rp: zlatan ibrahimovic

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Commedia.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, What If?.
- Per un disguido tecnico, dopo il triangolare con Juve e Milan per il Trofeo Tim 2009, l'Inter è costretta a passare la notte a Pescara...
Note: Partecipante al Pigiama Party su Fanworld.it.
Se scrivessi con questa velocità e con questa continuità anche per il BBI, a quest’ora le mie sette storie sarebbero tutte pronte. *sospira* Comunque! Storia idiota nata da una serie di idiozie, elencabili più o meno in quest’ordine, dalla meno importante alla più fondamentale: il mio amore per Lorenzo Crisetig, il mio amore per Rene Krhin, il mio amore per Andrea Butti, il mio amore per José Mourinho, il mio amore per Bedy Moratti, il mio amore per l’Everlasting!Jobra e il mio amore per il Santonelli che più canon di così si muore. Yay XD
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LA TRAGICA LEGGENDA DELLO SPIRITO DEL MAL DI PANCIA

- Cosa vorresti dire con “non ci sono voli disponibili fino a domani mattina”, Andrea?
Il team manager esitò appena, stringendosi timorosamente nelle spalle e schiarendosi rumorosamente la gola, prima di spiegare meglio il concetto appena espresso. Era abbastanza ridicolo da osservare un uomo della sua stazza perdersi in tante incertezze a causa di un ometto alto più di venti centimetri in meno e pure decisamente più avanti di lui con gli anni, ma José tendeva ad avere quest’effetto di terrorismo psicologico sul mondo circostante, e se i ragazzi, essendo causa di problemi e rimbrotti continui, potevano dire di essercisi abituati piuttosto in fretta, altrettanto non era possibile affermare del povero Andrea, che per contro il suo lavoro lo faceva sempre e cercava sempre di farlo bene, perciò di fronte a quello sguardo intransigente e severo era costretto a ritrovarcisi decisamente meno spesso.
- Intendo dire che purtroppo il volo che avevamo prenotato è stato cancellato per problemi tecnici, mister, e non sarà possibile trovarne un altro prima di domattina, perciò-
- Chiama il presidente e fatti mandare un dannato aereo privato! – sbottò l’uomo, gesticolando animatamente, - Che razza di storie, chissenefrega se non c’è un aereo di linea disponibile fino a domani! Dopodomani abbiamo l’ultima amichevole prima del campionato, ed io ho bisogno che i ragazzi tornino a casa e si riposino, in modo da poterli obbligare a sputare sangue domani in allenamento! Perciò datti una mossa e risolvi questo problema, ora!
- Mister, se posso permettermi… - s’intromise Bedy, avvicinandosi con un sorriso e con la solita incontrastabile grazia, - Comprendo perfettamente le sue rimostranze, ma è troppo tardi per allertare il nostro pilota personale, soprattutto per circostanze che difficilmente si potrebbero definire di vita o di morte. – spiegò pacatamente, di fronte ad un José incapace di protestare di fronte a lei con la stessa veemenza utilizzata appena pochi istanti prima nei confronti di Andrea, ancora abbacchiato in un angolino a causa della sfuriata, - Perché non seppelliamo tutti l’ascia di guerra e chiediamo ad Andrea di trovare una soluzione ad un problema meno complesso? – concluse con un altro sorriso smagliante, piegando appena il capo e lasciando che la ciocca biondo platino sul davanti ricadesse graziosamente lungo i tratti tondi ma non sgraziati del viso senza età.
- Che donna. – mormorò Dejan, sgomitando Marco fra le costole, - Una botta gliela darei anche, cazzo. Pure due, in caso.
- Sei sposato. – rispose laconicamente il difensore, sollevando gli occhi al cielo, - E comunque daresti una o due botte a chiunque, tu. Ne sa qualcosa il povero Christian.
- Ehi! – borbottò Dejan, quasi offeso dall’insinuazione, - Non ho mai alzato un dito che fosse uno su Christi, lo rispetto troppo per portarmelo a letto.
Marco scosse il capo e sospirò platealmente, mentre Christian, accanto a lui, si tirava una rassegnata manata in piena fronte. Mario smise di ascoltare il discorso e ridacchiò appena – il peso di Davide ancora pressato contro una spalla e la solita interminabile tiritera di lamentele a scivolare fuori dalle sue labbra come una cascata. Seguì con gli occhi il mister mentre si rassegnava a sospirare e chiedere ad Andrea di trovar loro un albergo per la notte, prima di rifugiarsi in un angolo e cominciare a smanettare col cellulare, e poi Davide gli pizzicò un fianco talmente forte che lui, temendo per la propria vita, si rassegnò a concedergli un po’ d’attenzione.
- Sì, Dade. – rispose meccanicamente, - Hai ragione su tutto.
- Non hai la minima idea di cosa ti abbia detto, vero? – protestò il ragazzo, offeso a morte, tirandogli un mezzo calcio contro uno stinco, - Non hai ascoltato una parola!
- Per la verità, hai ragione. – annuì naturalmente Mario, sollevando un braccio e tirandoselo contro in un abbraccio sbrigativo, - Non ti stavo ascoltando. Ma so cosa stai pensando.
- E sarebbe? – lo sfidò lui, inarcando un sopracciglio.
- Che è tutta colpa tua se abbiamo perso, che se solo avessi segnato quel rigore noi ora avremmo un’altra coppa in bacheca e che il mister dovrebbe sgridarti perché è evidente che non hai dato il meglio di te. – tirò a indovinare, sulle labbra il sospiro rassegnato di chi sa già di avere ragione.
- …ecco. – ammise Davide, sistemandosi meglio sul suo petto, - …e pensi davvero che io abbia ragione?
- No, Dade. – sospirò ancora Mario, esasperato, - Penso che tu sia stato bravo, penso che tu abbia fatto il possibile e penso che tu ti sia mosso molto bene. Penso inoltre – specificò, - che entrambe le partite siano andate alla grande, abbiamo giocato bene, compatti, chiusi, organizzati, e che l’unico motivo per il quale abbiamo perso sia che i rigori sono un terno al lotto e la palla è tonda e, in quanto tale, gira, e non sempre nel verso che uno vorrebbe o si aspetterebbe.
- Parli bene, tu. – continuò a lagnarsi Davide, dispiaciuto, - Hai segnato, sei comunque l’idolo delle folle. – Mario inarcò un sopracciglio, come a dire “idolo delle folle? Io? Ma in che universo alternativo vivi?”, e Davide tossicchiò, affrettandosi a correggersi, - Intendo, il mister di sicuro starà comunque pensando un gran bene, di te. Si era tanto raccomandato di non sbagliare quel rigore, Mà, la voleva proprio quella coppa…
- Be’ – scrollò le spalle Mario, decisamente poco impressionato dal piagnisteo, - avrebbe voluto che Zlatan restasse ma non è successo, e s’è rassegnato. Avrebbe voluto Deco, Carvalho, Lampard, Drogba e un altro milione e mezzo di uomini, e nessuno di loro è arrivato, e s’è rassegnato anche a questo. Penso che potrà sopravvivere anche ad un Trofeo Tim in meno, considerando che in bacheca ne abbiamo ancora comunque, più di tutti gli altri, ti pare?
- Tu sei un cocciuto insensibile presuntuoso supponente e rompipalle. – borbottò ancora Davide, tirandogli un pugnetto parzialmente giocoso e parzialmente risentito fra le costole, costringendolo ad usa risatina divertita mentre lo fermava con un gesto tenero, - Ecco cosa mi pare.
- Intanto – continuò Mario, adocchiando nuovamente il mister muoversi in mezzo alla sala d’aspetto come un animale in gabbia, ancora attaccato al cellulare, - mi sa che per stanotte si resta qui. Chissà con chi cavolo sta parlando…
- Ma che ti frega, scusa? – chiese Davide, sollevandosi appena per guardarlo negli occhi, prima di crollargli nuovamente contro la spalla mentre, senza volere, ascoltava il mister biascicare un incerto “ma no… lascia perdere, i bambini” alla cornetta, - Sarà la moglie. Si aspettava che tornasse in serata, l’avrà avvertita.
- Mhmh… - mugolò dubbioso Mario, mentre il mister continuava a biascicare una sequela di “davvero, lascia perdere, ci vediamo domani a Milano”, - Sì, mi sa di sì.
-  Allora, ragazzi! – richiamò la loro attenzione Andrea, battendo sonoramente le mani, - Stanotte si resta a dormire qui, ho appena trovato l’albergo. – l’annuncio venne accolta con un fragoroso noooo di lagnoso disappunto, ed Andrea faticò non poco a ristabilire l’ordine, prima di poter continuare a parlare, - Dovremo stringerci un po’, - proseguì con un sospiro, - purtroppo l’albergo è molto bello, ma piccino. Molti di voi dovranno dividere la stanza, ma abituati come siete in Pinetina di sicuro la cosa non vi turberà più di tanto. Per il resto, avvisate mamme e mogli, così che non si preoccupino. Rientreremo a Milano nella mattinata di domani-
- E badate di riposare bene, stanotte. – lo interruppe burbero José, finalmente libero dalla conversazione con la signora, - Domani vi voglio freschi e pimpanti per l’allenamento, e se stanotte vi trovo svegli a bighellonare in giro giuro sui miei figli che vi sbatto in panchina fino alla finale di Champions, se ci arriviamo, vita natural durante se non ci arriviamo. Sono stato chiaro?
Il coro di sìììì che accolse le sue minacce non presentò sfumature di lagnoso disappunto molto diverse dal coro precedente, e la discussione si chiuse così – con tutti i ragazzi che prendevano posto sul bus, diretti alla volta del Victoria Hotel.

*

- Be’, almeno il posto è bello. – commentò Andrea di fronte all’edificio. José gli passò accanto, ruminando acredine.
- I balconi somigliano alle valve di una conchiglia. – borbottò aspramente, - Se volevo nascere mollusco, mi infilavo in un blocco di gelatina rosa e mi piazzavo una perla gigante in bocca, ti pare?
Bedy cercò di forzare una risata e consolò brevemente Andrea, mentre quest’ultimo si abbatteva in un angolo, disperato, e José prendeva posto nel centro del marciapiede, arringando i giocatori.
- Allora! – cominciò tuonando, - Le camere sono state sistemate in modo che possiate utilizzarle in quattro. – spiegò, spegnendo l’ennesimo coro di lagne con un’unica occhiata omicida, - Cos’è, volevate per caso che la camera della signora Moratti fosse aperta anche a voi, per distribuirvi meglio? Deki, non provarci nemmeno. – lo minacciò, prima ancora che il serbo potesse proferire parola, zittendo la sua battutina sul nascere e sfumandola in una risatina furba, - Allora, i gruppi sono… - cominciò ad elencare, e Davide smise immediatamente di ascoltare. Mario se ne accorse perché se lo sentì crollare rovinosamente sulla spalla con uno sbuffo annoiato, come al solito.
- E dire che prima per poco non mi mandavi in orbita, spintonandomi. – lo prese in giro, dandogli un colpetto tenero con la tempia contro la sua. Davide mugolò contrariato.
- Eravamo in mezzo al campo, c’erano ventimila tifosi e un altro centinaio di gente fra compagni, avversari e staff vario ed eventuale. – si lamentò, strusciando una guancia contro la sua spalla, - E tu prendi e mi salti addosso, chiaro che mi viene voglia di mandarti in orbita.
- Che palo in culo, Dio mio. – rise ancora Mario, osservando Diego guardare con una certa curiosità gli sguardi da belve inferocite che Deki e Marco gli lanciavano, traendo Christian fuori dalla sua portata prima ancora che lui provasse effettivamente a mettergli le mani addosso. Ah, calciatori. – E adesso va bene se ti strusci tu, invece? I compagni intorno ci sono sempre.
- Sì, ma ora sono stanco e ho sonno, – sbottò Davide, arpionando la sua maglietta e sprimacciandogli la spalla neanche fosse stata un cuscino, - per cui me ne frego.
- Sonno? – chiese Mario, cercando la sua fronte con le labbra, - Quindi stasera non si gioca?
- Non si giocherebbe comunque. – pigolò Davide, delusissimo.
- Balotelli, Crisetig, Krhin, Santon! – annunciò ad alta voce il mister, e Davide sospirò ancora, in sincrono con Mario. – E questo è quanto, diamoci una mossa prima che la mia naturale bontà si esaurisca e mi venga voglia di lasciarvi per strada solo per guardarvi arrotolarvi nelle coperte agli angoli della strada dalla comodità del mio letto.
Le camere non erano purtroppo particolarmente grandi. Pittoresche quanto si voleva, con quei dipinti sulle porte e tutto il resto, ma occupate per il cinquanta percento dal letto matrimoniale situato nel bel mezzo dell’ambiente e per il restante cinquanta dai due lettini singoli che vi erano stati trascinati e ficcati a forza, così che, per muoversi all’interno della stanza, si doveva praticamente camminare scalzi sui letti, o azioni di una normalità disarmante per un qualsiasi essere umano – come raggiungere il bagno o allungarsi verso il minibar alla ricerca di una bottiglietta d’acqua – si sarebbero rivelate impossibili.
Davide piantò un piede sul materasso occupato da Lorenzo – che per contro si spostò il più possibile per non intralciarlo nel movimento – lo superò, poggiò l’altro piede sul materasso immediatamente successivo, occupato da Rene, e naturalmente-
- Ah- cazzo, Davide! – si lamentò lo sloveno, scalciando furiosamente da sotto le lenzuola, - Le palle!
- Re- ferm- - poco da fare, non ebbe nemmeno il tempo di concludere la frase che si ritrovò a perdere l’equilibrio, ondeggiare incerto sul posto fra le urla di Rene e le occhiate incerte e divertite di Mario, prima di franare con pachidermica grazia proprio addosso a quest’ultimo, ficcandogli entrambi i gomiti e le ginocchia un po’ ovunque, fra pancia, palle e petto, ma ottenendo nonostante tutto in risposta solo un ahouff sbuffato in una mezza risata e un abbraccio protettivo e un po’ ondeggiante, condito da un sorriso tenero.
- Dio, perché? – continuò a lagnarsi Rene, massaggiandosi lentamente fra le gambe, - Perché mi odi così? Perché il mister non mi ha messo in camera di Tia e Luca, perché?
- Uh? – azzardò Lorenzo, stendendosi su un fianco e ripiegando un braccio sopra il cuscino, per tenere il capo sollevato e poterlo guardare più facilmente, - Perché dici così?
- Perché quei due – ringhiò Rene, infastidito, indicando Mario e Davide intenti a non dare l’impressione di volersi saltare addosso e stare in effetti ponderando la possibilità con o senza pubblico pagante, - sono due piaghe sociali. Al di là di quello che fanno continuamente e di cui hai anche avuto prova oggi sul campo… - raccontò roteando gli occhi, mentre Lorenzo ridacchiava al ricordo di Mario che si gettava a peso morto su Davide coinvolgendolo in un mezzo rotolio a centrocampo, proprio durante il blackout allo stadio, - sono incasinati, fanno rumore e chiunque vada in giro con loro il giorno dopo è talmente rincoglionito da fare per forza qualcosa di talmente idiota da mandare il mister su tutte le furie e giocarsi il posto in squadra. Matematico.
- …oh. – deglutì a fatica Lorenzo, tornando a voltarsi fra le coperte, dando la schiena agli altri tre, come sperasse che prendere le distanze in quel modo fosse abbastanza per continuare a mantenere il proprio posto fra le riserve.
Davide e Rene riuscirono appena a scorgere il sorriso semplicemente demoniaco sul volto di Mario, prima che tutte le luci si spegnessero, sprofondando quello che, a guardare fuori, sembrava l’intero quartiere in un buio talmente pesto da fare paura.
- …che città di merda. – commentò distrattamente Davide in un sospiro esausto. Mario rise, Rene si chiese un’altra volta il perché di tanta sfiga e Lorenzo chiuse gli occhi e cercò di astrarsi da tutto ciò che lo circondava, almeno fino a quando la porta della loro camera si spalancò, mostrando un inedito Andrea in versione notturna, completo di canottiera vecchia di cinque anni e boxer a righine, che li guardava con aria allucinata, illuminato appena dalla luce bianchiccia di una torcia elettrica.
- Tutto a posto, ragazzi? – chiese allarmato, illuminandoli uno per uno mentre Rene gli chiedeva per pietà di spegnere la dannata cosa, che gli infastidiva gli occhi.
- Aha. – annuì tranquillo Mario, Davide ancora steso sul petto neanche fosse stato perfettamente naturale, - Successo qualcosa?
Andrea sollevò gli occhi al cielo, mentre – dal profondo abisso del fondo scuro del corridoio – giungevano le urla belluine di José, impegnato ad imprecare in portoghese contro una lunga sfilza di divinità cristiane e non.
- …è saltata la luce. – biascicò stremato. – Che città di merda. – concluse quindi, richiudendo la porta. Davide rise piano e Mario gli fece il solletico, guadagnando in cambio uno schiaffone sul braccio talmente rumoroso che Lorenzo saltò a sedere e si guardò celermente intorno, allarmato dal fragore.
- Sapete che storia sarebbe perfetta da raccontare adesso? – chiese invece l’attaccante, mettendosi seduto così velocemente da costringere Davide a cadergli in grembo con un urletto sorpreso, - La vecchia storia del fantasma del mal di pancia.
- Mario… - cercò di rimproverarlo Davide, ritrovandosi immediatamente una mano schiacciata delicatamente sulle labbra, per impedirgli di proseguire.
- Oh, ti prego. – protestò Rene, tirandosi le coperte fin sopra la testa, - Risparmiami almeno questo.
- Che… che storia? – chiese invece Lorenzo, incrociando le gambe sul materasso e protendendosi interessato verso il matrimoniale.
- Mmh, non so se posso raccontartela… - rifletté Mario, mentre Davide roteava gli occhi e lo mandava discretamente a fanculo, tornando a stendersi sulla propria metà del letto nel tentativo di dormire, - Sei un po’ piccolo, ti pare?
- Ho sedici anni! – protestò lui, spalancando gli occhi. Mario sembrò considerare molto seriamente la possibilità di tacere e mettersi a propria volta a dormire, ma alla fine, fortunatamente, sospirò ed annuì.
- D’altronde, è giusto che anche tu sappia. Così potrai difenderti. – asserì serio, mentre Rene, dal fondo delle coltri che lo coprivano, lanciava al cielo un pietoso lamento.
- Mario, sei un cretino. – borbottò Davide, tirandogli un mezzo calcio da sotto le lenzuola, - Piantala, è solo un ragazzino.
- Non sono un ragazzino! – ruggì Lorenzo, profondamente offeso, ma Davide lo ignorò in modo così plateale da convincerlo a desistere da quell’inutile opera di persuasione e tornare a concentrare tutta la propria attenzione su Mario. – Che storia è?
- Be’, - scrollò le spalle lui, - naturalmente sai chi è Zlatan, no?
- Ovvio. – annuì Lorenzo, interessato. Lui non aveva avuto il piacere di conoscerlo, solo di osservarlo da lontano quelle poche volte che la Primavera s’era incrociata con la prima squadra durante gli allenamenti, ma la fama di Zlatan Ibrahimović non teneva conto né del tempo né dello spazio. E quindi sì, ovviamente sapeva chi fosse, e una volta fatto il suo nome anche tutto il resto della storia assunse un’importanza del tutto diversa.
- E, altrettanto naturalmente, - proseguì Mario, dosando attentamente i gesti e le pause per mantenere l’aspettativa al livello più alto possibile, - hai sentito parlare dei suoi numerosi mal di pancia.
Lorenzo annuì ancora, mentre Rene tornava a mostrarsi al di sopra delle lenzuola, solo per lanciargli un’occhiata sconvolta e mormorare un incerto “non vorrai mica…” che Mario ignorò apertamente, costringendolo a sospirare frustrato e tornare a nascondersi in un luogo sicuro.
- Insomma, la verità su Zlatan… - disse Mario a bassa voce, in tono cospiratorio, - è che era posseduto dallo spirito del mal di pancia.
- Lo sp-… - sbottò Rene, risorgendo ancora dalle coperte appena in tempo per notare Davide riemergere a propria volta e guardare quello che a buon diritto era possibile definire “il suo ragazzo” con un’occhiata a metà fra l’incredulo e l’ammirato, - …ma tu non puoi aspettarti che ci creda! – sbottò esasperato, - Lori, per carità. Mandalo a fanculo e mettiti a dormire.
Lorenzo si lasciò andare ad una risatina di puro disagio, grattandosi la nuca.
- Già… - biascicò incerto, - è… è sicuramente una cavolata, no? Mi stai prendendo in giro…
Mario scrollò disinvoltamente, come non gl’importasse certo se essere creduto o meno. Davide sospirò teatralmente e si spiaccicò una manata sulla fronte, tornando a stendersi su un fianco.
- Puoi credermi o non credermi. – buttò lì Mario, tranquillissimo, – Ma per quale altro motivo credi che uno dovrebbe voler rinunciare a un compenso da urlo come quello che Ibra aveva qui, per andarsene in un posto in cui lo pagano di meno, è odiato dai tifosi e non è nemmeno la stella della squadra? Semplicemente, - aggiunse con una scrollatina di spalle, - se non fosse andato via, lo spirito del mal di pancia avrebbe continuato a perseguitarlo per sempre. E adesso è ancora qui che si aggira in mezzo alla squadra, sotto forma di uno Zlatan scuro come la notte, impalpabile come una nuvola e con gli occhi rossi come quelli di un ratto bianco, e luminosi come stelle, che aspetta solo di prendere possesso del corpo di qualcun altro, per costringere anche lui a soffrire le pene dell’inferno finché non si rassegnerà ad andare via.
Un lungo silenzio seguì la dichiarazione di Mario. Un silenzio che fu riempito appena dal movimento degli occhi di Davide e Rene, che tornarono a fissarsi prima su Mario e poi su Lorenzo, come a volersi chiedere del primo come potesse essere così assurdamente perfido da perseverare in quell’atto di pura crudeltà verso un animale indifeso, e del secondo come potesse essere così assurdamente sciocco da cascarci.
Poi, Lorenzo ridacchiò imbarazzato, con considerevole difficoltà, e si ravviò la frangetta lungo la fronte.
- …andiamo… - deglutì a vuoto, - sono… voglio dire… non possono… - ma la sua frase, se mai aveva avuto intenzione di concludersi, non riuscì mai a farlo, perché venne presto sovrastata da un rumore nel corridoio, appena fuori dalla stanza, seguito da una serie di indistinguibili imprecazioni in una strana lingua a metà fra l’italiano, lo spagnolo e qualcos’altro che non era davvero possibile decifrare.
Lorenzo, Davide e Rene scattarono a sedere, trattenendo il fiato e portando entrambe le mani al cuore, mentre perfino Mario, che pure sapeva perfettamente di aver detto una marea di cazzate fino a quel momento, non poteva fare a meno di irrigidire tutti i lineamenti, fissando la porta con aria timorosa.
- Cosa… - biascicò Rene, inumidendosi le labbra, - Cosa è stato…?
- …non ne ho la più pallida idea. – ammise Davide, già moderatamente spaventato, - Qualcuno dovrebbe… andare a vedere.
Mario annuì, e per un secondo sembrò che dovesse essere lui l’eroe designato ad uscire, praticamente seminudo, per affrontare lo spirito del mal di pancia o chiunque altro avesse causato quell’improponibile tramestio là fuori. Poi, i ragazzi lo videro incrociare le braccia sul petto ed inspirare profondamente.
- Lori. – disse quindi, serissimo, quasi sacrale, - Vai tu.
- Cosa?! – strillò il ragazzino, portando le coperte a coprirsi fin quasi a metà viso, terrorizzato, - Assolutamente no! Se è lo spirito io non-
- Non esistono gli spiriti! – cercò di rabbonirlo Mario, alzando la voce, - Ti stavo prendendo in giro!
- E allora perché non esci tu? – replicò quello, ostinato, e Mario inarcò un sopracciglio.
- Perché – rispose Mario, ghignando supponente, - posso farti passare dei guai non indifferenti, se non obbedisci.
- Mario! – cercò di rimproverarlo Davide, ottenendo in risposta un mezzo cazzotto sulla spalla che lo stese letteralmente sul letto, mugolante di dolore.
- Va… va bene. – annuì quindi Lorenzo, sempre terrorizzato dallo spirito del mal di pancia ma indubbiamente più terrorizzato da Mario, - Esco.
I tre compagni lo osservarono sgusciare silenziosamente fuori dal letto, cercare a tentoni le proprie pantofole e poi muoversi lento verso la porta, appoggiandosi a qualsiasi superficie incontrasse con la mano tesa in avanti, per evitare di inciampare e cascare rovinosamente a terra. Poi lo osservarono schiudere la porta, trarre un profondo respiro e infine spalancarla e catapultarsi all’esterno della stanza, coinvolgendo lo spirito del mal di pancia in una capriola rotolante fino alla parete di fronte.
- Whoa! – esclamò stupito lo spirito del mal di pancia, battendo di spalle contro il muro. Davide sollevò la testolina arruffata dal cuscino, e Mario poté quasi vederlo tendere le orecchie e arricciare il naso, come subodorasse una presenza molesta o fuori posto.
- Zlatan. – disse quindi il ragazzo, prima di voltarsi verso di lui, - Zlatan! – ripeté, - Era la voce di Zlatan!
- Davide?! – strillò quindi Mario, turbato, - Che cazzo dici?!
- È impossibile! – rincarò Rene, saltando giù dal letto. La stessa cosa fecero anche gli altri due, iniziando poi a correre a perdifiato verso l’uscita della stanza, per poi fiondarsi in corridoio, inciampare nel peso morto del corpo di Lori ancora per metà steso in terra e carambolare anche loro contro lo spirito del mal di pancia, schiacciandolo ulteriormente contro la parete ed ascoltando non senza un certo stupore misto ad inquietante paura dovuta al fatto che effettivamente l’essere aveva la voce di Zlatan, si lagnava come Zlatan ed aveva perfino il suo stesso profumo.
- Cosa cazzo sta succedendo qui?! – strillò José apparendo da qualche parte in corridoio. E in quel momento si accese la luce, mostrando impietosa l’immagine di quattro adolescenti incastrati l’uno con l’altro come mattoncini del Tetris addosso al corpo di un ben noto svedese imprigionato senza scampo fra quegli stessi corpi, il muro e il pavimento. – Zla… Zlatan…? – mormorò l’allenatore, sgomento.
- Er… ciao… - biascicò Zlatan, sollevando una mano per salutarlo ed abbozzando un sorriso incerto.
- …ti avevo detto di aspettare a Milano! – protestò immediatamente José, gesticolando come un ossesso, - Mai che tu mi dia ascolto, Cristo santo! Mai!
- Scusa se avevo voglia di vederti! – sbottò Zlatan, sconvolto e offeso, scrollandosi di dosso i quattro corpi inerti ed alzandosi in piedi, per affrontare José da una posizione più vantaggiosa.
- Oh, non prendermi in giro con le romanticherie, adesso! Helena ricomincerà a rompere le palle. – sbottò l’altro, incamminandosi disinvoltamente verso la propria camera, subito seguito da Zlatan.
- La mia donna non rompe le palle più di quanto non faccia la tua! – corresse in un moto d’orgoglio, - E comunque non ho mica tutto questo tempo, io! Aspettarti! Domani devo tornare a Barcellona, che credi? Sono un uomo importante!
- Oh, certo, vostra maestà, scusatemi se ho dimenticato che ora siete voi la reginetta del ballo delle maturande, in quel di Spagna… - si fermò a due passi dalla porta, voltandosi a squadrare i ragazzi con aria truce, mentre loro cominciavano a riprendere i sensi dopo la collisione, - …parlatene con qualcuno e siete fuori squadra finché questo culo non lo vedrete sul campo. – minacciò, indicando con precisione il culo di cui stava parlando; per tutta risposta Zlatan si voltò indietro ad autoammirarsi con un sorrisino divertito. – Sempre che appunto ci si arrivi, come vi ripeto sempre. E ora, marsch! A fare la nanna! E di corsa! – e, così dicendo, si chiuse in camera con Zlatan.
Lorenzo, finalmente nel pieno di tutte le sue facoltà fisiche e mentali, si sollevò da terra e si spolverò i pantaloncini.
- Ma quindi… - azzardò, e se quello era il pieno di tutte le sue facoltà fisiche e mentali, non c’era da meravigliarsi che il mister non si fosse ancora convinto a fargli fare il salto di qualità per intero, - …mister Mourinho va a letto con lo spirito del mal di pancia, o che?
Davide, Mario e Rene lo guardarono con aria allucinata per molti secondi. Poi si alzarono in piedi ed entrarono in camera, chiudendo la porta. Rene si affacciò pochi secondi dopo, giusto per dirgli “tu dormi fuori”, e poi tornò a chiudersi dentro. A chiave.
Andrea passò per il consueto giro di controllo solo verso le sei dell’indomani mattina, ancora in canotta e boxer, e lo trovò seduto per terra in corridoio, spalle alla porta e testa pesante, ciondolante avanti e indietro.
- Lorenzo…? – lo chiamò appena, - Che ci fai qua fuori?
- Mmhn…? – biascicò lui, guardandolo con sincera gratitudine, - Sto attento che lo spirito del mal di pancia… non torni… per impossessarsi di qualcuno… - spiegò confusamente, fra un balbettio e l’altro. Andrea inarcò un sopracciglio, poi si chinò, lo tirò in piedi sollevandolo per le spalle e cercò di svegliarlo con qualche schiaffetto sulle guance, senza ottenere risultati granché rilevanti.
- Va be’. – annuì compiaciuto, - Dai, ti offro un caffè. – concluse, trascinandolo al piano di sotto. Lorenzo non trovò la forza di opporsi. 

Genere: Pre-Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Pre-Slash, Pre-BDSM, AU.
- "Dal tono della sua voce, dalla pigrizia dei suoi gesti, dal disinteresse nei suoi occhi e dal suo atteggiamento svogliato si capisce facilmente che le sue non sono scuse sincere. E la triste realtà dei fatti è che, anche se lo fossero, a questo punto non sarebbero più sufficienti."
Note: Scritta per la Notte Bianca #11 di maridichallenge (♥) su prompt RPF Calcio, Coffeeshop!AU: Zlatan è il capocameriere ma ottiene sempre meno mance a causa dei suoi modi bruschi. Il titolare, dopo l'ennesima, prende provvedimenti a fine giornata; non si scontenta lo Special One, una roba di rara meraviglia partorita dalla superba mente del Def, che pur di poterla leggere ha prorogato la Notte Bianca fino alle prime luci dell'alba (cit.) XD
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WE DON'T NEED NO EDUCATION (OR DO WE?)

- Settantacinque. – borbotta Mourinho, appoggiando entrambe le mani sulla scrivania e sollevandosi lentamente in piedi per osservare Zlatan (seduto di fronte a lui e con ancora indosso la divisa, nonostante l’orario di chiusura della caffetteria sia passato da un pezzo e in tutto il locale non sia rimasta un’anima oltre loro) da una posizione di vantaggio, - Sai spiegarmi questo numero, Ibrahimović?
Zlatan finge di pensarci. Ciondola la testa a sinistra, poi a destra. Poi, sulle sue labbra sottili si stira un sorriso sornione, e scrolla le spalle.
- Non saprei, - tenta, - Il numero di candeline sulla sua ultima torta di compleanno?
- No, imbecille. – ribatte lui, trattenendo a stento l’impulso di strillargli in faccia che le candeline sulla torta erano appena una cinquantina, - È il numero di reclami che hai ricevuto nel corso dell’ultima settimana.
- Ah. – commenta laconico Zlatan, allargando con due dita il farfallino nero stretto attorno al collo, - Mi dispiace.
Dal tono della sua voce, dalla pigrizia dei suoi gesti, dal disinteresse nei suoi occhi e dal suo atteggiamento svogliato si capisce facilmente che le sue non sono scuse sincere. E la triste realtà dei fatti è che, anche se lo fossero, a questo punto non sarebbero più sufficienti.
- Non voglio le tue scuse, Zlatan. – risponde José, battendo un paio di volte la punta dell’indice contro il ripiano del tavolo, - Non mi servono a niente le tue scuse.
- E se prometto di fare il bravo, da oggi in poi? – domanda Zlatan con un sorrisetto sghembo.
Irritato, José digrigna i denti e sbatte i palmi aperti contro il tavolo in un gesto nervoso e improvviso, al quale Zlatan risponde cambiando espressione all’istante. I lineamenti del suo volto si inaspriscono, le sopracciglia si congiungono al centro della fronte formando un solco che rende il suo viso un po’ più cattivo, e le sue labbra si serrano in un’unica linea sottile, quasi invisibile sotto la curva piena e ingombrante del suo naso.
- Ti sembra che io stia scherzando, Zlatan? – domanda José, la voce dura, ruvida, quasi minacciosa, più che rimproverante.
- No, signore. – risponde lui in un ringhio basso, guardandolo da sotto in su.
- Zlatan, - riprende José, girando attorno alla scrivania per avvicinarglisi e restando in piedi al suo fianco, fissandolo dall’alto con aria di superiorità, - Ho come l’impressione che, solo perché ti ho promosso capocameriere in così poco tempo, tu ti sia convinto, senza nessuna ragione, di poter fare ciò che credi, qua dentro. – si appoggia al tavolo, incrociando le braccia sul petto e contando sulla punta delle dita, - Di poter essere sgarbato con i clienti, di poter comandare a bacchetta i tuoi colleghi senza dimostrare loro il minimo rispetto, ma soprattutto di poter disobbedire a me. – aggrotta le sopracciglia, irritato, - E di poterla fare franca. È così? – domanda.
Zlatan continua a sfidarlo con lo sguardo – sempre fisso nel suo – e con l’immobilità assoluta – perché non muove un muscolo, anche se José gli si è avvicinato, anche se si è posto in una situazione di superiorità rispetto a lui, anche se, con la propria vicinanza, adesso lo sta minacciando quasi fisicamente. Ogni centimetro del corpo di Zlatan è teso nello sforzo di fare intendere a Mourinho che, delle sue parole e di ciò che pensa, gl’importi poco e niente.
José non ha bisogno di percepire quel lieve tremore che gli scorre sottopelle in scariche elettriche che gli fanno prudere le mani, per sapere che non è vero.
- È così, Zlatan? – insiste, chinandosi verso di lui.
- Sì, signore. – risponde Ibrahimović, stringendo le dita attorno ai braccioli della sedia, - È così.
- E cosa, se posso chiedere, ti ha convinto di questo fatto? – domanda José.
Zlatan continua a sostenere il suo sguardo senza vergogna.
- Non mi aveva mai chiamato nel suo ufficio dopo l’orario di chiusura, signore. – risponde, - Non mi aveva mai rimproverato.
- Aaah. – annuisce José, raddrizzando la schiena, - È stata colpa mia, dunque. Sono stato troppo morbido con te. Come darti torto, d’altronde? Quello che dici è vero. Non ti ho mai convocato qui. Non ti ho mai rimproverato. – gli si apre sulle labbra un sorriso soddisfatto, - Un errore al quale conto di porre rimedio immediatamente.
Le dita di Zlatan si serrano attorno ai braccioli in uno spasmo quasi incontrollabile.
- Signore—
- Vedi, Zlatan. – riprende José, allontanandosi dalla scrivania e girando attorno a lui, fermandosi proprio alle sue spalle, - Se fosse per me, ti lascerei essere sgarbato e presuntuoso coi clienti e coi tuoi colleghi quanto vuoi. Ma non posso in alcun modo permetterti di mancare di rispetto nei miei confronti. E devi capire che ogni cliente insoddisfatto che non torna a causa della tua scortesia, ogni dipendente che mi tiene qui oltre l’orario di chiusura per lamentarsi dei tuoi soprusi, è una mancanza di rispetto nei miei confronti. Quello di cui hai davvero bisogno, - conclude, appoggiando in un gesto improvviso entrambe le mani sulle spalle di Zlatan, - È qualcuno che ti insegni l’educazione, Zlatan. Qualcuno che ti faccia capire che, quando sei alle dipendenze di qualcuno, non puoi fare tutto quello che ti pare. Perché quando sei alle dipendenze di qualcuno, se quel qualcuno ti chiede di saltare, tu chiedi “quanto in alto?”. E se quel qualcuno ti chiede di metterti in ginocchio, tu chiedi “per quanto tempo?”. È chiaro?
José lo sente tremare impercettibilmente sotto le proprie dita. Non saprebbe dire se sia rabbia, la sensazione bruciante della sconfitta o qualcosa di diverso, ma trova la situazione piuttosto stimolante.
- Cristallino, signore. – risponde Zlatan in un ringhio sottile, carico di frustrazione.
- Bene. – annuisce José, allontanando le mani dalle sue spalle, - Ora alzati in piedi.
Senza dire una parola, Zlatan obbedisce, lasciando scivolare la sedia contro il pavimento con un rumore stridente. È più alto di lui, ma José non se ne sente intimorito.
- Voltati. – dice. Zlatan obbedisce anche a quell’ordine, e dopo essersi girato resta immobile a fissarlo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni serrati con tanta forza da imbiancargli le nocche. José sorride compiaciuto, sollevando entrambe le braccia ed appendendole ai propri fianchi, piegando il capo in un gesto quasi invitante prima di parlare ancora. – E adesso, Zlatan, in ginocchio.
Riesce a scorgere senza alcuna difficoltà il lampo di odio puro, per niente diluito, che gli passa sugli occhi nel sentire quella richiesta. Ma come ogni lampo non è che una luce passeggera, una scarica elettrica che si disperde immediatamente. Quello che resta, del lampo, non è mai la scossa, ma il rombo del tuono che lo segue. E il rombo del tuono, in questo caso, è la sensazione quasi fisica del sorriso che si apre sulle labbra di Zlatan, un sorriso sprezzante, di sfida. Ed il suono della sua voce, quando finalmente risponde.
- Per quanto tempo, signore?
José si passa la lingua sulle labbra, affamato. Tanto per cominciare, una decina di minuti basterà.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Davide, Davide/Zlatan, Zlatan/José più varie assortite.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU.
- La Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, si occupa di identificare, mettere in sicurezza, conservare e procedere alla classificazione e allo studio approfondito di tutti quei fenomeni e soggetti paranormali/sovrannaturali che comunemente interagiscono, più o meno evidentemente, con la realtà di tutti i giorni. Davide Santon è un Agente alle dipendenze di José Mourinho, direttore generale del distaccamento milanese della Fondazione, nonché suo padre adottivo. Sta ancora riprendendosi dall'addio forzato al suo partner precedente, Zlatan Ibrahimovic, trasferitosi recentemente al distaccamento parigino, quando suo padre gli affida un novizio, Mario Balotelli. E i due danno inavvertitamente inizio all'Apocalisse.
Note: Il mondo è un posto bello in cui io posso scrivere anche di queste cose non solo senza sentirmi in colpa, ma anche gloriandomene e divertendomi un casino XD Dunque, breve storia di questa storia: l'idea di base, il fulcro su cui tutto si sviluppa, l'idea di scrivere una storia sovrannaturale "a episodi", divisa in stagioni come una serie tv, nasce un paio d'anni fa, quando incappo per caso nella community LJ paranormal25, che decido di utilizzare come una traccia generica, seguendo i vari prompt proposti dalle varie tabelle. Ho subito capito che sarebbe stata una storia sul Soccerdom, perché la tipologia del racconto richiedeva tipo un fottio di personaggi, che solo il Soccerdom poteva darmi con l'adeguata abbondanza, ma per il resto un enorme velo nero è calato sulla storia e sui modi, finché Julie non ha inventato il Genetics Fest. Sono rimasta a brancolare nel buio chiedendomi cosa avrei potuto scrivere a riguardo, visto che avevo già deciso di prendere piume come prompt, quand'ecco che il progetto di questa storia è tornato a bussare alle porte della mia memoria, e giù a cascata tutto l'headcanon che in due anni non mi era mai passato per la testa XD
Dunque, in sostanza, per i primi quattro episodi dovresti essere abbastanza sicuri di poterli ricevere per tempo, uno a settimana, in coincidenza con le scadenze del Genetics Fest. Per i successivi, chissà! XD Mi conoscete, sapete che scrivo a cazzo di cane, ma prometto che cercherò di essere se non puntuale almeno dignitosa con le consegne e i postaggi ♥
Ciò detto, aspettatevi una storia potenzialmente infinita -- Supernatural ci fa una sega. E buon divertimento XD
L'ispirazione per la SCP Foundation viene da qui.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE UNSPEAKABLES
1x01 – Pilot

