rp: eko fresh

Le nuove storie sono in alto.

Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Eko/Valezka, Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Het.
- "Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore."
Note: Credete pure ai vostri occhi, la nuova shot del GD è qui! E, in un'incredibile concomitanza di buone notizie, non solo è una shot dal POV di Eko, un POV che, sappiamo, attendiamo tutti con impazienza, ma è anche, finalmente, l'ultimo spin-off prima di ricominciare a parlare di cose serie tipo LA TRAMA. Sì, non ce la siamo dimenticati. Anche questa serie ne ha una. No, l'argomento principale della serie non è il matrimonio del Flerkuza, anche se ne parliamo di nuovo anche in questa shot (perché non sarebbe il GD se lo stesso identico avvenimento non venisse riproposto in mille salse da due trilioni di POV differenti). Portate pazienza per questa lunghissima shot (Eko aveva voglia di raccontarci la sua INTERA ESISTENZA, scusate) e vi promettiamo che già nella prossima shot cose nuove ed incredibili cominceranno ad accadere!
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LIVING THE DREAM

In pratica è successo che Fler e Chakuza si sono sposati, e noi lo veniamo a sapere il giorno dopo quando, uscendo tutti dalle nostre camere e scendendo fino al piano terra per fare colazione, troviamo Bill e Bushido che fissano il vuoto aprendo e chiudendo la bocca come pesci rossi nell’acquario mentre Chakuza cerca di darsi un contegno spilluzzicando la colazione e Fler si regge un panno bagnato sulla testa, mentre la sua tazza di caffè nero viene riempita a intervalli regolari da un cameriere che pare messo lì apposta per fare solo questo.
Io, per la verità, neanche volevo scendere a fare colazione. Stavo bene in camera mia. Mi hanno piazzato in una ricostruzione in piccolo della foresta Amazzonica, con le liane che pendono giù dal soffitto e le pozze d’acqua sul pavimento in bagno, che non ho ancora capito se è per mantenersi in tono con l’ambiente o perché s’è rotto lo sciacquone e per tamponare l’esondazione in bagno ci ho dovuto mettere gli asciugamani. Tant’è che poi per fare i bisogni ho dovuto usare il bagno di Kay, che invece è stato infilato in una stanza della reggia di Versailles trasportata qui appositamente da Parigi, e ha le tende di broccato pure nella doccia. Una roba, veramente.
Comunque, io stavo lì tranquillo appeso alla mia liana e dondolavo a testa in giù, quando il telefono squilla urlando come Tarzan. Saltando agilmente da una liana all’altra, mentre il mio pigiama-perizoma svolazza nell’aria umida della foresta pluviale, giungo fino al comodino ed allungo un piede prensile verso la cornetta. La stringo fra le dita e la pianta del piede e, piegandomi con notevole nonchalance, la porto all’orecchio, rispondendo con un verso scimmiesco. Poi mi rendo conto che mi sono lasciato un po’ trasportare e mi riprendo.
- Pronto? – dico, e Kay, dall’altro lato, trattiene il fiato, prima di rispondere.
- Vieni giù, - mi fa, - abbiamo un problema.
Insomma, vado di sotto e poso gli occhi sulla coppia reale in stato catatonico, e ipotizzo che una maledizione sia stata lanciata sul nostro re e sulla nostra principessa. Sicuramente qualcosa che coinvolge il primo cavaliere e il consigliere di corte deve essere accaduta, perché mai Bushido e la principessa sono stati in questo stato, se non per cose che coinvolgessero Chakuza e il suo consorte privo di fissa dimora.
- Insomma, - domando, prendendo posto accanto al principino Tom che, gli occhi ancora chiusi ed evidentemente infastidito dall’essere stato buttato giù dal letto a quest’ora, dorme col naso affondato nella propria tazza, - che è successo?
Bushido continua a fissare il vuoto mentre la nostra reale sovrana prova a rispondermi, non ci riesce e pertanto tira fuori un fazzoletto di pizzo da non so dove e ci scoppia a piangere dentro, tutto scosso dai singhiozzi, mentre Fler si lamenta perché il suono del pianto di Bill lo infastidisce e Chakuza si passa una mano sul viso, spossato.
- Fler e Chakuza si sono sposati. – chiarisce per tutti Kay. Tom affonda di un altro paio di centimetri nella propria tazza, poi gorgoglia e si tira su, il naso impiastricciato di schiuma. Si pulisce con un tovagliolino e poi torna a dormire in piedi.
Io guardo il mondo – Bushido ancora imbambolato, Bill che piange più forte al solo sentire il problema che viene ripetuto ad alta voce da Kay, Fler e Chakuza che indossano degli anelli orrendi e quei due strani amici dei gemelli che, dimostrando molta più intelligenza di tutti noialtri, se ne stanno per fatti loro ignorandoci – e spalanco gli occhi.
- Mi sa che voi due vi siete bevuti il cervello, - dico, rivolgendomi alla coppia di novelli sposi, - e se ve lo dico io che fino a due minuti fa stavo penzolando giù da una liana, potete credermi.
- Stavi facendo cosa? – domanda Kay, fissandomi con un paio d’occhi pallati che sono tutto un programma, ma io lo liquido con un gesto della mano perché mi pare che qui i problemi siano ben altri. Questi due si sono sposati, non so se rendo l’idea. Ora noi torneremo in Germania e tutto il mondo titolerà che Fler e Chakuza sono la prima coppia di rapper tedeschi gay ad essersi unita in matrimonio. No, voglio dire. Chakuza e Fler. Ce li avete presenti?
Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore.
- Senti, non mi sembrano fatti tuoi. – protesta Chakuza, evidentemente di malumore. Dico io, se dovevi essere così uggioso, tanto valeva che non ti sposassi affatto. Ti ho forse obbligato io a farlo? No, sto esprimendo un’opinione su quello che credo sia stato un comportamento assolutamente folle. Puoi tu odiarmi perché do voce alle mie proteste? Ma assolutamente no. Qui mi sa che l’usciere di corte si sta prendendo delle libertà che se il nostro signore e padrone fosse in sé non gli concederebbe assolutamente. Solo che egli non è in sé, quindi mi tocca difendermi da solo.
- Sto solo dicendo – ribatto, fissandolo in cagnesco, - che non mi sembra una gran pensata quella di sposarvi. Non avete riflettuto sulle conseguenze di questo gesto? Il matrimonio è un vincolo sacro.
- Ah, e tu sei il massimo esperto in materia, suppongo! – sbotta Chakuza, battendo un pugno sul tavolo. Fler, al suo fianco, mugola dolorosamente e gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo. No, dico. Lo ripeto. Gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo! Ma delicatamente, come la moglie che è! Non credo di aver mai visto niente di più gay in vita mia, ed io ho accompagnato Bill a fare shopping. No, per dire.
Mentre ancora inorridisco per questa cosa della mano sul braccio – me la sognerò nei secoli a venire, il mio sonno non sarà mai più tranquillo e sereno, io che ho sempre dormito come un bambino, mi viene da piangere – Fler si toglie la pezza bagnata dalla testa e manda giù un po’ di caffè, per poi rivolgersi direttamente a me. Io mi metto a bere il mio latte macchiato perché ho paura che mi contagerà con la sua gaytudine se mi guarda dritto negli occhi. Come Medusa, ma con delle miniature dei Village People per capelli al posto dei serpenti.
- Eko, - mi spiega con pazienza, - eravamo ubriachi, non ci abbiamo riflettuto granché sopra e probabilmente abbiamo agito in maniera avventata, ma non siamo pentiti di averlo fatto e ci rendiamo perfettamente conto della nostra situazione adesso. Siamo molto contenti di come sono andate le cose, e ti pregherei di rispettare almeno questo.
- Sono contenti, loro! – strilla a quel punto Bill, il viso inondato da una marea di lacrime e mascara. La sua voce è talmente alta che Fler fa una smorfia e torna a nascondersi sotto il suo panno bagnato, sofferente. – Siete contenti, eh? E io non ho potuto nemmeno organizzare un rinfresco, o occuparmi dei fiori per decorare la cappella! Scommetto che non c’era nemmeno una rosa bianca sulla navata centrale!
- Io scommetto che non c’era nemmeno la navata. – borbotta Tom, gorgogliando col naso di nuovo tuffato nel caffellatte, e Bill torna a piangere, lanciando il fazzoletto ormai sporco alle sue spalle e centrando in pieno il cesto pieno di altri fazzoletti usati che il cameriere dritto in piedi dietro di lui regge fra le braccia, per poi prenderne un altro dal dispensatore che un altro cameriere, fermo al suo fianco, gli porge con sussiego.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, fissandolo con sconcerto.
- No, dico, - sbotto, - è questo il problema? Cioè, tutta questa tragedia greca, - dico, indicando in un gesto omnicomprensivo i pianti, i fazzoletti, tutta la corte depressa forzata a scendere per la colazione ad orari indecenti eccetera eccetera, - non è perché quei due si sono sposati ma perché la principessa non è stata avvertita in tempo per organizzare le nozze?
Mentre Bill scoppia in lacrime un’altra volta, perché evidentemente le mie parole hanno fatto centro nel cuore del problema, Bushido sospira e sorseggia il proprio caffè con l’aria compunta di uno che soffre molto ma non vuole darlo a vedere per orgoglio personale; una faccia che per la verità ha spesso, perché voi dovete sapere che il nostro signore e padrone, qui, è convinto che tutto il mondo ce l’abbia con lui. C’è la vita vera, e poi c’è la vita che Bushido è convinto di vivere nella propria testa, e in questa deviazione della realtà il cosmo intero complotta contro la sua felicità, ma lui, con la sua forza, il suo eroismo e la sua caparbietà è sempre in grado di ribaltare situazioni senza speranza e risolvere ogni problema, mentre cavalca in sella al proprio stallone bianco panna verso il suo per sempre felici e contenti.
Naturalmente non c’è bisogno che io stia qui a dirvi che è tutta una montatura, che in realtà quest’uomo oltre al fatto che gli va sempre bene in generale ha anche una fortuna sfacciata che, tipo, gli permette di non morire mai, una roba che le persone normali purtroppo non possono neanche sognare, ma lui ci crede molto, e questo gli permette di andare in giro a fare quella faccia lì, la faccia dell’eroe tormentato, e crederci pure tantissimo, e risultare per questo molto convincente mentre beve il suo caffè e si pinza la radice del naso come non riuscisse a capacitarsi di avere tutte queste sfighe, poverino.
- Io, per la verità, di problemi con quello che è successo ne avrei parecchi. – dice, lanciando a Fler un’occhiata tale che mi viene voglia di agitargli una mano davanti alla faccia e dirgli “whoa, ehi, adesso, calmiamoci prima di scatenare un conflitto atomico solo perché il nostro ex amante si è sposato con l’usciere”, - Ma sì, sostanzialmente il problema che ha scatenato la tragedia sotto i tuoi occhi al momento è questo.
- Ci tenevo così tanto, Eko! – squittisce disperata la principessa, riemergendo dal fazzolettino usato e soffiandosi il naso con veemenza.
- Ma se neanche sapevi che avevano intenzione di farlo? – obietto io, inarcando un sopracciglio.
Bill si interrompe e per un paio di secondi cala il silenzio. E poi riprende a piangere con più convinzione.
- Sì, appunto! – dice, come se quello che ho appena detto fosse in qualche modo stato di aiuto alla sua causa, - Non ci tenevo solo perché non sapevo che sarebbe accaduto, ma una volta che è accaduto ho scoperto che ci tenevo tantissimo! Non capisci? Se me l’avessero detto, ci avrei tenuto un sacco!
- Bill, solo tu nel mondo puoi considerare l’interesse per un avvenimento retroattivo. – sospira Tom, facendo le bollicine nel caffellatte.
Nel mentre, però, io sono costretto ad ammettere che, in fondo, il ragionamento ha senso. Intendo, non è che Bill andasse in giro strillando di voler essere il wedding planner di Fler e Chakuza, ma non lo faceva solo perché non aveva idea del fatto che questi due volessero sposarsi. Probabilmente, se l’avesse saputo allora sì, sarebbe andato in giro strillando di voler essere il loro wedding planner e tutto. Ora da un lato sono grato a Chakuza e Fler per averci risparmiato l’imbarazzo, ma dall’altro mi dispiace per la povera principessa, che tiene a poche cose nel mondo – in genere tutte quelle sbagliate – e per giunta nessuno gliele dà mai.
- Okay. – annuisco quindi, e tutti si voltano a guardarmi con una preoccupazione decisamente fuori luogo, - C’è una sola soluzione, per questo.
- Eko, non credo che tu sia nella posizione di proporre soluzioni a problemi inesistenti. – borbotta Chakuza, guardandomi in cagnesco. Ma io vedo che la principessa ha sollevato gli occhi su di me e mi sta fissando speranzosa, e io non posso deluderla proprio adesso.
- Tu e Fler dovreste sposarvi di nuovo. – proseguo quindi, ignorandolo, - Qui, nella sala ricevimenti dell’albergo. Bill potrebbe avere il resto della giornata per organizzare l’evento, stasera potreste dire sì in una cornice meno squallida di una stupida cappella a Las Vegas con qualche finto prete ubriaco che vi benedice, e tutti sarebbero contenti.
- Eko! – si agita tutto Bill, lanciando via il fazzoletto e giungendo le mani sotto il mento, - Ma così, all’improvviso? Organizzare un matrimonio in sole dodici ore? È impossibile!
- Be’, - scrollo le spalle, guardando altrove, - se non pensi di potercela fare, meglio così, passeremo la serata fuori e ci divertiremo lo stesso.
- Stai scherzando?! – strilla a quel punto lui, saltando in piedi ed asciugandosi sommariamente gli occhi, - Mi metto subito al lavoro.
Abbandona la sala subito dopo, riapparendo dopo qualche secondo per afferrare suo fratello e Bushido e trascinarli via con sé, mentre loro gli sbraitano dietro di lasciarli andare immediatamente e lui, naturalmente, non sta affatto a sentirli.
A fare colazione restiamo solo io, Kay, i novelli sposi e i due amici dei gemelli, i quali spariscono a loro volta quando Bill si riaffaccia ed inarca un sopracciglio, segnale apparentemente sufficiente a convincerli a seguirlo con un sospiro.
- Nessuno ha chiesto il nostro parere. – nota a quel punto Chakuza, sconvolto.
Fler emette un lamento disperato, si toglie la pezza umida dalla faccia e si alza in piedi.
- Ho bisogno di dormire. – conclude, abbandonando il tavolo a propria volta.
Restando compostamente seduto, io mi godo il mio caffè ed il mio croissant, consapevole di aver compiuto anche oggi la mia buona azione quotidiana.
*
Con i preparativi, comunque, io non voglio avere niente a che fare. C’è solo un numero limitato di gaiezza che un uomo eterosessuale può sopportare prima di cominciare a dubitare delle proprie posizioni aperte e liberali, e Bill che si improvvisa wedding planner e si mette ad addobbare la sala conferenze dell’albergo riempiendola di nastri di seta, palle traslucide di vetro di boemia, rose rosa, giacinti e gelsomini supera abbondantemente quel numero già di per sé superato dal fatto che il matrimonio è quello di Chakuza e Fler, per cui io decido di lasciare ognuno alla propria occupazione – anche perché Bill il mio aiuto non lo ha chiesto – ed esco felice per le strade di Las Vegas.
Una cosa bella di Las Vegas è che fra il giorno e la notte non esiste la minima distinzione. Cioè, tu ti svegli tranquillo di buon mattino, bevi il tuo caffè, mangi il tuo biscotto, trangugi la tua fetta di pane tostato con burro e marmellata, poi prendi, esci e per strada sono le undici di sera. Cioè, non nel vero senso dell’espressione, intendo, non è che c’è una calotta di vetro sopra Las Vegas che simula il buio e il sorgere della luna eccetera eccetera, no; tu esci per strada a mezzogiorno e non è che è notte, c’è il sole e tutto, però ecco, locali che in qualsiasi altro posto nel mondo a quest’orario qui sarebbero chiusi a doppia mandata, a Las Vegas sono aperti.
Per cui io passeggio allegramente per strada mentre gente già ubriaca corre, urla e si bacia pubblicamente senza il minimo pudore, e poi trovo un localino simpatico che mi ispira, e decido di passare lì il resto della mia giornata.
Poi niente, entro, mi siedo, ordino una birra, guardo il palco e vedo che c’è sopra Valezka che canta, e decido che voglio passarci anche il resto della mia vita.
*
La cosa con Valezka è stata molto complicata. Lo è stata fin da subito, ma non sia mai detto di me che sono un uomo che non gli piacciono le cose complicate, perché io per le cose complicate impazzisco, cioè, mi piacciono proprio un botto, tant’è che vivo con Bushido. Cioè, non assieme, ma quasi, specie considerato il fatto che quando sei nel giro del Bu non c’è scampo, che tu viva a venti o a duecento metri da lui sarà sempre e comunque come se gli vivessi in casa. Bushido è il tipo che si presenta sulla porta di casa tua e ti dice “che stai facendo?”, e se tu tipo gli rispondi “guardavo porno in tv col dolby surround a volume massimo” ti strilla “non finché vivi sotto il mio tetto!”, e tu ti terrorizzi e gli rispondi di sì e spegni subito la televisione anche se dentro di te sei consapevole di non vivere sotto il suo tetto. È tutta una questione di modo di porsi, sapete, Bushido c’ha un po’ quell’atteggiamento che potrebbe vendere ventilatori in Lapponia.
Comunque, il punto non sono le enormi potenzialità di venditore di ventilatori porta a porta di Bushido, il punto è che Bushido è una cosa complessa, e il fatto che io sia un suo sottoposto dimostra che a me le cose complesse piacciono molto.
E infatti Valezka è tipo la cosa che mi è piaciuta di più in tutta la vita.
L’ho conosciuta che aveva ventun anni, ed io ne avevo diciannove. Eravamo due pischelli che non sapevano niente del mondo e volevano soltanto divertirsi, ma il punto non è tanto che fossimo giovani e avessimo voglia di divertirci, ma che non fossimo solo in due. Era infatti il duemiladue, e sapete cosa succedeva nel mondo fra il duemilauno e il duemiladue? Pacey e Joey si mettevano insieme, rovinando la vita di Dawson, e poi rovinandosi la vita a vicenda già che c’erano.
In sostanza, più o meno, è la stessa cosa che è successa a noi. Nel duemiladue, infatti, io lavoravo in un negozio di scarpe – no, lo so che sembra che quello che sto dicendo non abbia nemmeno una minuscola parvenza di logica, ma non è così, seguitemi e giuro che, alla fine, tutto avrà senso – da qualche anno, dopo aver lasciato la scuola, anche se in realtà sarebbe più corretto dire che è stata la scuola a lasciare me, nel senso che alla terza espulsione abbiamo entrambi capito che le nostre differenze erano inconciliabili, ed abbiamo pertanto deciso di prendere strade differenti, per la soddisfazione di entrambi.
Insomma, io lavoravo in questo negozio di scarpe che si chiamava Il Piede del Fauno, che voglio dire, è un nome ridicolo e anche fuorviante, perché i fauni hanno piedi caprini ma noi non vendevamo scarpe caprine, vendevamo scarpe normali. Era un lavoro part-time, stavo lì solo qualche ora ogni mattina, anche perché il proprietario, il vecchio signor Wagner, aveva qualcosa come otto miliardi di anni e riusciva a restare sveglio e presente a se stesso solo nella fascia oraria fra le dieci del mattino e mezzogiorno, però ecco, io mi divertivo abbastanza, la paga non era male, tutto considerato, e di lì passavano un sacco di ragazzi perché principalmente vendevamo scarpe da tennis e in quegli anni la scarpa da tennis era un must per tutti gli adolescenti in tutto il mondo.
Insomma, è stato lì che un giorno ho conosciuto Kool Savas. Ovviamente, ai tempi non era Kool, era solo Savas, però aveva un progetto. È importante avere un progetto, nella vita. Pensate a Bushido, lui un progetto ce l’aveva, ed era diventare il più grande rapper tedesco mai esistito. Oh, è dovuto passare per l’inferno, per riuscirci, ma c’è riuscito, eh. E tutto perché aveva un progetto.
Anche Savas ne aveva uno. Un pelo più modesto – aprire un’etichetta e diventare famoso – ma ce l’aveva. E un giorno entra al Piede, che gli servivano un paio di scarpe nuove, e mi trova lì che sistemo scarpe sugli scaffali cantando Ready to Die, e mi fa “Tu!”. Al che io mi volto e lo guardo, e tenete presente che io appunto ai tempi ero poco più di un pischello, mentre lui praticamente era già un uomo adulto. Per cui mi fa “canti bene”, e io ovviamente reagisco come reagiscono tutti i pischelli quando un uomo adulto fa loro un complimento, cioè da un lato mi sento fighissimo e dall’altro mi pongo due o tre dubbi su cosa il tipo voglia da me.
Lui mi fa “guarda, sto aprendo un’etichetta. Se ti va, vieni in studio e ti facciamo un provino”, e poi mi passa questo bigliettino da visita col suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono.
Sul subito ero un po’ incerto, cioè, ero consapevole che non è che potessi rimanere impiegato al Piede del vecchio signor Wagner per sempre, anche perché lui aveva già passato l’ottantina e mi aveva già detto che, alla sua morte, il Piede sarebbe morto con lui. Per inciso, in questo momento il vecchio signor Wagner ha superato abbondantemente i novanta ma è ancora perfettamente vivo e vegeto, e il Piede assieme a lui. Comunque, niente, non è che io sognassi di diventare un cantante o chissà che, però mi sembrava che la prospettiva di mettermi a lavorare per un ventisettenne mi sorridesse un pelo di più che quella di lavorare per un ottantaduenne, per cui dico arrivederci al vecchio signor Wagner e, il giorno dopo, mi presento agli studi della Optik Records, faccio il mio provino e, fra poderose pacche sulle spalle e poderose dosi di birra alla spina, entro a far parte della grande famiglia di Savas.
Voi dovete capire, Savas, da quel momento in poi, per me è diventato una specie di punto di riferimento. Per dire, i miei erano divorziati, io sostanzialmente ero cresciuto senza un padre perché a quei tempi, capite, non era mica come adesso, quando un uomo se ne andava di casa non è che si prendeva bene coi diritti del padre, i finesettimana insieme, le visite giornaliere e tutto il resto. A quei tempi te ne andavi di casa e basta, e mio padre questo aveva fatto. Quindi niente, quest’uomo che non era assolutamente vecchio al punto da farmi da padre ma che in parte si comportava da tale, quest’uomo che mangiava solo lattuga e beveva solo latte di soia, quest’uomo che suo padre era stato prigioniero di guerra e che aveva vissuto l’infanzia fra la Germania e la Turchia, quest’uomo che a meno di trent’anni era già indipendente e sapeva esattamente cosa voleva dalla vita, per me era una specie di faro nell’oscurità, uno che io lo guardavo e pensavo ecco!, alla sua età io voglio avere le stesse cose che avrà lui, voglio fare le stesse cose che fa lui. Magari mangiando bistecche, anche, ma insomma.
In ogni caso, succede che Savas mi accoglie nella sua vita come una specie di orfano adottato, anche se non sono orfano e lui non mi adotta. Un pomeriggio restiamo alla Optik a lavorare a qualche beat fino a tardi e, ad un certo punto, il mio stomaco esplode in gorgoglii sinistri, e lui si mette a ridere e mi fa “vieni a cena da me, ti faccio conoscere la mia ragazza”.
E qui entra in gioco Dawson’s Creek, appunto. Insomma, Savas mi porta a casa da lui, entriamo e io sento questa voce dolce che viene da una stanza che, dall’ingresso, non riesco a vedere. E Savas fa “Vale? Ho portato ospiti”, e lei si affaccia.
Vedo prima i capelli. I ricci! Questo casco enorme di ricciolini bellissimi che sembra di trovarsi davanti all’improvviso Diana Ross al suo meglio solo un pelo più bionda! Io non so bene come funzionino i colpi di fulmine, non è che mi sia capitato molte volte di prendermi così bene all’improvviso con una ragazza, ma sono abbastanza sicuro che quello per Valezka sia stato un colpo di fulmine. Ma non uno di quelli scemi, che ti prendi una cotta e dopo due mesi, importante per quanto la relazione possa essere stata, è già tutto finito. No, io guardo Valezka, la sua pelle color caramello, quei ricciolini, il sorriso enorme e quegli occhi scintillanti da cerbiatta, e penso “è lei!”, con entusiasmo, proprio, con convinzione, perché era lei davvero.
Unico problema: è la ragazza di Savas, ovviamente. Cazzo!, penso, dico, ma si può essere più sfigati? Vi pare che la donna di cui devo andarmi a innamorare perdutamente può essere una ragazza normale, libera, disponibile? No! Dev’essere la cazzo di tipa del mio datore di lavoro nonché pilastro e faro luminoso attorno al quale la mia nuova vita ruota. Dico.
Insomma, da questa cena io esco completamente traumatizzato, perché da un lato ho incontrato la donna della mia vita e dall’altro è la donna del mio migliore amico. Tragedia. Novello Pacey del rap tedesco, mi aggiro depresso per la città per giorni sapendo di voler baciare questa donna senza poterlo fare. E mi prendo pure male con me stesso perché a me Pacey stava sul culo. Cioè, ti affido la mia donna e ti dico “prenditene cura finché io metto a posto la mia merda” e tu te la limoni alle mie spalle, restauri una barca in suo nome, diventi il beniamino della sua famiglia eccetera eccetera? Ma sei proprio stronzo.
E quindi sono lì che mi sento uno stronzo e non voglio e prego intensamente che qualche altra donna che non sia la fidanzata di Kool Savas mi appaia davanti rubandomi il cuore, quando un giorno che sono solo agli studi ovviamente si presenta Valezka, e io perdo completamente il senno.
Siccome Savas è fuori ma dovrebbe tornare fra poco, mentre lo aspettiamo ci sediamo e parliamo un po’, e viene fuori che abbiamo un sacco di cose in comune, tipo che a nessuno dei due piace la maionese, che entrambi pensiamo che la gente abbia un’opinione esageratamente negativa nonché discriminante sui piccioni e che sia io che lei proviamo sentimenti contrastanti nei confronti del crème caramel. Cioè, più che altro lei ride e mi dice che non aveva mai pensato a nessuna di queste cose nei termini in cui io gliele ho presentate, ma che ora che le ha sentite è perfettamente d’accordo con me e le piace il mio modo di pensare. Una roba in seguito alla quale io sento di avere ogni diritto possibile di immaginare una lunga vita priva di maionese, piena di piccioni e moderatamente dotata di crème caramel al suo fianco, se non che mentre io sono perso in queste mie legittime fantasie noto che lei è nervosa e un po’ triste e continua a guardare l’orologio come una che ha una cosa tremenda da fare e allo stesso tempo vuole farla il prima possibile e non vuole farla mai.
Al che le chiedo se c’è qualche problema, ed è lì che lei mi fa questo sorriso minuscolo e triste così bello che io ovviamente mi innamoro di lei il triplo, e mi spiega che è da qualche settimana che cerca di trovare il coraggio per lasciare Savas. “Oddio,” le faccio io, “Lo sapevo che sarebbe successo. È colpa mia!”, e lei scoppia a ridere e mi fa “Eko, sei un cretino”, e poi mi spiega che no, non è colpa mia. Mi spiega che lei e Savas si sono messi insieme tre anni prima, che lei era solo una ragazzina, quando l’ha conosciuto, e che lui era fighissimo e faceva un sacco di cose appropriatamente fighissime tipo nutrirsi per settimane intere solo di bieta e ravanelli e via così, e che lei s’è innamorata di lui anche perché lui che era così adulto non la trattava come una ragazzina e tutto il resto, una roba che io potevo capire perfettamente perché, insomma, per me era stato uguale. Per cui le dico che la capisco e lei mi fa “ah, ti sei innamorato di lui anche tu?”, e io lancio uno strillo e sollevo entrambe le braccia e dico “no!”, e lei ride e mi dice “ti stavo prendendo in giro”, e io mi innamoro di nuovo e capisco che la mia vita da quel momento in poi sarà un continuo innamorarmi di lei di nuovo e di nuovo, così, senza soluzione di continuità.
Mentre io realizzo questa cosa che un po’ mi spaventa ma che in generale mi piace e basta, lei continua e mi dice che sì, insomma, è rimasta innamorata di lui per un sacco di tempo, ma che ha l’impressione di essere cresciuta, adesso, e non si sente più così attaccata a lui. Gli vuole bene, gli è affezionata, l’idea di spezzargli il cuore la devasta, però insomma, lui sta cominciando a parlare di convivenza e lei ha bisogno di chiudere questa storia prima che diventi troppo grande e ingestibile.
E io la bacio.
Tipo che non me ne frega niente! Okay! Che ancora non l’abbia lasciato, che magari possa cambiare idea e decidere di restare con lui, trasferirsi in casa sua, sposarlo e fare con lui un milione di bambini! Che mi abbia detto che comunque non è certo a causa mia che vuole lasciarlo! Non me ne frega niente. La bacio e basta. E mi batte il cuore tantissimo perché lei mi piace così tanto che il terrore di venire respinto è quasi paralizzante. Ma non a sufficienza, evidentemente, perché alla fine la bacio comunque.
E ovviamente è quello il momento in cui Kool Savas rientra, e ci trova in quel modo lì che ci baciamo impunemente all’interno di un locale per il quale lui e lui solo paga l’affitto.
Insomma, non proprio la cosa migliore che poteva accadere, specie perché Valezka voleva lasciarlo per tutta una serie di motivi validissimi e onesti, e lui invece ci ha beccati a fare l’unica cosa che quei motivi li invalida tutti. A quel punto non conta più che lei volesse lasciarlo già da prima che ci conoscessimo, che sia semplicemente cresciuta e le sia passata la cotta adolescenziale e non si senta pronta a vivere tutto il resto della propria vita al fianco di un uomo di cui non è sicura di essere innamorata, no; l’unico motivo per cui lei vuole lasciarlo, dal punto di vista di Savas, è che io l’ho limonata in casa sua. Una roba falsa e pure un po’ triste, in definitiva, ecco, specie perché invalida tutta la questione del volergli ancora bene ed essere triste all’idea di spezzargli il cuore, una cosa che puoi dire quando lasci il tuo uomo perché ti è passata la cotta, ma che non puoi assolutamente dire quando lo lasci dopo che lui ti ha beccato a limonarti un suo sottoposto sul luogo di lavoro.
Insomma, Savas non la prende bene, ovviamente. Sfido io. Si lancia in tutta questa filippica un po’ imbarazzante, e come avete potuto, e in casa mia, e la mia donna, e io ti ho accolto come un fratello, e io ti ho dato l’opportunità della vita, e come ho potuto essere così cieco, e certo Eko che sei proprio uno stronzo e via così. Ci butta fuori entrambi, intimandoci di non farci più vedere o ci sguinzaglia contro i cani. E, dice, non in senso figurato. Al che io lo prendo in parola, perché non c’ho mezza voglia, proprio, di finire sbranato dai dobermann. Proprio ora, poi, che ho Valezka.
Lei è fantastica, ovviamente. Io mi scuso e lei mi sorride e mi abbraccia. “Non è colpa tua,” mi fa, e io sono già lì che penso che ora mi dirà addio e non vorrà più vedermi, e invece lei resta. Tipo che io mi ero trasferito in un appartamento che Savas mi aveva fatto affittare, si era anche preso cura lui della caparra e tutto il resto, e ovviamente non posso più restare lì, e lei mi fa “vieni a stare da me”. Che lei non è che stia in una reggia, poi, ma a me sembra che lo sia perché è un appartamento così carino e così pulito e così profumato, e tutte le stanze hanno una parete dipinta, ogni stanza di un colore diverso, e i mobili sono in tinta. Che poi sono i mobili dell’IKEA, ma non si nota perché sono così carini e il tutto è assemblato con tanto gusto che io boh.
E quindi niente, io per un po’ cerco qualche altro lavoro, non funziona niente, provo a chiedere al vecchio signor Wagner di riprendermi con sé che così almeno cerco di provvedere per la spesa come un brav’uomo dovrebbe fare per la sua donna, ma lui con quel suo unico dente residuo in bocca mi dice “aria, ragazzo!”, che ha già preso un altro tipo più giovane e scemo di me e può pagarlo la metà per fare il doppio delle cose.
Nel mentre, Savas non può sguinzagliarci contro i cani perché io e Valezka ci teniamo ben lontani dalla sua proprietà, ma nel mentre, per pura soddisfazione, mette in moto la macchina delle diss, e in un paio di settimane tutte le radio underground che passano rap locale risuonano del nome mio e di quello della mia ragazza affiancati ad epiteti non proprio piacevoli tipo troia, vacca, stronzo e derivati. Una roba di una tristezza immensa che va avanti per settimane, ma che dico settimane, mesi!, ma che dico mesi, no, mesi, giusto, non va avanti per più di qualche mese.
Perché? Perché a un certo punto arriva Bushido.
Bushido arriva che io ho da poco trovato lavoro in un bar e preparo caffè per gente triste con lavori seri dalle sei del mattino alle sei di sera. È un lavoro abbastanza schifoso che mi costringe a stare in piedi a fare sempre le stesse cose per dodici ore filate, che dopo mesi che tu sei stato un cantante è una roba un po’ schifa, ma anche che dopo anni passati a vendere scarpe da tennis per un matusalemme con un solo dente e la gengiva più bavosa del west è una cosa un po’ schifa, il che dovrebbe funzionare bene come termine di paragone, perché quanto credete che potesse essere bello lavorare per il vecchio Wagner? Ecco, lavorare al Falce di Luna era pure peggio. Volete sapere perché si chiamava così? Ecco, perché Youssuf, il proprietario, si vantava che il bar apriva quando ancora la luna non era tramontata, e chiudeva che già era sorta di nuovo da un pezzo. No, dico, vi pare un buon motivo per vantarsi? Io dico che se vi vantate per una roba simile siete degli schiavisti impenitenti che sfruttano i lavoratori bisognosi pagandoli dieci centesimi all’ora senza neanche permettere loro di portarsi a casa le mance, ecco.
Comunque, la cosa principale del Falce di Luna, oltra al fatto che è il posto peggio del mondo in cui lavorare, è che è un bar di Tempelhof. E voi a chi pensate se io dico Tempelhof? Eh, infatti.
Bushido mi si para davanti un giorno che sono le sette del mattino e io ho sonno. La cosa che ci accomuna, quella sulla quale troviamo subito terreno di comunicazione, è che ha sonno anche lui. Entra, mi fa “non ho dormito tutta la notte”, e io, che sono una persona sincera, dico “io sì, ma ho sonno uguale”. Al che lui mi guarda, si abbassa gli occhiali da sole palesemente troppo costosi sul naso e sorride divertito. Mi fa “e tu chi sei?”, e io potrei anche rispondergli dandogli tutti i miei dati anagrafici e una breve cronistoria della mia esistenza, ma mi dico, a che pro? E gli dico “sono Eko, il barista. Caffè?”, e lui fa “certo, Eko il Barista, caffè”.
Poco dopo entra Youssuf, che nel mentre era impegnato a scaricare il camioncino con le ciambelle. Entra con la sua bella confezione di ciambelle e vede che io ne voglio palesemente una, ma mica me la dà, lo stronzo. No! Si mette lì a sistemarle nella vetrinetta accanto al bancone, con compiacimento, proprio, che, se potesse, si metterebbe a cantare “ed Eko niente ciambelle, ed Eko niente ciambelle!”.
Ovviamente, Bushido e i suoi occhiali da sole palesemente troppo costosi se ne accorgono. E fanno, “Youssuf, Atze, fammi un favore, allungami una di quelle ciambelle, una di quelle con la crema, grazie”, che io non so neanche come facesse a sapere che volevo proprio quella lì, ma lo sapeva. Io non lo sapevo ancora, cazzo, ma lui sì.
E Youssuf, uno stronzo che io non gli ho mai visto neanche offrire una caramella a un moccioso, prende e gli dà la ciambella. “Certo, Atze,” gli fa. E io lì capisco che ho davanti un tipo importante. O pericoloso. O anche entrambi, perché porre limiti alla Provvidenza?
Comunque, lui aspetta che Youssuf sia sparito di nuovo, e poi, tranquillo come se non stesse succedendo niente, come se non stesse violando delle leggi, tipo, nel farlo, mi offre la ciambella. Lui la ciambella non l’ha nemmeno pagata, eh, gli è stata offerta a sua volta. E lui la offre a me. “Tieni,” mi fa, “Sembri avere fame.”
Dico, c’ho la faccia del bambino africano con la pancia rotonda e la mosca sull’angolo dell’occhio? Ce l’ho? Non mi pare. Ma la ciambella ha un aspetto appetitoso e io ho effettivamente fame, quindi mi faccio passare il rigurgito di orgoglio e la mangio, non prima però di aver fatto all’uomo un cenno di ringraziamento, non si dica che mia madre mi ha cresciuto ineducato.
Poi, mentre sorseggia il suo caffè, mi fa “io comunque ti conosco”, e a quel punto, mentre pulisco il bancone e servo gli altri clienti che man mano entrano ed escono dal bar, ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno, chi sono, chi non sono, che ho fatto, che non ho fatto, dove mi ha già visto?, boh, forse da qualche parte mentre ero in concerto, o forse ha visto qualche video che hanno passato in televisione, e quando glielo dico lui s’illumina, spalanca l’occhione color cioccolato e mi indica. “Eko,” fa, “Eko Fresh!”, e io “presente!”, tristezza. Lui scoppia a ridere e mi fa “senti, sono curioso: cos’è successo davvero fra te e Kool Savas?”, e io, placido, “gli ho rubato la ragazza”. Pausa di silenzio. La pausa si prolunga. Io nel mentre gli ho preparato un altro caffè e lui, prima di parlare ancora, lo beve tutto. “Ma che, davvero?”, mi fa, e io annuisco. E mentre sono lì che penso con serietà alla mia vita, alle mie scelte e al fatto che servo caffè al banco di un bar nel quartiere peggiore di Berlino perché non sono stato in grado di tenere l’uccello nelle mutande, metaforicamente parlando, Bushido sorride. Sul momento è un sorriso che non riconosco, anche perché non lo conosco, come fai a riconoscere una cosa che non conosci? Passaggi logici che si perdono ovunque. Comunque, sul momento non lo riconosco, ma col passare degli anni imparerò a capire cosa vuol dire. Vuol dire soldi, e sembra che io sia appena diventato una gallina dalle uova d’oro.
“Eko il Barista,” mi fa lui, tirando fuori dal portafogli una banconota da cento euro e posandomela lì sul bancone, “Io ho un sogno.”
“Minchia,” penso io, occhieggiando la banconota, “Forse lo sto avendo pure io.”
Insomma, com’è, come non è, due giorni dopo torno a casa da Valezka con un contratto ed un sacco di soldi per produrre un album di coppia, io e lei insieme. È il periodo più bello della mia vita. Io e Valezka non facciamo altro che cantare insieme, limonare ovunque ed improvvisare pic nic sul tappeto peloso rosa del suo salotto. Nel mentre, io comincio a partecipare alle spese di gestione dell’appartamento, e quindi casa di Valezka piano piano diventa casa nostra, ed è una cosa bellissima. All’improvviso non importa più a nessuno dei due che fuori da quelle quattro stanze ci sia un mondo tremendo in cui sia io che lei abbiamo tradito la fiducia di un caro amico, ed ora che quel caro amico, ferito, ci odia, noi ci facciamo sovvenzionare da uno che sta facendo la propria fortuna sulle diss che riesce a produrre su qualsiasi altro rapper di una certa rilevanza della scena tedesca. A Bushido non importa che l’obbiettivo sia Sido, piuttosto che Fler, piuttosto che Kool Savas, gli interessa semplicemente averne uno, perché ogni volta che abbatte qualcuno sale di un gradino sul fianco della piramide sociale, e a lui interessa la cima. Poi, se glielo chiedi, lui ti dice che è un romantico, eh. Ti dice che lo sta facendo per proteggere il tuo amore e quello della tua donna, che la vostra storia l’ha commosso, che l’amore vince sempre e lui modestamente è il cavaliere dei puri di cuore e tutto il resto, ma la verità la sappiamo noi e la sa anche lui, quindi non importa.
Poi succede quello che succede sempre quando le cose vanno così bene che tu quasi non riesci a crederci: tutto finisce. E no, non succede d’improvviso. Non è che da un giorno all’altro cose che fino al giorno prima avevano sempre funzionato benissimo improvvisamente smettono di funzionare lasciandoti a piedi come l’auto nuova comprata due mesi fa e dalla quale non ti saresti mai aspettato un tradimento simile.
Le cose richiedono sempre una buona quantità di tempo prima di accadere. La cosa è che, mentre loro lavorano in background per rovinarsi come l’antivirus mentre navighi su YouPorn lavora in background per bloccare i peggio pop up e i peggio malware, tu non te ne accorgi. Non le noti nemmeno, le piccole cose che capitano. Loro capitano e tu niente, completamente ignaro. Chiaro che, quando poi ti esplodono in faccia come i palloncini quando li gonfi troppo, ti prendono di sorpresa. Ma non è che siano davvero sorprese, lo sono solo per te.
E infatti, quando Valezka dopo un paio d’anni di convivenza è venuta da me e mi ha detto “e allora?” è stata una sorpresa solo per me, che avevo vissuto quei due anni in uno stato di beatitudine perfetta inseguendo il sogno del cantante innamorato sotto protezione dell’eroe romantico del nuovo secolo; non è stato per niente sorprendente per lei, invece, che quei due anni li aveva vissuti aspettandosi qualcosa che non arrivava mai e che probabilmente avrebbe continuato a non arrivare mai se lei avesse continuato ad attenderla silenziosamente.
A quei tempi, tutta la questione mi sembrò surreale. Avevo ventidue anni, ma mi sentivo ancora un ragazzino, e sentirmi dire cose tipo “dobbiamo pensare al nostro futuro”, “ci servirà una casa più grande”, “mi piacerebbe avere un giardino” e “se fosse femmina potremmo chiamarla Cynthia” mi terrorizzò profondamente. Non ci avevo mai pensato, non avevo la minima intenzione di pensarci e mi sembrava assurdo che Valezka lo stesse facendo, per cui ogni volta che lei tirava fuori uno di questi argomenti con quella sua aria sognante e piena di speranza per il futuro la mia reazione era l’unica possibile: tacere.
E infatti sono stati i miei silenzi ad uccidere la nostra relazione. Un giorno lei è venuta da me – e posso solo immaginare quanto le sia costato raccogliere il coraggio e confrontarsi apertamente con me per una cosa che, avessi io avuto un cervello normale, non avrebbe avuto bisogno di nessun confronto – e mi ha chiesto “e allora?”, ed io non ho neanche potuto fare il finto tonto, perché sapevo esattamente a cosa si stava riferendo. E perciò le ho detto l’unica cosa che potevo dirle in una situazione come quella, che poi era la verità. “Non sono pronto, Vale,” le ho detto. E lei, donna con due palle così, che quando a me mi dicono che la donna era meglio nel Medioevo io m’incazzo perché come Valezka non ce n’erano mica, nel Medioevo, l’ha accettato. Non c’è stato odio o risentimento, nel nostro addio, niente stronzate del tipo “ho sprecato i migliori anni della mia vita per starti dietro”. Nessuno aveva sprecato niente, e lo sapevamo. Eravamo stati felici. Non c’era nessun motivo di rovinare il ricordo di ciò che era stato solo perché, da quel momento in poi, non poteva più esistere.
Quella sera, dopo aver preparato una borsa con un po’ di biancheria pulita e lo spazzolino da denti, sono uscito da casa di Valezka per non rimetterci più piede, e sono andato da Bushido. Lui mi ha accolto in casa sua, che ai tempi non era ancora la Villa Gialla, ma ci stavamo arrivando, e mi ha ascoltato pazientemente di fronte ad un’insalatiera piena fino all’orlo di kebab preso dal suo kebabbaro di fiducia. Dopodiché mi ha guardato con quegli occhi che fa sempre quando ti vuole bene ma pensa che tu sia stupido, e mi ha detto “Eko! Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per farvi diventare i nuovi Romeo e Giulietta del giovane rap tedesco,” e poi ci siamo messi a ridere. Al che mi ha chiesto come stavo, ed io ho risposto sinceramente che, tutto considerato, stavo piuttosto bene. Lui ha annuito, mi ha ospitato per la notte e il giorno dopo mi ha trovato un appartamento, che poi è quello in cui vivo ancora oggi, ed un contratto per entrare a far parte dell’Ersguterjunge.
Non è che io sia triste per come le cose sono andate, alla fine. Ho una visione della realtà semplicistica abbastanza da pensare che le cose vanno in un modo perché devono andare in quel modo lì, poi sta a te prenderne il meglio e non lasciarti sommergere dal peggio. Secondo me, se a fine giornata puoi andare a letto pensando “bene! Oggi non mi sono lasciato sommergere dal peggio”, hai già vinto. Ed io, modestamente, non mi sono lasciato sommergere mai. Anche perché sarebbe un problema, non so nuotare.
Ogni tanto, però, tipo adesso, o meglio adesso specialmente, visto che ce l’ho di fronte che canta l’ultimo successo di Alicia Keys, ripenso a Valezka e alla sua casa con le pareti colorate e al suo tappeto di pelo rosa sul quale facevamo lunghi pic nic indoor parlando della danza d’accoppiamento delle api o del ritrovamento di uno scheletro alieno in fondo all’Oceano Pacifico, e mi viene da pensa che sì, forse le cose sono andate esattamente come dovevano andare. Ma forse, se mi ci metto d’impegno, potrebbero tornare com’erano.
*
Mi si avvicina con quel sorriso che io non so come affrontare, seriamente. A parte che sono ridicolo perché la sto fissando come se fosse impossibile per lei trovarsi qui, mentre in realtà lo sapevo pure che s’era trasferita negli Stati Uniti un paio d’anni fa. È che mi fa un’impressione pazzesca trovarmela di fronte dopo tutto questo tempo.
Lei, ovviamente, è ancora bellissima, perché le persone che hai amato e che poi hai perso senza mai davvero smettere di amarle non diventano mai brutte. Anzi, semmai su di loro – ma solo su di loro – il tempo e la distanza hanno più effetto di una ricostruzione facciale completa, tipo, mentre tu hai sempre l’impressione che su di te il tempo sia passato senza pietà, rendendoti più vecchio e più brutto e con gli occhi un po’ più a palla e le guance un po’ più cascanti e la pancia un po’ più tonda e sporgente. E quindi io sono qui che la fisso chiedendomi se sia un fantasma o un’apparizione anche se so che non lo è, e tutto quello che riesco a pensare è “oddio, lei è bellissima e invece io sono diventato un roito!”, e mi prendo malissimo per questa cosa anche se coscientemente so che non è che posso essere diventato così tanto più brutto rispetto a quello che ero qualche anno fa, e poi lei finalmente arriva, si siede sulla poltroncina qui accanto a me, mi abbraccia stretto e mi chiama per nome. Così, con la voce della dolcezza. Ed io mi sciolgo perché questi anni che sono passati in mezzo a noi vengono spazzati via solo da quel nome, dal modo in cui lo pronuncia. Apro gli occhi e la guardo e siamo in quella casa, su quel tappeto peloso rosa. Anche se poi non è vero. Io mi sento come se fossi ancora lì.
E perciò potremmo parlare di un sacco di cose, tipo che lei potrebbe chiedermi come va, se sto con qualcuno, se ho in preparazione un nuovo album o anche qualche informazione sulle palesi pazzie che avvengono nella vita di noi tutti da quando Bushido è tornato dalla morte trasformandoci nell’avamposto tedesco dell’Arcigay, oppure io potrei chiederle cosa sta facendo per ora a parte le cover di Alicia Keys nei locali di Las Vegas, o potrei mettermi in ginocchio ed implorarla di uscire a cena con me anche se mi sa che a stento è mezzogiorno, ma niente di tutto questo accade. Io la guardo e le dico “sai cosa? Mi servirebbe qualcuno per cantare ad un matrimonio, stasera”. E lei mi fissa e la sua faccia dice tipo “cosa?”, e io annuisco. “Si sposano Chakuza e Fler,” dico, “Di nuovo. Ora, non sono sicuro che la principessa abbia previsto la presenza di una cantante, ma sono sicuro che le farà piacere. Vieni con me?”
E sono sicuro al cento percento che, di quello che dico, Valezka non capisca un accidente. Si starà chiedendo chi diamine sono Chakuza e Fler, perché sentano il bisogno di sposarsi un’altra volta, e soprattutto chi sia la principessa, ma non fa nessuna di queste domande, ed io non le do nessuna di queste risposte. Si mette a ridere, però, ed annuisce. Poi si alza e viene con me. È un buon inizio.
*
Quella sera, Valezka indossa un vestito pieno di volant e trine della stessa tonalità di fucsia degli orli e delle pochette che spuntano dai completi neri di Bill, di suo fratello e di Kay One, forzati a fare le damigelle d’onore in mancanza di donne più adatte allo scopo. Bushido, avvolto in un elegante completo grigio scuro, siede in prima fila, imbronciato come se gli fossero morti tutti i cani tutti insieme, una roba vergognosa. Io, infilato in un completo di lino beige, gli batto un paio di pacche sulla spalla.
- Coraggio, Atze, - gli dico, - È un po’ come dar via una figlia, no? – provo a consolarlo, mentre di fronte all’altare Fler e Chakuza si scambiano pigramente i loro anelli dalle forme improponibili per una seconda volta che non dev’essere per niente meno surreale della prima, sul sottofondo musicale di Bill che si perde in singhiozzi e di Valezka che canta No One.
- Ecco, appunto, Eko. – dice lui, ringhiando, - Ti pare che, se avessi una figlia, la darei in sposa ad uno come Chakuza?
E qui non aggiungo niente perché in effetti mi rendo conto che sarebbe crudele. Povero Bushido. Praticamente, se aveva un erede, nel mondo, quell’erede era Fler. Ora è come avere indirettamente regalato tutto il proprio impero a Chakuza. Il nano austriaco. Due volte! Avremo bisogno di molto champagne, più tardi.
La cerimonia finisce che il mal di testa di Fler è, se possibile, ancora peggiorato. Bill chiede a Chakuza di restare per un brindisi, ed è evidente che Chakuza vorrebbe dire sì perché è l’unica reazione che il suo corpo concepisce di fronte a Bill, un sì proprio generalizzato che si espande in tutte le direzioni e su tutti i piani di accettazione dell’uomo, ma prima di dare aria alla bocca si volta a guardare Fler, vede in che condizioni è e, miracolosamente, risponde di no.
- Devo riportarlo in camera o sviene. – aggiunge con una mezza risata. Fler gli tira un cazzotto contro una spalla che non dev’essere stato nemmeno tanto tenero, e lui non si lamenta neanche. Mi volto verso Bushido con l’intenzione di dirgli “guarda! Almeno lo tratta bene, con rispetto”, ma lui mi zittisce prima ancora che io possa provarci. Eh, se vuoi essere geloso della tua progenie, allora. Siilo. Cosa vuoi da me.
Lo lascio andare, che tanto prima di poter pensare razionalmente a questa cosa che Fler s’è sposato con l’uomo che gli ha rubato Bill gli serviranno degli anni, e mi volto verso Valezka.
- È sempre così, da voi? – mi domanda ridendo mentre si sfila dai capelli i fermagli fucsia intonati col vestito.
- In realtà ci hai preso in una giornata quasi normale. – rispondo io. La cosa divertente è che non è nemmeno una battuta, sono serissimo.
È ancora più divertente, però, quando lei mi chiede se ho qualcosa da fare e se non mi piacerebbe andare a cena insieme da qualche parte. Sul momento vado nel panico perché, oddio, cosa le rispondo? Cosa sta succedendo? Farò bene ad accettare? Dovrei ritrasformarmi in Tarzan e colpirla sulla nuca con una mazza per poi trascinarla in camera mia fra le mie liane e le mie pozze acquitrinose?, però alla fine mi calmo, le sorrido, annuisco, la prendo per mano e camminiamo tranquilli verso l’uscita.
Quando domani partiremo per abbandonare il Nuovo Mondo e tornare nel Vecchio, lei sarà seduta al mio fianco, sull’aereo. Ma in quel momento lì io ancora non lo so. Mi godo la serata, il casino per le strade, la voce dolce e melodiosa di Valezka mentre chiacchieriamo del più e del meno di fronte a una buona bistecca ed abbondanti dosi di vino rosso, e penso che l’inizio non è buono, è proprio ottimo. E dalle premesse sembra che possa solo migliorare.
Scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza (accennato).
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: AU, Angst, Violence, Lemon, Slash.
- Bill ha da poco compiuto diciott'anni, e batte le strade da quando ne aveva sedici. Ormai è abituato alla sua routine, e la notte e le strade fredde di Berlino sono il suo regno, ma quando prova ad adescare un agente in borghese tutto cambia: il ragazzo viene portato in prigione, dove subisce subito un tentativo di violenza al quale risponde altrettanto violentemente, riducendo il suo assalitore in fin di vita. Per questo motivo, viene condannato a scontare una pena di dodici anni nel carcere in cui è già recluso, ma fin dall'inizio è chiaro che la sua permanenza all'interno della struttura non sarà semplice e priva di pericoli: gli agenti di custodia lo odiano per quello che ha fatto al loro collega, gli altri detenuti lo vedono solo come un oggetto sul quale scaricare la frustrazione sessuale e non esitano a riempirlo di botte quando lui si nega, e in tutto questo ci si mette a rendere il tutto più difficoltoso anche Bushido, indiscusso boss del braccio in cui Bill è rinchiuso, che ha ricevuto ordine di proteggerlo direttamente dal direttore della prigione. Ma Bill è in grado di difendersi da solo, o almeno così crede, ed è bene intenzionato a dimostrarlo all'uomo e anche a chiunque altro voglia provare a mettersi sulla sua strada. Il problema è che, forse, non è così in grado di difendersi come crede.
Note: Il plot di questa storia risale ad anni fa - no, seriamente, non è che buttiamo lì le parole a caso, se diciamo anni state pur certi che intendiamo davvero anni - e riesce a vedere la luce solo adesso solo perché noi siamo estremamente culopese. E perché quando l'abbiamo plottato la Tab non aveva ancora visto Oz (dal quale questa storia attinge a piene mani in quanto ad ambientazione ed ispirazione generale), e non era pensabile scrivere una cosa simile senza aver prima visto almeno qualche episodio di quella serie.
Nel caso ve lo steste chiedendo, sappiamo perfettamente che ci sono delle incongruenze fra la realtà reale delle cose vere e il modo in cui certe cose accadono in questa storia (tipo che tutta la parte ambientata in prigione - quindi, uh, il 90%? *ride* - l'abbiamo scritta senza prima leggere trattati di 100 pagine sul sistema carcerario tedesco), e la cosa ci tocca molto limitatamente. Ma molto, credeteci. *rotolano felici per campi di tulipani alti venti metri* Buona lettura, se vorrete!
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ALLES GUTE KOMMT VON UNTEN

Come ogni mattina, quando si accendono le luci e le serrature automatiche che tengono chiuse le porte delle celle si aprono, Bushido si alza dal letto – che occupa da solo, forte del potere che esercita su tutto il braccio nonostante la propria condizione di detenuto – e si dirige verso il piccolo lavandino sormontato dallo specchio che occupa non più di una ventina di centimetri in un angolino della cella. Lancia un’occhiata annoiata al proprio riflesso e poi tira giù i boxer, concedendosi un po’ di sollievo davanti alla tazza del cesso, stando bene attento a non sporcare, perché alle pulizie in cella devono provvedere da soli, e lui ha preferito darsi alla criminalità organizzata piuttosto che pulire i cessi per guadagnare qualche spicciolo da ragazzino, figurarsi se si piega a farlo adesso che, facendolo, non vedrebbe neanche il becco di un quattrino.
Sbadiglia lavandosi attentamente le mani, e nel frattempo sbircia oltre le sbarre, nel corridoio. Qualche detenuto più mattiniero di lui è già uscito dalla propria cella ed ora si aggira per l’area comune come uno zombie, guardandosi intorno e studiando ogni particolare di quel luogo come se già non lo conoscesse a memoria. Le televisioni in fondo alla sala sono ancora spente, la sala computer, la biblioteca e la palestra sono ancora chiuse e gli unici suoni che si possono sentire sono quelli che producono le scarpe degli agenti di custodia che abbandonano le loro postazioni per farsi dare il cambio da quelli del turno di giorno, dopo le fatiche della notte passata in piedi a rigirarsi i pollici.
Pian piano, tutti i detenuti cominciano a venire fuori dalle coperte. Gli agenti di custodia prendono i loro posti e cominciano gli usuali giri. Presto, le varie sale ricreative saranno aperte, il biliardo posizionato lontano dai tavolini in un punto non troppo dislocato ma neanche troppo centrale dell’area comune sarà circondato di galeotti in cerca di un po’ di divertimento, e l’usuale vita del braccio A riprenderà a scorrere, pacifica, e niente turberà la sua quiete.
Niente succede mai, nel braccio A. Bushido tiene tutto sotto controllo.
Bushido è dentro da sei anni. Ne ha beccati molti di più, quando l’hanno preso, ma fra uno sconto e l’altro è riuscito a ridurli a sei. Entro un paio di mesi, finalmente avrà la sua udienza per provare ad uscire con la condizionale. Con la condotta che ha tenuto e con una buona lettera di presentazione da parte del direttore Jost, uscire sarà un gioco da ragazzi. E una volta fuori, potrà riprendere tranquillamente la sua vita.
Fino ad allora, però, nel braccio A deve continuare a non succedere niente. O meglio, tutto ciò che vi succede deve continuare ad essere tenuto costantemente sott’occhio, perché non accada nulla di troppo pericoloso. Le regole di Bushido sono chiare, cristalline: chi vuole, scopi, ma niente violenza; chi vuole farsi, si faccia, ma niente overdose; chi vuole prendere a cazzotti qualcun altro, non si crei troppi problemi, ma niente ammazzatine fuori controllo; chi vuole contrabbandare sigarette, riviste porno o il cazzo che gli pare, ne ha piena facoltà, ma se qualcuno viene beccato farà meglio a rimanere zitto, o a non farsi beccare affatto.
Così scorre la vita nel braccio A. Così Bushido fa buona guardia alla propria reputazione, ed anche alla propria futura libertà.
Nell’uscire finalmente dalla propria cella, quando le luci nella sala comune sono ormai state accese e perfino i televisori sono già stati sintonizzati sul telegiornale del mattino, lancia un cenno d’intesa ai suoi ragazzi sparsi in giro – Fler e Chakuza che si intravedono appena davanti ai lavandini nel bagno comune, intenti a lavarsi i denti, Eko e Kay già appollaiati sulle sedioline davanti alla tv che gridano alle guardie di cambiare canale per sentirsi rispondere di andarsene a fanculo, Saad seduto ad uno dei tavolini più distanti, le mani incrociate sotto il mento e un’aria pensosa a rendere duri e cupi i tratti del suo viso – e si compiace di vedere tutto in ordine. Fra un’ora al massimo, gli impiegati nel laboratorio tessile verranno smistati nella loro area, e dopo non molto anche gli addetti al servizio postale interno alla prigione abbandoneranno il braccio. Da ultimi, lui e i suoi ragazzi, verso le undici, andranno in cucina per cominciare a provvedere alla pulizia della sala mensa e al pranzo per tutti i detenuti. E la giornata passerà così, fra un’incombenza e l’altra, un po’ di svago in palestra e un’occhiata indagatrice lanciata in giro per il braccio per assicurarsi che nelle ore buche Sido e i suoi non combinino qualche cazzata di cui lui sarà costretto a pagare le conseguenze, fino al ritorno in cella e al buio.
Sbadigliando ancora un po’, si avvicina a Saad, prendendo posto accanto a lui. Il libanese lo saluta con un cenno del capo, continuando a fissare ostinatamente il vuoto, quell’espressione cupa dipinta sulla faccia. Lui e Baba Saad, com’è più noto per strada, si sono conosciuti per un caso fortuito; Bushido in quel periodo si trovava in carcere a scontare una pena di qualche mese per possesso illegale d’arma da fuoco. Saad, allora, era poco più che un ragazzino e infinitamente meno di un uomo. L’avevano fermato per guida in stato di ubriachezza e gli avevano trovato in tasca un po’ di merda, roba a basso costo, che intendeva rivendere per pagarsi qualche sfizio e magari un po’ di sesso, e così era finito dentro per qualche mese anche lui. Li avevano piazzati in cella insieme, Bushido s’era fatto raccontare la sua storia – la fuga dal suo paese devastato dalla guerra, i soldi che non bastavano mai, i genitori che avevano progressivamente smesso di interessarsi di lui, troppo pressati dalle difficoltà economiche – e poi gli aveva detto di fare il bravo per i mesi che gli restavano da scontare, ed andarlo a cercare a Tempelhof non appena fosse uscito. Avrebbe trovato lui un buon lavoro da affidargli, qualcosa per cui sarebbe stato protetto, entro i limiti per i quali si poteva essere protetti facendo un mestiere come il loro, e così, quando, qualche mese dopo di lui, anche Saad era uscito di galera, Bushido l’aveva subito preso fra i suoi, e l’aveva messo a spacciare su circuiti sicuri, roba buona. Non l’aveva più lasciato andare.
Quando Bushido è stato arrestato per la seconda volta, e s’è ritrovato a dover gestire la consapevolezza di dover rimanere in carcere per almeno altri sei anni, è stato a Baba Saad che ha lasciato tutto. Gli ha detto di tenere a bada ogni cosa, di circondarsi di amici fidati, nel caso dovesse succedere qualcosa anche a lui, e quando poi anche Saad è stato di nuovo messo dentro, salutandolo al suo arrivo non si è stupito di trovarlo sereno e sorridente. “Fuori è tutto a posto, Bu, si occupa di tutto D-Bo,” gli ha detto, e Bushido gli ha rifilato una gran pacca sulla spalla e si è sentito molto, molto orgoglioso di lui, come non si era mai sentito orgoglioso di nessun altro in vita sua.
- Mbe’? – gli chiede adesso, sistemandosi sulla sedia e tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di carte, che comincia immediatamente a mescolare, - Cos’è quella faccia scura?
Saad scrolla le spalle, come se improvvisamente, qualsiasi fosse il pensiero che l’aveva tenuto sulle spine fino a poco prima, ora non avesse più alcun problema nel mondo, e si volta a guardarlo, distogliendo gli occhi da quel punto vuoto che prima sembrava fissare con tanta intensità.
- Te lo dico io, non mi piace come si stanno mettendo le cose. – gli dice, facendogli cenno di distribuire pure le carte, se vuole. Bushido provvede immediatamente, senza risparmiarsi un sorriso di vago scherno per quel tono così cupamente profetico. Si fida di Saad, lavorando con lui ha imparato a tenere conto delle sue percezioni, ma ultimamente il ragazzo sembra essersi fatto inutilmente sospettoso, specie nei confronti di Sido, che è sì uno stronzo, ma non è un coglione, e sa bene quali sono i propri limiti, e quanto oltre può spingersi prima di sorpassarli.
- E come si starebbero mettendo queste cose? – domanda quindi, controllando con una rapida occhiata le carte che ha in mano e confrontandole con quelle che ha disposto sul tavolo.
Saad sospira, quasi offeso da quel suo tono così ilare, che deve giudicare estremamente fuori luogo.
- Ti dico che Sido sta macchinando qualcosa. – dice a bassa voce, cospiratorio, - Quello ormai non si accontenta più di niente. Droga, sigarette e porno non gli bastano più. L’altra volta l’ho visto parlare con due checche in un angolo del cortile, durante l’ora d’aria.
- E che ti devo dire? – scrolla le spalle Bushido, raccogliendo un paio di carte dal tavolo con una delle proprie e mettendole da parte in un mazzetto, - Si sarà svegliato con un certo languorino, quel giorno.
- Cazzone. – borbotta Saad per tutta risposta, allungandosi a tirargli uno scappellotto dietro la nuca e, già che c’è, sporgendosi per vedere cos’ha in mano, prima di fare la propria mossa. Bushido lo lascia libero di muoversi come crede, ridendo divertito, e poco dopo Saad riprende a parlare. – Bu, a quello non piace l’uccello, e il buco del culo nemmeno, e quella strafiga della sua signora viene a trovarlo due volte al mese. Ti dico che ha in mente qualcosa.
- Ma qualcosa tipo cosa? – ride Bushido, finendo di ripulire il tavolo dalle carte, - Scopa! Oggi ti tocca pulire la friggitrice.
Saad ignora sia l’ordine che l’esultanza con cui Bushido accompagna la vittoria, e continua a fissare l’ultima carta che gli è rimasta in mano, come fosse incerto sul da farsi.
- E se stesse organizzando un giro di prostituzione? – domanda curiosamente, e Bushido inarca un sopracciglio.
- Qui dentro? – chiede di rimando, accennando con le braccia all’ambiente chiuso che li circonda, e con un cenno del capo agli agenti di custodia che fanno la ronda tutto attorno a loro. Saad scrolla le spalle, come se questi fossero particolari del tutto irrilevanti.
- Sai meglio di me che se si vuole trovare un luogo appartato in cui fare qualcosa senza essere visti, qua dentro, lo si trova, esattamente come lo si trova di fuori. – gli fa notare. Bushido sbuffa, già annoiato dalla questione.
- Senti, facciamo così: - dice per tagliare corto, - io sono l’ultima persona che voglia guai in questo braccio, - lo rassicura, - per cui ti prometto che terrò le orecchie ben tese e, al primo segnale di pericolo, ci muoveremo per rimettere le cose a posto. Ok?
Saad sbuffa qualcosa, probabilmente un assenso, ma non è per niente soddisfatto dalla risposta. Tuttavia, evita di proseguire nelle proprie rimostranze quando vede avvicinarsi Fler e Chakuza che, giocando come due idioti a tirarsi colpi di asciugamano ancora umido sulla schiena e sul sedere, prendono posto sulle due sedie rimaste vuote attorno al tavolino. Fler, in particolare, gira la propria al contrario, in modo da potersi sedere a cavalcioni, il viso rivolto al grande cancello che separa il corridoio del braccio dal resto della prigione, insomma, la porta dalla quale chiunque voglia uscire e chiunque voglia entrare deve necessariamente passare.
- Oggi arriva un po’ di carne fresca. – dice con una certa eccitazione, le spalle tese sotto la canottiera così attillata da mostrare tutti i tatuaggi che ha addosso senza coprirne quasi neanche uno. La sua emozione è facilmente comprensibile, se si pensa che in prigione si hanno pochi svaghi oltre a quelli di vedere ogni tanto un po’ di facce nuove e prenderle di mira fino a quando non saranno diventate anche loro facce vecchie, ma Chakuza non coglie la sfumatura e, sbuffando infastidito, gli tira una scarpata.
- Attento che ti si vede sbavare da qui. – lo minaccia, mentre Fler ride e gli ritira indietro la scarpa, - Cazzo, guarda che non è femmina davvero, ci assomiglia soltanto. – borbotta, e Saad si volta a guardarlo, incuriosito.
- Allora è vero? – domanda, e Chakuza annuisce, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, lo trasferiscono qui. E il mio consiglio personale e spassionato è di starne tutti alla larga. È un ragazzino instabile e pericoloso, e come ha staccato l’uccello a morsi a quella guardia giurata che ha cercato di farselo succhiare, può staccarlo a chiunque di noi.
Bushido ride divertito, recuperando le carte e riprendendo a mescolarle con destrezza.
- Capito, Saad? – dice in tono canzonatorio, - Stai attento a ciò che dice il Chaku! Se per caso una notte senti che l’uccello se ne sta uscendo dalle mutande da solo per andarsi a fare una passeggiatina in bocca alla puttana, svegliati di corsa e vallo a recuperare, o potresti non vederlo più tornare a casa!
- Sfotti, sfotti. – borbotta Chakuza, imbronciandosi, mentre Fler ride a crepapelle, piegato in due sulla spalliera della sedia, e Saad taglia il mazzo che Bushido gli porge, apparentemente nient’affatto divertito dalla piega che sta prendendo la conversazione. – Poi magari quello decide di ripetere la performance con qualche sventurato pure qui, e addio pace nel braccio. Chissà con chi se la prenderà Jost, quando avrà bisogno di un capro espiatorio?
- Oh, Chaku, ma quanto la fai lunga? – sospira Bushido, continuando a ridere e distribuendo carte a tutti e quattro, - Per evitare che uno ti stacchi il cazzo a morsi, basta non infilargli il cazzo in bocca, ti pare? Col fatto che questo Kaulitz arriva qui già famoso per meriti pregressi, scommetti che non dovrò nemmeno spargere la voce che è off-limits? Non gli si avvicinerà nessuno!
- Sarà. – commenta Fler, continuando a sbirciare il cancello di tanto in tanto, - Dicono che sia molto bello.
- Per quanto mi riguarda, - protesta Saad, - potrebbe avere pure il viso di un angelo, ma se in mezzo alle gambe ha un uccello, non è roba per me.
- Sei fortunato, dunque, il tuo arnese è salvo. – esulta Bushido, ridendo sguaiatamente mentre Fler gli fa eco e Chakuza, sentendosi probabilmente trattato con scarsa considerazione rispetto a quella che meriterebbe, continua a borbottare in una litania di grugniti intraducibili in dialetto austriaco stretto.
Passano solo un paio di minuti – in cui Bushido continua a battere tutti, distribuendo gli incarichi più disgustosi in cucina ogni volta che porta a casa un punto – e poi si sente scattare la serratura del cancello. Tutti i prigionieri che, nell’ultima mezz’ora, sono arrivati ad affollare la sala comune, alzano la testa, interrompendo le proprie attività di colpo per osservare i nuovi detenuti in arrivo. C’è qualche volto conosciuto, per qualcuno. Volano sorrisi e battute, qualche saluto in un italiano tanto finto e forzato da non riuscire nemmeno in parte a coprire l’accento tedesco – Bushido li odia quelli che fingono di saper parlare la lingua dei loro padri, pur essendo tedeschi che più tedeschi non si potrebbe; lui finge forse di saper parlare il tunisino, solo perché la sua pelle è del colore del caramello e quella testa di cazzo di suo padre ha avuto la geniale pensata di nascere in un paese pieno di morti di fame dal quale è dovuto fuggire prima di poter incontrare sua madre a Bonn? Certamente no – ma naturalmente in meno di un secondo tutti gli occhi vengono calamitati dalla figura magra e quasi trasparente che se ne sta rintanata dietro le figure più robuste degli altri detenuti.

Bill Kaulitz ha diciott’anni compiuti da tre settimane, e se ne sente addosso centodiciotto almeno mentre passeggia lentamente per la strada ormai quasi del tutto silenziosa, fatta eccezione per lo scalpiccio dei propri stessi passi sul marciapiede umido di brina. È tardi, o forse è molto presto. Saranno le cinque del mattino almeno, si vede già il sole rischiarare dal basso l’orizzonte e il cielo, fino a lambire perfino qualche nuvola. Le prime notti che ha passato solo per strada, Bill non poteva fare a meno di fermarsi affascinato a fissare l’alba, ogni volta che gli capitava di vederne una. Più che la poesia del fatto in sé, lo colpiva essere riuscito a sopravvivere alle notti, al loro gelo, al calore umido e appiccicaticcio delle mani che lo toccavano, lo tiravano, gli strappavano i vestiti di dosso, lo aprivano, lo frugavano, lo riempivano di lividi. Passeggiando verso la squallida stanzetta senza mobili che si ostina a chiamare casa più per rivendicazione di orgoglio che perché assomigli ad una casa vera, quante volte ha rallentato il passo per lasciare che l’aria fresca del mattino gli scacciasse un po’ di dosso quell’orribile calore che ormai aveva cominciato ad associare alla notte?
Ora questa poesia, o almeno quel poco che ne restava, s’è dispersa. Sopravvivere giorno dopo giorno ha smesso di essere un miracolo, è diventata routine. Il vero miracolo, si dice anche adesso, mentre intravede la propria scalcinata palazzina fare capolino in fondo alla strada e per questo comincia a rovistare nelle tasche della giacca per tirare fuori le chiavi del portone, il vero miracolo sarebbe crepare, una buona volta.
Suo fratello lo aspetta nascosto nell’ombra dietro un pilastro, dove la luce del lampione non può raggiungerlo. Nel notare l’ombra scura che gli si avvicina, Bill sussulta e tira fuori il coltellino che porta sempre con sé, puntandoglielo contro. Lui, però, si mette in favore di luce abbastanza in fretta da scampare a morte certa.
- Tomi. – esala Bill, richiudendo la lama e rimettendo a posto il coltellino nella tasca interna della giacca, - Quante volte ti ho detto di non arrivarmi mai alle spalle? Potevo ammazzarti.
- Scusa. – biascica Tom, tenendo le mani ben sollevate sopra la testa finché il coltello non sparisce, per poi lasciarsele ricadere come inermi lungo i fianchi. – Come stai? Era un po’ che non venivo a trovarti.
- Fa niente. – scrolla le spalle lui, distogliendo lo sguardo, - Ti ho detto mille volte di non farlo. Non voglio che ci vedano insieme.
- Bill, ti prego… - sospira suo fratello, allungando una mano verso di lui e accarezzandogli lievemente una guancia. Bill si ritrae all’istante, e Tom spalanca gli occhi. – È gonfia. – esala, avvicinandoglisi velocemente e scostandogli i capelli dal viso per guardarlo meglio mentre Bill cerca inutilmente di ripiegare il collo contro la spalla, come un cigno, nel tentativo di difendersi dal suo sguardo indagatore. – Ti hanno picchiato?
- Non è niente di grave. – risponde lui, minimizzando. – Adesso torna a casa, è quasi mattina. Devi andare a scuola.
Tom lo afferra per le spalle, e per qualche secondo sembra che voglia prendere a scuoterlo così forte da mandarlo in pezzi. Poi, però, si limita a tirarselo contro, appoggiandogli una mano sulla testa per costringerlo a reclinarla contro il suo petto. Bill fa un po’ di storie, ma quando il suo profumo dolce lo avvolge interamente non può fare a meno di lasciarsi andare, e stringere con forza fra le dita un lembo dell’enorme maglietta che indossa.
- Torna a casa con me. – gli chiede suo fratello, e Bill scuote il capo. Questa scena, negli ultimi anni, si è ripetuta talmente tante volte che a Bill ormai il solo pensiero di doverla ripetere ancora dà la nausea. Si allontana da suo fratello con un gesto secco.
- Vattene, Tom. – dice aspro, guardandolo con durezza. Tom si morde un labbro.
- Resto qui con te, stanotte, magari. – prova. Bill scuote il capo un’altra volta.
- Non sto ancora rientrando. – mente, ma quando capisce che Tom non ha intenzione di andarsene è costretto a cambiare i programmi per la serata, o quello che ne resta. – Sul serio, sto andando al bagno pubblico per vedere se c’è qualche vecchio rincoglionito insonne che ha ancora voglia di scopare. – dice, utilizzando di proposito tutti i termini più feroci, quelli che, lo sa, danno a Tom i brividi dal disgusto.
- Lascia stare, - insiste suo fratello, infilando le mani in tasca e tirandole fuori piene di soldi, - per stasera basta, ti do qualcosa io.
Bill prende le banconote dalle sue mani e le conserva, ma gli volta comunque le spalle.
- Tornatene a casa. – dice un’ultima volta, prima di dirigersi verso il bagno pubblico, un passo dopo l’altro.
Il posto è di uno squallore che lo atterrisce, ed è così ogni volta. Inizialmente, Bill pensava che sarebbe stato facile abituarsi a tutti quei terribili dettagli che ormai rappresentano la sua quotidianità, ma se questo è stato vero per il vivere da solo, per quel buco del suo appartamento, perfino per il dover battere le strade, per le scopate dolorose quando andava male e disgustose quando andava bene con i suoi clienti e per gran parte di tutte le altre cose che rendono la sua vita terribile e vergognosa, l’orrore che prova ogni volta che varca la soglia del bagno pubblico non è mai riuscito a sfumarsi in una sensazione meno spaventosa, o meno violenta. Ogni volta che entra lì dentro sente chiaramente un piccolo pezzo di sé che muore, ed è convinto che, quando finalmente creperà, sarà per colpa di questo dolore sordo e accecante che prova ogni volta che frequenta il bagno pubblico. Sarà lui ad ucciderlo, lui con le sue piastrelle sporche agli angoli e nelle intercapedini fra l’una e l’altra, quando il cemento emerge da sotto, lui ed i lavandini che funzionano uno sì e uno no, lui e le ragnatele agli angoli del soffitto, lui e le porte cigolanti dei cessi sempre sporchi, lui e i drogati che vengono a vomitare l’anima ogni notte, quelli che ogni tanto, accasciati contro la tazza del cesso, vomitano così tanto da non lasciarsi in corpo più niente, nemmeno il cuore che batte.
Bill morirà qua dentro, ne è certo, morirà perché sarà questo posto ad ucciderlo. Ma non stanotte.
Stanotte la luce al neon funziona a intermittenza e il bagno pubblico è silenzioso, eccezion fatta per un tipo che se ne sta in disparte, davanti all’ultimo lavandino, e si lava le mani con l’aria di uno che è lì a lavarsi le mani da un bel po’, in attesa di qualcosa che sembrava non dovesse arrivare mai, e che quando lo vede avvicinarsi si ferma istantaneamente, come se quel qualcosa che stava aspettando da tanto finalmente si fosse deciso a raggiungerlo.
Bill gli sorride, appoggiandosi alla parete accanto a lui e sporgendo in avanti il bacino mentre incrocia le braccia sul petto. È un bell’uomo, alto, magro, brizzolato. Ha occhi azzurri ed espressivi, appena segnati da qualche ruga d’espressione sul contorno. Potrebbe quasi andarci a letto solo per concludere in bellezza la serata, se non sapesse che la quasi totalità di quelli che vanno a puttane lo fanno solo perché nessun altro li vuole, il che automaticamente li inserisce nella categoria degli sfigati, o comunque di gente con la quale il resto della gente non va a letto. Certo, il tipo è carino, ma da qualche parte la fregatura dev’esserci. Magari puzza, magari non gli si rizza o resta su due minuti e poi si sgonfia subito, magari ce l’ha piccolo, o magari troppo grosso, magari è uno di quelli con la testa piena di un sacco di idee strane e pericolose e Bill sta andando a cacciarsi in un guaio ancora più enorme di quello in cui è già. La fregatura dev’esserci per forza, ma in questo momento tornare a casa non è un’opzione, perciò Bill non ci sta a pensare su più di tanto, e si butta.
- Ehi, - dice, guardandolo seducente, - ti va di divertirci un po’? Non costo molto, scommetto che resterai sorpreso.
E invece, a restare sorpreso è lui. Il tizio sorride, si apre la giacca, infila una mano nella tasca interna, tira fuori il distintivo.
- Polizia. – dice.
Eccola qua, la fregatura.
Si lascia condurre in centrale, anche perché sa che resistere non farebbe altro che peggiorare la sua situazione. Gli chiedono un documento d’identità, ma lui non ne ha uno. Il poliziotto che lo sta interrogando ghigna e gli fa sapere che una notte in gattabuia non gliela leva nessuno. D’accordo, pensa Bill, chi se ne frega, e quando il tizio gli chiede di identificarsi lui risponde sollevando il medio.
- È identificativo abbastanza? – domanda con aria di sfida. Il poliziotto gli sferra un manrovescio che, se non fosse ammanettato alla sedia, lo manderebbe giù per terra. Bill sente i muscoli delle spalle, delle braccia e del collo tirare dolorosamente, ma non fa una piega. Quando torna a guardare il poliziotto, gli scivola giù dalle labbra un rivolino di sangue.
- Mi fai schifo. – dice l’uomo, lanciandogli un’occhiata disgustata da così vicino che Bill può sentire l’odore del suo alito. Sa di mentine e caffè. Non è del tutto spiacevole. Quello di suo padre odorava allo stesso modo. – Tutti quelli come te mi fanno schifo.
Le similitudini fra il poliziotto e suo padre non si fermano all’odore dell’alito, pare.
Viene portato in carcere immediatamente. Il commissariato in cui l’ha trascinato il poliziotto che l’ha adescato per strada non è attrezzato per ospitare qualcuno per la notte. È un buco piccolo, squallido e triste all’interno del quale poliziotti assonnati che si tengono su un caffè dopo l’altro si aggirano con aria persa, consapevoli di stare gettando via la propria vita fra quattro mura, nascosti dentro una divisa, dietro a un distintivo, alle spalle di una pistola che avrà sempre più potere di loro. Per strada, Bill era altrettanto consapevole di stare buttando via se stesso, ma almeno non era costretto a nascondersi in una stanzetta satura di fumo e polvere. Le strade erano il suo regno, la sua casa, la sua unica, vastissima prigione. Lui aveva imparato a conoscerle e a non sentirsi solo e sperduto nella loro immensità.
Per questo motivo, la cella in cui lo scaraventano gli pare claustrofobica. In realtà è abbastanza consapevole del fatto che non si tratti di una cella propriamente piccola, anzi, è abbastanza spaziosa. C’è un letto, un letto vero, con un bel materasso di gommapiuma e la rete di metallo, che è molto più di quanto si possa dire del sottoscala in cui vive, c’è una finestra, un lavandino e un cesso pulito da usare, se ne ha voglia.
Non ne ha voglia. Resta tutta la notte raggomitolato in un angolo, sul pavimento, a tremare. Vuole uscire di lì, vuole uscire di lì immediatamente. È talmente sotto shock da non riuscire a pensare a niente. Si addormenta così, per inerzia, perché gli si svuota la testa e non riesce a tenersi sveglio solo ascoltando il rumore dei propri denti che battono.
Quando sente la serratura della cella scattare, si sveglia di soprassalto. È lucido, molto più di quanto non lo fosse quando si è addormentato, e non trema più. Anche la sua posizione è più rilassata. Fa per alzarsi da terra, d’altronde immagina che la guardia appena entrata sia venuta per accompagnarlo fuori, ma quello gli allunga addosso le mani con una tale velocità che Bill non fa in tempo a scansarsi, e lo manda a sbattere contro la parete alle sue spalle. Bill urla, sente il proprio grido vagare per tutto il corridoio silenzioso con la sola risposta dell’eco e contemporaneamente sente qualcosa nella propria spalla scricchiolare pericolosamente, e fa male, malissimo, ma non ha il tempo di urlare anche per quello che subito dovrebbe trovare la forza per urlare per il dolore che gli causa la mano della guardia stretta attorno al suo collo sottile, come volesse soffocarlo. Urlerebbe volentieri un’altra volta, adesso, sì, ma non riesce a trovare fiato a sufficienza.
Il poliziotto si prende tutto il tempo che gli serve per osservarlo accartocciarsi sul pavimento come una foglia morta, e poi slaccia la cintura e i pantaloni. La cintura la sfila proprio dai passanti, e quando si china su di lui la usa per legargli i polsi dietro la schiena. Bill geme di dolore e cerca di capire cosa cazzo stia succedendo, ma il poliziotto lo tira su di peso, lo scaraventa di nuovo contro la parete e subito dopo gli è addosso infilandogli l’uccello in bocca di prepotenza, tenendogliela aperta con il pollice e l’indice premuti contro le guance, la punta del cazzo che gli sfiora l’imboccatura della gola, costringendolo a tossire e contorcersi per lo stimolo di vomitare mentre quella bestia schifosa si muove, scopandogli la bocca senza vergogna, grugnendo come un animale, come l’animale che è.
Bill si sente soffocare, si sente soffocato dal vomito, dalla saliva, dalla presenza ingombrante che gli invade la gola con tanta forza e prepotenza da sembrare voglia attraversarlo tutto fino allo stomaco, e l’unica cosa che riesce a pensare è che lui, una cosa del genere, non l’ha mai fatta se non per soldi. Mai, mai nella sua vita.
E non intende cominciare a subirla adesso.
Cerca di rimettersi dritto, trova la forza di spingere l’erezione dell’uomo fuori dalla propria bocca di qualche centimetro, facendo pressione con la lingua, abbastanza per riprendere a respirare e consentirsi un po’ di tregua dai conati di vomito, per poter ragionare lucidamente. L’uomo si accorge subito di quello che sta succedendo, e ghigna, un po’ sorpreso, quando lo sente cominciare a succhiare docilmente.
- Troia…! – esala, riprendendo a spingersi dentro di lui, anche se, ora che sa di non doverlo più forzare, il suo ritmo s’è assestato su un tipo di violenza meno invasiva e più umiliante, - Lo sapevo che andavi solo addomesticato un po’… Che troia sei, succhialo, bravo.
Bill si permette perfino di mugolare appena, e quando l’uomo geme un “sì” arreso e perso, e molla la presa sul suo viso, Bill chiude i denti come tenaglie, stringendo forte.
L’uomo comincia a urlare immediatamente. Il suo grido è potente come una deflagrazione, non aumenta d’intensità coi secondi, è subito alto, rauco e grondante di dolore, e non fa che farsi sempre più disperato e senza scampo quando la guardia, in preda al panico, comincia a dimenarsi per sottrarsi a quella stretta mortale, con l’unico risultato di costringere Bill a stringere ancora di più la presa, come in un riflesso condizionato, come fosse un animale selvaggio che è finalmente riuscito ad agguantare la propria preda per il collo dopo un inseguimento sfiancante, e che adesso non ha la minima intenzione di lasciarla andare.
Non lo molla, neanche quando le luci nel corridoio si accendono. Neanche quando comincia a riempirsi di guardie. Neanche quando quelle stesse guardie si mettono a urlare, cercano di aprire la grata della cella che il bastardo, entrando, s’è richiuso alle spalle per evitare che lui fuggisse. Bill sorride storto, continuando a stringere quel cazzo disgustoso, ormai livido e sanguinolento, fra i denti serrati. Sono in prigione, in prigione insieme, e nessuno potrà salvarlo.
Per il momento in cui le guardie riescono a trovare un duplicato delle chiavi della cella per entrare, l’uomo è già svenuto. Si è accasciato a terra come senza vita, gli occhi chiusi, il respiro corto. Bill molla appena la presa, poi la stringe di nuovo e con uno scatto violento solleva la testa.
L’uomo spalanca gli occhi, lancia un grido lancinante e poi torna a stendersi per terra, contorcendosi come un’anguilla, mentre dal moncherino che gli è rimasto fra le cosce scorrono fiumi di sangue scuro e denso.
Bill sputa lontano il proprio pasto indigesto, e quando le guardie gli si avvicinano per tirarlo su e trascinarlo via, coi denti e le labbra ancora tutti sporchi di sangue, sta ancora sorridendo.
Di prigione non esce più. Non ha la minima idea di che fine abbia fatto l’agente che, a quanto pare, ha quasi ucciso. E sembra che a nessuno importi che quello la sua fine, qualunque sia stata, se l’è meritata, perché ha cercato di stuprarlo. Pare che il fatto che Bill non abbia quasi una casa, che si sia rifiutato di identificarsi, che faccia la troia per tirare a campare e che fosse stato rinchiuso in una cella per passare la notte in attesa di accertamenti, in qualche modo legittimasse lo stronzo che gli ha ficcato l’uccello in gola, che quasi lo incoraggiasse a farlo.
Lo tengono isolato in una cella finché il processo non finisce. Nel mentre, la sua storia fa il giro della prigione, o almeno così gli dice il detenuto incaricato dalla mensa di portargli da mangiare sotto la sorveglianza degli agenti di custodia. Bill piange ventiquattro ore al giorno, ma non vedere mai la luce del sole non lo aiuta a capire quanto tempo stia passando.
Lo tirano fuori di lì un giorno, gli dicono che è per presenziare al processo. Bill non ne capisce un cazzo. Non ha mangiato quasi niente, negli ultimi giorni, non si lava da settimane, o almeno così gli sembra, gli fa male una spalla e si sente debole, tanto da riuscire appena a camminare.
Una cosa, però, la capisce. I dodici anni che gli danno per aver quasi ammazzato quel figlio di puttana. Da scontarsi nel carcere in cui è già recluso. Capisce anche che, almeno, lo tireranno fuori dall’isolamento. Lo spostano al braccio A, o almeno così gli pare di capire. Perché è un braccio tranquillo, perché lì non ci sono mai casini, perché lì l’ordine è rispettato.
A Bill questo non interessa. Gli basta uscire dal buco dove è stato rinchiuso fino ad ora. Pensa che riuscirà perfino a sorridere quando, finalmente, si sarà lasciato alle spalle la cella d’isolamento.
Ma non è così.


