o meno, s’era presentato al loro appartamento.
I ragazzi stavano registrando qualche demo, quando una delle segretarie di David bussò discretamente alla porta, chiedendo di essere ricevuta. David l’ascoltò silenziosamente informarlo che Herr Larsen era appena arrivato in tutta fretta e chiedeva insistentemente di parlare con lui.
Bill, oltre il doppio vetro della sala d’incisione, non si accorse di niente, continuando a cantare senza fermarsi mentre invece Tom, Georg e Gustav, svaccati senza ordine sull’ampio divano di fronte all’impianto di missaggio, spostarono immediatamente l’attenzione su di lui, mostrando subito evidenti segni di preoccupazione.
- C’è qualcosa che non va? – chiese Georg, raccogliendo i capelli ed allontanandoseli dal collo e dalle spalle per ovviare almeno in parte al caldo che attanagliava la saletta. – È strano che non abbia chiamato, prima.
- È tutto a posto. – lo rassicurò David con un sorriso che rivolse prima a lui e poi anche a tutti gli altri, - Vuole solo assicurarsi che tutto stia procedendo come da programma. Vado, confermo e torno. Voi… - aggiunse, lanciando un’occhiata a Bill e sorridendo teneramente accorgendosi che non aveva ancora smesso di cantare, - siate un buon pubblico. – concluse con una risatina, prima di abbandonare la stanza.
Il suo volto subì un repentino cambio d’espressione quando si chiuse la porta alle spalle, ed anche l’incedere del suo passo si fece immediatamente più spedito. Era strano davvero che non avesse avvertito prima di presentarsi, e se la sua visita così improvvisa avesse avuto qualcosa a che fare con quanto era successo con quel vulcano in Islanda il giorno prima, allora David immaginava che quella di quel giorno sarebbe stata solo la prima di innumerevoli – e sempre più complesse – visite a sorpresa.
Quando entrò nel proprio ufficio, Larsen lo stava attendendo già seduto in poltrona, le gambe accavallate e le mani dalle dita intrecciate poggiate su un ginocchio. La sua espressione era dura e severa, i tratti del volto tesi e gli occhi macchiati di preoccupazione. David lo osservò inumidirsi le labbra ed alzarsi in piedi per porgergli la mano e poi trarlo a sé in un abbraccio cordiale ed affettuoso, prima di tornare a sedersi e sciogliere almeno in parte i muscoli tesi delle spalle e delle braccia, assumendo una posizione meno formale mentre quasi sembrava sgonfiarsi nel lasciare andare un sospiro contrito. Prese posto sulla propria poltrona al di là della scrivania, versando dell’acqua da una caraffa in uno dei due bicchieri approntati immediatamente al suo arrivo, e Larsen ne bevve un lungo sorso, prima di cominciare a parlare.
- David, la velocità con cui tutto sta accadendo lascia me per primo di stucco. – disse piano, la voce roca. Non doveva aver dormito granché bene, quella notte. O non doveva aver dormito affatto. – L’Eyjafjallajökull ha eruttato e il caos ha già cominciato a… - si fermò, inspirando ed espirando profondamente mentre appoggiava i gomiti alla scrivania e si prendeva la testa fra le mani, sconfortato.
- Herr Larsen, si sente bene? – chiese premurosamente David, riempiendogli nuovamente il bicchiere. Larsen sorrise mesto, sbuffando appena.
- Ho aspettato tanti di quegli anni, David. E sono diventato così vecchio. Stavo quasi cominciando a temere che nulla si sarebbe verificato sotto il mio mandato, lasciando tutto nelle mani di qualcuno più giovane e inesperto di me, ed invece, proprio alla fine… - sorrise ancora, prostrato. – Spero solo di riuscire a portare a termine il compito che i Divini hanno affidato a me e ad i miei pari prima di me. Ma per riuscirci, io ho bisogno della collaborazione di voi tutti.
- Sa che io sono sempre stato disposto ad aiutare, Herr Larsen. – annuì David, poggiandogli una mano sulla spalla, - Ho sempre fatto la mia parte in previsione dell’Avvento.
- E tutti siamo molto fieri di te, David. La nostra gratitudine è immensa. I saggi non hanno nessun dubbio riguardo la tua capacità di portare a termine il tuo compito di Guardiano. Ed io sono d’accordo con loro. – disse Larsen, sorridendogli orgoglioso. – È per questo che non ho alcun timore di dirti adesso che il momento è giunto, siamo anzi già in ritardo sui tempi. La profezia si sta già avverando, i gemelli devono unirsi e compiere il loro destino. Per quello che sappiamo, i Divini potrebbero essere sul punto di cadere, o essere già caduti.
- Herr Larsen… - David si passò una mano sul viso, inspirando profondamente, - Non possiamo.
L’uomo inarcò un sopracciglio, incerto.
- Come sarebbe a dire che non possiamo, David? – chiese, col tono di chi non vuole davvero una risposta, ma solo una marcia indietro. – Non potere non rientra fra le possibilità che ci è concesso avere. Se i ragazzi non sono ancora riusciti a trovarsi da soli, allora vanno spinti nella giusta direzione.
- È proprio quello di cui sto parlando. – obiettò David, le sopracciglia aggrottate. – Io ho studiato attentamente le scritture, Herr Larsen, e nulla di quanto è stato scritto dai grandi saggi passati parla di forzature, tutto si è sempre svolto con naturalezza. Il nostro compito dovrebbe essere solo di vegliare, non quello di indirizzare. – inspirò profondamente, incerto. – Sono creature divine, Herr Larsen, noi non possiamo—
- Credi di conoscere le scritture meglio di me, David? – lo interruppe Larsen, severo, - Io ho dedicato la mia vita a questa missione, e come me tutti gli altri prima di me. I tempi sono cambiati, duecento anni sono passati dall’ultima volta che i Divini sono caduti, allora la questione era del tutto differente. La nostra religione, così come il bilanciamento del karma universale da cui essa dipende, è mutevole, come il mondo. Non è preimpostata, non ci sono particolari che non possano cambiare. – i suoi occhi si fecero più cupi, scrutando quelli di David con gravità. – A parte uno. I gemelli devono unirsi ed assurgere al divino. O il mondo crollerà in una spirale di caos che lo devasterà.
David annuì pensoso, gli occhi bassi e le mani dalle dita intrecciate poggiate mollemente sul piano della scrivania. La loro presa si fece più forte, come volesse darsi coraggio da solo, un attimo prima di dare voce ai suoi dubbi.
- E se i loro sentimenti non andassero in questa direzione? – chiese a bassa voce, rifiutandosi di sollevare lo sguardo.
- Li obbligheremo a prenderla! – sbottò Larsen, battendo con furia un pugno sulla scrivania, - David, non lascerò certo che il mondo venga distrutto per i capricci dissennati di due sciocchi ragazzini che non sanno niente del perché sono venuti al mondo! E non permetterò nemmeno che sia tu a rovinare tutto. – si alzò in piedi, scrutandolo dall’alto. – David, un solo mio ordine e sarai rimosso dal tuo incarico di Guardiano. È questo che vuoi? Vuoi che i tuoi protetti, i ragazzi per cui hai vissuto fino ad ora, i ragazzi per cui sei stato istruito e di cui sei stato responsabile fino ad ora, vengano affidati a qualcun altro proprio nel momento più importante della loro vita?
- No, Herr Larsen. – rispose David fra i denti.
- Ottimo. – annuì lui, spiegando i pantaloni lungo le gambe e preparandosi ad andare, - Allora attieniti agli ordini che ti vengono impartiti.
David si morse l’interno di una guancia tanto forte da sentirsi pungere gli occhi.
- Quali sono gli ordini, Herr Larsen? – chiese ubbidiente, alzandosi in piedi a propria volta. Larsen sorrise, soddisfatto.
- I nostri indovini percepiscono degli squilibri profondi nel karma. – annuì pensieroso, - La storia fra Bill e quel Bushido sta rimescolando tutte le carte in tavola, e il karma stesso sta cercando di riportare tutto al proprio posto annullandosi. Questo, naturalmente, - sospirò stancamente, - implica l’entrata in scena di nuove figure che possano fungere da elementi di disturbo all’interno della relazione fra quei due.
- …nuove figure? – chiese David, arrischiandosi finalmente a sollevare lo sguardo ed inarcando un sopracciglio curioso.
- Gli indovini non sono ancora riusciti ad avere visioni chiare, sulla faccenda. – sbuffò Larsen, scrollando le spalle, - Parlano di dragoni, vedono maremoti e poi fuoco e fiamme, ma non sappiamo se le cose possano essere correlate o se non si tratti magari di ulteriori segnali ad annunciare la caduta dei Divini. – sospirò, tornando a sorridere più calorosamente. – Gli ordini sono di tenere i ragazzi lontano da qualsiasi cosa possa turbarne l’unione o metterne a rischio l’incolumità, al momento. Vedi? – ridacchiò appena, - Non è necessario che tu li forzi ad unirsi subito. Basterà tenerli in casa per qualche giorno, almeno finché le visioni degli indovini non si saranno fatte più chiare. D’accordo?
David sospirò, annuendo lentamente.
- D’accordo.
*
Cercando di fare il più silenziosamente possibile, Bill finì di ingioiellarsi e diede un ultimo tocco al trucco che gli adornava gli occhi. Spazzolò i capelli, appiattendoli ai lati della testa, ed infilò cappuccio ed occhiali da sole, prima di gettare uno sguardo fuori dalla finestra ed osservare i cupi nuvoloni che si stavano addensando velocemente sopra quella parte della città, spinti dal vento feroce che scuoteva gli alberi e s’infilava fischiando sinistro attraverso gli spiragli degli infissi.
- Se stessi per uscire, ti consiglierei di mettere una sciarpa. – disse Tom all’improvviso. Spaventato, Bill si voltò a guardarlo con uno scatto repentino, portando una mano al cuore.
- Tomi! – borbottò, - Non provare mai più a spuntarmi alle spalle così senza preavviso. – lo rimproverò, allungando una mano a recuperare la sciarpa poggiata sullo schienale della sedia. – E come sarebbe a dire “se stessi per uscire”? Sto per uscire.
- Sì, - rise piano Tom, ma la sua non era una risata di scherno. Sembrava solamente stanca e un po’ delusa. – magari uscire è quello che vuoi, ma dubito che tu ci riesca. Ci sono guardie del corpo appostate ovunque. Armate.
- Arm— - Bill spalancò gli occhi, affrettandosi a raggiungere suo fratello sulla soglia della porta e sbirciando i corridoi all’esterno per verificare che non lo stesse prendendo in giro. E non lo stava facendo. – Ma che diamine— perché? – chiese quindi, tornando a chiudere la porta e guardando Tom dritto negli occhi.
Lui scrollò le spalle, guardando immediatamente altrove.
- Non lo so, di preciso. – rispose vago, - David ha parlato di minacce di qualche fan invasata. Ha detto che per stasera è meglio restare in casa, uscire sarebbe pericoloso.
- …fan invasata? – chiese Bill, inarcando un sopracciglio, - Io non ho ricevuto minacce di nessun tipo. Tu?
- Nemmeno io. – disse Tom, scuotendo il capo, - Ma magari hanno intercettato la corrispondenza. Leggono sempre prima tutto.
- Ma mi sembra— voglio dire, che razza di storia è? – continuò a borbottare Bill, recuperando il cellulare e componendo celermente un numero, - Non ci sono stati avvertimenti, e nemmeno una riunione per comunicare il pericolo… cos’è, siamo chiusi dentro a tempo indeterminato e basta? Che stronzata!
- Si tratta solo di stanotte, Bill. – sospirò Tom, paziente, - In via precauzionale. Che stai facendo?
- Chiamo Anis. – rispose lui con una smorfia, interrompendo la chiamata dopo svariati squilli senza risposta e riprovando, - Dovevamo vederci.
- Oddio, Bill, potrete pure restare una serata lontani l’uno dall’altro senza impazzire. – sbuffò Tom, roteando teatralmente gli occhi e lasciandosi ricadere sul letto del fratello.
- Sta’ un po’ zitto, Tomi. – sbottò Bill, mordicchiandosi il labbro inferiore e provando a richiamare per la terza volta, - Qui c’è qualcosa che non va.
- Mh? – biascicò Tom, sollevando lo sguardo e fissandolo con curiosità, - Che succede?
Bill sospirò pesantemente, riponendo il cellulare sul comodino e guardando ansioso fuori dalla finestra, mentre la pioggia, pesante, cominciava a cadere.
- Non risponde.
*
Anis osservò il cellulare squillare per la terza volta a lungo, gli occhi fissi sullo schermo, e solo quando smise, sperando che non ricominciasse presto, lo ripose nella tasca posteriore dei jeans, tornando a prestare tutta la propria attenzione all’uomo che aveva di fronte. Era strano – e straniante – pensare a Fler in quei termini, visto che l’aveva conosciuto da ragazzino ed anche quando aveva piantato l’Aggro Berlin, be’, non è che fosse cresciuto più di tanto – non è che lui gli avesse lasciato il tempo di farlo, d’altronde – perciò fissare gli occhi su quell’uomo adulto, alto e robusto e innegabilmente arrabbiato non era piacevole come invece avrebbe potuto essere ritrovarselo davanti identico a com’era l’ultima volta che l’aveva visto.
- Fler, non ho tempo da perdere. – disse stancamente, cercando di ignorare i suoi occhi infiammati di rabbia, - Non mi pare che tra noi sia cambiato qualcosa, rispetto a una o due settimane fa. Perché hai voluto vedermi?
Patrick si morse un labbro e poi digrignò i denti in una smorfia infastidita. Sembrò non avere nulla da dire, Anis poté quasi vedere questa consapevolezza scivolare dietro i suoi occhi chiarissimi e ne fu turbato.
- Ci sto pensando da un po’. – rispose quindi, avvicinandoglisi minaccioso, - Settimane. Mesi. Non saprei dirti.
- Aha. – annuì Anis, cercando di fingersi totalmente disinteressato a quanto stava accadendo lì e, soprattutto, a quanto doveva stare accadendo a Bill, che stava chiamandolo per l’ennesima volta in dieci minuti. – Quindi?
Patrick quasi ringhiò, le braccia rigide lungo i fianchi e i pugni stretti tanto da imbiancargli le nocche.
- Odio questo tuo atteggiamento. – commentò astioso, - Parli con tutti come se non dovessi rispondere di niente con nessuno.
- E non è così? – chiese Anis, inarcando un sopracciglio e reggendo il suo sguardo nonostante quanto si sentisse turbato dalla sua sola presenza lì. C’era qualcosa che non tornava negli occhi di Fler – che ricordava ancora limpidi come quando l’aveva trovato la prima volta solo e sperduto e minuscolo in un centro di assistenza sociale – qualcosa che non tornava nel suo desiderio così improvviso e immotivato di vederlo, qualcosa che non tornava nel fuoco che sentiva inspiegabilmente agitarglisi nel fondo dello stomaco, qualcosa che non tornava nei nuvoloni che si addensavano minacciosi sopra le loro teste e nella pioggerella fine che si abbatteva su di loro diventando man mano sempre più fitta e pesante. – Dovremmo rientrare. – disse a mezza voce, ed era difficoltoso sentirsi parlare sotto lo scroscio rumoroso della pioggia. Patrick dovette gridare, perché lui lo sentisse. E quando lo sentì, Anis preferì di non averlo mai fatto.
- No. – disse con una decisione talmente improvvisa e fuori luogo da farlo sembrare sotto ipnosi, o posseduto, - No, dev’essere qui. Bushido! – lo sentì strillare all’improvviso, un attimo prima di ritrovarselo addosso.
Riuscì a malapena a sollevare le braccia per frapporle fra se stesso e il suo corpo, frenando la sua avanzata, ma il colpo fu tale che si ritrovò in terra, fradicio e con le sue mani strette attorno al collo non più tardi di pochi secondi dopo.
- Ah… - annaspò a corto d’aria, piantandogli entrambe le mani sulle spalle ed agganciando una delle sue gambe con una delle proprie, per ribaltare le loro posizioni e liberarsi della sua presa, - Ma cosa cazzo ti prende?! – gridò, afferrandogli entrambi i polsi e bloccandoglieli contro il marciapiede ormai ridotto ad una pozza d’acqua.
- Deve finire oggi. – rispose Patrick, mentre un sorriso inquietante si allargava sul suo volto, - Deve finire oggi! – ripeté urlando e dimenandosi sotto il suo corpo fino a sbalzarlo lontano con uno strattone più forte degli altri. Incredibilmente più forte degli altri.
Anis si ritrovò a sbattere di schiena contro un palo. Gemette dal dolore, ripiegandosi su se stesso e passandosi una mano lungo la spina dorsale per cercare di capire se fosse tutto a posto. Sembrava solo un colpo, per quanto incredibilmente forte, perciò tornò subito a tenere d’occhio Patrick, che nel mentre si era alzato da terra e, a distanza di qualche metro, lo fissava. I suoi occhi, incredibilmente azzurri, brillavano nella notte in maniera innaturale e spaventosa. Qualcosa non funzionava, qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto andare, e quello non era un comune scontro. E Patrick non era un comune ragazzo in cerca di vendetta.
- Fler. – provò a chiamarlo, - Fler, cazzo, dimmi cosa sta succedendo.
Lui, però, non rispose. Si limitò a sorridere ancora, distante e terribile, e fu l’ultima cosa che Anis vide prima di venire improvvisamente investito da una massa d’acqua di proporzioni inimmaginabili. Quella non era pioggia. E quello non era Patrick.
Tossì parecchie volte, ed anche quando ebbe espulso l’acqua che l’aveva quasi soffocato gli restò addosso la sensazione di stare per annegare. Continuava a piovere così incessantemente da dargli l’impressione che il cielo volesse sciogliersi sulle loro teste.
- Fler! – chiamò ancora, cercandolo oltre la tenda spessissima di gocce di pioggia che sembrava isolarlo dal resto del mondo, - Cazzo. – imprecò, e fu costretto ad imprecare ancora quando l’acqua si aprì attorno a lui proprio come la tenda di un baldacchino, lasciandogli la possibilità di vedere. – Fler… - mormorò confuso, faticando a riconoscerlo. Di fronte a lui, Patrick s’era trasformato in qualcosa di diverso. La sua pelle, celeste e traslucida, sembrava ricoperta da piccole scaglie, come quelle di un pesce. Gli occhi brillavano violentemente, liquidi e ciechi, e sotto di lui si agitava una lunga coda da tritone mentre attorno alle sue braccia, larghe ai lati del corpo, si addensavano due sfere d’acqua talmente in agitazione da dare l’impressione di ribollire.
Anis spalancò gli occhi e dischiuse le labbra, incredulo, e fu tutto quello che riuscì a fare prima che le due sfere si schiantassero contro il suo corpo, violente come pugni ed altrettanto ben mirate. Urlò quando sentì una costola incrinarsi e sputò sangue quando una sfera lo colpì dritto al volto con tale forza da costringerlo a piegare dolorosamente il collo.
Annaspò, provò a difendersi portando entrambe le braccia davanti al corpo e, cercando di schermarsi dal getto d’acqua continuo e pressante che minacciava di aprirgli un buco nel centro dello stomaco, riuscì a sgusciarne al di sotto e correre via. Non si mosse velocemente, però, o almeno non abbastanza per evitare una seconda scarica d’acqua mirata proprio al centro della schiena. Il punto, già intorpidito per il colpo preso poco prima, riprese a dolere così forte che Anis non poté che accasciarsi lì dov’era, all’angolo del marciapiede, le mani del tutto affondate nell’enorme pozza d’acqua che tutta la strada era diventata e il respiro mozzo.
Dietro di lui, Patrick si avvicinava senza toccare per terra, fluttuando a mezz’aria in quello che sarebbe stato un perfetto silenzio se, assieme a lui, non si fosse mossa anche gran parte della pioggia. Anis lo sentì avvicinarsi in uno scrosciare d’acqua sempre più forte e chiuse gli occhi, pensando distintamente che quella sarebbe stata la sua fine, e sarebbe morto senza capire niente di quanto era successo negli ultimi venti minuti della sua vita.
Poi, una macchina si fermò di fronte a lui. L’autista spalancò lo sportello a dieci centimetri dal suo volto, ed Anis sollevò lo sguardo.
- Chakuza… - esalò stremato, piantando gli occhi sulla sua espressione e sul suo sguardo che saettava sconvolto da lui alla figura di Patrick dietro le sue spalle.
- …Sali! – gridò l’austriaco, decidendo di rimandare a dopo le spiegazioni. Anis sentì le sue mani afferrarlo per il bavero della maglietta resa ormai insopportabilmente pesante dall’acqua, e senza protestare si lasciò trascinare all’interno dell’automobile.
*
- Non posso credere a quello che ho visto. – ripeté Anis per la millesima volta in dieci minuti, talmente sconvolto da ostinarsi a cercare di asciugarsi il viso usando la propria maglietta grondante d’acqua, senza ovviamente riuscirci. – Non posso credere a quello che ho visto.
- Ma cosa cazzo era quella… quella roba?! – si azzardò a chiedere Peter, pestando sull’acceleratore e cercando per pronto accomodo di allontanarsi il più possibile dal quartiere, dal momento che era palese che, al momento, Anis non sarebbe riuscito a prendere una decisione riguardo dove dirigersi nemmeno se ne fosse andato della sua vita, cosa peraltro parecchio probabile.
- Era Fler! – rispose Anis, voltandosi a guardarlo con gli occhi spalancati, - Era Fler, cazzo, o almeno, era lui prima di diventare quella cosa!
- Ma— ma di cosa cazzo stai parlando?! – sbottò l’austriaco, frenando all’improvviso ed accostandosi al marciapiede. Non pioveva più, cosa che sembrò in qualche modo rassicurare Anis abbastanza da permettergli di riordinare le idee.
- Non lo so, con precisione. – rispose l’uomo, inumidendosi le labbra, - Anzi, in realtà non lo so affatto. So che stavo parlando con Fler— non guardarmi così, non so perché volesse parlarmi, credo volesse risolvere certe questioni passate, ma ad un certo punto tutto è cambiato. E non intendo solo lui.
Peter annuisce lentamente, incerto.
- Quindi quella cosa che ho visto era…
- Fler. – annuì Anis, ancora incredulo, - Dopo essere cambiato. Ad un certo punto è cominciato a piovere talmente forte che sembrava dovesse venire giù il cielo, e lui è diventato un altro. E… Dio, non so come dirlo senza sembrare completamente pazzo.
Peter inarcò un sopracciglio, guardandolo come avesse appena detto la cosa più stupida mai pensata.
- Io ho appena visto una specie di sirenetto che fluttuava a mezz’aria e sembrava avere la chiara intenzione di ucciderti, Bu. – gli ricordò, costringendolo perfino ad un mezzo sorriso divertito nonostante il dolore e la stanchezza, - Penso che ti crederei anche se mi dicessi di essere un dio sceso sulla terra per distruggere il mondo impuro o chessò io.
- No, indubbiamente io non sono niente del genere. – ridacchiò Anis, accomodandosi contro lo schienale del sedile, - Fler, però… o almeno, la cosa che è diventato, lui riusciva a governare l’acqua. La— non lo so, la raccoglieva attorno alle sue mani come un campo di forza e poi me la sparava addosso, cazzo, manco fossimo stati in un fottuto videogioco. Merda.
- Se fosse stato un videogioco, - sorrise Peter, rassicurandolo con una pacca sulla spalla, - te la saresti cavata sicuramente meglio.
- Questo è poco ma sicuro. – rise piano Anis, stendendo il capo all’indietro e sospirando pesantemente, lo sguardo fisso sul cielo scuro della sera oltre il parabrezza. – Solo che adesso… voglio dire, se Fler vuole uccidermi, prima o poi mi troverà. E devo pensare a Bill, intendo— non posso mica fuggire per sempre o espatriare e mollarlo qui senza una parola… e poi come? Dovrei fingermi morto per costringerlo a non seguirmi pure in capo al mondo. – sospirò ancora, piegandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia. – Chaku, onestamente: non so che fare.
Peter annuì, mordicchiandosi un labbro con aria incerta e nervosa per qualche secondo, prima di decidersi finalmente a parlare.
- Senti… liberissimo di prendermi per pazzo, - disse alla fine, - ma mia madre, sai, quando ero più piccolo, mi raccontava spesso di uomini che mettevano su le squame e governavano gli elementi. – si interruppe quando vide lo sguardo di Anis alzarsi su di lui, vuoto e vagamente terrorizzato, - Sì, lo so. – sospirò quindi riprendendo, - Mia madre è abbastanza fuori di zucca, dove per “fuori di zucca” intendo completamente matta, ma almeno è una che sa come ascoltarti senza far sembrare pazzo te, quindi… - sospirò ancora, scrollando le spalle, - se vuoi si passa da casa sua e le si fa una visitina. – propose, - Tanto è insonne. – Anis continuò a guardarlo fisso come un pesce appena caduto fuori dalla boccia, e Peter si strinse nelle spalle. – Era solo un’idea, comunque.
- Ma perché tua madre dovrebbe saperne qualcosa, di tutto questo?! – sbottò Anis, allargando le braccia in un gesto incredulo, per quanto lo spazio ristretto dell’abitacolo dell’automobile potesse permettergli.
- Non lo so! – rispose lui, - Potrebbero essere solo storie per bambini, ma se fosse qualcos’altro? Insomma, quello che abbiamo visto lo sappiamo entrambi, non mi sembra il caso di ostinarsi a ripetersi “è troppo assurdo, non può stare accadendo sul serio”. Non abbiamo alternative, ti pare?
Anis rifletté qualche secondo, lo sguardo basso e le sopracciglia corrugate.
- Non abbiamo alternative. – annuì quindi, tornando a sedersi compostamente sul sedile. – Parti.
*
- Stavo pensando… - disse Anis, scrutando curiosamente la palazzina di fronte alla quale si trovavano mentre Peter armeggiava con le proprie chiavi per aprire il portone, - io non ho mai conosciuto tua madre.
- E non ti sei nemmeno mai visto apparire davanti un mostro degli abissi pronto ad annegarti. – commentò lui, aprendo il portone e facendogli strada all’interno dell’atrio, - E se è per questo a me non era mai capitato di uscire per comprare un paio di birre, finire improvvisamente in una tempesta spuntata fuori da chissà dove e poi salvare la vita di un collega. Perciò direi che è una giornata di grandi prime esperienze per entrambi.
Anis rise ancora, stavolta più apertamente, appoggiandosi a lui mentre salivano le scale per raggiungere il primo piano, dove la signora Silvia abitava col marito, nonché padre di Peter.
- Ehi, Atze. – disse Anis a bassa voce, quando furono di fronte alla porta dell’appartamento, - Grazie. Non so cosa avrei fatto, se non mi avessi tirato via da quell’inferno.
Peter scrollò le spalle, aprendo anche quella porta ed invitandolo all’interno.
- Ringraziami quando saremo riusciti a dare un senso a questa follia. – rispose, prima di voltarsi verso il corridoio e chiamare sua madre a gran voce.
Invece della donna, comunque, fu suo padre a presentarsi.
- Peter, - lo salutò con un cenno del capo, - e… uomo sconosciuto. Buonasera.
- Perdoni l’intrusione. – sorrise Anis, - Non era mia intenzione gocciolare inaspettatamente sul vostro zerbino.
- Non è la prima né l’ultima cosa assurda che capita in questa casa. – rispose l’uomo, volgendo teatralmente gli occhi al cielo. – Peter, - ripeté quindi, tornando a rivolgersi al figlio, - tua madre è estremamente preoccupata per qualcosa di cui si ostina a non volermi parlare. Sta chiusa nel suo studiolo da ore e non mi riesce di tirarla fuori. Stavo per chiamarti. Vedi di fare qualcosa perché io ho esaurito le idee. – sospirò.
- È una delle solite lagne? – chiese Peter con una mezza smorfia. Suo padre sospirò ancora.
- Sì, forse. Non lo so. Non abbiamo esattamente avuto occasione di parlare. – confessò, prima di voltarsi a guardare Anis. – Mi spiace che debba assistere a questa scena, ma mia moglie ogni tanto tende a perdere il controllo. Non è pericolosa, comunque. – concluse con un sorriso, - È solo un po’ strana.
Anis sorrise rassicurante, cercando di reggersi in piedi da solo e appoggiandosi alla parete con fatica.
- Non si preoccupi, signor Pangerl. Quanto a stranezze, penso che nulla potrà più stupirmi.
Il signor Pangerl sorrise a propria volta e fece per ribattere, ma Peter lo fermò.
- Di mamma mi occupo io, papà. – disse, riprendendo a sostenere Anis e conducendolo lungo il corridoio verso lo studio privato di sua madre, - Tu torna pure di là.
- Niente male, come primo incontro con i tuoi. – ironizzò Anis, trascinando i piedi sulla moquette un po’ impolverata, - Ho una costola probabilmente incrinata e mi sento così stanco che potrei svenire, e tua madre è nel bel mezzo di una crisi di nervi.
- Ne sta avendo parecchie, ultimamente. – borbottò Peter, sollevando una mano per bussare alla porta, - Stanno succedendo tante di quelle cose, nel mondo… - considerò pensieroso, - Dio, solo adesso che ho visto quello che ho visto riesco a pensare che il tutto potrebbe non essere casuale.
La porta della stanza si spalancò davanti a lui prima che le sue nocche potessero toccarne il legno laccato bianco, e Peter fece un passo indietro, trascinandosi dietro Anis in un mugolio di dolore e di sforzo, per evitare di essere preso in piena faccia. Sua madre, ferma oltre la soglia, aveva gli occhi spalancati, una vestaglia coloratissima allacciata mollemente in vita sopra una sottoveste di raso color panna e i capelli tutti scarmigliati sulla testa, tenuti su da un fermaglio e spioventi in riccioli rossicci, striati qua e là di bianco e grigio, lungo le sue guance e il suo collo pallido, ricoperti di lentiggini.
- Peter! – gridò, afferrandolo stretto per un braccio e trascinando all’interno sia lui che Anis, prima di chiudere la porta, - Oh, per i Divini, dimmi che le mie preghiere hanno sortito l’effetto desiderato, dimmi che ti sei trovato al posto giusto e nel momento giusto e hai impedito la catastrofe!
- Mamma! – strillò a propria volta Peter, aiutando Anis ad abbandonarsi sulla prima poltrona libera disponibile, a fronte delle altre due ricoperte di pergamene e libri vari così come la scrivania e il tavolino basso poco distanti, - Che diamine ti prende?!
- Ho visto… - balbettò lei, perdendo una mano fra i capelli e dirigendosi spedita verso la scrivania, - Ho visto l’acqua e ho visto la morte e ho visto te, Peter, tu dovevi essere lì per impedirlo. Era importante che tu lo facessi. Ti prego, - aggiunse in un mugolio stremato, consultando incartamenti che Peter non aveva mai visto prima, - ti prego, dimmi che l’hai fatto.
Peter ed Anis si lanciarono un breve sguardo d’intesa, in seguito al quale l’austriaco raggiunse la propria madre e la strinse affettuosamente per le spalle, massaggiando piano i suoi muscoli tesi ed invitandola a sedersi prima di farlo a propria volta.
- Mamma, questo è Bushido, è uno con cui lavoro. Devo avertene parlato, qualche volta. E sì, - aggiunse annuendo, - gli è successo qualcosa di terribile, ma io ero lì e sono riuscito a tirarlo fuori prima che si facesse ammazzare.
- Ehi. – borbottò Anis, ma Peter lo fermò inarcando un sopracciglio.
- Non mi pare il momento di stare a difendere il tuo onore di guerriero, Bu. – gli ricordò, costringendolo a guardare altrove mugugnando offeso ma senza insistere nella sua protesta. – Mamma, cosa sta succedendo qui?
La signora Silvia si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore, prima di inspirare profondamente e poi alzarsi in piedi, raggiungendo la libreria a muro e tirando fuori un libro dal caos che regnava sugli scaffali.
Si sedette ancora e poggiò il libro sulla scrivania, rivolto verso Anis e Peter, ma tenne entrambe le mani sulla copertina di modo che nessuno dei due potesse aprirlo o sbirciarne il titolo.
- Tutto ciò che sapete, o credete di sapere, - disse quindi con tono grave, - è una menzogna. Io posso raccontarvi cosa è successo, costa sta succedendo e cosa succederà, ma le vostre menti devono essere sgombre e pronte ad accettare ciò che vi dirò. In caso contrario, - sospirò, stringendosi nelle spalle, - non faremmo che perdere inutilmente tempo. E non possiamo permettercelo.
- Signora Pangerl, - disse Anis in un lamento sofferente, - mi creda, la mia mente non è mai stata più aperta di così.
La signora sorrise, scrutandolo serenamente con gli occhi verdissimi e brillanti.
- Lo so. – annuì, - Riesco a vederlo. – sospirò pesantemente, prima di allontanare le mani dalla copertina del libro ed aprirlo. – L’ecosistema di questo pianeta, - cominciò a raccontare, mentre sotto gli occhi di Peter ed Anis sfilavano immagini molto simili a quelle di un libro per bambini, - vive in perfetto equilibrio. Se anche a volte può sembrare che qualche parte di esso viva in condizioni di particolare disagio, questo è possibile solo perché queste situazioni sono bilanciate da altre situazioni vissute in condizioni di gran lunga migliori. Questo è il karma, è la legge che regola tutto, su questo mondo. Il karma è e deve essere sempre bilanciato, dei reali squilibri porterebbero al collasso del sistema come lo conosciamo. E potete chiamarla come volete, - scrollò le spalle, - fine del mondo, apocalisse, armageddon… non importa il nome che le date, non cambia la sostanza di ciò che è.
- Questo libro… - chiese Peter con un filo di voce, lasciando scorrere le dita su una pagina ingiallita e rovinata dal tempo, - che cos’è?
- Avrebbe dovuto essere il tuo primo regalo. – rispose sua madre, sorridendo tristemente. – È il libro che ogni famiglia appartenente all’Ordine utilizza per istruire i propri bambini. Tutti gli adepti ne hanno uno, e lo tramandano di generazione in generazione. Io non ho potuto tramandarti il mio. – aggiunse, la voce appena incrinata, - Ma avrei tanto voluto, tesoro. Davvero.
- Un attimo, un attimo. – s’intromise Anis, avvicinandosi a propria volta al libro per guardarlo più attentamente, - Di cosa diamine stiamo parlando? Ordine, adepti, karma? Che cosa è successo a Dio, alla Bibbia ed alla Santa Chiesa?
- Fumo negli occhi. – rispose lei, quasi offesa personalmente nel sentirsi accostata a cose simili, - Distoglie l’attenzione da ciò che è davvero importante. Il karma provvede da sé anche a dissimulare la propria presenza a chi non è preposto a comprenderla e vegliarne la serenità. Non è necessario che sette miliardi di persone sappiano. È sufficiente che sappia chi di dovere. – concluse seria, prima di voltare pagina e mostrare loro un simbolo che conoscevano entrambi.
- Yin e Yang. – mormorò Peter, - È di questo che stiamo parlando? Buddhismo o che so io?
- Peter! Ma quanta ignoranza! – sbottò sua madre, tirandogli uno scappellotto sulla nuca, - Quello dello Yin e dello Yang non è un concetto appartenente alla filosofia indiana, bensì a quella cinese. E spiega solo il cosa, ma non il come. O il perché.
- E invece è esattamente quello che noi vogliamo sapere. – disse Anis, picchiettando due dita contro il simbolo, - Il come e il perché. E se si può fermare, ovviamente.
- Fermare! – la signora Silvia rise di gusto, spalancando gli occhi, - Tu non sai di cosa parli, ragazzo. Si tratta di cose ben più grandi di te o di me, qui stiamo parlando di divinità.
- Divinità…? – disse Peter, - Quindi è questo quello in cui si è trasformato Fler prima? Una divinità? Con le scaglie, la coda e tutto?
- Le scaglie? – chiese la signora Silvia, stupita, - No, i Prescelti non— ragazzi, piano, la cosa è abbastanza complessa già senza scavalcare le spiegazioni di base. – borbottò massaggiandosi le tempie, - È più probabile che abbiate visto un dragone, ma ve ne parlerò a tempo debito. – inspirò ancora, prima di voltare pagina e mostrare loro l’immagine di due uomini praticamente stilizzati, uno abbigliato in nero ed uno abbigliato in bianco, stretti in un abbraccio e circondati di luce. – L’equilibrio del karma su questo pianeta è garantito dalla presenza di due esseri, detti “i Divini”, capaci di catalizzare in vita un carico di sentimenti nella gente abbastanza grande da permettere al karma di alimentarsi traendone la propria energia. È un’energia che giocoforza va esaurendosi, con gli anni, ed è per questo che ogni due secoli due bambini perfettamente uguali e perfettamente differenti, complementari in tutto, nascono e vengono protetti fino al giorno in cui sono pronti ad unirsi e prendere il posto dei vecchi Divini ormai caduti e privi di energia. È anche per questo che i Prescelti sono spesso esposti all’amore, all’odio, all’invidia, alla tenerezza, all’affetto, alla curiosità ed alla rabbia di tutti gli esseri umani. Quanti più sentimenti riusciranno a catalizzare, tanto più il loro regno sarà sereno.
- E questo cosa diamine c’entra con Bushido?! – sbottò Peter, grattandosi confusamente la testa, - Non mi pare che lui—
- Bill. – lo interruppe Anis, lo sguardo perso sulla figura abbigliata in nero, - Bill e Tom. È questo, quello che sta cercando di dirmi. Bill e Tom— sono loro. I Prescelti.
La donna sorrise tristemente, annuendo piano.
- Tu hai introdotto un elemento di disturbo non comune, innamorandoti di Bill e lasciando che lui s’innamorasse di te, ragazzo. I vostri sentimenti hanno approfittato di una falla nell’equilibrio karmico, probabilmente dovuta alla perdita di energia dei vecchi Divini ormai quasi senza forze, e sono germogliati. Ed ora è come quelle piccole piantine che s’insinuano nelle crepe del muro e poi crescono, crescono, crescono, fino a sgretolare interi edifici.
- Bill e Tom sono destinati ad unirsi. – mormorò Anis, ancora incredulo, - E io lo sto impedendo. Sto distruggendo il mondo…?
- Mamma, ma dico io, - sbottò Peter, allargando le braccia ai lati del corpo, - tu sapevi tutto questo e non ne hai fatto parola con nessuno? Hai semplicemente aspettato che accadesse?!
- Io ho pregato, Peter. – ribatté sua madre, piccata, - Ho pregato incessantemente e questo è stato tutto ciò che ho potuto fare. Non potevo aprire bocca sulla questione, io… ormai da molto tempo, non faccio più parte dell’Ordine. Da ben prima che nascessi tu. – aggiunse, gli occhi bassi sul libro ma persi oltre, nel vuoto.
- Perché? – chiese Anis, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo serio, - Cos’è successo?
- L’Ordine è composto da adepti di vario rango e con varie funzioni specifiche. – spiegò la donna, - Io ero e sono un’indovina. Ben prima che i gemelli nascessero, ebbi la visione di un essere di natura divina, generato dal karma stesso, che avrebbe finito per frapporsi fra i gemelli, distruggendo le loro possibilità di unirsi, e cominciai a pensare che ci fosse qualcosa che non andava. Il karma stava cercando di… non saprei dire. – sospirò, - Si tratta di visioni antiche e confuse, ma sembrava proprio che il karma fosse intenzionato a porre fine alla questione dei Divini per come la conoscevamo. Cosa che avrebbe portato inevitabilmente alla fine del mondo.