Avrebbe potuto voler diventare un avvocato, riflette fra sé, le gambe accavallate, le braccia incrociate sul petto, un piede che sbatte nervosamente contro il pavimento in resina lucida e bianca, il culo poggiato controvoglia sulla seggiolina in plastica grigia più scomoda mai concepita da mente umana. Avrebbe potuto diventare un avvocato, o chissà, un medico. Avrebbe potuto voler essere un poliziotto, o un professore. O un pilota automobilistico. Perfino un calciatore.
Ma no. Lui voleva seguire le orme paterne. Paterne, poi. Un blocco di cemento attaccato a una caviglia e in caduta libera giù da un ponte verso il mare sarebbe stato più paterno di quanto José Mourinho era stato nei confronti di Davide per tutta la sua intera esistenza, da che era stato adottato in poi, cosa che, davvero, aveva del crudelmente ironico. Se la natura non ti ha dato dei figli, perché disturbarti ad andartene a cercare uno fino in Italia per poi non stare mai con lui? Sempre lontano, suo padre, sempre immerso nel suo lavoro, sempre chiuso in ufficio, sempre impegnato ad incontrare gente che inevitabilmente finiva per non essere Davide. Un padre assente, per voler usare un eufemismo ancora gentile. Un trascurante figlio di puttana, a volere invece descrivere in termini più propri la realtà dei fatti.
Forse è per questo motivo che, posto di fronte alla scelta della vita, non appena concluso il liceo, Davide ha scelto la pillola rossa. Ha scelto di aprire gli occhi e guardare, uscire dalla realtà per cui “papà è il direttore generale di un’importante organizzazione che lo tiene molto, molto occupato, tesoro” per tuffarsi di testa nella verità che ha continuato a sfuggirgli per tutti gli anni della sua infanzia.
Una verità che ora vive quotidianamente, che gli piace più di quanto non ammetterà mai, e che a fasi alterne gli regala quanto di meglio la vita abbia da offrirgli, e subito dopo quanto di peggio.
I suoi pensieri si soffermano distrattamente sul profilo di Zlatan che si staglia contro il tramonto, in spiaggia, la tenda da campeggio appoggiata sulla sabbia qualche metro più in là, il carbone che scoppietta ed arde allegro nel braciere fra di loro mentre nell’aria si diffonde l’aroma invitante delle puntine di maiale annaffiate nel salmoriglio. “Andrà tutto bene, Dade,” la sua voce sempre così ruvida, dai semitoni così improvvisamente soffici, “Non hai davvero bisogno di me.” Il sapore di sale, chissà se dovuto alle lacrime o all’acqua di mare.
Scaccia via il pensiero con forza, chiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia. È arrabbiato, con se stesso, principalmente, per essere nonostante tutti gli anni di servizio che ha ormai alle spalle ancora così ridicolmente debole. Ricorda ancora le parole di suo padre il giorno in cui, completato l’addestramento, gli ha consegnato il suo nuovo tesserino di Agente, e la sua arma. “Ti affido a Zlatan,” ha detto, e poi ha sorriso, “Anche se so che sto facendo un errore.” Davide si rivede, infinitamente più piccolo, la faccia ancora brufolosa tipica degli adolescenti ed una massa confusa di capelli castani sulla testa, l’uniforme ancora da riempire che gli cadeva addosso sformata come un sacco di patate, chiedere perché. E rivede di nuovo quel sorriso a piegare le labbra di suo padre, e quel suo “Non crescerai mai, attaccato al culo di Zlatan, ti proteggerà sempre. Ma sei mio figlio, e non posso mandarti lì fuori con nessun altro.” La prima volta che s’è sentito vagamente amato da lui.
Si decide a deviare nettamente dal viale dei ricordi quando sente le lacrime cominciare a pungere sotto le ciglia, ed in quel momento la porta metallica accanto alla quale era seduto in attesa si apre con un clic discreto, mostrando la mano abbronzata e dalle dita lunghe di Pep, che si affaccia dallo spiraglio e gli posa addosso un’occhiata che non presagisce nulla di buono.
- Tuo padre può riceverti, adesso. – dice con un breve cenno del capo, aprendo la porta per lui.
Davide si solleva con un sospiro ed entra nell’anticamera di medie dimensioni che funge da ufficio di Pep Guardiola, fedele segretario tuttofare e primo consigliere di suo padre da ormai più di dieci anni.
In quell’edificio, ed anche al di fuori dei suoi confini, tutti sanno che è il figlio adottivo di José Mourinho. Lui s’è premurato di spargere la voce non appena ha saputo della decisione di Davide di entrare nella Fondazione. Un misto di orgoglio paterno e desiderio di buttare giù qualche paletto per tenergli lontano qualche Agente anziano in vena di scherzi di cattivo gusto. Quelli della Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, sono quanto di più simile ai ranghi di un esercito sia possibile trovare all’infuori di un esercito, e che qualcuno potesse voler mettere le mani sul nuovo arrivato senza conoscerne l’origine era un’eventualità che andava necessariamente presa in considerazione.
- Qualsiasi cosa accada lì dentro, - gli dice Pep, accompagnandolo di fronte alla porta chiusa dell’ufficio di suo padre e poi aprendola per lui, - Sappi che ho provato in ogni modo a fargli cambiare idea, ma non ha voluto ascoltarmi.
Davide gli lancia un’occhiata dubbiosa, ma è troppo tardi per indagare oltre. La porta è aperta e suo padre è seduto dietro la sua scrivania, tutto intento ad apporre il proprio timbro e la propria firma su una pila di documenti la cui altezza sfiora i venti centimetri. Un foglio via l’altro, ogni tanto scambia qualche parola con un tizio alto, scuro di pelle e coi capelli rasati secondo un pattern assolutamente ridicolo, seduto scompostamente su una delle due sedie metalliche di fronte al tavolo.
Davide decide di ignorarlo ed entra, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
- Papà. – lo saluta quindi, alzando un po’ la voce per costringerlo a guardarlo.
- Ah!, Davide. – annuisce José, invitandolo ad avvicinarsi con un breve cenno della mano, - Vieni, vieni. Sei perfettamente in orario, come al solito.
- Non avevamo un appuntamento. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia.
- Questo è del tutto irrilevante. – sorride José, - Vieni, dai, siediti. Di cosa volevi parlarmi? – Davide lancia un’occhiata al tizio, che gliela ricambia con aria un po’ stupita, e sta per dire che vorrebbe parlargli in privato quando la fragorosa risata di José lo interrompe. – Non preoccuparti, puoi parlare di fronte a lui. Dimmi.
Davide prende posto sull’unica altra sedia libera di fronte alla scrivania, serra le mani sulle ginocchia e prende un respiro profondo.
- Non voglio essere assegnato a nessun altro partner. – dice quindi, - Voglio lavorare da solo.
José inarca le sopracciglia, sollevando gli occhi su di lui ed interrompendo la propria interminabile trafila di apposizione di timbri e firme.
- Impossibile. – dice quindi, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Non è vero. – insiste Davide, - Non sarei il primo.
- I casi si contano sulle dita di una mano. – gli fa presente José, riprendendo a siglare documenti.
- Vuol dire che si conteranno sulle dita di due, da oggi in poi. – ribatte Davide, appoggiando una mano sulla scrivania. – Non intendo essere assegnato a nessun altro. Non voglio qualche stronzetto nuovo arrivato attaccato al culo, e non voglio nemmeno fingere di dover portare rispetto a qualche stronzo più navigato che si sente più bravo o più intelligente di me solo perché ha all’attivo qualche anno di servizio in più. Non voglio, lo rifiuto. Posso lavorare da solo, sono pronto.
José lo guarda senza cambiare espressione, appoggia la penna sul tavolo e scambia una rapida occhiata col tizio seduto accanto a Davide. Poi sospira, congiunge le mani a qualche centimetro dal viso ed appoggia i gomiti sul tavolo, tornando a guardare Davide con aria seria.
- Ti sei mai chiesto il motivo per cui gli agenti sono obbligati a lavorare in coppia? – domanda. Davide si irrigidisce sulla sedia, ma scuote il capo con fare orgoglioso, come fosse fiero del fatto che, in realtà, della risposta non gli interessa niente. – Ovviamente. – sorride José, e poi prosegue. – È necessaria una grande quantità di forza spirituale e psicologica, oltre che fisica, per portare a termine gli incarichi che la Fondazione affida ai suoi Agenti. Non tutti gli individui sono in grado di fornire quello che serve da soli. Anzi, si tratta di casi estremamente rari ed estremamente preziosi. – si interrompe per qualche secondo, il suo sguardo è duro, severo, proprio come quello di un padre intento a rimproverare il figlio, a dargli una lezione che non sarà in grado di dimenticare facilmente. – Tu non sei uno di quei casi, Davide.
A giudicare dal bruciore che sente sottopelle, suo padre ha fatto centro.
Davide abbassa gli occhi, ritraendosi come una lumaca nel suo guscio, velocemente. Si ripiega su se stesso, sconfitto, e non dice una parola.
- Mi dispiace, Dade. – aggiunge José, il tono di voce improvvisamente tenero. Tutto quello a cui Davide riesce a pensare al momento è quanto lo irrita non essere solo con lui in questa stanza. Sente lo sguardo dell’altro ragazzo addosso ed è imbarazzante, è degradante, è mortificante. – Sapevo che avevi intenzione di chiedermi una cosa come questa. L’avevo intuito. Ecco perché ho ritenuto opportuno essere molto chiaro, con te, di modo che ti convincessi a lasciar perdere. Ed ecco anche perché ho scelto di farlo di fronte a Mario. – dice, e Davide gli solleva immediatamente lo sguardo addosso. Sentire chiamato l’altro ragazzo per nome suona come una nota stonata, per quale motivo dovrebbe volerlo includere nella conversazione al punto da riferirsi direttamente a lui col suo nome di battesimo?
Davide si volta a guardarlo, e il tipo lo sta ancora fissando di rimando, le iridi nere piantate sul bianco abbagliante dell’occhio e, sullo sfondo, l’uniformità scurissima della sua pelle.
Sta per domandare chi sia, ma José lo precede.
- Lui è Mario, appunto, - spiega con un sorriso, - E da oggi è il tuo nuovo partner.
Sull’ufficio cala un silenzio nervoso e imbarazzato. Mario non spiccica una parola e Davide, gli occhi fissi sulle proprie mani, serrate strette attorno alle ginocchia, non si azzarda nemmeno a sollevare lo sguardo.
Lo odia, lo odia come non l’ha mai odiato prima di quel momento, e di motivi, e ragioni, e occasioni, ne ha avute parecchie, nella sua vita. Ma questo momento, ora come mai prima d’ora, riassume tutta la loro relazione. Non è mai stato un figlio, per lui, quanto più un prodotto. Qualcosa da crescere, instradare, indirizzare. Qualcosa da concimare ed osservare alzarsi robusta verso il cielo. Avrebbe potuto diventare un giardiniere, con una vocazione simile, ed invece è diventato il direttore generale di un’organizzazione segreta per la protezione della stabilità del mondo conosciuto. Due occupazioni solo in apparenza totalmente dissimili, che si riducono in realtà allo stesso nocciolo, perché niente di quello che José gli ha mai detto è mai stato qualcosa in più che banale fertilizzante. Lezioni da imparare per rendere più dura la sua corteccia.
- D’accordo, ho capito. – si alza in piedi senza degnare suo padre di un altro sguardo. Per quello che gl’importa, un SCP potrebbe emergere dalle pareti e staccargli la testa a morsi in questo esatto istante, e lui non muoverebbe un muscolo per salvarlo. Si volta verso il ragazzo e gli fa un cenno col capo. – Muoviti.
Il ragazzo inarca un sopracciglio e non muove un muscolo. José piega le labbra in un sorriso amaro.
- Bene. – dice, - È così che vuoi farlo, dunque. BÈ, è una tua prerogativa. L’Agente anziano sei tu, adesso, lui è una tua responsabilità.
- Che non ho chiesto. – dice Davide, tagliente, - Che non mi sono scelto.
Il sorriso di José si allarga impercettibilmente.
- Come tutte le responsabilità. – risponde serafico. Poi sembra come ricordarsi all’improvviso di qualcosa. – Prima che andiate, - dice, rovistando nella sua bella pila di carte, - Il tesserino di Mario, - dice, porgendogli il suo tesserino plastificato, - La sua arma, - continua, aprendo il primo cassetto della scrivania e recuperando l’arma ancora sigillata, - E, già che siete qui, il vostro primo caso.
Davide osserva i suoi movimenti con aria incolore, fin quando non scorge come in un flash il giallo della cartellina portadocumenti passare dalle mani abbronzate di José a quelle scure di Mario.
- Un attimo. – dice, aggrottando le sopracciglia e intercettandola a mezz’aria, sottraendola alla stretta delle dita di Mario prima che possa rafforzarsi attorno al cartoncino, - Me l’hai appena affibbiato e devo già portarlo fuori?
- Anche tu sei uscito quasi subito, dopo essere stato affidato al tuo partner anziano. – risponde José, facendo spallucce.
- Due giorni dopo l’assegnazione. – precisa Davide, irritato, - Non ho avuto il tempo di testarlo. Non ho ancora neanche sentito la sua voce!
- Guarda che sono stato addestrato anch’io. – dice finalmente Mario. La sua voce è profonda e gutturale, e venata da un marcatissimo accento del bresciano. Davide la trova istintivamente antipatica. Quella cadenza strascicata, quella punta di orgoglio infantile, gli danno subito sui nervi.
Si volta verso di lui, sferzandolo con un’occhiata severa.
- Non ti ho chiesto di parlare. – dice.
Mario non la prende bene. I suoi occhi si velano di un’ombra scura, una punta di rabbia che frena evidentemente solo a fatica. Ma non compie nessun movimento brusco. Conserva il tesserino nel portafogli, lega la cintura con la fondina attorno ai fianchi e poi resta in piedi, le braccia ritte lungo i fianchi.
- Lo testerai sul campo. – chiude la questione José, alzandosi dalla propria sedia girevole ed indicando la porta in un gesto di congedo, - Quale migliore occasione.
*
Nessuno dei due dice una parola mentre attraversano i lunghi e bianchi corridoi degli uffici milanesi della SCP Foundation. Non si sente nessun suono, attorno, eccezion fatta per il ticchettio degli stivaletti di pelle di Davide, e lo scricchiolare insistente delle suole di gomma delle scarpe da tennis di Mario.
Davide cammina guardando dritto davanti a sé, stringendo la cartellina fra le dita. Fa strada attraverso l’ingresso e fuori dall’edificio, verso l’ascensore che conduce al parcheggio sotterraneo. E poi attraverso i grigi corridoi di cemento del parcheggio stesso, illuminati a stento dalle luci al neon, biancastre e tremule, fino al SUV nero e lucido dal disegno squadrato che è stato l’ultimo lascito di Zlatan prima di partire. “Dove vado, non mi servirà,” la sua risata sguaiata mentre gli lanciava le chiavi in aeroporto, “Ho una Citroën GT ad attendermi non appena metto piede a Parigi!”.
Davide respira forte, profondamente, poi fa scattare le sicure. L’automobile lo saluta lampeggiando e uggiolando di gioia un paio di volte. Davide apre lo sportello e si siede alla guida senza neanche invitare Mario ad accomodarsi. Fortunatamente, almeno per quello il ragazzo sembra non aver bisogno di alcuna direttiva, perché lo fa di propria spontanea iniziativa e, una volta sedutosi alla destra di Davide, resta composto ed immobile a fissare la parete grigia oltre il parabrezza. Davide lo imita per qualche secondo, cercando di concentrarsi, cercando di ricordare che è un uomo, ormai, che non deve lasciarsi manipolare così da suo padre, che deve essere professionale e che ha un compito da svolgere.
Solleva la cartellina e la appoggia al volante, aprendola ed esaminandone il contenuto.
- SCP di classe E, livello di pericolo due. – legge a bassa voce, scorrendo il documento di presentazione. Gli si piegano le labbra in un sorriso divertito, - Una succube! Mai vista una dal vivo? – chiede, voltandosi a guardare il ragazzo.
Lui è ancora piccato per la sua risposta sgarbata di prima, e si limita a scuotere il capo, silenzioso. Davide sospira e mette via la cartella.
- Non fare così. – gli dice, - Dobbiamo lavorare insieme.
- Sì, hai già espresso più che chiaramente il fatto che preferiresti leccare un cesso pubblico piuttosto che lavorare con me, ma sembra che non ci sia alternativa, per cui. – ribatte quello, guardando altrove.
Davide lancia un’occhiata esasperata al tettuccio e poi si passa una mano fra i capelli.
- Senti, non è una questione personale. – dice.
- Lo è diventata. – risponde Mario.
- No, non lo è diventata. – insiste lui, - Non lo diventa, se non vogliamo. Non è con te che ce l’ho.
Mario si degna di voltarsi a guardarlo. Con le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un broncio infantile, sembra più piccolo di quanto non gli sia sembrato ad una prima occhiata. L’imponenza del suo corpo e la freddezza del suo sguardo traggono in inganno, ma Davide si rende conto adesso che devono avere più o meno la stessa età.
- Ce l’hai con tuo padre? – domanda.
Davide sospira, scrollando le spalle ed appoggiandosi allo schienale del sedile.
- Anche, sì. È tutto un insieme di cose, - agita una mano a mezz’aria, - Non preoccupartene. Quello che è importante, adesso, è portare a termine questa missione e chiudere questa giornata nel modo meno disastroso possibile. Per il resto, avremo tempo. – conclude. – Pensi di potercela fare?
Mario scrolla le spalle.
- E proviamoci. – dice, - Abbiamo una foto?
- Un’illustrazione. – risponde Davide, sospirando teatralmente, - Vedi, questi sono i momenti in cui verrebbe voglia di andare negli uffici del reparto Classificazione e Identificazione, e dare fuoco a tutto. – borbotta, sollevando la fotocopia di un’illustrazione in bianco e nero visibilmente antica. Mostra un demone dalle zampe caprine e dal seno prosperoso. Ha lunghi capelli scuri e ricci, intricati come un labirinto, che svolazzano nel vento, una larga bocca piena di denti aguzzi dalla quale fa capolino una lunga lingua biforcuta ed occhi come due tagli orizzontali, privi di pupilla. Da dietro la schiena spuntano due enormi ali dalle piume nere. Ha le unghie adunche come artigli e zoccoli ai piedi.
Mario inarca un sopracciglio.
- Non andrà mica in giro così? – dice.
- Naturalmente no. – sbotta Davide. – Coi tempi che corrono, è più probabile che si sia trasformata in qualche Barbie bionda superdotata, o in una velina. Ma naturalmente non abbiamo foto della sua forma corrente. Sembra che avremo a che fare con del sangue blu, comunque.
- Prego? – domanda Mario, cercando di sbirciare i documenti. Davide ride e gli solleva davanti al viso un’altra fotocopia.
- La tipa in questione dovrebbe essere Mahalath, una delle quattro regine dei demoni.
- Yuhuu, - sbuffa Mario, senza neanche premurarsi di fingere entusiasmo, - La famiglia reale.
- Già. – ride ancora Davide, tornando a sfogliare il contenuto della cartella.
- Niente di utile, là dentro? – domanda curioso Mario.
- Mmh. – Davide scorre il testo con attenzione, - Citazioni dal Malleus, descrizioni di vittime sfuggite al rapporto per tutto il secolo scorso… roba standard. Niente di che.
- In pratica, dobbiamo arrangiarci per conto nostro. – conclude Mario, e poi annuisce. – Okay, - dice quindi, - Si va?
Davide inarca un sopracciglio, le labbra che si piegano in un sorriso furbo.
- Prima passiamo dagli alloggi. – dice. E, di fronte all’espressione poco convinta di Mario, spiega, - Non vorrai mica andare in discoteca conciato così?
*
Mario non ha niente di adatto per l’occasione, solo qualche paio di jeans sdruciti e qualche maglietta sbiadita. Le sue cose sono già state sistemate fra l’armadio e la cassettiera addossata in fondo alla stanza. Qualche cosa è stata poggiata sul letto, perfettamente rifatto come il suo gemello a qualche metro da lui.
Le due metà della stanza non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra, piena di poster e fotografie e libri che strabordano dagli scaffali della piccola libreria angolare quella di Davide, completamente spoglia ed anonima quella di Mario – nonostante le tracce di scotch sulle pareti dimostrino la presenza di qualcuno in quel luogo nel recente passato, qualcuno che ormai è andato via. Davide ha chiesto almeno cinquecento volte che le pareti venissero ridipinte, ma è stato ignorato ripetutamente, e niente riesce a togliergli dalla testa che si tratti in realtà di una delle piccole torture quotidiane che suo padre si diverte ad infliggergli nel tentativo di renderlo forte e duro e corazzato abbastanza da potergli cedere le chiavi dell’ufficio in un non troppo distante futuro.
Dopo un breve esame dei vestiti di Mario, Davide decide di prestargli qualcosa di proprio. Gli lancia addosso un paio di jeans aderenti blu scuro, una maglietta bianca così stretta da avvolgerlo come una seconda pelle ed un gilet nero, lucido e dal taglio moderno, che gli dice di indossare aperto sopra la maglietta. I jeans gli stanno corti ed il suo torace possente esplode nella maglietta, ma dovrà farsi bastare questo finché non riceverà il suo primo stipendio.
Davide prova a dargli un paio delle proprie scarpe, ma non portano la stessa misura, e Mario ritorna alle proprie sneaker consumate con un flebile sorriso di autentica gioia sul volto. Poi si alza in piedi e si sente scricchiolare tutto.
- Che palle. – borbotta, tirandosi giù la maglietta lungo i fianchi, - Perché stiamo facendo questa cosa?
- Perché i succubi frequentano esclusivamente locali notturni, preferibilmente discoteche. Dove si rimorchia meglio. – risponde Davide, sistemandogli il gilet sulle spalle e sollevandogli un’occhiata di rimprovero addosso, - Non hai studiato?
- Girano pochi libri in casa mia. – risponde Mario, guardando altrove, - I miei non credono nella parola scritta.
- Bella questa. – sbotta Davide, inarcando entrambe le sopracciglia e guardandolo adesso con curiosità, - Sai leggere, almeno?
- Sì, ovviamente. – grugnisce lui, offeso, - È solo che i miei preferiscono l’apprendimento sul campo a quello in classe.
Davide lo scruta con occhi attenti per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi scrolla le spalle.
- Che roba da pezzenti. – conclude, voltandosi e dirigendosi verso il proprio armadio per cambiarsi, - È come pretendere di diventare uno chef senza aver mai studiato come si cucina una frittata.
Irritato, Mario aggrotta le sopracciglia e serra i pugni lungo i fianchi.
- I miei genitori non sono dei pezzenti. – ringhia.
Davide si volta appena a lanciargli un’occhiata sufficiente da sopra una spalla.
- Non importa. – dice quindi, tornando ad esaminare i propri abiti, - Ragionano come se lo fossero.
- Ritira immediatamente quello che hai detto! – abbaia Mario. Davide si sente afferrare per un braccio e fa mezzo giro su se stesso. Mario lo schiaccia contro la porta chiusa dell’armadio e ringhia a due centimetri dal suo volto. – Non costringermi a ripetermi.
Davide lo affronta a muso duro, le sopracciglia aggrottate, le labbra serrate in una linea carica di disappunto. Gli pianta entrambe le mani contro il petto e lo spinge lontano da sé. Mario, sorpreso dalla sua forza inaspettata, finisce a sbattere contro la parete di fronte e gli solleva addosso un’occhiata smarrita. Davide si sposta il ciuffo da davanti agli occhi e mette le mani sui fianchi.
- Un’altra insubordinazione di questo tipo e faccio rapporto. Tre rapporti negativi sono un’ammonizione ufficiale. Tre ammonizioni sono una sospensione. Tre sospensioni portano all’espulsione. – elenca atono, - Questo giusto per avvisarti. Sono un Agente anziano, il tuo partner anziano, e devi portarmi rispetto.
- Be’, anche tu dovresti portarmene. – ribatte Mario, rimettendosi dritto e fronteggiandolo senza timore, - Sono un essere umano. O in questo posto del cazzo contano solo i gradi?
Davide non risponde subito. Lo guarda per qualche secondo, vagliando le sue parole, e poi cede.
- Ti chiedo scusa se ho mancato di rispetto ai tuoi genitori. Non li conosco e non ho il diritto di giudicarli. – dice, - Ciò non toglie, però, che ritengo il loro approccio alla materia assolutamente insufficiente. E penso che seguire i loro insegnamenti abbia fatto di te un Agente incompleto. Non so come tu abbia fatto a passare il test selettivo, ma—
- Non ho fatto nessun test per entrare. – risponde Mario, senza neanche lasciarlo finire di parlare.
Lo sguardo di Davide si incupisce, restando sempre fisso su di lui. Si illumina appena di un’intuizione indistinta quando Davide somma i fattori ed ottiene l’unico risultato possibile.
- Di chi sei figlio? – domanda.
Mario solleva il mento e gonfia il petto, prima di parlare. È una reazione ridicola ed esagerata, ma a suo modo tenera.
- Francesco e Silvia Balotelli. – risponde quindi. La voce gli trema d’orgoglio.
Davide è stupito dalla risposta. Non sapeva che i Balotelli avessero un altro bambino, oltre ai tre già da tempo entrati nella Fondazione, men che meno avrebbe mai potuto immaginare che l’avessero adottato. Quindi sì, è stupito dalla risposta, ma non esattamente sconvolto. José non avrebbe potuto accettare senza test d’ingresso nessuno che non fosse un prodotto certificato della famiglia Balotelli. Silvia e Francesco erano stati due Agenti di fama mondiale, negli anni ’80. Se ne studiava ancora le tecniche e le imprese, all’Accademia, durante l’addestramento.
A Davide non è mai piaciuto il loro stile. Sono noti per la loro intraprendenza ed il loro coraggio, ma anche per l’assoluta mancanza di programmazione e pianificazione dei loro assalti, che risultava spesso nella morte violenta dell’SCP che si sarebbe invece voluto acquisire. Lui preferisce altri tipi di tattiche.
- Capisco. – dice quindi, voltandogli nuovamente le spalle e tornando a passare in rassegna i propri vestiti. Sceglie per sé un paio di jeans neri ed una maglietta dello stesso colore, dalla profonda scollatura a v. – Insomma, un raccomandato. – conclude.
La rabbia di Mario è di nuovo chiarissima nella sua voce, quando parla.
- Sei un figlio di papà anche tu. – ringhia, i pugni che tremano lungo i fianchi.
Davide gli lancia una mezza occhiata ed un mezzo sorriso ironico. Poi si sfila la maglietta.
- Io i miei test ho dovuto sostenerli tutti. – ribatte, - Fra i banchi e sul campo.
Ignora la velocità con la quale Mario distoglie lo sguardo di fronte alla sua pelle nuda.
*
Sono di fronte all’Hollywood per le undici in punto, tardi abbastanza per trovare già un po’ di movimento ma presto abbastanza per avere di fronte almeno quattro ore buone di pattuglia. Entrano mostrando al buttafuori il tesserino e, una volta dentro, Davide si dirige dritto verso il bar, senza neanche guardarsi attorno. Almeno fino a quando non capisce di essersi perso Mario da qualche parte lungo la via.
Si volta per cercarlo in mezzo alla folla e lo trova immobile e rigido come un pezzo di legno a pochi passi dall’entrata, che si guarda intorno con aria smarrita. Sospirando e lanciando uno sguardo colmo di rassegnazione e pazienza in esaurimento al soffitto, gli torna accanto e lo strattona bruscamente, riportandolo alla realtà.
- Trovati. – borbotta, - Comportati con naturalezza.
- Con naturalezza? – esala Mario, fissandolo sconcertato, - Non riesco ad immaginare un comportamento più naturale di questo! Ma ce l’hai presente Concesio? Il buco del culo della Val Trompia! Quindicimila anime all’anagrafe! La cosa migliore che ne sia uscita dopo i miei genitori è stata un Papa! Ti pare che io possa mai aver visto cose di questo genere? – domanda, allargando le braccia in un gesto ecumenico che include tutta la discoteca, che si sviluppa di fronte a loro in un incessante rincorrersi di luci e suoni confusi, di corpi che si schiacciano fra loro al ritmo sempre uguale di tutti gli svariati successi dance dell’estate e dell’odore pesante ed avvolgente del sudore misto a quello più forte dei profumi da uomo e da donna ed a quello fruttato ed alcolico dei cocktail.
Per Davide, ambienti come questo sono la norma. È stato costretto a frequentarli più di quanto volesse per lavoro, e Zlatan ne andava matto nel tempo libero. Ma può comprendere come, per un tipo come Mario, siano invece una novità assoluta, da fissare con gli occhi sgranati e l’aria di un cieco miracolato del dono della vista che, come prima cosa dopo anni e anni di buio assoluto, posi gli occhi su un corpo di donna spogliato di ogni abito.
- Trovati lo stesso. – sbuffa Davide, afferrandolo per un polso e trascinandolo più in profondità all’interno del locale. – Concentrati sull’obiettivo, adesso. Qualunque bella ragazza è potenzialmente una succube.
- E come faccio a riconoscere quelle che lo sono da quelle che sono solo belle ragazze? – domanda lui, incerto.
Davide sbuffa, annoiato.
- Che ne so. – sbotta, - Lo percepisci, insomma. Non hai mai provato?
- Be’, abbiamo un piccolo Cerbero, a casa. – risponde lui, - So riconoscerlo rispetto a un cane normale.
- Sarà perché ha tre teste invece di una sola? – ribatte Davide con sufficienza, lanciandogli un’occhiata sarcastica.
- Intendevo ad occhi chiusi. – precisa Mario, offeso, - Dalla sua aura.
- È più complicato per i succubi. – sospira Davide, scuotendo il capo, - Sono demoni, la loro aura non è molto dissimile da quella degli esseri umani. Devi imparare a leggere le sfumature.
- Sì, certo. – sbuffa Mario, incrociando le braccia e raggiungendolo di fronte al bancone del bar, - Sono molto utili, le tue indicazioni, sai? Dimmi qualcosa di pratico, cosa stiamo cercando? Una donna eccezionalmente bella?
- Non saprei. – scrolla le spalle Davide, guardandosi intorno, - Sono tutte diverse.
- D’accordo, - insiste pazientemente Mario, - Ma nella tua esperienza, cos’hai visto? Ne avrai incontrate altre.
- Sì, - annuisce lui, - Un casino di volte.
- Bene. Ed erano belle?
Davide scrolla di nuovo le spalle, tornando a guardare altrove.
- Suppongo di sì. – dice, - Non faccio mai granché caso alla bellezza delle donne. Per me sono tutte abbastanza uguali.
- Ah. – dice Mario, lasciandosi cadere seduto su uno sgabello. – Ah. Okay.
Davide si volta a guardarlo, inarcando le sopracciglia.
- Problemi? – dice.
- No. – si affretta a rispondere Mario, - No, assolutamente.
Davide lo fissa ancora per qualche secondo, pensando che Mario dovrebbe rivedere il suo dizionario personale, visto che, chiaramente, alla definizione della parola “no” c’è quella della parola “sì”, ma taglia corto e torna a fissare la folla che sciama imperturbabile dentro e fuori dal locale quando si rende conto che una semplice occhiata non sarà in grado di scollare quello sguardo ebete dalla faccia di Mario.
- Okay. – dice quindi con una punta di presunzione, piantando lo sguardo su una ragazza dall’aspetto provocante, - Sta’ seduto qui e osserva il maestro all’opera.
Si allontana da lui senza degnarlo di un’occhiata, camminando a passo svelto a sicuro verso la ragazza. È vestita completamente di nero – pantaloni in pelle aderenti e dalla vita bassissima che mettono in evidenza le ossa appuntite del bacino e l’ombelico, top dello stesso materiale dei pantaloni incrociato sul petto, spalle nude, i capelli biondi lunghi e lisci che spiovono sulla schiena abbronzata in una cascata lucida che riflette tutto l’arcobaleno di colori che le luci stroboscopiche vomitano sulla folla. Ha un’aura appena più brillante delle altre ragazze, e sembra sola. Inusuale, per una ragazza di quell’età. A dir poco.
- Ehi. – la saluta con un mezzo sorriso, appoggiandosi al bancone vicino a dove è seduta lei, - Serata fiacca?
Lei gli solleva addosso un paio d’occhi enormi, da cerbiatta, di un colore indefinibile a causa della penombra multicolore della discoteca.
- Cosa te lo fa pensare? – domanda con un sorriso da Monna Lisa, le labbra piene dal disegno elegante appena appena arricciate agli angoli.
- Be’, - sorride Davide, avvicinandosi appena, - Una ragazza bella come te, in un posto come questo, a quest’ora, ancora tutta sola? O il mondo gira alla rovescia, o è una serata fiacca. Dimmi tu.
La ragazza ride, scuotendo il capo.
- Che fai, ci provi? – domanda.
Lui si concede una mezza risata, facendo cenno al barista di portargli la stessa cosa che sta bevendo lei, un cocktail che sa di albicocca dal colore talmente rosato e dall’odore talmente zuccherino da fargli venire la nausea senza averlo neanche assaggiato.
- Dipende. – dice, - Vuoi che ci provi?
Lei ride ancora, una risata cristallina e nitida, tentatrice. E quando ride la sua aura si illumina appena di sfumature rossastre.
- Spiacente. – dice quindi, e poi dà una risposta che Davide non si aspettava. – Non sono più sul mercato.
Deve guardarla in modo piuttosto esplicito, perché lei scoppia di nuovo a ridere, divertita, e sorseggia un po’ del proprio cocktail, chiudendo le belle labbra a cuoricino attorno alla cannuccia colorata.
- Non è possibile. – dice, e lei ride ancora.
- Dovrei offendermi? – chiede, - Mi avevi preso per una facile?
- Non esattamente. – risponde lui, passandosi le dita fra i capelli per scostarsi la frangia dalla fronte.
Lei ride un’altra volta.
- Oh. – dice quindi, - Allora i miei vecchi occhi avevano visto bene. – il suo sorriso si tinge di una sfumatura maliziosa, - Sei un Innominabile.
- Ah, per piacere. – sbuffa lui, - Ci chiamano ancora così, nei gironi infernali? È un vocabolo caduto in disuso da almeno un centennio.
- Be’, è più o meno da un centinaio d’anni che non rimetto piede all’Inferno. – risponde lei, - Quindi non saprei dire se adesso vi chiamino in altro modo. Per me siete rimasti Innominabili.
- Siamo Agenti, adesso. – sospira Davide, - E tu devi essere caduta.
- Da tempo, sì. – ride lei, allungando una mano verso di lui, - Chloé, piacere.
- Piacere mio. – risponde lui, stringendole la mano, e poi arrossisce appena, imbarazzato, - Non posso rivelare il mio nome.
- Ragioni di sicurezza? – chiede lei. La sua voce sembra ridere sempre, trilla come campanelli. – Non preoccuparti, capisco. – lui le sorride ancora e poi si abbatte sul ripiano del bar. Nel frattempo, il suo drink è arrivato, e lui ne assaggia un sorso e poi subito si ritrae con una smorfia. Come aveva previsto, troppo dolce. E lei si avvicina appena, e profuma di mandorle e zucchero filato. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando perdi l’anima, il profumo della pelle, la brillantezza dell’aura, la malizia negli occhi. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando te ne vai. – Giornata pesante? – chiede.
Davide sbuffa, chiudendo gli occhi.
- Annata pesante. – la corregge, - Ma è del tutto irrilevante, adesso.
- Immagino. – annuisce lei, e poi finge la voce grossa e misteriosa, - Sei in missione segreta?
- Già. – ride lui, voltandosi a guardarla, - Cerco un tuo superiore.
- Ah, sì, ho sentito. – Chloé piega il capo, i capelli le scivolano morbidi sulla spalla come una cascata dorata mentre lei accavalla le gambe, - Sua maestà, o almeno una delle, è scesa in campo.
- Corrono veloci le notizie all’Inferno. – commenta lui, inarcando un sopracciglio.
- Corrono più svelte in superficie. – precisa lei con un’altra risata cristallina. – Quindi sei alla sua ricerca, mh? Be’, mi spiace dirti che l’hai mancata di una manciata di secondi, letteralmente.
Davide spalanca gli occhi, piantandole addosso uno sguardo sconvolto.
- Prego? – domanda incerto.
Lei si stringe nelle spalle, gettando indietro i capelli in un gesto vezzoso.
- È appena andata via con un tipo, - dice, - Un bel ragazzo di colore, dall’aura potente. Il classico tipo che avrei preso di mira anch’io, se fossi stata ancora in servizio.
Davide ha appena il tempo di lanciarle un breve ringraziamento e una scusa impacciata, prima di saltare giù dallo sgabello e lanciarsi a rotta di collo verso l’uscita.
*
Li trova poche centinaia di metri più avanti, nascosti nell’ombra profonda di un vicolo. Segue l’odore dell’eccitazione di Mario nell’aria, prima, il suo profumo selvaggio appeso alle molecole di ossigeno. Poi comincia a sentire gli ansiti e i gemiti e a quel punto, più che seguire una traccia, imbocca una superstrada a duecento all’ora.
Mario sembra cosciente, ma è evidentemente fuori come un balcone. Ha gli occhi rossi e lucidi, le labbra dischiuse ed umide, gonfie di baci e di piccoli morsi, la maglietta strappata sul petto. La sua maglietta, pensa Davide con un certo risentimento.
Mahalath non è riuscita ad aspettare di trovarsi in un posto chiuso, in una camera d’albergo o chissà, magari proprio a casa sua. Gli Agenti hanno sangue forte da generazioni, hanno sangue potente, hanno resistenza e uno spiccato sesto senso, e non mancano in tutti loro una predisposizione verso il soprannaturale ed un’innata capacità di connettersi al paranormale molto più facilmente rispetto ai normali esseri umani. Per i demoni, rappresentano una tentazione più forte della mela per Eva. Se Mario si fosse degnato di aprire un libro e studiare, nella sua vita, lo saprebbe.
La regina dei demoni non ha avuto il tempo neanche di ritornare alla sua forma originaria, prima di iniziare l’accoppiamento. Si agita veloce, seduta sul grembo di Mario, tenendolo per il colletto stropicciato della maglietta come fossero redini e lui un cavallo che lei stesse cavalcando. La lunga e rigonfia massa dei suoi capelli riccissimi si agita lungo la sua schiena abbronzata e flessuosa, piegata in un arco elegante, quasi regale, mentre i suoi fianchi pieni ondeggiano avanti ed indietro. Dalle sue labbra dischiuse sfugge un gemito ed un sibilo da serpente ogni volta che l’erezione di Mario penetra dentro di lei e poi sguscia fuori, veloce, bagnata, pronta ad esplodere.
- Mahalath! – la chiama Davide, sperando di interromperli in tempo. Naturalmente, Mario viene in quell’esatto istante. – Merda. – ringhia lui, portando la mano alla propria arma ed estraendola velocemente dalla fondina. Un attimo dopo, Mahalat ruota la testa di centottanta gradi e gli offre uno sguardo spiritato e serpentino, poi soffia come un gatto e lui le punta la pistola addosso, l’indice già sul grilletto. – Ferma o sparo! – minaccia, il pollice che accarezza l’impugnatura decisamente, spostando verso l’alto il caricatore. Dall’arma comincia ad emanarsi un ronzio a bassa frequenza, e la bocca si illumina di un riflesso azzurrognolo.
Mahalath non reagisce bene. Si allontana dal corpo di Mario – il quale, non più sostenuto dalle sue braccia, si accascia per terra, svenuto – e gli ringhia contro. Quando parla, la sua voce è come divisa in due, una nota più bassa e cupa, l’altra acuta e stridula.
- Non puoi toccarmi, mortale! – gli urla contro, investendolo con l’onda d’urto della propria energia. Davide ha imparato a non contrastare questo tipo di colpi, a lasciarsi accompagnare dolcemente, perciò lascia che l’impatto con l’aria calda lo sollevi dal suolo e lo sposti di una decina di metri indietro. Quando sbatte contro i cassonetti in fondo alla strada e poi finisce di schiena per terra, però, fa un male fottuto lo stesso.
Si solleva da terra a fatica, stringe le dita aspettandosi di trovarci in mezzo la pistola e, quando non la trova, lancia un’occhiata allarmata tutta intorno a sé. La vede a pochi metri di distanza, per terra, spenta, probabilmente danneggiata. Mahalath non sembra interessata ad impadronirsene.
- Perché proprio ora? – le chiede, aggrappandosi ad un cassonetto per tirarsi in piedi. È persa, ormai, le possibilità che ha di catturarla viva o morta sono meno di zero. Tanto vale cercare di scucirle di dosso qualche informazione e sperare che Mario sia ancora vivo.
Mahalath si lascia andare ad un sorriso sghembo, la lingua che saetta fra le labbra.
- Il tempo è propizio. – dice semplicemente. Poi si solleva per aria, il corpo avvolto in una luminescenza rossastra. Lancia un urlo mentre getta il capo all’indietro e le si lacera la pelle all’altezza delle scapole. Due moncherini premono per uscire, sono solo ossa, all’inizio, poi le piume crescono, avvolgono la struttura e nel giro di pochi secondi sue enormi ali nere le si aprono alle spalle. Mahalath le sbatte pigramente a mezz’aria, una cascata di gocce di sangue si sprigiona dalle piume e piove su Davide, sulle pareti degli edifici, sulla strada, sull’immondizia, sul corpo di Mario disteso nell’ombra.
Le ali si chiudono svelte attorno al corpo nudo del demone, e Davide ha appena il tempo di scattare in piedi seguendo un riflesso involontario, afferrare la pistola e puntargliela contro – rendendosi conto che effettivamente non funziona – prima di vederla svanire in una fiammata rossa che divampa a mezz’aria e si consuma prima di toccare il fuoco.
Il vicolo rimpiomba nell’ombra, e Davide ripiomba seduto per terra quando le gambe lo abbandonano senza troppi ripensamenti. Fatica a processare l’enorme quantità di fallimenti che è riuscito ad impilare alla sua prima uscita senza Zlatan. È una situazione terribilmente imbarazzante. Come si possa passare da una percentuale di successo del novantanove virgola nove percento ad una catastrofe di epiche proporzioni come questa, durante la quale in meno di due ore è riuscito a sfasciare un’arma d’ordinanza, farsi rapire e violentare l’Agente di grado inferiore (cosa che potrebbe o non potrebbe avere conseguenze devastati per l’umanità se Mahalath è stata ingravidata), lasciarsi sfuggire un SCP e non riuscire neanche a strappargli dalla bocca un minimo di informazioni utili per farsi perdonare tutto il resto, è una cosa che francamente non riesce a spiegarsi, e che non ha idea di come spiegherà a suo padre.
Lentamente, si rimette in ginocchio, e poi in piedi. Barcolla fino al corpo di Mario, ancora riverso per terra, e gli si inginocchia a fianco. Ha i pantaloni calati fino alle ginocchia ed è passato direttamente dall’incoscienza al sonno profondo, almeno a giudicare dal compiacimento evidente col quale ha preso a russare.
Davide sospira, lo afferra per le spalle e lo scuote bruscamente.
- Oh! – borbotta, - Svegliati!
- Che?! – Mario apre gli occhi e glieli pianta addosso. È ancora così evidentemente confuso che, anche quando riesce a mettersi seduto, non la pianta un secondo di guardarsi intorno e sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco il posto. – Che… Cos’è successo?
- Il nostro obiettivo ha fatto di te il suo obiettivo. – sbotta, alzandosi in piedi e trascinandolo con sé nel movimento, - I succubi hanno una predilezione per gli individui con una predisposizione per il paranormale. Se ti fossi degnato di studiare su un qualsiasi testo preparatorio per meno di mezz’ora, lo sapresti.
- Ah. – biascica Mario, la bocca impastata, - Ah. – poi si ferma, si china di lato e sputa per terra, - Che schifo di sapore di merda. – sbuffa, - Zolfo.
- Chiamiamolo battesimo del fuoco, - sospira Davide, - E rivestiti, che sei nudo come un verme. Se penso che potresti essere appena diventato padre…
- Che cosa?! – sbraita Mario, voltandosi repentinamente verso di lui. Davide sospira ancora.
- Lascia perdere, - dice, - Te lo spiego dopo.
- D’accordo. – annuisce Mario, placandosi istantaneamente, ancora scosso dall’esperienza, mentre tenta con scarso successo di riabbottonare i pantaloni e continua a mancare spettacolarmente l’asola anche di cinque centimetri buoni a tentativo.
- Lascia, da’ qua, - sbuffa Davide, irritato, prendendo letteralmente in mano la situazione. – Sei un soggetto impossibile.
- Okay. – annuisce Mario, - Ma offrimi una pizza.
- Come, scusa?
- Ho questo sapore orrendo in bocca e ti giuro che se non mi offri una pizza adesso mi metto a vomitare a spruzzo come ne L’Esorcista.
- Ah. – Davide inarca un sopracciglio, - Quello lo conosci, dunque.
- Quello l’ho studiato! – ribatte Mario, annuendo, - Lo so a memoria.
- Non ne dubitavo. – sospira Davide, facendo strada.
Finisce comunque per offrirgli una pizza, ed intimargli di godersela, anche, mentre manda giù un boccone dopo l’altro come non mangiasse da mesi. Visto che, con ogni probabilità, è l’ultima che mangeranno prima dell’Apocalisse.
*
- Insomma, che dire. – sospira José, scorrendo distrattamente il report dettagliato che Davide ha posato sulla sua scrivania non più di cinque minuti fa. Lui e Mario stanno dritti in piedi di fronte a lui, le braccia dietro la schiena, le gambe unite, il mento sollevato. Davide ci ha messo tre quarti d’ora ad insegnare a Mario come posizionarsi correttamente di fronte ad un suo superiore, e adesso è abbastanza convinto che l’Apocalisse incombente non sia più una minaccia così spaventosa. Se è riuscito a far sì che Mario avesse anche solo la vaga parvenza di un Agente per bene, può fermare a mani nude tutte le Apocalissi dell’universo. – Un vero disastro. – conclude l’uomo, mettendo giù la relazione. Un’ombra di sorriso gli piega le labbra e non sembra davvero irritato dall’accaduto.
Davide inarca un sopracciglio, stringendo le mani dietro la schiena.
- Non sarebbe successo niente di tutto questo, se non mi avessi affidato un impiastro simile. – dice, - Me la sarei cavata perfettamente da solo.
- Sì, provandoci con una ex-succube decaduta. Osserva il maestro all’opera. – lo prende in giro Mario, lanciandogli un’occhiataccia.
- Mario! – sbotta Davide, arrossendo violentemente prima di poterselo impedire, - Sta’ zitto!
José scoppia a ridere, voltando le pagine del rapporto fino all’ultima ed apponendo in calce il proprio timbro e la firma.
- Non battibeccate come bambini. – dice quindi, rimproverandoli bonariamente.
- Stronzate a parte. – riprende Davide, tornando a guardare suo padre, - Non puoi ritenermi responsabile. Me l’hai consegnato, tralasciando di informarmi che era completamente sprovvisto di una anche minima istruzione teorica di base, e non mi hai neanche dato il tempo di conoscerlo, ci hai buttati per strada cinque minuti dopo averci consegnato l’incarico! Rifiuto qualsiasi conseguenza disciplinare collegata a questo evento.
José gli solleva gli occhi addosso, inarcando le sopracciglia. Richiude il report nella sua cartella e poi si solleva per inserirla nel grosso archivio metallico alle sue spalle.
- Il blob di via Sforza, aprile 2010. – dice, estraendo lentamente la propria chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni dell’abito ed aprendo il cassetto giusto, scorrendo le pratiche fino a trovare il corretto posto per il report, - A causa di una tua distrazione, sei stato contaminato dall’SCP. Ricordi su chi è ricaduta la responsabilità del fatto?
Davide si irrigidisce, serrando le labbra. Mario aggrotta le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata indagatrice, ma dal momento che nessuno aggiunge altro, evita di chiedere.
- Bene. – riprende quindi José, richiudendo il cassetto con un tonfo e poi voltandosi verso di loro e tendendo entrambe le mani, - Le vostre armi, prego.
- La mia è stata danneggiata. – confessa Davide in un borbottio, consegnando la propria.
- Lo vedo. – commenta José, esaminando la pistola ed il meccanismo di caricamento inceppato, - Il costo del pezzo di ricambio sarà addebitato sul tuo conto corrente e detratto dai prossimi stipendi in tre rate bimestrali. – lo informa, - Per quanto riguarda il resto, siete sospesi per una settimana, durante la quale dovrete sottoporvi alla consueta profilassi preventiva. Vi prego di presentarvi dal dottor Combi per iniziare la procedura quanto prima.
- Cosa?! – Davide si lascia sfuggire un gemito strozzato. Non c’è niente che odi al mondo più della profilassi post-contatto, niente, nemmeno suo padre.
- Non lasciarti ingannare dalla mia aria tranquilla, Davide. – risponde José, sollevandogli addosso uno sguardo severo, - Il casino che avete combinato mi costerà lunghe e tediose ore di spiegazioni al presidente, una fastidiosa ammissione di responsabilità di fronte al consiglio e, ultimo ma non ultimo, probabilmente un grande numero di vite umane quando la gravidanza di Mahalath sarà giunta al termine. Dal momento che tutte queste cose sono conseguenze che un tuo errore mi costringerà ad affrontare, farai il bravo bambino e la pianterai di lagnarti perché ti obbligo a sottoporti ad una procedura che sarebbe comunque uno standard nel tuo caso.
- Non è uno standard affatto! – insiste Davide, sbattendo il pugno sul tavolo, - Ti ho già spiegato che tutto questo non è una mia responsabilità, e comunque soltanto Mario è entrato in contatto con l’SCP, io non l’ho nemmeno sfiorato, non—
- Agente. – la voce con cui José interrompe il suo sproloquio è fredda, ferma come il ghiaccio. Non lo chiama per nome e questo, per qualche motivo, dà i brividi anche a Mario. – Presentatevi dal dottor Combi istantaneamente per cominciare la procedura. Dopodiché siete sospesi per una settimana. E se non vuoi che le settimane diventino due, ti converrà obbedire agli ordini all’istante.
Davide si irrigidisce istantaneamente, raddrizzando la schiena e serrando i pugni lungo i fianchi.
- Agli ordini. – risponde quindi, con una voce cavernosa che chissà da quale anfratto di quel corpicino da eterno adolescente sta tirando fuori. – Mario, vieni. – lo richiama, prima di voltarsi ed abbandonare l’ufficio.
Mario lo segue docilmente lungo i corridoi, avrebbe mille domande da fargli, ma si rende conto di non poterlo fare adesso. José li osserva andare via, in piedi dietro la propria scrivania, e sospira pesantemente. Lo aspettano un paio di giorni letteralmente infernali, per non parlare di quello che accadrà fra qualche mese. Sospirando ancora, ripone entrambe le pistole nel doppio fondo dell’ultimo cassetto della sua scrivania, premurandosi di chiuderlo a chiave prima di raccogliere le proprie cose nella valigetta portadocumenti, indossare il cappotto ed uscire.
Come al solito, è rimasto l’ultimo negli uffici. L’eco dei suoi passi rimbomba rumorosamente per i corridoi e all’ingresso, e poi ancora all’interno del garage, nel quale la sua Mercedes è rimasta l’ultima macchina parcheggiata. Sta per far scattare la serratura ed entrare quando una voce conosciuta lo raggiunge alle spalle e lo inchioda sul posto.
- Ti trovo bene. – dice Zlatan, appoggiato ad uno degli enormi pilastri di ferro che reggono la struttura.
José si volta a guardarlo, ravviandosi una ciocca di capelli brizzolati sulla fronte.
- Sei stato via appena un mese, stavolta. – commenta con un mezzo sorriso, - Dev’essere un record.
- Che posso dire, - ride Zlatan, scrollando le spalle prima di allontanarsi dal pilastro con una discreta spinta del bacino, - Mi mancava Milano. – conclude, avvicinandosi a lui.
- Lo immagino. – annuisce José. – Sai già dove andrai a dormire stanotte? – domanda.
- Non posso fermarmi. – scuote il capo Zlatan, - Blanc e Leo mi aspettano a Parigi in tarda serata.
- Davvero? – ribatte José, piccato. Non vuole darlo a vedere, ma la risposta lo delude. – Dunque? Che ci fai qui?
Zlatan gli offre un breve sorriso di scuse non richieste ma ugualmente necessarie, e si stringe nelle spalle.
- Torno adesso da una breve visita a Yolee, in quel di Istanbul. – dice, e José subito lo interrompe con una smorfia.
- Per piacere, - borbotta, - Non ci vediamo da un mese e torni per parlarmi dei deliri di una ridicola fattucchiera?
Zlatan ride, divertito.
- Ha avuto una crisi proprio mentre ero lì. – riprende, - Visioni.
- Non mi interessa. – José gli volta risolutamente le spalle, infilando la chiave nella serratura, - Il giorno che vorrò seguire le indicazioni di una veggente pazza, ne comprerò una a dieci centesimi sul mercato nero. Fino ad allora—
- Il diavolo canta, Zay. – lo interrompe Zlatan. La sua voce è seria e, quando José si volta a guardarlo, scopre che lo sono anche i suoi occhi. – Sarà padre, presto, e non sarà piacevole per nessuno che non sia lui. Ne sai qualcosa?
José deglutisce, cercando di mantenere la calma. È impossibile che la notizia della disavventura di Davide sia già giunta alle orecchie di Yolanthe. La visione dev’essere stata reale. Mahalath è incinta.
- Qualcosa, sì. – ammette con un sospiro, - Ma è tardi. Sono stanco. E non mi va di parlarne.
Zlatan annuisce, e sulle sue labbra torna ad aprirsi un mezzo sorriso. I suoi lineamenti spigolosi si illuminano tutti assieme all’improvviso.
- Può aspettare. – dice quindi, avvicinandosi di un altro passo, - Non ci siamo ancora salutati per bene.
José schiude le labbra per ribattere, ma non ha il tempo di farlo. Si ritrova schiacciato contro la portiere della macchina pochi secondi dopo, la bocca di Zlatan premuta contro la sua, il suo sapore familiare e nostalgico sulla lingua, e decide che possono aspettare anche le battute e le proteste.

continua

Genere: Commedia.
Pairing: José/Zlatan
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash, Future!Fic, OC.
- "Io non sono affatto molto più geloso di Shakira!"
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt IL FIGLIO DEL PIQUIRA. Tale figlio purtroppo non esiste ancora, ma c'è del gossip secondo il quale Shakira sarebbe già incinta ♥ E come tutti voi sapete io vivo di gossip, per cui dovevo farlo.
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NOMEN OMEN

- Francesc! – urla Zlatan, steso sulla propria sedia a sdraio come una lucertola su un sasso, - Non allontanarti.
- Sai che sei allucinante? – commenta José, sdraiato come lui ma in compenso intento a leggere un libro nascosto sotto l’ombrellone e cosparso di crema solare di quella con la protezione alta in maniera addirittura imbarazzante, quella densa e compatta dal colore azzurrognolo che usualmente si mette ai bambini per evitare che si scottino, quella che, sostanzialmente, ha spalmato su tutto il corpicino già dorato dal sole di luglio del piccolo Cesc prima di mandarlo all’avventura sulla moderatamente affollata spiaggia tropicale sulla quale si trovano, una mezz’ora fa, - Si chiama Cesc. Non puoi chiamarlo col suo nome?
- Il suo nome è Francesc. – gli fa notare Zlatan, senza neanche degnarsi di aprire gli occhi sotto i minuscoli occhiali da sole che coprono appena il perimetro delle sue palpebre, perché sia mai ritrovarsi con la tintarella a metà a causa di un paio d’occhiali dalla montatura troppo spessa scelti in un momento di avventatezza, - Cesc è solo uno stupido soprannome.
- Che tu detesti perché appartenente all’ex ragazzo di Gerard. – annuisce José, precisando dettagli di cui Zlatan farebbe volentieri a meno mentre il piccolo Cesc, sei anni e la voce più acuta del mondo, si lancia all’attacco di un inquietante ammasso di alghe bruciate dal sole e abbandonate sul bagnasciuga da una risacca impietosa. – Sai che non ha senso l’odio che provi per lui? Dico, ci sei anche stato insieme dopo. Seriamente, quando mai si è visto un ex-ragazzo provare tanto astio per un altro ex-ragazzo? Voglio dire, è illogico.
- Tanto per cominciare, - lo corregge Zlatan sollevando gli occhialini solo da un lato e lanciandogli un’occhiata offesa che si fa poi incredibilmente delusa quando si accorge che, nell’infastidirlo, José non ha neanche sollevato gli occhi dallo stupido libro che sta leggendo, - io non provo astio proprio per nessuno.
Le labbra di José si piegano in un sorriso ironico e sbilenco mentre volta pagina con navigato disinteresse.
- Tu non provi astio per nessuno? – domanda, mentre a pochi metri di distanza il piccolo Cesc riemerge dal mucchio di alghe ridendo felice nonostante le malefiche verdure marine l’abbiano privato del proprio costumino da bagno rosso e blu, - Ma se praticamente l’astio è l’unico sentimento che conosci.
- Questo è ingiusto e anche falso! – sbotta Zlatan, scattando a sedere e sfilandosi definitivamente gli occhialini per lanciare a José l’occhiata piena di riprovazione che merita da quando questa discussione è iniziata, - Francesc! Dov’è il tuo costume?!
- Quello che intendo dire, - riprende José, allungandosi a recuperare una matita dalla tracolla abbandonata sulla sabbia accanto alla sua sdraio ed utilizzandola per evidenziare un passo particolarmente interessante del trattato sulla difesa a zona concepita come modello di comportamento e perfezionamento intellettuale dell’uomo, che sta leggendo da quando sono partiti dalla Spagna un paio di settimane fa, - È che tu sei palesemente molto più geloso di Cesc Fàbregas di quanto non lo sia Shakira, la quale, ti ricordo, è la moglie di Gerard ed ha accettato senza il minimo imbarazzo o problema che suo figlio potesse chiamarsi come uno degli ex di suo marito. Dimmi tu se questa cosa è normale. – esplica, dando al piccolo Cesc tutto il tempo necessario per ri-immergersi nell’aggrovigliata foresta di insalata salmastra per poi riemergerne trionfante sventolando il proprio costume da bagno come una bandiera, prima di indossarlo nuovamente saltellando goffo su un piede e poi sull’altro.
- Io non sono affatto molto più geloso di Shakira! – protesta Zlatan, incrociando le braccia sul petto e tenendo il piccolo Cesc d’occhio mentre si lancia di pancia fra i flutti ridendo dello splash improvviso che il suo corpo produce infrangendosi contro le onde tropicali spumeggianti e profumate, - Ed oltretutto non c’entra niente la gelosia, anche perché io e Geri non stiamo più insieme, cosa peraltro logicamente comprovata dal fatto che sto insieme a te ed abbiamo portato suo figlio in vacanza. Il punto è! – insiste con enfasi, testardo, - Che lui è il mio figlioccio, e non posso permettere che venga chiamato con nomi tanto ridicoli, che peraltro riportano alla memoria personaggi insoffribili ed estremamente sopravvalutati.
- A-ha! – esclama José, trionfante, anche se nemmeno in questa occasione i suoi occhi si sollevano dalle pagine del suo prezioso libro, - Allora ammetti di odiare Cesc Fàbregas.
- Io non ammetto proprio un bel niente, perché non c’è niente da ammettere! – abbaia Zlatan, mentre il piccolo Cesc riemerge dall’acqua con una stella marina appiccicata alla fronte, - E tu sei insopportabile e non voglio mai più rivolgerti la parola. Francesc! Levati quella cosa di dosso.
- Ma lo vedi come reagisci, dico, lo vedi? – insiste José, voltando pagina ed illuminandosi su un concetto particolarmente pregnante, che sottolinea due volte ed accanto al quale annota un paio di osservazioni brillanti che non mancherà di esporre il prima possibile a chiunque nel mondo vorrà ascoltarlo, - Ti agiti tutto come un’anguilla anche se alla fine non ho detto niente di così assurdo.
- Tu sei assurdo. – si intestardisce Zlatan, - La tua intera persona lo è. Assurda e odiosa. – borbotta mentre il piccolo Cesc afferra la stella con entrambe le mani e se la stacca di dosso con un sonoro pop, per poi porgerla al proprio padrino con la mano tesa in un gesto di ecumenico affetto. – No, tesoro, buttala via, sarà velenosa. – protesta Zlatan, allungandosi verso di lui per sciacquargli le mani una volta che il bambino, ubbidiente, ha lasciato cadere la stella marina sulla sabbia. – Ora vai, vai a giocare, bello di zio. – conclude con un lieve bacio fra i capelli biondi resi ancora più chiari dalla luce del sole, - Ma non allontanarti.
Il piccolo Cesc annuisce sereno e poi gira su se stesso, lanciandosi con urla belluine verso una duna di sabbia eretta da lui stesso qualche minuto prima e che adesso, per qualche oscuro motivo, merita di essere abbattuta.
Zlatan si volta verso José e lo trova con gli occhi fissi su di lui e un sorriso detestabile spalmato sulla faccia.
- Cosa. – sbotta scorbutico, incapace di impedirsi di arrossire.
José scoppia a ridere.
- Sei un amore. – commenta con una vocina fastidiosa e volutamente dolciastra.
Zlatan arrossisce ancora di più, lo manda sonoramente a quel paese e poi si volta sulla pancia.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU, Lemon, Dub-Con.
- "Ho domato bestie più feroci di te, Zlatan."
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt Gladiatori!AU. Ogni riferimento storico reale è da intendersi come puramente casuale e non intenzionale XD Non ho fatto alcun tipo di ricerca per scrivere questa storia, non è temporalmente contestualizzata (se non per un generico "antico impero romano") ed è più che altro uno spudorato tentativo di rip-off della serie Spartacus: Blood And Sand. #sporny
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CATENE

Le assolate terre portoghesi non assomigliano in niente alle ripide e appuntite scogliere nordiche alle quali Zlatan è abituato. Non ha visto molto del Portogallo – non avrebbe potuto essere diversamente, d’altronde, dal momento che è qui da meno di tre giorni, tutti passati fra le sbarre di una cella e quelle di un carro per il trasporto degli schiavi – ma quello che ha visto non gli piace. Non c’è poesia nelle distese di terra coltivata che si estendono a perdita d’occhio, non c’è poesia nel brillio accecante del mare sulla costa, non c’è poesia nemmeno nei promontori dalle curve gentili e dalle discese dolci che si scorgono all’orizzonte e sulle quali gli alberi riescono ad arrampicarsi fin quasi in cima.
Ripensare a casa è controproducente. La grazia delle scogliere a strapiombo sull’oceano, il colore scuro e intenso dell’acqua di mare, la neve sulle cime delle montagne, le ampie distese di terra incolta battuta dagli zoccoli dei grandi pascoli di bovini di montagna, ogni cosa nella sua memoria splende di luce propria, brilla della magia del Nord, del bagliore scintillante della neve e del rosso intenso della terra sotto il ghiaccio che la custodisce.
Il sole abbagliante del Sud non può competere, non potrà mai. Eppure sarà obbligato a chiamarlo casa.
Viene introdotto all’interno della villa coi polsi legati. Lo sono anche le caviglie, anche se il nodo è abbastanza morbido da permettergli di camminare. Non di correre, però, e già da solo questo basterebbe a suggerirgli di non tentare neanche la fuga, concetto che le guardie che lo scortano non fanno che sottolineare in maniera del tutto superflua.
La casa in cui si trova non assomiglia per niente alle case della sua gente. È un edificio alto, su due piani almeno, in pietra liscia, bianca e levigata. Le pareti sono decorate da mosaici ricchissimi, più ricchi di quelli che ha visto nella casa del mercante di schiavi che l’ha comprato dopo la sua cattura. Niente di neanche lontanamente assimilabile alle basse case in legno, paglia e fango del suo popolo.
- Fa’ il bravo, - dice il mercante nell’accompagnarlo verso la stanza privata in cui il padrone della villa li attende, - Se non riesco a venderti a lui, giuro su tutti gli dei che ti faccio a pezzi e ti do in pasto ai maiali.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, le mani che tremano dalla voglia di chiudersi attorno al grasso collo del suo carceriere. Ha provato a venderlo già a quattro nuovi padroni diversi, ma tutte e quattro le volte è stato restituito al mittente con l’obbligo di restituire il denaro. Non si fa addomesticare facilmente, è scontroso e violento, un pericolo per i padroni, un sobillatore per gli altri schiavi, non è adatto a vivere in mezzo alla normale servitù, è come una tigre selvaggia in mezzo agli animali domestici.
Non sa davvero come il mercante possa credere che stavolta sarà diverso, ma quando gli viene ordinato di aspettare immobile dove viene lasciato e, dopo aver osservato il mercante scomparire dietro una porta, posa lo sguardo sugli uomini che combattono fra loro in cortile, armati di spade di legno e pesanti scudi dello stesso materiale, comincia ad intuire qualcosa.
Il mercante esce dalle stanze private del padrone della villa dopo pochi istanti, con un sorriso incredibilmente soddisfatto dipinto sul viso dalle gote già rosse di vino annacquato.
- Vuole vederti da solo, prima di acquistarti. – dice, afferrandolo per la catena che lega il collo ai polsi e alle caviglie e trascinandolo bruscamente verso la porta, - Cerca di non dare sfoggio del peggio di te, come al solito.
Zlatan non risponde, ma d’altronde raramente lo fa. Supera la porta nel clangore delle proprie stesse catene, ritrovandosi in un ambiente molto più piccolo di quello che aveva immaginato. Sembra uno studiolo, o qualcosa di simile. C’è una scrivania coperta di pergamene dietro la quale un uomo dai capelli brizzolati, avvolto in una tunica dagli eleganti decori color porpora e oro, sembra intento a leggere un documento.
- Le condizioni alle quali il tuo padrone ti vende sono particolari. – osserva con voce vagamente curiosa. Oltre lo spesso foglio di pergamena, Zlatan non riesce a scorgere il suo viso. – Qual è il tuo nome?
- Zlatan. – risponde lui seccamente, restando in piedi di fronte alla scrivania.
L’uomo abbassa la pergamena, e finalmente Zlatan riesce a vederne il volto, la pelle ambrata un po’ bruciata dal sole, le sopracciglia folte piegate in un cipiglio severo, le labbra sottili, gli occhi dallo sguardo intenso, di un colore indefinibile fra il castano e il verde.
- Zlatan. – ripete l’uomo, lasciandosi scivolare il suo nome sulla lingua e fra le labbra come una parola magica, - Vieni dalle terre del Nord. Sai dirmi il perché di condizioni simili nel tuo contratto di vendita? – domanda, sollevando nuovamente la pergamena, - Perché, se ti acquisto, non posso ridarti indietro?
- Sono già stato restituito parecchie volte. – risponde lui, guardando altrove con aria quasi annoiata.
- E i motivi?
- Non sono stato un buon servitore.
Le labbra dell’uomo si piegano in un sorriso quasi divertito, e Zlatan lo osserva sollevarsi in piedi con esasperante lentezza, girare attorno alla scrivania e poi sedersi sul ripiano proprio di fronte a lui, per niente intimorito dalla loro differenza d’altezza o di possanza fisica.
- Qui non avrai alcun bisogno di esserlo. – dice, - Sai cos’è un ludus?
Zlatan aggrotta le sopracciglia. Cerca un significato da ricondurre a quella parola, ma non ne trova uno, e dopo pochi istanti lascia perdere.
- Il mio latino non è tanto buono. – risponde con una scrollata di spalle. L’uomo sorride ancora, quasi compiaciuto dalla sua ignoranza.
- Gli uomini che hai visto combattere nel cortile sono gladiatori. O meglio, - aggiunge con un sorriso che non ha nulla di modesto, - alcuni lo sono. Altri sognano di diventarlo. Altri non hanno alternative. Tutti, comunque, servono un solo scopo: rendere me più ricco. E sarà quello che farai anche tu. – dice, lasciandogli scorrere addosso uno sguardo fra il suggestivo e il giudicante, - Combattendo per me.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, infastidito.
- E se mi rifiuto? – domanda. L’uomo ride, una risata piena, allegra, genuinamente divertita. Si solleva dal ripiano della scrivania, lisciandosi addosso la tunica e girandogli intorno per osservarlo più attentamente.
- Siete tutti uguali, voi guerrieri. – commenta distrattamente mentre sembra prendere le misure di ogni singolo muscolo visibile sottopelle, - Tutti così sicuri di avere una voce in capitolo. Tutti così convinti della vostra forza, del vostro onore. Tutti rigidi come il più prezioso dei metalli, infrangibili, indistruttibili. – l’uomo afferra la catena che lo imprigiona e gliela gira attorno al collo in un movimento improvviso, tirando con forza. Zlatan porta entrambe le mani alla gola, ma è troppo tardi: la catena è già stretta abbastanza da mozzargli il respiro, e mentre lui gorgoglia disperatamente sente le gambe cedere senza possibilità di appello, e le ginocchia gli si piegano senza che lui possa fare niente per impedirglielo.
Si appoggia al ripiano della scrivania, cercando di concentrarsi per inspirare quanta più aria possibile, ma non ne passa e sufficienza, e i polmoni bruciano come un incendio.
- Ho domato bestie più feroci di te, Zlatan. – gli ringhia l’uomo all’orecchio, poggiandogli una mano sulla schiena ed obbligandolo a piegarsi ancora di più, - Pensi di poter avere la meglio su di me perché sei più giovane? Più forte? Perché hai maggiore esperienza in combattimento? – Zlatan si sente addosso il suo ghigno incattivito, e trema, trema davvero per la prima volta nella sua vita quando lo sente premersi ostinatamente contro di sé, libero dalla tunica e pronto a marchiarlo nel peggiore dei modi. – Non puoi, - prosegue l’uomo, lasciandolo finalmente libero di respirare, ma solo per costringerlo a guardare la catena che ora stringe fra le mani, - Perché niente di tutto questo importa, Zlatan. Questa è la tua unica verità, adesso. – spiega con voce quasi paziente mentre le catene diffondono la loro sinfonia di cattività senza speranza nell’aria ormai satura dei loro respiri affaticati, - Questa è l’unica vita che ti resta.
Secondi, minuti o ore dopo, Zlatan, in ginocchio, guarderà il volto impassibile del suo nuovo padrone. Ancora sconvolto dai tremori del dolore e dell’orgasmo più violento che abbia mai provato nella sua intera esistenza, avvicinerà il volto al suo inguine e sentirà sulla lingua il sapore di un uomo, per la prima volta da quando è al mondo. Lo farà tenendo gli occhi chiusi, imprimendo bene la memoria precisa di quel sapore assieme a tutte le altre, e sentirà qualcosa annodarsi dolorosamente e poi altrettanto dolorosamente disfarsi all’altezza del suo stomaco quando lo sentirà venire senza freni dentro di sé.
- Da adesso mi appartieni. – dirà il suo padrone, e Zlatan, abbassando lo sguardo annuirà.
- Sì. – dirà senza neanche provare vergogna, - Sì, dominus.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Incest.
- Gli istanti, José lo sa bene, sono tutti importanti. Ogni singolo momento della nostra vita porta, sommato a tutti gli altri che abbiamo vissuto, a comprendere per quale motivo, ad un certo punto, ci si possa ritrovare in una determinata situazione o meno. José lo sa, perché il suo mestiere è questo: in quanto allenatore, lui prepara momenti. Prepara gli uomini a presentarsi preparati di fronte ad ogni singolo momento che possa cambiare la loro sorte o quella della sua squadra.
Il problema è che, per un momento come questo, nessuno avrebbe mai potuto preparare adeguatamente lui.
Note: Di base, questa storia (così come Hearts Gone Astray, scritta per il Reverse Bang @ bigbangitalia, con la quale non ha niente a che fare a livello di trama ma alla quale secondo me è legata da un filo conduttore emotivo parecchio evidente) nasce dal desiderio di riprendere in mano il Jobra in maniera seria e consistente, come non facevo da un sacco di tempo. L'idea è molto antica, ed anche la prima mezza paginetta circa della storia è stata scritta qualcosa come un annetto fa, ma nel riprenderla in mano mi sono resa conto come il bisogno di demolire tutto quello che avevo fatto col Jobra fino a quel momento era così forte da non poter essere ignorato. E' una storia profondamente addolorata, non voglio dire dolorosa perché questo spetterà ai lettori stabilirlo XD Ma addolorata, questo sì, e spero possa piacervi.
Grazie a Deffy per lo splendido fanmix che potete trovare qui (Frontcover - Backcover), e grazie anche per essersela sciroppata ed averla perfino gradita XD
La storia partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ed è ispirata al prompt #58 (Il potere di un addio).
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BULLET WITH BUTTERFLY WINGS

