Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, Tom/OFC.
Rating: R
AVVISI: Slash, Angst, OC, What If?, Het, Underage.
- "Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
"
Note: Che io sia riuscita a finire questa storia, tanto per cominciare, è un miracolo XD L'ho cominciata all'incirca un paio d'anni fa, dopo aver messo le mani su questo articolo e anche su quest'altro. Fermo restando che non credo a una sola parola, l'idea era così sfiziosa che non ho proprio potuto impedirmi di plottare a riguardo XD Solo che dopo un po' le cose da fare, i fandom e tutto il resto, come spesso accade, si sono accavallate, ed ho lasciato perdere la scrittura quando ero più o meno a metà della storia.
Dopo due anni (che poi sono il motivo per cui lo stacco stilistico fra la prima e la seconda parte della storia è così evidente, soprattutto nell'uso dei corsivi ma anche in generale nelle scelte narrative, e ci mancherebbe altro che non fosse evidente, aggiungerei), non credevo che sarei riuscita a riprenderla e concluderla, ma il COW-T ha fatto anche questo miracolo. Il prompt Famiglia per la seconda missione della terza settimana era troppo perfetto per non convincermi a muovere il culo e contribuire alla causa con quella che sapevo sarebbe stata una storia piuttosto corposa. Così, anche se fa schifo, posso illudermi che abbia una sua validità lo stesso. *gocciolone*
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LOVE IS NOISE

Io ho sedici anni. Sono svizzera. O tunisina. Sono tedesca, suppongo, perché la Germania è tutto ciò che riesco a ricordare da che ero molto piccola. Comunque, non sembro tedesca. Non sembro neanche svizzera. La mia pelle è scura – non nera, però: color caramello, identico a quello della mia madre biologica.
A Vati piace il colore della mia pelle. Anche allo zio piace tanto. Io sono convinta che Mutti lo odi, comunque. Per quanto riguarda me, non saprei: non odio i miei colori, ma se Vati, alla fine, sceglie sempre Mutti, vuol dire che gli piace anche la sua pelle bianchissima e così orgogliosamente tedesca. Ogni tanto mi piacerebbe essere bianca.
Ah, mi chiamo Luise Maria. È un nome orrendo ma non riesco ad odiarlo. Primo, perché è il nome di nonna, e nonna è stupenda. Secondo, perché Vati è un mammone, ed è orgoglioso del fatto che sua figlia si chiami come la sua adorata mamma. Terzo, perché Vati questo nome se l’è tatuato sul braccio. E sì, okay, lo so che non l’ha tatuato per me ma per nonna, ma non c’entra, mi porta comunque scritta sulla pelle. Ed è una sensazione bellissima, perché lui si scrive addosso solo le cose irrinunciabili: c’è la B che è il suo marchio da guerriero, c’è Berlino che l’ha visto crescere, c’è la Verità che è ciò in cui crede, c’è quell’orrido Electro Ghetto che gli ha dato i soldi e poi c’è Luise Maria, che sono io e che è la nonna.
Vati è molto geloso di ciò che si scrive sul corpo. Davvero, ci mette solo la roba importantissima: non s’è scritto addosso niente neanche su Mutti, sebbene ogni tanto mi venga da pensare che la B sul collo non stia solo per Bushido. Cioè, intendo, forse è come il Luise Maria: un tempo era solo per nonna, ora è anche per me. La B un tempo era solo per Bushido, forse oggi è anche per Mutti.
Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
Ah, dimenticavo: la mia Mutti non è una donna. È Bill Kaulitz.
*
Mutti la mette sempre in questo modo, quando racconta la storia: se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima e molto più facilmente. Ora, quando Mutti comincia in questo modo poi possono succedere tre cose diverse: se io sono in modalità “Vati-è-meraviglioso-e-chiunque-lo-tocchi-merita-di-morire”, litighiamo; se Mutti è in modalità “Diva-lamentosa-random” ed io non mi sento troppo acida, la ascolto lamentarsi di Vati e poi ci facciamo una risata; se, infine, Vati è in modalità “sono-un-figo-il-cui-unico-errore-è-stato-prendervisi-in-casa”, allora ci arrabbiamo tutti e tre, litighiamo furiosamente, io vado a dormire da zio Tom e Vati dorme sul divano.
La prima situazione alla fine si risolve sempre bene, perché io vado a farmi coccolare un po’ da Vati e dopo qualche minuto Mutti si scusa – perché può sostenere un carico di sensi di colpa molto limitato, la mia Mutti, con quelle spalle così sottili, è solo per questo che alla fine è così dolce.
La seconda situazione non presenta mai problemi di sorta.
La terza fa schifo perché odio quando Vati si arrabbia. Anche se significa che posso restare a dormire da zio Tom con una scusa valida, non mi piace lo stesso.
In ogni caso, queste situazioni non si sviluppano mai abbastanza in fretta da impedire a Mutti di raccontare tutta la storia con dovizia di particolari, perciò la so quasi a memoria, ormai. Ed è una bella cosa, perché quanti altri ragazzi possono dire di conoscere a memoria l’intera storia della propria esistenza? La maggior parte di loro si affida agli album di fotografie, e non saprà mai di aver fatto o detto cose tremende o bellissime, quand’era più piccolo, semplicemente perché nessuno lo ricorda, ed anche se lo ricorda nessuno lo ripete abbastanza da imprimerlo nella memoria di tutti.
Mutti invece è così: se non ricorda tutto tutto, va in paranoia. Detesta perdersi pezzi di ciò che ama. Che poi è il motivo per cui si ostina a ricordare con orrore i pochi infausti giorni che, da bambino, passò lontano da zio Tom, quando tornò prima dal campo estivo. Odia essersi perso i particolari.
A volere dire esattamente le cose come stanno, io non ricordo proprio tutto della mia esistenza. Ho un buco enorme, e il buco enorme sono i cinque anni di vita che precedono il mio arrivo in questa casa. Non credo mi sia successo qualcosa di spiacevole – non ho brutti ricordi della mia madre biologica e non credo affatto che mi maltrattasse, se è questo che vi state chiedendo – è solo che nessuno me li ha mai raccontati, quei cinque anni. Ed io perciò non ne so niente.
È per questo che ho qualche difficoltà ad iniziare questo racconto: non so da che parte prenderlo. Perché la mia storia in effetti comincia con la mia nascita, non col mio arrivo a Berlino. Solo che ho difficoltà a ricondurre la mia nascita all’inizio di qualcosa, visto che la mia nascita, in teoria, non avrebbe dovuto essere l’inizio di niente.
Neanche di me.
Mettiamola così: il mio Vati è stupendo, okay?, ed io lo amo tantissimo. Non ne avrei voluto un altro neanche a poter scegliere. Oddio, non lo so, forse se a cinque anni me l’avessero proposto ne avrei scelto uno diverso. Comunque, ora come ora, non ne vorrei un altro neanche per scherzo.
Ciò non toglie che abbia fatto i suoi bravi errori nella vita. E con errori non mi riferisco al ridicolo taglio di capelli che ancora portava fino a qualche anno fa o a certe patacche che tutt’oggi indossa al posto di orologi umani ed eleganti – per non parlare dei mocassini.
Il mio Vati mi voleva morta.
È brutto da dire senza filtri, ma io stessa preferisco pensarla così, con secchezza, schiettamente, perché fa meno male che non aggiungendoci sopra melodramma gratuito.
Mi consolo dicendomi che non è che volesse morta proprio me, ecco, voleva morta un’idea. L’idea di potersi ritrovare a ventinove anni con una bambina da accudire ed una tizia da tenersi in casa con la quale aveva passato insieme quanti, sei, sette giorni? Avrebbe spaventato anche me.
Forse anch’io avrei pagato per uccidermi, ecco.
Per questo non ce l’ho con lui. Non più, almeno.
Insomma, ha pagato. Sui giornali, a quanto ho capito, è uscito fuori che la gravidanza di mia madre era stata una truffa, che non c’era di mezzo nessun bambino. Questo perché allora Vati andò in giro apposta a smentire tutto. Buttò lì una storia di ricatto… ne uscì pure maluccio, peraltro, perché era un periodo un po’ burrascoso per il suo rapporto coi media, avevano già cominciato a dargli addosso in tutte le lingue per altri motivi e quindi, quando lui andò in giro a fare la voce grossa e a borbottare “Nessuno ricatta Bushido”, tutti diedero ragione a mia madre, anche se non sapevano se ci fosse davvero un bambino di mezzo. Io c’ero, sì, ma loro non potevano saperlo. Mia madre poteva davvero essere una delle tante in cerca di denaro che truffano un tizio ricchissimo basandosi sul niente, ma Vati era Bushido, il King of Kingz, quello che spaccava le teste dei diciannovenni in Austria e che scatenava le risse e che aveva il passato da criminale di strada e un mucchio di canzoni che non era neanche possibile riprodurre in pubblico perché vietate per legge, perciò per tutti loro aveva automaticamente torto.
Quale che fosse la reazione comune, comunque, Vati pagò. Mia madre prese i soldi ma non portò a termine la missione. Mi tenne. A tutt’oggi – forse perché di lei non ricordo quasi niente – non so perché lo fece. Non voglio pensare che mi ritenne più utile da viva. È un pensiero meschino – non tanto nei suoi confronti, quanto più nei miei. Significherebbe farsi male gratuitamente, e siccome ho già abbastanza casini di mio, almeno da un anno a questa parte, non ho proprio bisogno di altri motivi per cui soffrire.
Che poi è il motivo per cui sto buttando giù queste memorie, perché forse se raccolgo tutto e faccio una cosa per bene magari trovo anche le parole per dire la verità a Vati e Mutti senza rischiare la morte di nessuno. Al limite, se non funziona la via della razionalità, passo il malloppo a Mutti e le dico qualcosa di carino tipo “l’ho scritto per farti piacere”. Mutti ci cascherà sicuramente – è il vecchio trucco alla Notebook, funziona sempre – ed eviterà di darmi addosso per i contenuti.
Nota per me: cancellare le ultime cinque righe.
Mi lascio andare contro la sedia e ticchetto sulla scrivania con la matita. Punta-gomma, punta-gomma, punta-gomma. Smetto quando vedo la superficie in fòrmica ricoprirsi di puntellini di grafite. Karima mi lapiderà. O mi ucciderà. O prima mi lapiderà e poi mi ucciderà. Ci credo che fa la tata a Vati da due secoli e mezzo, sono uguali, affettuosi ma burberi.
Sospiro pesantemente e cancello i puntellini.
Trottolo si mette a vibrare quasi immediatamente, mandando il tavolo in rivolta sotto le mie mani. Trema tutto, è divertentissimo. Trottolo è il mio cellulare, si chiama così da quando la suoneria ha smesso di funzionare. Vati si rifiuta di comprarmene uno nuovo perché il cellulare s’è ridotto in queste condizioni in seguito ad un volo che gli ho fatto fare fuori dalla finestra. Ero nervosa, che dire. Da allora funziona solo la vibrazione, e per sentirla anche a distanza ho dovuto metterla ad un livello assurdamente alto, e DaDa una volta sentendolo ha sbottato “che è ‘sto trottolio?!”, sentendo provenire il suono dagli abissi della mia borsa. Da quel momento è Trottolo.
Mi allungo e recuperarlo e rispondo con un sorriso quando vedo chi sta chiamando.
- Dimmi che la Madre Badessa e il Sovrano Assoluto non sono in casa.
Rido di cuore.
- Ma non dovevi lavorare oggi, - sghignazzo maliziosa, - zio Tom?
- Dio, Lu! – sbotta lui oltraggiato, - Mi vengono i brividi quando mi chiami così!
- Be’, sei mio zio, no? – ridacchio, coprendomi le labbra con una mano.
- Tecnicamente no! – asserisce lui, esaltandosi improvvisamente, - Quindi, che ne diresti—
- Che ne diresti di parlare di meno e muoverti di più? – suggerisco a bassa voce, - Saranno a casa fra un’ora al massimo.
- …sono già per strada.
Interrompo la conversazione e mi lascio andare ad un risolino stupido mentre finisco di togliere le macchie di grafite dal tavolo.
Sono i drammi della vita familiare; hai un Vati un po’ severo ed una Mutti comprensiva ma facilmente preoccupabile, hai una cameriera burbera ma complice, ma soprattutto hai uno zio che non è veramente tuo zio, che è bellissimo e che ami follemente da quando eri tanto piccola che hai smesso di contare gli anni.
Può capitare di mettertici insieme. Succede.
È questo, il mio piccolo grande segreto. Quello che devo trovare il coraggio di dire a Vati e Mutti. Quello per cui sto scrivendo questa storia.
Non è esattamente la fine del mondo, ma oh, ci si avvicina parecchio.