- …un essere di natura divina. – mormorò Peter, voltandosi repentinamente a guardare Anis, - Bu…!
- Fler. – concluse l’uomo per lui.
- Un dragone. – precisò la signora Silvia, annuendo. – Sì, è… è probabile che la mia visione fosse riferita a lui. C’è qualcosa che questo individuo potrebbe fare per impedire l’unione dei gemelli? Qualcosa che potrebbe allontanarli?
- Fler mi odia. – spiegò celermente Anis, cercando di alzarsi in piedi il più velocemente possibile, - Vuole vendetta nei miei confronti, anche se il suo odio si è inspiegabilmente amplificato, in questo periodo.
- È la caduta dei precedenti Divini. – annuì la signora Silvia, scattando in piedi ed aiutando il proprio figlio a sorreggere l’altro uomo, - Sconvolge il mondo ed amplifica i sentimenti per favorire i Prescelti nella loro opera di catalizzazione. Quest’uomo potrebbe…?
- Potrebbe voler uccidere Bill per vendetta. – ipotizzò Peter, mordendosi nervosamente l’interno di una guancia, - E niente più Bill, niente più unione dei Prescelti, niente più Divini.
- E niente più mondo. – considerò Anis a bassa voce. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di parlare ancora. – Dobbiamo andare.
Peter annuì, lasciando per un attimo Anis alle braccia di sua madre per correre ad aprire la porta. La donna li accompagnò fino all’ingresso, e li abbracciò entrambi con affetto sincero, prima di lasciarli andare.
- Ragazzo, - disse la signora Silvia, poggiandogli una mano su un braccio quando lui era già per metà fuori dalla porta, - tu potresti essere la chiave. – mormorò, guardandolo negli occhi con aria distratta e persa ma, inspiegabilmente, perfino troppo attenta, - Anche se non riesco ancora a comprendere per quale serratura.
L’uomo aggrottò le sopracciglia, senza capire.
- Bu, dobbiamo muoverci. – disse Peter, scrutando la notte fuori dalla finestra in corridoio, - Sta ricominciando a piovere.
Anis annuì, salutando la signora Silvia un’ultima volta, prima di affidarsi nuovamente alla presa ferrea di Peter e lasciarsi condurre in macchina.
*
Patrick riprese conoscenza dopo un tempo che non riuscì a definire da sé. Non pioveva, ma sentiva la propria pelle bagnarsi continuamente come se invece stesse piovendo ancora, e quando aprì gli occhi e si ritrovò disteso sul marciapiede quella fu la cosa che lo colpì di più.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno con aria confusa. La strada era irriconoscibile, sommersa in alcuni punti da pozzanghere profonde anche venti centimetri, ed immersa nel più perfetto silenzio. Si domandò se fosse il caso di chiamare qualcuno, ma capì da sé che nessuno avrebbe creduto a ciò che aveva da dire, e soprattutto ricordava tutto ancora troppo chiaramente per non sentirsene turbato, perfino spaventato, anche se sapeva di essere stato lui a farlo: mentre fronteggiava Bushido, del tutto all’improvviso, la rabbia che provava era cresciuta esponenzialmente fino ad invaderlo tutto, come acqua, e come acqua poi era tracimata, e lui aveva perso il controllo.
Non aveva mai smesso di sentire né di vedere, però. E quella era la cosa più allucinante. Quella, e le scaglie che gli coprivano le braccia e, a giudicare dalla sensazione ruvida che provava accarezzandosi viso e collo, anche tutto il resto del corpo, presumibilmente.
Almeno, si disse, in un tentativo di fare dell’ironia su una situazione che probabilmente avrebbe dovuto essere presa molto più seriamente, la coda era scomparsa. Ed aveva smesso di fluttuare a mezz’aria. Le due cose rappresentavano un indubbio passo avanti nella sua situazione, anche se tutti i passi avanti sembravano quasi annullarsi se pensava a quanto gli faceva male la testa, ed anche a quanto gli faceva male il fianco nel punto che aveva sbattuto svenendo. Si era accorto anche di quello, era stato come se la sua coscienza si fosse scissa dal suo corpo abbastanza a lungo da vederlo andare in berserk, attaccare Bushido spostando l’acqua con – non poteva quasi pensarci senza sentire il bisogno irrefrenabile di scoppiare a ridere – con la forza del pensiero e poi perdere immediatamente tutte le forze nel momento esatto in cui Bushido era scomparso dalla sua vista. Aveva sentito tutte le sue membra afflosciarsi e sgonfiarsi. Volteggiava a mezzo metro dal suolo ed era caduto scoprendo che la coda non era un punto d’appoggio abbastanza stabile da impedirgli di afflosciarsi a terra, e perciò era scivolato su un fianco, urtandolo contro il marciapiedi e perdendo i sensi subito dopo.
Era ancora inquietato da quanto tutto gli fosse sembrato semplicemente giusto, mentre stava avendo luogo. Attaccare Bushido con quella foga, nel chiaro intento di ucciderlo, volendolo fare… ne aveva fatte tante, nella sua vita, ma non era mai arrivato neanche lontanamente vicino al pensiero di voler uccidere un uomo. La sensazione di potenza che aveva percepito quando, in qualche modo, lo scricchiolio delle ossa di Bushido s’era dipanato attraverso le masse d’acqua che stava governando, giungendo a scuoterlo in un brivido sottopelle, l’aveva stordito, tanto quanto adesso lo stordiva il senso di colpa e quello, più ampio, di generale confusione.
Vagò per le strade senza una meta precisa per almeno mezz’ora, sentendosi completamente svuotato e privo di scopo. Estraneo all’interno della propria stessa pelle, non riusciva a percepire da nessuna parte la presenza di Bushido, e questo per qualche strano motivo lo portava a non sentire nient’altro. Le strade, il cielo, le rare persone che ogni tanto incontrava e che, nel vederlo, scappavano via terrorizzate, era tutto come se lo stesse guardando attraverso un velo d’acqua, una piccola cascata nascente da qualche parte al di sopra della sua testa e che gli oscurava la visuale. Vedeva quasi solo ombre acquerellate, e non riusciva a trovare un senso in niente di ciò che gli era capitato e gli stava ancora capitando.
La situazione non si fece più chiara quando, svoltando in una stradina secondaria nel tentativo di sfuggire alla folla ed evitare almeno di scatenare il panico nella popolazione, trovò un gruppo di militari quasi ad attenderlo.
- Cazzo, - disse uno di loro, - gli indovini avevano ragione! È qui, è qui! Chiamate la squadra di rinforzo!
Un fronte compatto di cinque o sei soldati si fece avanti immediatamente, mentre un altro recuperava la propria ricetrasmittente e comunicava col commando dislocato in un’altra zona della città. Patrick seguì il proprio istinto e si mosse all’indietro di qualche passo, sulla difensiva, gli occhi ben piantati su ognuno dei militari. Improvvisamente, i suoi sensi parvero acuirsi tutti assieme, guidati forse dalla paura, forse dall’istinto di conservazione. Riusciva a sentire tutto, a vedere tutto. Da qualche parte, in lontananza, riusciva perfino a sentire la presenza di Bushido. Di nuovo.
- Cosa volete da me? – chiese ai militari in un ringhio discreto ma abbastanza forte da poter essere sentito da ognuno di loro.
- Ma ti sei visto? – rispose lo stesso che aveva preso il comando delle operazioni quando l’avevano trovato, - Non opporre resistenza, dragone. Sei in arresto.
- Voi non potete arrestarmi! – protestò, stringendo i pugni lungo i fianchi. Cominciava a sentire la sensazione umida dell’acqua che si addensava attorno ai suoi pugni chiusi, prima come semplici goccioline, simili a brina, poi come gocce sempre più compatte. Era la stessa sensazione che aveva provato poco prima di perdere il controllo combattendo contro Bushido. Vedeva già chiaramente come sarebbe andata a finire, e si sentiva stranamente pieno di fiducia sull’esito di quella battaglia.
Era esausto, provato, il mal di testa era tale da dargli la nausea, ma nondimeno era certo che non sarebbe morto. Non lì, non in quel momento.
- Possiamo e dobbiamo. – disse il tizio, prima di sollevare una mano. – Prendetelo! – ordinò in un gesto perentorio.
Il commando si mosse verso di lui a mitra spianati, e Patrick si librò in aria il secondo successivo.
- Voi non potete arrestarmi. – ripeté con maggior calma. L’acqua era lì, lo proteggeva. E si preparava all’attacco, compatta. – Voi non potete nemmeno fermarmi. – concluse con un ghigno.
- Pronti! – disse il tizio, mentre gli uomini del commando si fermavano all’improvviso, - Mirare… - ordinò, e quelli presero posizione, - Fuoco!
Tutti i loro proiettili si infransero uno dopo l’altro contro il muro d’acqua che Patrick innalzò davanti a sé. E non riuscirono nemmeno a capire cosa accadde quando, senza che il muro dovesse dissolversi né aprirsi, due colonne d’acqua ne fuoriuscirono, dirette verso di loro a velocità disumana.
Quando Patrick toccò per terra e, stavolta, la sua coda tornò ad essere semplicemente un paio di gambe ben prima che lui potesse cadere ancora, capì due cose. Primo, stava imparando a controllare meglio i suoi poteri. Secondo, c’era chi, per quegli stessi poteri, lo voleva morto.
Mentre i membri del commando cercavano di riprendere coscienza di se stessi e tossicchiavano nel rigirarsi abbastanza da riprendere fiato – e alcuni di loro restavano immobili per terra: dovevano essere morti – Patrick, incredibilmente freddo e del tutto disinteressato alla loro vicenda, sollevò appena il capo e chiuse gli occhi. Riusciva a sentire la presenza di Bushido con una chiarezza che quasi lo stordiva. Era come vederlo muoversi su una mappa invisibile, una mappa di cui lui conosceva ogni dettaglio e che riusciva perciò a seguire perfettamente.
Riaprì gli occhi e l’istinto gli disse che doveva raggiungerlo, dovunque fosse. Non riusciva a capire per quale motivo, ma era evidente che Bushido doveva avere a che fare con la sua condizione, o comunque saperne qualcosa. Doveva trovarlo, non aveva alternative.
Si librò in volo senza pensarci due volte.
*
Il posto non gli era familiare. La strada era bene illuminata, ampia e pulita. Il palazzo era grande, di molti piani, anche se non abbastanza da far pensare alla sede di qualcosa di losco, o ad una casa di produzione. Sembrava un normale condominio, di quelli abitati solo da famiglie semplici, babbo mamma figli forse qualche nonno, eppure era circondato da militari. Patrick aggrottò le sopracciglia contandoli celermente – dodici solo davanti, divisi fra appostati intorno alla cancellata ed impegnati in vaghi andirivieni lungo il vialone asfaltato centrale, ma poteva percepirne almeno un’altra ventina sul retro e sui fianchi del palazzo. In pratica, un piccolo esercito.
Si chiese cosa potesse esserci di tanto importante all’interno di quel palazzo da giustificare un tale dispiegamento di forze – da parte di chi, poi? – ma pochi secondi dopo la consapevolezza dell’estrema vicinanza di Bushido gli tolse ogni possibilità di ragionare lucidamente in termini che non fossero quelli di raggiungerlo e discutere con lui, dove poi sul significato di discutere il suo cervello non sembrava avere le idee molto chiare.
Sentì distintamente una macchina frenare e spegnersi da qualche parte nei dintorni, ma nessuno dei militari sembrò mettersi in allerta. L’autovettura doveva essere parecchio lontana, perché Bushido, accompagnato da Chakuza e con una mano sul fianco evidentemente ferito, apparve solo diversi minuti dopo.
Al solo vederlo, qualcosa si mosse nel suo petto. L’ondata di rabbia liquida potente come la piena di un fiume, che qualche ora prima l’aveva costretto a perdere il controllo di sé ed attaccare Bushido, stava montando dentro il suo corpo, crescendo come un’onda. Si sarebbe infranta di lì a poco, travolgendo tutto. Patrick chiuse gli occhi e strinse con forza i pugni lungo i fianchi, inspirando ed espirando ritmicamente, aspettando pazientemente di calmarsi. Doveva imparare a gestire quell’insopprimibile istinto, doveva tenerlo a bada, almeno fino a quando gli sarebbe servito tenere Bushido in vita, per capire per quale motivo il suo corpo si ostinasse ad indicarglielo come la persona alla quale avrebbe dovuto chiedere per spiegare quell’incredibile cambiamento. Poi, sarebbe successo ciò che sarebbe successo. A lui, al momento, non importava.
Lasciò che Bushido e Chakuza avanzassero di qualche metro, ma prima che i militari potessero accorgersi della loro presenza si frappose fra loro, sfidando Bushido ad avanzare con lo sguardo. Lui gli si fermò proprio di fronte, e lo guardò per qualche secondo con gli occhi spalancati, quasi boccheggiando, come non potesse davvero credere di trovarselo davanti, o come se vederlo proprio lì e proprio in quel momento gli facesse incredibilmente male. Patrick inarcò un sopracciglio, incuriosito da quell’espressione della quale non riusciva a comprendere la ragione, ma quando fece per schiudere le labbra e parlare, Bushido lo anticipò.
- Speravo di sbagliarmi, ma a quanto pare avevo ragione. – disse in un ringhio basso e profondo, quasi disumano. Patrick lo guardò come se la voce stesse traspirando dalla sua stessa pelle, come fosse ovunque. Riusciva a sentirla scuoterlo fin nelle viscere, come il suono dei bassi a palla durante un concerto. – Tu non lo toccherai, Fler. – lo minacciò, e quando sollevò lo sguardo Patrick vide che i suoi occhi brillavano.
Indietreggiò di qualche passo.
- Io non—
- Tu non toccherai Bill neanche con un dito. – ribadì Bushido, la voce ormai più simile al rombo di un tuono che al suono di una voce umana. Chakuza, accanto a lui, si allontanò di qualche centimetro.
- Bu…? – lo chiamò piano, e Patrick capì. O meglio, seppe, pur senza capire, che a Bushido stava per succedere la stessa cosa che era capitata a lui. E questo, quantomeno, spiegava per quale motivo lui riuscisse a percepirlo così distintamente, e per quale motivo continuasse a gravitargli intorno.
- Chakuza. – lo chiamò, cercando di suonare rassicurante sia per lui che per se stesso, dal momento che la furia di Bushido gli si stava riversando dentro come una cascata, - Allontanati più in fretta che puoi.
- Cosa? – disse quello, lanciandogli un’occhiata per metà incredula e per metà astiosa, - Col cazzo, no!
- Sta perdendo il controllo! – gridò, indicando Bushido, - Non lo vedi?!
Chakuza si voltò a guardarlo molto lentamente, e quando gli ebbe posato gli occhi addosso impallidì: la sua pelle era diventata notevolmente più scura, assumendo una sfumatura rossastra che era la stessa del nuovo colore dei suoi occhi completamente vuoti. Tutta la superficie del suo corpo sembrava essersi fatta più dura, coriacea, e quando all’improvviso si piegò in avanti e cominciò quasi a gemere di dolore e rabbia Fler spalancò gli occhi e indietreggiò.
- Scappa! – gridò, rivolgendosi a Chakuza, - Scappa adesso, idiota!
L’austriaco riuscì ad allontanarsi appena in tempo, giusto un attimo prima che Bushido esplodesse in un grido devastante, mentre due ali gli perforavano la pelle sulle scapole e svettavano dietro la sua schiena, enormi, spalancate e bellissime. Tutto il suo corpo sembrava ardere.
- Tu non lo toccherai, Fler, tu non riuscirai nemmeno ad avvicinarti a lui! – gridò Bushido, sbattendo le ali ed alzandosi in volo mentre i militari, ormai accortisi di ciò che stava accadendo, li circondavano, armi spianate e pronte a far fuoco in attesa degli ordini.
- Non sono venuto qui per il tuo fidanzato del cazzo, Bushido! – rispose lui, affrettandosi a librarsi a propria volta in volo mentre sentiva le proprie gambe fondersi e scomparire per lasciar spazio alla coda.
Bushido non lo ascoltò – non poteva più: sollevò le braccia verso il cielo e Fler riuscì a malapena a tirar su uno scudo d’acqua abbastanza spesso, prima che due enormi sfere di fuoco si scagliassero contro di lui, partendo dalle sue mani.
- Bushido! – lo chiamò ancora, rendendosi conto di quanto più facile stesse diventando mantenere il controllo sulla propria rabbia, man mano che si abituava a trasformarsi, - Bushido, cazzo, torna in te!
Intorno a loro, i militari si agitavano: una delle due sfere di fuoco era stata inglobata dal suo scudo e si era dissolta, ma l’altra ne era stata solo deviata, ed era andata a schiantarsi contro il marciapiede a pochi passi da loro. I ranghi si erano quasi sciolti, e con la furia di Bushido che cresceva di minuto in minuto, come l’enorme sfera di fuoco crepitante che stava prendendo forma sopra la sua testa, nessuno sapeva più cosa provare a fare.
- Bushido, non sono venuto qui per Bill! – gli spiegò Patrick, creando a propria volta una sfera d’acqua, per avere qualcosa con cui contrastarlo nell’eventualità che Bushido avesse dovuto decidere di scagliare la propria, - Sono venuto qui per te! È stato il mio istinto a indicarmi dov’eri, o— dove saresti andato, insomma, sono arrivato prima solo perché ero più vicino! Devi credermi, io— io e te dobbiamo parlare, solo questo!
Bushido ruggì – molto probabilmente non aveva sentito una sola parola, del suo discorso – e sembrò sul punto di tirargli addosso la sfera quando, improvvisamente, si fermò, sollevando lo sguardo verso il cielo.
- …Anis. – disse la voce flebilissima di Bill, affacciato alla finestra svariati piani più in alto, - Anis!
Gli occhi di Bushido tornarono immediatamente a vedere, mentre la sua espressione tornava finalmente umana e la palla di fuoco svaniva in un enorme sbuffo di fumo.
- Bill! – gridò l’uomo, lanciandosi in volo alla volta della sua finestra.
- Anis! Anis! – continuò a strillare il ragazzo, spalancando e tendendo le braccia e sporgendosi dalla finestra il più possibile mentre qualcuno cercava blandamente di tenerlo ancorato all’interno dell’appartamento, più per impedirgli di cadere che per trattenerlo davvero.
Bushido passò davanti alla finestra così velocemente che, per un secondo, sembrò che Bill fosse stato sbalzato all’interno dell’appartamento per lo spostamento d’aria, ma quando l’uomo terminò il proprio volo e ridiscese lentamente, voltandosi verso Patrick e rimanendo a fluttuare a mezz’aria – le ali sbattevano lente dietro di lui, le ferite ancora fresche sanguinavano lungo la sua schiena, imbrattando la maglietta strappata in più punti – poté vedere che il ragazzino era stretto ben saldo fra le sue braccia, e lo guardava con aria allucinata.
- È tutto a posto, adesso. – sussurrò Bushido, mentre Patrick li osservava chiedendosi cosa diamine potesse aver spinto Bushido ad infuriarsi tanto al pensiero che lui volesse raggiungerlo, - Ci sono qua io, nessuno potrà farti del male.
- Non mi facevano uscire, Anis! – cominciò il ragazzo, apparentemente dimentico di stare fluttuando a mezz’aria fra le braccia di un uomo alato e rosso come il fuoco, - Ho provato a chiamarti, ma tu non rispondevi, e soprattutto hai le ali! Hai le ali e non me l’hai mai detto! – si fermò qualche secondo, guardandolo come se stesse comprendendo la gravità di ciò che aveva davanti agli occhi solo dopo averlo descritto a parole, - Ma cosa cazzo sei?
Bushido rise a bassa voce, strofinando il naso contro quello di Bill, che per tutta risposta arricciò il proprio come gliel’avessero solleticato con una piuma, e poi sporse le labbra per un bacio piccolo e asciutto, più una rassicurazione, un mero bisogno di contatto, che un gesto sensuale. Fler sorrise a propria volta: il calore che si divampava da Bushido aveva assunto sfumature di tepore completamente diverse da prima, e lui si stava sentendo sciogliere come un chicco di grandine in mano a un bambino.
- Fler! – lo chiamò quindi, voltandosi a guardarlo, - Anche se prima poteva non sembrare… ti ho sentito. Solo che non ti stavo ascoltando. – Patrick annuì, perché capiva esattamente cosa Bushido stesse cercando di esprimere. La sensazione di sentirsi ancora a contatto col mondo, in qualche modo, ma di non esserne più parte integrante. – Mi sembra di capire che stai cercando delle risposte. E io so chi può dartele. – abbassò lentamente lo sguardo, piantandolo sulla piccola pozza di sangue che si stava addensando sulla strada, proprio sotto di lui. – Chi può darle a noi tutti. – tornò a guardarlo con decisione. – Prendi Chaku e seguimi. Oppure resta qui e fatti ammazzare da quest’esercito di Big Jim incompetenti. – concluse con stizza, prendendo il volo in una direzione che Patrick non riusciva a ricondurre a nulla di conosciuto.
Si voltò lentamente, posando lo sguardo sui militari che, impauriti, cercavano di mantenere salda la linea e puntargli addosso i mitra. Individuò Chakuza su un marciapiede poco distante, troppo turbato perfino per nascondersi, e sospirando pesantemente distrasse i militari con una scarica d’acqua repentina e violenta, per quanto non mortale, approfittando della loro confusione per recuperarlo e, tenendolo stretto per la vita fra le sue proteste improvvisamente animatissime, sollevarsi in volo al seguito di Bushido.
*
La prima cosa che la signora Silvia fece, quando si vide spuntare davanti agli occhi l’intera comitiva, fu cadere in ginocchio di fronte a Bill ed abbracciarne le gambe, piangendo sommessamente.
- Non posso credere che questo stia succedendo davvero. – mormorò in un fiume di singhiozzi mentre Bill, imbarazzatissimo, si agitava come un’anguilla strillando che non c’era proprio alcun bisogno di prostrarsi di fronte a nessuno, - Ho pregato così tanto perché le cose potessero andare per il verso giusto, e forse…
- Mamma. – la interruppe Peter, sorridendo come a scusarsi ed aiutandola a staccarsi dalle gambe di Bill e rimettersi insieme, - Lascia perdere questi convenevoli. Sono successe delle cose.
- Lo so. – sorrise lei, abbracciandolo teneramente e poi invitando tutti ad entrare in casa, prima di chiudere la porta. – Le ho viste. La fenice s’è destata, lei e il dragone si sono riequilibrati. – sorrise ancora, sempre più serena. – Vi devo ancora qualche spiegazione, ragazzi. A voi, e… - accarezzò lievissima il volto di Bill, che cercò di non ritrarsi, per quanto ancora incredibilmente imbarazzato, - a questo bellissimo fiore. Ma saprete tutto, e speriamo che questo possa esservi utile per riportare l’equilibrio nel karma e nel mondo.
La signora Silvia condusse nuovamente tutti nel proprio studiolo, ora molto più ordinato di quanto non fosse quando Peter ed Anis ne erano usciti qualche ora prima, ed invitò Bill ad accomodarsi su una sedia di fronte alla scrivania, una sedia che sembrava fosse stata approntata espressamente per lui, in attesa del suo arrivo.
- Avrei preferito incontrarti assieme a tuo fratello, - commentò la signora Silvia, vagamente delusa, - ma vedo che non è stato possibile, perciò è importante che adesso io ti spieghi chi sei nel modo più chiaro possibile. Così che poi tu possa spiegarlo anche a lui, e insieme possiate compiere ciò per cui siete stati destinati.
Anis distolse lo sguardo, le ali ripiegate dietro la schiena e ormai imbrattate di sangue quasi quanto la maglietta. Si chiese distrattamente se potesse andare da qualche parte per cercare di curarsi, ma la signora Silvia sollevò lo sguardo su di lui e gli sorrise, scuotendo lentamente il capo.
- Non smetterà di sanguinare. – gli rivelò, mentre Bill si voltava a guardarlo con evidente preoccupazione e si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore, - È lo scotto da pagare per avere quelle ali. C’è del divino, in te, intrappolato in un corpo umano. Un pegno va pagato, e il tuo è un pagamento di sangue.
Anis considerò la questione per qualche secondo, prima di limitarsi semplicemente ad annuire. Aveva bisogno di capire cosa fosse diventato – o fosse sempre stato – ma si rendeva conto di quanto prioritaria fosse la questione di Bill rispetto alla sua, perciò restò in piedi – unica posizione in cui poteva davvero sistemarsi senza soffrire le pene dell’inferno per le ali che sembravano piegarsi e schiacciarsi con una facilità tremendamente irritante – ed incrociò le braccia sul petto, restando in osservazione.
- Bill, - cominciò la donna, parlando con tono carezzevole, quasi materno, - Tu sei, per questo mondo, qualcosa di molto più importante di quanto tu non abbia mai immaginato. Tu e tuo fratello siete speciali, - raccontò sfogliando il libro che aveva precedentemente usato con Anis e Peter e mostrandogli le immagini fino a soffermarsi su quella rappresentante i due Divini stretti in un abbraccio eterno e luminoso, - siete due opposti identici e perfetti, come due metà di una stessa mela. Siete differenti, ma combaciate perfettamente. – lo guardò dritto negli occhi, - E c’è un motivo, per il quale siete nati così.
- Signora… - la interruppe Bill, torcendosi le mani in grembo e sospirando faticosamente, - Stanno succedendo un mucchio di cose strane. – disse, tornando a guardarla negli occhi, - A me, ma anche intorno a me. Ad Anis, alla città, al mondo… - sospirò ancora, quasi spaventato dalla portata di ciò che stava per dire. – Sta per accadere qualcosa di brutto, è così?
La signora sorrise ancora, allungandosi nuovamente ad accarezzargli il viso.
- Sì, Bill, sta per succedere qualcosa. – annuì, - E che sia una cosa bella o che sia una cosa brutta, tu ne sarai direttamente responsabile.
*
Bill ascoltò attentamente tutto il racconto, scrutando le figure dapprima con sincero sconcerto, poi con curiosità, quindi con consapevolezza sempre crescente di ciò che quella donna, quelle persone, tutti gli abitanti della terra, coscientemente o meno, si aspettavano da lui.
- Tomi non sa niente. – balbettò alla fine, sfiorando la copertina del libro con la punta delle dita, - Nemmeno io sapevo niente… perché non ce l’hanno mai raccontato?
- I Prescelti non vengono mai informati della loro missione prima di essere pronti a compierla. – scosse il capo la signora Silvia.
- Io non lo ero! – disse Bill ad alta voce, sollevandosi di scatto dalla sedia e lasciandola rotolare per terra dietro di sé senza degnarla di uno sguardo, - Io non lo sono.
- Lo sei, Bill. – sorrise la signora Silvia, senza scomporsi, - Niente avviene per caso, e se il ciclo del karma ti ha portato qui da me il motivo è che eri pronto per ascoltare questa storia. E farne parte.
- Io non faccio parte di niente! – strillò Bill, le braccia rigide lungo i fianchi, - Io sono un cantante, ho un fratello e un fidanzato e non intendo stare a sentire un’altra parola a riguardo! Dio! – sbottò, quasi in lacrime per il nervosismo, abbandonando la stanza. Anis fece per andargli dietro immediatamente, ma la signora Silvia lo frenò con un gesto, invitando sia lui che Fler ad accomodarsi sulle poltrone.
- Non abbandonerà l’appartamento, potete stare tranquilli. – disse con sicurezza, - Inoltre, ho ancora una questione da discutere con voi due, mi pare.
- Io penso che resterò in piedi. – sbottò Anis, appoggiandosi alla poltrona senza sedersi, - Queste stupide ali mi stanno dando il tormento.
- Queste stupide ali sono ciò che ti ha permesso di sfuggire vivo all’Ordine portando con te i tuoi cari. – gli ricordò la donna con un sorriso, - Il supplizio è il giusto prezzo da pagare per—
- Senta, signora Silvia, io la stimo, davvero, - la interruppe lui, gesticolando, - ma la vita mi ha insegnato solo che la storia del karma, a livello proprio concettuale, non è altro che una stronzata. Lei non ha idea di che cosa abbia passato io quando ero un ragazzino, e sinceramente questa roba delle ali mi sembra di averla già scontata pagando in anticipo in passato.
La signora Silvia si limitò a sorridere serenamente, stringendosi appena nelle spalle.
- Probabilmente, stavi pagando per qualcos’altro. – rispose enigmatica, prima di rivolgersi a Patrick. – Voi due non dovreste esistere. – rivelò quindi in un fiato, - Siete il risultato di una serie di errori per cui i Divini, la cui energia stava già cominciando ad affievolirsi, non hanno impedito ad anomalie che di solito bloccano sul nascere di prosperare ed avere una vita. Anis, ragazzo, tu sei quest’anomalia. – annuì, - Non era previsto che tu nascessi perché, in caso di tua nascita, non avresti potuto che allontanare Bill da suo fratello. L’essere divino delle mie visioni eri tu.
- Ed io? – chiese Patrick, impaziente, spostandosi sulla poltrona fino a sedersi in punta, - Io cosa sono, perché sono così?
La signora sorrise rassicurante anche a lui.
- Tu sei il modo in cui il karma ha cercato di riequilibrarsi. C’era un’anomalia in circolo, ed andava fermata. Ed ecco perché sei nato tu, il dragone marino, l’opposto karmico della fenice di fuoco e per natura più forte di lui. Come l’acqua spegne sempre il fuoco, tu eri e sei destinato a spegnere per sempre la fenice.
Patrick serrò le labbra, abbassando lo sguardo.
- Quindi lui deve uccidermi. – disse Anis, freddo come il ghiaccio e perfettamente padrone delle proprie emozioni, - Se tutto ciò che deve accadere, alla fine, accade… lui mi ucciderà. – constatò. La signora Silvia non rispose.
Al suo posto, lo fece Patrick.
- Non so te, Atze, - disse con un mezzo sorrisetto, - ma io non ci sto a farmi comandare a bacchetta da due divinità del cazzo che non sono buone nemmeno a vivere per sempre. Dovrebbero decidere della mia vita e di ciò che sarà di me? Di ciò che farò a chi ho intorno? Né ora, né mai.
La signora Silvia si lasciò sfuggire una risatina sorpresa, mentre Anis lo fissava come fosse improvvisamente impazzito.
- Fler, non so se hai afferrato, ma ne va della fine del mondo. – gli ricordò severamente.
- No, no! – lo fermò la signora Silvia, battendo entusiasticamente le mani davanti al viso, - Mi piace quest’atteggiamento! Ribelle! Costruttivo! Bisogna incoraggiare i giovani. – concluse annuendo e quasi saltellando sul posto.
- Incoraggiare i giovani? – sbottò Peter, appoggiato alla parete dietro di loro, - Non so te, mamma, ma io non voglio che il mondo venga spazzato via perché il sirenetto qui pensava fosse il caso di ribellarsi all’autorità costituita. Li ho passati da un pezzo i quindici anni.
- Peter! – lo rimbrottò sua madre con aria severa, - Qui stiamo parlando di esseri divini. Sanno esattamente ciò che fanno.
- No, non esattamente. – scosse il capo Patrick, guadagnando in cambio occhiate vagamente perplesse da parte sia di Anis che di Peter, - Ma in compenso so esattamente ciò che non farò, ed io non lascerò che quel ragazzino sia costretto a fare cose che non vuole fare con suo fratello, che cazzo. E non mi sporcherò le mani con il sangue del mio. – concluse, lanciando ad Anis un’occhiata colma di significato.
Anis sbuffò una risata parzialmente divertita e parzialmente preoccupata, ed annuì.
- D’accordo. – disse quindi.
- …d’accordo cosa? – interloquì Peter, staccandosi dal muro e guardandosi intorno con aria poco convinta, - Cosa mi sono perso?
- Signora Silvia, - proseguì Anis, ignorandolo platealmente, - ci serve un posto in cui andare. Un posto sicuro.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese lei.
- Non lo so ancora. – rispose Anis, pensoso, - In qualche modo, risolveremo questa situazione. Non lascerò che il mondo venga distrutto, ma stabiliremo noi come salvarlo. – concluse, sorridendo sereno.
La signora Silvia annuì comprensiva, incrociando le braccia sul petto e picchiettandosi il mento con un dito.
- È importante che lasciate Berlino immediatamente e troviate rifugio da qualcuno che conosca l’Ordine ma non ne faccia più parte. – considerò, - Qualcuno di cui possiate fidarvi e che tenga alla salvezza dei gemelli abbastanza da mettere a repentaglio perfino quella del mondo. – sorrise con maggior sicurezza, mentre disseppelliva un portatile da sotto una valanga di libroni polverosi, - Ed io ho esattamente la persona che fa al caso vostro.
*
Lo trovò arrotolato sulla poltrona in soggiorno, tutto stretto come un nodo di rabbia e paura e incertezza, proprio di fianco al divanetto sul quale il signor Pangerl stava semidisteso, il telecomando in una mano e una bottiglia di birra nell’altra. Anche Bill aveva entrambe le mani occupate – un biscotto in una ed un bicchiere di latte mezzo vuoto nell’altra, la confezione con i biscotti superstiti abbandonata fra le gambe incrociate – ed Anis sorrise appena nel vederlo così piccolo e furibondo, come l’adolescente che in effetti era. Come si poteva chiedere ad una creatura simile di reggere sulle proprie spalle il peso del destino del mondo? Non c’era abbastanza spazio su cui quel peso potesse posarsi. Le sue spalle erano troppo esili.
- Bill. – lo chiamò piano, lanciando un’occhiata distratta al cartone animato che sia lui che il signor Pangerl fingevano di guardare alla tv, - Devo parlarti.
Lui non si voltò, ed anzi dichiarò esplicitamente che non aveva alcuna voglia di ascoltarlo, incurvando le spalle e chiudendosi ancora più a riccio. Anis immaginò che, se avesse avuto degli aculei, li avrebbe puntati tutti verso l’esterno, sperando solo che lui si avvicinasse abbastanza da poterglieli conficcare nella carne. Probabilmente era per questo che, qualche anno prima, portava i capelli irti sopra la testa e tutto intorno: voleva sembrare pericoloso, velenoso, come certi animali dall’aspetto particolare creato apposta per scoraggiare i predatori. Dopo essersi messi insieme, e dopo essersi conosciuti meglio, quel bisogno era un po’ sparito, e così i suoi capelli, ma probabilmente in quel momento Bill stava pentendosi intensamente di non avere più la pettinatura di un tempo.
- Bill. – ripeté, la voce più soffice, - Ti prego.
- Ragazzino, - lo chiamò anche il signor Pangerl, cambiando canale e fermandosi a guardare una partita di calcio di chissà che divisione dilettantistica, peraltro con interesse di gran lunga maggiore rispetto a quello che aveva riservato al cartone animato, - se tu non gli dai retta, Icaro qui non si leva mica. Avanti.
Anis fece per rispondere che lui con Icaro non c’entrava niente, ma poi si rese conto che, come lui, s’era avvicinato troppo ad un sole che non avrebbe mai dovuto toccare. E, sempre come lui, stava rischiando di bruciarsi le ali. Perciò tacque.
Bill sospirò pesantemente ed allungò le gambe, stiracchiandole un po’ prima di piegarsi a poggiare latte e biscotti sul tavolino basso di fronte a lui ed alzarsi in piedi, voltandosi e guardandolo dritto negli occhi. Aveva pianto in silenzio fino a quel momento. I suoi occhi erano rossi e acquosi, le sue guance rigate di lacrime che non avevano avuto il tempo di asciugarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – gli disse, consapevole di quanto quelle scuse fossero inutili. Bill annuì, più per prendere atto del suo – inutile – tentativo di farlo stare meglio, che perché sentisse davvero il bisogno di accettare delle scuse da lui.
- Non parliamo qui. – disse poi, e nella sua voce non c’era nemmeno la più piccola traccia delle lacrime così evidenti sul suo volto, - Dove possiamo stare soli?
- La camera da letto è libera. – disse distrattamente il signor Pangerl, e sia Anis che Bill arrossirono repentinamente per l’involontaria battuta celata dietro quelle poche parole. Nonostante questo, Bill dovette pensare che quella fosse la soluzione migliore, perché dopo quell’attimo di imbarazzo annuì deciso, chiedendo al signor Pangerl dove fosse e poi seguendolo quando, ottenute le indicazioni richieste, Anis lo condusse in fondo al corridoio centrale, oltre una porta bianca, sottile e un po’ cigolante che si chiuse subito alle spalle quando furono entrambi all’interno della stanza.
Anis rimase per qualche secondo voltato verso la porta, due dita ancora sulla maniglia e lo sguardo perso nel vuoto, mentre cercava il coraggio di voltarsi a guardarlo.
- Bill, dobbiamo—
- Sanguini ancora. – disse Bill, cogliendolo di sorpresa ed accarezzando lievemente con le punte delle dita la pelle sensibile e accaldata attorno alle ferite sulle sue scapole, - Vorrei provare a curarle, non so… disinfettarle, bendarle. Ma a che scopo, se so già che non si rimargineranno mai?
- Se voglio le ali, devo tenere le ferite. – rispose Anis, pratico, restando immobile.
- E tu le vuoi? – chiese pianissimo Bill, le dita ancora impegnate a ridisegnare i contorni di quegli squarci.
- Mi sono servite per salvare te. – annuì lui.
- Ma resteranno anche quando non avrai più bisogno di salvarmi. – insisté il ragazzo, corrugando le sopracciglia, - E tu continuerai a sanguinare.
Anis sbuffò una risata intenerita e, in parte, anche vagamente divertita.
- Finirà il mondo, quando non avrò più bisogno di salvarti. – rispose distrattamente, e Bill sorrise appena.
- È molto probabile che questo succeda comunque, sai? – commentò, quasi ironico. – Perché non posso avere una scelta? – chiese quindi, la voce venata da una nota di malinconia, - Vivo la mia vita e all’improvviso vengo a sapere che ogni momento, ogni dettaglio è stato curato in funzione di qualcosa che non voglio e che sarò comunque costretto a fare se non voglio avere sulla coscienza la vita di sette miliardi di persone. Sempre che io abbia ancora una coscienza, quando saremo tutti morti, s’intende. – sospirò pesantemente, poggiando la fronte contro la sua spalla. – Perché non posso scegliere? Voglio poter scegliere.
Anis inspirò profondamente, stringendo i pugni lungo i fianchi. Poi si voltò, fronteggiandolo immobile per qualche secondo prima di tirarselo contro. Le sue ali si dischiusero senza che lui potesse controllarle, tornando a richiudersi pochi secondi dopo attorno al corpo di Bill, ancora schiacciato contro il proprio, come volessero fargli da scudo.
- Io non ero previsto. – gli rispose, parlando direttamente sulla pelle calda del suo collo, umida di lacrime, - Non ero previsto e non intendo togliermi di mezzo. – si allontanò appena, guardandolo negli occhi e sorridendo. – Questo dimostra che hai una scelta. Me.