Vi è mai capitato di ritrovarvi nella situazione di poter pensare o dire una frase come “potresti essere mia figlia”? È la classica battuta da padre di famiglia che, alle prese con una ragazza molto giovane, molto bella e molto disponibile, cerca di porre un ultimo muro fra lei e se stesso utilizzando la sciocca scusa del divario d’età. Come se una cosa del genere potesse fermare una ragazza dall’infilarti le mani nei pantaloni, se vuole, o come se un simile pretesto bastasse ad annullare la voglia che hai tu di sfiorarla fra le gambe, saggiare il suo calore e stupirti del suo sapore.
Naturalmente non serve, nei libri e nei film il momento stesso in cui questa battuta viene pronunciata segna l’inevitabile inizio della fine. Il padre di famiglia, in barba a tutti i buoni propositi, lascia che il muro della propria dignità venga abbattuto mattone dopo mattone, e puoi anticipare già ad un buon numero di pagine o di scene dalla fine come la situazione si evolverà e si concluderà.
È stato per questo motivo che non ho mai detto a Zlatan una cosa simile. Anche se la differenza d’età che ci separava mi avrebbe ampiamente giustificato, ho sempre evitato, con la speranza che questo potesse in qualche modo salvarmi dai suoi occhi, dal suo sorriso, dalla morbidezza dei suoi capelli, dalle linee dritte e definite dei suoi muscoli, dalle curve dei suoi glutei. Ci ho sempre sperato, un po’ ingenuamente, lo ammetto, perché Zlatan mi ha avuto dal primo momento. Ci sono cose che non puoi spiegare e io, davvero, mai e poi mai riuscirò a descrivere la sensazione che ho provato la prima volta che i miei occhi si sono posati su di lui che, fiero e apparentemente dimentico del mondo circostante, palleggiava disinvoltamente a centrocampo durante l’allenamento cominciato prima in attesa che arrivassi, mentre i suoi compagni contavano i palleggi, divertiti, tutti intorno a lui.
È stato qualcosa di simile ad un’esplosione, ma più discreto. Qualcosa di simile a una guerra, ma meno devastante. Qualcosa di simile a un fuoco d’artificio, ma meno rumoroso. Qualcosa di simile all’amore, ma meno netto. Più confuso. Più ambiguo – quasi sporco, dato anche il fatto che a tutto avrei dovuto pensare, in quel momento, tranne alla possibilità di lui e me stesi su un letto da qualche parte a fare non sapevo nemmeno io bene cosa.
Non so quanto possa essere utile redigere la cronistoria della nostra relazione – penso molto poco. E d’altronde, non devo a nessuno la risposta alla domanda “com’è stato possibile che vi siate messi insieme?”. No, la risposta che io e Zlatan dobbiamo al mondo è decisamente diversa, e non riguarda me e lui che diventiamo una cosa sola, ma me e lui che ritorniamo due cose distinte. Ed è una risposta che conosco, solo che non ho ancora trovato il coraggio di darla.
*
Vi è mai capitato di avere la possibilità di pensare o dire una frase come “potresti essere mia figlia”?
Vi è mai capitato di scoprire che era vero?
*
Una delle prime cose che abbiamo fatto io e Zlatan, quando ci siamo conosciuti, è stata litigare. Zlatan è una delle persone più egocentriche e insopportabili che abbiano mai calpestato questa terra dalla sua creazione in poi, ed io sono identico, perciò, come disse Branca presentandoci l’uno all’altro, “fra di voi o funzionerà alla grande o saremo costretti a liberarci di uno dei due quanto prima”. Ora, il modo in cui funzionava fra me e Zlatan probabilmente non era “grandioso” nel senso più semplicistico e intuitivo del termine, ma a suo modo era perfetto.
La prima cosa su cui ebbe da ridire furono gli abbracci di gruppo. Guardacaso, la prima cosa che dissi io arrivando ad Appiano fu che su quella pratica non potevo transigere, perché il contatto umano e la vicinanza fisica dei giocatori erano e sono la base fondante degli equilibri dei miei spogliatoi. Risate ovvie a parte, tutti compresero con precisione ciò che intendevo dire con quel discorso. E lo comprese anche Zlatan, motivo per cui si lagnò e litigammo.
Litigammo perché Zlatan è una persona molto furba, che sa quando distribuire smancerie, ma di suo è uno svedese, perciò meno lo tocchi più lui è felice. Il suo temperamento caldo da zingaro indomabile fa a cazzotti con l’assoluta freddezza dei suoi calcoli mentali, è questo ciò che lo rende così incredibilmente incomprensibile e affascinante, la sua personalità è un miscuglio impossibile di ghiaccio e fuoco, è come se qualcuno avesse trovato il modo di impedire all’olio di restare in superficie se versato in un bicchiere pieno d’acqua. È una cosa che quando la osservi ti sembra impossibile – la fiamma fredda, il ghiaccio che prende fuoco – perciò rimani incantato a fissarla.
Zlatan credeva di poter fare così anche con me – la sua sfortuna è stata trovare in me il suo specchio perfetto. La qual cosa, immagino, avrebbe dovuto portarmi a sospettare ben prima di quando ho cominciato effettivamente a farlo. Ma questa è un’altra storia.
In ogni caso, venne da me con la stessa espressione di ironico scazzo che immagino avesse usato con il suo precedente allenatore in tutte le occasioni in cui aveva trovato opportuno lamentarsi di qualcosa. Motivo per cui, quando capii dove stavano andando a parare i suoi discorsi vaghi sulle “distanze da rispettare” e quella che a suo parere era la mia necessità di “abituarmi ad un modo di gestire le squadre molto diverso rispetto a quello della Premier League”, lo interruppi immediatamente col ghigno supponente e divertito che si meritava.
“Se tu credi” dissi con una mezza risata, “che questa sceneggiata ti porterà ad evitare gli abbracci, sei fuori strada. Anzi, ti dirò di più!” aggiunsi annuendo, “Da domani le sedute di abbracci dureranno dieci minuti invece che cinque e saranno ripetute a chiusura dell’allenamento, oltre che all’inizio!”.
Non ricordo con precisione tutti gli epiteti che mi rovesciò addosso – non tutti in una lingua che io potessi comprendere, peraltro. So che c’era di mezzo un qualche insignificante meschino presuntuoso arrogante ed anche un vedi tu ‘sto portoghese di merda, ai quali io non potei risparmiarmi di rispondere per le rime con una serie di stronzo supponente più pieno di sé di quella merda del tuo procuratore accompagnati da uno zingaro del cazzo, ci metto niente a tenerti fuori rosa finché non ti si arrugginiscono i legamenti, quindi tappa quella cazzo di bocca o usala in modi più adeguati ai tuoi talenti che comincio a pensare esulino dall’ambito calcistico.
Quando quel giorno, dopo le mie parole, mi afferrò per entrambe le spalle e mi spinse con forza verso la parete dietro di me, si avvicinò fino a sovrastarmi e mi si schiacciò addosso con un’ansia tale che ebbi appena il tempo di chiedermi quale fosse in effetti il suo problema col toccare i corpi altrui, che subito la risposta si formulò chiarissima nella mia mente: Zlatan aveva un problema molto serio con le misure, unica cosa che non era stato in grado di conciliare nel corso delle complicate operazioni che l’avevano portato a mitigare l’una con l’altra le due differenti parti della sua personalità. Era riuscito ad equilibrarsi quasi perfettamente, ma le misure erano rimaste sballate, perciò la sua spinta era un’irrazionale desiderio di toccare tutto il più possibile, per affrontarlo adeguatamente, mentre il suo riflesso condizionato era allontanarsi con disgusto una volta che un certo limite fosse stato travalicato – e quindi lui si fosse sentito particolarmente infastidito da un tocco eccessivamente prolungato.
Sembra assurdo ma non lo è: con una persona simile puoi discutere soltanto a letto. Scopare soddisfaceva entrambi i suoi bisogni – poteva avvicinarsi quanto voleva, con tutta la violenza che voleva e con tutta l’irruenza che lo contraddistingueva, e allo stesso tempo subito dopo poteva allontanarsi sbrigativamente, colonizzando il lato opposto del letto senza concedersi smancerie post-sesso e infastidendosi pure se per caso sentiva invaso il proprio spazio vitale.
Fu a letto che finimmo a discutere io e Zlatan, quella volta come in una miriade di volte successive. E mi piacerebbe poter dire che in fondo si trattava solo di sesso, che non c’era un certo trasporto dietro, perché allora sarebbe più facile. Purtroppo, la situazione era molto più complicata di così: io e Zlatan avevamo davvero un incredibile bisogno di parlarci; solo che non riuscivamo a farlo senza darci addosso, anche troppo violentemente, motivo per cui, prima di discutere, avevamo bisogno di sfiancarci.
Il sesso ci connetteva alla perfezione. Era il tassello mancante per rendere la nostra relazione vincente.
Io e Zlatan non abbiamo mai perso contro niente e nessuno, finché abbiamo continuato a scopare.
*
I sospetti sono cominciati per caso, per una sfortunata combinazione di eventi. Non capisci mai che enorme benedizione sia l’ignoranza finché la consapevolezza non ti prende a schiaffi in pieno viso, suppongo. Io sono uno dei più grandi sostenitori dell’utilizzare la conoscenza come un’arma, ma la verità pura è semplice è che, come tutte le armi, anche la conoscenza, quando la maneggi, può scivolarti dalle dita, sfuggire al tuo controllo e ferirti. O peggio.
Eravamo insieme, io e Zlatan, quel pomeriggio. Insieme e soli, in casa sua, come aveva preso a capitare sempre più spesso da quando, senza dircelo, avevamo capito di essere diventati dipendenti l’uno dall’altro. Helena aveva l’abitudine di portare spesso i bambini in Svezia, nel weekend, per passare un po’ di tempo coi nonni materni. Quelli paterni, d’altronde, li vedevano già abbastanza spesso, dal momento che i genitori di Zlatan, pur separatamente, a quanto mi aveva detto lui, abitavano anche loro a Milano, seguendolo più o meno ovunque lui andasse. Era una cosa che lo rendeva allegro, diceva, il fatto di poter sempre contare sui propri genitori in qualunque città avesse deciso di vivere. Non si riconosceva in nessuna patria, aveva una forte consapevolezza ed un enorme rispetto del sangue zingaro che gli scorreva nelle vene, ma mamma e papà, loro sì, erano il suo porto sicuro, la sua ancora, casa sua anche dove casa non c’era.
Era un pensiero che, in qualche modo, mi riempiva di tenerezza. Se avessi saputo che sarebbe stato il motivo per cui non avrei più potuto continuare ad ignorare la verità, probabilmente non sarebbe stato così.
Stavamo mangiando una pizza davanti alla televisione – ci divertivamo a fare cose così stupide, illudendoci di poter avere più di quello che potevamo concederci di nascosto dal resto del mondo – quando Jurka è entrata in casa e, ridendo, ha detto “scusa, tesoro, non sapevo che avessi compagnia”.
Non sono sicuro di poter spiegare cosa sia successo in quel momento. So che Zlatan non l’ha notato, ma d’altronde non avrebbe mai potuto, non aveva le informazioni di base necessarie ad accorgersene. Per me, è stato come attraversare la strada, voltarmi all’improvviso per nessun motivo in particolare e ritrovarmi faccia a faccia con un camion diretto verso di me alla massima velocità, senza nessuna possibilità di evitare l’impatto.
Conoscevo quella donna.
Fino a quel momento, il nome di Jurka Gravić non era stato altro che questo, per me. Un nome. Lo conoscevo, perché faceva parte dell’entourage composto da miliardi di nomi senza volti che giravano intorno a Zlatan, che costituivano la sua corazza, la sua protezione, il suo punto di partenza, la sua famiglia, ma non c’era niente, niente più di questo che la legasse a me.
Guardarla negli occhi è stato però tutto quello che mi è servito per capire che, a prescindere da ciò che legava lei a me, lei era tutto quello che legava me e Zlatan.
*
Vi è mai capitato di riflettere sui dettagli? Intendo, riflettere davvero. Comprenderne in pieno le potenzialità, la forza devastante.
Il mio è un mestiere di dettagli. Un mestiere di momenti. Sapete in cosa consiste il mestiere dell’allenatore? Quando vi dicono che prepariamo le partite, non è esatto. La preparazione della partita non è l’obiettivo, è la conseguenza. Volete sapere a cosa serve un allenatore? Un allenatore serve a preparare un momento. Un singolo momento. Quel momento che viene per ogni giocatore nel corso dei novanta e più minuti di una partita, quel momento in cui si pretende da lui che, posto in condizioni di stress e necessità, dia comunque il meglio di sé. Noi prepariamo quel singolo momento, prepariamo il momento in cui un attaccante, solo davanti al portiere, nella foga dell’azione e delle voci e delle luci puntate e del cuore che batte a mille per la fatica e la paura, riesce comunque a trovare all’interno della propria mente abbastanza serenità da calciare comunque la palla con l’angolazione giusta per impedire che il portiere possa catturarla fra le mani. Prepariamo quel momento in cui un difensore, nel vedersi correre incontro un attaccante e il suo compagno di reparto, riuscirà comunque a riflettere abbastanza lucidamente da indovinare la mossa più giusta per fermarli entrambi. Prepariamo quel momento in cui un portiere, a tu per tu col portatore di palla pronto a tirare, riuscirà comunque ad osservare la situazione con freddezza sufficiente ad intuire la traiettoria, a lanciarsi con la velocità giusta, a stringere la presa attorno al pallone con abbastanza decisione da impedirgli di rotolare in rete alle sue spalle.
Prepariamo quello, noi. Non la partita. Gli uomini. I loro personali istanti, i loro momenti, i dettagli.
Sono i dettagli a decidere le esistenze. I singoli momenti. La loro somma, certo, ma questo non fa che renderli tutti importanti, presi singolarmente. Una somma non è che l’unione di differenti singoli, e quando ogni singolo contribuisce al totale va da sé che anche un minimo errore può condurre verso un risultato sbagliato.
Il mio dettaglio risale ad uno degli inverni più gelidi che ricordi, al gennaio plumbeo e ghiacciato che mi accolse a Malmö nel 1981. A mio padre, al suo sorriso bonario mentre mi osserva stare un’ora in fila al telefono dell’albergo la sera successiva all’amichevole con una squadretta locale – secondo lui era fondamentale, fondamentale che si facessero esperienze europee, anche al livello a cui era il Rio Ave quando ci giocavo io – nel tentativo disperato di sentire la voce di Tami almeno per qualche minuto, alla sua voce, quel timbro caldo e paziente, quando mi disse “goditela un po’ la vita, Zay. Goditela finché sei giovane”. Al freddo pungente di quella sera, di un giorno perso nel calendario perché a diciotto anni – diciotto anni, Dio – l’importanza dei dettagli e degli istanti non la conosci ancora, al vento gelido che spazzava le vie semivuote, al bar illuminato che sembrava l’unico luogo ancora vivo e sveglio a quell’ora in tutta la città, alla birra, all’altra birra, a quella ragazza, ai suoi capelli rossi, agli occhi profondi e scuri, alla linea precisa delle sue labbra sottili, a quanto abbia desiderato baciarla, a quanto male mi abbia fatto sentire il pensiero di Tami a chilometri di distanza in Portogallo, a come per un istante, un singolo istante, fra le cosce di quella sconosciuta senza nome mi sia sentito così stupidamente felice da potermi mettere perfino a ridere.
Alla sua voce. “Sei ubriaco perso.” Alla sua voce. “Scusa, tesoro, non sapevo che avessi compagnia.”
Avevo diciott’anni. Ero poco più di un bambino. Com’è potuto succedere, mi chiedo? Come si fa a rovinarsi la vita così senza neanche accorgersene? Come si vive con questa consapevolezza asfissiante, senza scampo, come convivi con l’idea che qualsiasi azione tu possa compiere avrà una conseguenza su te stesso, su chiunque altro, anche a distanza di così tanti anni?
Certe volte è come sparare in aria e poi dimenticarsi che il proiettile, in qualche modo, deve pur tornare a terra. Certe volte ti stai sparando dritto in fronte, e nemmeno te ne accorgi.
*
Ho retto il colpo. Il sangue freddo è la mia dote migliore, probabilmente, deriva da una positività innata che mi porta a pensare automaticamente che, qualsiasi sia il problema in cui mi ritrovo invischiato in qualsiasi momento, riuscirò in qualche modo a tirarmene fuori. L’idea giusta arriverà ed io sarò bravo abbastanza da risolvere la situazione, magari anche rigirandola a mio favore.
Per alcuni è una debolezza. D’altronde, è un sistema di auto conforto basato tutto sulla speranza. La speranza, alcuni pensano, rende gli uomini deboli. Li rende più naturalmente predisposti alla delusione, e quindi all’abbattimento. Io non credo, io credo che la speranza sia una grande forza. Dà agli uomini un obbiettivo verso il quale tendersi, una ragione per alzarsi al mattino, rendersi presentabili ed uscire fuori, nel mondo, a pretendere la propria fetta di fortuna. L’idea che il domani nasconda sempre qualcosa di meglio dell’oggi è consolante, incoraggiante, anche chi dice di essere realista non riesce mai completamente a rinunciare alle lusinghe dell’ignoto, perché l’ignoto per sua natura esiste solo per trascinarti di un passo in avanti nel futuro attratto dai misteri che porta con sé.
Per giorni, io ho trovato comodo vivere in quell’incertezza. Nel pensiero che, andiamo, era incredibile, estremamente improbabile che quell’unica notte avesse provocato una conseguenza simile. Una notte soltanto. Una sola volta. Quante possibilità esistevano, statisticamente, che il risultato potesse essere proprio quello? Oltretutto, pensavo, sicuramente non ero io l’unico col quale Jurka si fosse intrattenuta, in quel periodo. Non potevo saperlo con certezza, ma c’era sempre la possibilità che il padre di Zlatan, l’uomo con cui era cresciuto, fosse davvero anche il suo padre biologico. Sarebbe stato del tutto normale, Jurka stava con lui, in quel periodo.
È durata solo qualche giorno, comunque. Avevo visto qualcosa, negli occhi di Jurka, quel giorno a casa di Zlatan, qualcosa che mi aveva preoccupato ben più di quanto potessi ammettere. Un fantasma che mi inseguiva ogni volta che posavo gli occhi su di lui, ogni volta che sfioravo le sue labbra con le mie, ogni volta che ci stringevamo l’uno all’altro ed io cercavo di non notare quanto risultassero spaventosamente evidenti particolari che, fino a poco tempo prima, non avevano rappresentato per me niente di particolarmente sconvolgente. La forma delle mani, la curva della schiena, il disegno delle spalle, i contorni delle labbra. Assomigliavano davvero ai miei? Non saprei dirlo. A me sembrava di sì, mi sembrava che mi assomigliasse in maniera impressionante, mi sembrava che mi assomigliasse ogni giorno di più, che di minuto in minuto le somiglianze crescessero, si ingigantissero. E gli occhi tristi di Jurka, il modo in cui non aveva osato reggere il mio sguardo per tutto il tempo in cui era rimasta in casa di Zlatan, fino a cedere ed andare via perfino prima di me, che pure fin da subito, vedendola, avevo sentito fortissimo il desiderio di scappare. Chissà, forse perché avevo paura delle conferme che i suoi occhi avrebbero potuto darmi se solo avessi continuato a guardarli più attentamente.
Il test del DNA l’ho chiesto al termine di una settimana di ansie talmente convulse da impedirmi di dormire. Dopo sette giorni trascorsi nell’incapacità di tornare a casa e guardare Tami negli occhi, o di restare in Pinetina col rischio di dover affrontare Zlatan nonostante già da un paio di giorni avessi smesso di cercarlo, nonostante lui continuasse ostinatamente a cercare me, ho capito che c’era un limite oltre il quale l’ostinazione non poteva più spingersi, ed io quel limite l’avevo già spinto ad allargarsi, e poi l’avevo travalicato, calpestandolo sotto le suole delle scarpe, senza neanche accorgermene, come al solito.
Più di così, però, non potevo fare. Più di tanto non potevo muovermi.
Ho retto, finché non sono arrivati i risultati. Combi, l’unico al quale potessi rivolgermi con la certezza che non avrebbe parlato con nessuno di quanto scoperto, ci tenne a incontrarmi nel suo studio. Non il suo ufficio ad Appiano, all’interno del centro sportivo, ma il suo studio privato. Mi accolse ad un orario improbabile del mattino, ricordo che uscii dalla stanza d’albergo in cui avevo trovato rifugio per quella notte di crampi ansiosi, e che il cielo era una massa grigia uniforme, e che l’aria umida sembrava volesse stringermi un nodo attorno alla gola. Ricordo che arrivai lì e lo studio era vuoto, nessuna segretaria, nessun assistente, solo lui. Ricordo i suoi occhi, l’espressione del suo viso, la serietà estrema del suo tono di voce. “È confidenziale, mister,” disse, “voglio che lo sappia. Sarà lei a decidere quando e se dirlo a Zlatan.”
Quando e se dirlo a Zlatan.
Ricordo di essere uscito da quell’ufficio con la testa completamente vuota. Mi sentivo contemporaneamente ingolfato dai pensieri ed incapace di pensare. Ricordo il nodo che mi stringeva lo stomaco, la nausea fortissima mentre, a bordo della mia auto, raggiungevo nuovamente l’albergo, e tornavo in camera.
Ricordo di essermi chiuso la porta alle spalle, e di avere poi fatto la stessa cosa con quella del bagno un attimo prima di chinarmi sulla tazza del cesso e vomitare. Non ricordo quanto a lungo. Sembrava non dovesse finire mai.
Ricordo il sapore acido sulla lingua, il bruciore delle lacrime negli occhi, ed un senso di smarrimento talmente profondo da lasciarmi sbigottito.
Quando e se dirlo a Zlatan.
Non sapevo neanche quando e se avrei avuto il coraggio di confermarlo a me stesso.
*
L’indirizzo di casa di Jurka lo trovo in mezzo alla roba di Zlatan, durante il primo allenamento della nuova stagione. Non l’ho mai cercato, durante la pausa estiva, ho sperato fino all’ultimo momento di poter prendere ciò che sapevo e nasconderlo per bene dentro di me, fino a riuscire a sviluppare la capacità di ignorarlo.
Non è servito. I nostri sguardi si sono incrociati stamattina, quando è arrivato ad Appiano. Io stavo parlando con Branca, niente di serio, eravamo lì ad augurarci un buon lavoro, quando Zlatan è entrato all’interno dell’edificio, attraversando la porta principale, ed io l’ho visto muoversi come al rallentatore, come se i miei sensi stessero cercando di prolungare l’agonia. Ed io l’ho guardato e lui ha guardato me, ed io ho capito di non avere speranza.
La conoscenza è un’arma a doppio taglio, e in quel momento io la stavo usando senza volere per trapassare me stesso e Zlatan in un colpo solo. Non poteva continuare.
Cerco l’indirizzo di Jurka e lo trovo. So che non lavora, e so che vive da sola. Devo andare da lei immediatamente.
Fingo un malore e chiedo a Beppe di continuare l’allenamento in mia vece, se possibile di non spargere troppo la voce della mia assenza, specie di fronte ai giornalisti. Voglio essere lasciato in pace.
Raggiungo il parcheggio e recupero la macchina, e per tutto il tempo della strada verso l’appartamento di Jurka non faccio che pensare che non ho mai sentito Zlatan parlare dei suoi genitori come se li avesse mai visti insieme. Mi ha sempre detto di avere un rapporto abbastanza stretto, con sua madre, sì, ma di essere comunque cresciuto lontano da lei, col padre e la sua compagna. Di non averli mai visti sposati.
Il cuore mi batte così forte da pompare il sangue alla testa troppo velocemente. Sono costretto a fermarmi a più riprese, sia per un capogiro, sia perché voglio tornare indietro, sia perché sono convinto che non ce la farò. Perché non ce la posso in alcun modo fare, non so come gestirla, una cosa simile. Non so con che faccia andare da Jurka a chiederle ciò che devo chiederle, non so con che faccia poi riuscirò, dopo averlo fatto, a tornare indietro e parlare con Zlatan. Perché in ogni caso dovrò farlo. E io non mi sento forte abbastanza. Non sono forte abbastanza.
È un miracolo che arrivi vivo a destinazione. Un miracolo, ma non sono convinto che sia un miracolo positivo. Fermo la macchina in una stradina laterale, sperando che il posto sia discreto abbastanza. Scivolo fino al portone d’ingresso del palazzo, citofono, lei mi risponde, quando capisce che sono io le sento trattenere il fiato per un’enormità di tempo, e non so più se è lei che ha davvero smesso di respirare per secondi interi, o se sono io che dilato gli istanti perché, per la prima volta, il futuro mi fa paura.
- Sali. – dice Jurka, ed io salgo. Sta al primo piano. Mi aspetta sulla soglia, sguardo basso, aria afflitta, l’aria di una che vorrebbe trovarsi altrove, che nonostante sia rassegnata ad affrontare quello che la aspetta sta ancora sperando, da qualche parte dentro di sé, che il suo carnefice cambi idea, e la lasci in pace.
Stringo i pugni e mi avvicino. Lei si scosta per lasciarmi passare, chiude la porta guardando a sinistra e a destra sul pianerottolo per assicurarsi che nessuno mi abbia visto, e poi torna a guardarmi, e ha già gli occhi pieni di lacrime.
- So che— - comincia, ma io non posso lasciarle il tempo di finire.
- È mio? – domando. Le volto ancora le spalle. – È mio figlio?
Jurka trattiene il fiato un’altra volta, come sopraffatta. Se chiudo gli occhi, posso ancora ricordarla mentre fa la stessa cosa, stesa sotto di me, mentre viene stringendomi al petto. È un incubo. Dev’essere un incubo. È tutto sbagliato. E io non posso farcela.
- È tuo. – risponde lei. È solo un fiato, un’imitazione di voce, un rantolo sofferente che si insinua dentro di me e mi squassa le viscere, come un pugno bene assestato. Esalo un singhiozzo sconfortato mentre mi premo le mani contro il viso, e lei continua a parlare e la sua voce è rotta dal pianto. – Io e Šefik ci eravamo appena lasciati, sapevo che non ti avrei più rivisto, che avevi una vita, una fidanzata a casa, eri troppo giovane, so di avere sbagliato, ma avevo l’occasione di dare a mio figlio un padre vero, e—
- Jurka. – la interrompo, scuotendo il capo e voltandomi verso di lei. Il dolore è passato. Anche la confusione. Come quando stai male e, dopo un accesso violento, il dolore sfuma lasciandoti in quella particolare condizione di calma in cui sai già che devi solo aspettarti la prossima scarica, e che sarà forse perfino più violenta di quella che l’ha preceduta, ma in quel momento, in quel preciso istante, stai bene. Di un bene perfetto che non può essere alterato. – Non devi giustificarti con me. – la rassicuro a bassa voce, forzando un sorriso e poggiandole una mano sulla spalla. Lei ha gli occhi pieni di lacrime e mi guarda smarrita, mordendosi con forza un labbro. – Capisco le tue ragioni. – insisto annuendo. Anche lei annuisce, come se seguirmi nei gesti potesse donarle un briciolo della tranquillità che sto dimostrando io. – Devo chiederti una cosa, però. – continuo. Sento la tensione concentrarsi su ogni fibra del suo corpo, la sento nella spalla sulla quale la mia mano è ancora poggiata, la vedo sui lineamenti del suo volto che si induriscono improvvisamente quando resto in silenzio a lungo, fino ad averla vista annuire per chiedermi di andare avanti.
Quando parlo, sento anche entrambi i nostri cuori che si spezzano. Perché tutto ha una conseguenza, e quello che le ho chiesto può averne una sola, per entrambi.
*
Zlatan è nervoso. Glielo leggo addosso con una facilità impressionante, una facilità che già da sola, se ci penso, fa male da morire. Lo conosco bene, condivido con lui più di quanto non abbia mai condiviso con nessun altro, quello che ci lega, per certi versi, è perfino più intenso di quello che mi lega a Tami, in questo momento, eppure tutto questo a cosa mi servirà? A cosa mi serve, nel momento in cui dovrei guardarlo negli occhi e parlargli sinceramente, e so già che invece non lo farò?
Quanto amore sprecato, penso mentre lo osservo prendere posto sulla poltrona di fronte alla mia scrivania. Quanto amore sprecato. Quanto dolore inutile.
- Finalmente. – comincia lui a muso duro, il tono acido che si riserva di utilizzare con chiunque lo deluda, per un motivo o per un altro, - Ci hai messo solo tre mesi. Sono commosso.
Distolgo lo sguardo, perché potrei anche dirgli che non ho idea di cosa stia parlando, ma servirebbe solo a prendere tempo, ed io non voglio. Questo incontro è già durato fin troppo – troppo più di quanto non posso permettere al mio fisico di sopportare senza sentire il bisogno di ripensare a tutte le volte che siamo andati a letto insieme, a quanto mi è piaciuto, e a quanto adesso il solo pensiero mi rivolti lo stomaco fino a darmi la nausea.
Non so perché succeda. So che non è colpa mia, né colpa sua. Non lo sapevamo. Non sono davvero stato suo padre. Non ho idea di cosa costringa il mio fisico a reagire così violentemente al pensiero del nostro rapporto, non sono neanche sicuro che sia un problema morale o etico. È solo troppo sbagliato, troppo ingiusto. Fa male come quando ti prendono a calci fino a farti venire da vomitare. È la stessa cosa.
Lo so di cosa sta parlando Zlatan. Lo so che sta parlando di come, da un giorno all’altro, io abbia smesso di parlargli, di guardarlo, o anche solo di considerarlo una parte pur minima della mia vita. Lo so che parla dell’assoluta mancanza di rispetto con la quale l’ho tagliato fuori da una cosa all’interno della quale, fino a tre mesi fa, era invischiato fino al collo – me stesso. Lo so che, di base, parla di quanto gli sono mancato. Lo so, perché io provo lo stesso tipo di sentimento, solo che nel suo caso è accompagnato solo da tanta rabbia, perché non capisce la mia decisione, mentre nel mio caso la nostalgia è sempre, costantemente, accompagnata dal disgusto.
- Dobbiamo parlare. – dico a bassa voce, occhi fissi sul piano lucido e scuro della scrivania.
- Sì, mi sembra l’eufemismo del secolo. – sbuffa lui, e poi lo osservo – lo percepisco – rilassarsi contro lo schienale della propria poltrona, mentre accavalla le gambe. – Andiamo, Zay. – dice, e la sua voce è dolce, dolce quanto non è mai stata, o forse sembra tale solo a me, perché so che presto smetterò di vederlo in queste situazioni, in cui si rilassa abbastanza da consentirsi di mollare la presa su se stesso. – Che cazzo è successo? Così, da un giorno all’altro… dimmi almeno che cazzo ho combinato, troviamo una soluzione, così non può—
- Non è colpa tua. – dico, forzandomi a parlare perché ho la lingua annodata, e la gola intasata, e il cuore che batte così forte da rimbombarmi dolorosamente nelle orecchie, - Sono… sono io.
L’esposizione è formalmente corretta. Almeno questo.
Zlatan mi guarda a lungo, il peso del suo silenzio è sconvolgente. Ha gli occhi sgranati e, per molti secondi, sembra non riuscire neanche a mettere ordine fra i propri pensieri.
- Stai scherzando. – dice quindi, e non è neanche una domanda, - Stai scherzando, José, cazzo. Guardami! Cosa ti sembro, assomiglio ad una liceale? Tu cosa ti senti, cosa credi di essere? – si alza in piedi, passandosi entrambe le mani sul viso e poi fra i capelli mentre gira attorno alla poltrona, facendo un paio di passi per scaricare il nervosismo e poi tornando a voltarsi verso di me, stringendo il bordo superiore dello schienale fra le mani con tanta forza da affondare le dita nell’imbottitura. – Non puoi dire sul serio.
- Mi dispiace. – scollo io, incapace di guardarlo negli occhi.
- Vaffanculo! – risponde lui, scuotendo la poltrona con forza ed allontanandola da sé con veemenza sufficiente a mandarla a sbattere contro la scrivania, - Vaffanculo! Stai scherzando! Io non ci posso credere— è per questo che mi hai fatto venire qui, José? Per— per scaricarmi come fossi un fottuto moccioso al quale puoi rifilare una qualsiasi stronzata perché pendeva dalle tue labbra fino a ieri e continuerà a farlo anche domani? Ma per chi cazzo mi hai preso, portoghese di merda?! Come cazzo ti permetti?!
- Mi dispiace. – insisto io, stringendo i pugni sul ripiano della scrivania. Ogni parola di Zlatan mi scava una voragine sottopelle. È come osservare una città che viene bombardata, chiamare per nome ognuno degli edifici che finiscono in macerie, contarli uno per uno e non sapere come fare a rimetterli in sesto. Sto guardando le rovine della mia vita con la consapevolezza di aver contribuito in prima persona a ridurla in queste condizioni. – Mi dispiace. – ripeto scuotendo il capo, e non so più nemmeno con chi mi sto scusando – con lui, con me stesso – o per che cosa.
- Me ne sbatto il cazzo delle tue scuse! – grida lui, incredulo, e poi la sua voce cambia nuovamente tono. – Zay, - dice con evidente preoccupazione, girando attorno alla scrivania ed inginocchiandosi davanti alla mia poltrona, nel tentativo disperato di intercettare i miei occhi e tenerli incollati ai suoi. Io rifuggo il suo sguardo senza pietà, ma lui non si lascia scoraggiare. – Zay, per favore. – dice, e così in ginocchio io non riesco nemmeno a concepirlo, - Per favore, non allontanarmi. Non così. Parliamone, ti prego. Così è… così no. – la voce gli si spezza appena, mentre scuote velocemente il capo, - Così no. Parlami.
Sento le sue dita farsi strada fra le mie, intrecciarsi ad esse con delicatezza, e guardo lo spettacolo che sono così strette le une alle altre, quasi annodate.
Poi ritraggo violentemente la mano, allontanandomi da lui al punto da dovermi alzare in piedi, ed avvicinandomi alla finestra per guardare di fuori, dandogli le spalle. Appiano è caldissima, fa il bagno nel sole di agosto mentre ogni cosa brilla del riflesso dei suoi raggi.
L’estate è una stagione di merda per dire addio.
- Non c’è niente di cui parlare. – dico piano, ma con decisione. – È finita.
La vita degli uomini è fatta di istanti. Ogni istante è segnato dalle scelte che in quell’istante possono essere compiute. Io potevo dirgli tutto, ogni cosa, spingere sulle sue spalle un po’ del peso col quale sarò costretto a convivere per tutto il resto della mia esistenza, ma ho scelto di fare diversamente.
Nessun figlio dovrebbe essere costretto a dividere il peso dei peccati di suo padre.
- Zay. – quasi balbetta Zlatan, la voce ridotta ad un sussurro, mentre io ripercorro mentalmente la mia ultima discussione con Jurka, la sua promessa di tacere questo segreto con chiunque, il suo consenso a partire per un po’, per non essere costretta a vedere Zlatan distrutto da qualcosa di cui non comprende il perché, per sfuggire alla tentazione così tipicamente materna di alleggerire il suo carico di disperazione dicendogli ogni cosa. Ho fatto la scelta migliore. L’unica possibile. Andrà tutto bene. – Zay, il Barcellona mi ha fatto un’offerta. Dammi un motivo per restare, o non resterò.
Restando in silenzio, dopo aver ignorato questa sua ultima preghiera, lo ascolto nascondere un singhiozzo ed abbandonare la stanza dopo aver colpito violentemente la scrivania col palmo della mano aperta, e penso che almeno è finita. Adesso posso solo rimettere insieme i pezzi.
So di aver fatto la scelta giusta quando realizzo in un mezzo sorriso che, almeno, questi pezzi saranno solo i miei.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Death.
- Una telefonata nel cuore della notte, una vita che cambia per sempre. O forse più di una sola, forse la sua e tutte quelle ad essa connesse, perché ad ogni azione corrisponde una reazione, anche se l'azione non era nemmeno voluta. E questo José lo sa bene.
Note: Mentre compilavo lo schema di questa storia, più precisamente la voce sul pairing, mi sono sentita un attimino in imbarazzo, perché per quanto sia vero che due rapporti romantici si pongono alla base di quello che racconto, in realtà questa non è una storia romantica. E' una storia che in realtà non parla neanche di rapporti, o meglio, non completamente. E' una storia che parla di assenze, principalmente, di come ognuno possa reagire diversamente di fronte allo stesso tipo di perdita, di come, addirittura, la stessa perdita possa essere diversa in sé in relazione a coloro che ne subiscono gli effetti.
Sostanzialmente, lasciando da parte i seriosismi e i filosofeggiamenti, è una storia pesa, pesa e triste, ma io sono contenta di averla scritta, di essermi da lei lasciata trascinare, in un certo senso, fin quasi a provare fastidio all'idea di riprenderla in mano, o di scavare più a fondo.
Grazie al Def ed alla sua splendida coverart per averla portata alla luce. Ironicamente, sono convinta che, da qualche parte, questa storia già esistesse. Andava solo riesumata. *ride*
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HEARTS GONE ASTRAY

La telefonata arriva in piena notte. José ci ripenserà spesso, negli anni a venire, non smetterà mai davvero di pensarci. Perché è un momento quasi filmico, una di quelle situazioni surreali che nella vita vera non si verificano mai – o almeno così credi, naturalmente finché non ti capitano – ma delle quali la cinematografia, specie quella scadente, è costellata. La telefonata che arriva in piena notte. Quella che annuncia “c’è stato un incidente”. E chiunque parla, dall’altro lato della cornetta, lo fa con la voce rotta e sembra non riuscire mai ad arrivare al punto, come stesse rimandando coscientemente il momento in cui ti dirà il vero motivo per cui ha chiamato.
Nel suo caso, è Pep, il che rende la situazione ancora più assurda, perché non lo sente al telefono da sei mesi, almeno. La sua voce suona strana, irreale, tanto che in un primo momento José si chiede se sia sveglio davvero. Magari è un sogno, si dice. Perché mai Pep dovrebbe chiamarmi a quest’ora?
- C’è stato un incidente. – dice, e la sua voce è proprio come dovrebbe essere, incerta, spezzata dai singhiozzi, disperata. José si solleva a sedere. Accende la luce. Tami, accanto a lui, mugola infastidita e poi si volta su un fianco, scrutandolo attraverso il velo di sonno che ancora le annebbia la vista.
- Che succede…? – domanda, mettendosi a sedere a propria volta. José non risponde. Guarda dritto davanti a sé.
- Zay, sei lì? – chiede Pep, incerto, ed a José si ghiaccia il sangue nelle vene, perché quel soprannome riporta alla memoria troppe cose, ed in questo momento sembra troppo fuori luogo. Troppo strano, per non farlo pensare immediatamente a Zlatan, e mentre una parte del suo cervello si chiede per quale motivo dovrebbe pensare a lui proprio in questo momento, l’altra parte conosce già la risposta a questa domanda, e per questo tace.
- Sono qui. – dice, la voce rauca di sonno che gratta lungo le pareti della gola, faticando a venire fuori chiara come José avrebbe preferito. Non vuole mostrarsi debole. Non adesso, non con Pep. Ma è tutto orgoglio che in pochi secondi non gli sarà più di alcun aiuto.
- C’è stato un incidente. – riprende lui. Parla lentamente, nervosamente. José riesce solo a pensare “dillo. Dillo e basta”. – È Zlatan, Zay. È… è stato un incidente grave. Dovresti—
José non lo lascia finire. Interrompe la chiamata, e lo fa muovendosi lentamente, con pazienza. Ha tempo. Posa la cornetta, si piega oltre il comodino, stacca la presa dal muro. Poi si alza in piedi, dice a Tami di non preoccuparsi e tornare a dormire ed esce dalla stanza. Stacca ogni presa di ogni telefono che incontra sul proprio cammino. Con calma. Ha tempo. Si muove lentamente, raggiunge il salotto. Il suo cellulare è lì, poggiato sul tavolino da caffè. Lo spegne. Con calma. Ha tempo.
Si siede sul divano, davanti alla televisione. Recupera il telecomando e la accende. Con calma. Ha tutto il tempo del mondo perché non può succedere nient’altro, ormai. È tutto già finito. Prima ancora che lui potesse vederlo cominciare, è già finito.
Mentre fissa senza vederle realmente le immagini che scorrono sullo schermo del televisore – niente di particolarmente eclatanti: i due giornalisti di turno al notiziario di Sky Sport 24, i loro volti contratti, tesi in un’espressione grave e sinceramente sconvolta, la metà inferiore dello schermo sulla quale scorrono una dopo l’altra le varie notizie della giornata, in piccolo, così che quella più recente possa continuare a dominare lo schermo dal rettangolo rosso vivo che la mette in evidenza, il quadratino in alto a sinistra dal quale un giornalista infreddolito e stanco, avvolto in un cappotto che sembra non tenerlo per niente al caldo, stringendo convulsamente il microfono vicino alle labbra e sistemandosi continuamente gli occhiali sul naso in un gesto nervoso, continua a ripetere come in una cantilena “come potete vedere… l’incidente… l’uomo che l’ha causato è illeso… i rottami… le autorità… i soccorsi… l’ambulanza… non respirava già più” – mentre sta lì seduto sul divano e stringe il telecomando fra le dita come volesse strozzarlo, arriva la prima ondata di rabbia. Lo stronzo è morto sul colpo, il fottuto bastardo. La testa di cazzo che non è— che non era altro, è morto sul colpo, il maledetto figlio di puttana. Senza lasciargli neanche una speranza, senza nemmeno lasciargli la possibilità di accorrere al suo dannatissimo capezzale e piangere fino a sfinirsi stringendogli una mano e implorandolo di svegliarsi perché aveva promesso che sarebbe morto per lui, ma questo no, così no, questo non è morire per qualcosa, neanche per qualcuno, tantomeno per lui. Questa è una morte inutile, una morte del cazzo, una morte assurda, e lui non può accettarla.
- Zay?
La voce di Tami scivola dolce e sottile tra le pieghe della sua confusione mentale, si sovrappone alla immagini sullo schermo, le ricopre di una patina di irrealtà. José si volta a guardarla, e scopre che sembra sbiadita anche lei.
No, è lui che sta piangendo.
- Dio mio…
José si lascia abbracciare senza opporre alcuna resistenza. Lei se lo stringe contro, gli accarezza i capelli, gli sussurra di calmarsi, ma José singhiozza tanto forte da scuotere anche il corpo di sua moglie assieme al proprio. Lei non se ne lamenta, non si lamenta nemmeno della mani che le si chiudono attorno alla vita con violenza, con l’unico scopo di aggrapparsi disperatamente all’unica cosa viva che gli sia rimasta intorno. Lo lascia sfogare per tutto il tempo che gli serve, e José non sa nemmeno perché sta piangendo così.
Forse perché fa un male fottuto. La spiegazione semplice. Fa un male fottuto del cazzo, fa un male insopportabile, il solo pensiero che Zlatan non ci sia più gli lascia dentro un buco, un cratere, una voragine, un universo di vuoto, e José non sa gestirlo, perché fa troppo male. Non è un dolore che si sente in grado di tenere alla larga, è troppo invasivo, troppo totalizzante, troppo permanente.
È terrorizzato dalla consapevolezza senza speranza che questo dolore non andrà più via. Mai più. Dovrà imparare a vivere con la certezza che non imparerà mai a conviverci. Sarà come tenersi dentro per sempre un frammento di dolore fisico, impossibile da espellere, che non farà altro che scivolare assieme al sangue all’interno del suo apparato circolatorio. Un giorno, raggiungerà il cuore, e lo ucciderà, ed allora José potrà dire di essere morto per Zlatan, anche se lui non l’aveva mai promesso.
*
Tami lo convince a provare a dormire, almeno un po’. Lui si rifiuta di tornare a letto, però, perciò si raggomitola sul divano, la testa appoggiata sulle ginocchia di sua moglie, e si lascia accudire come fosse un bambino ammalato. Tami lo avvolge in una coperta di lana e passa tutto il resto della notte seduta ad accarezzargli i capelli, le tempie e il viso, nel tentativo di calmarlo. José ha gli occhi sbarrati, dormire non è un’opzione, sente il nervosismo montare sottopelle ma non vuole dire a Tami di lasciarlo andare, perciò rimane lì, in bilico fra la voglia di scoppiare a piangere e quella di mettersi a urlare istericamente, finché la luce del sole all’alba non comincia a riflettersi fastidiosamente sullo schermo ancora acceso del televisore. I giornalisti dietro al tavolo sono cambiati, ma la notizia scritta a caratteri cubitali in bianco su sfondo rosso è sempre la stessa. Incidente automobilistico. Zlatan è morto sul colpo. I soccorsi non sono serviti a nient’altro che a constatare il decesso.
Si alza in piedi alle sei meno un quarto. Da qualche parte nel corso della notte, Tami si è addormentata di nuovo. José la osserva, la testa elegantemente ripiegata sul petto, i lunghi capelli che le scivolano sulla fronte, lungo le guance, sul collo, incorniciandole il viso. È così bella. Gli piacerebbe riuscire a trovare in questo anche solo un minimo di consolazione. Ma non è abbastanza, non adesso. Non ancora, almeno.
Si passa una mano sul viso, cercando di scuotersi di dosso un po’ di stanchezza. Gli bruciano insopportabilmente gli occhi.
Va in bagno, si lava sommariamente, poi entra in camera e si cambia. Recupera un borsone dall’armadio, lo riempie di vestiti e biancheria pulita alla rinfusa, poi torna in salotto. Tami sta ancora dormendo. Le lascia un biglietto sul tavolino da caffè, le dice di non preoccuparsi, che la chiamerà più tardi, che deve andare a Barcellona, deve essere lì, deve esserci per Zlatan, deve farlo per forza, poi strappa via il foglio e ricomincia. Le ripete di non preoccuparsi. Che la chiamerà più tardi. Che deve andare a Barcellona. Che le spiegherà tutto. Le ultime parole le cancella. Strappa di nuovo il foglio e riscrive solo fino a “devo andare a Barcellona”. Poi aggiunge di salutargli i bambini appena si svegliano, di dire loro che papà tornerà presto. Uscendo di casa, pensa di buttare i fogli strappati nel cestino dell’immondizia, ma poi cambia idea. Li infila in tasca, li porta con sé, li butta nel primo cassonetto disponibile per strada.
Poi prende un taxi. Si fa portare in aeroporto, prende un posto sul primo volo disponibile per Barcellona. Deve attendere un paio d’ore. La ragazza al banco del check-in lo riconosce, gli dice “abbiamo una saletta privata, se preferisce aspettare lì”. José annuisce perché non ha nessuna voglia di essere assalito da chiunque possa vederlo lì.
La ragazza lo accompagna personalmente. La saletta privata è una piccola sala d’aspetto dall’aria elegante e pulita, le pareti bianche, le sedie dall’aspetto curato, praticamente nuovo. Sono nere e lucide, hanno l’aria di essere la cosa più scomoda mai concepita da mente umana.
All’interno della saletta ci sono un altro paio di persone, uomini d’affari, si direbbe, o qualcos’altro di ugualmente noioso. Nascosti dietro agli schermi dei propri tablet ed all’interno del loro involucro di cotone firmato Armani, restano appollaiati sulle loro sedie come se il mondo non fosse appena giunto al proprio capolinea. José si sente come l’unico protettore di questo terribile segreto: il mondo è già finito, ma nessuno se n’è ancora accorto. Si aspetta quasi di cominciare a vedere la realtà ridursi in pezzi sotto i suoi stessi occhi da un minuto all’altro.
È molto deludente quando, calmandosi un po’, capisce che non avverrà.
Le due ore passano in fretta, più in fretta di quanto non avrebbe mai pensato possibile. Non gli è mai capitato di veder scorrere i minuti con una tale furia, in realtà è sempre successo semmai il contrario: ogni volta che, per qualche motivo, ha desiderato che il tempo scorresse più in fretta, quello non faceva che rallentare.
Suppone che stavolta il punto fosse proprio che lui avrebbe preferito non vederlo passare mai.
Si concede di rilassarsi un po’ solo quando l’aereo prende quota. Chiede un tè all’hostess che passa fra le file di sedili, lo sorseggia solo fino a metà. Non sa di niente. È acqua sporca. Prova ad aggiungere un altro po’ di zucchero, ma resta acqua sporca. Un po’ più dolce, forse. Non abbastanza da costringersi a finire di mandarla giù.
Si accomoda meglio contro lo schienale al proprio posto, fissa fuori dall’oblò per un paio di minuti. Nient’altro che cielo e nuvole. Il sole picchia forte, adesso, costringendolo a socchiudere gli occhi. Ha le palpebre pesanti, ora che i nervi gli si distendono comincia a sentirsi stanco, assonnato. Si lascia andare, e nel sogno è in macchina con Zlatan. Forse è un ricordo, forse no. Zlatan sembra corrucciato, forse perfino offeso. “Non dovresti essere qui,” gli dice. José vorrebbe parlare ma non ci riesce. Zlatan guida piano, l’autostrada sulla quale la sua macchina sportiva viaggia sembra sistemata in un punto a caso di un universo immaginario in cui non c’è nulla a parte quella sottile striscia di asfalto che si prolunga oltre l’orizzonte in una linea retta sempre uguale. Non c’è niente a sinistra, né a destra. Solo terra bruciata dal sole.
Se è un posto che José ha visto, da qualche parte nel corso della propria vita, adesso non lo riconosce.
Zlatan continua a guidare, fissando dritto di fronte a sé. José prova ancora a dire qualcosa, ma è come se avesse le labbra incollate l’una all’altra.
“Lascia stare,” sospira Zlatan, “Perché non te ne vai?”
José vorrebbe rispondere “perché voglio stare qui. Perché voglio stare con te”, ma le sue labbra semplicemente non rispondono ai suoi comandi.
Poi, lo schianto.
José apre gli occhi, e sta piangendo silenziosamente. Fortunatamente, nessuno se n’è accorto. Si passa le mani sugli occhi frettolosamente, scacciando via le lacrime dalle guance. Si schiarisce la gola, sistemandosi più compostamente sul sedile.
Non ci sono nuvole, sopra Barcellona.
*
Pep ha un’aria distrutta. È la prima cosa che lo colpisce, anche con una certa violenza, nel momento in cui gli posa gli occhi addosso in mezzo alla folla assiepata dietro le transenne oltre la porta scorrevole agli arrivi. Lo riconosce subito. No, non è questo. Non è riconoscerlo, è naturale che l’abbia riconosciuto. Lo individua subito, questo sì è più strano, come se improvvisamente non ci fosse nient’altro da guardare, no, nemmeno, come se tutto il resto ci fosse, ma si mescolasse in una massa indistinte di forme e colori, e Pep fosse l’unica cosa chiara, quella che i suoi occhi riescono a mettere a fuoco più facilmente.
Ma non è una bella vista, perché Pep è stanco, provato, ha gli occhi di uno che si sia ritrovato controvoglia in una tragica condizione di esistenza quando tutto ciò che avrebbe voluto chiedere alla vita fosse la gentilezza di lasciarlo scomparire in modo discreto, silenzioso, indolore.
Per un attimo, viene investito da un’ondata di rabbia senza confini. È facile, pensa digrignando i denti oltre la barriera impenetrabile di labbra serrate prive di espressione, è facile lasciarsi devastare così dalla morte. Uscire per strada con la camicia scomposta, senza cravatta, gli occhi tanto rossi da costringere gli altri a distogliere lo sguardo come quando ci si ritrova per sbaglio ad essere presenti in un momento privato o imbarazzante, e per qualche motivo non si può andare via.
Ricomponiti, vorrebbe dirgli, ma poi, così com’è arrivata, l’ondata di rabbia scompare, ritirandosi con la marea. Alla fine, quella di Pep è una scelta. Ha scelto di lasciarsi calpestare. Non c’è colpa, in questo, probabilmente non c’è neanche debolezza, solo molto dolore. Al dolore, José lo sa, ognuno reagisce in maniera diversa. Ed è una materia troppo privata per rimproverare qualcuno solo perché il modo con cui lo affronta non è coraggioso, o deciso, o orgoglioso quanto il proprio.
Non sa cosa dirgli, quindi, quando si ritrova di fronte a lui in mezzo a una folla di persone vocianti e rumorose che potrebbero anche averli riconosciuti, dal modo in cui si dispongono a cerchio intorno a loro, come se non fossero sicuri se sia proprio il caso di disturbarli ma al contempo volessero restare in attenta osservazione di ciò che accade per essere pronti a saltar loro addosso nel caso l’occasione propensa dovesse presentarsi.
- Mi dispiace. – scolla a fatica, imbarazzato dalla propria stessa impreparazione.
Pep sembra non sentirlo nemmeno. Lo guarda, solleva le braccia, le avvolge attorno al suo corpo e se lo stringe contro, abbracciandolo disperatamente. José lo sente scoppiare a piangere e solleva solo un braccio, battendoglielo lievemente contro la schiena nel tentativo di consolarlo, in qualche modo. Si sente molto a disagio, inadeguato. Non riesce a percepire il dolore di Pep. Ne percepisce troppo del proprio.
Pep piange a lungo, minuti interi, e José lo ascolta mentre, intorno a loro, la vita dell’aeroporto riprende a scorrere, tornando ad ignorarli. Vorrebbe essere altrove. Per la prima volta da quando è partito da Milano, non è più tanto sicuro di voler davvero fare tutto questo. Di essere pronto, o anche solo di averne voglia. Di stare qui a cercare di consolare Pep per una perdita che non concepisce – Zlatan non è più suo da mesi, ormai, ma se José non è ancora stato in grado di accettare nemmeno questo, come potrebbe mai fare spazio nella propria mente già sufficientemente incasinata per accettare che, ormai da chissà quanto, era Pep a considerarlo proprio? E che è Pep, adesso, ad avere più diritto di piangere, se una cosa del genere esiste? – di stare qui in attesa di vedere il corpo, di stare qui in attesa del funerale, di stare qui in attesa di cosa? Che smetta di fare così male, probabilmente. Come se fosse possibile.
- Ti accompagno in albergo. – dice Pep, dopo essere riuscito a calmarsi almeno un po’. Gli tremano insopportabilmente le mani. Si regge a stento in piedi. José non ha voglia di vederlo così, probabilmente non ha voglia di vederlo affatto.
- Posso prendere un taxi. – offre, - Tu dovresti riposarti. Hai dormito, stanotte?
Pep scuote il capo.
- Ecco. – riprende José, quasi severamente, - Allora vai a casa e dormi.
Pep scuote il capo un’altra volta.
- Mi fa piacere accompagnarti. – insiste, - Lascia che ti accompagni.
José sospira, si guarda intorno, si passa una mano sulla nuca. È stanco, non gli va di litigare.
- D’accordo, - concede, tendendo il palmo della mano aperta, - ma guido io. Tu non sei in condizioni.
Pep sembra offeso, per un secondo, ma gli passa presto. Non ha forza abbastanza neanche per tenere aggrottate le sopracciglia.
Annuisce e gli porge le chiavi. José le stringe fra le dita e si concentra sul metallo gelido e appuntito che preme dolorosamente contro la sua pelle. Un dolore che può gestire. Può allentare la presa quando lo sente farsi troppo acuto, stringerla ancora quando lo sente sbiadire via. Un dolore necessario.
Il viaggio in macchina è silenzioso, almeno fino a quando Pep non decide di rovinarlo. José si era già comodamente sistemato fra le pieghe di quel silenzio duro, ostinato e innaturale, quando Pep schiude le labbra e si schiarisce la voce, e José prega fra sé che quest’idiota sia saggio abbastanza da cambiare idea e tacere, ma naturalmente non è così che va.
- È stata colpa mia. – dice a bassa voce. E José vorrebbe rispondere “sì”. Vorrebbe rispondere “sì, cazzo, lui era tuo e tu eri responsabile per la sua vita”. Ma non parla. – Non ero con lui, quando è successo. Ero a cena con la mia famiglia e lui è uscito per conto suo, e forse se fossi stato con lui sarebbe stato diverso.
“Sì,” pensa José, “sì, lo sarebbe stato. Magari saresti morto tu, al suo posto.”
- Non dire idiozie. – dice invece, severo, - L’unica cosa che sarebbe cambiata è che adesso sareste morti in due. Non è un pensiero consolante.
Pep abbassa lo sguardo, fissando un punto imprecisato di fronte a sé, e poi scuote il capo. Fortunatamente, non parla più.
In albergo, gli chiede se vuole che resti un po’ con lui. La prima cosa che José sente il bisogno di fare è spingerlo fuori dalla porta e dirgli di non farsi più vedere, ma riesce a mantenere su se stesso un controllo sufficiente a lasciare perdere.
- Preferisco restare un po’ da solo. – dice. Pep, stavolta, annuisce senza insistere.
- Verrò a prenderti più tardi. – dice, - Per… be’, è stata organizzata una veglia qui, prima del rimpatrio. I funerali sono in Svezia.
José annuisce. Deve parlare con Helena. Deve prenotare un volo. Deve restare solo.
- D’accordo, - dice, - a più tardi.
Non aspetta neanche che Pep abbia finito di salutarlo, prima di chiudere la porta e girare la chiave nella serratura.
*
Resta in quella camera d’albergo per ore. Pensa di chiamare Helena al cellulare, ma si rende conto da sé di quanto inopportuna sarebbe una cosa del genere. D’altronde, la vedrà alla veglia, per cui può aspettare. Chiama Tami, invece, e rispondendo al telefono lei scoppia a piangere. “Sei un bastardo,” gli dice, “hai idea della paura che mi hai fatto prendere?”. José la lascia sfogare, si scusa, dice “devi capire, Tami”. Non le spiega cosa, però, e lei non capisce, ma lui si scusa ancora e lei può vivere senza sapere.
La rassicura, le dice che tornerà a casa in un paio di giorni al massimo, le dice “salutami i bambini”, lei lo manda a quel paese un’altra volta, prima di interrompere la conversazione. José non sa come farà ad uscire da questo casino con Tami. Non può dirle quello che è successo, non può dirle cosa è stato Zlatan per lui, perché quello che lui è stato è ciò che lei sola avrebbe dovuto essere per sempre, e sapere di non essere stata la sola le spezzerebbe il cuore, e questo lui a Tami non può farlo. Non può farlo nemmeno a se stesso.
Ammettere gli errori non è mai stato il suo forte, preferisce correre dritto per la sua strada, coi paraocchi e i tappi nelle orecchie, passando sopra a qualsiasi ostacolo. È sempre stato convinto che il calcolo degli sbagli si potesse fare solo a partita finita, solo a fronte del risultato finale. Cosa sono un paio di errori se alla fine la vittoria è stata comunque guadagnata?
Solo che qua non c’è niente da vincere. Ma in realtà neanche niente da perdere. Ammettere di aver sbagliato ad innamorarsi di Zlatan – o forse solo ad andare a letto con lui, perché non può esserci niente di sbagliato nell’amare qualcuno di per sé – sarebbe irrilevante, in qualsiasi senso.
Rimane a fissare il telefono, per un po’. Sente il segnale sordo e regolare della linea libera, attutito dalla cornetta e dalla distanza fra l’altoparlante e le sue orecchie, e ripensa a ieri notte, alla voce di Pep, a quanto suonasse nervosa e disperata e spaventosamente distante, come facente parte di un mondo a sé, un mondo diverso dal suo, ripensa a quanto gli sia sembrato finto quel momento, surreale nella sua assurdità, e poi pensa che fra un paio d’ore sarà di fronte al cadavere di Zlatan, e la realtà lo colpisce in pieno viso con una violenza così priva di pietà, o riguardo, o rispetto, che José sente il bisogno di essere altrettanto violento nei suoi confronti, e lancia il telefono per terra, si piega su se stesso e si copre il viso con entrambe le mani, scoppiando a piangere come un bambino.
Dura solo una decina di minuti, è il massimo che può concedersi prima di cominciare a sentirsi ridicolo, fuori luogo. Zlatan ha una compagna e due figli che sono appena rimasti soli. Sono gli unici ad avere un qualche diritto di sentirsi persi e senza speranza. José vuole calmarsi anche per loro, essere d’aiuto, in qualche modo. Non ha idea del perché si senta così, adesso, come se dovesse sentirsi in colpa nei loro confronti e fosse finito a sentirsi in colpa perché non ci si sente per davvero. Ha solo voglia di risolvere le cose, di rimettere tutto a posto, e sapere di non potere lo fa sentire senza fiato.
C’è qualcosa di soffocante nell’irreversibilità della morte. Lo stringe alla gola, lo costringe a guardarsi nello specchio appeso alla parete di fronte a lui, e realizzare che è lì che non c’è niente, niente che lui possa fare per fermare questo dolore, adesso. È già tutto finito, e Zlatan non gli ha lasciato nemmeno il tempo di provare a fermare il disastro prima che si verificasse.
Come d’altronde non ha mai fatto.
*
La prima volta che si sono baciati, José s’è ritrovato schiacciato di prepotenza contro una parete, labbra ruvide e sottili premute contro le proprie, gli occhi aperti e cattivi dello zingaro fissi sui suoi. È stato un bacio senza amore, quasi perfino senza sottotesto sessuale, anche se dalle conseguenze non si sarebbe detto: no, è stato un bacio molto semplice, un bacio che faceva un punto. Io posso averti con le spalle al muro quando voglio. Quasi una dichiarazione d’intenti.
La seconda volta, è stato José a baciarlo. Dopo un allenamento di merda in cui Zlatan era sembrato del tutto incapace di produrre una qualsiasi cosa che avesse un senso, o anche solo di interagire efficacemente col resto della squadra. José l’ha trovato seduto su una panchina vicino al campo, intento a sciogliere la fasciatura attorno alla caviglia e al piede, e gli si è avvicinato. Si è chinato su di lui e l’ha baciato. Dolcemente. Lentamente. Prendendosi il tempo necessario per abituarsi alla sensazione differente che la pressione delle labbra di Zlatan sulle sue provocava in lui. Una dichiarazione d’intenti anche quella, a suo modo.
Zlatan ha risposto al bacio – a quello e a tutti i successivi, per un anno intero. Poi è finita, perché sono stati entrambi due teste di cazzo. Perché hanno, come al solito, frapposto l’orgoglio fra se stessi e tutto quanto il resto. Perché c’era un problema di obbiettivi, c’era un problema riguardo come fare a raggiungerli, c’era nello sport come nella loro vita privata. C’erano due famiglie, due mogli e quattro figli in gioco, c’era troppo da perdere, troppo sul piatto, e troppo poco a controbilanciare su cui scommettere.
E quindi è finita. Amaramente, lasciandosi dietro un senso di incompiutezza, di vuoto, di rimpianto. Di “avremmo potuto provare di più”, “avremmo potuto provare meglio”, “avremmo potuto provare e basta”.
È arrivato il Barcellona, col Barcellona Pep. José ha cancellato i loro visi dalle sue memorie perché pensarli insieme – dopo gli anni di amicizia che l’avevano legato a Pep in gioventù, dopo quello che l’aveva legato a Zlatan più recentemente – era una tortura che non si sentiva disposto a sopportare.
Poi il vuoto.
E poi lo schianto.
E mai una volta, in tutto ciò che è accaduto, Zlatan ha permesso a José si avere l’ultima parola, su qualsiasi cosa riguardasse lui o loro insieme.
Forse è proprio questo quello che tiene José inchiodato a quel letto per ore, incapace di darsi una mossa. Continua a pensare che se avesse preso delle decisioni, se Zlatan gliel’avesse lasciato fare, se avesse accettato qualche consiglio o suggerimento, se lui fosse riuscito a imporsi, in qualche modo, sarebbe andato tutto diversamente. E forse a quest’ora Zlatan sarebbe ancora vivo.
Realizza all’improvviso che si sta comportando esattamente come Pep. Non riesce a sopportarlo. Si alza in piedi mezz’ora prima che Pep passi a prenderlo, e va in bagno a prepararsi.
*
Non scambia una parola con Pep per tutto il tragitto. La veglia funebre è stata organizzata a casa di Zlatan, e José non ha idea di dove si trovi, per questo lascia che sia Pep a guidare. Per questo, e anche perché Pep sembra essersi ricomposto abbastanza da farcela. Si è cambiato, sbarbato, José può sentire l’odore forte del suo bagnoschiuma fin da lì. Per un attimo, sorride. “Così si fa,” vorrebbe dirgli, “bravo, Pep, sono orgoglioso di te,” ma non lo fa. Resta in perfetto silenzio e, quando arrivano, è infastidito quando Pep gli stringe una mano attorno al polso per trattenerlo un po’ più a lungo all’interno della macchina.
- Dovremmo parlarne, credo. – gli dice.
- Io credo di no. – risponde José. Si libera di lui con uno strattone e si dirige speditamente verso l’unica villetta del circondario col cancello aperto e il parcheggio pieno di auto. Cammina a piedi lungo il vialetto che conduce alla porta d’ingresso mentre Pep posteggia da qualche parte e, dietro di lui, arriva un’altra mezza dozzina di auto, a bordo un sacco di persone che sembrano trovarsi lì per caso, senza nemmeno capire bene come ci siano finiti. C’è una sorta di smarrimento, nell’aria, qualcosa che fa sentire José come se fosse tutto fuori posto. Si sente così per molti secondi, di fronte alla porta d’ingresso, finché non si spalanca e la figura minuta di Helena non appare sulla soglia.
- Mister Mourinho. – dice piano, un sorriso appena percettibile a piegarle le labbra, mentre tende una mano verso di lui, - Sono contenta di vederla.
Mentre lo invita ad entrare in casa, José la osserva. Indossa un abito nero, i capelli raccolti in uno chignon alto dietro la nuca, ed è perfettamente truccata. Ha l’aria di una donna stanca che non può permettersi di cedere. José vorrebbe abbracciarla, ma non ha idea di come potrebbe reagire. Non si sono mai davvero frequentati, lui e Zlatan hanno fatto il possibile per mantenere ciò che c’era fra loro ben separato dal resto delle loro vite, e sembra una forzatura fin troppo fastidiosa cercare di ricucire uno strappo tanto netto adesso che lui non c’è più.
- Condoglianze. – le dice, mentre lei attende vicino alla porta che anche Pep, dopo aver abbandonato la macchina, si avvicini, - Come stanno i bambini?
- Vincent non ne ha capito molto. – risponde lei con un mezzo sorriso affranto, - Maxi… - sospira, e poi scuote il capo. – Sono coi nonni, in questo momento. Non volevo…
- Capisco perfettamente. – annuisce José, posando una mano sulla sua e sorridendole appena. Lei risponde con un sorriso identico, tanto sottile e stentato da sembrare una smorfia di dolore. – Lui dov’è? – chiede quindi, abbassando rispettosamente lo sguardo. Helena gli fa un cenno, indica una porta. Tutta la casa è illuminata, ma quella è l’unica porta, oltre quella della cucina, dalla quale giungano voci di persone.
José annuisce e la saluta stringendole la mano un’ultima volta. Poi si allontana lungo il corridoio, e si muove lentamente. Non ha nessuna fretta di arrivare dove deve andare, non ha nessuna fretta di chiudere una volta per tutte questo capitolo della sua vita. Ci sarà il funerale, per dire addio, ma questo è il momento in cui tutto finisce. È il momento in cui c’è un corpo chiuso in una bara che lo aspetta per confermargli che non c’è più niente da fare.
Quando si avvicina, è abbastanza deluso nel notare che non l’hanno messo in una bara di vetro, di quelle col coperchio trasparente. Così, l’effetto che ha su di lui è un po’ meno forte. C’è un coperchio di legno a proteggerlo dall’immagine del suo viso immobile, inespressivo, pallido e gelido. Sa che è lì dentro, ma non vederlo lo aiuta a prenderla meglio, in qualche modo. Forse perché così può aggrapparsi a una menzogna gentile un po’ più a lungo.
- Non era in condizioni. – dice Pep, apparendo al suo fianco. José non lo guarda. Continua a fissare la bara finché le dita lunghe e scure di Pep non entrano nel suo campo visivo. Accarezzano il coperchio con tenerezza quasi imbarazzante, e José aggrotta le sopracciglia. Vorrebbe dirgli di contenersi, ma ancora una volta ha l’impressione di stare cercando di misurare il dolore di Pep con un metro troppo personale, e quindi lascia perdere. – Il suo corpo, intendo. – continua Pep, a bassa voce, - Non sono riusciti a sistemarlo abbastanza da renderlo presentabile.
Una scarica di dolore puro attraversa il cervello di José da parte a parte quando le parole di Pep gli scivolano dentro a sufficienza da essere comprese. Per un attimo riesce a vedere oltre il legno, il viso sfigurato di Zlatan, le sue membra scomposte e martoriate, il suo corpo irriconoscibile. È tutto così reale. Non ci sono più bugie. Un coperchio di legno non è sufficiente a nasconderlo.
Non sa se Pep sappia in quanti modi l’ha aiutato semplicemente con questa frase. Lo guarda, e pensa che in realtà non se ne sia reso conto. Che in realtà l’abbia pronunciata più per se stesso, per darsi qualcosa di reale a cui pensare, per non indugiare troppo col pensiero sul sorriso di Zlatan, sui suoi occhi, sul mondo in cui brillavano quando litigava con qualcuno, o sul modo in cui si muoveva dentro e fuori dal campo, ma non importa. Alle volte anche l’egoismo di qualcuno è utile per qualcun altro, così pensa José, l’ha sempre pensato. Lui ha perso il conto di quante migliaia di tifosi ha reso felici nell’egoistica rincorsa del maggior numero di titoli possibile. È così che funziona. Ad ogni azione di ognuno corrispondono conseguenze per milioni di altri. È giusto così.
- Grazie. – sussurra, guardando Pep con un mezzo sorriso a stendere le labbra. Gli appoggia una mano sulla spalla e stringe appena, nel tentativo di passargli almeno un po’ del calore che sta provando adesso. Gli occhi di Pep si riempiono di lacrime.
- Per cosa? – domanda in un singhiozzo.
- Non importa. – scuote il capo José, sorridendo, - Adesso vado.
- Dove? – insiste Pep, appoggiando la mano aperta su quella di José nel tentativo di trattenerlo.
- Torno in albergo. – risponde lui, - Sono stanco. Tu resta quanto vuoi. Prenderò un taxi.
- Posso—
- Sì, lo so che puoi. – José si sporge verso di lui, abbracciandolo per un istante. Quando si allontana, le lacrime hanno preso a scivolare lungo le guance abbronzate di Pep, scavando lunghe righe scure sulla sua pelle. – Ma io voglio che resti qui. Non preoccuparti per me. – sospira, - Preoccupati per te stesso, Pep. Tieniti molto da conto. Fallo anche per me. Mi raccomando.
Pep si morde un labbro e sembra del tutto intenzionato a continuare ad insistere fino a farlo cedere, ma poi qualcosa cambia, nei suoi occhi, mentre le dita che ancora tiene appoggiate sulla bara si serrano attorno al coperchio con uno scatto quasi spasmodico. Il suo corpo gli sta dicendo che non può ancora andare via, e José sorride perché invece le sue, di dita, sono libere, adesso.
Può andare.
*
Quella notte sogna Tami. “Perché sei qui?” le chiede, e lei sorride. È vestita di bianco, ha i capelli sciolti, è se stessa com’era a sedici anni, bellissima e pura e piena di aspettative nei confronti del futuro. Gli si avvicina, lo abbraccia, se lo stringe al petto e lo culla come un bambino.
“Perché ci sei tu,” risponde Tami, e la sua voce non è più quella di Tami. José alza lo sguardo e ci sono lui e Zlatan per strada, di notte, da qualche parte sull’autostrada. Ci sono delle fiamme che ardono in lontananza, si sollevano verso il cielo come volessero scorticarlo a unghiate. José non riesce a capire cosa le provochi. La giacca che Zlatan indossa è tutta bruciacchiata, ma lui, lui sta bene.
“Perché sei venuto?” domanda Zlatan, l’accento così forte da rendere la sua voce quasi ridicola.
José non riesce a parlare.
“Andiamo, Zay,” insiste Zlatan, l’espressione severa che si stempera in un sorriso più dolce.
José si sente piangere nel sonno. Improvvisamente, è consapevole di stare sognando, e che da qualche parte il suo corpo addormentato sta piangendo. Sente le guance bagnate, ma nel sogno non ci sono lacrime. “Volevo salutarti, zingaro,” dice. La sua voce suona incredibilmente serena mentre il sogno si trasforma in una macchia confusa e poi svanisce.
*
Il cielo sopra Malmö è di un grigiore pesante, uniforme. Sembra che qualcuno gli abbia dato una mano di cemento e poi l’abbia lasciato lì ad asciugare. José immagina che debba essere colpa delle nuvole, nessun cielo può essere di un colore simile se completamente sgombro, ma non può esserne certo perché, se quelle sono nuvole, sono talmente tante, e talmente ammassate le une contro le altre, da non riuscire nemmeno a distinguerne i contorni.
Non piove, almeno. Ma l’aria è pesante di umidità, ed onestamente, a questo punto, José non vede l’ora che tutto ciò sia finito per tornare in albergo, dormire una quantità spropositata di ore e poi tornare a Milano. Ha voglia di vedere i bambini. Ha voglia di vedere Tami. Ha voglia di tornare a lavorare, e se pensa che solo fino a un paio di giorni fa l’idea stessa di riprendere la propria vita come se niente fosse successo lo ripugnava, le labbra quasi gli si arricciano in un’ombra di sorriso amaro.
Dev’essere un meccanismo di difesa, si dice, mentre osserva distrattamente la bara sospesa sulla tomba di famiglia di Zlatan, immobile in attesa che il prete concluda le preghiere di rito. Dev’esserci qualcosa che impedisce alle persone sane di annegare troppo profondamente nel proprio dolore. Qualcosa che le salva, qualcosa che scatta, un meccanismo che entra in azione o qualcosa di simile, che a un certo punto le recupera da qualsiasi abisso nel quale sono sprofondate, e le riporta a galla.
Due giorni fa, José è riemerso da un sogno respirando a pieni polmoni come dopo una lunga apnea. Era da solo in una stanza d’albergo a Barcellona ed aveva appena perso uno degli amori più enormi della sua intera esistenza. Ne aveva salutato il cadavere dentro una bara appena poche ore prima.
Si sentiva rinato.
Ora, la bara comincia a scendere lungo il tunnel scavato nel terreno e pronto ad accoglierla. Helena piange silenziosamente a qualche metro da lui, composta nel suo dolore e bellissima nel suo lutto. Si è indurita, in questi due giorni. I suoi lineamenti sono più fieri, provati, il dolore immobile della linea netta e dritta delle sue labbra commuove José al punto da costringerlo a versare a propria volta un paio di lacrime. Non è nostalgia, è solidarietà. È condivisione di qualcosa di più grande di una semplice conoscenza. Di qualcosa di più profondo.
È amore, pensa José, lo sguardo che si sposta su Maximilian, che stringe forte la mano di sua madre, e su Vincent, disperatamente aggrappato a quella di suo fratello. È amore anche questo, in un certo senso.
- Come stai? – chiede qualcuno apparso al suo fianco. José si volta di scatto, stupito. Credeva di essersi messo abbastanza in disparte da non attirare l’attenzione.
- Deki. – esala confusamente, sbattendo un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco, come non riuscisse a capacitarsi di vederlo proprio lì in quel momento, - Cosa ci fai qui?
Dejan sorride, spostando per un attimo lo sguardo sulla bara ormai quasi completamente scomparsa sotto terra, come per un ultimo saluto.
- Eravamo molto amici. – risponde semplicemente, - E tu ci sei mancato molto, in questi ultimi giorni. – aggiunge con un sorriso appena più imbarazzato, tornando a guardarlo.
José abbassa lo sguardo sulla ghiaia che copre il vialetto secondario sul quale si è sistemato per osservare la funzione, sentendosi per qualche motivo colto in fallo, perfino a disagio.
- Dovevo—
- Non devi spiegarmi niente. – lo interrompe Dejan. José solleva nuovamente lo sguardo, e lui sta ancora sorridendo sereno, - Davvero, lo so. Non c’è bisogno. Volevo solo essere sicuro che adesso fosse tutto a posto. Perché se non lo è, noi siamo qui. Intendo, tutti. Tutti quanti. Ti aspettiamo a casa, e ci saremo.
José schiude le labbra, gli occhi che si riempiono di lacrime, le mani che tremano appena nonostante lui cerchi in ogni modo di controllarle, chiudendole a pugno lungo i fianchi.
- Non so che dire. – ammette, la voce rotta da un singhiozzo impossibile da nascondere. Dejan si concede una risatina incerta, scuotendo il capo.
- Lascia perdere. – gli dice, appoggiandogli una mano sulla spalla e battendovi sopra un paio di pacche consolatorie, - Ora scusami, vado a salutare Helena. – aggiunge, sporgendosi per abbracciarlo sbrigativamente, prima di correre dietro alla donna per evitare di lasciarsela scappare prima di essere riuscito, probabilmente, a migliorare la giornata perfino a lei, o almeno così pensa José nell’osservarlo allontanarsi.
Una volta rimasto solo, sfila il cellulare dalla tasca interna della giacca. Nessuna chiamata. Un messaggio di Pep. Dice “Grazie a te,” e José sorride, contento che finalmente anche lui abbia capito.
Compone a memoria il numero di Tami. Lei non risponde, e lui sorride ancora, perché se lo aspettava. Le lascia un messaggio in cui le dice che sta per andare all’aeroporto, che prenderà il primo aereo, che sarà a Milano in qualche ora. Di aspettarlo, perché fra poco sarà lì con lei, e tutto si risolverà.
Mentre la saluta, Tami solleva la cornetta. “Sono stufa di essere arrabbiata con te,” gli comunica in un mezzo piagnucolio che la fa sembrare per un attimo la stessa ragazzina, poco più che una bambina, che era quando José l’ha conosciuta. “Torna presto.”
José ride piano, rassicurandola. Quando interrompe la telefonata e solleva lo sguardo, accanto alla tomba di Zlatan non c’è già più nessuno. Si avvicina e, dalla lapide, una fotografia dai lineamenti sgraziati gli sorride, con l’aria di uno che è stato il più stronzo figlio di puttana di tutti i tempi e che se l’è goduta un mondo fino all’ultimo istante. José scoppia a ridere come un imbecille, passandosi una mano sugli occhi quando sente il familiare bruciore delle lacrime pungere sotto le palpebre. Non piangerà, però, basta così.
Il sorriso di Zlatan sembra salutarlo con calore, mentre lo osserva andare via.
Spin-off/seguito di New Colors To Paint The World.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan, Mario/Davide.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Slice of Life, Flashfic.
- "È una bella mattinata, calda, tutta celeste e dorata come il cielo e i raggi del sole."
Note: Scritta per il Carnevale delle Lande su prompt Un anno dopo New Colors to Paint the World.
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DICHROMATIC