Bushido gli lancia un’occhiata incuriosita, studiando la sua figura – il collo e i polsi magrissimi, la pelle quasi trasparente, gli occhi grandi e pesanti di trucco sbavato, i capelli lunghi e in disordine – e per un secondo il ragazzino incrocia il suo sguardo e sembra ricambiarlo con aria di sfida, corrugando le sopracciglia e tendendo le labbra fino a ridurle ad una linea sottile e livida di rabbia, che gli taglia in due il volto.
- È lui. – gli dice Fler, sporgendosi verso il suo orecchio per sussurrare, - Te l’avevo detto che era bello.
Bushido annuisce, pensieroso. Forse, dopotutto, un paio di voci gli toccherà farle circolare comunque.

*

La guardia viene a prenderlo a mezzogiorno, il momento meno opportuno per distoglierlo dalla cucina perché i suoi sono bravi ragazzi ma, senza l'ombra della sua persona a fargli venire la stretta al culo, quelli si siedono da una parte e se la prendono comoda, così poi i compiti si ammucchiano, le cose non vengono fatte, la gente s'incazza e la tensione sale. Vorrebbe fargli capire che fare quello che devono fare nei tempi in cui va fatto non ridurrebbe la loro virilità, ma permetterebbe a tutti quanti di farsi molto prima i cazzi propri; ma è difficile convincere qualcuno di una teoria astratta quando quello capisce soltanto le cose di cui può avere un riscontro immediato. E siccome lavorare quando nessuno ti guarda ti porta solo ad essere sfottuto dal resto della gente che ti circonda, quelli non fanno niente. Bushido, d'altronde, nemmeno si stupisce; lui lo sa che non tutti nascono capi e molti non nascono nemmeno soldati, ma stupide pecore incapaci di ragionare anche al livello più basilare. E' già abbastanza fortunato a dover gestire un branco di disadatti con poche perversioni che quando parla lo sta a sentire, non può anche pretendere da loro un'organizzazione di tipo pratico.
“Ferchichi,” lo chiama la guardia, porgendogli le manette già aperte e aspettandosi che lui faccia lo stesso con i propri polsi.
Bushido si volta aldilà del banco su cui poi appoggeranno i contenitori d'acciaio con il cibo da servire ai detenuti. Si pulisce la mano su uno straccio che tiene legato in vita e fa un cenno interrogativo alla guardia, senza mai staccare gli occhi dai suoi.
“Jost ti vuole nel suo ufficio,” precisa il secondino.
“Motivo?” Chiede Bushido, allungando le braccia perché quello possa chiudergli le manette intorno ai polsi. Il freddo del metallo e la stretta improvvisa – guarda caso sempre accidentalmente esagerata – non gli fanno nemmeno più effetto, sono diventati parte della routine che costituisce il tragitto per e dall'ufficio del direttore.
“Perché, Ferchichi? Se non ti piace, non vieni?” Sorride sprezzante la guardia, spingendolo in malo modo fuori dalla cucina.
Bushido ricambia con una smorfia strafottente, senza voltarsi verso l'uomo che gli cammina alle spalle. “Il grande capo chiama, dev'esserci qualcosa di grosso dietro.”
“Magari ti danno la grazia,” lo prende in giro la guardia, mentre lo scorta oltre l'area comune, dove i detenuti presenti si voltano a guardarli, subito incuriositi dalla novità. “Sei quello buono tu, no?”
Non capita spesso che Bushido finisca nei guai e sono in molti ad esserne contenti. Qualcuno più coraggioso ghigna nella sua direzione, altri si limitano a fissarlo con espressione indecifrabile.
Bushido serra la mascella e si sforza di non rispondere alla guardia. Sa per esperienza che c'è un limite ben preciso fin dove ci si può spingere a reagire con loro, poi quelle ti spaccano la testa a manganellate e tu hai comunque torto. Allunga il passo dietro suggerimento del secondino e, mentre cammina, lancia un'occhiata agli uomini di Sido che lo seguono con lo sguardo finché non sparisce oltre la prima cancellata. Sido però non c'è.
L'ufficio del direttore Jost è l'unica stanza del braccio A che sembri apparentemente un posto normale.
C'è una vera porta in legno, delle vere finestre – anche se sbarrate – e un vero arredamento.
L'uomo siede dietro una scrivania da ufficio larga quanto tutta la cella di Bushido e, quando lui e la guardia entrano dopo aver ottenuto il permesso, lo trovano indaffarato a firmare una gran quantità di fogli.
“Puoi andare, Hans, Grazie,” dice alla guardia, alzando soltanto una mano ben aperta.
Quella lancia un'occhiata a Bushido che ormai conosce la procedura e se ne sta in piedi a due metri dal direttore, le mani ammanettate bene in vista e il capo chino, anche se la sua espressione suscita più noia che ubbidienza. E' così che funziona con Jost, ti chiama e poi te ne stai tre ore ad aspettare che abbia finito i suoi comodi, come se tu non avessi niente di meglio da fare che contare i rombi sul suo tappeto indiano. Ancora non l'ha capito che pulire il pavimento dei cessi è sempre più emozionante che stare a sentire lui.
“Sta tranquillo, Hans,” dice Jost dopo qualche secondo di silenzio durante il quale non ha sentito la porta chiudersi, “il signor Ferchichi sa bene che aggredirmi non gli conviene.”
“Ma signore,” insiste Hans.
Jost mette ancora qualche firma, la sua stilografica graffia la carta con un suono fastidioso. Poi sospira e richiude la penna. “Vai pure, Hans,” ripete con calma ma con decisione. “Qua ci penso io.”
Nel braccio A non ci sono buone guardie. Ci sono solo guardie stronze e guardie che lo sono un po' meno. Bushido sa che Hans fa parte del secondo gruppo. E' uno che sa di fare un mestiere di merda che non vale i due spiccioli in più che guadagna, ma lo fa perché ha due marmocchi a casa e quelli devono mangiare. E' un coglione, naturalmente, come quasi tutte le divise, però è quel tipo di coglione che Bushido tollera perché almeno non ti colpisce per divertimento quando si annoia. Hans rompe i coglioni solo quando proprio gli gira male, che è più o meno quando comincia a pesargli di stare in questo buco con loro per delle settimane di fila e di vedere la moglie due ore al giorno mentre lei dorme, se va bene.
Hans gli lancia un'ultima occhiata e poi decide che se il direttore Jost vuole rischiare la vita di sua spontanea volontà, non è affar suo. Jost scrive ancora un po' e quando finalmente mette giù la penna, Bushido ha i crampi alle braccia, ma col cazzo che cambia posizione e lo dà a vedere.
“Ferchichi, siediti,” gli dice Jost, togliendosi gli occhiali da lettura e massaggiandosi la radice del naso.
Bushido non si muove, si limita a sollevare lo sguardo su di lui e a lasciar penzolare la testa di lato con aria annoiata. “Preferisco di no,” risponde.
Jost inspira tra i denti e poi si appoggia allo schienale della poltrona. “Fare il duro non ti servirà a niente,” gli dice per nulla colpito. “Non ti ho chiamato per qualcosa che hai fatto.”
“Non avrebbe potuto, non ho fatto niente,” ribadisce lui, sul viso un'espressione indecifrabile.
“Tu fai sempre qualcosa, Ferchichi,” commenta Jost. “Io devo solo provarlo.”
“Auguri,” sorride Bushido, scuotendo un po' le spalle in una risatina silenziosa.
Bushido e Jost possono dire di conoscersi da un sacco di tempo, anche se nessuno dei due la considera propriamente una conoscenza piacevole. All'epoca, lui faceva dentro e fuori dalla sua cella già da sei anni, quindi si può dire che quando Jost è arrivato a posare il culo sulla sua poltrona di pelle, la prigione gliel'hanno consegnata già con Bushido dentro che faceva il bello e il cattivo tempo come il capo quartiere che è. I primi tempi è stata dura perché lui non era affatto il direttore che è adesso, e Bushido ci godeva come un maiale a farlo impazzire. Gli isolamenti che si è fatto anche per delle cazzate durante i primi anni di Jost, sono quelli che sono valsi davvero la pena. Poi, col tempo, Jost ha tirato fuori le palle, si è guadagnato il suo rispetto – Bushido è disposto a capire solo quello, d'altronde – e le cose hanno iniziato ad ingranare diversamente. E' stato Jost a volere il suo trasferimento nel braccio A quando si è costituito e, anche se Bushido non ha mai promesso realmente di farlo, butta un occhio per impedire che la gente si accoltelli troppo, da quelle parti.
“Ti ho chiamato,” riprende Jost “Perché ho una questione da discutere con te.”
“Farà meglio ad essere interessante.” Bushido solleva un sopracciglio, scettico. “Perché la sala mensa è un posto delicato, Jost. E io sono in questo tuo ufficietto di merda da più di mezz'ora. Se qualcuno decide che era il momento buono per aprire in due qualche stronzo, non te la prendere con me.”
“Avrai notato i nuovi arrivi oggi,” dice Jost.
Bushido socchiude gli occhi e fa un cenno disinteressato col capo. “Può essere,” risponde vago.
“Uno di loro si chiama Bill,” continua Jost, pazientemente. “E' poco più che un ragazzino e gli hanno dato dodici anni per tentato omicidio.”
In quella descrizione Bushido non ha alcun problema a riconoscere il corpo esile ed emaciato che ha attraversato l'area comune incollato alla guardia, quella mattina, perciò annuisce. “E allora?”
“Sai perfettamente com'è la vita qua dentro per quelli come lui.”
Quando entri in galera puoi essere tre cose: puoi essere uno che si fa rispettare, uno che non lo fa e puoi essere morto. Difficilmente puoi farti i cazzi tuoi senza rientrare in nessuna delle tre categorie. Bushido conosce poche persone che ci riescono e sono tutti boss anziani, la cui morte scatenerebbe guerre di dimensioni tali che la gente preferisce starne alla larga. Naturalmente questo ragazzino, Bill, rientra nella seconda categoria. Non importa quanti uccelli abbia staccato a morsi, è carne da macello; se gli dice bene, diventerà la puttana personale di qualcuno. Se gli dice male, finirà per impiccarsi con le coperte come il frocio giamaicano quattro settimane fa.
“E' la legge della giungla, Jost” dice Bushido, con una scrollata di spalle. “Ma non si sa mai, magari tira fuori le palle e resta vivo.”
“Io preferirei non correre il rischio,” commenta Jost. “Vorrei che te ne occupassi tu.”
“Non se ne parla neanche,” risponde Bushido, immediatamente, lasciando perdere la calma mantenuta finora. “Io non faccio da balia a nessuno.”
“Devi soltanto tenerlo d'occhio,” spiega Jost. “Impedire che se ne approfittino e che si faccia ammazzare, o peggio, che si ammazzi da solo.”
“No,” Bushido scuote la testa con vigore.
“Tu dici di avere una certa influenza su questo carcere,” insiste Jost. “Se è davvero così, allora ti basterà far circolare la voce che è sotto la tua protezione e nessuno gli farà niente. Ti chiedo solo questo.”
Bushido ha cominciato a scuotere la testa a metà frase. “Tu non capisci, Jost,” gli dice avvicinandosi alla scrivania. Vorrebbe indicarlo, ma il movimento del polso si porta dietro tutte le manette, così rinuncia e cerca di essere convincente facendogli ombra sulla scrivania. “Quel tipo ha staccato l'uccello ad una guardia, ok? E' pazzo. Chissà che cazzo di casini potrebbe combinare. E io non voglio casini quando sono ad un passo dall'uscire da questo buco di merda con la condizionale.”
“Non è pazzo,” sospira Jost. “E' soltanto spaventato e probabilmente è stato aggredito.”
“Per me può anche aver morso la prima cosa che si è trovato in bocca perché aveva fame,” commenta Bushido. “Non me ne frega niente, Jost. Se quello combina qualche altra cazzata mentre è sotto la mia custodia, io di qui non esco più.”
Jost non vorrebbe arrivare a questo, ma non ha altra scelta. “La tua uscita dipende dalla mia parola,” gli fa notare con molta serietà. “E se ti rifiuti, io dirò che, a mio avviso, non ci sono gli estremi per darti la condizionale.”
Bushido trasfigura. “Che bastardo!” Sibila tra i denti. Fa un passo indietro come volesse andarsene, ma poi la rabbia è tanta che si riavvicina alla scrivania, battendoci sopra entrambe le mani. “Sei un grandissimo bastardo!”
“Se è l'unico modo di trattare con te...” Jost si stringe nelle spalle, allargando impotente le braccia.
“Questa me la paghi, Jost.”
Hans viene richiamato perché riporti Bushido nella sua cella. Stavolta il tragitto è più silenzioso e Bushido non guarda nessuno mentre attraversa l'area comune; è troppo impegnato a prevedere come gestire la catastrofe che potrebbe impedirgli di uscire.

*

Quando Bushido torna dall'ufficio di Jost, il ragazzino sta sistemando le sue cose sul letto di sopra.
Non ha perso tempo, quel bastardo, a spedirglielo come un pacco postale.
“Sembra che tu abbia un nuovo compagno di cella, Ferchichi,” commenta Hans ridendo di lui e lasciando scivolare gli occhi sul corpo di Bill. “Fate amicizia, mi raccomando.”
Bushido ignora le parole della guardia, troppo impegnato a cercare quelle adatte a spiegare al ragazzino come funzionano le cose qui, ma è Bill che lo anticipa non appena la porta della cella si chiude, dando loro una parvenza di privacy. “Tu sei Ferchichi, vero?” Chiede.
Bushido nota che lo hanno fatto lavare e cambiare. Pulito e con i capelli ancora umidi e tirati all'indietro sembra completamente diverso da come lo ha visto stamattina; è vagamente più adulto, ma solo alla prima occhiata. Poi la rotondità del viso e gli occhi impauriti e sgranati, nonostante i quintali di trucco, tradiscono la sua vera età.
“Mi chiamano Bushido,” risponde, annuendo. “E tu devi essere Bill.”
Il ragazzino annuisce, quindi si issa sul letto di sopra. Quando si siede le sue gambe penzolano fino a metà del letto inferiore. E' altissimo.
“D'accordo, Bill,” continua Bushido, grattandosi la nuca. “E' la prima volta che finisci in galera?”
“Sì,” risponde lui. “Per colpa di due sbirri di merda.”
“Gli sbirri non piacciono a nessuno,” risponde Bushido. E' una di quelle cose che vanno dette a prescindere, anche se in quel momento non servono a niente. Sono come le bestemmie, scaricano il nervoso. “D'accordo, le regole qua sono semplici. La cella dobbiamo pulirla noi, quindi vedi di non sporcare. Mangia quando ti dicono di mangiare, vai a letto quando ti dicono di dormire. Non cercare guai e loro non verranno a cercare te. ”
Bill lo guarda dall'alto del letto a castello, poi gonfia una guancia e sbuffa. “Illuminante. Senti Bushido,” dice, calcando sul suo nome come lo trovasse ridicolo. “So perché mi hanno spostato qui con te, d'accordo? Jost vuole che tu mi faccia da baby sitter. Ma io non so chi sei e nemmeno m'interessa saperlo. Non ho bisogno di protezione, so cavarmela benissimo da solo. “
Bushido solleva entrambe le sopracciglia. Un piccola ruga gli divide la fronte a metà mentre, per sicurezza, lo guarda di nuovo da capo a piedi per vedere se è ancora magro ed effeminato com'era due minuti fa, perché da come parla sembra uno capace di spaccare la faccia a parecchia gente. E invece no, è sempre il mucchietto d'ossa che gli sembrava.
“E, tanto per essere chiari,” continua Bill. “Anche se fuori di qui batto, non ti far venire strane idee perché non sono la puttana di nessuno, chiaro?”
Bushido ha l'impressione che il ragazzino abbia passato l'ultima mezz'ora a mettere insieme questo bel discorsetto da duro, convinto che qui dentro gli basti fare la voce grossa per essere lasciato in pace.
Se fosse un altro tipo di persona, diciamo una con i coglioni per davvero e non una che i coglioni li stacca e basta e solo perché glieli mettono a portata di mano, magari potrebbe anche andargli bene, ma se per aprire bocca e dare fiato ai denti si mette seduto e dondola i piedi, ecco, far finta di essere uno che sa come si sta al mondo non gli serve a niente. E' fortunato che Jost lo abbia spedito da lui. Solo due celle più avanti c'è uno che è dentro per stupro. Non lo avrebbe nemmeno fatto finire di parlare.
Bushido è rimasto fermo di fronte alla porta per tutto il tempo, per nulla impressionato.
“Hai finito?” Chiede, quando Bill, finito di usare la bocca a sproposito, la imbroncia cercando di darsi un tono.
“Sì,” risponde.
Bushido annuisce. “Bene,” commenta, un attimo prima di afferrarlo per la maglietta e tirarlo giù sul pavimento. “Allora, tanto per cominciare, questo è il mio letto e se non vuoi che ti prenda a pedate nel culo subito, ti conviene scendere,” gli dice, mentre il ragazzino si raccoglie dal pavimento. Bushido gli fa il favore di riconsegnargli anche la coperta e il rotolo di carta igienica che aveva ordinatamente riposto sul suo materasso. “Secondo, quello che fai fuori di qui sono cazzi tuoi. Se proprio vuoi farti scopare anche dentro la prigione, vai a chiederlo a qualcun altro. A me il tuo preziosissimo culo non interessa.”
Bill si spolvera i pantaloni aderenti e deglutisce forte per la rabbia che gli tende i lineamenti, ma non dice una parola mentre ripone di nuovo le sue cose sul materasso in basso.
“E terzo,” conclude Bushido afferrando con forza le sbarre del letto per riprendersi il suo legittimo posto. “Se non vuoi il mio aiuto, non sarò certo io ad insistere. Vedremo come te la cavi a proteggerti da solo.” Bushido si distende sul materasso e incrocia le braccia dietro la testa. Fissa il soffitto scrostato della cella, fingendo di pensare agli affari suoi e intanto ascolta il ragazzino che si muove piano e incerto per la stanza, mettendo a posto le sue cose. E' silenzioso e profuma un sacco. Bushido avrà un bel da fare ad abituarsi al suo odore ogni giorno per i prossimi mesi.

*

Quando Bill si sveglia, l’indomani mattina, non vede l’ora di uscire da quella gabbia di merda. Tutto, di quel luogo, lo infastidisce a morte. Le grate, le ombre scure agli angoli, il cazzo di rubinetto che gocciola e non ha smesso di gocciolare un secondo scandendo gli attimi di quella notte infinita, lo specchio sbeccato appeso alla parete che gli rimanda la placida immagine di Bushido addormentato, il viso contro la parete, la schiena che si muove appena al ritmo del suo respiro. Odia lui più di tutto il resto, lui e quel suo atteggiamento insopportabile, come se tutto gli fosse dovuto, perfino il rispetto che chiede senza avergli neanche mostrato perché pensa di meritarlo.
Quell’uomo non ha capito niente, di lui. Non sa niente di come ha vissuto, di quello che ha passato e di come è in grado di ridurre un uomo, se solo vuole, dentro e fuori da un letto – o da qualsiasi altro posto in cui sia possibile fare sesso.
Bill sa difendersi da solo. Bill non ha bisogno di nessuno. Tutto quello di cui ha bisogno adesso è poter uscire da questa prigione del cazzo e camminare in silenzio per le strade di Berlino di notte, ma questo semplicemente non accadrà, per cui gli tocca accontentarsi della cosa più simile che possa procurarsi al momento.
Lo fa immediatamente, appena le luci si accendono e le gabbie si aprono. Sente il rumore metallico e netto della serratura che scatta, e scatta anche lui, dritto in piedi, già pronto per uscire, i pantaloni e la maglietta ancora addosso. Non li ha tolti dalla sera prima, si è rifiutato di mettersi comodo, perché farlo avrebbe significato accettare quella sistemazione come definitiva. Non vuole farlo. Lui non appartiene a quella gabbia di metallo e musi duri. Lui appartiene alla notte fredda e alle stelle che puntellano il cielo scuro e spaventoso. È lì che tornerà. In qualche modo ci riuscirà.
Non oggi, però. Non oggi, né domani, probabilmente non fino a quando i dodici anni che deve scontare saranno terminati. Uscendo dalla cella e guardandosi intorno, Bill si fa qualche conto. Lui, di anni, adesso ne ha diciotto. Quando uscirà da quel buco di merda, ne avrà trenta. Mercato rovinato per sempre, dovrà cambiare completamente target e chissà se qualcuno lo vorrà ancora, rovinato come sarà a quell’età.
Sospira, lanciando occhiate disinteressate qua e là, e sta per sedersi ad uno dei tavoli quando una guardia gli si avvicina e gli chiede di seguirlo.
- Perché? – domanda lui, aggrottando le sopracciglia, e la guardia sospira scocciata, sollevando gli occhi al cielo.
- Il direttore vuole vederti. – spiega, - Ora piantala di fare storie e muovi il culo, se non vuoi che ti ci trascini.
Bill serra le labbra, quasi raggomitolandosi sulla sedia. Il suo istinto gli dice di non seguirlo. È un istinto che gli ha insegnato la strada, perché quando batti queste percezioni devi averle per forza. Certo, molto lo fa lo studio, moltissimo l’osservazione, ma ci sono certi uomini che apparentemente non forniscono nessun indizio, certi individui che ad un primo sguardo possono sembrare tranquilli, nient’affatto pericolosi, e che invece sono quelli dai quali dovresti guardarti di più. Sono quelli che possono fare male davvero. Sono quelli che impari ad evitare, perché nessuna quantità di denaro può valere la pena di ritrovarsi con la pancia aperta in due da un coltellino svizzero, o dall’aspettare che i conati di vomito di esauriscano, accasciato in un angolo di strada, dopo essere stato picchiato per ore fino a svenire, o peggio, dal ritrovarsi morto in un fosso senza neanche aver capito come, o perché, e senza che nessuno lo sappia mai, o abbia il minimo interesse a recuperare il tuo corpo.
Bill non è mai andato con qualcuno che gli desse una sensazione simile. A volte arrivavano ad offrire anche parecchio, cifre enormi, cifre che facevano pensare a Bill “che cazzo, non posso rinunciare ad una cosa simile solo per un fottuto presentimento, se invece è una persona normale con i soldi che mi offre campo senza scendere più in strada per i prossimi due mesi…”, salvo poi realizzare che nessuna persona normale offrirebbe tanto denaro per una semplice scopata in qualche lurido buco o in mezzo alla strada.
No, Bill segue sempre l’istinto, Bill con quella gente non ci va, Bill è sopravvissuto bene o male senza traumi troppo grossi proprio per questo motivo. E quest’uomo, questa guardia, gli dà la stessa sensazione, e perciò Bill vorrebbe potergli voltare le spalle ed allontanarsi nella notte come ha sempre fatto per difendersi da questi spaventosi presentimenti, ma stavolta non può. Non può perché non esiste un posto, in questa prigione, in cui lui possa fuggire, o sentirsi al sicuro. Non c’è la sua topaia a proteggerlo dalla strada e dal suo gelo penetrante, o dagli uomini e dal loro calore appiccicaticcio. Perciò, Bill si alza, si lascia ammanettare e segue la guardia fuori dal braccio A, a sguardo basso.
Naturalmente non conosce la prigione, e non sa dove si trovi l’ufficio del direttore – il quale, immagina, vorrà parlargli di quello che ha fatto a quell’altra guardia, probabilmente minacciarlo, che non gli salti in testa di rifarlo con qualche detenuto o, peggio, con un altro agente di custodia – perciò segue docilmente il proprio accompagnatore, cercando di non agitarsi troppo quando gli sembra di stare camminando da troppo tempo. In circolo.
Si fermano davanti a una porticina che Bill è abbastanza sicuro di avere già visto un paio di minuti prima, in mezzo a un corridoio che Bill è quasi certo di aver già percorso. Non può essere la stanza del direttore, perché non c’è neanche una fottuta targhetta, sopra. È una porticina ampia appena a sufficienza per far passare un uomo, è di un colore spento e smorto, lo smalto grigiastro sbeccato in più punti, e un minuscolo vetro opaco attraverso il quale è impossibile scrutare l’interno. La guardia la apre, e Bill vede che la stanza non è altro che uno sgabuzzino.
I polsi ancora stretti e immobilizzati dalle manette, si volta a guardare l’agente di custodia aggrottando le sopracciglia.
- Entra. – dice quello, seccamente.
- No. – risponde Bill, - Questo non è l’ufficio del direttore.
L’uomo stira sulle labbra un ghigno infastidito, ed estrae il manganello dalla propria custodia, appesa al cinturone proprio accanto alla fondina della pistola. Bill ha appena il tempo di realizzare cosa sta per succedere, e poi sente un dolore insopportabile alla base della schiena, il dolore come di qualcosa che si spezza, anche se è abbastanza sicuro di non essersi rotto niente. Ma le gambe gli cedono, gli si mozza il respiro all’altezza della gola e vede bianco all’improvviso, perdendo l’equilibrio e lasciando così alla guardia tutto il tempo ed il modo di spingerlo dentro la stanza con uno strattone violento, per poi entrare dietro di lui e chiudersi la porta alle spalle.
Bill finisce contro un mucchio di scatoloni semivuoti addossati contro la parete opposta. L’ambiente è piccolo, claustrofobico, non c’è modo di scappare. L’uomo non accende la luce, e quindi Bill non può vederlo arrivare. Cerca di aggrapparsi agli scatoloni per mettersi in piedi e provare quantomeno a schermarsi il viso e la testa con le braccia, ma lo scatolone al quale si aggrappa è quasi vuoto e cede immediatamente sotto le sue dita che si stringono convulsamente attorno al bordo, e al peso del suo corpo che sembra improvvisamente essersi raddoppiato, triplicato, quadruplicato, da quando la botta alla base della schiena gli ha messo fuori uso le gambe.
La guardia gli si avvicina – gli basta un passo – e comincia a picchiarlo col manganello. È buio, e non può vedere dove lo colpisce, ma Bill ha come l’impressione che non gli importerebbe anche se la luce fosse accesa. Si prende una manganellata sulla tempia, una sulla spalla, parecchie sulle braccia e poi una, più forte delle altre, sulla nuca. Vorrebbe svenire, o crepare, ancora meglio, ma nessuna delle due cose succede. Il colpo lo lascia rintontito, confuso, ma cazzo, fottutamente vigile. Si accascia sul pavimento, accartocciato nei pochi centimetri di spazio che le scope e gli strofinacci gli lasciano libero, e resta lì con gli occhi sbarrati, il dolore che gli esplode nel corpo come un bombardamento, e nessuna capacità di muoversi, neanche per urlare o piangere, mentre l’agente lo prende a calci sulla pancia, sui fianchi, sulla schiena, fra le gambe.
- Questo è per Jäger, stronzo figlio di puttana che non sei altro. – urla, continuando a picchiarlo, - E stai attento a dormire con un occhio solo, la notte, perché prima o poi ti strappo le palle nel sonno, testa di cazzo, così magari lo capisci quello che cazzo hai fatto.
Bill perde il senso del tempo. Dopo un po’, tutte le sue percezioni fisiche cominciano a farsi sbiadite, distanti. La voce dell’uomo si abbassa di volume, anche il dolore diventa meno pressante e intollerabile, è solo un’eco lontana. Bill trova perfino la forza di piegare l’angolo delle labbra in un sorriso sereno. Forse finalmente è la fine, forse sta crepando, forse riuscirà ad essere libero, finalmente. Non ci sarà più una prigione di metallo a costringerlo, ed anche la sua prigione di strade, fuori da lì, sarà finalmente dimenticata per sempre.
E invece no.
La guardia smette di picchiarlo, una volta soddisfatta la sua rabbia, e si allontana, col fiatone. Recupera uno degli strofinacci appoggiati su uno scaffale, trovandolo un po’ alla cieca e facendo cadere una bottiglia di detersivo che atterra sulla testa di Bill – lui nemmeno la sente, ovviamente – e ripulisce il proprio manganello, scaraventandogli lo strofinaccio sporco di sangue sul viso subito dopo. L’odore metallico e penetrante del sangue dà a Bill la nausea istantaneamente, ma non ha ancora recuperato abbastanza forza o capacità di muoversi per potersi lamentare.
La porta si apre, e Bill la vede appena. La guardia esce, e lo lascia lì riverso per terra. Lo trova un inserviente, più di un’ora dopo.
- Porca puttana. – sibila, e Bill, che ha tenuto gli occhi chiusi fino a quel momento, li riapre, e lancia un urlo devastante quando il tipo lo afferra da sotto le ascelle e lo rimette in piedi, per portarlo in infermeria.
Non male, come inizio.

*

Resta in infermeria una settimana. Ne odia l’odore, odia tutti i detenuti nei lettini attorno al suo, odia i medici e gli infermieri che lo trattano con supponenza, lo toccano appena, difficilmente lo curano. Lo lasciano semplicemente lì disteso, lo puliscono quando se la fa addosso perché non riesce a muovere le gambe abbastanza da arrivare fino al cesso, e poi aspettano che il suo corpo faccia tutta la fatica di rimettersi in sesto da sé.
- Sei giovane, - gli dice il medico che lo visita distrattamente il terzo giorno, verificando la buona strada di guarigione intrapresa dai suoi tagli e lanciando occhiate disinteressate agli ematomi che lo ricoprono per un buon novanta percento su tutto il corpo, - per due schiaffetti, non vale neanche la pena di tenerti qui troppo a lungo.
Bill vorrebbe sgranare gli occhi e rispondere “due schiaffetti?”, ma è abbastanza sicuro che non otterrebbe niente a parte uno sguardo gelido, ed in ogni caso è contento di potere uscire da lì prima possibile. Ha sempre odiato gli ospedali, l’ansia che gli mettevano addosso, il loro odore di malattia e morte e paura e medicinali. L’odore insopportabile dei guanti in lattice, poi, o quello delle garze disinfettate. È nauseante. Le rare volte in cui s’è messo nei guai abbastanza da avere bisogno di cure mediche, si è sempre assicurato di potersi rimettere abbastanza in fretta da lasciare l’ospedale dopo al massimo un paio di notti, anche se per questo gli toccava dover fingere di stare meglio di quanto in realtà non stesse.
Qui non può farlo, e piano piano i giorni si accumulano, diventano quattro, poi cinque, poi sei, e Bill non ne può più. Un giorno, il detenuto che porta il pranzo e la cena ai ricoverati dalla mensa si sofferma con lui un po’ più a lungo. È un uomo basso, tarchiatello, pelato, dal viso stranamente rassicurante, forse a causa degli occhi chiari dallo sguardo limpido. Bill non lo conosce, ma d’altronde non ha passato abbastanza tempo fra gli altri detenuti per poter dire di conoscere qualcuno, a parte Bushido.
- Ciao, - lo saluta l’uomo, organizzandogli il vassoio in grembo, per potergli servire il suo pasto, - io sono Chakuza. Bushido manda i suoi saluti.
Bill aggrotta immediatamente le sopracciglia, serrando le labbra in una smorfia infastidita.
- Puoi dirgli di ficcarseli su per il culo. – risponde acido, e Chakuza ridacchia, posando il piatto col pollo in mezzo al vassoio e sistemandogli attorno le posate e il bicchiere per l’acqua, lasciandogli un piattino con le verdure sul comodino.
- Può essere indisponente, alle volte. – commenta.
- Non me ne frega un cazzo. – ribatte Bill, - Non li voglio, i suoi saluti di merda.
- Mi ha detto anche di riferirti… aspetta, com’è che ha detto? - aggiunge l’uomo, fingendo di soffermarsi a pensare e picchiettandosi il mento con l’indice mentre piega le labbra in una smorfia ironicamente riflessiva, - Ah, sì: gran lavoro stai facendo, nel proteggerti da solo. – sogghigna, - Così ha detto.
Bill digrigna i denti, furioso.
- Vaffanculo. – risponde, - Tu e lui. – conclude, e getta il vassoio in terra con un ringhio stizzito.
Chakuza ridacchia e non fa una piega. Chiama un inserviente per pulire il disastro combinato da Bill per terra, e poi si allontana, per portare il pranzo agli altri detenuti.
All’alba del settimo giorno, i progressi di Bill sono sufficienti da permettergli di deambulare sulle proprie gambe, pur con una certa fatica. Due infermieri lo mettono in piedi, gli riconsegnano i propri vestiti e poi chiamano due guardie perché lo scortino fino al braccio A. Bill cammina lentissimo in mezzo a loro, e per tutto il tempo il cuore gli batte tanto forte che potrebbe esplodergli. È paura, Bill la riconosce. Continua a guardare con attenzione ogni angolo, ogni corridoio, ogni incrocio, per essere certo che i due non lo stiano facendo girare in tondo per poi ficcarlo in uno sgabuzzino e finire l’opera del compare, e quando finalmente vede l’enorme cancello che è l’ingresso del suo braccio esala quasi un sospiro di sollievo. Lo inghiotte subito, quando si ricorda che non c’è proprio niente di cui essere sollevato.
Si trascina faticosamente nella propria cella, lasciandosi andare sul letto e ringraziando mentalmente per non avere insistito nel pretendere quello di sopra. Chiude gli occhi e dorme, per la prima volta in sette giorni. In infermeria era sempre sotto antidolorifici, e si sentiva confuso, per la maggior parte del tempo. Non sentire gli arti lo terrorizzava. Chiudere gli occhi sembrava spaventoso come condannarsi a morte. Adesso riesce quantomeno a sentire tutto. E fa tutto piuttosto male, ma almeno è rassicurante abbastanza da potersi concedere di chiudere gli occhi e assopirsi. Sa che, in caso di pericolo, il dolore lo sveglierà e renderà i suoi sensi abbastanza acuti da poter fronteggiare il problema. O almeno lo spera.
Problemi, comunque, non se ne presentano. Quando riapre gli occhi, dev’essere già notte fonda, perché le luci sono spente, la gabbia è chiusa e non si sente volare una mosca, a parte il ronzio silenzioso del russare pacato di Bushido. Bill si mette a sedere e gli sfugge un gemito di dolore. La schiena fa ancora male. Bushido si sveglia immediatamente, Bill lo sente muoversi sul materasso e poi gettare le gambe nel vuoto per saltare a terra, e impreca sottovoce perché avrebbe preferito risparmiarsi questo momento, quello in cui questo stronzo di merda rigirerà il coltello nella piaga dandogli del coglione con tutte le ragioni per farlo.
“D’accordo,” pensa Bill, “andiamo,” e solleva gli occhi, aggrottando le sopracciglia in una smorfia scontrosa. Bushido lo guarda con una certa severità, le braccia incrociate sul petto, e resta in silenzio a lungo.
- Be’? – lo invita quindi Bill, il tono strafottente, - Coraggio, lo so cosa vuoi dirmi.
Bushido inarca un sopracciglio, e poi parla.
- Il direttore ha deciso di lasciarti a riposo per un altro paio di giorni, - dice, - finché non ti rimetti. Dopodiché, verrai assegnato alla mensa, e lavorerai con me e i miei ragazzi. Questo è quanto. – conclude, e poi si arrampica nuovamente al proprio posto.
Si riaddormenta quasi subito. Bill mormora un “vaffanculo” fra i denti, e poi torna a stendersi a propria volta, ma non chiuderà occhio per tutto il resto della notte.

*

I due giorni successivi gli passano addosso come polvere. Nemmeno li sente. Il dolore diminuisce, piano ma considerevolmente, e quando il secondo giorno riesce a trascinarsi in mensa per il pranzo – dopo aver digiunato per tutto il giorno precedente – riesce a sentirsi perfino abbastanza orgoglioso di sé.
Si guarda intorno con curiosità ed osserva il luogo in cui, da domani, comincerà a lavorare. La sala è enorme, ci sono tre grandissimi tavoli di metallo sistemati parallelamente in verticale, ed altri due sui due lati corti opposti della stanza, posizionati in orizzontale. L’effetto è abbastanza straniante, ma non fastidioso. C’è una certa idea di ordine che lo intriga. E poi sembra tutto molto pulito, che è una cosa sempre piacevole dopo aver passato una settimana in infermeria a rotolarti nel piscio e nel tuo stesso sangue.
Recupera il proprio pranzo e si siede in un angolo, lontano da qualsiasi cosa possa essere definita un gruppo. Non ha interesse a sviluppare relazioni con gli altri detenuti, e comunque non sta ancora abbastanza bene da poter considerare l’interazione sociale come un’opzione valida. A metà del purè di patate, cominciano a dolergli le ossa. È la posizione, immagina, sta seduto e con le spalle piegate per cercare di attirare meno attenzione possibile, e la sua schiena – abituata a restare perlopiù in posizione sdraiata negli ultimi giorni – non può sostenere il peso del suo corpo troppo a lungo. Lascia perdere il cibo, perché il dolore gli sta togliendo la voglia di mangiare, e comincia a prepararsi mentalmente al calvario che sarà alzarsi in piedi e percorrere il lungo corridoio che separa la mensa dal braccio A. Sta per alzarsi, quando sente addosso gli occhi di qualcuno, e nel guardarsi intorno scopre che si tratta di due detenuti che parlottano fra loro, ghignano, ridacchiano e lo indicano con evidenti cenni del capo. Aggrotta le sopracciglia e sporge il mento con aria strafottente, quando i ghigni e i gesti dei due cominciano a farsi troppo insistenti e allusivi.
- ‘Cazzo volete? – ringhia esasperato, e uno dei due gesticola indicando prima se stesso, poi il suo compare, poi Bill, e infine mimando un atto sessuale spingendo l’indice di una mano attraverso un cerchio formato da indice e pollice dell’altra mano. Bill rotea gli occhi, lascia andare uno sbuffo parzialmente annoiato e parzialmente esasperato, e solleva il medio. I due scoppiano a ridere e lui si riserva il diritto di considerare chiusa la questione, perciò si alza in piedi, svuota i resti del proprio vassoio nel cestino e poi comincia a muoversi lentamente verso il braccio.
Quando arriva in sala comune, gli viene quasi da piangere. Un po’ perché ce l’ha fatta, un po’ perché tutto il corpo gli fa male da impazzire. Ci ha messo tanto di quel tempo, a camminare, che per il momento in cui arriva la sala comune è già quasi tutta piena, perché anche tutti gli altri detenuti hanno già fatto ritorno. Bill cerca un tavolino vuoto al quale sedersi, ma non ne trova. I pochi posti liberi sono a tavoli già occupati, e lui non vuole avere a che fare con nessuna di quella gente.
Decide di tornare in cella, ma in questo momento non può muovere un passo in più. Non ce la fa proprio. Ha bisogno di respirare, di calmarsi, di riposarsi un attimo, perciò si lascia andare in un angolino per terra e si fa piccolo piccolo, stringendo le ginocchia al petto e raggomitolandosi in una palla, sperando che nessuno lo noti e tutti lo lascino in pace.
È una speranza vana, e se non altro Bill dovrebbe avere imparato almeno quello, nel corso dei suoi primi dieci giorni scarsi di permanenza in prigione, ma in qualche modo riesce comunque a sentirsi stupito quando sente qualcuno richiamare la sua attenzione e, nel sollevare lo sguardo, si rende conto che sono i due detenuti che ci hanno provato prima in mensa. Il più alto e grosso dei due ribadisce l’offerta, e Bill li fissa entrambi, incredulo.
- Sono ridotto una merda. – fa presente, allargando le braccia e mostrando il viso e il collo ancora pieni di ematomi, - Come cazzo fa a venirvi voglia di scoparmi? Io non lo so.
- Non rompere il cazzo, adesso. – dice il tizio più basso, allungandosi a cercare di afferrarlo per una spalla, probabilmente per tirarlo su e trascinarlo in un luogo più appartato. In un movimento del tutto istintivo, Bill allunga entrambe le gambe e gli tira un calcio su uno stinco, abbastanza forte da costringerlo ad allontanarsi con un lamento, per poi tirare su la gamba dolente e massaggiarla con entrambe le mani. La soddisfazione di averlo costretto a saltellare ridicolmente su un piede solo per il dolore dura non più di una manciata di istanti, però, perché subito gli effetti del movimento improvviso si fanno sentire, sotto forma di una scarica elettrica di dolore concentrato che si accende alla base della sua schiena e si arrampica lungo tutta la sua spina dorsale, annebbiandogli la vista e scombinandogli il cervello.
Bill cerca di muoversi, ma fa fatica a respirare e questo lo confonde ancora di più, e la parete è liscia, troppo liscia, non gli offre alcun appiglio, e pochi secondi dopo, quando lui è riuscito a piegarsi sulle ginocchia e sta cercando in qualche recondito anfratto del proprio corpo la forza sufficiente per puntare un piede a terra e sollevarsi in piedi, uno dei due detenuti comincia a prenderlo a calci nello stomaco, e poco dopo si aggiunge anche l’altro, e Bill pensa chiaramente no basta cazzo non ne posso più ammazzatemi o toglietevi dalle palle non le reggo più le botte non la reggo più la nausea non reggo più un cazzo voglio morire ammazzatemi ammazzatemi ammazzatemi cazzo o lasciatemi in pace, e non ha idea di quanto tempo duri quella tortura, ma sa che ad un certo punto s’interrompe bruscamente, e lui si ritrova riverso a terra, ancora vivo, scosso dai tremiti di paura e dolore, e i due detenuti hanno fatto un paio di passi indietro, e a frapporsi fra lui e loro c’è un uomo che non ha mai visto prima, e che quando parla fa sbiancare quei due con una facilità che a giudicare dalla sua stazza – è magro, e decisamente non alto – non ha alcun motivo di esistere.
- Avanti, ragazzi, le conoscete le regole. – li rimprovera con fare paternalistico, - Fuori dal braccio, potete fare il cazzo che volete. Qui dentro, però, non deve volare una mosca. Io per me vi lascerei pure divertirvi, - aggiunge sollevando le braccia, - ma Bushido, lo sapete, lui non è magnanimo come me. Fossi in voi, mi terrei alla larga. – conclude, annuendo compitamente. Bill trova forza sufficiente a tenere aperti gli occhi e seguire la scena, ma si azzarda a rimettersi seduto, raggomitolandosi tremante in un angolo, solo quando i due si sono allontanati abbastanza da non rappresentare più una minaccia.
Il tipo si volta verso di lui, avvicinandosi con aria circospetta. Si muove in maniera strana, vagamente scimmiesca, forse, anche se comunque sta moderatamente dritto e non ciondola. Ha solo un’aria particolarmente svagata e assurda, probabilmente motivata dai ridicoli baffetti che disegnano un arco sul suo labbro superiore.
- Ohi, stai bene? – gli domanda, e Bill lascia andare una risata amara che dura il tempo di capire che ridere fa troppo male.
- Secondo te? – domanda con supponenza, tirando su col naso e sentendo sulla lingua il sapore del sangue, - Cristo, odio questo posto. Non ne posso più di essere picchiato. – si lamenta, guardando per terra e stringendosi nuovamente le ginocchia al petto. il tizio si siede al suo fianco, una gambe distesa sul pavimento, l’altra piegata, a fare da appoggio per il braccio.
- Se ti unissi al gruppo di Bushido, non avresti più problemi. – considera, scrollando le spalle con naturalezza.
- Sì, il problema è che non voglio. – ribatte Bill in un mezzo ringhio, - Non me ne frega un cazzo di queste beghe da coglioni e da stronzi. Fate la voce grossa, ma siete chiusi in una fottuta prigione. E questo Bushido poi chi cazzo sarebbe, un qualche boss o qualcosa del genere? Be’, non governa un cazzo, a parte una decina di stronzi come lui, teste di cazzo abbastanza grosse da farsi beccare come stupidi.
Il tipo lo ascolta con attenzione e poi scrolla le spalle un’altra volta, per nulla colpito dalla sua arringa.
- Qualsiasi posto sia quello in cui uno vive, - spiega, - la cosa importante è averne il controllo, capito? Così ti eviti di venire abbordato da due troie come quelle, che poi perdono il controllo, e magari ti risparmi di finire picchiato ogni volta che cambia il vento. Io, comunque, sono Eko Fresh, ladro specializzato in furti e rivendita di automobili di lusso. – si presenta, porgendogli la mano. Bill la squadra con disinteresse ed inarca un sopracciglio, decidendo di non stringerla.
- Bill Kaulitz, puttana, specializzato in prenderlo su per il culo e staccarlo a morsi a quelli che glielo infilano a forza in gola. – procede sulla sua stessa falsariga, prendendolo in giro, - Ti basta, come curriculum?
Eko si mette a ridere, annuendo.
- Sono capacità sempre utili, specie in prigione. – dice con trasporto, come se per lui la faccenda fosse incredibilmente seria. – Comunque, Bushido ci ha spiegato che vuoi essere lasciato in pace. Se vuoi il mio parere, non sei capace di farti lasciare in pace, e neanche ti conviene, ma ehi, - scrolla le spalle un’altra volta, sollevando entrambe le braccia in un gesto di resa, - ognuno è padrone del proprio destino.
- Se il tuo capo del cazzo ti ha spiegato che non voglio balie intorno, perché ti sei messo in mezzo? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia, infastidito.
- Ah, ma quella è una questione completamente differente. – risponde Eko, scuotendo il capo, - Non l’ho fatto per te, l’ho fatto perché noi teniamo ordine nel braccio. Per “noi” intendo “il gruppo di Bushido”, e per “tenere ordine nel braccio” intendo… - ci riflette un paio di secondi, - be’, tenere ordine nel braccio. – conclude annuendo. – Se ti serve qualcosa, in ogni caso, io o uno dei miei compari possiamo darti una mano. C’è Baba Saad, - dice, indicando un tizio impegnato a confabulare di qualcosa con Bushido ad un tavolo, - che è il braccio destro di Bu.
- Bu? – domanda Bill, inarcando un sopracciglio e faticando a trattenere l’impulso di scoppiare a ridere, riuscendoci solo riportando a galla il ricordo di quanto gli avesse fatto male lo stomaco quando ci aveva provato poco prima.
- Sì, ma tu non chiamarlo mai così. – lo avverte Eko Fresh, - S’incazza anche con noi, quando lo facciamo, figurarsi cosa non farebbe con te. Poi, vediamo, ci sono Fler e il Chaku, Chakuza. – continua, indicando due tizi seduti accanto davanti alla tv, che ridono come deficienti per le battute di qualche stupido comico nel programma che sta andando in onda. – Fler fuori si occupava di corse clandestine e spaccio. Il Chaku invece era un individuo pericoloso. Ammazzava la gente, sai. Col cibo. Era uno chef.
- Non doveva essere granché bravo, allora. – ipotizza Bill, ed Eko scoppia a ridere.
- Ma no, - spiega, - era la sua copertura. Serviva i pasti, ed invece di condirli solo con le spezie, aggiungeva giusto quel tocco di cianuro. In modo da rendere la cena indimenticabile, capito come? – aggiunge ridacchiando, e facendogli l’occhiolino. Bill sbatte le ciglia un paio di volte, decisamente poco impressionato dalla battuta.
- E gli permettono di lavorare in cucina? – domanda.
- Ah! – esclama Eko, - Lo conosci, dunque.
- Portava il cibo in infermeria mentre ero ricoverato. – scrolla le spalle lui, - Cibo, e fastidiosi saluti da parte del vostro stupido capo.
Eko annuisce compunto, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido ci tiene, alla buona educazione. – commenta, e Bill rotea gli occhi. – Comunque, questi che ti ho detto, be’, sono i buoni. – Bill lo guarda con inequivocabile ironia, ed Eko tossicchia, schiarendosi la voce, - Intendo, i meno cattivi dei cattivi. Se devi tenerti alla larga da qualcuno, quel qualcuno è Sido. – dice, indicando un tizio con gli occhiali e l’aria da nerd sfigato, seduto ad un tavolo con altre due persone. – Lui gestisce il traffico della droga e delle sigarette in tutta la prigione. Bushido glielo lascia fare, a patto che lui non crei problemi. Ma non è che Sido si diverta, a fare il sottoposto di Bushido, per cui bisogna sempre tenere gli occhi aperti.
- Ti ho già detto che a me di queste stronzate non frega un cazzo. – ribadisce Bill, tornando a raggomitolarsi su se stesso. Eko annuisce.
- Sì, ma io te lo dico perché è importante conoscere il luogo in cui si vive, se non lo si può comandare. Tieniti alla larga da Sido e da quei due lì, B-Tight e Tony D. Era gente che faceva roba sporchissima, fuori, e sarebbero perfettamente in grado di ricominciare a farla anche qua dentro, se si trovassero davanti all’occasione giusta.
- Va bene, d’accordo. – sospira Bill, guardando altrove, - L’hai finita la lezione? Mi sto annoiando.
Eko aggrotta le sopracciglia, offeso.
- Sai, - borbotta, alzandosi in piedi, - sei indisponente.
Si allontana senza una parola di più, e Bill sospira sollevato quando lo vede tornare a sedersi accanto a Bushido, al tavolino che divide con Saad. Dopodiché, cerca di spingersi in piedi facendo pressione sulle gambe, utilizzando tutta la poca forza che ancora gli resta, e si trascina in gabbia, lasciandosi ricadere sul letto come un peso morto.
Ripensa al primo giorno in cui s’è svegliato in quella cella e tutto ciò che voleva era uscirne il prima possibile. Ora, vorrebbe poterlo non dover fare mai più.

*

Jost firma documenti da quattro ore e non si sente più la mano.
I detenuti sono convinti che il suo ufficio sia una stanza dei bottoni dalla quale potrebbe far piovere oro, se solo lo volesse. La verità è che lui è solo un impiegato statale con una penna stilografica molto costosa. Dopo aver ascoltato i suoi collaboratori e aver preso decisioni per questioni di cui non ha esperienza di prima mano, il resto del suo tempo è diviso tra l'occuparsi delle cause legali che sono attualmente in corso per e contro il penitenziario – che sono un numero esageratamente alto – e cercare di seguire le direttive dei piani alti che sono spesso contraddittorie e seguono il soffio del vento.
Quando finalmente alza la testa dalla pila di fogli che non accenna ad esaurirsi, è solo perché hanno bussato alla porta. Una delle guardie lo avvisa che Ferchichi chiede un colloquio. Jost si appoggia allo schienale della poltrona in pelle e si massaggia gli occhi stanchi. “Fallo entrare,” dice, consapevole di aver appena permesso all'ennesimo problema di mettersi in fila insieme a tutti gli altri che deve ancora risolvere. Il tunisino non è mai latore di buone notizie.
“Che cosa vuoi?” Gli chiede, non appena quello mette piede in ufficio, trascinandosi svogliatamente fino alla solita zona di sicurezza a qualche metro dalla scrivania. La guardia di sicurezza si ritira ad un suo cenno.
“Ma come, David, non mi saluti nemmeno?” Ghigna lui, piegando la testa di lato e guardandolo con strafottenza.
“E' Jost per te, Ferchichi,” gli ricorda.
“Allora tu chiamami Bushido.”
Jost è direttore del penitenziario da più tempo di quanto sia effettivamente sano ed ha imparato che a volte con i detenuti è meglio trattare che non pretendere. Ma questa non è una di quelle volte. “C'è un motivo per cui ti trovi qui, Ferchichi o hai lasciato il tuo regno incustodito solo per venire fin qui a ricordarmi come ti chiami?”
“Il mio regno è ben sorvegliato, non si preoccupi,” Bushido sposta il peso da un piede all'altro e solleva le mani bloccate dalle manette per grattarsi il naso con l'indice. “Sono qui perché la sua bambolina non se la passa tanto bene.”
“La mia bambolina? …Intendi Kaulitz?””
Bushido mastica lo stecchino che tiene sempre incastrato tra i denti. “Sì, lui,” annuisce. “Non ce l'ha un altro posto dove metterlo? Se continua così, quello non supera la settimana.”
“Pensavo che il medico lo tenesse in infermeria.”
“C'è stato,” Bushido muove entrambe le mani a sinistra e poi le sposta di nuovo a destra. “Ma poi è tornato in prigione con tutti gli altri. Ed è qui che cominciano i casini.”
Jost sospira e si passa una mano sugli occhi; non che serva a qualcosa ma lo aiuta a tenersi occupato mentre Ferchichi gli racconta quello che già si era aspettato. “Che cos'è successo?”
“Niente, ancora,” dice lui. “Ma succederà e non sono sicuro che sarà un bel vedere. Quello non può andarsene in giro per i cazzi suoi senza che qualcuno gli metta gli occhi addosso, Jost. I guai se li tira addosso anche solo respirando. Senza contare che è una testa di cazzo, quindi non ha nemmeno abbastanza cervello per evitarli.”
“Se non mi sbaglio, tu e i tuoi dovevate tenerlo d'occhio.”
Bushido sposta lo stecchino da un lato all'altro della bocca. “Ci abbiamo provato, ma a quanto pare il ragazzino non gradisce la nostra protezione,” risponde, con un sospiro falsamente contrito. “E un paio delle sue guardie non ha familiarità con il concetto di etica professionale.”
Lo sguardo di Ferchichi è apertamente accusatorio, ma Jost preferisce soprassedere perché non ha né il tempo né la voglia di discutere al riguardo. Scuote il capo e si stringe nelle spalle. “Purtroppo non c'è molto che posso fare. Gli hanno dato dodici anni e deve passarli qui.”
“E' questa la nuova politica del penitenziario per diminuire il numero dei detenuti? Lasciarli al proprio destino sperando che crepino prima della fine della condanna?” Chiede Bushido, con noncuranza e come se, in effetti, la situazione dei suoi colleghi gli interessasse qualcosa.
Lui ha sempre accettato le cose per come stavano fin da quando è arrivato, salvo il fatto che ha preso il comando della situazione non appena ha messo piede nel braccio; per il resto, però, non si è mai mosso per migliorare le condizioni sue o degli altri detenuti, tutt’al più ha promesso di non farle peggiorare. E' per questo che Jost lo usa come mediatore: il suo attaccamento allo status quo è già più di quanto possa chiedere a qualunque altro detenuto.
“A te non è mai fregato niente di come vivete qua dentro.”
“Qua dentro,” annuisce Bushido, “inteso come la prigione in generale, ma non nella mia cella. Sono piuttosto interessato a che ne è di quei due metri di spazio in cui sono costretto a vivere.”
Jost sente l'emicrania partire dalla base del collo e risalirgli il cervello, pronta ad esplodere inesorabile in uno di quei mal di testa in grado di stenderlo su un divano per giorni. “Non ti seguo, Ferchichi,” geme, aprendo un cassetto laterale della scrivania e cercandovi dentro a casaccio, sicuro che ci sia una qualche pillola sparsa in grado di aiutarlo. “Cerca di farla breve. La vedi quella pila di fogli davanti a te? Aspetta ancora che ci lasci l'autografo.”
“Il ragazzino ha pensato bene di salvare il culo chiudendosi in cella,” spiega Bushido. “Non ne esce da giorni e io vorrei evitare che morisse di consunzione nel letto sotto al mio.”
“E che cosa vuoi che faccia? Non posso trascinarlo fuori di lì se non vuole.”
Bushido gli riserva uno dei suoi sorrisi storti. “Non avevo dubbi che l'avresti detto, David.”
“Jost.”
“Voglio il permesso di portare del cibo in cella,” spiega Bushido. “Per lui, s'intende.”
“Per lui, certo,” ripete Jost. La precisazione strappa un sorriso anche al suo mal di testa. “Sai perfettamente che non sono ammessi favoritismi.”
Bushido annuisce. “Conosco il regolamento,” annuisce. “Lo consideri una misura precauzionale. Se si sente male, sarà considerato un tentativo di suicidio. E lei sa meglio di me che è più facile gestire uno strappo alla regola che l'opinione pubblica.”
Jost lo sa molto bene. I cittadini desiderano sentirsi al sicuro, non vogliono i ladri, gli stupratori e gli assassini liberi per strada. Li vogliono dietro le sbarre e solo allora, quando non minacciano più i loro quartieri – quando in sostanza non sono più affare loro – sono subito disposti a dimostrare pietà e ad accusare la polizia carceraria di qualunque cosa accada. Se per qualche motivo un detenuto ne accoltella un altro oppure si appende per la gola, quelli non sono più il truffatore o l'assassino che fino al giorno prima dovevano essere mandati a morte. Sono vittime di un sistema carcerario violento e disumano. Ed ecco i picchetti, le petizioni, gli scioperi della fame di gente legata ai cancelli del penitenziario, gente che urla e strepita finché un politico non interviene per concedere la grazia prima delle prossime elezioni.
Jost è consapevole che le sue guardie non sono stinchi di santo, ma sa che fra le mura della prigione c'è sempre una forte tensione generata da un gran numero di uomini rinchiusi in un unico posto senza la possibilità di sfogarsi in alcun modo e con la sola compagnia di poliziotti che odiano per principio e di altri detenuti con i quali, quasi sicuramente, hanno qualche conto in sospeso. E' fisiologico che gli incidenti capitino e, per quanto lui cerchi di stare attento, è umano anche lui. Solo che, apparentemente, questa non è una giustificazione valida con cui rispondere ad un tentato suicidio, nel caso.
“Credi davvero che potrebbe aiutarlo?” Chiede Jost.
“Se è ancora vero che chi non mangia da giorni ha fame...”
Jost ha già preso un foglio bianco per scarabocchiarci velocemente sopra l'autorizzazione. “E va bene, facciamo questo esperimento,” gli dice, richiudendo la stilografica ma tenendosi il permesso che non rimane a Bushido, naturalmente, ma va ad infilarsi nella cartella di documenti che giornalmente lascia il suo ufficio per essere fotocopiata, inviata in triplice copia e poi archiviata dalla sua segretaria. “Torna pure con gli altri, avverto io le guardie.”
L'agente di custodia che ha accompagnato Bushido fino all'ufficio del direttore viene richiamato perché lo scorti di nuovo all'interno del penitenziario.
Bushido conosce ormai la strada a memoria, così avanza docilmente, un passo dopo l'altro, senza bisogno che la guardia alle sue spalle lo spintoni o gli dica di darsi una mossa. Non ci vede niente di ribelle nel piantarsi a gambe larghe in mezzo ad un corridoio come un mulo recalcitrante solo per dare a vedere che se ne frega degli ordini. Lui non ha bisogno di queste ridicole manifestazioni di testardaggine per farsi valere e lo ha insegnato anche ai suoi ragazzi, così che si distinguano fin da subito dalla feccia che segue Sido come le mosche la merda.
Quando arriva, la cella è silenziosa e il ragazzino è così raggomitolato in un angolo che alla prima occhiata nemmeno lo vede. Se ne sta seduto in terra, tra il cesso e il lavandino, le gambe strette al petto e lo sguardo fisso e un po' vacuo che gli ha visto addosso ogni giorno durante l'ultima settimana.
“Beh, se volevi disperarti e lasciarti morire, potevi anche farlo sul letto, sai?” Lo apostrofa, facendo un passo all'interno e lasciando che la guardia gli chiuda la porta alle spalle. Il ragazzino gli dedica appena un'occhiata ma non dice una parola mentre Bushido si volta e porge i polsi alla guardia attraverso le sbarre. “Ti spiace?” Chiede, con un sorriso sghembo. “I braccialetti cominciano a stringere.”
L'uomo sbuffa una mezza risata e lo libera dalle manette, poi si allontana facendo un cenno ad entrambi. “Fate i bravi, là dentro.”
“Hai sentito?” Bushido si rivolge di nuovo al ragazzino, ripiegando un po' le maniche della camicia. “Dovresti comportarti a modo e sederti come un essere umano.”
“Si può sapere tu che cosa cazzo vuoi?” Sbotta Bill.
Bushido non si scompone. “Fa piacere sapere che non ti è scomparsa la voce e che la usi sempre per dire cose tanto piacevoli,” lo prende in giro.
“Senti, non ho nessuna voglia di-”
“Sta' zitto, fammi il favore. Ti ho portato da mangiare,” dice Bushido, tirando fuori dalla tasca qualcosa avvolto in tovaglioli di carta e una di quelle bottigliette di plastica in cui viene distribuito il succo frutta. “Spero che tu non sia allergico alle fragole, perché questo era l'unico rimasto.”
Bushido appoggia il cibo sul letto di sotto e lo spinge verso il ragazzino, quindi si appoggia al tavolo che c'è nell'angolo della cella e resta in attesa. “Mangia,” ordina con un cenno del capo dopo che si è allontanato abbastanza da lasciar intendere che questo è il massimo dell'interazione che ha previsto con lui.
Bill rimane immobile per un lungo istante e poi allunga una mano a recuperare il fagotto. “Com'è che tu puoi portare cibo in camera?” Chiede sospettoso mentre svolge l'involucro di carta e ne estrae un panino rotondo e straripante di ripieno.
“Ho un permesso speciale” spiega Bushido. “Ma fossi in te non mi farei vedere.”
Lo stomaco di Bill fa le capriole di fronte a quel ben di Dio e, anche se vorrebbe continuare a fregarsene, il ruggito inarrestabile del proprio stomaco lo costringe a cedere. Il primo morso gli fa quasi salire le lacrime agli occhi, tanto che si ritrova a mugolare compiaciuto. “Questa non è come la merda che servono in sala mensa,” commenta. “Dove l'hai trovato?
Bushido sorride. “L'ho fatto fare a Chakuza appositamente per te.”
Bill allontana subito il panino dalla bocca e si chiede se è ancora in tempo per vomitare anche il morso che ha già mandato giù.
Bushido scoppia a ridere. “Tranquillo, è buono. Fidati,” gli dice. “L'ho fatto preparare a lui perché per poter avvelenare i cibi, prima doveva prepararli. Ed è un ottimo cuoco.”
Il ragazzino ci pensa su qualche istante e osserva il panino con la stessa diffidenza con la quale guarda Bushido. Quel tipo potrebbe volergli mettere le mani addosso un giorno o l'altro, ma di sicuro non ha alcun motivo per volerlo morto. E poi con tutti gli uomini che ha in giro per la prigione, perché prendersi la briga di portargli del cibo avvelenato in camera? Tanto valeva farlo ammazzare da qualcuno una delle tante volte che lo hanno pestato.
“Mangia, ti ho detto,” ripete Bushido, più severamente. “Il panino è a posto. Il direttore sa che ti ho portato del cibo, quindi se adesso cadi in terra morto stecchito, lui saprà che ti ho ammazzato io. Sei più tranquillo adesso? Forza.”
“Ora sì che mi sento più sollevato, sapendo che finirai in isolamento se crepo,” commenta ironico Bill, però tira un altro morso al panino. “Come fa uno come Chakuza ad avere il permesso di lavorare nelle cucine?”
“Infatti non ci lavora,” Bushido si stringe nelle spalle e, visto che Bill sta mangiando, può anche arrampicarsi sul suo letto e stendersi lì, con le braccia dietro la testa. “Porta solo i pasti in infermeria, ma se si vuole fare qualcosa, il modo lo si trova.”
Per qualche minuto sulla cella cade il silenzio, interrotto soltanto dal ruminare di Bill che si è evidentemente lasciato andare alla fame e sta divorando il cibo come non ne vedesse da giorni, cosa che in effetti non fa. Bushido attende pazientemente che il ragazzino abbia finito e, quando quello finalmente si alza in piedi, gli rivolge la parola senza nemmeno voltarsi a guardarlo. “Pensi di passare qui dentro tutti gli anni che ti hanno dato?”
“E anche se fosse?”
“Se così fosse ti direi che non mi pagano per portarti da mangiare,” risponde. “Tienilo a mente mentre cerchi di usare i tuoi super-poteri per campare dodici anni senza mettere in bocca neanche un pezzo di pane.”
Bill si stende sulla sua branda, il viso rivolto verso il muro di fronte a sé, reso più scuro dall'ombra del letto di sopra e solo allora, lontano dallo sguardo di Bushido, si permette di deglutire di preoccupazione. Non può passare tutto il suo tempo in quello schifo di cella ma, per come stanno le cose, non può nemmeno avventurarsi fuori. Bill non crede nel tempo che sistema le cose, soprattutto in galera, dove al massimo sono pronti a tirargliele di nuovo perché si sono scordati di averlo già fatto una volta.
“Ehi, ragazzino?” La voce di Bushido è calda e bassa, e sempre così impostata che Bill lo trova ridicolo. Ma chi si crede di essere questo marocchino impiantato in Germania? Che diavolo vuole da lui e dalla sua vita? Perché non lo lascia in pace un istante? E' per questo che non riesce a concentrarsi e a trovare una soluzione al suo attuale problema come fa di solito, perché quello lassù, abbarbicato sul suo stupido trono non sta mai zitto e pretende anche che lui gli risponda. “Cosa vuoi?”
“La mia offerta è sempre valida.”
“Fottiti,” Bill si raggomitola e diventa ancora più piccolo. “Ti ho già detto che non ne ho bisogno.”
“Il panino lo hai fatto fuori, però.” La voce di Bushido non cambia di tono. Resta pacata e venata da un leggero umorismo. “E un grazie sarebbe gradito, sai? Non è che se batti per strada devi essere maleducato.”
Bill sbuffa rumorosamente dalle narici. “Nessuno ti aveva chiesto niente.”
Non a parole, pensa Bushido. E' evidente che, da qui in avanti, se vuole evitare che la situazione degeneri, la volontà del ragazzino non va più presa in considerazione.

*

Proprio per questo motivo, la prima cosa che Bushido fa all’alba del terzo giorno di Bill Kaulitz nelle cucine, dopo averlo osservato finire in tre risse nel giro di quarantotto ore, e quasi violentato dietro le caldaie durante il suo turno di pulizie, è andare a fare una visitina al suo vecchio amico Jost.
Ci sono voluti tre giorni solo perché Bill si riprendesse abbastanza da decidere di potersi fare un giro fuori dalla propria cella. Ce ne sono voluti altri due di suggerimenti velati per convincerlo a mettersi a lavorare. Bushido non ha intenzione di sprecare tutta la fatica fatta solo perché questa prigione, come tutti i luoghi in cui le gabbie superano in numero le stanze, è abitata solo da animali.
Osservandolo sulla soglia della porta, accompagnato da un agente di custodia e con i polsi stretti nelle manette, Jost sospira. Bushido solleva una mano per salutarlo agitando le dita. L’altra segue la prima nel movimento, ma resta lì appesa alla propria manetta come un peso morto.
- Il mio non è un lavoro, - commenta, - è espiazione. Può andare, agente.
L’agente di custodia spinge poco delicatamente Bushido all’interno dell’ufficio e poi si allontana, chiudendosi la porta alle spalle.
- Buongiorno, David. – lo saluta Bushido, svaccandosi senza complimenti sulla poltroncina di fronte alla grande scrivania dietro la quale il direttore si nasconde.
David si pinza la radice del naso, inspirando ed espirando profondamente.
- Guarda, Ferchichi, usualmente sarei ben felice di rimproverarti, ricordarti che per te sono direttore o al massimo Jost e tutto il resto dei preliminari che ti piace tanto mettere in pratica quando devi parlare con me, - comincia, osservando un sorrisetto divertito farsi strada sulle labbra del detenuto, - ma sono giorni che non fai altro che entrare ed uscire dal mio ufficio, e sinceramente non ne posso più di vedere la tua brutta faccia giorno dopo giorno dopo giorno, perciò facciamola breve e tagliamo i convenevoli: cosa diavolo vuoi?
- Ci siamo alzati col piede sbagliato, stamattina, eh? – ride Bushido. David rotea gli occhi. Gli ha appena detto di voler tagliare i preliminari, ed ecco che lui insiste, come non l’avesse neanche sentito.
- Sempre, Ferchichi. Sempre, credimi. Ora, ti dispiacerebbe, per cortesia, vuotare il sacco e poi sparire dalla mia vista per sempre? – domanda con educazione, recuperando una pila di fogli da un cassetto e prendendo a fingere di leggerli con estremo disinteresse, giusto per darsi qualcosa da fare.
Bushido si prende il suo tempo, prima di rispondere. Non perché abbia bisogno di raccogliere i pensieri – Jost lo conosce abbastanza bene da sapere che Bushido non muove un passo per parlare con qualcuno se non sa già esattamente cosa deve dirgli e come deve farlo in modo da ottenere precisamente ciò che vuole – ma appositamente per snervarlo, sperando che infastidirlo in questo modo lo porti a concedergli una risposta veloce e affermativa, solo per toglierselo dai piedi quanto prima.
Inutile dire che sta funzionando.
- Dunque, a proposito del ragazzino che mi hai affibbiato… - comincia lentamente, e David rotea gli occhi, nauseato.
- Non ne posso più di sentirti parlare di quest’argomento. Non ne posso più di te in generale, ma di questa cosa in particolare, poi, non riesco più a tollerare nemmeno l’esistenza. Ora lo sposto in isolamento e tanti saluti. – minaccia in un ringhio impietoso, e Bushido, prevedibilmente, si mette a ridere.
- Mamma mia, David, dovresti prenderti un calmante. Una camomilla, almeno, se non vuoi ricorrere alla prescrizione del tuo psichiatra. – suggerisce con tono falsamente preoccupato. David deve dar fondo a tutto il proprio autocontrollo per impedirsi di afferrare il pesante fermacarte a forma di zampa di leone che ingombra una buona percentuale della sua lussuosa scrivania in legno massello e tirarglielo dritto sulla fronte, proprio in mezzo agli occhi. Sarebbe soddisfacente – oh, Dio, sarebbe così soddisfacente – ma con la fortuna sfacciata che ha Bushido riuscirebbe sicuramente a sopravvivere; lui, invece, finirebbe arrestato e incriminato per tentato omicidio, e probabilmente sarebbe recluso proprio nella stessa prigione che fino ad ora, con alterni risultati, ha diretto. Questo sarebbe di sicuro meno soddisfacente, perciò David pone un freno alla propria furia, e si limita ad inspirare ed espirare rumorosamente dal naso, provando a recuperare la calma.
- Non ho bisogno di nessuna prescrizione, Ferchichi. – ribatte, sospirando con rassegnazione. – Coraggio, sputa il rospo. Cos’è che vuoi ora? Il permesso di portarlo a pisciare e reggergli l’uccello mentre lo fa? Puoi. Contento? Ora vai.
Bushido rimane in silenzio per un paio di secondi, il sorriso abbandona velocemente le sue labbra e le sue sopracciglia si aggrottano visibilmente. David si permette un sorriso di trionfo.
- Sei il peggior direttore di prigione esistente sulla faccia della terra. – commenta.
- Oh, e il tuo parere mi interessa così tanto che penso che stanotte non dormirò. – ribatte David, con un altro mezzo sorriso. – Seriamente, Ferchichi. Sputa il rospo. Non ho tempo da perdere. Specialmente con te.
- D’accordo, d’accordo. – sospira lui, mettendosi seduto in maniera vagamente più composta, come a dargli un segnale tangibile delle proprie buone intenzioni a passare ad argomenti più seri. – Allora, lo voglio fuori dalla cucina.
David aggrotta le sopracciglia, accomodandosi meglio contro lo schienale della propria enorme poltrona girevole in vera pelle.
- Come, prego? – domanda incerto. Bushido non si scompone.
- Lo voglio fuori dalla cucina. – ribadisce, - Pensavo che sarebbe stato più semplice tenerlo sotto controllo lì, ma la verità è che non fa che creare problemi. O sono i problemi che continuano a trovarlo, questo non mi è ancora del tutto chiaro. In ogni caso, - scrolla le spalle, e le manette producono un suono tintinnante particolarmente fastidioso, in risposta al suo movimento, - non posso più tenerlo lì. Non solo non riesco a farlo stare tranquillo, ma finisce per rallentare il lavoro a tutti. I miei ragazzi si lamentano e una ciurma scontenta è una ciurma potenzialmente pronta all’ammutinamento. Lo sposti da qualche altra parte.
- Scusami mentre trattengo a stento le risate sulla metafora piratesca. – sbotta David, inarcando un sopracciglio, - E scusa anche mentre cerco di non soffocarmi d’ilarità mentre realizzo che tu supponi di poter venire qui in quest’ufficio a fare il bello e il cattivo tempo senza che io ti rida in faccia e ti mostri la via più breve per toglierti dalle palle presentando il tuo triste fondoschiena alla punta dei miei stivali da milleduecento dollari.
Bushido inarca le sopracciglia così tanto che sulla sua fronte si formano rughe ondulate e profondissime.
- Questa è la cosa più gay che io abbia mai sentito dire in assoluto in tutta la mia vita, non scherzo. – lo avvisa. Ancora una volta, David deve trattenersi dal reagire in maniera sconsideratamente ed inappropriatamente violenta. Questa conversazione lo sta portando sull’orlo di una crisi di nervi.
- Va bene, Ferchichi, basta così. – sospira, massaggiandosi stancamente le tempie, - Sono stufo. Non ne posso più. Dove vorresti che lo spostassi?
Bushido scrolla le spalle, come non ci avesse ancora pensato. David lo odia. Questi giochini lo irritano. Entrambi sanno perfettamente che Bushido ha già pianificato quella conversazione nei minimi dettagli, ed entrambi sanno anche che tutti i tentativi di David di accorciarla e modificarne il corso sono stati vani. Perché, quindi, continuare a trascinarla inutilmente per chissà quanti altri minuti?
- Magari in biblioteca. – si degna finalmente di rispondere, - È un posto tranquillo, ci sono solo due ingressi e non dovrebbe fare altro che stare seduto al computer a registrare i libri presi in prestito. Inoltre, lì i miei ragazzi potrebbero tenerlo d’occhio meglio e più discretamente, così anche lui non se ne accorgerebbe e la smetterebbe di rompere le palle e piantare casini apposta per dispetto nei miei confronti. – sorride, accavallando le gambe. – Mi sembra la soluzione migliore per tutti.
David lo fissa con malcelata rabbia per un paio di secondi, chiedendosi se quest’uomo sappia di fronte a chi si trova. Se ne abbia un minimo di consapevolezza, almeno.
- Lo sai perché ti ho affidato questo ragazzino, Ferchichi? – domanda, e quello fa una smorfia.
- Me lo chiedo continuamente. – risponde.
- Me lo sono chiesto anch’io. – annuisce David, - E la verità è che fino a questo momento non ne avevo un’idea precisa. Ma adesso sì.
L’espressione di Bushido cambia. Si fa più seria, perfino preoccupata, mentre sulle labbra di David si disegna un sorrisetto divertito.
- Sarebbe?
- Non me ne frega niente, di quel ragazzino. – spiega David, - O meglio, non più di quanto non mi freghi di un qualsiasi altro detenuto. Quindi, in realtà, molto poco. Ma sai quanti omicidi e suicidi ci sono stati fra i nuovi arrivati nel corso dell’ultimo anno? È meglio che non ti dica il numero preciso, perché sono di quelle stime che farebbero rizzare i capelli sulla testa anche a uno stronzo come te. Posso però dirti che in percentuale stiamo parlando di più della metà dei nuovi detenuti, la maggior parte dei quali ragazzi molto giovani, che in teoria uscendo di qui in una decina d’anni o meno avrebbero potuto rifarsi una vita. – David si prende qualche secondo per tenere Bushido sulle spine, osservando i suoi occhi farsi più scuri, perfino preoccupati. – La verità è che te l’ho affidato perché è un caso perso, Ferchichi. Perché se il ragazzino crepa, in qualsiasi modo, io avrò la scusa perfetta per tenerti ingabbiato qui dentro fino a che non avrai scontato la tua pena integralmente. Perché davvero, se c’è qualcuno in questa prigione che non merita di rivedere la luce del sole il più a lungo possibile, questo sei tu. E sai perché, Ferchichi?
- Perché lei è uno stronzo e mi odia, direttore? – risponde immediatamente Bushido, gelido, tornando ad una forma di cortesia che con lui non ha mai usato e che, per la prima volta, stabilisce fra loro una distanza, sintomo evidente del fatto che lui non ha più alcuna voglia di scherzare.
- No. – ridacchia David, stendendosi comodamente contro lo schienale della poltrona e intrecciando le mani in grembo, - Perché la prigione non ti ha insegnato niente, Ferchichi. Sei sempre la stessa feccia che eri quando sei entrato qui dentro, e non hai alcun diritto di uscire. Non sei stato rieducato. – il suo ghigno si allarga, - Ecco perché ti ho affidato il ragazzino. Perché tu fallirai, e io potrò tenerti qui dentro. Non perché ti odio, ma perché è quello che meriti.
Bushido scatta in piedi, osservandolo dall’alto con rabbia evidente. Le sue mani tremano.
- È tutto? – domanda. David si concede un altro sorriso soddisfatto.
- Il permesso per il trasferimento del detenuto Bill Kaulitz in biblioteca è accordato. – conclude, - È tutto, sì.