*
Mi annoio a morte. Zio Tom sta blaterando al telefono con DaDa da mezz’ora e fra un’altra mezz’ora Vati e Mutti saranno qui. Non abbiamo ancora scopato e non penso che scoperemo oggi. La cosa mi frustra perché aspetto il ciclo da un momento all’altro e il cretino non capisce che deve cogliere l’attimo se non vuole rimanere a bocca asciutta per la prossima settimana – be’, quattro giorni, ma tre glieli aggiungo per punizione di mia spontanea iniziativa, vaffanculo a lui.
- David, ti giuro che ho mal di stomaco. – cerca di giustificarsi di fronte all’uomo che lo rimprovera al telefono, - E che cazzo, uno non può neanche andare ad agonizzare sul cesso di casa propria, quando sta male? – si ferma. Nel silenzio assoluto, sento l’eco della voce di DaDa strillare “non quando per ‘cesso di casa propria’ si intende tutt’altro, Tom!”, col tono paternalistico che usa anche con Mutti quando arriva in ritardo. – Senti… - sospira, guarda l’orologio, - Fra tre quarti d’ora torno. Promesso. A dopo. – interrompe la chiamata e si lascia ricadere sul divano accanto a me, gettando di malagrazia il telefono sul tavolino.
- …ci tieni a dare un gemello a Trottolo? – chiedo teneramente, adagiandomi contro di lui. È depresso, lo sento dal modo in cui respira, pesantemente, con difficoltà. Oggi non si scopa proprio.
Lui mi fa passare un braccio attorno alle spalle e mi stringe a sé, mugolando deluso. È facile dimenticare che ha quasi il doppio dei miei anni.
- Mi dispiace, piccola. – biascica, ed io rido perché Vati chiama Mutti allo stesso modo, ma al maschile. – David non si decide a mollare l’osso.
- E tu digli la verità. – suggerisco rotolandogli in grembo e sollevando una mano ad afferrare una di quelle intricate meraviglie che si ritrova per capelli, arrotolandomela attorno al dito.
- Sì, certo. – borbotta lui aggrottando le sopracciglia in un modo tutto suo, che non c’entra niente neanche con Mutti; un modo dolcissimo che esprime tutta la sua preoccupazione ed il casino enorme che ha in testa. – Mi vedo già: “ehi, David, ciao! Hai presente Luise Maria? Sì, la figlia di Bushido e Bill, quella che vorresti far sfondare come cantante entro la fine dell’anno? Stiamo insieme già da parecchi mesi. Hai sentito chi è il nuovo allenatore della nazionale?”. – scuote il capo, disperatamente. Io rido e scendo con un dito a disegnare il profilo della sua fronte. Mi fermo fra le sopracciglia e stendo la piccola ruga che gli invecchia i tratti del viso. Lui sorride e si china a baciarmi. Amo quando lo fa. Amo quando sorride prima di baciarmi, gli resta il sorriso sulle labbra ed essere baciati da un sorriso è una cosa stupenda. – Penso che stia capendo qualcosa, sai? – ammette in un soffio, rimettendosi seduto. – Mi conosce troppo bene.
Io sbuffo e mi sistemo meglio contro il suo petto, sfilando le scarpe e tirando i piedi sul divano per stare più comoda.
- Dovresti dirgli che hai una ragazza. – biascico, stringendo un lembo della sua maglietta, - Così almeno smetterebbe di essere sospettoso quando ti vede sparire.
- Cucciola, se vuoi veramente lavorare con David, fai tesoro di questo prezioso consiglio: - solleva un indice con aria superiore, fissandomi serio. – i manager, se gli dai un dito, si fregano il braccio, la spalla e anche buona parte del collo. – sghignazza, - Assieme alla manica della magliettina alla moda che la tua Mutti ti ha regalato per il compleanno. – aggiunge, pizzicandomi sulla spalla al di sopra della suddetta maglia, mentre io ridacchio e mi arrotolo come un riccio attorno a lui. – Seriamente, - riprende, baciandomi sulla fronte, - se gli dicessi che sto con qualcuno poi comincerebbe il calvario del chi è. Ed una volta che sai che qualcuno c’è… - sospira e scuote il capo, - non è così difficile risalire all’identità. Non per David, almeno. – sorride a metà, - L’ha già fatto in passato, so di cosa parlo.
- A-ha, quindi sei già stato con un’altra sedicenne figliastra di tuo fratello e David l’ha scoperto! – lo prendo in giro con aria falsamente stupita.
Lui grugnisce qualcosa e mi tira una guancia.
- Fai meno la spiritosa. E piantala di ricordarmi che sei figlia di Bill!
Mi sollevo sulle ginocchia, piantandomi a cavalcioni sopra di lui.
- Posso provare a fartelo dimenticare, se vuoi. – soffio direttamente sulle sue labbra, e lui si arrende perché per qualche strano motivo non sa proprio resistermi. Non so se sia perché mi tiene vicinissima a sé da quando avevo cinque anni o per qualche altro motivo, so solo che non è mai stato in grado di dirmi no. Per fortuna.
Mi chino a baciarlo e sento subito le sue mani risalire la curva dei miei fianchi e stringersi attorno alla mia vita, possessive. Sono gli unici momenti in cui non importa di chi sono figlia: i momenti in cui sono una cosa sua, i momenti in cui le nostre pelli diventano una, i momenti in cui mi tiene tutta per sé. I momenti che preferisco della giornata.
Interrompe il bacio per scivolarmi lungo il collo – le labbra ancora umide, calde e perfettamente aderenti alla mie pelle.
- Zio… - mugolo estasiata. E lui, inspiegabilmente!, si interrompe all’istante.
- E che cazzo, Lu! – borbotta, abbattendosi esasperato contro la mia spalla, - Ma la vuoi piantare con questo zio di merda?!
- Che palle sei! – mi arrabbio a mia volta, scavalcandolo e lasciandomi ricadere sul divano al suo fianco, - Quando ti fissi sulle cose è la fine!
- Scusa se mi fa senso sentirmi chiamare zio mentre sto cercando di scopare!
- Ma ti chiamo zio da sempre! – protesto io, arrotolandomi in un angolo, - È come se Mutti si svegliasse un bel giorno e decidesse di scoparmi! Io mica smetterei di chiamarlo Mutti!
Lo vedo impallidire e tirarsi indietro.
- Tu sei proprio figlia di tuo padre… - commenta allucinato, - È un’immagine agghiacciante!
Sospiro.
- Se uso Vati per fare lo stesso esempio?
- Lu!!!
- DaDa?
- Ma Diocristo, avrà un centinaio d’anni!!!
- Perché ti sconvolge più DaDa di Vati?
- È… una questione di età!
- È vero, Vati è più giovane di DaDa. Quindi lui va bene?
- Lu!!!
Rido e mi abbatto contro di lui, cadendogli addosso con tanto impeto che finiamo entrambi distesi sul divano, e zio Tom è costretto a manovre incredibili per impedirci di cadere a terra come sassi.
- Ti stavo prendendo in giro… - lo rassicuro baciandogli il mento e tirandogli i dread, - È l’unico modo che ho per farti smettere di chiedere!
- Smetterei di chiedere se tu smettessi di chiamarmi zio, una buona volta. – mi sbuffa contro una guancia. Il telefono sul tavolino ricomincia a squillare, riempiendo l’aria delle note dell’ultimo successo di Samy Deluxe. Zio Tom ha dei gusti orrendi, nemmeno Vati ascolta Samy Deluxe, anche se dovrebbe farlo per mestiere. – Ma non molla proprio mai?! – sbotta istericamente, allungando un braccio a recuperare l’apparecchio. – David, Cristo santo! Finisco di cagare e arrivo!
Non riesco a trattenere una risatina e zio Tom mi fissa con aria omicida. Vicina come sono, posso sentire perfettamente il silenzio dall’altro lato della cornetta cristallizzarsi per qualche secondo, prima di erompere in uno scioccato “Caghi in tandem, Tom?” che mi uccide definitivamente, obbligandomi a ridere se non voglio soffocarmi da sola.
Zio Tom mi guarda, sempre più scioccato, e mi manda a rotolare dall’altro lato del divano con uno spintone tutt’altro che affettuoso.
- Era la televisione! – butta lì, rivolgendosi a DaDa.
La risata del mio aspirante manager è talmente tonante che la sento fino a qui. Ed allo stesso modo sento distintamente il suo “Caghi di fronte alla tv, Tom?”, che mi stende una volta per tutte, costringendomi a schiacciare il naso contro un bracciolo se non voglio farmi riconoscere all’istante.
Il battibecco continua per qualche secondo, ma io non lo seguo più. Poggio la testa contro il braccio e mi lascio andare, osservando zio Tom muoversi nervosamente intorno al tavolino, gesticolando furioso. È così bello che non sono neanche più arrabbiata per il sesso che non abbiamo fatto.
- Perfetto. – lo sento sospirare quando, alla fine, riesce a staccarsi dai rimproveri di DaDa, - Mi ha detto di salutare da parte sua la mia misteriosa ragazza, ed ha aggiunto che si compiace per il suo senso dell’umorismo, visto che rideva per tutte le sue battute.
- Da quando hai una ragazza, Tomi? – borbotta Mutti spuntando alle sue spalle, seguito a ruota da Vati che, quando si accorge che c’è anche zio Tom, grugnisce un saluto indistinto a va a chiudersi nel suo salottino privato.
Mentre zio Tom suda tutte le sette magliette che indossa per lo spavento, io lancio a Mutti un’occhiata inquisitoria.
- È andata male. – risponde lui con un sospiro così teatrale che, se potessi, lo filmerei, lo riprodurrei come l’ologramma della principessa Leila e lo terrei sul comodino per sempre. Io annuisco, abbassando lo sguardo. - Va' a fargli un po' di coccole, su. - mi incita lui, sorridendo conciliante.
Io e zio Tom ci salutiamo con un cenno del capo e basta; è il massimo che ci concediamo in presenza di Mutti e Vati, ultimamente. È stata un'idea di zio Tom, quella di diminuire i contatti. “Siamo sempre stati appiccicati”, ho cercato di oppormi io, “s’insospettiranno, se smettiamo”. Lui mi ha guardato sorridendo come avessi ancora cinque anni ed ha risposto che ormai sono una signorinella, e sicuramente mio padre avrebbe preferito evitare di vedermi comportare ancora come fossi stata una bambina. “A sedici anni non stai ancora seduta in braccio a tuo zio”, ha detto con un sorriso un po’ storto, “a meno che non te lo scopi”, ha concluso dandomi un bacio. Da quel giorno, niente più baci e abbracci in presenza dei miei genitori. Ovviamente, Mutti se n’è accorto ed ha dato di matto: s’è convinto avessimo litigato o chissà cos’altro, ho fatto una fatica bestiale a convincerlo che semplicemente non mi andava più di stargli così attaccata. Ho fatto una fatica bestiale soprattutto perché non era vero che non mi andava più di stargli così attaccata.
Comunque sia, adesso Vati ha bisogno di me, perciò anche volendo non avrei tempo per le smancerie. Trotterello silenziosamente verso la sua tana mentre Mutti rovescia parole addosso a zio Tom pretendendo di sapere tutto della sua giornata nello stesso istante in cui gli racconta della propria. Busso con cautela ed aspetto il permesso di entrare, e nel mentre mi fisso le punte dei piedi nudi con aria un po' incerta.
Quando cinque anni fa la Universal non ha rinnovato il contratto ai Tokio Hotel, il mondo l'ha presa in maniera meno drammatica di quanto non ci si sarebbe aspettati. Me lo ricordo bene, perché non penso potrò mai dimenticare tutte le lacrime che mi ha versato addosso Mutti. Che ha versato addosso a me, addosso a Vati, addosso a zio Tom, addosso a Georg e Gustav, addosso a DaDa, a chiunque. Mutti ha pianto tanto che nessun altro ha sentito il bisogno di farlo. Ha pianto lui per tutti. S'è riempito della tristezza di tutti quanti e l'ha rovesciata tutta da solo, dev’essere stato faticoso da morire, ed infatti alla fine era drenata, la mia povera Mutti. Drenata e stanca e triste ed avrebbe voluto piangere ancora ma erano finite le lacrime, pure quelle degli altri.
È stata la prima volta in cui ho avuto paura per la vita di qualcuno. È una sensazione orribile. Non è come quando sei semplicemente preoccupata e basta, è una cosa più profonda, più disturbante. È quando ti fermi, guardi un corpo emaciato e pallido e ti chiedi “ma io, senza questa persona, potrei mai stare?”. E ti rispondi “no”. Quando ti rispondi “no”, è la fine.
Mutti è dimagrito. Di più.
Ha avuto un sacco di problemi. È finito su un sacco di giornali.