È una bella mattinata, calda, tutta celeste e dorata come il cielo e i raggi del sole. Davide è irritato, naturalmente, ma d’altronde solo di rado non lo è, e dover aspettare Zlatan davanti alla macchina sotto il sole cocente rientra precisamente nella categoria delle cose che lo irritano. Ma d’altronde Zlatan lo sa, e Davide è convinto che lo stia facendo apposta, adesso, a farlo aspettare così tanto. Sicuramente è lì immobile dietro alle porte scorrevoli dell’aeroporto, che sorseggia beato un caffè mentre aspetta di averlo cotto a puntino prima di uscire.
Quando appare, Davide cambia sposta il peso del corpo da un piede all’altro, incrociando le braccia sul petto. Gli occhiali da sole gli scivolano lungo il naso a causa del sudore, ma non intende dargli la soddisfazione di vederglieli sistemare, perciò si limita a fissarlo con astio, anche quando lui arriva e gli posa un distratto bacio su una guancia, ridendo come un cretino.
- Sei uno spettacolo. – commenta, - Ti giuro, uno spasso. Non so come faccio a stare lontano da te tanto a lungo.
- Sei una merda, ecco come. – risponde Davide in un grugnito, - E sei anche in ritardo.
Zlatan ride, gira attorno alla macchina e ripone il proprio bagaglio sui sedili posteriori, mettendosi poi disinvoltamente alla guida.
- Non ti dispiace, vero? – domanda retorico, come se gli importasse, poi.
- Ehi! – sbotta Davide, planando sul sedile del passeggero al suo fianco, - Volevo guidare io.
- Oh, andiamo. – Zlatan lo zittisce con un bacio all’angolo della bocca, e Davide sospira, mettendosi composto ed allacciando la cintura. – Zay? – domanda mettendo in moto.
Davide sbuffa.
- Si fa anziano. – risponde, - E stanco. Lasciatelo dire: come bastone per la vecchiaia, non vali un cazzo.
- Ecco perché è importante che tu invece resti sempre al suo fianco. – ribatte Zlatan con una risatina, annuendo compiaciuto.
- Prima o poi me ne andrò di casa, sai? – risponde Davide con un mezzo ghigno, - E allora tu sarai costretto a restare.
Zlatan sorride ancora, allungando una mano a scompigliargli i capelli, fra le sue rumorose lamentele.
- Vedremo. – risponde, - Intanto resto solo stanotte.
- Cosa?! – strilla Davide, voltandosi a guardarlo con aria impossibilmente oltraggiata, - Ma sei la merda definitiva!
- Dade, e piantala! – ride di cuore, appoggiandosi meglio contro lo schienale del sedile e sporgendo un gomito fuori dal finestrino, reggendo il volante con una mano sola mentre il vento veloce gli passa fra i capelli, sfida il suo profilo e il suo sorriso e ne esce sconfitta.
Davide si mette comodo a propria volta, un sorriso impercettibile che gli sfiora le labbra. Una notte è comunque un inizio.
*
Lo aspetta in cucina, sveglio e attento anche se sono le tre del mattino. Mario dorme già da almeno due ore, Davide può ancora sentire il suo russare lieve e regolare nelle orecchie, se chiude gli occhi e si immagina ancora al suo fianco, e al pensiero gli sfugge un sorriso imbarazzato e imbarazzante, che fortunatamente Zlatan non vede quando, cinque minuti più tardi, si presenta puntualissimo, a torso nudo e incomprensibilmente stupito di vederlo lì.
- E tu? – domanda, dirigendosi verso il frigorifero e recuperando la caraffa di succo d’arancia spremuto a mano, - Che ci fai qui?
- Aspettavo te. – sorride Davide, - Hai cambiato idea?
Zlatan ridacchia, versando un po’ di succo in un bicchiere e grattandosi il collo.
- Sì. – risponde, - Resto un altro paio di giorni.
- Lo sapevo. – ride Davide, - Sai che questa tua ostinazione è ridicola? Perché non resti e basta, una buona volta? Sarebbe molto più facile, senza contare che in quattro ci divertiremmo molto di più. – aggiunge con un ghignetto malizioso.
Gli occhi di Zlatan si fanno sottili come quelli di un gatto, mentre si allunga a pizzicargli una guancia.
- Sei un folletto. – lo prende in giro, - Ma no, non resterò più a lungo di così. Lo sai, Dade, ci sono cose che cambiano. Altre che invece non cambiano affatto. – sorride teneramente, mandando giù in un sorso il proprio succo e poi poggiando nuovamente il bicchiere sul tavolo con un sospiro soddisfatto. – Buonissimo. Chi l’ha spremuto?
- Mario. – risponde Davide con un sorriso dolcissimo. Cerca di cancellarselo di dosso il più in fretta possibile, ma non è abbastanza per impedire a Zlatan di vederlo e riderne.
- Un degno erede. – commenta soddisfatto, - Gli ho portato un regalo, sai?
- Se è quella ridicola maglietta rossa con quello stupido toro che gli hai portato dalla Spagna, gliel’ho già vista addosso. – risponde Davide con un mugolio lamentoso, - Ed è orribile. Tu sei un cretino.
Zlatan sorride, allungandosi a lasciargli un bacio sulla fronte.
- Ci serve un’altra dama in rosso, Dade. – gli ricordo, - E a te piace troppo andare in giro seminudo, per calarti nella parte. – conclude con un’altra risata tonante, tirandosi dietro un vaffanculo prima di abbandonare la cucina.
*
- Quando torni? – chiede Davide in un pigolio arreso, gli occhi bassi, le mani strette attorno alla maniglia della valigia di Zlatan come a tenerla in ostaggio per tenere lui ancorato al suolo milanese.
- Non lo so ancora. – risponde lui, sorridendo gentile mentre lo avvolge in un abbraccio che sa già di nostalgia, - Mi farò sentire al più presto.
- Non ci tornare in Spagna. – borbotta Davide, lasciando cadere la valigia per terra per ricambiare la stretta, - Non mi piace quel tipo delle foto.
- Okay, punto primo, chi ti ha dato il permesso di sbirciare nel mio cellulare? – domanda Zlatan con una mezza risata, - E secondo poi, Pep non è pericoloso. Zay lo sa.
- Non lo è, dici? – mugola Davide, nascondendo il viso contro il suo petto.
Zlatan sorride intenerito, accarezzandogli i capelli.
- È irrilevante. – lo rassicura, - Fidati.
- Di te? – ribatte Davide con il più lieve dei sorrisi, - Mai nella vita.
Ma lo lascia andare, e quando lo fa è certo che prima o poi tornerà.
Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: AU, Violence, Angst, Death, Gen.
- "'Sveglia,' ordina il ragazzo, è lo stesso di ieri, 'Fai un bel sorriso,' continua con piglio divertito, un attimo prima di scattargli una foto."
Note: La follia di questa fic. *piange* Dunque, sostanzialmente io le voglio benissimo perché amo tutte le AU che riesco a buttar giù in meno di dieci pagine, ma è palese che essa avrebbe richiesto da me uno sforzo di parecchio superiore, perché qui come minimo c'era da parlarne per 20k... XD Va be', non è detto che non lo si riesca a fare, fra uno spin-off e l'altro, in futuro u.u Nel mentre beccatevi questa cosa incompiuta che non si può nascondere neanche dietro alla giustificazione dello slash, perché è pure gen. Non ho parole. *sospira*
Comunque, il perché di questa trama è tutto da ricercarsi nell'atteggiamento da bulletto di Mario che vive la sua vita principalmente per istigare violenza nel prossimo suo XD Seriamente, tu non puoi realizzare un rigore e poi "esultare" giungendo le braccia sul petto e fissando il portiere battuto con aria di sfida. C'è della perversione in te. Vuoi le botte. Io te la faccio pagare così. *ride*
Scritta per il terzo numero di Squee ♥
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THIS FORTRESS IN MY HEART COMES CRASHING DOWN

Riesce a guardarsi intorno solo quando gli sfilano la benda dagli occhi. Fa fatica ad abituarsi al biancore abbagliante della luce al neon che invade la stanza, e strizza le palpebre con forza, fino a farsi pulsare di dolore le tempie, per cercare di proteggersi dal bruciore fastidioso che gli punge il cervello ogni volta che prova a dare una sbirciata a ciò che lo circonda.
- Datti una mossa. – gli dice qualcuno. Davide non ne riconosce la voce, è sicuro, anzi, di non averla mai sentita prima. Un accento simile lo ricorderebbe.
Prova a parlare, ma il fazzoletto che gli hanno infilato in bocca gli impedisce di farlo, specie visto che la sua lingua è impegnata a cercare di spingere la palla di tessuto bagnato il più lontano possibile dalla sua gola.
Da piccolo gli capitava spesso di sognare di morire soffocato. Puntualmente si sentiva come crescere in gola questa massa morbida e ingombrante che gli impediva di respirare normalmente, ed ogni notte si alzava e correva in camera di papà e gli chiedeva se poteva lasciarlo dormire con lui, e in genere questo bastava per smettere di sognare cose simili.
Quando si è sentito scivolare in bocca il fazzoletto, prima – non saprebbe neanche dire quanto tempo fa, è stato riverso sul fondo del camion per delle ore, prima che si decidessero a trasferirlo qua dentro – è stato come rivivere quei sogni da capo. Erano anni che il pensiero neanche lo sfiorava. Se mai uscirà vivo da questa situazione di merda, manderà a questi stronzi che l’hanno rapito le parcelle di tutte le sedute di psicanalisi che gli serviranno per rimandare tutta questa merda giù per lo sciacquone attraverso il quale era riuscito faticosamente a liberarsene durante i primi anni di pubertà.
- Ti sei ripreso? – chiede la stessa voce di prima. Davide si azzarda a schiudere appena le palpebre, ma vede solo ombre. Quantomeno, stavolta, quando chiude gli occhi, non lo fa con forza. Le sue sopracciglia sono rilassate, sta cominciando ad abituarsi alla luce. Sta cominciando ad andare meglio. Sì, può andare meglio. Può gestire questa situazione. Non è niente di così drammatico, può immaginare perché questi stronzi l’abbiano rapito, ma quando capiranno che non hanno proprio un bel niente da guadagnare lo lasceranno sicuramente andare. A meno che non vogliano combinare un casino ancora più grosso - in quel caso, non c’è molto che Davide possa fare. Non è neanche sicuro che gli dispiacerebbe.
- Cazzo, ma quanto sei una fighetta? – sbuffa il ragazzo, e Davide lo sente prima tirargli un mezzo schiaffo su una guancia, come a cercare di svegliarlo, e poi sente lo strappo. Netto, istantaneo, fa appena in tempo ad accorgersene, ma nel momento in cui il nastro adesivo si stacca con violenza dalla pelle delle sue guance e da quella più sottile e fragile delle sue labbra, la prima cosa che fa è urlare. Poi, piegarsi in avanti e sputare in terra il bolo di tessuto impregnato di saliva.
Gli va di traverso il respiro, tossisce convulsamente per un po’, improvvisamente gli viene voglia di vomitare ma tutto quello che riesce a buttare fuori è solo altra saliva, più densa del normale, ma niente di realmente preoccupante. Deve calmarsi, ha il cuore che batte così forte che gli fa male il petto.
- Ma chi cazzo sei?! – strilla, sollevando repentinamente il volto per guardare in faccia il proprio rapitore. È un ragazzo come lui, non deve essere neanche di molto più grande, al massimo ventitré, ventiquattro anni. Non di più. E’ di colore, però, il che produce un contrasto piuttosto divertente col suo accento marcatissimo. Se Davide avesse una qualche voglia di ridere, probabilmente lo farebbe.
- Sta’ calmo. – dice il ragazzo, accucciandosi al suo fianco. Davide lo osserva molleggiare sui talloni e poi scruta la sua espressione, e tutto quello che vorrebbe fare è prenderlo a schiaffi. Il ragazzo lo guarda come non valesse niente. E’ l’occhiata più irritante che gli abbiano mai rivolto nella sua intera esistenza, lo stronzo è stato furbo a fargli legare i polsi dietro la schiena, o sarebbe già a terra col naso spaccato. Tutti lo sottovalutano, su quel piano, è per questo che finiscono sempre per circondarlo nel cortile sul retro, a scuola. E tornare a casa con un occhio nero in più. – Sei Davide, no?
- Già lo sai, no? – gli fa il verso lui, soffiando minaccioso. Le labbra piene del ragazzo si piegano ad un angolo, arricciandosi in un sorriso strafottente.
- Ti ho fatto una domanda. – gli fa notare.
- La mia era una risposta, stronzo. – ribatte Davide. Il ragazzo si concede una mezza risata sbuffata, ed annuisce, sollevandosi lentamente in piedi. Davide lo segue con gli occhi, quasi ringhiando. Si raddrizza, appende le mani ai fianchi magri ma muscolosi e poi, del tutto all’improvviso, gli tira un calcio nelle costole.
Davide si piega su un fianco e grida. Sbatte il mento contro il pavimento, ma il dolore nuovo non serve a cancellare quello vecchio, che pulsa terribilmente, costringendolo a rannicchiarsi in posizione fetale, sperando quantomeno di riuscire a proteggersi a sufficienza nel caso il tipo decida che merita altre botte.
Non le merita, pare. Il ragazzo si accuccia nuovamente accanto a lui, lo afferra per i capelli più lunghi sulla nuca e lo rimette a sedere di peso, tirando abbastanza da costringerlo a piegare indietro il capo.
- Stammi bene a sentire, - lo avverte, - contro di te come persona non ho nulla. Voglio solo i soldi che vali. È una cosa semplicissima, e se farai la tua parte e starai buono non avremo alcun problema, tornerai a casa tutto intero in meno di una settimana. Hai capito? Fammi segno di sì con la testa.
- Vattela a prendere nel culo. – risponde Davide, ringhiando di gola. Il ragazzo stringe la presa sui suoi capelli e poi lo scaraventa nuovamente contro il pavimento. Stavolta, a sbattere contro le piastrelle gelide non è il mento, ma il naso. Stavolta, fa male abbastanza. Davide non riesce a controllarsi a sufficiente da impedire a due grosse lacrime di formarglisi agli angoli degli occhi e scivolare lungo le sue guance, fino a schiantarsi contro il pavimento. Il ragazzo, in piedi accanto a lui, ride, ironico e cattivo.
- Fai lo spaccone e poi piangi. Che fighetta sei. Sei una truffa. – commenta divertito.
- Vaffanculo... - mugola Davide, cercando di raggomitolarsi di nuovo su se stesso. Gli arriva un altro calcio dritto nello stomaco e lui urla ancora, piangendo più forte.
- Senti, fai un po’ il cazzo che vuoi. – conclude il ragazzo, facendo spallucce ed allontanandosi a grandi passi, - Per quello che mi frega, se anche ti sparo in faccia e poi ti scarico in un fosso, non è un gran problema. Finché tuo padre paga.
- Non vi darà un soldo. – rantola Davide, scuotendo mestamente il capo e stringendo le ginocchia al petto tanto da potercisi nascondere dietro, - Tanto vale farmi fuori adesso.
Il ragazzo neanche gli risponde. Uscendo dal magazzino, spegne la luce, e si chiude la porta alle spalle.
*
Davide si sveglia perché gli tirano una secchiata d’acqua in pieno volto. Nel sentirsi investito dal getto, nel provare per pochi terrificanti istanti la paura di annegare anche se in un primo momento non saprebbe neanche dire dove si trova, spalanca gli occhi e prova a tirarsi su dal pavimento. I polsi legati dietro la schiena non gli permettono di farlo, comunque, e quando cade sbatte di nuovo il mento per terra. Il brivido di dolore che gli si propaga lungo tutto il corpo attraverso la spina dorsale è quasi devastante, lo costringe a tremare fin nelle viscere.
- Sveglia. – ordina il ragazzo, è lo stesso di ieri, - Fai un bel sorriso. – continua con piglio divertito, un attimo prima di scattargli una foto. Davide strizza forte gli occhi a causa dell’effetto combinato della luce al neon e di quella intensa e violenta del flash, e dopo prova a calmarsi. Inspira ed espira e torna a guardarsi intorno e si riscopre molto più spaventato di quanto non fosse prima. Peraltro, il pensiero di non riuscire a capire a quanto tempo fa risalga prima lo spaventa ancora di più. Non saprebbe identificare neanche da quanti giorni è stato rapito. È quasi certo che non sia passata più di una settimana, ma ha i sensi talmente sballati che potrebbero essere stati in realtà anche solo un paio di giorni.
- Da quanto tempo sono qui…? – domanda in un piagnucolio sommesso, cercando di puntellarsi al suolo con i fianchi e le spalle per tirarsi su. Il pavimento è duro e freddo, le sue ossa appuntite premono contro le piastrelle riempiendogli la carne di punture dolorosissime.
- Da quanto tempo sono qui? – gli fa il verso il ragazzo, osservando soddisfatto la foto scattata sul display della fotocamera digitale, - Ma lo senti come ti lagni? Io non ho parole. Sembravi così promettente.
- Vaffanculo. – mugola lui, riuscendo finalmente a raggiungere la parete e utilizzandola per mettersi a sedere, scivolandovi contro con la schiena. Quando ci riesce, ha il fiatone, e può fare il conto di tutte le parti del corpo che gli fanno male. Non ne manca una, all’appello.
- Oh, ma non sai dire altro, cazzo. – commenta il suo gentile ospite, visibilmente deluso dal suo comportamento, - E dire che ti ho osservato tanto, negli ultimi giorni. Sembravi così cazzuto. Immagino che tutti siamo cazzuti finché non finiamo in un casino da pisciarsi nelle mutande, mh? – ridacchia compiaciuto. Davide cerca di sciogliere le spalle doloranti per la posizione in cui sono costrette ormai da ore, e lo guarda con rabbia.
- Dimmi chi cazzo sei. – ordina. Il ragazzo si china di fronte a lui, guardandolo dritto negli occhi.
- Mi chiamo Mario. – risponde, - Piacere di conoscerti. – aggiunge con un sorrisino.
- Non posso dire lo stesso. – ribatte lui, con una smorfia schifata, - Ma non ti ho chiesto come ti chiami. Ti ho chiesto chi sei. È molto diverso.
- Oh. Oh! – realizza il ragazzo, sorridendo più sinceramente mentre un barlume di consapevolezza gli attraversa gli occhi, - Capisco, non un nome, ma una qualifica. Ha senso. – annuisce partecipe. – D’accordo. Ormai l’avrai capito, comunque. Sono uno che vuole i soldi di tuo padre e che ha pensato che tu potessi essere la via più breve per raggiungerli.
- Sei solo? – domanda ancora Davide, incapace di trattenere un sorriso amaro, - Oltre che stupido, intendo. Non ti sei informato bene, sui rapporti fra me e mio padre.
Mario ride, scuotendo il capo e sedendosi accanto a lui.
- Non sono solo, no. – risponde, - E non sono nemmeno stupido. Lo so che fra voi due non corre esattamente buon sangue, altrimenti non saresti qui in Inghilterra, dopotutto.
- Fra me e mio padre non corre nemmeno lo stesso sangue. – gli fa notare Davide, allontanandosi impercettibilmente, - Sono adottato. Quindi fai i tuoi calcoli. Non sono suo figlio naturale, e da più di due anni non ci siamo scambiati neanche una telefonata. Se speri di ottenere qualcosa da lui tramite me, anche sapendo tutto questo, allora non sei solo stupido, sei proprio un idiota.
L’espressione di Mario si fa cupa in pochi secondi. Davide può vedere le sue dita tremare e può immaginare perfettamente cos’è che Mario vorrebbe fargli adesso. È lo stesso effetto che ha su tutti. Chissà perché, quando lo vedono le persone in genere non si immaginano che sia la rottura di coglioni che poi effettivamente è. Per questo motivo, finiscono quasi tutti per trovarlo incredibilmente irritante. Davide non può dire di non trovare il fenomeno perfino divertente, in qualche perverso modo.
- Ora, - sbuffa Mario, ritrovando la calma, - non costringermi a prenderti di nuovo a calci. Voglio essere un ospite premuroso e attento, ma se tu me le tiri via dalle mani, le botte, io non posso certo tirarmi indietro, no? – domanda retorico. – In ogni caso, non mi dici nulla di nuovo. Sapevo già tutte queste cose, e so altrettanto bene che resti suo figlio nonostante tutto. Un figlio è sempre un figlio, Davide. Il fatto che tu abbia un padre naturale e poi anche uno adottivo vuol dire soltanto che, al posto di una sola persona che darebbe tutto per tenerti in vita, ne hai due. Credimi, lo so bene, - aggiunge con un ghigno amaro, - li avevo anch’io.
- Ah, sì? – domanda lui, per niente impressionato, - E cosa ne hai fatto?
- Sono morti. – risponde Mario, seccamente. Il suo sorriso adesso ha perfino un’inflessione più dolce, quasi nostalgica.
- Mi dispiace. – butta lì Davide, più per cortesia che per altro, appoggiando la testa alla parete e lanciandogli uno sguardo stremato. Mario continua a sorridergli. È così evidente, dalla luce dei suoi occhi, che non gli importa niente di lui, che Davide per un secondo riesce perfino a sentirsi a proprio agio. Quello è uno sguardo che conosce bene, è lo stesso che molte volte gli ha lanciato suo padre prima che lui decidesse di interrompere ogni rapporto.
- Risparmiatelo. – dice il ragazzo, scrollando le spalle. Si alza in piedi. – Ti porto qualcosa da mangiare. – conclude, voltandogli le spalle. Torna pochi minuti dopo, reggendo un panino fra le mani. Si accuccia davanti a Davide, glielo tiene sollevato davanti alla bocca, e lui aggrotta le sopracciglia.
- Slegami. – dice, - Lasciamelo mangiare da solo.
Mario sorride cattivo.
- Non mi sembra il caso di darmi così velatamente del coglione. – gli fa notare.
- Non lo sto facendo. – ribatte Davide in un ringhio sommesso, - Ti sto solo chiedendo—
- L’impossibile. – conclude per lui Mario, sorridendo serafico. Davide sospira, abbassa lo sguardo e si rassegna a mangiare direttamente dalle sue mani.
*
Il rapporto fra lui e suo padre ha cominciato a deteriorarsi quando Davide ha capito che niente di quello che José Mourinho aveva sarebbe mai stato suo. Non era una questione di mancanza di legami di sangue, non c’entrava niente la famiglia d’appartenenza, l’adozione o altri discorsi sciocchi e futili. Era una questione di capacità, niente di più. Suo padre non lo riteneva in grado di gestire nessuna delle aziende di famiglia, non gli avrebbe intestato niente neanche se fosse stato costretto a farlo.
Quando, a pochi anni dalla pensione, aveva preferito prendersi in casa quel galletto arrivista di Guardiola per istruirlo a seguire le sue orme, piuttosto che fare la stessa cosa con Davide e senza nemmeno dovergli pagare uno stipendio in più, Davide aveva deciso di lasciarselo alle spalle. Aveva preso l’aereo per Newcastle senza mai guardarsi indietro, lasciandosi cullare solo brevemente dai ricordi più lontani, quelli infantili, quelli degli incubi e degli abbracci consolatori in piena notte, cose che si erano estinte naturalmente col passare del tempo.
A Newcastle ha deciso di ricominciare da capo, e non gli importava della fatica che avrebbe fatto pur di riuscirci. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che continuare a vivere giorno dopo giorno con la consapevolezza pesantissima di vivere nell’ombra di un padre che a stento lo considerava affidabile abbastanza da mandarlo a fare la spesa.
La spesa, sì. Aveva dovuto imparare a badare a se stesso per quello ed anche per tutto il resto. Ha cominciato a lavorare per pagarsi gli studi all’università, ha cominciato ad organizzarsi la vita in funzione di una serie molto precisa di obblighi da adempiere, sveglia colazione doccia lezioni lavoro bollette spesa casa coma profondo fino all’indomani mattina e poi da capo, una roba completamente diversa da quella a cui era abituato, un’esistenza pigra, priva di regolarità, dove svegliarsi ogni giorno era un obbligo noioso più che una pressante necessità. Dove fare due cose identiche in due giorni diversi, ripetere ciclicamente le stesse abitudini sembrava assurdo anche solo a pensarlo.
Non avrebbe mai immaginato di poter trovare tanto conforto nella normalità. Nella fatica. Nella stanchezza assoluta che gli invadeva il corpo appena riusciva a lasciarsi andare sul materasso in camera propria dopo un’altra giornata di sfiancante routine.
Ora apre gli occhi, all’alba di quello che gli sembra il millesimo giorno di prigionia da quando l’hanno trasferito in quel magazzino, e desidera quella normalità così grigia con lo stesso fuoco carico di passione con cui la desiderava quando era ancora soltanto un miraggio e non aveva neanche avuto modo di provarla. Trova il pensiero confortante, e allo stesso tempo lo devasta sapere che adesso è così lontana. Che forse non la riavrà mai più. Che forse non gli capiterà mai più di doversi lamentare con la signora Fletcher, la padrona di casa, per lo scaldabagno che non va. E che forse non gli capiterà più di assistere alle lezioni di Economia Aziendale del professor Preston desiderando intensamente di possedere un traduttore simultaneo perché nonostante i due anni di permanenza in Inghilterra non è ancora riuscito ad afferrare completamente l’accento di quell’uomo. E che forse non gli capiterà più neanche di litigare con Robert, il suo datore di lavoro al ristorante, perché lo mette sempre a pulire la cella frigorifera solo perché è l’unico in tutta la cucina che abbia troppa paura di perdere il lavoro per rispondergli di farla pulire a qualcun altro.
Forse non gli capiterà più niente di tutto questo, ma nonostante ciò se solo pensa che per tirarsi fuori da questa situazione adesso gli sarebbe bastato essere più accomodante con suo padre quando ancora avrebbe potuto, be’, non rimpiange niente. Non rimpiange di essere scappato, non rimpiange di aver tagliato ogni rapporto con lui, non rimpiange di aver perso tutto. Non lo rimpiange neanche se la paura se lo mangia vivo ogni volta che si apre la porta e Mario entra nell’enorme stanza dalla quale non lo spostano mai, portando con sé la fotocamera digitale con cui gli scatta una fotografia al giorno.
- Fammi un bel sorriso. – lo invita anche oggi, accucciandosi davanti a lui e puntandogli contro l’obiettivo. Davide distoglie lo sguardo. Mario scatta lo stesso. – Mi hai dato una bella panoramica del livido sullo zigomo e di quello sull’occhio destro. Tuo padre sarà contento. – commenta divertito.
- Scommetto che mio padre a stento guarda la mail. – scrolla le spalle lui, e poi si volta nuovamente a guardare Mario. – Scommetto che non ha risposto a nessuno dei vostri patetici messaggi. – aggiunge con un ghigno fra il frustrato e il rassegnato.
Il bagliore furioso che coglie negli occhi di Mario un attimo prima che il ragazzo si alzi e lo abbandoni lì sul pavimento piegato in due da un calcio per l’ennesima volta, gli conferma che ha ragione. E nonostante il dolore, o forse proprio perché le fitte allo stomaco fanno comunque meno male delle stilettate che gli squarciano in due il petto, Davide si concede un sorriso soddisfatto.
*
Mario passa a trovarlo ogni giorno. Ogni tanto due volte al giorno, più spesso una sola. Prima gli scatta una foto, poi gli porta da mangiare, da un paio di giorni gli concede anche di mangiare con le sue stesse mani. Entra nel magazzino, appoggia il panino avvolto nella pellicola trasparente per terra e poi gli si inginocchia alle spalle, sciogliendo il nodo che tiene la corda stretta attorno ai suoi polsi.
Poi si siede lì accanto, e lo osserva.
- Ancora niente? – gli chiede Davide a metà del proprio panino odierno. Gli si sta chiudendo lo stomaco, giorno dopo giorno. Un’altra cosa che non avrebbe mai creduto possibile – smettere di avere fame e sete in una situazione come questa. I primi giorni sì, quelli sono stati strazianti, alle volte stava disteso in terra a fissare il soffitto scuro sognando un bicchiere d’acqua per delle ore, ma forse col passare del tempo il suo corpo s’è abituato, o forse non gliene frega più abbastanza, e adesso non succede più.
- Perché me lo chiedi? – ritorce Mario, squadrandolo attentamente, - Se anche avesse risposto, io non te lo direi. Non avrebbe senso dirtelo. È l’incertezza che ti rende succube. Riuscirò a cavarmela? Tornerò a casa vivo? Queste domande sono il punto, no? Non avrebbe senso darti le risposte.
Davide piega le labbra in una smorfia infastidita, avvolgendo ciò che resta del proprio panino nella plastica e lasciandolo rotolare sul pavimento fino a Mario, che lo prende fra le dita, lo svolge e resta seduto lì davanti a finirlo.
- Hai fame? – gli domanda. Mario scrolla le spalle.
- È per non lasciare tracce. E perché è un peccato sprecarlo. E anche perché ho fame, sì. – conclude con una mezza risata, e le labbra di Davide si piegano in un sorriso talmente fuori uso da tirare quasi dolorosamente. Potrebbe anche essere colpa dei ceffoni che Mario gli rifila ogni volta che lui lo manda a fanculo o si rifiuta di fare qualcosa, naturalmente, ma per qualche motivo Davide è sicuro che, più delle botte, il problema sia proprio che non si ricorda più come si fa a sorridere sinceramente. Ecco perché fa tanta fatica, ecco perché fa male. Perché ritrovare un’abitudine è molto più difficile che perderla. La gente perde un sacco di cose con una semplicità imbarazzante, gli basta smettere di guardarle, anche solo per un attimo. È così che s’è perso anche lui, d’altronde.
- Mario… - lo chiama, quasi dolcemente. Mario gli solleva gli occhi addosso e smette di mangiare il panino. Davide lo sente tendersi tutto in uno spasmo nervoso, e non riesce a fare altro che sorridere ancora. – Mio padre non risponderà mai. – continua lui, stringendosi nelle spalle, - Lascia perdere.
Mario sospira. Avvolge il panino, si solleva sulle ginocchia e si avvicina, sollevandogli il mento con due dita e lasciandogli un paio di schiaffetti sulle guance pallide. Sono talmente deboli che Davide ha quasi l’impressione che il suo unico scopo sia quello di ridare un po’ di colore alla sua pelle. È quasi premuroso.
- Tu non hai capito un cazzo. – gli soffia addosso. Davide aggrotta le sopracciglia, e poi distoglie lo sguardo.
*
Si è appena assopito quando Mario irrompe all’interno del magazzino e accende la luce, svegliandolo con grandi urla.
- In piedi! – strilla, afferrandolo per le spalle, - In piedi, cazzo! Dobbiamo spostarti!
- Cosa…? – balbetta lui, che è stanco, no, esausto, no, stremato, non ha più un briciolo d’energia in corpo, e vorrebbe solo restare disteso sul pavimento con gli occhi chiusi, immobile e congelato, finché non si sarà consumato del tutto. – Lasciami stare…
- Alzati! – strilla ancora Mario, scrollandolo forte, - Cazzo, non costringermi a pestarti, Davide, non costringermi neanche a prenderti in braccio, datti una fottuta mossa!
- Ma cosa vuoi?! – strilla alla fine, rassegnandosi ad aprire gli occhi e guardandolo con rabbia. Gli occhi di Mario sono pieni di terrore. Davide spalanca i suoi sentendo quella stessa paura allargarsi dentro al suo petto e al suo stomaco come una macchia d’olio.
- Ha mandato qualcuno. – balbetta Mario, obbligandolo a voltarsi per sciogliergli i polsi, in modo da non doverlo trascinare. Davide scuote il capo, confuso. Prima ancora che per questioni di convenienza, lo lascia fare perché non capisce cosa stia facendo.
- Chi? – domanda, senza sapere neanche lui se stia chiedendo chi abbia mandato qualcuno, o chi sia il qualcuno che è stato mandato da chiunque abbia deciso di mandarlo.
Mario decide di rispondere ad entrambe le domande.
- Tuo padre. – dice, - Ha risposto fin dall’inizio, ma non ha accettato nessuna delle nostre condizioni. Ha concluso la sua ultima mail minacciando di mandarci lo zingaro se non ti avessimo liberato immediatamente e senza riscatto, ma non gli abbiamo creduto, come cazzo potevamo credergli, d’altronde? Cazzo, nessuno può permettersi lo zingaro, e di quelli che possono permetterselo ne sono rimasti pochi che lui non abbia già fatto fuori per un motivo o per l’altro, e ora— ora dobbiamo spostarti. – conclude annuendo, - Oppure—
Il colpo esplode da qualche parte alla loro sinistra. C’è un flash improvviso, poi lo sparo, il rumore assordante che fa, e poi Davide chiude gli occhi e sente il viso bagnato da gocce che sa per certo non essere lacrime, e quando torna a schiudere le palpebre Mario è morto, è riverso in terra, c’è un buco gigantesco che gli copre metà della faccia e c’è sangue ovunque. Davide si tocca le guance. C’è sangue ovunque. Davide si tocca i vestiti. C’è sangue ovunque.
C’è un uomo, anche. Alto, slanciato, i lineamenti più sgraziati che abbia mai visto. Il naso, grosso e appuntito, gli dà un’aria così cattiva che Davide si ritrae istintivamente. Indossa un giubbotto di pelle nera, e quando si avvicina e si china sul corpo di Mario per verificare che sia morto davvero Davide nota che ricamati sulla schiena ci sono dei disegni. Enormi, particolareggiati, come certi tatuaggi. Si lascia rapire dalle linee precise e complesse, si concentra su quelle per non guardare il sangue che si allarga sotto il corpo di Mario in una chiazza sempre più larga, come non dovesse finire più.
- Sei ferito? – gli domanda l’uomo, risollevandosi in piedi e guardandolo gelido dall’alto in basso. Davide scuote il capo, le labbra dischiuse, il fiato che fatica a passare dalla gola.
- Chi sei? – domanda in un pigolio sconcertato. L’uomo sorride, ghigna, Davide riesce a malapena a guardarlo senza scoppiare in lacrime, da quanto la sua vicinanza lo terrorizza. Ha sparato a un ragazzino a sangue freddo. A sangue freddo, Cristo.
- Il tuo gentile ospite ti stava giusto parlando di me. – risponde quello. Ha un accento duro e stranissimo. Forse viene dal Nord Europa. Davide non potrebbe esserne certo. Se dovesse giudicare la sua nazionalità solo dal suo aspetto, direbbe che è serbo, o comunque esteuropeo. Gli vengono i brividi a pensarci. Da lì vengono sempre i peggiori.
- Sei lo zingaro? – domanda. L’uomo annuisce. – Mio padre ti ha assunto?
- Per riportarti a casa. Non voleva pagare il riscatto.
Davide annuisce, inumidendosi le labbra secche.
- Quanto hanno chiesto?
- Due milioni di euro.
- Tu quanti ne hai chiesti?
L’uomo sorride.
- Tre.
Davide stringe i pugni lungo i fianchi in uno spasmo rabbioso. Il sangue di Mario si è fermato. Un attimo prima di sporcargli le scarpe.
È così tipico di suo padre.
- Non voglio tornare da lui. – dice a mezza voce, scuotendo il capo. L’uomo sembra soppesare le sue parole in silenzio per qualche secondo, e poi lo afferra per un braccio, trascinandolo con sé senza troppi complimenti.
- I miei ordini sono di riportarti a casa sano e salvo. – spiega spiccio, - Quindi non rompere i coglioni e vieni con me.
- Perché l’hai ucciso?! – strilla Davide, provando ad opporre resistenza e rassegnandosi a seguirlo quando si rende conto che se anche puntasse i piedi per tutto il resto della sua vita, come d’altronde ha fatto fino ad ora, non riuscirebbe in alcun modo a sfuggire a quello che gli aspetta. Qualsiasi cosa sia. – Avresti potuto ferirlo e basta, sparargli ad un ginocchio, fargli saltare una mano, una cosa qualsiasi!
L’uomo si ferma all’improvviso. Così violentemente che Davide gli sbatte addosso, e la solidità del suo corpo riesce solo a terrorizzarlo ancora di più.
- Gli ordini erano di non lasciarsi alle spalle testimoni. – dice pratico, guardandolo dritto negli occhi. – Io eseguo e non discuto, ragazzino. Sarà meglio che anche tu impari a fare la stessa cosa.
Davide si morde l’interno di una guancia con forza, fino a tagliarsi. Sente il sapore metallico del sangue sulla lingua, e c’è sangue ovunque anche ora che non riesce più a vederlo.
Dovrà parlare con suo padre. Molto a lungo.
Genere: Comico
Pairing: Giorgio/Maicol, Luke/Noah, xddd/xdddddddd.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: IDIOZIA, CRACK, ASSURDITA'. Ottime probabilità che non conosciate la metà delle cose che vi sono menzionate. Altrettanto ottime possibilità di aver bisogno di un supporto psicologico alla fine della lettura XD
- Non esiste un riassunto che possa davvero riassumere quanto accade qua dentro.
Note: Dunque, innanzitutto questa fic partecipa alla challenge da me stessa medesima indetta qui XD Tale challenge consiste nel creare una fic inserendo all'interno della storia le parole della twitcloud generate da Twitter - che poi è il motivo per cui, all'interno del cut, alcune parole sono in grassetto: è per identificarle al volo XD Non poteva venirne fuori una cosa normale, e infatti è una follia totalmente sclerata e senza senso. Ma è ok. Voi ignoratela, andrà tutto bene. *li coccola tutti* (Caska, questa non conta come fic su una soap!) (Ah, la mia cloud, se volete vederla, è qui!)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Bring The Madness On


La fangirl accese il computer e si sedette.

*

Giorgio non sapeva bene perché si trovava in quel letto. Ciò che era indubitabilmente vero è che lui fosse lì, questo era poco ma sicuro, e che Maicol fosse accanto a lui, sdraiato fra le coperte e intento a fissare il soffitto. Tutto il resto – come ci fosse arrivato, perché in primo luogo si fosse mosso da casa e soprattutto per quale motivo non ricordasse nemmeno di essersi spostato, figurarsi spogliato integralmente e infilato in un letto con Maicol – era una nuvola di confusione. Parole casuali si aggiravano per il suo cervello, dotate di pratiche alucce con le quali si spostavano piroettando da un neurone all’altro. Poteva quasi vederle lasciarsi dietro una scia di vapore azzurrino. Le temeva. Lui e le parole non erano mai andati d’accordo. E nemmeno lui e il cervello.
- Ronchini. – sbuffò Maicol, sospirando e cercando una posizione più comoda, - Piantala di pensare. Hai gli ingranaggi così arrugginiti che si sente il rumore fin qua. Mi disturba.
Una volta, sua madre gli aveva detto “Giorgio, sta’ attento. Un tipo come te avrà un mucchio di problemi, nella vita.” Forse perché era scemo.
Maicol gli tirò addosso un cuscino e poi cominciò a strillare per farsi portare la colazione a letto. Giorgio si alzò mestamente e si diresse in cucina, preparandosi ad una vita ricca di situazioni come quella ripetute ogni mattina per i secoli dei secoli, finché fosse sopravvissuto.

*

“8D”, disse la fangirl, e ricominciò a digitare.

*

Noah e Luke non erano abituati a tutta quella confusione. Oddio, per essere propriamente sinceri, essendo loro due personaggi gay semi-protagonisti di una soap opera americana in onda nella fascia pomeridiana, per la veritàcomprendevano come la confusione potesse regnare in generale sul mondo. Tutti i baci che erano scomparsi dalle loro scene e tutte le volte in cui la regia s’era piegata ad inquadrare il vischio, il caminetto, le stanze vuote o anche i maiali nel cortile pur di non mostrarli al mondo mentre, limonando, rendevano noto allo stesso il loro amore, erano ormai passati alla storia. Ma una confusione come quella, proprio no, era del tutto nuova.
- Ma cosa sta succedendo? – chiese Noah, guardandosi intorno con aria un po’ persa, - Perch ci sono parole che volano intorno a noi?
- …perch? – chiese Luke, guardandolo con aria incerta, - Che fai, ti perdi le lettere?
- …non so che dire. – sbottò Noah, incerto, - Non esce la é finale. Perch. – provò a dire, - Non esce! Perch. Perch! Perch!!! – e subito scoppiò a piangere.
Luke gli fu immediatamente accanto, stringendolo a sé.
- Lascia che io ti abbraccia. – disse, e poi spalancò gli occhi, - Abbraccia. Abbraccia! Non riesco a parlare correttamente!!!

*

La fangirl ghignò soddisfatta. “Pare che le cose stiano andando per il verso giusto,” commentò allegra. E poi scrisse “*muore*” su Twitter.

*

- Okay. - disse Sammy, cercando di darsi un’aria competente, - C’è palesemente qualcosa che non va.
Mario annuì lentamente, fissando Zlatan appena apparso nel mezzo del campo, davanti ad entrambi, dal nulla.
- Ma che cazzo sta succedendo?! – imprecò lo svedese, gesticolando animatamente, - Ma cosa minchia (cont) http://tl.gd/udgy6
- …questa è una cosa ancora più strana. – deglutì Mario, cominciando a pensare che forse sarebbe stato meglio tornare in camera, fingere di non essersi mai svegliato e scivolare tranquillamente nel letto accanto a Davide per qualche coccola o qualcosa in più.
- In pratica, - riprese Sammy, grattandosi pensieroso il mento, - non solo è apparso dal nulla, ma si è anche messo a parlare come, boh, come se i suoi post fossero troppo lunghi per Twitter.
- Ma non ha senso! – sbraitò l’attaccante, - Io non sono un fottuto post di Twitter! Sono un essere umano e (cont) http://tl.gd/f7g6f
- Che poi – ragionò Mario, - è anche un Twitlonger automatico privo di criterio. Voglio dire, se contiamo i caratteri, non sono mica più di centoquaranta. Vorrà dire qualcosa?
- Forse lo scopriremo, - propose Sammy, positivo, - se riusciamo a capire dove cliccare per raggiungere il tweet per esteso.
Mario rifletté per qualche secondo, inclinando il capo per osservare Zlatan con piglio quasi scientifico. Quindi allungò un braccio e gli pigiò il naso.
Zlatan lo guardò senza battere ciglio per qualche secondo.
- Ma andatevene a fan (cont) http://tl.gd/f8g7g

*

La fangirl rise ad alta voce, e quando sua madre, dopo averla ascoltata ridere da sola per minuti interi, preoccupata, si affacciò dalla stanza accanto per chiederle cosa avesse, lei scosse il capo, rispose dolcemente “niente” e riprese a scrivere.

*

xddd era triste. Da quando stava con xdddddddd la sua vita aveva preso pieghe inaspettate e deprimenti. Inizialmente, tutto era sembrato andare per il verso giusto. Si amavano, erano felici insieme, erano anche reciprocamente attratti l’uno dall’altro. Insieme si divertivano, avevano un senso dell’umorismo molto simile – per quanto alle volte xdddddddd fosse decisamente più esagerato, ciarliero e ridanciano di lui – le loro famiglie si rispettavano a vicenda e la loro storia sembrava destinata a fiorire rigogliosa nel prossimo futuro. xddd, da sempre un romantico, amava sognare il giorno in cui avrebbero vissuto insieme, generando milioni di piccoli xd che sarebbero poi cresciuti sani e forti, riempiendoli d’orgoglio.
- Che ti prende, adesso? – gli chiese xdddddddd, stendendosi accanto a lui sul materasso dopo averlo osservato scostarsi e raccogliersi in una piccola palla d’angoscia e frustrazione nel punto del letto più distante da lui in assoluto, - Cosa c’è che non va?
xdddddddd era bello, bellissimo, e xddd non riusciva a parlargli con la disinvoltura di cui avrebbe avuto bisogno. Soprattutto per confessargli una cosa simile.
- Io non… - cominciò incerto, - non te lo posso dire.
- C’è qualcosa che non puoi dirmi? – chiese xdddddddd, quasi inorridito, - Ma no, xddd! Tu puoi dirmi tutto, puoi parlarmi di ogni cosa, ogni singolo problema! C’è forse qualcosa che non va? Non siamo forse felici? Forse non tipiace come mi comporto con te, o come esprimo il mio amore nei tuoi confronti?
- No… - piagnucolò xddd, sempre più abbattuto, - Mi piaci tanto, xdddddddd, e ti amo, e sono felice con te, certo che lo sono, ma… - deglutì, - non posso fare a meno di sentirmi inferiore, guardandoti. Sei troppo lungo, per me.

*

“Insomma,” disse la beta, “è per questa storia che sei rimasta in paranoia tutta la notte fino ad oggi?”
La fangirl chinò il capo, mestamente. “*piange*” digitò su MSN, depressa.
Guarda che puoi pure smettere,” rise la beta, riempiendo tutta la finestra di faccine, “L’avevo detto io che non poteva essere altro che stupenda! E infatti…”
“Ma…” biascicò la fangirl, ancora incerta, “Le ragazze su LJ hanno detto che il tema del duetto doveva comunque essere presente…”
“E cosa c’è di più duettante delle xd che si accoppiano, scusa?!” insistette la beta, ridendo allegramente.
“Ma che ne so!” piagnucolò ancora un po’ la fangirl, “Dici che c’entra col tema della challenge? Mi sento così insicura…”
Vedo!” la prese in giro la beta, occhieggiando l’rss feed di fcinternews che le annunciava che qualcuno era stato visto nudo in allenamento, anche se non si sapeva ancora chi. “Siete delle zoccole,” pensò fra sé ridacchiando, e poi riprese a leggere quello che la fangirl stava blaterando su MSN, trillando per interromperla. “Tu sei assolutamente fuori di melone,” le disse la sua beta, scorrendo il documento word con gli occhi.
“Non ti piace?” chiese la fangirl, angosciata.
“Scherzi?” rise la beta, rovesciandosi indietro sulla propria sedia, “È assolutamente folle! E tu sei pazza! Ossignore, lo sapevo che stare a guardare mentre in giro fiorivano tutti quei challenge ti avrebbe fatto male.”
La fangirl sorrise entusiasta, giungendo le mani sotto il mento.
Grazie! Quindi dici che la posso postare?” chiese speranzosa, gli occhi che brillavano di una nuova luce.
“Ma sì, vai con dio,” concesse la beta, “Adesso devo andare, ho da fare. Pare che ieri Ricky si sia spogliato quasi integralmente durante l’allenamento mattutino, e internet aspetta solo che io mi metta a batterlo in lungo e in largoalla ricerca di foto e video. Divertiti, eh!” si raccomandò, chiudendo MSN.
La fangirl batté le mani, soddisfatta, e cominciò ad organizzarsi mentalmente per aprire Photoshop e realizzare un bannerino degno per la propria fanfiction. Prima, però, passò da Twitter.
NCLPF,” scrisse, e – ridacchiando – aspettò le reply.
Genere: Introspettivo, Romantico, Erotico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Bojan.
Rating: PG-13/R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack.
- ...follia estemporanea a dimostrazione della mia palese malattia mentale.
Note: Tutto ciò che dovete sapere di questa storia lo trovate riassunto qui. La Jan e la Nari saranno la mia fine. Sappiatelo.
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Sweet, Sweet, Sweet, Could You Taste It?


Quando José vede apparire Pep sulla soglia della sua porta, inizialmente non può crederci. È arrivato in Spagna da meno di una settimana ed è teoricamente ancora troppo in vacanza per poter tollerare un’invasione simile della sua privacy, soprattutto da un collega che ben presto diventerà il suo peggior nemico.
- È una fanfiction? – chiede dubbioso, allungando il collo e scrutando il corridoio a destra e a sinistra, come aspettandosi di vedere spuntare da ogni lato fangirl intente a cambiare il corso della storia scrivendo forsennatamente al computer. È quasi deluso quando non ne trova nemmeno una.
- Una che? – biascica Pep, costringendolo a scansarsi per lasciarlo entrare, - No, comunque. Di che diavolo sta parlando?
- Cioè sei reale? – insiste José, allungando perfino una mano per toccarlo, incredulo. – Sei vero?
- Ma— Mister Mourinho, cosa ha bevuto prima che arrivassi?
- Scusami tanto, ma non sono affaracci tuoi! – sbotta sconvolto, - Tu, semmai, cosa hai ingurgitato per poter anche solo pensare di poterti presentare qui nel cuore della notte ed entrare in camera mia come niente fosse?
Pep si guarda intorno, circospetto, come avesse paura di essere stato seguito fin là. Poi chiude con cautela la porta della camera, rigirando la chiave nella serratura un paio di volte, giusto per sicurezza, e solo alla fine di queste operazioni torna a guardare José, con estrema serietà.
- Sono in fuga. – confessa, cupo come un bollettino di guerra.
- …in fuga. – ripete José, come se ripeterlo potesse servire a dargli un senso, - E sei venuto fino a Madrid per fuggire da… qualsiasi cosa tu stia fuggendo?
- Era necessario. – annuisce l’uomo, cominciando a camminare per la stanza in cerchi ampi e nervosi, - Se fossi rimasto a Barcellona, lui mi avrebbe trovato.
- …naturalmente. – gli dà corda José, ipotizzando di avere a che fare con un pazzo e scegliendo la via della condiscendenza, - E perché non sei andato a rifugiarti da qualche amico? O in un albergo, ad esempio. Cioè, un albergo che non ospitasse anche me, intendo.
- Lei non capisce! – scatta Pep, esasperato, - Non potevo andare da nessun amico, lui li conosce tutti! Sarebbero stati i primi dai quali mi avrebbe cercato, e anche gli alberghi— quanto pensa ci metterà prima di stilare un elenco e cominciare a chiamare ogni singolo dannato hotel di Spagna per vedere se alloggio lì?!
- Ma non lo so! – sbraita a propria volta José, allargando le braccia ai lati del corpo con aria sconfitta, - Cosa vuoi che ne sappia, non ho neanche idea di chi sia questo famigerato lui di cui vai cianciando!
Pep si lascia scuotere da un brivido di puro terrore, prima di lasciarsi ricadere su una poltrona e congiungere le mani ai lati del naso, pensoso.
- Bojan. – racconta quindi, la voce ridotta a un rantolo tremante, - Io e lui… stiamo insieme. – confessa. José spalanca gli occhi. Tutto ciò è insano e lui non vuole esserne parte. Vorrebbe fermare Pep e buttarlo fuori dalla finestra a calci, ma per qualche motivo non riesce. – Non so cosa sia successo nelle ultime settimane, lui è sempre stato un ragazzo così dolce… - narra con una certa tenerezza, - eppure, - riprende, più cupamente, - ultimamente, qualcosa è cambiato. E lui ha… Dio.
- Ha cosa? – chiede José, a questo punto un po’ curioso, un po’ preoccupato e un po’ morbosamente attratto da quanto sta accadendo in camera sua.
- Lui ha… - esita ancora Pep, deglutendo a fatica, - ha cominciato a nutrirmi solo con fragole e limone.
José inarca un sopracciglio.
- Ti nutre solo con fragole e limone. – ripete ancora una volta, - E perché?
Pep rabbrividisce ulteriormente, stringendosi nelle spalle.
- Vuole… Dio, non posso dirlo.
- Parla, Pep! – insiste José con tono di comando, e Pep chiude gli occhi, rassegnato.
- Vuole che il sapore delle fragole con limone diventi il mio sapore. – dice, e solleva lo sguardo con fare eloquente, - E non sto parlando del sapore dei miei baci o della mia pelle.
José inarca anche l’altro sopracciglio, incerto. E poi, d’improvviso, comprende. E impallidisce.
- Santo Dio. – esala, muovendo qualche passo all’indietro, spaventato dalla portata di tale rivelazione, - È raccapricciante.
- Lo è. – annuisce Pep, sempre più sconvolto, - Io… non ce la facevo più. Se solo mi avesse dato da mangiare fragole e limone un’altra singola volta
- Oh. – dice una voce proveniente dalla porta un po’ defilata che conduce al bagno. Entrambi alzano lo sguardo per trovare Zlatan immerso nella luce giallastra dell’altra stanza, ancora umido di doccia e con indosso solo un asciugamano avvolto attorno ai fianchi. – Quindi Boji sta mettendo in pratica il mio consiglio.
- Il tuo… - sillaba Pep, sconcertato, mentre José cerca di ricordare cosa ci faccia Zlatan nel suo bagno, si chiede ancora una volta se non si tratti di una fanfiction e poi realizza di averlo invitato a passare la notte con lui solo un paio di ore prima. – Il tuo consiglio?
- Sì. – sorride Zlatan, sereno come gli avessero appena ritoccato l’ingaggio aggiungendo cinque milioni ai dieci già presenti, - È una tecnica che ho imparato a Milano. Ti ricordi, Zay? – chiede innocentemente, voltandosi a guardarlo, mentre lui gli ricambia l’occhiata con l’intensità di una triglia sottovuoto al banco dei surgelati, - Quando ti portai per una settimana tutte le sere da Pino a mangiare le fettuccine al ragù? Ecco.
Pep si solleva dalla poltrona, ergendosi in tutta la sua altezza. Le sue dita si contraggono e si ridistendono come stesse cercando di scaricare la tensione, ma è evidente dai lineamenti tirati del suo volto che non ci sta riuscendo nemmeno in parte.
Due minuti dopo, José lo osserva con occhi vacui saltare alla gola di Zlatan come una bestia inferocita, e non riesce neanche a curarsene. Seduto sulla sponda del proprio letto, riflette amaramente sul proprio sapore – il sapore delle fettuccine al ragù. “E non sto parlando del sapore dei miei baci o della mia pelle”, si ripete.
Tutto ciò è inaccettabile. Mentre Pep gli devasta la stanza, usando Zlatan come il Martello di Thor, lui solleva la cornetta del telefono e chiama il servizio in camera, ordinando una bottiglia del loro migliore champagne. Poi ci ripensa.
- Copiose bottiglie del vostro migliore champagne. – precisa. E quando appoggia la cornetta al proprio posto, è di nuovo in pace con se stesso.
Genere: Introspettivo, Romantico, Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- In vacanza a Miami, Zlatan riceve una visita inaspettata.
Note: Ci sono delle storie che nascono per motivi molto profondi e seri... questa no XD E' nata semplicemente perché ho visto Zlatan seminudo in vacanza a Miami, e si sa che quando io vedo Zlatan combinato in certi modi poi vado in overdose e devo espellere, e in genere per espellere scrivo porno. Per tale motivo, questa storia doveva essere una PWP. .../o\ Però alla fine è venuta una menata introspettiva all'interno della quale ho anche plagiato il Def, anche se lui si ostina a dire di non avere il copyright sull'atto della respirazione. Probabilmente ha anche ragione, ma io ormai ho deciso che è un plagio e nessuno di voi potrà farmi cambiare idea \o/ *delira* Il titolo è rubato all'omonima canzone dei Pearl Jam.
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Just Breathe