*

All’alba del terzo giorno di biblioteca, Bill si è già annoiato così tanto da ripensare alle botte e ai tentativi di stupro con nostalgia. Almeno, allora succedeva qualcosa. Invece, adesso ogni ora è una tortura, i minuti non passano mai, le giornate sono infinite. Se pensa che gli toccano dodici anni di questa merda, gli viene da vomitare. Saranno dodici e sembreranno ventiquattro, visto che, palesemente, il tempo in quella stanza silenziosa scorre due volte più lentamente di quanto non faccia in tutto il resto della prigione e del mondo.
Il primo giorno è stato perfino piacevole. Un agente di custodia l’ha scortato alla biblioteca, gli ha mostrato la postazione e gli ha gettato fra le mani un breve opuscolo che gli spiegava in sintesi ciò che doveva fare e il funzionamento di base del programma col quale avrebbe dovuto registrare i prestiti e le restituzioni.
La biblioteca non è molto frequentata, la maggior parte dei detenuti preferisce fare altro rispetto a leggere, evidentemente, e Bill non può certo biasimare nessuno, per questo – non si avvicinerebbe a un libro neanche se stesse morendo di noia e non ci fossero altri passatempi possibili nel raggio di chilometri – e per questo motivo fin dall’inizio non è che il suo lavoro sia stato granché faticoso. Ogni paio d’ore, al massimo, un detenuto che magari era rimasto lì a leggere per eternità, si avvicinava alla sua scrivania e gli sventolava il libro davanti, e Bill non doveva fare altro che inserire nel programma il codice del libro e il numero di riconoscimento del detenuto, e il suo lavoro era finito. È stato piacevole perché le sue ossa avevano ancora bisogno di riprendersi da una recente scarica di legnate, e poter stare sostanzialmente seduto a rigirarsi i pollici per una mattinata intera era stato riposante, perfino soddisfacente, allo stesso modo in cui era soddisfacente ritornare da scuola il venerdì pomeriggio e gettarsi a pancia in su sul proprio letto a fissare il soffitto per ore, come faceva spesso a quattordici anni.
Anche il secondo giorno è passato senza particolari traumi. L’unica cosa un po’ strana che è successa è stata quando, ad un certo punto del pomeriggio, dopo aver sghignazzato seduti ad un tavolo senza mai avere aperto un libro da quando erano entrati in biblioteca, tre detenuti gli hanno chiesto di trovare per loro un volume che non riuscivano ad individuare. Bill si è fatto dare il titolo ed ha scoperto che il libro si trovava in uno scaffale parecchio in alto. L’ha indicato ai detenuti sghignazzanti, chiedendosi cosa diavolo avessero da ridere e stabilendo in ultimo che non gli interessava minimamente, e poi ha detto loro di usare pure la scala per recuperarlo. A quel punto, uno di loro gli ha risposto che i detenuti comuni non hanno il permesso di utilizzare la scala per prendere i libri. È uno specifico compito del detenuto al quale è stata affidata la gestione della biblioteca, ha detto.
Bill li ha guardati tutti e tre aggrottando le sopracciglia.
- Ma che stronzata è? – ha chiesto. I detenuti hanno scrollato le spalle, e lui si è detto che, in fondo, si trattava di una regola abbastanza idiota da poter essere perfino vera, e sospirando pesantemente ha recuperato la scala da sé, spostandola in corrispondenza dello scaffale giusto per poi arrampicarsi verso l’alto, un piolo dopo l’altro, sentendo tutte le ossa scricchiolare sinistramente ad ogni passo.
È stato allora che i tre detenuti hanno ripreso a sghignazzare. E prima ancora che Bill potesse darsi del cretino e saltare giù dalla scala, quelli l’hanno afferrata per i due lati e hanno cominciato a scuoterla violentemente a destra e a sinistra.
Bill ha lanciato un gridolino terrorizzato, aggrappandosi all’ultimo piolo in alto e stringendolo forte fra le braccia nel tentativo di ancorarsi a sufficienza per non cadere rovinosamente per terra, mentre il suo corpo ondeggiava senza posa seguendo il movimento della scala, e quegli stronzi continuavano a ridere, senza fermarsi un secondo, e poi all’improvviso è finito tutto, senza che lui capisse come né perché. Un attimo prima il mondo oscillava pericolosamente da un lato all’altro, e l’attimo dopo invece era fermo.
- Che cazzo…? – ha sillabato, ancora terrorizzato, voltandosi a guardare i tre detenuti ed osservandoli arretrare un passo dopo l’altro mentre cercava di recuperare l’equilibrio sulla scala.
- S-Scusa… - ha detto uno dei tre, afferrando gli altri due per le maniche delle rispettive magliette per trascinarli indietro più in fretta, - Non volevamo…
- Non volevate cosa?! – ha strillato a quel punto lui, sconvolto, voltandosi per scendere dalla scala in due grandi passi, - Ma sparite, coglioni! Sparite!
I tre non se lo sono fatto ripetere due volte, e quello, bene o male, è stato l’unico episodio emozionante della giornata. Bill si è naturalmente ritrovato a chiedersi cosa sia stato a metterli in fuga in quel modo, perché – e di questo è abbastanza sicuro – di certo non è stato il suo stupido culo ondeggiante per aria in completa balia del loro ridicolo bullismo da adolescenti mai cresciuti. E d’altronde gli è capitato anche di chiedersi cosa ci facessero Chakuza e Baba Saad in un angolo della biblioteca, apparentemente intenti a rigirarsi i pollici, e da quanto tempo fossero lì in osservazione, visto che lui, prima di quel momento, non li aveva notati affatto.
Ma è stato solo un pensiero di fugace curiosità, ed è passato subito. Questo perché sostanzialmente non gli importa un accidenti di quello che succede in questa dannata prigione. Attorno a lui o a causa sua o per qualunque altra ragione. È tutto così incredibilmente stupido che lui semplicemente rifiuta di averci qualcosa a che fare.
Adesso, però, la domanda torna a farsi insistentemente avanti nel momento in cui, dopo una giornata intera a rigirarsi i pollici, accade qualcosa di perfino più strano. I due detenuti che l’hanno abbordato in mensa ormai quasi due settimane fa, e che poi l’hanno ridotto uno straccio quando lui si è rifiutato di scoparseli, entrano in biblioteca una decina di minuti prima dell’orario in cui usualmente l’agente di custodia passa a prenderlo e chiude la porta a chiave per la notte, prima di ricondurlo alla propria cella.
L‘ultimo ad entrare, il più grosso, si chiude la porta alle spalle. A parte loro due e Bill, la biblioteca è completamente vuota, e nell’accorgersene lui immediatamente aggrotta le sopracciglia, alzandosi in piedi ed affrontandoli a muso duro.
- Non è aria. – dice il più scontrosamente possibile. I due si lanciano un’occhiata divertita, e poi quello più basso si avvicina di un altro passo, mentre il suo compare afferra una sedia e la incastra fra il pavimento e la maniglia della porta, per bloccarla.
- Indovina a chi non frega un accidente di che aria tira? – dice il tipo più basso, ormai così vicino che Bill può percepire distintamente il puzzo nauseante del suo sudore. – Adesso fai il bravo e tirati giù i pantaloni, culetto d’oro. Mostraci per cosa pagavano i tuoi clienti quando stavi fuori. – conclude, avvicinandosi ancora, le mani protese verso di lui.
Bill scatta indietro, soffiando come un gatto.
- Non vi avvicinate. – ringhia. La maniglia della porta si muove, ma naturalmente chiunque si trovi al di là non riesce ad aprirla, - La guardia sarà qui a minuti.
- No, credo di no. – ridacchia il suo compare, il quale, Bill scopre quando si avvicina a propria volta, puzza anche più di lui, - Indovina chi ha messo da parte qualche risparmio per chiedere all’agente un gentile favore…?
Bill digrigna i denti, nauseato.
- Cos’è, un quiz a premi? – commenta, sbirciando la porta e notando che la maniglia continua a muoversi. Se la guardia è stata pagata, allora chi è che sta cercando di aprirla? Forse, se riesce ad essere abbastanza veloce da aggirare questi due stronzi e lanciarsi sulla sedia per toglierla di mezzo… prova a calcolare le proprie possibilità, ma scopre ben presto di aver fatto la scelta sbagliata. I due gli sono addosso molto prima che lui riesca a concludere i propri calcoli, e nel momento in cui sente le loro luride mani addosso Bill non può far altro che urlare.
La maniglia smette di girare convulsamente, e a Bill salta il cuore in gola. Magari un detenuto stava provando ad entrare ma, quando ha sentito il suo urlo, ha saggiamente deciso di evitare di farsi coinvolgere in qualche rissa o qualcosa di peggio. È stato stupido, è stato stupido a non scappare immediatamente quando questi due stronzi si sono intrufolati in biblioteca, è stato uno stupido a perdere tutto quel tempo invece di lanciarsi sulla sedia appena pensata la mossa, è stato stupido a urlare perché forse, se fosse rimasto in silenzio, chiunque stesse cercando di aprire la porta avrebbe continuato a provarci finché non ci fosse riuscito, e tutto quello che gli succederà da questo momento in poi è solo colpa sua e della sua stupidità. In qualche modo, lo merita perfino. Il suo corpo, intento a dibattersi fra le mani dei due detenuti, non la pensa allo stesso modo, ma è così.
In ogni caso, non importa: passano al massimo dieci secondi, e poi la porta viene letteralmente scardinata, e un uomo alto e pallido coi capelli cortissimi e gli occhi di un azzurro incredibilmente intenso fa irruzione all’interno della biblioteca, interrompendo i due detenuti nel momento in cui il più basso infilava una mano giù per i pantaloni di Bill mentre il più grosso lo teneva fermo.
- Oh. – dice il tipo, che Bill riconosce come quello che Eko Fresh gli ha indicato come Fler giorni prima, - Allora ho fatto bene a insistere. Mi serve un libro. È una faccenda di una certa importanza. – spiega, e proseguendo nel proprio discorso guarda più i due detenuti che Bill. – Il mio capo non sarà contento, se non torno con buone notizie. – conclude.
I due detenuti lo mollano con una serie di ringhi frustrati, e Bill deve aggrapparsi ad uno dei tavoli da lettura per non cadere per terra.
- Ho già spento il terminale. – balbetta, indicando il computer che giace immobile e silenzioso sulla scrivania, - Non posso registrare altri prestiti se non lo riavvio, e non c’è tempo. La guardia dovrebbe… - balbetta. Fler fa un gesto vago con la mano.
- Non verrà nessuna guardia a prenderti oggi. – borbotta, - Il libro non era urgente, comunque. Sta’ attento, quando torni al braccio. – conclude, voltandogli le spalle e attraversando la porta, o meglio, il passaggio al posto del quale prima c’era una porta che giace adesso per terra, quasi spaccata in due, con una crepa visibilissima che la taglia in due parti quasi uguali da sopra a sotto, e lasciandolo lì senza una parola di più.

*

Bill odia le cucine e la sala mensa.
Odia dover fare la fila con in mano il vassoio e doversi guardare alle spalle perché c'è sempre qualcuno che allunga le mani. Odia dover aprire bocca per chiedere quello che gli va o non gli va di mangiare. Odia dover fare il percorso a ritroso verso uno dei tavoli vuoti che sono sempre in fondo e rischiare che qualcuno gli faccia lo sgambetto o si avvicini con una scusa qualsiasi per sputargli nella minestra.
E' già successo, quando non lo hanno proprio sbattuto contro un muro e palpato fino all'arrivo sempre tardivo e rilassato delle guardie di sicurezza, naturalmente.
Preferiva quando poteva mangiare in cella, ma Jost si è degnato a venire di persona ad avvisarlo che il suo permesso speciale era stato revocato non appena è stato in grado di restare in piedi per più di dieci minuti senza stampelle. Grazie Jost, sempre il solito stronzo. E' qua da nemmeno un mese e ha già capito che la prigione è piena di teste di cazzo, gli altri detenuti sono degli animali ma tra guardie e direttore non è che la gente libera sia tanto meglio.
Si siede nell'angolo più lontano della sala, vicino al palco che per chissà quale cazzo di ragione è stato costruito proprio qui. Bushido gli ha detto che una volta ci facevano gli spettacoli, quelli di beneficenza, organizzati da qualche attore impegnato nel sociale ansioso di aiutare la comunità, ma poi c'è stata una rissa e Jost non ne ha più voluto sapere. Com'è nella sua politica, tutto quello che non può controllare viene eliminato. Pare che questo braccio non veda visite coniugali da due anni e mezzo, per dire, una roba che ha fatto impazzire un sacco di gente. E poi quello si stupisce che i suoi detenuti cerchino di infilarlo nel primo culo che vedono.
Bill infila la forchetta in quello che dovrebbe essere purè ma è solo un intruglio giallognolo della consistenza del cemento. Gli viene da vomitare solamente all'idea di mangiarlo, ma ha già sperimentato più volte che, nonostante stia praticamente seduto tutto il giorno, non sopravvive alla giornata se non mangia a sufficienza. Sarà che sta sempre teso come una corda di violino e così consuma più calorie di quando era fuori e passava il tempo scopando.
A furia di fare passi falsi e di rischiare la vita o lo stupro ad ogni sospiro, Bill ha imparato anche un'altra cosa, ossia a prendere coscienza della situazione che versa in ogni luogo in cui mette piede prima di decidere se è il caso di rimanervi. In realtà questo è un insegnamento che Bushido gli ha ficcato a forza nel cervello, ripetendolo fino alla nausea ogni volta che ha parlato nelle ultime settimane. Bill ha sempre finto di fregarsene, ma non può negare che fra le mille stronzate che quell'uomo si fa uscire di bocca ogni giorno credendo di avere una qualche importanza per lui, questa è una delle più sensate.
Al momento in sala ci sono tre guardie. Dovrebbero essere quattro, tanto per cominciare, e le uniche tre presenti non sono granché attente; questo potrebbe voler dire guai, se qualcuno ha qualcosa in mente, ma potrebbe anche voler dire che quelli non hanno voglia di lavorare.
Gli uomini di Sido siedono tutti insieme da una parte, ma ce ne sono alcuni sparsi per la stanza, come per non lasciare certe zone sotto il controllo totale degli uomini di Bushido. D'altronde anche quelli fanno la stessa cosa. Bill può più o meno inquadrare questa stanza come fosse il tabellone del Risiko con il quale lui e suo fratello passavano interi pomeriggi prima che la sua famiglia cadesse a pezzi.
A lui questo schieramento da battaglia sembra una gran cazzata, non capisce per quale motivo questa gente senta il bisogno di farsi la guerra. Per ottenere che cosa? Sempre in gabbia si dorme, alla fine.
Ha ingurgitato controvoglia primo e secondo e sta per attaccare una pallida imitazione di torta alla ricotta, quando l'ombra tozza di uno dei bestioni di Sido si allunga sul suo vassoio.
“Ehi, fiorellino,” grugnisce, per poi ridere divertito del modo esilarante con cui ha rotto il ghiaccio mentre si sedeva sul tavolo.
Bill cerca di ignorarlo, anche se come tattica non si è rivelata poi così utile in passato. Quando questi scimmioni ritardati non si sentono abbastanza considerati – il che significa, se non vedono che ti pieghi autonomamente a novanta per compiacerli – reagiscono in malo modo. “Che fai, fiorellino?” Dice di nuovo, invadendo il suo spazio e condividendo con lui l'alito pestilenziale. “Non mi guardi nemmeno? Sei timido?”
Bill sospira infastidito, la testa bassa e lo sguardo fisso sulla sua forchetta. Si sposta qualche posto più avanti con tutto il vassoio sperando che il tipo abbia altro di meglio da fare, ma ovviamente non è così. Anzi, quello lo segue sempre più divertito, scoppiando in una risata roca e catarrosa quando Bill raggiunge la fine del tavolo, dove si accorge che è seduto un altro degli uomini di Sido, pronto a ghignare sdentato nella sua direzione. “Vai da qualche parte, culetto d'oro? Non ti piace la compagnia?”
Bill sospira di nuovo, d'altronde era strano che nessuno lo avesse ancora importunato; è lì seduto da più di venti minuti. A pensarci bene non gli capita di essere inchiodato al muro da giorni e perfino nelle docce, alle quali deve avvicinarsi con estrema attenzione, nessuno si è più avvicinato.
“Senti bene, principessa,” sputa fuori il primo dei due uomini quando finalmente si accorge che non ha nessuna intenzione di rispondergli, “finora mi pare di essere stato gentile, ma la mia pazienza ha un limite.”
“Non ti conviene farlo incazzare, sai bellezza?” Gli fa eco quell'altro. “Potrebbe non essere piacevole.”
Bill fa in tempo ad alzare la testa per dirgli che in nessun modo uno dei due potrà mai essere piacevole visto il tanfo di morto che esalano, che Eko si siede di fronte a lui, mangiando placidamente un biscotto a piccoli morsi, proprio come il criceto a cui assomiglia.
“Sai, ragazzino, ci ho messo una vita a trovarti,” esordisce come se quei due non fossero nemmeno lì. “Sei sempre in un posto diverso. Non è che ho tempo che mi avanza per giocare a nascondino, sai?”
“Eko...?”
“Sì, sono io. Vedo che fai progressi.” Lui continua a smangiucchiare il suo biscotto e sputa le gocce di cioccolato in un angolo del vassoio per poi guardarle con malcelato disgusto. “Ti piace la cioccolata? Io odio la cioccolata. E' perché una volta, da piccolo, sono stato morso.”
I due uomini di Sido scendono immediatamente dal tavolo e ringhiano tra i denti qualcosa che Bill fatica a capire, ma è chiaro che non è stata la sola – e per altro modesta – presenza di Eko a farli desistere, ma quello che Eko in sé, con le sue quattro ossa scombinate, rappresenta.
Eko gli lancia un'occhiata apparentemente disinteressata, ma segue i due con la coda dell'occhio finché non sono spariti, andandosi a rintanare in mezzo ai loro comparsi.
“Non mi piace nemmeno l'uva passa,” continua allora Eko, come Bill si fosse dimostrato interessato in qualche modo all'argomento. “Come sapore non è neanche male, è solo che è facile scambiarla per cioccolata. Tu sei lì che mangi il tuo bel biscotto e lei se ne sta lì, tonda e scura, proprio come fa la cioccolata. E io non li sopporto quelli che si travestono e fanno finta di essere qualcun altro.”
Bill lancia un'occhiata intorno a sé: Chakuza, Fler e Saad fingono tutti di fare altro mentre lo tengono sotto controllo da punti diversi della stanza. Bushido naturalmente non c'è, ma Bill sa perfettamente che nessuno dei suoi uomini si muove senza che lui lo sappia.
Scatta in piedi e si dirige a passo spedito verso le celle. La guardia all'entrata non si spreca nemmeno a guardarlo abbastanza a lungo da capire di chi si tratti.
Eko non lo segue, chiede soltanto con estremo e calcolato ritardo: “Quello lo mangi?” Indicando la torta di ricotta, prima di appropriarsene.
Bill entra in cella come una furia, dando uno spintone a Bushido che se ne sta di fronte al lavandino, intento a lavarsi la faccia.
“Esattamente, quale parte di non mi serve il tuo aiuto non hai capito?” Sbraita, mentre Bushido fa un passo indietro senza scomporsi e recupera il proprio asciugamano.
Finisce anche di asciugarsi e rimettersi la maglietta prima di dedicargli il minimo sindacale della sua attenzione mentre ispeziona con cura il proprio riflesso. “Sentiamo, di quale assurda fantasia stai blaterando questa volta?”
“Prima quell'armadio a due ante che fa irruzione nella biblioteca spaccando in due la porta, poi il nano pelato in lavanderia e oggi quello schizzato, Eko, che mi si piazza davanti in mensa a parlarmi di quanto odia la cioccolata. Seriamente, sei tu che ti circondi di casi umani e malati mentali per sentirti normale o sono loro che vedono in te qualcosa di familiare e ti si avvicinano?”
Bushido si volta a guardarlo con estrema lentezza e quando i suoi occhi si fissano in quelli di Bill sono infastiditi. “Ekram non è affatto un malato mentale,” commenta con calma “e sta con me perché è un tipo a posto, ma sono certo che sia io che lui sopravvivremo anche se la pensi diversamente. Il tuo giudizio, d'altra parte, non ci tocca minimamente. C'è altro? Dovrei andare.”
Bill fa una smorfia oltraggiata. “Hai sentito quello che ti ho detto o sei anche sordo oltre che stronzo?”
Bushido, che lo ha appena superato per raggiungere l'entrata della cella, si ferma e inspira contando ben oltre il dieci per mantenere la calma. “Dovresti essere riconoscente,” gli fa notare. “Se puoi ancora camminare sulle tue gambe, non è certo per merito tuo.”
“Riconoscente? Non posso andare nemmeno al cesso senza che uno dei tuoi mi segua!”
“E' per la tua sicurezza,” ripete Bushido, la voce tesa dal nervosismo e dalla voglia, ormai fuori controllo, di prendere quel ragazzino insopportabile e scuoterlo finché non gli ha mescolato tutte quante le ossa.
“Nessuno ti ha mai chiesto di proteggermi!”
Bushido è un tipo paziente. Non è mai stato una di quelle teste calde che scattano alla prima offesa. E' uno che se l'è anche presa per niente, questo è vero, ma quando lo fai incazzare, prima di frantumarti la faccia ci pensa due volte perché così gli vengono in mente il doppio dei modi per farti fuori.
Questo ragazzino, però, petulante, lagnosa, potenzialmente pericolosa spina che Jost ha fatto in modo di ficcargli ben a fondo nel fianco, ha già sfidato la sua pazienza più di certi omicidi eseguiti per farlo uscire di testa. Per questo finisce per girarsi ed attaccarlo al muro. “Sentimi bene, ragazzino,” gli sputa addosso, premendogli forte la mano contro la giugulare perché, per una volta, cazzo, stia zitto. “Senza me che ti paro il culo, tu qua dentro non campi una settimana, il che per me non sarebbe un problema in generale, perché a me di te non me ne frega un cazzo. Il fatto è che io sto per uscire con la condizionale, ma Jost ti ha affidato a me. Il che significa che se tu muori, se ti violentano, se ti feriscono, qualunque cosa ti succeda mentre sei sotto la mia protezione, io mi fotto la condizionale.”
Bushido preme la mano contro il suo collo ancora una volta e poi allenta la presa, senza però lasciarlo andare. Il ragazzino boccheggia e tossisce, stringendogli forte le dita intorno al polso per cercare di sostenersi e non pendere floscio come uno straccio. “Quindi, come vedi,” continua Bushido, continuando a parlargli a due centimetri dalla faccia, “non è per te e per il tuo bel faccino che i miei uomini ti stanno addosso tutto il giorno. Il tuo culo è il mio foglio di via e non ho nessuna intenzione di perderlo solo perché tu credi di potertela cavare da solo. Sto proteggendo i miei interessi.”
Bushido resta a guardarlo in cagnesco ancora per qualche secondo, poi con un gesto stizzito lo lascia andare e Bill cade come un sacco vuoto a terra, tossendo forte e massaggiandosi il collo che è chiazzato di rosso là dove le dita di Bushido lo hanno stretto.
“A me non frega niente dei tuoi interessi,” dice roco, non appena ha recuperato fiato sufficiente per replicare. Bushido non si capacita di come questo ragazzino possa ancora aver voglia di fare lo stronzo quando palesemente ha appena rischiato di essere strangolato. E' controproducente perfino per lui, non ha nessun istinto di sopravvivenza e se lui – che deve tenerlo in vita per forza – ha già di nuovo voglia di ammazzarlo, quante probabilità ci sono che superi anche solo i primi sei mesi di permanenza?
“Fai un favore a te stesso e chiudi quella fogna,” replica.
“No,” Bill si rialza a fatica, aggrappandosi al muro e lo guarda furioso. “No, perché non sono io quello che ha bisogno di te. Io, in questa fogna, devo passarci sicuramente dodici anni. Ma tu? Tu hai bisogno che io faccia il bravo per uscire in anticipo. Non è così?”
Bushido si irrigidisce. I tratti del suo viso si fanno ancora più severi e tesi. Per un attimo lo guarda con tanto di quell'odio che se solo si lasciasse libero di seguire l'istinto probabilmente lo ammazzerebbe davvero. “Te lo dico per l'ultima volta, ragazzino. Chiudi quella cazzo di bocca, non hai la minima idea di quello che stai dicendo.”
In tutta risposta, Bill ride. E' un suono debole e ancora provato ma gli dà abbastanza forza da mettersi di nuovo dritto e guardarlo negli occhi. “Tu non puoi governarmi,” gli dice sprezzante. “Se io decidessi di dare il culo a tutta la fottuta prigione, se volessi sfondarmi di droga e scatenare risse per il solo gusto di vedere se sopravvivo, tu non potresti impedirmelo. Tu non potresti fare proprio un bel niente.”
Bushido ringhia e si fa avanti con tanta violenza da sbatterlo di nuovo contro il muro. Gli si preme addosso con tutto il corpo, sbuffandogli sul viso fiato caldo che sa di dentifricio e tabacco. “Col cazzo, ragazzino!” Sibila fra i denti. “Posso fermare chiunque cerchi di scoparti. Posso impedire alla gente di venderti la roba e posso terrorizzare a morte chiunque anche solo pensi di sollevare un dito su di te.” Mano a mano che elenca, riacquista la calma e la sua voce si fa più stabile e severa. “Tu qua dentro non vai nemmeno a pisciare se io decido che non puoi farlo. Io ho il controllo sulla tua vita, accettalo.”
Lo lascia andare con la certezza che Bill non replicherà.
Infatti, una volta libero, si limita a lanciargli un'occhiata infuocata, sbuffando inviperito, prima di sbattere violentemente le mani contro le sbarre della cella in segno di stizza e andarsene.

*

Sono le quattro e mezzo del pomeriggio e Fler è appena rientrato dalla palestra dove avrebbe voluto scaricare lo stress sollevando i pesi, come fa di solito, ma qualche stronzo si annoiava e ha scatenato la rissa. Bushido ha una politica molto severa riguardo alle risse, che consiste principalmente nel non scatenarle, non finirci in mezzo se non è necessario ed evitare di fermarle quando sono gli altri a cominciarle e tu non c'entri niente.
Così ha preso il suo asciugamano ed è tornato in cella con l'idea di fare qualche flessione mentre le guardie tentavano di impedire che quelli di Sido ammazzassero un povero Cristo la cui unica colpa, a quanto pare, è quella di essere arabo senza far parte del giro di Bushido.
Da quello che ha visto, Hassan o come diavolo si chiama, non ha molte speranze. Il pezzo di vetro acuminato gli ha perforato lo stomaco un po' troppo a sinistra per non aver preso il fegato.
Non che Fler sia un medico, ma dopo tre o quattro dei suoi compagni finiti in infermeria più o meno allo stesso modo, ci ha fatto l'occhio. Solo sei mesi fa, prima che Jost chiamasse Sido e Bushido nel suo ufficio per organizzare la tregua – che poi non è che l'abbiano fatta sul serio – Eko ha rischiato parecchio.
Un infame lo ha colpito alle spalle. Tre coltellate ben assestate su un fianco ed Eko si è accasciato a terra come una marionetta. C'era tanto di quel sangue che sembrava avessero sgozzato un vitello o roba simile. E' stato in coma una settimana. Fler era dieci metri più avanti a pulire una pentola quando è successo. Quando l'ha visto a terra era convinto che non si sarebbe più rialzato perché la ferita era davvero brutta e invece dopo sei giorni il turco apre gli occhi e chiede della gomma da masticare, così dal nulla. Un pazzo.
Mentre è lì che fa flessioni e pensa agli affari suoi, un'ombra si allunga sul pavimento proprio davanti a lui, così alza gli occhi e si trova davanti il ragazzino, appoggiato con noncuranza all'entrata della cella, così magro che sembra una sbarra anche lui.
“Bill,” mormora un po' spaesato mentre si alza da terra con un saltello.
“Bei muscoli,” commenta lui, con un sorriso che Fler non è ben sicuro di sapere interpretare. O meglio, lo saprebbe se non ci fossero tutta una serie di circostanze ad urlargli nelle orecchie che si sta sbagliando e, semplicemente, non capisce i ragazzi. “Devi allenarti parecchio.”
“Cosa ci fai qui? E' successo qualcosa?” Fler tossicchia e recupera l'asciugamano appeso al letto per asciugarsi la faccia.
Bill resta attaccato alle sbarre ma scivola comunque all'interno, con un movimento lento e calcolato finché non può aggrapparsi alla gamba del letto a castello per accarezzarla con fare allusivo. “Non posso venirti a trovare, adesso? ”
“No, no.” Fler ride. “Assolutamente. E' che di solito te ne stai sulle tue.”
“Sono solo timido,” risponde, guardandolo in modi che di timido non hanno assolutamente niente. “Ci metto del tempo a trovarmi davvero a mio agio.”
La risata che scappa di bocca a Fler è così squillante che lui si sente in colpa e mette le mani avanti. “Scusami, ma visto che fuori battevi...” si giustifica, senza per altro alcun tatto.
Bill non si scompone, il suo sorriso si tende e diventa più furbo. “Quello è solo lavoro,” commenta mentre si stringe nelle spalle e gli si avvicina, facendo strisciare un dito lungo il materasso. “Non è la stessa cosa.”
“Capisco,” commenta Fler. Fa un passo indietro e si guarda intorno, cercando qualcosa da fare, giusto per non dover stare lì immobile a guardare il ragazzino, visto che si muove in modi che scatenano in lui reazioni pericolose. “E adesso che ti senti a tuo agio, posso fare qualcosa per te?”
“In effetti sì,” risponde il ragazzino. “Mi hanno detto che potresti rifornirmi in caso... avessi bisogno.”
Fler comincia a scuotere la testa ancora prima di aprire bocca. “No, no, no, ragazzino,” sorride. “Niente droga da queste parti.”
“Non ne vendi?” Chiede Bill, ironico. Lo sanno tutti che a far girare la droga per Bushido ci pensa Fler, è un'informazione di dominio pubblico. Cultura Generale Carceraria, se perfino uno come lui lo sa.
“Di sicuro non a te,” specifica Fler che ora ridacchia quasi divertito. Appende l'asciugamano al suo gancio vicino al lavello e si schiaffeggia un paio di volte davanti allo specchio con un gesto molto simile a quello che Bill ha visto fare a Bushido nemmeno due ore prima.
“Guarda che posso pagarti,” lo rassicura.
Fler lo guarda attraverso il riflesso. “A parte che non credo tu abbia abbastanza soldi per farlo visto che non hai avuto modo di recuperarne da che sei qui dentro,” premette. “Non posso proprio. Ordini dall'alto.”
Per un attimo la maschera sul viso di Bill si frantuma, lasciando solo una smorfia infastidita.
Quel coglione di un tunisino ha proprio deciso di rendergli la vita un inferno, vero? Quello che più lo fa infuriare è che Fler sappia esattamente in che situazione si trova, che nessuno è venuto ancora a fargli visita e che perciò non ha un euro. Di tirare su due spiccioli succhiandolo in giro non c'è verso, chi non ha paura di quello che ha fatto alla guardia, ha paura degli uomini di Bushido che lo seguono come un'ombra; ma non hanno ancora fatto i conti con la sua testardaggine e il fatto che campa da solo per la strada da un sacco di tempo e non ha affatto bisogno di nessuno di loro.
Recupera il proprio sorriso smagliante e attraversa la cella, appoggiandosi al muro, appena accanto al lavello. I suoi fianchi distano solo qualche centimetro dalla mano di Fler che lancia loro uno sguardo con la coda dell'occhio e sposta impercettibilmente le dita più lontano. “E tu esegui gli ordini come un cagnolino?” Chiede Bill. “Lui comanda e tu stai a cuccia?”
Fler sospira. “Senti, va così, d'accordo?” Si stringe nelle spalle. “Devi stare pulito e rigare dritto. Sono le regole.”
“Le regole di chi?” Mormora Bill, spingendo in avanti il mento, le labbra appena dischiuse. “Uno come te non dovrebbe stare alle regole. Dovrebbe farle.”
Fler lo guarda intensamente per qualche istante, forse curioso o forse turbato, Bill non saprebbe dirlo, quale che sia, comunque, gioca a suo favore perché perde il sorriso e si fa teso. Non sembra più tanto convinto.
“Andiamo,” dice severamente, indicando l'entrata della cella con un cenno del capo. “Fuori di qui. Ti riporto nella tua cella.”
“E se invece trovassimo un accordo?” Chiede Bill, appoggiando la testa al muro dietro di lui e facendo ondeggiare il bacino, in quel modo un po' vezzoso che Fler ha visto usare solo alle ragazze e a certi uomini su cui non metterebbe mai le mani però. Bill è diverso, non fa parte esattamente di nessuna delle due categorie e questo gli sta fottendo il cervello in un modo che non gli piace per niente. “Quale accordo?”
Fler è così facile che Bill prova quasi della tenerezza.
Si stacca dal muro e gli si avvicina, ma non abbastanza perché lui senta il bisogno di indietreggiare, così quando ormai è a tanto così dal respirargli in faccia, Fler non ha più il tempo di muoversi e nemmeno vuole farlo. “Diciamo che tu mi dai quello che voglio,” dice Bill a bassa voce. Si allunga ad accarezzargli un braccio dal gomito al polso, intorno al quale poi stringe la mano chiusa a pugno. “ E io ti do quello che vuoi tu.”
Fler deglutisce e si schiarisce la gola, cerca se non altro di darsi un contegno mentre il suo corpo reagisce contro la propria volontà. Guarda altrove, cercando i motivi per cui dovrebbe continuare a rifiutare. Bushido gli ha salvato la vita più volte di quante riesca a ricordarne e di sicuro se vive bene in quel posto di merda è solo perché c'è il nome di Bushido a proteggerlo. Questo da solo dovrebbe essere sufficiente a fargli tenere le mani a posto, ma se gli serve qualche altra motivazione: Bushido è anche un amico e gli ha chiesto un favore – okay, glielo ha ordinato, ma Bushido è un po' quel tipo di amico che ti ordina le cose e tu le fai perché sai perfettamente che poi lui ricambierà il favore senza che tu nemmeno glielo abbia chiesto e quando più ne hai bisogno – e tu non dici di no ad un amico che ti chiede un favore.
“Non lo verrà a sapere nessuno,” continua Bill, facendosi così vicino che ormai gli sta spalmato addosso. Fler sente il calore del suo corpo attraverso la canotta leggera che indossa e le mani si muovono da sole per posarsi sui fianchi magri di Bill, che gli ridacchia in un orecchio. “Ti prometto che terrò la bocca chiusa,” mormora ancora, sollevandogli addosso uno sguardo da gatta in calore che ne basterebbe la metà perché lui gli saltasse addosso. “A meno che tu non voglia diversamente, ovvio.”
Fler sente le proprie restrizioni venire meno una ad una, come elastici troppo tirati che alla fine si spezzano. Si fotta Bushido, si fotta la prigione, si fotta il divieto di non toccarlo e non passargli niente; il ragazzino ha ragione, lui non è un balia. E gli ordini vanno bene, fintanto che hanno a che fare con loro, ma questo ragazzino chi cazzo è? Se ha tanta voglia di darlo via in giro e di farsi, non è un problema di Bushido. O magari lo è, ma di sicuro non è un problema di Fler.
Chakuza s'incazzerebbe come una bestia e gliela farebbe pagare cara se solo lo venisse a sapere, ma non sarà di certo lui a dirglielo e in questo momento, con lo stomaco che gli fa i salti di gioia al pensiero di poter infilare l'uccello da qualche parte, per una volta, invece di farselo sempre e solo menare – quando non deve fare da solo poi – , non ci pensa nemmeno che Bill potrebbe anche non mantenere la parola.
Così alla fine se ne frega, ringhia qualcosa e trascina Bill in un angolo della stanza, dietro al letto dove sarà più difficile notarli e soprattutto interromperli. Gli dà un bacio affamato e frettoloso, le sue labbra premono solo per un attimo contro le sue, nemmeno troppo convinte, come se fosse un convenevole da togliersi dai piedi il più in fretta possibile. Bill quasi trova interessante come Fler senta il bisogno di baciarlo prima di infilargli le mani nelle mutande. A quanto pare c'è della dolcezza sotto la scorza dell'uomo indurito dalla galera, pensa dando fondo ha tutta la malignità ironica di cui, fortunatamente, la natura lo ha provvisto.
Fler gli lecca le labbra, prima di spostarsi più in basso, sul suo collo, e lasciarvi una traccia umida di piccoli morsi confusi. Bill emette una risatina allegra – è trionfale, ma Fler nemmeno lo nota – mentre viene girato con poca grazia e appoggiato al muro. Apre bene i palmi delle mani contro la parete; lo ha già fatto così tante volte che il gesto di sistemarsi per mantenere l'equilibrio gli viene quasi automatico.
“Ehi, ragazzone,” dice mentre Fler, alle sue spalle, gli tira giù in fretta e furia i pantaloni, “Non dimentichi niente ?”
“Hmn?” Mugugna Fler, tenendogli una mano in mezzo alle scapole come avesse paura di vederselo scappare via di sotto gli occhi e armeggia con i propri pantaloni, imprecando perché, evidentemente, collaborano molto meno di quelli di Bill.
Il ragazzino, dal canto suo, manda indietro una mano, il palmo aperto e le dita che si chiudono e si aprono in un gesto molto chiaro. “Si paga in anticipo.”
Fler annuisce e si fruga nelle tasche dei pantaloni prima di lasciarli cadere a terra definitivamente.
Gli consegna la roba che lui si affretta ad infilarsi su per il naso, un po' perché ne sente improvvisamente il bisogno come non ne sentiva da giorni, e un po' perché sinceramente vuole già essere strafatto quando Fler gli entrerà dentro per iniziare a grugnire come un animale.
Ci mette più del previsto, in effetti. Quando lo sente farsi strada dentro di sé, Bill inarca la schiena e preme bene le mani contro la parete della cella che sembra improvvisamente un po' più sfocata e fa tanto ridere.
In ogni caso non ha molta importanza, perché lui non sa già più nemmeno dov'è.

*

Quando Bill torna in cella, si regge a stento sulle gambe. Ha un sorriso idiota sulla faccia che non promette niente di buono, e Bushido se ne accorge subito, perché li conosce, quei sorrisi lì. Li vede ogni giorno, stampati sulle facce instupidite dalla roba di tutti quei coglioni che non capiscono che quando sei chiuso in prigione – quando cioè sei confinato in un posto in cui altri decidono per te, stabilendo cosa devi fare, dove, quando e in che modo – l’unica possibilità che hai di mantenere un certo controllo sulla tua persona è evitare di fotterti la testa con la droga. Tanti la usano come una via di fuga, l’unico modo per evadere da una realtà di catene e sbarre di ferro, ma la verità è che la droga è l’esatto opposto. Cominciare a drogarsi quando si sta in galera significa rinchiudersi di propria spontanea iniziativa all’interno di una gabbia ancora più stretta di quella all’interno della quale ci si trova già, con possibilità di decidere per te stesso ancora più limitate rispetto a quelle che ti vengono concesse, che sono già fin troppo poche.
Drogarsi non è un problema perché fa male, drogarsi è un problema semplicemente perché è una cosa da idioti. E ti porta a fare cose idiote. E Bushido, in questo momento, non può permettere a Bill di fare cose idiote, non quando da ciò che fa può dipendere tanto di ciò che invece farà lui nel suo futuro.
- Ti vedo bene. – comincia, scendendo giù dal letto con un saltello e parandoglisi di fronte. Bill ride e scuote il capo.
- No, dai, oggi lasciami in pace, non mi va proprio di starti a sentire. – lo liquida, avvicinandosi al proprio letto con passo barcollante e lasciandovisi ricadere sopra con un sospiro soddisfatto e una mezza risatina. – Ah, sono tutto indolenzito. – commenta in un cinguettio compiaciuto, - Era un po’ che non mi divertivo così.
Bushido gli lancia un’occhiata disgustata, avvicinandoglisi e torreggiando sopra di lui, restando in piedi accanto al suo letto.
- Immagino. – commenta, - E immagino anche che ti sentirai un cazzo fiero di te stesso quando ti sarà passato lo sballo.
- Sai quanto me ne frega di essere fiero di me stesso? – ride Bill, rigirandosi sullo stomaco e dondolando le gambe in aria, - Faccio la troia, andiamo, quanta stima di me stesso pensi che abbia? E a cosa cazzo pensi che mi servirebbe averne? – ride ancora, ondeggiando con il capo a destra e a sinistra in un movimento fluido e delicato, come seguisse il ritmo ipnotico di una qualche canzone che solo lui può sentire. – Piuttosto, tu… - continua poi in un risolino ironico, voltandosi ancora sulla schiena e stiracchiandosi pigramente, - mi sa che faresti meglio a rivedere tutta l’alta considerazione che hai di te stesso, perché… ricordi tutte le tue belle parole sull’onnipotenza e tutta l’altra merda che hai in testa e con la quale ti sei convinto di essere chissà che cazzo di re dei re qua dentro? Be’, non vale una sega. – ride un’altra volta, dondolando ancora i piedi in aria.
Bushido inarca un sopracciglio, per nulla impressionato da quel suo continuo dimenarsi sul letto come un ragazzino di quattro anni.
- Cosa intendi? – domanda, una mano su un fianco e le sopracciglia aggrottate. Bill si lascia andare ad un altro risolino, e si sistema il cuscino sotto la testa, cercando di gonfiarlo per renderlo più comodo.
- Sono stato bravo, sai? – pigola, - Non sono andato da Sido a farmi dare la roba. Mh-hm. – scuote il capo, - Ho pensato che fosse più sicuro andare da qualcun altro. E poi… - ridacchia, - quando ho pensato alla faccia che avresti fatto sapendolo…! Cioè, non potevo rinunciare all’occasione.
Bushido trattiene il respiro per un paio di secondi, irrigidendo il braccio lungo il fianco mentre le dita della mano appoggiata sul fianco si contraggono impercettibilmente, tremando appena, dando a Bill una chiarissima idea di quanto sia arrabbiato, e di quanto stia cercando di tenere quella mano lì solo per non utilizzarla contro di lui.
- Cosa cazzo stai dicendo, ragazzino? – domanda Bushido, la voce bassa, cavernosa, pericolosa, e il sorriso di Bill si allarga.
- Sto dicendo che la droga me l’ha data uno dei tuoi ragazzi. – chiarifica una volta per tutte, stringendosi nelle spalle, - Evidentemente non ti sono tanto fedeli come pensi, visto che mi è bastato dimenare un po’ i fianchi per convincere Fler.
Bill non ha neanche il tempo di capire cosa esattamente stia succedendo. Un attimo prima è ancora disteso sul proprio letto e sente il corpo così piacevolmente pesante e intorpidito da riflettere sulla possibilità di farsi un pisolino come si deve, una volta tanto, e l’attimo successivo è in piedi, sollevato a qualche centimetro da terra, le dita di Bushido strette attorno al colletto della sua maglietta con tanta forza da chiuderglielo attorno al collo come una tenaglia, impedendogli di respirare. Si dimena, afferrando il polso dell’uomo con entrambe le mani e cercando di spingerlo ad allontanare la mano e lasciarlo andare, ma le dita dell’uomo neanche accennano ad allentare la presa, e Bill, sentendosi soffocare, perde la propria lucidità, e comincia a tempestargli il braccio di pugni e graffi, mentre tende spasmodicamente le gambe, per cercare di arrivare a toccare il pavimento almeno con le punte dei piedi, senza riuscirci.
- Potrei spezzarti in due con una mano sola. – ringhia Bushido, stringendo la presa e costringendo Bill a un gemito convulso, mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime, - Sei talmente un’inutile testa di cazzo che nessuno piangerebbe la tua scomparsa. La tua unica fortuna è stata arrivare in un periodo in cui di teste di cazzo come te ne erano già crepate troppe, perché se così non fosse stato tu saresti già all’altro mondo, e Dio solo sa se non sarei più che felice di farti fuori io stesso, ma la verità è che non ne vali la pena neanche per un cazzo. – conclude, scaraventandolo nuovamente sul letto. Bill si porta una mano alla gola, ripiegandosi su se stesso, scosso dai colpi di tosse mentre cerca di riprendere a respirare, rantolando pietosamente. – La prossima volta che ti avvicini ad uno dei miei, ragazzino, posso assicurarti che le statistiche sulla mortalità dei nuovi detenuti saranno in fondo alla lista delle mie priorità. – dice gelido, guardandolo con disgusto, - Tienilo bene a mente.
Bill neanche gli solleva gli occhi addosso, ed anche se lo facesse, con la vista così offuscata non riuscirebbe neanche ad individuarlo. Lo sente andare via, però, ed è una sensazione incredibilmente fisica, come se ad abbandonare la cella non fosse solo un corpo, ma anche tutta la rabbia che conteneva.
Solo allora gli sembra di riuscire a ricominciare a respirare liberamente.

*

Fler era un ragazzino, quando Bushido l’ha conosciuto. Aveva quattordici anni ed era ridicolo in tutte le sue manifestazioni, specie in quella in cui si dava un sacco di arie da adulto senza poterselo minimamente permettere, con quegli occhi azzurri enormi e quelle guanciotte rosa, per non parlare dei capelli, che appena si azzardava a fare tanto di lasciarli crescere qualche centimetro cominciavano a diventare chiarissimi e ricci come quelli di un putto.
Al tribunale dei minori l’avevano spedito a ripulire i muri che aveva contribuito a imbrattare con le sue tag – che poi erano il motivo per cui, in quello stesso tribunale, ci era finito – e Bushido l’aveva conosciuto proprio durante uno dei suoi turni. Fler – allora era ancora solo Patrick – dipingeva di bianco un muro e ogni tanto ci sputava sopra, giusto perché fosse chiaro che non lo faceva per piacere, ma solo per obbligo, e che se fosse stato per lui l’avrebbe magari imbiancato lo stesso, si, ma solo per riprendere a scarabocchiarci sopra subito dopo.
A Bushido era piaciuto l’atteggiamento. Lo aveva trovato ridicolo, in generale, ma in realtà gli aveva ricordato molto di quel se stesso che, qualche anno prima, aveva affrontato le strade con la stessa stupida tracotanza, supponendo presuntuosamente di poterle comandare con uno schiocco di dita, prima ancora di conoscerle. Lui aveva imparato sulla propria pelle a non commettere più errori di valutazione come quello, ma al ragazzino poteva andare meglio. A lui poteva rendere le cose più facili.
Più di ogni altra cosa, gli erano piaciuti i suoi occhi. Lo sguardo ardente, colmo di passione. Per come la vedeva lui, l’unico modo di comandare la strada era amarla. Amarla con passione, non come un’amica, non come una sorella, proprio come un’amante, un’amante pericolosa, una di quelle dalle quali ti devi guardare le spalle, ma anche una di quelle dalle quali finisci sempre per ritornare, perché non puoi farne a meno, perché ti appartengono, perché tu appartieni a loro.
Fler aveva negli occhi il germoglio di quell’amore. Bushido aveva sempre pensato con un certo orgoglio di averlo aiutato a farlo sbocciare.
È per questo che adesso dover recidere il gambo fa male. Anche se Bushido sa che va fatto, perché un’insubordinazione del genere non può essere tollerata, non può essere perdonata, non può essere nemmeno punita e basta, perché per quanto esemplare possa essere la punizione il succo rimarrebbe lo stesso: Fler ha disobbedito ad un suo preciso ordine, e sotto nessuna circostanza Bushido può adesso permettergli di continuare a fare parte dei suoi uomini. Fler non può espiare. Fler è fuori e basta.
- Ma si può sapere che hai oggi? Sei un pezzo di legno. – sta dicendo Chakuza, con tono lamentoso, quando lui entra nella cella. Non ha molto tempo, fra poco le gabbie verranno chiuse e le luci spente per la notte. Vorrebbe potersi prendere il tempo che gli serve, non tanto per dire ciò che deve, quanto per accettare di doverlo fare, ma d’altronde non può dimenticare che è sempre in una prigione che si trova. Per quante siano le cose sulle quali può avere un’autorità, la propria libertà personale non rientra nell’elenco.
- Fler. – lo chiama con severità, per attirare la sua attenzione, - Patrick.
Nel sentire la sua voce, Fler si irrigidisce all’istante, e Chakuza fa lo stesso quando si accorge che l’ha chiamato per nome. Guarda prima Bushido e poi il proprio compagno con aria confusa, ma non si azzarda a spiccicare una parola. L’espressione ed il tono di voce di Bushido non glielo consentono.
- Mi chiedevo quando saresti arrivato. – dice Fler, teso come una corda di violino. Le sue labbra a stento si muovono. Ha i pugni serrati e poggiati sulle ginocchia, le nocche quasi bianche, e le dita che tremano impercettibilmente per il nervosismo. – Non so come scusarmi.
- Non puoi farlo. – risponde subito Bushido, la sua espressione non cambia di un millimetro, anche se dentro di sé sta urlando; sta urlando dalla frustrazione, sta urlando dalla rabbia, sta urlando a Fler che è stato uno stupido a buttare via tutto quando per una cosa così insignificante come una cazzo di scopata, ma non può lasciarsi travolgere dall’emotività adesso, e se è diventato ciò che è, è anche e soprattutto perché ha sempre avuto il controllo sulle proprie reazioni. Se vuole rimproverare a Fler di aver perso questo stesso tipo di controllo, non può farlo perdendolo a propria volta. – Non c’è niente che tu possa dire o fare per cancellare la tua colpa. Sai meglio di me cosa sono venuto a fare.
Fler abbassa lo sguardo, colpevole.
- Aspetta un attimo… - si azzarda ad intervenire Chakuza, - Di cosa cazzo stiamo parlando? Cos’è successo? – si volta a guardare il proprio compagno con apprensione evidente, - Fler, che cazzo hai combinato?
- Ascoltami bene, Chakuza. – dice Bushido, mentre Fler resta immobile, pronto ad affrontare la sua condanna, - E bada di dirlo anche agli altri. – precisa, ed a questo punto anche Chakuza non può fare altro che pietrificarsi, perché quello che sta accadendo lo capisce perfettamente; è un rituale rodato. – Questo pomeriggio, Fler ha disobbedito ad un mio ordine, fornendo droga a quella rottura di coglioni del ragazzino in cambio di una scopata del cazzo. Per questo motivo, da questo momento in poi Fler non fa più parte della banda. Non dovrete più rivolgergli la parola, né fraternizzare con lui in alcun modo. – si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, - In alcun modo, Chakuza.
Le labbra di Chakuza tremano appena, come in una protesta muta, perché è ancora troppo sconvolto dalle informazioni che ha appena ricevuto per realizzare appieno cosa le parole di Bushido significhino. Ma il silenzio di Fler è troppo prolungato, la sua rassegnazione troppo evidente per porsi ancora delle domande a riguardo. È tutto vero. E sono ordini ai quali non è possibile disobbedire.
- Sì, Bushido. – annuisce quindi. Lui risponde con un cenno del capo, abbandonando la cella subito dopo, e a quel punto Chakuza non può fare altro che voltarsi a guardare Fler, allibito.
Lui ha ancora lo sguardo basso.
- Mi dispiace, Chaku. – mormora, - Lui ha… insomma, mi ha offerto qualcosa che tu non hai mai voluto darmi. – prova a giustificarsi. Chakuza aggrotta istantaneamente le sopracciglia, stringendo i pugni attorno al lenzuolo del letto sul quale è seduto.
- Non provarci nemmeno, Fler. – ringhia, - Non provare a darmi la colpa per quello che hai fatto. Noi avevamo un patto. Hai tradito Bushido, hai tradito la banda. – rimane in silenzio per un secondo, mordendosi con forza la lingua per cercare di trattenersi dal concludere il proprio pensiero, senza riuscirci. – Hai tradito me. – sussurra. Fler gli solleva addosso uno sguardo perso e contrito che Chakuza non riesce ad ignorare come vorrebbe. Per questo guarda altrove, mentre le celle cominciano a chiudersi con gli usuali scatti metallici, e poco dopo anche le luci vengono spente.
Chakuza si spoglia meccanicamente, fissando il vuoto e tendendo l’orecchio. Fler sembra immobile, pietrificato. Lui prende posto nel proprio letto e si sistema sotto le coperte, il viso rivolto alla parete apposta per non guardarlo, né ora, né quando si spoglierà per salire sul proprio letto.
- Mi dispiace, Chaku. – dice la sua voce nel buio. È lontana, e non conta più niente. Chakuza nemmeno risponde.

*

Bill ha vomitato l'anima e si sente uno straccio. Non è che prima di finire in galera si facesse regolarmente – la regolarità sistematica è per i tossici, a lui serviva per sciogliersi – ma capitava di tanto in tanto e il suo corpo ne reggeva abbastanza da non disfarsi appena finiva l'effetto. A quanto pare è bastato un soggiorno da quelle parti per fargli passare del tutto il vizio. Quando ha riaperto gli occhi era buttato su una sedia della sala comune senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato. Poi ha sentito il sapore di marcio in bocca e si è trascinato nei bagni per vomitare. Per un attimo, mentre era chino su uno dei lavandini e la testa gli girava da far paura, si è chiesto dove cazzo fosse perché il bagno era pulito come quello di casa dei suoi, ma era quasi certo di non aver mai fatto in tempo a vomitarci dentro prima che suo padre lo buttasse fuori a calci nel culo. Il cervello ci ha messo un po' a mettersi al passo e, intanto che lo faceva, Bill s'è trascinato fino al primo muro disponibile e si è seduto per terra, in attesa che il mondo smettesse di girare. Ora fissa il vuoto, di nuovo accasciato per terra. Potrebbe alzarsi, ma non ne ha voglia e comunque sul pavimento si sta bene e nei bagni c'è silenzio.
O almeno, c'era finché quel tipo assurdo, Eko, non spalanca la porta e si ferma sulla soglia, a metà di un passo, fissandolo con i suoi occhietti rotondi e idioti da topo. “Ah, bello mio, non hai mica una bella cera,” commenta schioccando la lingua e scuotendo la testa.
Bill emette un lamento e torna a nascondere la faccia nelle proprie braccia incrociate. “Fammi il favore, sparisci e lasciami in pace,” sibila.
Eko chiude la porta con un piede, ancora in quella ridicola posizione a metà di un passo e, visto che è semi-chinato in avanti, sembra uno di quegli angioletti che sputano acqua dalle fontane, solo tristemente più brutto. Si avvicina ai lavandini ignorando completamente la sua richiesta e apre con grande attenzione la sua busta da bagno, dalla quale esce ogni genere di oggetto inutile. “So che hai combinato un bel casino,” continua.
“Ti ho detto di andartene,” insiste Bill. “Lo farei io, ma è meglio se non mi alzo.”
“Infatti, sta' pure disteso,” annuisce Eko, del tutto sordo a qualsiasi cosa farfugli quando riesce a snodare la lingua intorpidita. “Sai, non è stata una mossa tanto furba la tua. Qua sono tutti piuttosto elastici con la proprietà privata, un oggetto non è mai veramente tuo finché anche gli altri possono vederlo, capisci cosa intendo? Per questo c'è un botto di gente che viene ricoverata con roba nella pancia o nel culo. Perché quando vuoi che nessuno ti tocchi qualcosa, è meglio se la butti giù. Con le persone però è diverso, specie se queste persone sono di qualcuno da un sacco di tempo,” Eko scuote ancora la testa, mentre si riempie la faccia di schiuma da barba. “Le persone non si toccano, quando le tocchi succede sempre casino, tanto casino. Sai quanta gente c'è morta perché aveva toccato qualcuno? Prova a dire un numero. No, ma non lo dire, tanto non ci avvicini nemmeno. Comunque tanta. E tu che cosa vai a fare? Non solo tocchi Fler che non era roba tua, era roba di Chakuza e prima ancora di Bushido, ma vai a farti, con la sua roba quando Bushido ti aveva espressamente proibito di fare una qualsiasi di queste cose.”
Bill si lamenta ancora una volta, a voce più alta. “Ma che problema hai tu quando ti si dice di toglierti dai coglioni?” Sbotta, decidendo infine che se quello non se ne va, tanto vale cercare di andarsene lui. Si tira su a sedere e il bagno gira ancora. La buona notizia è che smette subito, così lui può provare ad alzarsi.
“Non mi piace andarmene quando me lo dicono gli altri,” annuisce Eko, come fosse una domanda seria.
“Sì, come ti pare,” borbotta Bill, aggrappandosi al muro per tenersi su.
“Comunque, a mio modesto parere, dovresti ragionare su quello che è accaduto oggi,” continua Eko, radendosi con cura ma agitando anche il rasoio in maniera vaga e preoccupante. “Ma naturalmente non lo farai perché sei un deficiente.”
“Ehi!” Sbotta Bill. Vorrebbe farsi valere, ma quando stacca le mani dal muro, a stento si regge in piedi, così non gli rimangono che le parole. “Vacci piano, d'accordo?”
“Non devi mica vergognarti. Io ce l'ho un cugino deficiente. Si chiama Ismet e non capisce un cazzo di niente, ma gli vogliamo tutti bene lo stesso.”
Bill rotea gli occhi e si chiede se tornare in cella non sia comunque preferibile allo stare qui con questo pazzo che blatera. “Mi fa piacere,” commenta, decidendo di avanzare un lavabo dopo l'altro fino alla porta.
Quando però è quasi arrivato alla porta e ha faticosamente messo mano alla maniglia, Eko parla di nuovo. “Sei uscito dalla sua cella in condizioni pietose, non stavi nemmeno in piedi. Mentre lui buttava fuori Fler dal gruppo, tu facevi il giro della prigione, strusciandoti praticamente su qualunque cosa avesse un pisello e ti accasciavi in un angolo della sala comune, privo di conoscenza. E nonostante questo, nessuno ti ha toccato perché in questo posto ormai l'hanno capito che sei uno dei suoi. E le persone degli altri, come ho detto, non si toccano mai se non si è pronti a fare un gran casino.”
Bill si ferma, la mano ancora sulla maniglia e deglutisce forte, buttando giù saliva e vomito e anche qualcosa che non sa bene cos'è, ma non va giù e gli stringe la gola.
“Bushido sarà anche una testa di cazzo, te lo concedo, ma non è uno stronzo. Se ti tiene d'occhio è perché conosce questo posto meglio di te e conosce pure te più di quanto tu non ti conosca da solo,” dice Eko, fissandolo attraverso il riflesso dello specchio e battendo gentilmente il rasoio contro il bordo del lavandino. “Gli mancano due mesi per uscire di qui con la condizionale. Quindi si, a lui conviene che tu non ti faccia ammazzare ma più che a lui conviene a te, mi segui? Se ti sta col fiato sul collo, è perché il suo fiato qui è un fottuto campo di forza. Abbiamo perso uno dei nostri perché pensavi che il tuo culo non valesse abbastanza per tenerlo al sicuro. Pensaci prima di fare qualche altra cazzata e credere che Bushido fa lo stronzo con te perché non ha altro di meglio da fare. Prova a pensare a chi ha fatto lo stronzo per primo e a chi ha perso di più, per colpa di chi.”
Eko si volta e torna a radersi senza guardarlo più.
Bill resta lì ad aspettare che lo faccia per un po', la mascella serrata per la tensione. Le sue dita si stringono intorno al ferro della maniglia ancora una volta, poi la preme di scatto verso il basso e scivola fuori dal bagno in silenzio.

*

La loro cella non è molto grande e ha una sola finestra, ovviamente sbarrata; ma è così piccola che quando fuori fa brutto tempo entra a malapena un filo di luce e a metà pomeriggio sembra già sera inoltrata.
Quando supera la soglia e si guarda intorno, ci mette un po' ad inquadrare Bushido che è disteso immobile sul letto di sopra, ma è così sottile che, se non si gira di fianco, non sporge poi troppo dal materasso.
Anche se Bushido non si muove, però, Bill sa che è sveglio dal modo in cui respira. Per questo si aspetta di sentirlo aprire bocca non appena fa un passo all'interno e invece niente, il silenzio.
Bill ha la brutta abitudine di irritarsi quando non viene considerato, probabilmente perché attirare l'attenzione è l'unica cosa che sa fare e, quando non gli riesce nemmeno quello, non è una bella sensazione.
Rimane lì in piedi vicino alla porta per un po', senza sapere esattamente come comportarsi e poi decide di darsi qualcosa da fare lavandosi le mani nel piccolo lavandino della cella.
“Ho parlato con quel tipo, il turco,” dice, buttando lì il primo argomento che gli viene in mente. Non che Eko sia granché come argomento, ma visti i recenti sviluppi, è anche l'unico.
Dal letto non arriva nessuna risposta. Bushido continua a restare disteso con gli occhi chiusi.
“Tanto perché tu lo sappia, non l'ho avvicinato io,” continua Bill, ricordandosi di essere stato minacciato a riguardo nemmeno qualche ora prima. “E' venuto lui da me. Più che altro è andato al cesso e io ero già lì.”
Bushido si schiarisce la gola, ma senza aprire gli occhi.
Bill chiude il rubinetto e si asciuga le mani. “Quando parla non si capisce un cazzo,” dice ancora, buttando lì una mezza risata che però non copre la tensione crescente nella sua voce. “E poi tiene dei pastelli a cera nella bustina da bagno insieme al dentifricio. Non ci sta con la testa, vero?”
In tutta risposta, Bushido si volta di lato, dalla parte del muro. E Bill si rompe le palle.
“Guarda che lo so che sei sveglio,” gli fa presente e, quando l'uomo si ostina a non rispondere, afferra una delle gambe del letto a castello e lo smuove, producendo un rumore sgangherato di ferro che attira una delle guardie. Bill gli fa cenno che è tutto a posto e, dopo aver lanciato un'occhiata dubbiosa alla cella, l'uomo si allontana di nuovo. “Di' un po', hai intenzione di continuare a comportarti come un bambino di cinque anni ancora per molto?” Chiede, strafottente.
“Dovresti esserci abituato,” la voce di Bushido arriva un po' roca, forse perché è stato in silenzio per ore, ma non sgradevole come invece suona la sua la prima volta che apre bocca al mattino, “tu lo fai di continuo. Io mi sono solo adattato al tuo modello comportamentale.”
“Bel modo di dimostrare maturità, per uno che accusa me di essere una testa di cazzo,” replica Bill.
Fa per distendersi su letto ma, quando vede che Bushido si sta girando verso di lui, ci rinuncia per accoglierlo a braccia incrociate, guardandolo storto.
“Per tua informazione, io non devo dimostrare niente, ragazzino,” risponde, guardandolo dritto negli occhi senza nessuna esitazione, cosa che Bill non riesce a fare con continuità. “Tu invece, fino a prova contraria, sei ancora una testa di cazzo.”
Bill diventa paonazzo, incapace di controllare la propria rabbia. Per uno che, bene o male, ha dovuto imparare a tenere a bada le proprie emozioni per battere in strada, è un fallimento di proporzioni epiche non riuscire a sostenere una conversazione senza dare di matto. Ma la colpa è dello stronzo e del suo stupido modo di fare, come se il mondo dovesse sempre inginocchiarglisi ai piedi. E lui cretino, ha anche pensato che potesse esserci un modo per comunicare con questo idiota pieno di merda.
Tutte queste cose però non gliele dice perché anche se le sue labbra tremano e la sua lingua ha una gran voglia di sciogliersi e vomitargli addosso tutto quanto, la gola gli fa ancora male dove lui l'ha stretta.
“Sai che ti dico, torna a fare finta di dormire,” sputa quindi, infilandosi nel proprio letto infastidito, tanto per avere la scusa di allontanarsi per quel che può. “Non ho bisogno di te, né tanto meno di parlarti. Anzi, se non ti sento aprire bocca e sparare le tue stronzate, tanto meglio.”
“Per me va bene,” dichiara Bushido. “Se vuoi rinunciare alla mia protezione, sono affari tuoi. Ne riparliamo tra due settimane, magari per allora ti sarà tornato in mente come ti hanno conciato quando hai voluto fare per conto tuo.”
Bill fissa le molle del letto sopra il suo che ondeggiano un'ultima volta, segno che Bushido si è girato di nuovo. Pensava che si sarebbe sentito meglio dopo aver vinto una battaglia contro di lui, ma ha la bocca amara e non è sicuro si tratti solo di vomito.

*

È la prima volta che vede suo fratello da quando è rinchiuso in questo buco di merda, e non può fare a meno di sentirsi nervoso al riguardo. Ormai è in prigione da quasi due mesi, e naturalmente questa è la prima visita che riceve. È la prima volta che mette piede nella piccola sala accuratamente sorvegliata, piena di tavoli rotondi e sedioline basse e scomode. Le pareti sono grigie, il pavimento è grigio, anche i mobili sono tutti grigi, così come i distributori automatici sistemati in fondo alla stanza. L’unica cosa colorata, all’interno dell’ambiente, sono le merendine tutte in fila oltre i vetri, e naturalmente i vestiti dei parenti in visita.
Tom arriva in perfetto orario, e Bill ha immaginato questo momento molto a lungo durante i giorni che hanno seguito l’ultima telefonata che si sono scambiati, e ha sempre pensato che sarebbe stato composto, quando l’avrebbe visto, che non si sarebbe lasciato travolgere dalle emozioni, che l’avrebbe tenuto a distanza – d’altronde, era sempre stato bravissimo, in questo, almeno da quando era andato via di casa –, che avrebbe fatto di tutto per dare a Tom l’impressione di essere perfettamente in grado di cavarsela da solo, anche in un ambiente palesemente ostile come quello, ma la verità è che, dopo tutto quello che ha passato da quando è qui, vedere il suo volto lo scuote fin dentro, e non è capace di stare immobile, semplicemente deve seguire il primo impulso che gli attraversa i nervi e i muscoli, e salta in piedi, lanciandosi verso di lui per allacciargli le braccia al collo, nascondendo il viso contro il suo petto con un sospiro sollevato.
Tom lo accoglie fra le proprie braccia con la naturalezza di chi non ha mai perso l’abitudine a farlo, e Bill non può fare a meno di pensare che è incredibile che ci riesca ancora esattamente come quando erano più piccoli, anche se negli ultimi anni hanno passato molto più tempo lontani l’uno dall’altro che insieme. Il pensiero non manca di riempirlo di tristezza, come ogni volta, ma si forza a tenerlo lontano dalla propria mente fin da subito. È stata una sua scelta, in fin dei conti. Sarebbe ridicolo pentirsene adesso.
- Ehi. – lo saluta Tom, allontanandosi da lui per sorridergli un po’ tristemente e guardarlo da ogni lato, come ad assicurarsi che sia ancora tutto a posto, - Stai bene?
- Sì. – risponde Bill con un mezzo sorriso incerto, le mani ancora poggiate sul suo petto.
- Balle. – lo rimbrotta Tom, accarezzandogli una guancia, - Sei così magro che fai paura. Non mangi?
- Tomi, ti prego, da quando sei diventato nostra madre? – sbotta Bill, allontanandosi da lui e prendendo posto su una delle due sedie attorno ad uno dei pochi tavoli rimasti liberi. Lo sguardo di Tom si incupisce all’istante, quando lo sente nominare Simone. Si siede di fronte a lui e sospira.
- Perché non vuoi che le dica dove sei? – gli domanda apprensivo, - Verrebbe a trovarti.
- Appunto. – ribatte seccamente Bill, - Non ho mai voluto vederla quando vivevo praticamente per strada, cosa ti fa pensare che possa volerla vedere adesso che vivo in un posto ancora peggiore?
Tom sospira ancora, passandosi una mano sul volto.
- Non ha mai smesso di preoccuparsi per te. – dice a bassa voce.
- Non è esatto. – ritorce Bill, distogliendo lo sguardo, - Ha cominciato quando a me non serviva più, è diverso.
- Sei crudele, Bill. – lo rimprovera suo fratello, lanciandogli un’occhiata di fuoco, - Mamma ti ha sempre capito. Ti ha—
- Non mi ha mai difeso. – lo interrompe Bill, gelido, come non gli importasse nemmeno. – So che non l’ha fatto solo perché aveva paura di papà. Ma se pensi che questo possa giustificarla ai miei occhi, ti sbagli. Tu ti sei preso botte che non ti spettavano, per proteggere me. Lei non l’ha mai fatto.
Tom si copre il viso con entrambe le mani, scuotendo il capo.
- Dici cose agghiaccianti, Bill. – esala in un rantolo, - Per favore, sta’ zitto.
Bill obbedisce, serrando le labbra e guardando in basso, mordendosi con forza l’interno di una guancia. Riesce a capire perché Tom inorridisca al pensiero di suo fratello che giudica l’affetto dei propri familiari attraverso le botte che sono stati capaci di prendersi per difenderlo dalla furia di suo padre, ma allo stesso tempo non riesce ad immaginare nessun altro indice per misurare una cosa del genere, per cui per quale motivo non dovrebbe essere quello? Ha capito che poteva fidarsi di suo fratello quando Tom si era fisicamente messo di mezzo fra la sua guancia e il palmo ruvido della mano di suo padre. Sua madre non l’aveva mai fatto. Se poteva esserci un metro per stabilire chi dei due tenesse di più a lui, non poteva essere che quello, per quanto squallido e, probabilmente, fuori di testa potesse sembrare.
Aspetta che Tom si sia calmato, e quando lui finalmente smette di coprirsi il viso e torna a guardarlo si arrischia perfino a rivolgergli un sorriso incoraggiante. Tom risponde con un sorriso uguale, lasciando scivolare una mano sulla superficie del tavolo, a cercare la sua da stringere. Bill gliela concede senza indugiare, godendo del calore delle dita di suo fratello strette teneramente attorno alle sue.
- Non parliamone più. – dice Tom, scuotendo il capo, anche se è evidente che intende “almeno per ora”, - Sono felice che almeno tu abbia voluto vedere me. Finalmente. Sei uno stronzo.
Bill ridacchia, stringendosi nelle spalle e ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Credimi, è stato meglio non vedersi fino ad adesso. – risponde. Se solo ripensa a tutti i lividi che ancora aveva addosso fino ad un paio di settimane fa, si sente male. Non avrebbe mai potuto farsi vedere da Tom ridotto in quelle condizioni, senza contare il dolore alla schiena che ancora ogni tanto lo tormenta. Sa bene, ad esempio, che quest’incontro non potrà durare più di una ventina di minuti, e questo non tanto perché gli incontri coi familiari siano regolati secondo una tabella oraria molto precisa e inamovibile – lo sono, comunque, come tutto in quel dannato posto – ma perché Bill sa che dopo venti minuti passati seduto su una sedia tanto scomoda la sua schiena comincerà a protestare molto vivacemente, e lui sarà costretto ad andare via se non vuole scoppiare a piangere davanti a Tom. È già tutto abbastanza difficile senza dover aggiungere l’umiliazione di una cosa simile.
È per questo che si è rifiutato anche solo di chiamarlo per così tanto tempo, ed è sempre per questo che, pur dopo averlo chiamato, aver parlato con lui due o tre volte ed avergli chiesto un po’ di soldi da mandargli con la posta e magari una maglietta ed un paio di pantaloni nuovi, visto che i suoi erano ormai ridotti a brandelli per i motivi più svariati, ha esitato ancora più a lungo prima di accettare che venisse a trovarlo, e questo nonostante sapesse – riusciva a sentirlo nella sua voce – quanto Tom fosse impaziente di vederlo, di sincerarsi che stesse bene osservandolo coi propri occhi.
Questo perché lui non sta bene. L’unico modo che ha di stare bene quando il dolore – non solo quello alla schiena – comincia a farsi troppo forte è andare da Sido, e farsi dare un po’ di roba. È per quello che gli servono i soldi. È per quello che continua a chiederne. Ma questo a Tom non può dirlo, non vuole dirglielo, malgrado suo fratello abbia dimostrato negli anni di essere perfettamente in grado di continuare ad amarlo nonostante tutta la merda che sputava o in cui si andava a cacciare ad intervalli regolari.
Tom lavora per sostenerlo. Piccoli lavoretti, naturalmente, perché suo padre non avrebbe mai accettato di dargli dei soldi da passare a lui, ma è sempre stato così, da quando Bill è scappato di casa. Bill ha cercato più e più volte, all’inizio, di dirgli di smetterla, di fargli capire che non aveva bisogno dei suoi soldi, che scopando in giro riusciva a mantenersi perfettamente, ma la verità è che erano tutte bugie, e Tom non ha mai sbagliato a leggerle nei suoi occhi, per cui per quanto Bill potesse tentare di allontanarlo Tom si rifiutava di lasciarglielo fare, ed è sempre tornato, portandogli sempre qualcosa. Dopo un po’, Bill ha smesso di sentirsi in colpa nell’accettare il suo denaro, ma quel senso di colpa è tornato a farsi sentire con prepotenza da quando quel denaro ha cominciato a finire puntualmente nelle tasche di Sido o di uno dei suoi spacciatori di fiducia sparsi per il braccio.
- Lo sai, Billi? – dice Tom, stringendo appena la presa delle proprie dita attorno alle sue, - Sono preoccupato.
Bill sospira, roteando gli occhi.
- Lo sei sempre. – sbuffa, scrollando le spalle.
- E ho sempre ragione ad esserlo, non ti pare? – insiste suo fratello, ma lo fa con un sorriso tanto dolce che è impossibile arrabbiarsi con lui.
- Sto bene. – ripete Bill, annuendo con più decisione. Non sa chi sta cercando di convincere, se Tom o se stesso. In ogni caso, non funziona granché bene.
Tom distoglie lo sguardo, stufo di sentirsi dire bugie e di poterle leggere così chiaramente nei suoi occhi. Preferisce ascoltare Bill mentire senza doverlo guardare. È più semplice fingere di potergli credere, così.
- D’accordo. – annuisce, alzandosi in piedi. Bill lo segue nel movimento all’istante. – Ti… ti manderò qualcos’altro, fra un paio di giorni. Al massimo una settimana. Puoi resistere, nel frattempo? – gli domanda, tornando a guardarlo negli occhi mentre gli accarezza il viso. Bill si appoggia al palmo della sua mano, annuendo lievemente, e stavolta non sta mentendo.
- Ho ancora qualcosa da parte, non preoccuparti. – lo rassicura. Tom sorride ed annuisce ancora, tirandoselo contro per un altro abbraccio.
Quando l’agente di guardia davanti alla porta comincia ad avvisare tutti i presenti che l’orario di visita sta per concludersi, Bill fa un sacco di fatica a lasciarlo andare.

*

Non passa neanche mezz’ora, che si sta già dirigendo verso la cella di Sido. Stringe le dita attorno alle banconote tutte spiegazzate che tiene in tasca, e non può fare a meno di pensare che incontrare Tom sia stato un errore madornale. Adesso la sola idea di spendere così quei soldi gli dà la nausea, ma è una nausea che non può permettersi, specie quando conosce quella che gli afferra lo stomaco e lo devasta quando sta troppo tempo senza una dose. Non è ancora mai andato in crisi d’astinenza – non ne ha avuto il tempo, e fortunatamente neanche il modo – ma quello che ha sentito nella sua vita, quello che ha visto durante gli anni di permanenza per le strade e la scossa di dolore nervoso che ha già provato sulla sua pelle quando ha lasciato passare troppo tempo fra una sniffata e l’altra sono tutte informazioni abbastanza circostanziate perché lui possa sapere al di là di ogni ragionevole dubbio che in quella condizione non intende trovarcisi proprio per un cazzo. E quindi, senso di colpa o meno, inghiotte amaro e si ferma davanti alla cella di Sido.
Appena fuori, proprio davanti alla porta, c’è un gorilla che sarà anche appena più basso di lui, ma in compenso è largo tre volte tanto. Bill ripensa con un po’ di nostalgia ai tempi in cui per strada per seminare uno stronzo come questo bastava un calcio nelle palle. Qui non può farlo – il rischio è di finire in buca, e non ci tiene affatto a farsi spogliare di tutti i suoi vestiti per finire abbandonato in una cella sotterranea sporca e maleodorante, senza finestra e con solo un secchio in un angolo per pisciare, per chissà quanto tempo – ed anche se potesse i giorni in prigione gli hanno insegnato la prudenza a suon di botte. E la sua schiena ancora ne risente, e ci tiene a ricordarglielo pungendo dolorosamente all’altezza dell’osso sacro. È già stato in piedi troppo a lungo.
- Fammi passare, Tony. – ringhia con evidente nervosismo. Quello sghignazza, incrociando le braccia sul petto.
- Magari oggi a Sido non va di vedere la tua faccia di cazzo, Kaulitz. Che ne pensi? – domanda, appoggiandosi con tranquillità alle sbarre dietro di lui. Sido, seduto su una sediolina di legno che tiene in equilibrio sui piedi posteriori, ha le gambe incrociate sulla superficie del tavolo di fronte a sé, e le mani intrecciate sullo stomaco. Osserva la scena senza mostrare né interesse, né disinteresse. Semplicemente attenzione.
- Tony, levati dai coglioni. – insiste Bill, le mani che tremano lungo i fianchi, - Ho i soldi. Non costringermi a ficcarteli su per il culo.
- Dici che mi piacerebbe? – chiede ancora quello, già ridendo fra sé per la battuta che sta per fare, - Te lo chiedo perché sai, il parere di un esperto è sempre importante.
Tutto il corpo di Bill è scosso da un tremito di frustrazione e impazienza, e sta quasi per tirargli un’unghiata in un occhio fregandosene della prudenza ed anche della paura di quante ne prenderebbe se si mettesse a litigare con Tony D, quando Sido tira giù le gambe dalla scrivania, mettendosi in piedi.
- Vatti a fare un giro, Tony. – dice gelido, incrociando le braccia sul petto ed appoggiandosi ad una parete. Tony D sta ancora ridendo, mentre si allontana verso la sala comune.
Bill irrompe nella cella come una furia, tirando fuori dalla tasca tutti i soldi che ha e schiantandoli contro la superficie del tavolo con stizza, guardando Sido negli occhi e digrignando i denti.
- Bella storia siete, voi maschi alfa di questo buco di merda. – non può fare a meno di commentare, - Vi nascondete tutti dietro chi ha le spalle più larghe di voi, sempre. Siete solo delle mezze seghe. Tu, quell’altro, tutti uguali. Avete tutti i vostri mastini favoriti coi quali fingere di poter fare la voce grossa anche se sapete perfettamente che se solo volessero potrebbero spezzarvi le gambe con uno schiocco delle dita. Mi fate pena.
Sido sorride, apparentemente neanche turbato dalle sue parole.
- Ciao, Bill. – lo saluta con un breve cenno del capo, - È un piacere anche per me.
- Non sono in vena di convenevoli, né di false cortesie, e sicuramente quello che ho detto fino ad ora non c’entra niente col piacere di vederti, che giusto per essere chiari non esiste. – batte con forza la mano sulle banconote sparpagliate sul tavolo, - Dammi quella merda e fammi tornare in cella.
Sido si prende il proprio tempo, prima di rispondere. Guarda lui, poi i soldi sul tavolo, poi di nuovo lui, e sorride ancora.
- Tu facevi la puttana, prima di finire qui. Correggimi se sbaglio. – comincia. Bill rotea gli occhi e lascia andare un lamento infastidito. Non c’è speranza di ottenere quello che vuole in tempi brevi, se ne rende conto anche da solo, sa capirlo quando qualcuno temporeggia nel tentativo di confonderlo, perciò lascia il denaro sul tavolo ed incrocia le braccia sul petto a propria volta, fissandolo dritto negli occhi, con attenzione.
- Non sbagli. Ora posso avere quello per cui ho pagato e andarmene? – domanda. Sido scuote il capo, smette anche di sorridere. La sua espressione si fa seria, perfino professionale, e Bill non sa più cosa aspettarsi da lui.
- Cosa penseresti, - dice, - se ti dicessi che ho una proposta per te?
- Penserei che non me ne frega niente e che ti sei bevuto il cervello. – sbuffa Bill, picchiettando nervosamente la punta del piede contro il pavimento, - Sido, qual è il tuo problema? – domanda annoiato, ma Sido non risponde. Si volta verso il tavolo, raccoglie tutte le banconote sparse sulla superficie, le spiana, le mette in ordine in un blocchetto che si prende perfino il tempo di pareggiare, e poi le porge a Bill.
- La mia proposta potrebbe permetterti di risparmiare questi spiccioli per qualcosa di meglio. – spiega, - Che ne so… ho sentito dire che se ne hai abbastanza da parte, puoi permetterti di corrompere qualche agente di custodia. – aggiunge con un mezzo sorriso, - E quando hai un agente di custodia dalla tua, la vita qua dentro può essere molto più semplice. E mi pare che a te un po’ di semplicità servirebbe eccome.
Bill gli lascia scorrere addosso un’occhiata incuriosita, anche se mantiene le braccia incrociate sul petto in segno di chiusura. Posa gli occhi sulle banconote che Sido continua tranquillamente a porgergli, e qualche secondo dopo gliele strappa di mano con un gesto secco, infilandosele sbrigativamente in tasca.
- Continua. – lo invita, senza però mostrare particolare interesse. Sido, comunque, sorride come se avesse vinto chissà che guerra.
- È da qualche mese che cerco di mettere su una nuova attività, da queste parti, - comincia vago, - ma purtroppo non ha ancora avuto modo di decollare perché, capisci bene, manchiamo in materia prima.
- …materia prima. – ripete Bill, inarcando un sopracciglio, - Posso solo immaginare di che tipo di materia prima si tratti, visto che ne stai parlando con me.
- Immagini bene. – ridacchia Sido, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, per accomodarsi meglio contro la parete. – Insomma, ti sarai guardato intorno, da quando sei qua. Sei senza dubbio il più carino del gruppo. La gente pagherebbe per scoparti, come ben sai. E questo è un po’ il punto del mio discorso.
Bill rimane in silenzio per un paio di secondi, prima di concedersi un mezzo ghigno ironico.
- Non dirai mica sul serio? – sbotta, - Qui dentro? Vuoi farmi fare la puttana a tempo pieno qui dentro? Devo ricordarti che è per questo motivo che ci sono finito, qui?
Sido si stringe nelle spalle, sorridendo beato.
- Gli anni di esperienza nel campo contano, Kaulitz. – risponde semplicemente, - La mia proposta, comunque, è questa. Tu lavori per me, e in compenso… - si infila una mano in tasca, tirandone fuori una fialetta trasparente. Bill le lancia un’occhiata veloce e tutti i suoi sensi tornano ad acuirsi in un istante in maniera quasi dolorosa, pungendo sottopelle. La vuole. La vuole adesso. Direbbe di sì a qualsiasi cosa, per averla, e non riesce neanche a provare pena per se stesso mentre lo pensa. Ma se almeno può ottenerla senza per questo buttare via i soldi di Tom…
- D’accordo. – annuisce in fretta, afferrando la fialetta prima ancora che Sido possa aver sollevato completamente la mano. La stringe fra le dita con tanta forza che potrebbe spaccarla, ed è solo pensando a questo che cerca di allentare un po’ la presa. – Dimmi cosa devo fare.