Vati è andato fuori di testa nel giro di due giorni. Non si staccava dal letto, non riusciva a fare niente, stava immobile accanto a Mutti e cantava Schmetterling perché è l'unica sua canzone che a Mutti piaccia davvero. E Mutti piagnucolava e ringraziava ed abbracciava e tirava su col naso e mi chiamava, “Lu, tesoro, vieni qui”, e per un po’ ho pianto io al posto suo, così che lui potesse riprendersi. Solo un pochino.
Ne siamo usciti proprio grazie al fatto che Mutti non aveva permesso a nessun altro di piangere. Zio Tom per primo e di seguito tutti gli altri, non potendo essere tristi, si sono dati da fare, sono corsi ai ripari, hanno rilasciato dichiarazioni, sedato i media, letteralmente barricato la casa quando c’è stato bisogno. Non penso che potrò mai dimenticare l'epica notte del dodici agosto duemilaquattordici, in cui da questa villa non si poté uscire, perché da qualsiasi lato la si guardasse le ombre dei giornalisti appostati si stagliavano minacciose contro le mura gialle. Ed erano siepi di ombre.
Avevo undici anni allora. Avevamo appena finito di mangiare, Vati mi preparava la cioccolata della buonanotte ed io, arricciata sul letto accanto a Mutti, disegnavo palloncini. Mutti guardava fuori dalle finestre, si rigirava i miei ricci fra le dita come anelli e mormorava imprecazioni sottovoce. Era bellissimo ed era anche sciupato da fare paura.
Qualcuno doveva aver fatto la spia sul compleanno di DaDa e sul fatto che intendevamo festeggiarlo con una cena informale proprio qui, visto che Mutti non riusciva ancora a muoversi. C’eravamo ritrovati tutti in trappola prima di poter fare o dire alcunché.
Io non ero veramente spaventata per la mia incolumità – erano già sei anni che mi confrontavo con quella vitaccia, gli appostamenti stavano diventando parte della mia abitudine – più che altro c'era un senso di fastidio che mi scorreva inarrestabile sotto la pelle, ed i palloncini che stavo disegnando li avrei voluti davanti per farli scoppiare tutti a mani nude.
Gli altri, invece, sembravano davvero preoccupati. Suppongo lo fossero proprio, per Mutti: poteva succedere qualunque cosa, nelle condizioni in cui era, e non sarebbero neanche stati in grado di chiamare un’ambulanza senza che il fatto finisse in prima pagina su tutti i giornali della nazione.
È stato allora che è successo: Vati s’è bruciato con la cioccolata, zio Tom ha riso e lui e Georg si sono guardati in quel modo speciale in cui ogni tanto si guardano, quello che sottintende anni di complicità basata su un'amicizia talmente maschia da esprimersi solo in prese per il culo. E solo in senso figurato.
Gustav ha riso a propria volta, indovinando la domanda nei loro occhi esattamente come, suppongo, deve essersi ritrovato a fare spesso quando militava nei Tokio Hotel.
DaDa ha sbuffato.
“Voi non lo farete”, ha detto.
Io mi sono guardata attorno con aria smarrita, perché in tutta sincerità non avevo la più pallida idea di cosa stesse capitando.
Zio Tom s’è alzato in piedi. Gli altri l’hanno seguito. Vati s’è affacciato dalla cucina succhiandosi un pollice, Mutti l’ha guardato, ha riso e ha scosso il capo.
“Tomi...”, ha detto, dolcissimo come solo lui sa essere quando vuole, “Non dovete per forza”.
Zio Tom ha scrollato le spalle.
Georg ha sbottato “Sono secoli che non meno qualcuno. Mi prudono le mani”.
Gustav s’è alzato dalla poltrona con un sospiro falsamente esasperato e intimamente eccitato.
E li ho visti scivolare fuori dalla villa e fronteggiare i giornalisti a muso duro come criminali, esattamente come certi tipi di cui mi raccontava Vati quando Mutti era troppo stanco per darsi da fare con le favole della buonanotte.
Fieri, decisi, arrabbiati.
Il resto è storia, su tutti i giornali.
Zio Tom che sbotta “Avete rotto i coglioni”. Un giornalista che si lancia comunque in qualche domanda sul futuro dei componenti della band. Zio Tom che precisa “Forse non avete capito... avete rotto i coglioni!”. Un altro giornalista che accenna una protesta.
E le botte da orbi che cominciano a volare ovunque nel momento stesso in cui i tre folli si lanciano proprio in mezzo al vespaio. Ridendo come bambini e menando calci e pugni come ne andasse della loro stessa vita.
Dentro casa, Mutti teneva una mano pressata sulle labbra. Per nascondere il sorriso.
DaDa scuoteva il capo e rideva, dando loro dei pazzi, incerto fra la possibilità di chiamare la polizia per porre un freno al disastro in tempo utile o godersi lo spettacolo fino alla fine.
Io, estasiata, stavo col naso appiccicato al vetro e strillavo felice “Mutti, Mutti, i tre moschettieri!”. Vati entrò sbrigativamente in camera, mi rimise seduta sul letto e poggiò la tazza di cioccolata fumante sul comodino.
“Bevi”, disse burbero, lanciando un’occhiata fuori. Poi sospirò ed uscì.
Tenendo la Heckler in mano.
Ci finì in tribunale, per quella piazzata. Ma riuscì a frenare l’Apocalisse e disperse i giornalisti, e Mutti, al mio fianco, sospirò languidamente ed aggiunse “C’è anche D’Artagnan”. Ed è una cosa che spero gli ripeta spesso, perché Vati se la merita proprio.
“Mi dispiace solo non aver filmato niente”, fu il secco commento di DaDa quando gli altri adulti di casa rientrarono, ridendo come deficienti. “Adesso possiamo per favore tagliare la torta prima che arrivi la polizia?”.
In effetti, DaDa arrivò appena a spegnere le candeline.
Comunque, da quel giorno in poi le cose andarono un pochino meglio. Per quanto meglio possano andare delle cose in generale quando la quasi totalità della tua famiglia è sotto denuncia per percosse, minacce e possesso illegale d’arma da fuoco.
I nomi e le vicende sui giornali furono, come spesso accade in quest’ambiente, più benedizioni che maledizioni, e da quel momento in poi le opportunità di lavoro fioccarono per tutti: zio Tom decise di accettare la proposta di DaDa e si gettò nella produzione, Gustav partì in tour coi Foo Fighters come seconda batteria – un sogno diventato realtà, né più né meno – Georg ebbe appena il tempo di laurearsi, finalmente, che subito lo chiamarono a sostituire il bassista degli U2 per un frammento del tour americano, mentre Adam Clayton recuperava da una brutta tendinite. Ed a Mutti venne offerto un intero programma radiofonico, un programma tutto suo.
Che poi è il motivo dello scazzo serale di Vati.
Fra gli anni che ha passato sul fronte del palco e quelli di cui ha avuto bisogno per leccarsi le ferite, Mutti ha sviluppato per lo showbiz musicale un’acredine piuttosto violenta. Una volta me l’ha esplicitata in maniera molto chiara: “A me nessuno ha regalato niente”, ha detto astioso, mentre discuteva con Vati sull’accettare o meno l’offerta di RTL, “Solo prese per il culo da quando ho cominciato a cantare a quando ho smesso”. Un mezzo ghigno. “Ed ora mi offrono un programma e mi dicono per iscritto che potrò gestirlo come vorrò e scrivere tutti i testi delle interviste”.
Vati ha ghignato con lui.
“Ti vogliono vedere litigare con un po’ di gente”, ha chiarito per me che ruminavo spinaci e non capivo.
Mutti ha riso.
“Perché non mi hanno mai visto litigare”, ha aggiunto con un certo orgoglio.
“E non sanno che coi cazzotti vai forte nonostante la french”, ha annuito Vati, compiaciutissimo, mentre posava la forchetta sul bordo del piatto e scendeva ad accarezzargli una mano.
E mentre io li fissavo sognante, trovandoli bellissimi, Mutti ha detto “E sia”. Ed è stato davvero.
BK non è soltanto uno dei programmi radiofonici più ascoltati in Germania. Ha un sito cliccatissimo anche all’estero sul quale vengono caricati i podcast e le traduzioni, perciò in verità il sogno di Mutti è ancora vivo – raggiungere tutti e ovunque – ma quel programma è un disastro: è cattivo.
Io non do torto alla mia Mutti se vuole vendicarsi un po’ in giro. Non gli ho dato torto quando s’è ritrovato i Killerpilze in studio ed ha chiesto lumi sul concept del video di una certa Letzte Minute, così come ha cercato di informarsi sulla nascita del testo, mettendoli mortalmente in imbarazzo. Ed ho riso come una pazza quando ha salutato in diretta l’arrivo di LaFee con un secco “Oddio, tesoro, il vestito ti stringe, sei sicura che la costumista ti abbia dato la taglia giusta?”.
Mutti è così, è scorretto.
Mutti è anche molto coerente.
Ed oggi Vati accompagnava Kay One a presentare il nuovo album solista proprio al BK.
- Sì. – risponde finalmente la voce cavernosa di Vati da dentro la propria tana, - Arrivo fra poco.
Lancio un’occhiata all’orologio da polso. Sono quasi le sette.
- Non sono venuta a chiamarti per la cena. – biascico, - Posso entrare?
Vati grugnisce qualcosa che potrebbe essere un assenso come un diniego, ma è la cosa che fa sempre quando è arrabbiato. Vorrebbe farsi consolare ma non te lo dirà mai ad alta voce, perciò ringhia ed osserva che succede: se ti metti paura e vai via, affonda sempre di più nella propria rabbia ed è capace di riempirti di astio finché campi; se sei coraggioso, se rischi ed entri, se ce la fai a stargli dietro, però, i premi sono abbracci e sorrisi.
Deglutisco e faccio ruotare la maniglia, entrando nella stanza. Vati ha lanciato via la polo nel momento stesso in cui è entrato. Me ne accorgo perché la trovo appesa allo spigolo della libreria, sulla parete a sinistra. Quando a Vati succede qualcosa di brutto è come se avesse immediatamente bisogno di dimenticarselo, di togliere via tutte le tracce. Probabilmente non s’è tolto tutti i vestiti solo perché immaginava che sarei arrivata io.
La polo, comunque, pende dallo spigolo. Io mi muovo verso di lei e la recupero, appallottolandomela fra le mani mentre mi avvicino a lui. Vati, disteso su un tappeto e circondato da cuscini ammonticchiati dietro la schiena e sotto i gomiti, stringe fra le dita con una certa violenza il narghilè e fissa silenzioso il vuoto.
- Non posso credere che tu sia così depresso per Kay! – mugolo contrariata, abbandonandomi al suo fianco con uno sbuffo che scuote l’aria e che lui non mostra di apprezzare particolarmente. – Avanti, ha trent’anni e conosce Mutti da più di undici… sa perfettamente come difendersi dalle sue frecciate!
Vati mi lancia un’occhiata un po’ ambigua, di quelle delle quali non riesci a cogliere il senso perché ha degli occhi talmente scuri che a volte ti ci perdi e ti sembrano vuoti. In realtà ti ci perdi proprio perché invece sono densissimi.
- Lui sì. – butta lì, tirando una boccata dal narghilè, - Sono io che non ho ancora imparato.
Inarco le sopracciglia.
- Sapevi che se la sarebbe presa anche con te. – cerco di farlo ragionare, mentre lui borbotta qualcosa sulle figlie ingrate.
- Ma se l’è presa solo con me! – precisa, lamentandosi come un bambino.
- Ma è perché trova Kay cuccioloso! Avanti, lo troviamo tutti cuccioloso! Anche tu lo trovi cuccioloso!
Vati mugola qualcosa di assolutamente incomprensibile e si arriccia attorno a un cuscino. Io trovo che ci sia un palese spreco di abbracci, in tutto questo, perciò elimino l’impedimento in morbida piuma d’oca e mi sostituisco a lui. Vati mi strizza forte. Il suo petto profuma d’incenso ed è caldo e liscio. Vati è sempre stato bravissimo ad abbracciare.
- Dice che sto cercando di far diventare Kay una copia venuta male di Chakuza.
Annuisco.
- Questo perché ad entrambi Chaku piace. Quindi tu ci trasformi le persone e Mutti si offende quando lo fai. – confermo ridacchiando.
- Sai che sei tutta Bill? Sei d’aiuto quanto un mattone di cemento ancorato ai piedi, cazzo… - borbotta fra i miei capelli, e io rido e mi stringo a lui.
Affondo nel suo profumo e lui mi stringe ancora.
- Mutti ha bisogno di prendersela con qualcuno. – spiego pazientemente.