Sdraiato sotto il sole a bordo vasca nel silenzio surreale di mezzogiorno, col calore umido che sale su dall’acqua satura di cloro della piscina, Zlatan fa fatica a respirare, ma è talmente rilassato che, in qualche modo, riesce a trovare abbastanza forza da gonfiare e sgonfiare i polmoni abbastanza da non soffocare. Ripensa al clima della Catalogna, più mite di quello di Miami, e ricorda che ne è fuggito proprio perché, nonostante la temperatura tutto sommato sopportabile, lì si sentiva mancare l’aria.
Si chiede se sia semplicemente normale, per lui, cominciare a sentire la pressione tanto forte da strozzarlo, dopo un po’. E questo qualunque sia il posto in cui vive, perché era così anche in Italia, dopotutto, ed è per questo che ne è scappato a gambe levate non appena ne ha avuto l’occasione, aggrappandosi al primo pretesto disponibile. È anche per questo che, quando gli chiedono se sia dispiaciuto di aver abbandonato l’Inter proprio l’anno in cui poi l’Inter ha vinto tutto, lui non riesce a far altro che ridere: fosse rimasto là, sarebbe morto soffocato ben prima di vedere un qualsiasi trofeo arrivare in quella parte di Milano, per cui tanto meglio. È ancora giovane ed ha fiducia, prima o poi la fottuta Champions League la vincerà, è solo una questione di attese. Lui non è mai stato bravo ad attendere, questo è vero, ma imparerà.
Si concede una smorfia infastidita quando qualcosa si frappone fra lui e il sole, gettandogli addosso un’ombra scura che costringe la sua pelle sudata a sentire in un brivido, per la prima volta da che è lì, il venticello lievissimo e fresco che accarezza la piscina privata dell’albergo.
Schiude gli occhi, strizzando un po’ le palpebre, giusto perché l’ombra non è sufficientemente larga per coprire del tutto la luce abbagliante del sole che si riflette sulle piastrelle chiare e sull’acqua immobile della piscina, e lo stupore di vedere José lì di fronte a lui che gli sorride tranquillo, come niente fosse, è tale che per un attimo dimentica che i suoi polmoni hanno ancora bisogno che lui si ricordi di farli funzionare, per respirare. Si chiede distrattamente quando respirare abbia smesso di essere una cosa perfettamente naturale ed automatica, si chiede quando il suo respiro si sia fermato per la prima volta abbastanza a lungo da permettere al suo corpo di dimenticare come farlo in autonomia, e la ricorda. E ricorda anche che dopo quella prima volta ne sono seguite tante, troppe, fino a sradicargli la respirazione automatica dal DNA. E ricorda che è stata colpa di José. Sempre, ogni volta, colpa di José.
- Mi avevano detto che c’era Ancelotti, da queste parti. Si sbagliavano? – dice, cercando in qualche modo di mantenersi composto e distaccato nonostante la voglia di saltare in piedi e scappare – o saltare in piedi e saltargli addosso – prema da dentro e lo costringa a un leggero tremito.
- Non si sbagliavano. – gli sorride José, sedendosi sul bordo della sdraio mentre lui, con una naturalezza che quasi lo spaventa, piega una gamba per fargli posto. – L’ho incontrato prima, è stato molto felice di rivedermi.
- Una delle numerose cose che non abbiamo in comune. – sorride amaramente lui, guardando altrove. José si finge stupito, schiude le labbra ed inarca le sopracciglia in un’espressione così genuinamente e al contempo fintamente sorpresa da fargli venire voglia di prenderlo a pugni.
- Ma come, zingaro? Non sei contento di vedermi? – lo prende in giro. Zlatan sopprime un ringhio di gola, tornando a guardarlo con la migliore delle sue occhiate omicide, e nemmeno gli risponde. José non sembra intimorito dalla minaccia che i suoi occhi già da soli rappresentano, comunque, e si limita a tornare a sorridere sereno. – Io lo sono. Ti trovo bene. – aggiunge.
- Sto benissimo, infatti. – borbotta Zlatan, tornando a guardare un punto imprecisato sulla superficie dell’acqua poco distante.
- Quest’anno è stato duro, vero? – insiste José, come volesse far conversazione a tutti i costi, una cosa che non è mai appartenuta alla loro routine neanche quando potevano con qualche ragione dire di possederne una. – Ti ho visto parecchio fuori forma, ogni tanto. Troppo magro. Capisco che il gioco di potenza non si adatti granché allo stile del Barcellona, ma deperire per una cosa simile mi sembra un po’ eccessivo.
- Non sono affatto deperito. – protesta, stringendo i pugni lungo i fianchi, - Sto benissimo adesso come stavo benissimo due mesi fa, come stavo benissimo quando me ne sono andato e come starò benissimo anche fra un minuto, quando tu sarai sparito dalla mia vista.
José ride appena, sistemandosi meglio sulla sdraio, pur senza prendersi molto più spazio di quanto lui non gli stia già concedendo.
- Come sei aggressivo. – commenta, - Comunque le vacanze ti fanno bene. Sei molto più bello adesso di quanto non fossi qualche settimana fa.
Zlatan si acciglia, lanciandogli un’occhiata infastidita.
- Non provarci. – dice seccamente, - Neanche per idea, José.
Lui solleva le braccia in segno di resa, ridendo a bassa voce.
- Non ti ho nemmeno toccato. – gli fa notare, e Zlatan sbuffa, contrariato.
- Come se ti servisse farlo.
Il sorriso di José si allarga, così come il posto che prende sulla sdraio quando lentamente, quasi distrattamente, comincia a scivolare più vicino a lui.
- Cosa stai cercando di dirmi? – chiede allusivo. Zlatan si allontana impercettibilmente. – Ti faccio ancora lo stesso effetto?
- Sto cercando di dirti che, qualunque sia l’effetto che mi fai, devi starmi alla larga. – spiega chiaramente, il tono duro, quasi severo, neanche stesse avendo a che fare con Maximilian o Vincent in uno dei loro momenti di peggiore capriccio. E invece sta discutendo col suo ex allenatore. Il suo ex amante. Uno dei nodi più dolorosi del suo passato, uno di quelli che non vuole sciogliere perché sa che non averlo più farebbe se possibile ancora più male.
Zlatan è scappato perché anche José era diventato un elemento di pressione costante nella sua vita. Forse più della squadra, più dei tifosi, più dell’Italia giornalistica così piccola e meschina da ricordare di lui sempre e soltanto gli insuccessi. José era invadente, era pericoloso, gli si stava attaccando addosso come una malattia. Un profumo non suo, abitudini che non gli erano mai appartenute, José era stato in grado di rovesciarlo al contrario in meno di un anno, divorarlo, digerirlo e risputarlo fuori completamente diverso da ciò che era prima che s’incontrassero. Il solo pensiero di avere lui in mente al mattino appena sveglio, piuttosto che Helena o i bambini o una dannata partita di calcio, era terrificante. José lo inseguiva ovunque anche quando non c’era. I suoi occhi, il ritmo del suo respiro, la sua presenza sempre così dannatamente ingombrante, la sua voce incisa sulla pelle e in un’eco costante a rimbombare nelle sue orecchie.
La respirazione, soprattutto. I suoi occhi, la sua voce, i polmoni che smettono di funzionare. Il suo tocco, le sue mani, le sue dita, morte certa per asfissia. Al solo ripensarci Zlatan si sente quasi mancare, e deve ancora una volta distogliere lo sguardo.
- Non sei cambiato. – dice José in un soffio. Zlatan lo guarda di sfuggita e si accorge che anche lui sta guardando altrove, un punto distante, lontano nello spazio e nel tempo. Un punto dal quale dovrebbero stare entrambi ben lontani, se vogliono sopravvivere al tempo che invece hanno ancora davanti. – Un po’ ci speravo.
- Che fossi cambiato? – chiede con una smorfia, quasi offeso. José sospira pesantemente.
- Sì. No. – sospira ancora, - Che qualcosa di te fosse cambiato. Fosse più a posto, almeno.
- Io sono a posto.
- Tu sei scappato.
José si volta a guardarlo e Zlatan vorrebbe sciogliersi. Nel calore umido dell’aria, nell’acqua tiepida della piscina, ovunque, pur di sparire.
- Cosa vuoi da me? – gli chiede alla fine. Lo sputa fuori con una fatica mai provata prima, che gli causa un dolore quasi fisico, un intorpidimento generale di tutto il corpo.
José sorride tristemente, solleva una mano, gli accarezza uno zigomo. Zlatan smette di ragionare.
- Te. – risponde, e Zlatan va in apnea.
Non si muove – perché non riesce – quando José si solleva e si fa spazio fra le sue gambe, avanzando fino a poter sfiorare le sue labbra con le proprie. E non si muove – perché non vuole – nemmeno quando José lo bacia, da subito senza il minimo freno, le labbra dischiuse, la lingua pronta a cercare la sua, i denti che si chiudono con forza sul suo labbro inferiore un attimo prima di allontanarsene.
- Respira. – gli sussurra addosso. Zlatan brucia dentro e fuori, cerca di obbedire e non riesce. José gli sorride, lo bacia ancora, gli strappa via dalla gola il nodo che ha tenuto custodito dentro il suo corpo fino a quel momento e Zlatan esplode in un singhiozzo soffocato dalle sue labbra, e si accorge solo in ritardo della mano di José che è scesa ad accarezzarlo fra le cosce, al di sopra del tessuto sottile e un po’ scivoloso del costume.
Si rompe in un ansito sconnesso quando la sua mano scende al di sotto e le sue dita circondano la sua erezione già quasi dolorosa – il costume da bagno è stretto, Zlatan lo odia, vorrebbe che José glielo strappasse via – e mugola qualcosa che lui stesso non capisce, perché forse un senso nemmeno ce l’ha. Ma José lo coglie comunque, gli sorride sulla pelle e lo spoglia, restando per qualche secondo completamente vestito contro il suo corpo completamente nudo, dandogli i brividi, togliendogli il respiro ancora e ancora e ancora.
- Ricordati di respirare. – sussurra José, e Zlatan annuisce distrattamente, come un bambino che sta per addormentarsi annuisce alle raccomandazioni dei genitori per il giorno dopo. Non importa, non importa, l’aria non è niente, l’aria è solo aria, ma lui ha lì José, José è lì per lui, e se dovrà respirare, d’accordo, lo farà sulla sua bocca.
Cerca le sue labbra e José non gliele nega, restano attaccati in un bacio un po’ goffo anche quando José si allontana di qualche centimetro per sfilare almeno i pantaloni e gli slip, o abbassarli a sufficienza per potersi pressare più disinvoltamente contro di lui. Zlatan mugola quando sente la sua erezione premere contro la sua coscia, e si muove sotto il suo corpo fino a quando non ottiene ciò che vuole – i loro bacini allineati, le erezioni che si sfiorano, si sfregano, cominciare a respirare perché non può fare a meno dell’odore della sua pelle. E inspira a grandi boccate, come fosse appena riemerso dopo aver rischiato di annegare, e José lo calma accarezzandolo piano, lentamente, imponendo al suo corpo il ritmo del proprio, il ritmo di qualcuno che vuole assaporare qualcosa contro il ritmo di qualcun altro che invece vuole divorarne l’anima.
Serra le cosce attorno al suo bacino quando lo sente premere contro la propria apertura, dischiude le palpebre e, al di là del velo di voglia che gli offusca la vista, nota la sua espressione a metà fra il concentrato e il perso, e solleva una mano ad accarezzargli il viso, ridisegnandone i lineamenti che ricorda ancora a memoria, perché no, non è cambiato davvero per niente. E anche se poi gli occhi vorrebbe chiuderli di nuovo, per perdersi completamente nel momento in cui José entra dentro di lui e comincia a spingere per scavarsi nuovamente dentro il suo corpo un posto che sente proprio di diritto, resiste, e continua a guardarlo, perché non vuole perdersi un attimo, e per continuare a farlo lucidamente deve per forza continuare anche a respirare. E perciò respira. E respira. E quando trattiene il fiato, venendo fra le sue dita, è solo per un secondo, ma si sente quasi scoppiare. E si dicepossibile? Ho ricordato come si fa?, e poi sorride e si dà dell’idiota, perché no, non è che ha ricordato, è che José gli ha insegnato a farlo ancora una volta.
José non si allontana da lui, anche dopo essere venuto. Zlatan gli chiude addosso le braccia e se lo stringe contro, ma è giusto un’assicurazione in più, e infatti José ride, divertito.
- Non me ne vado. – gli sussurra sul collo, - Ora riposa. È stato stancante, vero?
Zlatan ride a propria volta, ancora senza fiato, e annuisce. Lo è stato. Stancante, sfiancante, distruttivo. Non è sicuro di potersi svegliare sentendosi la stessa persona che era prima e che forse è ancora, ma dopotutto non è proprio certo che sia un male. E poi José sarà lì, in ogni caso, quindi se avrà bisogno di qualcuno a cui chiedere come si respira perché l’ha dimenticato di nuovo, saprà a chi rivolgersi.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: AU, Slash, Lemon.
- A causa del bullismo dei suoi colleghi medici, Zlatan, ultimo arrivato all'ospedale, si ritrova costretto ad effettuare un turno alle visite ordinarie. E' qui che, invece, riceverà una visita che di ordinario non ha proprio nulla.
Note: Storia nata principalmente perché io ho dei problemi seri, ma anche perché pure i pubblicitari spagnoli hanno problemi seri. (Il bonus, invece, è perché Jan rompeva le palle.) (♥) Titolo rubato a una canzone di Nancy Sinatra che in realtà faceva "another gay sunshine day", ma insomma.
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Another Gay Hospital Day


- Quello che non capisco – sbuffa Zlatan, incrociando le braccia sul petto, - è perché dovrei farlo io.
- Perché sei un novellino. – risponde serafico Gerard, sorridendogli come se niente nel mondo potesse rovinare lo stato di pace interiore in cui si crogiola la sua candida anima, - Quindi ti tocca.
- Ci sono dei turni da rispettare. – borbotta lui in risposta, tirando giù le maniche del camice evidentemente troppo piccolo per la sua taglia, - E comunque Bojan è più piccolo di me.
- Ma è arrivato diversi anni prima. – gli fa notare Lionel, scorrendo la lista degli impegni giornalieri, - e comunque—
- Krkic. – chiama il primario Guardiola, passando puntualmente a qualche metro di distanza mentre Zlatan rotea gli occhi e Bojan sorride splendente come un bambino a Natale, fra le risatine di tutti gli altri colleghi raggruppati attorno al banco dell’accettazione, - Nel mio ufficio. Adesso.
- Arrivo, dottor Guardiola! – cinguetta Bojan, poggiando la cartella che stava visionando sul banco e trotterellandogli dietro, dimentico di chiunque fosse il paziente di cui si supponeva dovesse prendersi cura.
- Giuro che un giorno qualcuno ci lascerà le penne perché Boji ha preferito correre dietro all’esimio culo del dottor Guardiola piuttosto che prendersi cura di lui. – commenta Andrés, seduto sullo sgabello dietro il banco, controllando meccanicamente che tutte le cartelle siano ai loro rispettivi posti.
- Dagli torto. – ridacchia Xavi, stringendosi appena nelle spalle, mentre tutti si voltano a guardarlo inarcando le sopracciglia in un movimento così sincronico da rasentare il capolavoro artistico. – Cosa? – chiede lui, ridendo con maggiore divertimento, - Era un giudizio di valore come un altro.
- …sì, certo, un giudizio di valore. – sospira Zlatan, roteando gli occhi, - Questo non elimina il problema principale.
- Che sarebbe? – chiede Lionel, quasi annoiato, continuando a scorrere l’elenco e spuntandone delle voci apparentemente a caso di tanto in tanto.
- Sarebbe che io non posso andarmi a smazzare le visite ordinarie come un qualunque pivello! Nell’ospedale in cui stavo prima—
- Lo sappiamo, lo sappiamo. – lo liquida Gerard, gesticolando distrattamente, - Eri il primo fra tutti i medici, come te non c’era nessuno, i pischelli ti guardavano come fossi dio in terra e le infermiere si bagnavano al tuo passaggio.
- Io non ho mai detto questo! – sbotta Zlatan, aggrottando le sopracciglia, - Però sì, è esattamente quello che accadeva. – sbuffa contrariato, il naso puntato verso il soffitto e una smorfia altera ad indurire i tratti del viso.
- Non fare quella faccia che già sei brutto, mi spaventi i bambini. – lo riprende Lionel, e Zlatan gli tira una schicchera in piena fronte.
- Parla quello che quando i pazienti arrivano chiedono “dov’è il dottore”, e devono chinarsi per notarlo. – sbotta, e Lionel si massaggia la fronte, lanciandogli occhiatacce infastidite.
- Be’, almeno io passo attraverso le porte senza sbattere il mio enorme naso contro gli stipiti e anche contro la parete alla fine del corridoio. – gli fa notare supponente, ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Senti, tu-- - comincia Zlatan, ma il dottor Puyol li ferma entrambi, afferrandoli per i rispettivi colletti e tirandoli indietro.
- Sentite tutti e due, - li rimprovera, - qua si viene per lavorare e per curare la gente, non per battibeccare come bambini delle elementari o peggio. Per cui, - conclude, lasciandoli andare con uno strattone deciso, - al lavoro. E basta schiamazzi.
Zlatan ringhia sommessamente e si massaggia la nuca, neanche Puyol l’avesse afferrato per la collottola, ma si rende conto che ha ben poco da protestare ancora: il nonnismo plateale che regna sovrano in quell’ospedale è troppo potente perfino per lui, perciò – mentre tutti i suoi colleghi, lo sa, gli ridono dietro – china il capo e s’infila nella prima sala visite a portata di mano, sperando non sia già occupata.
Non lo è, o meglio, lo è, ma non da un altro medico. Un paziente, tuttavia, sta seduto sul lettino e si guarda intorno con aria annoiata, come non vedesse l’ora di andarsene. Zlatan può comprendere il suo stato d’animo e, in un impeto di empatia – qualcosa che non si verificherà più per almeno altri dieci anni – gli sorride bonario. L’uomo, però, non risponde con altrettanto calore, e si limita a lanciargli un’occhiata vaga, scendendo dal lettino e mettendosi in piedi davanti a lui.
Sarà sulla cinquantina, è più basso di lui ma questo non lo stupisce – quasi tutti sono più bassi di lui, generalmente, nell’universo. Ha una bella linea ma il viso provato di uno che nella vita ne ha viste abbastanza da non volerne vedere più. I capelli sono brizzolati, ma ancora molto scuri soprattutto alla base. Tutto sommato, con quei jeans e quella polo scura e quell’aria da riccone abbronzato che non deve chiedere mai, sembra in salute.
- Allora? – chiede il tizio, interrompendo la sua scansione oculare della sua persona, - Vogliamo restare lì imbambolati ancora a lungo o cosa? L’ha preso il suo caffè, stamattina?
Zlatan aggrotta le sopracciglia, infastidito dal suo tono supponente e dalle sue parole nient’affatto concilianti il buonumore.
- Che l’abbia preso o meno io non deve preoccuparla, ma è evidente che, se l’ha preso lei, ha dimenticato di aggiungere la giusta dose di zucchero. – commenta ironico, scrollando le spalle ed avvicinandoglisi.
- Io prendo il caffè sempre amaro. – dice il tipo.
Zlatan sogghigna, allungandosi a recuperare la cartella clinica appoggiata alla scrivania.
- Non mi stupisce. – dice, scorrendo la cartella con lo sguardo. – Insomma, signor… Mourinho? Non è di qui?
- Sono portoghese. – spiega lui, - Ma questo non dovrebbe interessarle. E non ho nessun malanno, se è questo che si sta augurando.
Zlatan inarca un sopracciglio, picchiettando con la penna sul lato della cartella.
- Potrà sembrarle strano, ma non auguro a nessun essere umano di stare male, sa? – dice, ma il tipo lo liquida con un gesto della mano.
- Come preferisce. Comunque mi serve solo un certificato di sana e robusta costituzione, perciò diamoci una mossa e cominciamo questa visita, che ho da fare. – stabilisce, accennando a sfilare la polo dopo averne sciolto un bottone del colletto, ma viene fermato dall’occhiata incredula e vagamente ilare che Zlatan gli lascia scorrere addosso.
- Un cert— per lei? – chiede, indicandolo con la penna, - Ma quanti anni ha?
- …c’è scritto sulla mia cartella. – borbotta lui, perplesso, - Quarantasette, comunque. Dottore, c’è qualche problema?
- Sì, evidentemente. – risponde Zlatan, amplificando l’ovvietà della propria risposta con un ampio gesto del braccio, - A cosa le serve un certificato di sana e robusta costituzione?
- Non sono affaracci suoi. – risponde l’uomo, burbero. Zlatan ride.
- No, se permette lo sono. – insiste, - Dal momento che devo essere io a rilasciarglielo, e che su quel pezzo di carta ci sarà la mia firma, ho bisogno che lei mi fornisca tutte le informazioni che io riterrò opportuno richiederle, indipendentemente da quanto lei ritenga opportuno rivelarmele. Non voglio ritrovarmi con una denuncia fra due giorni, né scoprire dal giornale che un cinquantenne è morto d’infarto facendo dio solo sa cosa perché un medico incompetente non è stato abbastanza bravo da impedirglielo.
L’uomo si prende qualche secondo per guardarlo come guarderebbe una ballerina di flamenco uscita all’improvviso dalle fogne facendo saltare il tombino con una sventagliata decisa, e poi schiude le labbra.
- …io non sono un cinquantenne, tanto per cominciare. – precisa piccato, - E lei indubbiamente ha una spiccata fantasia. – aggiunge atono, annuendo impercettibilmente, - Ma non accadrà niente del genere. Devo solo allenare la squadra di calcio di mio figlio per i campionati scolastici, niente di—
- Oh, bene, quindi ci sono di mezzo dei bambini. – prende nota Zlatan, serissimo, - Ancora peggio, dunque. Lo sa quanti genitori avanti con l’età muoiono stroncati da un infarto mentre inseguono la progenie? No? Be’, non glielo dico perché non voglio spaventarla, ma sono tanti.
- Oh, ma per favore! – lo interrompe l’uomo, roteando gli occhi, - Sopravvivrò senza alcun problema, ora se vuole—
- No, lei non ha capito. – insiste Zlatan, - Io in genere non occupo questo posto all’interno della struttura ospedaliera. E—
- E questo l’avevo anche capito da solo, guardi.
- E non posso proprio – riprende Zlatan, ignorando la sua interruzione, - non posso proprio rilasciarle questo certificato se non mi fornirà specifiche esatte su quello che andrà a fare sul campo, sul ruolo che andrà a ricoprire, sul numero delle ore che si suppone lei debba impiegare al seguito di questi bambini e—
Zlatan non si era mai reso conto di quanto i lettini ospedalieri fossero scomodi. Probabilmente perché non ne aveva mai utilizzato uno prima d’ora. E, in effetti, non ricorda di aver permesso esplicitamente o anche implicitamente all’uomo che ha di fronte di prenderlo e ribaltarlo sul suddetto lettino, men che meno di baciarlo, poi, perciò si sente pienamente in diritto di ribellarsi, agitandosi come un’anguilla dentro la sua presa ferrea malgrado l’età e provando a spingerlo all’indietro, tutto sommato con scarsi risultati.
- Ma che sta facendo?! – strepita, piantandogli le mani sul petto, non appena lui gli lascia abbastanza spazio da tirarsi indietro, sottrarsi al bacio e ricominciare a respirare. L’uomo non si muove di un millimetro, resta piantato fra le sue cosce e si spinge contro di lui in un gesto secco e immediato, che gli tira via quel po’ di fiato che ancora conservava nei polmoni.
- Volevo zittirla, e questo m’è sembrato il modo più sbrigativo. – si giustifica lui, scostandogli di dosso il camice e tirandoglielo indietro abbastanza da incastrargli fastidiosamente le braccia dietro la schiena. – Adesso però vedo che l’idea potrebbe avere risvolti perfino più positivi di quanto avessi immaginato. – aggiunge con un ghigno in parte sarcastico e in parte compiaciuto.
Zlatan spalanca gli occhi, il respiro che si fa più svelto mentre cerca invano di liberarsi e, dimenandosi insensatamente, non ottiene altro che continuare a strusciarsi con maggior forza contro il suo bacino.
- Che cosa avrebbe intenzione di fare? – chiede, cercando di allontanarsi il più possibile, ma l’uomo gli si avvicina e lo bacia ancora, quasi con violenza.
- Le dimostro la mia sana e robusta costituzione. – risponde lui, soddisfatto.
Zlatan ha appena il tempo di provare a spostare le gambe per, magari, chiuderle, che si ritrova ribaltato, lo stomaco schiacciato contro il materasso sottile e scomodissimo del lettino e le braccia ancora incastrate dietro la schiena, solo che adesso può esercitare su di esse un controllo addirittura minore rispetto a prima, dato che il tizio lo tiene ben saldo con una mano per le maniche e con l’altra per un fianco, rendendogli impossibile qualsiasi tipo di movimento. A meno che non sia un movimento che lo costringa ad urlare per il dolore, ed urlare vorrebbe dire attirare l’attenzione, e attirare l’attenzione vorrebbe dire portare almeno la metà dei suoi cosiddetti colleghi a fare irruzione nella stanza per trovarlo immobilizzato e sottomesso da un nonnetto, in pratica, e se Zlatan vuole avere qualche speranza di sottrarsi al bullismo imperante che Guardiola, con tutte le sue distrazioni, non riesce ad arginare, be’, questa non è una possibilità ammissibile.
- Mi lasci andare immediatamente! – ordina, col più deciso dei toni che riesce a tirar fuori dal fondo dello stomaco, ma tutto ciò che esce dalle sue labbra è un’implorazione impaurita e un po’ strozzata. Il tipo gli sorride sulla nuca, e la schiena di Zlatan si ricopre di brividi.
- Faremo in modo che questa visita duri il più brevemente possibile. – gli sussurra all’orecchio con tono rassicurante, e Zlatan sente il bisogno quasi fisico di urlare. Gli esplode nel petto, gli fa perfino male, ma non cede. E il tipo ride. – Non hai ancora chiesto aiuto. – gli fa notare, e Zlatan sente stridere fastidiosamente nelle orecchie il tu confidenziale che s’è sentito in diritto di usare con lui senza nemmeno chiedergli il permesso. Come non gli ha chiesto il permesso di ribaltarlo sul lettino, d’altronde, e come non chiede il permesso quando gli sfibbia i jeans e li lascia scorrere lungo i suoi fianchi magri e poi lungo le sue gambe, liberandosene celermente per poi tornare a schiacciarsi contro le sue natiche.
Zlatan sente la sua erezione nonostante il tessuto spesso dei jeans, ed il primo pensiero che formula è anche il più assurdo, nonché il più imbarazzante, e cioè che sì, l’uomo qui sembra davvero di sana e quanto mai robusta costituzione. Vorrebbe avere le mani libere per potersi coprire il volto con vergogna, ma sono ancora bloccate, e lui non può fare altro che abbassare lo sguardo e cercare di reprimere i gemiti quando il portoghese lo accarezza fra le natiche con due dita umide, cercando la sua apertura.
- Cristo! – ansima agitato, ed è felice, nell’infelicità, naturalmente, di essere carponi contro il lettino. Così, almeno, non dovrà giustificare di fronte al dannato sorriso supponente di quell’uomo l’erezione prepotente che sta schiacciando sul materasso.
Il tizio, comunque, lascia andare una risatina lieve, impalpabile, terrificante, e spinge le dita in fondo al suo corpo. Senza fretta, quasi senza attrito, costringendolo col movimento del proprio bacino a strisciare lungo la superficie del letto. Zlatan geme a bassa voce quando il materasso accarezza la sua erezione, e geme ancora più forte quando le dita dell’uomo trovano la sua prostata. Può sentire il suo sorriso estremamente soddisfatto sulla pelle del collo, sente la sua lingua tracciare disegni insensati appena sotto il suo orecchio e rabbrividisce, e poi geme ancora, e a quel punto il portoghese sfila entrambe le dita – costringendolo a un mugolio sofferto e impaziente – e subito dopo le sostituisce con la propria erezione, spingendosi a fondo in un unico colpo deciso che spinge Zlatan di parecchi centimetri in avanti sul materasso.
Zlatan annaspa, spalanca gli occhi e schiude le labbra, cerca di inspirare quanta più aria possibile ma è dura, è durissima quando si sente pieno fino a scoppiare e così genuinamente e profondamente sorpreso da tutto da rendersi conto già da solo che dentro di lui non c’è più spazio per nient’altro che non sia lo stupore e il cazzo dello sconosciuto che se lo sta scopando. È la cosa più disturbante che gli sia mai capitata, la più dolorosa e, al contempo, la più eccitante.
Il portoghese gli lascia libere le braccia, e Zlatan le usa immediatamente per ancorarsi ai lati del lettino, cercando di assicurarsi alla struttura metallica per avere la certezza che non cadrà per terra. Continua a gemere ad ogni spinta, sputando fuori l’aria per la quale dentro di lui non c’è più posto, e ad ogni spinta avanza un po’ di più sul materasso, e la sua erezione struscia contro il tessuto plastificato che riveste il lettino, e la frizione, dentro e fuori e attorno a lui, è talmente forte da bruciare, da fargli quasi male, e se non fosse così devastantemente piacevole Zlatan è certo che a questo punto, a dispetto di tutto, comincerebbe a urlare davvero.
E invece l’uomo lo aiuta a sollevarsi dal lettino, a rimettere i piedi per terra, a trovare una posizione migliore, e quando i loro corpi sembrano essersi incastrati così perfettamente da non poter proprio chiedere di più comincia ad accarezzarlo lentamente, per tutta la sua lunghezza, rifiutandosi ostinatamente di seguire lo stesso ritmo delle proprie spinte per frustrarlo ancora di più, per costringerlo a mordersi le labbra e implorare, e Zlatan lo fa, si morde le labbra e implora, ancora, di più, più forte, e il portoghese lo afferra saldamente per un fianco e spinge, spinge, spinge, mentre l’altra mano lo accarezza più velocemente, e quando Zlatan trattiene il respiro ed inarca la schiena e cerca in tutti i modi, in tutti i dannatissimi modi, di non lasciare andare l’uggiolio stremato che spinge per uscire dal fondo della sua gola quando viene, il dannato bastardo si allunga a mordergli la nuca così forte che, un po’ per lo stupore e un po’ per il dolore, Zlatan perde il controllo sul proprio corpo, e quello stupido gemito viene fuori, e Zlatan è senza forze, e si accascia sul lettino come privo di vita, scosso dal suo stesso respiro spezzato e pesante.
È stata la cosa più orribile della sua vita. È stata anche la più bella. Quando entri a medicina non ti dicono che potresti finire a lasciarti scopare da uno sconosciuto stronzo su un lettino scomodissimo il giorno in cui le palle ti girano a mille perché per i tuoi colleghi eri e resti il pivello da bastonare ad ogni occasione favorevole.
Imprevisti che rendono piacevole il mestiere, si dice con un mezzo ghigno, rimettendosi dritto e sistemandosi addosso i vestiti mentre il portoghese, perfettamente soddisfatto e tanto pieno di sé che se l’ego fosse fatto d’elio prenderebbe sicuramente il volo, tira su i pantaloni e li spiega lungo le gambe in pochi gesti mirati e decisi.
Zlatan si siede alla scrivania – non senza qualche difficoltà, ma cerca di non darlo a vedere – recupera un modulo, lo compila, lo firma, sorride serafico e lo passa al bastardo.
- Congratulazioni, signor Mourinho, lei è in perfetta salute. Spero che si diverta, coi suoi bambini.
Il tipo sbuffa una risata divertita, afferra il foglio con un movimento spiccio e lo saluta sbrigativamente.
- Potrei aver bisogno di controlli periodici. – dice, poco prima di abbandonare la stanza.
Zlatan resta immobile per parecchi secondi, giusto per assicurarsi di non trovarlo lì fuori una volta uscito dalla stanza. Poi si alza in piedi, abbandona la sala visite e torna all’accettazione. Alcuni dei suoi colleghi non ci sono più, altri sono andati e tornati, altri non si sono mai mossi. Bojan è seduto sul banco, mangia un enorme muffin al cioccolato e finge di arrossire pudicamente alle battute dei ragazzi sulla sua misteriosa sparizione di più di un’ora.
Quando lo vedono arrivare, sono tutti stupiti del sorriso che gli increspa le labbra.
- Be’? – chiede Gerard, inarcando un sopracciglio, - Ti sei divertito?
Zlatan scrolla le spalle, vago.
- È stata un’esperienza interessante. – risponde, - A voi non dispiace, vero, se lo rifaccio anche domani, mh?
I suoi colleghi lo guardano spalancando gli occhi, increduli.
- Ma dici sul serio? – chiede Xavi, sporgendosi a guardarlo per capire se stia male o meno. Zlatan si limita a sorridere con maggiore convinzione, stringendosi serenamente nelle spalle. Quella delle visite ordinarie potrebbe davvero essere la sua vocazione, dopotutto.
 
 
Bonus.
Bojan si chiude la porta alle spalle e, per qualche secondo, vi rimane appoggiato, cercando di non sorridere come invece vorrebbe fare. Non è mai stato bravo a trattenere dentro di sé le espressioni di gioia – o di qualsiasi altro tipo – comunque, per cui un angolo della sua bocca si ostina a piegarsi verso l’alto in un sorrisino colmo di ansia, emozione e impazienza che è felice Guardiola non possa notare, preso com’è a fingere di interessarsi agli incartamenti che sta visionando, pur di non interessarsi a lui.
- Hai lasciato da parte qualcosa d’importante, prima di venire qui? – chiede atono, firmando documenti senza sollevare lo sguardo dai fogli.
Bojan ci riflette su. Il signor Ortega probabilmente non vedrà la luce di domani, ma al momento non importa.
- No. – risponde placido, - Tutti i pazienti sono stabili e fuori pericolo. – a parte il signor Ortega che è stabile e in pericolo, ma qualcuno troverà sicuramente il  tempo e il modo di occuparsi di lui, dovesse peggiorare ancora.
- Ottimo. – risponde Guardiola, annuendo soddisfatto. Dopodiché si mette in piedi e fa il giro della scrivania, appoggiandosi al bordo con entrambe le mani e guardandolo dritto negli occhi. Bojan comincia a sentire quel familiare formicolio che lo prende sempre al bassoventre e che poi si diffonde in tutto il suo corpo, anestetizzandolo, ogni volta che lui lo guarda in questo modo. – Avvicinati. – dice soltanto, e per Bojan è una richiesta più che sufficiente: si avvicina, sì, e sfila il camice, che lascia cadere a terra senza un pensiero di più, e si inginocchia di fronte a lui non appena è abbastanza vicino da poter sfiorare il suo profilo col proprio.
Accarezza con la punta del naso la sua erezione, ancora nascosta dentro ai jeans, e lascia andare un mugolio grondante di voglia quando una mano di Guardiola scende ad accarezzargli lo zigomo ed il mento, costringendolo a guardare in alto per poi sfiorargli le labbra col pollice in una carezza a tratti riverente e a tratti perfino profanatrice, tanta è la forza con la quale s’impone sulla morbidezza della sua bocca.
Bojan lascia passare il pollice, lo accarezza con la punta della lingua, lo succhia con forza e lo lascia andare solo quando Guardiola geme, e comunque non prima di averlo mordicchiato giocosamente ed averlo trattenuto fra i denti, sorridendo, per un paio di secondi.
Slaccia la cintura, sbottona i jeans e tira giù la zip, gioca con la sua erezione per qualche secondo, prima di sporgersi in avanti ed accoglierla fra le labbra. Guardiola lo afferra per i capelli, dimentico di ogni premura, e Bojan lo lascia fare, permettendogli di essere lui a stabilire il ritmo con cui lui lo prende disinvoltamente fino in gola, senza neanche un gemito  che non sia di puro apprezzamento.
Guardiola ride, scopandogli la bocca senza gentilezza.
- Sei un portento. – commenta divertito, e poi lo costringe ad allontanarsi dal suo cazzo ancora teso, aiutandolo ad alzarsi in piedi. Le sue labbra sono gonfie, arrossate ed umide, ed i suoi occhi sono lucidi di voglia. Guardiola lo trae a sé in un gesto brusco e lo bacia affamato, mentre le mani di Bojan tornano automaticamente a cercare la sua erezione e la accarezzano lente, provocanti, insopportabili.
Guardiola grugnisce, Bojan sorride e, quando osserva tutti i documenti cadere sul pavimento, spinti dalla furia dell’uomo, impaziente di fargli posto sulla scrivania, si lecca le labbra, colmo d’impazienza.
Guardiola lo afferra per i fianchi, lo solleva e lo mette seduto di peso sul tavolo, infilandosi fra le sue cosce e quasi strappandogli via i pantaloni di dosso. Bojan inarca la schiena quando sente la sua erezione premere contro la propria, ed espone il collo ai suoi baci e ai suoi morsi. Le labbra di Guardiola sono calde, insaziabili, lo confondono fino a fargli perdere il senso del tempo, e tutto ciò che riesce a fare è dimenarsi sotto il suo corpo per far sì che le loro erezioni sfreghino l’una contro l’altra ancora e ancora e ancora, e continuerebbe volentieri così all’infinito se Guardiola non decidesse di riprendere in mano la situazione e tirarsi indietro abbastanza da posizionarsi fra le sue natiche.
Il suo cazzo è ancora umido e scivola dentro di lui in una spinta lenta, aiutato anche dall’abitudine e dalla voglia matta che lo scuote da dentro, portandolo a spalancare le gambe e poi serrarle attorno ai suoi fianchi, incrociando le caviglie dietro la sua schiena al solo scopo di trarlo più decisamente contro di sé, per sentirlo più in fondo.
- Piano… - mormora Guardiola, quando lo sente gemere a voce più alta, ma Bojan scuote il capo, i capelli umidi di sudore che gli si appiccicano alle tempie ed al collo, e continua a muoversi sempre più velocemente, tanto che per qualche minuto Guardiola non deve neanche fare la fatica di spingere. Riprende a muoversi, sorridendo intenerito, solo quando il respiro del ragazzo si fa affannoso e stanco, anche se non per questo Bojan rinuncia a dimenare il bacino: gli occhi serrati e le labbra umide appena dischiuse, continua a muoversi e si accarezza distrattamente fra le cosce, mentre Guardiola pianta entrambe le mani sulla scrivania, ai lati del suo corpo, e detta al loro amplesso un ritmo diverso, più forte, quasi animalesco. E Guardiola ringhia, piegandosi sul corpo di Bojan scosso dai brividi dell’orgasmo che esplode fra le sue dita e i loro corpi, e gli morde le labbra, il lobo, il collo, la spalla, spingendosi con più forza possibile dentro di lui finché non sente l’orgasmo scaldargli il ventre. Solo a quel punto smette di muoversi, esce dal suo corpo e si masturba sbrigativamente, fino a venirgli addosso, qualche schizzo che sfugge al controllo andando ad imbrattargli il viso, e Bojan è semplicemente splendido mentre strizza un occhio, più per posa che per paura di essere colpito davvero, e si passa provocatoriamente un dito sopra la guancia, raccogliendo qualche goccia del suo piacere per portarla alle labbra, in un timido tentativo di assaggio, guardandolo dritto negli occhi.
Guardiola ride, scuote il capo, gli accarezza una guancia e lo bacia celermente sulle labbra, prima di porgergli una salvietta ed aiutarlo a ripulirsi e risistemarsi.
- Sei un portento, davvero. – gli ripete, - Un vero talento nel tuo campo.
- Sta per caso lasciando intendere che il mio campo non sarebbe quello della professione medica, dottor Guardiola? – ridacchia lui, un po’ prendendolo in giro e un po’ semplicemente flirtando. Guardiola ride ancora e lo bacia un’ultima volta.
- Torna al lavoro, Krkic. – lo saluta con un cenno del capo, mettendosi a raccogliere i documenti sparsi per terra. Bojan saluta a propria volta, recuperando il camice e abbandonando la stanza, e per un secondo pensa al signor Ortega e si chiede se non dovrebbe per caso magari passare a trovarlo.
Lo farà più tardi, decide alla fine. Prima ha voglia di un muffin.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bojan Krkic/José Mourinho, nominati/accennati/presenti in qualche modo Bojan Krkic/Pep Guardiola, José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic, Pep Guardiola/Zlatan Ibrahimovic. Troiaio, we haz it.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash, Outdoor!Sex.
- "Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti."
Note: Questa storia è nata dalla suggestione visiva della mia icon e di quella della Jan che si susseguivano ossessivamente su Twitter. Pareva che si guardassero, e la cosa mi turbava profondamente. Cioè, dovevo scriverci su. Ed a darmi un pretesto ci ha pensato il mio cervello, spruzzando ovunque Pep, Zlatan e tutta una serie di altre robe di cui non ha senso parlare adesso, perché tanto le troverete all'interno della storia, se avrete voglia di leggerla.
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Easier Than The Truth


– Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti.
Bojan guarda Thierry, poi la vodka alla fragola che gli è appena stata poggiata sul tavolo senza che lui avesse bisogno di ordinarla, poi Mourinho, qualche tavolo più in là, apparentemente intento a guardare altrove e farsi i fattacci propri, e solo alla fine torna a guardare Thierry.
– Ma è solo stato gentile. – prova, stringendosi nelle spalle, mentre tutti i suoi compagni di squadra lo fissano come gli fosse improvvisamente sbocciato un fiore in mezzo alle cosce.
– Boji, – mormora Lionel, massaggiandosi stancamente le tempie, – lascia che ti spieghi una cosa, sugli uomini: non conoscono gentilezza, non saprebbero neanche sotto quale lettera cercarla sul vocabolario. Tutto quello che vogliono è portartisi a letto e andarsene alle prime luci dell’alba senza neanche salutare.
Numerosi sguardi gli si posano addosso, quando smette di parlare, ed in particolare a nessuno sfugge il “ma parla per esperienza personale?” di Pedro, che viene prontamente zittito da Gerard, il quale si premura di ficcargli in bocca la cannuccia del suo succo di pera lievemente corretto prima che, dopo aver sbraitato un “checcosa?!” pressoché animalesco, Lionel decida di abbattere la propria furia sulla sua svampita persona.
Bojan si disinteressa quasi subito della dinamica della faccenda – più o meno nell’esatto momento in cui Lionel si alza in piedi, salta sul tavolino e poi lo usa come rampa di lancio per scaraventarsi addosso a Pedro e cominciare poi a rotolare senza senso per il pavimento di tutto il locale – prima di tutto perché sta con Pep da ormai quasi un anno ed è abbastanza convinto di poter dare lezioni su cosa si possa aspettare un ragazzo da un uomo, e secondo poi perché preferisce voltarsi verso Mourinho, alla ricerca di un qualsiasi segno del suo supposto interesse.
Il problema è che lo trova: Mourinho lo sta guardando con attenzione, e i suoi sono occhi invadenti, quasi maleducati, perché non esitano a dosare l’intensità che possiedono per spogliarlo tutto e farlo sentire completamente nudo in mezzo al locale, al punto che lui sente quasi il bisogno fisico di stringersi in un abbraccio protettivo, come a cercare di schermarsi da quello sguardo così insistentemente indiscreto da dargli perfino fastidio.
Non sa se sia stato il discorso di Lionel ad influenzarlo, ma a questo punto non conta neanche tanto: ciò che conta è che, quando esce dal locale diretto alla macchina ed attraversa il parcheggio ormai semivuoto, non si stupisce nel vedere Mourinho appoggiato contro lo sportello chiuso della propria autovettura, le braccia incrociate sul petto e sul volto la tipica espressione vacua di chi, annoiato, aspetta qualcuno già in ritardo.
– Ce ne hai messo, di tempo. – gli fa notare, il tono quasi irritato. Bojan si volta verso di lui ed abbassa immediatamente gli occhi, in imbarazzo.
– Mi dispiace. – mormora, senza sapere effettivamente per cosa dovrebbe dispiacersi, – La ringrazio per il drink che mi ha offerto prima, anche se non ho ben capito perché—
– Perché voglio portarti a letto. – dice lui, senza attendere un secondo. I suoi occhi sono caldi e decisi, così come il tono della sua voce. Bojan non sa se sia colpa della suggestione, della situazione o solamente della vodka, ma la schiena gli si riempie di brividi ed il cuore gli salta in gola nell’esatto momento in cui Mourinho si allontana dalla propria macchina, dirigendosi verso di lui.
– Mi— Mi dispiace, – biascica, – ma io non—
– Tu non? – sorride Mourinho, avvicinandoglisi abbastanza da sfiorare il suo profilo col proprio. Bojan sente il suo corpo pressato contro, e la sua erezione, prepotente ed evidente anche sotto i pantaloni che indossa, gli sfiora una coscia.
– Io non… – prova a insistere, ma non trova le parole, perciò si morde un labbro e cerca di cambiare argomento. – Perché? – chiede con un filo di voce. José sorride ancora e si allontana da lui, solo qualche centimetro, lo spazio necessario per far passare un braccio fra i loro corpi, afferrarlo per un gomito e spingerlo senza la minima delicatezza contro lo sportello chiuso della macchina.
Il metallo della portiera ed il vetro del finestrino sono freddi, e quel freddo passa attraverso il cotone leggero della polo che indossa, gelandogli lo stomaco.
– Perché – risponde José, pressandosi contro di lui finché Bojan non sente la sua erezione quasi fra le natiche, – sei bellissimo. – le sue labbra umide sfiorano la sua nuca ad ogni parola. Bojan trema e non può impedirsi di gemere. – Non ti sembra una motivazione sufficiente?
– Neanche… – balbetta a corto di fiato, – Neanche mi conosci.
– E dovrei? – chiede lui, quasi divertito, stringendogli un braccio dietro la schiena e vagando con la mano libera nello spazio minuscolo che c’è fra il suo bacino e lo sportello. Bojan ascolta il lieve suono della cintura slacciata, del bottone sfilato dall’asola e della zip tirata giù con calma, quasi con troppa cura, e poi chiude gli occhi e si morde un labbro quando la mano di José scivola oltre l’elastico dei suoi slip, fra cosce che nemmeno si premura di fingere di tenere serrate. – Non mi sembra che il tuo corpo abbia problemi, col trovarmi uno sconosciuto.
Bojan geme ancora, più forte, quando le sue dita si chiudono attorno alla sua erezione. Tira su il braccio che Mourinho non gli tiene serrato contro la schiena e lo appoggia al tetto della macchina, nascondendovi contro il viso. Una parte di lui si vergogna terribilmente: sente il venticello notturno accarezzargli la pelle umida e bollente e si rende conto di essere all’aperto, in un luogo incredibilmente esposto come un parcheggio sul retro di un locale, e poi se si concentra abbastanza riesce a sentire la voce di Pep, che poi è la stessa voce con cui lo accoglierà quando riuscirà a tornare a casa, a chissà che orario, una voce un po’ stanca ma tutto sommato felice che gli chiede “ti sei divertito fuori con i ragazzi?”, e tutte queste cose insieme lo confondono e lo irritano e lo imbarazzano e lo fanno sentire una troia.
D’altra parte, la mano di Mourinho si muove con tanta disinvoltura attorno alla sua erezione che ogni particolare spiacevole si scioglie in una nuvola leggera come il vapore, ed è facile per Bojan dissiparla con un gesto quando Mourinho, consapevole del fatto che non scapperà di certo adesso, lascia andare il braccio – che peraltro cominciava a dolere – per abbassargli i pantaloni e gli slip e cominciare ad accarezzarlo fra le natiche, senza per questo dover smettere di prendersi cura della sua erezione.
Bojan chiude gli occhi e lo lascia fare, ma il suo atteggiamento non è quello tipico di un succube che si sottopone a qualcosa di sgradevole perché lo trova inevitabile: un succube non si dimenerebbe contro l’eccitazione di un altro uomo per averla dentro di sé il più presto possibile, un succube non geme oscenamente per ogni carezza e per ogni cambiamento di ritmo solo perché le scariche di piacere che lo assalgono vanno facendosi sempre più violente, al punto da dargli l’impressione di potere impazzire, un succube non si volta indietro a cercare labbra di cui ancora ignora il sapore, e non viene fra dita praticamente sconosciute non appena quelle stesse dita stringono un po’ la presa e lo accarezzano più velocemente, con maggiore decisione, inseguendo il ritmo erratico delle spinte di un bacino diverso a quello cui è abituato, che ama, che non avrebbe mai desiderato tradire in quel modo.
Quando Mourinho viene dentro di lui, stringendolo per i fianchi con tanta forza che da lasciarlo quasi pietrificato per l’irrazionale paura dei segni che potrebbero rimanergli stampati sulla pelle, Bojan si lascia andare ad un singhiozzo stremato, abbattendosi contro la macchina come privo di forze, e se non piange è solo perché prova troppa vergogna perfino per versare anche una sola lacrima.
– Non darti troppa pena. – lo rassicura Mourinho, ripulendolo con una salvietta umida tirata fuori da chissà dove, con una cura quasi paterna, senza che a lui neanche passi per l’anticamera del cervello la possibilità di fermarlo. D’altronde, riflette distrattamente, sarebbe ridicolo fermarlo adesso quando fino a pochi secondi fa l’ha lasciato disporre del proprio corpo come fosse suo. – Non è stato che sesso. Non significa niente.
Bojan si volta a fatica, scrutandolo con aria un po’ incerta.
– Perché? – chiede di nuovo, e Mourinho gli lascia scorrere addosso un’occhiata lunga e penetrante, come volesse spaventarlo al punto da farlo desistere da quella sciocca intenzione di provare a sondare i suoi pensieri. Bojan, comunque, non cede.
– Perché il tuo uomo ha messo le mani su qualcosa di mio. – concede quindi José, pulendosi le mani con un’altra salvietta, – Ed io non sono uno che si lasci rubare qualcosa di proprio da sotto il naso senza ristabilire istantaneamente le posizioni. Fallo sapere, questo, a Pep.
Bojan non risponde. Sconvolto, gli occhi sgranati, resta immobile senza neanche terminare di rassettarsi i vestiti. La cinghia della sua cintura, quando José gli chiede di spostarsi per lasciarlo libero di rientrare in macchina e poi partire, allontanandosi sgommando nella notte, tintinna come un campanello, e lo riporta alla realtà più del rombo del motore della Mercedes.
Deglutisce a fatica e cerca il proprio cellulare nella tasca posteriore dei jeans. Lo estrae, compone a memoria il numero di Pep e, quando lui non risponde, controlla l’orario. Sono le dieci e mezza, gli aveva detto che non sarebbe tornato a casa prima di mezzanotte. Qualcosa, nel centro del suo petto e, contemporaneamente, all’altezza delle sue tempie, comincia a pulsare. È solo un fastidio, in un primo momento, e quando comincia a diventare dolore Bojan non se ne accorge. Sale in macchina, scaccia via le lacrime e parte.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lime.
- Alcuni si sentono più sereni nell'ascoltare musica ad occhi chiusi. Altri preferiscono passeggiare per strada. O leggere un libro. A José piace andare a dormire con Zlatan che gli accarezza i capelli. E cos'è che rende sereni voi?
Note: La fiamma è accesa, omg \o/ Non ricordo più nemmeno da quanto non scrivevo una Jobra come si deve. *piange sangue* Stupidi pairing estemporanei che mi distraggono dall'Unico Vero Dio. *si vota al Jobra promettendo di chiamare tutti i suoi figli maschi José e Zlatan con numeri romani in coda al nome per distinguerli gli uni dagli altri* Ehm.
Dunque, blasfemie randomiche a parte, in realtà questa non è una fic ma un concentrato di vari flash Jobra che mi hanno attraversato la mente nelle ultime settimane grazie ad un po' di gente con cui ho parlato (credit: Martha, Def ed Any). Dal momento che scrivere tutte fic differenti avrebbe portato ad un milione di inutili e inconsistenti doppi drabble, ho preferito dare al tutto una parvenza di coerenza con la realtà e scrivere una fic unitaria XD Che poi comunque è molto spezzettata lo stesso. Però ho passato delle ore fra Inter.it, Fcinternews.it e Fcbarcelona.cat per andare recuperando tutte le informazioni che mi servivano XD E ciò mi ha portato ad odiare il mondo - le RPF sono le fic più stressanti dell'universo, ma è anche per questo che ci piacciono.
Titolo rubato a un verso di Home dei Simply Red.
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Home Is A Place Where I Yearn To Belong


Quando, la notte a cavallo fra il diciannove e il venti febbraio, José sentì qualcuno battere una serie di colpi potenti e decisi contro la porta della sua camera ad Appiano, per un secondo i polmoni gli saltarono in gola, e lì rimasero, quasi soffocandolo, mentre il suo cuore ricollegava automaticamente quel modo di bussare a Zlatan e il suo cervello cercava inutilmente di ricordargli che aspettarsi una sua visita lì in ritiro a quell’ora di notte era quantomeno ridicolo.
Si mise in piedi quasi con circospezione, avvolgendosi nella propria vestaglia e cercando invano di combattere il freddo notturno che entrava nonostante le finestre sbarrate, strofinando le mani l’una contro l’altra e poi lungo le braccia, nude come il petto al di sotto del tessuto in lana leggera.
- Chi è? – chiese a bassa voce, accostando l’orecchio alla porta in attesa di una risposta che giunse pochi secondi dopo, forte e chiara, del tutto dimentica del bisogno di fare silenzio, a quell’ora e in quel posto, per non svegliare nessuno.
- Il postino. Ma non intendo suonare un’altra volta, quindi se non apri prendo e me ne torno a Barcellona col primo aereo di domani.
Era Zlatan.

*

Seduto sul letto, Zlatan rimirava una fotografia plastificata che aveva trovato proprio lì sul suo comodino, qualche secondo prima, dopo aver gettato il borsone accanto alla porta e il giubbotto su una poltrona non tanto distante.
- Ce ne hai messo di tempo, per venire ad aprire. – gli fece notare, senza staccare gli occhi dalle numerose croci che coprivano i visi dei giocatori e dei membri dello staff che non facevano più parte della squadra per la nuova stagione, - E, Dio mio, Zay, che cosa macabra. Ma come ti è saltato in mente? Sembra una qualche stronzata voodoo.
- Non lo è. – borbottò José, avvicinandoglisi e strappandogli la foto dalle mani, - Ma che ci fai qui, Zlatan?
Lo svedese gli sollevò gli occhi addosso per la prima volta da quando era arrivato, e lo studiò attentamente per qualche secondo, prima di sospirare profondamente.
- Il Mister non mi ha convocato per la partita contro il Racing. – confessò, tornando ad abbassare lo sguardo, la voce ancora ferma e serena come stesse parlando della lista della spesa piuttosto che di un palese fallimento professionale, - Quando sono uscito dalla Masia, mi sono guardato intorno ed ho odiato Barcellona così tanto che ho temuto di poter arrivare a fare una pazzia. Perciò ho chiamato Helena, le ho detto di non aspettarmi per un paio di giorni e mi sono fiondato in aeroporto.
José sospirò a propria volta, sedendosi accanto a lui, la fotografia ancora trattenuta mollemente fra le dita.
- Non dovresti essere qui. – lo rimproverò a bassa voce, - Fra tre giorni avete una partita di Champions League. Se anche non giocherai domani contro il Racing, non puoi permetterti di perdere giorni di preparazione per-
- Sono in dubbio anche contro lo Stoccarda. – concluse Zlatan, lapidario, - E se avessi ammazzato Guardiola a mani nude come volevo fare quando ha annunciato le convocazioni, sarei stato in dubbio ancora per un lungo periodo di tempo. – sorrise debolmente, lanciandogli un’occhiata un po’ incerta, - Ho preferito evitare.
José si allungò a posare la foto sul comodino, dove era rimasta fino a prima dell’arrivo di Zlatan, e poi gli accarezzò lentamente una guancia, guardandolo con attenzione.
- Sei capitato in un brutto momento. – disse, quasi giustificandosi, - Non stiamo andando bene come dovremmo.
Zlatan sorrise, un po’ tristemente, seguendo il movimento delle sue dita contro la sua guancia e il suo zigomo.
- L’Inter non lo fa mai. – commentò, - Per i giornalisti, c’è sempre qualcosa in più che poteva essere fatto e invece non è stato fatto.
- No. – scosse il capo José, aggrottando le sopracciglia, - No, non stiamo andando bene come io vorrei. – precisò, mentre lo sguardo di Zlatan si faceva più serio, e perfino vagamente più preoccupato. – Non so quanto intendi rimanere, e non so cosa sei venuto a cercare, ma non è detto che possa dartelo. Ho i nervi a fior di pelle, e-
- Così mi offendi. – lo prese in giro Zlatan, tirandogli una mezza spallata giocosa, - Non mi sono mica fatto mille chilometri solo per venire a scopare con te, special one. Sei speciale, ma non ce l’hai d’oro.
José rise, ricambiando la spinta e poi restandogli vicino, in modo da continuare a sfiorarlo e sentire il tepore della sua pelle nonostante i vestiti.
- Non riesco ad immaginare altre utilità per la mia persona, in questo momento. – si schernì con un sorriso amaro.
- Cristo, siamo già all’autofustigazione. – roteò gli occhi Zlatan, sfilandosi velocemente di dosso maglia e pantaloni ed infilandosi sotto le lenzuola ancora calde del corpo di José, prima di allungarsi ad afferrarlo per le spalle, strattonargli via la vestaglia e trarlo a sé fra le coperte, costringendolo a stendersi al suo fianco, - Meno male che io riesco ad immaginare un’utilità per la mia, di persona, adesso.
José si sistemò accanto a lui, poggiando il capo nell’incavo della sua spalla e chiudendo serenamente gli occhi nel momento in cui Zlatan cominciò a far passare le dita fra i capelli sulla sua fronte e sulle sue tempie.
- Questo mi manca. – sussurrò in un raro accesso di sincerità, - Non hai idea di quanta serenità era in grado di darmi prima delle partite difficili.
Zlatan si morse un labbro, restando in silenzio per molti secondi, prima di chinarsi sulla sua fronte per poggiare un bacio lieve e un po’ umido sulla sua pelle accaldata e corrucciata dalla preoccupazione.
- Dormi. – disse con un sorriso, ascoltandolo respirare più tranquillamente, - Andrà tutto bene.

*

L’indomani mattina, José si svegliò col brusio della televisione in sottofondo. Aprì gli occhi e vide Zlatan  sdraiato al suo fianco, appoggiato sui gomiti, il telecomando in una mano e lo sguardo ancora un po’ imbrattato di sonno fisso sullo schermo. Era vestito.
- Hai già visto i ragazzi? – gli chiese, rigirandosi sul materasso. Zlatan si riscosse dal semi-torpore in cui sembrava essere caduto, e si voltò a guardarlo con un sorriso a increspare le labbra.
- No, non ancora. Stavo per uscire. – rispose, e poi si prese una pausa, mordicchiandosi nervosamente un labbro. – Ho visto te, però. – riprese incerto, - La conferenza stampa. – sospirò e si voltò verso di lui, abbassandosi anche un po’, in modo da poterlo guardare senza dover girare il capo. – Zay, - lo chiamò piano, la voce venata di preoccupazione, - te lo chiederò solo una volta, perciò cerca di essere sincero. Sforzati. – inspirò ed espirò profondamente, prima di chiederglielo. – Stai bene?
- Sì. – rispose immediatamente José, senza neanche darsi la pena di restare a pensarci qualche secondo.
Stava mentendo. Zlatan se ne accorse.

*

- Hai le spalle forti, - gli disse, prima di lasciarlo andare in panchina e rintanarsi in qualche Sky Box dove nessuno avrebbe potuto vederlo, e chi l’avesse visto sarebbe stato adeguatamente pagato per tacere, - ma non sei indistruttibile. Quindi cerca di stare attento.
José distolse lo sguardo e la prima cosa che fece quando si sedette in panchina fu spegnere il cervello.

*

Ore dopo, si sarebbe rivisto incrociare i polsi di fronte al mondo, con lo sguardo fisso nel vuoto, e non si sarebbe riconosciuto.

*

- Dimmi che resterai. – gli sussurrò sul collo, facendosi spazio fra le sue cosce mentre Zlatan lo accoglieva dentro di sé e fra le sue braccia con un gemito di gola, - Ho bisogno di te, contro il Chelsea.
- Io non gioco più per questa squadra, Zay. – gli rispose dolcemente lui, baciandolo lungo il collo, - Non chiedermi di giocare ancora per te.
- Ti sto chiedendo di restare. – insistette José, spingendosi con forza dentro di lui e strappandogli ogni ansito di piacere dalle labbra, un bacio dopo l’altro, - Per me.
Zlatan dischiuse gli occhi, cercando i suoi e sollevando una mano per accarezzargli il viso. Era una sensazione incredibile, si disse José, abbassandosi a baciarlo ancora, la consapevolezza di potergli fare tanto male e tanto bene nello stesso momento.
- Dimmi che resterai. – ripeté stringendo la sua erezione fra le dita ed accarezzandolo al ritmo delle proprie spinte, - Resterai?
Zlatan venne chiudendo gli occhi con tanta forza da lasciarsi sfuggire una lacrima. Minuscola, trasparente, quasi inconsistente.
- Sì. – rispose alla fine, tornando a respirare mentre José veniva dentro di lui, - Sì, resterò.

*

- Avevi detto che saresti rimasto.
Zlatan non riuscì neanche a sollevare il viso per guardarlo.
- Il mister mi ha convocato, Zay. – cercò di giustificarsi, - Non posso e non voglio dire di no. Non fare scenate.
- No. – quasi ringhiò lui, stringendo i pugni lungo i fianchi, - No, io non devo mai fare scenate. Tu puoi promettere al mondo i mari, i monti e la luna, ed il mondo non ha nessun diritto di lamentarsi se poi tu non sei in grado di regalargli neanche un granello di sabbia. Naturalmente.
- Sono rimasto finché ho potuto. – si difese Zlatan, tornando a cercare i suoi occhi. José non glieli aveva mai negati, ma per la prima volta, solo per un secondo, nell’osservare quanta delusione ci fosse, mischiata alla rabbia e ad un’irrazionale paura che Zlatan, a mesi di distanza, non riusciva ancora a spiegarsi, nonostante tutte le rassicurazioni che gli aveva fornito, desiderò ardentemente che invece l’avesse fatto. Solo per quella volta, solo per un secondo.
- Ti avevo chiesto di restare. Avevi detto di sì.
- Sì, be’, - borbottò lui, passandosi una mano fra i capelli e distogliendo lo sguardo per primo, - non ho mai detto che sarebbe stato per sempre.
José rimase in silenzio, le labbra dischiuse, le mani tremanti. Zlatan poteva sentire la sua rabbia crescere esponenzialmente, gonfiarsi come un pallone aerostatico, alimentata da un fuoco perfino più caldo.
- Già. – disse, chinandosi a recuperare il suo borsone ed avvicinandosi per schiacciarglielo contro il petto, - Già, non l’hai mai fatto, d’altronde. E ora vai pure da Guardiola, ammesso che tu sia mai davvero arrivato qui, in primo luogo. – Zlatan fece per ribattere, ma José lo spinse lontano da sé con tutto il borsone, guardandolo con astio. – Te ne sei almeno accorto? Che c’ero io, in quel letto, e non Guardiola? Riusciresti a riconoscere la differenza?
- Questo – boccheggiò Zlatan, stringendo al petto la borsa come uno scudo, - Questo è scorretto, José.
- Scorretto. – sorrise amaramente José, uscendo dalla stanza senza guardarlo ancora, - No, questo è vero. Rivedi il tuo italiano, Zingaro. Troppo spagnolo te l’ha fatto dimenticare.

*

Guardare gli highlight e rendersi effettivamente conto del fatto che Guardiola ci aveva visto giusto, a richiamarlo a casa, visto che era stato solo grazie al gol di Zlatan che il Barça era riuscito a lasciare Stoccarda senza perdere, non lo consolò.

*

- Non ho tempo per te, adesso. – disse gelida la voce di Zlatan, rispondendo alla chiamata al secondo squillo, - Sono in un posto che amo, sono nella squadra in cui voglio giocare. José, finché non capirai questo, fra noi due ci sarà per sempre qualcosa fuori posto.
Tu sei fuori posto, zingaro. – rispose José. Avrebbe voluto poter continuare ad essere arrabbiato. – Non è lì che dovresti stare.
- Ma è qui che voglio stare. – insistette Zlatan, concitato, - Rispettalo, José. Rispettami.

*

- So che sei lì. – disse Zlatan, parlando alla segreteria telefonica, - So che sei lì e so che vorresti rispondere, ora che sai che sono io. Non farlo. Non è possibile parlare con te, perciò ascoltami e basta. Non avrei mai voluto che questa cosa ti piombasse fra capo e collo alla vigilia della fottuta partita col Chelsea, ma Cristo, Zay, prima o poi doveva venire fuori per forza. Era inevitabile, Zay, il modo in cui andava avanti non era giusto per nessuno di noi due. Le croci sulle facce, e le recriminazioni, e le accuse, e le litigate… - José lo sentì sospirare, ma rimase seduto in poltrona, le mani congiunte ai lati del naso, lo sguardo fisso sulla parete di fronte. – Devi venirne fuori, Zay. E quando ne sarai fuori, io sarò lì.