Bill distolse lo sguardo, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- Io ho scelto te tre anni fa, e questo ci sta portando alla fine del mondo. – mormorò incerto.
- Fallo ancora. – lo pregò Anis, accarezzandogli una guancia, - Sceglimi ancora. Fidati di me.
- Sarò inutile, Anis. – sospirò lui, - Guardiamo in faccia la realtà e non illudiamoci, ti prego. Io non sono un bambino e non sono stupido. Non posso nemmeno curarti le ferite.
- Le mie ferite non hanno bisogno di cure. – sorrise Anis, - Io sono una fenice. Muoio e risorgo. Nessuno può uccidermi davvero.
- Ma possono farti dannatamente male nel mentre. – protestò lui, chinando appena il capo. – Comunque, sai già che ti sceglierò ancora. – disse però, sorridendo appena, - E ancora, e ancora.
Anis lo strinse con forza, baciandolo piano sulla fronte, su una tempia, sulla guancia, sulle labbra.
- Dobbiamo lasciare la città. – disse quindi, - La signora Silvia sa dove mandarci. Torna da lei, non è arrabbiata. Saprà cosa consigliarci.
Bill sospirò, ma annuì, e senza protestare si lasciò condurre nuovamente nello studiolo della signora Silvia, ben disposto a seguire qualsiasi consiglio, purché questo consiglio non implicasse per lui l’obbligo di scegliere qualcosa fra Anis e la salvezza del mondo intero, perché in quel caso non era sicuro di riuscire ad operare la scelta più saggia.
*
- …mio padre. – ripeté Bill, incredulo, fissando la signora Silvia come non potesse capacitarsi della sua esistenza, - Mio padre se n’è andato via di casa un centinaio di anni fa e da allora io l’ho visto solo raramente, signora Pangerl, non so se—
- Tuo padre non è andato via, Bill, tuo padre è stato allontanato. – disse lei, - Sono due cose ben distinte.
- Allontanato? – chiese Peter, curioso, - Come te?
- Esatto. – annuì la donna, - Chiunque faccia parte dell’Ordine ma non sia d’accordo sul modo in cui il suo operato viene condotto, viene allontanato. Non ucciso, quello in genere accade solo quando i saggi ritengono tu possa essere una minaccia, ma viene messo nelle condizioni di stare il più lontano possibile da ogni centro abitato, e gli vengono in genere tagliate tutte le possibilità di interferire con l’operato dell’Ordine stesso.
- Mio padre era in disaccordo con l’Ordine? – chiese Bill, confuso. Ricordava molto poco del periodo in cui i suoi genitori avevano vissuto insieme. La maggior parte dei ricordi che conservava di lui raccontavano di un uomo sfuggente che poteva passare a trovare lui e suo fratello solo per qualche ora ogni due settimane, e che ogni tanto chiamava a casa, ma col quale era impossibile discutere via telefono a causa della linea quasi costantemente disturbata, come stesse parlando da un punto privo di campo o attraverso un apparecchio rattoppato alla meno peggio che aveva dovuto assemblare da solo, perso chissà dove nel nulla cosmico.
- Diciamo che più che altro non ne è mai stato veramente parte. – rifletté la signora Silvia, picchiettandosi il mento con un dito, - Non potrei spiegartelo con certezza o dovizia di particolari, perché io fui buttata fuori qualche anno dopo che lui ne entrò a far parte sposando Simone, ma so che si piegò ad entrarvi solo per il grande amore che provava per tua madre. Immaginò che il tutto potesse essere un po’ inquietante, ma non dovesse avere chissà che conseguenze sulla sua vita. Poi – sospirò e sorrise appena, - nasceste tu e tuo fratello. E quando Simone gli spiegò cosa Larsen pensava e quale sarebbe stato il vostro destino, semplicemente non riuscì ad accettarlo.
- Non ha mai… - balbettò Bill, abbassando lo sguardo, - non ha mai provato a contattarci per parlarcene. Dannazione, quando ci sentivamo preferiva parlare dei trucchi che avevo comprato durante la settimana… come avrei mai potuto sospettare che—
- Tuo padre sapeva che se avesse cercato di intromettersi fra voi e l’Ordine non lo avrebbero mai lasciato vivere. – considerò la signora Silvia, - Non mi meraviglia che si sia frenato. È un uomo saggio. Venne subito a cercarmi, quando fu allontanato dall’Ordine, ed è sempre rimasto in contatto con me, fino ad oggi. Ha sempre saputo che il suo essere ancora in vita sarebbe tornato utile, un giorno. – la donna sorrise con maggior convinzione, recuperando un foglio dalla scrivania e porgendoglielo. – È il suo indirizzo, - disse, - o almeno, è il posto in cui vive adesso. È costretto a spostarsi spesso, per evitare di essere trovato. Anche l’Ordine preferisce così, un uomo in costante movimento non è in grado di creare nuovi legami. Fortunatamente per noi, però, - ridacchiò piano, - è stato perfettamente in grado di conservare quelli vecchi.
Anis allungò il collo, sbirciando l’indirizzo dal foglietto liscio dai margini irregolari che Bill teneva incerto fra le mani.
- Lo conosco. – disse annuendo, - È appena fuori città, in campagna. Possiamo raggiungerlo in un paio d’ore, in macchina.
- Macchina? – ridacchiò la signora Silvia, coprendosi la bocca con una mano, - Cosa mi tocca sentire… vi troveranno prima che riusciate a procurarvene una.
- Be’, stavo cercando di essere costruttivo, signora Pangerl. Spazio ai giovani, no? – borbottò Anis, offeso, mentre Bill si lasciava andare ad una risatina divertita.
- Sì, ma non quando dicono palesi idiozie, caro. – ribatté lei, serafica, - Dovete seguire vie poco battute, attraversare luoghi in cui nessuno penserebbe mai di andarvi a cercare, non potete mica—
- Le fogne. – propose Peter, pensoso, - Ovviamente si allungherebbero i tempi, - disse, stringendosi nelle spalle quasi a scusarsi, - Ma penso che nessuno verrebbe a cercarvi lì.
La signora Silvia s’illuminò tutta come l’avessero appena accesa dall’interno.
- …un genio! – commentò estatica, raggiungendo Peter dall’altro lato della stanza, nell’angolino in cui stava appoggiato, e gettandogli le braccia al collo, - Mio figlio è un genio!
Peter arrossì fino alla punta delle orecchie.
- Mamma… - si lagnò, cercando di farsi mollare senza peraltro riuscirci.
- Ha un senso. – considerò Patrick, grattandosi il mento, - E se anche dovessero pensare di cercarci là sotto, le fognature sono un labirinto. Potrebbero metterci ore anche solo per trovare la giusta direzione da seguire, e con un po’ di fortuna noi potremmo essere già lontani e in discreto vantaggio.
Bill annuì, ripiegando il foglietto con l’indirizzo ed infilandolo in tasca.
- D’accordo. – disse con sicurezza, - Mi sembra l’idea migliore che abbiamo. Seguiamola. – si voltò verso Peter, sorridendo dolcemente. – Grazie, Chaku.
- Oh, ma non ringraziarlo adesso. – rise la signora Silvia, agitando una mano come a voler scacciare via quella sciocchezza, - Ringrazialo quando tutto sarà finito. Mio figlio verrà con voi.
- Cosa? – sbottò Anis, incredulo, - Ora, non è che siccome ci ha aiutato deve approfittarne per piazzare suo figlio in giro, manco fosse un posto da impiegato bancario con contratto a tempo indeterminato, mi scusi.
La signora Silvia sollevò gli occhi al soffitto con aria supplice, scuotendo mestamente il capo.
- In mano a chi avete affidato il destino del mondo, Divini? – chiese a mezza voce, e poi tornò a guardare Anis. – Mio figlio vi sarà ancora utile. – disse, sorridendo sicura, - Io l’ho visto. Portatelo con voi.
- Lo portiamo sì. – sbottò Patrick, afferrando Peter per la maglietta e tirandoselo praticamente contro, - Io non intendo restare da solo a reggere il moccolo mentre questi due mi fanno la tragedia dei novelli Romeo e Giulietta nelle fognature di Berlino. Pretendo di avere qualcuno con cui parlare. – stabilì. La signora Silvia rise di gusto.
- Sì, anche quello. – annuì, - Ora affrettatevi. – consigliò, tornando immediatamente seria. – Il tempo stringe, e voi dovrete trovarvi nel luogo giusto al momento giusto, quando tutto si compirà. – sorrise rassicurante, abbracciandoli tutti uno per uno. – Siete una combriccola un po’ confusa, ma siete forti. E pieni di sentimenti che si agitano tutto intorno e dentro di voi. Non potrei giurarci… - disse infine, sorridendo ancora, - ma potreste perfino avere una speranza. Se crederete a sufficienza.
Si guardarono tutti negli occhi a vicenda per qualche secondo, prima di annuire e lasciare l’appartamento. Credere o meno sembrava l’unica scelta che fossero davvero in grado di fare, ed erano fermamente intenzionati a farla.
*

- Tom! – urlò David, spalancando la porta per trovare il ragazzo affacciato alla finestra col naso puntato per aria, mentre da fuori giungevano i rumori delle numerose automobili della scorta di Larsen in svelto avvicinamento verso il condominio, - È tutto a posto?
- Tutto a posto…? – mormorò lui, voltandosi a guardarlo, gli occhi spalancati e i lineamenti tesi dallo spavento e dal nervosismo, - Un— non sono neanche sicuro di poter riuscire a raccontarti cosa ho appena visto e tu mi chiedi se è tutto a posto?! – strillò, sfilando la bandana che portava annodata attorno alla testa e gettandola per terra con rabbia, - Cosa cazzo è successo? Cosa?!
- Tom, devi calmarti. – disse lui, avvicinandoglisi e poggiandogli le mani sulle spalle nel tentativo di tenerlo quantomeno fermo. Il ragazzo si allontanò, liberandosi dalle sue mani con uno strattone violento.
- Non voglio e non posso calmarmi! – ringhiò, - E ti avevo detto di non toccarmi più.
David indietreggiò di un paio di passi, ritraendo istantaneamente le mani.
- Scusami. – disse, abbassando lo sguardo. Tom si sentì stringere il petto in una morsa che lo privò del respiro, come avessero preso una cinghia e gliel’avessero legata attorno ai polmoni, e poi si fossero messi a tirare, tirare, tirare, nel tentativo di strapparglieli via dal petto.
- Non— - cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase perché la porta della camera venne spalancata ancora una volta, e Larsen fece il suo ingresso, i capelli scarmigliati sulla testa e l’espressione stravolta dalla rabbia.
- David! – gridò furioso, - Cosa diamine è successo?!
- Herr Larsen, - cominciò lui, frapponendosi automaticamente fra l’uomo e Tom, - Bill è stato rapito da—
- So cosa è successo, stupido incompetente, gli indovini hanno visto tutto! – lo interruppe Larsen, gesticolando animatamente, - Come hai potuto permetterlo? Ti avevamo dato la nostra fiducia, mezzi a sufficienza per—
- Mezzi a sufficienza?! – sbottò David, esasperato, - I vostri uomini se la sono fatta sotto come ragazzine appena il dragone e la fenice sono apparsi!
- Il… il dragone e la fenice…? – mormorò Tom, gli occhi spalancati, appoggiandosi alla parete come ne avesse bisogno per non cadere a terra privo di forza.
David gli lanciò un’occhiata preoccupata: stava venendo a sapere troppe cose da troppi dettagli buttati lì alla rinfusa, in una situazione che non gli consentiva di assimilarli serenamente. Era un pericolo, Larsen stava combinando un disastro giocando con la vita e con la testa di un ragazzino che non era pronto e lui non era stato in grado di proteggerlo. Non era stato in grado di proteggere nessuno dei due.
- Questo è il colmo. – disse Larsen, ricomponendosi velocemente e fissandolo con aria severa, - Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, dopo averti praticamente cresciuto, il tuo tradimento è tale da lasciarmi allibito. Di’ che non è quello che hai sempre voluto, - lo sfidò con un sorriso crudele, - hai sempre pensato che stessimo sbagliando, che non potessimo forzare il destino… ebbene ora il destino non è più nelle nostre mani, David, ora il nostro destino dipende… dalla pazzia di un ragazzino e del suo sciocco innamorato! Sarai contento, adesso.
- …questo non era quello che volevo. – disse David a bassa voce, - Io volevo soltanto che li rispettaste di più, che rispettaste i loro desideri.
- Bene! – sbottò Larsen, battendo una mano contro la scrivania accanto a lui, - Adesso i loro desideri saranno rispettati! E questo porterà alla distruzione del mondo!
- Distruzione del… David, di cosa diamine state parlando? – si riscosse Tom, allontanandosi dalla parete per avvicinarsi a loro, - Che cosa sta succedendo?
David si voltò a guardarlo mordendosi l’interno di una guancia, incerto.
- Tom, ci sono cose che tu non sai. – cominciò, cercando celermente le parole per esprimere chiaramente così tanto e in così poco tempo.
- E non è più compito tuo istruirlo. – lo fermò Larsen, cupo. – Ti avevo avvertito, David. Sapevi che te li avremmo tolti, se l’avessimo ritenuto necessario.
- No. – balbettò lui, voltandosi repentinamente a guardarlo, gli occhi spalancati e le labbra tremanti, - No, per favore.
- Non c’è niente che potrà farmi cambiare idea, David. – insisté l’uomo, tetro, - Da questo momento, sei sollevato dal tuo incarico di Guardiano e allontanato dall’Ordine. Oltretutto, vista la tua ostinazione nel contrastare le idee e l’operato dell’Ordine stesso, riconoscendo in te un pericolo per quest’organizzazione e per la salvezza del mondo intero, ti dichiaro in arresto.
- In arresto?! – quasi gridò Tom, incredulo, voltandosi a guardare Larsen, - Non ha fatto niente! Cosa vuol dire tutto questo?!
L’uomo gli sorrise, piegando appena il capo.
- David ha ragione, Tom. Ci sono cose che tu non sai. Provvederemo noi a spiegartele. Comandante! – disse quindi, ed un militare, seguito da molti altri, fece il suo ingresso nella stanza, afferrando David per le braccia e trascinandolo fuori, giù per le scale.
- No, io non… - biascicò Tom, indietreggiando appena, - Io non voglio sapere niente, io non… - i suoi occhi erano enormi, spalancati e pieni di lacrime che, per qualche motivo, si ostinava a rifiutarsi di lasciar scorrere lungo le guance.
Larsen sospirò, scuotendo il capo con amarezza.
- Si è complicato tutto così tanto. – commentò tristemente, - Comandante, prenda anche lui. Ma sia delicato.
L’uomo annuì, e lui ed un altro militare si avvicinarono a Tom, che provò a divincolarsi senza grande convinzione per qualche secondo, prima di abbattersi sul pavimento – le ginocchia molli, gli occhi vacui – e lasciarsi trascinare via come un peso morto. Larsen rimase immobile nel centro della stanza, il labbro inferiore fra i denti e gli occhi persi e colmi di preoccupazione, finché un paio di militari, qualche secondo dopo, non tornarono in camera, urlando agitati.
- Herr Larsen, il detenuto è riuscito a fuggire. – lo informarono.
- Cosa…? – sbiancò lui, sollevando lo sguardo nei loro.
- Ha spinto gli uomini che lo trattenevano giù per le scale, uno di loro è morto in seguito alla caduta. – rispose uno dei due, contrito, - Abbiamo perso le sue tracce. Ci dispiace.
Larsen chiuse gli occhi, trattenendo solo a stento un mugolio infastidito, stanco e frustrato.
- E continua a complicarsi. – considerò fra sé a bassa voce, prima di tornare a guardarli. – Trovatelo. Utilizzate tutte le squadre che vi serviranno, non è un problema. Abbiamo già fin troppi elementi che si intromettono in cose che non dovrebbero riguardarli, non abbiamo bisogno di qualcuno che conosca perfettamente-- - si interruppe, guardando per qualche secondo fisso davanti a sé come avesse appena capito improvvisamente qualcosa di fondamentale. – Lasciate perdere. – disse quindi, sorridendo soddisfatto, - Non sarà necessario trovarlo. Sarà lui stesso a trovare noi. Rientriamo alla Santa Sede.
*
- Fermiamoci. – ordinò Anis, perentorio, indicando un ambiente riparato e relativamente lontano dal canale pieno d’acqua sporca che stavano seguendo, - Riposiamoci un po’.
Bill aggrottò le sopracciglia, ostinandosi a proseguire come non l’avesse sentito.
- Bill? – lo chiamò Peter, incerto, dopo essersi già seduto per terra, - Ehi, dove stai andando?
- Io non sono stanco. – disse lui, voltandosi repentinamente a guardarli tutti, - Piantatela di trattarmi come una ragazzina.
- Oh, ma non ti stiamo trattando come una ragazzina. – negò Patrick, scacciando l’illazione con un gesto della mano, - Stiamo solo—
- Avete sollevato il tombino per me e mi avete invitato ad entrare per primo come fosse stato lo sportello di una dannata carrozza! – sbottò lui, esasperato, - Anis si è offerto di portarmi in braccio dopo dieci minuti di marcia, e Chaku ha perfino steso il suo giubbotto su una pozzanghera! Dico, ma le vedete le mie gambe? Quella pozzanghera non avevo nemmeno bisogno di saltarla!
- Bill. – mormorò Anis, passandosi una mano sulla fronte a scacciare via il velo di sudore provocato dal caldo umido che, assieme all’insopportabile puzzo, rendeva l’aria quasi del tutto irrespirabile, - Stavo solo cercando di—
- Di fare cosa? – sbottò Bill, una mano sul fianco e le gambe semidivaricate, - Di proteggermi? La notizia del giorno è che non puoi. – si fermò a prendere fiato, abbassando lo sguardo e passandosi una mano sugli occhi. – Ragazzi, - riprese quindi, più pacatamente, - io non sono una principessa e voi non siete i miei cavalieri serventi. Se questa è una battaglia, per strana che sia, dobbiamo combatterla l’uno al fianco dell’altro.
Anis sorrise divertito, sbuffando appena ed avvicinandoglisi per baciarlo lievemente sulla fronte.
- D’accordo, allora. – annuì serio, - In marcia.
- Sì, però io ero stanco. – si lagnò Peter, borbottando a bassa voce ma alzandosi comunque in piedi.
- E piantala, Dio mio. – disse Patrick, sollevando gli occhi al soffitto scuro e gocciolante, - Sei la cosa più nana dell’universo eppure sprechi energie con una velocità inaudita. Sarà perché parli troppo?
- Be’, sei tu che mi hai portato qui per parlare, mi pare, no? – sibilò lui, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - La prossima volta mi lasci dove sto, immerso nella comodità di casa mia.
- Mentre il mondo esplode. – concluse Patrick per lui, e poi si fermò all’improvviso, immobile, quasi annusando l’aria.
- Che ti prende? – chiese Peter, guardandolo storto, - Sei diventato un cane da tartufo? Un’evoluzione infinita.
- Ssht. – sbottò lui, tappandogli la bocca con una mano, - Sento arrivare qualcuno. Bushido! – lo chiamò agitato, - Passi.
- Li sento. – annuì l’uomo, voltandosi e spingendo con gesto casuale Bill dietro le ali aperte per metà. – Avvicinatevi.
- Non vi allarmate. – disse una voce da un tunnel vicino. I passi si fermarono istantaneamente. – Non voglio farvi del male.
- David. – mormorò Bill, impallidendo, - David! – ripeté a voce più alta, cercando di divincolarsi dalla stretta di Anis.
- Fermo, Bill! – lo rimproverò lui, tenendolo stretto, - Non sappiamo—
- Scusatemi. – mormorò David, apparendo finalmente all’imboccatura di un tunnel poco distante. Si appoggiava alla parete con una mano, c’era un grosso livido che si stava allargando attorno al suo occhio destro e in generale sembrava davvero poco fermo sulle gambe. – Vi giuro che non ho cattive intenzioni. Sono fuggito e ho bisogno di parlarvi.
- David! – continuò ad agitarsi Bill, quasi saltando sul posto, - Dov’è Tomi? Come sta?
- Come ci hai trovato? – chiese invece Anis, guardandolo duramente negli occhi.
David sorrise appena, stringendosi nelle spalle.
- Ho seguito la voce di Bill. – rivelò divertito. Anis non poté impedirsi di ridere, così come Patrick e Peter, mentre Bill arrossiva fino alla punta delle orecchie.
- Ok. – annuì Anis, richiudendo le ali e lasciando a Bill la libertà di muoversi prima e correre incontro a David subito dopo, - Cos’è successo?
David inspirò profondamente, appoggiandosi meglio alla parete e rabbrividendo al pensiero di quanto a lungo avrebbe dovuto rimanere là in piedi a spiegare quali coincidenze astrali e cosmiche l’avessero portato a trovarsi lì in quel momento, partendo praticamente dall’inizio della storia del mondo.
- Ecco, - disse quindi, - so che potrà sembrarvi assurdo, ma dovete credermi se volete uscire vivi da questa storia. Ogni duecento anni—
- Nascono due Prescelti che vengono affidati a un Guardiano e bla bla bla. – roteò gli occhi Peter, gesticolando mollemente, - Siamo già passati al livello successivo, Jost, dicci qualcosa che già non sappiamo.
Patrick si voltò a guardarlo inarcando un sopracciglio.
- Guardalo come si fa bello. – sbuffò infine, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca, - Lascia parlare gli esseri divini, nano. – lo prese in giro con un ghigno divertito.
- David. – mormorò Bill, cercando il suo sguardo. Lui rispose immediatamente col proprio e si guardarono negli occhi per qualche secondo, prima di abbracciarsi stretti, dapprima timidamente, poi con convinzione sempre maggiore, finché il corpo esile di Bill non sembrò quasi scomparire contro il suo.
- Dio, Bill. – disse lui fra le lacrime, - Mi dispiace così tanto. Ho provato a— non lo so. Non so nemmeno io cosa ho provato a fare. Ho provato a proteggervi entrambi e non sono riuscito a salvare nemmeno uno di voi due.
- Io sono al sicuro, Dada. – disse Bill, sforzandosi di sorridergli, - Ma ho bisogno di sapere dov’è Tomi, io non sono nemmeno riuscito a salutarlo e non so cosa— devi dirmi dov’è Tomi, Dada, io devo andare da lui.
David sembrò quasi stupito dalla sua affermazione, e gli accarezzò una guancia, notando con la coda dell’occhio lo sguardo di Anis farsi improvvisamente lontano e triste.
- Sai cosa succederà, se tu e tuo fratello doveste unirvi. – gli ricordò a bassa voce.
Bill si morse un labbro, incerto.
- Io ho bisogno di vederlo, Dada. – insisté, - Almeno un’ultima volta.
David si inumidì le labbra, pensoso, prima di allontanarsi deciso.
- D’accordo. – disse quindi, - Bushido, ho bisogno di parlarti. In privato.
Anis aggrottò le sopracciglia, dubbioso.
- Come faccio a sapere che non è una trappola? – chiese.
- Non puoi saperlo. – rispose David con una scrollatina di spalle, - Mi segui e basta. – concluse, allontanandosi lungo lo stesso tunnel dal quale era venuto.
Anis inspirò profondamente, ma affidò Bill a Peter e Patrick, prima di seguirlo senza fare storie.
- Senti, non facciamola troppo lunga. – sbottò, incrociando le braccia sul petto, - Abbiamo ancora molta strada da fare, e—
- Non voglio interferire coi vostri piani, - disse lui, pratico, - ma prima di ogni altra cosa dobbiamo andare a recuperare Tom. – Anis distolse lo sguardo, le labbra piegate in una smorfia addolorata. - …lo senti anche tu, vero? – chiese David con un sorriso mesto, - Ha bisogno di lui. Sono spinti l’uno verso l’altro. È il karma, sono nati a questo scopo, è scritto nei loro corpi, nella parte più profonda di loro. – sbuffò una mezza risata, - È una cosa che nessuno di noi può cambiare. Capisco molto bene quello che provi.
Anis sollevò gli occhi nei suoi, schiudendo le labbra.
- Tu… - cominciò. Il sorriso di David si allargò appena, e lui si fermò immediatamente.
- Quello che pensiamo io e te, comunque, non cambia la sostanza delle cose. – sospirò stancamente, - I gemelli devono ricongiungersi, o sarà una tragedia.
Anis abbassò lo sguardo, annuendo quasi impercettibilmente.
- Lo so. – disse quindi, - D’accordo. – annuì ancora, sollevando nuovamente lo sguardo, - Quello che deve essere, sarà. Ma alle nostre condizioni.
David inarcò un sopracciglio, incerto.
- Cosa intendi? – chiese.
- Lo vedrai. – rispose, prima di tornare dal gruppo fuori dal tunnel, - Ragazzi. – li richiamò, - Bill. – disse, la voce più dolce, - Devo andare. Accompagno David a recuperare Tom. Voi precedeteci a casa del signor Kaulitz, non fermatevi per nessun motivo e se qualcuno vi segue scappate senza voltarvi mai indietro. – si voltò a guardare Patrick, fissandolo deciso negli occhi, - Ve lo affido. – disse.
- Anis. – sbuffò Bill, gonfiando le guance, - Non ho bisogno di—
- Bill. – lo interruppe lui, tirandoselo contro e baciandolo profondamente per zittirlo. – Obbedisci. – concluse, allontanandosi da lui con uno schiocco ed un sorriso debole.
Dopodiché, si voltò verso David, che nel mentre era riuscito, non senza fatica, a raggiungerli.
- Andiamo? – chiese l’uomo, cercando di reggersi sulla gamba sana.
- Appoggiati a me. – offrì Anis, porgendogli il braccio, - Andiamo a vedere che serratura apre questa chiave.
*
- Sarebbe questa la Santa Sede? – chiese Anis, osservando con aria critica il palazzo che aveva di fronte, - Me l’aspettavo più… non so. Colorata?
- Sì, magari con un neon sul tetto con sopra scritto “è qui la salvezza del mondo”. – sbuffò David, avvicinandosi ad un citofono dall’aria piuttosto malandata e guardandolo bene da ogni lato, come lo stesse studiando.
- È così tetra. – considerò Anis, una mano piantata sul fianco e le ali in lento e appena percettibile movimento dietro le sue spalle, come volesse tenerle ancora in movimento dopo il lungo volo che li aveva condotti fin lì. – È un cliché, tutte le sedi di organizzazioni segrete devono essere tetre e cadenti.
- Stai delirando. – annuì David. – Tienimi questo. – disse poi.
- Questo cosa? – chiese Anis. David strappò via il citofono dalla parete.
- Questo. – ripeté, porgendogli il pannello divelto.
- …oh. – annuì Anis, prendendo il pannello fra le mani e guardandolo con interesse. - …ma—
- Era tenuto su solo da una vite. – sospirò David, intuendo il motivo della sua curiosità, - Questa è l’entrata sul retro. Vedi qui? – chiese, indicando il minuscolo pannello di controllo che il citofono nascondeva, - Bisogna far passare il tesserino identificativo attraverso questa fessura, e poi digitare il proprio codice segreto. Ogni adepto ne ha uno esclusivo e personale.
- Adesso improvvisamente riesco a riconoscere i tratti tipici di un’organizzazione paramilitare. – sbuffò ironico Anis, inclinando appena il capo. – Hai il tesserino, sì?
- Naturalmente. – rispose David, estraendolo dalla tasca interna della giacca, - Ma non so se l’hanno già disattivato. La banca dati dell’Ordine è organizzata in modo da avere un sistema di ricerca molto rapido, in modo da poter disattivare quasi all’istante tesserini e codici di chiunque venga allontanato. Per questioni di sicurezza, sai. – concluse, scrollando le spalle.
Anis annuì, incrociando le braccia sul petto.
- Be’, non ci resta che provare. – propose. David annuì a propria volta, facendo scorrere il proprio tesserino all’interno della fessura e poi digitando velocemente il proprio codice d’accesso sulla tastiera poco più sotto.
La porta si aprì con un click piuttosto discreto, senza neanche dischiudersi davvero, tanto che Anis dovette spingerla per assicurarsi che il tesserino avesse funzionato davvero. Non cigolò nemmeno come entrambi si sarebbero aspettati, e lo spiraglio lasciava intravedere un corridoio illuminato e pulito, e fortunatamente deserto.
- Ha funzionato. – constatò David, incolore, chiedendosi se fosse il caso di entrare alla svelta e richiudersi immediatamente la porta alle spalle o temporeggiare ancora un po’.
- È un po’ strano, no? – chiese Anis, dubbioso, - Proprio in questo momento di grande allerta, dimenticano di disattivare il tuo tesserino?
- Hai ragione. – annuì lui con una smorfia frustrata, - Ma forse, proprio perché per adesso sono presi da altro, non hanno pensato a… - Anis inarcò un sopracciglio, e David sbuffò, incurvando le spalle con rassegnazione. – Lo so, è molto, molto probabile che sia una trappola. Ma anche se fosse, non abbiamo scelta, no?
- Be’, io ce l’ho. – ridacchiò Anis, sdrammatizzando, - Potrei prendere il volo e tornarmene da dove sono venuto.
David rise appena, tornando a sbirciare il corridoio.
- Se anche dovessi rimanere solo, proverei comunque ad entrare e salvarlo.
Anis lo guardò per qualche secondo, cercando disperatamente di non scoppiare a ridere, ma dovette cedere quando rischiò seriamente di morire soffocato, e gli batté una pacca complice sulle spalle.
- Quanto sei epico. – commentò, sghignazzando senza freni, - Mi piace. – concluse con un sorriso più sincero. – Diamoci una mossa, adesso.
*
- Questi sono gli alloggi per gli ospiti. – illustrò David, attraversando l’ennesimo corridoio con migliaia di porte da quando erano entrati all’interno dell’edificio, - È qui che vengono portati tutti gli esterni che, per un motivo o per l’altro, sono legati all’Ordine o devono restare all’interno della Santa Sede per qualche tempo. Però la zona sembra deserta. – considerò dubbioso.
- Il che dovrebbe suggerirci che forse Tom non è qui. – ipotizzò Anis, guardandosi intorno con aria scettica.
- Ma non c’è altro luogo in cui potrebbe essere. – rifletté David, abbassando lo sguardo ed accostandosi ad ogni porta per cercare di percepire qualche rumore proveniente da qualcuna delle varie stanze, - Tutto il resto dell’edificio è occupato dagli uffici e dagli alloggi delle scorte, non c’è altro luogo in cui Tom potrebbe—
- Il sangue di Bill. – disse Anis, fermandosi all’improvviso in mezzo al corridoio e tendendosi tutto come volesse allungarsi ad ingombrare l’intero ambiente, - Sento— sento il sangue di Bill.
- …senti il sangue di Tom, non quello di Bill. – lo corresse l’uomo, illuminandosi repentinamente, - È lo stesso, è ovvio che tu lo percepisca! Avrei dovuto pensarci io stesso! Dov’è?
Anis si guardò intorno con aria persa per qualche secondo, estremamente turbato da ciò che stava percependo. Era come se il suo stesso sangue stesse ribollendo, smaniando all’idea di sfuggirgli dalle vene per unirsi a quello di Bill, dovunque fosse. Non era un particolare odore nell’aria, o un suo particolare sapore, non era una sensazione tattile né uditiva, era la sorda consapevolezza di quel sangue vivo presente da qualche parte intorno a loro.
Chiuse gli occhi e mosse qualche passo lungo il corridoio, fino a fermarsi davanti ad una porta apparentemente uguale a tutte le altre. Quando la spalancò, Tom – che fino a quel momento era rimasto immobile seduto sul letto – scattò in piedi, andando a rifugiarsi nell’angolo più distante da loro, in fondo alla stanza.
- …tu! – disse, quando l’ebbe riconosciuto, - Dove hai portato mio fratello?! È solo colpa tua!
- Tom, io non ho nessuna colpa di quello che sta succedendo. – cercò di spiegargli Anis, tendendo le mani in avanti come a volergli dimostrare di essere disarmato, e pertanto inoffensivo. – Io voglio solo che—
- Tom! – lo chiamò a gran voce David, spingendo Anis da parte perché le sue ali non lo intralciassero e correndo verso di lui. Al solo vederlo apparire, tutto il corpo di Tom si contrasse e poi si tese immediatamente, e il ragazzo deglutì con forza, dandosi lo slancio per scattare in avanti, e atterrare direttamente fra le sue braccia.
- Cristo. – singhiozzò, aggrappandosi convulsamente alla sua maglietta, - Cristo, Dada, come hai potuto farmi questo? Io sono sempre stato sincero con te.
- Lo so, Tom. – lo consolò lui, accarezzandogli lentamente i capelli ed il collo, - È stata tutta colpa mia, avrei dovuto dirti che— insomma, avrei dovuto dirti ogni cosa.
Tom lo guardò negli occhi, mordendosi un labbro. Non piangeva, anche se evidentemente ne aveva voglia, e David si ritrovò a dirsi che era così fiero di lui che al solo pensarci si sentiva quasi scoppiare il cuore dall’orgoglio.
- Tutto quello che credevo di sapere era una menzogna. – disse il ragazzo, incredibilmente lucido, - Anche l’amore che provo per Bill… è una menzogna anche quella.
- Non lo è, Tom. – scosse il capo David, poggiandogli una mano sul viso ed accarezzandogli una guancia col pollice, in piccoli cerchi, - Se lo senti, è reale. Solo ciò che senti lo è, tutto il resto— è tutto il resto ad essere falso.
Tom affondò con maggior forza i denti nel proprio labbro inferiore, stringendo le mani attorno al tessuto sgualcito della sua maglietta.
- David, tu non capisci, io—
- Merda. – li interruppe Anis, richiamando la loro attenzione, - Sembra che dovremo rimandare le confessioni a cuore aperto ad un altro momento.
- Sei sempre stato intraprendente, David. – commentò Larsen con un sorriso di scherno, apparendo sulla soglia della porta circondato da militari armati, - Ma mai davvero brillante. Avrei dovuto immaginare fin dall’inizio che avresti combinato un disastro, eppure scioccamente mi sono voluto fidare del mio intuito, nonostante i saggi mi avessero consigliato altrimenti. Certi errori si pagano, ed io probabilmente ho costretto il mondo intero a pagare per la mia presunzione, ma il vostro viaggio finisce qui. Non riuscirete a portare il Prescelto fuori da quest’edificio.
- Larsen. – ringhiò David, stringendosi contro Tom come a volerlo proteggere col proprio stesso corpo, - Ho lasciato che me lo portassi via una volta, ma non ti permetterò di farlo ancora.
- Idioti. – li interruppe Anis, stringendo i pugni lungo i fianchi ed aprendo le ali solo per metà, - La divinità ce l’avete qui, sotto gli occhi, eppure parlate come se foste due eroi. – si voltò appena verso David, richiamando la sua attenzione con un cenno del capo. – Tu e Tom qui mi intralciate. Per combattere questa gente ho bisogno di lasciarmi andare, e non posso farlo se so di dover proteggere voi due. E Bill non è qui, se dovessi perdere il controllo non so se riuscirei a recuperarlo senza sentire la sua voce.
- Sì, be’, grazie, anche io preferirei essere in vacanza su qualche isola tropicale! – protestò David, stringendosi maggiormente contro Tom mentre i militari si avvicinavano lentamente, con cautela, per evitare di spaventarli troppo, - Ma purtroppo sono qui, perciò trova un modo per risolvere la situazione.
- È facile per te parlare! – protestò lui, mentre Larsen sogghignava soddisfatto a qualche metro di distanza, le braccia incrociate sul petto, - Non è sicuro, non posso combattere finché— - si interruppe, guardando il vuoto per qualche secondo prima di lasciarsi andare ad un sorriso furbo. - …finché siete qui. Ma non ci resterete per molto. – concluse, e così dicendo si voltò repentinamente verso di loro, facendosi scudo con le proprie ali. – Reggetevi! – urlò quindi, afferrandoli entrambi per le spalle ed assicurandosi che avessero fatto girare le braccia attorno alla propria vita prima di scaraventarsi contro l’enorme vetrata sulla parete di fronte a lui come un proiettile impazzito, infrangendola e proteggendo David e Tom con le proprie ali dalle schegge di vetro mentre si librava appena nel cielo di Berlino prima di gettarsi in picchiata verso la strada ai piedi dell’edificio.
- Merda! – urlò Larsen, - Di sotto, di sotto!
Anis lo sentì ed accelerò il proprio volo, ritrovandosi in pochi secondi abbastanza vicino alla strada da poter lasciare andare David e Tom, rimanendo a volteggiare a mezz’aria.
- Scappate. – disse, - Troviamoci—
- No. – lo interruppe David, prendendo Tom per mano mentre il ragazzo si irrigidiva al solo tocco delle sue dita, - Quando avrai finito, precedici. Io e Tom arriveremo attraverso le fogne, abbiamo— - si voltò a lanciargli uno sguardo incerto, e Tom fissò il proprio altrove, mordendosi l’interno di una guancia. – Abbiamo bisogno di parlare. – concluse.
Anis annuì, sollevandosi in volo senza aspettare un minuto di più. Una volta rientrato all’interno dell’edificio attraverso la finestra che aveva sfondato, vide che solo Larsen era rimasto all’interno della stanza, e pregò perché David e Tom fossero riusciti a nascondersi in tempo per non farsi trovare dai militari.
- Sapevo che saresti tornato, fenice. – lo salutò Larsen con un cenno del capo ed un sorriso, - Mi sorprende l’ostinazione con la quale continui a batterti contro un destino già scritto. – commentò con stupore non simulato, - Ciò che deve accadere accadrà comunque, e questo tu lo sai, lo senti, non può essere diversamente, vista la tua natura. Non puoi vincere questa battaglia, fenice. Semplicemente non puoi.
Anis sorrise, sollevando una mano e lasciando fluire l’energia fino a vedere rosso e sentir bruciare ogni centimetro del proprio corpo.
- Forse no. – disse quindi, sorridendo divertito, - Ma posso farti dannatamente male nel mentre.
*
- Forse – provò David, voltandosi indietro a guardare e tendendo le orecchie per cercare di captare anche il più minuscolo suono di passi, - Forse possiamo fermarci un po’. – ansimò pesantemente, rallentando la corsa fino a fermarsi e piegandosi su se stesso, poggiando le mani sulle ginocchia e provando ad inspirare ed espirare con calma. – Devono aver smesso di seguirci, li avranno richiamati indietro alla Santa Sede. – ipotizzò incerto, osservando con la coda dell’occhio Tom infilarsi rapidamente in una rientranza del tunnel e poi sedersi sul pavimento, la testa fra le mani. Lo seguì, sedendosi al suo fianco e fissando di fronte a sé, concedendosi solo raramente il lusso di lanciargli un’occhiata, giusto per controllare che fosse ancora lì con lui.
- Questa cosa è così assurda. – mormorò Tom, gli occhi fissi sul pavimento lurido, - Sembra uno di quei documentari di History Channel, uno di quelli in cui qualche pazzo raduna un gruppo di deficienti e poi li porta in una casupola abbandonata nel mezzo della giungla selvaggia e li convince a suicidarsi bevendo pipì di scimmia o chessò io.
- Tom, dubito fortemente che la pipì di scimmia sia mortale. – disse lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
- Non è quello il punto! – sbottò Tom, voltandosi a guardarlo con aria offesa, - Hai capito cosa intendevo.