È una cosa che Vati sa alla perfezione, ed è una caratteristica di Mutti che gli piace pure, perché ce l’hanno in comune, ma ogni tanto gli fa bene sentirselo ripetere. Così lo prende per la maledizione inestinguibile che è e si mette il cuore in pace, ecco. Non so quand’è che si sia messo in testa la vana speranza che Mutti potesse trattarlo come un’eccezione… è che Mutti lo tratta già da eccezione in così svariati campi della propria esistenza che chiedergli pure di farlo mentre lavora è insensibile, oltre che assurdo.
Insomma, se lo tiene nel letto da una quantità enorme di anni.
Io non so se potrei tenere nel mio letto zio Tom altrettanto a lungo.
- Sì, lo so. – biascica lui, - Torniamo di là, Karima avrà già preparato la cena. Hai finito di rendere una pezza la mia povera maglietta? – chiede, indicando con un cenno del capo la polo spiegazzata fra le mie mani.
Sbuffo e gliel’appoggio sulla testa come un cappuccio.
- Mi ci vorranno secoli per rimettere i capelli a posto… - continua a borbottare mentre ci alziamo in piedi, sfilandosi la polo dalla testa per indossarla.
- Scusa, Mutti, credevo fossi Vati. – lo prendo in giro, pizzicandolo su un fianco. Lui ride e non risponde.
Quando torniamo di là, dalla cucina arriva un odore fortissimo di aceto. Io amo l’odore dell’aceto, mi fa sentire ubriaca. Soprattutto quando è in grande quantità.
- Karima fa la frittella? – tiro a indovinare, mentre ringrazio in tutte le lingue che conosco (poche, Vati e Mutti parlano quasi esclusivamente tedesco ed io non sono meno pigra di loro, in questo senso) che il mio Vati si sia scelto una tata che cucina crucco solo se indispensabile, - Strano, lo fa solo quando siamo tanti e non può fare la carne…
E mi muore il respiro in gola quando vedo che in effetti in sala da pranzo oltre a Mutti c’è ancora zio Tom. Ed all’allegro quadretto s’è aggiunto anche DaDa.
Ora. Io amo tantissimo DaDa, perché è un uomo che porta bellezza ovunque vada. No, sul serio, è una cosa incredibile: zio Tom è un figo ma è un insetto stecco infilato in una tenda; Mutti è bellissimo, ma è altamente opinabile; Vati è un concentrato di testosterone, ma è volgarissimo; Chaku è caruccio, ma è praticamente un peluche; Saad ha degli occhi stupendi, ma anche il sorriso cattivo; Eko mi fa ridere, ma è un topo; Kay è cucciolo, ma sembra una scimmia; Gustav è fascinoso, ma è il figlio segreto di Knut o di uno a caso dei suoi discendenti; Georg ha dei bicipiti per i quali potrei anche lasciare zio Tom, ma per il resto è un Picasso. Gli uomini che fanno parte della mia vita sono palesemente quanto di più lontano dalla perfezione sia mai stato visto solcare questa terra.
DaDa no, però. DaDa, tanto per cominciare, è tanto bello che potrebbe essere uscito direttamente dalla copertina di un Harmony, e non me ne stupirei. Cioè, tipo, se apparisse all’improvviso con una camicia bianca aperta fino a metà petto, pantaloni in pelle e stivali di cuoio al ginocchio, presentandosi come il nuovo stalliere, penso che lo guarderei e finirei per sposarlo l’attimo dopo. Una cosa incredibile.
Poi, DaDa ha un sorriso da pubblicità. Bianco ed enorme e assolutamente perfetto. Che basta guardarlo e ti senti bene, ecco.
Oltretutto, DaDa mi ama profondamente e vuole farmi diventare famosa, quindi è ovvio che in pratica sia il mio essere umano preferito nell’universo.
Però, ecco. DaDa ha quasi scoperto la mia storia con zio Tom. E Vati odia questa sua ambizione a rendermi famosa. È un’altra delle poche cose sulle quali lui e Mutti litigano di continuo – indipendentemente da ciò che possa pensarne io, oltretutto; il fatto non ha nulla a che vedere con me, perché io posso effettivamente fare quello che voglio, e lo faccio. È una cosa di principio fra loro due.
Vati è già abbastanza arrabbiato.
Zio Tom è già abbastanza teso.
Mutti è già abbastanza nervoso.
Io sono già abbastanza stanca.
Non sarà una cena facile.
Comunque sia, appena mi vede DaDa mi sorride felice come se nulla nel mondo potesse girare nel verso sbagliato, ed io sul suo sorriso da boybander mi ci sciolgo, come sempre; lascio il braccio a Vati e mi fondo verso di lui, stringendolo al collo mentre lui mi tira su per la vita.
Sento lo zio sbuffare ma evito di fargli la linguaccia che meriterebbe.
- Tesoro, ciao! – mi saluta DaDa giulivo, mentre io gli saltello intorno, - A Briegmann piaci, ragazzina.
Sorrido. Non potevo proprio andare buca col presidente della Universal Music Deutschland.
- Perché gli piace la mia voce o per quei due disgraziati che mi hanno cresciuta? – domando sarcastica, indicando Vati e Mutti con due cenni del capo.
Vati borbotta che lui la Universal l’ha mollata secoli fa ed è stata la scelta migliore della sua esistenza. Mutti, invece, si lascia andare ad un sorriso un po’ triste e un po’ dolce, ma non commenta.
DaDa scrolla felicemente le spalle.
- Ti ritiene vendibile, tutto qua.
- E quando non lo sarai più, ti scaricherà. – aggiunge Vati, quasi in un ringhio.
- Come capita a tutti. – scocca zio Tom, vagamente amareggiato.
Vedo Vati e Mutti dirigersi contemporaneamente verso la porta del soggiorno nel disperato tentativo di abbandonare il campo. Quando capiscono di starsi muovendo in sincrono, si fermano. Mutti ricomincia a sistemare le posate attorno ai piatti. Vati gli si affianca e sistema i tovaglioli.
DaDa sospira pazientemente.
- Abbiamo un appuntamento per dopodomani alle nove.
- Ha scuola. – butta lì Vati.
- Ti giustifico io. – mi rassicura Mutti.
Non so se stanno semplicemente cominciando a litigare per la solita questione del “non la voglio nel mondo dello spettacolo/invece io sì” o se questo è solo uno strascico di ciò che è successo al BK questo pomeriggio. Comunque, non mi piace. Odio che in questa casa si litighi perché sono tutti maschi, perciò volano botte. Le botte sono eroiche e sexy solo quando le prende qualcuno che non ami.
In ogni caso, da quando Mutti mi ha adottata legalmente, oltre che sentimentalmente, questa cosa delle giustificazioni per le assenze manda Vati su tutte le furie. Spero che non gli dica la solita stronzata di rito per cui—
- Il coglione sono stato io che ti ho portato i documenti, vaffanculo a me.
…appunto.
Mutti non ha degli occhi normali, no, Mutti ha dei laghi. Non sono dello stesso colore, ma non è quello il punto: quando piove troppo s’ingrossano ed esondano. E non è una questione di lacrime – Mutti piange spesso, ma non così spesso – è una questione di sentimenti. Te li rovescia addosso. E adesso, nei suoi occhi, è riflessa solo una rabbia cieca ed un incredibile desiderio di fare male. Diretto tutto contro Vati.
Io lo so che si amano. Non ne dubito neanche adesso.
Forse è per questo che vederli così mi fa tanto male.
- M’è passata la fame. – biascico, abbassando lo sguardo.
Mutti smette di provare ad uccidere Vati con gli occhi e si volta verso di me.
- Tesoro, non—
- Non ho fame. – ribadisco scuotendo il capo. – Vado in camera mia.
Mi lascio alle spalle gli “è colpa tua” che Mutti comincia immediatamente a riversare su un silenziosissimo Vati, e mi chiudo in camera, abbandonandomi sul letto e nascondendo il viso contro il cuscino.
Io non odio la mia vita. Sono un’adolescente felice. Ho una bella famiglia— fuori di testa, ma bella. Non ho nessun motivo per essere triste. Questi però sono i casi in cui fatico a ricordarmelo. Quando Mutti urla e Vati tace per non dire di peggio. Quando esco di qui a notte fonda per andare a bere e trovo Vati raggomitolato sul divano, o sento la musica a basso volume venire fuori da sotto la porta della sua tana. Possono smettere di parlarsi anche per settimane intere, perché Vati è l’unico – proprio l’unico – di fronte al quale Mutti diventa impermeabile ai sensi di colpa.
Forse perché, penso, sono cattivi entrambi. Io lo so, questo. Forse non lo erano un tempo, forse lo sono solo diventati, ma comunque è questo che sono, profondamente. Ce l’hanno con tutti. E quindi ce l’hanno anche l’uno con l’altro.
È difficile da capire, se non lo vivi. Ma si amano tanto quanto si odiano. E per me è una cosa normale. Anche se fa male.
*
Ho aperto il quaderno sulla scrivania ed ho infilato le cuffie nelle orecchie. So che di là non stanno ancora litigando: la cena per Vati è sacra e silenziosa; ed è proprio questo, ciò che non voglio sentire, il loro silenzio. I silenzi, in questa famiglia, sono sempre molto pesanti, perché sono obbligati. Mutti è logorroico, oltretutto, perciò non sentirlo parlare è tremendo. Non parla solo quando vorrebbe dire cose orribili, ecco. Odio i silenzi perché so che ci sono le cose orribili dietro.
Comunque, sto ascoltando Unter der Sonne a palla. C’avrà pure dieci anni, questa canzone, ma è sempre un qualcosa di stupendo. Io adoro la voce di Chaku, mi piace più di quella di Vati perché è ruvida e maschile e quando ti parla sembra che ti stia rimproverando. Io credo sia questo che deve fare il rap, rimproverarti. Con la voce che ho, non ci riuscirei mai, è per questo che ho rinunciato al proposito fin da subito e, su consiglio di DaDa, mi sono data all’R&B. Ho una voce squillante ma dolce, quindi mi ci adatto meglio.
Comunque per un sacco di tempo avrei voluto fare rap, perché a me fondamentalmente piace parlare, mi piace dire le cose, ed il rap per fare questo è perfetto.
Sotto il sole le cose sembrano brillare di più, ma la sporcizia resta sporcizia, questo mi dice Chaku in questo preciso momento, ed io chino il capo a ritmo delle sue parole e penso che è vero, e che questo riflette non solo la mia vita, ma la vita di tutti.
Per dire, io sono molto amata. Sono molto amata e mi sento molto amata.
Ma sono stata molto odiata, in passato. È una traccia che mi porto dentro e non potrò mai estirpare.
Mutti mi ha molto odiata. Ed anche questo non potrà mai essere estirpato. Anche se ora c’è il sole e ridiamo e stiamo tutti insieme. Nei silenzi dei miei genitori resta la traccia dell’odio di un tempo.
E forse è per questo che ci sto tanto male.
Vati e Mutti erano molto felici, prima del mio arrivo. La loro è una storia d’amore molto eroica, nel suo piccolo che piccolo non è. Si sono accerchiati per un sacco di tempo convinti di stare semplicemente giocando, poi è capitato del tutto casualmente di trovarsi vicinissimi ed hanno capito che forse non stavano giocando proprio per un cavolo.
È sempre divertente quando Mutti me lo racconta e Vati per caso è lì ad ascoltare – magari ti sembra che sia distratto e non ci badi, e invece pende letteralmente dalle sue labbra. Mutti parte sempre in quarta con il discorso degli amanti predestinati e compagnia cantante, ed il tormentone di questo racconto è sempre “Lo sai che non baciavo un essere umano da tre anni? Tre anni! E non sono impazzito nel mentre. È evidente che stavo aspettando tuo padre”. E Vati risponde puntualmente “No, è evidente che eri talmente represso che, pure se avesse provato a baciarti un cammello, ti ci saresti buttato a pesce”. Ed io rido e Vati ride e Mutti lo guarda e sorride e ripete con più convinzione “Io aspettavo te”, ed allora tu ci credi. Perché quando Mutti parla in quel modo, tu gli credi. Può pure mentire, in quel preciso istante, ma nei suoi occhi c’è l’universo che brilla e ti confonde, perciò tu gli credi e basta.
Gli crede anche Vati. A Vati piace tantissimo credere alle fantasie di Mutti. Io so che è perché hanno abitato l’uno le fantasie dell’altro per una quantità spropositata di tempo. È come me con zio Tom: lui è stato nei miei sogni tanto a lungo – anni e anni e anni – che quando le sue mani mentono intrecciandosi alle mie, quando le sue braccia mentono stringendomi alla vita, quando le sue labbra mentono incollandosi alla mia pelle, quando il suo intero corpo mente fondendosi col mio e regalandomi mezz’ora di illusione in cui non c’è Mutti non c’è Vati non c’è DaDa ed io sono sua e lui è mio, io ci credo. Ciecamente. Poi torno alla realtà, ma per quei trenta fottuti minuti io ci credo e basta.