*

Non gli era mai capitato di essere così nervoso per una partita che stava vincendo.
Scese negli spogliatoi dieci minuti prima della fine del primo tempo, e lì rimase a camminare avanti e indietro all’interno della sala ovale chiedendosi cosa dire. Qualcosa avrebbe dovuto dire comunque, in ogni caso, ma per la prima volta nella sua vita non aveva idea di cosa. Caricare la squadra era sempre stato facile, in passato. Quando si era sotto, la partita doveva essere una guerra di conquista. Quando si era in vantaggio, invece, doveva essere come presidiare un forte, ma senza attendere i nemici al varco, piuttosto cercandoli ovunque, per costringerli a venire fuori.
In quel preciso istante, invece, avrebbe voluto avere solo le parole giuste per calmarli tutti. Per dire loro “lo so che in Campionato è dura, che siamo tutti nervosi, che io da solo lo sono anche più di voialtri messi assieme, ma questa è un’altra cosa. Questa è l’Europa, e bisogna portare il risultato a casa così che tutti vedano cos’è l’Inter. Bisogna andare avanti per ascoltarli tutti sciogliersi in elogi sperticati e gratitudini sconfinate – e poi ridere di loro”.
Ripeté quello stesso discorso a se stesso un paio di volte, guardandosi fisso nello specchio, e non suonò bene come avrebbe voluto. Al terzo tentativo, desiderò prendersi a schiaffi – e invece infilò una mano nella tasca del cappotto, e ne tirò fuori il cellulare. Lo schermo spento e lucido gli rimandò indietro il viso di un uomo stanco e solo. Uccise il riflesso nell’unico modo che gli venne in mente.
- Sei nervoso? – chiese Zlatan senza neanche dire “pronto”, accettando la chiamata forse anche prima che il suo cellulare si mettesse a squillare, - Non esserlo. Vi sto guardando, andrà tutto bene.
José sospirò, abbandonandosi su un seggiolino a caso e massaggiandosi stancamente la radice del naso.
- Non mi hai mai detto… - cominciò incerto, - Non mi hai mai detto se c’era qualcosa di me che riusciva a renderti sereno.
Zlatan ridacchiò piano, dall’altro lato della cornetta ed anche dell’Europa.
- Sì. – rispose, la voce dolcissima come José non ricordava più di averla mai sentita, - Quando mi svegliavo, la mattina di una partita, in ritiro, e sentivo l’acqua scorrere in bagno, mi alzavo, ti raggiungevo e vedevo che ti stavi facendo la barba. Mi… - rise ancora, un po’ in imbarazzo, - mi sedevo sullo sgabellino, quello fra il lavandino e la doccia, e tu, senza nemmeno guardarmi, cominciavi il riepilogo tattico della partita. – José rise a propria volta, assieme a lui. La sua risata risuonò per tutto lo spogliatoio vuoto, ma era allegra. – Quello mi rasserenava. Sembravi sempre così tranquillo. Come facevo ad avere paura?
Avrebbe voluto averlo vicino, in quel momento. Poter allungare un braccio e sentire sulle dita il calore della sua pelle. Anche solo per un attimo. Lui, che aveva sempre creduto nei miracoli solo quando meritati, per un secondo si ritrovò a pregare per un miracolo che non aveva fatto niente per guadagnarsi. Ridammelo. Solo per un secondo.
- Grazie. – disse. Zlatan non sarebbe apparso comunque.
- Non c’è di che. – rispose lui. – Zay… - sussurrò, prima che riuscisse a interrompere la chiamata, - Io non ho dimenticato niente. E non ti confondo con nessun altro.
José annuì, accarezzando il cellulare con il pollice, come fosse il suo viso.
- Lo so.

*

Scendendo negli spogliatoi per l’intervallo fra il primo e il secondo tempo, la squadra lo trovò davanti allo specchio, insaponato e con un rasoio in mano, intento a farsi la barba. Stupiti dalla stranezza, i ragazzi, incerti sul da farsi, presero posto sulla lunga panchina davanti alla fila di lavandini ed osservarono le sue mani muoversi attentamente, con estrema calma, come fosse solo nel bagno di casa sua.
- Mister…? – accennò Javier, dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio, - È… è tutto a posto?
José sorrise a se stesso ed ai suoi giocatori, attraverso il riflesso dello specchio.
Poi, senza nemmeno guardarli, cominciò il riepilogo tattico.

*

- Non ricordo di aver mai visto una nevicata simile a Barcellona. – rise José, il naso schiacciato contro la finestra e gli occhi fissi sul mare, - A così pochi giorni dalla primavera, poi!
Zlatan ridacchiò ironico, rigirandosi fra le lenzuola.
- Potresti smetterla di essere entusiasta come un ragazzino? – lo prese in giro, - È molto meno bella quando ti devi allenare nella tormenta.
- Be’, adesso non ti stai allenando. – gli fece notare José, - Potresti anche alzare il culo e venire a goderti lo spettacolo.
- Oppure, - propose lui, stendendosi supino e stiracchiandosi per tutta la propria lunghezza, certo che José avrebbe guardato il suo riflesso sul vetro, - potresti tornare a letto.
José si voltò a guardarlo, sorridendo ed inarcando le sopracciglia.
- È un invito? O un ordine? – chiese malizioso, e Zlatan si morse il labbro inferiore.
- Dipende da che gioco vuoi giocare. – rispose ricambiandogli l’occhiata.
José tornò verso il letto, sedendosi sulla sponda ed osservandolo dall’alto, quasi senza osare toccarlo.
- Eccoti. – lo salutò, sorridendo più sincero.
- Bentornato anche a te. – rise Zlatan, prima di sollevarsi a baciarlo.
Fuori dall’albergo, su tutta Barcellona, continuò a nevicare per ore. José avrebbe voluto il tempo per contare i fiocchi, e le ore, e i minuti, e ricordare tutto una volta tornato a Milano, ma si limitò a contare i gemiti di Zlatan, e le volte in cui lo chiamò per nome, dimentico di tutto il resto, finalmente a casa, nell’unico posto possibile – un luogo senza coordinate perso fra le sue spalle, i suoi capelli, i suoi fianchi e le sue mani. L’unico solo per loro.
Genere: Commedia.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Per quanto mi riguarda, in quella città di merda puoi viverci e morirci anche, zingaro, tu da oggi in poi con me hai chiuso."
Note: Dunque, questa fic è stata ispirata principalmente da questo articolo sul sito della Gazza, e poi in parte anche da un dialogo su Twitter fra Def e Any X'D In pratica stavamo tutti cercando un motivo che fosse uno per trovare apprezzabile quanto da Zlatan dichiarato recentemente al Periodico e, non trovando niente, abbiamo dovuto fare da noi, insomma.
Titolo rubato ad un verso di Jealousy dei Queen.
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Jealousy, You Got Me Somehow


- Per quanto mi riguarda, - comincia José senza neanche salutarlo, - in quella città di merda puoi viverci e morirci anche, zingaro, tu da oggi in poi con me hai chiuso.
- …Zay? – cerca di capire lui, fissandosi nello specchio mentre si sistema il colletto della giacca, dato che José l’ha preso un attimo prima che fosse pronto per uscire ed andare all’allenamento, - È tutto a posto?
- No che non è tutto a posto! – ringhia lui dall’altro capo del telefono, a mille chilometri di distanza, - E non zayeggiarmi, zingaro, stavolta non ti salverà chiamarmi col mio soprannome!
- Non mi salverà da cosa, Zay? – insiste lui, vagamente perplesso.
- Da me che non voglio più vedere la tua stupida faccia finché campo! – risponde José, fuori di sé dalla rabbia, - E piantala di chiamarmi Zay, una buona volta!
- Ma perché?! – cerca di capire Zlatan, gesticolando con la mano libera, adesso infastidito dal suo comportamento, - Che cos’ho fatto?! Sei ubriaco? Ti sei svegliato con la luna storta? I tuoi attaccanti maggiori si sono tutti rotti il femore e sarai costretto a giocare solo con Mario, l’austriaco e Ricky da qui alla fine del Campionato? Spiegati!
José lascia andare un ringhio lungo e basso, di gola, che cresce in volume ed intensità col passare dei secondi e si trasforma in un abbaiare scomposto appena si decide a riprendere a parlare.
- C’è che sei una troia! – motiva, e Zlatan lo immagina saltellare sul posto con aria isterica, fissandosi nello specchio con sguardo vacuo, - Ti piace così tanto il tuo Pep? È così tanto migliore di me? Bene! Io non ho problemi! Mi spiace solo che non possiate fare insieme un milione di bambini, perché pensa che meraviglie ne verrebbero fuori! Ma sì, vacci pure a cena, infilati nel suo letto, fatti sposare, fai quello che cazzo vuoi, io non-
- Zay! – lo interrompe all’improvviso, una volta compresa la matrice del problema, - Cristo santo, non ci sono andato a cena, ho solo detto che mi ha invitato, ed è stato molto carino a farlo, visto che qui non mi caga nessuno! Poi io ho detto “no, grazie, preferisco tornare a casa” e allora lui, prima di lasciarmi andare, mi ha chiesto come stessi, se la mia famiglia si fosse ambientata e se avessimo bisogno di qualcosa! Chiaro?
José rimane in silenzio per molti secondi, Zlatan non riesce nemmeno a sentirlo respirare.
- Quindi non…
- No.
- E tu nemmeno vorresti che…
- No, Zay! Andiamo! – sbotta lui, sollevando gli occhi al cielo.
José si prende qualche altro secondo di riflessione, prima di respirare profondamente.
- Senti, c’è un diretto in partenza stasera verso le sette. – dice quindi, - Pensavo di prenderlo per venirti a pestare di persona, ma posso sempre prenderlo lo stesso e variare lo scopo della visita.
Zlatan ride, sebbene il tono di voce di José sia serissimo, quasi professionale.
- Ti aspetto. – risponde, - Magari Pep a cena lo invitiamo noi. – suggerisce con un sorrisino malizioso.
José lo manda a fanculo, prima di interrompere la conversazione, e Zlatan scuote il capo ridendo ancora, posa il telefono al proprio posto e corre all’allenamento.
Genere: Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Mario/Davide/Zlatan, accenni di Mario/Davide/José/Zlatan, perché è così che ci piace.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, (lieve) Angst, Future!Fic (2030).
- Il due gennaio 2030, Zlatan ha un appuntamento al quale non intende mancare.
Note: Storia scritta in seguito agli Oscar del Calcio organizzati da SportItalia, in cui José e Zlatan hanno pensato bene di dichiararsi nuovamente amore e, già che c'erano, darsi appuntamento a Los Angeles nel 2030. Video.
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Meet Me Halfway


Il sole di Los Angeles, le sue palme altissime, le spiagge bianche sempre piene di gente, il mare e il cielo azzurri e limpidi come un paio d’occhi e il caldo perenne e quasi soffocante, sono ormai diventati un’abitudine per José, quando sente nell’aria un profumo ormai quasi sbiadito nella memoria, che torna con prepotenza a solleticare i suoi sensi del tutto all’improvviso, con effetti non trascurabili sul suo sangue freddo.
Si volta lentamente, le sopracciglia inarcate oltre gli occhiali da sole e la visiera del berretto che, sommati, coprono la quasi totalità del suo viso dal naso in su, e non dice una parola mentre mette a fuoco la figura di Zlatan – un’ombra scura in contrasto col chiarore accecante di tutto ciò che lo circonda, dal sole in giù.
Non è cambiato molto, nella sua totalità. È abbastanza certo di poter dire che, se potesse guardarlo nel dettaglio, sicuramente noterebbe qualcosa di diverso – una ruga, qualche capello bianco, in fondo ha pur sempre quarantotto anni – ma a guardarlo così, da lontano, in controluce e tutto il resto, non sembra. È alto come al solito, robusto come al solito, longilineo come al solito. La linea delle sue spalle e delle sue ginocchia è la stessa che era vent’anni fa, e questa cosa è impressionante.
- Puntuale. – ride José, mentre Zlatan si avvicina e prende posto sulla panchina accanto a lui. Le onde si sollevano ricamando spruzzi bianchissimi sullo sfondo uniforme di mare e cielo, in lontananza. L’orizzonte non esiste. Per un secondo, José pensa che Zlatan sia lì per quello: trovare finalmente un posto in cui una meta successiva non ci sia, un posto che si estenda all’infinito, un posto in cui lui possa smettere di sentire il bisogno di scappare altrove. Poi sorride, realizzando che non è così: Zlatan non è certo lì per fermarsi e questo è solo un vecchio appuntamento fra amici. – È il due gennaio. Non ti aspettavo davvero.
- Vuoi dire che stavi qui seduto in contemplazione del vuoto perché ti andava di farlo, e non per mostrarmi quanto sei gelido e distaccato nei miei confronti? – chiede Zlatan, un po’ ironico e un po’ assurdamente ma genuinamente offeso, e José ride ancora.
- Osservare il mare è interessante. – commenta, stringendosi nelle spalle, - Non è mai immobile. Anche quando lo sembra, non tira un filo di vento, non c’è nessuno che fa il bagno e non ci sono gabbiani a pesca, puoi sempre trovare quella minima increspatura che rende tutto sempre differente.
- Se ti piace tanto guardare le cose che si muovono, puoi sempre guardare me. Sto qui fino al cinque, poi torno in patria. E l’anno prossimo, chissà. La Nazionale non mi dà più soddisfazioni e ai ragazzi non piace il freddo. Sentono nostalgia di casa.
- Per un attimo, ho creduto stessi parlando dei tuoi figli. – dice José, voltandosi a guardarlo con aria scettica. – Ti rendi conto che non puoi più chiamarli “i ragazzi”, alla loro età?
Zlatan scrolla le spalle, guardando altrove.
- È rimasto. – si giustifica, - Sai, quelle cose che il tempo non corrompe. – aggiunge con tono allusivo, ma José non fa una piega. – Comunque ti sarei grato se non parlassi dei miei figli, sai com’è andata a finire. Il mondo sa com’è andata a finire.
- E tutt’oggi non me lo spiego! – sbotta José, ironico, allargando le braccia, - Due ragazzi adulti e maturi che decidono di allontanarsi dal padre quando il suddetto padre non solo confessa al mondo la propria – cos’è che hai detto? libertà nell’orientamento sessuale? quel che è – ma già che c’è si prende in casa non uno ma due uomini di undici anni più piccoli? Incomprensibile. Folle.
Zlatan gli rifila un’occhiataccia, incrociando le braccia sul petto. José osserva i suoi polsi – pieni di date come non erano mai stati – e guarda subito altrove.
- Potevi essere della compagnia. – gli ricorda in un sospiro.
- Ah, sì. – José annuisce, le mani ben piantate sulle ginocchia. – Immagino i titoli dei giornali. E forse ti avrebbero disconosciuto anche i tuoi avi, non solo la tua progenie.
- Potresti esserlo ancora. – insiste Zlatan, apparentemente insensibile al suo sarcasmo, - Quando vuoi. I tempi sono cambiati, adesso.
- Ma non sono cambiato io. – risponde seccamente José, i tratti del viso che si irrigidiscono all’improvviso, - Il motivo per cui non ti ho mai neanche sfiorato, pure quando avrei potuto, è lo stesso che mi ha sempre impedito di accettare le tue condizioni di merda. E me lo impedisce ancora oggi. – sospira appena, rilassandosi contro lo schienale della panca. – Io sono un uomo possessivo, Zlatan.
- E io no. – ribatte Zlatan, voltandosi appena a guardarlo, - Però sono un uomo che s’innamora, e quando succede resta per la vita. È l’unica cosa di me che non cambi mai. – aggiunge con un sorriso. – Credimi, se fosse stato possibile non avrei mai voluto perdere neanche Helena.
José lo fissa sospettoso, inclinando il capo.
- Tu non sei un uomo che s’innamora. – gli fa notare, - Tu sei un uomo ingordo. Tu vuoi tutto. Ma, Zlatan, ci sono cose che non puoi avere se non a determinate condizioni. Vivere non ti ha insegnato niente?
- Ho tutto ciò che ho sempre voluto. – quasi ringhia lui di rimando, - E non ho dovuto rinunciare a niente.
- Ma – sorride José, ed è un sorriso piccolo, solo un’ombra di compiacimento, neanche troppo convincente, - non hai avuto me.
Le sopracciglia di Zlatan tremano appena, probabilmente con l’intenzione di aggrottarsi ed esprimere così tutto il suo disappunto, ma incredibilmente, proprio mentre José sta pensando che nel giro di un secondo lo vedrà alzarsi ed allontanarsi mormorando improperi nella sua direzione, i lineamenti del suo viso tornano a distendersi, e tutta la sua tensione si disperde in uno sbuffo rassegnato.
- Parli così perché sai che, nonostante tutto, continuerò a sperarci. – dice con un sorriso stanco, - Sono vent’anni, José. Io forse sono egoista, ma tu sei crudele.
José si morde un labbro ed allunga una mano ad accarezzargli il collo, massaggiando piano i muscoli tesi mentre Zlatan si scioglie sotto i suoi tocchi, inclinando il capo in un gesto morbido.
- Non sei tu l’egoista, Zlatan. – gli sussurra, stringendo forte abbastanza, spera, da lasciargli un’impronta addosso, - L’egoista sono io. Ti voglio tutto e non voglio accontentarmi di una percentuale, per quanto grande. Lo so che sarebbe la più grande, ma non sarebbe abbastanza comunque. E sono pretese che, alla mia età, non dovrei neanche avere. – conclude con una risatina. – Non sei tu l’egoista. Sono io.
Zlatan ride, abbassando lo sguardo e cercando di darsi un contegno mentre prova con tutte le proprie forze a non abbandonarsi troppo a quella carezza.
- Sì, anche Davide lo dice sempre. – annuisce distrattamente, - Non gli va proprio giù, questa cosa. Non capisco se sia perché ti vuole anche lui un po’ per sé o semplicemente si dispiace a vedermi stare male.
- Potrebbero essere entrambe le cose. – ipotizza José, - Mentre Mario immagino che se ne freghi, come sempre.
- Per te abbandonare la stanza imprecando in tre lingue diverse ogni volta che viene fatto il tuo nome è fregarsene? – chiede Zlatan con una punta di curiosità, e José si lascia andare ad una risata aperta e sincera, la prima della giornata. – Insomma… - riprende Zlatan, sospirando platealmente, - Mi stai dicendo che posso tornarmene a casa con la coda fra le gambe? Neanche un secondo appuntamento?
- Dovrei dartelo nel 2050 e sarebbe troppo tardi, mi sa. – commenta José, divertito.
- E quindi cosa mi stai chiedendo di fare? – insiste Zlatan, - Non vederti più, non cercarti più? Dimenticarmi di te?
José sospira e smette di accarezzarlo, alzandosi in piedi e sistemando i pantaloni spiegazzati lungo le gambe mentre lo guarda attentamente, consapevole del fatto che potrebbe essere l’ultima volta.
- Dipende da quanto sei disposto a soffrire ancora. – risponde quindi, - Io ti sto chiedendo da vent’anni di rinunciare a tutto per me. – aggiunge, - Se già non sei disposto a fare questo, non ho diritto di chiederti nient’altro.
Zlatan si morde nervosamente un labbro, prima di annuire, rassegnato. José gli lascia una breve pacca sulla spalla.
- Salutami i ragazzi. – dice allontanandosi.
- I ragazzi? – chiede Zlatan con un mezzo sorriso, - Non dicevi che, alla loro età, non li si dovrebbe più chiamare così?
José ride, scuotendosi tutto come un bambino. Nell’osservarlo, Zlatan si ritrova per un secondo catapultato indietro nel tempo fino a un periodo in cui le cose erano molto più semplici, ma anche molto meno sincere, e non rimpiange un attimo di ciò che ha fatto per arrivare al punto in cui è ora.
- Sai, - dice José, - quelle cose che il tempo non corrompe.
Zlatan non lo osserva andare via. Il mare cambia sotto i suoi occhi, ed è vero che, un po’, è interessante anche lui.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Appiano is drowning in silence."
Note: Storia in inglese.
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Drowning In Silence


Appiano is drowning in silence. Everybody’s already sleeping, the lights are off and the only thing on in the place is the television. Some man José doesn’t actually recognize – he has already seen him, somewhere, sometime, somehow, but he doesn’t really remember – is talking about Inter and Champions League, and José would really like to find the strength to push the button and switch off the tv, just to stop that shit from echoing in his ears, giving him a headache.
He’s not sleepy – he’s tired. He’d like to sleep but he’s not strong enough even to close his eyelids, so he stays there, on the couch, and watches the man on the tv. The volume is so low he can almost pretend the man's not speaking Italian, but some strange and forgotten language he doesn’t know anything about. He can pretend he’s not talking about Champions League nor Inter failing at it nor anything else. He’s just talking.
Christ, José is angry. He’s angry, he’s disappointed, he’s tired. So fucking tired.
Zlatan moans on the other couch, turning around to find a more comfortable position.
“Is he still talking…?” Zlatan asks, opening one eye and then closing it again, bothered by the trembling light of the screen, “Why are you still awake?”
“Can’t sleep,” José answers. He doesn’t make a move, but Zlatan lifts up a little, to look at him more easily, in a slightly disapproving way. “He’s talking shit about you too,” José informs him, “He’s saying you’re not even able to give this team a Champions League. He’s saying you’re useless.” He pauses for a moment, looking straight in his eyes. “Are you bothered by it? Do you even care?”
Zlatan stands up and moves slowly, coming closer to him. He takes the remote control from his hand and switches off the tv. The room is now so dark José can’t see anything – but he can feel Zlatan’s breath so close to his skin it sends shivers down his spine and forces him to bite his lips, trying to sit still, not move forward, don’t kiss him, damn, don’t even try to think about it, don’t kiss him, not again, it’s wrong, it’s not what a coach and a player should do, don’t kiss him, dammit, just don’t.
“I don’t give a fuck about it.” Zlatan finally answers. Appiano is still silent and dark, and it almost feels empty, when their lips collide.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: José/Zlatan
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon.
- Dopo Inter-Barcellona a San Siro.
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona/Inter FC), José/Zlatan, "Togliti quella fottutissima maglietta.". Ispirata altresì a una vecchia fanart di WaferKya che poi contestualizza il tutto. Ambientata subito dopo la partita di andata contro il Barcellona, quel millennio fa, quando ancora faceva caldo e il mondo era un posto migliore. (Uh?).
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Comeback


- Ehilà! – dice Zlatan con entusiasmo, facendo capolino da dietro la porta dello spogliatoio, e non appena il suo naso – e poi tutto il resto della sua faccia – fa capolino dall’uscio, tutta l’intera squadra – una massa compattissima di giocatori alcuni conosciuti, altri conosciutissimi, altri del tutto estranei – si muove verso l’uscita in un mezzo sospiro simultaneo. Zlatan si rifiuta di immaginare che gente come Milito e Motta o, peggio ancora, come Eto’o, possa avere già compreso cosa voglia dire la sua presenza in quello spogliatoio, proprio lì ed in quel momento, ancora sudato e su di giri per la partita appena conclusa in uno zero a zero che, in fondo, non delude nessuno, perciò si limita a dare per scontato che chi milita in quella formazione da più tempo abbia più o meno spiegato agli altri come funzionino le cose fra lui e il mister, consigliando come agire nel momento in cui fosse arrivato – perché sì, che sarebbe arrivato era una certezza: non era davvero pensabile stare insieme nello stesso stadio e non scambiarsi neanche un abbraccio, uno di quelli di cui ha parlato José durante le interviste pre-partita, solo, uh, senza vestiti addosso.
- Ma no, non ve ne andate così presto! – finge di lagnarsi in una mezza risata, mentre muove qualche passo all’interno dello spogliatoio carico dell’umidità delle docce, verso un José che lo fissa con aria allucinata, unico essere nel raggio di chilometri in grado di non aspettarsi una visita simile. – Abbiamo tante cose da raccontarci!
Deki sghignazza, tirandogli addosso un asciugamano bagnato che gli si spiaccica in faccia, avvolgendogli tutta la testa e finendo per schiaffeggiarlo sul naso con uno schiocco.
- Ce le racconti dopo, zingaro! – lo prende in giro, prima di abbandonare la stanza con tutti gli altri. Zlatan ride, liberandosi del panno e lasciandolo ricadere disordinatamente su una panca lì vicino, prima di voltarsi verso José e fissarlo con una quantità indefinibile di stelle negli occhi.
- Zay! – lo chiama, spalancando le braccia come aspettandosi che lui vi si catapulti in mezzo, lasciandosi stringere come un peluche, - Mi sei mancato! – e così dicendo si avvicina, ben deciso a stritolarlo in un abbraccio degno della migliore carrambata mai vista sia in televisione che a telecamere spente, ma José allunga un braccio e glielo pianta proprio nel mezzo del petto, a pochi centimetri dallo stemma del Barcellona cucito proprio lì a sinistra, allontanandolo anche con un certo schifo. – Che c’è? – chiede lo svedese, inarcando le sopracciglia ed inclinando il capo in una perfetta imitazione di labrador più incline a rincorrere la propria stessa coda che non a capire ciò che gli avviene attorno. – Qualcosa non va?
José schiude le labbra e, sempre con quella smorfia di puro disgusto a deformare i tratti del viso, lo indica nel complesso, puntando poi il dito contro la maglia che indossa.
- Togliti quella fottutissima maglietta. – ordina risentito, - Come osi venire qui nel mio stadio con quella fottutissima maglietta addosso?! Non qui, non nel mio spogliatoio! – borbotta, allungando le mani ed afferrando la maglia per l’orlo inferiore, tirandola verso l’alto nel tentativo – in realtà poco osteggiato da parte di Zlatan – di tirargliela via.
- Dovevo giocarci, Zay. – gli fa notare lui, ridacchiando divertito mentre stende le braccia in avanti per agevolare i movimenti concitati di José. – Comunque, non so se prima mi hai sentito, ma mi sei mancato tanto.
Traidor. – continua a borbottare José, ed è divertente sentire quella parola scivolare fra le sue labbra, per una volta, invece di vederla passare con divertimento malcelato sullo schermo a colori del cellulare all’ultimo grido.
- Sì, anche questo. – commenta Zlatan in una risata che nemmeno si prende la pena di provare a reprimere. – E ora che mi hai tolto questa roba di dosso, ti dispiacerebbe calmarti? – ride come un bambino, strappando la maglia dalle mani di José prima che possa darle fuoco, preferendo appallottolarla e gettarla in un angolo, di lato, dove José non potrà più prestarle attenzione, smettendo conseguentemente di provare istinti omicidi da scaricare in qualche modo, magari demolendo le docce a testate e parolacce in portoghese.
José lo fissa con disappunto per almeno una decina di secondi, riesumando dal campionario delle proprie collaudatissime espressioni quella vacua e monocorde che in genere è in grado di far sentire una nullità chiunque abbia la sfortuna di trovarcisi davanti. Incrocia perfino le braccia sul petto, nell’estremo quanto vano tentativo di darsi un tono autoritario di fronte all’incrollabile sorriso di Zlatan, e poi finisce per sgonfiarsi in un sospiro esausto quando comprende che no, questa non è una serata da bronci e capricci, e solleva le braccia a cercare il collo di Zlatan, cui si appende come un koala non appena lo svedese fa tanto di abbassarsi un minimo per consentirglielo.
- Fai il bravo, su. – sussurra, stringendolo alla base della schiena per sorreggerlo mentre solleva le gambe e gliele allaccia attorno alla vita, mentre contemporaneamente infila una mano fra se stesso e il suo corpo per sbottonare la camicia che indossa e scivolare al di sotto del tessuto leggerissimo, alla ricerca di centimetri di pelle abbronzata e calda da accarezzare pigramente. – Non abbiamo tanto tempo, non posso restare stanotte.
- Ci parlo io, con Guardiola. – sorride divertito José, spingendosi contro di lui abbastanza perché Zlatan possa sentire la sua erezione premere con forza contro la propria, nonostante i pantaloni. – Puoi prendere il primo aereo domattina, nessuno avrà da ridire.
- Speravo che me lo dicessi. – ridacchia Zlatan, sporgendosi a baciarlo lievemente sulle labbra mentre lo sistema di schiena contro gli armadietti in fondo alla stanza, armeggiando con la sua cintura nel tentativo di spogliarlo il più in fretta possibile, - Ecco perché ho già prenotato per domani.
- E se fallisco? – ride José, allontanando un po’ il bacino per permettergli di spogliarlo più agevolmente.
- Tu non fallisci mai. – chiude la questione Zlatan, forzando le sue labbra con la lingua un po’ per zittirlo e un po’ semplicemente perché gli manca il suo sapore, mentre si introduce fra le sue cosce. José si allontana quasi di scatto e lo guarda enigmatico per una serie interminabile di secondi, prima di sorridere felino ed inumidirsi un palmo con la lingua. Zlatan osserva la sua mano scivolare fra il suo corpo e il proprio e poi avvolgersi attorno alla sua erezione tesa e bollente, dandogli i brividi, e tutto quello che riesce a capire del secondo successivo è che all’improvviso si sente disciogliere dall’interno come un blocco di lava in liquefazione, e José si sta stringendo attorno a sé con la forza di una tenaglia, ansimando con forza ed agitando il bacino per venirgli incontro, piantando le mani sulle sue spalle per trovare un punto fermo e cercare di dare una regolarità a quelle spinte su cui Zlatan non ha il minimo controllo e che perciò si fanno più intense quando centra quel punto in profondità che lo costringe a gemere soddisfatto, e meno concitate quando quel punto, invece, lo manca, costringendolo ad una smorfia più addolorata che compiaciuta.
Zlatan allunga le braccia e lo afferra per i fianchi, cercando di dare un senso a tutte quelle spinte e controspinte confuse, e José accoglie la decisione con un mugolio di approvazione, distendendosi quasi lungo la superficie degli armadietti, chiudendo gli occhi e lasciando a Zlatan la libertà di indirizzare le proprie spinte dove preferisce. Zlatan sorride e si china a mordicchiare la pelle un po’ ruvida del suo collo, spingendosi dentro di lui dapprima lentamente, poi sempre più velocemente, ed osservando con aria persa la mano ancora umida di José che scivola contro il suo petto e poi si chiude attorno alla sua stessa erezione, accarezzandola allo stesso ritmo delle spinte di Zlatan – un ritmo che conosce bene, perché non è mai cambiato, così come lui può dire di conoscere ogni angolo del suo corpo ed ogni centimetro della sua pelle ambrata, perché niente è mai cambiato neanche in quel senso.
Le spinte si fanno più veloci in sincrono con gli ansiti di José, e si fermano solo quando entrambi, a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro, strizzano gli occhi e schiudono le labbra, abbandonandosi all’orgasmo con aria beata, riposando contro gli armadietti il tempo necessario a riprendere fiato – e solo quello, perché se davvero vogliono un’occasione per restare insieme, stanotte, allora José dovrà davvero andare alla ricerca di Guardiola e provare a convincerlo, o nulla impedirà a Zlatan di trovarsi su un aereo diretto a Barcellona molto prima di mezzanotte.
Nonostante ciò, è controvoglia che si separano l’uno dall’altro, e José fa un po’ fatica a ritrovare un equilibrio sulle gambe un po’ intorpidite, appena poggia i piedi sul pavimento chiaro e lucido dello spogliatoio. Zlatan si risistema appena i boxer, prima di lasciargli un bacio veloce sulla fronte e dirigersi tranquillamente verso l’uscita.
- Zingaro! – cerca di fermarlo José, recuperando i pantaloni da terra e saltellando prima su una gamba e poi sull’altra per indossarli, - Dove credi di andare?!
- Da Deki! – risponde tranquillamente lui, - Che tu riesca a convincere Pep o meno, non avrò molto tempo per parlare con lui, no? Abbiamo un sacco di cose da dirci, e-
- E gliele vuoi dire in mutande?! – insiste il portoghese, andando alla ricerca della propria camicia finita chissà dove durante gli spostamenti della serata.
Zlatan lancia un’occhiata alla maglia blaugrana abbandonata in un angolo dall’altra parte dello spogliatoio, e poi scrolla le spalle, sorridendo malizioso.
- Sei tu che hai detto che non posso andare in giro per il tuo stadio con quella addosso, giusto? – conclude, e il secondo dopo è già sparito oltre la soglia.
Genere: Triste, Erotico.
Pairing: José/Zlatan
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Flashfic, Slash, Lemon.
- "When you go, would you have the guts to say "I don't love you like I loved you yesterday.""
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (Inter FC), José Mourinho/Zlatan Ibrahimović, "I don't love you like i did yesterday." (My Chemical Romance - I don't love you).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Have The Guts

When you go, would you have the guts to say
"I don't love you like I loved you yesterday."



Zlatan si inarca sotto di te, ansimando pesantemente. Il suo respiro sa di passato e nostalgia, lasci che ti sfiori le labbra e lo assaggi sentendoti piccolo e sbagliato per la prima volta nella tua intera esistenza. Ti spingi a fondo dentro di lui, che allarga le gambe per accoglierti più profondamente possibile, ed accarezzi la sua pelle calda e sudata seguendo il percorso definito dai muscoli del petto e del ventre, fino al bacino. I suoi occhi si schiudono, liquidi e annebbiati di voglia. Solleva un braccio – ti concentri sui disegni che ne decorano la pelle perché il suo sguardo s’è fatto inspiegabilmente pesante – e ti accarezza piano il viso, dall’orecchio alle labbra, che sfiora con un pollice. Lo trattieni fra i denti, accarezzandolo con la lingua, mentre stringi la sua erezione fra le dita e pompi, osservandolo inarcarsi ancora sotto i tuoi tocchi, gettando indietro il capo ed esponendo il collo, sul quale ti avventi come fossi assetato del suo sangue. Mordi, baci, lecchi, succhi ogni centimetro di pelle disponibile – questi sono i momenti in cui ti sembra di volergli lasciare addosso un marchio perché lui, con te, non ci riesce più.
Non sai se sia la distanza o il fatto che ormai vi vedete sempre più raramente. Non sai se sia perché ormai non condividete più nemmeno un obiettivo, non sai se sia perché prima era diverso, era sempre al tuo fianco e combattevate per lo stesso motivo, dallo stesso lato della barricata. State ancora combattendo, adesso, solo che l’obiettivo non è più lo stesso, e forse è per questo che ormai tutte le vostre carezze sanno solo di qualcosa di perso che vi rifiutate di lasciare andare del tutto. Chissà poi perché.
Ti allontani da lui subito dopo essere venuto, perché lo senti scottare in maniera fastidiosa sopra e sotto la pelle. Ti stendi al suo fianco e fissi il soffitto, ascoltando il suo respiro tornare normale e la sua pelle tornare tiepida, il sudore che comincia ad asciugarglisi addosso.
Non avete parlato nemmeno una volta, da quando sei lì. Il tuo aereo ripartirà fra poco più di due ore e tu ti sollevi lentamente sul materasso, facendo leva su entrambe le braccia, voltandoti a guardarlo. Zlatan non ti ricambia lo sguardo. Immobile sul letto disfatto, fissa la porta chiusa quasi con insistenza, cupo, le labbra tese in una smorfia addolorata, le sopracciglia lievemente aggrottate e le punte ricce dei capelli umidi a solleticargli le guance e le tempie.
Sospiri profondamente, alzandoti in piedi e cominciando a rivestirti.
Senti la sua voce solo una decina di minuti dopo, a due passi dalla porta.
- Trova almeno le palle per dirmelo. – dice atono, e le tue dita si stringono convulsamente attorno alla maniglia. Tu, però, non trovi il coraggio di voltarti. E nemmeno quello di rispondere.
Genere: Erotico.
Pairing: José/Zlatan
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- "Il punto non è che ci sia amore dietro, il punto è che ci sia la voglia."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (Inter FC), José Mourinho/Zlatan Ibrahimović, senza riguardi.
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Voglia


Il campionario di espressioni di José comprende svariate migliaia di variazioni, alcune tanto insignificanti da risultare all’occhio umano quasi impercettibili – come il millimetro di sorriso storto che ti fa quando rispondi ad una sua domanda in un modo che lui ritiene scorretto - altre di gran lunga più interessanti perché molto più ampie e plateali – il suo stupore, la sua risata improvvisa, la rabbia furiosa che gli si concentra negli occhi e nella ruga fra le sopracciglia quando le cose non vanno nel verso che lui aveva provato a prestabilire prima di dare il via ad una serie di eventi piuttosto che ad un’altra.
Nulla, comunque, è equiparabile all’espressione magnifica che mette su quando lo sta scopando, e Zlatan è abbastanza sicuro che, anche se il suo profumo e il suo sapore non gli fossero necessari quanto e più dell’ossigeno, passerebbe comunque il suo tempo a scoparlo o desiderare di farlo, per il semplice fatto che quell’espressione lì, quella particolare sfumatura che gli oscura e illumina il viso quando lo spinge contro il materasso o una parete o qualsiasi altra superficie disponibile, è troppo bella per potervi coscientemente rinunciare.
Gli piace scoparlo così, senza riguardi: lo assalta e non è importante che sia un attacco frontale o più vigliacco, e preme le labbra contro le sue, o contro tutti i centimetri di pelle disponibili. Lo fa con cattiveria, quasi con violenza, perché vuole lasciargli addosso una traccia. Lo morde con la stessa forza con cui lo penetra, lo bacia con la stessa passione con cui lo accarezza, geme con la stessa intensità con la quale lui sospira e chiama il suo nome come – no, questo José non lo fa mai, non parla, non dice niente, è già troppo se di tanto in tanto si lascia sfuggire un ansito più sonoro degli altri. 
Ma Zlatan c’è venuto a patti, il punto non è che parli, e in fondo parla già abbastanza quando non scopano per desiderare che possa ancora aver voglia di farlo mentre invece lo stanno facendo, il punto è quell’espressione là, sì, proprio quella là che tende e distende tutti i suoi lineamenti a seconda della stretta della sua mano attorno al suo cazzo, quella che lo porta a leccarsi le labbra quando lo sente sprofondare con furia dentro di sé, quella che lo costringe ad inarcare la schiena quando lui ruba spazio all’interno del suo corpo com’è abituato a rubare tutto quello che gli capita sottomano – aria tempo voglia possibilità futuro vita amore – perché ciò che Zlatan vuole è possedere cose, possederne tante, possedere tutto, e il punto non è che ci sia amore dietro, il punto è che ci sia la voglia.
La voglia c’è, la legge negli occhi ancora appannati di piacere di José, che si dischiudono appena, un po’ umidi, quando sono venuti entrambi e rimangono nel letto disfatto, fra le lenzuola ingarbugliate, con nessun desiderio di separarsi l’uno dall’altro.
José sorride, mettendosi seduto e guardandolo, inclinando un po’ il capo.
- Sai che tutta questa cosa è malata da morire, zingaro? – chiede, sinceramente divertito.
Zlatan ride di gusto, tirandogli una pacca a metà fra l’amichevole e l’intenerito alla base della schiena.
- Dici? – domanda a propria volta, stiracchiandosi un po’ sul materasso. José scuote il capo, si tira a fatica giù dal letto e comincia a rivestirsi. Zlatan lo osserva con attenzione, vagamente compiaciuto. E nemmeno immagina quanto gli mancherà fra meno di un anno.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst (lieve), Slash.
- Martedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì, Sabato e Domenica.
Note: Scritta per la Criticombola su prompt 68. “Pensavo non saresti mai tornato.” “Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo.”, e ispirata in gran parte dal telefilm Dollhouse, ma comprensibile anche senza averlo mai visto, per la gioia di noi tutti.
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Doll
68. “Pensavo non saresti mai tornato.” “Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo.”


Martedì, ore 10.30
 
- Sei in ritardo.
I campi di Appiano Gentile sono silenziosi e vuoti. Ed enormi. Zlatan non riuscirà mai ad abituarcisi, ne ricorda uno solo e pure sgangherato. Ormai sono due anni – due anni? Due anni – che è tornato, due anni che cammina su quella sterminata distesa d’erba e non riesce ancora a riconoscerla.
- L’aereo era in ritardo. – sorride imbarazzato, grattandosi la punta del naso. José scrolla le spalle e sbuffa.
- Non è granché come presentazione alla tua nuova squadra. – commenta, consultando i propri appunti. Chissà cosa ci avrà scritto, poi. Zlatan non può impedirsi di sorridere, mentre sistema i calzettoni lungo le gambe.
- Ma tu già mi conosci. – obietta, - E anche gli altri.
José lo ignora.
- Comincia a correre. – ordina, allontanandosi verso la panchina per recuperare una bottiglietta d’acqua.
Bentornato, Zlatan. – si lagna lui, incrociando le braccia sul petto e battendo ritmicamente un piede per terra, - Sono contento di rivederti. Sei emozionato? Fra poco rivedrai i tuoi compagni.
José si volta a guardarlo inarcando, un sopracciglio.
- Quando rivedrai i tuoi compagni, lo decido io. – annuncia, una mano sul fianco e l’aria di chi non vuole sentire ragioni. – Comunque… - concede poi in uno sbuffo che si distende in un sorriso, - Pensavo non saresti mai tornato.
Zlatan ride, tirando su le maniche. Comincia a far caldo.
- Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo. – risponde, e poi comincia a correre.
 
 
Mercoledì, ore 12.00
 
- Fra una settimana da oggi – dice José guardando un punto imprecisato in mezzo al folto degli alberi che circonda la Pinetina, - ci giocheremo l’ingresso in Champions.
Zlatan annuisce, ma dal momento che continua a palleggiare questo suo assenso si perde nel naturale movimento della testa che segue i saltelli ritmici delle gambe e delle spalle.
- Come ti senti a giocare contro il tuo Barça?
- Il Barça non è mai stato mio. – risponde senza perdere la concentrazione, - Come dovrei sentirmi?
José scrolla le spalle, richiudendo il bloc notes ed infilandolo nella tasca interna della giacca.
- Questo non posso dirtelo io. Come ti sentivi quando stavi lì e giocavi contro di noi?
- Questo è un paragone scorretto. – ride lui. La palla rimbalza sul ginocchio e va troppo in alto, lui quasi la perde ma lei torna in bilico sulla sua fronte neanche un secondo dopo. La tiene là in equilibrio per un po’, più per dimostrarsi che può ancora fare il funambolo senza cadere di sotto, che perché ne abbia effettivamente bisogno. – L’Inter è sempre stata speciale.
- Non devi dirlo per forza perché ora sei tornato qui. – gli fa notare José, quasi irritato.
- Non ho mai detto o fatto niente  per forza da che gioco a calcio. – lo rassicura lui, mentre la palla scivola lungo il profilo del suo viso e lui la recupera a mezz’aria con un altro colpo di ginocchio, prima di riprendere a palleggiare coi piedi. – Figurati se mi salta in testa di farlo adesso.
- Guarda che l’allenamento si è concluso da un pezzo. – taglia corto José, richiudendo la giacca e lanciando un’occhiata furtiva all’orologio da polso, - Puoi anche smetterla di palleggiare.
Zlatan sospira, afferra la palla al volo e la stringe tra le mani come volesse farla scoppiare. José non se ne accorge.
- D’accordo. – cede, - A domani.
José non lo saluta.
 
 
Giovedì, ore 16.30
 
- La partita di campionato di sabato sera è comunque più importante di quella di mercoledì col Barça, sono stato chiaro?! – urla José, furioso, e Zlatan si costringe a tenere lo sguardo basso, senza cedere all’impulso dirompente e del tutto idiota di risollevarlo, sfidarlo con un ringhio e poi prenderlo a cazzotti fino a lasciarlo steso incosciente per terra. Sa di non poterselo permettere. – La prossima volta che arrivi in ritardo ad un allenamento, Zlatan, non te lo faccio solo saltare. Ti spedisco in tribuna fino alla fine dei tuoi giorni o fino a quando il presidente, mosso a pietà, ti rispedisce in Spagna. O in qualsiasi altro cazzo di posto tu voglia trovarti piuttosto che stare qui ed ubbidire agli ordini.
- Smettila di tirare fuori la Spagna. – si concede di grugnire, senza però muovere un muscolo per ribellarsi in maniera più vigorosa. – È qui che sono, è qui che voglio stare.
- Bene. – sputa José con un astio che neanche cerca di dissimulare, - Allora dimostralo.
Lo lascia solo nell’atrio vuoto neanche due secondi dopo.
Branca passa di lì solo verso le cinque, e quando lo nota, con addosso la divisa della stagione passata, si irrigidisce tutto, in imbarazzo.
- È… successo di nuovo, vero? – chiede titubante. Zlatan forza un sorriso.
- Come sempre. – conferma stringendosi nelle spalle.
Branca prende un respiro profondissimo e si gratta uno zigomo.
- Penso che non mi ci abituerò mai. – confessa a bassa voce.
Zlatan non risponde, ma vorrebbe poter dire “neanch’io”.
 
 
Venerdì, ore 14.00
 
- Sei nervoso?
Zlatan scrolla le spalle, sistemandosi la fascia sulla fronte e stando attento a non lasciare a nessuna ciocca la libertà di scendere ad infastidirlo.
- Non particolarmente. – risponde, fingendo di guardarsi attentamente nello specchio, quando in realtà sta cercando di cogliere uno spicchio di José, che resta defilato al suo fianco, di spalle, e fissa davanti a sé con un sorriso apparentemente sereno. – Tu?
- Chi non lo sarebbe? – chiede a propria volta José, invece di rispondere. – La Roma è una squadra tosta.
- Che se non sbaglio sta sotto di noi. – puntualizza Zlatan, tirando su i calzettoni, - A quindici punti.
- Questo è del tutto irrilevante. – spiega José, il sorriso che si allarga appena. – Ogni partita è un universo a sé in cui tutto può succedere, indipendentemente dal momento di Campionato in cui arriva. Puoi far parte della squadra più forte del mondo, prima in classifica, più forte perfino dei campioni d’Europa, e perdere tre a zero con l’ultima in classifica, neopromossa e già destinata a tornare in B. Dipende tutto dall’atteggiamento col quale affronti l’evento.
- E qual è il tuo atteggiamento? – chiede Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Sei appena uscito da una conferenza stampa in cui hai detto di avere piena fiducia nei mezzi della squadra.
- Infatti è così. – annuisce José, mettendosi dritto e muovendo qualche passo verso l’uscita degli spogliatoi. – Sì, penso che sarà questo, il mio atteggiamento.
Zlatan lascia perdere e lo segue all’esterno. Abbandonata in un angolo c’è una bottiglietta di Gatorade semivuota. È avvolta in un fascio di scotch bianco, di quelli larghi, da imballaggio, e sopra c’è scritto 45 con un pennarello nero a punta larga. Si morde un labbro e si china a raccoglierla. Conosce Mario abbastanza bene da immaginare possa averlo tranquillamente fatto apposta.
- Ragazzini. – sorride José, sedendosi sulla panchina poco distante, - Chissà da quanto è qui quella roba. – “probabilmente da meno di mezz’ora fa”, si dice Zlatan, sospirando pesantemente e proponendosi di strigliare Mario fino a fargli cambiare colore appena finito con José, - Gettala via e comincia a correre, zingaro. – ordina lui.
- Sì, mister. – e Zlatan obbedisce.
 
 
Sabato, ore 22.30
 
- Non sembri nemmeno stanco. – ride José, battendogli una pacca piuttosto allegra sulla spalla ancora umida. – È valsa la pena di venire fino a qua per rifilargliene cinque, mh? – commenta compiaciuto, e Zlatan sorride a propria volta nel pensare con un po’ di tristezza che non si sono mai allontanati da Appiano, ma a José non può dirlo. – I ragazzi sono già andati? – chiede lui, e Zlatan annuisce sbrigativamente.
- Erano tutti molto stanchi. – spiega. Anche José annuisce.
- È stata una grande partita. – aggiunge, - Si meritano un po’ di riposo. Anche tu te lo meriti. Come mai sei ancora qui?
- Volevo aspettarti. – risponde con un sorriso sincero, - E complimentarmi.
José ride, tirandogli un buffetto intenerito contro una guancia.
- Sei sempre il solito cretino. – lo prende in giro, - È merito vostro. L’ho detto ai giornalisti, di sopra. Siete una grande squadra, quest’anno, me lo sento-- già mercoledì sarà tutto diverso. Andrà tutto meglio.
Zlatan annuisce e si solleva in piedi. Lo guarda dall’alto per un po’, prima di chinarsi verso di lui e baciarlo lievemente sulle labbra, tenendo le mani ben strette dietro la schiena per evitare che possano prendere iniziative del tutto inappropriate.
- Sono contento di essere tornato. – gli bisbiglia addosso, guardandolo dritto negli occhi. José non capisce, ma non si scompone più di tanto.
- Che ti prende? – chiede, vagamente in imbarazzo, - Ti pare il caso dì-
- Mister. – sorride il presidente, entrando nello spogliatoio con le braccia spalancate e gli occhi colmi di gioia. – Ottima partita.
- Grazie, presidente Moratti. – annuisce José, cedendogli immediatamente tutta la propria attenzione, - È stato bello poterle fare finalmente vedere di cosa siamo capaci.
- È un po’ che mi fate vedere di cosa siete capaci. – ride Moratti, sembra al colmo della felicità, - Se questa striscia così positiva dovesse continuare, comincerò a prendere in seria considerazione la possibilità di seguirvi in trasferta anche nei turni infrasettimanali.
- Sarebbe un onore, presidente. – ride José, stringendogli la mano.
- Ma ora basta con i complimenti. – lo interrompe Moratti, senza lasciare andare la sua mano, - Dobbiamo già prepararci per mercoledì, ci attende una partita importante. – José annuisce. – È pronto per il trattamento?
José annuisce ancora. Si volta appena verso Zlatan, salutandolo.
- Mi raccomando, lunedì puntuale. – gli ricorda, e poi segue il presidente che gli fa strada fuori dalla porta, lungo il corridoio.
 
 
Domenica, ore 09.00
 
Zlatan apre gli occhi e prima ancora di svegliarsi del tutto ha già posato una mano sul cellulare appoggiato sul comodino, portandolo all’orecchio dopo aver velocemente digitato sul tastierino illuminato un numero di telefono che ormai conosce a memoria.
- Ciao, Zlatan. – risponde il dottor Combi, il quale, a giudicare dalla voce, dev’essere già sveglio da almeno tre ore, - Stai bene?
- Io sì. – annuisce lui, tirandosi a sedere ed osservando con la coda dell’occhio Helena ancora addormentata al suo fianco, - Chiamavo per José.
- Lui sta benone. – lo rassicura il dottore, un accenno di risata a rendere più simpatica la voce, - Per quanto possa star bene un uomo nelle sue condizioni. È a riposo, al momento.
- Non… - fatica un po’ a chiedere ciò che vuole sapere. Deglutisce e prende tempo. – Non sta mostrando strane controindicazioni alla terapia, giusto?
- No. – risponde Combi, del tutto tranquillo, - D’altro canto, non si può esattamente dire che si stiano facendo dei reali passi avanti. – sospira, un po’ sfiduciato, - Quando è a riposo, è come un guscio vuoto. Ogni tanto riprende coscienza, ma è più una coscienza del tutto avulsa dalla sua personalità che un vero e proprio risveglio del Mourinho che conosciamo. O che conoscevamo un tempo.
Zlatan annuisce.
- Capisco. – sussurra, - Quindi dobbiamo solo continuare.
- L’esaurimento nervoso è una brutta bestia, Zlatan. – dice il medico, la voce carezzevole come ce l’avesse davanti e volesse avvolgerlo in un abbraccio paterno, - Avevo una zia che ne soffrì a lungo. È meglio che tu non sappia com’è finita. – si prende una pausa, probabilmente per lasciargli il tempo di assimilare l’informazione non detta ma ugualmente trasferita. – Credimi, ce ne stiamo prendendo cura nel modo ottimale. Lo so che è frustrante e che ti sembra di ripetere sempre le stesse cose senza arrivare in nessun punto, ma fino a quando non sarà José a sbloccarsi noi non possiamo che cercare di ricondurlo verso quel punto in cui ha perso il controllo di tutto, consapevoli del fatto che è lui a doverlo ritrovare.
Zlatan annuisce ancora, è già stufo di questi discorsi. E il dottor Combi ha ragione: per la maggior parte del tempo lui ha davvero come la sensazione di non fare altro che girare in cerchio senza mai neanche allargarne la circonferenza, fosse anche solo per pochi centimetri.
- Già. – taglia corto, - Scusi se l’ho disturbata. A martedì.
- A martedì. – lo saluta il medico, cordiale, prima di interrompere la chiamata.
 
 
Martedì, ore 10.30
 
- Sei in ritardo.
I campi di Appiano Gentile sono silenziosi e vuoti. Ed enormi. Zlatan non riuscirà mai ad abituarcisi.
Si morde l’interno di una guancia con forza per non scoppiare ad urlare.
Comincia un’altra settimana.
- L’aereo era in ritardo. – sorride imbarazzato, grattandosi la punta del naso. José scrolla le spalle e sbuffa.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Slash, What If?.
- Tutto ciò che José sa di Zlatan, a tre mesi dalla sua partenza per Barcellona, è che la frattura al suo polso non è ancora guarita. Che l'operazione alla quale si è sottoposto è andata male e che a quell'operazione ne sono seguite altre che hanno, se possibile, peggiorato ulteriormente la situazione. Al momento, per il mondo intero, Zlatan - che non ha ancora effettuato il suo debutto in Liga - è a riposo su qualche isola delle Canarie, protetto dai paparazzi mentre cerca di riprendersi.
Questo è ciò che José sa di Zlatan - e allora perché il suo presidente lo manda a Barcellona senza spiegargliene i motivi? Perché al suo arrivo trova una guardia del corpo che lo invita a salire in macchina e seguirlo alla clinica psichiatrica Sant Gervasi? E perché, ad attenderlo nell'atrio della stessa clinica, c'è Mino Raiola, procuratore di Zlatan?
Note: Mi sarebbe piaciuto scrivere queste note immediatamente dopo la conclusione di questa storia XD Allora avrei potuto parlarvi di tutto il tempo e l’affetto e la fatica che ci avevo messo, e di quanta forza ci fosse voluta per concluderla nonostante tutto, e sarei stata incredibilmente prolissa e, probabilmente, anche incredibilmente noiosa XD Fortuna (la vostra) vuole che invece io stia scrivendo queste note a) a mesi di distanza, b) con X Factor in TV, c) con appena tre ore per postare – che, per chi mi conosce e conosce i miei tempi di postaggio, sono un tempo minuscolo in cui, omgz, non riuscirò a fare niente. Perciò vi saluto, e spero che questa robina possa esservi piaciuta, nonostante la sua immensa lunghezza ed il conseguente emostruggimento di palle. Yay. XD
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Love Will Come Through


- Mister Mourinho?
José solleva gli occhi sull’uomo che lo sta chiamando e lo scruta con attenzione, cercando di ricordarne i tratti e scavare nella memoria, fra le milioni di immagini delle milioni di persone che ha conosciuto nel corso della sua vita, per capire se lo conosca o meno. Il responso arriva dopo un minuto abbondante di silenzio, durante il quale l’uomo non fa che scrutarlo a propria volta, senza alcun piglio particolare. Fosse poco avvezzo a questo tipo di persone, José inarcherebbe un sopracciglio e si chiederebbe se il tizio non sia per caso stupido, ma l’atteggiamento è quello tipico di chi è abituato ad obbedire a qualsiasi ordine, e a farlo in silenzio, perciò José non si stupisce ed impiega poco a capire che non è affatto stupido, solo professionale.
Comunque no, non lo conosce.
- Lei è? – chiede, recuperando il proprio borsone da terra.
- Eloy Ramírez. È un piacere fare la sua conoscenza. – si presenta quello, con un breve cenno del capo, - Mi hanno incaricato di condurla alla Sant Gervasi, al suo arrivo.
José si concede di inarcare il sopracciglio che s’è risparmiato prima, e sistema il borsone sulla spalla.
- Non ne ho mai sentito parlare.
- È una clinica privata, mister. – continua l’uomo, e poi adocchia il suo bagaglio. – Ha portato con sé solo quello?
- Sì. – risponde seccamente José, immaginando ciò che dirà adesso la guardia di sicurezza.
- Non sarà sufficiente per provvedere all’intera durata della sua permanenza qui. – gli fa notare l’uomo, indicandolo con un movimento svelto della mano.
José scrolla le spalle, irritato.
- Senta. – comincia, - Sono venuto qui solo perché praticamente obbligato dal mio presidente, chiaro? Non intendo restare un minuto di più rispetto a quanto sarà necessario, questa città – e nel dirlo, pronuncia ogni singola parola quasi con disgusto, cercando di imprimere al proprio spagnolo ritrovato tutta l’appuntita cattiveria di cui è capace, dopo il viaggio lungo e stancante, - questa città non ha niente che mi interessi. Ed i misteri non mi piacciono, perciò sarà il caso che lei cominci a parlare, o come sono arrivato vado via.
Il tipo risponde dapprima solo con un sorriso di scuse, stringendosi nelle spalle.
- Mi spiace, ma non sono autorizzato a fornirle dettagli di una situazione che peraltro non conosco nemmeno nella sua completezza. È una questione che necessita del massimo riserbo, capisce?
- No, non capisco e me ne sbatto le palle. – risponde José in un ringhio frustrato. Poi si passa una mano sugli occhi e cerca di recuperare la calma. – D’accordo. – dice quindi, sospirando, - Cos’è questa Sant Gervasi? Che tipo di clinica?
- Psichiatrica. – risponde Eloy, senza nemmeno un’esitazione. – Ora, se vuole seguirmi… - e gli indica la strada col braccio, precedendolo verso l’uscita dell’aeroporto. No, José non vuole seguirlo, ma lo fa lo stesso.
- Perché mai dovrei avere da fare in una clinica psichiatrica? – chiede, quasi certo che il tipo non si degnerà di rispondere. Comunque Eloy è quantomeno educato, scopre, perché per rispondere, risponde. Solo che non dice niente di nuovo.
- Mi spiace, mister. – ripete, - Non sono autorizzato a fornirle questi dettagli.
- Cos’è, un messaggio preimpostato? – lo prende in giro con una punta di cattiveria in più, e poi si dà del coglione da solo. Se qualcuno ha colpa per il suo trovarsi lì, in quella città di merda, con la possibilità di incontrare anche solo fortunosamente l’unica persona la cui sola idea lo irrita al punto che preferirebbe tirarsi il sale negli occhi a manciate, piuttosto di rivederla, non è certo quell’uomo che, in fin dei conti, sta solo facendo il proprio lavoro. – Senta… - riprende quindi, - Non è un bel periodo. E avevo davvero del lavoro da fare, a Milano, perciò non sono esattamente in un’ottima disposizione d’animo. Non può proprio dirmi niente?
La guardia del corpo lo guarda attentamente, prima di sospirare ed indicargli un’automobile scura ad attenderli proprio nel parcheggio di fronte all’uscita.
- Sì. – risponde quindi, - Che mi dispiace di non trovarla nella disposizione d’animo migliore. – conclude ermetico. José lascia perdere e s’infila in macchina.