David sorrise, sollevando un braccio ed avvicinando una mano alla sua testa, ma la ritrasse immediatamente, come si fosse scottato. Tom se ne accorse, ed una delle sue mani scattò ad afferrarlo per il polso, conducendo la sua mano finché non giunse dove voleva arrivare fin da principio.
- Toccami. – disse, e chiuse gli occhi mentre David lo accarezzava piano, - Cioè… - aggiunse con evidente imbarazzo, - puoi farlo. Non mi arrabbierò più.
- …Tom, io—
- Io – lo interruppe Tom, stringendo con più forza le dita attorno al suo polso, quasi guidandolo in una carezza più lenta e morbida lungo il suo collo, - Io sono sempre stato innamorato di Bill. – confessò a mezza voce, - Fin da quando riesco a ricordare, capisci? Per me, nel mondo intero, non c’era altro. Era come se fossi nato solo ed esclusivamente per… riuscire a stare con lui, un giorno. E per quanto fosse assurdo— Dio, in fondo è di mio fratello che stiamo parlando. Ma per quanto fosse assurdo io pensavo davvero che alla fine sarei riuscito a vincerlo. Come un principe o un eroe dei cartoni animati, non lo so.
David se lo tirò contro, facendogli spazio fra le gambe e lasciandolo appoggiare con la schiena al suo petto.
- Be’, non hai ancora perso le speranze, no? – cercò di dargli coraggio, appoggiando il mento sulla sua spalla e trattenendosi a stento dall’inspirare con forza il suo odore. – Magari alla fine nonostante tutto la principessa—
- No, ecco. – rise Tom, scuotendo il capo, - Lo vedi che non capisci? Io non sono un principe e Bill non è una principessa e non è neanche l’unica cosa esistente nel mondo. – spiegò con decisione, - È una delle tante cose che mi piacerebbe salvare, ma non è l’unica. È una delle tante cose che ho, ma non è l’unica. Lui non… - inspirò profondamente, guardando fisso di fronte a sé nel buio del tunnel , - lui non è tutto il mio mondo, non è l’unica cosa che posso sperare di ottenere dalla mia vita. Non è la ragione per cui esisto. Io sono la ragione per cui esisto.
David sorrise, percependo chiaramente il brivido che corse lungo il collo e la schiena di Tom non appena sentì il suo sorriso premere contro la pelle.
- Sei cresciuto così tanto. – disse dolcemente, - Quando è successo?
- Mentre non guardavi. – rispose lui, - O mentre fingevi di ascoltarmi per ripetermi la lezioncina preimpostata che ti aveva insegnato Larsen, forse.
- …Tom, io non—
- Lo so. – lo fermò con un sospiro, chiudendo gli occhi e rilassandosi di nuovo contro il suo petto, - So che posso fidarmi di te, in qualche modo so che potevo farlo anche prima, solo che… se solo tu mi avessi ascoltato meglio, quando venivo a parlarti, avresti capito che…
David si tese immediatamente, e la tensione dei suoi muscoli sembrò quasi passare direttamente in quelli di Tom, che si tesero tutti a propria volta.
- Che…? – lo invitò a proseguire, la voce incerta.
- Che io non ho mai… - deglutì Tom, rifiutandosi di guardarlo, - che io non ho mai visto quante altre possibilità avevo. Ed era per questo che le rifiutavo a priori.
David deglutì a fatica, stringendo impercettibilmente la presa attorno alle sue spalle larghe ma esili – così esili, come quelle di suo fratello, spalle che non dovrebbero mai portare pesi simili, spalle che non avrebbero mai dovuto portare pesi simili se solo lui avesse potuto prendersene cura, in una situazione diversa, in un mondo diverso, in una vita diversa – per poi lasciarlo andare quasi di scatto e rimettersi in piedi.
- Dovremmo riprendere il viaggio. – disse, ricominciando a camminare senza voltarsi a guardarlo. Se l’avesse fatto, avrebbe visto Tom restare seduto qualche secondo in più di lui, la bocca dischiusa e gli occhi persi sulla sua figura familiare, inumidirsi le labbra come volesse provare a dire qualcosa e poi lasciare perdere, abbassando lo sguardo e rimettendosi a propria volta in cammino.
*
L’espressione del viso di Jörg Kaulitz, nell’aprire la porta e trovarsi di fronte Bill accompagnato da Patrick e Peter, non era riuscita a mascherare il suo stupore profondo nonostante la signora Silvia l’avesse avvisato immediatamente via mail del loro imminente arrivo. Era rimasto immobile, una mano sullo stipite e l’altra sulla porta, osservandolo come fosse la prima volta che gli posava gli occhi addosso, cosa che ovviamente non era possibile, essendo Bill rimasto quasi continuamente in tv, in radio e su svariati cartelloni pubblicitari in giro per tutta la Germania prima e tutto il mondo poi, per la gran parte dei suoi ultimi cinque anni di vita.
- …entrate. – aveva detto quindi, ritrovando compostezza e schiudendo l’uscio per lasciarli passare, - Sono stato avvertito della vostra situazione. Qui sarete al sicuro, nessuno sa dove mi trovo.
Bill s’era guardato intorno con aria incerta, mentre Patrick ispezionava prudentemente l’abitazione e Peter si dirigeva spedito in cucina incaricandosi – senza che nessuno gliel’avesse chiesto – di preparare da mangiare per tutti.
- Be’… ciao. – aveva detto quindi, voltandosi a guardarlo e sorridendogli un po’. – Non ci vediamo da tanto.
Jörg sorrise a propria volta, avvicinandosi quasi con cautela.
- Da troppo. – lo aveva corretto, - Posso abbracciarti? L’ultima volta che l’ho fatto eri così piccolo che mi stavi quasi in una mano.
Bill aveva ridacchiato imbarazzato, spostando il peso da un piede all’altro e scostando dal viso una ciocca di capelli.
- Puzzo da morire… - si era giustificato, stringendosi nelle spalle.
- Al momento è l’ultima cosa che m’importi. – aveva insistito Jörg, avvicinandosi di un altro passo.
- Ma non pensi che sarà strano? – aveva continuato Bill, agitandosi appena, - Voglio dire, è— io non ricordavo nemmeno il tuo volto, e—
- Bill. – lo aveva interrotto suo padre, fermandosi a pochi centimetri da lui, - Posso abbracciarti?
Bill gli aveva sollevato addosso uno sguardo perso e colmo di lacrime, e s’era morso un labbro.
- Sì. – aveva risposto, annuendo debolmente, - Sì, ti prego. Fallo.
Suo padre l’aveva stretto a lungo, immobile in mezzo all’ingresso, le sue mani grandi serrate attorno alle sue spalle ed il petto ampio contro cui nascondere il viso. Bill amava pensare di essere riuscito a venire su perfettamente anche se suo padre non era stato che una presenza fugace assente in quasi tutti i momenti veramente importanti della sua vita, ed era vero, ma stretto fra le sue braccia non poteva impedirsi di realizzare quanto intensamente una presenza simile gli fosse mancata, e quanto forse sarebbe stato tutto più facile se lui ci fosse stato più spesso. Se gli fosse stato permesso di esserci più spesso.
Jörg lo aveva presto condotto al piano di sopra, all’interno di una stanza quasi del tutto sgombra ma con una brandina approntata alla bell’e meglio sotto la finestra, le lenzuola pulite e già ripiegate su un angolo, pronte ad accoglierlo.
- Riposati. – gli aveva detto, stringendogli una spalla fra le dita con aria rassicurante, - Le prossime ore non saranno semplici, per te.
- Non posso dormire… - aveva risposto lui, inquieto, - Come faccio se succede qualcosa?
- Non succederà niente. – l’aveva rassicurato Patrick, passando davanti alla porta e sorridendogli deciso, - Veglieremo noi su di te. E quando ti sarai svegliato, il nano di sotto avrà finito di preparare cene per due eserciti, e potrai ingozzarti come devono fare tutti i ragazzini della tua età.
- Fler! – l’aveva chiamato Peter dal piano terra, - Allora, queste patate non si peleranno certo da sole!
- Arrivo… arrivo! – aveva sospirato lui, scendendo velocemente le scale. Bill aveva ridacchiato piano, gli occhi già pesanti, e suo padre l’aveva baciato dolcemente su una tempia prima di chiudere la porta e lasciarlo solo.
*
Si risvegliò molte ore dopo. Fuori dalla finestra, il sole stava per tramontare, e tutta la stanza era immersa in una nuvola di luce aranciata che rendeva i contorni delle cose molto più scuri e irreali di quanto non fossero. Anis stava seduto sul letto accanto a lui, le ali chiuse e ripiegate in modo da non dargli troppo fastidio, e gli accarezzava i capelli. Dalle sue scapole, il sangue scendeva lungo le braccia in rivoli sottili sempre vivi. Aveva macchiato tutte le lenzuola.
- Ho combinato un disastro. – disse sorridendo, - Tuo padre mi massacrerà.
- Anis! – lo chiamò lui, scattando a sedere e gettandogli le braccia al collo, - Dio… sei ferito? Quando sei arrivato?
- Calmati… - rise lui, stringendolo alla vita, - Non sono ferito, e sono arrivato una mezz’oretta fa.
- E perché non mi hai svegliato? – chiese lui, sbuffando platealmente, - Avrei potuto—
- Volevo restare un po’ solo col tuo bel visino senza la compagnia del tuo fastidioso chiacchiericcio. – rispose lui ridendo e guadagnando in risposta uno scappellotto sulla nuca, - Tu stai bene?
- Ma certo che sto bene, non ho due ali che mi spuntano dalle scapole, io. – sbottò Bill, gonfiando le guance ed incrociando le braccia sul petto. Le sciolse immediatamente, però, tornando ad accucciarsi contro di lui il secondo successivo, - Dov’è David? – chiese preoccupato, mentre Anis tornava ad accarezzargli i capelli.
- Tuo fratello era un po’ scosso, - rispose lui, - ha chiesto un po’ di tempo da soli. Dovrebbero essere in arrivo nel giro di un’ora, immagino.
Bill annuì, deglutendo a fatica prima di fare la domanda successiva.
- Larsen? – si rassegnò a chiedere infine, stringendo le mani a pugno attorno alla maglietta sporca e stropicciata di Anis.
- Morto. – rispose lui, gelido. – Mi dispiace.
Bill sospirò, allontanandosi di qualche centimetro.
- Immagino andasse fatto. – rispose, - Ci sono un sacco di cose che vanno fatte, ancora.
Anis gli accarezzò lentamente una guancia, lasciando sulla sua pelle una traccia di rosso già un po’ sbiadita.
- Ti ho—
- Non importa. – lo interruppe Bill con un sorriso.
Anis sospirò, chinandosi a baciarlo lentamente sulle labbra.
- Bill, io non devo dirti proprio niente. – disse quindi, poggiando la fronte contro la sua, - Quello che devi fare lo sai già.
Bill rise amaramente, sporgendosi a catturare le sue labbra in un altro bacio appena accennato.
- In realtà no. – rispose, - So quello che dovrei fare, ma non è esattamente la stessa cosa.
- No, non lo è. – annuì Anis, scivolando sul materasso fino a poterlo stringere più disinvoltamente fra le braccia. – Mi mancherai. – disse, baciandogli la fronte, le guance, la punta del naso, - Mi mancherai da morire.
- Non sai quello che farò. – disse Bill, stringendosi a lui e chiudendo gli occhi, - Non sai se andrò da Tomi.
- Saresti così irresponsabile? – chiese lui, lasciandogli scivolare la maglia sopra la testa.
- Non lo so. – sospirò Bill, agevolando i suoi movimenti sollevando le braccia, - Non mi sono mai ritrovato in una situazione simile, prima d’ora. – aprì gli occhi all’improvviso, piantandoli nei suoi. Erano lucidi, ma incredibilmente brillanti e presenti. – Posso solo giurarti che, qualsiasi decisione prenderò, la prenderò con la certezza che non dovrò pentirmene.
Anis sorrise, stendendolo sul materasso e sfibbiandogli i pantaloni. Bill sollevò il bacino per agevolarlo mentre glieli lasciava scorrere lungo le gambe, e sorrise divertito, sistemandosi meglio contro il cuscino e schiudendo le cosce per accoglierlo meglio quando lui si liberò celermente dei propri abiti, strappandosi letteralmente di dosso la maglietta ormai ridotta quasi a brandelli.
- Cos’è quel sorrisetto? – chiese Anis, chinandosi su di lui e sfiorandogli le labbra con un bacio, - Sei un ragazzino impertinente.
- Anis, cosa stiamo facendo? – rise lui, sollevando le braccia ed allacciandolo al collo per tenerlo più vicino possibile a sé, - Di fuori c’è la fine del mondo e noi scopiamo?
Anis rise a propria volta, sfiorando la sua apertura con la punta della propria erezione e baciandolo profondamente, quasi a distrarlo, nel momento in cui entrò dentro di lui con una spinta secca.
- Non riesco ad immaginare momento migliore. – rispose divertito, mentre Bill rideva ancora fra le sue labbra.
Accarezzò con devozione ogni centimetro del suo corpo, senza smettere di baciarlo neanche per un secondo. La sua mano scese lenta lungo il suo fianco, pressandosi per bene contro la sua pelle, come a voler lasciare l’impronta dei propri polpastrelli. C’era così tanto sangue sulle lenzuola, così tanto sangue sul suo corpo che cadeva come pioggia su quello di Bill. Minuscole gocce di ciò che c’era di più profondo in lui, della sua vita stessa, scivolavano lentamente lungo i suoi fianchi, lungo le sue braccia, e si posavano sui fianchi e sulle braccia di Bill, sul suo viso, sul suo ventre, scendendo giù fino a disegnare sul materasso la sagoma sottile del suo corpo. Anis sperò che quello potesse essere un modo come un altro di dargli forza. La sua forza. Sperò di riuscire a trasmettergliela, anche solo in parte, almeno così.
Quando sentì di essere vicino all’orgasmo, mormorò il suo nome fra le labbra e lo tirò su da sotto le ascelle, come un bambino piccolo, sistemandoselo in grembo e spingendosi con forza dentro di lui. Bill piangeva e rideva e gli sussurrava che lo amava da morire, e si aggrappò con forza alle sue spalle, in preda alle vertigini, quando lo sentì venire dentro di sé spalancando le ali, brillanti e rosse e gialle come lingue di fuoco, e pochi secondi dopo venne a propria volta nella stretta decisa delle sue dita.
- Sei così bello. – singhiozzò Bill contro la sua spalla, le mani imbrattate di sangue e gli occhi chiusi con tanta forza da sembrare due fessure bistrate di nero ormai quasi sbiadito, - Sei bellissimo e io ti amo così tanto. – pianse ancora, incapace di controllare le risate che continuavano a scuoterlo tutto, tanto che Anis non riusciva proprio a capire se fosse disperatamente felice o disperatamente triste, o fosse semplicemente impazzito del tutto. – Sono felice che tu sia mio, Anis, sono così felice che tu sia mio.
Anis gli ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, baciandolo su una tempia e richiudendo le ali attorno al suo corpo.
- Anche io sono felice di essere stato tuo, Bill. – sussurrò piano, cullandolo dolcemente. Bill non rispose, e si limitò a stringerlo con più forza, cercando di imporsi di smettere almeno di piangere.
*
- Sta per arrivare un temporale. – disse Patrick, passando l’insalata di patate a Jörg, - Gradisce?
- Come fai a dirlo? – chiese Peter, mentre il signor Kaulitz riempiva abbondantemente il proprio piatto e poi faceva girare l’insalatiera attorno al tavolo, - Non hai nemmeno guardato di fuori.
- Lo sento, no? – scrollò le spalle lui in risposta, mangiando lentamente, quasi con attenzione.
- L’evoluzione procede, ora mi diventi un cane. Perché non lo sei diventato quando eravamo nelle fogne e quel terremoto ha buttato giù mezzo tunnel rischiando di schiacciarmi mentre cercavo di salvare Bill da morte certa? Avresti potuto percepirlo in anticipo ed avvertirmi.
- Tu sei un deficiente. – lo apostrofò Patrick, tirandogli uno scappellotto sulla nuca mentre Anis ridacchiava sommessamente e Bill restava trincerato nello stesso silenzio quasi autistico che l’aveva accompagnato da quando lui ed Anis erano scesi dal piano di sopra per unirsi alla cena, - Non sto diventando un cane, è solo che riesco a sentire l’acqua che si avvicina. Guarda. – disse quindi, sollevando una manica della felpa. La pelle del suo braccio era ricoperta di minuscole goccioline simili a condensa. – Toccala pure.
- Sarà mica velenosa? – chiese Peter, osservando curiosamente le goccioline mentre alcune di esse si gonfiavano e scivolavano lungo la linea curva del suo avambraccio, inumidendo la tovaglia sotto.
- È acqua, cretino. – sbottò Patrick, sfiorando le goccioline con un dito e ficcandoglielo in bocca per dimostrargli senza ombra di dubbio la verità delle proprie affermazioni. – Visto?
- …ma tu sei tutto scemo! – strillò Peter, tirandogli un mezzo pugno nel centro della fronte, - No, dico, e se fosse stata velenosa? Mi avresti ammazzato senza un ripensamento!
- Ma sapevo che non lo era! – obiettò Patrick, gesticolando animatamente con una mano e massaggiandosi la fronte con l’altra, - Pensi che avrei messo a rischio la tua vita in questo modo?
- Be’, nelle fogne non mi hai avvertito del terremoto in avvicinamento, quindi sì. – considerò lui, incrociando le braccia sul petto.
- Sono un dragone, non una talpa! – precisò Patrick, esasperato, - Sento i movimenti dell’acqua, mica quelli della terra!
Sul sottofondo del loro litigio, Anis si voltò a guardare Bill e, trovandolo incupito, smorzò il sorriso che gli piegava le labbra.
- Ehi. – lo chiamò piano, lasciando scivolare una mano sopra la sua. Era ghiacciata. Tentò di scaldarla. – Ehi, Bill.
Lui non diede segno di averlo sentito, ed Anis si voltò a cercare Jörg con gli occhi. L’uomo ricambiò il suo sguardo e si ripulì velocemente le labbra con un tovagliolino, prima di chinarsi a poggiare la propria mano sulla spalla di Bill, scuotendolo lievemente.
- Bill, è tutto a posto? – chiese. Bill sollevò gli occhi nei suoi, guardandolo con aria persa, come si fosse svegliato solo in quel momento.
- Ho bisogno di sapere dov’è Tomi. – disse, senza rispondere alla domanda, mentre la mano di Anis si allontanava dalla sua, - Sono inquieto, non riesco a capire dov’è.
- In genere ci riesci? – gli chiese Jörg con un sorriso indulgente. Bill si strinse nelle spalle.
- Non è che sappia sempre individuare le coordinate esatte del luogo in cui si trova, - rispose incerto, - ma riesco quasi sempre a sentire che è lì, da qualche parte. È una certezza che mi consola. Adesso però lo sento così lontano e trasparente, come si stesse volatilizzando… - sollevò una mano e la guardò a lungo da ogni lato, quasi si aspettasse di vederla diventare trasparente sotto i suoi stessi occhi. – Sta vacillando, riesco a sentirlo.
- Cosa sta vacillando? – chiese Jörg, inarcando un sopracciglio.
- Non lo so… - sospirò Bill, tornando ad abbassare la mano, - Lui. Io. Quello che siamo. – inspirò profondamente, come stesse provando un dolore troppo forte e temesse di non riuscire più a respirare, - Non mi sono mai sentito così, mi si spezza il cuore.
Il borbottio di Peter e Patrick si fece sempre più basso, fino a scomparire del tutto. Anis, immobile al fianco di Bill, si stava mordendo l’interno una guancia con tanta forza da sentire il sapore del sangue sulla lingua.
- Bill— - provò a chiamarlo suo padre, ma Bill scattò in piedi come se l’avessero sfiorato con un tizzone ardente.
- Lui l’aveva promesso. – mormorò fra sé assente, come si trovasse in un altro luogo e in un altro tempo, - Noi non ci saremmo disintegrati. Ed invece sta succedendo, e io non so dov’è. E non potrò salutarlo. E il mondo finirà senza che io possa toccarlo ancora e— - si piegò su se stesso, ansimando disperatamente e portando una mano alla gola, - Non riesco a respirare.
- Bill. – scattò subito in piedi Anis, e fu al suo fianco in meno di un secondo. – Bill, cosa—
- Stammi lontano, non mi toccare! – strillò lui in un rantolo esausto, - Non respiro, non respiro, devo— devo uscire!
- Bill, fermati. – disse Patrick, frapponendosi fra lui e la porta, - Può essere pericoloso, fuori.
- Devo uscire. – ripeté lui, muovendosi a fatica, appoggiandosi ai mobili, - Ti prego, lasciami uscire. Devo farlo.
Patrick cercò gli occhi di Anis, e quando li trovò vi lesse la consapevolezza di un momento che stava cercando stupidamente di ritardare all’infinito, nonostante sapesse che prima o poi sarebbe arrivato.
- Lascialo andare. – disse piano, - Credo sia ora.
Patrick si scostò dall’uscio, mentre Peter gli si affiancava e si preparava a seguire Bill dovunque fosse andato, come sembrava intenzionato a fare anche Anis stesso, assieme al signor Kaulitz. Bill schiuse la porta ed uscì fuori dall’abitazione, lanciando un’occhiata stanca al cielo scuro e gonfio di nuvole e pioggia. Rimase col naso puntato per aria finché non sentì le prime gocce bagnargli la pelle, e allora chiuse gli occhi e sorrise sereno, come improvvisamente sollevato da un peso.
- Eccoti… - mormorò a bassa voce, restando immobile.
Anis, dietro di lui, aggrottò le sopracciglia e venne presto catturato da un movimento appena percettibile delle spighe nel campo ad un paio di decine di metri da loro. Spalancò gli occhi quando riuscì ad identificare le sagome delle due persone che si stavano avvicinando.
- È Tom. – mormorò Jörg, riconoscendo il figlio, - Con Jost.
David corse velocemente fino a loro, fermandosi solo quando li ebbe raggiunti.
- Sta accadendo. – disse trafelato, - Metà rete fognaria è completamente distrutta, la città sta collassando su se stessa. Ben presto tutto il resto del mondo la seguirà a ruota, se non… - si voltò indietro, cercando Tom con una mano, e non si stupì poi così tanto quando vide che il ragazzo s’era fermato parecchi metri più indietro, perfettamente di fronte a Bill. Una crepa si aprì nel terreno nei pochi centimetri che li separavano, e s’allargò velocemente al punto da creare un piccolo cratere quasi perfettamente circolare, costringendo entrambi ad indietreggiare prudentemente.
- Tomi. – mormorò Bill, incerto. Gli tremavano le labbra.
- Lo so. – rispose lui, irrigidendo le braccia lungo ai fianchi per resistere all’impulso di lasciarle scattare a stringerlo, - Bill, tutto questo non è reale. – disse piano, - È una cosa che ci hanno messo in testa.
- Tomi, nessuno mi ha messo in testa un accidenti di niente! – disse lui, gli occhi che si riempivano di lacrime, - Ho il cuore che scoppia, non mi sono mai sentito così! Mi fa male tutto!
- Billi, ti prego. – cercò di fermarlo Tom, la voce rotta. A qualche metro di distanza, Anis cominciò a respirare con fatica sempre maggiore, mentre Patrick si voltava a guardarlo con aria spaventata.
- Cosa gli prende? – chiese Peter, incerto. Gli occhi di Patrick brillarono di un azzurro più intenso che mai, solo per un secondo.
- Sta cambiando. – rispose a mezza voce.
- Tomi, questo sta succedendo. – disse Bill, allargando le braccia come a comprendere in un solo gesto la rovina dell’intero pianeta, - Non è un’invenzione e non è un’illusione, sta crollando tutto e noi dobbiamo—
- Noi dobbiamo – sorrise Tom, guardandolo dolcemente negli occhi, - fare solo ed esattamente quello che vogliamo.
Bill si morse un labbro. Dietro di lui, a qualche metro, Anis inspirò ed espirò a fatica un’ultima volta e poi schiuse le ali all’improvviso, tanto che tutti coloro che aveva intorno per poco non ne furono colpiti.
- Cosa— - mormorò Jörg, caduto per terra nel cercare di evitare le ali di Anis, rialzandosi in piedi per seguirlo, - Dove sta andando? Bushido! – lo richiamò, ma David lo fermò piantandogli una mano sul petto ed osservando il suo movimento lento e deciso con curiosità e paura.
- Billi, tu per cosa vivi? – chiese. Suo fratello dischiuse le labbra, pronto a rispondere con la prima cosa che gli fosse venuta in mente – il suo nome – ma Tom lo fermò con un gesto deciso. – Hai vissuto tutta la tua vita per salvare il mondo? Per— per venire via con me chissà dove, per sparire per sempre, per diventare un dio? – sospirò, - Io no. Io ho vissuto perché mi piacevano le ragazze, perché volevo diventare famoso, perché volevo suonare in tutto il mondo, perché ti amavo da impazzire, Billi, ma non volevo scomparire, non volevo che amarci fosse un obbligo. Ho vissuto per la mamma, ho vissuto per i miei meravigliosi sandwich, per la pizza, per la Wii, ho vissuto perché volevo essere felice, ho vissuto perché volevo essere.
Lentamente, di fronte a lui, Bill si mise a piangere, in silenzio.
- Tomi… - singhiozzò piano. – Io non—
- Se tu hai vissuto tutta la tua vita per scomparire oggi, Bill, se hai vissuto per scomparire assieme a me, io ti seguirò, perché ti amo, perché sei mio fratello e perché voglio che tu sia felice. Ma se non è per me che hai vissuto fino ad adesso, non è nemmeno per me che devi morire.
Bill deglutì a fatica, le labbra tanto strette da sembrare un’unica linea dritta a tagliargli il volto, come una ferita. Mosse un passo in avanti verso il cratere che lo separava da suo fratello, poi ancora un altro, e poi le sue labbra si schiusero, ed i suoi occhi tornarono asciutti.
- Scusami. – sussurrò pianissimo, prima di voltarsi repentinamente. Anis era lì, a qualche passo da lui, braccia ed ali dischiuse.
- Bill. – lo chiamò, la voce rotta, - Ti prego. – anche se non avrebbe saputo nemmeno lui dire per che cosa lo stesse pregando.
Bill sorrise, muovendosi verso di lui prima lentamente, poi sempre più velocemente, fino a correre. Quando si lanciò fra le sue braccia, lo fece con una forza tale che Anis quasi vacillò.
- Io ti amo. – disse, lasciandosi sollevare in volo mentre si protendeva a baciarlo sulle labbra, - Ti amo da morire e sono tuo ed ero tuo e sarò tuo, qualunque cosa succederà. La mia metà della mela sei tu.
Anis gli sorrise, stringendolo a sé e richiudendo le ali attorno al suo corpo. La terra tremò con violenza appena i piedi di Bill se ne allontanarono, e il cielo di aprì in uno squarcio luminoso di fulmini e tuoni assordanti nel momento esatto in cui dai loro corpi si sprigionò una luce talmente abbagliante da investirli tutti e costringere gli altri a chiudere gli occhi e schermarsi il viso, per non esserne accecati.
Scomparve solo molti secondi dopo, assieme al brontolio sempre più soffuso della terra e del cielo. Quando David riaprì gli occhi – per primo rispetto a tutti gli altri – vide che le crepe e i crateri che avevano martoriato la terra fino a pochi secondi prima erano del tutto scomparsi, così come i nuvoloni che appesantivano il cielo. Stelle e luna rischiaravano appena l’ambiente, Patrick era tornato normale sotto lo sguardo allucinato di Peter e Tom era seduto per terra da solo, con gli occhi spalancati, a pochi metri dal punto in cui Bill ed Anis erano scomparsi.
Sentì l’impulso di ridere, e non riuscì a trattenerlo.
- Lo sapevo, - disse scattando in piedi e correndo verso Tom. – lo sapevo che i divini non potevano essere forzati! Lo sapevo che doveva essere una loro scelta! – si chinò accanto a lui, porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi mentre Jörg, Peter e Patrick lo raggiungevano celermente.
- Di cosa diavolo stai parlando? – chiese quest’ultimo, ancora incerto sulle gambe a causa del proprio repentino cambiamento.
- Ma non capite?! – disse David, entusiasta, gesticolando animatamente, - Le due metà perfette non sono nate assieme, si sono ritrovate poi! Meglio ancora: si sono scelte! Questa cosa è— è incredibile! – rise, - È vero, noi creiamo i nostri dei, noi siamo i nostri dei. Larsen non l’aveva capito davvero, ma ora io sì. – e così dicendo, si voltò a guardare Tom, che lo fissava allucinato, comprendendo ad occhio e croce solo una parola ogni tre che pronunciava. Allungò le mani a coppa ad accarezzargli il viso rigato di lacrime ormai quasi asciutte, e si sporse in avanti a sfiorargli le labbra in un bacio umido e salato. – La metà della mia mela sei tu. – gli disse piano, sorridendo sereno, - È ancora tuo diritto scegliere se io posso essere la tua.
Tom schiuse la labbra, incerto. Le mosse impercettibilmente per un paio di secondi, come non riuscisse a trovare le parole e stesse cercando di plasmarle con le proprie labbra senza fermarsi a pensarle prima, e quando capì che non ci sarebbe mai riuscito lasciò andare un respiro profondissimo, come non avesse fatto altro che trattenerlo da che era venuto al mondo, e gli gettò le braccia al collo, stringendosi a lui e baciandolo affamato, gli occhi chiusi e le risate intenerite di David che si perdevano a tratti in mezzo ai suoi gemiti tristi e felici e impauriti e dannatamente completi.
Jörg rise, piantando una mano sul fianco e passandosi l’altra sugli occhi. Di Bill ed Anis non era rimasta traccia, e questo era un argomento che prima o poi avrebbero dovuto affrontare, ma il momento non sembrava quello opportuno.
- Sarò in casa, quando loro due avranno finito di… di trovarsi, suppongo. – ridacchiò a bassa voce, avviandosi verso l’abitazione.
- Qui si baciano tutti. – borbottò Peter, incrociando le braccia sul petto, - Se penso che io sono qui solo perché tu avevi bisogno di qualcuno con cui parlare, mi sale un nervoso che non ti dico.
Patrick si voltò a guardarlo, inarcando un sopracciglio con aria dubbiosa.
- Se pensi che anch’io ti bacerò, sei completamente fuori strada. – notificò atono, come stesse parlandogli della data di scadenza di una bolletta.
- Ma chi ti vuole baciare?! – strillò istericamente Peter, dandogli le spalle e muovendosi celermente per raggiungere Jörg, ormai già quasi arrivato a destinazione, - Ma vedi tu se— Ah, mamma, quanto ti farò pagare tutto questo, quanto! Non ne hai nemmeno idea. Pranzi e cene a casa tua per almeno sei mesi!
Patrick sorrise divertito, inumidendosi le labbra e facendo per andargli dietro. Si fermò all’improvviso, voltandosi verso Tom e David ancora presi dal bacio, e si schiarì la voce.
- Noi penso che, uhm… - cominciò incerto, - …ma non credo vi interessi. – concluse con una mezza risata, prima di lasciarli lì ed allontanarsi. Ed aveva ragione. A loro non interessava.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia, Drammatico.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVISI: Angst, Slash, Violence.
- "Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto."
Note: Mi rendo conto dell'assurdo del cominciare una nuova parte di questa saga con uno spin-off, ma per motivi logistici siamo riuscite a organizzarci solo così XD Oltretutto, immagino che tutte voi (?) foste molto impazienti di sapere cosa fosse successo al povero David. Ed ecco che lui, pronto, risponde. Partendo dal Big Bang, ma risponde.
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IL GIORNO IN CUI SONO MORTO

Se dieci anni fa, quando ho cominciato ad interessarmi di produzione e composizione di canzoni, mi avessero detto “guarda che questo mestiere sarà il motivo per cui, in un giorno non molto lontano e ancora nel fiore dei tuoi anni, tirerai le cuoia”, ci avrei riso su. Davvero. Tutti i mestieri che avevo fatto, perfino il breakdancer e il cantante in una boyband, sembravano decisamente più pericolosi di quanto non potesse sembrare restare dietro le quinte a comporre canzoni per gente varia ed eventuale. Perfino svegliarsi al mattino, scendere dal letto e prepararsi il caffè sembrava più pericoloso. Potevi scivolare sulle ciabatte, per dire. O scottarti con la caffettiera. A scrivere canzoni e produrle cosa poteva accaderti? Potevi pungerti con la penna? Poteva venirti un crampo alla mano dopo aver passato ore al computer a modulare voci stonate per farle sembrare meno raccapriccianti di quanto fossero al naturale? Che gran pericoli! Che rischi!
Nel tempo, naturalmente, le cose sono un po’ cambiate, come alla fine cambia tutto, che tu gliene dia la possibilità o meno. Quello del cambiamento è un deprimente destino che ci accomuna tutti, l’unica cosa nella quale in effetti la vita non faccia differenza a seconda di chi va a colpire. Vedete il mio viso, ad esempio? Vedete queste piccole rughe attorno agli occhi, segni del tempo che non è stato possibile cancellare neanche a furia di badilate di creme molto più costose di quanto non possa per decenza rivelare? Ecco, queste stesse rughe assumeranno magari meno fascino su qualcun altro, ma ci saranno. Ci saranno sul viso di un ragazzino che per ora ha tredici anni, e quando arriveranno saranno uguali a quelle dell’uomo sul viale nel tramonto che magari ne ha sessantacinque. E quindi, come è cambiata la mia fisionomia, la grana della mia pelle, il colore dei miei capelli, è cambiato anche il modo che avevo di vedere determinate cose. Più che altro, c’è da ammetterlo, a causa dei Tokio Hotel.
Cinque, ormai quasi sei anni fa, io e Dave, che è un uomo che ormai mi sopporta da molto tempo, nonché l’esempio perfetto di come dovrebbe essere un omosessuale al giorno d’oggi, quando invece io sono circondato solo da checche in mezzo al gruppo delle quali certe giornate sento di poter prendere posto con fin troppa disinvoltura, fummo mandati dalla Universal a Loitsche. Le prime reazioni – di entrambi, peraltro, ai tempi giovani e pieni di possibilità – furono di sconforto. Perché ci mandavano a Loitsche? Cosa c’era, a parte i campi di patate, la campagna e il vuoto cosmico?
Saltò fuori che invece in quel buco dimenticato da Dio c’era un diamante grezzo dal valore inestimabile. Quattro ragazzi che si volevano bene, erano amici davvero, suonavano insieme e volevano divertirsi. Quattro ragazzi in mezzo ai quali si trovava Bill Kaulitz, e Bill era già Bill allora, credetemi. Forse un po’ più spettinato, coi denti un po’ più storti e con addosso vestiti meno costosi, ma Bill comunque.
È stato allora che tutto ha cominciato a cambiare. Improvvisamente la questione non era più circoscritta allo scrivere canzoni o a produrle o ad avere un rapporto di tipo lavorativo con un cantante, no. Io avevo quattro ragazzini da gestire, quattro ragazzini che mi erano stati affidati dalle rispettive madri apprensive e, in certi casi – in tutti i casi, cioè, che non fossero Simone – anche piuttosto diffidenti, e dovevo gestirli in casa mia, a stretto contatto con me, all’interno di spazi che, fino a quel momento erano stati solo miei.
Improvvisamente, il pericolo del mio lavoro mi si palesava in tutta la sua raccapricciante serietà. Si correva il rischio di svegliarsi al mattino e inciampare in Gustav, ad esempio, che ha sempre avuto la passione per la sveglia molto mattiniera ma, quando era molto piccolo, molto goloso e molto tondo, tendeva ad addormentarsi sul pavimento ai piedi del divano verso le otto del mattino, dopo essere sorto col sole alle sei. Si correva il rischio in incappare inaspettatamente nelle mutande sporche di Georg abbandonate nei posti più impensabili, e quando dico impensabili intendo davvero impensabili, come quando una volta lo scarico del lavandino in bagno cominciò a vomitare liquami puzzolenti e scoprimmo che in realtà tutto questo avveniva perché un paio dei suoi boxer più vecchi e sbrindellati ci era finito dentro. Il come, tutt’oggi, è ancora un mistero. Si correva il rischio di irritare Tom, che giuro, è un ragazzo di una bontà infinita, praticamente un santo martire, ma quando gli girano è la fine, soprattutto se gli girano a causa tua, perché poi riconquistarlo è un delirio paragonabile solo a certe quest impossibili coinvolgenti draghi, fuoco e cespugli di rovi per chilometri e chilometri, e di questo fatto Bill è la prova vivente, perché pur amandolo a livelli veramente indegni Tom con suo fratello, per molti mesi, ha chiuso in modi così definitivi da lasciarmi basito.
E poi, naturalmente, si correva il rischio di Bill, un essere umano che, nella sua interezza, ha sempre rappresentato un problema. Bill è una creatura incredibilmente affascinante, e come tutte le creature incredibilmente affascinanti è perennemente in bilico, geneticamente instabile, un disastro, insomma. Vivere con lui era come vivere con una bomba a tempo a ricarica continua in casa. Sapevi che sarebbe esplosa, non sapevi quando ma sapevi che sarebbe successo, e la cosa veramente devastante era sapere allo stesso modo che una sola esplosione non sarebbe bastata, non sarebbe stata definitiva come tutte le esplosioni sono, perché avevi la certezza che alla prima, chissà quando, chissà perché, prima o poi ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora, senza mai fine. E poteva essere per qualsiasi cosa, il motivo più stupido o quello più fondamentale, o solo perché magari era sotto stress e sentiva il bisogno di scaricare, ed allora dovevi solo sperare di non essere tu la vittima designata a fargli da sfogatoio proprio in quel momento, oppure rassegnarti in silenzio al tuo destino e subire finché non fosse stato soddisfatto.
Anche quello, comunque, non era niente in confronto al pericolo che mi sarei ritrovato a subire poi, ma in un certo senso partire da quel punto era importante, e non perché volessi far vedere quanto Bill in realtà sia la fonte primaria e unica dei miei guai – cosa anche possibile, ma non completamente vera, visto che magari Bill mi ha offerto molte possibilità di mettermi nei guai, ecco, ma i guai in cui sono incappato poi me li sono scelti tutti da solo. A partire da una vasta gamma, ma li ho scelti da solo – bensì perché solo quando cerco di ripensare a tutto fin dall’inizio mi rendo conto di quanto in realtà la catena di azioni che mi ha portato fino a qua sia stata comunque un percorso che avrei scelto di rifare anche se per questo avrei dovuto farmi sventrare altre trenta volte. Si parla della mia vita, qui. Della mia fortuna, di ciò che ho amato fare, di persone a cui ho voluto bene, ma bene davvero.
Se nel giorno in cui ho conosciuto Bill lui mi avesse guardato negli occhi e mi avesse detto “io ti ho visto nei miei sogni, so chi sei e so che finirai ammazzato in un magazzino vuoto, sporco e puzzolente, dimenticato ai confini di Berlino, e questo solo perché io mi innamorerò dell’uomo più giusto e più sbagliato in assoluto”, avrei detto “va bene, Bill”, avrei detto “portami da questa gente che mi farà a pezzi, ma portamici tu”. Era quello che volevo. È stato quello che ho ottenuto.