*

Una delle docce gocciola. Solo nel bagno comune, appoggiato ad una parete e in nervosa attesa dell’uomo al quale ha appena venduto il culo per una fottuta dose il cui effetto non sarà durato più di cinque minuti, Bill non riesce a concentrarsi su nessun altro dettaglio. Gli effetti della dose stanno ancora scivolando via, sono lenti come l’acqua sporca agli angoli delle strade dopo che ha piovuto per ore, e si lasciano dietro la stessa velenosa traccia viscida e spiacevole. E il cazzo di rubinetto della doccia gocciola, e il suono si allarga dentro le sue orecchie in cerchi concentrici che gli fanno pulsare dolorosamente le tempie, e tutto quello che riesce a pensare è che plic il fottuto rubinetto della doccia plic gocciola plic. E lo stronzo non arriva. Plic.
Sta quasi per andarsene, dal momento che la schiena lo sta uccidendo e se resta in piedi un secondo di più palesemente morirà, quando il tizio che sta aspettando finalmente arriva. Solo che non è da solo. Non è uno, e non sono nemmeno due. Sono tre, e appena Bill riesce a mettere in moto il proprio cervello confuso abbastanza da contarli tutti, fa immediatamente un passo indietro.
- No. – dice risolutamente, - Io non le faccio queste stronzate. Potete tornare indietro e dire a Sido che per quello che mi interessa può anche andare a farsi fottere.
I tre si guardano fra loro, sembrano stupiti. Poi si lanciano sorrisi complici l’un l’altro, e riprendono ad avanzare verso di lui.
- Sai cosa, puttana? – dice uno di loro, allungano una mano ed afferrandolo per i capelli, tirandoli con forza ed obbligandolo a gemere di dolore mentre piega il capo all’indietro, cercando di seguire il suo movimento per non farsi troppo male, - Ce ne frega un cazzo di cosa fai o non fai. Abbiamo pagato, quindi ora tu stai buono e te lo fai mettere su per il culo, anche da tutti e tre contemporaneamente, se ci gira. Ci siamo capiti? – conclude con uno strattone. Bill quasi grida, ma poi si morde un labbro, e cerca di trattenere le lacrime che si stanno già raccogliendo fra le sue ciglia. Schiude gli occhi, guarda il tipo che lo tiene ancora stretto per i capelli, e digrigna i denti. Dopodiché, gli sputa in faccia.
- Certe cose le puoi ottenere solo pagando, quando sei una merda come quella che siete voi. – ringhia, e il tipo ringhia a propria volta, asciugandosi il viso col dorso della mano e poi afferrandogli la testa più saldamente, solo per spingerlo di faccia contro la parete.
Bill osserva il muro avvicinarsi quasi al rallentatore, e quando sbatte contro la superficie piastrellata e gelida il dolore gli esplode nella testa come una bomba, in macchie biancastre che gli offuscano la vista. Urla, e urla più forte quando qualcuno lo prende a calci nelle gambe, all’altezza delle ginocchia, che si piegano contro la sua volontà.
Il secondo dopo è rannicchiato sul pavimento, apre gli occhi e vede solo rosso e uno stronzo lo sta prendendo a calci nella schiena con tanta forza che lui non riesce a smettere di urlare. Semplicemente non riesce, ci prova a tenere la bocca chiusa, se non altro per non dare soddisfazione a questi psicopatici di merda, ma fa semplicemente troppo male, e il residuo della droga che ha sniffato non fa che amplificare la sensazione di dolore riempiendogli il corpo di brividi insopportabili, e lui continua a scuotersi e a urlare e gli stronzi continuano a calpestarlo, e quando uno dei tre gli sfila di dosso i pantaloni lui pensa “bene, cazzo, adesso almeno magari la smetteranno di picchiarmi e si concentreranno per scoparmi”, ma un altro dei tre stronzi gli si inginocchia accanto e gli sorride in un modo che gli fa quasi scoppiare il cuore di paura. Bill lo osserva sollevarsi la manica della maglietta fino al gomito e stringere la mano a pugno e pensa “no, cazzo, Dio, Dio, ti prego, no”, e ansima terrorizzato, e vorrebbe provare ad alzarsi in piedi e fuggire via, ma le gambe non rispondono, e la schiena fa male come gliel’avessero spezzata, e lui non riesce più a respirare, e poi le nocche dell’uomo premono contro di lui e lui urla così forte che si sente esplodere i polmoni nel petto, e strabuzza gli occhi, e poi qualcosa si spacca, e a lui non resta più fiato neanche per gridare.
Mentre la vista gli si annebbia, gli sembra di scorgere una figura familiare sulla porta del bagno. Una figura piccola, magra, che si muove in maniera strana. “Eko?” pensa, ma potrebbe essere un’illusione, così come la vocetta nasale che sillaba “merda”, un attimo prima che la figura scompaia, veloce com’è apparsa.
Un paio di minuti dopo, però, entrano in bagno cinque persone. Bill non vede un cazzo di quello che sta succedendo, non gl’importa nemmeno. Tutto quello che sa è che un attimo non respira, e l’attimo dopo qualcuno lo svuota, e lui può finalmente tornare a respirare. Anche se fa male. Come fa male tutto il resto.
Fa tutto così fottutamente male che non riesce a tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo neanche per riconoscere Bushido che, mentre i suoi riducono quei tre bastardi in fin di vita, lo solleva di peso fra le braccia e lo trascina di corsa in infermeria.

*

Bill ha imparato a riconoscere l'infermeria dalla lampada che pende storta nel centro del soffitto pieno di crepe, così quando apre gli occhi non perde neanche un secondo a chiedersi dove si trovi. Impiega più tempo a capire perché sia di nuovo disteso su un letto e si senta stanco, assonnato e debole.
I ricordi arrivano insieme al dolore, quello sordo tra le gambe e quello più acuto e quasi insostenibile alla schiena che sembra essersi svegliata all'improvviso insieme a lui.
Geme infastidito e tenta di girarsi di fianco, che è l'unico modo che conosce per alleviare le fitte pungenti, ma non riesce. Non riesce nemmeno a capire quale arto sta muovendo quando lo muove. Se lo muove. Ha la testa così confusa, chissà quanti cazzo di antidolorifici gli hanno dato. Chissà quanto cazzo farebbe male senza; il solo pensiero lo fa rabbrividire.
Prova di nuovo a voltarsi, lancia un braccio sul materasso e afferra il lenzuolo. Cerca di usare quello per issarsi, ma gli sembra di pesare una tonnellata. Riesce soltanto a sollevarsi di qualche centimetro e, quando ricade giù, la schiena fa ancora più male e il dolore gli strappa di bocca un lamento disperato del quale si vergogna. E' così stanco che ha voglia di piangere.
Furioso, tira un pugno sul materasso mentre si morde forte un labbro per trattenere le lacrime di dolore e frustrazione. Non può stare disteso in quel modo un minuto di più, lo sa. “Dottoressa,” mormora. La voce gli esce debolissima e roca, rotta dal respiro affannato. Prova a chiamarla più forte ma non arriva nessuno. Gli fa male perfino la gola.
Mette insieme le forze, si concentra e si gira di scatto con un gesto rabbioso. Cercando alla cieca un appiglio a cui aggrapparsi, urta il vassoio che c'è sul comodino e quello cade, portandosi dietro una scodella, le posate e tutto il resto del suo pranzo, probabilmente. Ricade anche lui, sul materasso, e la fitta di dolore è così forte che lo riduce ai singhiozzi. “Vaffanculo!” Piagnucola. “Vaffanculo.”
“Ehi, piano” gli dice qualcuno, posandogli una mano sul braccio.
Bill fa uno scatto che gli strappa un'altra smorfia di dolore. Si volta a guardare chi è stato con tanto odio che quello fa un passo indietro. E' uno degli uomini di Bushido, quello basso e pelato.
“Tranquillo,” Chakuza tiene le mani bene in vista. “Non voglio farti niente. Mi sono avvicinato solo perché sembravi nei casini. Ti ricordi di me? Sono Chakuza.”
Bill lo guarda male un altro po' prima di sbuffare. “Mi hanno quasi stuprato, non ho mica perso la memoria,” replica infastidito. Si sforza di tirarsi su, ma anche mettersi seduto è un'impressa impossibile e per quanto tenti di nasconderlo, il dolore gli contorce i tratti del viso.
“Posso aiutarti?” Chiede Chakuza, prima di farsi avanti di nuovo.
Bill vorrebbe dirgli di andare a fanculo, ce l'ha sulla punta della lingua e la rabbia che prova per tutto e tutti indistintamente in questo momento vorrebbe tanto farglielo dire, ma non ce la fa più a stare in quella posizione. Così annuisce brevemente.
“Vuoi sederti?” Chiede l'uomo, sorreggendolo per il braccio.
Bill scuote la testa velocemente. “Di lato va bene,” lo informa mentre il peso sulla schiena si allenta e il dolore diventa più sopportabile. Adesso gli viene quasi da piangere per il sollievo.
“Ecco fatto. Va meglio?”
Bill annuisce sbrigativamente. Vorrebbe poter chiudere la conversazione adesso che non ha più voglia di accasciarsi e morire, ma Chakuza resta di fianco a letto e l'ombra della sua testa rotonda si allunga sulle coperte che sta fissando, impedendogli di ignorare completamente la sua presenza. Così sospira e si volta verso di lui con un sopracciglio sollevato. “Ti serve qualcosa?” Chiede.
“A me no, ma magari hai fame,” commenta lui. Voltandosi per recuperare un altro vassoio dal carrello che si trascina dietro.
Bill lancia un'occhiata al cibo che è finito per terra, dall'altra parte del letto.
“Lo avevo appoggiato sul comodino visto che dormivi,” si giustifica Chakuza, seguendo il suo sguardo mentre sistema il nuovo vassoio sul braccio mobile perché possa accedervi più facilmente.
Bill torna a guardare lui e quello che sta facendo. Chakuza dice cose talmente ovvie che non trova nessun argomento con cui replicare, perciò resta in silenzio mentre l'uomo appoggia con cura il piatto di carne e verdura, l'acqua, il pane e una porzione di budino alla vaniglia.
“L'hai fatta tu questa roba?” Chiede Bill.
“Non dirmi che hai paura,” commenta Chakuza, passandogli il tovagliolo e le posate, che poi sono solo una forchetta di plastica con le punte arrotondate e un cucchiaio, sia mai che gli venga in mente di sgozzare qualcuno. “Se serve a farti stare più tranquillo, non mi conviene avvelenare il cibo che servo. Non ho alcuna voglia di marcire qui dentro per sempre. “
Bill sbuffa dal naso, iniziando a tagliare la carne. “Lo dicevo perché ha un bell'aspetto,” precisa, con un ghigno. “Hai la coda di paglia, per caso?”
Chakuza non se la prende, ma a dirla tutta non sorride neanche. “Da queste parti è sempre meglio pensare al peggio e poi, nel caso, cambiare opinione,” commenta.
“Sì,” borbotta Bill. “Me ne sono accorto.”
“Sempre troppo tardi,” Chakuza nota l'occhiata che gli lancia una delle guardie e si affretta a fingersi indaffarato. In via del tutto eccezionale, decide che può raccogliere lui quello che è caduto. “Sei stato fortunato.”
Bill immagina che a fronte della possibilità di prendersi una malattia venerea, perdere un arto o l'uso cosciente del proprio corpo, lo strazio di una schiena a pezzi e dei dieci punti che gli hanno messo nel culo siano considerabili come una fortuna. Forse crepare lo sarebbe stato di più. “Infatti, non lo vedi come festeggio?” Chiede ironico. “Credo che lo champagne arriverà da un momento all'altro.”
“Dico sul serio,” insiste Chakuza. “Se non fosse stato per Eko, poteva andarti molto peggio.”
Allora era davvero lui la figurina magra che ha intravisto prima di perdere i sensi. “Mi è sembrato di vederlo,” mormora.
“Non doveva essere lì. Ti ha seguito di sua spontanea volontà, perché è pazzo o sa il cazzo perché,” spiega Chakuza, mentre impila i piatti sporchi sul carrello. “Dovresti ringraziarlo appena esci dall'infermeria.”
“Se mai uscirò, sarà il mio primo pensiero,” fa in modo di suonare ironico ma non gli riesce un granché bene, forse perché ogni volta che apre bocca gli torna in mente la paura che ha provato – che non era quella buona che ti tiene all'erta ma quella violenta e paralizzante che non ti serve a sopravvivere a niente, perché ti lascia inerme contro qualunque pericolo ti si pari davanti – ed è consapevole che se non ne ha provata di più lo deve soltanto a quell'uomo con la faccia da topo.
“Bene,” annuisce Chakuza, sollevandosi finalmente da terra. “E magari potresti provare a mostrare un po' di riconoscenza in generale. “
Bill gli alza subito addosso un'occhiata altezzosa e infastidita. “Prego?”
Durante tutto il tempo che ha passato là dentro, Bill si è abituato che alle sue reazioni scostanti la gente reagisce ridendo oppure trattandolo ancora più di merda di quanto lui non faccia con gli altri. Chakuza invece sospira. “E' normale che tu non voglia fidarti di nessuno qua dentro, soprattutto perché hai visto quanti pezzi di merda ci sono,” spiega. “Ma dopo che ti sei fatto un'idea di che aria tira, ti accorgi che un amico ti serve. Qua dentro da solo non puoi sopravvivere. Vale per tutti, non solo per quelli come te.”
“Che sarebbero?”
“Quelli che non si sanno difendere,” specifica Chakuza, con molta più pazienza di quanto, ancora una volta, Bill si aspetti da lui. “Ed è inutile che fai quella faccia, perché sei tu quello su un letto d'ospedale e io quello in piedi, quindi almeno su questo mi darai ragione.”
Bill non smette di fare nessuna faccia anzi, se possibile lo guarda perfino peggio, e fa schioccare la lingua. “Di' un po' ti manda lui, per caso?” Chiede, sviando il discorso.
“No, non mi manda nessuno perché, se ti è sfuggito, questo è il mio lavoro,” replica Chakuza. “Comunque Bushido era preoccupato per te. Quando Eko è venuto ad avvisarci, è sbiancato, che per lui è una bella impresa.”
Bill si fa scappare una risatina che gli esce camuffata come l'ennesimo sbuffo, ma è comunque riconoscibile, tanto che anche Chakuza ride.
“Non ci ha pensato un secondo, ragazzino,” aggiunge poi più serio, con una scrollata di spalle. “E dopo tutto quello che ci hai combinato e abbiamo... perso, per pararti il culo, forse sarebbe il caso che ti ricredessi, non ti sembra?”
A quel punto la guardia ne ha avuto abbastanza e si incammina verso di lui, costringendolo a recuperare il suo carrello senza poter aggiungere altro.
Bill è contento così perché sa di poter dire le parole che ha in gola una volta sola, e non sarà qui.

*

Jost è incazzato come una bestia.
Non che Bushido si aspettasse di trovarlo pacifico e pronto al dialogo, ma quando la guardia lo fa entrare nell'ufficio del direttore, lui ha appena finito di sbattere il telefono contro il muro dall'altra parte della stanza e quello, naturalmente, si è fracassato in tre pezzi.
“Sai che l'infarto è una delle più comuni cause di mortalità tra gli uomini della tua età, specialmente quelli che fanno un lavoro di merda come il tuo?” Commenta, mettendosi obbediente al suo posto, con le mani bene in vista davanti a sé.
“Stai zitto!” Urla Jost, senza che per altro Bushido sia colpito dalla violenza con la quale lo fa. “Abbi la decenza di tacere, almeno.”
Bushido chiude la bocca, ma con l'aria di uno che ti accontenta. Jost questa cosa di lui non la sopporta, come non sopporta tante altre cose, ma questa più delle altre perché Bushido non dovrebbe accontentare nessuno. Lui dovrebbe eseguire gli ordini perché è un detenuto. E i detenuti fanno questo, ma lui ovviamente si sente al di sopra di tutto. Ce lo ha scritto in faccia e alle volte Jost ha davvero una gran voglia di prenderlo a pugni finché non si stanca.
Alla fine si ricorda che non può e si ricorda anche che, fra tutte le cose che non può permettersi di fare, mostrarsi così vulnerabile è proprio l'ultima, pertanto emette un sospiro e lo guarda duramente. “Quello che è successo oggi è inammissibile,” inizia. “Da chiunque e da te più di chiunque altro.”
“Non mi sembrava di essere un detenuto speciale. “
“Ti sembra eccome, Ferchichi,” continua Jost. “Ti sembra eccome. Io garantisco per te per farti dare la condizionale e tu mi mandi d'urgenza tre uomini in ospedale?”
Bushido, in realtà, non ha mandato all'ospedale proprio nessuno. E' entrato in quel bagno, ha rotto il naso a uno dei tre e ha lasciato che i suoi si occupassero del resto mentre recuperava le quattro ossa di Bill per portarlo in infermeria. Jost lo ha fatto chiamare solo perché sa che Chakuza e gli altri ragazzi non si muovono senza che lui lo abbia ordinato.
“Chiamiamoli danni collaterali. Mi hanno attaccato, mi sono difeso.”
“Li hai quasi ammazzati.”
Bushido non fa una piega. “Quasi,” dice soltanto. “Si vede che sono scivolati e hanno battuto la testa nel modo sbagliato. Succede.”
“Piantala con le cazzate!” Sbraita David. “Con questa bravata hai messo a rischio la libertà vigilata! Non posso coprirti in eterno.”
Bushido fa qualche passo irritato verso la scrivania. “Vuoi parlare di cazzate, David?” Ringhia, a voce abbastanza alta da stabilire quanto sia incazzato ma non abbastanza da richiamare l'attenzione della guardia fuori. Jost si fa indietro per affrontarlo, ma senza paura. “Parliamo di cazzate! Pensi davvero che se mi sono mosso dalla mia cella per prendere a calci nel culo tre stronzi lo abbia fatto per divertirmi e rischiare di perdere tutto quello per cui ho lavorato finora? Te lo dico io, Jost, no. Li ho fatti pestare perché stavano per violentare il tuo fottuto ragazzino. “
“Avresti potuto chiamare le guardie.”
“Vuoi sapere la cosa divertente, Jost? Le ho avvertite le tue stramaledette guardie. Eko ha avvisato loro prima di me ma si vede che quelle sono sorde perché sono arrivate mezz'ora dopo. Se la prendono comoda i tuoi uomini, eh? Tanto c'è tempo. D'altronde che cazzo vuoi aspettarti da gente che sa benissimo quali zone è meglio non perlustrare se non si hanno né le palle né la voglia di intervenire!”
David si appoggia allo schienale della sedia e per un attimo guarda altrove. Fosse un qualsiasi altro detenuto, replicherebbe e magari negherebbe anche, ma con Anis Ferchichi no. Se fra loro c'è il rapporto che c'è – per quanto sbagliato possa essere – è anche e soprattutto perché non si sono mai detti cazzate a vicenda. Certo, Ferchichi ne spara di grosse ma non con la volontà di fargliele anche bere, e David non gli mente, nel bene e nel male. Pertanto annuisce, prendendo atto della pigrizia di guardie carcerarie che può permettersi di punire fino ad un certo punto.
C'è uno strano equilibro nelle carceri, fra gli occhi che si possono chiudere e i reati che non si possono commettere e mantenere la bilancia perfettamente in pari è il compito più difficile di tutti. Guarda caso il suo. “Chi è stato?”
“Sido, è stato,” sbuffa Bushido, mentre la rabbia lo abbandona come fosse bastato urlare per liberarsene. Torna anche al suo posto. “Non ti è arrivato l'ultimo numero del gazzettino ufficiale?”
“Siete sul piede di guerra, lo so,” replica Jost infastidito. Conoscere lo status quo della prigione è un fattore importante per mantenere tutto sotto controllo.
Bushido scuote la testa. “No, lui è sul piede di guerra,” precisa. “Io sto cercando di tenerlo buono.”
“Pestando a sangue tre dei suoi?”
“Ha iniziato lui.”
David annuisce ironicamente. “E questo non ha niente a che vedere con l'allontanamento di Fler?” Butta lì, come se fosse una cosa da nulla.
Bushido lo fulmina con lo sguardo. “No.”
David lo fissa dritto negli occhi per minuti interi e poi sorride. “Diciamo che faccio finta di crederti perché ne ho piene le palle di tutti e due,” commenta, recuperando qualche foglio e iniziando a scriverci sopra come se volesse in questo modo annunciare la fine della discussione. “Tu pensa a stargli lontano anche quando uscirà dalla buca. Spiegherò alla commissione la tua posizione, farò leva sul fatto che il tuo spirito comunitario è più spiccato di quello degli scagnozzi di Sido. E speriamo che questo faccia ombra sul fatto che è l'ennesima storia di droga.”
“Ti aiuterà il fatto che né te né la commissione avete prove a riguardo.”
“Le prove si trovano.”
Bushido ride. “Auguri, allora.”
Jost chiama la guardia e lo fa portare via senza abbassarsi a rispondergli ancora e a Bushido sta bene così. Sa che per un po' almeno le acque si calmeranno e lui potrà sistemare il macello che si è andato a creare, come al solito. Esce dalla stanza con la flemma di chi non ha nessuna fretta né di raggiungere qualche altro posto né di liberarti della sua presenza perché sa che ti dà fastidio e si lascia ricondurre docilmente nella cella che ancora vuota. Bill dev'essere ancora in infermeria.
Non si preoccupa però, Chakuza è lì a controllare e se fosse successo qualcosa, Bushido lo saprebbe già, pertanto si issa sul suo letto e si distende con uno sbuffo stanco, coprendosi gli occhi con un avambraccio.
E' così che Bill lo trova, quasi quaranta minuti dopo, quando faticosamente riesce a tornare in cella, con l'aiuto della guardia che è costretta a sostenerlo perché la schiena gli fa ancora male.
Rimane per un po' al centro della stanza, i rumori della prigione vanno affievolendosi, è quasi ora che spengano le luci, ormai.
“Sei tornato,” dice Bushido, senza cambiare posizione.
Bill annuisce e stringe i pugni lunghi fianchi, per darsi coraggio stavolta, ma le parole fanno tutto da sole. Escono più facilmente di quanto sperava, forse perché sono davvero sincere. “Grazie per oggi,” mormora.
Bushido gli fa solo un cenno. Non c'è bisogno di dire altro.

*

La vita nella prigione diventa più facile. Non che le pareti si colorino di rosa e i detenuti comincino a cantare in rima spargendo ovunque amore e gioia, ma almeno non tentano più di ammazzarlo, scoparselo o fare le due cose insieme e, per quanto lo riguarda, a Bill sta bene così. Naturalmente questo succede perché lui ha deciso di accettare la protezione di Bushido – il che significa che ovunque vada uno dei suoi uomini lo tiene d'occhio, in ogni momento della giornata – e quindi nessuno che abbia un cervello si azzarda anche solo ad annusarlo da lontano. Dopo la schiena a pezzi, i punti di sutura e una dose di legnate che in confronto quelle di suo padre erano carezze, Bill comincia quasi ad abituarsi e ad apprezzare la possibilità di farsi una passeggiata nel cortile senza rischiare la vita. Ad aiutare questo processo c'è anche il fatto che Bushido non gli fa mai pesare il fatto che glielo avesse detto. Non nomina mai quello che è successo in passato, non ne fa nemmeno un accenno. Dopo l'aggressione per volontà di Sido – che, intanto, pare non si sia ravveduto quando Jost glielo ha chiesto la prima volta dopo tre giorni e che, per questo, sia ancora chiuso in buca con nessuna prospettiva di uscirne tanto presto – Bushido ha ricominciato da zero, con lui e lo ha perfino trascinato via da quel buco di merda della libreria per farlo trasferire nelle cucine con i suoi ragazzi, adesso che può farlo senza rischiare niente.
Bill davvero non sa come possa ottenere sempre tutto quello che vuole con Jost. Lui e il direttore della prigione hanno parlato una volta soltanto, quando lui è entrato, e non è che si siano detti grandi cose.
Più che altro Jost ha tentato di avvisarlo che sarebbe stato un inferno, solo che non l'ha fatto un granché bene, perché è evidente che non ha proprio un'idea chiara di quello che succede là dentro, della droga che gira, della gente che sparisce le ore per poi tornare più sfatta di prima. Bill vuole credere che non lo sappia, anche se in fondo è consapevole che è così, perché se solo pensa che sia a conoscenza di tutto, ricomincia ad aver paura delle cose orribili che si nascondono dietro l'angolo e non ne ha proprio voglia; non ora che la tensione si è allentata al punto che arriva perfino a scherzare con gli altri, ogni tanto.
L'unica cosa che Bushido gli ha davvero ordinato di fare è andare alle sedute di recupero per la sua dipendenza. Non è che Bill abbia fatto i salti di gioia – lui non è certo il tipo che si alza in piedi e racconta i cazzi suoi ad un cerchio di altri disperati che si sono ridotti a sniffare qualunque cosa pur di dimenticarsi in che mondo vivono – ma questa al tunisino gliela doveva, anche solo perché grazie a lui cammina ancora. Lui è contento, il tipo che gestisce le sedute pure e tutti dicono che funzionerà. A Bill sembra che funzionerà perché non c'è più nessuno che gli venderebbe la roba ormai, ma che sia per un motivo o per l'altro va bene uguale, a lui conviene non avere più crisi. Non vuole trovarsi a strisciare ai piedi di qualcuno peggiore di Sido. Se qualcuno del genere c'è.
Insomma, per essere uno che i primi mesi li ha passati in infermeria, con l'unica speranza che, una volta uscito, non ce lo rimandassero troppo presto, la sua vita è sensibilmente migliorata e questo significa che, oltre ai doveri – fin troppi – ha anche un certo numero di piaceri che ora può godersi senza dover sempre pensare a quanto fa schifo la sua vita in generale. Anche perché, a ben pensarci, per come stanno le cose adesso, faceva ben più schifo fuori.
Qui dentro ha un letto, il riscaldamento e mangia tre volte al giorno, se si escludono le docce in comune e qualche detenuto che dovrebbe imparare ad usarle, giusto per non rischiare di ammazzarli tutti, sta quasi pensando che alla fine di questi dodici anni che gli restano da passare in cella, potrebbe mordere un altro paio di uccelli e prolungare il soggiorno. Ha cominciato a scherzare, appunto.
Ora che scandisce il suo tempo con le cose che ha da fare, è anche più facile farlo passare. Qualcuno gli ha detto che così è anche più facile rendersi conto di quanto ne passa, ma lui ha scrollato le spalle e come al solito è andato per la sua strada.
Bill ha il risveglio difficile, nel senso che potesse dormirebbe per metà della giornata e passerebbe l'altra metà a svegliarsi buttato su una sedia a caso, ma non può farlo naturalmente; per questo Bushido, fra le tante responsabilità, si è accollato anche quella di afferrarlo per l'orlo dei pantaloni e tirarlo giù dal letto, tutte le mattine alle sette precise, quando le luci si accendono. All'inizio è stato traumatico – leggi molto irritante – ma alla fine si è abituato e da qualche giorno a questa parte, riesce perfino a prevedere quando la sua mano si allungherà verso di lui e si scosta prima, saltando giù per conto suo.
Il lunedì non è diverso dalla domenica dentro una prigione, ma per chissà quale automatismo mentale sono tutti quanti più scorbutici. Loro delle cucine devono sistemare le scorte, ne arrivano di nuove ogni inizio settimana. Bill pensava che ci fosse qualcuno – chi, gli gnomi? Lo ha preso in giro Saad – che lo faceva per loro, perché non si intascassero qualcosa, ma poi ha scoperto che tutto il cibo arriva in grossi bidoni pesanti che per aprirli devi comunque portarli in cucina, aprirli e poi rimettere a posto. Quindi se proprio ti fotti qualcosa, hai comunque prima fatto il tuo dovere.
Il mercoledì, Eko lo ha convinto ad andare in palestra, anche se poi lui non solleva nemmeno un chilo e a Bill fare pesi non interessa, così finisce che si siedono sulla panca e Bill gli fa duemila domande su Bushido e sulla banda, cercando di dare un senso al groviglio sconclusionato di parole che è il linguaggio di quell'uomo.
Il venerdì ha le sedute di recupero, il che significa che deve recarsi in questa saletta adiacente l'infermeria, sedersi sulla sua piccola sedia di legno e stare a sentire gli altri che si pentono e si dolgono di aver fatto uso di droga, alcuni trovano anche la faccia tosta di assicurare ai presenti che senza si sta meglio. Sì, forse. A Bill non importa granché ma è molto bravo a fingere il contrario. Lui non ha ancora parlato. Il medico o quello che è che presiede le sedute gli ha chiesto un paio di volte come stava, lui ha risposto bene e poi sono stati a guardarsi negli occhi per cinque minuti annuendo. Ha ancora molta strada da fare, pare.
Il resto del tempo in cui non lavora, non finge di allenarsi in palestra e non si oppone ostinatamente all'auto analisi, lo passa con Bushido. Bill lo segue letteralmente passo passo ovunque vada.
Adesso che hanno sistemato la questione della protezione, quell'uomo lo incuriosisce. Si chiede che cosa lo abbia spinto a continuare a difenderlo nonostante tutto. Bill è perfettamente consapevole che la libertà vigilata di Bushido è legata al suo comportamento, ma sa anche che la possibilità di un privilegio così grande si perde anche solo per la metà delle cose che Bushido ha combinato per parare il culo a lui. Ad un certo punto avrebbe anche potuto andare da Jost, visto che sembrano tanto in confidenza, e fargli presente che Bill non era affare suo e invece non lo ha fatto.
In questi giorni lo ha osservato attentamente mentre parlava con i suoi ragazzi o tentava un dialogo con i suoi nemici che invece gli hanno riso in faccia. Bill era lì di fianco e nessuno gli ha posato gli occhi addosso, hanno fissato solo Bushido fintanto che ha parlato.
A quanto gli è sembrato di capire Bushido sta lavorando da tempo nel tentativo di trovare un accordo con Sido, una specie di tregua. Ci stava provando già prima che arrivasse lui ma con scarsi risultati e ora, con Sido chiuso in buca, è ancora peggio perché i suoi uomini gli si sono chiusi intorno e se hanno un qualche sentimento nei confronti della situazione è di odio profondo. Detestano Bushido e lo vorrebbero morto, così quando si presenta nelle loro celle accompagnato da Bill, è già tanto se lo fanno parlare. Bushido però non molla, così come non ha mollato con lui.
“Si può sapere chi te lo fa fare?” Chiede Bill mentre lasciano la cella di Tony D.
“Fare cosa?”
“Questo sforzo assurdo. Cerchi di entrare nella testa della gente anche se quella ha chiaramente il piombo fuso nel cervello. Insomma, guardali!” Bill accenna agli uomini di Sido che, alle loro spalle, ancora ridono di gusto. “Come puoi pensare che capiranno mai qualcosa?”
Le labbra di Bushido s'increspano in un sorriso appena accennato che Bill riesce a vedere solo perché lo sta fissando anche se lui non lo guarda. “Vuoi dire che dovrei lasciar perdere chi si ostina a ripetermi continuamente no?”
Bill alza gli occhi al cielo mentre lo segue nei bagni. “Questa è una situazione diversa,” precisa.
“No, non lo è.” Bushido si slaccia i polsini della camicia e li tira un po' su, quindi si toglie l'orologio e glielo passa prima di accingersi a lavarsi le mani. “Sono solo incredibilmente testardi perché credono che accettare una tregua sia segno di debolezza. Quello che non capiscono, perché sono così pieni di loro stessi da non vedere nient'altro, è che se smettessimo di farci la guerra potremmo ottenere molto di più qua dentro.”
“Tipo?” Chiede Bill, rigirandosi il grosso orologio da uomo tra le dita magrissime.
“Più sicurezza, più libertà, la fiducia di Jost,” elenca Bushido. “Se vedesse che non ci ammazziamo per un posto in mensa, forse sarebbe più ben disposto ad organizzare attività di cui finora non ha nemmeno voluto sentir parlare. Ha paura di quello che potrebbe succedere da un momento all'altro e non gli si può dare torto quando i detenuti non fanno che aggredirsi gli uni con gli altri.”
“Com'è che tu e Jost andate così d'accordo?”
Bushido scrolla le mani nel lavandino e le asciuga sui pantaloni. “Che cos'è, stamattina, la giornata delle domande?” Esclama ridendo e riprendendosi l'orologio. “Non dovresti essere da qualche altra parte?”
“Sfortunatamente per te no,” replica Bill, che è costretto ad asciugarsi le mani anche lui dopo che Bushido le ha sfiorate con le sue. “Allora?”
“Allora cosa?”
“Tu e Jost vi conoscevate?”
Bushido espira dal naso. “Lo sai, ragazzino, non vado molto d'accordo con gli interrogatori,” gli fa notare mentre si avviano insieme fuori dai bagni e di nuovo in direzione delle celle.
“Non è un interrogatorio, sto facendo conversazione.”
“Allora non ti dispiacerà se ti faccio io qualche domanda.”
Bill ha passato troppo tempo per strada a dubitare di chiunque gli si avvicinasse, nascondendo per questo ogni tipo di informazione personale, per essere entusiasta di quella prospettiva, perciò si irrigidisce un po'; ma trova comunque la faccia tosta di stringersi nelle spalle. “Che cosa vuoi sapere?” Chiede.
Si incamminano lungo il corridoio che porta alle celle. Apparentemente hanno un sacco di libertà, ma i percorsi sono segnati, non ci sono molte alternative. “Quello che ti è venuto a trovare è tuo fratello?” Chiede Bushido.
“Cosa fai, mi spii adesso?” Chiede Bill, lanciandogli un mezzo sorriso storto e nervoso, più che altro per prendere tempo.
“Con te non si sa mai,” scherza Bushido. “Comunque mi trovavo a passare da quelle parti. E, anche se non rispondi... siete due gocce d'acqua.”
“Tom ed io siamo gemelli,” sospira Bill.
“Ma non mi dire,” Bushido ride di cuore. Una cosa che prima faceva spesso, a quanto dice Eko, ma che Bill non gli aveva mai visto fare. E' un po' assurdo che rida proprio parlando di suo fratello che, per lui, è tutto tranne che un argomento di cui ridere. “E anche lui fa la tua stessa vita?”
Bill scuote la testa. “No, lui è il gemello buono.”
Per un po' smettono di discutere perché Bushido deve fermarsi a parlare con un paio di persone e Bill resta lì al suo fianco, in silenzio. Potrebbe allontanarsi per evitare definitivamente l'argomento, e accarezza l'idea di farlo, ma poi si rende conto che potrebbe andare in ben pochi posti e che alla sera Bushido lo inchioderebbe di nuovo, quindi tanto vale restare. O forse gli piace stare lì a guardarlo mentre ha a che fare con gli altri detenuti, il modo un po' impostato ed eccessivo con cui si presenta, la posa che assume – molto rilassata eppure autoritaria – Bill non ha idea di come ci riesca, ma sembra che per lui i muri della prigione non esistono. Da come si muove ti dà l'idea che una volta finito di chiacchierare potrebbe continuare a camminare oltre il corridoio, superare la cancellata e uscire all'aria aperta. Così, come niente.
“E il resto della tua famiglia?” Quando Bushido riprende il discorso, sono nella sala comune e lui era perso nei suoi pensieri. “Tuo padre e tua madre?”
Bill si stringe nelle spalle. “Ci hanno guardati e dopo un'attenta analisi hanno deciso che lui era più conveniente.”
“Vuoi dire che tu eri troppo problematico?”
“Troppo frocio,” precisa subito Bill, con un'asprezza nella voce che non nasconde niente dell'odio che prova.
Bushido annuisce come se quel breve scambio di frasi fosse stato sufficiente a fargli inquadrare l'intero problema. Si trattasse di qualunque altra persona, Bill ne dubiterebbe fortemente ma, trattandosi di Bushido, gli concede il beneficio del dubbio.
“Quindi tuo padre non accetta il tuo stile di vita.”
A Bill scappa da ridere. “Sì, è un modo come un altro di dirlo.”
Bushido gli lancia uno sguardo interrogativo, forse il primo da quando si conoscono. Bill sbuffa un'altra risata, una amara però. “Quando mio padre lo ha saputo mi ha preso subito a cinghiate per evitare che il Signore lo ritenesse responsabile, immagino. Dopodiché mi ha spedito da un prete e da un medico e quando il primo non mi ha esorcizzato come sperava e il secondo gli ha confermato che non era una malattia, mi ha preso a cinghiate di nuovo, perché secondo lui non se ne danno mai abbastanza di cinghiate a chi ama prenderlo nel culo, che è tutto ciò che ha capito lui quando gliel'ho detto.”
“E tua madre?”
Gli occhi di Bill si fanno più scuri, come se fosse più difficile per lui parlare con tanta leggerezza della madre. “Mia madre è rimasta in silenzio, come suppongo ci si aspettasse da lei,” sospira. “Mio fratello mi ha difeso per un po', ma casa mia non era più vivibile e così me ne sono andato. D'altronde gli rimaneva sempre un figlio con cui consolarsi.”
“Non li senti mai? Neanche adesso?”
“Non credo che sappiano che sono qui. L'ultima volta che ho visto mio padre è stato quando me ne sono andato. Mia madre ha continuato a volermi incontrare per qualche mese, cercando di convincermi a perdere le cattive abitudini. Poi si è stancata anche lei,” Bill si stringe nelle spalle. “Immagino fosse più facile fingere che ero morto piuttosto che sapermi per strada, non so.”
“Tuo fratello deve volerti molto bene,” commenta Bushido, mentre raggiungono la cella. Sistema alcuni articoli da bagno che gli sono arrivati per posta sulla mensolina sotto allo specchio. “E' lui che ti porta i soldi?”
Bill annuisce. “Non dovrebbe, ma è impossibile farlo smettere.”
“Ha la testa dura come suo fratello,” sorride Bushido. Davanti allo specchio si schiaffeggia piano la faccia, come fa di solito. Bill non ha capito se è per ridare tono al viso o per svegliarsi, anche se propende per la seconda visto che Bushido non sembra il tipo da maschere facciali. “Sei fortunato ad avere qualcuno che sta dalla tua parte. Quando sei nella merda fino al collo, anche una persona sola fa la differenza.”
Bill lo osserva con attenzione, non perde nemmeno il più piccolo dei movimenti. Quand'era più piccolo non era così bravo a notare i dettagli, ma col tempo le cose sono cambiate; ha dovuto imparare a riconoscere le situazioni dalle prime avvisaglie, in modo da potersi difendere. E ora scruta Bushido mentre si aggira per la cella e rifà il proprio letto in maniera metodica e veloce, la maniera di uno che abituato a fare gli stessi gesti da un sacco di tempo. “Per te chi c'era?”
“Chi ti dice che c'era qualcuno?” Chiede l'uomo, allungandosi a stendere bene il lenzuolo.
Bill si è seduto per terra e scrolla le spalle. “Hai l'aria di uno che aveva qualcuno dalla sua parte.”
Bushido non si volta, ma sorride. “Era mia madre,” risponde Bushido e Bill resta stupito perché in realtà non si aspettava che l'uomo rispondesse. “Mi ha sempre difeso, anche quando non me lo meritavo perché mio padre se lo meritava sempre meno di me.”
“Non andavate d'accordo?”
Bushido solleva una spalla. “Quand'era sobrio andava quasi tutto bene. Ma non lo era mai,” spiega con un sospiro. La sua voce ha il tono rassegnato di chi una situazione l'ha già vissuta ad ogni livello e, quale che sia, vi ha già trovato una soluzione. Mentre a Bill fa ancora male sapere che a casa sua non si può più fare il suo nome, Bushido sta solo raccontando un fatto come un altro che casualmente è successo a lui come poteva succedere a chiunque. “Picchiava mia madre ogni volta che poteva e picchiava me ogni volta che cercavo di difenderla. Ho sopportato finché non ha messo le mani su mio fratello, allora non ci ho visto più. Quella è stata la prima volta che sono finito in galera.”
“Lo hai ucciso?”
Bushido scuote la testa. “No, ma lui mi ha fatto arrestare per aggressione perché gli ho rotto il naso. Mi sono fatto sei mesi di riformatorio,” spiega. “Quando sono tornato a casa, però, lui non c'era. Mia madre lo aveva buttato fuori a calci.”
Bill annuisce e basta, perché non sa che cos'altro dire.
A quanto pare lui e Bushido non sono poi così tanto diversi.
Quando Chakuza compare sulla porta della cella ad avvertire Bushido che è ora di occuparsi della cucina, Bill si chiede cosa sarebbe cambiato nella sua vita se tornando dall'ospedale quel giorno, a sparire di casa fosse stato suo padre e non lui.
Poi scuote la testa e si affretta dietro Bushido quando lui lo chiama.

*

Decide di farlo quella notte. Non che ci abbia davvero pensato, in realtà, non l’ha certo programmato o pianificato, ma è qualcosa di cui il suo corpo sente un intenso bisogno, prima ancora della sua mente. Non può che immaginare che si tratti di un residuo di quando ancora viveva a casa sua, dove niente lo aiutava a capire di fronte a chi si trovasse più delle reazioni fisiche che aveva in sua presenza. Il modo in cui suo padre lo guardava, come se neanche riuscisse a reggere la sua vista tale era il disgusto che la sua persona gli suscitava, il modo in cui sua madre distoglieva dolorosamente lo sguardo trincerandosi dietro un muro di scuse e di falsa impotenza, il modo in cui invece Tom non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di cercarlo con gli occhi, e con le braccia, ed a volte, nei momenti più duri, perfino con le labbra, quando sfiorava in un bacio infantile ma spaventosamente confortante qualche livido particolarmente vistoso su uno zigomo, o sull’angolo delle sue labbra.
Questa è probabilmente l’unica cosa che Bill ricorderà per sempre, di casa propria. E si tratta di un insegnamento che ha sempre seguito con scrupolosa attenzione.
Ed è per questo che quella notte scivola fuori dal proprio letto. Perché dopo le settimane che ha passato ad osservarlo, a seguirlo ovunque, a seguire perfino i suoi ordini fingendo che si trattasse di consigli per mandarli giù con meno difficoltà, c’è ancora qualcosa che vuole chiedere a Bushido, una domanda senza voce della cui risposta sente di avere bisogno più di qualsiasi altra cosa Bushido gli abbia mai detto, o dimostrato, o fatto capire a parole.
È un’azione che gli serve. Gli occhi che sfuggono o che restano incollati. Le mani che si avvicinano o si nascondono. I tocchi che si fanno curiosi o si ritraggono. Di questo ha bisogno. E dopo sarà facile, sì, sarà molto più facile capire il perché di molte cose. Perfino capire di più Bushido stesso.
La prigione è naturalmente avvolta nel buio più totale. Bill è rimasto sveglio tutto il tempo, per controllare gli agenti di custodia. L’ultimo è passato con la torcia una ventina di minuti fa, ed era il quarto. Ciò vuol dire che sono ormai quasi le cinque del mattino, fra un paio d’ore le celle verranno aperte e le luci riaccese, e nel frattempo nessun altro secondino dovrebbe passare a spiarli.
Bushido sembra dormire serenamente, il viso rivolto verso il muro. Le sue spalle si sollevano e si riabbassano lentamente, seguendo il ritmo placido del suo respiro, e Bill ne segue la linea con attenzione, rendendosi conto per la prima volta in quel momento di quanto in realtà sia quelle che tutto il resto del corpo di Bushido sia sottile. È strabiliante che, pur magro com’è, riesca a farsi rispettare da tutta quella gente. Se non lo conoscesse almeno un po’, se non sapesse che non è certo a causa della forza fisica di Bushido che tutti chinano il capo ad ogni suo ordine, non riuscirebbe neanche a crederci.
Gli viene perfino da sorridere, nel pensarlo, ma quando si accorge della piega che hanno preso le sue labbra – e i suoi pensieri – si affretta a scuotere il capo, liberandosi di quel fardello di melensaggini gratuite. Non è un ragazzino, non è stupido, e soprattutto di Bushido non gliene frega niente. Non in questo senso, almeno, e decisamente non prima di averlo sottoposto a quest’ultimo test.
Pianta le mani sul materasso e si issa senza difficoltà sul letto di Bushido, sedendosi sulla sponda per poi distendersi un attimo dopo, raggomitolandosi contro la schiena dell’uomo e strusciando il viso in mezzo alle sue scapole come un gattino in cerca di coccole, lasciandosi perfino sfuggire un mugolio minuscolo, giusto per attirare la sua attenzione e dargli una mano a svegliarsi, nel caso la sua improvvisa presenza da sola non sia riuscita nell’intento.
Bushido si sveglia – Bill lo sente nel ritmo del suo respiro, che cambia all’istante – ma non si agita. Sembra quasi che se l’aspettasse, anche se, in realtà, con Bushido non si può mai dire. Non ha quasi mai reazioni talmente improvvise o violente da far supporre che non immaginasse già che qualcosa dovesse prima o poi avvenire.
- Che cazzo stai facendo, ragazzino? – domanda, e infatti la sua voce è perfettamente tranquilla, perfino rilassata. Anche troppo.
Bill, comunque, sorride, allungando una mano a scivolare lungo il suo fianco, e poi avvolgendogli un braccio attorno alla vita.
- Non riuscivo a dormire, - risponde a bassa voce, lasciandogli baci lievissimi lungo la spina dorsale attraverso il tessuto di cotone sottile della canottiera che l’uomo indossa, - e perciò ho pensato di venire a farti una visitina. Magari potevi darmi una mano, - suggerisce, - o magari… - aggiunge con un altro sorrisino, la mano che scivola giù fra le gambe di Bushido, - potevo darla io a te.
Bushido non fa niente per fermarlo, e Bill non si accorge neanche di quanto questo dovrebbe deluderlo. Si è messo in questa situazione proprio perché voleva provare qualcosa a Bushido e a se stesso, d’altronde, perché voleva dimostrare che anche lui non è poi diverso da tutti gli altri uomini di quella prigione, perfino da tutti gli uomini che si sono avvicendati dentro e contro di lui per strada, e non stanno forse i fatti dimostrando che ha ragione? E non dovrebbe forse questo rattristarlo, o deluderlo, o perfino farlo arrabbiare, invece di costringerlo a sorridere stupidamente solo perché quest’uomo lo sta sostanzialmente lasciando fare?
Bushido lascia che la sua mano scivoli oltre l’elastico dei suoi pantaloni e lo stuzzichi lievemente attraverso i boxer. Si volta verso di lui, però, quando le dita di Bill superano anche quell’ultima barriera di tessuto, sfiorandolo leggermente. Non gli lascia il tempo di stringerlo, e nemmeno di accorgersi che i suoi tocchi non hanno davvero avuto su di lui l’effetto che Bill immagina abbiano avuto.
Bill allarga le braccia, accogliendolo contro il suo corpo, e non si accorge nemmeno che qualcosa non va, che Bushido non sta rispondendo come lui pensava che avrebbe risposto, come avrebbe dovuto rispondere.
Non se ne accorge finché non gli preme sulle labbra un bacio umido e gonfio di desiderio che non pensava nemmeno di stare provando. E sente quelle stesse labbra chiuse, e piegate in un sorriso sarcastico.
- Sul serio, ragazzino? – domanda Bushido, e Bill può sentire il trillo di una risata fra l’incredulo e l’ironico nella sua voce resa un po’ roca dalle ore di sonno, - Ci hai appena provato sul serio?
Bill ringhia, ritraendosi come si fosse scottato. Si stringe nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e squadrando con fastidio l’espressione divertita di Bushido.
- Sei uno stronzo. – grugnisce, quasi tremando dalla rabbia e dalla vergogna. Bushido, per tutta risposta, ride.
- Ma davvero? – domanda, scuotendo il capo, - Forse, - ammette quindi, - ma tu sei ridicolo. Sentiamo, cos’è che pensavi, esattamente? – ridacchia ancora, - Che in fondo in fondo tutto quello che ho fatto l’ho fatto per il tuo bel culetto? O per la tua bella boccuccia? E sentiamo, - aggiunge in un’altra risata, sempre più divertita, - pensi davvero che, se fosse stato questo quello che volevo, non me lo sarei già preso? Con le buone o con le cattive?
Bill distoglie lo sguardo, stringendo i pugni.
- Chi se ne frega. – sbotta astioso, - Era solo una prova, comunque. Per cui, bravo, Bushido. L’hai superata. Non te ne frega un cazzo del mio corpo e non mi hai aiutato solo perché volevi scoparmi. Complimenti, sei il primo uomo onesto che incontro, peccato che tu sia in galera perché evidentemente la tua onestà è solo una stronzata di facciata. E vaffanculo. – cerca di concludere, voltandosi istantaneamente dall’altro lato per saltare giù dal letto, ma Bushido glielo impedisce, afferrandolo per un gomito e schiacciandoselo contro.
- Non puoi prendermi per il culo, ragazzino. – gli sussurra all’orecchio, - Una prova? Ma fammi il piacere. Questa non era una prova.
- Non so di cosa cazzo stai parlando. – soffia Bill, cercando di sfuggirgli, - Lasciami andare.
- Non prima di aver chiarito il punto. – insiste Bushido, stringendolo più forte. Bill si impedisce di gemere di dolore solo perché non intende in alcun modo dargliela vinta, non più di quanto non se la sia già presa lui da sé.
- Che sarebbe? – ribatte con supponenza, voltandosi a guardarlo da sopra una spalla, per quanto può. Bushido sta ancora sorridendo.
- Sarebbe che non ci sono vie d’uscita facili, nella vita, ragazzino. Mai. – risponde, - Qui dentro, poi. E men che meno con me. A me dici la verità, Bill. Anche quella che non vuoi dire a te stesso.
- Ti ripeto che non so di cosa cazzo stai parlando! – ringhia ancora Bill, riprendendo a dimenarsi per costringere Bushido a mollare la presa e ottenendo in cambio soltanto le sue dita che affondano con forza ancora maggiore nell’interno del suo gomito.
- Lo so io, allora. – dice Bushido, e sta ancora finendo di parlare quando la sua mano si posa ruvida fra le sue cosce, premendo appena, giusto per mettere in evidenza l’erezione svettante che gonfia il tessuto morbido dei suoi pantaloni. Bill si lascia sfuggire un gemito frustrato senza riuscire ad impedirselo per tempo, e subito dopo arrossisce così violentemente da farsi venire un capogiro. – Non dirmi che era solo una prova. – prosegue l’uomo, lasciandolo andare per poi quasi spingerlo giù dal letto. Bill atterra sui piedi, si piega appena per il dolore alla schiena e poi si volta a guardarlo. Bushido lo sta fissando con estrema serietà. Non ha bisogno di aggiungere “perché sappiamo entrambi che non lo era”.
- …tu sei solo un bastardo. – gli sibila contro, allontanandosi quasi di un passo. Bushido agita una mano come a scacciare via quelle idiozie, voltandosi nuovamente verso la parete.
A Bill non resta molto altro da fare che rintanarsi un’altra volta sotto le coperte. Molto più scomodamente di prima.

*

Bill non gli rivolge più la parola. Dal giorno dopo in poi, anzi, agisce quasi come se Bushido non esistesse davvero. Segue i suoi ordini in cucina solo perché non vuole problemi, e perché sa che ignorarlo anche in quel senso non avrebbe altra conseguenza che indurre Bushido a parlargli di più, fosse anche solo per rimproverarlo. Bill, invece, non ha alcuna voglia né intenzione di sentire ancora la sua voce, ed è per questo che fa in modo di rigare dritto quando sa che deve farlo, mentre per tutto il resto del tempo si limita a starsene sulle sue, le braccia incrociate sul petto e il broncio di uno che sia convinto di essere stato offeso in modo così plateale, palese e gratuito da non poter pensare nemmeno lontanamente alla possibilità di un perdono.
Il primo giorno, Bushido si limita a registrare la cosa sotto la categoria “stronzate da ragazzino capriccioso e infantile”, e non se ne preoccupa. Gli passerà, si dice, e anche se non gli passa, chi se ne frega? Purché stia lontano dai guai.
Il secondo giorno, la cosa comincia onestamente ad infastidirlo. Bill non risponde neanche ai più banali buongiorno e buonanotte, lo fissa come fosse un criminale – cosa che è, ma un tale livello di disgusto per la questione non dovrebbe certo rispecchiarsi negli occhi di Bill, dal momento che lui faceva la puttana – ed è generalmente indisponente quando non direttamente insopportabile.
Bushido sente lo scatto della serratura alle sue spalle quando le guardie spengono le luci augurando a loro modo la buonanotte ai carcerati, e sospira profondamente, restando in piedi accanto al letto. Bill finge palesemente di dormire, quasi completamente nascosto sotto le coperte.
- Bill. – lo chiama a bassa voce, ma lui, naturalmente, non risponde. – Bill! – ripete dunque, e Bill sbuffa rumorosamente, scattando a sedere e voltandosi a guardarlo.
- Cosa cazzo vuoi?! – sibila, onestamente dispiaciuto dal non potere urlargli in faccia come vorrebbe.
Bushido recupera la sedia di plastica accanto al tavolo e la trascina vicino al letto, sedendosi ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia, piegandosi appena per poter guardare Bill più da vicino.
- Parlare. – risponde. Bill soffia, distogliendo lo sguardo.
- Io no. – ribatte secco. Bushido sospira un’altra volta, scuotendo il capo.
- Bill, non so cosa cazzo ti sia successo nella testa, ma qualsiasi cosa sia è un gran casino e ti tocca ripulirla. – dice quindi, - Credimi, posso capire per quale motivo tu possa esserti—
- Ma stai zitto! – lo interrompe Bill, voltandosi nuovamente a guardarlo con aria perfino incredula, - Ma sei un coglione o cosa?! Punto primo, qualsiasi cosa tu pensi di aver capito di me è sbagliata, questo posso dirtelo con sicurezza. Punto secondo, ti ho già detto che non voglio parlare, e potresti quantomeno fare finta di voler rispettare questo mio desiderio. E punto terzo, - i suoi occhi diventano sottili come quelli di un gatto, e ugualmente gelidi e distanti, - puoi comandare dentro questa prigione, Bushido, puoi comandare le mie azioni mentre lavoro, puoi perfino dirmi di stare zitto o levarmi dalle palle se non mi vuoi intorno, ma non puoi, Bushido, non puoi controllare quello che c’è nella mia testa. Per cui, piantala di ordinarmi di ripulire cose di cui non sai un cazzo, e vattene a dormire. Questa conversazione è finita. – conclude, tornando a distendersi sotto le coperte, fino a nascondersi quasi completamente.
Bushido ringhia fra sé, infastidito e frustrato. Non c’è proprio modo, si dice, di far funzionare le cose con questo ragazzino. E non riesce a capire perché non riesca a stargli bene anche così. Non è un uomo stupido, è sempre stato in grado di riconoscere una causa persa, ogni volta che se n’è trovata una davanti, ed è sempre stato abbastanza furbo da capire quando gli conveniva insistere su qualcosa, per quanto senza speranza potesse apparire, e quando invece fosse molto più utile girare i tacchi e scappare a gambe levate. Bill, decisamente, è qualcosa dalla quale dovrebbe scappare, anche perché ormai all’udienza per la libertà vigilata manca davvero pochissimo, ed a tutto dovrebbe pensare meno che a sistemare i rapporti con un ragazzino che, nel giro di un paio di settimane, se tutto va come pensa, non rivedrà mai più, ma semplicemente non riesce. Forse per ostinazione, forse per chissà quale altro motivo.
Ne parla con Saad, all’alba del terzo giorno di musi lunghi e occhiate al vetriolo. Lui lo fissa con una certa pietà, sospira e gli chiede “stai scherzando?”, e Bushido non saprebbe spiegare esattamente il perché di una reazione simile, perciò aggrotta le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Che cosa intendi dire? – borbotta contrariato, e Saad scuote il capo.
- Intendo dire che chi se ne frega, Bushido! – sbotta, - E in ogni caso, devi essere cieco, per non accorgertene. Ma poi fai sempre così, attorto a te succedono le cose più disparate, ma tu figurati se le noti. Ti ho detto mesi fa che credevo che Sido avesse in mente qualche stronzata delle tue, ma tu non mi hai creduto finché non hai visto coi tuoi occhi di che cosa stavo parlando! E anche stavolta è uguale, cose assolutamente palesi succedono tutte intorno a te e tu niente. È surreale come tu possa essere ancora vivo e soprattutto a capo di una qualsiasi banda.
- Saad, - grugnisce lui, - stai andando in cerca di rissa o cosa?
L’uomo si lascia sfuggire un mugolio esasperato, passandosi una mano sul volto.
- No, dico, - comincia, - esattamente, cos’è che ti aspettavi? Che non ti si appiccicasse al culo come una cozza? Quello come minimo il gesto più gentile che si è mai visto rivolgere è stata una bastonata sul naso. E tu gli hai salvato la vita qualcosa come duecento volte! Le sappiamo ancora fare le addizioni o no?
Bushido lo guarda, gli occhi bene aperti, le labbra appena dischiuse.
- …tu credi, mh? – riflette, abbassando lo sguardo, pensieroso.
- Io credo? Quanto te n’è mai fregato di quello che credeva chiunque che non fosse te stesso? – sospira Saad, lanciando uno sguardo supplice al cielo. – Quello che so, Bushido, è che qualunque sia il problema lo devi risolvere, ma non nella testa del ragazzino, nella tua. – precisa, puntandogli un indice contro, - Perché tu fra due settimane sei fuori di qui e noi che restiamo indietro, per non parlare dei fratelli che aspettano fuori, abbiamo tutti bisogno di una guida. E tu la testa devi averla dov’è giusto che sia. Sono stato chiaro?
Bushido gli lancia un’occhiata vagamente indisposta, sbuffando piano.
- Mi sto rompendo il cazzo di tutto questo rimproverarmi a caso. – sbotta, - Piantiamola.
- Chi è che ti ha rimproverato, oltre me? – domanda Saad, inarcando un sopracciglio.
“Bill,” sta per rispondere Bushido, ma si ferma per tempo. Saad, però, il suo mestiere lo sa fare bene, e lo capisce comunque. Fortunatamente, si limita a un mezzo sorriso ironico, e non commenta.
Quando arriva di fronte alla porta del bagno, dopo essersi preso almeno un paio d’ore per starsi un po’ a sentire e chiedersi se davvero intende esporsi in questo modo, ci trova davanti Chakuza, appoggiato alla parete, che fa la guardia, come pensava. Bill è incredibilmente abitudinario, un po’ perché l’abitudine è una sicurezza per chiunque, un po’ perché essere sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro ti forza a fare più o meno sempre le stesse cose, più o meno sempre nello stesso modo, più o meno sempre allo stesso orario.
Chakuza spalanca gli occhi nell’accorgersi di lui, perché anche Bushido è un tipo abitudinario, ma contrariamente a Bill non lo si è mai visto fare una doccia a quest’ora del pomeriggio.
- Ohi. – lo saluta, sfilandosi il berretto per grattarsi confusamente la testa, - Com’è?
Bushido scrolla le spalle.
- È dentro, vero? – domanda, e Chakuza annuisce. – Fai in modo che non ci disturbi nessuno. – si raccomanda quindi, passandogli oltre con un asciugamano appoggiato sulla spalla. Chakuza lo osserva passare, incredulo, e quando Bushido si ferma, poco prima di oltrepassare il muricciolo che protegge le docce da sguardi indiscreti, quasi si paralizza sul posto. – Hai parlato con Fler, ultimamente? – domanda.
Chakuza abbassa istantaneamente lo sguardo.
- No. – risponde.
- Bene. – annuisce Bushido, cercando di ignorare la fastidiosa puntura di senso di colpa che percepisce da qualche parte fra lo stomaco e il cuore. Fosse anche solo per quello che ha fatto alla sua banda in generale e al suo rapporto con una delle persone che avesse di più care nel mondo nel particolare, non dovrebbe volere avere più niente a che fare con questo ragazzino. E invece dà le spalle a Chakuza, supera il muretto e si spoglia, entrando nella doccia accanto a quella che Bill sta usando ed aprendo l’acqua, armeggiando coi rubinetti per ottenere la temperatura che desidera prima di cominciare ad insaponarsi pigramente.
Per molti minuti non si sente altro che lo scosciare dell’acqua, e Bill riesce perfino ad illudersi che Bushido lo lascerà in pace, che magari sia entrato solo perché voleva farsi una doccia, non perché cercasse una scusa per parlargli. Ed invece, naturalmente, è così.
- Mi dispiace per quello che è successo. – dice. Bill si volta a guardarlo così di scatto che urta il sapone appoggiato sul muretto basso dietro di lui. Naturalmente, non si china a raccoglierlo.
- Cosa? – domanda, quasi senza fiato. Bushido si lascia sfuggire un sorriso vagamente intenerito, di fronte a tutta quella sorpresa.
- Cos’è, credevi che non fossi in grado di chiedere scusa a qualcuno quando mi rendo conto di essere nel torto? – lo prende in giro, inarcando un sopracciglio. Bill fa la stessa cosa, tornando a rilassarsi e sciacquarsi i capelli sotto la doccia.
- No, credevo proprio che non fossi in grado di renderti conto di quando avevi torto o meno. – risponde sarcastico, guardando altrove. Bushido ridacchia, scuotendo il capo.
- Sorpresa, dunque. – scrolla le spalle, e poi sospira. – Ascolta.
- Ho qualche speranza di risparmiarmi questa cosa? – chiede immediatamente Bill, lasciandosi sfuggire un mugolio già stanco, appoggiandosi alla parete.
- No. – ridacchia ancora Bushido, - Ora smettila di fare il bambino e stammi a sentire, prima che mi passi la voglia e ti mandi pesantemente a fanculo.
- Okay, okay… - sospira lui, stringendosi nelle spalle. – Parla.
Bushido finisce di sciacquarsi prendendosi tutto il tempo necessario per farlo, e solo dopo chiude i rubinetti e si volta verso Bill, appoggiandosi al muricciolo che separa le due cabine della doccia.
- Ragazzino, - sospira, concedendosi un breve sorriso rassicurante, - io ho trent’anni. – Bill inarca un sopracciglio, ed è lì lì per chiedergli “e allora?”, quando Bushido prosegue. – Io ho trent’anni, - ripete, - e tu sei un ragazzino convinto di avere visto tante cose, nella vita, ma la verità è che hai visto sempre le stesse, ripetute tante volte da sembrare tantissime, sì, ma sempre le stesse. Sei confuso, - dice, ignorando lo sguardo deluso e un po’ ferito di Bill che vaga altrove, sulle piastrelle bagnate lungo le quali scorre l’acqua che ancora gli piove addosso dalla doccia, - non hai idea di quello che vuoi, e qualsiasi cosa sia, io non potrei dartela, Bill. Ho l’udienza per la libertà vigilata fra due settimane, sarò fuori di qui prima che tu possa anche solo rendertene conto, e non posso… - si interrompe per un paio di secondi, osservando Bill stringersi nelle spalle così tanto da apparire improvvisamente minuscolo, molto più piccolo di quanto già usualmente non sia. – Non posso mettermi a giocare con te, non è così che mi comporto. Quello che volevi stanotte, io non posso dartelo. Non per poi uscire e lasciarti qui da solo. Capisci cosa intendo?
Bill mantiene lo sguardo basso, i capelli scuri fradici che scivolano a coprirgli il volto quasi nella sua interezza. Bushido non riesce a scorgere la sua espressione, ma la voce con cui parla, pochi secondi dopo, è sufficiente a dargliene un’idea più che precisa.
- Scopare o meno, a questo punto, non conta più un cazzo. – risponde, chiudendo di scatto il rubinetto ed afferrando l’asciugamano alle sue spalle, - Il danno ormai l’hai fatto comunque.
È sparito il secondo dopo, correndo sul pavimento bagnato, coperto a malapena dall’asciugamano avvolto attorno al corpo magro. Bushido lo osserva andare via sentendosi inspiegabilmente colpevole e stupido. Specie visto che tutto quello che riesce a pensare è che spera che, correndo a quel modo, non scivoli e non si faccia male da qualche parte.

*

Sido ci mette altri quattro giorni ad uscire dalla buca, e Bushido sa che non è certo per ciò che ha fatto che è stato rinchiuso là dentro così a lungo, quanto più per ciò che non ha detto. Se pensa a Jost e a quanti esaurimenti nervosi deve avere affrontato nel corso delle ultime settimane perché, ogni volta che scendeva in buca a chiedere a Sido una confessione, quello rispondeva sempre con un’alzata di spalle, gli viene da sorridere, e quasi la parte più cattiva di lui vorrebbe tirare a Sido una bella pacca sulla spalla e tornare amici come prima, anche se, applicata a loro, l’espressione perde di senso, dal momento che né quando stavano entrambi fuori, né da quando stanno entrambi dentro, si sono mai potuti chiamare amici.
In ogni caso, si tratta solo di una piccola parte di lui a desiderarlo, forse anche per quieto vivere, ma fortunatamente quella non è una voce alla quale Bushido si senta particolarmente incline a rispondere. Non adesso, forse mai.
Vederselo apparire di fronte in magazzino mentre fa la cernita della roba da mangiare e cerca di capire dove siano finiti i dieci barattoli di fagioli che mancano all’appello non lo aiuta ad essere condiscendente nei suoi confronti.
- Sido. – lo saluta con l’aria di uno che preferirebbe di gran lunga prenderlo a calci nelle palle, piuttosto che doverlo salutare, ma che comunque si piega a farlo per buona educazione, - Vedo che non sei neanche passato dal bagno, prima di venire a trovarmi. – osserva, accennando col capo alla barba che gli ricopre le guance e il mento, - Potevi quantomeno raderti, prima.
- Avevo fretta di venire a salutarti. – risponde Sido con un sorriso, gli occhi che lo scrutano febbrilmente, con tanto palese astio da poter fare quasi paura, se non fosse che Bushido sa di essere perfettamente in grado di gestire quest’uomo anche al suo peggio. – E poi, sai, dopo che passi in buca tanti di quei giorni da perderne il conto, l’ultima cosa che vuoi è tornare in cella. Preferisci gli ampi spazi, non so se rendo. La mensa è uno spazio molto ampio, e guarda caso volevo scambiare due parole con te, per cui ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Ed eccomi qua.
- Bene. – risponde immediatamente lui, dando chiaramente segno di averlo a malapena ascoltato, - Ora che tutta questa montagna di cose di cui non m’interessa niente è finalmente uscita dalla tua bocca, e tu ti sei liberato di questo peso, che ne dici di tornartene in un luogo in cui puoi effettivamente stare e lasciarmi in pace, di modo che possa finire di lavorare?
Sido ghigna divertito, quasi compiaciuto dalla sua durezza.
- Non ti ruberò molto tempo. – lo rassicura, spostando il peso del corpo da un piede all’altro e muovendo qualche passo all’interno dell’ampio magazzino sul retro della mensa, sfiorando i vari barattoli e le varie lattine riposte sugli scaffali più per darsi un tono che perché gli interessi davvero cosa si trova lì. – Volevo solo ringraziarti per lo scherzetto che mi hai tirato. Mi ha fatto capire molte cose. È stato un bell’insegnamento.
- Ne sono lieto. – risponde Bushido con un sorriso smagliante, segnando sul bloc notes che porta con sé che all’appello mancano anche due interi sacchi di patate. Sarà esilarante andare da Jost a fare l’elenco degli assenti e poi osservarlo sclerare come un invasato per l’ennesimo furto di vettovaglie destinato a restare senza un colpevole. – Spero che non ti verrà più in mente di organizzare qualche altra stronzata delle tue. Hai visto che posso fermarti quando voglio, come voglio, e anche facendola franca. Cosa che di certo non rientra invece nelle tue competenze.
Il sorriso di Sido si allarga, mentre lui annuisce con sussiego.
- Hai ragione. – ammette, - Infatti, sai qual è la cosa più importante che questo sfortunato episodio mi ha fatto capire? – chiede retorico, appendendo entrambe le mani ai fianchi. Bushido si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, e Sido sorride ancora. – Mi ha fatto capire che tu la fai sempre franca, - prosegue, - e che questo gioca a mio favore. Sai perché, Bushido? Perché tu uscirai da questo posto. Presto, molto presto, il tuo culo nero sarà fuori da questa prigione, e per quanto solo Dio sappia quanto mi faccia incazzare la sola idea di te in libertà mentre io resto qui a marcire, non averti più fra le palle potrà portare solo benefici a me, ed a tutto quello che intendo fare una volta che a governare qui dentro sarò rimasto solo io.
Il tono di Sido si è fatto via via più serio man mano che il suo monologo proseguiva, ed in accordo con le parole che sentiva anche l’espressione di Bushido si è rabbuiata ed irrigidita sempre più. Le sue labbra sono ridotte ad una linea sottilissima, e i suoi occhi non sono che due macchie scurissime all’interno delle quali si agitano rabbia, irritazione e fastidio, e vedere il sorriso di Sido farsi sempre più ilare e compiaciuto con ogni secondo che passa non riesce a fare altro che indisporlo ancora di più.
- Sido, attento a te. – lo minaccia in un ringhio di gola, - Se ti azzardi a combinare qualcosa—
- Oh, ma non devi preoccuparti. – lo interrompe lui con una risata frivola, agitando una mano a mezz’aria come a scacciare via anche solo l’idea di poter complottare qualcosa mentre lui è ancora dentro, - Le settimane che ho passato in buca mi hanno insegnato il valore della pazienza. Saprò attendere, - precisa con un altro sorriso, più pericoloso degli altri, - e quando sarai fuori, Bushido, niente potrà più fermarmi. E quel tuo ragazzino, visto che ci tieni tanto, sarà il primo a pagarne le conseguenze.
Bushido si ferma, il sangue di ghiaccio nelle vene.
- Non ti permettere. – sibila. Sido sorride ancora.
- Ti lascio al tuo lavoro, Bushido. – conclude con un breve cenno del capo, prima di voltargli le spalle con la sicurezza di chi sa di non rischiare niente. – Buona giornata.

*

Bushido ha passato così tanto tempo in attesa di questa udienza che quando arriva, nemmeno riesce a crederci. E' come aver aspettato per anni qualcosa che, in fondo in fondo, non credeva si sarebbe mai davvero realizzata – anche se faceva di tutto per convincersi del contrario – e vedersela poi succedere davanti agli occhi di punto in bianco.
Tutto ciò che ha fatto in questi ultimi anni, e soprattutto in questi ultimi mesi, è stato in funzione del momento in cui si recherà in quell'aula di tribunale e ascolterà la volontà del giudice, ma è sempre stato un evento ancora lontano, vago, del tutto irreale, esattamente come la fine della condanna per qualunque carcerato che non abbia preso l'ergastolo. Tutti sanno che prima o poi usciranno; ma quel poi appare sempre un giorno troppo lontano per vederne l'alba.
Per questo Bushido è nervoso mentre si sistema la cravatta di fronte allo specchio nella sua cella; la tensione non lo ha fatto dormire e, nonostante la voglia che ha di lasciare questo buco di merda, era quasi meglio l'attesa infinita di un giorno ancora da definire che non quella ben calcolata delle ore e dei minuti precisi che lo separano da quell'aula di tribunale.
Bill è seduto sul suo letto, ma si finge estremamente interessato al libro che ha per le mani. Non gli parla da giorni – cioè dalla storia delle docce – ma Bushido al momento non ha il cervello abbastanza sgombro per potergli prestare attenzione. Non appena questa faccenda sarà sistemata, quando tornerà a prendere le sue cose prima di andarsene, gli parlerà di nuovo e cercherà di farsi odiare un po' di meno; anche perché di più gli sembra impossibile, a giudicare dal foro che Bill gli sta facendo dietro la testa quando lo guarda mentre crede di non essere visto.
Non riesce a tenere le mani lontane dalla cravatta, forse perché si sente strangolare e, per quanto la sposti e la muova e la snodi per riannodarla subito dopo, quella sembra sempre storta. Mentre se la fa passare di nuovo intorno al collo, ripassa mentalmente il percorso che dovrà fare. Jost è venuto personalmente ad informarlo in cella ieri sera. Ha detto che lo accompagnerà all'udienza e Bushido è contento di questo. Sa che ci saranno un sacco di stronzi in quell'aula e vuole averne almeno uno dalla sua parte.
La cella si fa improvvisamente più buia quando la figura massiccia di Fler si ferma sulla porta, occupandone praticamente tutta la superficie.
Bushido si volta e lo osserva, senza lasciar trasparire nessuna emozione. “Che cosa vuoi?” Chiede.
Bill solleva lo sguardo dal libro e li scruta entrambi con attenzione, facendosi istintivamente più piccolo nel tentativo di rendersi invisibile; d'altronde lo sa che la tensione che adesso rende elettrica l'aria l'ha generata lui e vorrebbe poter scomparire perché si sente pesare addosso la responsabilità.
“Devo parlarti,” mormora Fler, che sostiene il suo sguardo ma senza sfidarlo. La sua è un'occhiata coraggiosa ma piena di umiltà. Bill trova incredibile come sia chiaro e lampante che si sta scusando anche senza dire nemmeno una parola.
Bushido gli fa un cenno col mento.
Fler scuote la testa. “In privato,” precisa, indicando Bill con un movimento degli occhi che vorrebbe essere impercettibile ma non sfugge al ragazzino, il quale apre subito la bocca per parlare e viene puntualmente interrotto da Bushido che lo aveva già previsto.
“Bill, lasciaci da soli qualche minuto, per favore.”
“Questa è anche la mia cella,” gli fa notare lui.
Bushido nemmeno lo guarda. “Sono sicuro che puoi continuare a fare finta di leggere anche nel corridoio.”
Oltraggiato, Bill rimane letteralmente a bocca aperta per qualche secondo, forse in attesa di ipotetiche scuse che per nessun motivo potrebbero mai uscire dalla bocca del tunisino e, quando finalmente si rende conto che quei due – che stanno immobili a fissarsi – aspettano solo che lui se ne vada, sbuffa violentemente, afferra in malo modo il suo libro e quindi si piazza di fronte a Fler con aria imbronciata finché quello non si sposta e lo lascia passare.
Bushido lo osserva finché non lo vede sedersi per terra a gambe incrociate più avanti, nel corridoio, prima di invitare Fler all'interno. “Non ho molto tempo, quindi vediamo di farla breve,” commenta. “Tu non dovresti nemmeno essere qui.”
“Lo so, ma è una cosa importante e pensavo volessi saperla.”
Bushido allarga le braccia, invitandolo a proseguire.
Fler si guarda intorno, ma nelle vicinanze non c'è nessuno perché, quando alla mattina le porte si aprono, nessuno vuole rimanere in cella, così durante il giorno quasi tutti i carcerati sono in sala comune o in palestra e questo lascia a loro un po' di privacy. “Corre voce che Sido abbia in mente qualcosa per quando sarai all'udienza.”
“Sido si è premurato di venirmelo a dire di persona,” gli fa presente Bushido. “Ma stava solo facendo promesse che non può mantenere, come al solito, visto che non può fare nient'altro.”
Fler scuote la testa. “Stavolta no. Girano soldi. Qualcuno è stato pagato.”
Bushido torna subito serio e lo guarda, corrugando la fronte preoccupato. “Chi?”
“Non lo so, sto ancora cercando di scoprirlo,” risponde Fler. “La cosa certa è che si tratta di una cazzo di cifra enorme. Potrebbe essere per una persona sola, molto probabilmente per un gruppo, in ogni caso Sido si sta organizzando per quando sarai uscito di qui.”
Bushido rimane impassibile e solo la tensione dei suoi lineamenti lascia trasparire la rabbia che gli si agita nello stomaco. Le minacce a vuoto di Sido non le preoccupavano, ma i soldi sono tutt'altra storia. Da qualche parte, in quella prigione, c'è un uomo o un gruppo di uomini che hanno ricevuto del denaro e che devono tenere fede a quel pagamento. C'è un intero ingranaggio che si è messo in moto e va fermato.
Bushido si riscuote quando vede David, vestito di tutto punto imboccare il corridoio che porta alla cella. Il direttore si ferma a chiedere a Bill che diavolo ci fa buttato per terra come un barbone e il ragazzino risponde qualcosa di infastidito, agitando le mani. “Dovete scoprire di chi si tratta,” dice Bushido. “Uno, due, dieci uomini, non m'interessa. Trovateli e teneteli d'occhio, dovete essere pronti se e quando attaccheranno.”
Fler gli lancia un'occhiata a metà tra l'incredulità e la sorpresa e Bushido gli sorride quasi con tenerezza, anche se sul suo volto c'è anche quell'espressione preoccupata. “Di' pure ai ragazzi che ti mando io e se qualcuno ha da ridire, ci penserò appena torno dall'udienza,” commenta, abbracciandolo stretto e dandogli due pacche di bentornato sulle spalle.
“Non ti preoccupare, Losensky. Te lo porto via solo per qualche ora,” esclama la voce divertita di Jost, costringendoli a separarsi. “Cos'è, non vi parlate per settimane e ora fate la tragedia greca?”
“La nostalgia è una brutta bestia,” Bushido ride, dissolvendo l'aria cupa nella cella e Fler gli regge il gioco, scoppiando in una risata piena e cristallina che lascia basito soprattutto Bill, che è rientrato approfittando della presenza di Jost e si è rintanato di nuovo nel suo letto.
“Ragazzino, fai il bravo,” lo apostrofa Bushido. Bill vorrebbe replicare qualcosa di acido ma quello che legge negli occhi di Bushido lo fa rabbrividire. Si scolla dal letto per seguirlo fino all'entrata della cella, dove Jost gli sta facendo mettere le manette per portarlo via e lo fissa sperando che dica qualcosa di più, che lo rassicuri su ciò che gli è sembrato di scorgere in quell'occhiata, ma Bushido sta zitto.
Quando Jost gli chiede se è pronto, annuisce e basta.
Poi si incammina senza voltarsi più.

*

L'aula per le udienze si trova all'interno della prigione e, nonostante il nome, è appena poco più grande di uno stanzino. Quasi accostato alla parete più lontana dalla porta c'è un lungo tavolo di metallo che ospita le persone incaricate di sfogliare la sua documentazione e giudicare se sia pronto o meno ad uscire da quel carcere. David ha una sedia proprio accanto alla sua e a quella del suo avvocato. Nella stanza c'è un tale silenzio che anche il minimo spostamento produce un suono violento che rimbomba fino al soffitto e sbatte contro le tre piccole finestre rettangolari, di quelle che si aprono grazie ad un lungo bastone che arriva fino a terra. L'aria è fredda e pesante e gli occhi del giudice sono disinteressati, lontani, vedono già il campo da golf sul quale si recherà dopo aver deciso dei prossimi vent'anni della sua vita.
O almeno questo è quello che Bushido si immagina sarebbe successo se l'udienza avesse effettivamente avuto luogo, ma lui nell'aula nemmeno ci entra.
David lo accompagna fino alla porta e poi lo lascia seduto su una panca, appena fuori dall'aula, gli dice di aspettare e lo affida ad una guardia con le mani incrociate dietro la schiena, che non avrà più di vent'anni e da lì ad un paio d'ore sarà distesa per terra col naso rotto.
Il tempo scorre lento, soprattutto perché Bushido non stacca gli occhi dal quadrante dell'orologio; le lancette fanno fatica a muoversi, ogni scatto è faticoso. I secondi passano come minuti, i minuti come ore e, se qualche ora è passata, Bushido potrebbe giurare che sia stata una vita intera.
Quando Fler si presenta all'improvviso è sconvolto e ha il fiatone. Bushido si alza in piedi, risvegliando la guardia dal proprio torpore ma ne ignora i richiami mentre cerca sul viso di Fler una spiegazione alla sua presenza e all'agitazione che gli fa tremare le mani, nel caso non faccia in tempo a dargliela a voce.
Fler però sa come vanno queste cose, così gli frana addosso e gli artiglia la bella camicia elegante per rimanergli attaccato e darsi il tempo di sussurrargli all'orecchio che li hanno trovati e che la morte che aspetta il ragazzino non è né pietosa né veloce.
La guardia riesce ad agganciare Fler sotto le braccia e a strapparlo via da Bushido che per un istante resta immobile a fissare il vuoto, mentre le parole dell'amico si ripetono all'infinito nella sua testa.
Fler lo guarda mentre la guardia lo tiene fermo e inchiodato al muro, urlando ai suoi compagni di venire a dargli una mano.
L'aula per le udienze è a pochi passi da lì e Jost è lì dentro ormai da così tanto tempo che non può mancare molto al momento in cui lo chiamerà. Potrebbe davvero uscire di lì e – se è abbastanza furbo – non tornarci mai più, prendere sua madre e sparire per sempre.
Invece solleva i polsi ammanettati, chiude le mani a pugno e colpisce la guardia sulla nuca. Quella barcolla un attimo, si gira farfugliando impaurito nella radio e cercando a tentoni il manganello che gli pende dalla cintura. Bushido lo colpisce ancora e ancora, finché non cade a terra.
Fa un cenno a Fler che si dilegua prima che possano fermarlo e va ad avvertire la prigione che Bushido non se ne va. Quando Jost accorre al trambusto, Bushido è chino sul ragazzo a cui ha spaccato il naso, ma non resta fermo. Si avventa anche sulle guardie che sono appena arrivate in soccorso della prima, comincia a tirare pugni alla cieca finché in tre non lo bloccano e una manganellata sui denti non riduce al silenzio il suo ringhio furioso.
“Portatelo in buca,” ordina Jost alla fine, perché non può fare proprio nient'altro.
Quando i loro sguardi s'incontrano, sono in due a chiedersi se ne sia valsa la pena.