E lo stesso è per Vati, credo. Lui lo sa che Bushido e Bill Kaulitz non sono mai stati gli amanti del destino, lo sa che la loro relazione ha portato più danni che altro, lo sa che è anche colpa sua se il contratto dei Tokio Hotel con la Universal è saltato, ma quando Mutti lo guarda negli occhi e gli dice che stava aspettando lui e ne è certo, Vati ci crede. È bello crederci. Ci credo anche io.
Vati e Mutti hanno un sacco di fangirl. E un fanclub. Non ufficiale, ma piuttosto attivo, devo dire. Io mi ci diverto un casino, ogni tanto mi intrufolo ai raduni ed è sempre il delirio cosmico perché Vati si mette a strillare come un’aquila quando sa che ci vado. Mutti è d’accordo con lui, peraltro; le fangirl non gli sono mai piaciute particolarmente, però con me ha sempre seguito il principio fondamentale del fai ciò che vuoi, che è una cosa che suppongo abbia imparato direttamente da quella sciroccata di nonna Simone, perciò non mi rimprovera quasi mai.
Insomma, il fanclub ha anche creato un adorabile canale su YouTube al quale Mutti – nonostante l’antipatia per le fangirl! – ricorre sempre, quando gli salta in testa di raccontarmi la sua storia con Vati. Ha bisogno del supporto audiovisivo, dice. In realtà gli piace rivedersi giovane e bello. Non che adesso sia meno bello, ma gli anni passano per tutti, è così che va la vita. E poi si diverte a sfottere Vati, che ai tempi era oggettivamente improponibile, la maggior parte delle volte.
Il primo contatto fra Vati e Mutti è, credo, il più famoso abbordaggio della storia della musica tedesca. Fondamentalmente, Vati era in TV e lo stavano intervistando, e lui si prese un secondo di diretta per annunciare al mondo che gli sarebbe piaciuto farsi fare un lavoretto di bocca proprio da Mutti.
Seguì una vera e propria rivoluzione. Non c’era una – una che fosse una – fan dei Tokio Hotel non desiderasse Bushido morto. Possibilmente anche sodomizzato da uno o più animali a scelta fra buoi, cavalli e tori. In famiglia, DaDa la prese sudando freddo, zio Tom la prese come un’offesa personale – ma gli passò presto, zio Tom non è fisicamente in grado di restare arrabbiato a lungo – e Mutti la prese scoppiando in lacrime e strillando che non era un dannatissimo frocio e s’era rotto i coglioni di sentirsi apostrofato in quel modo da tutti i pezzi di merda che pensavano di poterselo permettere.
Mutti aveva diciassette anni. Vati undici di più.
Probabilmente avrei pianto anche io, ma il destino che piace tanto a Mutti quando si parla di relazioni amorose ha voluto che mi prendessi una sbandata colossale per uno che ha quattordici anni più di me. Penso di aver battuto i miei genitori su tutta la linea, e se le nuove generazioni sono i passi avanti della specie allora mi sa che con me il passo l’ha fatto un po’ troppo lungo, l’umanità.
Comunque. Vati scoprì che ad insistere pubblicamente sull’argomento ci si poteva pure guadagnare sopra, e siccome per gli affari ha sempre avuto un fiuto niente male – ed è sempre stato bravissimo a vendersi – ha proseguito. Ha aggiustato il tiro, non è stato più così esplicito con le richieste, ha cominciato ad infilare nei propri discorsi anche veri e propri complimenti, non soltanto apprezzamenti di tipo sessuale, ed infine ha sferrato l’assalto finale chiedendo ripetutamente – e in più occasioni – ai propri fan di votare per i Tokio Hotel in qualunque manifestazione musicale fossero in lizza per un premio.
Non so se Vati fosse consapevole di stare preparando Mutti alla cotta più devastante, violenta ed invasiva della propria vita. Io non credo lo fosse. Io credo fosse solo stupidamente divertito dalla cosa.
Fatto sta che in quei tre anni Mutti non baciò nessuno. Andava pure lamentandosene in giro, il che è piuttosto comico, se ci si pensa, perché non è questione di cliché, lui avrebbe davvero potuto farlo con chiunque in qualsiasi momento, ma niente. È anche per questo che un po’ gli si crede per forza, quando dice che stava aspettando Vati. Perché è vero che in fondo l’ha fatto.
Alla fine, dopo tre anni di incontri semicasuali a premiazioni varie ed eventuali, Mutti fece la propria mossa. Intervistato a riguardo delle continue avances di Bushido, rispose con una scrollatina di spalle ed un sorriso da manuale. “Bushido promette, promette… ma non mantiene mai”. È un altro degli eventi che in casa vengono ricordati in modo sempre diverso, dipende dalla persona a cui hai chiesto. DaDa, per dire, è ancora traumatizzato. Ci sono certe cose che con lui non si possono proprio discutere. Zio Tom ci si fa su una risata che è stupenda, da stare ad ascoltare, perché è a metà fra l’intenerito e il derisorio. Non so come faccia, ma zio Tom ha un sacco di talenti nascosti. Mutti ne parla con un certo orgoglio, come la ribellione di una principessa tenuta troppo a lungo sotto una campana di vetro – e poco importa lui non fosse quasi niente di tutto questo, Mutti ha sempre avuto il pallino della lotta per l’indipendenza e nessuno ha mai il coraggio di smontare le sue fantasie a riguardo. Vati invece è stupendo: quando glielo chiedi inarca le sopracciglia e borbotta “Cristo, mi fece paura!”. Ho sempre avuto questi flash mentali di lui che si volta verso Saad e strilla “un biglietto per l’Australia, prego”. Meraviglia.
Alla fine, si beccarono agli EMA. I Tokio Hotel erano lì perché nominati per il Best Headliner, Vati e Chaku premiavano il Best German Act. “Io mi stavo cagando addosso”, precisa sempre Vati. “Cioè, Bill non era normale. Non che lo sia mai diventato, poi, ma voglio dire… non si dicono queste cose in tv”. Chiaro che Mutti lo picchia, ogni volta che dice così. “E comunque anche io ero spaventato”, aggiunge fra un ceffone isterico e l’altro, “Avevo l’impressione di avere tirato un po’ troppo la corda ed ero lì a menarmela chiedendomi ‘e se lo fa davvero?’”.
L’incontro di quella notte mi piace sentirmelo raccontare da Chaku e zio Tom. Perché sono spassosi, quando li imitano. Zio Tom si butta contro il primo ripiano disponibile – se siamo in cucina la cosa è ancora più divertente, perché ha a portata di mano tutto ciò che gli serve per imitare al meglio Mutti – infila un cucchiaio in un bicchiere e poi si ficca il manico in bocca come fosse una cannuccia, e comincia a sballottarlo qua e là con la lingua.
Chaku gli si avvicina cercando di farsi alto e disinvolto. Disinvolto lo è, alto un po’ meno, ma quando sfotte Vati mette su un’espressione mitica a metà fra l’incazzatura e la strafottenza che è un qualcosa di stupendo. Già a questo punto io soffoco dalle risate, in genere.
Zio Tom alza lo sguardo e finge di arrossire come una vergine, Chaku lo inchioda al ripiano imprigionandolo fra le braccia.
“Chi è che promette, promette e non mantiene mai?” dice quindi, imitando la voce di Vati.
E poi generalmente a questo punto Mutti sclera e li separa prima che imitino anche il resto, visto che i report di MTV della serata li ritraggono avvinghiati in un angolo a fare sconcezze fino alle cinque del mattino circa. Vati dice che Mutti gli saltò letteralmente addosso e lui quasi rischiò di cadere e finire col sedere per terra. “Sono rimasto in piedi per miracolo e sono riuscito a trascinarlo in un angolo solo perché evidentemente Dio esiste”, dice, anche se lui a Dio continua a non credere. Peraltro, Mutti annuisce freneticamente e conferma. “Gli sono saltato addosso, è vero. Ma è colpa sua, era troppo vicino!”, borbotta, come se servisse a giustificarlo.
Vati e Mutti hanno vissuto l’amore più romantico di cui abbia mai sentito parlare. L’unica altra storia altrettanto romantica alla quale riesco a pensare è quella di Eko e Valezka, che pur di amarsi in santa pace hanno scatenato tipo una guerra fra bande. Ma Vati e Mutti sono meglio, perché non si sono bruciati subito come quegli altri due. Tant’è che Eko e Valezka si sono persi di vista, mentre Vati e Mutti sono ancora qui, l’uno appiccicato all’altro come il primo giorno.
Allontano il quaderno – sono esausta – e mi tiro un po’ indietro sulla sedia, sgranchendo le dita. Apro e chiudo il pugno, lo riapro e quando lo richiudo sento la voce di zio Tom gettare fuori una bestemmia da manuale e poi sento sbattere la porta d’ingresso. Dopo, silenzio.
Mi alzo ed esco da camera mia, aggirandomi furtivamente per il corridoio buio. Di fronte all’attaccapanni, DaDa sta recuperando il cappotto.
Mi avvicino. Non so neanche cosa dirgli.
- Lu, tesoro, scusami. – mi precede lui con un sorriso stanco, - Doveva essere una serata allegra. Giuro che sono venuto con le migliori intenzioni, volevo solo parlarti dell’appuntamento con Briegmann.
Annuisco.
- Hai rimproverato zio Tom? – chiedo timorosa, giocando con l’orlo della sciarpa bianca che gli pende dal collo.
- Non ho più l’autorità per rimproverare nessuno, in questa casa. Né fuori. – chiarisce lui seccamente, scrollando le spalle. – Vorrei solo che non fosse così misterioso. Tom è un cretino e un chiacchierone, lo sai, perciò quando non parla… - sospira pesantemente, - Ho paura che stia nascondendo qualcosa di grave. Sono solo preoccupato, ecco tutto.
Annuisco ancora perché il suo ragionamento non fa una piega. Io e zio Tom siamo in torto. Lo siamo sempre e comunque. Perché abbiamo sbagliato fin dall’inizio – io ad innamorarmi di lui, lui a concedermi il suo amore – e perché non abbiamo abbastanza coraggio per rimediare all’errore, ma non ne abbiamo abbastanza neanche da confessarlo. Questa storia non può che finire male.
- Stai lontana dal soggiorno, per un po’. – mi avverte alla fine DaDa, già sulla soglia della porta e pronto ad andare, - I tuoi si stanno “confrontando” e non vorrei che ti arrivasse un piatto vagante sulla testa.
Ridacchio richiudendogli la porta alle spalle, ed ovviamente la prima cosa che faccio, una volta rimasta sola, è avvicinarmi con cautela al soggiorno e spiare Vati e Mutti che si confrontano da un punto d’ombra nel corridoio. Mutti ha lo sguardo basso e triste, sta impilando i piatti sporchi della cena. Vati è di schiena e versa la frittella avanzata in un unico piattino, per metterla in frigo.
Non è inusuale vederli sparecchiare. Sono entrambi due pigroni viziati – Vati ha sempre avuto Karima, Mutti ha sempre avuto zio Tom – ma le piccole cose del quotidiano casalingo li attraggono in maniera oserei dire morbosa. Oltretutto, è con le faccende domestiche che tengono impegnate le mani quando vorrebbero saltarsi addosso e prendersi vicendevolmente a sberle. La tensione violenta del loro silenzio si diluisce nel cozzare tintinnante delle stoviglie, ed i loro lineamenti si rilassano tic dopo tic, fino a quando Vati non butta fuori un sospiro tale che lo vedo quasi sgonfiarsi e Mutti si morde un labbro e lo fissa intensamente, solo per un secondo, prima che Vati gli si avvicini e lo stringa a sé allacciandolo alla vita, tirandoselo contro con una furia possessiva che è arrabbiata e innamorata insieme; una furia che scioglie il nodo che ho sullo stomaco e mi costringe a un singhiozzo sollevato che soffoco solo perché ho paura di venire scoperta.
Vado via quando si baciano. Passo in camera a prendere il pigiama e vado in bagno, dove apprendo con orrore che, a coronamento di una serata di merda, le mestruazioni sono finalmente arrivate. Dopodomani ho un appuntamento con l’uomo che può cambiare il mio futuro e sarò mestruata ed isterica, perfetto. Ritiro tutto: non sono un’adolescente felice, sono una sfigata. E mi sa che è ereditario. La genetica è un’opinione.