Il fatto è che a questi ragazzi io voglio troppo bene. Quando vuoi bene a qualcuno in maniera così totalizzante, non ti curi del dolore che, per sbaglio o di proposito, ti infligge. Bill non ha chiesto di innamorarsi di un uomo problematico come Bushido – se è per questo, non l’ho chiesto neanch’io. È successo, e non c’è uomo al mondo che possa capire Bill, in questo o in altri momenti della sua vita negli ultimi tre anni, come l’ho capito io. Non c’è uomo al mondo che possa dire di aver sentito dentro il suo dolore come l’ho sentito io, e non solo perché condividiamo certi aspetti della nostra esistenza, ma perché lui è mio. Io l’ho voluto così tanto che alla fine è stato un po’ come l’avessi generato da me. È stato, è e sarà sempre la cosa più vicina ad un figlio che abbia mai avuto, e ciò che vale per lui vale esattamente allo stesso modo per suo fratello, per Georg e per Gustav. In questi ultimi anni ho dovuto subire molte cose, nel tentativo di preservare la felicità di questi ragazzi. Non sempre ci sono riuscito, ma posso dire di averci sempre provato.
È stato con l’intenzione di provarci ancora che, un mesetto fa, sono andato alla Universal, divorato dall’ansia ma cercando di restare lucido e presente a me stesso. La situazione era in stallo da un po’, Bill aveva abbandonato la Germania già da un bel pezzo ma nessuno dei pezzi grossi mi aveva chiamato. Erano rimasti in attesa, e questo raccontavano i loro sogghigni carichi di pietà quando mi hanno visto entrare nel loro ufficio, minuscolo di fronte a loro, molti di più, molto più ricchi, molto più importanti. I loro sorrisi dicevano “finalmente le hai trovate le palle per presentarti, eh, Jost?”. Finalmente le avevo trovate, sì.
In realtà non c’era molto da discutere. Se anche avessi giurato e spergiurato loro che Bill sarebbe tornato nel giro di due giorni già pronto per rimettersi al lavoro, immagino mi avrebbero buttato fuori comunque. Si sono mostrati pazienti e magnanimi – “abbiamo fatto tutto il possibile, David, abbiamo cercato di sfruttare questa cosa con Chakuza, vi abbiamo dato i vostri tempi e i vostri spazi, e con cosa ci troviamo in mano, adesso?” – ed io sapevo perfettamente che dovevo già ringraziare se si limitavano a rescindere il contratto senza trascinarci tutti in tribunale per inadempienza, perciò l’incontro è durato poco. Loro hanno espresso le loro ragioni. Io ho concordato. Venti minuti dopo ero per strada e, per prima cosa, chiamavo Tom.
- È andata male, vero? – mi ha detto subito lui, non appena ha risposto, prima ancora di sentire il mio tono di voce. La sensibilità di Tom in molti aspetti della sua vita è strabiliante. Suppongo sia perché, quando vivi in simbiosi con uno come Bill, i tremiti nella forza devi imparare a percepirli prima che diventino scossoni di terremoto, per provare quantomeno ad arginarli. Lui in questo riesce benissimo, e perciò quando l’ho chiamato, dalla Germania alle Maldive, lui non ha nemmeno dovuto ascoltare il suono della mia voce per sapere che sì, era andata male davvero.
- Mi dispiace. – ho detto io, piano, sospirando profondamente. Tom s’è lasciato andare ad una risatina quasi liberatoria. L’ho immaginato restare in tensione fino a quel momento e mi è dispiaciuto per lui al punto che mi sono sentito stringere il cuore in una smorfia fisicamente dolorosa.
- L’hai già detto ai ragazzi? – s’è informato, una punta di preoccupazione viva nella voce.
- Non ancora. – ho ammesso con una certa vergogna, - Conto di farlo appena chiuso con te. – e poi ho preso un respiro enorme, perché per chiedere di Bill, di questi tempi, mi serve sempre una dose extra di coraggio. – Tuo fratello?
Tom ha lasciato passare qualche secondo, prima di rispondere. Ho sentito qualcosa frusciare, lì, da qualche parte, e ho immaginato subito si fosse sporto ad accarezzargli dolcemente i capelli, un gesto che gli ho sempre visto fare quando Bill gli si addormentava addosso, per un motivo o per l’altro.
- Adesso dorme. – mi ha risposto lui, la voce ridotta a un sussurro quasi eccessivamente dolce, - Ti spiace se a lui ne parlo fra qualche tempo? Non è ancora il momento.
Mi sono sempre fidato ciecamente della profondità con la quale Tom conosce Bill, perciò non ho avuto da ridire in quel caso, così come non avevo avuto da ridire in tanti altri casi durante la nostra storia insieme. Così tanti altri casi, così tanti momenti… ho chiuso la telefonata con un groppo in gola quasi soffocante, e mi sono preparato al peggio. Per non scappare, mi sono ripetuto che era mio dovere dare a quei ragazzi la notizia da me, prima che arrivasse loro la notifica dello studio legale. E per evitare di mostrarmi troppo sconvolto di fronte all’inevitabile furia che mi avrebbe travolto, ho cercato di immaginare tutti gli scenari possibili, dal più pacato al più violento, ma nulla, nulla avrebbe potuto prepararmi a quella mezz’ora passata in compagnia di Georg e Gustav agli studi. Adesso la mia vista è offuscata, così come la mia memoria, ma non dimenticherò mai più lo sguardo profondamente deluso di Gustav, così come non dimenticherò più le parole di Georg, così secche e lucide, incredibilmente dolorose. “Avete giocato con la nostra vita”. Aveva ragione. Nessuno di noi l’aveva voluto, ma alla fine era ciò che era successo. A furia di giocare a fare dio, uccidere persone per poi riportarle in vita e via così, io per primo ho dimenticato quanto altro ci fosse in ballo oltre a Bill, Bushido e il mio affetto per loro.
La vita, comunque, va avanti. È una frase fatta, ma la sua ragione d’esistenza si riflette nel fatto che è vero. A Georg e Gustav ho detto di non perdersi di vista, perché i Tokio Hotel non erano morti, erano solo in stand-by. Gustav s’è lasciato andare ad una risatina afflitta e Georg mi ha guardato con una rabbia in quantificabile.
- Non ti preoccupare, - mi ha detto astioso, - non ci perderemo di vista, ma non certo per i Tokio Hotel.
Io ho incassato e ho lasciato perdere, me ne sono tornato a casa mia, mi sono spogliato, mi sono fatto una doccia, ho indossato il pigiama, ho riscaldato una tazza di latte di soia, ci ho messo dentro un cucchiaino di miele, ho acceso il portatile, mi sono seduto in poltrona, ho fissato lo schermo con una foto di noi cinque insieme come wallpaper e poi mi sono messo le mani nei capelli e ho pianto per ore. La mia vita m’era scivolata via di mano mesi prima, era rimasta intrappolata fra le dita di un tunisino triste e poi era scivolata via anche da lì, perdendosi da qualche parte nell’oscurità come i rivoli di pioggia lungo le strade. E io me ne stavo accorgendo solo in quel momento, quando era troppo tardi per riportare tutto indietro.
Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto. C’è solo una via che può portarti all’uscita, ma di mezzo ce ne sono tante altre che invece ti portano solo verso un vicolo cieco. Alcune di queste altre non ti prendono in giro, fai qualche passo, svolti un paio di volte a destra e a sinistra e subito ti parano un muro davanti alla faccia, e tu allora puoi darti del cretino, concederti un sorriso triste e poi tornare indietro per imboccarne un’altra. Ma ce ne sono di differenti che invece non ti aiutano. Si inerpicano per vie e viottoli costringendoti a decine di cambi di direzione, a destra, a sinistra, dritto, torna indietro, vai avanti per tre metri, fai un giro su te stesso e poi imbocchi la prima porta a destra, e quando tu sei lì che cammini per anni e senti che ormai l’uscita è vicina ecco che invece di fronte a te c’è una parete vuota. E tu ti ritrovi in mano la consapevolezza di dover tornare indietro e ripartire da zero, ma la verità è che non sai nemmeno se ci riusciresti, a ritrovare il punto di partenza, perché sono passati secoli dall’ultima volta che l’hai visto e chi si ricorda se al tale incrocio eri andato a destra o a sinistra? Chissà.
Su quella poltrona, di fronte a quella foto, io ho realizzato che per anni – molto più di tre, in realtà, perché queste cose, quando succedono, poi ti portano a riconsiderare tutto, pure situazioni in cui credevi di essertela cavata bene davvero – avevo percorso una strada che credevo fortemente fosse quella giusta. E lei mi aveva illuso procedendo per tanto, tanto tempo senza il minimo intoppo, salvo poi piazzarmene uno di fronte proprio adesso. Quella notte lì io mi sono detto “cazzo”, mi sono detto, “cazzo, David, e ora cosa fai?”, perché seriamente, mi sembrava di non avere più soluzioni. Non sapevo più che fare, capite, avevo perso tutto. I Tokio Hotel erano la mia vita e si stavano sfaldando senza che potessi fare niente per fermarli, era il più grande fallimento della mia esistenza, non ero stato in grado di prevederlo e non ero più in grado di fermarlo. E mi sono chiesto “e ora come ci torno indietro? Da dove parto, dove ho speranza di arrivare?”, e mi sono visto girare per anni e anni e anni in questo labirinto vuoto cercando l’entrata per ripartire da lì senza riuscire ad uscire mai da quei tre corridoi in croce che avevo percorso girando in tondo negli ultimi mesi.
Poi mi sono addormentato. Lì, in poltrona, tutto piegato su me stesso, col portatile ancora acceso che s’è andato scaricando per tutta la notte fino a spegnersi. E quando l’indomani mattina ho aperto gli occhi e non avevo nemmeno mal di testa, l’ho fatto con stupore. È così che la vita ti stupisce più spesso, d’altronde, non con le cose veramente meravigliose, ma con quelle più brutte: può accaderti la cosa peggiore del mondo, puoi piangere fino a sfinirti e ripeterti che è troppo da sopportare, non puoi più farcela, e sono quelle occasioni in cui sei così depresso, ma così depresso che arrivi a pensare che morire sarà una cosa naturale. Chiuderai gli occhi sentendoli bruciare per via delle lacrime, continuerai a singhiozzare fino a farti dolere i polmoni e poi perderai conoscenza, e l’ultima cosa che pensi è che in qualche modo, intimamente, dentro di te, sai che non ti risveglierai mai più. Ti fa paura ammetterlo, ma è così. Il tuo corpo e la tua mente sono così devastati che implorano solo il riposo eterno, e tu ti abbandoni al buio con la speranza segreta di concederglielo. È stato così, per me, quand’è morto mio padre.
Ma allora come adesso, il giorno dopo ho riaperto gli occhi. Li ho riaperti davvero e mi sono detto “sono ancora vivo”, e il pensiero mi ha irritato, mi ha stancato e mi ha portato a scattare in piedi e darmi una sistemata, lavarmi, vestirmi ed uscire, perché tollerare una tale dose di tristezza con la consapevolezza di essere vivo e sentirne ogni spigolo premere dolorosamente contro tutti i punti deboli del tuo corpo non è davvero possibile. Te la scrolli di dosso, e lo fai per proteggerti, perché non puoi fare altrimenti.
Quando è morto mio padre, il giorno dopo sono andato da mia madre, l’ho abbracciata e le ho sorriso. E lei ha sorriso a me. È così che sopravvivi al dolore. Mettendolo da parte.
L’ho messo da parte anche stavolta, e per molti giorni ho vissuto la mia vita normale, semplicemente senza il lavoro. Per alcuni potrà sembrare folle, soprattutto pensando ad uno che praticamente non smette mai di lavorare come me, ma in realtà è stato piuttosto semplice ed anche alquanto divertente. Ho semplicemente rimosso dall’agenda tutto ciò che poteva avere a che fare con la mia professione e mi sono concesso tutte quelle cose che avevo trascurato in favore del resto. Ho letto bei libri, mangiato buon cibo, sono tornato in palestra e lì ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo col sospensorio di uno schermidore fascinoso dall’aspetto vagamente italianeggiante di nome Bruno ed ho colto un assaggio perfino di ciò che conteneva, con estrema soddisfazione da parte di entrambi. Poi mi sono goduto la mia casa, un appartamento che adoro e che ho arredato con amore direi quasi maniacale. Le sue poltrone bianche ergonomiche, la cucina in acciaio, il letto col materasso in latex, la vasca a idromassaggio nell’ampio bagno piastrellato in nero e bianco. Mi sono preso del tempo per me perché avevo bisogno di sentirmi coccolato e nessuno a parte il sottoscritto sembrava disposto a farlo. Mi sono arrangiato con ciò che avevo e non è stato affatto male. Stavo solo aspettando di trovare una nuova ragione per ricominciare a vivere in maniera più piena, e puntualmente questa ragione è arrivata qualche settimana dopo per via aerea, sotto forma di Bill Kaulitz, come spesso accade. Magari non a tutti, ma a me sì.
Tornati Bill e Tom in patria, la mia vita è cambiata di nuovo. Ho cercato di tenere un posto per palestra, yoga, cibo biologico e menate varie, ma i gemelli hanno semplicemente ripreso ad occupare la quasi totalità delle mie giornate, ed è stato stupendo. Era bello vedere che in qualche modo loro continuavano ad affidarsi a me quasi totalmente, come se non fosse cambiato niente rispetto a prima. Avevo perso Georg e Gustav, ma avevo ancora loro. Egoisticamente, non potevo che essere felice di questo, anche se sapevo che, se Georg e Gustav si erano allontanati, era stato solo perché erano cresciuti bene, per la strada giusta, ed avrei dovuto augurarmi la stessa cosa anche per i gemelli, ma non ci riuscivo. Era splendido averli di nuovo in giro, ritrovarmeli in casa senza un perché, portarli a mangiare fuori perfino quando questo voleva dire entrare in un McDonald’s. E poi c’è stato da dare a Bill la notizia – perché in tutto questo era saltato fuori che no, Tom non gli aveva detto niente, benedetto ragazzo, sarà un padre perfetto, totalmente succube di sua moglie – e maneggiarlo con cura, e tenerlo d’occhio, accertarsi che mangiasse, coccolarlo un po’. Ho ripreso contatto con la parte di me che cercava di far funzionare le cose con dei ragazzini in casa, e mi sono accorto che alla fine il punto di partenza l’avevo ritrovato. Ci ero finito quasi per caso, ma adesso era lì, e da lì potevo provare a ricostruire qualcosa, se volevo. E volevo.
Da quel momento, la mia vita ha imboccato una spirale tantrica ascendente, e tutto ha ripreso a luccicare. Alle volte basta così poco, devi solo scendere in basso, tanto in basso, che lì ti ritrovi di sicuro, soprattutto se stai solo con te stesso abbastanza a lungo da riuscire nuovamente ad ascoltarti, e poi è una passeggiata. Ho cominciato a guardarmi intorno, a sondare il terreno, a vedere se per i Tokio Hotel potesse esserci qualche altra possibilità. Sono tornato da Georg e Gustav e loro erano ancora lì esattamente dove sapevo che sarebbero stati, pronti a rimontare in sella. Ho lasciato che Bill li incontrasse, li ho tenuti da soli in una stanza per il tempo sufficiente e, quando ne sono venuti fuori, sapevo che la via della ricostruzione era stata imboccata, bastava percorrerla, e in quel momento non m’interessava che fosse un altro potenziale vicolo cieco, anche perché non potevo saperlo in anticipo. Ho affrontato il cammino col sorriso sulle labbra, ed effettivamente è anche col sorriso sulle labbra che, questa sera, sono uscito da casa di Bill.
Mi guardo intorno e la strada è deserta ma bene illuminata, spazzata dall’aria calda di inizio agosto. Ho la schiena imperlata di goccioline di sudore perché in casa di Bill si muore di caldo visto che la sua gola sempre sull’orlo di una crisi di nervi ci impedisce di accendere l’aria condizionata, e di sicuro spostare scatoloni per le ultime tre ore non mi ha aiutato a mantenere la mia temperatura corporea ad un livello accettabile, ma in fin dei conti mi ha fatto piacere dare una mano, e poi il dottor Schillinger giustamente dice che non è possibile sistemare la testa di qualcuno se quel qualcuno vive nel caos, perciò il caos che casa di Bill è sempre stata va riordinato. Ne va della sua sanità mentale, qualcosa alla quale tutti, inspiegabilmente, teniamo moltissimo. Forse perché lui, invece, non se ne cura affatto.
Insomma, soddisfatto di me stesso attraverso la strada e mi avvicino alla mia macchina. Splende nella notte, nera come la pece. La accarezzo con lo sguardo ed infilo le mani in tasca per recuperare le chiavi. Mi chino appena per inserirle nello sportello ed aprirlo, ed è allora che spuntano. Da dove, non so. Non li vedo arrivare, appaiono. Prima non ci sono e all’improvviso invece sì.
Capisco subito il pericolo – una cosa che ti abitui a fare quando per lavoro tieni d’occhio quattro ragazzini costantemente circondati da fanciulle isteriche in delirio ormonale – e faccio per spalancare la bocca e gridare, ma non ci riesco perché qualcuno mi schiaccia qualcosa sulla faccia. È gonfio e punge, capisco al primo tocco che si tratta di un maglione di lana decisamente scadente, sicuramente misto acrilico. Faccio una smorfia, schifato, e il tipo ne approfitta per spingere il maglione con più forza, facendomi male, mentre uno dei suoi compari mi afferra per le braccia e mi tiene fermo. Mi dimeno e scalcio, ma qualcuno mi afferra anche per le gambe, ed il tipo che tiene il maglione lancia un’imprecazione e dice ad un altro di fare in fretta con lo scotch, perché sono un indemoniato e non mi si tiene più. Puoi scommetterci, stronzo, lascia solo che mi liberi e ti strapperò l’uccello a morsi, e poi vedremo chi è che non si tiene più.
Continuo a dimenarmi come un ossesso. Non posso più parlare e, dopo qualche secondo, quando mi legano polsi e caviglie, non posso più nemmeno muovermi. Cado a terra come un sacco di patate, le palle che, per la frustrazione, vorticano al punto che, se non fossero al sicuro dentro le mutande, farebbero da eliche e mi permetterebbero di librarmi in volo. Cosa che, peraltro, al momento sarebbe piuttosto utile.
Impreco e insulto chiunque, anche se non si capisce una singola parola di quelle che mi escono dalla bocca. I tipi, ignorando la mia ira funesta, mi sollevano e mi caricano in una jeep che arriva qualche secondo dopo, una roba scalcinatissima che deve aver visto almeno dieci estati come quella che, fra meno di un mese, volgerà al termine anche quest’anno. Mi tirano di malagrazia sul sedile posteriore, due si sistemano alla mia sinistra, uno alla mia destra e il quarto sul sedile passeggero accanto all’autista.
- Fatelo stare zitto. – dice quest’ultimo. Non riconosco nessuna delle loro voci, e la cosa mi inquieta, perché se qualcuno ha pagato dei professionisti per rapirmi in primo luogo questo qualcuno deve essere bene organizzato, ed in secondo luogo deve volermi parecchio male.
Sudo freddo, nonostante l’afa, e mi zittisco immediatamente.
- Bravo. – mi dice il tizio alla mia destra. Quello sul sedile del passeggero guarda l’autista con preoccupazione e si morde il labbro inferiore.
- Ha fatto un sacco di schiamazzi, là fuori… - comincia. L’uomo lo zittisce con una scrollata di spalle.
- Nessuno ha visto né sentito niente. – lo rassicura, - Procediamo come stabilito.
- Klaus, facciamolo adesso. – insiste quello, ed il fatto che lo chiami per nome mi dà una chiara idea di quanto non stia pensando alla possibilità che io possa riuscire a vedere la luce del giorno, domani mattina. – E molliamolo al primo angolo di strada. Lo troveranno di certo. Aspettiamo un paio d’ore per essere sicuri che crepi e poi avvisiamo del punto in cui l’abbiamo lasciato. L’importante è che il messaggio arrivi, no?
- Procediamo come stabilito. – insiste l’uomo al volante. Deve trattarsi del capo, perché il tizio al suo fianco si zittisce immediatamente, dopo aver mormorato un “d’accordo” stentato. Continuo a rimanere immobile, sono pietrificato dalla paura. Restano tutti in silenzio mentre usciamo dal centro ed anche dalla periferia, ritrovandoci in aperta campagna. Non c’è nulla, sulla strada che percorriamo, per moltissimo tempo. Poi, ad una ventina di metri di distanza da dove ci troviamo, nella notte più profonda vedo sorgere una specie di baraccone che dev’essere abbandonato da moltissimo tempo. La jeep si ferma proprio lì davanti, i tipi scendono dalla macchina e mi trascinano con loro, tenendomi ben stretto. Riprendo a dimenarmi perché sento che il momento è vicino e so con certezza che, se mi lasceranno qui, morirò. Qualsiasi cosa vogliano farmi, se anche io dovessi riuscire a non morire sul colpo, col passare delle ore morirei comunque. E non voglio che succeda. Cazzo, non voglio che succeda.
Niente di ciò che faccio è utile alla mia causa, comunque. Quelli mi lasciano cadere per terra di faccia, e poi due di loro mi afferrano per i piedi e mi trascinano per il ciottolato che porta all’ingresso del baraccone. La maglietta mi si solleva tutta, esponendo la pancia alle pietruzze taglienti. Riesco a tenere il viso sollevato, anche grazie al maglione che mi è stato legato attorno alla testa, ma la pancia e i fianchi proprio no. Più tardi, ringrazierò per il dolore che sto provando in questo momento, perché le ferite già aperte diminuiranno l’intensità del male che mi procureranno quelle nuove, ma in questo preciso istante non ringrazio proprio per un bel niente. Fa male e sono terrorizzato. Voglio tornarmene a casa mia. E non voglio morire.
Entriamo nel baraccone ed i tizi chiudono subito la porta. Non la sprangano. Lo noto e mi chiedo se potrei fare qualcosa, sfuggire alle loro mani e saltellare fino a lì… e poi correre a piedi uniti nella notte fino alla prima stazione di polizia? Non sembra granché fattibile, come cosa. Smette di esserlo del tutto quando i tipi mi risollevano in piedi e poi mi scaraventano contro un mucchio di casse accatastate in un angolo. Sento distintamente qualche osso scricchiolare, ma sono troppi contemporaneamente perché possa identificarli uno per uno. So solo che fa un male fottuto, fa tanto male che mi metto a piangere. Non piangevo di dolore da decenni, da quella volta in cui sono cascato di testa durante uno spettacolo e mi sono serviti sei punti di sutura per richiudere la ferita.
- La checca piange. – dice uno dei cinque, ridendo divertito. Uno degli altri gli tira uno schiaffo contro la nuca e gli intima di tacere. Non posso saperlo con certezza, perché i loro volti sono coperti, ma immagino sia l’uomo che ha guidato la jeep fino a qui. L’atteggiamento da capo, almeno, è lo stesso.
- Niente di personale, Jost. – dice accucciandosi davanti a me e tirando fuori dalla tasca dei jeans neri un coltellino a serramanico. Spalanco gli occhi e quello che gli sento dire dopo non fa che sconvolgermi ancora di più. Tuttavia, non ho il tempo di pensarci troppo, perché subito dopo l’uomo mi solleva la maglietta e comincia a incidere. Un taglio, poi un altro. Tutti abbastanza profondi, ma precisi. Millimetrici. Vorrei poter dire che il dolore è tale da costringermi a non sentire più niente, ma purtroppo non è così che va. Nonostante le ferite ancora fresche, il dolore è lancinante. E infinito.
Quando si allontana nuovamente da me, sento il mio intero corpo bruciare. Sono rovesciato per terra ed esausto. Non riesco a respirare. Il maglione mi si è infilato in bocca e non riesco a spingerlo fuori perché non ho più forze. È palese che non sopravvivrò. Lo stronzo di merda mi ha scritto qualcosa addosso, ma non riesco a capire cosa. Non lo capirò mai, non ne avrò il tempo né il modo.
I tipi escono in fretta. L’ultimo, il capo, resta a guardarmi finché da fuori non vengono a richiamarlo. Immagino gli piaccia vedere la vita che mi scivola via dagli occhi. Io la sento che se ne va e non è piacevole per niente. Sto di nuovo piangendo e non so neanche dove ho preso la forza per farlo.
- Niente di personale. – mi ripete ancora, prima di uscire. E poi rimango solo, sento la jeep allontanarsi lungo la strada e il tempo perde senso, perché non riesco a misurarlo. Non ho un orologio con me, ed anche se l’avessi non riuscirei a guardarlo. Naturalmente, non ce ne sono intorno, appesi alle pareti. Non ho idea di quanto tempo passi sdraiato per terra a ridosso delle casse. Sento il sangue uscire dalle ferite in grossi rivoli, così tanto non ne ho mai visto tutto assieme. Si allarga attorno a me come una pozzanghera, impregnando i miei vestiti e gonfiando le assi di legno.
Passano minuti, forse ore. Non lo so. So che a un certo punto sento dei rumori intorno a me, ma sono come un’eco lontana. Non riesco a credere che stia succedendo davvero, che qualcuno mi abbia trovato, e non riconosco nessuna delle facce che ho davanti, anche se sono abbastanza sicuro che dovrei.
E poi, all’improvviso, i miei occhi incontrano quelli di Bushido. Un attimo prima di chiudersi.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG
AVVISI: Angst, Slash, OC.
- "Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto."
Note: Non ho l'abitudine di chiedere ai lettori uno sforzo, prima di leggere qualcosa, in nessun senso, ma stavolta mi sento quasi moralmente obbligata, probabilmente dall'amore profondissimo che nutro per il personaggio di Bill non solo in questa shot, ma nell'arco di tutta la Saga. Ciò che vi chiedo è molto semplice: cercate di approcciarvi alla lettura ed a Bill in generale senza pregiudizi e con un minimo di comprensione umana /o\ Bill ce l'ha messa tutta, per spiegarsi un po', ma se non vorrete capirlo ci sarà ben poco da fare :)
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BEAUTIFULLY BROKEN

Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto. Non come dice la gente di solito nel senso di “non mi riconosco più”, che è la cosa più stupida che si possa dire al mondo, perché non è altro che una scusa, in fondo, no? Uno fa un sacco di stronzate e poi, quando qualcun altro glielo fa notare, ecco subito la risposta pronta: “lo so, non mi riconosco più”. Non ti riconosci più un cazzo. Vorresti non riconoscerti, vorresti poterti guardare allo specchio e dire che quella faccia coperta di errori e dolore e pezzi di vita buttati via non è la tua, invece ti riconosci eccome, ed è questo quello che ti fa male. Riuscire ancora a riconoscerti, nonostante tutto, nonostante il fango che ti sei buttato addosso. Essere ancora lì, sempre identico a te stesso, facilissimo da ritrovare se solo ti azzardi o qualcun altro si azzarda a grattare via la sottilissima patina di menzogne con cui ti mascheri il viso al mattino, giorno dopo giorno, come il trucco di scena, quello che io ho sempre voluto portare anche nella vita di tutti i giorni, perché per me i confini sono sempre stati troppo labili, troppo sfumati, ed andavo in scena ogni volta che aprivo gli occhi al mattino.
No, io mi sono svegliato, da solo nel mio letto, ed ho ascoltato a lungo il suono un po’ ovattato del respiro di Peter, ancora addormentato da qualche parte in questo tourbus, troppo lontano da me perché potessi sentire il calore del suo corpo e aggrapparmici come se me ne importasse ancora qualcosa, e poi semplicemente mi sono alzato, sono andato in bagno, mi sono fermato davanti allo specchio ed ho guardato il mio riflesso, e quello non ero io. È stata la sensazione più straniante che avessi mai provato prima di quel momento, mi sono sentito come incatenato ad una sedia, costretto ad osservarmi nello specchio mentre mi strappavano di dosso la pelle per mostrarmi il mio vero volto, al di sotto. Solo che la pelle non veniva via – ho sfregato, ho sfregato, non veniva via – ed io ho dovuto continuare a sopportare di guardarmi nello specchio e non riconoscermi, mentre sapevo già di avere una faccia diversa sottopelle.
E questo è stato il dolore più grande che abbia provato in quest’ultimo periodo. Un periodo che di dolori non è stato certo avaro, eppure mentre Anis mi strappava via il cuore e Chakuza si rifiutava di rimettermelo a posto lasciandolo sul pavimento come un soprammobile inutile da scansare con un calcio se intralciava il passaggio, e mentre io mi premuravo di devastarmi la dignità e mio fratello si assicurava di pestarne i resti sotto le scarpe di modo che nessuno mai potesse più ricomporla, e mentre nessuna delle persone che ho imparato a riconoscere come amiche ha mai dato un fottuto istante del proprio tempo per cercare di capire come cazzo fosse possibile che io stessi così male, di una cosa ero sempre stato sicuro, la mia identità. Il mio viso. Chi ero.
E poi mi guardo nello specchio e scopro che invece non lo so più. Mi guardo nello specchio e quello non sono io. E in un solo istante di me non resta più niente, riesco a vedere i miei occhi farsi vuoti e so che non sono i miei, i lineamenti del mio viso si stendono in una maschera priva di espressione ed io so che non mi appartengono. Non so più chi sono, ma so cosa decisamente non sono, ed io non sono quella faccia, quegli occhi, quelle labbra. Non ho più un nome, non sono più nulla, di me, di ciò che sono stato, non rimane neanche un frammento.
Allora mi sono alzato e sono uscito dal bagno. Non sono passato accanto a Peter per non svegliarlo, perché non dovesse vedermi così, qualunque fosse la cosa in cui mi ero trasformato senza che nessuno se ne accorgesse. Sono semplicemente uscito dal tourbus e mi sono guardato intorno. Il sole era ancora freddo e basso sull’orizzonte, tutto ciò che la sua luce poteva fare era gettare ombre lunghe sulla piazzola della stazione di servizio desolatamente vuota, tutta intorno a me. Il mondo sembrava identico a se stesso, ero cambiato io soltanto. Mancava così poco al momento in cui tutti avrebbero aperto gli occhi, e a quel punto nessuno avrebbe potuto evitare di vedermi. Ed io non volevo che accadesse. Perciò sono tornato all’interno del tourbus, cercando di fare il minor rumore possibile, ed ho preso un post-it da uno di quei cassetti pieni di cianfrusaglie vicini all’angolo cottura. Ho preso una penna, mi sono seduto al tavolo ed ho cercato un modo carino per dire a tutti quanti che avevo bisogno di un po’ di tempo solo per me. Non ne ho trovato uno, perciò ho scritto solo quello. Ho bisogno di un po’ di tempo solo per me. L’ho appiccicato sullo sportello del frigorifero, ho preso la borsa, ho spento il telefono e l’ho infilato in tasca. Poi sono uscito, ho scelto una direzione a caso e l’ho seguita.
Ho camminato per un sacco di tempo. Io sono un pigrone, in genere non mi muovo se non sono obbligato a farlo, ed anche quando sono obbligato spero sempre che arrivi qualcuno a prendermi in braccio perché sia lui a trascinarmi da un posto all’altro. Il pensiero di muovermi alle volte mi dà fastidio fisico. Però stavolta camminare non mi è pesato. Almeno un’ora di cammino a piedi, cercando di ignorare i fischi dei camionisti quando per caso qualcuno passava per la strada ancora deserta, e senza nemmeno stancarmi. Ed ecco che all’improvviso i contorni delle cose oltre il guardrail che costeggia l’autostrada cambiano. Fisso il paesaggio mutare sotto i miei occhi, e dove prima non c’era niente cominciano ad apparire delle cose. Enormi campi pieni di spighe tanto alte da fare il solletico al cielo, e case colorate, di mattoni veri, coi tetti rossi e i comignoli e le porte di legno. Non riesco ad impedirmi di sorridere, mentre stringo emozionato la presa attorno al manico della borsa, e per un attimo mi chiedo se ciò che sto guardando esista davvero o non sia uno scherzo che mi sta facendo la mia mente, perché di recenti me ne ha fatti davvero troppi perché io riesca ancora a distinguerli dalla realtà.
Decido che non m’importa se quello che vedo è vero o no: mi piace, e tanto basta. È molto più di quanto abbia potuto dire della mia vita recentemente. Quella era vera, e lo sapevo, ma faceva schifo. Perciò va bene anche se questo posto non esiste davvero, fintanto che io continuo a vederlo ed a sentirne il profumo.
Scavalco il guard-rail ed affondo fra le spighe. Mi fanno il solletico al naso, sento il bisogno di starnutire ma anche se prendo fiato per due volte lo starnuto proprio non viene fuori, perciò mi metto a ridere e comincio ad avanzare in quel mare dorato che si muove in onde discontinue guidate dal vento. Le spighe ogni tanto mi sbattono addosso con forza, dovrebbero darmi fastidio, irritarmi la pelle, ma riesco a trovarle solo stranamente piacevoli, tanto che quando spunto fuori e metto il naso dall’altra parte, di fronte a un paio di casette minuscole una accanto all’altra, quasi mi dispiace.
Le case somigliano un po’ a come ho sempre immaginato la casetta di marzapane della strega di Hansel e Gretel. E poi sono tutte uguali. Mi avvicino sorridendo allegro e solo all’ultimo secondo noto una vecchina che sta semisdraiata su una sedia a dondolo di fronte alla porta di una delle due case, e ondeggia avanti e indietro facendo la maglia.
- Signora Lotte! – la chiamo, anche se so che non è lei. La vecchina sorride, smettendo per un attimo di ricamare e poggiando saldamente i piedi per terra per fermare la sedia.
- Mi chiamo Ena. – mi corregge, e io annuisco. – Nonna Ena. – precisa lei, e io sorrido.
- Di chi sei nonna? – chiedo, guardandomi intorno e sperando di vedermi spuntare intorno nipotini come se piovessero. Non ne spunta nessuno. Quindi forse tutto ciò sta succedendo davvero.
- Di tutti e di nessuno. – risponde nonna Ena, enigmatica. E io penso che forse in realtà non sta succedendo niente. – Anche tua. – insiste lei, - Come ti chiami, bella bambina?
- Bill. – rispondo tranquillo. Lei sorride imperterrita.
- Che strano nome per una bambina. – commenta divertita.
- Mamma pensava che fosse carino. – le spiego io, - Ho anche un fratello che si chiama Tom. Puoi essere nonna anche per lui?
- Certo che posso. – annuisce nonna Ena, e io sorrido più sinceramente. – Siediti qui accanto a me, Bill. – dice, indicandomi con un cenno del capo la sedia a dondolo spuntata dal nulla accanto a lei, mentre io penso che sì, è molto probabile che tutto ciò non stia accadendo davvero, - Aiutami. Reggi il gomitolo.
Io mi allungo a recuperare il gomitolo da terra e lo stringo fra le mani. La lana è morbida, calda e un po’ grezza, mi pizzica i polpastrelli e le unghie rimangono impigliate lì in mezzo ogni volta che me la rigiro fra le dita. Quindi forse sta accadendo davvero.
Nonna Ena è quasi cieca. Oltre gli occhiali dalle lenti spessissime, i suoi occhi talmente chiari da sembrare trasparenti s’intuiscono appena, tanto sono piccoli. Non so come faccia ad intrecciare la lana per disegnare meraviglie come quella che sta facendo adesso, una specie di maglia traforata che sembra decorata da cristalli di neve enormi e morbidissimi, ma evidentemente dev’essere una cosa che ha fatto così spesso, nel corso della sua vita, da non avere bisogno di vederla per replicarla ancora. Una cosa che ormai s’è scritta dentro. Io pensavo che per me i concerti fossero così, pensavo che davvero, qualunque cosa fosse successa nella mia vita avrei comunque potuto continuare a salire sul palco ogni sera ed essere la parte più meravigliosa di me stesso, dimenticando tutti i dolori per cantare e sentirmi amato e basta. E invece no, forse perché sono ancora troppo giovane. Forse, quando avrò l’età di nonna Ena, cantare sarà per me automatico come fare la maglia per lei. Però allora non ci sarà più nessuno che avrà voglia di ascoltarmi, mentre la maglia di nonna Ena è così bella che me la metterei addosso anche subito, incompleta per com’è.
- Come si chiama questo posto? – chiedo guardandomi intorno. Ci sono degli uomini che indossano solo un cappello di paglia ed una salopette di jeans scura, riesco ad intravederli nei campi più lontani. E poi c’è una piazza, a qualche decina di metri da noi, e in mezzo a quella piazza c’è una fontana attorno alla quale si affollano donne che indossano vestiti lunghi e scuri con disegni floreali dai colori più disparati. Alcune di loro hanno il capo coperto da un foulard annodato nulla nuca, e quasi tutti i foulard hanno le stesse decorazioni degli abiti, come fossero accessori obbligatori da usare per accompagnare il vestito.
- È troppo piccolo per avere un nome. – risponde nonna Ena, riprendendo a dondolare, - Però è bello, vero?
- È bellissimo. – annuisco freneticamente io, osservando un gruppo di bambini sporchissimi, scalzi e scarmigliati che ci passa davanti correndo e ridendo. – Quanta gente ci abita?
- T’importa? – chiede nonna Ena con una scrollatina di spalle. E in effetti non è che m’importi davvero. – Joseph! – urla poi, guardando all’indietro verso la casa. Il portone è socchiuso, e da dentro giunge un “eh?” un po’ lontano. – La bambina ha fame, - continua, - portale una fetta di torta!
Io batto entusiasticamente le mani, appoggiandomi il gomitolo sulle ginocchia mentre la porta si schiude e sulla soglia appare un uomo pelato e panciuto, con un paio di occhiali e un paio di occhi identici a quelli di nonna Ena.
- Nonno Joseph! – lo chiamo allegro, - È quella coi mirtilli?
Nonno Joseph annuisce e a me viene voglia di chiedergli se per caso è austriaco, ma poi lascio perdere. Poso il gomitolo per terra e metto il piatto con la torta sulle ginocchia al suo posto. Poi mi ricordo di David, penso che dev’essere già ora di pranzo e tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per accenderlo e avvertirlo che non posso ancora tornare.
Lui risponde subito, appena lo chiamo, non mi lascia completare nemmeno uno squillo.
- Bill! – grida, e poi lo sento allontanarsi repentinamente verso un posto meno affollato. – Bill. – ripete a voce più bassa, come per lasciarmi intendere che adesso siamo soli e posso parlare liberamente, - Ma dove diavolo sei?
- Ad una stazione di servizio, - mento, evitando lo sguardo di nonna Ena, - sull’autostrada.
- Se mi dici a che altezza, mando subito qualcuno a prenderti. – suggerisce David, professionale come sempre. Io sbuffo un sorriso un po’ abbattuto.
- No, voglio restare qui per un po’. – rispondo, - È un posto simpatico.
- Un posto simpatico, Bill? – chiede lui, sconvolto, - Ma dove diavolo sei?!