*

La notte passa lenta, esasperante. Seduto in un angolo, la schiena nuda contro la parete e l’umidità pesante dei sotterranei ad appesantirgli il respiro, Bushido guarda il soffitto, lo guarda ossessivamente, per ore, e cerca nelle variopinte chiazze di muffa che lo ricoprono un senso a quello che ha fatto, all’opportunità che ha mandato a puttane. Non sa se gli ricapiterà ancora di poter fronteggiare la reale occasione di uscire da quel buco di merda, ma il punto non è nemmeno più tanto quello. È diverso, ed è molto più spaventoso, e somiglia in maniera inquietante ad una domanda che Bushido non ha quasi nemmeno il coraggio di porsi. Ma è lì, riecheggia nel retro della sua mente, minacciosa e sospesa, come un fantasma, e per questo molto più difficile da ignorare di un qualsiasi altro fugace pensiero.
Se anche dovesse ripresentarsi l’occasione di uscire, fra sei mesi o un anno o due, uscirei? Oppure basterebbe sapere Bill in pericolo per rinunciare alla possibilità volta dopo volta dopo volta?
Jost arriva presto, l’indomani mattina. Bushido non sa se sia perché aveva fretta di chiudere la questione – forse l’agente s’è fatto più male di quanto Bushido non avesse previsto, forse ci sono state delle complicazioni, forse forse forse, non è che gli interessi più di tanto, in ogni caso, ed è agghiacciante pensarlo perché, quando ancora sperava di poter rivedere la luce del sole da uomo libero o quasi tale, di questi dettagli gli interessava sempre moltissimo, mentre adesso non sono che nebbia, confusi sullo sfondo, particolari insignificanti – o semplicemente perché vuole vederci più chiaro in prima persona, ma non perde tempo ad entrare e fare cenno all’agente di restare fuori dalla porta blindata.
- Che cazzo hai fatto e perché. – dice, restando in piedi accanto a lui. Non è nemmeno una domanda.
Bushido non ha motivo di nascondere niente.
- Sido ha minacciato l’incolumità di Bill. – risponde guardando fisso davanti a sé, - Se fossi uscito, avrei perso il controllo di tutto, qua dentro, e lui sarebbe finito male. – trattiene per un attimo il fiato, realizzando che tutte le risposte alle domande che si è posto sono racchiuse nella manciata di parole che sta per pronunciare. – Non potevo permetterlo.
Jost ci mette un po’ a capire cosa ciò che Bushido ha appena detto significhi, ma poi annuisce.
- Doveva essere il tuo lasciapassare per uscire, - commenta con un mezzo ghigno disilluso, - non il motivo per cui non avresti più voluto farlo.
Bushido scrolla le spalle, alzandosi in piedi. Si volta a guardarlo, e il direttore gli porge i suoi abiti.
- Cosa vuoi che ti dica, Jost? – scrolla le spalle, cominciando a rivestirsi, - Quel che è fatto è fatto. Ora voglio solo tornarmene in cella e smettere di pensare a quello che… - sospira, distogliendo lo sguardo. È la prima volta che David glielo vede fare. – A tutto. – conclude con un’altra scrollata di spalle, indossando anche la maglietta e poi tornando a guardarlo. – Posso andare?
Jost sospira, ma annuisce e si volta verso la porta, facendo segno alla guardia di aprire tramite il vetro che rende possibile spiare all’interno della cella.
Due agenti di custodia lo scortano fino al cancello d’ingresso del braccio A, e lì lo lasciano senza una parola. Lo guardano con odio per tutto il tempo – Bushido le conosce, le guardie carcerarie, sa che gli porteranno rancore per sempre per avere osato spaccare il naso ad un loro compagno, ma sa anche di essere abbastanza fortunato da non essere un bersaglio semplice per nessuna delle loro vendette; Bill, a suo tempo, non è stato altrettanto fortunato, e forse anche questo ha inciso sulla sua ultima decisione – ma si limitano a questo, allontanandosi in una sinfonia di borbottii sussurrati a mezza voce e niente più.
Bushido si avvicina alla propria cella, naturalmente già aperta, visto l’orario, e non ha bisogno di guardarsi troppo a lungo intorno per accorgersi di Bill, anche perché lui, quando lo vede arrivare, da seduto sul letto com’era scatta in piedi, le braccia rigide lungo i fianchi, le gambe dritte come fusi, la schiena quasi bloccata dalla tensione, così come i lineamenti del volto pietrificati in un’espressione ansiosa e perfino un po’ impaurita.
- Chakuza mi ha detto… - comincia incerto, - mi ha spiegato. Tutta la situazione. Quello che… - esita appena, mordendosi il labbro inferiore, gli occhi che vagano svelti intorno alla figura di Bushido come non riuscisse a inquadrarla correttamente, o come se si sentisse troppo in imbarazzo per farlo, - Quello che sarebbe potuto succedere. E il fatto che hai deciso di rimanere.
Bushido annuisce, distogliendo a propria volta lo sguardo. Si sente stupido, ma si sente perfino più stupido quando capisce che in realtà si sente così solo perché anche lui è in imbarazzo, proprio come il ragazzino che ha di fronte. Solo che il ragazzino è un ragazzino. È giustificato. Per lui non si può dire lo stesso.
- Stai bene? – gli domanda, - Non è successo niente?
- Niente. – risponde subito Bill, scuotendo il capo, per rassicurarlo. I capelli scuri, morbidi e setosi, ancora freschi di shampoo, gli scivolano lungo le spalle, e Bushido sente il bisogno di concedersi un atto tenero, ed accarezzarli. È il primo atto tenero che si concede da anni. È come sentirsi sciogliere sul cuore un grumo di lava. Brucia da impazzire.
- Bene. – commenta con un mezzo sorriso, - Sarebbe stato deludente se avessi mandato tutto a puttane e fossi tornato fin qui solo per trovarti ridotto ad un mucchietto d’ossa in frantumi in un angolo. No?
Bill si irrigidisce ancora una volta, le labbra strette in una linea sottilissima.
- Mi dispiace. – mugola piano, - Ma grazie.
Bushido si concede un altro mezzo sorriso, e vorrebbe replicare qualcosa di sarcastico, qualcosa che possa sollevare almeno in parte il velo di sacralità che è piombato loro addosso da quando lui è tornato in cella, ma Bill non gli dà il tempo di farlo. Si sporge in avanti ed approfitta delle sue labbra dischiuse per baciarlo piano, lentamente ma profondamente, stringendo le dita sottili attorno al tessuto della sua maglietta e tirando appena per stringerselo al petto.
Bushido posa le proprie mani sulle sue. Sono grandi il doppio, le coprono interamente. Ricambia il bacio con un abbandono al quale non si lascia andare da più tempo di quanto non riesca a ricordare, e si separa da lui con uno schiocco soffice e discreto solo quando sente il bacio concludersi naturalmente, di sua iniziativa.
Bill, così vicino da potergli leggere negli occhi qualsiasi cosa, lo guarda intensamente. Si sta già fidando di lui al punto da rimettere la propria vita nelle sue mani.
Bushido accetta la responsabilità. E stavolta è una sua scelta.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Erotico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bushido/Fler, Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R/NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash, Angst.
- "La mia settimana è cominciata molto male."
Note: Cioè, rendiamoci conto: stiamo ricominciando ad avere un ritmo di postaggio quasi umano *piange commossa* Dunque, precisazione prima di lasciarvi alla lettura: nonostante il titolo e l'adorabile "vol. 2" pucciato lì accanto, questa storia non è il diretto seguito di quella postata da Tabata qualche tempo fa. Però vi è legata inscindibilmente *huhuhu*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GREEN EYED MONSTER, vol. 2

La mia settimana è cominciata molto male. Che non è come per dire che lunedì mi sono svegliato dopo un incubo e come prima cosa, per esempio, ho infilato le pantofole e dentro c’ho trovato uno scorpione ed ho sentito umido e mi sono accorto di avere la casa allagata scoprendo poi che s’erano rotte contemporaneamente tutte le tubature dell’appartamento a causa di un ingorgo del cesso del tipo del piano di sopra che tra l’altro ha fatto marcire tanto le travi del soffitto da costringerle a crollare e riversare liquami nel centro del mio salotto. No, quello sarebbe stato un brutto inizio di settimana, ma tutto sommato imputabile alle sfighe e ai casi della vita, le classiche cose di cui in genere ti fai una ragione rimboccandoti le maniche e scrollando le spalle prima di metterti al lavoro per rimettere tutto a posto.
No, il mio inizio di settimana è stato di gran lunga peggiore, ed è coinciso con un risveglio orribile, sì, ma per motivi molto più gravi di quelli che ho indicato sopra. D’altronde, Eko Fresh che si attacca al campanello di casa tua per mezz’ora alle sette del mattino è peggio di un incubo, uno scorpione, un allagamento e un chilo di liquami di dubbia origine, tutti assieme e centrifugati in un’unica, enorme Apocalisse. Eko Fresh è Eko Fresh, se non lo conosci non puoi capire, e se lo conosci lo eviti.
Comunque sia, immaginatemi. O se non volete immaginare me immaginate qualcun altro, non importa, in ogni caso: mi alzo, grugnisco come un orso ingiustamente svegliato dal proprio legittimo letargo, vado alla porta e spero almeno sia Bill, che pressa il campanello a ripetizione perché non mi vede da ben quattro ore e vuole assolutamente recuperare il tempo perduto chiudendosi a doppia mandata con me in camera da letto fino a domenica, e invece niente, è appunto Eko che mi guarda come gli avessero appena ucciso la madre, stringendo al petto un giornale con una mano e tenendo un pacchettino un po’ unto di olio nell’altra.
- Eko. – constato, e mi chiedo se magari posso trovare una scusa per mandarlo via, solo che lui non mi dà il tempo neanche di mettere in moto i meccanismi del cervello, perché mi scosta di lato, entra in casa e si chiude la porta alle spalle. Rigirando la chiave nella serratura. – Eko?! – chiedo, vagamente inquietato dal fatto che sia arrivato qui di corsa portando del cibo e segregandosi con me all’interno di un appartamento neanche tanto grande le cui pareti hanno visto troppo per potersi turbare ancora.
- È successa una cosa terribile. – esordisce lui, tetro, e io penso che sì, eccome se è successa una cosa terribile, siamo chiusi nel mio appartamento! Non vedo cosa potrebbe esistere di più terribile di questo. – Forse è meglio che ti siedi. – continua, annuendo pensieroso.
- Sto bene in piedi. – dico, vagamente preoccupato. Già sono in posizione svantaggiosa così, figurarsi se mi siedo. Cerco anche di dirmi che è del tutto irrazionale, da parte mia, pensare che Eko sia venuto qua e si sia chiuso con me qui dentro perché voleva approfittare del mio corpo, ma i meccanismi cerebrali di cui sopra sono ancora spenti e l’omino del cervello sta ancora passando ad oliarli tutti per bene prima di attivarli, perciò continuo a pensare che, appena mi sarò seduto, Eko mi ribalterà sull’isola della cucina e si prenderà la mia verginità, e per evitare tutto ciò resto in piedi.
- Credimi. – insiste lui, spingendomi verso l’isola della cucina – lo sapevo, io! – e forzandomi a sedere su uno sgabello, - E già che ci sei, prendi il krapfen.
- Che krapfen? – chiedo io, tirando su i pantaloni del pigiama fino ad altezze ascellari e pentendomi di non aver provveduto a comprare una cintura di castità per premunirmi rispetto ad eventualità simili.
- Quello che ti ho portato. – continua lui, perfettamente tranquillo, indicando il pacchetto unto che ha poggiato sul ripiano, - Mangia. Ne avrai bisogno.
- Senti, Eko! – mi ribello a quel punto io, saltando in piedi, - Non ho fame e non mi voglio sedere! Ora, mi spieghi qual è il tuo problema, prima che mi venga voglia di afferrarti per la collottola e buttarti fuori di casa dalla finestra?!
Eko mi guarda male e sbuffa, evidentemente indispettito dal mio comportamento, e con tutta la calma del mondo prende e mi srotola davanti agli occhi il giornale. È una rivista scandalistica di quelle che costano uno sputo ogni dieci, roba che gli edicolanti te le tirano dietro per quante gliene avanzano arrivati a domenica, e in prima pagina, proprio al centro, c’è una gigantografia di Fler e Bushido beccati da un paparazzo dentro un ristorante. Fronte contro fronte.
- …ah. – sillabo io, a corto d’aria, sedendomi istintivamente sul primo sgabello che trovo tastando con la mano dietro di me e mandando la mano non impegnata nelle ricerche ad afferrare il krapfen dentro il sacchetto. – Ah.
- “Ah” mi pare una reazione eufemistica. – commenta lui, e mentre io sono qua che stacco un morso di krapfen e spero che cioccolato e zucchero mi invadano le vene ed intontiscano il cervello, e mi chiedo quando abbia imparato il significato della parola “eufemistico”, lui si lancia in una dissertazione dissennata delle sue. – No, ma dico, ti rendi conto? Cioè, da Bushido non mi sconvolge, visti i precedenti, anche se forse dovrebbe sconvolgermi pure questo perché, voglio dire, Bill almeno sembrava femmina, potevamo dire che era confuso, - ma dire a chi, Eko? – ma il senzatetto? Voglio dire, Fler, gay? Ma te lo saresti mai aspettato?
- Io… - comincio, deglutendo a fatica. Il pezzo di krapfen è duro come marmo e non scivola giù per la gola manco morto. Rifletto brevemente sulla mia salivazione del tutto azzerata e mi rassegno a morire soffocato dal krapfen di Eko. - …non lo so.
- Ma poi! – continua lui, evidentemente scioccato da questa rivelazione, - Tu c’hai vissuto praticamente insieme per un millennio, ew! Non è che ti ha allungato mani addosso nel sonno? Tipo che ti ha ubriacato e mentre eri lì in coma etilico ti ha ribaltato sul materasso e ti si è fatto di nascosto? Hai controllato?
- No, Eko! – quasi sbotto io, fissandolo allucinato, - Non ho controllato e non— Fler non ha fatto niente del genere, andiamo, non è che siccome uno è gay… o quello che è… - inspiro ed espiro a fatica, - sente il bisogno di metterti le mani addosso e violentarti o cose simili! – spiego. E poi mi viene voglia di appendere una corda alle travi del soffitto e impiccarmi, perché… Dio mio. No, Eko, Fler non ha approfittato di me nel sonno, è più probabile che sia avvenuto l’esatto contrario, ma non è il caso che tu lo sappia.
- Bah! – conclude lui, allargando le braccia lungo i fianchi e sedendosi sullo sgabello di fronte a me, allargando la rivista sul ripiano per guardarla ancora, come volesse cogliere sfumature che non era riuscito a notare prima. – Che schifo, comunque.
- Ma che schifo cosa?! – esplodo io, irrazionalmente irritato da questa cosa, - Devo ricordarti che io sto con Bill?! Se vuoi venire a fare moralismo, vai a farlo in una casa in cui non si scopa abitualmente fra uomini!
Lui solleva gli occhi scuri e vacui e mi fissa a lungo, come non capisse dove voglio andare a parare.
- Ma che c’entra? – chiede infatti, - Bill è una cosa diversa. Lui è praticamente una donna.
E io vorrei rispondergli che no, semmai Bill è teoricamente una donna, ma praticamente è decisamente maschio, solo che poi ricordo l’indiscutibile verità nella testa di Eko – indiscutibile non perché sia esatta, ma perché è quella che vede lui e che non è disposto a cambiare neanche per tutto l’oro del mondo, visto che è l’unico universo in cui riesce a vivere senza traumi – e questa indiscutibile verità nella sua testa dice che Bill sì, potrà pure avere l’uccello, ma è comunque una femmina. Per cui per lui è ormai perfettamente normale che vada a letto coi maschi, o che un maschio abbia voglia di andare a letto con lui. Lei. Quel che è.
La cosa che mi turba davvero è che io lo so che Eko vede Bill in questi termini. E quindi, forse, se m’incazzo per quel “che schifo”, non è per Bill.
Il discorso muore lì, anche perché Eko quello che doveva fare – rovinarmi la giornata – l’ha fatto, e io due minuti dopo resto solo a darmi del coglione e pensare che tanto, peggio di così non potrà andare. Naturalmente mi sbaglio, perché due ore dopo incontro Bill e lui è taciturno ed evidentemente scazzato, e c’è un enorme problema quando Bill è sia taciturno che scazzato, perché Bill si scazza spesso ma ci tiene sempre a far sapere al mondo perché, visto che adora farlo sentire in colpa. Quando Bill si scazza e non sa dirti perché, il motivo è che non vuole farlo.
Da quando sta con me, è capitato una volta sola. Poi è venuto fuori che era per una litigata a caso con suo fratello, ma naturalmente io mi sono sempre preoccupato perché, prima che stessimo insieme, questi momenti di scazzo cronico gli venivano solo quando qualcosa gli ricordava Bushido. E allora lui era morto, quindi, insomma, non era il caso di immischiarmi. Ancora oggi, ci sono momenti come questo, in cui Bill è arrabbiato e, per continuare ad arrabbiarsi in pace, vola fino ad un altro pianeta – un pianeta sul quale io non posso raggiungerlo, dal quale mi sento distante.
Bill è rimasto su quel pianeta per tutta la settimana fino ad ora, e questo, sommato al fatto che Bushido sta con Fler e, Dio solo sa perché, questa cosa mi manda in bestia, ha reso la mia vita impossibile nell’ultima settimana.
Stamattina, comunque, dopo che ieri sera mi ha chiamato dicendomi che non sarebbe passato da casa perché era stanco e preferiva andarsene a letto a dormire – dichiarazione che in genere mi fa capire a che punto sia arrivata la sua malinconia – mi ha richiamato, per chiedermi se potevo passare a prenderlo dagli studi dell’Ersguterjunge, visto che aveva da fare qui per qualcosa. Dopo una settimana passata a vederci poco e male, e dopo l’ultima notte trascorsa senza di lui, mollarlo all’EGJ senza un passaggio per andare ovunque volesse, per quanto potessi essere irritato dalla sua distanza e dall’EGJ in generale, non era davvero un’opzione, perciò mi sono schiaffeggiato un paio di volte davanti allo specchio, mi sono dato un contegno, mi sono vestito e sono saltato in macchina.
Gli studi dell’EGJ, da quando Bushido è tornato, non sono più gli stessi che erano prima che morisse. Io ho dei ricordi stupendi, di questo posto. Serate passate ad ubriacarsi mangiando schifezze e parlando di cazzate finendo per dormire sui divani, giornate passate ad inseguire un’idea di Bushido e un beat particolarmente figo, voce su voce, in un’improvvisazione continua. Le feste, il cazzeggio, i giorni fantastici in cui il lavoro andava alla grande, tutto funzionava alla perfezione e sembravamo tutti ingranaggi minuscoli di un più grande meccanismo che una volta avviato andava avanti da sé senza dover più spingere niente.
Poi lui è morto, e gli studi sono diventati una grande camera ardente perenne. Anche senza la sua salma esposta in bella mostra in una bara col coperchio di vetro, era qui che ci riunivamo tutti per struggerci un po’, quando ne sentivamo il bisogno. Dopo il funerale, Saad ce l’aveva messa tutta per far riprendere i lavori, ma un po’ perché alcuni di noi – io per primo – non eravamo d’accordo, un po’ perché la Germania era ancora troppo scossa per pensare al rap, niente era mai ripartito per bene, perciò entrare qua dentro più che altro era riappropriarsi di quel pezzo di Bushido che avevamo perso tutti e che tutti potevamo ritrovare fra queste stanze, come se parte del suo spirito fosse rimasto intrappolato fra le molecole dell’aria, dell’intonaco grattato via dai muri, delle poltrone malandate.
Quando lui è tornato, poi, è stato anche peggio: la Universal ha preteso di colonizzare tutto, mandare emissari cui sono stati affidati uffici, e che hanno avanzato pretese, che hanno chiamato ditte di operai che hanno ristrutturato, ridipinto, rimodernato, riarredato, rinfrescato. Hanno preso tutto quello che c’era e l’hanno spazzato via, e adesso passare in mezzo a questi corridoi non mi dà più nessuna bella sensazione. Non c’è nessun ricordo legato alla moquette nuova o al divano impeccabile in pelle bianca. Non c’è nessun ricordo sulle porte girevoli o su quelle a vetri, automatiche e sempre lucide. Ora tutto ciò che mi resta camminando qua dentro è la rabbia per tutto quello che c’era e che nessuno di noi riuscirà mai più a ritrovare, perché è stato gettato via da troppe persone.
Comunque, nel momento in cui io sto qui che guardo il divano e mi chiedo se sedermi o meno, che tanto sta vicino all’ingresso e quindi, uscendo, Bill deve passare per forza di qui, in un modo o nell’altro, la voce di Fler mi impedisce di muovermi oltre.
- Che ci fai tu qui? – mi chiede, e non c’è cattiveria, nella sua voce, solo stupore e incredulità, come se si fosse immaginato tante volte la possibilità di trovarmi qui davanti a questo divano ed ogni singola volta si fosse detto “ma no, che cazzata, non accadrà mai”. È accaduto.
Mi volto lentamente, abbozzando un mezzo sorriso.
- Ciao. – comincio imbarazzato, - Scusa.
Lui sgrana gli occhi, fissandomi sempre più sconvolto.
- Di che ti scusi? – chiede giustamente. Di che mi scuso? Me lo chiedo anch’io. Mica è casa sua, questa, non sono entrato dalla finestra per svaligiargli l’appartamento. Perché non posso semplicemente dirgli “Bill mi ha chiesto di passarlo a prendere, lo sto aspettando”? Perché non posso avere una conversazione – o un rapporto – normale, con quest’uomo?
- Non lo so. – ammetto, ed è una risposta sia alla sua domanda che alle numerose che mi sono posto io negli ultimi trenta secondi. – Come stai?
Lui continua a fissarmi come fossi un alieno o sa Dio cos’altro.
- Bene, immagino. – risponde restando sulla difensiva, a qualche metro di distanza.
- Immagini? – chiedo io, inarcando un sopracciglio, - Stai bene o no?
- Sì! – sbotta lui, e poi si massaggia le tempie, sospirando profondamente. Quando torna a guardarmi negli occhi, è visibilmente più tranquillo. Invidio Fler per la capacità che ha di mettere ordine all’istante nella propria testa. Immagino sia una delle numerose eredità del ghetto, motivo per il quale non averla non è che mi deprima più di tanto, ma ammetto che è una capacità che sarebbe comodo possedere, di tanto in tanto. – Sì, sto bene, Chaku.
- Quella cosa che hai fatto… - sorrido un po’, accennando il movimento di lui che solleva le braccia ai lati della testa, - sembri un’altra persona, adesso. Funziona sempre?
Inspiegabilmente, lui capisce subito a cosa mi sto riferendo.
- Sì. – ride a bassa voce, - Stavi pensando che servirebbe anche a te?
- Esatto. – rido anch’io, e nel tempo che impiego a concedermi questa risata liberatoria, chiudendo anche gli occhi, lui si avvicina e mi posa due dita sulle tempie, massaggiando piano. Quando riapro gli occhi, la pressione delle sue dita e i suoi occhi assurdamente vicini sono le uniche cose vere in tutto l’universo. Perciò mi sembra il caso di dire qualcosa di altrettanto vero, e anche in fretta. – Mi sei mancato.
Lui smette subito di toccarmi, naturalmente, e si allontana di un paio di passi.
- Io dovrei- - comincia, ma naturalmente io gli impedisco di finire.
- È che non ci siamo più visti né sentiti! – comincio a blaterare, gesticolando come faccio solo quando non ho idea di cosa sto dicendo e spero che i miei movimenti possano distrarre dal contenuto delle mie parole, - Ero un po’ preoccupato, sai, per come ci eravamo lasciati. – realizzo solo mentre parlo che in realtà quello che è uscito da casa sua coperto di sangue ed ematomi, alcuni dei quali sono qui ancora oggi nonostante le lunghe settimane di mancata frequentazione, ero io, quindi forse dovrebbe essere lui quello che s’è preoccupato per me. Che ne sapeva, lui, di cosa mi succedeva nel mentre? Potevo uscire da casa sua e accasciarmi al primo angolo morendo per un’emorragia interna, per dire. Certo, poi i giornali in qualche modo gliel’avrebbero fatto sapere, e quindi – visto che sulle prime pagine di tutte le riviste scandalistiche non ci sono foto del mio cadavere all’obitorio bensì foto di me che passeggio con Bill, vado a cena con Bill, vado al parco con Bill e faccio un altro mucchio di cose con Bill – lui probabilmente non ha avuto motivo per preoccuparsi né nient’altro, però boh, è abbastanza assurdo che io adesso gli stia dicendo che ero preoccupato per lui. E peraltro ho continuato a parlare anche adesso che nel mentre mi stavo parlando nella testa, quindi non ho idea di cos’ho detto negli ultimi dieci minuti. Ma dev’essere qualcosa di assurdo, se mi sta guardando con quella faccia lì, come se stessi imprecando in latino mentre la testa mi ruota sul collo di trecentosessanta gradi e fiotti di vomito verde escono a fontana da ogni orifizio del mio corpo.
- Chaku… - mi chiama lui, un sorriso divertito appena accennato sulle labbra, - Chaku! – e io mi interrompo a metà di una parola che non ho pensato e non saprò mai di aver detto. – Mi sei mancato anche tu. – sorride più serenamente, appoggiandosi di spalle alla parete, - Sono contento che le ferite vadano meglio. Almeno non sei più inguardabile. – ridacchia.
E io non lo so cosa mi prende. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa mentre Eko blaterava di lui e Bushido lunedì mattina in casa mia, ingozzandomi di krapfen e sperando bastassero per non sconvolgermi troppo. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa tutte le volte in cui ero consapevole di doverlo lasciare andare, o doverlo quantomeno aiutare a staccarsi, o di dover rispettare la sua scelta di non volermi più rivedere. Probabilmente la stessa cosa che mi prende sempre, insomma, quando c’è di mezzo lui. Una cosa che non so e non posso fermare, una cosa a riguardo della quale mi fa paura ammettere che non voglio cercare di fermare.
Neanche me ne accorgo, quando mi avvicino, perché è un movimento talmente collaudato che ce l’ho tipo inciso nelle ossa. La forma del suo petto contro il mio, le sue spalle sotto le mie mani, le sue labbra pressate sulle mie. Il suo sapore che è sempre lo stesso.
Io non me ne accorgo, lui sì. Mi pianta addosso le mani e mi spinge indietro con forza, schiacciandosi contro la parete come se servisse a difendersi, e mi dà l’impressione che, se potesse, sfonderebbe il muro e indietreggerebbe ancora. Non può, ed è l’unico motivo per cui sto continuando a guardarlo negli occhi. Posso quasi vedermici riflesso dentro. La mia espressione confusa, come se io per primo non avessi capito cosa stavo facendo.
Lo capivo, Fler. Stavo sbagliando lo stesso, ma lo capivo.
*
Ho bisogno di appoggiarmi da qualche parte, e scelgo la parete perché sembra abbastanza rigida, dopotutto, anche se a volte ho come l’impressione che i muri all’EGJ siano fatti di cartone, tanto sono sottili, che se uno parla un po’ più ad alta voce dall’altro lato senti tutto.
Guardo Chakuza e vorrei potergli leggere nella sua testa con la disinvoltura con la quale in genere lo faccio quando non sono così confuso e turbato e minacciato – da cosa, neanche lo so – ma non ci riesco. Respiro profondamente, mi rendo conto che non mi basta, respiro ancora.
- Non- - comincio, incerto, - Non intendevo questo.
Lui mi guarda e non risponde. Ha le labbra dischiuse, gli occhi persi, e io non so che dirgli di più. Non so neanche se avergli detto quello che gli ho appena detto sia stato corretto, perché non è vero. Non lo è del tutto, almeno. Mi piacerebbe che lo fosse, ma non può esserlo se mi basta così poco per non capire più niente.
- Scu- - comincia lui, ma io mi agito subito, mi stacco dal muro e comincio a muovere le braccia per fermarlo.
- Non scusarti. – lo blocco, scuotendo il capo, - Mi sono fatto fraintendere io. Insomma, mi manchi, sì, ma non in quel senso. E poi sto con-
- Lo so con chi stai. – mi interrompe lui. Ho perso il conto delle volte in cui ci siamo parlati addosso, interrompendoci a vicenda, solo oggi. È un gioco che abbiamo condotto dalla prima volta che ci siamo visti, la verità è che io e Chakuza siamo due teste troppo dure perché dai nostri scontri possa davvero uscire qualcosa di buono. Motivo in più per cui è necessario chiuderla adesso. Sarebbe stato meglio chiuderla prima, ma se adesso è tutto ciò che resta, è adesso che dobbiamo chiuderla.
- Sto con Anis. – dico comunque. E lo dico scandendo bene ogni lettera, parlando chiaro e ad alta voce. Così che lui possa sentirlo, sentirlo davvero, e non possa ignorarlo.
Chakuza non mi guarda. Annuisce sbrigativamente, poi borbotta qualcosa sull’aspettare in macchina, che è meglio, e poi si dilegua in un batter d’occhio. Mentre lo osservo attraversare la porta per uscire dagli studi, colgo l’occhiata di sfuggita che mi lancia attraverso lo specchio accanto all’appendipanni, e nei suoi occhi – ora che sono lievemente più calmo – leggo chiaramente che sta già per dimenticare quello che gli ho appena detto, perché non c’è niente che Chakuza possa impedirsi di scordare, se gli fa comodo.
Sospiro pesantemente, riprendendo il corridoio e ricominciando a muovermi verso l’ufficio di Anis come stavo facendo prima di incontrare Chakuza di fronte al divano. Mentre busso alla porta, più per abitudine che perché Anis abbia mai richiesto da me un simile riguardo, penso che è altamente presuntuoso, e anche altamente stupido, da parte nostra, pensare di poter chiudere qualcosa che non abbiamo ancora nemmeno aperto. È il problema della nostra esistenza tentare di chiudere cose non aperte e tentare di convivere con cose mai chiuse come se lo fossero. E io ne so qualcosa.
Quando entro nell’ufficio, Anis si sta palesemente annoiando, e a me viene da ridere. Me lo ricordo ai tempi dell’Aggro, lui era uno capace di darsi alla macchia per giorni e comparire agli studi in tempo per la registrazione, fare la sua cosa e poi sparire ancora fino a chissà quando. Ora è diverso, ora c’è la Universal di mezzo, e la Universal ha tabelle con orari prefissati, appuntamenti programmati giorni prima, giornate di lavoro scandite nel minimo dettaglio. Il classico lavoro da impiegato statale dal quale Anis è sempre fuggito da che è nato, insomma, eppure ora è costretto a sottoporsi a cose simili, cose delle quali nemmeno comprende l’utilità, perché giustamente lui cosa ci sta a fare dietro a una scrivania se non ha canzoni da scrivere, demo da ascoltare o rapporti di vendita da visionare compiaciuto?
- Come va? – chiedo divertito, chiudendomi la porta alle spalle ed avvicinandomi. Lui smette di fingere di scorrere con gli occhi incartamenti inutili e si stende tutto sullo schienale della sedia, che è di quelli a molla e quindi segue la sua spinta, piegandosi all’indietro e permettendogli di stiracchiarsi come può con un grugnito di soddisfazione un po’ frustrata.
- Secondo te? – ribatte lui, tornando dritto e grattandosi distrattamente la fronte, - Voglio tornarmene a casa e non posso.
- Perché? – rido, appoggiandomi alla scrivania, - Aspetti che suoni la campanella?
- Devo incontrare un tipo… - borbotta lui, lanciandomi un’occhiata indispettita, - Un manager, cazzo ne so. Fra mezz’ora. Cristo, ma chi me l’ha fatto fare? Potevo stare sdraiato in una spiaggia a bere latte di cocco mentre le turiste mi guardavano come una specialità locale, adesso. E invece, guardami.
- E invece sei tornato nell’ostile Germania, il cui trono era stato usurpato dal tuo vigliacco fratellastro pelato, e hai combattuto per riconquistare regno e principessa.
- Per poi perderli entrambi. – sorride lievemente. Nei suoi occhi c’è una traccia di tristezza che è solo un’ombra. La scaccia via battendo le palpebre, e poi torna a guardarmi. – Cos’hai? – mi chiede, scrutandomi incuriosito.
Io distolgo lo sguardo, perché non voglio che veda. Alle volte, però, mi sembra quasi che non ne abbia bisogno. Mi sembra che i miei turbamenti li percepisca nell’aria, come quando dal niente ha capito che ero tornato a casa dopo aver scopato con Nicole. È una libertà di lettura che gli ho lasciato io e della quale pagherò per sempre le conseguenze.
- Niente. – biascico, - È tutto ok.
Lui non mi risponde, si vede lontano un miglio che non mi crede manco per niente. Resta un po’ seduto sulla propria poltrona, rigirandosi i pollici e guardandomi. Lo so perché, anche se sto fissando la parete come se stesse affiorando Gesù Cristo in persona da sotto l’intonaco, mi sento addosso i suoi occhi, e mi fanno sentire a disagio.
Poi lo sento alzarsi e fare il giro della scrivania, raggiungendomi, e solo allora torno a guardarlo e lo vedo che mi sorride. Faccio per dirgli qualcosa, ma lui si sporge in avanti e mi bacia leggerissimo sulle labbra. Sta ancora sorridendo.
Non devo dirgli niente. Chiudo gli occhi e sporgo appena le labbra. Lui ride, mi ride proprio addosso, e poi mi si stringe contro, facendosi spazio fra le mie gambe mentre io mi sollevo e mi seggo sulla scrivania, lasciandogli tutto il posto che gli serve. Piego il capo e lui approfondisce il bacio, attirandomi a sé con una mano sulla nuca. E non gli importa che la porta non sia chiusa a chiave, perché se per caso qualcuno la aprisse e ci vedesse, lui non avrebbe alcun problema a dirgli di andarsi a fare un giro mentre lui finisce di scoparmi. E questo può succedere perché lui mi porta a cena fuori, perché usciamo insieme, perché se gli chiedono se stiamo insieme, pure come una battuta, lui risponde di sì con tutta la serietà del mondo. Non perché stia legandosi a me per sempre come fossimo sposati, semplicemente perché sa che non c’è motivo di mentire a riguardo.
Non c’è niente di nascosto, di quello che siamo. È la prima volta che mi sento così in tutta la mia vita. Anis è stato l’unico a farmi sentire in questo modo. E io gli sono grato mentre lo aiuto a scostarmi i vestiti di dosso e piegarmi sul tavolo, prendendolo dentro con un gemito che gli spengo sulla spalla, prima di tempestarla di baci e morsi.
Quando vengo fra le sue dita, mi lascio sfuggire un gemito più forte degli altri, e lui sorride soddisfatto sul mio collo.
- Visto? – mi dice. Il suo respiro è pesante e sorrido anch’io. – Qualsiasi cosa fosse, ora è passata.
Lo abbraccio stretto, solo per qualche secondo. Non l’ho mai fatto con lui, non così, ma oggi mi sento piccolo, e l’ufficio all’improvviso mi sembra la cameretta in cui dormivo da ragazzino, nella casa con mamma, a Tempelhof. Adesso mia madre non ci vive più, là. La prima cosa che ho fatto, quando ho cominciato a vedere soldi veri, è stata comprarle una bella villetta in un bel quartiere pieno di verde dove passano i ragazzi a portare il giornale e il latte al mattino.
- È passata. – confermo, anche se forse non è del tutto vero. – Grazie.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Comico, Generale.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Quello che dico io è: se muori, muori."
Note: Quest’uomo voleva parlare da lungo tempo XD E da altrettanto tempo io volevo lasciargli la possibilità di farlo, perciò spero che quanto avete letto non vi abbia deluso. Io mi sono divertita moltissimo, Eko è l’unico modo che ho per guardare a quello che è accaduto/sta accadendo/accadrà alla Saga con un pizzico di dovuto umorismo XD Eko for President, subito.
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THE WAY THINGS GO

Quello che dico io è: se muori, muori. C’è un motivo per cui ognuno può morire una volta sola, e non è una questione fisica, cioè, voglio dire, è anche una questione fisica, ma è che principalmente morire è una rottura di palle. Nel senso, c’è da prendersi cura del cadavere, c’è da affidarlo all’impresa di pompe funebri giusta, c’è da tenere d’occhio i preparativi del funerale, la veglia, la cena, e poi naturalmente c’è da avere a che fare col fatto che la gente è triste, eh, e non le viene mica voglia di sorridere, perché uno fa tanto di dire “per il mio funerale, voglio che ridiate e balliate nudi sui tavoli!”, e i suoi migliori amici in genere stanno lì a dire “ma sì, vedrai, rideremo, racconteremo barzellette e la danza delle odalische del ghetto sui tavoli non ce la farà mancare nessuno!”, ma poi, quando la disgrazia accade, non c’è tanta voglia di ridere, e se per caso ti azzardi a tirare fuori la faccenda delle odalische gli altri ti guardano come se fossi una specie di mostro assassino, perciò meglio lasciare perdere.
Insomma, quello che intendo è che non è che tu puoi morire e costringere tutta la tua famiglia e i tuoi amici a tutta questa serie di operazioni deprimenti, per poi venirtene fuori fresco come una rosa con un codino assurdo e i capelli morbidi e lucidi, vestito di bianco come Gesù Cristo dopo la resurrezione, e dire “be’, eccomi qui, in realtà non ero morto, sono tornato, amatemi come prima”. Voglio dire, è scorretto, non sono cose che si fanno.
Quando Bushido è morto, naturalmente sono successe un mucchio di cose. E parlo del mucchio di cose che sono successe subito, immediatamente dopo la sua morte, non di tutto il casino altrettanto incasinato che è venuto giù dopo con Fler infermiere, Fler e Chaku agenti speciali nella notte di Tempelhof e Saad traditore e assassino. Quello poi è stato l’apice. No, parlo delle cose immediatamente successive, tutto quello che abbiamo dovuto dire, e fare, e sopportare, la Principessa in pezzi, il Principino confuso, il Cavaliere del Re che quasi ci rimette lo stomaco se non peggio e il Senzatetto che passa più tempo intorno a noi che in casa sua. Voglio dire, sono stati sacrifici di una certa entità, roba che abbiamo tutti tollerato perché credevamo di avere un motivo per farlo, e quel motivo era che, in fondo, eravamo tutti uniti dalla perdita di quest’uomo insopportabile che però era il nostro capo e lo sarebbe rimasto comunque, anche dopo, indipendentemente da tutto.
Insomma, ci siamo fatti forza e siamo andati avanti, tutti insieme. Almeno fino a quando è stato possibile, poi ovviamente è venuta fuori quella roba di Saad e quindi “tutti insieme” ha un po’ cambiato la sua conformazione, nel senso che quello che stava apprestandosi a diventare il cardine della nuova Ersguterjunge naturalmente è venuto a mancare, per dirla così in termini blandi, quindi le maglie della nostra rete si sono un po’ sfaldate. Per dire, chi lo vede più Nyze, da un po’? Lui e Saad avevano un buon rapporto, deve esserci rimasto di merda quando ha scoperto che era stato lui ad ammazzare Bu. Oppure Kay, per dire. Lui bazzica ancora perché a parte il fatto che comunque siamo tutti affezionati l’uno all’altro – e vorrei dire, è anche ovvio, ti affezioni per forza alle persone con le quali ti sei scattato una foto in collant e mutande – lui con Bill e Tom si diverte parecchio, perché sono vicini come età, quindi sta ancora da queste parti, ma non è mica più come prima, con tutto questo fatto della fidanzata e della nuova casa in centro a Berlino e tutto il resto.
Insomma, ci siamo un po’ persi l’uno con l’altro, che non è stato proprio bello – anche perché eravamo tipo abituati a vivere in simbiosi tutti assieme, la Villa Gialla era un po’ la nostra tana… non so se avete presente, ci sono dei roditori glabri, da qualche parte nel mondo, che vivono tutti sotto terra e per non sentire freddo si spiaccicano l’un l’altro e vivono tutti assieme… okay, forse non erano roditori glabri, ma comunque mi è rimasta impressa questa foto di questo topo senza peli, rosa e cieco che… no, ma comunque non è questo il fulcro del discorso – insomma, non è stato bello ma ci abbiamo guadagnato in tranquillità. Voglio dire, quando le cose sono più tranquille lo capisci perché improvvisamente riesci ad organizzarti la vita senza che questo rappresenti un problema per il prossimo. Per dire, prima, subito dopo la morte di Bushido, c’era il problema-Principessa, e quindi, se a me saltava in testa di ordinare al ristorante un’impepata di cozze e mangiarmela – ora non so se si possa ordinare al ristorante un’impepata di cozze e farsela portare a casa, ma non è importante – insomma, non potevo farlo, perché alla Principessa l’impepata di cozze non piace ed io dovevo mettere in conto che se Bill mi si presentava a casa di umore piagnucoloso, dovevo nutrirlo, che poi è magro e mi deperisce, perciò la mia impepata di cozze non la potevo avere. Dovevamo tutti nutrirci con alimenti Bill-approvati, se no era un dramma.
La cosa è andata avanti per un bel po’, con alti e bassi di varia natura, almeno fino a quando Saad non è morto. Che poi vuol dire che Bill l’ha ucciso, ma questo è un segreto che non deve sapere nessuno, quindi state attenti con chi parlate, quando uscite di qui. Insomma, dopo quel momento sono successe svariate cose, non è che noi si sia tornati esattamente alla normalità – suppongo che una delle varie controindicazioni della morte, a parte il fatto che muori, sia che niente torna più come prima – però almeno abbiamo cominciato a risparmiarci le visite a sorpresa di Bill, che può sembrare una cosa banale, ma è invece una cosa importantissima, perché è importante sapere che puoi tornare a casa e svaccarti sul divano, alla sera, sapendo anche che nessuna Principessa parata a lutto si presenterà alla tua porta in cerca di coccole che non sei sicuro di essere in grado di darle, e che ti guarderà peraltro malissimo prendendo possesso del tuo divano e dormendoci anche, se non sarai in grado di soddisfarla pienamente. Almeno, non so se era così che Bill si comportava anche con gli altri, ma di sicuro era così che si comportava con me.
Insomma, questa situazione ha continuato ad essere più o meno pseudo pacifica per una buona quantità di tempo. Non so cosa facesse Bill, più che altro mi limitavo a pensare che fosse tornato una normale ragazzina della sua età e perciò, che ne so, avesse ricominciato a giocare con le bambole e via discorrendo. L’importante era che non mi importunasse e che, se volevamo vederci perché io potessi offrirgli da mangiare da qualche parte, fosse perché entrambi lo volevamo e non solo perché lui aveva voglia di rendermi il suo cuscino del pianto preferito per una notte.
Tutto ciò era evidentemente troppo bello per poter durare, e perciò Bushido – che non è uno che possa vantare di migliorare la qualità della vita della gente, in genere – ha pensato di mandare tutto a puttane risorgendo.
Insomma, io sono là che aspetto la mia pizza, no? Sono tornato a casa stanco dopo una giornata di registrazioni con Sentino – che non so se lo conoscete, ma è un fuori di testa più fuori di testa di me, eh. È uno che ti si presenta in studio cantando di aver visto trifogli rosa crescere lungo il battistrada del marciapiedi, perché prima di uscire s’è sparato una canna grossa quanto una bottiglietta d’acqua. Insomma, dopo una giornata passata con un tipo simile, che ogni tanto ti guarda con gli occhi vacui e le pupille dilatate, che tu ti chiedi se per caso una colonia di folletti non sia appena spuntata dal nulla sulla tua testa, tu hai voglia solo di tornartene a casa, abbatterti sul primo divano che incontri e muoverti solo per sollevare la cornetta del telefono, ordinare la pizza e poi andarla a recuperare sulla soglia della porta, punto.
Quindi è quello che faccio: mi getto sul divano, decido di ordinare una quattro formaggi perché voglio qualcosa di pesante che mi mandi in coma fino a domani mattina, e poi resto lì a rigirarmi i pollici, godendo del silenzio che mi rimbomba nella testa, fino a quando non suona il campanello.
Io lì non lo so che la mia vita sta per cambiare, perciò mi alzo tranquillo e sono pure felice perché penso “pizza!” e tutto ciò che voglio è soffocare nel formaggio e morire felice. Solo che quando apro la porta non mi trovo davanti il ragazzo delle pizze. No. Io mi trovo davanti Bushido.
E quindi, naturalmente, lo investo di testa e scappo.
Mentre scendo per le scale cercando di stare attento a non ruzzolare giù di testa, che sarebbe un po’ una conclusione eccessiva anche per una giornata tanto brutta come quella, l’unica cosa che riesco a pensare con chiarezza è che tutto ciò deve essere colpa di Chakuza. Cioè, per forza. Penso “magari Saad non c’entrava niente e Chaku e il Senzatetto hanno preso un abbaglio, inducendo in errore anche la Principessa” – penso così, “inducendo in errore”, perché mi viene in mente una volta che Bill s’è presentato a casa mia, Bushido era ancora vivo, ai tempi, e io gli faccio “Principessa, ma che cazzo ci fai qui?” e lui chiama Bushido e fa “Ani-iiis, sono a casa di Eko ma tu non ci sei!” con tono piagnucoloso e Bushido gli fa “passamelo” e io faccio a Bushido “pronto?” e lui mi fa “Bill credeva che ci saremmo visti da te”, e io giustamente rispondo “Bill ha sbagliato” e lui, tranquillissimo, mi ribatte “Bill con voi non sbaglia mai, tienilo a mente. Circostanze confuse l’hanno indotto in errore”, quindi è questo che mi viene in mente, circostanze confuse che poi sono Chakuza e il Senzatetto, che magari non sono circostanze ma confusi lo sono di certo, hanno indotto la Principessa a credere che fosse opportuno fare fuori Saad mentre così non era, e ora Bushido è tornato dal mondo dei morti per vendicare l’ingiusta scomparsa del cugino innocente. Solo che magari qualche circostanza confusa ha indotto in errore anche lui, e quindi lui, invece di prendersela con Chaku e il Senzatetto, che sono i diretti responsabili, se la prende con me.
Proprio per questo motivo, appena arrivo giù in strada e mi rovisto nelle tasche dei jeans trovando il telefonino, la prima cosa che faccio è chiamare lui.
- Pro- - mi fa, ma io non gli lascio il tempo di concludere.
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa! – dico tutto d’un fiato. E, voglio dire, nel momento in cui lo dico io ci credo, perché pensare che Bushido sia risorto dalle sue ceneri come la tunisina fenice è molto più sensato di una qualsiasi alternativa che la mia mente possa propormi, tipo che ha vissuto sotto un sasso dietro casa mia per tutti questi mesi, salvo poi rispuntare lindo e pinto come non fosse successo niente perché aveva finito il sale nella sua casa di pietra, per dire.
- Tu hai cosa dove, Eko? – fa Chaku con voce stridula, come non capisse minimamente cosa sto dicendo. Eppure, sto parlando in tedesco. Non può mica aspettarsi che tiri fuori dal cappello qualche dialetto alpino che conosce solo lui, la sua famiglia e qualche capra.
- Cristo santo! – ripeto io per buona misura, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! – e, siccome lui sembra ancora non capire, mi spiego meglio: - Chakuza, quando hai fatto fuori Saad – dico sbrigativamente, dando a lui la colpa perché non mi va di ripetere il complesso processo mentale dell’indurre in errore la Principessa, - tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
- Eko… - sospira lui, e lo fa con quel tono come a dire “ah! La santa pazienza che ho!”, mentre io vorrei dirgli “vola basso, austriaco, che tanto per cominciare sei anche più spostato di me, tu, e comunque sei un nano di merda”, - È una serata di merda. – sì, ma anche a me cosa me ne frega, - Seriamente. – ma puoi pure giurarmelo su tua madre! – Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! – esplodo gesticolando, - Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi trovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, - riprende lui interrompendomi e facendo sfoggio di grande maleducazione, come se chiamarsi come l’amichetto preferito di Heidi lo esonerasse dal lasciar finire gli altri prima di cominciare a blaterare idiozie che non interessano a nessuno, - perciò… - lo sento che si interrompe un attimo e poi cambia argomento all’improvviso, che è una cosa che capisco bene perché pure io lo faccio, sono gli unici momenti in cui il cervello mio e quello di Chakuza funzionano in sintonia. - …Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?! – mi fa, solo che questo non è il momento di pensare alla pizza, naturalmente, e glielo dico pure.
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! – gli faccio, - Ti hai dei problemi seri! Il punto è che io ho aperto la porta e mi sono trovato davanti Bushido. Bushido, capisci?
Lui si prende una pausa per realizzare.
- Eko…? – mi chiama. Io roteo gli occhi.
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – e la pausa me la prendo io, per cercare di respirare di nuovo. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. – decido arbitrariamente, - E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospira, - Eko, senti. Ora vengo da te e poi saliamo insieme. – mi fa con aria rassicurante, come se io potessi sentirmi rassicurato dalla sua presenza! – Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel cazzo che credi. – rispondo annuendo compitamente, perché Bushido buon’anima me lo diceva sempre, puoi dire tutte le parolacce che vuoi, ma la tua espressione dev’essere sempre quella di uno che sta dicendo le cose più educate del mondo, così la gente ti prende sul serio. E poi mi guardava a lungo, con aria comprensiva, e mi diceva “e Dio sa se hai bisogno di essere preso sul serio tu, Ekram”, me lo diceva proprio col mio nome, Dio l’abbia in gloria. – Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari – realizzo all’improvviso, e ancora lì non so quanto ho ragione, - dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego! – si lagna lui, e io scrollo le spalle.
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
Lui mi chiede se intendo mangiarmele, e tutto ciò che rispondo io è un vaffanculo irritato, decidendo poi di restare lì in attesa perché di rimettere piede nel mio appartamento da solo non se ne parla nemmeno sotto tortura, nossignore: quando salirò nuovamente per quelle scale, sarà solo con un’adeguata vittima sacrificale di nome Chakuza al mio fianco.
La serata, comunque, procede in maniera abbastanza assurda, e se lo dico io potete fidarvi. Tra Chakuza che arriva e, come prima cosa, quando vede Bushido, decide di chiamare Fler, e Bushido che poi si mette a parlarmi di donne che fanno cose strane con le noci di cocco, anche quando poi rimaniamo soli perché lui ha deciso di dormire a casa mia per chissà che assurdo motivo, rischio di perderci la testa numerose volte, e sto evitando di parlare del momento tremendo in cui Bushido e il Senzatetto si sono messi a flirtare sul mio tavolino da caffè, perché sarebbe troppo da ripercorrere adesso per la mia povera psiche stanca, ecco.
Comunque, da una partenza del genere non si può certo migliorare, e da allora, appunto, le cose non hanno fatto che degenerare verso il fondo del fondo. Ripeto: c’è un motivo per cui si muore una volta sola e dalla morte non si torna. La gente ci mette tanto a ricostruirsi quando perde una parte così importante di sé, e tu non puoi tornare e mandare all’aria tutti gli sforzi che le persone che ti amavano hanno fatto per andare avanti. Bushido mi sa che non l’ha messa in conto, questa cosa, tornando. Non so esattamente cosa si aspettasse, ma di sicuro non si aspettava di trovare tutto sbagliato come poi è stato – lui non è uno cui piaccia mettersi in mezzo alle cose quando sa di non poterle rivoltare a proprio favore. Probabilmente si aspettava davvero che la Principessa tornasse ad essere sua e anche tutti noi riprendessimo i posti che avevamo prima che morisse. Non lo so. Un po’ mi dispiace che niente di quello che pensava si sia avverato, d’altro canto però mi dico che è stato lui a decidere di morire ed altrettanto ha fatto quando ha deciso di risorgere. Bushido non è mai stato uno da rifiutare le proprie responsabilità, e gli toccherà farlo anche adesso, che voglia o meno.
Il che ci riporta – non senza difficoltà, mi rendo conto, ma cercate lo stesso di seguirmi – a parecchie settimane dopo. Le signorine che fanno cose con le noci di cocco non sono che un vecchio ricordo, nelle menti di noi tutti, perché negli ultimi tempi è successo un putiferio: il mondo ha scoperto della resurrezione di Bushido e, cosa ancora peggiore, la Principessa ha scoperto della resurrezione di Bushido, cosa che ha portato con sé tutta una serie di drammi di varia entità e portata che hanno raggiunto il loro culmine nel momento in cui alla Universal hanno deciso che a loro non importa quanto male possa essere conciata una situazione, ciò che importa loro è la possibilità di ricavarne dell’utile. Ora, seguitemi: un rapper muore durante uno scontro a fuoco lasciando a casa una vedova affranta e peraltro appena maggiorenne; meno di un anno dopo, quello stesso rapper risorge dicendo di essere stato nascosto in America fino a quel momento e di essere appena tornato in Germania camminando probabilmente sulle acque, e quella stessa vedova affranta è apparentemente lì per lui, pronta a farsi riaccogliere nella regale dimora con gli occhi pieni di devoto amore.
Ciò che la Universal non sa è che, mentre loro facevano i loro calcoli, in mezzo è successo di tutto – cioè Bill e Bushido hanno consumato il loro amore, si sono apparentemente rimessi insieme e poi, dal nulla, è venuto fuori che Bill in realtà stava con Chakuza e aveva dimenticato di rendere noto il particolare a tutti noi – che va be’, non è importante – ed a Bushido stesso – che invece di importanza ne ha eccome.
Tanto per cominciare, già tutti dovremmo avere dei problemi col fatto che Chakuza stia con la Principessa. Questo perché la Principessa, checché ne dica il suo titolo onorifico – e il suo aspetto e tutto il resto – è un maschio. E Chakuza è Chakuza. E sì, lo so che dopo Bushido praticamente nulla dovrebbe più stupirmi e nulla dovrebbe essere automaticamente considerato eterosessuale fino a prova contraria, ma!, intendo, è di Chakuza che stiamo parlando, insomma, si dovrebbe avere almeno un po’ di raffinatezza, credo, per essere gay, quindi Chakuza dovrebbe essere tipo l’antitesi dell’omosessualità, lui, i suoi prosciutti stagionati del 1980 e le sue muffe nel frigorifero. E invece toh, viene fuori che è gay. Che è gay e che sta con la Principessa di qualcun altro, a rendere le cose ancora peggiori. Non so se vi rendete conto dell’enormità del tutto.
La cosa veramente grave è che Bushido si rende subito conto dell’enormità del tutto, e così – dopo aver buttato fuori di casa la sua Principessa privandola della sua corona e dell’anello nuziale che sanciva la sua sovranità – prende la spada e monta in groppa al suo cavallo arabo bianco, diretto a casa del suo personalissimo Lancillotto e fermamente intenzionato a lavare l’onta del tradimento col sangue. Che poi è un’altra cosa che mi turba molto, perché io ho studiato poco, nella mia vita, ma una cosa la so, e cioè che Lancillotto era un gran figo, altrimenti Ginevra col cazzo che mollava Artù per un paio di braccia forti a caso. Quindi il mio sconvolgimento è ancora maggiore, se penso che, se dovessi indicare tutta una serie di Lancillotti fra le persone che conosco, il Chaky, con tutto il rispetto, sarebbe l’ultimo della lista, sotto perfino al Senzatetto, quindi figurarsi.
A Bushido, però, non interessano questo tipo di discorsi. Lui vuole il sangue di Chakuza che ha messo le mani addosso a roba che non gli apparteneva, e quel sangue ottiene, spargendosene un po’ sulle mani e un po’ sulle pareti di casa del Chaky. Chakuza però non muore, come tutte le erbe cattive è parecchio resistente, da quel punto di vista; e forse è meglio, perché se fosse morto tanto per cominciare non so come avrebbe potuto reagire la Principessa, e tanto per continuare chi mi assicura che poi non sarebbe risorto anche lui, magari fra altri nove mesi, tornando dalla Lapponia o dall’Australia o che so io e generando ancora più caos di quanto già non ne abbia generato il sovrano sperimentando la propria immortalità ai danni di noi tutti?
Insomma, Chakuza non muore, Chakuza si rimette con Bill. Come, non lo so e non voglio nemmeno saperlo. Immagino sia stata una questione regolare, capito come?, Bill torna a casa, lo trova con l’occhio nero, bla bla, fetta di carne, bacio appassionato e via così, solo che Bushido non è mica uno che prende e molla l’osso per una minuzia simile – perché per lui i no delle persone tendenzialmente sono minuzie, soprattutto quando sa di avere le armi adatte per trasformarli in sì – no, lui è più il tipo che all’osso ci si attacca con tutta la sua bellissima chiostra di denti nuovi di zecca fino a quando non lo stacca dal resto del corpo, e quindi resta lì, attaccato a Bill come una patella sul suo scoglio; e uno magari si dice “eh, lui è ostinato, ma il karma saprà punirlo”. E invece no! Il karma non lo punisce mai, quest’uomo, gli è asservito come noi tutti, tant’è che cosa fa la Universal? Gli organizza un video in cui lui può molestare sessualmente la Principessa mascherando il tutto con le esigenze di copione! Se non è fortuna questa – per lui, sfortuna per tutto il resto del mondo – non so cosa possa esserlo.
Se c’è una cosa che Bushido sa fare, comunque, è usare il suo corpo. Anche perché lui non è uno che canta, è uno che si esibisce, e c’è una bella differenza, fra le due cose. Lui quel corpo è abituato a venderlo giornalmente – in senso puramente platonico, almeno credo – a migliaia di ragazzine, ragazzini, uomini adulti e puzzolenti e in sovrappeso e casalinghe in ansia da ribellione, nonché ad un altro svariato centinaio di tipologie umane, perciò nessuno di noi aveva veramente dei dubbi su chi sarebbe uscito vincitore dallo scontro fra titani. Che poi titani non sono, perché Chakuza al massimo può essere il cugino sfigato e sottomisura dei titani, per dire.
Insomma, fatto sta che: Bushido continua a girare intorno alla sua Principessa – e questo io lo so non perché vado in giro spiandoli, per carità, spiarli è l’ultimo dei miei desideri, lo era in passato, lo è adesso e lo sarà per sempre, come le cose che non cambiano mai tipo le muffe del frigo di Chaky che ormai le conosciamo per nome e i gerani degli studi dell’Ersguterjunge che non possono cambiare posizione sennò Bushido si indispone e non canta più a tempo nemmeno se lo minacci di infilargli il metronomo su per il culo – e la Principessa cede, perché è la Principessa e perché lui è Bushido.
E in fondo, io penso, il fulcro del tutto è un po’ questo. Io non sono bravo a trovare i nodi fondamentali delle questioni, perché come avrete potuto notare in realtà mi perdo spesso. Nella mia testa ma anche nel mondo che mi circonda. Ma questo punto è così fondamentale, così primario, così assoluto nella mia vita degli ultimi tre anni, che non posso proprio mancarlo. Come il mio nome o che ne so. È lì, c’è da tanto, c’è da troppo, non penso andrà più via. Il punto è che Bushido e Bill potranno anche smettere di amarsi come prima, amare altre persone, fare altro, trasferirsi in America o in Russia o in Papuasia, ma resteranno sempre quello che sono stati fino ad adesso, Bushido il Re e Bill la Principessa. Bill non smette di essere la Principessa di Bushido uscendo da quella porta. Ed altri uomini – io, il Chaky, chiunque altro – possono rivolgersi a lui utilizzando quello stesso nome, ma non sarà mai la stessa cosa, perché quel nome ha un senso preciso solo se usato da Bushido. È così che funziona, è così che gira, questa cosa non finirà mai. Io lo so che è così, e so che è vero che anche se la maggior parte dei punti fissi rappresentano delle garanzie – perché sono in quel modo e non cambiano mai e quindi, anche se tutto si distrugge, sempre da loro puoi ripartire – so anche che a volte sono degli ostacoli insormontabili. Perché a volte vuoi distruggere tutto. E i punti fissi te lo impediscono.
È questo che penso adesso, in questo preciso istante. Davanti a me – e davanti a un sacco di altra gente che queste cose non dovrebbe vederle, anche – ci sono Bill, Bushido e Chakuza. Bill piange, e continua a farlo stretto a suo fratello, per molto tempo. Bushido e Chakuza si guardano negli occhi e parlano di Bill come se non ci fosse. Esprimono una proprietà su qualcosa che non dovrebbe essere di proprietà di nessuno e sulla quale sentono entrambi di avere dei diritti. Guadagnati col tempo, con la fatica, con l’amore che hanno investito in questo ragazzino che più che altro, a me, sembra solo troppo piccolo e confuso per decidere qualcosa – qualsiasi cosa. E io questo penso. Le cose, purtroppo, vanno in un modo, e quando vanno in quel modo poi tornare indietro è impossibile. È per questo che non si torna dalla morte. Ma è anche per questo che la Principessa resterà Principessa funerali o meno.
È così che gira, e non è rassicurante pensarlo. Ma io queste cose non dovrei pensarle. E nemmeno dovrei dirvele. Quindi voi ricordatevi di dimenticarvele, prima di andare.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo."
Note: Ehm. Ci dispiace. Sorpresa ^O^
Dunque, ieri sera il fratello della Tab - dalla quale mi trovo in vacanza - ha spento il modem mentre noi cercavamo di mantenere i nostri impegni di madri devote - che hanno in pugno la storia, ve lo assicuriamo; per quanto possa sembrare stia andando a ramengo, non è così. Da ciò si deduce che dopo aver postato la prima parte non abbiamo potuto postare anche la seconda. Quindi, insomma, ci dispiace per chi dovesse aver già letto la prima parte senza poter sapere che fosse appunto la prima, e speriamo che abbiate gradito la seconda. Che peraltro è la parte più bella perché il Flerkuza finalmente limona. A parte questo: il Bu è bellerrimo - anche se non fa molto più che ridere; il Chaku merita disapprovazione - e Tab mi sta odiando molto per questo, ma lei sa che non disapprovo il Chaku a prescindere ma solo quando mette mano sul bimbo quando non dovrebbe. Adesso sta protestando che Fler gli appartiene, ma io mi dissocio; Fler... so che può sembrare un po', come dire, una mezza zoccola, però... la presenza del Bu mi sconfinfera un po' tutti, quindi giustificatelo se si fa un po' annusare qui e là tipo stendendosi sul tavolino in una chiara offerta che, peraltro, nella testa del Chaku, il Bu non solo nota ma accetta di buon grado anche se in realtà il povero tunisino si è limitato a posare la propria tazzina lì accanto al culetto in offerta. Per quanto riguarda Eko (del quale probabilmente non vi frega una sega, ma io lo amo, perciò ne parlo) egli è il bene, ha palesemente capito tutto di cosa succede nei letti degli altri - anche perché nel suo non succede niente, quindi ha del tempo libero - ed è lol. E la questione del fantasma noi ce la portiamo dietro da circa un milioni di anni.
Ci scusiamo ancora per il disguido e divertitevi ^O^
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TYPISCH ICH

Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.
Genere: Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Al venti dicembre duemilaotto, Bill Kaulitz si aspetta un Natale normale. Ed invece gli capita fra le mani il Babbo. E va tutto per il verso sbagliato - ma chissà che invece non sia proprio il verso giusto, alla fine.
Note: C’è qualcosa di meraviglioso nel svegliarsi al mattino e rendersi conto di aver scritto qualcosa come nove pagine di storia (seimila parole, all’incirca) tutte di seguito XD Anche nell’assoluta incertezza della loro qualità effettiva, il pensiero di avercela fatta è esaltante XD Accidenti, comunque, a questa mia assurda mania di plottare storie destinate palesemente allo sviluppo in più capitoli e convincermi a farle partecipare ai contest come oneshot.
Questa storia è stata scritta per il Fidelity X-Mas Party ’08, proposto da Lokex. I punti da cui prendere ispirazione erano tre: bisognava ci fosse un cavallo (e Palla di Neve spero ricopra adeguatamente il ruolo con la sua apertura alare da tre metri e mezzo circa XD), un personaggio della letteratura (ed io ho deciso arbitrariamente che Babbo Natale è tale personaggio) e dovevano essere presenti le parole “fino a Natale”.
Il difetto principale di questa storia è che nella seconda parte si mette a correre in maniera spaventosa, e quindi, poverina, si rovina un sacco. Ma la prima parte mi piace molto e l’idea originale era meravigliosa: giustamente non era mia, ma di Nai. Me l’ha plottata in dieci minuti e poi abbiamo coccolato insieme l’idea finché non siamo state soddisfatte di ogni più minuscolo dettaglio, e solo dopo l’ho scritta XD In un certo senso, quindi, è decisamente una collaborazione. E c’è un pezzo di Nai in questo contest <3
A parte questo, non molto altro da dire: mi dispiace per l’aberrante lunghezza e spero non annoi XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A CHRISTMAS CAROL