*
Il mio primo ricordo è anche l’unico che ho di mia madre. È un ricordo principalmente visivo e sonoro, ma quella visiva e quella sonora sono due caratteristiche stridenti, non armoniche. La prima mi parla di un foglio di album liscio, grande, talmente grande che la mia mano premuta su quella superficie bianchissima sembrava come persa in un deserto di neve, macchiata appena di tanto in tanto da sbuffi colorati tracciati coi pastelli a cera sparsi alla rinfusa sul tavolo. Sono così tanti che non riesco nemmeno a contarli. Sto fissando questo foglio bianco scarabocchiato a caso e sto cercando di capire cosa potrei disegnarci sopra, quando ecco che la traccia visiva si mescola a quella sonora.
Mia madre che sussurra “mi gira la testa”. E poi un tonfo.
Non ho la minima idea di cosa possa essere successo dopo. Immagino che una delle amiche di mamma, o un suo parente, o un vicino, o comunque qualcuno abbia bussato alla porta, mi abbia sentito piangere e sia quindi entrato in casa con la forza, per poi prendere atto di ciò che era successo e chiamare la polizia.
Mia madre se l’è portata via un aneurisma. Il primo aereo che ho preso è stato quello che, in seguito a quest’evento, mi ha portata dalla Svizzera in Germania. Ricordo l’hostess che mi prese in consegna, aveva gli occhi dolci e grandi e lunghi capelli biondi. Mi parlava dolcemente ed io capivo molto poco di ciò che mi diceva.
Dopo questo, nella mia memoria c’è un altro buco. Le successive immagini che ho appartengono alla villa gialla di Vati, ma suppongo di non essere andata direttamente lì, perciò posso solo ipotizzare di essere rimasta qualche ora in un qualche centro di assistenza sociale mentre qualcuno si occupava di avvisare Vati del mio arrivo.
Ricordo la sua faccia quando mi vide, però. Sono solo flash, niente di concreto, ma ricordo i suoi occhi spalancati su quel viso così squadrato e allungato, la barba che gli copriva le guance, e il fatto che non ebbe il coraggio di abbracciarmi. Io indossavo un vestitino lungo alle ginocchia, calzette bianche e scarpette di vernice nere. Le ricordo dondolare giù dalla panchina sulla quale stavo appollaiata, rimpiangendo i peluche che qualcuno mi aveva infilato in valigia, senza lasciarmene in mano neanche uno. Mi sarebbe piaciuto poter stringere qualcosa, in quel momento, visto che quell’uomo così alto e magro al quale sembrava mi volessero dare non sembrava avere alcuna intenzione di stringere me.
Rimasi lì immobile per non so quanto tempo, mentre aspettavo fuori dall’ufficio all’interno del quale l’assistente sociale stava spiegando bene a Vati chi ero, perché mi trovavo lì in quel momento e quale decisione tutti aspettavano che lui prendesse. Vidi uscire prima le sue scarpe, perché avevo gli occhi piantati sul pavimento e non mi arrischiavo a sollevarli nemmeno per sbaglio. Erano dei mocassini scamosciati semplicemente orrendi. In quel momento, però, ricordo di averli trovati carini, in qualche modo teneri. Rassicuranti. Non saprei dire.
- Luise. – mi chiamò piano, accucciandosi di fronte a me e molleggiando un po’ sulle gambe, - Hai un bellissimo nome.
Arrossii, stringendomi nelle spalle.
- Chi sei tu? – domandai, arricciandomi una ciocca di capelli attorno a un dito giusto per darmi qualcosa da fare e smettere di torturare l’orlo della gonna che stavo stropicciando da minuti interi.
Lui prese un respiro profondissimo, prima di rispondermi.
- Sono il tuo papà. – disse, appoggiandosi con le mani alla seduta della panchina per non perdere l’equilibrio.
- Mamma diceva che eri impegnato. – buttai lì io, sempre fissando altrove. Lui sollevò una mano e mi accarezzò una guancia, e solo allora sollevai gli occhi nei suoi, permettendomi di perdermi nel suo sguardo caldo e avvolgente come una coperta.
- Da adesso in poi, non lo sarò più. – tagliò corto lui con un sorriso, e poi allargò le braccia.
Non so da quanto tempo non ricevessi un abbraccio. Il suo, quel giorno, comunque, mi sembrò il più bello che mi avessero mai dato.
Sospiro profondamente, abbattendomi contro lo schienale della sedia in sala d’aspetto. Rileggo la scena che ho scritto da capo, e mi colpisce la forza di questo ricordo. Il suo profumo, il calore del suo corpo, la morbidezza del maglione che stringevo fra le dita mentre, aggrappandomi a lui e piangendo, mi nascondevo contro il suo petto. Improvvisamente, il fatto che Vati non approvi di questo mio incontro con Briegmann e delle porte che potrebbe aprirmi inizia ad avere un suo peso specifico. Non che mi senta costretta a rinunciare solo perché lui non vuole e io gli sono grata per tutto quello che ha fatto per me quando qualcun altro magari non avrebbe creduto a niente e mi avrebbe piazzata in un orfanotrofio in attesa che qualcun altro mi adottasse, ma un po’ mi pesa non avere la sua approvazione in questo momento.
- Sei pronta? – mi chiede DaDa, apparendomi di fronte come la Fata Madrina di Cenerentola, paragone che, peraltro, gli calza a pennello, - Ancora pochi minuti e poi ti toccherà dimostrare quanto vali. – Mi stringo nelle spalle, tirando su le gambe fino al petto e rannicchiandomi sulla sedia. Lui mi guarda inarcando un sopracciglio, e poi si siede al mio fianco. – Duecento anni fa circa, c’era un bellissimo principe tedesco di nome David Jost. Egli era conosciuto come il ragazzo più snodato che il glorioso regno di Germania avesse mai visto. Purtroppo, ormai è vecchio e stanco, e in questo momento ti sta invidiando con ferocia e violenza. – annuisce compitamente, e io mi metto a ridere, nascondendo il viso dietro agli avambracci incrociati. – C’è qualcosa che non va? – mi chiede lui, accarezzandomi lentamente i capelli. Io mi sciolgo, arrotolandomi addosso a lui ed inspirando con forza il profumo delizioso del suo dopobarba.
- Vati non sarà contento. – considero mestamente, - Comunque vada, peraltro.
Lui si stringe nelle spalle, sbuffando teatralmente.
- Lascia che ti dica che tuo padre non è mai contento, a meno che le cose non vadano esattamente come vuole lui, cosa che, per inciso, accade molto più di rado di quanto uno non possa pensare. – risponde atono, stringendomi a sé.
- Sì… lo so. – sospiro, nascondendo il viso contro il suo collo, anche a costo di rovinarmi il trucco e macchiargli il colletto della camicia. Lui sospira, accarezzandomi ancora un po’ i capelli, il collo e la spalla.
- Lu, c’è qualcosa che mi devi dire? – chiede quindi, - Qualcosa che non sappia già, intendo.
Mi allontano, vagamente spaventata.
- Ma no. – scuoto il capo, cercando di suonare naturale, - È tutto a posto.
- Lo è? – insiste lui, lanciandomi un’occhiata severa. Lo vedo sospirare profondamente, prima di addolcire lo sguardo e sorridere appena. – Sai di cosa non sarebbe contento tuo padre? – mi chiede, - Di sapere che menti. – e nel momento stesso in cui lo dice io mi sento esplodere nel centro del petto un dolore sordo che quasi mi toglie l’aria. – Lu, sai che non devi farlo per forza? – domanda dolcemente, allungandosi ad accarezzarmi una guancia, - Se non è cantare quello che vuoi dalla tua vita, non hai che da dirlo. Io non voglio che tu salga su un palco e ti esibisca, se questo non è esattamente anche quello che vuoi tu.
Lo guardo senza sapere cosa dire per un paio di secondi. Io voglio cantare, DaDa. Non so se sia la mia vocazione, ma farlo mi piacerebbe. Sai cosa invece non voglio? Sai cosa non voglio proprio, al punto che sarei disposta a rinunciare a qualsiasi cosa per impedirlo?
Far soffrire il mio papà.
- Scusami. – sussurro in un gemito sconnesso, sollevandomi in piedi. Il quadernetto che tenevo in grembo cade per terra, aprendosi in due. La penna che avevo riposto fra le pagine per tenere il segno vola lontano. Mi chino a recuperare entrambe le cose, afferrando lo zainetto posato sulla sedia ed infilando tutto dentro alla rinfusa. Colgo appena un frammento dello sguardo che DaDa mi lancia, ed è un frammento sufficientemente doloroso da convincermi a non guardarlo più. Mi mordo un labbro, correndo verso l’ascensore proprio mentre la segretaria esce dal proprio ufficio e ci informa che Herr Briegmann è pronto a riceverci.
*
Mutti non sapeva di me. Nel senso che non solo non sapeva della mia esistenza, ma non sapeva nemmeno che cinque anni prima che io piombassi anche nella sua vita c’era stata la possibilità che nascessi e Vati aveva provato ad impedirlo pagando mia madre perché abortisse. Quando Vati ricevette la telefonata degli assistenti sociali che lo convocavano per discutere della mia sorte, lui già da qualche giorno sapeva che avrebbe dovuto prendere una decisione. L’avevano avvertito immediatamente dopo la morte di mia madre, prima di portarmi in Germania, lasciandogli un margine di qualche giorno per riflettere senza la spada di Damocle di una bambina che lo guardava da dietro un vetro attendendo di sapere cosa sarebbe stato di lei da quel momento in poi.
Non ho difficoltà a capire per quale motivo Vati non abbia ritenuto opportuno dire a Mutti cosa stava succedendo. Immagino debba essergli costato un grande sforzo, oltretutto, conoscendo il suo amore per la sincerità in tutte le sue manifestazioni. Per dire, il mio Vati non è uno che si consoli dicendosi “non sto mentendo, sto semplicemente omettendo una verità”. Per lui, le cose si equivalgono, e dovrebbe essere per tutti così, perché sarebbe molto meglio se tutti fossero onesti abbastanza da riconoscere che mentire non è soltanto dire qualcosa di falso, ma anche non dire qualcosa di vero. Io, per dire, sarei una persona migliore se… ma non è questo il punto, adesso. Fatto sta che non biasimo il mio Vati perché ha mentito alla mia Mutti nascondendogli la mia esistenza. Era spaventato, e quando hai paura di perdere le persone a te care fai cose pazze. Come mentire, che poi è la cosa più pericolosa da fare in assoluto, ma le bugie ti cullano nell’illusione che, se riesci a tenerle a bada, allora forse riuscirai a non perdere nessuno. Ma sono bugie, e in quanto tali mentono anche quando ti illudono di avere ancora questa possibilità quando invece tutte le menzogne che dici non fanno che allontanarti da tutte le persone che ami.
Fu per questo che Mutti si arrabbiò. Perché arrivò alla villa gialla, aprì con le proprie chiavi e dentro ci trovò un uomo con una bambina, e quest’uomo era il suo uomo ma i suoi occhi erano diversi, e quell’uomo uguale al suo uomo ma con occhi distanti gli presentò questa bambina come propria figlia e gli disse che lei sarebbe rimasta ma lui, se voleva, poteva anche andare.
Immagino che Vati abbia pensato che solo imponendomi avrebbe potuto chiarire fin da subito che intendeva tenermi e che tutto il mondo avrebbe dovuto semplicemente rassegnarsi di fronte a questo fatto. E non posso biasimarlo per questa scelta, ma come non posso biasimare lui non riesco a fare lo stesso neanche con Mutti, che si mise a strillare, strillare, strillare e piangere, piangere, piangere fino a farmi scoppiare la testa. Era la prima volta che lo vedevo e già non volevo vederlo più. Vati, poi, era così preso dal cercare di contrastarlo che sembrò come dimenticarsi totalmente della mia esistenza. Quando Mutti cominciò a prendere Vati a schiaffi, e quando lui prese a rispondere colpo su colpo senza la minima remora, scappai. Avevo paura di uscire fuori di casa, ma non conoscevo la villa e non sapevo dove avrei potuto andare a nascondermi, per cui semplicemente mi lanciai fuori dalla porta e lungo il sentiero che conduceva al cancello, oltrepassai anche quello e cominciai a correre a perdifiato lungo il marciapiedi.
- Ehi! – gridò qualcuno, ed io, preoccupata che Mutti o Vati si fossero accorti della mia assenza e mi fossero venuti dietro, presi a correre più forte, piangendo così tanto che mi faceva male il petto.
Mi fermai solo quando zio Tom piombò su di me, inchiodandomi a terra. Mi sbucciai un ginocchio e piansi ancora di più, lui mi guardò con aria sconcertata e cercò di tirarmi su e tapparmi la bocca contemporaneamente, senza riuscire davvero a fare nessuna delle due cose, peraltro.