- David, per favore, dammi un po’ di respiro! – sbotto io, e lui si zittisce immediatamente. Mi sento subito in colpa, mi si stringe lo stomaco in una morsa talmente stretta da darmi quasi i crampi, perciò mi mordo un labbro per distrarmi da quel dolore e faccio di tutto perché, quando riprendo a parlare, la mia voce sia molto più dolce di quanto sia stata fino ad ora. – Faccio in tempo per il concerto di stasera, promesso. Qui fanno una torta buonissima. La mangio e torno subito a casa, d’accordo?
Lui fa per rispondermi, sicuramente vuole dirmi che non devo tornare a casa ma semplicemente ai tourbus, e farlo anche il più in fretta possibile, ma alla fine lascia perdere, sospira profondamente e mormora un “d’accordo” stentato, prima di chiedermi di non spegnere il cellulare. Io dico ok, ma lo spengo immediatamente, subito dopo avere interrotto la chiamata.
- Bambina, il tuo papà sarà preoccupato. – mi dice nonna Ena, corrucciata, mentre io addento la torta e mugolo di piacere nel sentire quanto è buona.
- Non è il mio papà. – borbotto fra un morso e l’altro, - È solo uno che si prende cura di me.
- E qual è la differenza? – mi chiede nonna Ena. Io non riesco a rispondere.
- Dici che dovrei tornare? – chiedo in un bisbiglio sommesso, posando la torta e guardando per terra, - Ma io voglio restare qui. Potrei aiutarvi, anche se non sono tanto bravo con i lavori domestici o… l’agricoltura e l’allevamento o qualsiasi altra cosa facciate qui per vivere. So solo cantare, a volte sospetto neanche tanto bene. Ma potrei cantare per voi! – propongo illuminandomi, - Ti va, nonna Ena? Posso cantare mentre ti reggo il gomitolo e tu lavori a maglia!
Nonna Ena sorride ed annuisce. Io batto ancora le mani, recupero il gomitolo e poi chiudo gli occhi, mettendomi a canticchiare qualche canzone a caso. Di quelle vecchissime, quelle che scrivevo nella mia cameretta da piccolo, quelle che a far parte del repertorio dei Tokio Hotel non ci hanno nemmeno provato. Roba orribile che solo Tom può vantare di avermi sentito cantare. Eppure le ricordo ancora, e per qualche secondo, mentre resto lì a dondolare con gli occhi chiusi e il gomitolo di nonna Ena mi si svolge fra le dita poco a poco, mi sembra quasi di aver ritrovato quell’automatismo che mi rendeva così facile salire sul palco e cantare senza pensare a nient’altro.
E poi, del tutto inaspettatamente, nonna Ena mi sussurra all’orecchio che sono stonato. Solo che non è nonna Ena, è una signora di mezza età magra, appuntita e spigolosa, con un mascherone di trucco sul volto, seduta al tavolino accanto al mio. La stazione di servizio è affollata perché ormai sono quasi le due, la zona ristorante è piena di automobilisti e famiglie in pausa dal viaggio. Quando eravamo piccoli, mamma e Gordon ci portavano spesso a fare di queste scampagnate. Saltavamo in macchina e ci allontanavamo solo di qualche chilometro, giusto per dire di averlo fatto. Raggiungevamo il lago, magari, ed andavamo in barca. Era divertente.
- Mi scusi. – biascico, imbarazzato fino all’inverosimile.
- Non preoccuparti, tesoro, non tutti siamo nati con una voce da usignolo. – dice lei, scrollando le spalle, del tutto disinteressata alla gravità di quanto ha appena detto. Evidentemente non mi conosce, o se anche ha sentito parlare di Bill Kaulitz non riesce a vedere quel nome in questo me stesso così diverso. Non capisco perché la cosa dovrebbe stupirmi, d’altronde: se stamattina io per primo non sono stato in grado di riconoscermi guardandomi allo specchio, come posso pretendere che ci riesca questa donna adesso?
Guardo in basso, verso il mio piatto. C’è ancora mezza fetta di torta ai mirtilli, ma sapere che non è stato davvero nonno Joseph a prepararla mi toglie improvvisamente tutta la voglia che avevo di finirla. La lascio dov’è, passo sbrigativamente alla cassa per pagare e poi esco, stringendomi un po’ nella giacca perché il sole sta cominciando a tramontare e in aperta campagna a quest’ora fa già freddo. Era così anche quando io e Tom eravamo piccoli. Attorno a Loitsche non c’era niente tranne, appunto, campagne sterminate. Io odiavo uscire anche allora, avevo sempre paura che un’ape potesse pungermi, ma Tomi in qualche modo riusciva sempre a convincermi ad accompagnarlo dovunque volesse, perciò finivamo sempre a passare un sacco di tempo all’aperto, nonostante a me facesse abbastanza schifo. E ricordo che Tomi non sentiva freddo quasi mai – più che altro perché s’era convinto che sentire freddo fosse una roba da femminucce, per cui magari congelava ma non rinunciava mai ad andare in giro in canottiera – ma portava con sé la felpa apposta per potersela sfilare ed appoggiarmela sulle spalle quando io, puntualmente, verso il tramonto, mi accucciavo da qualche parte e mi raggomitolavo come un riccio, tremando per il freddo.
Non mi manca quel periodo della mia vita, però mi mancano quei momenti in cui potevo dire di non avere altro che pensieri sul mio glorioso futuro da star in testa. Momenti in cui chiudevo gli occhi e, mentre Tomi blaterava al mio fianco, seduto su un sasso con gli occhi fissi sul sole che tramontava all’orizzonte oltre i campi arati di fresco, io mi concedevo una rara mezz’ora di silenzio dalla mia usuale logorrea e restavo lì, avvolto nella sua felpa enorme, col cappuccio calato sulla testa, e mi immaginavo cantare su un palco, felice come non ero mai stato e in altro modo non avrei mai potuto essere. E mi mancano quei momenti, perché allora nella mia mente era tutto chiaro. Avevo una strada da percorrere e non poteva essere altro che luminosa e splendida. Ora, dalla piazzola di una stazione di servizio persa nel niente nel bel mezzo della Germania, guardo l’autostrada verso sinistra e verso destra e non saprei nemmeno che direzione imboccare per tornare al tourbus.
Così, faccio quello che ho sempre fatto ultimamente in tutte le altre occasioni in cui mi sembrava di essere troppo confuso per decidere qualcosa da me. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, lo accendo, ignoro chiamate perse ed sms cui non risponderò mai e compongo a memoria il numero di Fler.
- Pronto? – dice lui, e nel momento stesso in cui sento la sua voce prendo una direzione a caso e comincio a camminare con passo spedito lungo il ciglio dell’autostrada, radente al guard-rail. – Pronto? – ripete. Io deglutisco, guardando dritto di fronte a me.
- …scusa. – rispondo piano, - Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – risponde Patrick, il tono talmente preoccupato che riesco quasi a immaginarlo qui con me mentre mi gira intorno e mi guarda da ogni parte per assicurarsi che sia ancora tutto intero. – Ragazzino, è tutto a posto? – insiste, - Ti sento strano.
- Strano? – chiedo io, mentre poco a poco, man mano che il paesaggio torna a farsi familiare ai miei occhi, mi rendo conto di aver fatto all’andata molta meno strada di quanto avessi immaginato, - No, perché dovrei?
- Non lo so, - risponde subito lui, - era un’impressione, sei… non lo so. – si interrompe appena, giusto il tempo di cui ho bisogno per capire che il modo in cui sono cambiato è così radicale ed evidente che se mi si conosce abbastanza bene non c’è nemmeno bisogno di guardarmi in viso per capire che è successo. Patrick lo capisce anche solo sentendomi parlare, e di questa cosa ho talmente tanta paura che chiudo gli occhi e proseguo per molti metri senza guardare niente, a rischio di ammazzarmi, terrorizzato dall’idea di ammettere che in fin dei conti la prospettiva non mi spaventa più di tanto. Fra le numerose cose che Anis ha devastato entrando, uscendo e poi rientrando nella mia vita a proprio piacimento, c’è anche la concezione di morte come qualcosa di irreversibile. In qualche modo, perfino adesso, sto pensando che se mi lasciassi scivolare sotto un camion e morissi, poi qualcuno arriverebbe a risvegliarmi dal mio sonno baciandomi sulle labbra. Il bacio del vero amore. Almeno, forse una cosa simile riuscirebbe ad indicarmi chi sia. – Ma c’è qualche problema? – chiede Fler, e io mi prendo qualche secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – gli chiedo, e nel mentre mi passo una mano fra le ciocche scure e bionde che mi scivolano lungo il collo e sulle spalle, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
- Bill? – mi chiama subito lui, e sento l’ansia nella sua voce, - Bill, ma stai male?
- Male? – chiedo, e mi viene da ridere. Male, no, non sto male. Avrei potuto dire di stare male quando ancora ero in grado di sentire qualcosa, ma quando ogni centimetro del tuo corpo è già stato preso a bastonate più di quanto tu non sia in grado di sopportare, il dolore sfuma e non esiste più. Non lo so nemmeno cos’è che potrebbe farmi male adesso. – Ma no. – rispondo sorridendo, - Sto bene. Non devi preoccuparti. – inspiro profondamente e sollevo lo sguardo. Ad una decina di metri da me ci sono i tourbus, fermi dove li ho lasciati. Nessuno si accorge di me che arrivo, nessuno guarda nella mia direzione. – Ora devo andare. – dico a Fler, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompo la conversazione immediatamente, senza dargli il tempo di ribattere, o di fermarmi. Oltrepasso il cavalcavia e faccio qualche metro sulla terra brulla che anticipa il sollevarsi delle colline poco più avanti. Giro attorno ai tourbus, passo dal retro, m’infilo all’interno del mio senza che nessuno mi veda, e scivolo silenzioso in bagno. Il tourbus dev’essere vuoto, perché non si sente volare una mosca. Da fuori, sento l’eco un po’ bassa e distante di alcune persone che parlottano nella piazzola. Non riesco a capire chi sono, né cosa dicono. Me ne disinteresso.
Mi allungo a recuperare il beauty case, frugo un po’ all’interno e trovo il necessario per la manicure. E le forbicine. Non sono adatte per ciò che voglio fare, ma forbici grandi qui non ce n’è, perciò dovrò accontentarmi.
Taglio via una ciocca dopo l’altra. Quelle scure, quelle chiare. Le taglio prima verso là metà della lunghezza, irregolari e storte, e si spelacchiano tutte. Mi guardo allo specchio. Non sono ancora io. Taglio più in alto, un po’ qui e un po’ là. Cerco un me stesso più piccolo e più sorridente, un me stesso che poteva passare ore davanti allo specchio armato solo di una confezione di gel per capelli, per poi uscire dal bagno con un’acconciatura tale da far commentare ai passanti “ma non hai ancora imparato a non mettere le dita nelle prese elettriche, Kaulitz?”. Sorrido ripensando a quel bambino, e mi metto a piangere quando continuo a non trovarlo nonostante tutto. Dovrebbe essere ancora qui, sepolto sotto le macerie, in fin di vita ma col cuore ancora forte che batte nel petto, e invece è sparito. Non l’ho solo sepolto vivo, l’ho nascosto agli occhi del mondo, così profondamente e tanto a lungo da averlo perso per sempre.
Sto ancora sorridendo e piangendo insieme quando sento il click familiare della serratura della porta del bagno. Mi volto verso la porta che si apre e quando incontro gli occhi di David non mi chiedo neanche per un secondo come sia possibile che sia stato proprio lui a trovarmi. La mia vita è cominciata quando sono stato trovato da quest’uomo. Non sarebbe mai potuta andare diversamente adesso.
- Bill… - dice lui, senza fiato, i lineamenti del viso tesi in una maschera di apprensione e sconforto, - Quando… quando sei tornato?
Mi stringo nelle spalle e nello stesso istante in cui lo faccio il pianto silenzioso che mi ha accompagnato fino ad adesso si fa lentamente sempre più rumoroso. Gemo e singhiozzo e comincio a respirare male, perciò David entra in bagno, chiude la porta alle proprie spalle, si allunga a sbarrare la finestrella aperta in alto sopra la mia testa e poi si china su di me e mi stringe fra le braccia. Io sono talmente stanco che sento ogni fibra del mio corpo sciogliersi e perdere consistenza, mentre mi nascondo sul suo petto e stringo la sua maglietta tanto forte da farmi male alle dita. E continuo a piangere.
- Non so cosa sto facendo. – dico piano, a fatica, schiacciandomi con forza contro di lui perché non voglio vedere me stesso e non voglio vedere neanche nient’altro. – Non mi riconosco. Quando mi guardo in faccia, David, dico davvero, non sono io. Quello non sono io.
- Io ti riconosco. – mormora David, cullandomi lentamente, - Io lo so chi sei, Billi. Sei solo un po’ opaco, ma sei sempre tu. Guarda. – aggiunge con un mezzo sorriso, prendendomi per le spalle e facendo girare lo sgabello su cui sono seduto abbastanza da permettermi di guardarmi allo specchio, - Come fai a non vederti? Chi altri potrebbe essere così bello anche dopo essersi tagliato i capelli con gli occhi palesemente bendati ed avere poi pianto per mezz’ora?
- Sono orribile! – dico, distogliendo lo sguardo e coprendomi il viso con entrambe le mani. David le scosta, accompagnandole finché non le abbasso, e poi mi prende il mento fra le dita, obbligandomi a tornare a fissare il mio riflesso nello specchio.
- Sei bellissimo. – dice con sicurezza, - Anche se in effetti sono costretto ad ammettere che il lavoro che hai fatto con questi capelli è davvero raccapricciante, tesoro. – aggiunge con tono frivolo, gesticolando un po’ mentre si china a recuperare le forbicine dal lavandino, - Dico davvero, Bill, che delusione, sei un disonore per la tua intera razza. L’autorità costituita dell’Ordine Mondiale degli Omosessuali nel Mondo dello Spettacolo non sarà per niente contenta di tutto questo. A maggior ragione visto che sei il mio figlio spirituale, voglio dire, non ti ho insegnato niente in tutti questi anni? Si può soffrire, ma con grazia. – annuisce compitamente.
Io mi appoggio di schiena al suo petto e lo osservo mentre mi maneggia con una cura che non riesce a stupirmi nemmeno in parte. Lo ascolto mormorare rassicurazioni prive di senso e continuare a blaterare a caso su questo fantomatico Ordine Mondiale Gay che a suo dire dovrebbe strapparmi di dosso il distintivo di Vero Gay che nemmeno posseggo perché non sono stato in grado di tagliarmi decentemente i capelli mentre non riuscivo a vedere a due centimetri dal mio naso, tante erano le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo guardo mentre pareggia il taglio ai lati della mia testa e sistema le ciocche di capelli più lunghi che sono rimasti in cima, osservando il tutto con aria critica fino a quando gli si illuminano gli occhi e lo vedo girare su se stesso con una piroetta entusiasta, spalancando sportelli in dieci centimetri di spazio per recuperare il rasoio elettrico prima di invitarmi a chiudere gli occhi e rilassarmi, che quando li avrò riaperti allora sì che riuscirò a riconoscermi.
Li riapro almeno mezz’ora dopo. Non sono sicuro di non essermi addormentato. Schiudendo le palpebre, i miei occhi incontrano il riflesso della mia immagine, nello specchio. David sta accarezzando i miei capelli con l’attenzione e l’affetto di un padre. Sulle sue labbra s’è aperto un sorriso distratto e lieve, mentre non lo guardavo. Passa le dita fra le ciocche scure, sistemandole sopra la mia testa con cura, e sembra sereno. Così sereno.
Riporto lo sguardo sullo specchio. Quello continuo a non essere io. Non riesco nemmeno a sentire le sue carezze, o il calore del suo petto che si alza e si abbassa sollevandomi ad ogni respiro, proprio dietro di me. Non c’è niente. Non c’è più niente.
Chiudo gli occhi e ricomincio a piangere. Silenziosamente. Non voglio dare fastidio a nessuno.
David finisce di sistemare il taglio e poi mi abbraccia piano, come avesse paura di disturbarmi.
- Ti lascio un po’ tranquillo, ok? – mi sussurra all’orecchio. Io annuisco e lui sorride ancora, stringendomi una spalla con fare rassicurante prima di uscire dal bagno. Pochi secondi dopo lo sento abbandonare anche il tourbus, e la mia testa comincia a girare in un modo nuovo. È una sensazione che non ho mai provato, come stare a guardare mentre le cose che decido e che faccio semplicemente accadono, una dietro l’altra. Non ho davvero una parte, in tutto questo. Sono attore e spettatore, ma quasi nemmeno mi muovo.
Esco dal bagno. Prendo uno zaino. Lo riempio di roba a caso. Dove sto andando, niente di tutto questo mi servirà, eppure per qualche motivo l’idea di muovermi senza niente mi disturba. Prendo il beauty case. Una maglietta. Un paio di calzini ed uno di mutande. Due merendine ed una bottiglietta d’acqua dal frigo. Il portafogli. Infilo la giacca ed esco all’esterno. Ritorno dentro, mi avvicino al tavolo e prendo un post-it dal cassetto del cucinino. Scrivo sopra che avevo sonno e mi sono infilato nella cuccetta. Prego di non svegliarmi fino a domani. Saluto Peter disegnando un cuore nell’angolo in basso. Lascio il post-it dov’è e torno fuori. Mi guardo intorno, non c’è nessuno nelle vicinanze. C’è un bel po’ di gente assiepata di fronte all’entrata dell’autogrill. Alcuni si agitano, guardano verso uno schermo. Probabilmente stanno seguendo qualche partita. Quando stavo con Anis ero sempre al corrente delle partite che si giocavano, ogni settimana. Dovevo, visto che lui il calcio lo adora. Era carino stare sdraiati sul divano la domenica sera. Lui guardava la tv, io guardavo lui e mi ripetevo quanto fossi fortunato.
Sorrido un po’, sperando che Anis sia dentro l’autogrill con gli altri. Sperando che stia guardando la partita e si stia divertendo e non stia pensando a niente. Giro attorno ai tourbus e scavalco il guardrail. Percorro a ritroso la stessa via che ho fatto tornando qui non più di un paio d’ore fa, e raggiungo la stazione di servizio della torta ai mirtilli in meno di venti minuti. Mi rendo conto di quanto abbia dilatato il tempo all’andata e anche al ritorno, e realizzo coscientemente per la prima volta che non c’era nessun villaggio perso in mezzo ai campi di grano, nessuna nonna Ena, nessun nonno Joseph.
Entro nell’autogrill, chiedo una fetta della stessa torta che ho mangiato prima e me la faccio mettere in una confezione da asporto. Dopodiché spiego che ho bisogno di raggiungere Berlino al più presto, ma il tipo oltre il bancone mi guarda come fossi completamente pazzo per qualche secondo, ed allora aggiungo che andrà bene anche una stazione ferroviaria, che poi da lì mi organizzerò da solo. Mi si avvicina una signora con un bimbo in braccio e mi dice che lei e suo marito stanno giusto tornando in città, e per loro non è un problema accompagnarmi fino alla stazione, se per me non è un problema viaggiare con estranei. Sorrido e la ringrazio, assicurandole che non c’è proprio nessun problema. Come potrebbe? Se non volessi viaggiare con un estraneo, non potrei viaggiare nemmeno con me stesso.
In macchina resto più che altro in silenzio. La signora e il signore mi fanno un sacco di domande, ed io rispondo a tutte, per quello che posso, ma senza aprirmi troppo. Il bimbo, ancorato al seggiolino sul sedile posteriore, proprio qui al mio fianco, ad un certo punto si mette a piangere, forse a causa di un po’ di mal d’auto. Afferro uno dei sonaglini sparsi in giro per la macchina e comincio a distrarlo. Il bambino mi segue, dopo un po’ smette di piangere. Continuo a farlo giocare facendo smorfie e agitando il sonaglio, e vedo i suoi genitori sorridere e sorridersi nel riflesso dello specchietto retrovisore. Mi viene un po’ da piangere, ma non cedo.
Arriviamo in stazione che è già buio, ma siccome non è tanto tardi c’è un sacco di gente in giro, e treni che arrivano e ripartono ad ogni binario. La stazione è tutta illuminata, c’è un McDonald’s aperto nel quale ho paura di entrare. Cerco sul tabellone il primo treno per Berlino. È un treno notturno e parte fra mezz’ora. Mi dico che sono stato fortunato anche stavolta, lo sono spesso e senza nessun motivo. Compro un biglietto e poi mi seggo in sala d’aspetto, tenendo sempre d’occhio il tabellone degli arrivi. Ho fame e mi annoio. Tiro fuori la fetta di torta ai mirtilli dalla sua confezione e la mangio con piacere immenso, chiudendo gli occhi ed assaporandola lentamente.
Quando finisco, è già ora di muoversi. Esco dalla sala d’aspetto, salgo sul treno, prendo posto in uno scompartimento quasi vuoto – c’è solo un uomo seduto dal lato opposto, e dorme profondamente – e mi appoggio al finestrino, guardando la notte e la città e la campagna mentre scorre davanti ai miei occhi diventando una macchia scura priva di contorni distinguibili, con qualche luce che appare all’improvviso e altrettanto all’improvviso scompare, lasciando solo una traccia sulla mia retina. Ogni traccia resiste per qualche secondo, sia che io tenga gli occhi aperti sia che io li chiuda, perciò a un certo punto li chiudo e resto lì appoggiato, inspirando ed espirando profondamente l’aria ghiacciata che entra dentro dallo spiraglio del finestrino appena abbassato.
Mi sembra di chiudere gli occhi solo per dieci minuti, o qualcosa del genere, ma quando li riapro è già mattina. Sono stanco esattamente come ieri, ma mi tiro in piedi e cerco di stare ben dritto sulle gambe quando il treno, dopo un millennio da quando ha cominciato a rallentare in prossimità della stazione, si ferma. Recupero il mio zaino e scendo barcollando, reggendomi a qualsiasi cosa incontri per strada e sia ancorata abbastanza saldamente al suolo. Dio, sono così stanco.
Controllo il cellulare che durante la notte, in modalità silenziosa, ha squillato di continuo. Trenta chiamate solo da Peter, non molte di meno da David, cinque o sei da Tom, un paio perfino da Anis. Il mio biglietto non deve averli convinti molto.
Sospiro, cancellando l’elenco delle chiamate e spegnendo il cellulare. Chiamo un taxi e, quando il tassista mi chiede dove voglio andare, per un secondo non ho idea di cosa rispondergli, perché non voglio andare da nessuna parte. Se nessuna parte esistesse, sarebbe lì che andrei. Sarebbe sicuramente un posto come quello che ho visto mentre sognavo, o comunque non ero in me, alla stazione di servizio. Poche case, una piazza, un pozzo, campi di grano ovunque, bambini, donne, persone anziane, lavoratori lontani come miraggi. Ma quel posto non esiste, e io ho bisogno di sentirmi al sicuro, e negli ultimi anni c’è solo un posto in cui sia riuscito a sentirmi così.
Do al tassista l’indirizzo della Villa Gialla, e sorrido man mano che le strade che percorriamo si vanno facendo sempre più familiari e rassicuranti. Riesco a rivedermi imboccare queste stesse strade sulla mia macchina, o su quella di Tomi, quando riuscivo a rubargliela o a convincerlo ad accompagnarmi lui, non perché ne avessi bisogno ma semplicemente perché mi piaceva l’idea. Perché quello era un periodo in cui potevo fare le cose anche solo perché mi andava. E mi manca.
Della Villa Gialla ho ancora le chiavi. Non le ho mai ridate ad Anis. Le tengo assieme a tutte le altre nel mazzo, un mazzo enorme con cinquecento portachiavi e che pesa più di me. Pago il tassista ed aspetto che il taxi sia sparito dietro il primo angolo prima di tirarlo fuori. Apro il cancello e sento i cani abbaiare. Sono aggressivi, all’inizio, tirano le catene tanto forte che mi viene quasi da pensare che riusciranno a muovere perfino le cucce, come nei cartoni animati, ma quando si allungano abbastanza da vedere che sono io il loro abbaiare si fa meno aggressivo e più festoso, smettono di tirare e cominciano a saltellare. Mi avvicino piano e mi chino davanti a loro, che subito si accoccolano davanti a me per un po’ di carezze. Gratto Skyline sulla pancia e Sherlee dietro le orecchie, poi mi rimetto in piedi ed entro in casa. È tutto buio e c’è silenzio ovunque. I cani riprendono ad abbaiare per qualche minuto, ma quando si rendono conto che non li farò entrare smettono, e tornano ad accucciarsi all’interno delle loro pittoresche casette di legno. Io spalanco le imposte di una sola finestra in salotto. La luce investe il divano ed è lì che mi vado a sedere, poggiando lo zaino sul pavimento e fissando un punto imprecisato nel vuoto.
È anche qui che mi trova Patrick quando entra in casa, non so quante ore dopo. Abbastanza perché il sole sia tanto alto nel cielo da colpire la stanza per intero, illuminandola tutta. Ho osservato i raggi farsi più ampi, li ho sentiti farsi più caldi, e smetto di guardarli solo quando sento la chiave girare nella toppa e la porta aprirsi su di lui, che mi individua subito, dall’ingresso, e spalanca gli occhi.
- Bill? – mi chiama. È talmente incredulo che gli trema la voce. – Bill, ma che cazzo ci fai qui?
Mi rannicchio un po’ sul divano, sorridendo debolmente. Sono così stanco, mi si chiudono gli occhi.
- Sono scappato. – ammetto, troppo stanco per inventare balle, - Non ce la facevo più.
- Sei— sei scappato? – sillaba lui, sconvolto, sedendosi sul divano e sporgendosi tutto verso di me, come avesse paura di vedermi crollare all’improvviso e dovesse tenersi pronto ad allungarsi per recuperarmi prima che mi schianti a terra.
- Sì. – biascico io, trovando non so dove la forza per annuire, - Patrick, non capisco più niente di quello che succede. Io credo di essere impazzito. – rido un po’, ma è una risata talmente debole e stanca che fa più paura a me di quanta ne faccia a lui. Ed a lui già ne fa tanta, lo vedo dal brivido che gli scorre per tutta la schiena, costringendolo a tremare impercettibilmente.
- Come sarebbe a dire che credi di essere impazzito? – mi chiede, strisciando sul divano fino ad avvicinarsi abbastanza perché il mio corpo possa reagire come fa sempre quando non ce la fa più a sostenersi da solo. Mi perdo fra le sue braccia, abbandonandomi contro il suo petto e chiedendomi se questo non sia poi il motivo principale per cui sono pieno di guai. Per la vita che mi sono scelto, io dovrei essere molto più forte di così. Però non lo sono, e questo mi porta a causare un sacco di guai a me stesso ed agli altri. Questa cosa è così ingiusta. Però io sono così stanco.
- Non sono più io. – mugolo confusamente, cercando di non piangere nonostante gli occhi siano così carichi di lacrime da bruciare, - Non mi riconosco. Sto un sacco male, Patrick.
Patrick mi stringe e mi accarezza i capelli e il collo, cullandomi col ritmo dei suoi respiri.
- Stai bene, così. – dice a bassa voce, passando le dita fra le punte cortissime dei miei capelli. Io ringrazio così piano che lui nemmeno mi sente. – Bill, - mi chiama, ed io istintivamente so che sta per dirmi qualcosa che non sono sicuro di voler sentire, - tu lo sai perché le cose vanno così male.
Stringo i denti, aggrottando le sopracciglia e stringendo un lembo della sua maglietta fra le dita.
- No che non lo so. – rispondo con tono lamentoso.
Lui mi stringe più forte, cullandomi lentamente.
- Alle volte le cose vanno fatte anche se ci fanno stare male. – dice, e gli trema la voce. E so che sta parlando per me, in questo momento, ma anche per se stesso.
- Non voglio. – piagnucolo. Non riesco più a trattenere le lacrime che nel mentre si sono gonfiate così tanto da cadere a gocce enormi sulla sua maglietta, sui suoi pantaloni e sulle mie mani.
- Bill, tu… - sospira e riprende ad accarezzarmi la nuca, senza smettere un secondo di ondeggiare avanti e indietro, - …tutti noi, in realtà. Ci siamo tutti persi. Abbiamo bisogno di ritrovarci, ma non possiamo farlo finché—
- Non dirlo.
- Finché non riusciamo a concentrarci solo su noi stessi. – conclude lui, stringendomi fortissimo perché sa che se non lo facesse scapperei. Ci provo, a divincolarmi, ma sono così stanco che non riesco. Trattengo il fiato così a lungo che mi sembra di potere esplodere, e poi lo rilascio e scoppio a piangere più forte di quanto non facessi prima, mugolando che non voglio, non voglio lasciarli, sono tutto il mio mondo, sono la ragione per cui sono qui, tutti loro, tutti e tre, in modo diverso ma ugualmente importante, e non ce la faccio proprio a metterli da parte, non ci riesco, non voglio. E mentre piango sempre più forte, e la mia voce si fa sempre più stridula e lagnosa, Fler mi stringe sempre con meno convinzione ed io realizzo che questa persona che piange e si lagna e non ha coraggio né forza di volontà non sono io. Ed è questo il motivo per cui mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Questo stupido ragazzino impotente non sono io. Io non avevo ancora diciott’anni quando mi sono innamorato sul serio ed ho deciso che avrei conquistato l’uomo che amavo. Non avevo ancora diciott’anni quando ho ascoltato ciò che quest’uomo aveva da dirmi ed ho deciso di accettare tutto, di lui, perfino il suo passato, perché era ciò che serviva per averlo. Ed ero ancora più piccolo quando ho deciso cosa dovevo fare della mia vita, ero ancora più piccolo quando ho cominciato a lavorare, ad un’età in cui i ragazzini normali ancora si svegliano alle sette e si lamentano o inventano scuse per non andare a scuola.
Ora sono qui che piango e strepito e faccio i capricci come uno di quei ragazzini che non sono mai voluto essere. E questo non sono io. Non è così che mi voglio. E se è vero che mi sono perso, devo assolutamente ritrovarmi.
Mi allontano da lui, raddrizzando le spalle e passandomi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Patrick mi osserva farlo e non ha bisogno di chiedermi niente per capire che finalmente ci sono arrivato anch’io.
Mi alzo subito in piedi, non perché voglia scappare, ma perché voglio fare qualcosa. Una cosa qualsiasi. Anche soltanto alzarmi in piedi e girare attorno al divano per sgranchirmi le gambe. Improvvisamente, sono molto meno stanco di quanto non fossi prima. Forse ero solo così pieno di tristezza da non riuscire a muovermi come volevo. Forse dovevo soltanto piangerla via.
- Partirò. – dico annuendo. Guardo fuori dalla finestra, le strade piene di persone e il sole altissimo nel cielo azzurro macchiato appena da qualche sbuffo bianco semitrasparente. – Me ne andrò in qualche bel posto con Tomi. Alle Maldive, magari. Io e lui dobbiamo dirci tante cose.
Patrick annuisce, sorridendo debolmente ed affiancandomisi per abbracciarmi ancora.
- Sarebbe meglio non sentirsi. Nemmeno noi. – dice, quasi per assicurarsi che abbia capito bene il concetto.
- Sì. – rido io, - Lo so perfettamente. Parlerò con David. Risolverò questa situazione.
Patrick si allontana, guardandomi con aria un po’ incerta ma profondamente divertita.
- Chi sei tu? – chiede ridacchiando, - Non ti ho mai visto così.
- Tu non mi hai mai conosciuto. – rispondo con un sorriso più dolce, allungandomi ad abbracciarlo a mia volta, - Quando sarò tornato, quando starò meglio, vorrò che tu mi conosca. Partiremo insieme, e stavolta sarà diverso da tutte le altre volte. Credimi.
Mi allontano ancora e frugo nelle tasche dei jeans, tirandone fuori il mazzo di chiavi. Lo guardo per qualche secondo, facendolo tintinnare sul palmo della mano, e poi stacco le chiavi del cancello e di questa villa, e le do a Fler.
- …sono…? – chiede lui con aria incerta. Io annuisco.
- Non le ho mai ridate ad Anis. – confesso, - Puoi fargliele avere tu?
Patrick annuisce, prendendo le chiavi in mano e conservandole subito in tasca. Lo saluto con un bacio sulla guancia, recupero il mio zaino e mi avvio lungo il corridoio.
- Stammi bene, ragazzino. – mi saluta lui, sbuffando un sorriso incerto. Gli faccio un cenno con una mano, prima di sparire oltre la soglia e lasciarlo in salotto. Sono ancora qui, ma non vedo l’ora di essere fuori. Chiamerò Tomi appena arrivato a casa. Gli dirò tutto. Sistemeremo tutto. Posso già sentire il calore del sole sulla pelle, la consistenza dei granelli di sabbia fra le dita, l’acqua ghiacciata che mi scivola fra i capelli e sul viso.
Attraverso tutto il corridoio e, quando arrivo a un passo dalla porta, mi volto verso lo specchio alto e largo sopra la consolle, e mi sorrido. Sento che sto sorridendo proprio a me stesso, e capisco che la direzione, stavolta, è quella giusta.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo, Triste, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Angst, Lemon.
- "Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo."
Note: ...allegria. \o/ (Questa storia non doveva essere così. Per certi versi, le premesse dovevano essere più "soft", ed in qualche modo, di conseguenza, dovevano essere più leggere anche le ovvie conclusioni che da quelle premesse dovevano arrivare. Così non è stato, perché questa gente purtroppo sta male più di quanto io stessa non avessi capito. Chiedo scusa /o\)
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A SAD-EYED LIE


Mi lascio ricadere sul divanetto in fondo al tourbus con un sospiro stremato, e resto lì seduto a fissare il vuoto per qualche secondo, troppo stanco per provare a fare qualsiasi altra cosa, finché non mi sento letteralmente cedere e mi rassegno a stendermi lì per una decina di minuti, prima di trovare la forza di rimettermi in piedi, farmi una doccia e trascinarmi nella mia cuccetta. Lontano anni luce da me, sento Tom augurare la buonanotte a qualcuno e poi chiudere con forza lo sportello. Lo sento girare in tondo per qualche minuto, calmo, come stesse prendendo le misure dell’ambiente circostante, e poi sento i suoi passi avvicinarsi.
Apro un occhio.
- Sei vivo? – mi chiede. Sta dritto accanto a me, le mani sui fianchi, le fronte libera dalla solita bandana e la camicia aperta per metà sul petto.
- Chiedimelo di nuovo fra una decina di minuti. – rispondo a mezza voce. Lui si lascia sfuggire una mezza risata divertita.
- Stanotte esco. – m’informa poi, come fossi il suo cazzo di padre o chessò io. – Arriviamo a Magdeburgo verso le due. La notte, per allora, sarà ancora giovane, e ho tutta l’intenzione di riallacciare i rapporti con qualche vecchio amico.
- Amica è il termine esatto, Tom. – lo correggo aggrottando le sopracciglia. Se fossi solo un po’ meno stremato, salterei in piedi e lo prenderei a pugni su quel suo muso pulitino da Don Giovanni delle ragazzine, ricordandogli che sta con una delle mie donne, e in quanto tale le deve rispetto, ma sono veramente troppo, troppo stanco, e peraltro conosco Cassandra, so che non è una stupida ed immagino che il discorso del sesso in tour l’abbiano affrontato, prima che Tom partisse, per cui mi limito ad aggrottare le benedette sopracciglia e disapprovarlo silenziosamente.
- Sì, forse. – ride lui, malizioso.
- Jost te lo lascia fare? – chiedo, rassegnandomi a tirarmi su ed aggrappandomi al divano come ne andasse della mia vita.
- David è la tua balia, non la mia. – mi fa notare con un sorriso furbo. La cosa, purtroppo, è anche fin troppo vera. Purtroppo, Jost è umano. Se stringe la presa da una parte, deve mollarla dall’altra. E Dio solo sa quanto forte debba essere la presa, se si vuole avere a che fare con me. – E comunque al momento ha altro cui pensare. Il che mi fa molto comodo, visto che io, invece, non voglio pensare a niente.
Si allontana senza aggiungere una parola, e d’altronde non che ce ne sia davvero bisogno. Lui è, se possibile, quello che l’ha presa peggio, tutta questa storia del tour. Forse perché come noi non ne capisce il senso, ma differentemente da noi prima di imbarcarcisi stava bene. Io, Bill, Chakuza e per certi versi anche David, non è che fossimo sereni, prima di partire. Non è che ringraziassimo Allah ogni volta che aprivamo gli occhi al mattino, per dire. Tom invece no. Anzi, più precisamente, Tom invece chissà, perché chi l’ha visto, ultimamente? Chi ha visto lui o Cassie? Chi li ha visti ricostruirsi una vita mentre ancora noi vaghiamo sperduti e senza meta fra le macerie della vecchia?
Quindi, insomma, posso solo immaginare quanto doversi mettere in viaggio con noialtri possa averlo scazzato, soprattutto visti i risultati gloriosi che non facciamo che affastellare l’uno sull’altro da quando siamo partiti. Sono abbastanza sicuro che la macchia sulla mia reputazione, dopo questo tour, non andrà più via. C’è differenza fra l’improvvisare una piccola produzione e magari fare qualche spettacolo così alla buona ma con tanta passione, come quelli che facevamo io e Patrick da ragazzi, e l’avere a portata di mano una produzione potenzialmente perfetta, con tanto di scenografia del ghetto e robaccia simile – roba che se io e Bill avessimo avuto per le mani una proposta del genere un paio d’anni fa ne sarebbe venuto fuori un tour che la popolazione mondiale avrebbe ricordato nei secoli a venire, garantito – e buttare tutto nel cesso perché un po’ non ce la fai, e un po’ nemmeno vuoi provarci.
Io, per dire, non ce la faccio e nemmeno voglio provarci. Sono stanco, frustrato e voglio tornarmene a casa mia, come quando da piccolo mamma mi portava a cena la domenica dai nonni, e loro erano sempre rigidi e silenziosi come sputassi nei loro piatti. Non vedevo l’ora di potermene tornare a casa mia, non perché ci fosse chissà che ad attendermi – a conti fatti, ad attendermi non c’era proprio un bel niente – ma perché semplicemente casa era un posto sicuro. Avevo la mia cameretta col mio letto e i miei poster e i miei cd pirata e le mie cuffie enormi e il mio lettore cd gigantesco e vecchissimo e perennemente impolverato, e chiudevo gli occhi e smettevo di pensare. Adesso vorrei fare la stessa cosa, solo tornarmene a casa, chiudermi a doppia mandata nel mio studio e metter su della musica. Qualsiasi musica. Chiudere gli occhi e spegnermi, solo per un po’.
La parte peggiore del tutto, poi, non è nemmeno che il tour stia andando male dal punto di vista lavorativo. Un sacco di cose, nel corso della mia carriera, sono andate male da quel punto di vista, e lo dimostra il fatto che una roba che la gente comincia a fare quando ha meno di diciott’anni io ho cominciato a farla solo quando ne avevo ventuno, e neanche tanto seriamente – per la serietà, ho dovuto aspettare i venticinque. Solo che, quando le cose andavano male, io comunque andavo sempre bene. E quindi le cose potevano anche crollare tutte assieme come i castelli di carta che erano, perché tanto le mie spalle erano sempre abbastanza forti da reggere la frana.