Quello era indubbiamente Babbo Natale. Bill ne era sicuro. Da qualsiasi lato lo si guardasse, non c’erano dubbi che tenessero: era tondo, era vestito di rosso, aveva le guanciotte lucide e sporgenti, una lunga e morbida barba bianca ed un cappello col pon pon sulla testa. Lo fissava bonario come non avevano mai fatto nemmeno i suoi nonni e la sua pancia si sporgeva in avanti fin quasi a sfiorarlo ogni volta che respirava.
Oltretutto, era uscito dal suo camino.
Non poteva che essere Babbo Natale.
La cosa poneva Bill di fronte a tutta una serie di interrogativi che valeva la pena porsi. Del tipo “ma allora esiste davvero?”, molto differente dal più classico “ma allora non è vero che non esiste?”, perché in realtà Bill aveva sempre tenuto moltissimo a quell’intimissima parte di sé che non aveva mai smesso di credere alle fiabe. Perciò sì, sarebbe valsa la pena di prendersi un momento per rifletterci e sbottare in un “ha! Allora avevo ragione!” che poi sarebbe stato il caso di infiocchettare un po’ e passare a Tom come appropriatissimo regalo di Natale – “chi è che aveva ragione, Tomi? Ripeti dopo di me: Bill”.
L’uomo di fronte a lui, comunque, non gli diede tempo di riflettere su niente, perché si espresse in un rotondissimo “ho ho ho” e poi gli diede un paio di pacche sulla spalla, tranquillo, gioviale, serafico, come fosse perfettamente normale avere Babbo Natale in salotto.
Bill si guardò intorno. In casa non c’era nessuno.
Erano lui e il nonnino lappone. Un incredibile testa a testa.
- Caro Bill… - disse il vecchietto, sempre sorridendo, ed a Bill quasi venne da ridere a propria volta nel pensare che lui, da piccolo, ne aveva scritte tante letterine a Babbo Natale, cominciando appunto con “Caro Babbo Natale”, - sicuramente ti starai chiedendo perché sono qui.
Bill inclinò il capo e si grattò una guancia.
- Fra le altre cose, sì. – ammise annuendo.
Babbo Natale rise ancora.
- E ti starai probabilmente chiedendo anche perché io sia qui il venti dicembre, visto che i regali si portano il ventiquattro notte…
Okay, quindi Babbo Natale portava davvero i regali. Questo apriva delle prospettive meravigliose: se era davvero lui che portava i regali, perché tutti – perfino lui! – ricordavano sempre i pomeriggi di shopping festivo prima della fatidica sera? Babbo Natale governava le loro memorie? Dava loro dei ricordi falsi perché si illudessero sulla sua non-esistenza? La cosa cominciava a farsi complessa.
- …anche. – annuì Bill, che in realtà non se l’era chiesto perché era ancora impegnato a cercare un modo abbastanza crudele e sfacciato per dirlo a Tom.
- Ebbene… - Babbo Natale si chinò e recuperò da terra il sacco di iuta che aveva mandato in avanscoperta lungo la canna del camino, e sul quale poi Bill l’aveva visto agilmente cadere qualche secondo dopo, - ho un regalo in anticipo per te! – e, così dicendo, tirò fuori dal sacco un minuscolo cucciolo di unicorno.
Che era indubbiamente un unicorno. Bianco, col musetto tondo e rilassato, dormiva amabilmente e stava tutto raggomitolato su se stesso, la lunga criniera azzurra e lucente a scivolare sul collo, confondendosi con la foltissima coda ripiegata contro una zampetta. Ed un ridicolo abbozzo di corno tondo e dall’aspetto gommoso ad uscire dalla fronte, proprio sopra gli occhietti chiusi. Era talmente piccolo che stava tutto sul palmo della mano di Babbo Natale.
Il primo istinto di Bill fu sollevare una mano ed accarezzarlo. Il secondo, gongolare fra sé ripetendo al fratello immaginario che aveva nella testa “ma allora vedi che esistono anche gli unicorni? Haha!”. Il terzo – che poi fu ciò che fece – fu puntare un dito contro Babbo Natale, inorridire e strillare.
- Ma tu ci sei caduto sopra!!! Avresti potuto ucciderlo!!!
Babbo Natale rise bonario – il solito serafico “ho ho ho” che era davvero un suono tondo – e sistemò sul naso gli occhialini – minuscoli e cerchiati d’oro, Bill sospettava fossero anche abbondantemente inutili, visto che erano perfino più piccoli delle sue pupille. Occhiali decorativi, insomma.
- Bill, il sacco di Babbo Natale è un sacco magico. – spiegò, - Sai quante ernie mi verrebbero, altrimenti? I miei poveri reni ne risentirebbero. – aggiunse annuendo, - Le cose si materializzano solo quando io ne ho bisogno.
Bill inarcò le sopracciglia.
- Ma allora perché usare il sacco? Se le materializzi così…
Babbo Natale s’imbronciò come un bambino.
- Ma così è molto più carino! – motivò infervorandosi, e Bill non poté che dargli ragione. – Comunque sia, mi aspettavo di trovarti molto più ricettivo! – continuò sbuffando.
Bill si sentì tremendamente in colpa. Insomma, era Babbo Natale! Venuto a trovarlo anzitempo con un unicorno in mano, addirittura! Avrebbe dovuto essere più carino, con lui. Decisamente.
- Mi… mi dispiace. – mugolò affranto, stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, - Scusami, Babbo, è che la tua è stata una visita inaspettata, quindi… - si fermò e rifletté. Poi tornò a sollevare gli occhi in quelli puntuti e azzurrissimi del nonnino, e s’illuminò in viso. – Aspetta qui! – disse, allontanandosi a saltelli verso la cucina.
Tornò due minuti dopo con un piattino colmo di biscotti al cioccolato ed un bicchiere pieno di latte fino all’orlo.
- Ho ho ho! – rise felice Babbo Natale, poggiando l’unicorno sul pancione sporgente e battendo le mani, - Questa sì che è una bella accoglienza! – si complimentò, sedendosi al tavolo senza chiedere il permesso e poggiando sul ripiano di legno il cucciolo prima che finisse schiacciato fra il pancione e il bordo.
Bill si sedette accanto a lui e lo osservò ruminare biscotti ed annaffiarli col latte per una quantità di tempo indefinito, prima di poggiare il mento sul palmo della mano e guardarlo con aria inquisitoria.
- Dunque, Babbo… cosa ti porta da queste parti? – chiese, col tono più casuale possibile. Non voleva essere più sgarbato di quanto già non fosse stato.
- Ah, già! – disse il nonnino, tornando subito serio e ripulendosi le labbra col dorso della mano guantata, - Ho un enorme favore da chiederti, Bill.
Il moro lo osservò recuperare l’unicorno ancora dormiente e riposarlo sul palmo della mano, porgendoglielo.
- Come forse saprai, gli unicorni sono animali piuttosto rari. – cominciò ad istruirlo con aria professionale, annuendo fra sé, - Si dice siano estinti, ma non è così. In realtà qualche esemplare c’è ancora, ma sono molto pochi. Tanto pochi che, generalmente, i genitori stanno molto attenti a non perdere i piccoli in giro. – il nonnino inarcò le sopracciglia verso il basso, scontento. – Per qualche motivo, però, i genitori di questo cucciolino sono scomparsi. Ed è veramente molto piccolo, come vedi non gli sono ancora cresciute le ali…
Bill annuì partecipe, piegando le labbra in un broncio triste e giungendo le mani sul petto.
- Ma è terribile… - commentò, - ed i suoi genitori non si possono trovare…?
- Ho già messo una squadra di elfi alla ricerca. – annuì il nonnino, serissimo, - Ma ci vorrà del tempo, capisci?
Bill annuì e sfiorò teneramente il musetto dell’unicorno con due dita. Lui non mostrò neanche di accorgersene e continuò a dormire beato.
- Ora… fossimo in un altro periodo dell’anno, - ricominciò a borbottare Babbo Natale, mentre Bill si perdeva sulle lunghissime ciglia del cucciolo, - non ti chiederei mai un favore simile. Ma siamo proprio sotto le feste e sia io che Mamma Natale che gli elfi siamo molto impegnati coi preparativi, e con una squadra in missione in giro per il mondo non è tanto semplice conciliare il tutto, e i cuccioli di unicorno hanno bisogno di molte attenzioni, e…
Bill sollevò gli occhi sul nonnetto.
- …aspetta un attimo, Babbo. – cominciò allarmato, - Di che favore stiamo parlando?
“…ma soprattutto, vogliamo parlare di Mamma Natale?”, gli venne quasi naturale aggiungere. S’interruppe giusto in tempo, riportando alla memoria un’antica lezione impartitagli da David durante gli anni della loro gavetta e splendidamente riassumibile in “i filtri, Dio, Bill!, i filtri, quando parli!”.
Babbo Natale, comunque, si strinse imbarazzato nelle spalle.
- Ho bisogno di una persona fidata cui lasciare l’unicorno. – spiegò, - Capisci, qualcuno che possa prendersene cura. Solo per qualche giorno! – si affrettò a rassicurarlo, - Il venticinque sera verrei immancabilmente a riprenderlo, e per allora conto anche di avere ritrovato i suoi genitori!
Bill lo fissò, gli occhi enormi.
- Ed io sarei una persona fidata…? – chiese incerto, indicandosi. Generalmente, solo suo fratello era tanto stupido da pensare di lui una cosa simile senza pensare anche a quanto fosse drammaticamente inesatta, per voler usare un eufemismo.
Babbo Natale annuì compiaciuto.
- Sì, Bill. Tu ti affezioni alle cose e credi nella mia esistenza ed anche in quella degli unicorni, quindi sei la persona più adatta. Ma soprattutto… - aggiunse con aria grave, agitandogli un dito guantato di fronte al naso, - sei ancora vergine. E, com’è noto, solo i vergini possono domare gli unicorni.
Incerto fra la possibilità di sprofondare in un baratro da aprire nel pavimento grazie alla forza del proprio imbarazzo, e quella di scappare via il più lontano possibile più o meno per lo stesso motivo, Bill arrossì.
- Io non… - biascicò, ma si rese presto conto dell’inutilità di mentire di fronte a Babbo Natale. - …sì, capisco. – annuì quindi alla fine, abbassando gli occhi.
Era ingiusto che uno dei motivi più gravi della sua sofferenza interiore fosse anche uno dei motivi che gli avrebbe dato la possibilità di prendersi cura di un cucciolino tanto bello. Oltre che di dimostrare a se stesso e al mondo che aveva sempre avuto ragione lui su tutto, ovviamente.
- Solo una cosa devi sempre tenere a mente. – disse a quel punto Babbo Natale, posando il cucciolo sul tavolo di fronte a lui, - L’unicorno può stare solo con gente che creda nella sua esistenza. Come tutte le creature fatate, se qualcuno nega la sua realtà… - pausa enfatica che Bill non apprezzò, se non altro perché la situazione era già abbastanza complessa senza aggiungerci pathos non necessario, - …morirà.
Bill deglutì. E poi fu il panico.
- Mio fratello… - boccheggiò, - lui non ha mai creduto… - si perse nei propri pensieri, - nessuno che frequenti abitualmente questa casa ha mai creduto negli esseri fantastici, Babbino!!! – strillò confuso, - Come farò?! Forse David nella sua infanzia può aver creduto nelle fiabe, ogni tanto i suoi occhi scintillano ancora della luce della fantasia, ma tutti gli altri… Georg!!! Gustav crede in Dio, però, quindi forse…
- Dio non c’entra niente con la fantasia, Bill, è una favoletta che si racconta ai bambini per farli stare buoni! – lo blandì Babbo Natale con una risata divertita, mentre il cervello di Bill andava in palese overload di irrazionalità. – Sta’ tranquillo. – lo rassicurò alla fine il vecchietto, - So per certo che troverai una soluzione ed andrà tutto bene.
Bill non era tanto sicuro che il nonnino lappone avesse ragione, sotto molti aspetti. Non era tanto sicuro di essere affidabile, tanto per cominciare, non era nemmeno tanto fiducioso da pensare che una soluzione si sarebbe comunque trovata. In poche parole, l’unica certezza che aveva era quella di essere vergine, ed era una certezza che avrebbe volentieri fatto a meno di portarsi dietro, peraltro.
Così era, comunque. Babbo Natale ringraziò per latte e biscotti e si accomiatò con un abbraccio bonario, prima di ricordargli che si trattava comunque di un breve periodo di tempo – “solo fino al venticinque sera, Bill!” – e lasciarlo solo col cucciolo dormiente ancora sul tavolo. E neanche la più pallida idea di come risolvere quel garbuglio.
*
Lui ed Anis s’erano conosciuti – conosciuti davvero, non incrociati e salutati – durante il backstage dei Comet del 2005. Ciò che Bill sapeva di quell’uomo era riconducibile a ciò che Tom gli aveva detto di lui, disperandosi fra un ascolto nostalgico e l’altro di fronte alla rottura fra l’Aggro Berlin ed uno dei suoi rapper preferiti. La cosa lo aveva segnato nel profondo, e Bill poteva ancora ricordare, senza nemmeno sforzarsi troppo, i piagnistei infiniti di suo fratello ed i pomeriggi passati ad ascoltare i sampler dell’Aggro conditi dal racconto di una storia di gangster di strada che un po’ l’aveva sempre affascinato, anche se non capiva esattamente cosa tutto ciò avesse a che fare con la musica. Ma Bill aveva sempre avuto un’idea molto romantica, della musica, perciò non era strano che non capisse cosa c’entrassero una mandria di uomini imbufaliti con la delicatezza perfetta di un ritornello in armonia con le strofe che lo seguono e precedono.
Lui aveva quindici anni e Tom non aveva ancora deciso se fosse più opportuno odiare Bushido e restare fedele all’Aggro o mollare l’Aggro e seguire Bushido nella sua nuova avventura. Di qualsiasi tipo fossero i pensieri che vorticavano nella testa di quel suo assurdo fratello, sembravano essere molto seri, drammatici ed epici: Tom la vedeva come una questione della massima importanza. Tant’è che tutto era cominciato proprio perché a quei Comet lui non aveva la benché minima intenzione di trovarsi davanti al proprio idolo senza sapere cosa dire. Perciò, quando Bushido aveva fatto tanto di avvicinarsi, con addosso il sorriso suadente e tranquillo delle rare occasioni in cui voleva solo congratularsi senza sentire il bisogno spasmodico di aggiungere in cosa al complimento qualche cavolata delle sue, Tom era letteralmente scappato verso i bagni. Le sue ultime parole nei confronti del fratello erano state “Tienilo impegnato mentre io cerco di evadere attraverso le prese d’aria”.
Bill aveva sospirato teatralmente, osservando con occhio vagamente divertito lo sguardo di Bushido seguire suo fratello fino a che non lo perse di vista, e poi aveva aspettato candidamente che fosse l’uomo ad avvicinarsi e cominciare a discutere.
“Ma… tuo fratello?”, aveva chiesto Bushido, usando un tono incredibilmente confidenziale, neanche si conoscessero da sempre.
Bill aveva ridacchiato appena. Si sentiva talmente piccolo, di fronte a lui, da non riuscire proprio ad evitare l’imbarazzo.
“È un tipo emotivo,” aveva risposto dopo un attimo d’incertezza. Bushido aveva riso di gusto e gli si era seduto accanto senza chiedere il permesso.
La chiacchierata era proseguita senza intoppi: lui e Bushido avevano parlato del più e del meno come non avrebbe mai creduto possibile, Bushido era stato schietto e sincero e ad un certo punto s’era perfino lamentato della sua età.
“Sei troppo piccolo, per quest’ambiente,” gli aveva detto, e quando Bill aveva provato a replicare che con lui non poteva parlare di gangsta-rap perché, nonostante il fratello che si ritrovava, lui e quel tipo di musica erano lontani anni luce e bene intenzionati a restarlo, Bushido aveva replicato schernendolo con una mezza risata. “Parlo della musica in generale. È facile consumarsi, quando si è piccoli come te.”
“…e tu ne hai visti tanti? Consumarsi, intendo…” era stata la sua risposta incuriosita, venata appena da una nota più dolce e intimidita provocata probabilmente dalle almeno sei bottiglie di birra che aveva in qualche modo convinto Bushido a recuperargli sottobanco per tutto il tempo della loro conversazione.
“Mi stai dando del vecchio, ragazzino?”, aveva replicato Bushido con una risata divertita. Bill era arrossito istantaneamente e s’era affrettato a negare, agitandogli le braccia di fronte al viso come se le parole fossero state fisiche e lui avesse avuto il potere di cancellarle. Si era calmato solo quando Bushido aveva riso ancora, più dolcemente, e l’aveva rimesso a sedere scompigliandogli i capelli con una grande mano color caramello. “Sì, ne ho visti tanti,” aveva risposto quindi, annuendo appena, “Non è una bella cosa. Ti servirebbe una protezione. Niente di eclatante,” aveva spiegato, gesticolando disinteressato, “giusto qualcuno con cui parlare quando ti sembra di non farcela. A volte aiuta.”
Era stato in quel preciso istante – mentre portava per l’ennesima volta la bottiglia di birra alle labbra per farsi coraggio e scacciare l’imbarazzo con un sorso d’alcool – che Bill aveva deciso di essersi innamorato. Ci aveva fantasticato su un sacco – sul primo amore e tutte quelle cose che credeva di aver già provato per Linda e che invece s’erano spente in un niente quando s’era allontanato da Magdeburgo – ed in effetti gli sembrava un po’ strano ritrovarsi a capire lucidamente di essersi innamorato, quando invece con Tom aveva sempre parlato di cose tutte diverse, brividi inconsci, incertezze, tremori eccetera eccetera. Non c’era niente del genere. Però guardare Bushido lo scaldava più della birra e, quando lui aveva parlato di una persona con cui parlare quando avesse avuto paura di non farcela, nella mente di Bill s’era formato il suo nome. Prima ancora di quello di Tomi o di Andi o di sua madre.
Quindi sì, era stata una decisione perfettamente consapevole: quella di cominciare a ronzargli intorno perché era lui, Bushido, non chiunque altro, che avrebbe dovuto proteggerlo ed impedirgli di consumarsi.
Bushido, però, fondamentalmente, non era mai cresciuto davvero. O meglio: per certi versi era molto maturo e saggio e tutto quanto, ma per altri era un disastro. Tutto, in lui, faceva pensare ad un’infanzia non goduta e quindi rincorsa finché fosse stato possibile. Perfino i suoi modi di divertirsi erano assurdi – a partire dai sabati notte su World of Warcraft per concludere con i modi decisamente opinabili che aveva di prenderlo pubblicamente in giro flirtando in maniera spudorata e perfino pesante. Col tempo, Bill aveva imparato ad abituarsi, ma la cosa sconvolgente del tutto era stata percepire chiaramente che nulla del suo amore s’era mai perso neanche di fronte alle cose peggiori. Non di fronte all’uscita sul sesso orale, non di fronte alla proposta di matrimonio estemporanea, nemmeno di fronte alle centinaia di volte in cui quegli scherzi Bushido li faceva in privato, quando uscivano insieme sotto copertura o quando Bill si presentava a casa sua.
Con Linda il sentimento sfioriva appena litigavano. Era una cosa automatica.
Con Anis persisteva. Non c’era modo di tirarlo via.
Unico guaio, come nella migliore delle tradizioni da sfigato che l’avevano sempre perseguitato – a partire dai bulli del liceo per continuare con le doppie punte e la frustrazione del non riuscire ad abbinare quel fantastico giubbino bianco con le ragnatele con nulla, col risultato di sembrare ogni volta inguainato in una tuta spaziale – non si era mai dichiarato. Erano passati tre dannatissimi anni – ormai quasi quattro – e non solo non aveva mai confessato i propri sentimenti a Bushido, ma nemmeno li aveva mai fatti in qualche modo trapelare. Con nessuno, poi. Neanche uno sfogo. Tomi l’aveva più o meno capito da solo, ma Bill non avrebbe confermato neanche a morire – gli prendeva un batticuore assurdo ogni volta che ci pensava. Si sentiva sempre incredibilmente stupido.
La cosa, fortunatamente, non aveva mai minato i rapporti fra lui ed Anis. Perciò, quando quel venti dicembre Bill si ritrovò con un unicorno – un unicorno! – in mano e l’ordine di Babbo Natale - …Babbo Natale!!! – di prendersene cura fino a Natale, il suo primo pensiero, nonché l’unica soluzione avesse trovato, era stato andare da Bushido.
S’era attaccato al campanello della casa gialla con la furia di un disperato, pregando in un centinaio di lingue – molte delle quali inventate – che Bushido fosse in casa, solo e ben disposto nei suoi confronti e, quando poi aveva sentito la serratura della porta scattare, aveva serrato gli occhi e stretto forte al petto il cucciolo d’unicorno addormentato ed aveva pregato ancora, stavolta perché non scomparisse.
Quando era tornato a guardare il mondo, la prima cosa che l’aveva colpito era stata la presenza caldissima del cucciolo ancora stretto fra le braccia. Il battito del suo cuoricino, lento e calmo, si spandeva all’interno del suo piccolo e morbido corpo e si diffondeva poi anche dentro il suo petto, facendosi sentire fino in gola.
Di fronte all’inevitabile consapevolezza di essere capitato davanti a qualcuno che, evidentemente, negli unicorni credeva eccome – dato che il piccolo era ancora lì – Bill si prese un secondo per realizzare il pensiero, digerirlo e venirci a patti. Poi sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti un Bushido in perfetta tenuta da scazzo casalingo – tuta enorme ed anonima maglietta bianca – i cui occhi giocavano a rimpiattino saltando ansiosi dal suo viso al cucciolo e poi di nuovo al suo viso.
- Bill…? – esalò appena l’uomo, decidendosi finalmente a fissarlo negli occhi, in cerca di una risposta.
- Ciao. – rispose lui, abbozzando un sorriso incerto e sollevando una mano per salutarlo, - Posso entrare?
Bushido annuì meccanicamente.
- Sì, certo che… Bill, cos’è questo? – concluse in un mezzo rantolo, indicando il cucciolo.
Bill deglutì a fatica e lo sollevò un po’, perché Bushido potesse vederlo meglio.
- …esattamente quello che sembra, temo. – rispose annuendo e tornando a nascondere il piccolo fra le braccia.
Bushido si prese qualche secondo per riflettere, prima di tornare ad aprire bocca.
- Non è possibile, Bill. – disse alla fine, gli occhi ancora spalancati, - Ha le ali. Queste cose non… - ma non ebbe tempo di concludere, perché Bill scattò in avanti e pressò il palmo di una mano contro le sue labbra, cercando di spingerlo indietro per quanto gli consentissero quegli abbozzi di muscoli che si ritrovava e che, in confronto alla strenua resistenza del fisico fermo e compatto di Bushido, sembravano ancora più ridicoli.
- Non dirlo! – disse allarmato, agitandosi tutto, - Ti prego, se lo dici morirà!
Bushido smise di resistere e si lasciò spingere in casa, osservando un po’ sconcertato Bill chiudersi la porta alle spalle con un calcio, il cucciolo ancora stretto al petto e la mano libera ancora impegnata a chiudergli la bocca. Lo lasciò solo quando fu certo di aver chiuso bene la porta ed essere solo con lui nell’ampio salotto che accoglieva chiunque mettesse piede nella villa.
- Bill, che diavolo sta succedendo qui? Cos’è questo animale e cosa significa che potrebbe morire?!
Bill non rispose subito. Il palmo della sua mano conservava ancora qualche traccia del calore delle labbra di Bushido, ed il ragazzo trovò difficile ignorare il pensiero per concentrarsi su fatti di maggiore importanza, per molti secondi. Bushido dovette chiamarlo un paio di volte per ottenere un qualche cenno di vita.
- È… - cercò di spiegare Bill, deglutendo agitato, - È una creatura di fantasia, Bu, se dici che non… insomma, scompare!
Bushido continuò a guardarlo e poi si passò una mano sugli occhi, inspirando ed espirando con calma.
- Bill… - lo richiamò con aria stanca, - …quello che hai detto non ha senso, te ne rendi conto? Una creatura di fantasia, dici? È qua, lo sto guardando, è un… un accidenti di cavallo con le ali-
- E il corno. – precisò Bill, indicando la fronte vagamente sporgente del cucciolo, - È un unicorno, infatti. Non si vede perché è ancora piccolo…
- …un unicorno.
Bill annuì e lo osservò cercare a tentoni con la mano un divano alle sue spalle, per poi lasciarcisi ricadere sopra con un tonfo non appena l’ebbe trovato.
- Bu…? – lo chiamò debolmente, andandogli vicino ed esitando un po’ prima di sedersi al suo fianco, cosa che alla fine fece comunque. – Tutto bene?
Bushido non rispose alla domanda, ma lo guardò intensamente.
- Un unicorno, Bill?
Bill annuì di nuovo.
Bushido prese atto, annuendo a propria volta.
- Bill, credo dovrai raccontarmi questa storia dall’inizio.
Il ragazzo fece una mezza smorfia, sistemando il cucciolo su un cuscino ricamato appoggiato al bracciolo.
- Odio quando ripeti così spesso il mio nome. – borbottò scontento, - Sembri mio padre, sempre sul punto di rimproverarmi o chissà che.
Bushido si massaggiò lentamente le tempie, chiudendo gli occhi.
- In effetti ho voglia di rimproverarti, B-… insomma. Ma non saprei per cosa farlo esattamente, quindi aspetterò che tu abbia finito di raccontare. E poi vedremo.
Bill incrociò le braccia sul petto e sbuffò teatralmente.
- Senti, non è colpa mia, è stato Babbo Natale che-
- Babbo Natale, Bill?!
- La pianti di ripetere il mio nome? So come mi chiamo.
Bushido respirò ancora, sempre più profondamente, e tornò ad alzarsi in piedi, cominciando a camminare nervosamente intorno al tavolino basso nel centro del salotto, le mani sui fianchi e la maglietta che si arrotolava in sbuffi attorno alle dita.
- …spiega meglio. – lo invitò, continuando a camminare.
Bill lo guardò, inclinando lievemente il capo.
- Non ti fermi?
- No. – rispose con naturalezza l’uomo, scuotendo il capo, - Scarico. Parla.
Il ragazzo annuì incerto.
- Be’, tutto è cominciato stamattina verso l’una del pomeriggio, quando mi sono svegliato-
- Bill, ti prego, evita le incoerenze, è già tutto abbastanza confuso… - lo implorò l’uomo, massaggiandosi la fronte, - Mattina o pomeriggio?
- Mi confondi! Ti muovi! – si agitò il ragazzo, spiegazzando la fodera del divano sotto le dita, - Era mattina perché io mi ero appena svegliato, ma era pomeriggio perché io mi sveglio di pomeriggio, quando sono in vacanza!
Bushido annuì lentamente, continuando a camminare.
- …d’accordo, ci sono. Quindi eri sveglio e…?
- E c’era Babbo Natale in salotto.
Bushido si fermò. Solo per qualche secondo. Poi riprese la sua marcia.
- Bu?
- Sì, sì. Babbo Natale. Vai pure avanti.
Bill inarcò le sopracciglia, incerto, e si concesse una smorfia impaurita prima di portare il cuscino con sopra il cucciolo di unicorno sulle ginocchia e cominciare ad accarezzarlo delicatamente.
- Be’, lui mi ha consegnato questo… Bu, non mi stai credendo per niente, vero?
- Ho un unicorno sotto agli occhi, Bill. – gli fece notare l’uomo, guardandolo distrattamente, - Non sono nella posizione di non credere. Qualsiasi cosa tu mi dica.
Bill annuì lentamente, insicuro.
- …insomma, - riprese, - mi ha consegnato il cucciolo e mi ha chiesto per favore di prendermene cura fino a Natale, visto che lui e Mamma Natale… - sollevò gli occhi e si ritrovò di fronte Bushido che lo guardava come non l’avesse mai visto prima, fermo nel centro del salotto con gli occhi spalancati e le braccia molli lungo i fianchi. Sospirò. – Scusa, Bu. Vado via subito. – mugolò, recuperando il cucciolotto e rimettendosi in piedi.
- No, ehi, ehi, aspetta. – si affrettò a fermarlo Bushido, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e spingendolo delicatamente a sedere, - Non ti ho chiesto di andartene. – si sedette al suo fianco, continuando a tenere una mano sulla sua spalla e massaggiando un po’ per rassicurarlo, - …Bill, perché sei venuto da me? In poche parole.
- Devo… tenere il cucciolo fino a Natale. – ammise il ragazzo, - L’ho promesso a Babbo Natale, non potevo dire no a Babbo Natale, e lo so che sembra assurdo, ma è così. E non potevo restare a casa, Tomi non ci crede negli unicorni, e nemmeno in Babbo Natale, perciò ho pensato-
- Che io invece ci credessi? – lo interruppe Bushido, vagamente divertito.
Bill sbuffò, sollevandogli addosso un broncio adorabile ed un paio di occhioni ostinati.
- Be’, avevo ragione, no? – e Bushido sorrise. - …però no, non ho pensato quello. In realtà… non ho pensato affatto, ho solo sentito che dovevo venire da te, ecco.
Bushido sorrise ancora, più apertamente, mentre se lo tirava contro e lasciava che si accomodasse contro il suo petto, l’unicorno un po’ schiacciato fra i loro corpi, ma ancora placidamente addormentato.
- Vuoi restare qui fino a Natale? – gli chiese a bassa voce, sussurrandogli all’orecchio, - Non sei spaventato? Sono un uomo poco raccomandabile e ti ho fatto un sacco di avances, negli ultimi anni…
“Ne avessi anche mai concretizzata una…” si ritrovò a pensare tristemente Bill.
- No, sono… tranquillo. – ammise con un mezzo sospiro. – Pensi che potrei restare?
Bushido guardò lui e l’unicorno e poi si espresse in un mezzo sbuffo incerto.
- Non hai portato niente con te… - Bill scattò in piedi senza neanche lasciargli il tempo di concludere la frase.
- Oh, posso tornare a casa, preparare la borsa ed essere di nuovo qui in, facciamo, mezz’ora! – strillò saltellando eccitato da un piede all’altro, - Bu, mi hai salvato la vita! Cioè, a me ed al cucciolo! – rise, gettandogli le braccia al collo.
Bushido sospirò, accarezzandogli distrattamente i capelli mentre recuperava l’unicorno che, nella foga dell’abbraccio, Bill aveva dimenticato di dover stringere.
- Ecco, bravissimo. – annuì il ragazzino quando si fu separato di lui, non appena si accorse di come Bushido tenesse saldamente il cucciolo tutto nel palmo della mano, - Tienilo tu. Io faccio subito!
L’uomo lo osservò uscire come una furia – esattamente com’era entrato – e poi lanciò un’occhiata all’unicorno, sollevandolo fino all’altezza del viso per osservarlo da vicino. Il piccolo dischiuse le palpebre quasi subito, e lo fissò a propria volta con un paio di enormi ed acquosi occhioni azzurri.
- Dio, sei vero… sul serio. – commentò Bushido, avvicinandosi fin quasi a sfiorarlo con la punta del naso. Il cucciolo si sporse in avanti e lo morse, stringendogli saldamente il naso fra le gengive prive di denti. - …e sei anche pericoloso. – borbottò l’uomo, staccandoselo di dosso e ripulendosi con il dorso della mano libera. Sorrise. – Più o meno come quello che ti ha portato qui, mi sa. – concluse, poggiandolo nuovamente sul cuscino. E cominciando a chiedersi di cosa, esattamente, si nutrissero gli unicorni.
La pace durò all’incirca due secondi. Si interruppe precisamente quando il cucciolo si fu ripreso dal suo placido sonno abbastanza da capire esattamente dove fosse, con chi si trovasse e, soprattutto, con chi non si trovasse. Bushido lo osservò curiosamente sollevare il capino, guardarsi intorno e poi, con una naturalezza quasi sfacciata, saltare giù dal divano e trotterellare spedito verso la porta.
Lo seguì con lo sguardo e, quando si rese conto che il cosino non sembrava intenzionato a fermarsi, gli andò dietro anche coi piedi.
- Dov’è che staresti andando? – gli chiese, chinandosi e cercando di riprenderlo in mano.
Vigile e attento, il cucciolo si scostò e, incerto sugli zoccoli, rotolò lateralmente, caprioleggiando per qualche centimetro di moquette prima di rimettersi dritto, scuotere il collo per sistemare la corta criniera argentata e riprendere la propria marcia impettita verso la porta.
Bushido continuò a seguirlo, sempre più attonito, finché il cucciolo non arrivò alla porta e batté un paio di volte con uno zoccolo contro la superficie in legno.
- …devo aprire? – chiese l’uomo, piegandosi sulle ginocchia per guardarlo più da vicino e molleggiando sulle punte dei piedi per mantenere l’equilibrio.
Il cucciolo si limitò a fissarlo con aria supponente, battendo nuovamente lo zoccolo contro il legno.
- Bill mi ucciderà, se ti lascio fare. – gli fece presente, mettendo comunque una mano sulla maniglia.
Il cucciolino nitrì – o meglio, vagì un’idea di nitrito – e Bushido sospirò. Quegli occhi azzurri lo stavano fissando con tanta di quella disapprovazione che si sentiva quasi fuori luogo.
Tutto ciò che poté fare a quel punto il pover’uomo fu rimettersi in piedi ed aprire la porta. E sarebbe stato ciò che doveva essere. Punkt. Lui non credeva nel destino, ma non credeva di credere neanche ad unicorni e Babbi Natali vari ed eventuali, fino al giorno prima, perciò…
Il cucciolo trotterellò felice sulla ghiaia del sentiero davanti casa per qualche metro, e dopodiché Bushido lo vide spiegare le piccole ali ancora immature e spiccare un salto da record, per le dimensioni del suo corpo. Planò disinvoltamente fra le braccia di Bill, che stava lì fermo come in attesa e lo guardava con enormi occhi adoranti.
- Bill? – chiese, uscendo a propria volta di casa e raggiungendolo sul selciato, - Come mai sei ancora qui?
Bill tirò fuori la lingua e sorrise appena, come per scusarsi.
- Ho dimenticato di dirtelo. – biascicò poi, stringendosi nelle spalle, - Il cucciolo non può stare solo in compagnia di persone non vergini, perché solo un vergine può… - si interruppe ed arrossì istantaneamente, - …domarlo.
Bushido aprì la bocca.
Non seppe sinceramente che dire.
- Ah. – si rassegnò alla fine, tornando a cercare di darsi un contegno, - Capisco.
Bill abbassò lo sguardo, imbarazzato a morte.
- Bu, credo che… dovrai andare tu a prendere qualcosa per il mio cambio. – mormorò, consegnandogli direttamente in mano le chiavi di casa.
Bushido chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Non servì a calmarsi.
Sarebbero stati cinque giorni decisamente pesanti.
*
Tom era un ragazzo che Bushido non aveva ancora capito completamente. Era, se possibile, ancora più umorale del fratello, e riusciva a passare da uno stato d’animo all’altro con una velocità spaventosa, a tratti disorientante. Perciò, quando Bushido lo osservò entrare tranquillamente in casa, posare le chiavi sulla consolle e poi voltarsi sorridendo alla ricerca di Bill, incassò la testa nelle spalle e si preparò al peggio.
Certo, avere le mani nel cassetto della biancheria intima di Bill non aiutava i suoi disperati tentativi di darsi un tono. Pregò che Tom capisse, anche se non era sicuro di cosa ci fosse in effetti da capire.
Gli occhi di Tom si spalancarono ed il ragazzo lasciò cadere in terra il giubbotto che ancora stringeva nella mano ed attendeva di essere appeso all’attaccapanni.
- Bushido…? – esalò incerto, mentre lui, per evitare di fargli pensare stesse facendo qualcosa di sconveniente, continuava a rovistare con nonchalance fra le mutande di Bill. Cosa che forse non era la più appropriata da fare, dopotutto. - …cosa stai facendo?
Bushido si decise finalmente ad afferrare quante più paia di boxer poté ed infilarle di gran corsa nello zainetto che teneva per le bretelle con la mano libera.
- Ciao, Tom. – disse con un sorriso, cercando di distrarlo.
Tom deglutì ed annuì.
- Oh… - disse, arrossendo vagamente, - Ciao, sì, scusa, è che… - indicò con un gesto distratto Bushido, il cassetto ancora aperto ed i boxer che sporgevano dall’apertura dello zaino, - …capisci, non è una cosa tanto normale.
Bushido sospirò.
Ciclicamente, Tom ritornava sempre sullo stesso punto.
- Tom, non pensare male, per favore.
- Oh, no, ma Atze, sul serio, lo sai che a me puoi dirlo.
Appunto. L’uomo richiuse il cassetto e cominciò a marciare verso il bagno, ben deciso a non perdere altro tempo recuperando dei vestiti per Bill – gli avrebbe dato qualcosa di suo – prendere solo lo stresso indispensabile – spazzolino, trucchi e lacca, in poche parole, ovvero cose che non poteva fornirgli da sé – e poi fuggire immediatamente da quell’appartamento. Possibilmente senza dare spiegazioni a Tom.
- Non c’è niente da dire, Tom, lo sai. – biascicò mentre armeggiava con la trousse di Bill – sei chili almeno di beauty case – chiedendosi se potesse eliminare qualcosa o dovesse rassegnarsi a portare proprio tutto.
Tom aveva un problema, con lui. O lui aveva un problema con Tom. In ogni caso, c’era un problema nella loro relazione, e questo problema era l’adorazione cieca che il chitarrista nutriva nei suoi confronti. Il classico amore profondo che riservi agli idoli, le cose che non ti passano mai, anche con gli anni, quelle che possono portarti ad arrossire per il sorriso di un uomo anche se non hai alcuna intenzione di andarci a letto insieme – cosa che Tom faceva spesso, con lui. Arrossire, non andarci a letto. Per carità.
Insomma, lo adorava. Tutta quell’adorazione, però, non poteva avere uno sfogo pubblico, perché Tom era un piccolo gangsta-rapper fedele e mai e poi mai avrebbe potuto rinnegare l’Aggro Berlin di fronte ai microfoni ed alle telecamere. Perciò, se tutte le dichiarazioni d’amore pubbliche erano per Sido e compagnia, era nel privato che invece Tom “si faceva perdonare”, ronzandogli intorno come un moscone e sommergendolo di attenzioni. In un modo, peraltro, drammaticamente sbagliato.
- Atze, sul serio, è orribile che né tu né Bill vogliate ancora ammetterlo! Non dico pubblicamente, ma io sono suo fratello e noi siamo amici!
…ovvero decidendo arbitrariamente di diventare suo confidente personale – un po’ come il fratello aveva deciso arbitrariamente di diventare una specie di animale da compagnia ed accoccolarglisi addosso ogni piè sospinto – ed autoconvincendosi per chissà quale motivo che lui e Bill stessero insieme. Certo, immaginava che la quantità enorme di tempo che il Kaulitz minore trascorreva a casa sua potesse essere un indizio in tal senso, ma Bill era tragicamente piccolo, minorenne nell’aspetto ed anche in tutto il resto, per quanto l’anagrafe cercasse di convincere tutti del contrario. Non l’avrebbe mai toccato, non in quel senso e con niente che andasse oltre un flirt un tantinello spinto. E solo per ridere un po’.
- Tom… - borbottò, rassegnandosi a recuperare la trousse per intero e chiudendo lo zaino con uno scatto secco. Bill odiava che lui ripetesse così spesso il suo nome, come volesse rimproverarlo? Ebbene, Bushido detestava che i gemelli gli dessero in effetti quintali di occasioni per riprenderli esalando il loro nome in un rimprovero da padre sconfitto. – Ti ho detto e ripetuto almeno cinquecento volte che tuo fratello non è il mio ragazzo.
Tom annuì ed indicò lo zaino.
- Stai prendendo il suo cambio per la notte? – chiese innocentemente. Bushido annuì. – E quanto si ferma da te? – proseguì il ragazzo. Bushido rimase in silenzio. Tom annuì vittorioso. – Non è il tuo ragazzo, eh?
Bushido provò l’intenso desiderio di dargli un colpo di zaino sulla testa, tramortirlo e fuggire dalla finestra. Ma sarebbe stato ridicolo e sospettava Bill non l’avrebbe mai perdonato, per una cosa simile, perciò si trattenne.
- Non si ferma da me per i motivi che immagini tu. – borbottò in un mezzo ringhio frustrato, caricando lo zaino – incomprensibilmente pesante – in spalla e dirigendosi verso la porta.
- No, naturalmente. – annuì Tom, battendogli una pacca sulla schiena, - E allora perché?
Bushido fu tentato di rovesciargli addosso tutta l’intera storia dell’unicorno e di Babbo Natale. Ma questo sarebbe stato ancora più ridicolo del dargli uno zaino in testa, e probabilmente Bill sarebbe stato altrettanto incapace di perdonarlo, se l’unicorno fosse scomparso perché Tom aveva detto ridendo “ma cose simili non esistono!”, perciò si costrinse al silenzio. Lo salutò a bassa voce e Tom rimase ad agitare festosamente la mano sulla soglia della porta strillando “verrò presto a trovarvi!” per tutto il tempo che lui impiegò a scendere le scale e rimettersi in strada.
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa, ma il pensiero ci fosse Bill solo con l’unicorno – e con la possibilità che uno qualsiasi della sua crew passasse di lì per impossessarsi della Wii come al solito – lo convinse a non fuggire in vacanza a Miami e tornare alla villa.
Già sul selciato, quando ancora non aveva toccato la porta di casa, cominciò ad avere paura: dall’interno dell’abitazione provenivano rumori sospetti.
- Cosa sta succedendo? – disse ad alta voce, introducendosi in casa e lasciando ricadere lo zaino per terra. Di fronte a lui, un dramma aveva luogo. Del cucciolo di unicorno grande una spanna che aveva lasciato prima di uscire, non restava niente. S’era però tramutato in un puledro di dimensioni tutt’altro che trascurabili, con un paio d’ali larghe almeno un metro, perfettamente formate ed anche perfettamente dispiegate. Proprio nel centro del suo salotto.
Si guardò intorno, adocchiando la decina buona di narghilè nei più svariati materiali frangibili che campeggiavano su gran parte dei mobili della sala e tirò un mezzo sospiro di sollievo: non ne mancava nessuno all’appello – ancora. In compenso c’erano due poltrone rovesciate ed il tappeto arrotolato in un angolo.
Anche Bill stava arrotolato. Sul divano. Con le mani nei capelli.
- Bu! – strillò, saltando in piedi non appena lo vide, - Gli ho dato solo un po’ di latte!
Bushido annuì vagamente, osservando l’ampia macchia bianca che copriva per metà la maglietta di Bill. Doveva essere stato davvero poco, visto che la maggior parte del liquido sembrava finito addosso a lui.
- Ti sei sporcato tutto… - gli fece notare, indicandolo e rimpiangendo di non avergli preso dei vestiti per cambiarsi. Nei suoi sarebbe letteralmente annegato.
- Sì, ma non importa! – protestò il ragazzo, agitandosi, - Non riesco a fermarlo!
Bushido sospirò.
- Hai provato a chiederglielo? – propose, sentendosi un idiota fatto e finito e chiedendo silenziosamente ad Allah perché gli stesse facendo una cosa simile. Bill lo fissò per qualche secondo, inclinando il capo. – Sì, be’… - aggiunse quindi lui, imbarazzato, - quando sei andato via… non dico che io ed il cucciolo abbiamo dialogato, ecco, però insomma, sembra capire. – scrollò le spalle. – Magari, se glielo chiedi…
Il ragazzo annuì lentamente e si spostò verso il puledro che, nel mentre, aveva preso a brucare le frange del tappetino sotto al mobile del televisore, con evidente soddisfazione.
- Palla di Neve…? – lo chiamò, mettendo le mani avanti in caso fosse improvvisamente impazzito. Il puledro non diede segno di volerlo fare ma neanche di volergli dar retta, e continuò a ruminare placidamente il persiano. – Palla di Neve, potresti smetterla?
L’unicorno alzò il musetto e sbatté gli occhioni. E, mentre Bushido cercava di non ridere per il nome che Bill gli aveva affibbiato, cercò col naso il musetto di Bill e lo strofinò un po’, in un tacito assenso, prima di salire con gli zoccoli sul divano ed accucciarsi per una sana dormita.
Bill batté le mani, entusiasta.
- Visto? – rise Bushido, recuperando lo zaino da terra e consegnandolo a Bill, - È un animale ragionevole. – Bill annuì. – Ed ora… - continuò l’uomo, sospirando teatralmente, - vieni di là. Dovrò darti qualcosa da mettere, visto che non sono riuscito a prenderti dei vestiti.
- E come mai? – chiese Bill, giustamente curioso, seguendolo verso la camera da letto.
- C’era tuo fratello in casa. Mi ha trovato con le mani nel cassetto delle mutande. Puoi immaginare il dialogo che ne è seguito.
Bushido si aspettò una risata, ma Bill non rise affatto. E lui cercò di non farci caso.
*
La notte avrebbe potuto essere più piacevole, se le operazioni di nanna fossero andate nel verso giusto. Avere a che fare con Bill, però, significava senza dubbio avere a che fare con un bambino molto piccolo e molto capriccioso, e con individui simili – Bushido aveva imparato a capire – c’era poco da stare a contestare. Perciò, quando Bill s’era intrufolato nel suo letto alle nove di sera ed aveva stabilito del tutto arbitrariamente che ci sarebbe pure rimasto causa bagno personale raggiungibile tramite porticina accanto all’armadio, Anis s’era ritrovato con poco altro da fare che non chinare la testa ed andare a rifugiarsi nella camera degli ospiti, pregando intensamente che la donna delle pulizie le avesse dato una rinfrescata generale, l’ultima volta che era venuta.
Bill aveva anche provato a chiedergli se gli andasse di dormire con lui – facendolo peraltro con un candore disarmante, al punto che Bushido s’era un po’ chiesto se non fosse il caso di tenerlo con lui, tipo, per sempre, e proteggerlo dai mali del mondo – ma Anis aveva appena avuto il tempo di rimirare il proprio meraviglioso letto a tre piazze con amore profondo e valutare la proposta – pro e contro… più contro che pro, Bill a letto era un pericolo sotto svariati punti di vista – che l’unicorno aveva deciso di far valere la propria autorità di animale fatato e s’era appollaiato sul letto accanto a lui, testolina sul cuscino ed ali morbidamente ripiegate attorno al corpo.
Non c’era stato modo di rimuoverlo dal suo posto – anche quando Bill gliel’aveva chiesto – perciò Bushido aveva ipotizzato l’animale non lo volesse proprio fra i piedi: e piuttosto che fare arrabbiare il cucciolo di unicorno di Babbo Natale, aveva preferito ritirarsi in camera degli ospiti. Col risultato di ritrovarsi recluso in un letto singolo – non toccava materassi tanto piccoli da quando aveva sedici anni – sul quale non poteva neanche espandersi come sarebbe stato buono, naturale e giusto. E non chiudere occhio per tutta la notte, ovviamente.
Alle otto del mattino, frustrato e stanco morto e con un pensiero fisso che suonava più o meno “dovrò cambiare le lenzuola nel mio letto? Chissà se gli unicorni sporcano come i cavalli normali…”, Bushido si alzò in piedi, spalancò le tende e salutò il nuovo giorno con un’imprecazione furiosa nel ritrovarsi davanti al cancello di casa la solita mandria di giornalisti attaccati con la colla al culo di Bill, e che per questo motivo alle vicissitudini di quel benedetto culo erano anche incredibilmente interessati.
Sospirò.
Spalancò la finestra.
Si affacciò.
- Dorme ancora e no, non me lo sono scopato!
Una risatina timida lo raggiunse alle spalle e Bushido si voltò per ritrovarsi davanti Bill in groppa al puledro. Che era cresciuto ancora.
- Bill…? – lo chiamò incerto, e lui rise ancora, rimettendo i piedi per terra, - Stamattina mi sono svegliato presto e gli ho dato un biscotto mentre facevo colazione. – lo indico, - Questo è il risultato.
L’uomo si passo una mano sugli occhi.
- Scusa, Bill, ma visto che sappiamo che appena mette qualcosa in bocca cresce a dismisura, non potremmo smettere?
- Non vorrai mica che lo lasci morire di fame? – rispose seccamente Bill, guardandolo con disapprovazione neanche stesse davvero progettando di far morire di stenti il povero unicorno. Poi indicò la finestra, - C’è gente?
Bushido scrollò le spalle.
- La solita. – rispose con falsa noncuranza.
Bill annuì e si affacciò a propria volta, salutando la folla con ampi gesti del braccio e trascinando per un polso Bushido perché lo raggiungesse.
- No, di nuovo no, Bill… - provò a mugolare stancamente lui, ancora provato dalla mancanza di sonno ed ancora privo di un caffè per renderla meno fastidiosa.
- Ma non capisci, Bu? – disse il ragazzo, continuando a tirarlo finché ebbe raggiunto il proprio scopo, - Se ci comportiamo in maniera losca otteniamo l’effetto contrario a quello desiderato… sorridi, foto.
Bushido sorrise ed agitò un braccio in segno di saluto verso il fotografo di Yam!.
- E se ci comportiamo da novelli fidanzati, invece, che effetto otteniamo? – chiese tra i denti mentre si lasciava immortalare da almeno un’altra decina di paparazzi.
- Ah, non ne ho idea. – scrollò le spalle Bill, sorridendo amabilmente, - Vedremo con l’uscita della settimana prossima.
Era appena cominciato il ventuno dicembre, al ventiquattro notte mancavano quattro giorni pieni e Bushido non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto per vedere l’alba del giorno dopo. Sospirando pesantemente, richiuse la finestra e richiuse le tende, muovendosi con aria afflitta verso l’uscita della stanza. L’unicorno, ancora appollaiato sulla soglia, gli diede una musata sulla testa, come a dirgli “non ce l’ho con te, è la situazione complicata”. Bushido lo fissò malissimo e scese le scale in direzione della cucina. Si fermò con un principio d’infarto quando, adocchiando il salone – del quale si aveva una visione quasi completa, dal pianerottolo del piano di sopra – lo vide già infestato dalla crew al gran completo.
Allargò istintivamente le braccia, spingendo Bill e l’unicorno indietro perché nessuno potesse vederli.
- Ragazzi! – sbraitò con aria falsamente cordiale, - Che sorpresa! Qual buon vento?
Kay One sollevò una mano e la agitò gioiosamente.
- Ciao Bu! Speriamo non ti dispiaccia, c’era la finale di pattinaggio artistico maschile e-
- Pattinaggio artistico maschile…? – chiese allucinato, e i ragazzi scoppiarono a ridere.
Chakuza sollevò un DVD.
- Volevano vedere questo. – spiegò pacatamente. Fra le sue mani campeggiava il porno che gli avevano regalato l’anno scorso per il compleanno, per puro spirito di scherzo. E che invece sembrava aver riscosso un successo di gran lunga maggiore rispetto alle aspettative – un po’ come la riedizione di King Of Kingz senza Fler.
- ...non so nemmeno cosa dirvi prima. – biascicò Bushido in preda ai principi di una crisi di nervi, - L’avrete già visto ottomila volte. I film porno non si guardano in gruppo. Sono le otto del mattino. Questa è casa mia. – agitò una mano con aria disinteressata, - Scegliete il rimprovero che vi piace di più e poi fate quello che vi pare. Io mi preparo un caffè.
Chakuza annuì mentre premeva play sul telecomando e la familiare eco dei gemiti di una donna si diffondeva per la casa, assieme alle urla da stadio di tutta la crew. Viveva a stretto contatto con un branco di animali. Questa cosa era assolutamente disdicevole, per uno della sua risma.
- Ohi, ragazzi, - annunciò Saad sollevandosi in piedi dopo essersi faticosamente districato dal groviglio di arti umani che infestava il divano, - io vado in bagno.
E Bushido si fermò a due passi dalla moka.
I bagni erano al piano superiore.
Al piano superiore c’era Bill.
E il dannato unicorno di Babbo Natale.
- No! – si voltò di scatto, afferrando Saad per le spalle un attimo prima che cominciasse a salire le scale e sperando che Bill, nel mentre, avesse avuto almeno il buonsenso di nascondersi.
Bill. Buonsenso. Doveva immediatamente buttare tutti fuori da quella casa.
- Atze, che ti piglia? – chiese giustamente Saad, fissandolo con gli occhioni verdi spalancati, - Devo farmi una pisciata!
- I bagni sono fuori uso. – disse lui, secchissimo, senza mollare la presa.
- Qualcosa in casa tua non funziona? – si intromise Chakuza, inarcando supponente le sopracciglia, - Credibile come un duetto con Sido, Atze. – poi sorrise crudele, - Hai qualcuno di sopra, mh?
Il problema con Bill era fossero tutti abituati alla sua presenza, sì. Ma di giorno. Bill non si fermava mai a dormire da lui – per ovvi e ragionevoli motivi – e Bushido non poteva presentarlo in quel momento e in quel modo, non con un unicorno alle spalle, soprattutto, e comunque non ci sarebbe stato niente da presentare, che diavolo andava pensando?!, il suo raziocinio stava prendendo degli svarioni non indifferenti, quella mattina.
- Di sopra non c’è nessuno e fate conto che non ci sono neanche i cessi. – rispose lui a muso duro, - Ora alzate il culo e, se proprio volete darvi ad una sessione di porno comunitario, fatelo sul selciato di fronte casa, almeno quegli stronzi dei giornalisti avranno qualcosa di serio di cui parlare.
- Atze, io non intendo tornarmene a casa mia per una-
- Io non intendo tenervi qui un secondo di più, perciò-
- Bu? Ho un problema con l’unicorno, non vuole… oh.
E l’aria, nella grande casa gialla, si fece immobile.
Bill stava affacciato dal pianerottolo, i capelli ancora scomposti dal sonno e gli occhi grandi e curiosi. L’unicorno s’era affacciato accanto a lui, entrambi guardavano Bushido con aria cucciolosa e sembravano incerti su quale fosse la loro posizione nel mondo. Saad, le spalle ancora strette fra le mani di Bushido, si irrigidì all’istante, seguito a ruota dal resto della crew.
L’unicorno non morì né scomparve nei lunghi minuti di silenzio che seguirono il suo arrivo. Il che avrebbe dovuto preoccupare Bushido più di tutto il resto, probabilmente. Poteva anche andare bene che l’unicorno non fosse scomparso di fronte a lui – non andava bene per niente, in realtà, ma poteva con enorme sforzo accettarlo, ecco – ma l’idea di avere un’intera crew composta da ragazzini che ancora credevano negli unicorni lo sgomentava abbondantemente. E quella avrebbe dovuta essere la sua banda, il non plus ultra del virilissimo german-rap, insomma, i bad boys di Berlino. Probabilmente Fler aveva ragione, i veri deutscha bad boys stavano all’Aggro.
Saad sollevò una mano puntando il dito verso l’unicorno. Bocca e occhi spalancati, lo fissò a lungo, fino a quando l’unicorno non nitrì il proprio disappunto e Bill non fu costretto a specificare “credo gli dispiaccia essere indicato. È molto maleducato, Saad”. Al che, il braccio del libanese cadde come morto lungo il suo fianco e l’uomo annuì pesantemente, senza staccare gli occhi dall’animale.
Le sue prime parole, qualche istante dopo, furono “credo che andrò a pisciare a casa mia”. Guadagnando un cenno di approvazione da parte di tutta l’intera crew, che si mise in piedi abbandonando il divano – e il porno ancora acceso – con sincronia perfetta, neanche si fosse trattato di un unico corpo.
Bushido si passò stancamente una mano sugli occhi.
- Mi pare scontato che non voglio che questa cosa esca da questa casa. – disse con aria burbera, prima che i ragazzi uscissero dall’appartamento. Chakuza si fermò sulla soglia della porta e lo fissò, allucinato.
- Ti pare che siamo così idioti da andare pure a parlarne in giro, Atze?
La domanda, in effetti, si rispondeva da sola. Perciò Bushido non aggiunse altro.
*
Adattarsi a convivere con l’unicorno non fu particolarmente difficile: Bushido capì già all’alba del ventidue dicembre – quando se lo ritrovò steso addosso, naturalmente dalla parte meno piacevole, non appena aprì gli occhi – che quel cavallo aveva con lui un enorme problema indecifrabile di cui non riusciva a parlargli – strano, perché sapeva essere molto eloquente, quando voleva. E poi Bill traduceva per lui. Come Bill potesse comprenderlo era una domanda che non voleva porsi, ma rimaneva il fatto che, quando qualcuno della crew passava per la casa, ad esempio, Palla di Neve ci tenesse a dire la propria sulla presenza di estranei in casa, e Bill traduceva meticolosamente ogni educato invito a togliersi dalle palle. Per qualche motivo, però, quando l’unicorno indirizzava un nitrito di disappunto a Bushido, non c’era verso di costringere Bill a spiegargli perché ce l’avesse con lui. Il che poteva essere frustrante, visto che l’animale si stava facendo enorme e Bushido cominciava a temere per la propria vita – soprattutto quando si vedeva sbattuto contro una parete a causa di un colpo di coda.
In ogni caso, stabilito che lui e Palla di Neve erano l’uno l’antitesi dell’altro e che, per questo motivo, sarebbe stato molto meglio tenerli lontani, la convivenza era stata perfino piacevole. L’unicorno era educato, si scostava per farlo passare, non intralciava la via verso il bagno ed a parte soffocarlo di dispetti come lo scherzetto del sedere sulla faccia non faceva niente di particolarmente molesto.
Il problema era Bill, che Allah l’aiutasse.
Bill era pieno di fissazioni assurde. Erano così tante che non erano nemmeno calcolabili. Bushido le approssimò ad un numero tendente all’infinito e, quando lo fece, gli venne da pensare di essere stato perfino troppo generoso nel sottrarne qualcuna di poco conto. Bill non mangiava mele. A Bill piaceva la cioccolata ma solo a determinate condizioni. Bill non mangiava quasi niente non contenesse più conservanti che ingredienti naturali. Bill aveva bisogno di piastrare giornalmente i capelli perché odiava i boccoli. Bill odiava gli insetti e non usciva mai in giardino per paura delle punture. Bill era di una pigrizia sconcertante ed era capacissimo di richiamare te – che stavi in camera da letto dall’altro lato della casa a farti un’abbondante quantità di cavoli tuoi – per farsi portare dalla cucina – vicino al salotto – un bicchiere d’acqua – in salotto dove stava lui, appunto.
Bushido sospirò, posando il dannato bicchiere d’acqua sul tavolino basso accanto al divano dove Bill stava svaccato, sfogliando una rivista mentre con la mano libera accarezzava Palla di Neve, morbidamente accucciato sull’altro cuscino, ai suoi piedi. Inarcò le sopracciglia.
- Palla, potresti anche lasciami un po’ di spazio per sedermi… - si lamentò, piantando le mani sui fianchi ed osservando l’unicorno, ormai grande quanto un normalissimo cavallo e con un’apertura alare da albatros, mentre sonnecchiava sul divano.
L’unicorno sollevò appena una palpebra e sbuffò un nitrito disinteressato.
- Dice che c’è l’altro divano. – tradusse distrattamente Bill, senza sollevare gli occhi dalla rivista.
Bushido aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, deluso.
- Insomma, ho smesso di essere padrone di casa mia nel momento in cui siete entrati da quella porta. – si lamentò, accucciandosi sull’altro divano e cercando a tentoni il telecomando fra i cuscini, - E a Natale mancano ancora tre giorni!
Bill gli sollevò addosso un paio di occhi incredibilmente brillanti, allungandosi a recuperare il suo bicchiere d’acqua dal tavolino.
- Mi dispiace di darti tanto disturbo…
Bushido grugnì con disappunto.
- Non ti dispiace affatto. – borbottò, - Ti piace da morire farti servire e riverire, eh?
Bill lasciò andare una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Assolutamente sì. – ammise annuendo. E poi esitò solo un secondo, abbassando appena lo sguardo, - …fosse per me, rimarrei qui per sempre.
Bushido inarcò le sopracciglia. Fece per rispondere qualcosa – una cosa qualunque, la prima battuta che gli fosse capitata sulla punta della lingua – ma dovette interrompersi causa campanello martellante direttamente nelle orecchie. Sospirò e si mise in piedi.
- Vedi di far sparire quell’animale, mentre vedo chi è.
Bill annuì e saltò in piedi.
- Palla di Neve? Fuss! – ordinò con ingenua gioia.
Bushido sospirò: era assurdo che Bill si fosse convinto di essere stato in grado di addestrare l’unicorno in due giorni. Quell’animale palesemente lo idolatrava e lo seguiva ovunque, non c’era bisogno di trattarlo come un pastore tedesco, per portarlo in giro per casa.
Il campanello strillò ancora, offeso dal suo disinteresse.
- Ho capito, ho capito… - biascicò Bushido, sporgendosi per spiare l’identità dell’ospite al di là dello spioncino. Quando capì di chi si trattava, gli venne voglia di prendere a cazzotti Babbo Natale, e si ripromise che, qualora l’avesse visto, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. – Merda… mormorò scontento, - Bill, c’è tuo fratello! – urlò poi, in direzione delle scale che portavano al piano di sopra.
Bill si affacciò e lo fissò, attonito.
- E che ci fa qui? – chiese incerto.
Bushido scrollò le spalle.
- È il tuo gemello, siete voi quelli della telepatia gemellare-
- Non usare quel termine, a Tomi non piace, lui non crede nella telepatia.
- No, ma dice di sapere sempre cosa ti passa nella testa, per quanto io creda impossibile anche solo intuire cosa ci sia là dentro. – precisò lui, indicandolo con un dito, - Comunque sia, io non intendo averci a che fare.
Bill continuò a guardarlo con la stessa aria stupita.
- Io devo stare con Palla di Neve, Bu. – gli fece notare.
- Palla può stare da solo, per un po’! – cercò di convincerlo lui, per quanto sapesse perfettamente che no, Palla non poteva stare da solo. Palla sclerava appena Bill si chiudeva in bagno, figurarsi. – Tuo fratello mi stressa, Bill!
Bill scrollò le spalle.
- Vuoi che Palla di Neve fugga dalla finestra? – gli chiese, - È già successo, lo sai!
Bushido ringhiò.
- Tu e le tue dannate due ore di ricostruzione ogni volta che ti strucchi. – borbottò disperato, - Sparisci. – disse poi con un gesto vago, - Cerco di rimandarlo a casa.
Bill rise e scomparve oltre le scale, mentre Bushido sospirava profondamente e si preparava ad affrontare il dramma.
Tom apparve sulla soglia fissandolo con l’aria navigata dell’uomo che della vita ha capito tutto, e Bushido si chiese distrattamente come avrebbe reagito se fosse salito su, avesse recuperato Palla di Neve e gliel’avesse graziosamente posato di fronte.
Sospirò.
Probabilmente Tom avrebbe riso e gli avrebbe detto qualcosa tipo “non è più assurdo di te che cerchi di farmi credere che in realtà tu e Bill non state insieme”.
- Ciao, Tom. – lo salutò atono, - Qual buon vento?
Lui avanzò all’interno dell’appartamento senza chiedere il permesso, guardandosi intorno con aria sospettosa. Bushido temette si mettesse ad annusare l’aria, in cerca chissà di che cosa, poi.
- Allora… - chiese invece il ragazzo, voltandosi a guardarlo con malizia, - mio fratello?
Bushido sospirò.
- È uscito.
- Aha… - disse Tom, palesemente senza credergli, - quindi se vado di sopra e lo cerco in camera da letto non lo trovo, eh?
L’uomo deglutì.
Bill aveva preso possesso della camera da letto al punto che Tom non avrebbe faticato a pensare tutto e il contrario di tutto anche solo a metterci piede dentro: vestiti ovunque, trucchi sparsi in giro sulla toletta, un quintale di scarpe affiancate in un’ordinatissima fila contro la parete…
- Non ti farò entrare in camera mia, Tom, non siamo ancora abbastanza intimi. – scherzò, cercando di porre freno al dramma in atto. Tom non ne fu granché impressionato.
- Guarda che i flirt con me non funzionano. – ghignò invece, piantando una mano sul fianco e sporgendo appena un’anca, come il fratello faceva anche troppo spesso. – Allora, che mi racconti?
“Che tuo fratello mi fa ammattire, il suo unicorno mi odia ed ho un Bravo in cui io e Bill salutiamo i giornalisti dalla finestra della camera degli ospiti, come la fottuta famiglia reale inglese, in uscita entro la fine di questo mese. Ho una vita molto piena, sì.”
- Niente, Tom. – biascicò, andandosi ad abbattere contro il divano poco distante, - Tuo fratello mangia sempre chili di dolciumi, non muove mai un dito in casa ed è generalmente il solito ragazzino lamentoso coccola-dipendente. Ti basta così?
Tom aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Sei un mostro. – lo accusò infine, fissandolo con estremo disappunto, - Non dovresti parlarne così!
Bushido mugolò sconfitto e si passò una mano sugli occhi.
- Lo sai che voglio bene a tuo fratello, Tom-
- È il tuo ragazzo! – sbottò lui, - Dovresti volergliene di più!
- Ma non è il mio ragazzo!
Tom si spiaccicò una manata esasperata sulla fronte e sospirò teatralmente, andando a sedersi accanto a lui sul divano.
- Ascoltami bene. – gli disse poi, fissandolo intensamente negli occhi e piantandogli un dito proprio nel mezzo della fronte, - Io ho capito che piaci a mio fratello nel momento stesso in cui sono tornato in albergo con lui dopo i Comet, millemila secoli fa, e lui mi ha detto con occhio sbrilluccicoso “Bushido è una persona fantastica!”. – disse, cercando con poco successo di imitare la voce di Bill, vagamente più acuta della sua. – Io. – precisò, indicandosi, - Io sono un tonto. – annuì, - Io le cose non le capisco a meno che non siano palesi.
- Oppure – protestò Bushido, sbuffando annoiato e scuotendo il capo per cercare di liberarsi dall’indice puntato contro la fronte, - capisci fischi per fiaschi. Visto che io e tuo fratello non stiamo insieme e lui non mi ha mai detto-
- Non te l’ha mai detto perché guardati!, - riprese Tom, roteando gli occhi, - ti basta che io faccia tanto di insinuarlo e scleri! Chiaro, me l’hai terrorizzato, povero piccino, non ti dirà mai niente!
Bushido spalancò gli occhi, fissandolo sgomento.
- Tom. – sospirò alla fine, passandosi una mano sulla fronte, - cos’è che stai cercando di dirmi?
Tom sospirò a propria volta, con l’aria di uno che decisamente deve dare fondo a tutte le proprie riserve di pazienza, per star dietro ai tonti coi quali si ritrova ad avere a che fare.
- Sto cercando di dirti che tu non ascolti abbastanza. – rispose quindi, liberandogli la fronte dal peso di quell’indice puntato ed incrociando le braccia sul petto, - Non ascolti abbastanza Bill, o te ne saresti accorto da te. Già da un sacco di tempo, peraltro. – sospirò ancora, - E non ascolti me. Che, non a caso, non ho mai usato le parole “state insieme”.
Bushido ringhiò.
- Tom, non ho più neanche idea di quante volte mi hai ripetuto che tuo fratello è il mio ragazzo!
- Appunto. – sorrise trionfante Tom, inclinando furbo il capo, - E su questo, Atze, non puoi proprio darmi torto: magari non state insieme, ma lui di sicuro è tuo da anni. E quanto al suo essere un ragazzo, se vuoi posso confermartelo per iscritto. Ma credo che sarebbe meglio se controllassi tu di persona.
E così se ne andò: trascinandosi dietro tutto il proprio carico di inopportuna quanto fastidiosa sincerità. Bushido rimase lì, sulla porta, a fissare il vuoto. Per un sacco di tempo, poi. Fin quasi a sentirsi ridicolo da solo, perfino: il che, per uno che in genere non si sentiva ridicolo neanche quando rincorreva i propri compagni di crew con un carrello, era davvero inquietante.
Tornò presente a se stesso ed al mondo che lo circondava soltanto quando Bill tossicchiò appena da qualche parte alla sua sinistra. Mentre lui rimaneva in ascetica contemplazione del nulla, il ragazzo aveva avuto tutto il tempo di uscire dalla stanza in cui si augurava si fosse nascosto, scendere le scale e piantarglisi là di fianco con l’espressione tipica di uno pronto a chiedere scusa anche solo per essere venuto al mondo.
Bushido lo guardò. Piccolo e spaurito, Bill non riusciva nemmeno a guardarlo. Era talmente rosso in viso che c’era da chiedersi se per caso non avesse la febbre – e, in caso di risposta affermativa, preoccuparsi: Jost non aveva fatto che chiamarlo una volta ogni tre ore per assicurarsi che stesse bene e minacciarlo di violente e tremende ripercussioni legali in caso succedesse qualcosa al suo bambino. Bushido comprendeva quell’uomo e provava anche della sincera pietà, nei suoi confronti, ma sapeva che poteva essere un discreto rompimento di palle, se solo ci si metteva, perciò no, non aveva nessuna intenzione di rovinargli il cucciolo. Soprattutto perché, oltre Jost, se fosse successo qualcosa al leader dei Tokio Hotel, gli avrebbero voluto male davvero in tanti.
L’uomo si schiarì la voce, sporgendosi verso di lui ed allungando un braccio quasi a volerlo consolare per chissà cosa, ma Bill lo stupì nel modo più impensabile e normale di tutti: aprendo bocca e parlando. Il punto di Bill era proprio quello: parlava continuamente, ma tirargli fuori di bocca le cose veramente importanti era difficile quanto raggiungere la luna saltando.
- Mi dispiace che tu l’abbia dovuto sapere così. – disse invece Bill, dando probabilmente fondo a tutte le proprie riserve di sincerità, - Tomi tende ad avere la bocca troppo larga. – sospirò, - Spero solo tu non ti sia arrabbiato.
Bushido deglutì faticosamente.
- Bill… - cominciò, ma si fermò subito, incerto su come continuare. Era sempre stato una persona piuttosto fisica, e questo valeva anche per i tentativi di consolazione. Ma come diavolo faceva a consolare quel ragazzino? Se toccarlo sembrava fuori discussione proprio a causa del motivo della sua tristezza…
Palla di Neve, neanche stesse intuendo i suoi pensieri più nascosti, si parò fra lui e Bill, scrutandolo con occhi disapprovanti. Bushido resse il suo sguardo ed aggrottò le sopracciglia, resistendo appena al desiderio di ricoprire quel dannato cavallo d’improperi e tirargli pure una botta sul muso. Cercò di calmarsi ripetendosi che si trattava del dannato unicorno di Babbo Natale, non avrebbe dovuto volere far del male al dannato unicorno di Babbo Natale, ma per qualche strano motivo pensieri simili gli facevano venire voglia solo di ricoprire d’improperi e dare una botta sul muso anche al dannato vecchio, perciò lasciò perdere.
Fece per eludere il cavallo e raggiungere Bill alle sue spalle. Anche solo per accarezzargli un po’ la testa. Giusto per non fargli capire che non era arrabbiato, non era disgustato e non era niente di negativo in generale, ma Palla di Neve nitrì di scazzato disappunto e non gli permise nemmeno di fare un passo.
- Palla… - lo chiamò rabbioso, ma si fermò appena il pigolio incerto della voce di Bill lo raggiunse da dietro il corpo possente dell’animale.
- Palla di Neve… - lo chiamò il ragazzino, e subito quello si voltò a guardarlo, - Sitz.
Ed obbedì all’istante.
Tutto ciò che Bushido riuscì a pensare, osservando Bill risalire mestamente le scale, diretto probabilmente in camera da letto, fu “dannazione. Mi sa che l’unicorno l’ha addestrato davvero”. E, mordendosi un labbro mentre decideva di passare la notte al piano di sotto – visto che la sola idea di dormire ad un paio di metri da Bill lo turbava in maniera non descrivibile – gli venne quasi da pensare che l’addestramento dell’unicorno di Babbo Natale non fosse l’unico danno combinato da Bill prima da quando era arrivato in quella casa. Probabilmente non era nemmeno il più grave.
*
Il ventitre dicembre scivolò lentamente sotto le loro dita senza che neanche si guardassero, quasi. La mattina fu pigra e silenziosa – Bill non aveva chiuso occhio e si aggirava per casa come uno zombie, fissando il vuoto con occhi spenti ed evitando il suo sguardo a tutti i costi. A Bushido non era poi andata tanto meglio – il bracciolo del divano non s’era rivelato un cuscino piacevole, e per la verità neanche il suo turbamento s’era rivelato granché simpatico, come compagno di sonno, ragion per cui, praticamente, non aveva dormito affatto.
Fra una telefonata ridacchiante di Tom, una minacciosa di Jost e gli spettri invisibili della crew che spuntavano all’improvviso per rubare un po’ di Wii – per poi naturalmente dileguarsi alla prima comparsa di Bill o di Palla di Neve – Bushido non aveva posato quasi per nulla gli occhi sul proprio ospite; a parte un breve momento d’imbarazzo verso mezzogiorno – cioè quando Bill aveva deciso di scendere al piano di sotto per la colazione – occasione in cui Bill s’era ritrovato senza zucchero e Bushido s’era ritrovato abbastanza soprappensiero da biascicare un distratto “è qui sopra”, prima di sollevarsi a recuperare il barattolo sul ripiano della credenza senza curarsi del corpicino del ragazzo che finiva schiacciato fra il suo e la superficie rigida e legnosa del mobile.
Il respiro di Bill gli aveva sfiorato la pelle del collo ed il suo calore era giunto chiarissimo attraverso i vestiti, colpendolo nel centro del petto ed annullando qualsiasi traccia di pensiero razionale dentro di lui, per moltissimi secondi. Non riusciva a capire se quello fosse solo imbarazzo, se si sentisse a disagio perché Bill l’aveva conosciuto che era uno scricciolo ed il pensiero di doverlo guardare da adulto per la prima volta lo mandava in confusione… o le radici di quel turbamento fossero differenti.
Se per caso non avesse ragione Tom, ad esempio. Se i suoi continui tentativi di mantenere quella relazione fra il vago e l’incerto non fossero in realtà i trucchi furbi di un trentenne che sa esattamente come rigirarsi i ragazzini fra le mani. Di un trentenne magari perfino spaventato dalla possibilità che il ragazzino che ha coccolato fino a poco tempo prima possa ritrovarsi cresciuto e senza più alcun bisogno di lui.
Bill era parte della sua vita da un sacco di tempo, ormai.
Era difficile identificare adesso dove finisse lo scherzo e cominciasse il desiderio.
Il ventiquattro dicembre, la consapevolezza che quel gioco del silenzio non sarebbe potuto durare in eterno lo raggiunse come un pugno in pieno viso nel momento in cui, verso le quattro del pomeriggio, Bill si presentò al suo cospetto in salotto, accompagnato come al solito da Palla di Neve. Con la piccola aggiunta dello zainetto che Bushido aveva portato per lui da casa sua.
- …che? – chiese l’uomo, indicando lo zaino con un cenno del capo.
Bill ne torturò le bretelle fra le dita, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- È praticamente Natale… - disse dopo un po’, sguardo basso ed aria afflitta, - e penso che tu abbia di meglio da fare che non badare ad uno come me. – sospirò, - Anche perché non riesco a parlarti. Né a guardarti. Né a fare nient’altro.
- …Bill, ascoltami-
- No. – scosse il capo lui, riuscendo solo per un secondo a sostenere i suoi occhi, prima di tornare a puntare i propri sui ghirigori del tappeto, - Questa cosa… mi è caduta addosso come un macigno. – spiegò a fatica, - Io non avevo alcun problema con… con il fatto che mi piacessi. Ma ora che lo sai è tutto diverso. E siccome è evidente che non… - tornò a guardarlo fugacemente e poi si disperse ancora sul pavimento, - insomma, penso che andrò a casa e parlerò con Tomi. Se riesco a parlare con lui prima che veda Palla di Neve, allora magari-
- Ma Bill… - cercò di riportarlo in sé lui, massaggiandosi la fronte e mettendosi in piedi, - cerca di ragionare. Palla è diventato enorme. Non puoi uscire da qui con quell’animale appresso!
Bill si morse ancora il labbro, a disagio.
- …ti sta rovinando tutto il parquet, al piano di sopra. – lo informò, - Sono gli zoccoli, credo. Ti sto distruggendo casa e ti sto distruggendo la vita e-
- E magari invece non mi stai proprio distruggendo niente. – lo interruppe l’uomo, andandogli incontro e posandogli le braccia sulle spalle. Non lo toccava da un sacco di tempo e, quando i loro corpi vennero in contatto, si ritrovò letteralmente ricoperto di brividi. – Adesso ti calmi. – lanciò un’occhiata a Palla di Neve che, nel mentre, allarmato da tanta vicinanza, stava per mettersi di mezzo, - E tu ti levi di torno. Raus. – borbottò infastidito nei suoi confronti. Palla di Neve rispose con uno sbuffo risentito, accucciandosi lì di fianco senza spostarsi di un millimetro. – Bill, - sospirò Bushido, roteando gli occhi prima di tornare a guardarlo, - qui nessuno ha problemi con nessun altro, d’accordo? Non c’è niente che non vada. Non sono offeso e comunque ti ho chiesto io di restare fino a Natale. E non sarà Natale prima di stanotte a mezzanotte. – Bill lo guardò con aria smarrita, perdendosi un po’ nei suoi occhi, e Bushido si ritrovò a sospirare ancora, esplicitando ulteriormente, - Quindi adesso ci mettiamo in cucina e prepariamo qualcosa di buono, ok? Un bel cenone. E ci godremo la serata. E del resto parleremo poi.
Bill aveva sorriso ed aveva fatto quello sguardo lì, quello allegro e brillante che in genere precedeva i momenti in cui mandava a quel paese il buonsenso e ti saltava al collo riempiendoti di baci a caso – senza badarci se per caso uno dei baci finiva sulle labbra. Senza badarci o badandoci eccome, c’era quasi da chiederselo.
Non fu tanto piacevole osservarlo spegnere di prepotenza quella luce e trattenersi dall’abbracciarlo. Comunque, le due ore successive passarono piacevolmente, mentre entrambi stavano immersi in cucina fra chili di pentole e pentolini alla ricerca di qualcosa di commestibile fra credenza e frigorifero.
Palla di Neve seguì con cipiglio critico tutte le operazioni di cottura, senza mai intralciarle ma nemmeno favorirle; quando, alla fine, Bill si mise in testa di fare i biscotti di pan di zenzero – “perché stanno tanto bene attaccati all’albero, Bu, non hai idea quanto!” – pretese anche che lui uscisse dalla cucina, e di buttarlo fuori s’incaricò proprio l’unicorno, spingendolo a musate fuori dalla stanza senza la minima delicatezza.
Bushido si augurò che Babbo Natale lo buttasse fuori di casa al secondo giorno, visto il brutto carattere, ma non protestò e si svaccò sul divano mentre attendeva che Bill riemergesse da quell’incredibile frenesia da casalinga festosa.
Cosa che successe puntualmente un paio d’ore dopo: Bushido lo vide venir fuori dalla cucina completamente ricoperto di farina e zucchero, ma con un sorriso talmente smagliante sul volto da non riuscire neanche a prenderlo in giro.
- Non voglio nemmeno immaginare il delirio che ci sarà in cucina… - sbuffò divertito, senza nemmeno alzarsi in piedi. Bill gli regalò una linguaccia ed una mezza risata.
- La cucina è ok… sono io da ristrutturare!
Bushido lanciò un’occhiata all’orologio a muro e rise a propria volta.
- Be’, sono quasi le sette e mezza. Se vai a farti in bagno adesso, c’è una qualche possibilità tu sia già ristrutturato per l’ora di cena?
Bill aveva tirato di nuovo fuori la lingua, mostrando il piercing e lanciando un’occhiatina all’albero di Natale illuminato che i ragazzi della crew erano venuti a sistemare poco a poco come scusa per essersi defilati ed averlo mollato da solo con Bill Kaulitz ed un unicorno, ma aver continuato a gravitare di nascosto per la casa solo in virtù delle consolle per i videogiochi.
In realtà non c’era proprio da stupirsi che tutti quanti credessero negli unicorni, se poi in effetti si comportavano da bambini di dieci anni. Fler doveva indubitabilmente avere ragione.
- È un po’ triste che sotto non ci siano regali. – commentò appena, spolverandosi un po’ la maglietta.
- Ti sbagli. – rise Bushido, indicando con un cenno del capo Palla di Neve placidamente accoccolato sotto le fronte dell’abete, sul tappeto parzialmente ricoperto di aghi, - C’è lui.
Bill ridacchiò.
- E quello lo chiami regalo? – chiese ironico.
Bushido scrollò le spalle.
- Quello proprio no. La tua compagnia, però, può essere.
Lo osservò arrossire e borbottare qualcosa di confuso, prima di cominciare a correre a rotta di collo verso il piano superiore senza nemmeno guardarsi indietro, e si ritrovò a riflettere su quanto in realtà fosse davvero poco netto il confine fra i suoi sentimenti. In realtà, nella sua vita, erano sempre stati chiari solo gli odi. Per tutto il resto – ed anche per qualcuno di quegli odi stessi – vagava in un limbo d’incertezza in cui un sentimento avrebbe tranquillamente potuto essere qualsiasi altro.
In sostanza, gli piaceva avere Bill intorno.
In sostanza, probabilmente, se non l’aveva mai visto come un probabile compagno, era stato perché si era ostinato a non volercelo vedere. Oltre che perché lui era Bushido e quell’altro Bill Kaulitz, naturalmente. Sono cose, queste, che già da sole frenano i rapporti, in genere.
Bill ridiscese nel tempo record di un’ora e mezza, quando già Palla di Neve aveva ripreso conoscenza dal pisolino pomeridiano e si apprestava a piantare grane – tipo mangiando i babbi di stoffa appesi ai rami dell’albero – perché al suo risveglio non aveva trovato Bill a fargli le coccole.
Bushido sollevò lo sguardo e se lo ritrovò immerso in un accappatoio bianco dalle cui maniche spuntavano appena le mani. Attorno alla sua vita, la cintura faceva almeno due giri ed era ancora molle al punto che, quando si muoveva, i lembi dell’accappatoio si separavano e si poteva scorgere al di sotto qualche spicchio di pelle bianchissima ed ancora umida di doccia. Da sotto il cappuccio e le pesanti ciocche di capelli neri ancora bagnati, Bill lo fissava con estremo imbarazzo, stringendosi nelle spalle.
- …ho dimenticato di chiederti qualcosa per cambiarmi, quando sono andato in bagno. – biascicò incerto, abbassando lo sguardo.
Bushido sospirò pesantemente e si alzò in piedi, raggiungendolo di fronte alle scale con un sorriso bonario ad increspare le labbra.
- Tu sei un danno. – gli fece presente, sollevando le mani per frizionargli i capelli col cappuccio, mentre pesanti gocce trasparenti scendevano la china di quella cascata d’ebano per infrangersi contro il pallore delle sue scapole. – Guardati qui. Siamo a dicembre inoltrato e non ti sei nemmeno asciugato per bene.
Bill sorrise appena, e sotto le ciglia ancora bagnate i suoi occhi brillarono di una luce incredibilmente intensa. Intensa al punto che Bushido ebbe quasi difficoltà a sostenerla.
Gli venne in aiuto la sfiga, perché la luce saltò in quel preciso istante.
- Merda… - imprecò, stringendo la presa su Bill neanche avesse paura di sentirselo svanire sotto le mani col favore del buio. Il ragazzo, per contro, gli si strinse addosso, agitandosi appena. – Deve essere saltata la luce. Con tutte le decorazioni che ci sono accese per ora nelle strade… - ringhiò, - Aspetta, dai. Vado a controllare il quadro elettrico.
Fece per allontanarsi, ma Bill scattò immediatamente a stringerlo per un braccio. Nel buio e nel silenzio, le sue dita ossute serrate attorno al polso erano quasi inquietanti. Ma erano umide e calde, e Bushido non faticò a cedere alla loro richiesta di fermarsi, tornando a cercare di scorgere il suo profilo nel buio profondissimo che annegava la casa.
- Bu… - lo chiamò Bill, la voce tremante, - sai cos’è che dice sempre Palla di Neve quando mi vieni così vicino?
Bushido scosse appena il capo, e si rassegnò a tirar fuori un “no” umanamente comprensibile soltanto quando capì che, con quel buio, Bill non avrebbe mai potuto vederlo.
- Dice sempre che sei pericoloso. – continuò Bill in un sussurro. Era così vicino che Bushido poteva sentire il suo respiro sul viso. Sapeva di zucchero e cose dolci. Era un buon odore. – E dice anche che dovresti starmi lontano.
- Forse – sussurrò a propria volta, molto più incerto di quanto avrebbe voluto, - dovrei dargli retta.
Bill rise piano, un trillo appena percettibile, e gli posò entrambe le mani sul petto.
- Palla di Neve non può vederci, adesso.
E Bushido l’aveva schiacciato contro il muro il secondo successivo. L’aveva baciato subito dopo. L’aveva condotto su per le scale quasi di seguito. E s’era chiuso alle spalle la porta della propria camera da letto non più di due minuti più tardi.
Quando la luce tornò in casa – da sola, senza che nessuno ce la riportasse – il salotto venne illuminato solo dal bagliore delle lucine intermittenti che adornavano l’albero di Natale. Di Palla di Neve non c’era più traccia. A meno di non voler considerare una traccia una finestra spalancata.
*
Bill era scoppiato a piangere nel momento stesso in cui s’era reso conto del danno che avevano combinato. In un primo momento, ancora perso nell’assonnato sfinimento che aveva seguito il loro incontrarsi e scontrarsi pelle contro pelle fra le lenzuola fresche di bucato, era rimasto immobile contro il suo petto e non aveva detto nulla, ma quando finalmente avevano ripreso a parlare e Bushido gli aveva fatto notare quanto le premesse di quella relazione fossero sbagliate e disastrose – l’età! Due mondi diversi! Il tuo manager mi ucciderà, Bill – il ragazzo l’aveva zittito con un bacio veloce pregandolo di non sparare cavolate a raffica quando non poteva insultarlo come giusto e poi, d’improvviso, aveva spalancato gli occhi, mormorato un “Palla” afflitto ed era scoppiato in lacrime. Singhiozzando talmente forte, poi, da dare a Bushido l’impressione potesse spaccarsi. Un’impressione che, per la prima volta, lo terrorizzava – e non solo per le possibili ripercussioni legali.
Quando erano scesi di sotto, era bastata una breve perlustrazione della casa – fra un “Babbo Natale mi ucciderà” e l’altro – per rendersi conto che sì, le previsioni di Bill si erano avverate: non era più vergine; l’unicorno era scappato. Volando via dalla finestra ed immettendosi nel traffico notturno del ventiquattro dicembre a Berlino, peraltro. Fossero almeno stati in campana… ma no, proprio nella capitale tedesca.
Bushido sospirò pesantemente e si strofinò gli occhi con una certa forza, cercando di recuperare lucidità mentale. Quando ci riuscì, l’unica cosa che pensò fu che quello era proprio il momento di mettere in campo la crew: una manciata di uomini forti, asserviti, indipendenti e fondamentalmente stupidi. Una manciata di uomini, soprattutto, che quell’unicorno lo vedeva senza dubbio. Perciò, perfettamente sfruttabili.
- Tu non ci stai con la testa, Atze. – fu il commento di D-Bo quando, di fronte a tutto il resto della crew, gli venne spiegata la situazione.
- Cioè, tu e Bill – precisò Eko, spalancando smisuratamente gli occhi, - avete scopato. E già questo basterebbe a sconvolgermi. Ma oltretutto tu mi vieni a dire che quell’allucinante creatura stava qui solo perché il ragazzino qua era vergine e che ora che non lo è più è fuggita chissà dove…
- …ed a noi tocca cercarla?! – rincarò la dose Chakuza, agitandosi nervosamente attorno al divano, - Noi siamo rapper! È già allucinante ci fosse un unicorno in casa tua, io non intendo prestarmi a-
- Tu ti presterai a qualsiasi cosa io ti chiederò. – fu il secco commento di Bushido, spedendoli tutti fuori casa e tirandosi appresso Bill mentre si immetteva a propria volta per le strade della città, - Altrimenti io ti licenzierò e farò in modo da non farti più mettere piede in qualsiasi etichetta della città.
Mentre Chakuza borbottava inascoltato un “vorrà dire che andrò da Sido e Fler, sia mai loro siano meno cazzoni di te!”, Bushido si affiancò a Bill e gli strinse protettivo una spalla.
- Guarda che lo ritroviamo. – cercò di rassicurarlo, preoccupato dai suoi lineamenti tesi. Bill era sempre sull’orlo del crollo. Pensare di doverlo rimettere in piedi dopo una caduta era spaventoso: se non altro perché lui era così fragile da minacciare di rompersi in una quantità infinita di minuscoli pezzi, in caso fosse caduto davvero.
- Bu, non capisci… - mugolò il ragazzo, asciugandosi le guance, - io avevo fatto una promessa a Babbo Natale… - continuò mentre Saad borbottava un “bah!” sconvolto alle sue spalle, - ed invece Palla di Neve è scappato per colpa mia e… - Bushido lo osservò sollevare lo sguardo e poi spalancare gli occhioni, prima di puntare il dito verso un punto imprecisato di fronte a lui e prendere fiato neanche dovesse apprestarsi a cantare per i successivi dieci minuti di seguito senza avere la possibilità di respirare. E poi esplose: - Palla!!!
L’unicorno stava in effetti immobile a qualche metro di distanza da loro. I passanti sembravano non vederlo e continuavano a vivere la loro gioiosa festività senza curarsi del delirio in cui invece loro stavano immersi.
Bill cercò di andargli incontro, ma Palla di Neve nitrì adirato e s’impennò.
- Palla, non… non fare così, ti prego… - provò il ragazzo, ma l’unicorno non lo ascoltò. Nitrì ancora, sempre più indignato, e poi partì al galoppo quasi stesse inseguendo una preda.
Bushido non attese che un paio di secondi prima di afferrare Bill per il polso e trascinarselo dietro alle calcagna dell’animale impazzito, mentre tutto il resto della crew ammetteva che rimanere comunque lì al freddo e al gelo senza combinare niente era perfino più assurdo che seguire il proprio capo in quell’impresa allucinante: e decideva pertanto di mettersi a correre a propria volta.
Tutto ciò che Bill riuscì a commentare, fra uno sbuffo di fiato e l’altro, mentre Palla di Neve si fermava di fronte ad un palazzo e spiegava le ali per volare fino al decimo piano, fu “io questo posto lo conosco”. E poi più niente, perché quel palazzo era casa sua: e perché Palla di Neve ci fosse tornato era un mistero che si sarebbe dipanato solo quando l’avrebbero seguito.
*
All’interno dell’appartamento, Tom stava disperatamente cercando di non morire dalle risate mentre Gustav passava a Georg il proprio regalo di Natale commentando distrattamente “c’è anche la piastra per il frisé” prima ancora che il bassista riuscisse a scartarlo.
- E che cazzo, Gusti, sarà il quarto anno consecutivo che mi regali una piastra per capelli, a Natale! – borbottò il ragazzo mentre Tom rotolava sul divano andando ad impattare contro un povero manager esausto che tutto avrebbe voluto tranne ritrovarsi la notte della vigilia a babysitterare tre adolescenti palesemente mononeuronici.
- Ma ti dico che questa ha la piastra per il frisé! – insisté Gustav, oltraggiato da tanta ingratitudine, - Quella dell’anno scorso non ce l’aveva!
- Io non la uso, la dannata piastra per il frisé! – sbraitò Georg, agitando in tondo il proprio regalo ancora mezzo impacchettato, - Ti pare che io sia tipo da frisè?!
Gustav scrollò le spalle.
- Uno non può mai sapere, magari ti viene voglia di cambiare.
E su quell’ultima battuta la finestra s’era infranta ed un’enorme cavallo alato aveva fatto irruzione in salotto. Un cavallo alato con un enorme corno bianco e lucidissimo nel mezzo della fronte. Un cavallo alato e cornuto con un paio d’occhi talmente azzurri e acquosi da sembrare finti, peraltro.
Insomma, un unicorno.
Tom guardò Georg. Che guardò Gustav. Che non se la sentì di tirare nuovamente in ballo il frisé per motivare l’assurdità dell’accaduto. Alla fine, tutti e tre guardarono David come si aspettassero da lui una soluzione definitiva.
Il manager fissò l’unicorno, la bocca spalancata e le braccia molli lungo i fianchi.
- Ragazzi… lo vedo solo io?
La scrollata di capo simultanea che seguì la sua domanda non lo rassicurò per niente. Invece di dirsi “ah! Allora non sono pazzo!”, lo portò a commentare “ah! Allora siamo pazzi in quattro!”.
- Palla! – strillò qualcuno aprendo la porta di scatto. E quel qualcuno era Bill. Seguito da Bushido. E dall’Ersguterjunge al completo. Compreso Eko, che magari non era più sotto contratto all’etichetta ma, quando c’era da seguire il capo, sembrava sempre pronto ad obbedire.
David deglutì a fatica.
- Loro li vedo solo io, però, giusto?
Tom, Gustav e Georg scrollarono nuovamente il capo in sincrono.
Ed a quel punto ci sarebbe davvero stato da chiedersi cosa diavolo stesse succedendo, ma l’unicorno li batté tutti sul tempo guardandoli uno per uno con sincero scazzo… prima di posare i propri enormi occhioni acquamarina su Tom e dirigersi con aria innamorata verso di lui.
- Ehi! – sbottò Tom, sulla difensiva, - Stai lontano, eh?!
- No, Palla! – strillò ancora Bill, tendendo una mano verso l’animale, - Morirai!
Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Aspetta. – suggerì, fissando curiosamente la scena, - Sembra che sappia quello che fa.
Ed in effetti Palla di Neve lo sapeva davvero. Ne ebbero tutti la conferma nel momento in cui lo videro accucciarsi placidamente ai piedi del chitarrista e lì restare, sprofondando immediatamente in un tranquillo sonno ristoratore. Il volo doveva averlo sfiancato.
- Ho ho ho! – disse a quel punto Babbo Natale, carambolando giù dal camino e rotolando felice fin nel centro del salotto, - Ouch. Dovrei ricominciare ad usare gli abiti imbottiti. Erano incredibilmente d’aiuto, in queste situazioni.
Una bolla di silenzio si espanse per tutta l’estensione della stanza.
Ed esplose solo quando Bill si mise a piagnucolare.
- Babbino! – disse con tono lamentoso, - Mi hai preso in giro!
Babbo Natale sistemò gli occhialini tondi sul naso, prima di rimettersi in piedi e guardare Bill con aria critica.
- Io ti ho preso in giro, Bill? Mi pare che qui quello che non ha onorato la sua promessa sia stato tu…
- Ma tu mi avevi detto che l’unicorno poteva stare solo con i vergini! – continuò a borbottare Bill, del tutto sordo ai rimproveri, come in effetti tutti si aspettavano, - E invece guardalo, sta lì e fa le fusa a mio fratello!
Il nonnino si voltò a guardare Tom, squadrandolo compitamente da capo a piedi.
- Infatti, non c’è nessun errore. L’unicorno ha individuato il vergine più vicino e-
- I-Io non sono vergine! – protestò Tom, agitandosi convulsamente ed arrossendo imbarazzato, - Io non sono vergine proprio per niente! Che diavolo di storia è questa?!
Babbo Natale gli si avvicinò, lanciandogli un’occhiataccia critica.
- A-ah, Tom! – lo rimproverò, agitandogli un dito guantato davanti agli occhi, - Niente bugie! O quest’anno, per te, niente regali!
Il silenzio piombò nuovamente nella stanza, e le attenzioni di tutti furono concentrate su Babbo Natale che, dopo aver controllato che l’unicorno stesse bene, si sedeva compostamente sul divano, intrecciando le dita sul ventre sporgente e guardando il suo attonito pubblico con aria placida e pacifica.
- State tranquilli, ragazzi miei, ho un regalo per tutti voi, tranne che per quelli che l’hanno già ricevuto. – li rassicurò bonario, lanciando un’occhiata di paterna soddisfazione a Bill e Bushido, - Ora, se avrete la pazienza di starmi a sentire, vi racconterò la storia di un cucciolo di unicorno, di un ragazzo innamorato e di un uomo parecchio distratto. E poi vi darò i vostri regali. – si interruppe un attimo, guardandosi intorno con aria curiosa. – Ma prima, non ci sarebbe mica un bel bicchiere di latte e qualche biscotto?
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero."
Note: Mi chiamo liz e non pubblico una shot di EKR dalla fine di ottobre o.o Sono turbata quanto voi, ma se avete continuato a seguire la saga sapete perfettamente che non sono rimasta con le mani in mano, bensì mi sono dedicata a salvare Tab dal baratro. Riguardo questa shot in realtà ci sarebbero tante cose da dire. Tanto per cominciare che speriamo che il POV scelto non vi abbia mandate ai pazzi XD Sappiamo che non è la scelta più razionale possibile (dovevate vederci in fase di scrittura:
liz: ricordami perché abbiamo scelto questo POV.
Tab: non… non lo so.). Comunque speriamo vi sia piaciuto e che abbiate sofferto tanto *_* Per noi è stato un parto. Be’, per la liz almeno. Tab scriveva stile treno.
Comunque questo capitolo è schizofrenico. Il Bu si tirava fuori roba lol dal cappello – o, com’è anche più probabile, in quanto puro spirito è circondato da gente lol che fa e dice cavolate. *liz si prostra davanti ad Eko e lo idolatra come una statuina sacra del Buddha*
Fler palesemente è un mito e le sue avventure sono già leggenda. L’infermiera è nata per caso. Ci stiamo ancora chiedendo come sia stato possibile.
Comunque, da qualche parte dentro di noi il Bu è ancora vivo *riot*
PS: Il titolo è rubato ai Coldplay. E comunque di questa shot abbiamo una diapositiva. =P
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE HARDEST PART

Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- Bill sta sotto la pioggia. Il perché ce lo spiega Bushido. Più o meno.
Note: Dunque… questa storia è nata in maniera assolutamente vaga, così, out of the blue. Stavo ascoltando Auf Der Suche di Bushido e Baba Saad, e questa canzone si apre con un paio di versi campionati da un’altra canzone, Foolish Games di Jewel… che poi è quella che dà il titolo alla fic. Ed i due versi sono appunto quelli che la aprono. Ed attorno alla quale gira tutta la storia che storia non è. Perché questa non è una storia. *piange*
Spero comunque che possa esservi piaciuta XD
PS: Il Flershido è canon. Punto. *muore*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
FOOLISH GAMES

You took your coat off and stood in the rain
You were always crazy like that.

Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente, oltre le finestre. Si vede la notte – la notte non puoi evitare di vederla, perché è enorme e nera e circonda tutto – si vede la forma di qualche albero che macchia il panorama, si vedono- no, si intuiscono le case degli altri, il resto del quartiere, ma in realtà l’unica cosa che si vede chiaramente è la pioggia stessa. Gocce e gocce e gocce, così tante che sembrano una tenda d’acqua.
Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente. Però là fuori c’è Bill. C’è il suo corpo minuscolo scosso dai tremiti per il freddo, c’è il suo impermeabile stretto ed elegante, c’è l’enorme ombrello nero che ha calato sopra la testa fino a schermare perfino gli occhi, per nascondersi forse, anche se nessuno potrebbe riconoscerlo, in mezzo a quel diluvio.
Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente. Però là fuori c’è Bill. Bushido lo sa. Ed è questo il suo problema.


*

Eko stava raccontando la vecchia storia di quando aveva fatto sparire gli occhiali di Sido. Quella storia, Bill l’aveva già sentita almeno un centinaio di volte, da quando stava con Bushido, e la cosa stava cominciando a farsi grottesca. Non che in genere trovasse particolarmente opinabile ciò che la crew trovava divertente – non era molto dissimile da ciò che trovavano divertente Tom, Georg e Gustav… i videogame, le battute sconce, cazzeggiare fino alle cinque del mattino e via così – ma doveva esserci un limite alla quantità di volte in cui puoi sentire la stessa identica storia e trovarla ancora divertente.
Invece no, evidentemente non c’era, perché tutti stavano lì seduti attorno al tavolino stracolmo di bottiglie di birra – religioso silenzio e sorrisi pieni d’aspettativa sui volti – e Bill poteva sentirli fremere in attesa del momento di ridere.
Insomma, come i bambini piccoli. Puoi fare bubu settete mille volte, non si annoiano mica. Erano uguali.
Annoiato, si stirò lungo il divano e si appoggiò un po’ contro Bushido, strusciandosi il minimo indispensabile per rendere chiare le proprie intenzioni – o almeno il proprio disagio – ma non così esplicitamente da farsi urlare contro. Non che Anis disprezzasse le pomiciate pubbliche, pure se spinte, ma c’erano momenti in cui decisamente non gli faceva piacere trovarsi un gattino annoiato sulle ginocchia. Soprattutto se quel gattino era sul punto di tirare fuori gli artigli e rovinargli i jeans. O la serata.
Lui, ovviamente, lo capì al volo.
- Aspetta un attimo, piccolo. – bisbigliò sottovoce, stringendo una mano attorno al suo ginocchio, come per rassicurarlo, - Eko sta finendo.
- E lui si volta e fa “ma i miei occhiali?”. – continuò infatti l’uomo, spalancando gli occhi ed imitando l’espressione di Sido, - Ed io gli faccio “non lo so, perché non provi a guardare di là?, c’era la tua giacca sulla sedia” e lo vedo che si avvicina alla sedia… - pausa enfatica, Bushido tremò letteralmente sotto le mani di Bill e Bill si sentì praticamente obbligato a ridacchiare a propria volta, perché per quanto noiosa potesse essere quella storia il pensiero che un gruppo di uomini adulti potesse riderne era troppo divertente per ignorarlo, - …solo che sulla sedia c’era Fler rannicchiato che dormiva come un moccioso, e Sido va e gli mette le mani addosso e Fler si alza e strilla “BUSHIDO!”.
Bill si scostò dal corpo di Anis appena in tempo per evitare di venire travolto mentre l’uomo si piegava in due e scoppiava a ridere, in sincrono con tutti gli altri. Guardarlo ridere era sempre una cosa molto tenera, perché tanto bello riusciva ad essere quando sorrideva composto tanto improvvisamente diventava ridicolo quando rideva in maniera incontrollata. Sembrava quasi che nessuno gli avesse mai insegnato a farlo, quando Anis rideva non era solo una questione che coinvolgeva le labbra la lingua la gola, no, coinvolgeva tutto il suo corpo, il ventre le gambe le braccia gli occhi, ogni cosa.
Tornò ad appoggiarsi contro di lui solo appena l’uomo fu tornato a rilassarsi contro lo schienale del divano. Anis lo accolse con una risatina sbuffata e tenera e strinse un braccio attorno alle sue spalle, trascinandoselo sul petto. Bill mugolò, sollevandosi a sfiorargli il collo con le labbra.
- Torniamo a casa…? – sussurrò allusivo, strusciando il naso contro il tatuaggio.
Bushido rise.
- È presto. – rispose, dolce ma deciso. – Restiamo ancora un po’.
Bill aggrottò le sopracciglia, deluso.
- Ma perché-
- Bill. – lo riprese Anis, accarezzandogli una spalla, - Rilassati, ok? Non usciamo tanto spesso. Goditela un po’.
Avrebbe voluto rispondere che in realtà se la sarebbe goduta molto di più a casa, sotto le lenzuola e fra le sue braccia, tanto per cominciare, ma conosceva abbastanza Anis da sapere che, in situazioni come quella, l’unico modo di spuntarla era mettersi a litigare, ed in realtà non è che ci tenesse in maniera particolare. Sospirò e si tirò dritto, per poi poggiare il gomito sul bracciolo opposto e sbuffare sonoramente.
- Chaku… - chiamò annoiato, e l’uomo, dalla poltrona a fianco, gli dedicò immediatamente tutta la propria attenzione, - Che mi dici di bello?
Chakuza rise, chinandosi verso di lui.
- Cosa vuoi raccontato, Bill? – chiese curiosamente, imitando la sua posizione e poggiando a propria volta il gomito contro il bracciolo. Era divertente che, così di fronte, Chakuza dovesse comunque piegare il collo verso l’alto per guardarlo negli occhi. Bill si accucciò un po’ sul cuscino per arrivare alla sua altezza e farsi, se possibile, perfino più piccino. Fu soddisfatto quando Chakuza riuscì a guardarlo dall’alto in basso.
Fu soddisfatto, precisamente, quando sentì gli occhi di Bushido fissi sulla schiena. Farsi così piccino significava sempre “guardami, non mi trovi carino?”. Ed Anis lo sapeva.
- Non lo so… - piagnucolò lamentoso, con un mezzo sorrisetto, inumidendosi le labbra, - Qualsiasi cosa… sei l’unico che non mi ignora. – concluse, tirando indietro una gamba abbastanza da dare un piccolo calcio sullo stinco a Bushido. Giusto per assicurarsi stesse guardando davvero.
Chakuza rise nervosamente, grattandosi la nuca e sistemandosi il cappellino sulla testa.
- Uhm… - balbettò, - non so, non è che abbia avuto una giornata granché entusiasmante…
- Ma non importa! – ridacchiò lui, stendendosi letteralmente sul bracciolo e lisciandosi i capelli lungo una spalla, - Dove pensi di andare dopo…?
Bushido ringhiò alle sue spalle e Bill ghignò interiormente ma non diede alcun segno di averlo notato. Poteva immaginarlo perfettamente aggrottare le sopracciglia ed accavallare nervosamente le gambe, come faceva sempre quando non era soddisfatto dell’andamento di qualcosa. Giocava con l’orlo dei vestiti, sistemava i lacci delle scarpe, si grattava una guancia, Bushido era incredibilmente palese nel dimostrare il proprio scontento. Bill adorava che lo fosse perché adorava metterlo a disagio. Era l’unico a riuscirci.
- Uh… - Chakuza spalancò gli occhi, un po’ senza capire, un po’ fingendo di non aver capito, ed inarcò le sopracciglia, - Penso che me ne andrò a casa a dormire, suppongo… - biascicò incerto.
Bill inclinò lateralmente il capo.
- Niente compagnia? – chiese con naturalezza, sbattendo le ciglia.
Chakuza arrossì furiosamente.
- Compagnia? – balbettò confuso, tirandosi dritto sulla poltrona.
Bill sorrise allusivo.
- Qualcuno con cui passare la notte, Chaku… - spiegò in un sussurro, chiudendo un po’ le palpebre.
- Ah! – disse l’uomo, come lo stesse davvero realizzando solo in quel momento, - Ecco… cioè, stasera non è serata… - biascicò, guardandosi intorno alla ricerca di aiuto. Saad, appollaiato sul bracciolo al suo fianco, si dondolò un po’ sulle gambe e ghignò divertito, mentre Eko tratteneva a stento le risate dalla propria sedia, - E la piantate?! – si lamentò Chakuza, arrossendo ancora di più.
- Scusa, ma ti si sta rigirando sul palmo della mano! – rise Saad, schiacciandogli la visiera del berretto sugli occhi, - Bravo Bill, mettilo in ridicolo.
- Sì… - ghignò Eko, incrociando le braccia sul petto, - Rendi ridicolo lui ed anche Bushido… Atze, c’è il tuo uomo che ci prova con un altro dei tuoi uomini, te ne sei accorto…?
Anis, chiamato in causa, grugnì del fastidio indistinto, tornando a posare entrambi i piedi per terra e stringendo le mani attorno alle ginocchia, nervoso.
- I miei uomini – disse infastidito, guardando fisso davanti a sé, - dovrebbero imparare a stare ai loro posti.
Bill aggrottò le sopracciglia, voltandosi a guardarlo indisposto mentre Chakuza tornava a sedersi composto e borbottava una scusa imbarazzata figlia del bisogno assoluto di non mandare a puttane una serata semplicemente perfetta fino a dieci minuti prima.
C’era quasi da provare della pietà per quell’uomo. Bill sapeva quanto lui e Bushido fossero amici. Gli dispiaceva un po’ averlo trascinato in quella sceneggiata per la quale, lo sapeva, Bushido non gli avrebbe rivolto la parola per giorni interi, ma insomma. Certe volte mettere Anis in difficoltà era l’unico modo per farsi ascoltare, almeno un po’.