- Lasciami, lasciami! – mi lagnai io, strofinandomi gli occhi coi pugni anneriti dallo sporco dell’asfalto. Lui si alzò in piedi e mi prese in braccio, resistendo ai calci che continuavo a sferrargli nello stomaco.
- Ma tu chi diavolo sei? – mi chiese, cercando di tenermi ferme le gambe. Io non risposi, continuando a piangere. – D’accordo, d’accordo, non dirmelo! – sbottò lui, quasi offeso, - Comunque sei uscita da casa di Bushido e sei troppo piccola per andartene in giro da sola. Ti riporto là.
- No! – strepitai io, ricominciando a scalciare, - No, non ci voglio andare! Non ci voglio andare! – strillai, aggrappandomi con forza ai dread biondi che gli scivolavano lungo le spalle.
- AhI! Ahi!!! – gridò a propria volta lui, strabuzzando gli occhi ed afferrandomi da sotto le ascelle per allontanarmi da sé, ottenendo come risultato solo quello di allontanare me assieme ai dread che continuai a stringere nei pugni come se dalla forza che ci avrei messo potesse dipendere la mia vita stessa. – Ferma! – si lamentò lui, stringendomi nuovamente al proprio petto ed utilizzando una mano per sciogliere le mie dita intrecciate attorno ai suoi capelli, - Per carità. Mi spieghi che diavolo è successo?!
- Quella ragazza è entrata e si sono messi a urlare! – cercai di raccontare. Mi faceva male la gola per quanto avevo pianto. Mi bruciavano gli occhi e mi sentivo sporca, stupida e spaventata.
- Ragazza…? – biascicò lui, - Oddio, mio fratello. – sospirò, sollevando gli occhi al cielo. – Ma tu chi sei? – chiese quindi. Io abbassai lo sguardo.
- È mia figlia. – disse Vati, raggiungendoci di corsa. Aveva il fiatone. – Cristo, Lu, scusami. – sospirò avvicinandosi a me e tendendomi le braccia. Io mi strinsi al petto di Tom, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. - …scusami. – ripeté Vati. Quando tornai a guardarlo, erano i suoi occhi a rimanere bassi, fissi sul marciapiedi.
- Mio fratello? – chiese zio Tom. Vati sospirò. Mutti stava camminando per strada strillando come un’aquila. Aveva già sorpassato l’enorme automobile nera dalla quale zio Tom era venuto fuori per inseguirmi, e sembrava bene intenzionato a tornarsene a casa sua a piedi. – Bill, per piacere, fermati. – gli gridò con aria esasperata.
- Vattene a fanculo. – ribatté Mutti, continuando per la propria strada, - Andatevene a fanculo tutti quanti! – ribadì. Piangeva. Zio Tom sospirò ancora, cercando di ridarmi a Vati, ma quando io tornai a stringermi a lui lasciò perdere.
- Ehi, - sussurrò, - senti, se vuoi posso portarti a prendere un gelato, così ti calmi. Ma poi devi tornare qui, perché io devo prendermi cura di quella bella ragazza che hai visto prima, che in realtà non è una bella ragazza ma un bel ragazzo, al più, ed è mio fratello. E sicuramente in questo momento avrà il cuore un po’ incrinato.
Vati distolse lo sguardo, anche se il tono di zio Tom non sembrava quello di un rimprovero.
- Che vuol dire incrinato? – domandai, giocando con la punta di uno dei suoi dread. Zio Tom sorrise appena, lasciandomi fare.
- Che non si è ancora spezzato, però c’è andato vicino. – spiegò dolcemente.
- E tu puoi rimetterlo a posto? – domandai ancora. Lui rise piano, stringendosi nelle spalle.
- Posso provarci. – rispose. E io ricordo distintamente di averlo guardato negli occhi e di aver pensato che se i principi delle fiabe esistevano, dovevano essere esattamente uguali a lui. Con quei capelli, con quel sorriso, con quegli occhi. Principi che riaggiustavano cuori spezzati. E sperai che un giorno, quando sarei stata grande, se si fosse spezzato anche il mio, ad aggiustarlo ci avrebbe pensato lui.
Non posso dire che fu lì che m’innamorai di lui, ma sicuramente fu lui il primo a darmi un motivo per restare, prima chiedendo a Vati se gli dispiaceva che mi portasse un po’ in giro e poi tenendomi con sé fino a tarda sera.
In realtà non mi ha più lasciata andare. Anche dopo che Vati e Mutti furono tornati insieme, quando Mutti mi accettò, quando divenni parte integrante della famiglia, quando diventammo effettivamente una famiglia dove prima c’erano solo due persone che si amavano, zio Tom non smise mai di tenermi con sé. Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo incontrato da quando questa cosa s’è fatta più complicata, lui non mi ha mai lasciata andare.
Mi spezza il cuore dover essere io a lasciarlo andare per prima.
- Non ti aspettavo. – dice sorridendomi e scostandosi dall’uscio per lasciarmi passare, - David è andato via pochi minuti fa.
- …è stato qui. – considero a bassa voce, annusando l’aria. C’è ancora il suo profumo ovunque.
- Già. – ridacchia lui, chiudendo la porta e passandomi un braccio attorno alle spalle mentre mi trae a sé, stringendomi forte. – Era disperato. Non sa come dirlo a tuo padre e a Bill. O meglio, non sa come dirlo a Bill. Tuo padre suppongo che tirerà un sospiro di sollievo e si getterà questa storia alle spalle come tutte le cose brutte che gli sono capitate e che poi si sono risolte e che lui è convinto di aver risolto da sé quando in realtà a risolverle è stato il caso.
Premo le mani contro il suo petto e mi allontano, cercando i suoi occhi per un secondo ed abbassando immediatamente lo sguardo quando mi rendo conto di non poterlo reggere.
- Forse invece stavolta l’ha risolto lui davvero. – mormoro. Sento il suo sguardo incuriosito addosso, lo percepisco mentre si fa via via sempre più consapevole, e quando una delle sue mani mi afferra una spalla, per tenermi ferma, posso in qualche modo prevedere le due dita che, delicatamente, mi costringono a sollevare il mento e tornare a guardarlo.
- Hai mollato David in quel modo facendo saltare l’appuntamento con Briegmann solo perché sai che tuo padre non approva l’idea di farti fare carriera nel mondo dello spettacolo? – mi domanda, e la sua voce è dolce, sebbene venata da una sorta di nervosa preoccupazione che la rende tesa e un po’ indispettita. In qualche modo, riesco a capire che quel fastidio non è rivolto a me, e perciò non lo sento come una minaccia.
- Credo di sì. – ammetto, distogliendo lo sguardo senza riuscire ad abbassare il viso come vorrei solo perché le sue dita pressate contro il mento me lo impediscono. Lui ride un po’ tristemente, allungandosi verso di me per abbracciarmi ancora.
- Sei una ragazzina. – sussurra sulla mia pelle, - Non puoi lasciare che siano gli umori di tuo padre a regolare la tua vita. Altrimenti, - aggiunge con un’altra risata, - mi sa che ti tocca anche lasciarmi, visto che credo che approverebbe anche meno questo che non vederti cantare su un palco.
Faccio uno sforzo e torno a guardarlo. In qualche modo sento di doverglielo, anche se fa così dannatamente male.
- Forse è quello che dovrei fare. – sussurro, la voce rotta da un singhiozzo che non riesco in alcun modo a trattenere. Lui spalanca gli occhi, mentre poggia entrambe le mani ai lati del mio viso, avvicinandosi appena.
- Lu. – comincia, - Lu, non dire stronzate, adesso.
Cerco di abbassare di nuovo lo sguardo ma lui mi tiene immobile, ed allora chiudo gli occhi, strizzando forte le palpebre.
- Scusami. – mormoro.
- Lu, non dire stronzate, adesso! – ripete lui, a voce più alta, ed io chiudo gli occhi con più forza mentre sollevo le mani a coprirmi le orecchie.
- Ti prego. – piagnucolo, ma non so nemmeno per cosa lo sto pregando. Perché mi lasci andare, forse, o forse perché provi in tutti i modi a farmi cambiare idea.
- Non mi pregare. – ribatte lui, stringendo più decisamente la presa sul mio viso, - Non mi pregare, cazzo. Lu, cos’è successo?
- Niente…
- Cos’è successo?!
- Non voglio che stia male!
- Quindi preferisci soffrire tu? Preferisci che stia male io? Preferisci distruggere tutto quello che abbiamo solo perché così non dovrai mentirgli, né spezzargli il cuore dicendogli la verità?! È più importante che lui sia sereno, rispetto alla nostra vita, al nostro futuro, al—
- Tom, è mio padre! – strillo interrompendolo, ed allontanandomi da lui con uno strattone così forte da rischiare quasi di inciampare nella foga con cui indietreggio, - È mio padre, è l’inizio e la fine della mia vita, è la cosa più importante che ho, è il motivo per cui sono qui, è anche il motivo per cui ho te! Come puoi— come puoi non capire?! È mio padre, è lui che mi ha dato la vita.
- Ed è anche lui che te l’avrebbe tolta, se solo tua madre non avesse deciso di tenerti. – dice amaramente lui, ed io trattengo il respiro, indietreggiando ancora.
- Sì, forse. – annuisco cercando a tentoni la maniglia della porta, - Ma non è andata così. Io sono viva e lui ha già fatto ammenda per quello. Sono— sono dieci anni che fa ammenda per quello, Tom. – insisto, incapace di trattenere le lacrime, – Spero solo che non mi tocchi fare ammenda per un periodo altrettanto lungo per tutte le bugie che gli ho detto.
Di lui non resta che una macchia chiara sfocata davanti ai miei occhi.
Quando chiudo la porta, neanche quella.
*
Dopo quella scenata, le urla e i pianti isterici e i vaffanculo urlati per strada come in uno sceneggiato italiano, non rividi Mutti per molto tempo. Da un certo punto di vista fu un bene, perché in quel modo io e Vati riuscimmo a cominciare a conoscerci, ci ritagliammo i nostri spazi e poi li incollammo nuovamente insieme come in un collage, facendo in modo che coincidessero. Non è mai semplice quando devi cambiare le abitudini di una vita intera per far spazio alle abitudini di qualcun altro, soprattutto quando per certi versi questo cambiamento ti viene imposto, ma noi, devo dirlo, ce la cavammo alla grande. Mentre Vati prendeva confidenza con lo svegliarsi solo nella propria camera e venire a controllare che stessi ancora dormendo nel mio lettino nella stanza accanto, invece che svegliarsi accanto a Mutti e passare il resto della mattinata con lui prima di dover uscire per lavoro, io mi abituavo a tutte le differenze che c’erano fra la mia vecchia casa e quella nuova, il mio vecchio letto e quello nuovo, la mia vecchia vita e quella nuova. Non c’era più una mamma ma c’era un papà. Non c’erano più abbracci dal profumo dolce, ma c’erano strette forti dall’odore penetrante che mi rimaneva attaccato alla pelle, ai vestiti, ai capelli. Non c’era più la voce sottile e rassicurante che mi cantava le ninne nanne per conciliarmi il sonno, ma ce n’era un’altra, più profonda e intensa, quasi ipnotica, che mi riempiva la testa di fiabe con principesse guerriere, sovrani armati, draghi coi manganelli e castelli del ghetto, catapultandomi in sonni sempre ricchi di sogni che adoravo disegnare quando mi svegliavo, se erano rimasti abbastanza impressi.
Mutti non si fece mai vedere. Passarono delle settimane prima che si presentasse. Ogni tanto, lui e Vati parlavano al telefono, ma finivano sempre con l’urlarsi addosso. Urlavano così tanto che sentivo la voce di Vati anche se in quel momento mi trovavo in un’altra stanza, e se per caso invece quando accadeva ero proprio lì accanto a lui non di rado mi capitava di sentire strillare Mutti nonostante il telefono. Era un rumorino acuto e torrenziale, aspro e incattivito. Quando lo sentivo, non potevo fare a meno di ricordare la sua faccia stravolta dalle urla e dal pianto la prima volta che l’avevo visto. Scappavo sempre in camera, ogni volta che ci ripensavo. E poi chiedevo a Vati di chiamare lo zio Tom per farmi portare fuori a prendere un gelato.
Per quasi un mese, la mia mente si prese la libertà di rielaborare l’immagine di Mutti che aveva a disposizione – quella di un ragazzino addolorato e frustrato, in sostanza – e trasformarla in qualcosa di spaventoso, qualcosa di quasi fiabesco, una strega cattiva dai capelli irti e neri, dai denti aguzzi e dagli occhi iniettati di sangue, qualcosa che non avrebbe sfigurato in nessuna delle storie che Vati mi raccontava prima di spegnere la luce ed augurarmi la buonanotte. Qualcosa di molto cattivo, ma anche molto epico.