Adesso è diverso. Adesso io sono troppo stanco per reggere alcunché. Tutto crolla e io non riesco a sopportarlo bene come avrei fatto dieci o cinque o anche un anno fa, ed a complicare tutto, naturalmente, c’è Bill. Che è la parte peggiore di cui parlavo, perché Bill può essere solo due cose, considerato ciò che è e ciò che fa e come lo fa, può essere la parte peggiore, o la parte migliore. Non ha mezzitoni, in questo senso, ed ha smesso di essere la parte migliore, per me, tanto di quel tempo fa che ogni tanto fatico perfino a ricordare com’era.
Sono rintanato nella mia cuccetta da almeno un’ora, quando sento il tourbus fermarsi. C’è silenzio, tutto intorno, ed è evidente che siamo nella piazzola di una stazione di servizio poco lontana dalla città, perché a quanto ho capito il servizio di sicurezza ha sconsigliato a Jost di entrare materialmente nelle città ed insediarci negli alberghi prima dei concerti. La pressione dei paparazzi e della critica su tutto quello che sta succedendo, la fame con cui ci strappano di dosso segreti misti a brandelli di carne è veramente esagerata, e sistemarci in un albergo, anche il più sicuro, sarebbe un suicidio. Perciò rimaniamo fuori, dove è più difficile che ci trovino. Il che non sarebbe un male nel complesso, se poi m’impedisse vie di fuga quando invece ne ho bisogno.
- Ohi. – dice Tom, sollevando la tenda e fissandomi. La sua è solo una sagoma nel buio, illuminata parzialmente dalle luci dei lampioni disseminati nella piazzola, di fuori. – Uno della security ci accompagna giù in città. – esita qualche secondo, mordicchiandosi un labbro. È così simile a suo fratello, certe volte. – Non è che ti va di venire?
Quello che vorrei chiedergli adesso è non è che a te va di restare?, ma lascio perdere.
- Vai tranquillo. – borbotto senza neanche sollevare la testa dal cuscino, - Sono stanco morto, nemmeno ti sentirò rientrare. Starò dormendo come un sasso entro dieci minuti al massimo.
Lui scrolla le spalle e non insiste.
- Come vuoi. – dice, lasciando andare la tenda. Sento i suoi passi pesanti allontanarsi lentamente lungo il corridoio e poi sparire, nel momento stesso in cui lo sento salutare giovialmente Schäfer e Listing ad alta voce, facendo qualche battuta sugli occhiali del primo e sui capelli del secondo.
Io mi tiro a sedere, dimenticando i propositi di sonno immediato, e piego le gambe, appoggiando gli avambracci alle ginocchia. Fisso il buio così a lungo che ad un certo punto riesco a distinguere le pieghe delle lenzuola stropicciate ed ammonticchiate ai piedi del materasso, ed è allora che sento lo sportello del tourbus aprirsi discretamente e poi richiudersi con un sottilissimo click.
Indossa le Adidas, riconoscerei quello scricchiolio infantile ovunque. So che strascica i piedi perché vuole che lo senta, e mi mordo con forza un labbro quando vedo le sue dita spuntare nella fessura fra le due tende che mi separano dal resto dell’universo, un secondo prima che lui le scosti. Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo. Poi, lui mi sorride – un sorriso minuscolo, che sembra voglia scusarsi perfino di esistere – e si siede sul bordo della mia cuccetta, dandomi quasi le spalle. Lancia un’occhiata fuori dalla finestrella chiusa, sulla strada. La piazzola è già deserta, chi doveva andare in città c’è andato, gli altri si stanno riposando o sono all’interno della stazione di servizio per rifocillarsi o prendere un caffè.
- Ti andrebbe di andare a fare una passeggiata? – mi chiede a mezza voce, quasi trasognato. Inarco un sopracciglio, lui non lo vede ma precisa comunque, - Non ti ho chiesto di venire con me a passeggiare di fuori. Mi chiedevo… se io ti invitassi, tu verresti?
Sospiro profondamente, gettando le gambe giù dal letto e sedendomi accanto a lui.
- Perché vuoi rendere tutto più difficile, Bill? – gli chiedo a bassa voce. Lui sorride appena.
- Perché non c’è un modo facile per fare andare avanti tutto questo. Sapere che sei così vicino mi… - si interrompe, come cercando le parole. È probabile che non riesca a trovarle, comunque, perché lascia la frase sospesa. – Avevo voglia di vederti. – conclude quindi, come se questo potesse bastare a giustificare la sua presenza qui, ora, mentre il suo uomo presumibilmente dorme un tourbus più in là.
- Bill… - dico con un altro sospiro, grattandomi la fronte, - Sei un bimbo grande, ormai. Certe giustificazioni valgono sempre meno, man mano che cresci.
Lui ride piano, stringendosi nelle spalle.
- Il problema è questo qui, sai? Che sono cresciuto. – risponde, voltandosi a guardarmi. Anche nel buio, i suoi occhi brillano. Li sento addosso come fossero di fuoco.
- Forse non abbastanza, però. – obbietto io, - Ti stai comportando esattamente come quando eri un ragazzino e ti appostavi fuori da casa mia pregandomi di farti entrare per un po’. Continui a tornare.
Bill ride ancora, con maggiore convinzione.
- Questo forse dovrebbe dirci qualcosa. – commenta, - Anche perché continui a tornare pure tu. Torni anche dalla morte.
- Io non ero morto, Bill. – lo dico con durezza, severamente. Lui si volta a guardarmi come l’avessi offeso personalmente.
- Tu eri morto. – dice convinto, - Tu non annullerai il mio lutto solo perché sei risorto. Tu eri morto, Anis, tu sei stato morto per un sacco di tempo. Ora sei tornato, ma prima eri morto comunque.
Annuisco piano, guardando altrove. Sorrido, anche se solo un po’, quando riprendo a parlare.
- Fatico ancora a realizzare pienamente quanto male ti ho fatto. – confesso in un fiato, - Devi capire che la decisione che ho preso l’ho presa in un momento molto particolare, in cui la ritenevo necessaria. Ero convinto che sarebbe stata la cosa migliore da fare ed ho accettato l’eventualità che tu potessi soffrire perché riuscivo a vedere, in prospettiva, che prima o poi saresti stato nuovamente felice.
È la prima volta che riesco a dirgli una cosa simile esattamente come la penso e in maniera serena. È un po’ assurdo che noi si abbia avuto bisogno di sfiancarci, letteralmente, sia a livello fisico che a livello emotivo che a livello mentale, prima di poter parlare come persone civili. Intavolare questo discorso due o tre mesi fa avrebbe portato inevitabilmente ad un litigio in cui ci saremmo sputati addosso le cattiverie più indegne per il solo gusto di farci del male a vicenda. Oggi posso guardare il suo profilo nel buio del tourbus e dirgli tutto questo con tranquillità perché sono consapevole del fatto che se provassi a cercare dentro di me un briciolo di forza per attaccarlo, non ci riuscirei, e per lui vale lo stesso.
Se ci penso, facevamo così anche allora, quando tutto era più facile ed eravamo solo io e lui. Avendo sempre avuto i caratteri forti che abbiamo, ogni litigio era una guerra che poteva durare dei giorni, poteva essere logorante per davvero, ed era solo alla fine, quando entrambi eravamo stanchi di non poterci più toccare senza un velo di rabbia a coprire tutto il resto, che riuscivamo a riappacificarci, perché solo alla fine riuscivamo a ricominciare a parlare.
- Perché sei tornato? – mi chiede piano. Ho l’impressione che mi abbia già fatto questa domanda, in passato. Lui, o il lui che ho sempre avuto nella testa mentre stavo a Miami, che fossi ubriaco o meno. L’istinto mi direbbe di ripetere a lui quello che ho già detto agli altri, più e più volte. Il messaggio preimpostato per le riviste e i vecchi amici. L’Ersguterjunge stava crollando, l’unica cosa del tutto mia che mi rimaneva al mondo si stava sfaldando perché non avevo considerato troppi dettagli. Per una mia incuria, in definitiva.
Potrei farlo, potrei dirgli questo adesso, e so che in qualche modo questo porrebbe fine alle sue visite continuative in questo tourbus, ai discorsi sciocchi e privi di senso che facciamo sul cielo della notte, sul caffè dei distributori automatici e sullo scarico del cesso che nel suo tourbus funziona male, so che porrebbe fine anche a quello che in genere segue questi discorso, il vero problema principale che mi impedisce di accettare la sua presenza qui come qualcosa di positivo, ma so che, se voglio essere completamente sincero, io non voglio che questo finisca.
E non voglio che lui creda che sia solo per l’Ersguterjunge che ho deciso di rovinargli la vita, o ciò che ne restava dopo esserci passato sopra con un carro armato.
- Perché ti rivolevo indietro. – rispondo senza guardarlo, - Perché da qualche parte sentivo ancora che eri mio e non prendevo neanche in considerazione l’idea di potermi sbagliare. – inspiro ed espiro profondamente, voltandomi a guardarlo. Lui sta già guardando me. – Ti rivolevo indietro. – ripeto, - Tu sei il motivo per cui me ne sono andato, quello per cui sono tornato, e quello per cui continuerei ad andarmene e tornare all’infinito, se fosse necessario.
Bill smette di respirare. Per molti secondi non sento più aria passare attraverso le sue labbra, e lui resta immobile, come gli avessi sparato a bruciapelo nel centro del petto. Realizzo la portata di ciò che gli ho detto solo quando lui si sporge verso di me e poggia le proprie labbra sulle mie. Mi bacia in modo tenero, quasi infantile, come avesse dimenticato come si fa e stesse cercando sul mio corpo le tracce per imparare nuovamente a farlo. Allunga le braccia e me le allaccia al collo, mi scavalca con una gamba e si sistema impacciato sul mio grembo, pressandosi contro di me, ed io ho appena il tempo di lasciar scivolare le mani lungo la linea dritta della sua vita, sentendo la consistenza ossuta dei suoi fianchi sotto i polpastrelli quando scivolo appena sotto la maglietta leggera che indossa, che devo subito allontanarlo.
- No. – dico piano.
- Non dirlo, non dirlo, non dirlo. – mugola lui, disperato, - Ti prego, non dopo quello che mi hai detto. Fingi che tutto il resto non esista, ti scongiuro, sono stato così bene…
- No, Bill. – insisto, afferrandolo più decisamente per i fianchi e spostandolo di nuovo sul materasso, - Io ho voluto essere sincero, con te, ma fingere che tutto il resto non esista vuol dire tornare a mentirti, di nuovo. Ho deciso tempo fa che non l’avrei più fatto. Abbiamo entrambi due vite diverse, adesso, e—
- Io non ce l’ho! – strilla lui, fra le lacrime, - Io non ce l’ho una vita, tantomeno una vita diversa! Io ho uno schifo e sto male, Anis, e tu… - si abbatte quasi su se stesso, stremato, - Tu mi stai facendo impazzire. – dice in una serie di singhiozzi privi di forza, - Dici che mi vuoi, ma poi non mi vuoi mai. Dici che mi ami, ma fai di tutto per farmi credere che di me non t’importi niente. Io arrivo al punto che me ne frego del mondo, Anis, me ne frego di chi c’è e chi non c’è, me ne frego di Peter, me ne frego di Patrick, di Tom, di David, <>io non ce la faccio, non ce la faccio più…
- Io non posso salvarti da questa cosa, Bill! – dico ad alta voce, afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza, - C’è stato un tempo in cui io e te ci appartenevamo ed io potevo salvarti da questa e da un mucchio di altre cose, ma tu ora non sei mio, Bill, e se non sei mio e non sei di Chakuza non sei di nessuno. – lo lascio andare, alzandomi in piedi e scostando in una mossa le tende ancora un po’ basse della cuccetta. – E questo significa che devi salvarti da solo, perché nessun altro può farlo.
I suoi occhi si accendono di rabbia. Umidi come sono per via delle lacrime, sembrano quasi lampeggiare nel buio. Indietreggio per lasciargli spazio, e Bill scatta subito in piedi, fronteggiandomi furioso.
- Tu non hai mai potuto salvarmi da niente. – dice velenoso, - Tu non mi hai mai salvato da niente. Quando ti è sembrato di farlo, in realtà stavi solo preparando il terreno per farmi del male ancora, e ancora, e ancora. – si allontana di qualche passo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni ostinatamente serrati, come quelli di un bambino. – Non capisco davvero perché continuo a pensare a te come la soluzione di tutti i miei guai, quando evidentemente ne sei la causa.
Non gli rispondo perché l’unica risposta che potrei dargli è che ha ragione. E ciò che dice vale anche per me. Ed anche io non riesco a capirne il motivo. Resto solo pochi secondi dopo, perché lui fugge via subito dopo aver pronunciato quelle poche parole, come l’aria del tourbus si fosse fatta improvvisamente irrespirabile. Cerco di trovare lo stimolo per tornare a stendermi, magari dormire un po’, ma la verità è che sono troppo nervoso. Mi tremano le mani.
Sospirando, lascio la zona notte e mi dirigo nella zona relax. Mi seggo ad un tavolo, osservo il portatile, lo guardo per un po’, poi lascio perdere ed accendo la Playstation. Molto meno impegnativa.
Tom rientra meno di un’ora dopo. Appena mette piede nel tourbus, lo vedo tirare su il naso come un segugio, e poi i suoi occhi si spostano su di me. Sembra considerare la possibilità di chiedermi direttamente se Bill è stato qui o meno, ma alla fine evita, e ripiega su qualcosa di meno compromettente.
- Tutto a posto? – chiede incerto, - Non avevi sonno?
Scrollo le spalle.
- Passato. – mento. Vuoi restare un po’ con me?, ma no, questo non posso chiederglielo.
- D’accordo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Buonanotte. – dice disinteressato, scalciando le scarpe in giro ed infilandosi direttamente nella propria cuccetta. Avrei bisogno, un bisogno serio, di qualcuno con cui parlare. Quando una persona che non parla quasi mai con nessuno sente il bisogno quasi fisico di farlo, vuol dire che è molto, troppo vicina al punto di rottura.
Continuo a giocare. In silenzio.
*

Che qualcosa sia cambiato non c’è bisogno che nessuno lo dica. Si sente nell’aria, si avverte nella tensione nervosa che ci avvolge tutti l’indomani mattina, si legge negli occhi sfuggenti di Chakuza e nella linea tesa della sua mascella, nelle pupille dilatate di Bill che s’è fatto scopare nel bagnetto della toilette della stazione di servizio sapendo benissimo che noialtri saremmo stati qui davanti ai lavandini per sciacquarci il viso e lavarci i denti.
Quando lui e Chakuza sono usciti dal bagno, scarmigliati e arrossati e ancora ansimanti, Chakuza s’è teso come una corda di violino, ed è andato a sciacquarsi frettolosamente il viso al lavandino più distante possibile rispetto a quelli che stavamo usando noialtri. Listing e Schäfer hanno cercato di far finta di niente – so bene che è una situazione sulla quale in un momento diverso avrebbero ironizzato, ma in un momento diverso Bill non avrebbe mai fatto una cosa simile per vendetta, per cui è facile spiegare il loro imbarazzo – ma la cosa che mi colpisce di più, dopo la sfacciataggine di Bill che continua ad aggirarsi per il bagno come non avesse proprio un bel niente da farsi rimproverare, è come al solito una caratteristica di Tom: la sua incredulità.
Guarda suo fratello come non riuscisse proprio a credere a ciò che le sue orecchie hanno appena sentito, e io non so che idea avesse Tom di Bill prima che tutto questo gran casino scoppiasse, ma è evidente che, qualunque fosse, è stata devastata fino all’ultimo granello di purezza che conservava. Tom non sa, non ha idea di cosa Bill sia capace. Non ha idea di cosa io l’abbia reso capace di fare. Non insegnandogli a comportarsi in un certo modo – figurarsi: Bill, poi, non ha mai avuto bisogno che nessuno gli insegnasse alcunché – ma semplicemente mostrandogli un tipo di relazione diversa, più dura, in cui ottieni ciò che dai ma non prima di aver pagato pegno. Io non ne ho mai fatto passare una a Bill. Tanto ero accondiscendente coi suoi capricci più futili, tanto più m’incaponivo sulle questioni importanti.
Questa, per Bill, è una questione dannatamente importante. Ed è palese che non intende farmi passare niente.
L’argomento non esce con noi da quel bagno. Resta intrappolato lì, fra quelle quattro mura piastrellate di bianco. Nessuno ha voglia di parlarne, una volta fuori, comprensibilmente, e chi invece dovrebbe voler discutere la situazione sa che farlo, in fondo, sarebbe inutile. Jost ci osserva entrare ognuno nel proprio tourbus con gli occhi bassi e un imbarazzo generico a tendere i tratti del viso, e già sa che andrà male anche stasera. Come cazzo fai a lavorare con gente che non riesci nemmeno a guardare negli occhi?
Tom sta seduto sul divanetto davanti a me. Batte nervosamente un piede per terra ed appoggia una guancia al palmo della mano, reggendosi il capo col gomito ben piantato sul tavolino, in una posizione tale da impedirgli di incrociare il mio sguardo anche se io faccio di tutto per catturarlo. Non so con chi dovrei parlare, Tom mi sembra la soluzione migliore, ma io questo ragazzino in fondo non lo conosco, e non posso farlo.
La serata, naturalmente, va di merda. Ci rimettiamo in viaggio fra i fischi della folla che ci ha seguito fino a schiacciarsi tutta lungo le transenne. Qualcuno tira qualcosa – pezzi di carta arrotolati, per lo più – e noi ci rifugiamo ognuno al proprio posto con la testa bassa, vergognandoci come cani. Tom, seduto al proprio posto, incassa la testa fra le spalle e si lascia scivolare lungo la seduta del divanetto fino a che solo la sommità della sua testa spunta dal finestrino.
- Che schifo. – sussurra disgustato, - Che schifo. Vi odio tutti, stronzi irresponsabili di merda. Bambini del cazzo. Siete solo bambini del cazzo. Ma cosa stracazzo c’entravo io con questa merda, cosa.
Il suo è un mormorio continuo, somiglia vagamente allo sciabordio dell’acqua di quelle fontane zen che ti spacciano come perfette per dormire. Il mio ufficio ne è pieno, quello nuovo, dico. In quello vecchio non ce n’era bisogno. Comunque, il suono è simile. riesco ad ascoltarlo abbastanza a lungo – lui mormora abbastanza a lungo – da permettermi di scivolare in un sonno agitato e leggerissimo. Continuo a svegliarmi per ogni scossone e ad ogni singola curva. Quando mi sveglio definitivamente, è perché ci siamo fermati, e Tom mi sta scuotendo energicamente per una spalla.
- Io esco. – mi dice, - Ci fermiamo una ventina di minuti ed io non ne posso più di stare qua dentro.
Mi sollevo abbastanza da guardare il buio pesto della notte, fuori dal finestrino. Si vedono le luci di un paese, non troppo distante, ma sembra un buco minuscolo e non so cosa si aspetti di trovarci Tom alle quattro del mattino.
- Siamo in mezzo al nulla, Tom. – provo a dire.
- Sì, be’, è un miglioramento. – taglia corto lui, uscendo di corsa.
Io resto lì immobile per un paio di minuti, giusto il tempo di ascoltarlo chiedere ad una guardia del corpo a caso se lo accompagna giù in paese e di sentire il rombo del motore acceso subito dopo, dopodiché mi alzo in piedi e muovo un paio di passi incerti in giro. Mi sento a pezzi. Ho una voglia matta di un buon caffè, ma non so quanto distante da qui sia la stazione di servizio.
Mi affaccio al finestrino per controllare, ma non riesco davvero a vedere niente perché immediatamente il mio intero campo visivo si riempie della figura di Bill. Il tourbus che divide con Chakuza è parcheggiato proprio accanto al mio, il suo finestrino è alla stessa altezza di quello dal quale lo sto guardando. Vedo solo metà del suo corpo, ma quel che vedo è splendido, ed è nudo, ed è sporco e sbagliato. Appoggiato contro il finestrino, sta piegato in avanti, un avambraccio sollevato a reggere il peso del suo corpo e la fronte che lo sfiora lentamente ad ogni spinta. Si muove ritmicamente avanti e indietro, le sue labbra sono dischiuse ed umide, la lingua che ogni tanto saetta ad inumidirle, piccola e rosa come quella di un gattino.
Ha le palpebre abbassate, ancora bistrate di nero, e deglutendo a fatica riesco quasi a convincermi della casualità del tutto quando Bill si volta all’improvviso ed i suoi occhi incontrano i miei. Non sorride, ma so che vorrebbe. I suoi ansiti aumentano di volume e d’intensità ed io resto lì fino a che qualcuno non mi afferra per il colletto della maglietta, da dietro, e mi scaraventa sulla panca dalla parte opposta del tourbus.
- Cristo! – strilla David, tirando giù la tenda sul finestrino, - Cristo, Bushido! – e non aggiunge altro, prima di allontanarsi di nuovo ed uscire.
Decido che per oggi ne ho avuto abbastanza, e mi rintano nella mia cuccetta.
*

La sera successiva, Bill si fa più sfacciato. Tom esce con la solita fretta, complice il fatto che stasera siamo di nuovo vicini a un centro abitato che rischia perfino di essere ancora vivo verso le quattro del mattino, e io resto un po’ nel tourbus a non fare niente, guardandomi intorno e provando a sentirmi per capire come sto. A Miami avevo molto tempo per stare da solo a pensare, e questo tempo mi è stato quasi del tutto tolto, da quando sono tornato, e soprattutto da quando abbiamo ripreso a lavorare. Resto seduto con gli occhi chiusi, sento tutti i rumori che vengono da fuori. Il chiacchiericcio della corte di tecnici e guardie del corpo che ci accompagna, gli sbadigli degli autisti che danno il cambio a quelli che invece hanno dormito per tutto il pomeriggio in previsione del loro turno, le macchine che passano accanto a noi sfrecciando sull’autostrada.
Sento tutto, e poi sento anche qualcuno che bussa allo sportello.
Forse perché starmene un po’ tranquillo per i fatti miei mi ha messo di buon umore, mi alzo senza problemi e mi affaccio, cercando di mostrarmi sereno e rilassato. Naturalmente, fallisco nel momento esatto in cui vedo che, sulla strada, vestito solo con una maglietta larghissima, c’è Bill.
Non so a che gioco stia giocando. Non ha bisogno di bussare, per entrare. Avrebbe dovuto farlo sempre, ma dal momento che non l’ha fatto mai mi sembra soltanto un modo per stuzzicarmi. Ed il fatto che non abbia praticamente niente addosso peggiora le cose.
Sento qualche gocciolina di sudore scivolarmi lungo la schiena, e non capisco se sia solo caldo.
- Posso entrare? – mi chiede a bassa voce, - Non riesco a dormire.
- Bill. – cerco di interromperlo io, riducendo la fessura aperta dello sportello, - No. Che cazzo di ore sono? Tornatene a dormire.
- Ma non riesco! – insiste lui, sporgendosi verso di me e stringendo le mani al petto. Nel movimento, la maglietta gli si solleva sulle cosce, mostrando centimetri di pelle morbida e bianca. Ne ricordo il profumo, ricordo quando potevo affondarci il naso ed inspirare e mordere e leccare ovunque, perché tutto quel biancore e quella morbidezza erano miei. Miei e di nessun altro. – Ti prego, - mugola scontento, - voglio solo chiacchierare. Non sono venuto qui di nascosto, non voglio fare niente di male. Per favore.
- No, Bill, sono io che te lo chiedo per favore. – dico a corto di fiato, passandomi una mano sugli occhi con forza, - Tornatene a letto. Non darmi modo di fare cose di cui poi mi pentirei.
- Non faremo niente di cui potresti pentirti! – ribatte lui, mettendo un piede sul primo gradino della scaletta per salire, - Per favore, solo dieci minuti, giuro che me ne vado subito, e poi—
- Ma cosa cazzo stai facendo?!
La voce di Tom rimbomba nella piazzola silenziosa come il primo tuono di un temporale. Nessuno di noi se l’aspetta, perché nessuno l’ha sentito tornare. David stava sonnecchiando seduto su una panchina davanti ad un’aiuola alberata, poco più in là, gambe e braccia incrociate e capo chino sul petto, e si tira subito in piedi quando lo sente urlare così all’improvviso.
Bill si volta a guardare suo fratello e sbianca. Diventa così incredibilmente pallido che ho paura di vederlo scomparire.
- Tomi. – mormora terrorizzato. Suo fratello resta per qualche secondo a qualche metro di distanza da lui, le braccia rigide lungo i fianchi. Poi qualcosa nella sua espressione cambia, si accende, e divora lo spazio che li separa in pochissimi passi. Quando lo raggiunge, è troppo veloce perché io possa mettermi in mezzo.
Lo afferra per un polso e lo trascina lontano dal tourbus. Bill cade un paio di volte, i piedi e le gambe nude che si graffiano sull’asfalto ogni volta che scivola, e quando si sono allontanati abbastanza Tom lo costringe a rimettersi in piedi strattonandolo con violenza e poi lo schiaffeggia in pieno volto, con la mano bene aperta. La sua guancia, quando si rimette dritto, è tutta arrossata. So già che ne verrà fuori un livido di quelli enormi.
- Cosa cazzo stavi facendo?! – strilla Tom, tenendolo per il polso e schiaffeggiandolo ancora. Stavolta Bill è più preparato, e per quanto ancora scosso riesce a coprirsi col braccio libero. Tom s’infuria, e prende a picchiarlo con più decisione, contro quello stesso braccio con cui Bill cerca invano di difendersi. Altri lividi, posso quasi già vederli, anche se non spunteranno prima di domattina. – Cosa cazzo facevi là davanti nudo, brutto stronzo?! Coglione! – lo insulta e lo picchia, Bill si accascia per terra senza forze, scosso dai singhiozzi, e Tom lo prende a calci sugli stinchi e nello stomaco. – Sei una troia! Cosa cazzo vai in giro in quel modo?! Ma cosa cazzo vai a fare da Bushido?! Troia!
- Tom, cosa diavolo stai facendo?! – tuona Jost, avvicinandosi minaccioso.
- Stanne fuori, cazzo! – strilla Tom di rimando, afferrando suo fratello per i capelli e tirando finché non si rimette in piedi. Bill grida di dolore, il viso arrossato e gonfio rigato di lacrime. – Questa cazzo di cosa deve finire, Bill! Deve finire, è chiaro?!
- Basta! Tom! Lasciami andare! – piange Bill, e il suo grido è così forte che qualcosa, nelle coscienze di tutte le persone che stanno guardando questa scena, si risveglia. Chakuza, che non avevo visto uscire dal proprio tourbus ma che evidentemente deve averlo fatto mentre non guardavo, si precipita fra i due, stringe Bill in un abbraccio che lo nasconde tutto dagli occhi del mondo intero e lo porta via, mentre lui fatica perfino a camminare a causa delle botte e dei singhiozzi che lo scuotono tutto. David, nel mentre, si lancia in avanti, afferrando Tom per le spalle e stringendolo con forza mentre lui si dimena e urla, lasciandolo andare solo una volta che Bill e Chakuza sono ritornati a chiudersi nel loro tourbus. Tom si libera della sua stretta con uno strattone e un urlo da bestia ferita, aggirandosi per la piazzola in preda al nervoso per un paio di minuti prima di imprecare ad alta voce e dirigersi a passo spedito verso di me.
Mi spinge all’interno del tourbus, entra a propria volta e si chiude lo sportello alle spalle, superandomi mentre io resto immobile e prendendo posto su una delle panche.
- Siediti. – ordina a bassa voce, indicando il posto di fronte a sé con un cenno del capo. Io obbedisco. – Da quanto va avanti questa storia?
Scrollo le spalle e provo a ricordarmi quanto assurdo sia questo momento.
- Un po’. – rispondo quindi, espirando sconfitto.
- Perché non me l’hai detto? – chiede duramente, fissandomi negli occhi.
- Perché avrei dovuto farlo? – ritorco, inarcando le sopracciglia. Lui batte un pugno contro il tavolo, digrignando i denti.
- Perché stiamo parlando di mio fratello. – risponde, - Ti basta? Se non ti basta, fattelo bastare.
Sospiro, abbassando lo sguardo sulle mie dita intrecciate sul tavolo.
- Pensavo di poterlo gestire. – confesso stentatamente.
- Sì, è un errore che avete fatto in molti. – ringhia lui, - Ma la verità è che lo amate troppo per farlo. Tutti quelli che gli stanno intorno in questo momento lo amano troppo per farlo. E questo lo sta rovinando, te ne rendi conto?
- Abbiamo dei doveri, Tom. – ribatto serio, - Questo tour non l’abbiamo deciso perché ci divertiva l’idea.
- Dei doveri! – ride amaramente lui, guardandomi incredulo, - Ma ti sei accorto di come sta andando questo tour, Bushido? Ti pare di stare lavorando come uno che abbia dei doveri?
Abbasso nuovamente lo sguardo. Ha ragione, non c’è che dire.
- Io ci sto provando, Tom. – sospiro pesantemente, - Non è facile.
- Non lo è per nessuno di noi. – risponde lui, impassibile, - Cristo, - sbotta impaziente, - io non posso davvero crederci. Forse non avete capito che Bill è a tanto così dall’andare fuori di testa. Dico, ma l’hai guardato negli occhi? Ma cosa cazzo ci sei stato a fare per anni se poi non capisci nemmeno queste cose così elementari?
Mi mordo un labbro, ferito più di quanto non mi vada di ammettere.
- È così diverso da quando l’ho lasciato. – considero a bassa voce, - A volte lo guardo e non riesco a riconoscerlo. Eppure è lui, dentro di me lo sento ancora come prima. Questo è… - trattengo appena il fiato, - è peggio di morire e basta. Sono vivo e sto perdendo tutto.
Tom mi guarda a lungo – riesco a sentire i suoi occhi addosso anche se non ricambio il suo sguardo – e mi rassegno a sollevare il viso solo quando lo sento sospirare pesantemente e sistemarsi più comodamente sulla panca.
- Ti va una partita a PES? – chiede distrattamente, adocchiando la Playstation abbandonata in un angolo.
- Resti con me, stanotte? – chiedo io a bassa voce, senza rispondere.
Lui nemmeno annuisce, chinandosi a raccogliere i joystick da terra e passandomene uno, dopo aver tenuto il proprio per sé.
- Accendila, dai. – dice alla fine. Giochiamo fino all’alba. Quella sera, Bill va sul palco con gli occhiali da sole. Canta cinque canzoni. Poi si mette a piangere e dice a David che non ce la fa. Sono le nove e mezza di sera, quando impazzisce del tutto. E nessuno di noi se ne accorge.
*

- Vado a prendere un paio di birre, ti va? – chiede Tom, gettando via il volante della Wii e sollevando entrambe le braccia verso il soffitto, - Affoghiamo nell’alcool i dispiaceri della giornata di oggi. Se ne prendo quattro, magari ci affoghiamo anche quelli della giornata di ieri.
- Vuoi solo scappare perché il tuo Luigi non può nulla contro il mio Mario. – lo prendo in giro, agitando il mio volante in aria come un trofeo.
- Facciamo così, io vado a prendere la birra e poi sputo dentro alla tua. – ritorce lui, guardandomi malissimo, - Come ti va?
Rido ad alta voce, di cuore, e realizzo che mi è capitato di farlo più spesso nelle ultime ventiquattro ore con lui di quanto non si possa dire di tutto il resto del tempo da quando sono tornato in Germania.
- Vai, vai. – dico alla fine, - Nel mentre cerco un altro gioco, questo non mi va più. – dico. Lui mi osserva tirare fuori Mario e Sonic ai Giochi Olimpici, unico gioco al quale sia fino ad adesso stato in grado di battermi, e sorride uscendo. So che mi sto comportando in modo molto stupido, quasi da fratello maggiore, nei confronti di un ragazzino che ieri ha dimostrato di essere più che in grado di comportarsi da fratello maggiore nei confronti miei, ma non riesco a impedirmelo. È divertente, genuinamente divertente, in un modo che pensavo non mi sarebbe stato più accessibile. E invece eccolo qui.
Lo sportello si riapre nemmeno due minuti dopo. Mi volto per dire a Tom che ha fatto presto, ma sulla soglia del tourbus non c’è Tom. C’è suo fratello.
- Che ci fai qui? – chiedo a mezza voce, pietrificato. Non lo vedo da giorni. Dopo il crollo a Monaco sono già saltate due date, e Bill non è quasi mai uscito dal suo tourbus.
- Sei sorpreso? – mi chiede. La sua voce è soffice, sottilissima. Lo guardo e vedo che non si tratta del Bill degli ultimi giorni, e nemmeno di quello che è partito con noi per il tour. È un Bill diverso, più antico, ma non propriamente simile a quello che era mio. O forse sì, solo più ferito.
- Sì. – rispondo sinceramente, voltandomi ed alzandomi in piedi per guardarlo dritto in viso, - Non dovresti essere qui?
- E dove dovrei essere? – chiede lui con una risatina vuota, - Trovami un posto nel mondo e sistemamici. Un tempo era al tuo fianco. Adesso sono fuori posto dovunque vado. Dovunque mi metto. Sono sempre fuori posto. Fuori luogo. O fuori posto? Come si dice, Anis?
- …cosa? – chiedo incerto, - Bill, ti senti bene?
- Ma sì! – risponde lui, con una risata così tonante che lo piega in due, costringendolo a stringersi il ventre con entrambe le braccia, - Come potrei mai stare male? La mia vita è meravigliosa, vero? Non lo è? Tu sei tornato, e sei vivo!, e non sei il mio ragazzo, ma ho un ragazzo bellissimo che mi ama tanto e che per me farebbe di tutto! Ed ho un fratello così premuroso, lo vedi quant’è premuroso Tomi? – ridacchia, indicando un livido ancora enorme sullo zigomo, - È così premuroso che vuole che tutti lo vedano, perché tutti devono sapere quanto bene si prende cura del suo sciocco fratellino.
- …Bill. – sollevo entrambe le braccia e lo stringo alle spalle, cercando, non so, di calmarlo. Anche se a prima vista sembra abbastanza calmo, in realtà. I suoi occhi sono torbidi, però, non riesco a leggervi dentro. – Bill, tu non stai bene.
- Ma a te non importa. – si lagna lui, forzando la mia stretta per abbracciarmi alla vita, poggiando il capo contro il mio petto, - Non t’importa di niente, non t’importa di me. Ho fatto tante cose per capire se t’importasse, volevo vedere se era vero che te ne fregavi, ma non ci ho capito niente. Non ci capisco niente di un sacco di cose, ormai.
- Sì, di te stesso in primo luogo. – sospiro, - Bill, devi andartene. Tuo fratello sarà qui fra poco e non è il caso di—
- Oh, posso sopportare qualcun’altra delle sue tenerezze, se è per questo. – dice con un sorrisino storto, adocchiando il piazzale fuori dal finestrino, - I bambini crescono più forti quando li si picchia costantemente. Si fanno la pelle dura. Tomi ha cominciato a crescermi un po’ tardi, ma siccome sono già grande gli effetti non tarderanno ad arrivare. Vuoi provare? – chiede, tornando a guardarmi, - Picchia forte, dove fa male, dove ho ancora lividi e ferite aperte. Non piangerò nemmeno una lacrima, te lo giuro.
- Smettila subito! – dico inorridito, provando ad allontanarmi. Lui serra le dita attorno alla mia maglietta.
- Allora è vero che non te ne frega più niente! – quasi grida, improvvisamente sull’orlo delle lacrime, - Non vuoi neanche più farmi male! Cosa mi resta di te, me lo dici? Perché se è solo indifferenza, allora non la voglio, non ti voglio, tornatene all’inferno! – strilla, tempestandomi il petto di pugni.
- Bill, calmati. – dico piano, stringendogli i polsi fra le mani. Sono così sottili che, anche se cerco di fare piano, sento le sue ossa quasi scricchiolare sotto la presa salda delle mie dita. – Devi riposarti un po’.
- Mi riposo da giorni e non cambia mai. – dice lui, abbattendosi stremato contro di me, - Penso sempre le stesse cose, sempre le stesse cose. – solleva un braccio, accarezzandomi il viso con la punta delle dita, - A te importa ancora di me, vero Anis? Ti importa ancora.
- Mi importa, piccolo. – cedo. La voce mi esce fuori in un mugolio così addolorato che mi sento spezzare qualcosa dentro. Non ho mai parlato con questo tono, con nessuno. – Tu ti stai facendo del male, adesso, e devi smetterla.
- Sei tu che mi stai facendo del male. – insiste lui con un sorriso quasi sereno, come se avesse già sentito troppo dolore per poterne provare ancora, - Come fai a non accorgertene? È incredibile. È così evidente, eppure non lo noti.
Sospiro profondamente, ravviandogli una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Bill, non so cosa dirti. – ammetto sfiduciato, - Ti stai torturando. Vuoi darmene la colpa? D’accordo. Ma stammi lontano.
Lui sorride, sento le sue labbra tendersi attraverso il tessuto leggero della maglia che indosso.
- Te l’avevo detto che sarebbe successo, Anis. – dice a bassa voce, quasi cantilenando, - Io non voglio starti lontano, e non posso, e non ci riesco. Una sua mano scivola fra le mie. Le nostre dita si intrecciano, lui mi guarda e i suoi occhi sono pieni di lacrime, e vuoti di tutto il resto. – Vieni con me, per favore. – dice piano, tirandomi verso l’uscita del tourbus.
Non è abbastanza forte da trascinarmi, se oppongo resistenza. Il problema è che non la oppongo. Mi lascio accompagnare dolcemente fuori, sulla piazzola aranciata dalla luce del sole che tramonta dietro le montagne all’orizzonte, e Bill mi conduce fino all’entrata del proprio tourbus. Da dentro vengono i rumori di Chakuza che si affaccenda attorno ai fornellini elettrici… starà preparando il caffè. Immagino abbia una voglia smodata di cucinare, ma non potendo questa è l’unica cosa sulla quale possa ripiegare.
Bill si volta a guardarmi con un sorriso minuscolo a increspare le labbra pallide.
- Ora ho bisogno che tu resti qui, Anis. – dice sottovoce, dondolando un po’ il peso da un piede all’altro, - Ho bisogno di sapere che resterai qui, che non te ne andrai di nuovo. Resterai, vero? Me lo prometti?
Mi sento mancare il respiro ed ho paura di ciò che questa promessa potrebbe significare. Non voglio restare. Non voglio restare, Bill.
- Te lo prometto.
Bill sorride.
- Tornerò da te, quando avrò finito. – sussurra, sporgendosi fino a raggiungere il mio orecchio con le labbra, - Così potrai dirmi se t’importa ancora o meno.
Resto lì come pietrificato mentre lui risale in due saltelli la scaletta del tourbus, scomparendo oltre la soglia. Lascia la porta aperta e io fisso l’interno, incapace di spostarmi. Posso vedere perfettamente uno dei tavolini della sala relax, da questo punto. Non so ancora cosa mi aspetta, ma qualsiasi cosa sia ne ho paura. E io non ho mai paura di niente. Non ho mai paura di niente, ma Bill mi terrorizza.
Il tourbus è parcheggiato in un angolo riparato della piazzola, lo sportello dà su un muretto oltre il quale si estende un praticello che si sfuma alle pendici di una collina rocciosa. Nessuno verrà a cercarmi qui, se non sa dove sono. Chissà se Tom potrebbe immaginarlo. Chissà se ha già comprato la birra, chissà se è già tornato, chissà se si sta chiedendo dove posso essere sparito.