*

Fuori piove ancora. Bushido non sa sinceramente cosa fare e questo non va bene, perché se almeno fosse tranquillo potrebbe decidere di lasciar stare Bill là fuori finché non si sia sciolto con le lacrime in mezzo alla pioggia e fregarsene. Andarsene a dormire e basta. Oppure, fanculo, uscire, recuperarlo e tirarlo in casa, infilarlo in una vasca d’acqua calda e scioglierlo lui, fra la schiuma e le labbra.
Karima lo guarda indispettita, e Bushido non riesce a reggerlo, quello sguardo.
- Piove. – gli fa notare.
- Me ne sono accorto. – risponde seccamente lui.
- C’è il bambino di fuori. – spiega allora lei, le braccia incrociate sul petto pieno da nonna bonaria.
A Bushido piace quando Karima chiama Bill “il bambino”. Gli piace perché lo fa sentire uno di famiglia.
Comunque il bambino è là fuori, da solo sotto la pioggia, con l’unica protezione di un impermeabile ed un ombrello. È là fuori ormai da quasi mezz’ora. La sua figuretta smilza sta già diventando indistinguibile contro il cielo scurissimo. I contorni si sfocano e la pioggia è più fitta. Bushido deve aguzzare lo sguardo per capire che non è andato via e c’è ancora qualcosa da guardare.
- Tornerà a casa. – dice, ma non ne è affatto convinto.
Non ne è convinta nemmeno Karima. I suoi occhi lo disapprovano ancora. Bushido cerca di ignorarla ma è come Bill là fuori, non ci riesce davvero. E questo è un altro dannato problema.


*

Bill si sistemò rigidamente sul sedile della BMW, chiudendo la cintura di sicurezza di modo che non spiegazzasse la giacca e la maglietta sotto. Bushido si sedette al suo fianco, poggiando le mani sul sedile e stringendolo fra le dita come volesse frantumarlo.
Bill incassò la testa fra le spalle. Strigliata in arrivo.
- La prossima volta, se potessi fare a meno di mettermi così sfacciatamente in ridicolo di fronte a tutti, te ne sarei immensamente grato, Bill. – disse Bushido con aria sostenuta, fissando la strada dritto davanti a sé.
Bill aggrottò le sopracciglia. Certe volte non riusciva veramente a capire perché Anis non potesse litigare come tutte le persone normali, strillando parolacce e magari lanciando un paio di ceffoni. Lui no, lui doveva rimproverarlo. Doveva farlo sentire piccolo e stupido e inadeguato, altrimenti non sarebbe mai stato contento. Non sarebbe stato abbastanza riconoscergli abbastanza maturità da concedergli un “vaffanculo”, no. Doveva dirgli “non si fa”. Neanche fosse ancora lo stesso quindicenne che sfotteva nel duemilacinque.
- Be’, la prossima volta starai attento a non ignorarmi e forse allora vedrò di non metterti in ridicolo. – rispose con un broncio. Era perfettamente consapevole dell’incredibile infantilismo di una simile risposta, ma d’altronde Anis lo stava trattando come un ragazzino, quindi perché rovinargli la festa.
- Ci stavamo divertendo. – gli fece notare lui, - Ma tu non sei contento se non sei sempre al centro dell’attenzione di tutti.
- Io me ne frego dell’attenzione di tutti. – mentì lui, aggrottando le sopracciglia, - Volevo solo la tua!
- Ed è per questo che ti sei messo a flirtare con Chakuza, sì?
- Sì! – quasi strillò, guardandolo improvvisamente in viso, - Esattamente per questo!
Anis non ricambiò il suo sguardo.
Bill digrignò i denti e sentì l’irrefrenabile impulso di scoppiare a piangere in quel preciso istante. Anis almeno si sentiva in colpa, quando lui piangeva.
- Dovrei veramente andarmene con qualcun altro! – gridò invece, tirandogli un pugno contro un fianco, - Sei uno stronzo!
Bushido non fece una piega. Ma imboccò una strada che non era quella che li avrebbe portati a casa sua.
- Dove stai andando? – chiese Bill, il cuore in gola, spalancando gli occhi, - Anis?
- Ti porto a casa. – rispose seccamente lui, senza degnarlo di uno sguardo, - Mi sembra evidente che sei regredito ai dodici anni. I bambini vanno a letto a casa propria, no?
Bill strinse i pugni lungo le cosce.
- Non sono un bambino, piantala.
- Ti comporti come tale. Ti comporti anche come se in realtà di me non te ne fregasse granché, Bill, dunque?
- Non me… - annaspò lui, percependo distintamente le lacrime farsi strada fra le ciglia, - Non me ne fregasse niente, Anis? Ogni cazzo di cosa che faccio è in tua funzione, vaffanculo!
- Sai che odio quando flirti. – disse lui, duro.
- Volevo attirare la tua attenzione!
- Potevi, cazzo, spogliarti e ballare nudo sul tavolo, Bill! – gridò Anis, voltandosi finalmente a guardarlo, - Tu non flirti in giro. Capito? Non lo fai.
Bill slacciò la cintura di sicurezza, lasciandola tornare a posto con uno scatto secco.
- Non sei mio padre, fottiti!
Anis non disse niente. Strinse di più la presa sul volante e si fermò senza scomporsi di fronte al cancello del suo complesso residenziale.
- Buona notte, Bill. – disse freddamente, senza guardarlo.
Bill lo fissò arrabbiato, in attesa che facesse qualcosa. Anche solo voltarsi nella sua direzione, cazzo.
Ma lui non fece niente, Bill si rassegnò e lo mandò a fanculo un’ultima volta prima di scendere dalla BMW ed infilarsi risolutamente all’interno del proprio palazzo.

*

Karima ha acceso le luci sul vialetto d’ingresso. In genere, la notte le tengono spente, a meno di aspettare qualche visita. Ma di fuori c’è il bambino e Karima ha deciso che se Bushido vuole lasciarlo a congelare almeno dovrà anche guardarlo mentre diventa una statua di ghiaccio. E quindi ha acceso le luci.
Nel momento stesso in cui la luce ha invaso l’ambiente esterno, a Bushido s’è fermato il cuore in gola. Bill era lì immobile in mezzo alla ghiaia, fermo, ritto in piedi, tremante come un cucciolo impaurito. Ma fissava dritto la finestra, come aspettandosi di vedere i suoi occhi da un momento all’altro.
Bushido e Bill si guardano negli occhi attraverso il vetro bagnato, da almeno dieci minuti. Bill s’è avvicinato alla finestra, appena ha intuito che anche Bushido lo stava vedendo. E adesso è lì fermo che lo guarda.
Bushido non sa dannatamente cosa fare.
Decide Bill per lui.
Bushido lo osserva lasciar cadere l’ombrello alle spalle. Compie una parabola perfetta e gocciola pioggia ovunque, sembra la coreografia di una fontana. A Bill piacciono i giochi d’acqua, Bushido se lo ricorda solo in quel momento. Non riesce a staccargli gli occhi di dosso, non quando lascia cadere l’ombrello, non quando la massa vaporosa dei suoi capelli comincia ad appiattirsi e inumidirsi fino a grondare acqua da tutte le parti. Nemmeno quando, lentissimo, scioglie la cinta che tiene l’impermeabile stretto in vita e lo apre, lasciandoselo scivolare lungo le braccia fino a cadere.
Deglutisce e resta immobile.
Se Karima fosse lì gli direbbe che il bambino sta prendendo freddo. Sul serio, adesso.
Karima è andata a dormire dopo aver acceso le luci.
Bill non sembra intenzionato a cedere di un passo. Per un attimo, Bushido spera lasci perdere e fugga via senza degnarlo di un altro sguardo. Ma Bill resta lì. Non si muove.
E allora si muove lui. Si alza lentamente e lo raggiunge alla finestra. Solleva una mano e la posa sul vetro, è ghiacciato. Può solo immaginare quanto freddo faccia fuori. Bill lo guarda, il trucco sciolto lungo le guance. Bushido non sa se sia per la pioggia o perché sta piangendo. Ma lo sguardo di Bill è fiero e serio. Non è uno sguardo da lacrime.
Bushido si allontana verso la porta.
È quasi convinto che quando la aprirà non troverà niente, dall’altro lato. Bill sembrava una visione trasparente, sotto la pioggia, vederselo scomparire d’improvviso non lo stupirebbe. Non si stupisce di non ritrovarselo davanti, infatti. Sta quasi per richiudere la porta e tornare dentro, si affaccia solo per scrupolo. E ringrazia mentalmente Dio per averlo fatto, quando si accorge che Bill non è andato via: è solo rimasto fermo dov’era, sotto la pioggia.
- …vieni sotto la pensilina, dai. – mormora sottovoce, e non è neanche sicuro che in tutto quello scrosciare d’acqua Bill lo abbia sentito.
Bill l’ha sentito. Scuote il capo e quei suoi capelli lunghissimi si muovono appena, appiccicandoglisi alle guance ed al collo nudo.
- Bill, sta diluviando.
- Pensi che non me ne sia accorto?
Bushido sospira e muove un passo sul vialetto. Si congela. Sospira ancora, ma si decide e viene fuori, avvicinandoglisi lentamente ed andando subito alla ricerca di una sua mano. La prende fra le proprie – è un piccolo cubetto di ghiaccio – cerca di scaldarla, la sente tremare sul palmo e gli viene voglia di abbracciare Bill e nascondere il viso sulla piega del suo collo, ma non lo fa.
- Vuoi venire dentro? – chiede, tornando a guardarlo con disapprovazione negli occhi.
- Mi vuoi in casa anche se sono una puttana? – ritorce lui, velenoso, ficcandogli le unghia nel palmo.
- Io – precisa Bushido con una smorfia a metà fra l’irritazione e il dolore, - non ti ho dato della puttana.
- È come se l’avessi fatto. – ritorce Bill, guardandolo fieramente negli occhi.
Bushido fa un’altra smorfia.
- Sei venuto per litigare, Bill? – sbotta acido, cercando di lasciargli la mano. Bill non glielo permette.
- Sì. – risponde invece, annuendo appena, - Io non sono tuo figlio, Anis. Sono il tuo ragazzo. Non mi rimproveri, con me ci litighi, capito?
E Bushido ricorda anche il motivo – quello fondamentale – per cui Bill gli piace tanto. Che poi è lo stesso motivo per cui non avrebbe mai dovuto portarselo a letto. O innamorarsene.
Sono identici. Decisionisti e cocciuti e orgogliosi e stronzi fino al midollo nello stesso identico modo.
- Odio quando flirti. – sibila Bushido, alle strette, - Se stai con me, non puoi flirtare con gli altri. Sono geloso, lo sai.
- Oh, allora solo perché sei geloso io devo improvvisamente diventare una perfetta donnina di casa e smettere di divertirmi. Certo, Anis, ovviamente.
L’uomo aggrotta le sopracciglia, indisposto.
- ‘Cazzo intendi dire, Bill? Dovrei lasciarti-
- Non stai litigando, cazzo. – Bill si passa la mano libera sugli occhi, stanco. – Piantala di essere così dannatamente tranquillo. Non mi stai elencando gli insegnamenti base del Corano. – gli si avvicina, posa quella stessa mano sul suo petto e stringe le dita attorno al tessuto ormai fradicio della sua camicia, - Stai dicendo che sei geloso. Cazzo. Che mi vuoi solo per te. È questo che stai dicendo, vero?
Bushido abbassa lo sguardo e si morde un labbro.
- Anis…
Torna a guardarlo, gli occhi brillanti di rabbia e di pioggia.
- Vaffanculo, Bill. – le labbra del ragazzo diventano sottili come linee, le guance si arrossano, - Sei una tortura. Cazzo, sì che ti voglio solo per me. Potessi, ti metterei le mani addosso alle otto del mattino e non le toglierei più fino a sera! Cazzo, non è che ti voglia per me,
tu sei mio perché io ti amo, Bill, e vaffanculo.
Il ragazzo si mordicchia il labbro inferiore. La pioggia continua a scorrergli sul viso, lungo le guance, lungo il collo, sopra i vestiti. Bushido resta immobile e non sa che fare. Bill si solleva sulle punte non perché ne abbia veramente bisogno ma perché sa che ad Anis piace quando lo fa. Si solleva sulle punte e lo allaccia al collo, stringendosi contro di lui.
- Siamo due deficienti. – gli bisbiglia all’orecchio in uno sbuffo divertito.
Bushido lo stringe alla vita.
- Tu lo sei. – ritorce borbottando, - Ti prenderai una polmonite coi controfiocchi. Ed io appresso a te.
Bill scrolla le spalle.
- Vorrà dire che staremo un po’ a letto insieme.
- Sai che meraviglia. – sospira simulando un fastidio che s’è perso con l’ultimo sbuffo di fiato, e Bill gli pizzica la nuca. Bushido ride. – Scherzavo, scherzavo. – lo rassicura, abbracciandolo un po’ più stretto.
- Dovremmo litigare più spesso. – mugola lui, sfiorandogli una spalla con le labbra. I vestiti sono tutti così bagnati che è come essere nudi.
Bushido si scosta da lui solo per baciarlo.
- Farò il possibile. – promette. La pioggia, tutto intorno, continua a cadere.
Genere: Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza, Fler/Bushido (accennato), Fler/Doreen (accennato).
Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido, Eko Fresh, DJ Stickle.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, What If?.
- Poco tempo dopo l'uscita del quarto album di studio, Fler viene allontanato dall'Aggro Berlin. Ed ecco che si ritrova seduto di fronte alla scrivania biposto di Chakuza e DJ Stickle, alla Beatlefield. Partendo da questi presupposti, palesemente non potrà accadere niente di meno che disastroso. Ed infatti il disastro accade.
Note: Io amo il Flerkuza per motivi che con questa storia non c’entrano niente XD Nel senso che questa coppia – almeno per quanto mi riguarda – è nata all’interno di EKR e per il preciso motivo che lì questi due personaggi si trovavano ad interagire in un determinato modo con un qualche perché. Ho sempre pensato, lavorando alla saga, che in qualsiasi altro contesto il Flerkuza non avrebbe mai potuto avere senso. Con Fler per le mani, si poteva lavorare col Flershido, che praticamente è canon. Con Chaku per le mani, volendo poteva venire fuori del buon Chakushido. Ma il Flerkuza come lo giustifichi? Non puoi, questi due sanno l’uno dell’esistenza dell’altro solo per le beghe di quartiere dei loro superiori, suppongo X’D
Caso ha voluto che però io finissi col posare lo sguardo sulla bio di Fler sul suo sito, e riuscissi a carpire, fra le varie cose, che ultimamente c’erano stati dei rumor in merito ad un suo probabile abbandono dell’Aggro Berlin. I motivi non c’entrano niente con quelli da me esposti in questa storia XD ma è stato questo – assieme alla notizia del fatto che uno dei brani di Fler, il nuovo album in uscita a marzo, è stato cantato con Doreen, fidanzata da lungo tempo con Sido – a far scattare nella mia testolina una molla. La molla in questione, ballonzolando, diceva: “e se questa collaborazione con Doreen avesse avuto l’effetto di avvicinare i due? E se, in seguito a questo, Fler fosse stato allontanato dall’Aggro Berlin? E se, in cerca di una nuova etichetta, fosse approdato alla Beatlefield?”.
Questa è, in sostanza, la risposta che mi sono data XD Lunga, sì. Dimenticabile, anche. Ma c’è un Bushido che amo XD E la scenetta finale se la vale tutta u.u *decisa*
Partecipante all’adorabile Criticoni!Challenge Temporal-mente <3
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Egal Was War
I'm not gonna blast you on the radio, I'm not gonna lie on you or your family. (Survivor – Destiny's Child)


Dalla propria poltrona dietro la scrivania biposto che lui e Stickle usavano per ricevere i visitatori e i giornalisti nell’ufficio principale della Beatlefield, Chakuza si guardò intorno con aria smarrita e per un solo, singolo secondo si chiese se per caso non fosse precipitato in una realtà alternativa in cui fosse normale vedere Patrick Losensky – alias Frank White alias Fler – seduto su una poltrona a rimirarsi le unghie in attesa di una risposta affermativa alla domanda “allora, mi mettete sotto contratto o no?”. Se lo chiese per il semplice fatto che Stickle non sembrava granché turbato di fronte al fatto, ma lui era sicuro – ma sicuro davvero – che invece dovesse esserci almeno un motivo per provare dell’inquietudine, e quel motivo cominciasse per B e finisse per O.
- Scusatemi un secondo… - s’intromise quindi, massaggiandosi le tempie in previsione del mal di testa che sarebbe sicuramente arrivato quando avrebbe raccontato il tutto a quello che, comunque, restava il suo capo, indipendenza dell’etichetta a parte, - Fler, posso capire cosa ci fai tu qui?
Stickle si voltò a guardarlo neanche avesse visto un alieno planare con un disco volante nel mezzo dell’ufficio.
- Chakuza, ma tu non li leggi i giornali? – borbottò, inarcando un sopracciglio, - Non lo sai che Sido l’ha buttato fuori dall’Aggro?
Chakuza, in effetti, no, giornali non ne leggeva. O meglio, come tutte le persone normali e mediamente impegnate, scorreva le prime pagine di cronaca e dava giusto un’occhiata ai necrologi, fermandosi ampiamente prima dell’inserto sul mondo dello spettacolo. E, nei rari casi in cui tornava a casa abbastanza riposato da sopravvivere alla cena e alla doccia e concedersi un po’ di televisione, tutto desiderava meno che guardare a ripetizione i telegiornali di informazione musicale di MTv: tutto quello che poteva importargli sapere – vicissitudini dell’Aggro Berlin comprese – arrivava all’Ersguterjunge tramite Bushido, e visto che quella notizia non era arrivata Chakuza non ne aveva saputo niente. Fino a quel momento, almeno.
- …buttato fuori dall’Aggro. – prese atto, annuendo compitamente, - E perché?
Stickle sembrò in effetti sorpreso dalla domanda. Stickle era un uomo semplice, Chakuza adorava questo suo essere semplice perché ne faceva un collega perfetto. Per dire, collaborare con Bushido era straziante. Con Eko Fresh, neanche a parlarne. Ma Stickle, lui era per le cose palesi. Non andava mai troppo a fondo, anche perché si sa che a scavare si trova solo fango.
- Questo non lo so. – rispose quindi sinceramente il DJ, - Fler?
Losensky, svaccato sulla poltrona in pelle neanche fosse già convinto di essere a casa e potesse perciò prendere possesso di qualsiasi cosa lo circondasse, inarcò un sopracciglio e li fissò entrambi come a dire “che domanda del cazzo”.
- Mi sono scopato la donna di Sido. – rispose comunque, scrollando le spalle.
Chakuza sentì l’improvviso e insopprimibile bisogno di scoppiare a ridere istericamente e uscire dall’ufficio senza dire una parola. Probabilmente l’avrebbero preso per pazzo, ma almeno si sarebbe cavato d’impiccio e, quando il danno si fosse compiuto – perché si sarebbe compiuto: gli occhi di Stickle brillavano, e quegli occhi tondi e scuri brillavano solo quando intuiva enormi possibilità di guadagno dietro un semplice gesto – avrebbe potuto giustificarsi con Bushido dicendo “io non c’entro niente, quando mi è stata posta la possibilità sono fuggito ridendo. Amen”.
- Oh… - borbottò invece, sistemando dei documenti assolutamente vuoti e privi di utilità sulla scrivania, - Capisco. – in realtà non capiva. Perché cavolo uno silurato dall’Aggro Berlin per essersi scopato la donna del capo doveva venire a rompere i coglioni all’Ersguterjunge?
Realizzò proprio mentre formulava mentalmente il lunghissimo nome della dannata etichetta di Bushido.
La Beatlefield non era l’Ersguterjunge. Ecco perché Fler era lì.
- Stickle? – chiamò quindi il collega, voltandosi appena nella sua direzione, - Non pensi che potrebbe essere, tipo, la scelta peggiore che potessimo mai fare?
Stickle non sembrò capire.
- No. – rispose candidamente, - Fler vende dischi con una media di cinquantamila a botta. No, Chakuza, non penso proprio che potrebbe essere la scelta peggiore che potessimo mai fare.
- Ma… Bushido… - cercò di insistere lui, senza lasciarsi sfuggire l’occhiata infastidita di Fler, dalla poltrona, - Intendo, lui non sarà-
- Oh, ma con Bushido ci parli tu. – disse bonariamente Stickle, battendogli una pacca sulla spalla, - Ti ascolta, sei uno dei pochi.
Il panico s’impossessò di lui con la stessa facilità con cui se ne impossessava il sonno quando poggiava la testa sul cuscino dopo dodici ore di duro lavoro.
- Io non glielo dico a Bushido che l’uomo che lo sfancula da anni è sotto contratto alla Beatlefield! – strillò, alzandosi in piedi, - E tu, - aggiunse, indicando Fler, - non sei ancora sotto contratto da nessuna parte, per inciso, quindi non metterti troppo comodo!
Fler non fece una piega. Piuttosto, si svaccò ulteriormente, stendendo un paio di gambe semplicemente chilometriche – doveva essere più alto perfino di Bushido – dritte davanti a sé, fino a sfiorare la scrivania.
- Vorrei precisare che è stato Bushido il primo a prendersela con me. Io ce l’avevo solo con Eko Fresh. – disse con tono neutro, scrollando appena le spalle.
- Questa dovrebbe essere una giustificazione? – chiese Chakuza, fissandolo allucinato, - Ma sai stare seduto composto?
- Sì. – disse Fler, rispondendo palesemente alla prima domanda, - E no, non me l’ha insegnato nessuno. – concluse, rispondendo anche alla seconda. – Stare seduti composti è una referenza per entrare a far parte della Beatlefield? No, perché in questo caso-
- Di cos’è che stiamo parlando?! – strillò ancora Chakuza, tornando a guardare Stickle, - Intendo, cosa ce ne facciamo di lui? Lo mettiamo sotto contratto e gli produciamo un album ignorandone i contenuti ed ignorando anche che Bushido staccherà le nostre teste a morsi, quando lo verrà a sapere?
Stickle sembrò pensarci su per un momento.
- Be’, è un’idea. – rispose infine, - Ho un po’ di beat da parte, si potrebbe-
- Ma Cristo santo! – esalò, abbattendosi esausto contro la scrivania e scivolando nuovamente sulla propria poltrona, - Sento che finirà male.
- Allora sono dentro? – chiese Fler, rimettendosi dritto per poi sporgersi un pochino in avanti come volendosi alzare senza sentirsi ancora pronto a farlo, - Giusto per capire, eh.
Stickle gli sorrise bonariamente, mentre Chakuza sfilava il cappellino per riprendere a massaggiarsi le tempie con più efficacia.
- Ma sì, guarda, già domani mattina se vuoi puoi portare del materiale. Se ne hai s’intende.
- Sono pieno di materiale. – rispose Fler, alzandosi finalmente, - Il contratto?
- Certo che ne hai di fretta. – borbottò acido Chakuza, inarcando un sopracciglio mentre gli lanciava un’occhiataccia disapprovante.
I lineamenti di Fler si tesero repentinamente, e Chakuza lo osservò con occhio pallato avvicinarsi e fare il giro della scrivania, fino a che non lo vide planare tranquillamente seduto sul tavolo, sollevando appena una gamba e guardandolo dall’alto con una certa aria di supponenza che non gli piacque per niente.
- Senti, io contro di te non ho niente, okay? – lo rassicurò, - Non posso dire che tu mi piaccia a chissà quali livelli, ma sei ascoltabile, sicuramente più di certa altra merda che viene fuori dalla premiata ditta EGJ e affini, almeno hai una voce e qualcosa da dire. Però se intendi cominciare a rompermi i coglioni fin dal primo minuto-
- Ehi, allora! – si alzò in piedi, anche perché fronteggiarlo in quel modo era decisamente più facile, visto che Fler, da seduto, non rappresentava più quella specie di monolite che invece era quando stava dritto sulle gambe, - Tanto per cominciare, questa è la mia etichetta, quindi se io decido di romperti i coglioni e tu vuoi restare, resti a queste condizioni, chiaro?
Fler incassò la testa nelle spalle, ma non lo fece con l’aria di uno che si sente colpevole ed accetta un meritato rimprovero. Sembrava più una specie di enorme gatto pronto a saltargli addosso e sfregiarlo, tipo.
- Secondo poi, sarebbe il caso che da queste parti non si parlasse male di Bushido, visto che siamo affiliati all’Ersguterjunge, ti piaccia o no. E, per inciso, se l’EGJ è tanto piena di merda, cosa ci sei venuto a fare qui, eh? Perché non ti sei aperto una dannata etichetta per conto tuo?
Fler lo guardò a lungo, e poi si limitò a scrollare le spalle e rimettersi in piedi, privandolo in un colpo del vantaggio che aveva accumulato fino a quel momento.
- Io non ho la più pallida idea di come si gestisca un’etichetta. – spiegò alla fine, con candore disarmante, - Io canto e basta. E voglio continuare a farlo anche se ho ficcato l’uccello dove non dovevo. Ho sbagliato, ma non è un motivo valido per stare zitto. E siccome non ci torno strisciando da Bushido, e di sicuro non potevo andare a bussare alla porta di Eko Fresh, sono venuto qui. Mi sono detto “sia mai il cuoco austriaco è meno testa di cazzo degli altri”. Ma magari mi sbagliavo.
Chakuza trasalì, chiedendosi per un secondo se avrebbe potuto spacciare per legittima difesa afferrare il tagliacarte sul tavolo e infilarglielo nello stomaco. Quel tizio stava palesemente cercando di farsi pestare, e per quanto lui fosse in genere un uomo equilibrato e socievole e privo di rabbia trattenuta o frustrazioni varie ed eventuali, ecco, atteggiamenti simili erano proprio ciò che lo faceva esplodere. A prenderlo in etichetta loro gli stavano facendo un dannato favore, lo capiva o no il citrullo?, o pensava che gli occhioni azzurri e il sorrisetto spavaldo da soli bastassero a guadagnarsi un posto di lavoro? Avesse avuto magari un paio di tette in più, forse sì, ma a queste condizioni si trattava solo di prenderlo e sbatterlo fuori a calci nel sedere.
Stickle rise con un tono paterno che lo infastidì oltremodo e si frappose fra loro, piantando le mani sui loro petti.
- Vedo che andate già d’accordo. – annuì, e Chakuza si chiese se per caso fosse pazzo, - Lo produrrai proprio bene quest’album, Chaky. – e lì non si chiese più niente. Stickle era pazzo. E basta.
- Io non voglio produrlo. – gli fece notare Chakuza, indicandogli Fler, così che poi Stickle non potesse dire “eh, ma lui ha detto solo ‘non voglio produrlo’ senza specificare di chi stesse parlando, ho pensato si riferisse alle begonie nel vaso sul davanzale”.
- Naturalmente, Chaky. – lo ignorò bellamente il DJ, - Per te va bene, Fler?
Losensky scrollò le spalle, nel tutto disinteressato.
- Come ho già detto, a me il suo stile piace abbastanza, perciò-
- Ma a che gioco stai giocando?! – strillò ancora Chakuza, e solo la mano di Stickle ancora piantata sul petto gli impedì di sporgersi in avanti ed assestargli un cazzotto di quelli seri dritto sul muso.
- Tu sei proprio fuori. – commentò la faccia da schiaffi, allontanandosi e prendendo la via della porta, - Allora ci si vede domani per firmare il contratto, eh? – salutò senza nemmeno guardarli, uscendo.
Solo quando la sua aura palesemente indisponente ebbe abbandonato la stanza, Chakuza poté dire di aver cominciato a respirare normalmente e senza provare inconsulte pulsioni omicide.
- Dico, ma che ti salta in mente di prendere Fler alla Beatlefield?! – esplose, liberandosi dell’ingombro della mano di Stickle e prendendo ad aggirarsi nervosamente per l’ufficio.
- Che ti salta in mente a te di comportarti come un bambino delle elementari, semmai. – borbottò per tutta risposta Stickle, avvicinandosi al proprio portatile e digitando velocemente un indirizzo sulla tastiera, - Dico, le hai viste che percentuali di vendite? Fattura più di Sido. Non ti ricorda niente, questo?
Chakuza si mise a borbottare, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido. – rispose di malavoglia, guardando altrove.
- Esatto. – annuì Stickle, sorridendo comprensivo, - E chi è Bushido oggi?
Chakuza roteò gli occhi e ricominciò a camminare nervosamente in giro, avvicinandosi contrariato all’appendiabiti per recuperare la propria giacca.
- Ho capito l’antifona, Stickle. – annuì alla fine, - Vado a suicidarmi, così dopo tu potrai avere la tua gallina dalle uova d’oro ed essere felice. Pensami, ogni tanto, quando sarò morto.
L’uomo lo salutò ridendo.
- Sarà fatto. – aggiunse, osservandolo andare via. Il fatto che non cercasse di rassicurarlo, in effetti, non era per niente rassicurante.

*

Andare a parlare con Bushido di Fler in casa sua rientrava probabilmente nella lunga lista di peccati mortali non detti per i quali Bushido poi si sarebbe sentito in diritto di condannarti a morte ed eseguire la condanna seduta stante. Chakuza ne era perfettamente cosciente, mentre varcava il cancelletto dell’enorme villa gialla e si immetteva sul selciato, diretto alla porta dopo che, dal citofono esterno, la voce allegra di Bushido l’aveva salutato con un gioviale “Ohi, Chaky, che bella sorpresa! Dai, vieni dentro!”.
Con aria terrorizzata, Chakuza spinse la porta d’ingresso e si ritrovò nel caldo, confortevole e rassicurante ingresso di casa Ferchichi. Tutto era esattamente come al solito: perfetto, pulito ed ordinato. Bushido giocava a World of Warcraft alla propria postazione pc e Kay e D-Bo si stavano drogando di Spongebob svaccati sul divano appena intuibile nell’area del salotto più lontana da dove si trovava lui.
- Chaky, finisco di sterminare questa merda e sono subito da te! – strillò Bushido, pestando con entusiasmo sulla tastiera senza fili che teneva comodamente adagiata sulle ginocchia, - Devo dirti una cosa stupenda!
- Eh… - mugolò Chakuza, già emotivamente distrutto, - Anche io dovrei parlarti.
Al sentirlo tanto afflitto, Bushido – che si faceva un gran vanto dell’essere sempre a disposizione dei suoi sottoposti, qualsiasi problema potessero avere – lasciò gli orchetti al loro triste destino e si alzò dalla postazione, raggiungendolo all’ingresso.
- Chaky! – gli disse con aria preoccupata, - Che succede? Sei uno straccio.
Chakuza agitò una mano.
- Non preoccuparti. Dimmi, piuttosto, questa bella notizia…?
Bushido cominciò a risplendere di luce propria, trascinandolo verso la cucina e piantandolo su uno sgabello mentre come niente tirava fuori due bottiglie di birra ed un’enorme ciotola piena di patatine e salatini vari.
- Indovina chi ha perso il proprio posto di punta di diamante dell’etichetta, proprio oggi? – disse poi con aria cospiratoria, mandando giù patatine a manciate, evidentemente preso dall’euforia del momento.
Tale stato d’animo non poteva essere certo usato per descrivere Chakuza, il quale, per conto proprio, con le patatine ci si sarebbe volentieri strozzato per essere dispensato dall’obbligo di rovinare la giornata a quello che, in fondo, era un uomo buono e incolpevole.
- …no, dimmelo tu. – disse, forzando un sorriso e ritrovandosi poi a sorridere più sinceramente mentre Bushido si appollaiava su uno sgabello di fronte a lui, tirando su i pantaloni larghissimi e cascanti della tuta, perché la smettessero di impicciarlo nei movimenti.
- Fler! – rivelò quindi, battendo divertito una mano sul tavolo, - Pare che abbia messo le mani sulla donna di Sido. Voglio dire, onore al merito, stavano insieme da, tipo, secoli e non c’era mai riuscito nessuno, almeno che io sappia, e io so sempre tutto, però che goduria sapere che ora è a spasso senza sapere dove battere la testa! – esultò raggiante, ricominciando a mandare giù patatine e birra in quantità uguali.
- Eh… - biascicò Chakuza, deglutendo faticosamente, - pensa un po’…
Seguì un imbarazzante momento di silenzio. O meglio, Bushido continuò a parlare – Dio solo sapeva per dire cosa: probabilmente per continuare a prendere in giro questa nuova e allettante versione di Fler vagabondo privo di lavoro che tanto lo entusiasmava – ma Chakuza non colse una parola del suo monologo, preso com’era a cercare di farsi coraggio da sé.
In fondo era un uomo. Un capo, a suo modo. Stickle contava su di lui per una pensione più che decorosa, ed in effetti Fler vendeva davvero tanto, e se lui voleva aprire la catena di ristoranti che era sempre stata il suo sogno fin da quando aveva capito cosa significava sognare, be’, un aiuto economico in più oltre agli introiti dei duetti col King avrebbe certamente fatto comodo.
Sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.
- Ehm… Bushido? – lo chiamò, fermandosi perché l’uomo potesse concludere la risata che s’era provocato da solo con qualche battuta incredibilmente arguta che si sarebbe persa nelle sabbie del tempo, - Indovina un po’ chi è che è passato oggi alla Beatlefield? – buttò poi fuori tutto d’un fiato, onde evitare ripensamenti dell’ultimo minuto.
Se si fosse trovato di fronte a un uomo mediamente stupido, il dialogo sarebbe proseguito come da copione in una sequela di “uh? No, dimmi tutto”, che l’avrebbero probabilmente ucciso molto prima che lui potesse decidersi a confessare il fattaccio, ma fortunatamente – o sfortunatamente – per lui, Bushido non era mai stato un uomo mediamente stupido e nemmeno mediamente intelligente: era, piuttosto, il classico esempio di genio male applicato. Volendo, avrebbe potuto essere un nobel in qualsiasi cosa, ma dal momento che aveva preferito sprecare giovinezza e adolescenza spacciando e imbrattando i muri di Tempelhof, ecco che si ritrovava milionario, proprietario di una quantità indecente di roba e famoso praticamente in tutta l’Europa, oltre che per lo meno noto in tutto il mondo conosciuto. Il che dava davvero un’idea di cosa avrebbe potuto diventare se solo si fosse applicato.
Ed infatti Bushido non lo deluse. La sua espressione divenne immediatamente, da allegra e giovale, cupa e irritata. Chakuza tremò sul proprio sgabello, mentre l’uomo lo fissava intensamente e poi lasciava scorrere sulla lingua poche lettere – abbastanza per mandarlo nel panico, comunque.
- No.
- …Atze, non-
- No.
L’austriaco sospirò profondamente, pinzandosi la radice del naso ed andando alla ricerca delle parole più adatte per spiegare a Bushido che Stickle ci teneva proprio a comprare una villa alle Maldive. Aveva una mezza idea che la risposta di Bushido sarebbe stata quanto di più simile a “si fotta Stickle” potesse essere pronunciato senza utilizzare le parole “si fotta Stickle”, appunto, ma provare non costava niente, in fondo. Magari una o due braccia staccate via nell’impeto momentaneo della rabbia, ecco.
- Atze, Stickle pensa che-
- Si fotta Stickle! – disse Bushido, dando prova di ammirevole schiettezza, saltando in piedi e aggirandosi nervosamente per la cucina esattamente come Chakuza ricordava di aver fatto neanche un’ora prima in ufficio, - Ma soprattutto si fotta Fler! Voi non lo prenderete alla Beatlefield.
“Sono assolutamente d’accordo”, avrebbe voluto rispondere Chakuza, ma la questione si faceva complicata, arrivati a quel punto. Primo: Bushido, ogni tanto, aveva bisogno di essere arginato; aveva questa tendenza a prendere il controllo pure di cose su cui sommariamente non avrebbe dovuto osare mettere bocca, quindi ogni tanto, quando partiva coi suoi deliri da patriarca onnipotente, c’era bisogno di qualcuno che gli dicesse “sì, certo caro, ma anche a cuccia, vuoi?”. La Beatlefield era solo un’affiliata dell’Ersguterjunge, non ne era parte. E lui e Stickle erano liberi di prendere qualsiasi decisione volessero senza che per questo Bushido si sentisse in diritto di porre veti ogni piè sospinto. Secondo poi: loro erano comunque degli uomini d’affari ai quali, in poche parole, delle beghe passate di due ragazzini che non erano stati in grado di dimenticarsi, poteva fregare limitatamente. Nel senso, se c’era da battere una pacca sulla spalla a Bushido perché ora Fler usciva con la sua ex, lo si faceva. Ma niente di più. Terzo ed ultimo: alla questione della catena di ristoranti lui aveva pure cominciato a farci la bocca, alla fine.
Partendo da queste considerazioni, Chakuza si preparò a vedere sfumare la prospettiva di una serata tranquilla – e anche di evitare un litigio con Bushido – e si rassegnò ad una morte lenta e dolorosa.
- Atze, senti, lo sai che io in genere sono con te qualsiasi cosa tu dica. Lo sai, vero? – Bushido ringhiò e spalancò il frigorifero, infilandoci dentro la testa alla ricerca di qualcosa con cui trastullarsi, - Quando ti sei trasferito nella villa e Saad ti ha riso in faccia dicendoti che avresti fatto la figura del deficiente andando a vivere in una casa gialla, chi ti è rimasto al fianco fino all’ultimo ed ha convinto Kay e D-Bo a dividere le spese con te?
- …tu. – mugolò Bushido riemergendo dal frigorifero con due fette di pane fresco ed un chilo di salumi di ogni tipo.
- Esatto. E quando hai deciso di duettare con il signor Gott ed Eko ti ha tenuto il muso per un mese e mezzo dandoti del coglione col cervello in salamoia? Chi è che ti è rimasto accanto?
- Be’, per la questione Gott ho dovuto rinunciare al contratto con MTv, in fondo, e-
- Chi è che ti è rimasto accanto, comunque? – lo interruppe Chakuza, sudando freddo.
Bushido sospirò profondamente, cominciando ad imbottire il panino.
- Sempre tu. – ammise alla fine, tornando ad abbattersi sul proprio sgabello.
- Ecco. – annuì soddisfatto Chakuza, - Quindi, ti dispiacerebbe, adesso, essere tu, per una volta, quello che resta accanto a me, visto che ne ho bisogno?
Bushido trangugiò un morso di panino e sbuffò.
- Be’, detta così è terribilmente gay, Chaky, ma ho capito dove vuoi andare a parare.
Chakuza si fermò un attimo a riflettere sul fatto che uno che scrive una canzone in cui, praticamente, fa una dichiarazione del tipo “ci siamo tanto amati ma ora andiamo ognuno per la propria strada” ad un altro uomo, palesemente non ha il diritto di dire a qualcuno cosa suoni o non suoni gay, ma ritenne poco saggio mettersi lì a dibattere il punto con Bushido. Soprattutto perché il “ci siamo tanto amati” era riferito proprio al Losensky che era da sempre il centro di tutti i pensieri di vendetta di Bushido, e siccome “chi disprezza compra” è un detto, ma anche una grande verità, l’austriaco decise che, per quella volta, sarebbe stato il caso di lasciar correre, ed annuì.
- Quindi? – insisté invece, piegandosi un po’ verso di lui per guardarlo negli occhi anche se lui aveva già abbassato lo sguardo sul panino imbottito.
Bushido sospirò per l’ennesima volta e scrollò le spalle.
- Quindi niente. – concesse infine, - Basta che gli mettiate una museruola se per caso gli salta in testa di fare il mio nome. Per il resto, avete carta bianca.
Un’altra cosa veramente poco opportuna di Bushido era come fosse in grado di rigirare le frittate come nemmeno lui – che pure aveva un diploma di cuoco – sapeva fare. Lui non gli aveva chiesto un fottuto permesso, gli aveva chiesto sostegno! Ma per come l’aveva messa il tunisino sembrava chissà che dannata concessione regale.
Chakuza sospirò a propria volta: visto quanto aveva rischiato, tutto sommato, poteva dirsi contento così.

*

Quando arrivò alla Beatlefield, l’indomani mattina, sembrava quasi che si fossero tutti organizzati per non essere presenti al momento fatidico che avrebbe rovinato tutte le loro vite. Di Stickle aveva avuto notizia quella mattina tramite un sms che peraltro l’aveva svegliato senza alcun motivo alle sei, per informarlo che Saad era perso in chissà che delirio perché non riusciva a venire a capo di una traccia campionata che lo stava mandando ai pazzi, e che lui, da bravo DJ competente e responsabile, stava andando all’EGJ a dargli una mano. “Perciò non aspettarti di avermi fra i piedi, Chaky!”, era stata la gioviale conclusione del messaggio. Conclusione in seguito alla quale lui, fra le altre cose, aveva avuto voglia di prendere e schiantare il cellulare contro il muro, per poi tornarsene a dormire e mandare a fanculo un po’ tutto e tutti per il resto della giornata.
Il suo senso di responsabilità l’aveva comunque portato a muovere il culo verso le dieci e mezza, ed era perciò arrivato agli studi convintissimo di trovarli immersi nel solito fermento. Non che ci fosse mai un cazzo da fare, da quelle parti, soprattutto considerando che non c’erano album in uscita per i prossimi mesi, ma c’era sempre un sacco di gente a bivaccare attorno ai distributori automatici, per dire, e invece quel giorno niente, neanche un’ombra, solo lui, i – pochi – dischi d’oro, le pareti e l’eco.
Si aggirò per un po’ fra i locali vuoti e pulitissimi – almeno aveva la certezza che, nella prima mattinata, gli addetti al servizio di pulizia avessero fatto il loro dovere – e poi tornò a rifugiarsi  nell’ufficio che condivideva col fantasma di Stickle. Fu lì, mentre si perdeva in un’avvincente partita di Mahjong sul portatile, che lo raggiunse lo squillo gracchiante del citofono.
- Qualcuno… - cominciò a strillare con tono lamentoso, ma dalle profondità dei corridoi della Beatlefield non giunse che il riverbero della sua stessa voce, perciò alla fine si rassegnò e si mise in piedi, raggiungendo il citofono e schiacciando il pulsante dell’accettazione di chiamata, restando in attesa dell’immagine sullo schermo. La testa di Fler apparve – esageratamente tonda – pochi secondi dopo. - …ah, tu. – lo salutò con poco entusiasmo.
Fler sollevò lo sguardo sulla telecamera, e i suoi occhi – enormi, quella stupida telecamera era ridicola – invasero tutto il campo visivo di Chakuza.
- Alla buon’ora… - cominciò a lamentarsi Losensky, - Sono passato alle otto, alle otto e mezza, alle nove, alle nove e mezza-
- Sì, sì, capito l’antifona. – borbottò sbrigativo Chakuza, aprendo il portone esterno, - Mi sono svegliato tardi, okay?
- Quanta dedizione… - ghignò sardonico quello, spingendo il portone e sparendo alla sua vista. Fortunatamente, anche, perché fosse rimasto lì a sogghignare ancora un solo secondo Chakuza avrebbe cominciato a considerare seriamente la possibilità di affacciarsi al balcone e tirargli giù un mattone sulla testa, per dire.
Mentre attendeva che l’essere insopportabile che Bushido aveva tutti i diritti di odiare salisse le scale, Chakuza si chiese quale potesse essere il modo di accoglierlo per farlo sentire il più possibile sottoposto e asservito alle regole dell’etichetta – fra le quali andava assolutamente ricordata la clausola “non si parla male di Bushido neanche a fronte di possibilità di guadagno multimilionarie”. Alla fine, scorso il contratto che Stickle gli aveva lasciato in ordinata doppia copia sulla scrivania, decise che la tattica migliore era attenderlo seduto sul tavolo. Informale ma indice di una certa sicurezza di sé.
Si posizionò con un saltello sulla superficie in legno e si girò prima da un lato, poi dall’altro e infine, insoddisfatto, torno a mettersi dritto, così da poter scorgere la figura di Fler elegantemente svaccata contro lo stipite della porta, mentre il tipo lo guardava come fosse stato una cacchina di plastica con gli occhi o qualcos’altro di ugualmente stupido e ridicolo.
Ebbe appena il tempo di chiedersi da quanto Losensky lo stesse osservando, che la risposta giunse da sola sotto forma di risata derisoria: abbastanza da prenderlo in giro a vita per le ultime manovre, evidentemente.
- Ehm… - cercò di riportare il tutto su un piano più serio, indicando i contratti sulla scrivania, - Allora, le vuoi mettere queste firme o sei tornato solo a rompere le palle?
- Le metto, le metto… - rise ancora Fler, avvicinandosi alla scrivania e sedendosi dalla parte opposta del tavolo, - Dove?
- Abbiamo veramente molta fretta, eh? – ringhiò lui, scorrendo i fogli alla ricerca dei punti precisi e segnandoli con una x prima di passarli all’altro uomo.
- Certo che tu hai dei problemi molto molto seri, Pangerl. – lo guardò storto lui, prendendo i fogli e cominciando a stampare il proprio nome ovunque con la grazia del tagger che non aveva mai cessato di essere. A guardare la firma – proprio la firma per esteso, non l’autografo – di Bushido, si aveva sempre l’impressione che si trattasse di un medico o chissà chi; Fler invece riusciva ad essere grezzo pure firmandosi Patrick Losensky. Ce ne voleva, di malagrazia. – Prima mi dici di darmi una mossa, poi mi rimproveri perché faccio in fretta…
- Prima di tutto, chiamami Chakuza e manteniamo questo rapporto un rapporto lavorativo, grazie. – borbottò, passandogli anche la seconda copia del contratto, - Secondo poi-
- Ma già dissento sul primo punto. – ghignò Fler, riconsegnandogli il secondo contratto firmato e controfirmato, - Non intendo andare oltre il rapporto lavorativo, tranquillo. Anche perché, senza offesa, non sei proprio il mio tipo. Troppo basso, poco culo, pochissime tette. Decisamente passo il turno.
- Cristo benedetto… - esalò Chakuza, scendendo dalla scrivania per conservare una copia del contratto nel primo cassetto, - Toh, una ti tocca. E ora tornatene da dove sei venuto, - qualche antro infernale, c’era da supporre! – e fatti rivedere solo in compagnia di Stickle, visto che lui almeno ti sopporta.
Fler non obbedì, e Chakuza era sul punto di cominciare una convincente paternale su quanto fosse indispensabile eseguire all’istante gli ordini per coesistere con lui, quando si accorse che il tipo stava cercando di dirgli qualcosa. Non parlando, ovviamente, no: alla maniera di Bushido; guardandoti negli occhi con un cipiglio insofferente come a dire “dovresti aver già capito, sei scemo o cosa?”.
- Qualcosa non ti è chiara? – si informò, guardandolo con una certa curiosità.
Fler sembrò, per la prima volta in assoluto da quando aveva cominciato ad avere a che fare con lui, sinceramente confuso. O comunque privo di qualcosa da dire. Chakuza si sentì insospettabilmente orgoglioso si essere stato in grado di zittirlo senza tappargli fisicamente la bocca, e restò lì a gongolare in solitaria finché Losensky non si risolse a degnarlo di una risposta.
- Stickle… - cominciò, un po’ incerto, - mi aveva detto di cominciare a portare qualcosa, se volevo. E insomma, io qui ho un testo.
Chakuza lo guardò. A lungo.
Chissà perché, s’era aspettato che le parole del giorno prima fossero solo una sbruffonata. Perché uno che è appena uscito con un album dovrebbe avere ancora altro materiale? Uno, per avere una riserva di testi, deve… be’, lavorare. E farlo costantemente. Non solo in previsione di un album.
- Ah. – rispose stralunato, - Ah. Be’… d’accordo. – biascicò, grattandosi confusamente la nuca, - Vuoi… intendo, possiamo andare in sala prove. Se vuoi mi puoi fare sentire di cosa si tratta.
Losensky annuì senza esitazioni, e Chakuza diede la colpa per il senso di smarrimento che stava provando al fatto che all’Ersguterjunge non si lavorava quasi mai in maniera normale. Lì la questione “lavoro” era quasi sempre traducibile in “svacco estremo per mesi e mesi finché il King non fosse risorto dalle ceneri della propria tuta con una ventina di testi da distribuire in parti uguali e dai quali partire per creare qualcosa di per lo meno accettabile”. A quanto pareva, però, le abitudini all’Aggro Berlin erano completamente diverse.
Entrando in sala prove, Chakuza si vide accolto da una breve nota in cui Stickle gli faceva sapere che il suo sacrificio umano era stato molto apprezzato perché Bushido l’aveva cazziato solo mezz’ora – a fronte delle dodici ore di tortura che si sarebbe meritato, un gran guadagno, questo era indubbio – e che aveva già caricato i beat nel portatile in sala mixaggio, se aveva voglia di provare qualcosa con Fler. Chakuza appallottolò il foglio con una mano, stritolandolo con una certa immeritata furia, e lo gettò stizzito nel cestino dell’immondizia.
- Be’, se vuoi… - si voltò a cercarlo per indicargli dove e come mettersi, ma Fler aveva già infilato le cuffie e stazionava con aria assente davanti al microfono, probabilmente ripassando a memoria il famoso testo che doveva cantargli. – Ah. Certo che fai veramente come a casa tua, eh?
Fler gli rivolse un sorrisino sghembo, spostando il peso da una gamba all’altra.
- Funziona ovunque più o meno allo stesso modo, penso. – rispose con una scrollata di spalle. Chakuza annuì anche se non stava pensando niente del genere e si rifugiò in cabina di regia, oltre il vetro. Accese il microfono e restò in attesa.
- La prima la facciamo senza musica. – avvertì l’uomo dall’altro lato della stanza, il quale, per tutta risposta, annuì assorto, - Così magari capisco un po’ il ritmo e la cadenza e vediamo cosa metterle di sottofondo. Parti quando vuoi.
Dopodiché, si rassegnò a venire sommerso da una scarica di insulti più o meno pesanti e più o meno velati nei confronti di Sido, Bushido, Eko Fresh, possibilmente pure la donna che s’era scopato, le donne che s’erano scopate gli altri ed una buona quantità di madri – per non parlare di qualche eventuale padre – ed incassò la testa nelle spalle, cercando di farsi minuscolo sulla poltrona.
Ma il suo karma aveva evidentemente deciso di tirarlo scemo. E, neanche a voler evidenziare più efficacemente il punto, la canzone di Fler cominciò con un “ti ho amata” e si concluse con un “ti amo ancora”. E non – come era capitato spesso di dire prendendo in giro la sua relazione controversa con Bushido – un “ti amo” fraintendibile, una cosa che può essere anche amicizia, una cosa senza inflessioni e senza sesso, no: un “ti amo” vero. Un “ti amo” per una donna. Doreen. La donna di Sido.
Quando Fler smise di cantare – senza incespicare mai nelle parole, roba da non credersi, visto che Bushido farneticava di continuo, per dire, e lo stesso Fler nelle poche interviste che aveva visto e che lo vedevano protagonista, faceva del balbettio confuso una specie di cavallo di battaglia, soprattutto quando si infervorava – Chakuza per qualche secondo rimase lì a guardarlo attraverso il vetro mentre tornava ad aprire gli occhi – scurissimi nella penombra della sala insonorizzata – e riprendeva fiato.
- Be’? – lo sentì chiedere dopo qualche secondo, - Non ne scrivo quasi mai, roba così. – aggiunse con un certo imbarazzo, - L’ultima dev’essere stata tipo una dichiarazione d’amore per una compagna di banco alle elementari. Quindi magari se mi dici qualcosa…
Un po’ dubbioso, Chakuza si sporse in avanti e pressò un indice contro il pulsante che apriva la comunicazione dalla sala mixer alla sala prove, e poi però si rese conto di non avere niente di preciso da dire, perciò rimase lì a bocca aperta, vagamente confuso, incerto sul da farsi e, in generale, sostanzialmente stupito. Fler continuò a guardarlo con aria curiosa, dall’altro lato del vetro, e Chakuza si alzò in piedi, rimise la poltrona al proprio posto e lo raggiunse nella sala insonorizzata. Solo per prendere tempo. Per trovare qualcosa da dire – e non una cosa qualsiasi, perché il momento non era da cosa qualsiasi, era un momento che pretendeva di più.
- È… - cominciò, appoggiandosi contro una parete e incrociando le braccia sul petto, giusto per darsi un tono, - È un testo molto romantico. E lei, voglio dire, la citi proprio, la chiami per nome. È una cosa… messa così sembra che ti abbia preso parecchio, ecco.
Fler scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo.
- Io ero innamorato di Doreen. – confessò quindi, con una semplicità disarmante, - La nostra è stata una storia molto classica, Chakuza, sembra bella solo perché quando la canto lo faccio con un certo sentimento. Ma a conti fatti io sono stato un idiota e lei una troia, tutto qua. Lei mi ha tirato scemo per mesi, mi ha detto che avrebbe lasciato Sido e sarebbe rimasta con me e tutto il corredo di stronzate che si usano in genere per far cadere un maschio in una trappola. Ha detto di amarmi e invece voleva solo cambiare cazzo per un po’. Poi è tornata da lui strisciando come la vipera che è e lui, fra lei e me, ha scelto lei. – scrollò ancora le spalle, appoggiandosi a propria volta contro la parete, proprio accanto a Chakuza, - Io ci stavo bene all’Aggro. Il casino che ho montato negli scorsi mesi… - gli lanciò un’occhiata divertita, piegando appena un angolo della bocca in un sorriso sghembo, - …anche se sono sicuro tu non ne sappia niente… insomma, non l’ho montato perché stavo male nella crew. L’ho montato perché lei continuava a dirmi di non preoccuparmi, che alla fine sarebbe rimasta con me. E siccome mi stava sul cazzo che continuasse comunque a tornare nel letto di Sido, alla sera, mentre con me erano solo sveltine contro le pareti degli studi, non ci ho visto più, ed ho cominciato a prendermela con Sido. – sospirò pesantemente, scuotendo il capo con aria vagamente abbattuta, - L’ho fatta io, la cazzata. Mica Sido. Ha fatto bene a buttarmi fuori. Magari è la volta buona che comincio a imparare dai miei errori.
Chakuza annuì lentamente, metabolizzando con un po’ di fatica le parole dell’uomo. Era abituato ad essere circondato da uomini che, come niente, ti buttavano sul tavolo la storia intera della loro esistenza – Bushido era così, per dire – ma si trattava di personaggi carismatici e accentratori, gente che, se non aveva la tua completa e totale attenzione, non riusciva a stare tranquilla. Quello di Fler però non era stato un tentativo di mettersi al centro del mondo, era stato solo… uno sfogo. Una cosa anche piuttosto intima, volendo. Era strano, Losensky, avere a che fare con lui era un po’ come camminare su una lastra di vetro. C’era da chiedersi quando si sarebbe spaccata ferendoti i piedi.
- Sai, - disse infine, stringendosi nelle spalle, - quando hai detto a me e Stickle di esserti scopato la donna di Sido… cioè, non sembrava che dietro ci fosse tutto questo. Non sembrava che la amassi, intendo.
Fler sbuffò, appoggiandosi più comodamente al muro.
- La vita mi ha insegnato a disamorarmi in fretta. – borbottò, e sembrò sincero nel dirlo, anche se c’era una strana luce nostalgica nei suoi occhi, qualcosa che li rendeva insolitamente brillanti eppure allo stesso tempo insolitamente cupi, qualcosa che impedì a Chakuza di prenderlo completamente in parola.
Annuì, comunque, perché non era certo compito suo mettersi lì a disquisire degli affetti di Fler. Non si conoscevano da nemmeno due giorni ed aveva comunque dei seri dubbi che Fler gli avrebbe dato il permesso di farlo anche se i giorni fossero stati un migliaio o un milione. Peraltro, non credeva di averne nemmeno alcuna voglia.
Sistemandosi più comodamente contro la parete e sollevando un piede contro il muro, Chakuza tirò su la manica destra della maglietta e mostrò a Fler l’avambraccio. L’altro inarcò un sopracciglio e lo fissò dubbioso per molti istanti.
- Sì, bei ghirigori. – rispose alla fine, con un vago cenno d’assenso, - L’effetto quale doveva essere? Tirarmi improvvisamente su di morale mostrandomi la meraviglia dei tuoi flessori e dei tuoi estensori? Perché guarda che, tanto per cominciare, non sono niente di che, e comunque io non sono giù di morale.
Chakuza sbuffò e gli tirò una gomitata neanche troppo discreta nelle costole.
- Sotto questi ghirigori c’è scritto Silvia. – rivelò quindi, tornando a mettere a posto la manica, - È stata la mia donna per un sacco di tempo. Era una cosa seria, insomma. Almeno fino a quando non ha deciso che non era più il caso che continuasse.
Fler sospirò e scrollò le spalle.
- Non si scrivono addosso i nomi delle donne. Si sa che quelli non durano per sempre.
- Be’, tu hai addosso ovunque il simbolo dell’Aggro Berlin, no? Non mi pare sia durato tanto più a lungo di Silvia.
Fler guardò altrove, allontanandosi un po’ da lui. Aveva un modo molto fisico di dimostrare l’offesa e l’imbarazzo, si ritrovò a pensare Chakuza. Era in tutto e per tutto simile a quei bambini spacconi che però, quando la maestra o un genitore li rimprovera, finiscono sempre per mettersi in un angolino a giocare coi cubi di gomma cercando a stento di trattenere le lacrime, tenendo su il broncio per tutta la giornata e rifiutandosi di farsi prendere in braccio o anche solo accarezzare.
Chakuza sospirò profondamente.
- Mi dispiace. – borbottò, - Non volevo rigirare il coltello nella piaga. Solo che mi pare che a volte tu non ti renda conto di quanto sei irritante.
- Ti sbagli. – sospirò a propria volta Fler, - Lo faccio apposta. Mi dispiace che la tua donna ti abbia mollato.
Chakuza annuì semplicemente, scrollando le spalle.
- Era solo per dirti che so come ti senti. Voglio dire, non c’è bisogno che tu mi dica che non stai male o cose simili. Non c’è neanche bisogno che tu mi dica come stai, in realtà.
Fler rise a bassa voce ed annuì, sollevando anche lui un piede contro la parete. Chakuza immaginò dovessero sembrare abbastanza ridicoli, a guardarli così. Nella penombra della sala prove a chiacchierare delle loro pene d’amore.
- Quindi… - riprese alla fine, spezzando il silenzio degli ultimi istanti, - quella canzone lì vuol dire che non ci saranno diss, nell’album che uscirà con noi?
Lui lo fissò come fosse appena sceso dalla luna.
- Scherzi? – lo prese in giro, rimettendosi dritto e ficcando le mani nelle tasche dei jeans, - Ho già pronte a casa almeno cinque o sei tracce in cui spalo merda su di lei, su Sido e anche su una buona metà delle loro famiglie.
Chakuza rise, e rise anche Fler. All’interno degli studi deserti, il suono non riverberò nemmeno in maniera troppo fastidiosa.

*

- Insomma, capisci, - blaterò Chakuza, gesticolando con aria agitata, - si può lavorare con lui!
Eko – che, quando quella mattina s’era installato sul divano della villa di Bushido mettendo mano alla Wii, aveva progettato tutto meno che dedicare tre o quattro ore all’ascolto degli sproloqui lavorativi di Chakuza – sospirò teatralmente e si abbatté di schiena contro il bracciolo del divano, guardandolo con l’aria di un martire.
- Chakuza… - borbottò, mostrandogli il controller della consolle come a cercare di fargli notare senza dirglielo che aveva di meglio da fare, - È un essere umano, non ha dodici anni, è un rapper famoso. Perché ti stupisce tanto che lavori?
- Perché… - balbetto lui, grattandosi confusamente la nuca, - lavora! Cioè, arriva, si mette lì dietro al microfono, ripassa il testo un paio di volte e canta! Non cazzeggia, non rompe i coglioni perché vuole portato il caffè ogni tre minuti, non fa i capricci se per caso il geranio sulla finestra è piegato a sinistra piuttosto che a destra e questo lo distrae e lo obbliga a impappinarsi-
- Sì, Chaku! – lo interruppe malamente Eko, alzando il tono della voce, - Il fatto che Bushido in sala di registrazione sia una piaga, non ti autorizza a stupirti come se fossi di fronte a un lecca lecca di dieci metri, se per caso becchi un rapper che sa rappare!!!
Lui incassò la testa fra le spalle ed aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Non sono stupito come davanti a un lecca lecca! – precisò offeso, - È solo che è strano, non c’ho mai lavorato, con uno così. Stickle è ordinato, nelle sue cose, per dire, ma Fler… voglio dire, è tipo meccanico. È come se fosse programmato!
Eko continuò a fissarlo con aria allucinata, prima di grattarsi la fronte e rimettersi dritto, per guardarlo più comodamente negli occhi.
- Chaku, fa il suo lavoro. Cioè, non capisco cos’è che ti turbi in questa maniera. Sul serio.
Bushido scelse proprio quel momento per planare addosso a Chakuza con la delicatezza di un elefante in una pozza di fango, abbattendosi senza discriminazioni sul divano, su di lui ed anche su Eko, mandando all’aria il joystick e lasciando che le uova che il personaggio del videogame stava cercando di ribaltare nel tegamino finissero rovinosamente sul tappetino virtuale che adornava il pavimento dell’altrettanto virtuale cucina.
- Cos’è che turba Chaky? – chiese, gli occhi castani spalancati mentre si sistemava tranquillamente in mezzo a loro, costringendoli a farsi minuscoli sui lati opposti del divano.
- Cristo Iddio, Bushido! – lo rimproverò Eko, tirandogli uno scappellotto dietro la nuca, - Mi hai fatto perdere!
Sullo schermo al plasma, la ragazzina tonda, bionda e dagli enormi occhioni azzurri che stava maneggiando la padella, scoppiò in lacrime, crollando in ginocchio sul pavimento.
Bushido scrollò le spalle.
- Puoi ricominciare. – disse altezzoso, ruotando di novanta gradi per ignorare fisicamente Eko e concedere tutta la propria attenzione al suo Chaky turbato. – Dicevi?
- Fler! – borbottò Chakuza, stringendosi nelle spalle.
Bushido lo guardo con tanto d’occhi e poi sospirò.
- Chaky… saranno passate già due settimane… lo so che ha due occhi che disorientano e un bel culo, ma per favore, riprenditi!
- Ma non c’entra niente!!! – strillò Chakuza, mentre Eko scoppiava a ridere alle spalle di Bushido, - Io parlavo di tutt’altro!
- Oh, senti, Chaku… - rincarò il turco, ricominciando a far rimestare impasti alla bimba sullo schermo, - l’abbiamo pensato tutti, sai? Ho chiesto anche a Saad, Danny, Kay, Nyze… e tutti quelli con cui hai parlato ultimamente sono d’accordo nel dire che non se ne può più di sentirti parlare di Fler!
Bushido annuì, incrociando seriamente le braccia sul petto.
- Davvero, Chaky. – aggiunse, - Io ti avverto, lo conosco, Fler è pericoloso. Non è tanto che si appiccichi, il problema… anche se lo fa… comunque non è tanto quello il problema, tanto più il fatto che quando si appiccica poi a te non viene tanto voglia di scollartelo di dosso, sai?
- Mi pare… - biascicò Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica, - che qua stiate dando per scontata una cosa che non è affatto scontata.
Eko e Bushido si guardarono a lungo e poi tornarono a fissare lui.
- Be’, che ti piace ormai è chiaro, no? – disse il primo.
- Appunto. – annuì il secondo.
- Ma neanche per un cazzo! – abbaiò Chakuza, saltando in piedi, - Ma che roba! Ohi, io sono eterosessuale, eh?!
- Chaky, la sessualità è un flusso. – annuì Bushido, con aria enormemente competente, - Metti che io ora mi volto e vedo che Eko ha un’espressione carina-
- Oh! – protestò quello, agitando un pugno. Bushido lo rabbonì con una carezzina sulla testa.
- No, Eko, dico per ipotesi. Dicevo, - riprese, tornando a rivolgersi a Chakuza, - metti che mi volto, Eko ha un’espressione carina e in virtù di ciò a me viene voglia di farmelo. Che mi frega di collocarmi da una parte o dall’altra della barricata? Intanto voglio farmelo!
- L’immagine mentale – confessò Chakuza, scosso da un brivido, - è raccapricciante. In sostanza, cos’è che stai cercando di dirmi?
Bushido sospirò, si accomodò contro lo schienale del divano e poi si espresse in uno di quei sorrisi ampi e furbi che ti davano sempre l’idea di essere un coglione, perché l’avevi magari trattato da cretino fino a quel momento ma in realtà era lui che si stava prendendo gioco di te.
- In linea generale, Chaky, pensa di meno e scopa di più. Nel particolare… - scrollò le spalle e sorrise ancora, - gestisciti Fler. Perché se continui così non te lo togli più dalla testa, sai?
Eko annuì partecipe, facendo saltare le uova nel tegamino della bimba.
- Pensa a lui! – aggiunse, senza nemmeno guardarli, - Ci ha messo anni!
Bushido lo ribaltò sul divano con uno spintone.
- Non è vero neanche per un cazzo!
Eko, costretto a far cadere di nuovo le uova per terra, gli saltò addosso, ringhiando frustrato.
- Ora lo vediamo, cos’è vero e cosa no!
Chakuza lasciò l’appartamento che quei due ancora si menavano.

*

La voce di Fler gli stava scivolando in brividi dalle orecchie alle spalle passando per il collo. Questo, Chakuza doveva ammetterlo e basta. Avevano registrato almeno una decina di tracce, nelle ultime settimane – erano diventate ormai più di tre, i giorni si rincorrevano veloci perché Fler aveva ritmi frenetici, sul lavoro, ed era stato Chakuza a doversi adattare, se non altro per non fare una figura del cazzo di fronte ad uno che, a conti fatti, era pure più piccolo di lui – ma per quanti giorni potessero passare, per quante canzoni potesse aggiungere all’elenco e per quante volte potesse riascoltarle tutte, Doreen restava una delle cose migliori che avesse sentito nell’ultimo anno.
Era un po’ comico come, in un mondo quasi privo di donne – donne, non puttane – qual era quello del rap, le canzoni migliori fossero sempre quelle dedicate a loro. Bushido aveva dato il meglio con Jenny e con Janine. Fler aveva Doreen.
Lui aveva avuto Silvia, per un po’. Era pur vero però che su Silvia lui non aveva mai scritto una parola.
Si alzò in piedi, sospirando pesantemente e sfilando le cuffie, poggiandole delicatamente sul mixer, stando attento a non combinare danni. La Beatlefield era vuota e silenziosa già da almeno un paio d’ore. Stickle era passato a salutarlo prima di tornarsene a casa e godersi un meritato riposo e l’impresa di pulizie non sarebbe arrivata prima dell’indomani alle cinque.
Lanciò un’occhiata distratta al quadrante dell’orologio a muro: segnava mezzanotte passata da una decina di minuti abbondanti; magari avrebbe dovuto tornare a casa anche lui. Il meritato riposo di cui sopra gli spettava in quanto diligente lavoratore. In quelle ultime settimane s’era letteralmente sfiancato, dannazione pure a Fler ed a quella sua assurda iperattività.
Spense le luci dall’interruttore principale ed imprecò nel buio. Aveva dimenticato di prendere la fottuta giacca, prima. Tirò fuori il cellulare dalla tasca e lo utilizzò a mo’ di lampadina, vagando a tentoni lungo il corridoio e verso l’ingresso, alla ricerca dell’attaccapanni. E continuò a camminare così fino a quando qualcosa non lo frenò a metà di un passo. Qualcosa di grosso e compatto come un enorme gomitolo di lana lasciato lì in mezzo al niente. Qualcosa che, quando lui vi inciampò addosso, rischiando pure di coinvolgerlo in una rovinosa caduta e riuscendo a salvarsi solo per forza di volontà, mugolò un lamento sofferente e poi lo mandò a fanculo.
Qualcosa che parlava con la voce di Fler. E che quindi non era qualcosa. Era Fler.
- Fler? – chiamò stupito, tastandolo un po’ ovunque con aria incredula, come a volersi sincerare fosse davvero lui e non, tipo, una sagoma di cartone. Parlante, magari. In qualche modo doveva spiegarli, il mugolio ed il vaffanculo.
- E togliti di mezzo… - continuò a lamentarsi l’altro, spingendolo lontano con poca convinzione e tirandogli una gomitata nelle palle quando, con frustrazione, si accorse di non riuscire a mandarlo via.
- Ma che cazzo ci fai qui?! – chiese Chakuza, cercando con poco successo di tirarlo in piedi, - Perché stai seduto? E come hai fatto a entrare?!
- Mi stai… facendo troppe domande. – concluse Fler in un lamento frustrato, muovendosi appena nell’ombra. Chakuza ascoltò il fruscio della sua felpa di acrilico, che sfregava contro la parete ogni volta che Fler si spostava per mettersi comodo.
- No, non direi… - borbottò rinunciando al proposito di metterlo dritto e sedendosi quindi accanto a lui, - Ti sto facendo le domande giuste. Che è successo?
- Un cazzo. – biascicò lui, spintonandolo con una spallata, - Lasciami in pace.
- Sei praticamente a casa mia! – gli fece presente Chakuza, aggrottando le sopracciglia, - Devi ancora spiegarmi come sei entrato e… ma sei ubriaco?
- No! – sbottò Fler, massaggiandosi le tempie, - …ero ubriaco prima di addormentarmi qui, tipo.
- Ah, certo. – ridacchiò lui, inarcando le sopracciglia e restituendogli una spallata meno ostile, - Questo cambia tutto. Stickle ti ha dato le chiavi? – ipotizzò quindi, immaginando che, altrimenti, Fler non gli avrebbe mai dato una spiegazione.
- Mhn. – annuì semplicemente l’altro, sistemandosi un po’ contro il muro ed un po’ contro la sua spalla. Un po’ come capitava, in realtà, spargendo quelle chilometriche gambe ovunque lungo il corridoio stretto. – Tipo una settimana fa. Dice che ormai sono di casa.
- Be’, è vero. – ammise lui, cercando di sistemarsi in modo che Fler non gli pesasse troppo addosso, - Quindi?
- Quindi cosa? – borbottò, tirandogli un calcio nello stinco per costringerlo a stare fermo, una buona volta.
- Quindi cos’è successo? Com’è che sei in queste condizioni?
Fler sospirò profondamente, e rimase zitto per qualche secondo, come chiedendosi se fosse il caso di sbottonarsi sull’accaduto o meno.
- Avanti, Fler. – lo incitò Chakuza, sgomitandolo fra le costole, - Mi hai praticamente raccontato tutto della tua ultima storia d’amore, cos’altro vuoi nascondermi?
Fler ridacchiò a bassa voce, massaggiandosi lentamente il fianco dolorante.
- …non lo so, in effetti. – biascicò, poggiando il capo contro la parete, - Forse non voglio dirti che sono tornato da lei strisciando. Non è una cosa di cui andare granché orgogliosi, ti pare?
Chakuza sospirò, lasciandogli una pacca consolatoria su una spalla.
- Sei un uomo e sei innamorato… - lo giustificò conciliante.
- Mah… - rispose Fler, scrollando le spalle, - Sono andato da lei completamente ubriaco. Non lo so, non… non ho fatto un tentativo di tornare insieme. Volevo mandarla a fanculo, credo. Volevo vederla, cazzo.
- …cosa ti ha detto?
Fler rise amaramente, scuotendo il capo.
- Che, per la scopata che sono stato, sto facendo fin troppo casino. – si fermò un attimo, immobile. Mentre la sua vista si abituava al buio, Chakuza intuì i suoi occhi nell’oscurità e li fissò con attenzione, in cerca di un qualche tremito o incertezza. Che non arrivò. – Non penso che potrò mai dimenticarlo.
Chakuza si inumidì le labbra, annuendo lentamente.
- Silvia mi ha lasciato dicendomi che non riusciva neanche a pensare di potersi svegliare un altro giorno dopo aver dormito al mio fianco. – disse d’un fiato, guardando fisso davanti a sé mentre Fler – lo sentiva sulla pelle – gli spostava gli occhi addosso. – No, non sono cose che si dimenticano, mi dispiace. Però ricordarle ogni giorno ti permette di mandarle a fanculo con tutta la convinzione che meritano, non ti pare?
Fler si sistemò appena contro la sua spalla, raddrizzando la schiena e voltando un po’ il viso. Attraverso il cotone della felpa Chakuza poté sentire il calore dello sbuffo di fiato nel quale venne fuori la sua risatina un po’ rassegnata e un po’ sinceramente divertita.
- Che sfigati siamo. – lo sentì commentare ironicamente, senza intenzioni offensive, - Cos’è che avevi fatto alla tua donna, Chakuza?
Lui scrollò le spalle.
- Credo di averla voluta sposare. – rispose un po’ incerto, - Mi sa che mi sono fatto prendere la mano. Sai quando ti esalti…
- Sì, lo so bene. – rise ancora Fler, e stavolta il fiato Chakuza lo sentì direttamente sulla pelle del collo, - Sei un tipo romantico, mh?
- Quando m’innamoro, m’innamoro. Tutto qua. – borbottò lui, imbarazzato. – È così anche per te, no? Hai fatto la rivoluzione…
- Mi sa che dovremmo imparare a sceglierci meglio gli innamorati, Chakuza. – annuì Fler, piegando una gamba e sfiorandolo involontariamente col ginocchio, - Io toppo tipo di continuo. Non me ne va bene una.
Chakuza rise apertamente, ricambiando la ginocchiata involontaria con una volontaria e dando a Fler il la per partire con un gioco di spintarelle simili.
- Parli come un ragazzino. – gli fece notare, - Si sente che sei più giovane di me.
- Guarda che è solo un anno di differenza! – rise ad alta voce Fler, - Senti che roba…
- Be’, un anno ha il suo peso, in queste situazioni! – si lamentò Chakuza, sentendosi improvvisamente molto stupido, - Io non ho frignato, quando Silvia mi ha lasciato, per dire.
- Nemmeno io sto frignando! – ritorse Fler in un borbottio infastidito, - Alla fine ce l’ho mandata a fanculo, eh?
- Oh, sì, me lo immagino. – annuì Chakuza, - “Ti prego, Doreen, non faccio che pensarti, torna con me!”… è così che mandi a fanculo la gente, tu?
- Fanculo. – lo spintonò Fler, per tutta risposta, - È così che mando a fanculo la gente. Tu, comunque, sei uno stronzo. Non si consolano mica così, le persone. Che roba, veramente. Uno viene qui, ti si addormenta nei corridoi degli studi e tu prendi e gli dai del moccioso. Sei acido. Ora prendo e-
Non riuscì nemmeno a concludere la frase, Chakuza non lo lasciò finire. Senza nemmeno chiedersi perché avesse voglia di farlo – o se farlo fosse opportuno, tanto per cominciare – si voltò nella sua direzione e lo baciò.
Quando si separò da lui, gli sarebbe piaciuto poter dire che quello che si erano scambiati era stato un bacio equivocabile. Come quelle cose imbarazzantissime che capitano ogni tanto, in cui vuoi salutare qualcuno baciandolo su una guancia però in qualche modo non vi capite bene e la cosa finisce in uno sfregamento fugace di labbra ed in un sorriso ed una scusa impacciati biascicati confusamente mentre ci si allontana. O come quando continui a scontrarti col tizio che ti sta di fronte sul marciapiedi, perché lui va a destra quando ci vai tu e tu vai a sinistra quando ci va lui e non riuscite ad uscire dal momento di sincronia monocellulare dei vostri cervelli.
Non s’era trattato mica di uno sfregamento involontario. E non era andato a sbattergli contro per caso. Aveva voluto baciarlo. D’accordo, non c’era stato niente di più spinto di due labbra che si toccano, ma sempre di bacio s’era trattato. C’era, boh, da prenderne atto, probabilmente.
- …tu le consoli sempre così, le persone? – chiese Fler, con una voce talmente sottile che Chakuza si chiese se fosse bastato così poco per tirargli via tutto il fiato.
- Be’, no… - si affrettò a rispondere, agitato, - Credo dipenda dalla persona.
- E perché… - chiese giustamente Fler, esitando appena, - Voglio dire, perché hai consolato così me?
- Non… - biascicò lui, intenzionato a partire con un comizio in cui affermare tutto e il contrario di tutto e rendendosi conto solo dopo aver iniziato di non avere in realtà nulla da dire, - …non ne ho idea. Cioè, volevo farlo. Insomma, è solo un bacio.
Fler rimase immobile e silenzioso per un secondo.
- Io sono un uomo. – gli fece notare alla fine. La mente di Chakuza registrò con un silenzioso “eh”.
- Credo di essermene accorto. – ribatté, vagamente piccato, - Prima di baciarti, Fler. Non è che vado in giro a baciare chiunque per sport. Prima di baciare qualcuno, mi accerto almeno che sia proprio la persona che volevo baciare.
Fler rimase ancora in silenzio.
- …certo. – annuì alla fine, - …dovrei ringraziarti?
- Fler-
- No, sul serio! – lo interruppe lui, ansioso, - Cioè, non lo so. Sto meglio, adesso. Quindi forse dovrei ringraziarti.
- …se ci tieni. – si rassegnò lui, inspirando profondamente.
Fler annuì.
- Grazie. – aggiunse poi, con convinzione. – Mi baceresti di nuovo?
Chakuza lo guardò. Si augurò che Fler, nel buio, non riuscisse a distinguere la sua espressione da triglia surgelata. Ma dal momento che lui vedeva fin troppo bene la sua – un po’ incerta ma sincera e presente a se stessa, quella di un ragazzino che non è mai cresciuto e chiede perché non sa che certe cose si ottengono anche col semplice silenzio – non ci sperò più di tanto.
- Eh? – chiese, un po’ confusamente.
- Mica subito. – si affrettò a mettere le mani avanti Fler, - Dico, per il futuro, per ipotesi-
- Cosa?!
- Cioè, non è che voglio che adesso prendi e all’improvviso mi schieni contro il primo muro, eh, è solo che-
- Aspetta, aspetta! – lo fermò Chakuza, prendendogli il viso fra le mani e tenendolo fisicamente immobile, - Ho… capito cosa intendi. Cioè, fermati un momento. Non dico che non… - si interruppe, cercando le parole più adatte, - …non dico che mi dispiacerebbe o che, ma non partire come un treno in corsa, eh, è una cosa strana.
- Sì, lo so che è una cosa strana, che cazzo. – ritorse lui, sbuffando un po’. Il suo respiro lo solleticò sulle labbra e Chakuza lo guardò a lungo negli occhi.
- Posso baciarti anche adesso, credo. – disse a mezza voce, - Se vuoi ancora.
Fler rise nervosamente, muovendosi appena contro di lui. Erano così vicini che bastava un niente a toccarsi.
- Alla faccia del non partire come un treno in corsa… - lo prese in giro, probabilmente cercando di stemperare l’atmosfera tesa.
- Me l’hai chiesto tu. – borbottò Chakuza, offeso, - Lo vuoi ancora o no?
Fler non rispose. Si mordicchiò il labbro inferiore e poi si limitò ad annuire. Chakuza si sporse in avanti e sfiorò nuovamente le sue labbra con le proprie, pressandosi contro di lui in un movimento del tutto naturale, semplicissimo – anche troppo.
Si sentì stupido dopo qualche secondo in quel modo. Stavano fermi, non stavano praticamente facendo niente, perciò fu anche per attenuare quella strana sensazione di inadeguatezza che schiuse le labbra e sfiorò con la lingua quelle di Fler, come a chiedergli il permesso. Le dita dell’altro si strinsero con forza attorno alla sua felpa, all’altezza dei fianchi, mentre il permesso veniva concesso e Chakuza piegava appena il capo, lasciando la propria lingua incontrarsi e giocare con quella di Fler con una lentezza ed una calma che fino a due minuti prima avrebbero avuto del surreale. E che suonavano benissimo, invece, in quel preciso istante.
Fler rise appena smisero di baciarsi. Non sciolse la presa attorno alla sua felpa e non aprì nemmeno gli occhi, si limitò a ridere a bassa voce e restare lì, fermo, un po’ inebetito, mentre Chakuza tornava a guardarlo con una certa divertita curiosità.
- Potrei anche farci l’abitudine. – gli disse a mezza voce, quando recuperò abbastanza fiato. Chakuza rise di rimando.
- Stai di nuovo correndo come un treno. – lo rimproverò bonario, - Facciamo che adesso ce ne andiamo a casa e ci facciamo una dormita? In letti separati, s’intende.
Fler rise ancora e poggiò appena la fronte contro la sua. Aveva ancora gli occhi chiusi.
- Domani mattina ripenserai a questa battuta e ti sentirai un cretino. – lo avvertì.
- Mi conosci già tanto bene? – sbuffò Chakuza, sorridendo, - Sono un libro aperto.
Fler scosse il capo.
- Ci si sente sempre dei cretini, in questi casi.
Quali casi?, avrebbe voluto chiedere lui. Ma Fler lo lasciò andare e riaprì gli occhi. Era in piedi il secondo dopo. E Chakuza, di fermarlo, non ebbe proprio il coraggio.