*

La clinica, a guardarla da fuori, non è davvero niente di eccezionale. Il portone d’ingresso dà su una strada cittadina pulita e grande ma tutt’altro che bella, ed il palazzo è grigio e invecchiato dal tempo e dallo smog. Non è granché, come prima impressione, e José si ritrova a storcere le labbra in una smorfia di disappunto prima di pensare a quanto possa essere poco opportuna come manifestazione di giudizio. Cerca di mascherare il danno, ma Eloy ha già ridacchiato discretamente al suo fianco, più divertito che offeso, e quindi anche José si concede un sorriso nervoso, mentre si introduce all’interno dell’edificio.
Ad aspettarlo all’ingresso, come una maledizione, c’è l’ultima delle persone che avrebbe mai pensato di incontrare.
- Tu. – sputa con astio, ritrovando in un attimo l’italiano che s’era già rassegnato a mettere da parte, - Cosa cazzo è, uno scherzo?
Mino Raiola lo guarda con evidente imbarazzo, la pancia prominente che trema fastidiosamente quando si alza in piedi per andargli incontro.
- Salve, Mourinho. – dice, mettendo entrambe le mani avanti, come di fronte ad una bestia feroce.
Salve il cazzo. – risponde immediatamente lui, furioso, - Non intendo restare qui un minuto di più.
- Aspetti, la prego. – continua il procuratore, appoggiandogli una mano sulla spalla. José trova ridicolo che si prenda una confidenza simile senza però dargli del tu a propria volta, ma è una cosa che non lo stupisce, e che anzi lo costringe a ghignare di fastidio: è proprio da lui una simile dualità, un comportamento come questo, mai perfettamente comprensibile, sempre incerto fra il sì e il no, che gioca a fare il funambolo sulla linea del forse con una grazia che un uomo simile non dovrebbe possedere. – E si calmi. Sa meglio di me che non l’avrei mai chiamata, se non si fosse trattato di un’urgenza.
- Qualsiasi urgenza sia, io non voglio averci niente a che fare! – sbotta José, allontanandosi da lui ed osservando con disgusto crescente il suo braccio ricadere lungo il fianco, molle come privo di vita. Gli dà la nausea e, mentre cerca di contrastare il bisogno quasi fisico che sente di vomitare, cerca anche di riportare alla  memoria tutto quello che sa di recente riguardo a Raiola. E, giocoforza, anche riguardo a Zlatan.
Zlatan è in riabilitazione, per quanto ne sa lui. E lui non ne sa più di tutto il resto del mondo, visto che tutte le notizie – la frattura curata poco attentamente, complicazioni su complicazioni su complicazioni, una serie di interventi, tutta una storia un po’ confusa, per la verità, ma non si può mai pretendere completa chiarezza quando tutto ciò che sai te lo dicono i giornalisti sportivi, approfittando dei chilometri di distanza per confondere le acque e fare filosofia spicciola sulla fortuna o meno di un trasferimento che sembrava destinato a grandi cose e che invece s’è spento nel nulla con la velocità di una stella cadente.
È tutto quello che sa – è tutto quello che c’è da sapere, si ripete con una certa ansia, mentre Raiola lo guarda con aria a metà fra l’impaurito e l’infastidito e nei suoi occhi scorrono una dopo l’altra le mille difficoltà di trovare le parole giuste per comunicare con un uomo che di comunicare non ha la benché minima voglia.
- Forse è il caso che le presenti il primario. – lo liquida alla fine, voltandogli le spalle e camminando risolutamente lungo il corridoio principale, - Mi segua, la prego.
- Io non vado da nessuna parte! – sbraita José, ma Eloy gli è subito accanto, il sorriso rassicurante sempre presente sul volto e la stazza tutt’altro che simile a incombere su di lui in una minaccia talmente velata da sembrare più un incoraggiamento che altro.
- Si ricordi che è in una clinica, mister. – dice in un soffio, e José aggrotta le sopracciglia.
- Naturalmente. – sbotta. È talmente furioso che, clinica o no, abbatterebbe a testate tutte le pareti sbraitando in ben più di una lingua conosciuta, ma la vicinanza di Eloy si fa pressante abbastanza da convincerlo a lasciar perdere e seguire Raiola attraverso il corridoio ampio e bianchissimo, fino ad una porta socchiusa oltre la quale, probabilmente, si trova l’ufficio del primario di cui sopra.
- Ben arrivato, mister Mourinho. – lo saluta subito il medico, alzandosi in piedi e stringendogli calorosamente la mano, prima di invitarlo a prendere posto su una poltrona proprio di fronte alla sua scrivania. José si mette subito a fissare i ghirigori intarsiati nel legno. Gli ricordano un po’ quelli della sua scrivania, nel suo studio, a Villa Ratti. Gli ricordano Zuca che si mette a seguirli con la punta della matita, a rischio di rovinarli tutti, prima di riportarli sul foglio poggiato in terra, sul tappeto, con una precisione  straordinaria. Gli ricordano il suo essere incapace di dire “no” ai propri figli, contrariamente a quanto tutto il resto del mondo si aspetti, e gli ricordano i “Zuca, non si fa!” concitati di Tami, che gli strappa di mano la matita e borbotta mentre lui si concede una risata divertita, alla quale subito fa eco la risata similissima di Titi. Gli ricordano casa e famiglia. Gli ricordano che non vorrebbe per niente essere dove si trova, e gli ricordano che non ha chiamato Tami, quando è sbarcato a Barcellona. – Il mio nome è Albert Blasi, dirigo questa clinica e ne sono il fondatore.
José annuisce sbrigativamente, discendendo la gamba del tavolo per seguirne la forma a zampa di leone. È così perfetta che sembra arrivata ieri, eppure è abbastanza opaca da non sembrare completamente nuova né finta. È un tocco d’eleganza non indifferente, probabilmente è perfino originale.
- L’abbiamo contattata in merito ad un nostro paziente, ricoverato all’interno della nostra struttura già da un paio di mesi. – continua l’uomo, monocorde, - Immagino che dire “Zlatan Ibrahimović” – continua con un mezzo sorriso, - sarà sufficiente per riportare la sua attenzione su di me, piuttosto che sulla mia moquette.
Gli occhi di José, effettivamente, si sollevano dalla moquette, che non s’erano nemmeno resi conto di fissare con tanta attenzione, e si piantano in quelli scuri e rassicuranti dell’uomo di fronte a lui.
- Mi scusi. – scolla con una certa difficoltà, - Non la stavo ignorando. Pensavo solo ad altro, ma in genere riesco a pensare a più cose contemporaneamente senza che questo renda difficoltoso il mio comunicare col prossimo. Non deve ripetermi niente, ho capito.
- Ne sono contento. – replica serafico il primario, intrecciando le dita sul rivestimento in vetro spesso e verde della scrivania, - Anche perché una qualità simile potrebbe essere molto più che utile, visto ciò che le chiederemo di fare.
- Senta. – comincia José, il tono più implorante di quanto non sarebbe disposto a mostrare a Raiola in una situazione appena meno stressante e confusa, - Io sono appena arrivato da Milano, voi mi prelevate, mi portate qui e mi dite che Zlatan- che Ibrahimović è ricoverato in questa struttura, cosa vi aspettate-
- La famiglia del signor Zlatan Ibrahimović – lo interrompe il dottor Blasi, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, - è stata sterminata da un fanatico durante una vacanza, mentre il signor Ibrahimović cercava di riprendersi dalla frattura al polso sinistro. – sputa in un fiato, ma senza fretta, così da dare a José tutto il tempo di percepire ogni singola parola come un ceffone in pieno volto, per poi restare lì a boccheggiare senza sapere cosa dire, né come riprendere a respirare. – Il signor Ibrahimović era uscito dalla villetta che avevano preso in affitto, per recarsi ad un appuntamento in ospedale per alcuni controlli medici, ed il signor Salvatore Martino, immigrato italiano da tempo residente a Barcellona, nonché… - sospirò, in difficoltà, - tifoso dell’Internazionale Football Club, s’è introdotto all’interno della villa, armato di un coltello da macellaio.
José lo guarda come gli avesse appena annunciato la fine del mondo – e, in effetti, non riesce ad immaginare un evento più drammatico cui paragonare ciò che ha appena sentito. Raiola si muove a disagio al suo fianco, non ha neanche osato sedersi, ed Eloy è ancora immobile alle sue spalle, pronto a reagire ad ogni minimo movimento, come temesse che José potesse alzarsi in piedi e correre via con quanta più velocità gli concedono le sue gambe.
Ha ragione, fa bene. Se solo trovasse la forza di muoversi, scapperebbe.
- I dettagli truculenti – riprende Blasi, inumidendosi le labbra, - li lascio alla sua immaginazione, se proprio vuole. Quello di cui m’interessa informarla è che è stato appunto il signor Ibrahimović a trovarli per primo, com’è ovvio, e da quel momento non s’è più ripreso.
José si prende un minuto abbondante, prima di parlare ancora.
- Io credevo che fosse in riabilitazione per il polso. – dice quindi, come se una dichiarazione del genere potesse servire a rendere falso tutto il resto, - Ero convinto che-
- Ci siamo presi cura della situazione su richiesta dei genitori del signor Ibrahimović. – spiega l’uomo, - Hanno preteso che tutto si svolgesse sotto il massimo silenzio. Sono persone molto riservate. Le ultime notizie distribuite parlano del signor Ibrahimović in vacanza su una non meglio specificata isola delle Canarie. Per rimettersi da un ulteriore intervento ricostruttivo. Ed è tutto ciò che anche lei dovrà dire al mondo, nel caso il mondo dovesse chiedere. Ma Eloy – e con questo accenna sbrigativamente all’uomo ancora dietro di lui, - farà in modo che non accada niente di tanto spiacevole. Quanto al resto-
- Quanto al resto, - ringhia José, in una ridicola imitazione di rabbia, - non ho ancora idea di cosa vogliate da me e del perché mi abbiate chiamato. Io e Zlatan – e non gl’importa, stavolta, di concedersi di chiamarlo per nome, - non ci siamo salutati granché bene, quando ci siamo visti l’ultima volta.
- Oh, vada a fanculo! – sbotta a quel punto Raiola, battendo la mano sulla scrivania del primario così forte che José si preoccupa quasi per l’incolumità del legno, - Non aveva torto Zlatan, quando diceva che su di lei non si poteva davvero contare, e che era tutto sorrisi e amicizia solo finché le tornava comodo, e poi chi s’è visto s’è visto!
- Non parlare di cose che non conosci, figlio di puttana! – scatta in piedi José, fronteggiandolo con aria furiosa, - Come se potessi credere ad una qualsiasi stronzata che ti esce di bocca!
- Be’, dovresti! – aggiunge il procuratore, con un ghigno quasi soddisfatto, - Potrei ripeterti parola per parola-
- Signori! – li ferma il primario, alzandosi a propria volta in piedi ed allontanandoli l’uno dall’altro prima che debba intervenire Eloy, - Calmatevi! È una clinica, questa! E la situazione, mister Mourinho, è abbastanza grave da mettere da parte i vecchi rancori, le pare?
José grugnisce sottovoce, tornando a sedersi, i pugni tanto stretti da rendere le nocche innaturalmente bianche.
- Non so se posso… non so se voglio aiutarvi. – sputa fra i denti, ancora amareggiato dalle parole di Raiola, - Chiamatemi pure come volete, ma ho lavoro e famiglia a Milano e-
- D’accordo. – annuisce il primario, tagliando corto, - Solo che credo, signor Mourinho, che lei non possa prendere una decisione senza sapere tutto. E sapere tutto implica conoscere il motivo per il quale abbiamo chiamato proprio lei. E rivedere Zlatan, ovviamente.
Rivederlo. Sembra più una maledizione che una possibilità. Avrebbe desiderato rivederlo così tanto, uno, due, dieci, venti giorni dopo la sua partenza per Barcellona. Per provare a spiegarsi, per provare a ricucire lo strappo. E poi quella voglia è scivolata via nella marea confusa di cose che avrebbe sempre voluto e non si sono mai verificate, è diventata una sconfitta come un’altra, una delusione come un’altra. Non sa se vuole riaprirla adesso, questa pagina della sua esistenza. Non sa se vuole farlo a queste condizioni.
- Signor Raiola, - riprende Blasi, tornando a sedere a propria volta, - spieghi al signor Mourinho perché abbiamo deciso di rivolgerci proprio a lui.
Raiola non pare veramente disposto ad esaudire la richiesta del primario. Lascia vagare lo sguardo per tutta la stanza, soffermandosi su Eloy e poi su José – si sente i suoi occhi addosso e sono spiacevoli come tutto il resto della sua persona, pesanti e fastidiosi e velenosi e poco sinceri.
- Chiamava Zay. – si rassegna a dire infine, in un sospiro stremato. – Per settimane i medici si sono chiesti chi potesse essere, l’hanno chiesto anche a lui e… niente. Continuava a chiamare Zay. E quando ne hanno parlato con me… - scrolla le spalle, sedendosi affranto sulla propria poltrona, - ho risolto il mistero.
José resta immobile sulla propria poltrona per una quantità di tempo che non riesce nemmeno a quantificare. Gli scivolano davanti agli occhi immagini di ogni tipo, Zlatan che sorride, Zlatan che si piega e si inarca sotto di lui, Zlatan che affonda dentro il suo corpo, Zlatan che lo stringe a sé, Zlatan che reprime a stento una smorfia di fastidio, Zlatan che anche solo prende il caffè al mattino o si rigira inquieto fra le coperte alla notte, e fra tutte queste immagini lo stesso nome che batte e ribatte sulle pareti della sua scatola cranica, Zay, Zay, Zay, pronunciato a bassa o ad alta voce, in un sussurro o in un gemito, in una lamentela o in una risata. Zay. Zay è la sostanza stessa della sua relazione con Zlatan. Qualcosa di tanto privato e importante da restare nonostante il tempo, nonostante i dissapori, nonostante tutto.
Si inumidisce le labbra, incerto.
- Dov’è?
Blasi accoglie la sua domanda con un sorriso sereno e incoraggiante, Raiola con un mezzo gemito stupito. José non si volta nemmeno a sorridergli con aria supponente, è bravo a capire quando non è il momento di fare qualcosa. La maggior parte delle volte utilizza questa capacità per individuare proprio il momento più sbagliato in assoluto e dire comunque la cosa peggiore cui possa pensare, ma stavolta, se ne rende conto già da solo, decisamente non è il caso.
Il solito corteo – ed è straniante che abbia già cominciato a considerarlo una routine – composto dal primario, Raiola e l’inseparabile Eloy, lo guida attraverso una serie di corridoi che vanno facendosi sempre più stretti e meno frequentati, fino ad una porta dalla finestrella della quale si vede appena uno scorcio di parete grigia ed un angolo di tavolo in formica.
- È qui dentro. – annuncia Blasi, - Non si aspetti che la riconosca, mister. – lo avverte, - Per quanto potesse chiamarla per nome nel delirio, non è detto che, nella sua testa, il suo nome sia ancora collegato alla sua persona.
José annuisce distrattamente, ma non sta davvero prestando attenzione. La verità è che può sentirlo, può sentire – chissà se è un particolare odore, un particolare sapore dell’aria, un suo particolare peso? – può sentire Zlatan così vicino da costringere le sue viscere ad annodarsi come in preda a un malore. Se tende le orecchie può perfino sentire il soffio tranquillo e regolare del suo respiro, può sentire il fruscio lievissimo dei suoi vestiti mentre si muove, può sentirlo davvero – o forse è solo l’illusione di un ricordo che torna a galla mentre il suo cervello tenta di prepararlo a quel momento.
Schiude la porta e muove un passo all’interno della stanza – e non lo riconosce.
Zlatan, seduto sul proprio letto, le gambe incrociate sul materasso in una posa infantile e un po’ sciocca, sta disegnando. Ha aperto un enorme album proprio sulle ginocchia, ed il foglio che sta imbrattando è così colorato da confonderlo. È troppo carico.
Lui è magro. È troppo magro.
Ha i capelli corti, troppo. Le guance scavate. E, dipinto sulle labbra, un sorriso tanto lieve e sottile da non avere il benché minimo significato.
- …Zlatan. – lo chiama a bassa voce. La porta s’è chiusa alle sue spalle senza che lui se ne accorgesse, ma si ritrova a pensare che in effetti sia meglio così, anche se ha la certezza quasi matematica che i tre rimasti fuori stiano spiando i movimenti di entrambi, dalla finestrella.
Zlatan solleva gli occhi su di lui: nel suo sguardo sembra passare un’ombra di comprensione, ma forse è tutto finto, lo sta inventando lui perché vorrebbe che Zlatan lo riconoscesse. Quell’ombra, invece, se mai è esistita, scompare subito dopo, e Zlatan sorride un po’ più apertamente nel poggiare il pastello a cera sul materasso accanto a sé e sollevare l’album, perché lui possa guardarlo.
- A Zay piace l’acqua. – dice Zlatan, e indica il disegno – un confusionario miscuglio di tutti i colori che esistono, come se l’acqua fosse quella, o quel disegno le somigliasse in qualche modo. – Devo fare tutto il possibile perché Zay torni da me. – spiega poi, annuendo compitamente, - Così potrà esserci, quando avrò bisogno di lui.
- Sono qui. – risponde lui d’impeto, stringendo le braccia lungo i fianchi e i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, perché la sua prima intenzione sarebbe quella di scattare ad abbracciarlo ma non è sicuro di poterlo fare, perciò cerca di irrigidirsi come un blocco di cemento, per non fare niente di sconveniente. – Sono qui, Zlatan, non devi fare più niente.
Lui aggrotta subito le sopracciglia, mettendo su un broncio da bambino offeso e ritraendo l’album, stringendoselo al petto.
- Non parlare con la voce di Zay. – borbotta, - Lo riconosco, che non sei lui. Non le diceva, queste cose. C’era sempre qualcosa da fare o da dire o che avrei dovuto fare e non ho fatto o che avrei dovuto dire e non ho detto o che… - si ferma un secondo, confuso, guardando con occhi persi un punto imprecisato sul pavimento, e poi torna a fissarlo con rabbia, - Non parlare con la voce di Zay. – ripete, - Lo riconosco, che non sei lui.
- Zlatan. – lo richiama José, la gola bloccata da un misto di aria e parole e lacrime che vorrebbe piangere, sarebbe il caso piangesse e non piangerà mai, - Zlatan, non mi riconosci? Non ti ricordi? – chiede, sollevando una mano – solo una, non può essere così drammatico, sicuramente – e sfiorandogli appena una guancia, solo con due dita, un tocco talmente minuscolo e lieve da passare inosservato perfino ai suoi polpastrelli, o forse non lo sente solo perché non fa davvero in tempo a toccarlo, dato che Zlatan si ritrae velocissimo, proteggendo la guancia con la mano bene aperta e rintanandosi sospettoso nell’angolo di materasso più lontano da lui.
José lo guarda, le labbra dischiuse e gli occhi annebbiati, e non sa che dire.
- Non puoi toccarmi. – dice Zlatan, freddissimo, - Io non sono tuo. Non posso lasciare che mi tocchi, non appartengo nemmeno a me stesso. Solo Zay, – e sospira profondamente, dopo aver pronunciato il suo nome, - solo lui può. Puoi essere mio amico, se non fai finta di essere lui e non mi tocchi. – José lo osserva abbozzare un sorriso piccolissimo, quasi carino, - Mi farebbe piacere, se fossi mio amico. Hai delle belle mani.
José abbassa lo sguardo sulle proprie dita tozze e, quando torna a guardare Zlatan, lo fa con una rabbia che è consapevole di non avere il diritto di provare.
- Non parlare con la voce di Zlatan. – dice duro, - Non sei lui, lo riconosco anch’io. Non l’avrebbe mai detto- - e si interrompe appena, cercando di reprimere un singhiozzo stremato, - delle mie mani, non l’avrebbe mai detto. Non sei Zlatan.
Lui risponde con uno sguardo sgomento, e resta immobile nel suo angolo di letto per molti secondi, prima di saltare in piedi – e saltargli alla gola. José si ritrova schiacciato contro la parete opposta, una mano di Zlatan stretta con forza attorno al collo e l’altra che carica un pugno in pieno viso.
- Non dirmi chi sono, tu non lo sai! – dice colpendolo violentemente allo zigomo, mentre la porta della stanza si apre su Eloy e Mino, che si precipitano all’interno e su di loro, per cercare di separarli, - Tu non sai niente, tu dov’eri?! Tu li hai ammazzati, mi hai ammazzato, è colpa tua, portoghese, è colpa tua, stronzo di merda!
- Zlatan! – lo chiama Raiola, tirandolo indietro mentre José, dolorante, si stupisce della facilità estrema con la quale sono riusciti a levarglielo di dosso. Una furia come la sua, che non conosceva confini, ora una persona qualsiasi può arginarla facilmente, solo afferrandolo per le spalle e tirandolo via. Leggero come una foglia, debole come un soffio di brezza. Zlatan torna ad accasciarsi sul proprio letto, gli occhi vuoti, mentre Eloy cerca di sorreggerlo per le spalle e finisce spintonato brutalmente all’indietro.
- Ce la faccio! – ringhia José, allontanandosi di qualche passo e sfiorandosi la guancia con il palmo bene aperto, - Vaffanculo. – sbotta, contro tutti e contro nessuno, abbandonando celermente la stanza.
Il dottor Blasi lo sta aspettando in corridoio, un sorriso leggero e comprensivo a increspare appena le labbra, come si aspettasse ogni singolo minuto di quella scena.
- Cosa cazzo gli è successo?! – urla José, esasperato, - Quello – prosegue, indicando la porta ancora aperta alle sue spalle, attraverso la quale giunge il sussurrare continuo di Mino che cerca di calmare Zlatan con la supervisione della presenza rassicurante di Eloy, - non è lui! Non… non è lui. – conclude sciogliendosi quasi in un singhiozzo e lasciando finalmente libere di scendere due dieci non sa più quante lacrime, prima di coprirsi il volto con entrambe le mani e restare immobile in attesa di qualcosa – qualsiasi cosa.
- Mi segua, mister Mourinho. – dice Blasi, soffice, lasciandogli passare un braccio attorno alle spalle e conducendolo lungo il corridoio, dato che lui non può vederlo. – Zlatan è ancora lì. È ancora lui, è solo… come posso dire… - si prende un po’ di tempo per cercare la parola più adatta, - nascosto. Il suo corpo ricorda cosa vuol dire essere se stesso, ogni tanto, ma per la maggior parte della sua giornata Zlatan trova difficoltoso avere a che fare con i pensieri che sarebbe giusto avesse nella testa. I pensieri riguardo la sua famiglia, la sua vita… anche riguardo a lei, mister.
José solleva lo sguardo ancora umido, asciugando sbrigativamente le lacrime col dorso di una mano.
- Cosa sa, esattamente?
- Zlatan non mi ha detto molto. – scuote il capo l’uomo, - L’ipnosi non è stata di aiuto granché maggiore. Ma… ho capito che c’era qualcosa fra voi, e che non si è chiusa bene. Quanto al resto, - sospira affranto, - sfido qualunque uomo a poter fronteggiare il pensiero della morte dei propri cari, una morte così orribile, poi, senza desiderare di poter dimenticare tutto e fuggire via.
- …fuggire via. – ripete lui, voltandosi appena a guardare la stanza. La porta, in fondo al corridoio, è ancora aperta, ma dal suo interno non giunge più alcun suono. Blasi annuisce, ricominciando a guidarlo verso il proprio ufficio.
- Zlatan non è potuto scappare via nel senso fisico del termine, - gli spiega con aria professionale, - ed ecco perché è fuggito dentro se stesso. Ha preso la parte più esposta di sé, quella più sofferente, quella più debole e più ferita, e l’ha messa da parte. Ha lasciato che a venir fuori fosse un’altra parte di sé, una nuova. Ed è quella che ha conosciuto oggi.
- Un altro Zlatan.
- Non esattamente. – sospira l’uomo, un po’ in difficoltà, - Uno scudo. Una protezione. Un’altra persona. Non può rivolgersi a questa persona come se fosse Zlatan, anche se di Zlatan ha preso anche il nome. È una cosa un po’ complessa, non so se-
- Me la spieghi. – lo interrompe lui, risoluto, - E poi mi dica cosa devo fare per riaverlo.
- Mister Mourinho, non credo che-
- Non per riaverlo per me. – precisa lui, intuendo il motivo dell’imbarazzo del dottore, - Per riaverlo e basta. Al momento mi interessa solo questo.
Blasi sorride, invitandolo ad accomodarsi sulla poltrona mentre chiude la porta del proprio studio e prende posto sulla propria sedia, dietro la scrivania intarsiata sul cui profilo José cerca di non concentrarsi più.
- La mente di Zlatan, al momento, è abitata da due persone. Non siamo sicuri che non ce ne siano altre, è in cura da troppo poco tempo per stabilirlo con certezza, ma in genere gli schizofrenici non si fermano a due sole personalità, soprattutto se il loro disagio è molto profondo. Le due personalità di cui siamo a conoscenza, comunque, sono Zlatan, che non è lo Zlatan che conosceva lei, ma lo scudo, come le dicevo prima, e il Piccolo.
José gli solleva gli occhi addosso, stupito.
- Il Piccolo. – ripete con aria assente. Blasi annuisce, aprendo un cassetto della scrivania per rovistare all’interno.
- Non è mai venuto fuori in prima persona, ma ogni tanto Zlatan ne parla. Il Piccolo sta sempre zitto, è sempre triste e non vuole mai vedere nessuno. Se proviamo a metterci in contatto con lui, Zlatan si arrabbia. Molto più di quanto non abbia visto lei oggi.
José si consente di deglutire appena, mentre osserva il primario poggiare sul tavolo un lettore mp3 collegato a due auricolari.
- Li indossi, prego. – lo esorta con un mezzo sorriso. José obbedisce e istantaneamente le sue orecchie si riempiono della voce di Zlatan che, un po’ sottile e esitante, chiede allo psichiatra perché vuole tanto parlare col Piccolo. “Perché è importante sapere cosa ne pensa anche lui, ti pare? C’è anche lui, dentro di te, anche lui deve decidere,” dice Blasi. Zlatan risponde ridendo. “Al Piccolo penso io,” dice risoluto, “so di cosa ha bisogno, lei non gli serve”. “Zlatan…” cerca di rabbonirlo ancora Blasi, ed è lì che José lo sente ringhiare. Come un animale. “Stia lontano dal Piccolo,” dice minaccioso, “io non le permetterò di fargli del male. Né a lei, né a nessun altro.”
- Questo è… è un altro. – dice a mezza voce, incerto, porgendo il lettore mp3 al medico, - Non è quello con cui ho parlato prima, è quello che mi ha picchiato.
Blasi inarca un sopracciglio, incuriosito.
- Crede che siano due personalità diverse?
- Io non lo credo, io lo so! – sbotta lui, allargando le braccia, - Conosco gli occhi di Zlatan, conosco la sua voce-
- Non sono né gli occhi né la voce dello Zlatan che conosceva un tempo, mister Mourinho, questo deve capirlo bene.
- No! – insiste José, passandosi una mano sugli occhi, - …mi ascolti. So di cosa sto parlando. Sono io che… devo essere io ad aiutarlo.
Blasi sorride ancora, estremamente compiaciuto.
- E questo – rivela annuendo, - è esattamente il motivo per cui l’ho voluta qui.

*

Quando è solo, in albergo, recupera il cellulare e come prima cosa in assoluto chiama Matilde. Gli manca la sua voce allegra e un po’ arrochita dagli anni e dal fumo, sente di aver bisogno di un supporto che è quasi sicuro lei non possa dargli, ma sarà comunque meglio di niente.
- Zay! – trilla allegra, - Zuca ti odia molto. – gli fa sapere in una risata cristallina, e José ride a propria volta. Zay è sempre stata una cosa solo di Matilde – o almeno, lo era prima di Zlatan; era una parte profonda ed intima di sé che aveva deciso di dare solo a lei, gliel’aveva promessa all’altare e probabilmente era stata sua fin dalla prima volta che l’aveva vista, minuscola e bellissima, infilata in un vestitino nero a pois bianchi nel mezzo di quella vecchia discoteca, ormai chiusa da tempo.
Quando aveva permesso a Zlatan di chiamarlo in quel modo – ricorda ancora la situazione, l’euforia esagerata del post-partita contro il Panathinaikos, quell’abbraccio che s’erano scambiati sul campo e che s’era prolungato anche dopo in una stretta convulsa e carica di voglia, negli spogliatoi, in albergo, a letto – “Chiamami Zay”, gli aveva detto, e Zlatan l’aveva guardato spalancando gli occhi come un bambino piccolissimo di fronte ad un regalo troppo grande. “Ma-“ aveva provato a dire, e José l’aveva zittito con un sorriso, guardandolo dolcemente. “Chiamami Zay”, aveva ripetuto, e da quel giorno in poi non l’aveva più chiamato José né Mourinho, mai più, nemmeno una volta.
- Cosa mi sono perso? – chiede con un sorriso debole, lasciandosi ricadere su una poltrona e massaggiandosi le tempie mentre cerca di tornare al presente.
- La sua recita di fine anno. – racconta Matilde, compiaciuta, - È stato un bravissimo Ettore, dovevi vedere con quanta professionalità da piccolo attore stringeva la sua Andromaca. Che era più alta di lui, per inciso. – aggiunge, ridendo divertita.
- Fanno recitare l’Iliade a bambini così piccoli? – chiede José con una risata molto simile alla sua, - Dovrò far loro causa.
- Oh, piantala. – sbotta lei, senza smettere un secondo di ridere. – Tu cosa mi dici?
José sospira, cercando di mettere ordine nella propria testa. Non è semplice, ma in qualche modo dovrà riuscirci, e per molte ragioni.
- È successo qualcosa a Zlatan. – risponde quindi, - Non posso parlartene, ma è qualcosa di grave.
- Oh, mio Dio. – esala lei, preoccupata, - Sta bene?
- È… - riflette José, esitante, - è fisicamente integro. Forse un po’ troppo magro. Ma sta bene, in quel senso. Purtroppo, parlando più generalmente, non è possibile dire lo stesso.
- Zay, - sospira Matilde, confusa, - non posso capirti, se parli per enigmi.
- Purtroppo la faccenda è molto riservata, Tami. – si scusa lui, contrito, - Non posso parlartene. Credimi, mi piacerebbe, ma-
- D’accordo, d’accordo. – sospira ancora lei, e José può immaginarla scuotere il capo mentre la coda alta che porta dietro la testa quando fa molto caldo ondeggia lentamente a destra e a sinistra, solleticandole la nuca, - Non c’è modo di costringerti ad aprirti del tutto, quando si tratta del tuo zingaro, eh? – commenta con un tono a metà fra l’intenerito e il rassegnato. E José vorrebbe, per un attimo soltanto, risponderle che ha più ragione di quanto immagini. Ma si trattiene. – Quando torni? – chiede poi, mentre José la ascolta liberarsi da bracciali ed orecchini e riporli sul comodino con cura, ordinatamente, come fa sempre prima di andare a dormire.
- Al momento non so dirtelo, Tami. – risponde lui, - Non so quanto tempo potrebbe prendermi, risolvere questo problema. Ad essere totalmente sincero, - aggiunge, un po’ scoraggiato, - Non so nemmeno se ci riuscirò, a risolverlo.
- Queste sono sciocchezze. – sbotta immediatamente sua moglie, - È ovvio che riuscirai a risolvere il problema. – E poi aggiunge, più morbida, - Tu risolvi sempre tutti i problemi. Solo… - riprende, vagamente più allarmata, - intendo, il tuo lavoro coi ragazzi in squadra…?
- Il presidente sa perché sono qui. – risponde subito lui, - Avrà sicuramente pensato a tutto. E comunque Beppe può sostituirmi più che bene, ho dato a lui tutte le direttive, prima di partire. – e rilascia il capo contro lo schienale della poltrona, sospirando esausto.
- Stanco? – chiede Matilde, dolcissima. La sua voce, come la più lieve delle carezze, scivola lenta lungo il suo collo, e José chiude gli occhi per assaporare meglio la pressione tenera di polpastrelli che purtroppo può solo immaginare, e che vengono presto sostituiti dalla presa ferrea di due mani diverse, più grandi, più forti. Il pensiero sgradito di Zlatan intento a strozzarlo, ricordo di non più d’un paio d’ore fa, si mescola e si confonde col ricordo più vecchio delle ultime carezze di Tami, e con quello ancora più antico delle carezze di Zlatan, mesi e mesi prima. José ha di nuovo voglia di piangere, ma stavolta non cede.
- Parecchio. – risponde, cercando di sorridere, - Penso che andrò a dormire.
Tami annuisce – José non la vede, ma immaginarla è sufficiente – e lo saluta con un bacio al volo, prima di interrompere la comunicazione. Tutti i suoi muscoli e tutte le sue ossa gridano vendetta, quando si mette in piedi, si spoglia sbrigativamente e si lascia ricadere esausto sul letto, affondando il viso nel cuscino per isolarsi rispetto al mondo esterno. È troppo vecchio per cose simili, e non lo pensa solo in riferimento al viaggio in aereo, naturalmente.
Voltandosi supino e perdendosi nell’oscurità del soffitto della camera, cerca di ricordare l’ultima volta che ha visto Zlatan prima di oggi, e non è un ricordo piacevole. Fa male riportarlo alla memoria, fa male rivederlo gettato scompostamente sul letto, le coperte arrotolate sul pavimento, e ricordarsi con una precisione impressionante varcare la soglia della sua camera per sistemargli addosso almeno un lenzuolo, senza dimenticare però di chiudersi la porta alle spalle, entrando.
Nei suoi ricordi, Zlatan si sveglia e si rivolta sul materasso, passandosi una mano sugli occhi e regalandogli un sorriso assonnato da bambino non appena mette a fuoco la sua figura.
- Non volevo svegliarti. – dice, e Zlatan sorride ancora, mettendosi seduto.
- Io invece sono contento che tu l’abbia fatto. – commenta con un candore quasi disturbante, - Resti un po’?
José annuisce perché non è mai stato in grado di negargli niente, e si siede sul materasso accanto a lui. Zlatan lo contempla con un’aria ridicola per molti secondi, prima di sporgersi a baciarlo dolcemente sulle labbra.
- Sono giorni confusi. – gli dice, poggiando la fronte contro una sua tempia, mentre José gli fa passare un braccio attorno alle spalle e se lo tira contro. – Lo so che è pesante. Mi dispiace.
José annuisce, accarezzandogli rassicurante una spalla.
- Tanto resterai. – commenta, stringendo la presa attorno al suo braccio. – Resterai, vero?
Zlatan non risponde. Nella sua memoria, José lo guarda a lungo, con aria disgustata, tradita, ferita. E poi lo lascia andare, e si alza in piedi.
- Zay. – lo chiama Zlatan, la voce rotta, - Zay, ti prego.
José non resta un secondo di più, neanche per sentire tutto il resto, neanche per ascoltarlo scusarsi ancora.
Ha modo di pentirsene, e molto, a solo qualche mese di distanza, pochi minuti prima di addormentarsi.

*

Eloy è stato tanto gentile da passare a prenderlo in albergo. O almeno, così gli piacerebbe pensare se non sapesse perfettamente che non c’era nessuna possibilità che Raiola lo lasciasse bighellonare da solo per Barcellona, correndo il rischio di farlo notare da qualcuno e mettendolo nella posizione di dover rispondere a qualche domanda di troppo.
Quantomeno – pensa con un certo sollievo mentre Eloy gli apre la portiera e lo invita sorridendo a scendere dalla macchina – l’uomo non gli dispiace. È gentile, professionale e silenzioso. Non di quei tipi che cercano il dialogo a tutti i costi perché spaventati dal rimbombo del vuoto nelle loro teste, no. José può affermare con certezza che la testa di Eloy è tutt’altro che vuota e, in quanto piena, tutt’altro che a rischio eco. Ecco perché Eloy parla poco e solo quando serve, ed ecco perché passare del tempo con lui è gradevole, in fin dei conti.
Sicuramente molto più gradevole che stare in clinica.
Blasi lo tiene impegnato in una conversazione di circostanza solo per qualche minuto. Gli chiede come sta, se ha cambiato idea, se non si senta un po’ preoccupato dopo quanto successo ieri, se abbia avvisato la propria famiglia del prolungarsi della sua permanenza. José risponde per monosillabi e guarda sempre altrove – non riesce ad impedire al suo stesso sguardo di saettare fulmineo verso la porta mentre stringe le mani in grembo, come se quella stretta potesse essere in grado di impedirgli di compiere gesti inconsulti e fiondarsi lungo il corridoio fino in camera di Zlatan.
Blasi sorride e gli batte una pacca sulla spalla.
- Non  sarei ciò che sono oggi, - dice, - se non sapessi interpretare il linguaggio del corpo. Vada pure.
José non gli dà modo di ripetersi: l’attimo dopo è in piedi, e non è passato neanche un minuto da quando è uscito dallo studio del primario, che si ritrova già di fronte alla porta di Zlatan. Bussa piano, un paio di volte. Dall’interno non giunge un suono, e José si chiede brevemente se Zlatan sia abituato a sentire bussare. Poi sospira e spinge la porta, sbirciando all’interno prima di spalancarla del tutto e fare il proprio ingresso. Zlatan sta disegnando, seduto alla scrivania. Gli dà le spalle e sta curvo sul foglio muovendo velocemente la destra, tracciando macchie di colore di un abbagliante rosso acceso sul cartoncino bianco. La sua espressione somiglia alla concentrazione dei bambini, si morde il labbro inferiore ed ha le sopracciglia aggrottate, gli occhi fissi sul foglio brillano di determinazione.
- Cosa disegni? – chiede a bassa voce, trascinando una sedia accanto alla sua. Zlatan non smette di disegnare, ma sorride.
- Fuochi d’artificio. – risponde dolcemente, - Rumorosi e colorati.
José fissa il foglio e deglutisce piano.
- Sembrano schizzi di sangue. – azzarda incerto. Zlatan sorride più apertamente.
- Sembrano, ma non lo sono. Alle volte, le cose sembrano in un certo modo, e invece non lo sono. – solleva lo sguardo ed incrocia i suoi occhi, si inumidisce le labbra e poggia il pastello a cera sul tavolo, prima di continuare. – Mino… - dice quindi, un po’ dubbioso, - Mino mi ha detto che lui si è comportato un po’ male con te, ieri.
- Lui? – chiede José, inclinando un po’ il capo, - Raiola? Non è mai stato particolarmente gentile, non è che mi sia stupito.
- No. – scuote il capo Zlatan, ridacchiando, - Non lui. Lui. Quello dentro la mia testa.
José spalanca gli occhi, avvicinandosi un po’ e mordendosi un labbro, infastidito dallo stridere dei piedi della sedia contro il pavimento – suono che invece sembra divertire parecchio Zlatan, almeno a giudicare dal suo sorrisino.
- Tu… - chiede con una certa curiosità, - sai che ce n’è un altro?
Zlatan ride a bassa voce, coprendosi le labbra con una mano, e José inarca le sopracciglia perché in nessuno dei numerosi fotogrammi di Zlatan che conserva in memoria l’ha mai visto agire in modo tanto pudico. Zlatan non era tipo da nascondere un sorriso – amava sbatterti in faccia la propria felicità così che tu potessi prenderne atto e fossi costretto ad averci a che fare. Decisamente, quello che ha di fronte in questo momento non è Zlatan. Non il suo, almeno.
- È abbastanza difficile ignorarlo, ti pare? – risponde lui, scrollando le spalle, - Non è cattivo, è solo che si preoccupa.
- Per chi? – chiede, cercando di indagare cautamente. Guarda Zlatan dritto negli occhi e sono talmente scuri che gli sembra di perdercisi. Procede a tentoni, come se qualcuno, per fargli uno scherzo idiota, avesse spento la luce.
- Per me. – risponde Zlatan, e ride ancora un po’, - Per chi altri?
- Non c’è nessun altro? – insiste José, ed il sorriso che increspa le labbra di Zlatan si perde prima in una smorfia sorpresa e poi in un broncio offeso. José lo osserva alzarsi in piedi abbandonando del tutto il disegno, e muoversi nervosamente all’interno della stanza.
- Le cose sono sempre difficili, signore, io non so dov’è cresciuto lei o dove ha vissuto, ma nel mio mondo è sempre tutto difficile. – spiega, un po’ balbettando, un po’ inciampando sulle stesse parole che pronuncia, sbagliando i verbi e lanciando vocali e consonanti a caso come stesse cominciando a dimenticare la lingua. José non ha nemmeno il tempo di realizzare pienamente che Zlatan è passato dal tu al lei senza un apparente motivo, che questa considerazione lo porta a realizzare qualcos’altro, qualcosa che non aveva ancora notato e che però avrebbe dovuto colpirlo molto prima, se non altro per quanto è strana: Zlatan continua a parlare in italiano. – Non c’è nessuno, ma forse c’è, lei che ne sa? Non lo so nemmeno io. Le cose sono sempre diverse, signore, sono sempre difficili e sono sempre diverse, a lei è mai successo? Guarda una cosa e la vede in un modo, e poi invece quella cosa è diversa. – si ferma e osserva il muro di fronte a sé, solo per un attimo, prima di tornare a fissare gli occhi nei suoi. – Ed è bello così, sa, signore? È più sicuro così, perché così anche se una cosa è orrenda tu puoi sempre sperare che esista un’angolazione dalla quale non è più così male. – si morde con forza l’interno di una guancia, prima di proseguire. – Le peggiori sono le cose che sono uguali da ogni angolazione. – biascica incerto, la voce rotta, - Sono rosse da qualsiasi lato le guardi, come il sangue. È per questo che i fuochi d’artificio mi piacciono di più. Sembrano sangue da un lato, e dall’altro fiori.
José resta immobile sulla sedia. Zlatan lo guarda come si aspettasse una risposta a ciò che ha appena detto, ma José non ha risposte per lui. Solo altre domande.
- Quando parli di cose che non cambiano anche guardandole da diverse angolazioni… - comincia, e Zlatan sembra seguirlo con un certo interesse. Quel bagliore lievissimo nei suoi occhi, però, si spegne del tutto quando José conclude la domanda: - ti riferisci ad Helena e ai bambini?
Non fa una piega, si limita a dargli le spalle e schiudere la porta.
- Non conosco nessuno con questo nome. – risponde svelto, - Voglio andare a fare una passeggiata, vieni con me?
José si alza velocemente, affiancandolo appena in tempo per ritrovarsi in corridoio sotto lo sguardo un po’ stupito ma tutto sommato sereno di Eloy.
- Puoi farlo? – chiede, e Zlatan sorride, esattamente come prima.
- Certo che posso. – annuisce, - Eloy mi accompagna. C’è un cortile bellissimo qui, è pieno di belle persone. Solo che nessuno si avvicinerà, se ci sei tu.
José cerca di sorridere a propria volta, ravviandosi i capelli su una tempia con un gesto sbrigativo.
- Faccio paura? – chiede. Zlatan ridacchia.
- Sei diverso da chiunque altro stia qui. Sei normale.
Camminano in silenzio lungo il corridoio per qualche secondo, prima che José si decida a parlare ancora.
- Sembri molto consapevole della tua condizione. – commenta, e Zlatan sospira, scuotendo il capo con aria rassegnata.
- Che considerazione sciocca. – sbuffa, - Un pazzo non è un pazzo se è consapevole della sua pazzia?
- Non ho detto questo, ma-
- Un innamorato ama lo stesso se sa di esserlo o invece non ne ha idea? – chiede Zlatan di getto, interrompendolo senza nemmeno guardarlo, come se a stento si accorgesse della sua presenza, - Ogni tanto me lo chiedo. Io sono stato innamorato di Zay, devo parlartene un giorno, Zay era fantastico, - ed ogni sua parola è una coltellata dritta nel centro del suo petto, - comunque ogni tanto me lo chiedo. Zay era innamorato di me, credo, ma non ha esitato ad abbandonarmi anche se io avevo bisogno di lui. Eppure io lo so che lui mi amava. Non ti pare strano? – lo guarda attentamente, José non risponde ed il cortile si apre intorno a loro in un tripudio di verde e colori sparsi, fiori ovunque, piccole aiuole curate, cespugli ricchi di foglie, qualche paziente che si rilassa sulle panchine distribuite asimmetricamente sul piazzale e il sole e il cielo che giocano coi loro stessi riflessi sulla superficie dell’acqua che giace immobile in una piccola vasca centrale. – Tu le abbandoni, le persone che ami, signore? – chiede ancora Zlatan, muovendosi disinvoltamente ma con una certa emozione verso la fontana, - Le abbandoni le persone che ami?
José lo segue e si siede sul bordo della vasca. Zlatan non si ferma, scavalca il muretto sollevando una gamba ed è all’interno della vasca un attimo prima che l’erogatore si azioni, bagnandolo tutto dalla testa ai piedi. Ride come un bambino. Eloy non sembra turbato – osserva la scena da sotto le fronde di un albero poco distante e lo lascia fare, perciò José non si scompone e si limita a sorridere a propria volta mentre lo osserva sedersi nel mezzo della fontana, abbracciando l’erogatore a forma di pesce e sollevando il viso perché l’acqua in caduta libera possa colpirlo più direttamente.
- No. – risponde, - No, non le abbandono le persone che amo, Zlatan. – risponde finalmente, e Zlatan torna a guardarlo, sorridendo più apertamente.
- Lo sapevo. – commenta allegro, - Come ti chiami? – chiede quindi. José deglutisce.
- Mou. – risponde, tendendogli la destra. Zlatan la stringe e la scuote con entusiasmo.
- Come le caramelle. – ride, - Mi piace. Possiamo vederci ancora? Prometto che lui starà buono. Lo farò stare buono.
José annuisce ancora. Stringe a lungo la mano di Zlatan, prima di lasciarla andare. Lui non si lamenta.

*

- Mister, - gli sorride Eloy aprendo lo sportello e tenendolo fermo mentre attende che José esca dalla macchina con un sospiro stanco, - cerchi di dormire bene, stanotte. Mi sembra che questa cosa la stia provando un po’ troppo.
- Hai esperienza nel campo, Eloy? – chiede José con un sospiro, massaggiandosi le tempie. La strada di fronte al suo albergo è deserta. José si prende tempo. Non ha voglia di tornare subito in camera.
La guardia di sicurezza scrolla le spalle.
- Ne ho visti tanti come lei. – risponde, - La malattia mangia mente e corpo, e non solo di chi ne è affetto.
- È vero. – annuisce lui senza guardarlo.
- Solo che – aggiunge Eloy, frettolosamente, - per aiutare un ammalato serve molta lucidità mentale. – si ferma e José gli solleva addosso un’occhiata vagamente infastidita. L’uomo sorride timidamente, cercando di stemperare la tensione. – Io non ho mai perso una persona cara in circostanze tanto tristi. I miei nonni sono tutti morti di vecchiaia, avanti negli anni, circondati dai loro nipoti. I miei genitori sono ancora vivi. Mia moglie ed io ci amiamo da quando andavamo al liceo, i nostri figli sono ancora piccoli e sono in piena salute. Sono un uomo molto fortunato e non posso neanche immaginare cosa possa voler dire… - esita un attimo, prima di proseguire, - perdere una persona tanto cara e poi ritrovarla solo per scoprire che non la si è solo persa, perché quella persona è morta.
- Zlatan non è morto. – scatta José, stringendo i pugni lungo i fianchi.
- Una parte di lui lo è. – insiste Eloy, - E non la recupererà, Mister, sa? Qualcuno deve dirglielo. So che non dovrei essere io, ma-
- Non dovresti essere tu, esattamente. – ringhia lui, allontanandosi di un passo, come scottato dalla sua vicinanza. Ed a separarli c’è almeno un metro.
Eloy sospira pesantemente, grattandosi la fronte in un gesto nervoso.
- Mi dispiace averla turbata, Mister Mourinho. – ammette, - Cercavo solo di farle capire che perderci il sonno non aiuterà né lei né Zlatan.
- Ma davvero? – ride amaramente José in risposta, - E cos’è che dovrebbe aiutarci?
Eloy schiude la portiera ed esita un attimo, prima di tornare a sedersi al proprio posto all’interno della macchina.
- La pazienza. – risponde, - La sincerità. L’amore, se non si è perso del tutto. O se non è morto anche lui. – è tutto quello che dice, prima di rimettere in modo.
José non riesce a rientrare in albergo per i dieci minuti successivi. Si chiede cosa ci faccia a Barcellona, si chiede perché non abbia già lasciato perdere e non sia già tornato a Milano, dove la sua famiglia e il suo lavoro lo aspettano.
Gli basta ripensare a Zlatan – e non sa più nemmeno a quale dei tanti – per convincersi a darsi una mossa ed andare a dormire.

*

Non sa cosa lo renda così nervoso – vive a Barcellona ormai da quasi due settimane, Tami gli ha mandato ieri qualche altro vestito perché il tempo sta rapidamente cambiando e comincia a far freschetto, la sera, e comunque sta ricordando piano piano ogni particolare di quella città abbandonata anni prima. Non si sente più a disagio per le strade, sa quali imboccare per non essere visto e da una settimana circa rientra a Milano per qualche ora una volta ogni due giorni, per controllare la squadra e cercare comunque di fare il suo mestiere, per quanto difficile possa essere in queste condizioni.
Il presidente ci ha tenuto ad incontrarlo in privato, l’ultima volta.
- Come sta? – gli ha chiesto senza guardarlo, di fronte a una tazza di caffè fumante, - Progredisce?
José ha sospirato pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.
- Non saprei dirtelo. – ha ammesso, - Non è con lui che parlo, per la maggior parte del tempo.
- Ti stanno impedendo di gestirlo personalmente? – s’è informato discretamente lui, inarcando un sopracciglio, - Se il problema è Raiola, dimmelo pure senza esitazioni. Come l’ho gestito quando era un problema per la mia squadra, posso gestirlo ora che è un problema per Ibra.
- No. – ha sorriso José, scuotendo lentamente il capo, - No, non si sta mettendo in mezzo. Non è granché felice che debba occuparmene io, ma non sta opponendo resistenza. No, il problema… - e ha sospirato ancora, piegando la schiena ed appoggiandosi con entrambi i gomiti al tavolo, come fosse troppo stanco per reggersi dritto da solo, - è Zlatan. Non è con lui che parlo perché lui non vuole parlare con me.
Ci ha messo un po’ a spiegare a Moratti come effettivamente stessero le cose, e tutto quello che ha fatto alla fine il suo presidente è stato lasciarsi andare ad un sospiro stremato identico ai suoi e rilassarsi contro lo schienale della sedia, congiungendo le mani sotto al mento in una posa riflessiva e preoccupata che ha riempito José di una certa tenerezza, portandolo a realizzare all’improvviso e in un unico momento per quale motivo quest’uomo non fosse in grado di separarsi dai giocatori con astio, così come era evidente anche da parte dei giocatori l’impossibilità di provare rabbia o risentimento nei suoi confronti.
- Se non ti dispiace, - ha detto quindi, sorridendo appena, - vorrei comunque che fossi tu ad occuparti di tutto fino alla fine. Non importa quanto tempo ci vorrà, il tuo lavoro non è solo allenare questa squadra, è anche prenderti cura dei nostri atleti.
- Zlatan non lo è più da almeno tre mesi. – gli ha ricordato José con una mezza risata ironica. Massimo ha risposto con un sorriso perfino più sereno.
- Smetterà di esserlo quando deciderò io. – ha precisato, e poi ha sospirato. – Laporta ha provato a rimandarlo indietro. – ha confessato con un certo imbarazzo, svolgendo e riavvolgendo nervosamente un tovagliolino di carta. – Ha già sciolto il contratto da tempo, a tutti gli effetti Zlatan non ha una squadra, al momento.
- Non è in condizione di giocare. – ha azzardato José, lievemente confuso e ancora incerto sul punto verso il quale il discorso sembrava volesse andare a parare, - E probabilmente non lo sarà mai più.
Massimo ha sorriso ancora, annuendo compitamente.
- Non è una cosa che mi preoccupi. – ha concluso, alzandosi in piedi, - E comunque, una volta Rinaldi mi disse “questo non è il momento di parlare, bisogna solo riflettere a mente fredda per ritrovare prima l’uomo e poi il calciatore”. Sono sempre stato d’accordo con questo modo di vedere i problemi coi giocatori.
José ha sospirato, alzandosi in piedi a propria volta.
- Non che con Adri alla fine si sia riusciti a risolvere qualcosa. – ha sbottato, cercando di non lasciare affiorare troppo in superficie il risentimento che ancora prova per non essere stato in grado di recuperare, unitamente al resto dello staff, un giocatore che a suo modo di vedere aveva ancora tanto da dare all’Inter.
- Ehi, - ha riso Moratti, pagando disinvoltamente il conto senza neanche chiedere, - Adri sta facendo benissimo al Flamengo. Secondo me il recupero è stato eccellente, pare che Dunga lo convocherà perfino in nazionale. Sai qual è il tuo problema, José? – ha chiesto poi, dirigendosi verso l’uscita dopo un cenno di cordiale saluto nei confronti del cameriere ancora turbato dalla consistenza della mancia, - Quando si parla di esseri umani, c’è sempre un momento in cui è giusto stringere la presa, ed uno in cui è necessario allentarla. Con Adri dovevamo allentare, era inevitabile. Ed anche con Ibra, quando l’abbiamo mandato a Barcellona.
- Ed ora? – ha chiesto José, seguendolo all’esterno del locale e perdendosi un po’ nel cielo stranamente azzurro di Milano proprio sopra al Duomo.
- Ora – ha sorriso un’ultima volta Massimo, prima di salutarlo, - stringiamo e tiriamo indietro. Ovviamente.
La conversazione s’è chiusa lì, e José s’è affrettato a dirigersi all’aeroporto, prima di perdere l’aereo che doveva riportarlo a Barcellona. È arrivato troppo tardi per passare a salutare Zlatan, ma la prima cosa che ha fatto svegliandosi il mattino successivo è stata chiamare Eloy per farsi venire a prendere e farsi accompagnare in clinica. E se è nervoso, adesso, è solo perché ora sa cosa esattamente il suo presidente si aspetta da lui, ed è qualcosa che non è sicuro di poter garantire, dal momento che non solo non sa se riuscirà a recuperare il calciatore e non solo non sa se riuscirà a recuperare l’uomo, ma ogni tanto accarezza con sincero desiderio la possibilità di recuperare l’uomo, almeno quello, e poi fuggire lontanissimo, perfino in un altro universo, verso un posto in cui non sarebbe più possibile perderlo.
- Mister Mourinho! – lo saluta con un sorriso smagliante Blasi, accogliendolo a braccia aperte, - Spero che il suo viaggio sia andato bene.
- Ho affrontato viaggi migliori. – scrolla le spalle, salutandolo a propria volta con un mezzo sorriso. – Novità?
Il primario sorride in maniera perfino inquietante, ma la sua incapacità di trattenere l’entusiasmo è così contagiosa che José non può fare a meno di seguirlo un po’, sorridendo con maggiore convinzione.
- Ieri, per la prima volta, Zlatan ha chiesto esplicitamente di lei.
A José si ferma il respiro in gola.
- Di me?
- Esattamente. – conferma il primario, nella voce una nota di orgoglio difficilmente ignorabile, - Non Zay. Mou. Sa, gli altri giorni, durante le sue visite a Milano, ogni tanto chiedeva se non ci fossero visite per lui, ma niente di più, come volesse comunque tenersi alla larga da un rapporto troppo intimo. Ieri, invece, ha chiesto proprio di lei. La sua espressione quando gli ho detto che non avrebbe potuto incontrarla… avrei voluto che la vedesse. – conclude con una mezza risata.
- Io invece sono contento di non averlo fatto. – sospira José, socchiudendo appena gli occhi. – Posso vederlo adesso?
Blasi annuisce svelto, e non lo conduce nemmeno personalmente alla stanza di Zlatan. “Conosce la strada”, butta lì, palesemente al settimo cielo, lasciandolo solo col fedele e silenzioso Eloy alle spalle. José sa che dovrebbe sentirsi fiducioso anche lui – Blasi conosce il proprio mestiere e conosce i propri pazienti, sicuramente se ha mostrato una tale contentezza è perché sa di poterlo fare senza pericolo di disillusione – ma tutto ciò che riesce a fare è mordersi le labbra con forza spaventosa, fin quasi a farsi male davvero, quando entra in camera e trova Zlatan rannicchiato sul letto, le ginocchia al petto e il mento affondato sugli avambracci, lo sguardo perso nel vuoto di fronte a sé e le labbra serrate e tese.
- Zlatan? – lo chiama piano, mentre Eloy chiude la porta alle loro spalle, - Come stai?
- Avevo fatto un disegno per te. – risponde immediatamente Zlatan, senza spostarsi di un millimetro dalla posizione in cui l’ha trovato entrando. – Era un disegno bellissimo.
José deglutisce, avvicinandosi ed accomodandosi sul materasso accanto a lui.
- Grazie. – dice, abbozzando un sorriso, - Me lo fai vedere?
- Non ce l’ho più. – scatta subito lui, in un ringhio sommesso, - L’ho stracciato in mille pezzi e me lo sono mangiato.
José spalanca gli occhi.
- L’hai…-
- L’ho buttato via. – sospira Zlatan, - Se l’avessi mangiato tutto e mi ci fossi soffocato, però, forse ti avrebbero chiamato e tu saresti tornato. È che ci ho pensato solo dopo averlo buttato via, che potevo farlo.
- Zlatan… - lo chiama ancora, stendendo una mano sul materasso per avvicinarsi circospetto, sollevandola e cercando la sua spalla solo all’ultimo momento, - non fare così.
- Non sto facendo in nessun modo! – si lamenta lui, chiudendo gli occhi e ritraendosi di scatto, quasi violentemente, - Io non faccio mai in nessun modo, io sto chiuso qua dentro per tutto il tempo! Sei tu che fai cose, sei tu che te ne vai, mi avevi detto che non te ne saresti andato!
- Non sono andato da nessuna parte! – cerca di spiegarsi José, avvicinandosi ancora. Vorrebbe i suoi occhi, ma Zlatan li tiene chiusi e non glieli concede. José lo scrolla un po’, ma non ottiene niente, per cui, semplicemente, continua a parlare. – Avevo solo qualche questione da risolvere in un altro posto, Zlatan, ma non ho mai pensato di non tornare più. Io non ti abbandonerò.
- Anche Zay andava sempre via. – prosegue Zlatan, come se di quanto José ha detto fino ad ora non avesse sentito nemmeno una parola, - Non ti ho più parlato di lui, ti ho parlato di tante cose ma non di lui. – riflette, come realizzandolo all’improvviso. – Anche Zay se ne andava sempre. Tu sei uguale.
E José vorrebbe rispondere che sì, è vero, sono uguali, perché sono la stessa persona. Ma si ferma un attimo prima di dirlo ad alta voce, perché si rende conto che dirlo significherebbe ammettere che è vera anche la seconda parte del discorso di Zlatan: l’ha sempre abbandonato. Continua a farlo.
- Senti. – sospira quindi, - Guardami, per favore.
Zlatan solleva gli occhi nei suoi e José, scrutandoli nel profondo, trova una tristezza talmente grande da non poter essere sopportata da una sola persona. Non è sicuro nemmeno che sarebbe in grado di sopportarne la metà, se Zlatan gli concedesse di prenderne un po’. Ma non avviene e non avverrà, José ne è consapevole, Zlatan è geloso della sua tristezza come lo è stato di lui, come lo è stato di sua moglie, come lo è stato dei suoi figli, come lo è stato della sua maglia e del suo posto in squadra, come lo è stato di ogni cosa che considerasse propria. È per questo che s’è diviso in tre ed ha relegato tutta quella tristezza alla parte più profonda e indifesa di sé, per nasconderla dove nessuno sarebbe mai riuscito a toccarla, per sottrarla agli sguardi ed alle mani altrui, per conservarla eternamente.
- Non dirlo adesso. – sussurra Zlatan, così vicino alle sue labbra che José deve trattenersi con tutte le proprie forze per non annullare quei pochi centimetri che li separano e sfiorarlo, - Non l’hai mai detto, non dirlo adesso. – e nei suoi occhi c’è una consapevolezza del tutto diversa rispetto a quella che è possibile vedere in genere. Nei suoi occhi c’è Zlatan, quello vero, José lo riconosce e per poco non scoppia in lacrime. Ma obbedisce, e non lo dice.
- …me ne sono andato solo per un giorno. – dice invece, sorridendo un po’, - E puoi stare sicuro che le altre volte in cui me ne andrò saranno di pari lunghezza o anche più brevi, mai più lunghe. Non ti abbandonerò. Il tuo Zay ha sbagliato un mucchio di cose, sai?, ma io sono diverso. Io sono Mou.
E la consapevolezza negli occhi di Zlatan si scioglie e si perde scivolando via tutta insieme, lasciando posto a quel brillio infantile e a quel sorriso allegro che contraddistinguono l’ultimo Zlatan che ha conosciuto, quello che disegna fuochi d’artificio coi pastelli a cera perché guardandoli da un’altra prospettiva possano sembrare fiori.
- Forse parlare ancora di Zay non serve. – ridacchia un po’ Zlatan, allungando una mano per recuperare l’album da disegno, - Non è vero che ho buttato via il foglio. – continua con un sorriso furbo, - L’ho conservato. Vuoi vederlo?
José annuisce e lascia scorrere gli occhi sul disegno di Zlatan. C’è lui – lo riconosce dal naso, ed è divertente, perché Zlatan ci ha sempre scherzato su ed è bello vedere che non ha perso la voglia di farlo anche ora che è così diverso – che tende la mano verso un uomo di spalle, che si allontana. Dall’altro lato della pagina, uno Zlatan più felice stringe la mano di un uomo identico, solo che stavolta l’uomo non va via.
- Sono la stessa persona. – ride un po’ José, le dita che scivolano sul foglio, solleticate dai segni in rilievo lasciati dai pastelli a cera.
- Non lo sono. – dice Zlatan. La sua voce è diversa. José solleva gli occhi nei suoi e trova diversi anche quelli.
- Sei-
- Portoghese. – lo interrompe Zlatan, lui, o chiunque sia la persona che gli sta parlando adesso. E – José se ne accorge all’improvviso, non l’ha notato, l’altra volta – gli parla in spagnolo. – Lo stai facendo di nuovo.
- Non sto facendo niente. – ribatte José, aggrottando le sopracciglia, - Sei tu che lo stai facendo di nuovo, ti stai occupando di cose che non ti riguardano.
- Il Piccolo mi riguarda. – risponde l’altro, alzandosi in piedi e chiudendo l’album, per poi riporlo con cura sulla scrivania. – Ti diverti, vero? – continua con un sorriso cattivo, - Ti piace essere sempre al centro dell’attenzione, ti piace che Zlatan non riesca a dimenticarti. Se ci riuscisse tu poi ti sentiresti inutile, ho ragione? Ti sentiresti vuoto. Vivi solo perché gli altri parlano di te, perché si ricordano di te. Tu non sei niente, tu sei aria, sei aria cattiva. Sei come una malattia, nessuno ti vede, nessuno ti sente, finché non fai male.
- Io non voglio fare del male a Zlatan. – insiste José, ostinato, - Sei tu che lo stai distruggendo.
- Io lo sto proteggendo. – precisa lui, il ghigno che si allarga e si fa perfino più spaventoso, - Sei tu che l’hai distrutto una volta e stai per distruggerlo ancora. Devi lasciarlo andare. Non ti vuole più.
José socchiude gli occhi e ripensa alle parole del suo presidente.
- C’è un tempo per lasciare andare, ce n’è un altro per stringere e tirare indietro. Questo è il tempo di stringere e tirare indietro. – e poi sorride, e il suo sorriso non differisce poi in molto rispetto a quello della persona che gli sta di fronte. – Lo porterò via da qui. Tu non potrai più toccarlo.
Zlatan – o quello che ne resta – lo guarda a lungo, inespressivo. Poi sorride ancora.
- Tempo di stringere. – sibila.
Eloy irrompe nella stanza appena in tempo per evitare che le sue mani grandi si chiudano come tenaglie attorno al collo di José.

*

Si lascia cullare dalla voce di Tami così a lungo che perde il senso del suo discorso, e dopo un po’ le sue parole smettono di essere entità singole e ben suddivise con un significato proprio, per fondersi in un unico brusio che gli ricorda quelle colonne sonore discrete e piacevoli che i registi alle volte mettono in sottofondo durante le scene cardine, quelle in cui la melodia non deve avere un ruolo da protagonista ma da semplice accompagnatrice, quelle di cui non riconosci appieno la bellezza finché non le isoli rispetto alla scena che riempiono, e magari le riascolti due, tre, quattro, cinque volte, e ne scopri le particolarità, i saliscendi di tono, la preponderanza di alcune note rispetto ad altre. Impari a conoscerle, e la prossima volta che le risentirai insinuarsi dentro la tua mente di fronte a quella specifica scena di quello specifico film, sarai in grado di apprezzarle molto più profondamente, perché saranno tue. La voce di Tami è questo, per lui, l’accompagnamento costante senza il quale le scene che compongono la sua vita sarebbero vuote. Quello che ha imparato a conoscere piano, lentamente, quello di cui ricorda alla perfezione ogni nota. Di Zlatan non può dire tanto – e probabilmente è anche per questo che gli sembra di- tenere a lui? volergli bene? amarlo? che espressione si usa, in queste situazioni? – più di quanto il suo fisico non sia in grado di tollerare.
- Ti capita mai… - mormora, praticamente in dormiveglia, mentre Tami ride un po’ dall’altro lato della cornetta, - di trovarti di fronte ad una causa persa e di non avere la benché minima speranza di riuscire?
- Mi è capitato, una volta. – risponde lei, la sua voce tintinna come un campanello. – Ho conosciuto un uomo ostinato.
José sorride, gli occhi chiusi.
- E che hai fatto?
- Sono stata più ostinata di lui. – risponde lei, - Mi manchi, Zay. – aggiunge poi in un sospiro stremato. – Buonanotte.
José sta già dormendo. Il telefono continua a diffondere nell’aria il suono secco e penetrante del segnale di linea libera, e continuerà a farlo per tutta la notte.