Per questo, fu quasi una delusione quando lo rividi. Si presentò in un pomeriggio piuttosto caldo e piacevole. Credo che Vati volesse portarmi al parco, perché ero vestita di tutto punto e lui stava cercando di convincermi che non era il caso di portare con me la bambola di porcellana che nonna Luise mi aveva regalato un paio di giorni prima e dalla quale io non avevo la benché minima intenzione di separarmi. Suonarono al campanello, Karima andò ad aprire ed eccolo là. C’era anche zio Tom, con lui, cosa che in qualche modo forse ridimensionò la sua apparizione nella mia testa, perché ricordo distintamente di averlo visto molto piccolo e indifeso, quel pomeriggio. L’immagine che mi dava era così lontana da quella che avevo immaginato per tutto quel tempo.
- Bill. – lo chiamò Vati. Era così incredulo che la sua faccia era quasi comica. – Cosa ci fai qui? – chiese. Mutti lo sferzò con un’occhiataccia infastidita.
- Non sono venuto per parlare con te. – scoccò superbo, - …non ancora, almeno. – sospirò, voltandosi verso di me e chinandosi sulle ginocchia per potermi guardare negli occhi. – Tu sei Luise Maria, vero? – chiese con aria un po’ timida, stringendosi nelle spalle. Era così magro, sembrava un ragazzino. Portava i capelli raccolti in una coda bassa che spioveva sulla sua spalla, solleticandogli il collo. Provai immediatamente il desiderio di toccarla. C’era qualcosa, in lui, che mi ricordava Tom. Potrei dire che fosse il profumo, ma fraintendereste. Non sto parlando dell’odore della pelle, ma di qualcosa di più profondo, quel qualcosa che ti avvolge quando sei di fronte a qualcuno, e che è capace di farti sentire a tuo agio o, al contrario, completamente fuori posto. Lui e Tom ce l’avevano, ce l’avevano uguale. Fu quella la prima volta che notai quanto si somigliassero. Annuii, nascondendomi per quanto potevo dietro la bambola di porcellana, che era alta quasi quanto me. Mutti sorrise, e quello fu un sorriso così bello che la bambola quasi mi scivolò via dalle braccia. – Vuoi uscire a prendere un gelato con me e Tomi? Mi piacerebbe parlarti un po’.
Annuii, tendendo le braccia verso zio Tom perché fosse lui a prendermi in braccio.
- La bambola… - dissi, non sapendo dove metterla. La sua generale enormità ci ingombrava.
- Lasciala qui, - suggerì Vati, - così non si rompe.
- Posso prenderla io, se vuoi. – mi sorrise ancora Mutti. Io considerai le opzioni per un po’. Volevo davvero portare quella bambola con me. Finii per lasciarla a lui, che la tenne in braccio esattamente come zio Tom stava tenendo in braccio me, per tutto il tempo.
Andammo al parco. Comprammo il gelato. Ci sedemmo su una panchina. Zio Tom si rifugiò nell’angolo più lontano, come gli desse fastidio la sola idea di intromettersi in quello che aveva tutta l’aria di voler essere un discorso molto privato. Appena ci fummo seduti, dopo aver finito il gelato, Mutti mi ridiede la bambola e lasciò che me la sistemassi in grembo.
- Tuo padre, sai, è un cretino. – mi disse quindi. Io lo guardai. Ero ancora arrabbiata perché lui aveva insistito tanto per cercare di impedirmi di portare la mia bambola con me. Annuii vigorosamente, e Mutti rise divertito. – Sai cosa? – disse quindi, - Se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima, e molto più facilmente.
Quella fu la prima volta che mi raccontò tutta la storia, quella che ormai da mesi sto cercando di mettere per iscritto su questo quadernetto per capire se c’è un punto al quale posso ritornare per rimettere a posto le cose. Per smettere di mentire. Per dire a tutti che sono innamorata, che non l’ho chiesto io, che è semplicemente successo e non posso farci niente se è andata così.
Ma immagino che a questo punto non mi serva più.
L’autobus si ferma a due passi da casa. Metto a posto il quaderno nello zainetto e medito di buttarlo via, più tardi. Potrei anche organizzare qualcosa di simbolico. Potrei bruciarlo, o seppellirlo. Gettarlo nel cestino della carta straccia sembra un po’ troppo poco per riuscire a cancellare dalla mia memoria quello che c’è scritto dentro, e anche tutto quello che non c’è scritto ma che scrivendo m’è venuto da pensare.
Pioviggina. Fa freschetto, ma è un bel tempo. Uggioso e malinconico. L’aria non è grigia, ma azzurrognola. Il sole è appena tramontato. Sono stanca perché sono fuori da stamattina, e mi sembra di aver buttato via una giornata intera. Una carriera, una vita, una storia d’amore.
Mi sento patetica quando, oltrepassando il cancello di casa, vedo Mutti steso sul dondolo sotto il porticato e, al solo posargli gli occhi addosso, mi metto a piangere. Lui si tira su, sollevandosi sulle braccia per mettersi a sedere non appena mi scorge.
- Lu? – mi chiama piano, eppure la sua voce sottile mi rimbomba nelle orecchie. Stringo i pugni lungo i fianchi e, quando sento il peso delle lacrime gonfiarsi nel petto, lo lascio andare tutto assieme con un singhiozzo stremato, lanciandomi verso di lui ed accucciandomi contro il suo petto quando mi stringe fra le braccia, accarezzandomi lentamente i capelli e sussurrandomi all’orecchio parole dolcissime per tranquillizzarmi. – Tesoro, cosa è successo? – mi domanda, baciandomi sulla fronte e sulle tempie, - David è stato qui, un paio d’ore fa. Eravamo così in pensiero per te.
- Sono una stupida… - mormoro fra i singhiozzi, nascondendo il viso fra le pieghe dell’ampia maglia che indossa, - Mi dispiace così tanto, Mutti…
- Calmati, adesso. – sorride lui, senza smettere di accarezzarmi neanche per un secondo, - Smetti di piangere e raccontami cos’è successo.
- Mi sono rifiutata di parlare con Briegmann… - comincio, restando nascosta contro di lui.
- Non vuoi cantare? – mi chiede lui, cullandomi fra le proprie braccia, - Credevo ti piacesse.
- Mi piace! – mi affretto a rispondere, - Mi piace, ma non lo so se è quello che voglio, e comunque non è quello il punto, Mutti, è che… - inspiro in un singhiozzo stremato, - ho una grande confusione in testa… Mutti, sono innamorata…
- Cosa…? – chiede lui, agitandosi immediatamente. Prova a mettersi seduto, ma visto che io non accenno a spostarmi e non glielo lascio fare si limita a stringermi il viso fra le mani, obbligandomi a guardarlo. – Perché non me l’hai detto, tesoro? Chi è?
- Non— non potevo. – singhiozzo, cercando di nascondermi un’altra volta contro il suo petto ma trovando la resistenza decisa della sua stretta ancora forte sui miei zigomi, - È… è successo tanto tempo fa, va avanti da un po’, io… mi vergognavo così tanto…
- Perché avresti dovuto? – insiste Mutti, e i suoi occhi sono pieni di dolore. Mi stringono il cuore. – Tesoro, tieni sempre a mente che per quanto complicata possa essere una situazione in cui ti cacci, io e tuo padre siamo qui per aiutarti. Anche per indirizzarti in quei momenti in cui ti sembra di non avere nessuna scelta. Ce l’hai sempre, una scelta, solo che a volte non riesci a vederla.
- Questa volta no. – mugolo, socchiudendo gli occhi per sottrarmi al suo sguardo così profondo e dolce, - Questa volta non ne avevo proprio una.
- Perché dici così? – mi chiede Mutti, e la sfumatura addolorata che prima era solo nei suoi occhi si è trasferita anche nella sua voce, che s’incrina appena. Non vorrei deluderlo così. Odio fargli questo. Odio questo momento e odio essere innamorata e odio non riuscire a smettere di pensare a quanto amo Tom e odio essere qui, piangere, stare così male e singhiozzare fino a sentirmi rimbombare nella testa i battiti del mio stesso cuore.
- Perché è innamorata di tuo fratello. – dice Vati. La sua voce è gelida, e ci paralizza entrambi. I miei occhi si spalancano all’improvviso su quelli di Mutti, che non stanno più guardando me, ma un punto oltre la mia spalla. La sua presa si fa più morbida e io ne scivolo via come tanti anni prima la bambola di nonna Luise è scivolata via dalle mie braccia.
Se non cado per terra, se non mi rompo in mille pezzi, è solo perché mentre scivolo un paio di braccia forti si chiudono attorno a me e mi sostengono, esattamente come hanno fatto le mie con quella bambola in quel pomeriggio estivo che nell’aria cupa di questa sera che odora di pioggia sembra così insopportabilmente lontano.
Il profumo di Vati mi avvolge all’improvviso. Oltre la sua spalla, vedo zio Tom appoggiato allo stipite della porta. Ci guarda e ha gli occhi grandi e rossi e lucidi. Sembra improvvisamente molto più giovane di quanto non sia, mi ricorda il ragazzino che mi è corso dietro quando l’unica cosa che volevo era scappare il più lontano possibile da questa casa.
Non ho mai smesso di scappare, da allora. Forse ho smesso di correre, ma di scappare, di nascondermi… non ho mai smesso di farlo.
- Mi dispiace. – sussurro senza fiato, stringendo le mani attorno al tessuto della sua maglietta. Mutti, ancora seduto sul dondolo accanto a noi, ha gli occhi spalancati e pieni di lacrime ed una mano premuta sulla bocca.
- Dispiace anche a me. – sussurra Vati, stringendomi così forte da darmi l’impressione di volermi nascondere dentro il suo stesso corpo. Al caldo, al sicuro, dove niente potrà ferirmi. – Mi dispiace che tu non me ne abbia parlato. Mi dispiace che tu mi abbia mentito così a lungo. Mi dispiace che, spinta dal senso di colpa, tu abbia incasinato ancora di più la situazione, facendo soffrire David, facendo soffrire Tom e facendo soffrire alla fine anche noi. Ma più di ogni altra cosa… - si allontana, accarezzandomi una guancia con due dita e poi appoggiando la fronte alla mia, chiudendo immediatamente gli occhi mentre io lo imito, fingendo che non esista nient’altro al mondo oltre al battito sincronizzato dei nostri cuori, - più di ogni altra cosa mi dispiace che tu abbia potuto pensare che sarei stato più felice sapendoti triste perché ti eri privata di qualcosa che amavi solo per farmi contento.
Mi si spezza il respiro in un singhiozzo sollevato, mentre sulle mie labbra si fa strada un sorriso più sereno. Mutti piange silenziosamente, allungando una mano ad accarezzarmi i capelli. Vati torna ad abbracciarmi stretta, ed io vorrei soltanto che zio Tom potesse avvicinarsi solo un po’, perché mi basterebbe sentire addosso il tepore del suo corpo per rendere questo momento finalmente perfetto.
Allungo un braccio alla mia destra, cercandolo nell’aria umida della sera. Le sue dita si intrecciano con le mie quasi subito. Sono tiepide e ruvide e sue. Quest’unione, invece, è nostra. Di tutti noi.
- Non so se voglio tornarci, da Briegmann. – confesso in un sospiro, - Forse non è cantare, quello che voglio.
- Qualunque cosa tu voglia, - sospira Vati, dondolandomi un po’ prima di lasciarmi andare, - a me andrà bene. – poi si ferma e riflette. – Cioè, non qualunque. Faremo una lista. Più tardi. – si corregge, annuendo a se stesso. Io sorrido, e sorride zio Tom, e sorride Mutti, e sta sorridendo anche Vati. Mi chino a recuperare lo zainetto che ho abbandonato per terra quando sono arrivata, rovisto al suo interno e ne tiro fuori il quadernetto gonfio della nostra storia. Lo porgo a Mutti, che lo prende a lo guarda da ogni lato prima di aprirlo e leggerne le prime frasi, per poi lanciarmi un’occhiata grande e gonfia di pianto.
- Forse è questo quello che voglio fare. – sorrido, - Ti piacerebbe leggerlo?
Mutti si stringe il quaderno al petto. Poi fa lo stesso con me.
Mentre rientriamo in casa, con la voce di Vati che continua a borbottare di quel famoso elenco che dovremo comunque assolutamente redigere, faccio in tempo a chiedermi se ho un quadernetto ancora nuovo, in camera. Il seguito voglio cominciare a scriverlo da stasera stessa.
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  1. La trovo semplicemente stupenda!!*-*
    Complimenti!Personalmente non noto il distacco stilistico,la storia è scorrevolissima e piena di signficato!
    La adoro!

    brandyt
    20/03/2011 23:10

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