Sento dei mormorii dall’interno. Non riesco a capire una parola di ciò che Bill e Chakuza si stanno dicendo, ma è evidente che stanno parlando. Chakuza sembra stanco. Bill ridacchia come un ragazzino senza neanche un pensiero per la testa.
Il primo gemito lo sento con una forza tale che mi sembra di percepire la terra tremare sotto i piedi. Vorrei gridare, ma non ho voce abbastanza. Non ho forza abbastanza. Quando Chakuza adagia Bill sul tavolino, dandomi le spalle e insinuandosi fra le sue cosce mentre Bill si abbandona alle sue braccia e getta indietro il capo, sento il desiderio di piangere, ma non scende neanche una lacrima. Non riesco più a fare niente, a pensare a niente. C’è solo la figura di Bill che invade tutto il mio campo visivo, c’è il suo corpo che si muove contro quello di Chakuza, in sincronia perfetta con le sue spinte. Ci sono le sue braccia abbandonate sulle sue spalle, c’è la frenesia con cui serra le cosce attorno ai suoi fianchi e intreccia le gambe dietro la sua schiena, mentre il suo bacino si muove ritmicamente per accogliere la sua erezione più profondamente possibile. E io vedo tutto. Vedo tutto. Ed è un’immagine che non riuscirò più a levarmi dalla testa. E questo Bill lo sa. È per questo che l’ha fatto.
Quando Bill viene, le sue labbra si piegano in un sorriso minuscolo che è lo stesso in cui si piegavano quando erano le mie mani ed il mio corpo a portarlo all’orgasmo. Mi chiedo se Bill sia mai cambiato o se non si sia per caso trattato di un’illusione. Forse volevo credere con tutte le mie forze che non fosse più la persona di un tempo, semplicemente perché ammettere che fosse rimasto lo stesso ed avesse semplicemente smesso di amarmi era impensabile. Adesso non lo so più. Adesso lo guardo, completamente abbandonato contro il corpo di Chakuza, che respira con forza sulla sua pelle e lo stringe fra le braccia come fosse troppo piccolo e troppo prezioso e volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo, e non so più niente.
Mi allontano lentamente, indietreggiando, senza mai dare le spalle al tourbus. Bill mi osserva andare via spalancando gli occhi, le sue mani si serrano attorno alle spalle di Chakuza in un gesto improvviso e nervoso. Qualcosa dentro di lui si sta spezzando. Anche dentro di me. È la promessa che ho fatto.
Accelero il passo, e quando esco sulla piazzola c’è Tom sull’uscio del nostro tourbus che mi cerca con gli occhi.
- Sei qui. – dice, scendendo celermente i gradini e venendomi incontro, - Dov’eri finito? – chiede curiosamente. Poi nota il mio sguardo ed aggrotta le sopracciglia, incerto. – Che ti prende? – domanda con evidente preoccupazione, - Che è successo?
Io faccio per aprire la bocca e dire qualcosa, ma gli occhi di Tom si spostano immediatamente a guardare un punto imprecisato dietro di me. Non ho bisogno di voltarmi, per capire che dove Tom sta fissando c’è Bill.
- Anis. – mi chiama debolmente, la voce rotta. Non riesco a voltarmi. Non voglio farlo.
- …andiamo dentro. – mi dice Tom, tornando a guardarmi e poggiandomi una mano sulla spalla, - Ho preso la birra.
Annuisco e lo seguo. Non so cosa faccia Bill o per quanto resti lì in mezzo alla piazzola. Del tutto irrazionalmente, però, so che sta piangendo. E non riesce ad importarmene.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: David/OMC, Bill/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash.
- "Non ci vuole la sfera di cristallo per capire che sarà un disastro, basta un minimo di buon senso; ma dal momento che questo è esattamente ciò che manca a tutti quanti, immagino che possiamo soltanto prepararci al peggio."
Note: Per quanto riguarda questo episodio, posso dire che ho voluto fortissimamente la prima parte - stressando la povera Tab perché la scrivesse dandomi esattamente ciò che volevo, peraltro XD - ed altrettanto fortissimamente ho voluto scrivere la seconda, perché Tom mi mancava tantissimo. L'interazione Tost invece è venuta fuori un po' dal nulla, ma come sempre ha funzionato perché questi due dovunque li si mette hanno una chimica fantastica ♥
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CHAOSTEORIE


Nell'ultimo periodo le cose sono state un po' movimentate; anche se forse questo non è esattamente l'aggettivo giusto per descrivere il tumulto sentimentale-lavorativo che ci ha travolti tutti quanti, che lo volessimo o meno. Il problema di lavorare con una persona come Bushido – e devo averlo già detto da qualche altra parte – è che non puoi davvero aspettarti di passare il tempo facendo quello per cui sei pagato e di rispettare, quindi, un contratto con dei punti ben precisi secondo i quali sei tenuto a comportarti tu e anche i tuoi datori di lavoro. Attualmente, io sono ancora sotto contratto con la Universal – che sebbene sia composta da una manica di schiavisti, sarebbe comunque un bel posto in cui lavorare – ma questo non sembra fregare a nessuno, né ai dirigenti dell'etichetta, né soprattutto a Bushido che da quando è risorto e mi ha chiesto una mano per farlo, ha deciso che io lavorassi per lui. Dal momento che questo non contrasta, ma anzi favorisce, gli affari della Universal, l'etichetta non ha alcun problema a lasciarglielo credere. Così io, in sostanza sono pagato dalla Universal per stare dietro a lui come un bambino ed evitare che faccia cose di cui tutti noi ci pentiremmo. Certo sarebbe tutto più facile se i problemi che Bushido è in grado di causare fossero scandali di medio livello – Anis Ferchichi trovato in possesso di droga – o uscite pubbliche di dubbio gusto – Anis Ferchichi chiede sesso orale in diretta televisiva al frontman dei Tokio Hotel, no aspetta, questa l'ho passata davvero –, cose per le quali basta una sana scrollata di spalle, o al più una bella conferenza stampa o un'azione legale per rimettere le cose a posto; ma Bushido no, lui è in grado di smuovere le montagne, generare valanghe e, con ogni probabilità, deviare l'orbita del pianeta.
Così, dopo essersi reso conto che allungare le mani su Bill questa volta non gli sarebbe servito a niente, perché ad allungare le mani sul mio cantante erano in due e, a meno di non dividerlo a metà, uno dei due doveva lasciare la presa, si è fatto prendere dalla depressione, si è probabilmente sfondato d'alcol come fa sempre quando il primo tentativo non gli riesce come dovrebbe e quindi ha fatto l'unica cosa che poteva fare dopo che la sbronza gli è passata e si è ritrovato nella stessa situazione di prima: ha fatto irruzione in casa mia nonostante io volessi rimanere fuori dall'intera faccenda.
Finché c'è stato da organizzare voli transoceanici ed inscenare la sua morte, non ho avuto grandi problemi ma le loro questioni di cuore sono un'altra faccenda; che può sembrare strano, ma è così che stanno le cose. Io sono il manager di una band musicale e il mio lavoro consiste sostanzialmente nell'organizzare: la vita dei miei ragazzini, i concerti, le conferenze stampa. Quando si parla di organizzazione, non c'è molta differenza tra sistemare le cose perché dopo il concerto ci sia una stanza pronta secondo i desideri di un artista, e oliare le persone giuste perché fingano che qualcuno sia sparito dalla faccia della terra. Si tratta solo di calcolare i dettagli e di mentire. Alcune persone sono geneticamente impossibilitate a farlo, io invece sono bravissimo. Io mento continuamente, mento alle fan quando i concerti vengono ritardati, mento all'etichetta quando Bill dovrebbe aver finito di scrivere una canzone e invece ha passato l'intera settimana a prendere il sole su una spiaggia caraibica con il fratello o con uno dei suoi svariati cavalieri, fa parte del mio lavoro e, in un certo senso, è giusto che io lo faccia. Certo mentire a Bill è stato doloroso, ma di sicuro non complesso, era una cosa che potevo gestire e organizzare. Questa situazione però, no.
Non rientrava nei miei compiti sistemare le cose fra Bushido, Bill e Chakuza. Non spettava a me e non volevo che mi spettasse perché, ad essere del tutto sincero, non avrei saputo da che parte prenderli, nemmeno se, per analizzare la situazione, avessi preso in considerazione cosa fosse meglio per Bill il quale, per quanto possa sembrare un'interpretazione troppo materna, è l'unica vera vittima di questo casino.
Si fa presto a condannare quando non si è stati costretti a vedere le persone soffrire o non si ha avuto paura di perderle da un momento all'altro. Io con Bill questa paura l'ho provata fortissima e ringrazio il cielo che ora sono qui a raccontarvi di come sta facendo un casino dietro l'altro, piuttosto che a parlare al passato di come lo abbiamo seppellito accanto alla bara vuota di Bushido. Com'era logico, la gente si sta permettendo di giudicarlo – lui, ma anche Bushido e Chakuza – ma senza sapere effettivamente che cosa ci sia dietro a tutta questa storia.
Io sono nove anni che mi prendo cura di lui e so di che pasta è fatto. So come si comporta, come ragiona e di cos'è capace. Immagino che cosa deve essergli passato per il cervello nei mesi in cui è rimasto improvvisamente solo e se si guardava intorno non sapeva come fare a rialzarsi o quale motivazione darsi per continuare anche lui a vivere quando l'unica che aveva era appena stata seppellita. Una ragione gliel'ha data Chakuza e lui ci si è attaccato con le unghie e con i denti. Il sentimento che li ha legati, ad un certo punto di questa storia, era così forte che perfino io ho tirato un sospiro di sollievo; mi sono permesso di sperare che un po' di quella felicità ritrovata potesse tenerlo al sicuro dalle mie menzogne. Non mi sorprende, quindi, che sia andato in pezzi quando Bushido è tornato e lui si è trovato nella condizione di dover scegliere fra due uomini ai quali, per un motivo o per l'altro, aveva legato la sua vita. Il suo cuore si è spezzato a metà e nella consapevolezza di non poter trovare una soluzione che non fosse dolorosa, è andato in confusione. Io la trovo una cosa comprensibile, o forse la penso così perché so quanto Bill sia fragile nonostante tutta la forza che possiede. Ho visto quella forza crescere nel corso del tempo e poi frantumarsi sotto un peso troppo grande per lui da sopportare. L'ho sentito cedere di colpo e non è stato facile nemmeno per me; non quando era anche colpa mia.
Quando l'ho incontrato la prima volta, Bill era un cosino spettinato, convinto che avrebbe spaccato il mondo con la sola imposizione della sua persona. Allora io ridevo, pensando che tuttalpiù sarebbero stati famosi per qualche anno e poi forse ci sarebbe stato spazio per farli diventare qualcos'altro e invece sono diventati un fenomeno su scala internazionale. Aveva ragione, a quanto pare, perché il mondo si è piegato al suo volere quasi quanto adesso tutti noi ci pieghiamo a quello di Bushido, ed è per questo che quei due si sono trovati, naturalmente. Hanno una forza di volontà così potente che tu non puoi fare a meno di stargli dietro, anche se uno è viziato e l'altro è assolutamente irragionevole.
Quando Bill e Bushido si sono incontrati, io sono andato dal mio naturopata e gli ho chiesto di prescrivermi qualcosa che mi aiutasse a suicidarmi nel sonno ma lui mi ha detto che non era necessario e che mi sarebbero bastate due gocce giornaliere in più di guaranà per sostenere i miei nuovi impegni. Naturalmente sarebbe stato più facile suicidarmi, ma alla fine ho superato anche questa, e guardate che non è stato affatto facile perché questi due hanno avuto una storia piuttosto travagliata, della quale per altro voi non sapete un accidente perché ciò che vi è stato raccontato – per bocca del re, dei suoi uomini o per la boccuccia santa della loro principessa – è solo ciò che è successo dopo quei due benedetti proiettili. Niente, se non qualche accenno e qualche sporadico episodio, vi è stato riferito di ciò che in effetti abbiamo passato prima che Bill e Bushido diventassero quello che erano quando poi Bushido è morto. Del fatto che la reazione della stampa non fu affatto rosea, ad esempio, per non parlare di quella della crew di Bushido, di Tom e – in misura minore – anche di quelle due anime disperate di Georg e Gustav che ancora mi meraviglio non abbiano preso armi e bagagli e si siano trovati un'altra band che non prevedesse un frontman impegnato nella scalata al trono del ghetto.
In qualche modo, però, ci siamo sistemati e sono consapevole che in gran parte è stato merito mio che ho impedito ai giornalisti di mangiarsi vivo Bill e ho impedito a Tom di togliere per sempre il saluto a quella diva di suo fratello mandando a peripatetiche anni di duro lavoro. Bill, durante tutto questo processo, in cui si è trovato nell'occhio del ciclone, è stato bravissimo, è stato forte e siccome ha la testa dura come il cemento mi ha aiutato a portare avanti la carretta della sua band semplicemente volendo con tutte le sue forze entrambe le cose: la sua carriera e anche Bushido che, diciamocelo, con lui sembrava non azzeccarci assolutamente niente.
E' stato quando è morto che Bill ha perso tutta la sua forza. Si è svuotato completamente come se, morendo, quell'uomo si fosse portato via tutto quello che era e non è più stato lo stesso da quel momento; anche quando Bushido è tornato. Chakuza non lo ha certo rimesso in piedi com'era prima, non poteva dargli quello che aveva perso, così ne ha fatto un Bill nuovo che non sapeva più da che parte andare, perché era un po' dell'uno e un po' dell'altro. E io una cosa del genere non la posso sistemare. Non c'è niente che io possa organizzare per far tornare le cose a posto. E non posso nemmeno mentire, anche se poi in realtà l'ho fatto quando appunto Bushido ha fatto irruzione in casa mia a dirmi che non ero stato un bravo collaboratore e, naturalmente a volere l'impossibile. Come fa sempre.
Lui da me voleva la chiave per risolvere le cose, visto che la sua non aveva sortito un grande effetto. Bushido non è abituato a non ottenere quello che vuole con i propri metodi, non ci arriva proprio che a volte le cose non vanno come vorresti. E' un concetto totalmente estraneo alla sua mentalità. E siccome l'ultima volta che aveva avuto bisogno di un miracolo, l'ho fatto io per lui, pensava, immagino, di poter ripetere l'esperienza; solo che io potevo farlo morire di nuovo, ma non potevo convincere Bill a scegliere lui.
Prima che mi si venga a dire che in realtà tutto quello che è successo dopo è colpa mia, io vorrei far presente che Bushido mi ha frainteso; anzi, meglio, ha finto di fraintendermi e nelle mie parole – per altro chiarissime – ha letto esattamente solo quello che voleva sentirsi dire, giusto per fare quello che pensava di fare fin dall'inizio ma avere anche il mio supporto, in qualche modo.
Quando gli ho detto che, secondo me, l'unica cosa che poteva fare era lottare per il grande amore della sua vita, intendevo dire che si rimboccasse le maniche e riprendesse a corteggiare Bill, non che gli mettesse le mani addosso ad ogni occasione favorevole portando sia lui che Chakuza sull'orlo della follia. Ma ovviamente non potevo davvero aspettarmi che Bushido si comportasse come una persona normale, quindi scemo io che l'ho anche solo pensato. E, aggiungerei, scemo anche Bill che il massimo che sia mai riuscito a fare per allontanarlo in questi mesi è stato dare di matto in mezzo ad un corridoio, rischiando di scatenare la rissa fra lui e Chakuza e dire candidamente al mondo che avevamo per le mani un triangolo.
Da lì le cose sono ovviamente precipitate – d'altronde mi sarei alquanto stupito se uno qualsiasi dei due uomini bruti si fosse fatto da parte con buona pace di tutti – ma io me ne sono tirato fuori, e di questo non mi vergogno. Quando Bill ha mollato Chakuza per rimettersi con Bushido per poi scoparci, chiamarlo Peter e farsi buttare di nuovo fuori di casa, io ho gettato la spugna. Sono un manager, mi sono detto, quando torneranno a cantare mi troveranno pronto ad accoglierli a braccia aperte.
Quindi di come siano andate poi effettivamente le cose per cui la Universal ha finito per dover gestire non solo l'outing di Chakuza, ma pure quello di Fler, io non lo so perché non c'ero e quando c'ero cercavo di non entrare in argomento, di non ascoltarli quando ci entravano loro e di tapparmi anche le orecchie emettendo suoni stupidi se necessario; tanto più che conosco Bill e so che è capace di covare l'inimmaginabile per periodi di tempo non umani e che per questo una soluzione semplice che prevedesse lui e Bushido felicemente fidanzati con altra gente a lavorare insieme di buon grado nella stessa etichetta senza tentare di schienarsi a vicenda o mandarsi a quel paese non era nemmeno ipotizzabile.
Io tutto volevo tranne che cercare di farlo capire all'uno all'altro, perché – nonostante si pensi il contrario – ho anch'io una vita, degli affetti e anche delle cose personali di cui occuparmi, pertanto li ho lasciati lì a fare qualunque cosa volessero fare per rovinarsi l'esistenza e ho dedicato questo periodo a me stesso. Nello specifico sono stato impegnato ad incanalare la quasi totalità della mia energia positiva nella ristrutturazione del mio appartamento ad Amburgo. Nella fattispecie, ho buttato giù la camera degli ospiti e mi sono regalato un salotto più grande, cosa che mi ha permesso non solo di ricomprare l'intero arredamento della stanza – quella di acquistare articoli di design è una gioia che mi concedo troppo poco spesso –, ma anche di pagare degli uomini che girassero per casa seminudi senza per questo venir arrestato. E mi hanno anche ridipinto le pareti! Adoro ristrutturare.
Uno di essi, che ieri ha finito di posare il parquet, ha deciso di trattenersi quando abbiamo scoperto un interesse comune, nel senso che a me piaceva lui e a lui piacevo io, così stanotte ne abbiamo discusso parecchio e siamo giunti ad una conclusione estremamente soddisfacente. Non mi svegliavo così rilassato forse da anni e sto seriamente pensando di fuggire con quest'uomo massiccio, ruvido e meravigliosamente straniero e di non fare mai più colazione su niente che non siano i suoi addominali scolpiti. Sono un uomo commosso; anche se il suddetto muratore, che poi a quanto pare sarebbe un piastrellista, al momento sta curiosando in mezzo alla mia collezione con quelle mani enormi che sono adatte a fare un mucchio di cose tranne che toccare i miei vasi Matti Klenell. Se non gli urlo, è solo perché al momento il suo nome mi sfugge.
Quando torna a posarlo sul mobile, il vaso ondeggia per due lunghi istanti durante i quali io trattengo il fiato mentre lui nemmeno se ne accorge e continua l'ispezione della mia camera, nudo e impunemente tale.
Mi ricorda Bushido, e anche se lo fa in maniera inappropriata, mi aiuta ad alzare il fondoschiena dal letto e ad accettare la dura realtà: la mia vacanza è finita e, che lo voglia o no, devo tornare ad occuparmi della mia carriera, o di quello che ne resta mentre, in mia assenza, Bill e Bushido ne hanno probabilmente decretato la rovina con azioni che non posso prevedere ma che sicuramente sono irreversibili, come quasi tutto ciò che fanno. In questi giorni io ho vissuto un'esistenza beata, privandomi volontariamente di qualsiasi notizia li riguardasse, consapevole che se fosse successo qualcosa di grosso, con ogni probabilità qualcuno sarebbe venuto a prelevarmi direttamente a casa; ciononostante non ho potuto evitare di ricevere la notizia peggiore, perché in sostanza riguarda me e tutto il lavoro che ho fatto anche se ero in vacanza: il tour.
Io spero che sia ben chiaro a tutti – soprattutto a chi sta pagando e pagherà questo progetto – che cosa andremo a fare e come finirà, perché in tutta onestà è meglio se partiamo preparati, piuttosto che credere che questa cosa funzionerà anche solo la metà di quello che si pensava e poi vederla frantumarsi come un castello di carte quando non girerà nemmeno per sbaglio, ve lo assicuro. Non ci vuole la sfera di cristallo per capire che sarà un disastro, basta un minimo di buon senso; ma dal momento che questo è esattamente ciò che manca a tutti quanti, immagino che possiamo soltanto prepararci al peggio.
Ad ogni modo, tragedie sentimentali a parte, c'era anche il problema pratico di mettere insieme dei brani da far cantare ai ragazzi nel corso ci questo mini-tour. Far lavorare le due parti era impensabile perché, aldilà di tutto, non ce n'era proprio materialmente il tempo, e poi Bill ci mette gli anni a buttare giù due righe, quindi anche a mettergli in mano un blocco, allontanarlo dai suoi uomini e costringerlo a pane ed acqua finché non avesse prodotto qualcosa, ci avremmo messo dei mesi. Così il blocco lo hanno dato a me e io ho fatto quello che ho potuto. Ho pensato che potevamo riciclare delle canzoni che i Tokio Hotel canteranno da soli e altre dell'Ersguterjunge che Bushido e Chakuza potranno riadattare a modo loro, e ne ho unita qualcuna su cui i rapper possano fare freestyle, in modo che sembri organizzata – non lo è, ma spero che siano abbastanza professionisti da riuscirci. In fondo è il loro lavoro no? E poi, naturalmente, Prinzessin, che per quanto sia effettivamente carina è il motivo per cui alla fine di questo mese infernale io ammazzerò qualcuno e probabilmente mi ritroveranno coperto di sangue mentre ancora tremo di rabbia repressa.
Il mio piastrellista senza nome mi guarda mentre decreto la fine del nostro proficuo incontro. Ci scambiamo dei biglietti da visita con dei numeri di telefono che non chiameremo mai, ma quasi mi dispiace quando lo accompagno alla porta e lui sorridendo mi dice “Se si alza, chiamami” e io rimango lì a guardarlo per qualche istante prima di capire che sta parlando del parquet.
Due giorni dopo sono di nuovo a Berlino, ho con me l'agenda e il programma da seguire, sono pronto a tornare a lavorare e ho pregato Madonna perché mi aiuti. Un tour che parte a metà ottobre senza quasi nessun tipo di promozione potevamo farlo solo noi, immagino; ma a quanto pare ha funzionato. Il giorno della partenza, ossia oggi, le date non sono ancora sold-out ma molto probabilmente lo saranno e, anche se tutti quanti sappiamo che questa incredibile fortuna è legata al fatto che Bushido è tornato dal regno dei morti per contrastare la relazione della principessa con il suo migliore amico, ringraziamo lo stesso perché poteva andarci molto, molto peggio. Poi mi torna in mente che Justin Bieber sta spopolando senza alcuna ragione logica e quindi mi rendo conto che, tutto sommato, anche noi avevamo delle speranze.
Quando partiamo siamo tanti, troppi, e sembra quasi che l'intera casa di produzione abbia deciso di partire per questo tour lasciando vuoti gli uffici. L'unico che resta sul marciapiede quando i tourbus si allontanano è Fler, che onestamente non so perché sia sempre in giro anche quando lavoriamo perché dovrebbe, non so, andare da Sido e lavorare anche lui; comunque non importa perché, contrariamente alle mie aspettative, siamo partiti davvero e Bushido e Chakuza non si sono ancora ammazzati. Se non lo fanno entro i prossimi venti minuti avrò perso duecento euro, certo, e Georg e Gustav saranno un po' più ricchi ma io sarò un uomo senza dubbio meno stressato e questa è una bella cosa nell'ottica dell'infarto mortale che sicuramente mi aspetta. Sento una spinta di ottimismo, finché non incrocio lo sguardo di Fler oltre il finestrino e all'improvviso vorrei che avessero lasciato sul marciapiede anche me.
*


La teoria del caos, o meglio una parte di essa, dice che ogni piccolo evento, ogni piccola variazione in uno stato iniziale, per quanto apparentemente innocua, provoca variazioni sempre più grandi mano a mano che lo stato iniziale si evolve. Sono perfettamente consapevole del fatto che l’effetto farfalla sia solo una parte di un concetto ben più ampio e articolato, ma punto primo io non ho studiato – o meglio, ho studiato solo fin dove è stato necessario, e non perché mi servisse ma perché lo diceva la legge, per cui tutta la mia cultura sul punto viene da The Butterfly Effect e poco altro, comprendetemi – e punto secondo a me non serve il concetto complesso, per spiegare ciò che voglio dire, e cioè che questa è una teoria assolutamente validissima, ma palesemente incompleta. Nel senso, un battito d’ali di una farfalla può sì generare un uragano in Cina, ma questo posto che ai venti cinesi freghi qualcosa del fatto che, chissà dove, una farfalla ha battuto le ali.
Non sto personificando i venti e gli uragani cinesi, se è quello che vi state chiedendo, e non sto nemmeno impazzendo, perché so che la vostra seconda domanda sarebbe stata questa: sto contestualizzando. A volte non basta che la farfalla e l’uragano siano parte di uno stesso sistema, perché il secondo venga influenzato dalla prima. A volte ai venti cinesi non frega un accidenti che la farfalla abbia spiccato il volo in Papuasia o chessò io, perciò se ne stanno quieti, e starebbero quieti anche se tutte le dannate farfalle del dannato mondo decidessero di spiccare il volo nello stesso dannato momento, tutte assieme, solo per cercare di provocarli.
Nelle ultime settimane, io ho smesso di interessarmi alla vita di mio fratello. Il che non significa che abbia smesso anche di volergli bene, ma solo che la mia sopravvivenza nell’ultimo periodo non ha potuto prescindere dalla mia ignoranza riguardo qualsiasi cosa gli fosse capitata. E sono convinto che, dalle parti di mio fratello, sia capitato ben più di una semplice farfalla che svolazza in giro. Eppure, i miei venti sono calmi.
Bill è sempre stato troppo, fin da quando era piccolo. La sua mania di protagonismo è sempre stata tale da offuscarmi, quasi, e la cosa non poteva che peggiorare mettendo su una band insieme. Da quando esistono i Tokio Hotel – da prima, da quando ne esisteva l’abbozzo – siamo sempre stati “Bill e il suo gemello Tom”. Il problema è che per me è sempre andato bene così, non mi sono mai lamentato, ho sempre trovato plausibile e normale che la mia vita dovesse girare attorno a quella di mio fratello, esserne in un certo senso la conseguenza. Ho sempre pensato di essermi arrabbiato tanto per la faccenda di Bushido perché Bill non me ne aveva parlato prima, ma la pura e semplice verità era che, trovandosi un uomo, Bill stava strappando dalla mia vita quel pezzo consistente che girava sempre e solo attorno a lui. Sarebbe stata la stessa cosa se si fosse trattato di un altro uomo o di una donna qualsiasi, avrei reagito in maniera identica.
Ci ho messo troppo tempo a capire che dovevo semplicemente riappropriarmi di quella parte di me che non gli era mai appartenuta ed aiutarla a crescere, ma quando finalmente l’ho capito è stato tutto molto più semplice. È la vita, uno deve saper crescere. Bill non è mai stato tanto bravo in questo, e il suo problema è che s’era innamorato di un uomo a cui stava bene così, e che perciò per qualche motivo s’è aspettato che, scomparendo, Bill sarebbe comunque rimasto lo stesso, immutabile come una fotografia.
Mio fratello è cresciuto controvoglia, ecco perché non riesce ad accettare di averlo fatto. Se n’è accorto troppo tardi, ecco perché per lui smettere di amare Bushido non è un’opzione. Non sarebbe soltanto smettere di amare un uomo, sarebbe arrendersi agli anni e ad una maturazione che non ha voluto. E questa cosa io la capisco, nei suoi meccanismi, perché conosco mio fratello, ma non sono sicuro di poterla reggere, in nessun modo. Ed ecco perché non ho fatto domande. Non ho chiesto informazioni. E fondamentalmente non so nulla.
In questo senso, essere sistemato nel tourbus con Bushido mi aiuta molto. Non mi aiuta in nessun altro senso, ovviamente, perché a me Bushido sta ancora sul cazzo – nel senso che anche se ora lo conosco meglio e per certi versi lo capisco più facilmente di quanto non lo capissi due o cinque anni fa, mi è rimasto addosso quello strascico di odio infantile che mi ha portato a distruggerne l’intera discografia investendola – e quindi sarei stato molto più felice di organizzarmi sul tourbus di Georg e Gustav, ma d’altronde, come mi ha detto David guardandomi con l’aria di uno assillato da una serie infinita di problemi irrisolvibili, “non possiamo mica lasciarlo da solo”. E no che non possiamo, per cui niente. E comunque, come appunto stavo cercando di dire, meglio qui che con Bill, perché non avrei proprio saputo come affrontarlo, il suo sguardo. Non avrei neanche saputo cosa aspettarmi, se aspettarmi che mi saltasse addosso annegandomi nel tragico racconto degli ultimi mesi della sua vita, o piuttosto che continuasse ad ignorarmi lasciandomi nella mia beata ignoranza. Me lo sono chiesto, prima che David mi esponesse il capolavoro progettuale della sua idea dei tre tourbus da spartire fra noi sei, ed ho concluso che è una delle numerose domande di cui non voglio la risposta. La vita è piena di domande di questo tipo, e io ho imparato a conviverci da tempo.
David ha preso molto sul serio questa faccenda del tour. Io sono convinto che sappia che questa cosa non potrà che essere un drammatico fallimento, ma sono anche convinto del fatto che purtroppo, da qualche parte dentro di lui, in fondo sta sperando che qualche mese di contatti ravvicinati e obbligati possa aiutarci a rimettere insieme quello che c’era prima, a ricucire gli strappi. David sta battendo le ali, ma ignora – volutamente o meno, questo non lo so – che ai nostri venti cinesi la possibilità di rimettere a posto le cose non interessa. Siamo troppo impegnati ad agitarci per i fatti nostri.
A me dispiace per lui, intendo, è un uomo molto pratico, conosce il suo mestiere e sa cosa aspettarsene, ma è anche un uomo molto romantico, in fondo, perciò probabilmente si sta illudendo riguardo qualcosa che non arriverà probabilmente mai, e sicuramente non adesso, non su questo tourbus né su nessuno degli altri che seguono questa carovana depressa che dovrebbe pensare a lavorare ed invece è troppo logora per pensare anche soltanto a cosa vuole. Ed è normale che sia così, intendo, l’organizzazione perfetta di David impedisce a Bushido e Chakuza di prendersi a pugni, questo è ovvio, ma ha anche delle implicazioni non esattamente piacevoli, e non è semplice sentirsi a proprio agio quando Georg e Gustav sono relegati in un tourbus come a rimarcare ulteriormente che con tutta questa situazione c’entrano solo per caso, Bill e Chakuza fingono di fingersi una coppia felice in un altro tourbus a caso e io e Bushido condividiamo il terzo perché almeno fra noi due David non deve aspettarsi che succeda niente di troppo grave.
Non mi si può certo biasimare se io, con tutta questa situazione, ho cercato di non avere niente a che fare il più a lungo possibile. Anche perché non c’è niente che io possa fare per risolverla, l’unico che possa prendere la decisione adatta – ed io non saprei nemmeno suggerire un’ipotesi – è Bill, ma Bill non vuole decidere. Bill vuole fingersi piccolissimo e aspettare che qualcun altro decida per lui, che degli uomini si prendano a cazzotti sul naso per la sua virtù, che un cavaliere arrivi in groppa al suo cavallo bianco e lo salvi. E questo non perché Bill, contrariamente al suo nomignolo, abbia mai avuto qualche fantasia alla Raperonzolo o alla Bella Addormentata nel Bosco, ma semplicemente perché mio fratello non ha mai saputo come tirarsi fuori dai guai da solo, ha sempre aspettato che fosse qualcun altro a salvarlo. Bushido forse pensava di averlo cambiato in tal senso, ma si sbagliava. Mio fratello cambia solo alle proprie condizioni, e pur crescendo non matura. Varia e basta, come i colori sullo spettro visibile, dal violetto al rosso, ma resta sempre la medesima cosa. Il suo cambiare è una questione di intensità, non di sostanza. Qualcuno prima o poi dovrà capirlo, e cercare qualcosa di utile da fare con questa consapevolezza, visto che io non ci sono riuscito.
La parte più razionale di me mi spiega che per Bill è più difficile di quanto non lo sia per tutti noi, il che è motivato appunto dal fatto che lui una soluzione non prova nemmeno a trovarla, si lascia naufragare fra i problemi, che è il modo peggiore per affrontarli, ma è sempre questa stessa parte razionale che, ogni volta che mi guardo allo specchio, mi ripete che a me non importa. Ed è vero, sapete?, indipendentemente da quanto assurdo possa sembrare. La mia spalla sarà sempre pronta ad accogliere le lacrime di Bill. Sempre. Sempre. Ma solo quando sarà lui a decidere che è da me che vuole venire a piangerle. Io non posso continuare a corrergli dietro, ha già sufficienti uomini che lo fanno, per un motivo o per un altro, e io non voglio e non posso essere uno di loro. Sono suo fratello, lui sa che ci sono, o almeno lo saprà quando deciderà di uscire dal tunnel del “nessuno mi capisce, nessuno può aiutarmi”, non ho alcun bisogno né motivo di comportarmi come se fossi il suo ragazzo. A lui non serve, e nemmeno a me.
Il disastro totale del primo concerto del tour stupisce solo David, e non riesco a capire perché. Se stava cercando di appellarsi alla nostra presunta professionalità perché tutto andasse nel migliore dei modi, mi sembra evidente che aveva fatto affidamento sul nulla. Ma poi David ci conosce, via, sa che Bushido è di un’irresponsabilità perfino irritante, sa che per Bill la professionalità è solo l’ultima delle note a fondo pagina del libro mentale in cui ha imparato a comportarsi da diva e sa che fondamentalmente Chakuza è uno che volendo è anche un gran lavoratore, ma Bill nella sua testa ha la priorità perfino sull’aria che deve ricordarsi da respirare. Da un simile manipolo di imbecilli – e non lo dico nemmeno con affetto – non poteva davvero aspettarsi un comportamento razionale. E così lui, come tutti, ha dovuto rassegnarsi di fronte allo spettacolo agghiacciante del rap svogliato di Bushido, degli attacchi fuori tempo e fuori tono di un Bill troppo impegnato a compiangersi per notare la folla di ragazzine adoranti ai suoi piedi proprio di fronte al palco, e di un Chakuza che ci prova ma non riesce a concludere niente di concreto perché morso da chissà che preoccupazioni e sensi di colpa, mentre Georg e Gustav sospirano, si danno da fare, non ricevono supporto e io strimpello la chitarra solo perché m’hanno detto che è questo ciò che devo fare.
A metà concerto, durante la pausa, Bill decide arbitrariamente di scorciare la scaletta. Nessuno protesta. Io guardo altrove. David prova a dire qualcosa e lascia perdere il secondo successivo. Torniamo sul palco e facciamo quattro canzoni a fronte delle dieci che in teoria dovevamo ancora proporre al pubblico, e quando torniamo dentro, una volta finito, da fuori non ci chiedono neanche il bis. È una cosa che non mi è mai capitata da quando ho cominciato a suonare, e mi rendo conto all’improvviso che un po’ fa male. La fama non è mai stata una certezza, nella mia vita, ma l’amore del pubblico che ci seguiva sì. Sentirlo scemare così improvvisamente – e solo per colpa della nostra evidente incuria – mi ferisce. Vorrei prendere tutti a ceffoni, riportarli in sé, strillare loro che c’è gente che ha pagato, di fuori, e che tutto ciò che possiamo e dobbiamo fare è tornare sul palco e fornir loro uno spettacolo che valga tutti i soldi che hanno speso, ma mi basta lanciare uno sguardo in giro per capire che parole simili non sortirebbero il minimo effetto. Temo che non riuscirei a scuotermi nemmeno da solo, figurarsi gli altri, perciò sospiro e seguo gli altri in una fila scomposta e lenta, finché non torniamo tutti a rifugiarci nei nostri tourbus, divisi per gruppo di appartenenza perché così quantomeno non dobbiamo guardarci negli occhi e odiarci.
Bushido si rintana nella sua cuccetta non appena mette piede all’interno del tourbus. Io resto sveglio, vago in giro senza sapere cosa farmene di me stesso mentre la carovana si mette in moto e fuori dai finestrini la notte si fa più buia che mai. Ci muoviamo verso la prossima città, verso il prossimo disastro annunciato, e io non trovo niente di meglio da fare che accendere il portatile e passare le ore a fare solitari. Ogni tanto cambio il mazzo di carte giusto per ravvivare un po’ il tutto e non vedere sempre le stesse identiche cose. Perché sono stufo di non veder cambiare mai niente. Perché mi fa rabbia non avere il potere di cambiare niente, tranne queste cose minuscole.
Il tourbus si ferma verso le quattro del mattino, ancora neanche albeggia. Io sono sveglio come quattro ore fa, e appena ci fermiamo scendo immediatamente. Siamo nella piazzola di una stazione di servizio, ci sono tutte le luci accese e c’è in giro un sacco di gente. Tutti gli autisti, tanto per cominciare, anche se molti stanno dandosi il cambio, quindi si aggirano sonnolenti per la piazzola bevendo solo un po’ d’acqua e rifiutando con un sorriso terrorizzato ogni offerta di caffè. Agitano pure le mani. Li adoro gli autisti di notte, li vedi che si tengono su solo per forza di volontà, sono creature da cui c’è sempre da imparare.
Anche tutti i membri dello staff sono svegli. Alcuni bevono un po’ di birra, sono per lo più riuniti a gruppetti e chiacchierano del più e del meno. Qualcuno prova a commentare l’esibizione di oggi, qualcun altro lo ferma immediatamente dicendo “guarda, non parliamone nemmeno”. Mi sale addosso una gran rabbia. Non contro di loro, in generale.
David se ne sta per i fatti suoi, seduto su una specie di ringhiera in ferro. Sorseggia un caffè annacquatissimo e probabilmente disgustoso e fissa il vuoto come se non capisse cosa ci stia a fare lì in quel momento. Mi avvicino e cerco di sorridergli. Mi riesce male, ma tanto lui non mi sta guardando.
- Dovresti essere a dormire. – mi dice atono, e manda giù un po’ di caffè.
- Non ho sonno. – rispondo io, appoggiandomi al suo fianco sulla ringhiera. – Come stai?
David ride amaramente, sbuffando un po’.
- Non lo so. – risponde sinceramente, - Ma la cosa importante dovrebbe essere come state voi.
Rido anch’io, dondolandomi un po’ avanti e indietro.
- Mi sa che non è importante nemmeno questo.
David sospira e mi guarda di sfuggita, prima di tornare a fissare il vuoto di fronte a sé.
- È solo qualche mese, Tom. – mi dice con aria rassicurante, - Portiamo a casa il lavoro e poi prometto che avrete un po’ di vacanza. Vi farà bene.
Io annuisco – anche se è un gesto più che altro istintivo, non è che davvero ci creda – e mi inumidisco le labbra.
- Chissà se ce la facciamo, a portare a casa il lavoro. – dico a mezza voce, allontanandomi di qualche passo. David mi guarda con gli occhi spalancati, come non potesse credere alle mie parole. È evidente che non aveva tenuto conto del fatto che il suo battito d’ali avrebbe potuto creare un uragano che, in qualche modo, gli si sarebbe ritorto contro.