*

Svegliandosi l’indomani mattina, le prime due cose che Chakuza aveva pensato erano state “sono un cretino” e “devo dirlo a Bushido”. La prima considerazione non l’aveva stupito più di tanto – in fondo l’aveva un po’ aspettata tutta la notte, se non altro perché, al solo pensarci, la voce di Fler, con quel tono dolce e un po’ perso, gli risuonava ancora nelle orecchie – e neanche la seconda, per dirla tutta, era davvero riuscita a turbarlo come forse avrebbe dovuto. D’altronde, che cavolo avrebbe dovuto dire a Bushido? “Fra una cosa e l’altra ieri poi ci siamo baciati due volte”? Che razza di discorso sarebbe stato? E poi, anche ammettendo che tutto questo avesse un senso, cosa avrebbe dovuto impedire a Bushido di ridergli in faccia e dirgli “sì, ma chi se ne frega”?
Eppure, per qualche motivo, voleva parlarne con Bushido. Probabilmente perché era evidente che, se da qualche parte l’argomento Fler doveva essere preso – lasciando da parte tutti gli imbarazzanti doppi sensi di un’espressione simile – quella parte doveva essere Bushido. Per forza di cose. Perché lo conosceva, perché ci aveva già avuto a che fare e soprattutto perché aveva avuto ragione a dirgli di risolverla prima di farsi prendere. Il problema era che lui non era stato abbastanza sveglio da dargli retta.
È che Fler non sembrava pericoloso. Non in quel senso, almeno. Si fosse trattato di farci a pugni o scontrarsi con un coltellino in un vicolo buio, be’, ok, allora da quel punto di vista avrebbe potuto tranquillamente dargli del tipo pericoloso. Ma l’eventualità di trovarsi a limonare con lui in un corridoio? Chi avrebbe mai potuto pensarci?
In realtà non c’era neanche un modo corretto di dirla, una cosa del genere. Quando una cosa non dovrebbe verificarsi e poi però si verifica comunque, insomma, puoi anche indorare la pillola ed immergerla nel cioccolato liquido, sempre amara resta.
Perciò, quel pomeriggio, quando arrivò a casa di Bushido, decise saggiamente di non infiocchettare per niente il pacco regalo, e presentare il disastro nudo e crudo, così per com’era. Sperando magari di ridimensionarlo un tantino. Perché a guardarlo per come lo vedeva lui, al momento, era spaventoso.
- Io e Fler ci siamo baciati. – esclamò, restando in piedi di fronte al divano mentre Bushido, seduto fra i cuscini e col portatile sulle ginocchia, lo guardava con aria allucinata.
Si sentiva tanto un bambino di ritorno da scuola con la pagella piena di insufficienze. Bushido continuò a guardarlo mentre, senza badare allo schermo, trucidava gli orchetti di World of Warcraft con gesti automatici dettati ormai da un’abitudine quasi quinquennale.
Il silenzio si protrasse molto a lungo.
- Chaky… - rantolò poi l’uomo, lasciando in pace la tastiera per passarsi una mano sulla fronte, - Chaky, no…
Chakuza aggrottò le sopracciglia con disappunto.
- Be’, non ti ho mica detto di aver investito una bambina che tornava a casa da scuola, che cazzo. – borbottò, lasciandosi ricadere seduto al suo fianco, - E chiudi un po’ questa merda, che ho dei problemi seri, io.
- Eccome se li hai. – annuì Bushido, chiudendo di botto lo schermo del portatile e voltandosi per guardarlo con attenzione, - Quanto avanti siete andati?
- Che cosa ti ho detto? Che ci siamo baciati! Quindi mi pare ovvio che ci siamo solo baciati! Se avessi risposto “l’ho spalmato sul mixer e me lo sono scopato per dritto e per rovescio”, allora avrebbe voluto dire che l’avrei scopato per dritto e per rovescio! – rispose istericamente, - Ti ho detto questo, per caso? Non te l’ho detto! Quindi sai già quanto avanti siamo andati.
Bushido ci rifletté qualche secondo.
- Parecchio. – suppose poi, annuendo.
Chakuza annuì di rimando.
- Per una decina abbondante di minuti. – precisò quindi, - Due volte.
Bushido rise a bassa voce, scuotendo il capo con una rassegnazione divertita molto paterna.
- Ma come ti è saltato in mente? – chiese poi.
Chakuza si lasciò andare con un sospiro contro lo schienale, le braccia inerti in grembo.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente, - Era lì, era triste, l’ho baciato.
- Non fa una piega. – rise ancora Bushido, - Cos’era successo?
- Be’, ha avuto questo casino con la donna di Sido, no? – biascicò Chakuza, senza nemmeno chiedersi se fosse il caso di raccontare una cosa simile all’uomo che, in teoria, Fler lo odiava, e quindi di quelle informazioni avrebbe potuto fare un uso molto scorretto, volendo. Tra l’altro, non è che Bushido passasse poi per un individuo di chissà che alta moralità. Ma c’era anche da dire che in genere era vero: Bushido sapeva sempre tutto. Perciò, perché trattenersi, a un certo punto? – Insomma, ieri è andato da lei, hanno avuto questa discussione, lei gli ha mollato un due di picche tremendo e io me lo sono ritrovato mezzo ubriaco seduto per terra in un corridoio degli studi. Che avrei dovuto fare?
- Non saprei, - ipotizzò Bushido con un’altra risata, - preparargli un caffè e rimandarlo a casa propria?
Chakuza mugolò afflitto, sistemandosi il cappellino sulla testa.
- Non ci ho pensato. – borbottò con un sospiro, - E adesso mi sa che è tardi per dirgli “senti, lasciamo perdere e facciamo che ti offro un caffè per riparare”.
Bushido rise un’altra volta, cercando di incoraggiarlo con qualche pacca sulla spalla.
- Chaky, guarda, io non so che intenzioni abbia tu con quell’uomo, ma lasciatelo dire da uno che lo conosce bene: Fler è una trappola.
Chakuza gli sollevò gli occhi addosso, inarcando un sopracciglio.
- Stai per darmi una lezione di Flerologia?
Bushido rise possibilmente ancora più forte.
- Vedila così: - spiegò quindi, - Fler nemmeno se ne accorge, di quello che ti fa. E tu, senza capire né come né perché, improvvisamente ti ritrovi che lo stai baciando. È un classico.
- Un classico? – chiese Chakuza, giustamente turbato, - No, perché, scusa, quanti ne conosci a cui è successo?
- Be’, uno. – rispose Bushido con una scrollatina di spalle. E poi si indicò. – Il sottoscritto.
Chakuza rimase immobile, ponderando attentamente la possibilità di alzarsi in piedi, uscire da quella casa e fingere che quella conversazione non avesse mai avuto luogo.
- Tu… cosa? – chiese invece, incredulo, - E quando?
- Giusto quei due secoli fa. – rispose Bushido con un mezzo sorriso intenerito, - Tranquillo.
- No, - lo fermò Chakuza, sollevando perentorio una mano, - non mi dire di stare tranquillo perché tu che rassicuri me dicendomi di stare tranquillo perché tra te e Fler è una cosa chiusa… no. Ok? No.
Bushido rise per la millesima volta in quella mezz’ora, annuendo conciliante.
- In sostanza, - spiegò quindi, - è successo quando sono andato via dall’Aggro Berlin. Fler, sai, è sempre stato un tipo fedele. Nel senso, aveva degli ideali, i suoi ideali l’Aggro li incarnava bene. Io volevo fare soldi, ero un figo e mi rompeva il cazzo dividere i guadagni con Sido, in tutta sincerità. – scrollò le spalle, - Faccio a Fler: “vieni via con me?”, lui risponde: “col cazzo”. Io mi infurio e lo sfanculo. Nel senso che gli dico “per quanto mi riguarda, fottiti e tanti saluti”. E quindi, insomma, lui prende e fa la tragedia greca. Sai, no? “Non puoi farmi questo”, “cazzo, siamo fratelli”, “Atze, non puoi andartene” e via così. E parlava, parlava. E mi guardava con quegli occhi lì. Intendo, quegli occhi lì. – precisò con un altro sospiro, - Che avrei dovuto fare?
Chakuza fece una mezza smorfia, abbozzando un sorriso.
- Immagino che il consiglio del caffè non valesse, nel caso specifico, mh?
Bushido rise ancora.
- No, direi di no. Perciò lo bacio e quando mi stacco lui fa “volevi zittirmi?”. E no, non è che volessi zittirlo. Volevo baciarlo. Però, capisci, lui non ci arriva. Non è che lo capisce, che è un individuo baciabile e che quando fa determinate cose a te ti scatta la molla dentro. Siccome fondamentalmente è eterosessuale, - si interruppe e ci rifletté, poi corresse: - siccome principalmente va con le donne, ecco, non ci pensa. Quindi, in sostanza, se ti piace devi dirglielo, però preparati perché… - sospirò, - voglio dire, non passa.
Chakuza lo guardò attentamente, cercando di trovare alle sue parole un senso meno malinconico e meno pesante.
- Non ti è passata? – chiese poi, quasi timoroso.
- Be’, non è che trascorra la mia intera esistenza a pensare a lui, - chiarì Bushido, - però insomma. Ogni tanto capita, e quando succede ci ripenso nello stesso modo in cui ci pensavo il giorno in cui l’ho baciato.
Chakuza deglutì a fatica.
- Preferisci che io… - iniziò incerto, ma Bushido lo fermò con un’altra risata tonante delle sue.
- No, Chaky. Tu che mi chiedi se devi farti da parte per favorire qualcosa fra me e Fler è anche peggio di me che ti rassicuro sul contrario. – ci rifletté un po’, - E comunque ti rassicuro lo stesso, perché fra me e Fler non c’è più una possibilità che sia una, e soprattutto io non voglio. – lo guardò un po’ dubbioso, nascondendo l’ennesimo sorriso, - Era questo il problema?
Chakuza esitò qualche attimo.
- In realtà non lo so. – ammise poi, - Forse. Comunque sono contento di avertelo sentito dire.

*

- Ho parlato con Bushido.
Fler si separò da lui ancora vagamente confuso, le labbra gonfie, gli occhi semichiusi e le dita strette con forza attorno al colletto della sua polo.
- Tu cosa? – chiese, senza capire, mentre Chakuza, dopo la breve parentesi informativa, tornava a fare ciò che stava facendo fino a pochi secondi prima, cioè spalmarlo contro lo schienale della sedia sulla quale era seduto, baciandolo voracemente. – Cha… - cercò di fermarlo Fler, puntando i piedi per terra e indietreggiando sulle rotelle della poltrona, - Chakuza, che cazzo stai dicendo?! – si decise a urlare poi, alzandosi anche in piedi per sottolineare meglio la propria intenzione bellicosa, dopo aver visto che l’unico effetto del suo arretrare era stato l’avanzare di Chakuza in direzione ostinata e contraria.
- Che c’è? – rispose lui, in un mormorio in parte annoiato e in parte deluso dalla prospettiva di vedere sfumare un interessante pomeriggio di baci, - Mi hai capito, no?
- Sì, appunto perché ti ho capito… - precisò Fler, tornando a sedersi ed osservando con sgomento Chakuza tentare di riavvicinarsi, - Fermati un po’! – lo rimproverò, piantandogli una mano nel mezzo del petto, - Cos’hai detto a Bushido?
- Be’, gli ho detto di noi. – rispose Chakuza con un vago gesto della mano, - Insomma, di quello che è successo. Quando ci siamo baciati e… nelle settimane successive, dico.
Gli occhi di Fler, già abbastanza inquietanti anche nella normalità, si spalancarono a dismisura, diventando quasi terrificanti.
- Fler…? – lo chiamò a mezza voce Chakuza, senza azzardarsi a toccarlo per paura che potesse, tipo, morderlo.
- Ma come cazzo… - cominciò lui, con aria assente, - No, dico, ma sei un cretino o che?! A Bushido!
Chakuza aggrottò le sopracciglia, appoggiandosi al mixer e fissandolo con aria ostile.
- Be’, scusami se non sapevo con chi parlarne. La prossima volta mi attacco alla prima gay line disponibile e vedo che mi consigliano loro, preferisci?
Fler cercò di calmarsi e lo raggiunse al mixer, appoggiandosi accanto a lui e sospirando pesantemente.
- Scusami… - cedette, guardandolo con aria un po’ triste, - Non è che sia arrabbiato perché l’hai detto in generale. Voglio dire, non è un problema se lo dici. In ogni caso, se viene qualcuno a prendere per il culo, farò in modo che se ne penta amaramente. È che… Bushido! Fra tutti, lui!
Chakuza incrociò le braccia sul petto.
- Se è per quello che è successo fra voi, guarda che-
- No! – lo fermò Fler, con troppa ansia perché non sembrasse sospetto. Chakuza lasciò perdere solo perché in realtà non gli andava davvero di affrontare l’argomento. – Non è per quello, è che-
- Bushido non è stronzo come pensi, - lo interruppe lui, accigliato, - non penso intenda andare a vendere la notizia al migliore offerente, d’accordo? Rilassati.
Fler sospirò ancora, scuotendo il capo.
- Bushido è una cosa complicata. – cercò quindi di spiegargli. Chakuza scrollò le spalle.
- Sì, lui dice lo stesso di te. – d’altronde, se Fler ci teneva tanto a tirarglielo fuori di bocca, chi era lui per fermarlo?
Il “davvero?” che ricevette in risposta, comunque, lo mandò fuori dalla grazia di Dio. Letteralmente.
- Sì. – rispose in un ringhio di gola, - Sì. Una tirata di mezz’ora mi ha fatto, su te, su voi, su quello che siete stati, non siete, non sarete più e tutto il dannato resto. E poi ci ha tenuto a rassicurarmi sul fatto che no, non devo preoccuparmi di niente, perché figurati se lui si mette in mezzo, a questo punto. Ora cosa? – concluse con un altro ringhio, - Prendi e corri fino a casa sua per spiegargli che ha fatto i conti senza l’oste e che per quanto ti riguarda potete riprendere da dove vi eravate interrotti? Bene! Fai pure! Però ricordati chi è stato a gettare fango su te e tutto il tuo albero genealogico, negli ultimi anni, e ricordati che non ero io a darti del traditore nelle mie canzoni! – si fermò e prese fiato, - Ora puoi andartene, se vuoi.
Fler lo guardò per qualche secondo, restando in rigoroso silenzio per tutto il tempo. Non lo si sentiva neanche respirare. Chakuza cominciò a pensare si fosse trasformato in una statua di sale o chissà che altra assurdità simile, e lui approfittò di quel momento d’incertezza per ricominciare a parlare.
- Se dovessi uscire di qui ed andare a casa di Bushido adesso… - spiegò con un mezzo sorriso, - sarebbe per dirgli che ha fatto i conti senza l’oste. Perché – rise divertito, - è tremendo che ti abbia ridotto in questo stato senza motivo, Chaku.
Chakuza borbottò qualcosa di incomprensibile, abbassando lo sguardo. Fler si sporse in avanti e gli lasciò un bacio sotto l’orecchio, cosa che lo fece rabbrividire abbondantemente e lo costrinse a tornare a guardarlo.
- Senti, sai che avevi ragione? – continuò Fler, guardandolo e sorridendo come volesse prenderlo in giro, ma senza cattiveria, - Anche io quando m’innamoro, m’innamoro.
- …Fler-
- No, aspetta, dai. – rise, - È già abbastanza imbarazzante così, ti pare? Almeno lo dico una volta sola e risolviamo il problema. Ok?
- …se proprio ci tieni. – annuì Chakuza, ancora vagamente stordito, - Dì pure.
Fler gli mollò uno scappellotto dietro la nuca tale che gli volò via il cappellino.
- Di certo non intendo dirti che mi sono innamorato di te, stronzo insensibile che non sei altro. – lo rimproverò con un mezzo sbuffo, - Però se vogliamo fare le cose per bene, intendo, ci sto.
Chakuza rise a bassa voce, sollevando un braccio e tirandoselo contro – fregandosene, per una volta, se nel movimento spostavano tutti gli equalizzatori di quella dannata macchina infernale del mixer.
- Fare le cose per bene… - ripeté divertito, - Che cosa diamine vorrebbe dire “fare le cose per bene”? Devo far stipulare agli avvocati un altro contratto?
- Devi andare a fanculo, principalmente. – lo rimbrottò Fler, tirandogli una gomitata neanche troppo discreta nello stomaco, - Non so neanche perché te le dico, certe cose. Mica te le meriti.
Chakuza rise ancora e si sporse a baciarlo, spegnendo sul nascere il distributore automatico di lamentele che Fler stava apprestandosi a diventare.
- Questo era per zittirmi? – chiese Fler con un mezzo sorriso, quando si separarono.
- Che fai, ti autociti? – lo prese in giro Chakuza, spintonandolo con una spalla.
- Una specie. – rise l’altro, massaggiandosi la spalla, - Facciamo che cancello il passato così che tu non debba più sentirti geloso.
- Ehi… - borbottò Chakuza. E fece anche per aggiungere “io non sono geloso”, ma da un lato sarebbe stato piuttosto ridicolo se avesse detto una cosa simile dopo la scenata di qualche minuto prima, e dall’altro lato non vedeva per quale motivo risparmiarsi di rimarcare il punto “se tu e Bushido vi riavvicinate, nessuno sopravvivrà per esserne testimone”. D’altronde, a quanto pareva rientrava nei suoi diritti. Perciò lasciò perdere. – Fa nulla. – ridacchiò sollevato. E poi si dedicò ad un’attività che, ne era sicuro, nei mesi futuri avrebbe trovato parecchio divertente: rovinare ore e ore di registrazioni di Stickle spalmando Fler in ogni posizione per tutta la lunghezza della consolle.

*

- Quindi adesso stanno insieme, tipo? – chiese Eko, farcendo un panino virtuale con del tonno virtuale ad andando alla ricerca di un pomodoro virtuale all’interno di una cucina virtuale.
- Sì, così pare. – rispose Bushido, sventrando un orchetto e procedendo alla volta di un suo degno compare.
- Ma è una cosa seria? – chiese ancora Eko, tagliando il pomodoro virtuale in sottili fettine virtuali usando un coltello virtuale su un tagliere virtuale.
- Be’, non credo che abbiano intenzione di sposarsi, però probabilmente andranno a vivere insieme. – scrollò le spalle Bushido, trucidando anche il secondo orchetto ed appiccando il fuoco ad un innocente tetto di paglia, - D’altronde, non vedo perché no. In ogni caso passano il tempo a limonare, che stiano appiccicati per ore o meno.
- Eh, la gioventù. – annuì Eko, finendo di riempire il suo panino virtuale ed infilzandolo con uno stecchino virtuale, adornato a sua volta da una deliziosa oliva denocciolata anche lei virtuale. – Sono contento per loro.
Bushido demolì ciò che restava dello scheletro bruciacchiato della casa ed annuì.
- Sì, anch’io.
Silenzio.
- Bu? – lo chiamò quindi Eko, - Li spegniamo, ‘sti cazzo di affari? Usciamo e ci troviamo una donna, dai. Sul serio.
Bushido lo guardò solo per un secondo.
- Ma devo arrivare al check point. – motivò, indicando lo schermo oltre il quale un’orda di elfi neri stava depredando una carovana di mercanti.
Eko tornò a sprofondare nel divano e cominciò a farcire un altro panino virtuale.
- Okay, - rispose con un sospiro, - solo fino al check point.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia, Triste.
Pairing: Chakuza/Fler.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, AU.
- Una sera, Fler torna a casa propria e trova un uomo sconosciuto e palesemente ubriaco steso sulle scale all'ingresso del proprio palazzo. L'uomo puzza e non sembra intenzionato a passare la notte restando in vita, se abbandonato a se stesso, e per tale motivo, dopo una discussione vagamente surreale, Fler decide di accoglierlo in casa propria, almeno per la notte. La cosa, però, avrà conseguenze di un certo spessore, conseguenze che cambieranno per sempre la vita di tutti i protagonisti di questa vicenda.
Note: Dunque, che questa storia esista, a partire da una foto in cui Chakuza era vestito come un pezzente, è già una cosa abbastanza allucinante XD Non contenta di aver dato il via ad una cosa simile partendo da un pretesto abbastanza ridicolo, ho scritto a lungo. Molto a lungo. Nel senso che la storia è lunga quasi trentamila parole ed ho perciò saggiamente deciso di dividerla in tre parti per evitare che chiunque voglia leggerla (se mai qualcuno vorrà o_ò) debba smazzarsi una roba infinita. Per cui niente, spero che vi piaccia e spero anche di ricordarmi di aggiornare con frequenza, visto che comunque è tutto già scritto XD (Tra l'altro, senza parole: ho cominciato a scrivere questa storia il giorno stesso in cui è scaduto il BBI... bastarda, potevi plottarti/scriverti tutta prima è.é Almeno avrei portato tre fic come avevo promesso ç.ç)
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EVERYTHING I OWN

You sheltered me from harm
Kept me warm, you kept me warm
You gave my life to me
You set me free, set me free

La prima cosa che lo colpì entrando all’interno del palazzo fu l’odore. Viveva in quel condominio da ormai cinque anni e non aveva mai sentito una puzza simile in quel luogo, tanto più che la signora delle pulizie passava non una ma due volte a settimana a lavare il pavimento e le scale, e lucidava perfino il corrimano, cosa di cui peraltro nessuno si accorgeva mai perché il primo piano era sfitto da secoli a causa della padrona di casa vecchissima e arteriosclerotica che abitava al quarto e non voleva mai darlo a nessuno di quelli che venivano a visitarlo, perciò usavano tutti l’ascensore, anche perché il palazzo era alto una cifra, ma fondamentalmente niente di tutto questo era davvero importante, l’unica cosa che contava davvero era che lì tutto era sempre splendente e profumato, e quella puzza, no, quella puzza non era affatto normale.
Allungò una mano verso la parete dove sapeva di trovare l’interruttore della luce e schiacciò il pulsante, sbattendo un paio di volte le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano all’improvviso passaggio dall’oscurità più totale al biancore della lampada al neon, e lanciò uno sguardo dubbioso tutto intorno a sé alla ricerca di un qualche elemento di disturbo rispetto all’usuale, quieta normalità del luogo, soprattutto a quell’ora della notte.
Non ci mise molto a trovarlo.
L’uomo stava buttato in un angolo, apparentemente molto più rassomigliante ad un topo morto che non ad un essere umano. Anche l’olezzo era lo stesso, si ritrovò a pensare Fler, avvicinandosi con estrema circospezione. Per un attimo si chiese cosa avrebbe dovuto fare nel caso il tipo fosse morto per davvero, e naturalmente la prima risposta che si diede, già da solo, fu di non chiamare la polizia ma limitarsi ad avvertire Bushido. Lui avrebbe sicuramente saputo come far sparire un cadavere. D’altronde, era il suo mestiere.
Fortunatamente, comunque, il tipo non era morto. Non ancora, almeno, anche se Fler immaginò che, senza troppe difficoltà, sarebbe sicuramente passato a miglior vita entro l’alba se l’avesse lasciato lì steso per metà sulle scale a pancia in su e con ogni probabilità di soffocarsi col proprio stesso vomito al primo conato.
Puzzava d’alcool in maniera quasi insopportabile, ma nonostante questo Fler riuscì a farsi forza abbastanza da avvicinarsi ancora e scuoterlo un po’, dapprima con un paio di calci sugli stinchi e poi, dopo aver constatato che quelli, da soli, non bastavano a ridestarlo, con due calci decisamente meglio assestati contro un fianco.
L’uomo grugnì qualcosa di indefinibile, talmente anestetizzato dall’alcool da non riuscire nemmeno a sentire il dolore per i calci.
- Che cosa…? – borbottò con voce impastata, e Fler si piantò ritto davanti a lui, le gambe lievemente divaricate ed entrambe le mani sui fianchi, guardandolo dall’alto in basso.
- Come si è introdotto qui dentro? – gli chiese, prima ancora di chiedergli come stesse o se avesse bisogno d’aiuto, - È proprietà privata, questa, lo sa?
- Eh? – disse l’uomo, massaggiandosi stancamente le tempie e strizzando le palpebre sugli occhi lucidi per riacquistare un minimo di controllo sul proprio corpo, - Chi sei tu?
- Sono un inquilino di questo stabile. – annuì Fler, perfettamente a proprio agio, - Lei, invece, no.
- …sì, direi che questo è ovvio. – concluse l’uomo, aggrappandosi a fatica al corrimano per issarsi in piedi. Era piuttosto basso, notò Fler quando ebbe finito.
- Allora? – insistette Fler, sporgendosi verso di lui con l’intenzione di pressarlo fisicamente, in modo da spremere una risposta da quei suoi occhi incredibilmente stanchi, - Come ha fatto ad entrare?
- Sono salito su dalle fogne. – rispose quello, inarcando un sopracciglio. Fler fece tanto d’occhi.
- Davvero? – chiese, - E come ci è passato?
Il tizio lo fissò come se non potesse credere alla sua esistenza in vita.
- Stavo scherzando. – rispose.
- Oh. – mugugnò Fler, vagamente deluso, - Quindi come è entrato?
- Ma chi se lo ricorda, sarà stato aperto il portone o forse mi sono intrufolato seguendo qualcuno che è entrato prima di me… - borbottò quello, massaggiandosi ancora la fronte e poi sfilando il berretto per passarsi una mano sulla testa rasata. O pelata, non era facile capirlo a quell’ora di notte e con quella luce tremula e biancastra. – Perché è così importante saperlo?
- Perché se lei mi spiega come ha fatto ad entrare, io potrò dirlo a Bushido. – rispose tranquillamente lui, annuendo come a dar forza alla propria spiegazione, - E lui potrà risolvere il problema.
Il tipo sollevò un sopracciglio, le labbra strette come due linee.
- Bushido? Quel Bushido?
- Ne conosce altri? – chiese Fler, - Eppure credevo fosse un soprannome abbastanza particolare.
- No, no, non ne conosco altri. – sospirò l’uomo, cominciando forse a capire di fronte a che tipo di persona si trovasse, - E comunque piantala di darmi del lei, non l’ha mai fatto nessuno in tutta la mia vita e non vedo perché dovresti cominciare tu adesso, visto che avrai la mia stessa età e che io, in questo momento, non riesco neanche a distinguere i contorni delle cose.
- È una questione di educazione. – borbottò Fler, quasi offeso, - Con gli sconosciuti—
- Sì, sì. – lo liquidò il tipo, con un gesto sbrigativo, - Quanti anni hai detto che hai?
- Ne ho ventotto. – rispose Fler, piccato, - E lei, comunque, non può stare qui.
Il tipo si sollevò brevemente sulle punte per lanciare un’occhiata fuori oltre il portone in vetro smerigliato oltre al quale, sulla strada vuota e buia, infuriava la tempesta.
- Diluvia. – disse, indicando un punto a caso nel vuoto, - Non posso certo uscire.
- Ma non può nemmeno stare qui! – ripeté Fler, sempre più sconvolto, - Questa non è una casa, è l’ingresso del palazzo, e quello non è un letto ma una rampa di scale. – poi sospirò profondamente, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto come a sottintendere che, in quell’universo, lui era l’unico a dover risolvere tutti i problemi, cosa di cui l’uomo che aveva di fronte, a giudicare dallo sguardo profondamente scettico, dubitava con decisione. – Mi segua. – disse quindi, facendogli strada verso l’ascensore.
- Dove? – chiese giustamente l’uomo, fissandolo dubbioso. Fler si voltò a guardarlo come se non riuscisse a capacitarsi della sua idiozia.
- Ma su da me, no? – disse premendo il pulsante e restando in attesa dell’apertura degli sportelli, - Ha bisogno di lavarsi e di… vestiti nuovi. – elencò, lanciando un’occhiata abbastanza disgustata ai pantaloni luridi e strappati ed alla camicia tutta sbrindellata che indossava, - E, naturalmente, di un posto dove stare stanotte, visto che fuori proprio non vuole.
- Vorrei ben vedere, ma hai visto come piove?! – insistette lui, indicando nuovamente la notte oltre il portone, - Comunque, - sospirò pesantemente quando gli sportelli dell’ascensore si furono aperti e Fler vi fu entrato, facendogli cenno di seguirlo, - io mi chiamo Chakuza.
- E che nome sarebbe? – chiese Fler, inclinando il capo come un cucciolo incuriosito, - Sua madre era giapponese?
- No che non era giapponese! – borbottò Chakuza, le labbra piegate in una smorfia infastidita, - Ma sei stupido o cosa? È il mio nome d’arte.
- Un nome d’arte per cosa? – chiese Fler, guardandolo con gli occhi azzurri spalancati nella luce giallognola dell’ascensore. La cabina si fermò e gli sportelli si aprirono sul pianerottolo vuoto e buio proprio in quel momento, dando a quella domanda e al silenzio che la seguì una connotazione così forzatamente comica che Chakuza si aspettò di sentir risuonare gli applausi preregistrati nell’eco della tromba delle scale il minuto successivo.
- In che senso “per cosa”? – chiese a propria volta.
- Un nome d’arte per fare cosa? – precisò Fler, - A cosa le serve un nome d’arte?
- A— ma cosa ne so, è—
- Io ce l’ho un nome d’arte. – annuì Fler con ovvietà, uscendo dall’ascensore ed accendendo la luce sul pianerottolo per infilare senza troppe difficoltà le chiavi nella serratura, - Mi serve perché sono un artista, appunto. Firmo tutti i miei murales come Fler, ma mi chiamo Patrick. Anche lei firma murales, o qualcosa di simile?
Chakuza rifletté per qualche secondo e concluse che l’unica cosa vagamente pittorica che gli fosse capitato di fare recentemente era stata quando quel tipo strambissimo gli aveva chiesto di disegnargli addosso un omino stilizzato venendogli sulla pancia. Guardò Fler negli occhi con evidente imbarazzo e, dopo un attimo di incertezza, rispose che no, non firmava murales né nient’altro di simile.
- È solo un nome che si usa per strada. – scrollò le spalle mentre Fler lo invitava ad entrare nell’appartamento e si richiudeva la porta alle spalle, dirigendosi poi con sicurezza verso il telefono poggiato su un mobiletto in un angolo dell’ingresso. – Comunque, mi chiamo Peter. Che fai?
- Chiamo Bushido, ovviamente. – rispose lui con naturalezza, digitando il numero a memoria ed appoggiandosi al tavolino mentre restava in attesa di risposta, - Non mi crederà uno sprovveduto? Gli darò disposizione di passare per di qua domattina, e sappia che, nel caso dovesse trovarmi morto, sto per fargli una descrizione molto precisa del suo aspetto fisico, di modo che possa trovarla e fargliela pagare ovunque lei si trovi.
Chakuza boccheggiò per qualche istante, senza parole.
- …non ne dubito. – concluse infine.
- Bene. – sorrise Fler, - Ora vada pure in bagno, corridoio, seconda porta a destra. Troverà nei cassetti tutto ciò che le servirà, compresa della biancheria nuova che tengo sempre per le emergenze. – Chakuza si chiese brevemente che tipo di emergenza potesse giustificare la presenza di biancheria intima intonsa in un cassetto del bagno, ma evitò di porre la domanda. – Quando avrà finito, torni pure qua. Le darò qualcosa da mettersi e le mostrerò dove dormire.
- S-Sì. – annuì Chakuza, ancora vagamente incerto e perfino un po’ spaventato dall’assurda naturalezza con la quale quello sconosciuto se lo stava tirando in casa senza altro motivo oltre al fatto che giù nell’atrio era d’ingombro. Si voltò con l’intenzione di seguire le indicazioni e rifugiarsi in bagno il prima possibile, spronato peraltro dal pensiero di una doccia calda, vecchia compagna della quale faceva ormai a meno da tempi inenarrabili, sennonché all’ultimo minuto sentì che c’era ancora qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione, e sollevò un dito, voltandosi giusto per intravedere la figura di Fler ancora in attesa di risposta da parte di quello che alla fine era solo il più importante capomafia di Berlino. – Solo una cosa… - accennò con aria vagamente intimidita. Fler allontanò la cornetta dall’orecchio e la coprì con una mano, sorridendogli incoraggiante. – Smettila di darmi del lei. Ci siamo presentati, ormai, no?
Fler diede perfino l’impressione di pensarci con una certa serietà, per una manciata di secondi.
- D’accordo. – disse infine, tornando a sorridere sereno, - Ora vai in bagno. – concluse perentorio. Chakuza obbedì.
*
L’idea di stare per lavarsi non lo colpì come sarebbe stato giusto lo colpisse fino a quando non entrò fisicamente nella doccia e si accorse di non avere più granché confidenza con le manopole che regolavano il getto d’acqua. Sperò di fare tutto per bene e non dover per forza uscire da lì dentro assiderato o bollito e rossissimo come Hummer Kummer, il peluche a forma di aragosta che si trascinava sempre ovunque da bambino, ma non si stupì più di tanto quando, invece, combinò un disastro, aprì tutti i rubinetti sbagliati e prima si ghiacciò fin nelle ossa e poi si scottò al punto da doversi aggrappare alla tendina della doccia per cercare di sfuggire al getto d’acqua bollente, gesto che naturalmente portò metà della suddetta tendina a scardinarsi dal proprio sostegno ed avvolgerglisi addosso, creando una specie di pellicola avvolgente attraverso le pieghe e gli spiragli della quale centinaia di minuscole goccioline incandescenti s’intrufolavano apposta per dargli il tormento.
Fu solo con parecchia fatica che, una decina di minuti dopo, riuscì a venire a capo del problema, prendendo confidenza con l’ambiente e riuscendo a regolare le manopole in modo che il getto d’acqua fosse tiepido e piacevole. E fu allora che chiuse gli occhi e si lasciò un po’ andare all’abbraccio dell’acqua, una stretta la cui piacevolezza aveva quasi del tutto dimenticato. Non che non si fosse lavato per niente, da quando viveva per strada, ma i bagni dei locali non gli permettevano mai di rilassarsi mentre lo faceva, era tutto un doversi sbrigare perché chissà quando sarebbe arrivato il custode o un sorvegliante a beccarlo, e comunque non poteva certo spogliarsi nudo, rimpicciolirsi più di quanto non fosse già piccolo ed infilarsi in un lavandino per farsi la doccia lì. Una doccia era un’esperienza mistica che prevedeva il dedicarsi un po’ a se stessi in solitudine, con calma e tranquillità, e fu per questo che gli saltò il cuore in gola al punto che quasi scivolò di testa all’indietro quando la porta del bagno, senza nessun preavviso, si spalancò sull’espressione fiduciosa e positiva di Fler e sui suoi occhi pieni di domande come quelli di un bambino di cinque anni.
- Scusa, Chaku, pensavo! – esordì entusiasta, e Chakuza tirò la tendina così forte che finì di staccarsi nella sua interezza, cosa che fu meno negativa del previsto da un lato perché a Fler non sembrò importare granché, e dall’altro perché così almeno aveva qualcosa con cui coprirsi.
- Chaku…? – borbottò lui, incerto. Fler si limitò ad annuire felice.
- Sì, pensavo, come ti piace la pizza? – domandò curiosamente. Chakuza lo fissò incredulo.
- Perché? – chiese, pur rendendosi conto di quanto idiota dovesse suonare una domanda simile. Per quale motivo qualcuno dovrebbe chiederti che tipo di pizza preferisci, se non per offrirtene una?
- È un sacco tardi e pensavo ti andasse di mangiare qualcosa. Anche se, ti avverto, dovrai chiamare tu. Io non sono capace. – rispose lui, come se l’idiozia della domanda non lo toccasse minimamente, cosa che effettivamente diede a Chakuza da pensare. E soprattutto cosa voleva dire che non ne era capace? Non era capace di fare cosa, chiamare un servizio di pizza a domicilio? – Per me non è un problema mangiare ancora, anche se ho già cenato, così ti faccio compagnia. Bushido ha detto di dirti di stare attento a cosa fai con le mani, perché potrebbe essere l’ultima volta che le vedi, comunque. Dico io, mangiare una pizza è decisamente l’ultima cosa che vorrei fare con le mie mani se temessi di perderle, per cui…
- No, senti, senti. – lo interruppe Chakuza, massaggiandosi stancamente gli occhi con l’indice e il pollice, finendo per pinzarsi la radice del naso come molto spesso aveva fatto sua madre, buonanima, prima che lui scappasse di casa per dedicarsi completamente alla vita dissoluta per la quale tanto spesso lei l’aveva rimproverato, - Non mi fa impazzire la pizza, preferisco cucinare qualcosa io, se hai l’occorrente in casa.
Fler lo guardò a lungo con gli occhi spalancati.
- Tu cucini? – gli chiese, come se fosse più strano questo rispetto a tutto il resto. C’era decisamente qualcosa che non tornava, nella testa di quel ragazzo. Chakuza non era sicuro di voler scoprire cosa, peraltro.
- Sì. – annuì comunque, tirando su la tendina che, nel mentre, aiutata dall’acqua, aveva preso a scivolare inesorabilmente verso il basso, - E se domani dovessi perdere le mani, ecco, cucinare vorrebbe essere l’ultima cosa che farò.
Fler rise appena, un suono piacevole, infantile, sentendo il quale Chakuza non poté fare a meno di concedersi una risata a propria volta.
- Non ti taglierà davvero le mani, se farai il bravo. – lo rassicurò. Il sorriso che buttò lì come fosse assolutamente normale sorridere in quel modo ad uno sconosciuto prima di uscire dal bagno che lui stesso gli aveva permesso di usare, fu abbastanza per far capire a Chakuza che Bushido, come d’altronde sospettava, doveva saperla decisamente lunga, se l’unica raccomandazione che gli aveva fatto era quella di tenere le mani a posto.
*
Quando uscì dal bagno avvolto nell’accappatoio più morbido che avesse mai indossato nella sua intera esistenza, a Chakuza pianse il cuore nel notare i vestiti che Fler aveva sistemato per lui sul ripiano di un cassettone di media grandezza posto proprio davanti alla porta, sull’altro lato del corridoio. C’era anche un post-it, proprio lì accanto, che gli indicava tramite una serie di disegnini e freccine dove fosse la camera da letto, invitandolo a recarsi lì per cambiarsi e mettersi a suo agio prima di raggiungerlo in soggiorno, dove lui stava giocando alla Wii. Chakuza sollevò lo sguardo e tese le orecchie: da qualche angolo lontano dell’appartamento giungevano suoni di guerriglia urbana intervallati ogni tanto da urla di gioia o momenti in cui Fler decideva di mettersi a cantare ad alta voce le canzoni che stava probabilmente ascoltando in cuffia, visto che non c’era traccia di melodia da nessuna parte.
Scoprì invece che il suo cuore non aveva nessun motivo di piangere, perché i vestiti erano morbidi e comodi esattamente come l’accappatoio, e passare dall’uno agli altri fu come essere un putto e passare da una nuvola a quella immediatamente successiva senza nemmeno dover spostare di troppo l’arpa. Un cambio incredibilmente naturale.
Quando raggiunse Fler in soggiorno, era ormai diventato un tutt’uno con gli abiti che lui gli aveva prestato. Li sentiva così intimamente propri che progettava di chiedergli se poteva bruciare i vecchi e tenere questi anche una volta che fosse andato via, ma capì subito che non era il momento di porre la questione, dal modo in cui Fler si alzò e, brillando di luce propria, mollò il videogioco al suo triste destino per afferrarlo per una mano e trascinarlo di peso in cucina.
Mentre veniva trainato, Chakuza posò lo sguardo sulla mano di Fler, così saldamente stretta attorno alla propria, e si chiese se questo fosse lo stesso ragazzo che, fino a mezz’ora fa, ancora gli dava del lei. Era normale, per lui, essere così entusiasta ed espansivo per ogni cosa? Era normale afferrare per mano uno sconosciuto e condurlo senza riserve nella propria enorme, splendida, lucente cucina ipermoderna da lacrime istantanee, ignorando ostentatamente il rischio che lui potesse magari rovistare in un cassetto, tirarne fuori un coltello da macellaio e sventrarlo con un colpo secco dalla gola alla pancia?
- Guarda, ti ho messo qui sul tavolo tutto quello che ho trovato. – illustrò, indicando il ben di dio di roba che doveva aver tirato fuori dal frigorifero, da tutti gli stipetti ed anche dalla dispensa, se ne aveva una. – Pensi che potresti tirarne fuori qualcosa di buono?
- Penso che potrei tirarne fuori qualcosa di buono per molti giorni di seguito e per molte più persone di quante non ce ne siano adesso in questa stanza. – gli fece notare, inarcando un sopracciglio, - Ma fai sempre tutta questa spesa?
- No, in realtà non ne faccio mai. – rispose Fler con una risatina divertita, - Mi compra tutto Bushido. Dice che devo tenermi in forze.
- E non dubito che tu ci riesca, con tutta questa roba. – commentò Chakuza con una mezza risata. Dopodiché, si avvicinò al tavolo e selezionò un paio di ingredienti, cercando di schiarire le idee per pensare a cosa preparare e realizzando con un po’ di tristezza che erano almeno un paio d’anni che non aveva più occasione di cucinare niente. – Potrei essermi un po’ arrugginito. – confessò imbarazzato, - Non mi esercito da un po’.
- Fa niente. – rispose Fler, scrollando le spalle, - Tanto io mangio tutto.
Chakuza rise ancora, chiedendosi a quando risalisse l’ultima volta in cui l’aveva fatto così spesso. Era un periodo tanto antico da essersi sbiadito quasi del tutto nella sua mente, non ne rimaneva che qualche traccia antica, la distante consapevolezza di averlo vissuto, di essere stato, un tempo, una persona talmente felice da potersi concedere di ridere e ridere e ridere senza avere bisogno di litri d’alcool per farsene venire la voglia. Dopodiché mise da parte questi brutti pensieri e si diresse risolutamente verso i fornelli, per scoprire che in realtà la mano non l’aveva persa affatto.
*
- Ti è piaciuto? – chiese con un sorriso nell’osservare Fler che si rovesciava sazio contro lo schienale della sedia, allungandosi un po’ per trovare il bottone dei jeans sotto la pancetta appena pronunciata, per sfibbiarlo.
- Un sacco, Chaku! – rispose lui entusiasta, sorridendo così sereno da rassomigliare a quei neonati che, nel sonno, si lasciano sfuggire un sorriso dopo una poppata particolarmente soddisfacente. – Io non sono uno che fa caso al gusto delle cose, in genere, ma questo era proprio buonissimo.
- Mi fa piacere. – rise Chakuza, alzandosi e mostrando la chiara intenzione di rassettare piatti e posate. Fler allungò un braccio, afferrandolo per un polso e fermandolo.
- Che combini? – gli chiese con una risatina, - Lasciali lì, non c’è bisogno.
- Ma posso occuparmene io, tu fai già tanto tenendomi in casa, non—
- Ma non lo farò nemmeno io. – rise ancora Fler, se possibile perfino più divertito di prima, - Ci penserà Bushido domani. Ci sta un sacco attento, lui, a queste cose.
Chakuza inarcò le sopracciglia al punto che quasi se le sentì scivolare oltre la fronte. Se ne preoccupò perfino, per qualche secondo.
- Vuoi dire che Bushido, quel Bushido, Anis Mohammed Youssef Ferchichi, anche conosciuto come Sonny Black, ti lava i piatti? – chiese con aria allucinata.
- E mi rifà il letto. – annuì Fler, alzandosi con una certa fatica. – Dio, quanto sono pieno. Ma che sonno ho? Chaku, ma ci hai messo dentro del sonnifero per stendermi e rubarmi tutte le cose? Non avrai più mani, domattina.
- Non ho messo nessun sonnifero da nessuna parte, e— aspetta! – gli corse dietro, mollando i piatti lì dov’erano, - Ma che vuol dire che ti rifà il letto? Ma chi è, la tua badante?
- Ma no, siamo solo amici! – borbottò Fler, voltandosi a guardarlo con aria decisamente offesa, - Non ho bisogno di nessuna badante!
Chakuza non poteva dire di esserne poi così sicuro, dopotutto. E, in ogni caso, tutta quella storia gli stava aprendo gli occhi su un lato della vita di Bushido che, vivendo per le sue strade e dovendo stare alle sue leggi, non aveva mai preso in considerazione.
Si trattava di un essere umano, dopotutto. Con affetti e debolezze. Per più di un attimo, attraverso la sua mente resa mille volte più incline a pensieri similari dalla vita che aveva condotto negli ultimi anni, passarono le possibilità più svariati. Tutte comprendevano la presenza di Fler, comunque. E non tutte erano in realtà granché oneste, soprattutto visto quanto quel ragazzo stava facendo per lui senza palesemente aspettarsi nulla in cambio.
Scrollò il capo con decisione. Se davvero ragionamenti del genere fossero diventati una tappa obbligata, ci avrebbe pensato nei prossimi giorni, quando almeno avrebbe abbandonato il suo appartamento. In quel momento, il solo pensiero di lasciarsi andare a considerazioni simili proprio lì gli dava il voltastomaco.
- Senti… - abbozzò, grattandosi nervosamente la nuca, - Grazie per tutto quello che stai facendo, davvero. Non ho mai incontrato una persona gentile… - o stupida, ma questo non lo aggiunse, - come te, da quando, be’, vivo per strada. Quindi, grazie.
- Oh, andiamo. – rise Fler, tirandogli una pacca su una spalla ed entrando in camera, lasciandolo lì sulla soglia mentre, con estrema disinvoltura, tirava via la felpa e la maglietta e restava con addosso solo i pantaloni, - Non potevo certo lasciarti lì. Chiunque l’avrebbe fatto, al mio posto.
- No, sono abbastanza sicuro del contrario, in realtà. – protestò Chakuza, ma senza troppa veemenza perché non gli andava di contraddirlo. Il senso di colpa per i pensieri molesti di poco prima stava prendendo il sopravvento. – Comunque, non mi hai ancora mostrato dove dormirò stanotte. – buttò lì con tono casuale, per non sembrare uno di troppe pretese. Gli andava bene anche una poltrona, purché Fler gliela indicasse, di modo che lui non dovesse sentirsi troppo invadente anche in quello.
Fler, invece, lo fissò con sincero stupore, prima di tirare giù i pantaloni in un gesto talmente improvviso che Chakuza quasi si ritrovò a fare un passo indietro per la sorpresa.
- Ma qui con me, ovviamente. – disse quindi con naturalezza, - Quante stanze pensi che abbia quest’appartamento?
Improvvisamente, tutto fu più chiaro, nella mente di Chakuza. Si concesse perfino un sorriso soddisfatto, perché ora sì che si cominciava a parlare la sua lingua. Non aveva alcun motivo di sentirsi in colpa, perché naturalmente Fler non lo stava aiutando così per bontà d’animo. E d’altronde era impensabile che uno che, a quanto pareva, aveva un rapporto particolarmente stretto con Bushido, non riconoscesse uno come lui alla prima occhiata. Non c’era dubbio che Fler l’avesse inquadrato per ciò che era fin dal primo minuto, e avesse deciso di tirarselo in casa magari per fare la propria buona azione quotidiana e guadagnarci in più anche una sana scopata priva di conseguenze sentimentali. Ma andava bene così, era ciò con cui Chakuza era abituato ad avere a che fare ogni giorno. Un mondo che potesse capire e che, per assurdo, suonava un sacco più rassicurante rispetto all’idea che s’era fatto fino a quel momento e che dipingeva un ragazzino fondamentalmente mai cresciuto al quale la sua sola presenza avrebbe potuto potenzialmente fare un male assassino semplicemente imponendosi come un corpo estraneo nella sua tranquilla quotidianità.
Si avvicinò guardando Fler dritto negli occhi, inclinando appena il capo e muovendosi lentamente, con fare suadente. Sfilò la maglia che Fler gli aveva prestato, così morbida da scivolargli sulla pelle come una carezza, e la trattenne per qualche secondo fra il pollice e l’indice, prima di lasciarla cadere per terra con uno sbuffo silenzioso. Sorrise per tutto il tempo, senza interrompere il contatto visivo neanche quando Fler si voltò per arrampicarsi sul letto. Lo osservò sistemarsi fra le coperte ed aspettò che si fosse seduto, con la schiena appoggiata contro la testiera in legno lucido e scuro, prima di procedere a sbottonare i pantaloni.
- Ti piace spogliarti così lentamente? – gli chiese Fler, e Chakuza sorrise dell’assoluta innocenza della sua voce. Il ragazzo sapeva come fare per fare impazzire un uomo, questo era evidente, e lui ne sentiva gli effetti fin dentro lo stomaco, che sentì contorcersi in un lieve spasmo di piacevole impazienza che si concesse di provare perché erano anni, Dio, che non scopava con un po’ di sentimento.
- Non lo so. – rispose con fare ammiccante, lasciandosi scivolare i pantaloni lungo le gambe e salendo a gattoni sul letto, avvicinandosi a Fler come un predatore silenzioso, - A te piace che mi spogli così lentamente?
Fler inarcò un sopracciglio, apparentemente poco convinto dalla risposta.
- Ma per me puoi spogliarti un po’ come vuoi. – rispose sinceramente, ed a Chakuza venne voglia di sporgersi a lasciargli un bacio nel mezzo della fronte per sussurrargli che aveva capito a che gioco stava giocando, poteva anche smetterla di fare la finta vergine innocente.
- Davvero? – chiese, mettendosi in ginocchio di fronte a lui ed appendendo entrambe le mani all’orlo elastico degli slip, - Quindi per te va bene se tiro giù lentamente anche questi…? – chiese pianissimo.
Fler dischiuse le labbra, lanciando un’occhiata alla sua biancheria e poi tornando a guardarlo negli occhi.
- Chaku… - comincio inumidendosi le labbra. A Chakuza parve di vedere una luce diversa, nel suo sguardo. Una luce carica di voglia. Sorrise fra sé: era fatta. - …si può sapere cosa diavolo stai facendo? Mettiti a letto e dormi.
Qualcosa, nel fondo del cuore di Chakuza, quella notte si spezzò inesorabilmente. Le sue certezze, probabilmente.
- Cosa…? – balbettò incerto, - Che…? Non vuoi…?
- Ma non voglio cosa?! – sbottò Fler, afferrandolo per le spalle e ribaltandolo nell’altra metà del letto senza troppe difficoltà, - Ma che avevi in mente di fare?
- Scopare! – rispose lui, allibito, mettendosi istantaneamente seduto e fissandolo con terrore e raccapriccio, come fosse una creatura aliena.
- Cosa?! – strillò Fler, tirandosi perfino indietro in una posa schifata, - Ma con chi?! Con me?!
- Vedi qualcun altro in questa stanza?! – ribatté Chakuza, sempre più allibito, - Pensavo che fosse per questo che mi avevi portato qui!
- Che?! Ma quando mai ti ho detto esplicitamente o implicitamente che volevo venire a letto con te, scusa?! – indagò Fler, peraltro vagamente incuriosito dal suo processo mentale a riguardo.
- Ma non lo so, mi hai portato in camera tua…
- …perché non ci sono altre camere da letto!
- E ti sei spogliato davanti a me!
- Ma perché, tu in genere vai a letto vestito?!
Si fermarono entrambi, guardandosi con ansia crescente per qualche secondo. Improvvisamente, niente era più sicuro. Soprattutto per Chakuza, che credeva di aver trovato la soluzione dell’enigma e invece si ritrovava di nuovo con in mano esattamente ciò da cui era partito, un ragazzino mai cresciuto che la sua presenza avrebbe palesemente devastato se avesse deciso di rimanergli intorno anche solo per due minuti in più dello stretto necessario, ammesso che già lo stretto necessario non fosse un periodo troppo lungo.
- …ok, scusami. – cedette per primo, distogliendo istantaneamente lo sguardo, - Non so cosa m’è preso. Cioè, sì, lo so, in realtà. – sospirò profondamente, - Ho pensato di risolvere con te nello stesso modo in cui risolvo generalmente nella vita.
- Che intendi dire? – chiese Fler, stendendosi sul letto e voltandosi su un fianco per guardarlo, perfettamente a proprio agio, come se fra loro non fosse mai successo niente di tremendo o che avrebbe giustificato Bushido a tagliare le mani a Chakuza quando e come avesse preferito.
Chakuza lo imitò, stendendosi al suo fianco ed incrociando le mani dietro la nuca, perdendosi a fissare il soffitto per non dover fissare lui.
- È quello che faccio. – disse quindi, - È il mio lavoro. Vado a letto con gli uomini. È così che mi guadagno da vivere.
- …senza offesa, Chaku, - ridacchiò un po’ Fler, - non che io abbia esperienza, a riguardo, ma non ti viene affatto bene.
Chakuza rise a propria volta, piegandosi un po’ su se stesso prima di tornare a stendersi, visibilmente più rilassato rispetto a prima.
- Questo spiega perché mi hai trovato sporco e ubriaco perso a dormire nell’androne del tuo palazzo. – rispose. Fler rise a propria volta, annuendo brevemente.
- Senti, io non voglio niente, da te. – lo rassicurò quindi, - Sentiti libero di restare quanto vuoi, io non ho problemi. Sei simpatico, comunque. E cucini bene. Potresti diventare la mia cuoca! – buttò lì con aria ilare, prima di concedersi uno sbadiglio enorme e borbottare un “buonanotte” vagamente infantile, per poi poggiare la testa sul cuscino e cadere istantaneamente nel più profondo dei sonni.
Chakuza lo guardò in silenzio per qualche secondo, sorridendo appena. Dopodiché, quando fu certo che si fosse addormentato davvero, decise di prendere alla lettera il suo suggerimento: il più silenziosamente e discretamente possibile, muovendosi così lentamente da arrivare quasi a dilatare il tempo, si alzò dal letto, ed in punta di piedi raggiunse la cucina. Dove cominciò immediatamente a rassettare.
*
- Chaku, ma cosa hai combinato?! – rise ad alta voce Fler, e fu effettivamente la prima cosa che fece quella mattina entrando in cucina e trovandolo ancora intento a lucidare le piastrelle già bianchissime dietro il piano cottura. Prima ancora di sbadigliare o grattarsi la testa o sistemarsi l’attrezzo come tutti gli esseri umani normali, prima ancora di prendersi magari un attimo per ricordarsi come quello sconosciuto fosse arrivato nel suo appartamento e, conseguentemente, nella sua cucina, Fler lo chiamò “Chaku” e cominciò a ridere.
Chakuza alzò lo sguardo e poggiò sul ripiano la pezzuola umida che stava utilizzando, voltandosi a guardarlo. Non aveva dormito neanche un minuto, quella notte, ma stranamente non era stanco. Non si sentiva né pesante né svogliato come spesso gli capitava svegliandosi alle sei del pomeriggio nel suo letto cencioso, nel baraccone di lamiere che lui, Nyze e Kay usavano come abitazione. E sì, il fatto che l’ingresso di un palazzo a caso in una via a caso di Berlino fosse decisamente più confortevole dell’unico luogo che potesse in qualche modo chiamare “casa” la diceva lunga su quali fossero le sue condizioni di vita generali.
- Ho pulito un po’. – rispose con una certa naturalezza, ricevendo in cambio una risata se possibile perfino più convinta.
- Ma era già tutto pulito, a parte i piatti! – gli fece notare Fler, - E quelli li avrebbe comunque puliti Bushido oggi!
- Senza offesa, eh, - rise Chakuza, asciugandosi le mani su un panno asciutto e versando il caffè che aveva già preparato in una tazzina che poi porse a Fler, - ma fino a ieri io vivevo in un mondo in cui Bushido era un uomo duro e potente, che sapeva il fatto suo e teneva in scacco tutta Berlino. Vorrei ritornare a vivere in quel mondo, quando sarò uscito da questa casa, perciò smettila di ricordarmi che in realtà stiamo parlando della tua donna delle pulizie.
- Se Bushido ti sentisse adesso, non si limiterebbe a tagliarti le mani. – osservò Fler con interesse quasi accademico, come stesse davvero ponderando l’ipotesi. Proprio in quel momento, neanche l’avessero invocato, una chiave girò nella serratura della porta d’ingresso e quest’ultima, pochi secondi dopo, si spalancò sulla figura gioviale e, per Chakuza, del tutto inedita in queste vesti, di Bushido.
Indossava un paio di jeans strappati in più punti e una vecchia maglietta scolorita, un paio di occhiali da sole e normalissime scarpe da tennis un tempo bianche ma ormai tendenti più che altro al grigiolino tipico che le colora dopo un po’ d’anni di utilizzo. Portava in mano un sacchettino di carta vagamente macchiato d’olio sul fondo e sembrava, in generale, un uomo che si fosse svegliato una decina di minuti prima della propria fidanzata ed avesse deciso di farle una sorpresa indossando a casaccio le prime cose che gli fossero capitate sotto mano per uscire a comprarle la colazione da portarle a letto.
Entrò all’interno dell’appartamento chiudendosi la porta alle spalle con estrema naturalezza, come fosse un’abitudine, cosa della quale peraltro Chakuza non si sognava nemmeno di dubitare. Ignorò platealmente la sua persona, come se per lui fosse normalissimo anche trovare sconosciuti nella cucina di Fler quando passava a trovarlo alle sette del mattino, preferendo dirigersi immediatamente verso di lui, girargli un braccio attorno alle spalle e tirarlo contro di sé, lasciandogli un bacio su una tempia.
- Ti ho portato la colazione, piccolo. – disse placido, posando il pacchetto sul tavolo ed osservando Fler mentre, con aria golosa, lo apriva e rovistava all’interno, tirandone fuori una ciambellina zuccherata con uno squittio entusiasta, - Il signore qui non ha fatto niente di sconveniente, vero?
Fler gli lanciò un’occhiata illegalmente divertita e Chakuza pensò “ecco, ci siamo, adesso gli racconterà di quello che ho fatto stanotte e quest’uomo mi taglierà le mani, e dovrò essere grato se si fermerà soltanto a questo”. Invece, Fler si limitò a girare un sorriso decisamente meno pestifero verso Bushido per rassicurarlo sbrigativamente.
- È stato bravissimo. – disse con sicurezza, - Un vero gentiluomo.
Chakuza tirò un discreto sospiro di sollievo e rimase un po’ in disparte, sentendosi vagamente e disagio e fuori luogo per la prima volta da quando era entrato in quella casa, mentre Bushido s’informava gentilmente con Fler su quali fossero i suoi programmi per la giornata – nello specifico, fare colazione, lavarsivestirsiuscire, detto tutto di seguito come avesse avuto cinque anni, fare un giro nei paraggi, poi tornare a casa e mettersi a giocare alla Wii.
- Ottimo. – approvò Bushido con un sorriso ed un cenno del capo, - Allora poi passo a prenderti per pranzo. Adesso accompagno il tuo nuovo amico a casa sua, d’accordo? Tu vatti a mettere qualcosa addosso. – suggerì, anche se più di un suggerimento sembrò l’ordine gentile di un padre bonario. Fler, comunque, sembrava abbastanza incline all’obbedienza, con lui, tant’è che salutò Chakuza con un mezzo abbraccio piuttosto caloroso e poi sparì in corridoio, con l’immancabile sorriso sempre sulle labbra.
Chakuza si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo, evidentemente in imbarazzo.
- Non c’è bisogno che mi accompagni, signor… signor Ferchichi. – provò.
- Bushido. – sorrise quello, perfettamente a proprio agio, - E non è un disturbo.
- No, ma davvero. – provò ad insistere lui.
- No, ma davvero. – insistette anche Bushido. La sua insistenza ebbe la meglio.
Rimasero perlopiù in silenzio mentre abbandonavano l’appartamento – dal bagno si sentiva arrivare lo scrosciare allegro dell’acqua e la voce di Fler che cantava a squarciagola il ritornello di Livin’ La Vida Loca, e Chakuza si ritrovò senza un perché a chiedersi se gli sarebbe dispiaciuto uscire da lì e non trovare nessuno ad aspettarlo – ed anche quando furono saliti in macchina – una BMW metallizzata incredibilmente bassa e lunga che doveva essere costata più di tutti i soldi che Chakuza aveva visto nel corso della sua intera esistenza – si limitarono ad una mezza conversazione di circostanza basata più che altro sulle indicazioni che Chakuza si sentiva in dovere di dare e che Bushido, d’altro canto, non sembrava avere alcun bisogno di ricevere.
Il perché Chakuza lo capì solo quando furono arrivati di fronte al suo baraccone e Bushido, dopo aver fermato la macchina, chiuse le sicure a tutti gli sportelli, voltandosi a guardarlo con aria estremamente seria, le sopracciglia aggrottate dietro gli enormi occhiali scuri.
- Io lo so chi sei. – gli disse tetro, e Chakuza si sentì scorrere un brivido di puro terrore lungo tutta la schiena.
- Mi… dispiace. – accennò quindi, anche se era piuttosto incerto sulla valenza da dare a quelle scuse. Di cosa avrebbe dovuto scusarsi, di esistere? Di fare la puttana? Non era granché chiaro nemmeno a lui stesso, per cui naturalmente non risultò chiaro neppure a Bushido, che inarcò un sopracciglio.
- C’è qualcosa di cui tu debba dispiacerti? – chiese dubbioso, e Chakuza si ritrovò a sollevare le braccia e prendere a gesticolare confusamente con una tale furia da spaventarsi da solo.
- No! – proruppe con enfasi, - No, assolutamente! Sono stato bravo! Lo giuro!
Bushido tornò a sorridere, le braccia abbandonate con naturalezza sul volante.
- Bene, allora. Ciò che volevo dirti è che so chi sei e so come si comportano quelli come te con quelli come Fler. Avrai capito, passando con lui la notte, che si tratta di un ragazzo abbastanza ingenuo.
Chakuza annuì, anche se in realtà era una consapevolezza che aveva acquisito ben prima di passarci la notte insieme.
- È un bravo ragazzo, signor Ferchichi. – disse con reverenza.
- Bushido. – lo corresse ancora lui, e Chakuza si morse la lingua. – Non voglio certo vietarti di rivederlo, se vorrai. Fler si affeziona facilmente alle persone e sono quasi certo che sarà lui a voler rivedere te quanto prima, ed è una cosa che io, naturalmente, non posso impedire. – Chakuza annuì ancora, anche se ebbe l’impressione che Bushido parlasse così solo per falsa modestia, come volesse lasciarti intendere che c’erano cose che nemmeno lui poteva controllare, quando invece le controllava eccome, anche solo terrorizzando gli astanti come stava abbondantemente facendo in quel momento. – Tutto quello che ti raccomando è di non farlo soffrire. Potrei diventare cattivo, allora.
Lo stesso brivido che l’aveva costretto a tremare prima risalì lungo la sua schiena, stavolta dal basso verso l’alto, costringendolo a tremare ancora. Annuì sbrigativamente, come se la sola idea di farlo aspettare fosse inconcepibile.
- Certo, signore. – disse obbediente, - Naturalmente. Non mi sognerei mai.
Bushido sorrise ancora, con maggiore convinzione, e tolse la sicura agli sportelli.
- Buona giornata, dunque. – lo salutò affabile.
Chakuza mormorò qualcosa in risposta e si affrettò ad uscire dall’auto, sentendo immediatamente tornare addosso stanchezza e pesantezza quando posò la mano sulla porta semi-scardinata del baraccone. La scostò appena, consapevole del fatto che, se avesse solo provato ad aprirla completamente, gli sarebbe rimasta in mano, e fu altrettanto attento a richiudersela alle spalle dopo essere sgattaiolato all’interno. Lanciò un’occhiata ai due lati opposti della stanza, assicurandosi che entrambi i giacigli di Nyze e Kay fossero occupati, e da Nyze e Kay, non da barboni piombati lì a caso durante la notte, e quando fu certo che, sotto le coperte cenciose, riposavano proprio loro due, si lasciò andare con un sospiro sul proprio letto, o almeno, su ciò che si ostinava a chiamare tale. Il materasso cigolò rumorosamente sotto di lui, e lui non poté fare a meno di pensare a quanto silenzioso fosse stato invece quello di Fler. E quante volte più comodo fosse, naturalmente.
Ciononostante, dopo una decina di minuti il sonno si fece tale che si rassegnò a chiudere gli occhi. Cadde addormentato senza neanche accorgersene, nel giro di dieci secondi.
*
- Sarà morto? – disse la voce di Kay, ancora un po’ impastata dal sonno, accogliendolo verso le nove di quella sera.
- Ma no che non è morto, coglione. – la rimbrottò la voce di Nyze, anche lei vagamente impastata, ma più che altro perché il suo proprietario sembrava impegnato a masticare qualcosa di non meglio definito.
Mugugnando con forza in segno di protesta, Chakuza aprì un occhio e con quell’unica finestra aperta sulle brutture del mondo – rappresentate in quel momento dai suoi due illustri coinquilini – cercò di trasmettere all’universo che tirava proprio una brutta aria e non era davvero il caso di dargli fastidio.
- Ah! Infatti ha aperto un occhio. – notò Kay, evidentemente poco incline a recepire il messaggio, di qualunque tipo esso fosse, - Ben svegliato, Chakuza! – lo salutò con entusiasmo, battendogli una pacca tanto forte quanto inopportuna sulla spalla, - Passato una bella nottata?
Chakuza grugnì qualcosa di vagamente somigliante ad un insulto e si rigirò su un fianco, tirandosi la coperta fin sopra la testa e desistendo meno di trenta secondi dopo, causa puzzo eccessivo. Da quant’è che non cambiavano quelle lenzuola? Mesi, almeno.
- Mi sa che non è stata una bella nottata affatto. – ghignò Nyze, avvicinandoglisi per scrutarlo con divertimento palese negli occhi e sbriciolandogli involontariamente – ma chissà poi quanto – addosso la fetta biscottata che stava trangugiando con la parsimonia di una formichina che raziona le scorte durante il gelido inverno.
- E sta’ lontano! – sbottò Chakuza, tirandogli una manata in piena fronte per allontanarlo dal suo letto, già abbastanza lurido senza dover aggiungere al tutto tracce di cibo, e rassegnandosi poi a tirarsi a sedere e stiracchiarsi un po’ nel tentativo di recuperare almeno un briciolo di lucidità, che tanto palesemente quei due non l’avrebbero lasciato in pace finché non si sarebbe deciso a scucire qualche informazione. Non era da lui uscire per le classiche quattro ore di lavoro notturno e non rincasare sfatto alle cinque del mattino. Non era da lui nemmeno tornare a mattina inoltrata con indossi vestiti nuovi palesemente non suoi, peraltro. – Non è stata una brutta serata. – si decise a confessare, gettando le gambe giù dal letto in un gesto repentino, prima di doversene pentire, - Direi più strana.
- Definisci strana. – ordinò Kay, saltando ai piedi del letto e facendo ondeggiare il materasso tanto da costringerlo a ricaderci sopra rotolando sulla schiena, sbattendo naturalmente la nuca contro la testiera.
- Kay, cazzo, ma datti una calmata… - borbottò lui, massaggiandosi il punto dolente, - Comunque voi come la definireste una serata in cui vi ubriacate fino a non riconoscervi manco quando vi guardate nelle vetrine dei negozi e alla fine di tutto passate la notte col pupillo di Bushido? – buttò lì con aria casuale, e prevedibilmente sul baraccone calò il silenzio.
- …definisci pupillo. – disse quindi Kay. Nyze lo spintonò giù dal letto.
- E piantala con questa storia delle definizioni! – sbottò prendendo il suo posto sul materasso, - Chakuza, che cazzo stai dicendo? – chiese quindi, tornando a rivolgersi a lui, gli occhi spalancati e colmi d’incredulità.
Chakuza scrollò le spalle, quasi a volergli lasciare intendere che alla fine non fosse poi niente di speciale.
- Questo tizio stranissimo, tipo, palesemente inadatto alla vita in genere, e viene fuori che Bushido lo conosce. – cominciò a spiegare, ma Nyze gli agitò entrambe le mani davanti alla faccia, interrompendolo all’istante.
- No, cioè. – disse quindi, - Tu hai conosciuto Fler. Tu hai conosciuto Fler!
Chakuza spalancò gli occhi e schiuse le labbra.
- …tu lo conoscevi? – chiese incredulo. Nyze lo fissò con aria ebete per un paio di secondi e poi si spalmò una mano sulla fronte, mugolando con evidente sofferenza.
- Ma con chi, - si lamentò, - con chi sono costretto a convivere?
Chakuza inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Se evitassi le sceneggiate e mi dicessi semplicemente cosa ti frulla per la testa…? – propose con aria scettica, lanciandogli un’occhiataccia poco compiaciuta.
- Tu vivi nell’ignoranza! – berciò Nyze, indicandolo con aria accusatoria, - Come fai a sopravvivere per strada senza sapere queste cose basilari! Basilari! – agitò le mani in aria, sconvolto, mentre Kay si accucciava sul pavimento accanto al letto e lo fissava con occhi vacui, come aspettandosi di vederlo cadere a terra rantolante in preda ad una crisi epilettica da lì a pochi secondi. – Bushido protegge Fler da quando era un ragazzino. Il tipo ha sempre vissuto nella bambagia per non so che promessa Bushido abbia fatto alla sua povera madre morente o qualcosa di simile… comunque il succo è che tu sei andato a letto con la cosa più importante che esista in tutto il mondo per quell’uomo! Non so se te ne rendi conto!
- Aspetta, aspetta! – strillò immediatamente Chakuza, prendendo a gesticolare furiosamente, - Hai capito male! Non ci sono andato a letto.
Nyze si interruppe immediatamente, lanciandogli un’occhiata sconcertata.
- Non ci sei andato a letto. – ripeté, come se soltanto dando voce al pensiero potesse pensare di potersi abituare all’idea.
- Non ci sei andato a letto?! – chiese Kay, la bocca spalancata in una perfetta o di meraviglia, - Cos’hai, sei malato? – si informò premuroso, alzandosi in piedi e premendogli una mano sulla fronte nel tentativo di saggiare la sua temperatura corporea.
Chakuza se lo scrollò di dosso in un gesto infastidito, scuotendosi tutto come un cane bagnato.
- No, non ci sono andato a letto. – ripeté in favore di entrambi, aggrottando le sopracciglia. - …non che non ci abbia provato, comunque.
- Che? – ridacchiò Nyze, - Ci hai provato pur non sapendo chi era? Ma non è che ti piace?
- Ti sei preso una cotta? – miagolò Kay, con l’aria di un bambino di cinque anni di fronte allo svago perfetto per le prossime cinque ore almeno.
- Non— niente del genere. – sbuffò lui, distogliendo lo sguardo. – È stato gentile, con me. Ero sfattissimo, pioveva in maniera assurda e lui, senza neanche sapere chi ero, mi ha preso in casa, mi ha offerto la cena, una doccia calda e un tetto sopra la testa.
- Ah! Ecco perché non puzzi. – constatò Kay con aria seria. Chakuza rispose con uno scappellotto sulla nuca.
- Volevo solo ricambiare la gentilezza. – concluse, scrollando le spalle. – E comunque non mi ha voluto, anzi, direi che mi ha proprio rifilato un due di picche colossale, per cui pace.
- Oh. – mugolò Kay, abbassando lo sguardo con aria quasi sinceramente ferita, - Mi dispiace, Chaku. – lo consolò, allungandosi a battergli un’amichevole pacca su una spalla. Chakuza gli tirò addosso il cuscino.
- Non è che mi abbia lasciato la ragazza, Kay. – sbottò infastidito, - Non ho alcun bisogno del tuo dispiacere. O di… qualunque cosa tu stia pensando adesso, Nyze. – lo avvertì, voltandosi a guardarlo per un secondo e trovandolo immerso in una profonda riflessione. Ma di quelle profonde davvero, a giudicare dalla ruga che gli si era disegnata in mezzo alle sopracciglia ed alle dita che accarezzavano insistentemente il mento affilato, come gli servisse un atteggiamento simile per favorire la messa in moto dei pensieri dentro la sua testa.
- No, è che stavo pensando… - cominciò lui con aria assente, e Chakuza scattò in piedi, allontanandosi verso il cesso a grandi passi.
- Non mi interessa. – ribadì per buona misura, entrando in bagno e chiudendosi la porta alle spalle. Nyze si avvicinò, e lui, seduto sulla tazza, sentì la porta scricchiolare pericolosamente sotto il suo peso. Doveva essercisi appoggiato contro, alla faccia dei cardini arrugginiti e vecchi di mille anni. – E stai lontano dalla porta, prima di sfondarla!
Nyze ebbe l’accortezza di spostarsi qualche centimetro più in là, poggiando sulla parete. Non che quest’ultima fosse poi molto più stabile di tutto il resto, ma almeno non correva il rischio di scardinarsi e crollargli sulla testa come invece gli scricchiolii della porta avevano minacciato di fare.
- Facevo solo qualche considerazione sparsa. – continuò, e Chakuza roteò gli occhi, corredando il tutto con un uggiolio sconfitto.
- Non mi interessa, Nyze, davvero. – ripeté pulendosi e alzandosi in piedi, meditando sulla possibilità di tirare l’acqua e non averne più per lavarsi e decidendo infine di rinunciare alla salvaguardia del cesso per continuare a sentire addosso la sensazione di pulito che la nottata in casa di Fler gli aveva regalato. Si posizionò davanti allo specchio, aprendo il rubinetto dell’acqua rigorosamente fredda ed accontentandosi del rivolo che ne venne fuori per darsi una sciacquata veloce, ripensando con nostalgia crescente al bagno piastrellato, lucido, bianchissimo e profumato di casa di Fler.
- Ma sono più che altro curiosità, niente di che. – continuò Nyze, ignorandolo completamente. – Tipo, per dire, come vi siete trovati tu e Fler? In generale, dico.
- Abbastanza bene, grazie. – rispose Chakuza, cercando di concentrarsi sul proprio aspetto e rendendosi conto che rendersi più presentabile per andare in strada, quella sera, sarebbe stato meno difficile del solito: la sua pelle era meno ruvida, i vestiti che aveva addosso erano palesemente costosi e ben tenuti, e profumavano di buono. Sarebbe stata una serata proficua.
- E che tipo è? – chiese ancora Nyze, mentre Chakuza si osservava di profilo, da un lato e poi dall’altro. – A parte quella cosa dell’essere palesemente inadatto alla vita di cui parlavi prima.
- La sua inabilità a vivere è la parte più importante di lui. – disse senza pensarci, sistemandosi sbrigativamente i vestiti addosso, - Sembra un ragazzino di cinque anni, potresti fargli credere tutto e il contrario di tutto solo sorridendogli un po’.
Nyze rimase in silenzio per qualche secondo.
- Ed è un bel ragazzo? – chiese quindi. La sua domanda cadde nel silenzio.
- In che senso? – ritorse Chakuza poco dopo.
Nyze cambiò posizione e la parete scricchiolò in segno di protesta.
- Non è una domanda difficile, Chaku. – disse lui, - È un bel ragazzo?
Chakuza spalancò la porta, affrettandosi ad affacciarsi sulla stanza. Kay era ancora seduto per terra accanto al letto, e lo osservava senza espressione. Si voltò a cercare gli occhi di Nyze, appoggiato alla parete al suo fianco, apparentemente l’immagine stessa della purezza, ma Chakuza conosceva i suoi polli e sapeva che non c’era da fidarsi.
- Non è roba per te. – disse immediatamente, sentendo nella propria voce una nota di rabbia possessiva che non aveva la minima ragione di esistere.
Nyze sorrise come uno che aveva un motivo molto valido per cui sorridere.
- Non pensavo di allungare le mani. – lo rassicurò con voce soffice e suadente, - Non mi permetterei mai.
Chakuza spalancò gli occhi e credette di capire. Si disse che no, non poteva essere vero. Poi guardò Nyze con più attenzione, e capì che invece sì, era verissimo.
- Nyze. – disse piano, cercando di razionalizzare invece di scaraventarlo contro la parete più lontana come sarebbe stato più giusto, - Ho visto dove i tuoi pensieri mi stavano portando e non m’è piaciuto. Facciamo finta che tutto ciò non sia mai accaduto, vuoi?
- Oh, andiamo! – sbottò Nyze, roteando gli occhi e staccandosi dalla parete per andare a svaccarsi sul proprio letto con aria sfatta, - Non sai nemmeno cosa voglio proporti!
- No, ma sono sicuro al cento percento che si tratti di qualcosa che farebbe del male a Fler. – rispose lui, aggrottando le sopracciglia, - Gradirei evitare.
Nyze gli lanciò un’occhiata di traverso, stupito.
- Ma ti senti? – chiese con malcelato schifo, - Che cos’è, hai trovato il grande amore della tua vita?
Chakuza si ritrasse di qualche centimetro, sulla difensiva.
- Non ho detto niente del genere. – borbottò incerto, riascoltando in replay le proprie stesse parole nella propria testa e cercando di ignorare la vocina che, dal fondo del suo petto, gli diceva che invece sì.
- No, perché ti comporti come se fosse così. – rincarò la dose Nyze. – Chi è questo tipo, mh? Chi cazzo è, cosa cazzo ha fatto per te? Ti si è portato in casa, ti ha lavato, ti ha nutrito. Sei stato il suo giocattolino per una notte, Chakuza, niente di più. Non ti si è scopato, ma non è stato diverso da nessuno dei clienti con cui sei stato. Noi siamo i tuoi compagni, i tuoi amici, i tuoi alleati da una vita. E ci butteresti sotto un treno pur di non far soffrire Fler. – lo rimproverò, facendogli il verso.
Chakuza si strinse nelle spalle, fissandolo a muso duro.
- Non vi butterei sotto un treno, siete praticamente la mia famiglia. – rispose irritato, - Come puoi mettere in dubbio una cosa del genere?
Kay strisciò sul sedere, rigirandosi per poterli guardare entrambi più facilmente.
- Non capisco cosa sta succedendo. – disse con una certa franchezza, a bassa voce. Chakuza gli lanciò un’occhiata incerta. Era così sciocco, così giovane. Ovviamente lui e Nyze venivano prima di tutto il resto. Non era neanche una questione da discutere.
- Allora senti cosa faremo. – disse Nyze, la voce nuovamente affabile, - Hai idea di cosa potrebbe significare per noialtri avere Bushido in pugno? Avremmo una casa vera, con acqua sufficiente per lavarci ogni volta che ne avessimo bisogno. Mangeremmo del buon cibo e magari, forse, potremmo anche smettere di dare via il culo e l’uccello per soldi. Intendo, magari riuscirebbe a trovarci un posto dirigenziale, o che so io.
- Nyze… - lo interruppe Chakuza con un lamento stanco, massaggiandosi le tempie e chiudendo gli occhi, - Ma di cosa stai parlando, un posto dirigenziale…? Ma hai idea di quello che mi stai chiedendo?
- Sì, ne ho un’idea molto precisa, Peter. – insistette lui, alzandosi dal letto ed avvicinandoglisi con decisione. Chakuza lo scrutò con un po’ di paura. L’aveva chiamato Peter, e questo non poteva che lasciar supporre che stesse per fargli un discorso molto, molto serio. – Questa vita che facciamo è veramente una vita di merda. Non è una vita che puoi fare per sempre, ti ammazza prima. Abbiamo bisogno di tornare alla normalità, Peter, ma non possiamo andare da Bushido e chiedergli un lavoro diverso da quello che abbiamo, non è così che funziona. Quell’uomo ammazza i dissidenti sparandogli alla nuca nei vicoli delle strade. Se vogliamo che faccia qualcosa per noi, dobbiamo tenerlo per le palle.
- Ragazzi, ma di che cosa stiamo parlando? – chiese Kay, con aria palesemente preoccupata, scattando in piedi e guardando alternativamente prima l’uno e poi l’altro, in attesa di una risposta.
Chakuza trattenne il fiato per qualche secondo, senza mai perdere il contatto visivo con gli occhi di Nyze.
- Già. – disse quindi. Avrebbe voluto suonare caustico e astioso. Suonò soltanto come un soldato in attesa di chiarimenti sugli ordini impartiti dal proprio superiore. – Di cosa stiamo parlando?
Nyze non sorrise trionfante come Chakuza si sarebbe aspettato. L’atmosfera cospiratoria della situazione aveva alterato i suoi sensi ed i suoi processi mentali, per un attimo aveva creduto di trovarsi in un film di mafia e la cosa non gli era piaciuta. Ma Nyze distolse lo sguardo e si sedette a tavola, congiungendo le dita davanti al naso, e per qualche secondo si limitò semplicemente a riflettere, come avesse un gran bisogno di raccogliere le idee, prima di esporre il proprio piano.
- Potresti tornare da lui. – propose, fissando ostinatamente un punto vuoto sulla parete di fronte a sé, - E vedere come gira. Non voglio prenderti in giro, non si tratta di fare qualcosa di onesto, ma d’altronde da quant’è che non fai qualcosa di onesto, Chaku?
Chakuza sospirò pesantemente, ammettendo quantomeno con se stesso che Nyze aveva ragione.
- Avrei preferito non dover fare niente di disonesto che coinvolgesse Fler. – rispose. Nyze gli lanciò un’occhiata dubbiosa, inarcando un sopracciglio. – Non mi sono preso nessuna cotta. – precisò lui, sedendosi di fronte a lui e guardandolo dritto negli occhi, - Solo che gli sono grato, pur per quel poco che ha fatto. Voi, comunque, - concluse con un mezzo sorriso, - venite prima.
Nyze rispose al suo sorriso con uno ugualmente caloroso, e Kay, in piedi dietro di lui, pur continuando palesemente a non capire un accidenti di quanto stesse accadendo, fece lo stesso. C’erano dei momenti in cui Chakuza li odiava entrambi, o meglio, non riusciva a sopportare l’idea di dover dividere il proprio spazio vitale con loro. Ma c’erano altri momenti, ce n’erano stati tanti, in cui la loro presenza gli era sembrata indispensabile, e lo era stata davvero. Momenti in cui faceva troppo freddo per stare fermi, momenti in cui bisognava parlare tutta la notte per non avvertire i morsi della fame, momenti in cui si stracciava un paio di pantaloni e si mettevano insieme i risparmi di tutti per comprarne uno in sostituzione. Non poteva mettere da parte tutto questo per il calore delle mani di un ragazzino a caso. Sospirò profondamente.
- Sarà facile, per te. – disse Nyze, battendogli una pacca su una spalla, - Ci sai fare, con gli uomini. Ti cadrà ai piedi in un istante.
Chakuza sorrise fra sé. Non era proprio sicuro che sarebbe andata così, e qualcosa, nel fondo del suo petto, si stava agitando, rendendolo irrequieto. Si costrinse a cercare di ignorare almeno quello, e poi finì di prepararsi per uscire.

continua...