*

Eloy non sembra apprezzare il suo trovarsi già lì il giorno dopo, come non fosse successo niente.
- Mister, questa cosa la sta prendendo nel modo sbagliato. – gli fa notare con un sospiro, e José ringhia.
- È un vizio degli spagnoli, quello di ficcare il naso nelle faccende che non li riguardano per niente? – borbotta, proseguendo spedito lungo il corridoio della clinica che ormai conosce a memoria, senza nemmeno passare da Blasi per un saluto.
- È che mi dispiacerebbe per lei e per Zlatan, se finisse tutto male. – motiva la guardia di sicurezza con una scrollata di spalle.
- Sì, grazie per il sostegno. – risponde acido José, - Ce la caveremo.
- No. – lo ferma Eloy, e quando capisce che José non sembra intenzionato a starlo a sentire, allunga una mano e la pianta contro lo stipite della porta della camera di Zlatan, deciso, tanto veloce che per poco José non se lo ritrova a due centimetri dal naso. Si volta a guardarlo come l’avesse appena insultato, ma Eloy regge l’occhiata senza fare una piega, fissandolo gelido di rimando. – Io parlo poco, Mister Mourinho, per questo dovrebbe ascoltarmi, quando lo faccio.
José si lascia andare ad un ghigno irritato, piantando una mano sul fianco.
- Pensavo fossi una persona molto più umile, sai? Mi sbagliavo. – commenta.
- Già. – annuisce Eloy con un sorriso quasi timido, - Alle volte l’apparenza inganna. Il fatto che io sia bravo a fare il mio lavoro non mi impedisce di essere in grado di mandare a fanculo la professionalità e dire le cose come stanno, per una volta.
- E questo ti sembra un comportamento onesto? – ritorce con una mezza risata. Eloy scrolla nuovamente le spalle.
- Non ne ho idea e non m’interessa. Soprattutto, non accetterò una paternale sul punto proprio da lei, Mister Mourinho. E non le chiederò nemmeno se ha intenzione di ascoltarmi, perché la forzerò a farlo, se necessario. Chiaro? – José incrocia le braccia sul petto e fa per concedere un “d’accordo” che riporterebbe il loro confronto su un livello quantomeno paritario, ma Eloy non mentiva quando parlava di forzarlo, e di sicuro non ha bisogno di una sua concessione per riprendere a parlare. – Lei non ha capito un accidenti della situazione in cui si trova. – comincia la guardia, - E non ha idea dei disastri che potrebbe causare a Zlatan se continua a fare così di testa sua. Lavoro qui da anni, so di cosa sto parlando.
- Ed esattamente, - lo interrompe José con aria cupa, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, - in cosa starei sbagliando così grossolanamente?
Eloy abbassa lievemente lo sguardo, e José non riesce a capire se sia in difficoltà nel trovare qualcosa da dire o solo nel trovare il modo adatto in cui dirlo.
- È una questione di tempi, Mister Mourinho, lei non li sta rispettando.
- I tempi variano da persona a persona, Eloy, ed io conosco i tempi di Zlatan.
- Lei non conosce Zlatan! – scatta la guardia di sicurezza, risollevando repentinamente lo sguardo, - Io probabilmente non ho idea di chi o cosa fosse Zlatan prima di impazzire, ma ho vissuto a stretto contatto con lui per gli ultimi tre mesi, e lei non ha ancora capito che questa persona è una persona diversa rispetto a quella che conosceva un tempo! Non può comportarsi con lui nello stesso modo in cui si comportava prima! Non può usare gli stessi tempi! – si ferma, inspira ed espira, cercando di calmarsi. – Questo Zlatan ha dei tempi diversi, e lei deve rispettarli, Mister Mourinho, o da questa storia non verrà fuori mai niente di buono. La prego, mi ascolti.
José morde con forza l’interno di una guancia, reggendo l’occhiata adesso quasi triste di Eloy senza cambiare posizione né mostrare segni di cedimento.
- Hai finito? – chiede quindi. Le spalle di Eloy si incurvano all’improvviso, come se qualcosa l’avesse inaspettatamente privato di tutta la sua forza.
- Sì, ho finito, Mister. Ho finito. – biascica, il tono di chi sa di aver finito non perché ha portato a termine la propria missione, ma perché l’ha inesorabilmente fallita.
José aspetta che si sia allontanato lungo il corridoio, prima di aprire la porta ed entrare.

*

Zlatan si sta mangiando le unghie, quando si volta di scatto, dopo averlo sentito entrare. José lo guarda con sincero stupore, a lungo, perché le mani di Zlatan sono sempre state fra le più curate avesse mai visto addosso a un uomo, le unghie sempre pari, mai rovinate, sempre pulite e lucide. Non aveva mani delicate – la pelle, soprattutto sui polpastrelli, era ruvida e opponeva un attrito piacevolissimo alle carezze lente delle sue mani – ma non per questo le aveva mai trovate appena di un punto meno che perfette. Per un attimo, schiude le labbra e fa per commentare “e questo vizio da dove spunta?”. Poi, controvoglia, ricorda le parole di Eloy e realizza che questo Zlatan potrebbe benissimo rispondergli che mangia le unghie da quando è nato, perciò lascia perdere e lo saluta con un cenno del capo, nervoso.
- Sei tornato.
La voce di Zlatan risuona all’interno della stanza piccola e silenziosa, venata da un tale sincero stupore da sembrare quasi infantile. José annuisce, avvicinandosi circospetto.
- So che non è colpa tua, quello che è successo. – si affretta ad anticiparlo. Zlatan guarda altrove, si morde un labbro, lascia ricadere le braccia lungo i fianchi. È in piedi contro la parete, talmente schiacciato addosso al muro da sembrare una bestiolina in trappola. La maglietta bianca sembra appesa alle ossa appuntite delle sue spalle. È ancora troppo magro. – Vieni qui, dai.
- Io so che è stata colpa mia. – risponde Zlatan, scuotendo svelto il capo e schiacciandosi con maggiore forza contro il muro, serrando le braccia dietro la schiena come nel tentativo di tenerle imprigionate, per impedir loro di nuocere in alcun modo, - Avevo promesso che l’avrei tenuto buono. E invece, fra tutti, proprio a te…
- Ascoltami. – lo interrompe José, e avanza di un passo. Per tutta risposta, Zlatan indietreggia, anche se il suo non è un vero indietreggiare, dato che non ne ha lo spazio. José lo osserva, così sottile, la pelle chiarissima sembra quasi trasparente nella penombra della stanza, e i suoi occhi – un tempo piccoli e sottili – paiono enormi sul viso scavato. – Non fare così, per favore. Siamo amici, vero?
- Io ti ho fatto del male. – puntualizza Zlatan, - Sarei capace di farlo ancora.
José lo osserva staccarsi dal muro di scatto e cominciare a vagare per la stanza in cerchi dapprima piccoli e nervosi, poi sempre più ampi e confusi.
- Zlatan-
- Non volevo che tornassi. – biascica lui, le mani fra i capelli che si scompigliano tutti e cadono subito a coprirgli la fronte, - Avevo detto a Eloy di non portarti più qui. Il dottore dice che sto cominciando a stare meglio, a me sembra di impazzire sempre di più. – si ferma all’improvviso, lo guarda come lo vedesse per la prima volta. – Io sono innamorato. – dice a bassa voce, - Io sono pazzo. Tu non dovevi tornare.
José sospira, cercando di andargli incontro. Zlatan non dice una parola, ma ogni passo di José in avanti si traduce in due suoi passi verso la parete alle sue spalle, e dopo qualche secondo José capisce che non caverà niente di buono da quello strano balletto, e decide di fermarsi. Zlatan non fa lo stesso: continua a muoversi fino a toccare nuovamente il muro con tutta la schiena, sembra che in questa posizione – le braccia sempre nascoste, strette come fossero annodate – si senta più tranquillo.
- Non ce l’ho con te. – cerca di rasserenarlo.
- Io sì. – risponde subito lui, deglutendo a fatica, - Io ce l’ho con me. Devo aver fatto qualcosa di simile anche a Zay- sì, ecco, è sicuramente per questo che lui mi ha abbandonato. Io impazzisco e faccio cose, devo aver fatto male anche a Zay.
- Non hai mai fatto niente a Zay. – gli spiega José, piano, sorridendo un po’, - È Zay che ha sbagliato tutto e non ha capito niente. Ma tu devi fidarti di me, Zlatan.
- Io mi fido di te! – singhiozza lui, e si morde un labbro perché non vuole piangere, - È di me che non mi fido! Tu devi andare via, ti prego, vai via… - mormora confusamente, abbassando lo sguardo. I capelli scivolano di nuovo di fronte al suo viso, nascondendo la sua espressione. José non riesce a immaginare quale possa essere, è davvero la prima volta che si sente così perso di fronte a una persona che è sicuro di conoscere tanto bene.
Deglutisce, inumidendosi le labbra.
- Posso avvicinarmi? – chiede timoroso.
- No. – risponde Zlatan, deciso. – Sì… no. No.
- Hai detto sì. – gli fa notare José, avvicinandosi di un passo.
- Ho detto più volte no. – precisa Zlatan, stringendosi nelle spalle, - Fermati, per favore.
- No. – scuote il capo lui, e si ferma solo quando è tanto vicino da poter recuperare gli occhi di Zlatan coi propri, per costringerlo a ricambiare il suo sguardo senza nemmeno sfiorarlo. Ha gli occhi talmente lucidi e gonfi di pianto che José avrebbe voglia di stringerselo contro tanto forte da fargli male, per potergli permettere di liberarsi. – Farei qualsiasi cosa, per te. – dice in un soffio, sollevando un braccio ed accarezzandogli lievissimo una guancia, - Manderei a fanculo tutto- ho una moglie e due figli, ho un lavoro, ho una vita stupenda. Dimmi cosa devo fare. – Zlatan si morde un labbro con una forza tale che José ha paura possa spaccarselo. Per questo sposta le dita sul contorno della sua bocca, sfiorandolo leggermente in modo da costringerlo ad allentare la presa. – Tu dimmi solo cosa devo fare, e io lo faccio. Sono stanco, Zlatan. Non so più che decisione prendere, perciò decidi tu.
Le spalle di Zlatan si sciolgono, le sue mani scivolano lungo i suoi fianchi e José le sente risalire lungo il proprio petto con una lentezza spaventosa. Si stanno scambiando uno sguardo vuoto e stanco che non vuol dire niente, le uniche cose che stanno parlando, adesso, sono le mani di Zlatan. Se saliranno fino al suo collo e lo stringeranno con forza, sarà tutto finito. Ma le mani si fermano da qualche parte all’altezza del colletto della sua camicia, lo stringono in uno spasmo terrorizzato, si chiudono attorno al cotone e tirano un po’. Strattonato in avanti, José schiaccia tutto il proprio corpo contro quello di Zlatan, e sente il suo viso nascondersi svelto nell’incavo del proprio collo – appena in tempo per raccoglierne le lacrime.
- Portami via. – mormora Zlatan sulla sua pelle, le labbra umide e la voce impastata, - Portami via da qui.
José non deve nemmeno rispondere.

*

La mano di Zlatan, stretta dentro la sua come quella di un bambino perso e un po’ impaurito, è identica a quella che era prima che andasse via da Milano. Scivolando silenziosamente lungo il corridoio della clinica – nessuno fa caso a loro, nessuno li nota, ormai è normale vederli andare a zonzo per quelle stanze, come fossero a casa propria, anche senza la costante presenza di Eloy – José lo stringe con forza a sé e Zlatan si lascia coccolare e blandire come non avesse nemmeno cinque anni. Resta in silenzio, e tocca a José riempirgli le orecchie di rassicurazioni prive di senso, gli parla un po’ in spagnolo, un po’ in portoghese, un po’ in italiano. Potesse, gli parlerebbe anche in svedese, ma è abbastanza sicuro che Zlatan non coglierebbe neanche una parola, così come in realtà non ne sta cogliendo una nemmeno adesso, preferendo concentrarsi sul flusso costante e continuo delle sue parole che lo cullano come una ninna nanna, conducendolo fino all’auto come la melodia del pifferaio di Hamelin. Curiosamente, fuori piove, e mentre José pensa ai topi della fiaba, morti affogati fra i flutti del fiume Weser, stringe i denti e cerca di non pensare che un po’ sembra un pifferaio anche lui, pure se l’ultima cosa che vuole è portare Zlatan verso la morte.
Quando mette in moto, schiaccia il piede sull’acceleratore e lascia che sia il suo istinto a condurlo. Ormai conosce bene Barcellona, ma non può dire altrettanto dei dintorni. Spera soltanto che la strada che ha imboccato lo porti il più lontano possibile dalla città.
Zlatan sonnecchia, al suo fianco. I suoi occhi scuri sono seminascosti dalle palpebre quasi chiuse e pesanti, le labbra strette in una smorfia vagamente nervosa, gli arti rilassati lungo i fianchi del sedile. Osserva le gocce di pioggia scivolare leste lungo la superficie liscia del finestrino, ne segue le tracce, sorride appena quando due gocce s’incontrano e le sue sopracciglia si inarcano infantilmente quando il gocciolone risultante si separa in due o più parti.
- Non resta mai intero niente… - mormora deluso, - Non c’è niente che duri per sempre.
- Noi possiamo. – nega deciso José, guardando fisso la strada che si allunga infinita davanti a sé. Zlatan sorride ironico.
- Secondo tentativo. E se falliamo, non c’è due senza tre. – bisbiglia.
- Cosa? – chiede José, ma Zlatan scuote il capo.
- Niente. – risponde, - Grazie per avermi portato via, Mou. Zay. José.
José si volta a guadarlo, spalancando gli occhi con aria stupita.
- Come- - accenna, ma Zlatan ride a bassa voce e gli impedisce di concludere.
- Non so cosa sto dicendo. – dice, - Sono confuso. E poi c’è la pioggia. Quando pioveva, io e Zay ci vedevamo spesso. Non so perché, mi diceva che la pioggia gli ricordava me, e che quindi quando pioveva aveva voglia di baciarmi.
José sorride. Sta cominciando a capire come funzioni la testa di Zlatan – ogni tanto riemergono parti di un se stesso più antico, ogni tanto tutte le parti esistenti si confondono mescolandosi in qualcosa di unico. Non è semplice come gliel’aveva descritto il dottor Blasi, ma d’altronde da Zlatan non avrebbe mai potuto aspettarsi nulla di diverso.
- Sfuggente e spietata. – racconta, - È per questo che gliela ricordavi. La pioggia cade ovunque, non risparmia niente, ma se solo provi a catturarla scivola via. Perché è acqua.
- Puoi sempre raccoglierla in una bacinella. – gli fa notare Zlatan, tornando a guardare di fuori, - Zay non mi ha mai raccolto.
- È stato uno dei suoi numerosi errori. – risponde lui in un ringhio sommesso, - Non devi più pensarci, da oggi in poi sarà tutto diverso.
- Niente è mai davvero diverso. – le parole scivolano impalpabili fra le labbra di Zlatan, che non guarda più nulla: ha gli occhi chiusi e parla in un mormorio distante, - A meno che non ci sia di mezzo il sangue. Quello sì che cambia tutto. Ci hai mai fatto caso? Quando nasce un bambino, lo fa in mezzo al sangue. Quando le ragazze si sviluppano, lo fanno sanguinando. Tutti i più grandi cambiamenti della vita di una persona sono battezzati col sangue- e poi ci sono i cambiamenti che dovrebbero portarti a sanguinare e invece non lo fanno. Tipo quando ti spezzano il cuore in due, e tu sei l’unico che se ne accorge.
- Zlatan-
- Ma tu non devi scusarti. – la sua voce è sempre più distante, le sue labbra si muovono appena, sta già praticamente dormendo, - Non è colpa tua, tu non c’entri. E non è nemmeno colpa di Zay, sono io che non ho mai capito niente. Devo avergli fatto tanto male, devo averlo deluso tantissimo. Lui non abbandonava mai nessuno senza un motivo, sai? Quindi devo avergli dato un motivo veramente valido, per costringerlo a lasciarmi da solo. – si interrompe, aggrottando le sopracciglia, - Ho mal di testa e ho sonno. Questa era l’ora, mi sa. Il dottor Blasi si arrabbierà. Avrei dovuto chiedergli una scorta di flaconi, prima di andare via, lui dice sempre che le medicine sono importanti.
José pianta il piede sul pedale del freno e si volta a guardarlo. Zlatan, assicurato al sedile con la cintura di sicurezza, si muove appena in avanti. Il suo corpo è talmente molle da sembrare privo di vita.
- Zlatan. – lo chiama a bassa voce, slacciando la propria cintura e sporgendosi verso di lui, - Prendevi delle medicine? – e poi si morde un labbro, imprecando sottovoce, - Che testa di cazzo. Che testa di cazzo, Cristo, quando mai s’è vista una persona in queste condizioni che non prenda delle medicine?! – inspira ed espira profondamente. Zlatan schiude appena gli occhi per guardarlo. – Zlatan, come ti senti?
- Stanco. – risponde lui con un sorriso minuscolo, - Però sto bene. Anche se è tutto confuso. Mi ricordi una persona, sai?
- Sì. – risponde subito lui, accarezzandogli il viso gelido, - Sì, lo so. Anche se odio ricordartelo. Non puoi dimenticarlo e basta?
- Tu dimentichi chi hai amato in passato? – chiede Zlatan con un filo di voce, appoggiandosi contro la sua mano, - Io non sono capace.
- Nemmeno io. Cristo- - gli viene da piangere, ma sa di non poterselo permettere, - Ti prego, rimani con me.
- Sono con te. – annuisce Zlatan, - Io non vado da nessuna parte. Però tu non vuoi me, io l’ho capito, sai?
- A me vai benissimo come sei. Cazzo, mi vai benissimo come sei, ti prego, non dire stronzate.
- Tu non sei Zay. – sorride Zlatan, - Io non sono Zlatan. Siamo tutti sbagliati, non potrebbe mai funzionare. Ma non riesco a dirti che dovresti tornartene a casa tua, perché sono egoista come Zlatan. Lui è qui e sta urlando qualcosa, ma io non te lo posso lasciare vedere. Perché tu non sei Zay.
- Ti prego… - continua José, la voce rotta, - Devi farmelo vedere. Io devo parlare con lui. Ho bisogno… devo dirgli qualcosa, devi lasciarmi parlare con lui.
- Non posso lasciarti parlare con lui. – ridacchia un po’ Zlatan, scuotendo il capo, - Zlatan vuole il suo Zay. È quello che lui cercava di dirti, gli spezzi il cuore. Zay, in questo momento, non si comporterebbe come ti stai comportando tu. È una persona diversa. È quella, la persona che Zlatan vuole. Tu non puoi dargli quella persona, quindi io non posso darti Zlatan. Lui non è mio e non è tuo, è solo di Zay.
José abbassa lo sguardo. Si sente sconfitto come non è mai stato in vita sua. Ha perso una quantità incredibile di cose – molte per negligenza, alcune per sfortuna, altre ancora per ostinazione – ma nulla gli sembra grave, a ricordarla adesso, come quello che sta perdendo in questo momento. Zlatan gli sta scivolando via dalle mani, e lui non riesce a trovare un modo di trattenerlo.
- Adesso… - comincia, nascondendo le lacrime sotto l’onda di capelli che gli cade sulla fronte ora che guarda in basso, - Adesso piantala di fare la primadonna. – ringhia. Le lacrime cadono, non ne scendono altre. José lo guarda fisso, adesso, e Zlatan ricambia l’occhiata con stupore. – C’è troppo poco spazio, qui, per contenere il tuo ego. Quindi ridimensionalo.
Il secondo di silenzio che segue le sue parole si allunga in un attimo infinito dilatato nel buio che circonda l’automobile. José non saprebbe più nemmeno dire dove si trova, né sa se, nelle condizioni in cui sono, lui e Zlatan potranno arrivare vivi a domattina, mentre il cielo di Spagna rovescia loro addosso tutta la sua furia.
- …Zay. – lo chiama Zlatan, e per la prima volta da quando è lì la sua voce suona familiare alle sue orecchie. – Zay.
- Avanti. – insiste lui, aggrottando le sopracciglia, - Sono qui, adesso. Dimmi quello che mi devi dire, o avrò fatto un viaggio inutile. E non mi piacciono i viaggi inutili, zingaro, lo sai bene.
- Zay… - boccheggia Zlatan. I suoi occhi saettano confusi sul suo viso, sono vivi e brillanti, umidi, lucidi, José li riconosce. Li riconosce, cazzo, li riconosce. – Zay…
- Cos’è, adesso sai solo ripetere il mio nome? Bella storia. La prossima volta, mandami una lettera.
Zlatan apre la bocca a vuoto ancora un paio di volte, e poi le sue dita si stringono attorno al braccio di José, fin quasi a fargli male.
- Hanno ammazzato Helena e i bambini. – confessa, - Me li hanno ammazzati lì, senza un cazzo di motivo valido, solo perché me n’ero andato da Milano. Mi hanno ammazzato i bambini. I miei figli. Hanno ammazzato Helena.
- E stai facendo la lagna per questo da mesi. – continua José, duro, con una smorfia annoiata, - Davvero, cresci un po’, Cristo santo. Non stiamo tutti qui a fare da spugna per le tue lacrime.
- E tu non ti facevi più sentire. Ti ho cercato, non hai mai risposto. Volevo parlarti.
- Io non volevo parlare con te, mi sembra ovvio. Che cazzo volevi, che mollassi tutta la mia vita per venire a salvarti dal precipizio? Sii serio, sei un giocatore come tutti gli altri, e niente di più. – e si morde un labbro, e Zlatan piange, sta piangendo così tanto, José non ce la fa più.
- Helena era incinta. – confessa ancora in un filo di voce, - Aspettava un altro bambino. Era… un altro bambino, e hanno ammazzato anche lui.
E la voglia di urlare gli squarcia i polmoni e lo stomaco, José non si è mai sentito così, come lo stessero aprendo in due per rivoltarlo al contrario. Brucia tutto, anche se fa freddo, ma stringe i denti e si stringe anche la presa della mano di Zlatan attorno al suo braccio.
- Bene, ora hai finito di lagnarti? – chiede con aria supponente, - Perché la squadra ha bisogno di te in forma, Zlatan, ed io ho bisogno di te in forma. – lo rimprovera come lo stesse rimproverando per le lamentele dopo una partita andata male, e non riesce a capire se questa sia la strada giusta per riportarlo in sé o solo quella più breve per condannarlo a morte. – Quindi datti una mossa e piantala. Ho esaurito la mia pazienza.
La voce di Zlatan si spezza in un singhiozzo che gli rivolta le viscere.
- Abbracciami. – dice piangendo, – Scusa. Abbracciami.
José scoppia a piangere a propria volta e si china su di lui, stringendolo tanto forte da fargli mancare il respiro, da farsi mancare il respiro, da togliere il respiro a tutto il resto del mondo. Sono ancora lì, senz’aria, quando li trovano, due minuti dopo.

*

- Ma i fiori… non saranno eccessivi? – chiede Davide, allargando con un dito il colletto della camicia mentre stringe l’enorme mazzo di rose al petto con l’altro braccio, nel tentativo di non lasciarlo rovinare in terra.
- Be’, se fossero per il mister, lo sarebbero. – ridacchia Mario, tirandogli una spintarella giocosa contro un fianco, - Ma visto che sono per la signora… - e non fa in tempo a finire, visto che la signora appare sulla soglia della porta con un sorriso allegro e li saluta entrambi con entusiasmo.
- Che carini siete stati a passare di qui! – cinguetta Matilde, - E che bei fiori!
- Per lei! – risponde prontamente Davide, tendendole il mazzo e liberandosene anche con un certo sollievo.
- Disturbiamo? – chiede Mario con un sorriso sereno, mentre Matilde si sistema i fiori contro il petto.
- Ma no, assolutamente! – risponde, scostandosi dalla soglia per lasciarli passare, - Prego, prego. José è in giardino. – dice, accennando alla portafinestra che riempie un’intera parete della sala che s’intravede già dall’ingresso, - Andate, conoscete la strada.
La strada la conoscono sì, sono mesi che fanno la spola dalla Pinetina a Villa Ratti, o da casa a Villa Ratti, sperando sempre in buone nuove che arrivano a pezzetti, caute, sotto forma di ipotesi che non si concretizzano mai.
- Se non c’è neanche stavolta, - avverte Davide, la voce che trema, - urlo. Lo giuro.
- Ssh. – lo calma Mario, stringendogli distrattamente una mano. E poi oltrepassano la portafinestra e il giardino si stende attorno a loro, tanto bello da sembrare finto, e José è seduto su una sdraio, e Zlatan è in costume da bagno e dondola i piedi nell’acqua tiepida della piscina, lì seduto a bordo vasca, e qualcosa nei loro petti si scioglie, scivola giù fino allo stomaco e poi risale in gola, tant’è che quando Davide parla lo fa dopo un mezzo uggiolio che non è altro che l’espressione sonora del suo cuore che si alleggerisce.
- …è uscito dalla stanza. – mormora, - È- è uscito davvero.
Mario non riesce a dire nulla; vorrebbe, ma l’intenzione stessa si perde e svanisce quando Zlatan solleva gli occhi su di loro e li accarezza lievissimo con uno sguardo che sa d’impazienza e paura insieme. José osserva la scena tenendosi quasi in disparte, come sempre quando c’è qualche merito da prendersi e tutto va bene. Lascia spazio, e Zlatan tira fuori le gambe dall’acqua, mettendosi in piedi e restando lì fermo, le braccia lungo i fianchi. Almeno fino a quando non si decide a spalancarle.
- Insomma, - borbotta, - non sono mica fatto di cristallo.
L’attimo dopo, lo stanno già investendo di abbracci e parole in un intreccio confuso all’interno del quale non si capisce niente. Matilde, dalla sala, ride e avverte che aggiungerà due posti a tavola, visto che è quasi ora di pranzo, e José annuisce bonario. Quando Mario gli si avvicina, lasciando a Davide un po’ di tempo per coccolare e farsi coccolare come vuole, sorride anche a lui.
- Sembra in forma. – commenta con un sorrisino furbo.
- Io non fallisco mai. – risponde José, supponente, accarezzandogli la testa rasata in un gesto paterno, - Che cavolo ti sei scritto in testa, stavolta, benedetto ragazzo? – chiede con aria esasperata, sollevandosi lievemente sulle punte per sbirciare.
Victory. – risponde orgoglioso Mario, - Guarda che bello. – ridacchia, piegando un po’ il capo per permettergli di osservare più attentamente.
- Bello. – concorda José, ridendo a propria volta, - Propiziatorio.
Celebrativo. – precisa lui con una linguaccia infantile, - Non ho mai dubitato.
- Quand’è che torna in squadra? – ride Davide, senza staccarsi un secondo dal fianco di Zlatan, che scuote il capo, vagamente esasperato.
- Perché non chiederlo direttamente a me, dico io? – si lagna, - Torno il mese prossimo, bambino. – prosegue, ignorando José che si lamenta perché non ha il diritto di rubare soprannomi che lui avrebbe fatto meglio a brevettare quand’era in tempo, - Stiamo diminuendo il dosaggio delle pillole, poco a poco. Ma sto alla grande, José tra le altre cose mi fa anche allenare un sacco.
- Oh, sì, immagino. – commenta Mario, inarcando un sopracciglio.
- Ho una palestra al secondo piano. – sbotta José, tirandogli uno scappellotto neanche troppo affettuoso contro la nuca, - E bada a come parli in casa mia, teppista. Non ci metto niente a tenerti in panchina per tutto il resto della tua esistenza.
Ma poi Matilde appare sulla soglia della portafinestra ed informa tutti che gli antipasti sono già in tavola, e quindi il tempo per protestare si esaurisce in un secondo, che c’è da litigare per chi riuscirà ad accaparrarsi l’ultimo pomodoro ripieno – e questo è decisamente più importante.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Drabble, Slash.
- Zlatan sta bene dov'è.
Note: Solo chi mi conosce può immaginare quanto male possa avermi fatto scrivere queste due paroline in croce, gh XD Ogni volta che scrivo ancora su Zlatan, i suoi rapporti con José e con l’Inter nel passato, nel presente e nel futuro, mi stupisco sempre di quanto ci sia da dire, di quante sfaccettature si possano ancora descrivere – in sostanza di quanto la storia non si sia mai chiusa nonostante in realtà sia vero proprio l’esatto contrario. Insomma, è quello che amo tanto dello scrivere RPF, alla fine.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Nessun Rimpianto
1. I love this place enough to have no doubt (Snow Patrol)


Ogni tanto José ritorna. Non lui, naturalmente, ma l’immagine che ho di lui, il ricordo che mi resta della sua pelle, della sua voce, del modo che aveva di toccarmi e rivolgersi a me quando pretendeva la mia attenzione. Sono momenti in cui divento improvvisamente molto geloso dei miei spazi – cioè, più geloso di quanto già non sia in genere – perché ho come l’impressione che se lasciassi a qualcuno il permesso di intrufolarsi fra me e José quando viene a farmi visita in sogno o nei miei pensieri, allora poi José non tornerebbe più. È un po’ ridicolo pensare che senza questa minuscola traccia di lui poi mi sentirei solo, però è così. Ho paura del momento in cui smetterò di ricordarlo, perché a quell’uomo ho lasciato in pegno una parte di me talmente grande che perdere lui equivarrebbe anche a perdere quel pezzo di me stesso. Di me resterebbe solo una metà, e non sono neanche sicuro che sarebbe la metà migliore.
Quando José torna, me lo chiede spesso. Mi sorride e mi guarda con affetto e poi me lo chiede: torneresti?
È una cosa molto stupida che io non riesca mai a rispondergli, perché la risposta è no. No, José, non tornerei. Sto bene qui. Barcellona è bellissima ed io sono sereno. No, José, non tornerei. Però non voglio che tu lo sappia.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, if you squint, ma non è neanche evidente.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Drabble, Slash (sempre if you squint).
- Storia di un paio di guanti dai colori poco raccomandabili.
Note: Giusto per dire che i guanti esistono davvero e io li amo con passione trascinante e mi viene sempre da ridere, quando ci penso, perché mi dico che anche se fossero un equipaggiamento standard dei giocatori del Barça (d’altronde, le sedie della panchina del Camp Nou sono nerazzurre *lolla*), ci vuole comunque un bel coraggio ad andare in campo – unico fra tutti i tuoi compagni – con un paio di guanti nerazzurri addosso mentre la tua nerazzurrissima ex squadra si gioca la qualificazione agli ottavi di Champions in quello stesso esatto momento a Milano XD Zlatan, ti vu bi.
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Gloves
5. I get the privilege to enlighten you (The Radio Dept.)


– Stai scherzando?
Josep lo guarda come fosse un criminale o qualcosa di addirittura peggiore, ma Zlatan non si scompone e risponde con un sorriso elusivo, inclinando appena il capo mentre sistema i parastinchi sotto i calzettoni.
– In che senso? – chiede con simulata innocenza, e Josep sbuffa, chinandosi a recuperare una delle sue mani e sollevandola all’altezza del viso, così che possa rendersi conto di possederla, in primo luogo, e di averla abbigliata con colori che non le competono in secondo.
– Questi. – precisa, scrollandogli la mano proprio davanti al naso, - Dimmi che stai scherzando.
Zlatan osserva i guanti nerazzurri con minimo interesse, e poi scuote le spalle.
– Sento freddo. – risponde a mo’ di giustificazione, e Josep sospira esasperato e si allontana, che tanto non c’è niente da fare con questa testa calda di uno zingaro svedese, e lui lo conosce da poco ma almeno questo l’ha capito.

– Allora non stavi scherzando! – ride José, e la sua voce, dall’altro capo del telefono, suona deliziosamente allegra. Zlatan sorride e pensa che è valsa la pena di allontanarsi per sentirle toccare queste note che, negli ultimi mesi, purtroppo s’erano un po’ perdute.
– Ero assolutamente serio. – risponde, – E poi, visto? Vi hanno portato fortuna.
– A te un po’ meno. – sorride più teneramente lui, – Eri praticamente invisibile in campo. Quasi mi dispiace. – ghigna divertito. Zlatan ghigna a propria volta.
– Questo perché in campo non c’ero. – risponde naturalmente.
José resta in silenzio, come non comprendesse ciò che ha appena detto.
– Ma ti ho visto, con gli stessi occhi con cui ho visto l’assist di tacco di Mario. Se è successa una co-- – si interrompe, riflette un paio di secondi e poi scoppia a ridere. – Sei un cretino. – stabilisce alla fine, – Va’ a dormire.
Zlatan sorride ancora, e prima di interrompere la conversazione risponde con una pernacchia.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Bojan/Josep, accennato Davide/Mario.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Lunedì 31 Agosto 2009, Zlatan Ibrahimović fa il suo debutto nella Liga spagnola, con la sua nuova squadra, il Barcellona. Ad osservarlo dagli spalti, anche uno spettatore d'eccezione: José Mourinho, ex-allenatore e - purtroppo per Zlatan - ex anche in qualche altro scomodo senso. La sua presenza agita Zlatan, ma non gli impedisce di segnare il suo primo gol in maglia blaugrana, e proprio quando è convinto di aver dimostrato qualcosa a José, con quel gol - anche se non sa esattamente cosa - i suoi compagni gli fanno sapere che Mourinho è uscito dallo stadio dieci minuti prima della fine dell'incontro, motivo per cui ha perso il suo gol. Amareggiato, Zlatan non riesce a nascondere la sua delusione. Tanto quanto non riesce a nascondere la sua sorpresa quando, dopo la partita, José gli si avvicina e lo invita a salire in macchina con lui.
Note: Questa fanfic è ridicola per due motivi: prima di tutto, è ridicolmente lunga per quello che racconta; secondo poi, è stata scritta in un tempo ridicolmente breve (tre giorni, more or less) per quanto è lunga e per quelli che sono i miei ritmi di scrittura effettivi XD
Nonostante le sue caratteristiche di ridicolaggine intrinseca – e forse in parte anche per quelle – questa storia vuol dire molto, per me, anche perché è un missing moment *_* E io trovo adorabili i missing moment nell’universo RPF, perché non sapere cosa sia accaduto davvero ti dà modo di fingere che ciò che hai scritto tu sia accaduto davvero *balla felice* XDDD
Scherzi a parte, ho cercato di mantenermi il più possibile aderente alla realtà, sia per quanto riguarda ovviamente José che va a guardare Barcellona-Sporting Gijon, sia per quanto riguarda l’andamento della partita. In particolare, tipo, l’esultanza dopo il gol di Ibra l’ho riportata esattamente come è avvenuta nella realtà XD (La verità è che quell’esultanza mi è piaciuta da morire perché è stata di una tenerezza che a) mi ha conquistata, b) mi ha fatto pensare “ok, a questa gente posso lasciare Zlatan, so che se ne prenderanno cura <3” Pathetic!Fangirl iz pathetic, Y/Y? Y.)
E insomma \o/ Spero che nonostante la ridicolaggine di cui sopra questa fic possa esservi piaciuta.
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QUESTIONE DI ATTESE


Zlatan ha cambiato squadra per una questione di attese. Ricorda un periodo lontanissimo – doveva avere cinque, sei anni – in cui le attese erano ancora una gioia. Attendere il ritorno di papà dal lavoro sperando portasse con sé qualche dolcetto da rubacchiare prima di cena e dividere con Sapko, Sanela e Alexander subito dopo, attendere che la torta in forno fosse pronta, sbirciare attraverso lo sportello trasparente per osservarla gonfiarsi e dorarsi, e naturalmente Natale, aspettare i regali – il nuovo paio di scarpini o la nuova palla per sostituire quella dell’anno prima ormai distrutta.
Da quando gioca a calcio a livello professionale, Zlatan ha dimenticato il valore delle attese. Ha un talento e sa come metterlo a frutto, perciò – da quando gioca ai massimi livelli – naturalmente Zlatan è sempre in campo,naturalmente non manca un gol, naturalmente è la stella della squadra, ne è il regista, ne è il cuore, ne è l’essenza. È stato così all’Ajax come alla Juve come all’Inter, ed è durata – ed è andata bene – finché Zlatan un giorno non s’è svegliato con nelle narici l’odore della torta di sua madre, e sulla lingua il sapore dei dolcetti di suo padre, e sui polpastrelli la sensazione incredibilmente fisica di un paio di scarpini nuovi e lucidi da indossare subito per correre fuori e tirare quattro calci al pallone coi suoi fratelli.
Quando ha capito di cosa aveva bisogno, quando ha capito ciò che il suo corpo stava cercando di comunicargli, come prima cosa ha parlato con Helena. “Mi piace Milano”, ha detto lei, gli occhi lucidi, “I bambini sono felici”, ha aggiunto, e poi ha mormorato “Zlatan…” e la sua espressione non ha fatto una piega. Perciò Helena ha accettato la possibilità di trasferirsi. Quindi, Zlatan è andato dal presidente e gli ha chiesto se esistesse una minima possibilità di essere venduto. “No”, ha riso il presidente, e Zlatan ha riso assieme a lui. Poi hanno sorseggiato un po’ dei loro caffè e il presidente ha sospirato quietamente. “Vuoi andartene, Zlatan?”, ha chiesto con un sorriso indulgente. “Sì”, ha risposto lui, svelto, così da non lasciare che quello sguardo da padre bonario e intimamente un po’ deluso potesse costringerlo a cambiare idea e ritornare sui propri passi. “E dov’è che vuoi andare?” ha chiesto il presidente, e Zlatan ha fatto un paio di calcoli – chi può permettersi di acquistarmi? Dove sarebbe incerta la mia possibilità di entrare in campo? Dove potrei combattere almeno un po’, dove potrei ritrovare le mie attese? – e poi ha risposto. “Al Barça”, ha detto, annuendo deciso. Moratti ha annuito assieme a lui, soppesando la sua figura intera con lo sguardo prima di terminare il proprio caffè. “D’accordo, allora. Se il Barça ti vorrà, al Barça e solo al Barça ti venderò”.
La cosa successiva che ha fatto è stata mandare un messaggio a Mino. “Mettiti al lavoro”, gli ha detto. “È difficile, Ibra”, gli ha risposto lui. La sua replica è stata lapidaria: “rendilo possibile”. E no, da José non è andato. Perché sapeva che la sua, di risposta, sarebbe stata un no, e non era disposto ad ascoltarne uno, in quel momento, specie perché non stava chiedendo alcun permesso. Era una sua decisione e pretendeva che fosse rispettata, ma José era tanto bravo a rispettare a parole quanto poi falliva miseramente nel seguire coi fatti dichiarazioni simili, perciò sapeva che il suo sarebbe stato un no di quelli duri e secchi, senza scampo, conditi da scorrettezze e ripicche d’ogni tipo, e no, non era davvero disposto a tollerarla, una cosa simile. Perciò José è stato l’ultimo a saperlo, solo quando nasconderlo non era proprio più possibile. A ripensarci adesso gli viene da ridere – l’uomo con cui andava a letto da quasi un anno è stato l’ultimo a sapere che presto l’avrebbe abbandonato. L’uomo che amava da quasi un anno – a voler essere per una volta completamente sinceri con se stessi – è stato l’ultimo a sapere che Zlatan sarebbe andato via.
E poi non c’è stato più tempo per pensare a niente, le sfide sono ricominciate. Imparare lo spagnolo – da quanto non cercava di imparare una nuova lingua? Anni – lottare per un posto in prima squadra, lottare per il primo gol in blaugrana. Le attese, le attese infinite per la lingua che non gli entrava in testa, il gioco che non si creava, il gol che non arrivava. La sfida, l’impegno, le delusioni, anche, ma una lotta continua. Esattamente quello che voleva.
Per Zlatan la vita è tornata ad essere una questione di attese, e questo gli piace.
- Indovina chi viene a guardare la partita, stasera? – sghignazza Guardiola passandogli accanto con aria falsamente casuale, durante l’allenamento, mentre le note di Viva la Vida si diffondono tintinnanti per tutto il Camp Nou, fra i fischiettii compiaciuti di Bojan e i grugniti decisamente meno compiaciuti di Daniel.
- Mh? – chiede lui, piegandosi sulle gambe e poi rimettendosi in piedi per guardarlo curiosamente , - Chi?
Josep ride divertito, incrociando le braccia sul petto. Il suo sorriso sghembo, tirato più da un lato che dall’altro, gli ricorda quello di José.
- Mister Mourinho. – rivela infine, e il cuore di Zlatan fa un tuffo in fondo al suo stomaco, e poi torna al proprio posto rivoltato al contrario, - C’è una macchina che sta già dirigendosi all’aeroporto per recuperarlo. È ospite graditissimo del presidente, e starà con lui in tribuna d’onore. – si prende una pausa, osserva Zlatan boccheggiare e lo fa con divertimento davvero malcelato, quasi derisorio, perfino fastidioso. – Emozionato?
Zlatan richiude le labbra e deglutisce a fatica.
- Non me l’aspettavo. – risponde confusamente.
- Be’, - scrolla le spalle Josep, lanciando un’occhiata e poi un’altra a Bojan che caracolla da un lato all’altro del campo inseguito da Carles per chissà che motivo, - il sedici abbiamo un incontro, nel caso te lo fossi dimenticato, - lo prende in giro con un ghigno supponente, - starà proponendosi di fare un po’ di spionaggio. Zero zero sette, così dicono le news in Italia.
- Segui le news italiane? – sbotta Zlatan, tornando a fare stretching come a voler dare a Josep la sensazione di non interessarsi minimamente al fatto. Provandoci, almeno.
- Aha. – annuisce lui, candido come un giglio, - E dovresti anche tu. – rincara poi, - C’è chi giura che stia venendo per vedere te.
Zlatan scrolla le spalle e ringhia un po’, infastidito.
- Non ha molto da vedere. Non sono ancora al cento percento.
Josep ride un’altra volta, e Zlatan sopprime il desiderio di rimettersi dritto e tirargli un cazzotto sul naso.
Ufficialmente – riprende, ancora quel sorriso irritante a increspargli le labbra, - viene qui per dare un’occhiata alla squadra che si troverà di fronte in Champions. Altrettanto ufficialmente, però, - continua con una mezza risatina, - la squadra che giocherà stasera, senza Titi e Leo, non c’entra niente con quella che scenderà in campo a Milano contro l’Inter. – Zlatan deglutisce, Josep attende una reazione, la reazione non arriva. Josep sorride più apertamente e conclude. – Fai due calcoli e vedi se alla ragione ufficiosa ma probabilmente veritiera per cui viene ci arrivi da solo. Ora scusami- Carles! – strilla, correndo dietro al capitano fermamente intenzionato a far soffocare Bojan a colpi di solletico sulla pancia, - Ti spiacerebbe non farlo fuori? Stai cercando di ammazzare il futuro della tua squadra, nel caso non te ne fossi reso conto!
Zlatan si rimette dritto e sospira pesantemente, immobile in mezzo al campo, il sole che picchia forte sulle braccia e sulla testa e sulle gambe. Solleva il viso e socchiude gli occhi. Il cielo è terso, la luce abbagliante.
- Puoi sempre fingerti malato. – ride Max, dandogli una pacca sulle spalle.
Zlatan sospira ancora. E ricomincia ad attendere – solo che stavolta sta aspettando qualcos’altro.

*

Zlatan è stanco. Ha segnato Bojan, ha segnato Seydou, lui sta bombardando la porta avversaria – o almeno ci sta provando – da almeno dieci minuti e la fottuta palla non si decide ad entrare nella fottuta porta. Questa era una cosa che non ricordava, delle attese: quanto potessero essere frustranti. Ora che è lì e tira tira tira tira di continuo e la palla finisce fuori parata altrove, fanculo anche a lei, ricorda che ogni tanto papà i dolcetti non li aveva e lui scoppiava a piangere, che ogni tanto la torta si bruciava e lui e i suoi fratelli restavano senza merenda, che ogni tanto a Natale arrivava uno stupido robottino giocattolo e lui passava la settimana successiva a guardare quella cosachiedendosi se potesse prenderla a calci al posto del pallone che non c’era, e poi scoppiava a piangere ancora, e i suoi genitori non capivano perché.
All’inizio del secondo tempo, dopo essere riemerso dagli spogliatoi – nelle gambe la fatica di un primo tempo tutt’altro che brillante e nelle orecchie i complimenti dell’allenatore a qualcuno che indubbiamente non era lui – rientrando in campo ha preso il coraggio a quattro mani ed ha sollevato lo sguardo, cercando la figura familiare di José fra la folla della tribuna d’onore. L’ha individuato subito, elegante ed ordinato nonostante il caldo, giacca blu e jeans dello stesso colore abbinati a una camicia di un giallino improbabile che è quasi certo possa indossare solo lui senza apparire un cretino cosmico. José gli ha ricambiato lo sguardo, apparentemente tranquillissimo. I suoi occhi scuri e profondi, così come la piega severa delle sue labbra, non gli hanno comunicato alcuna emozione – sembrava davvero solo un allenatore in cerca di informazioni utili per la preparazione di un incontro importante. A Zlatan s’è stretto il cuore. Ha continuato a non segnare.
Ora succede qualcosa – qualcosa cambia, all’improvviso. La palla parte dal piede di Dani, sfiora la testa di uno sconosciuto del Gijon, Zlatan la vede, forse è partito in fuorigioco ma nessuno sta dicendo niente, quindi si fotta il fuorigioco e la paura e pure le attese: si tuffa in avanti senza pensare che potrebbe anche mancare il colpo e cadere di faccia per terra, farsi un male cane, battere il polso sinistro e fottersi l’esistenza per una vaccata random simile, non gli importa. La palla la becca. Quando alza lo sguardo, la palla è in porta. Cazzo, in porta.
Si volta a pancia in su, solleva le mani, punta il dito. Spera di stare puntando a José, da qualche parte – ha perso il senso dello spazio, non sa in che punto preciso del campo si trovi. Spera di beccarlo e basta, sorride e l’attimo dopo ha tutti addosso, Gerard gli si avvicina e gli stringe le mani, Carles gli si spalma sopra e lo stringe, grato e protettivo, qualcuno gli accarezza una guancia, gliela pizzica, poi gli sistema una ciocca di capelli dietro un orecchio, e lui è felice. Quando lo aiutano a rimettersi in piedi, lascia che Dani combini un casino scompigliandogli irrimediabilmente i capelli, e sorride.
Poi cerca José. E non lo trova.

*

- Sei anche troppo palese. – lo rimbrotta Max, sospirando pesantemente mentre Zlatan lo sorregge facendosi passare un suo braccio sopra le spalle, aiutandolo a camminare, - Il mister mi ha detto che è andato via una decina di minuti prima che finisse la partita.
- Non mi interessa affatto. – risponde lui a bassa voce, perché nessuno possa sentirli, guardando dritto davanti a sé.
- E sei anche troppo bugiardo! – ride Max, tirandogli uno schiaffetto impietoso contro la nuca, - Mica male, per uno che dice sempre di essere l’incarnazione stessa della sincerità.
- Io sono sincero. – ringhia Zlatan, e poi si allontana appena. – Ce la fai a reggerti da solo?
- Sì, sì. – ride ancora Max, e Zlatan si chiede perché il mondo intero si senta in diritto di ridere, quando si tratta di lui e José. Non c’è proprio nulla di divertente nel punto, e nessuno dovrebbe permettersi di trovare qualcosa da ridere in una storia che a lui fa solo venire voglia di urlare. – Zlatan, se ci credi davvero… - riprende Max, sospirando ancora, - se credi davvero di essere sincero, quando dici che non t’importa, allora ti conosci molto poco. E io non credo che sia così.
Lo svedese non osa neanche sollevargli gli occhi addosso.
- Ma cos’avete voi due da cospirare sempre? – borbotta Gerard avvicinandosi e tirando una guancia a Zlatan, - È una cosa ingiusta, non condividete mai!
Dietro di lui c’è mezza squadra. Carles sta parlottando animatamente con Dani, sembra che stiano litigando su un locale – Zlatan non afferra molto del loro discorso in spagnolo strettissimo, ma pare che stiano cercando di decidere dove andare a festeggiare la vittoria. Bojan sta letteralmente appeso al collo di Guardiola, saltella su un piede solo e gli si chiudono gli occhi per la stanchezza.
- Mister, non viene con noi? – chiede Max, provando a stare dritto sulla gamba sinistra per vedere se fa male e sorridendo tranquillo quando si accorge che il dolore sembra passato.
- No. – sorride bonario Josep, - Boji non sta bene, potrebbe essere qualcosa di grave. Lo porto a farsi controllare e poi direttamente a dormire. – commenta con un sorriso ancora più dolce, e quando Max fa per lagnarsi Carles scuote il capo, e Max lascia perdere.
Quando il clacson scuote rumorosamente l’aria silenziosa del parcheggio riservato, inizialmente nessuno ci fa caso. Può essere chiunque, può voler dire qualunque cosa – nessuno di loro è abituato ad essere richiamato dal clacson di un’automobile, dannazione – perciò lo ignorano. Ma poi il clacson suona ancora, due, tre volte. Josep alza lo sguardo e borbotta un “ma chi cazzo” risentito che però si interrompe a metà, quando l’allenatore si rende conto di chi è che stia aspettando una risposta da dietro il vetro della BMW un po’ defilata lateralmente, seminascosta dall’ombra del Camp Nou.
- Uh. – dice, inumidendosi le labbra, - Ecco perché è uscito prima.
Zlatan collega il commento a José, segue con lo sguardo l’occhiata di Josep e, al termine delle operazioni, ha voglia di scappare a gambe levate il più possibile lontano da lì. Fosse anche Milano l’unica meta disponibile, pur di non ritrovarsi nello stesso spazio in cui si trova José in questo preciso istante, ci tornerebbe.
- Temo che ti stia aspettando. – gli fa notare Max, e stavolta non ride affatto.
- Certo che in Italia gli allenatori sono ostinati. – commenta distrattamente Gerard, inclinando un po’ il capo in una posa curiosa. Zlatan vorrebbe rispondere che in realtà non è così, gli allenatori in Italia in genere non sono ostinati. Non a questo punto, almeno. È José, il problema. Come sempre, è sempre lui il dannatissimo fottuto problema.
Si avvicina alla BMW, lasciandosi alle spalle sia lo sbuffo esasperato di Max che la risatina di Guardiola, ed anche il commento un po’ stupito di Gerard, quel “ma ci va davvero?” che in effetti esprime ad alta voce quello che anche lui sta pensando con una certa insistenza. Ci sta andando davvero, sì. Perché?
Aspetta che José abbia abbassato per metà il finestrino dal lato del passeggero, e poi lo guarda, inarcando un sopracciglio. José si sporge appena, ricambiandogli l’occhiata poco convinta. Quando Zlatan piega un po’ il capo e sbuffa, come a dire “oh, andiamo”, nello stesso preciso istante José fa esattamente la stessa cosa, e Zlatan scoppia a ridere. José si concede solo una risatina sommessa, e non smette un secondo di guardarlo intensamente, come volesse scavargli dentro.
- Che diavolo ci fai qui, me lo spieghi? – scuote il capo Zlatan, ridacchiando ancora. Il tono della sua voce è molto più indulgente di quanto non avrebbe mai creduto possibile, e non capisce se sia un bene o un segnale di debolezza. José, comunque, tira fuori il taccuino dalla tasca interna della giacca, e lo agita un po’ a mezz’aria.
- Prendevo appunti. – risponde, prima di rimettere il taccuino al suo posto. – Non che mi sia granché divertito, a dirla tutta. Siete un tantino noiosi.
- Non c’era Leo. – risponde immediatamente Zlatan, convinto che sia quello il fulcro del problema, ma José ride amaramente, scuotendo il capo.
- Tu non brilli. – commenta, allungandosi ad aprire lo sportello dalla sua parte e spalancandolo con una spintarella decisa, così che Zlatan è costretto a farsi un po’ indietro per non essere colpito in pieno. – Leo Messi… - continua José, con aria vagamente trasognata, tornando a mettersi seduto composto e poggiando entrambe le mani sul volante, - cosa vuoi che sia Leo Messi? – chiede in uno sbuffo divertito, - È solo un uomo. Tu sei Zlatan.
- Anche io sono un uomo. – gli fa notare, appena risentito. Non ha mai capito esattamente quanto pretendesse da lui José, finché José non gli ha detto che sostituirlo era impossibile, serviva una squadra per sostituire lui da solo. Ma non è così che dovrebbero essere i calciatori, è stato questo il suo primo pensiero sul punto. Poteva sentirsi lusingato da quella frase quanto voleva, ma giocare a calcio è una questione di squadra, e lui non poteva fare squadra a sé. È anche per questo che è andato via, attese a parte, e José adesso non ha il diritto di farsi vivo apposta per ricordargli cosa si prova ad essere il centro assoluto dell’attenzione – non quando Zlatan sta faticando davvero per reinventarsi in maniera completamente diversa.
- Tu sei Zlatan. – ripete José, e Zlatan non ne è sorpreso. – Sali?
Lo svedese si volta indietro. I suoi compagni di squadra lo stanno guardando chiedendogli silenziosamente cosa intende fare. Zlatan sospira e li saluta con un cenno della mano, prendendo posto accanto a José e chiudendo celermente lo sportello, per poi perdersi nello scricchiolio delle gomme quando la macchina parte a tutta velocità verso la statale.

*

- Non voglio farmi i fatti tuoi, - dice sarcastico, mentre la strada scorre sotto i suoi occhi al di là del finestrino, - ma dal momento che sono anche fatti miei, me li faccio lo stesso: dov’è che stiamo andando? – José gli concede una risata divertita, imboccando una stradina sterrata e scarsamente illuminata. – Mi porti nel fitto del bosco, - ironizza Zlatan, aggrottando le sopracciglia in una smorfia infantile, - e poi ti approfitti della mia verginità. – e stavolta la risata di José è molto più bella, tonante, compiaciuta. Zlatan sorride a propria volta e per un secondo lo fa con spensieratezza, perché stava dimenticando quanto bello potesse essere questo suono e quanto appagante potesse essere provocarlo.
- Tanto per cominciare, vedi boschi qua intorno? – chiede José, fermando la macchina a qualche metro da una costruzione di due piani che sembra decisamente provenire dal secolo scorso, con tutti i mattoni in vista e il tetto spiovente. – E poi- verginità? – ride ancora, e Zlatan fa un gesto con la mano, come a dire “dettagli”. – Andiamo in un bel posto. – conclude quindi José, spegnendo il motore ed uscendo dall’auto. Zlatan lo segue pochi secondi dopo, osservando la casa con curiosità. Sembra carina, ha anche i gerani alle finestre.
- È tua? – chiede, sinceramente stupito, il naso per aria e gli occhi fissi sul comignolo che spunta dal tetto come un dito puntato alle stelle.
- È un bed & breakfast. – risponde José con un’altra risata. Dal momento che ride tanto anche lui, Zlatan comincia a pensare che forse non è la sua storia con José che diverte tanto il mondo. Probabilmente è solo lui molto ridicolo. – Conosco la proprietaria da un po’. Quando eravamo giovani e avevamo voglia di starcene un po’ per conto nostro, è qui che venivamo io e Tami.
- …okay, in che misura dovrebbe lusingarmi esattamente il fatto che mi porti nello stesso posto in cui portavi tua moglie?
- Nella misura in cui – risponde secco José, salendo i gradini verso l’entrata della casa, - sto condividendo con te una cosa così profondamente intima e privata che non credo tu abbia nemmeno idea di quanto mi costi. – si ferma di fronte alla porta, voltandosi a guardare Zlatan con aria severa. – Queste persone conoscono me, conoscono la mia famiglia. Io potevo venire qui, oggi, prendere atto del fatto che tutti i dannati alberghi della città sono assediati dai giornalisti per un mio commento sulla partita di oggi e rinunciare al proposito di stare con te. E invece ti sto portando da persone che mi conoscono e potrebbero distruggermi con mezza parola, e tutto questo perché non intendo rinunciare a te. – si prende una pausa, inspirando ed espirando profondamente. Zlatan lo guarda come lo stesse vedendo per la prima volta dopo anni, e invece sono solo un paio di mesi. Ma sono stati lunghi, lunghi davvero, quindi probabilmente il tempo è una misura relativa, e quella manciata di giorni è stata davvero una manciata di anni, per lui. – In questa misura, - conclude José, passandosi una mano fra i capelli, - in questa misura dovrebbe lusingarti, ecco.
Zlatan vorrebbe davvero avere qualcosa di intelligente da dire, ma non trova niente di adatto, perciò tace e si limita a seguire José quando suona il campanello, la porta si apre con uno scatto secco e lui avanza all’interno dell’abitazione, sorridendo sicuro. Dietro il bancone della reception – un tavolo in legno scuro, sul cui ripiano riposa un piccolo registro bianco, davanti ad una libreria dall’aria molto casalinga, con qualche vaso pieno di fiori finti qua e là – c’è un ragazzo che, appena solleva lo sguardo e capisce chi ha di fronte, impallidisce. Guarda Zlatan a lungo, boccheggiando discretamente, e poi posa gli occhi su José, deglutendo a fatica.
- Zay, - lo chiama, la gola un po’ secca che rende roca la voce, - …ciao, immagino.
José ride teneramente, sollevando una mano in segno di saluto.
- Fabio, - lo chiama, chinando un po’ il capo, - come stai? E come stanno tua madre e tua sorella?
Il ragazzo riflette un po’, prima di rispondere.
- Dormono. – decide quindi, con un sorriso un po’ imbarazzato, - Per tua fortuna.
José ride ancora, divertito.
- Già. – annuisce, - Ce l’hai una stanza libera, sì?
- Oh, sì. – risponde subito il ragazzo, prendendo a sfogliare il registro. E poi, più cautamente, aggiunge: - Anche più di una.
José sorride indulgente.
- Una basterà.
Fabio si rassegna e scrive qualche appunto veloce su una pagina bianca.
- Per quanti giorni?
José finge di rifletterci.
- Io sono libero fino a mercoledì. – annuisce, e poi si volta verso Zlatan. – Tu hai da fare?
- …no. – ammette. È la prima parola che dice da quando è entrato, e viene fuori ruvida e impacciata, fastidiosa. – Intendo, - corregge il tiro, schiarendosi la voce e grattandosi nervosamente la nuca, - ci sarebbe la Nazionale, ma non è un problema. Non davvero.
José sogghigna, tornando a voltarsi verso Fabio senza però guardarlo, preferendo concentrarsi su un punto a caso sul ripiano del tavolo: infila una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne tira fuori il portafogli, estraendone immediatamente la carta di credito.
-  Stai attento. – lo avverte, e Zlatan capisce immediatamente, dal tono della sua voce, che sta parlando con lui, - Stavolta il tuo allenatore probabilmente non sarà disponibile quanto lo sono stato io, a coprirti per l’assenza in nazionale.
- Tu non mi hai coperto. – aggrotta le sopracciglia lui, - Tu mi hai proibito di andare.
- Tu non volevi andare.
- Questo è completamente un altro discorso.
- Sarete stanchi. – s’intromette Fabio con un sorriso che trabocca disagio, - Ho visto la partita, dev’essere stata estenuante. Se mi metti una firma qui, Zay, vi mando a letto. Magari senza per questo dover svegliare tutti, ecco, continuando a litigare così all’ingresso.
José ride a bassa voce ed allunga un braccio a scompigliargli i vaporosi  riccioli neri.
- Non tirare troppo la corda, - lo rimprovera, - o dico a tua madre che sei stato scortese.
- Non tirarla tu! – lo rimbecca il ragazzo, divertito, - Potrei dire a mia madre ben di peggio, sul tuo conto!
José ride perché sa già che Fabio non dirà una parola, prende le chiavi che il ragazzo gli porge e fa cenno a Zlatan di seguirlo al piano di sopra. Lui obbedisce, e gli parla solo quando hanno terminato di salire le scale, ed è sicuro che nessuno possa sentirlo.
- Fino a mercoledì – riflette, - sono un giorno intero e due notti! Cosa cazzo ci stiamo a fare qui un giorno e due notti?
- Oh, - ghigna José, aprendo la porta di una stanza e tenendola dischiusa perché Zlatan possa entrarvi per primo, - sono sicuro che troveremo come occupare il tempo.
- Non dirlo con quel tono… - si lamenta Zlatan, schioccando la lingua, infastidito, - …allusivo. È rivoltante.
Ti prego. – borbotta José, chiudendosi la porta alle spalle con due giri di chiave, - Risparmiami la lezione di morale, d’accordo? Decisamente non è il momento.
- Fosse per te, non lo sarebbe mai. – sospira lui, lasciandosi ricadere seduto sul letto e saggiando sotto i polpastrelli la fresca morbidezza del copriletto in raso. – Grazie, comunque.
- Uh? Perché sto pagando io? – chiede José, sorridendo compiaciuto, - Guadagno più di te, mi sembra il minimo.
- No, non per quello, stronzo che non sei altro. – ringhia, sferzandolo con un’occhiataccia infastidita, - Per avermi portato qui. Voglio dire, ho capito cosa stavi cercando di dirmi per le scale, di fuori. E… mi lusinga, davvero.
- Ti lusinga. – gli fa eco José, sfilando la giacca e rimanendo in maniche di camicia, - Parli come una liceale che sta per scaricare il cesso sfigato che ha osato trovare le palle di confessarle il suo amore.
- Non è così! – sbotta Zlatan, allargando le braccia in un gesto esasperato, - Cristo, perché devi sempre distorcere tutto in questo modo?! Fanculo! – si mette in piedi, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - È insopportabile. Sei insopportabile. Forse dovrei scaricarti davvero.
José gli si avvicina con cautela. Lo abbraccia da dietro, e respira lentamente sulla pelle del suo collo mentre Zlatan si scioglie nella sua stretta, sospirando arreso.
- L’hai fatto, in realtà. – gli ricorda, lasciando un bacio lievissimo sulla sua nuca, nella poca pelle che riesce ad emergere fra una ciocca e l’altra dei suoi capelli.
- E siamo comunque ancora qui. – commenta lui, amaramente, come se si rendesse conto solo in quel momento di quanto possa essere sfiancante la realtà.
- E ti dispiace? – chiede José, una mano che scivola lungo il suo ventre, sotto la maglietta. Zlatan scatta ad afferrarlo per il polso, bloccandolo e aggrottando le sopracciglia. Si allontana senza una parola, perché non può dire che gli dispiaccia, ma neanche di esserne felice. Vorrebbe essere meno confuso, vorrebbe che José lo confondesse di meno, ma sembrano entrambi desideri irrealizzabili. E José resta immobile nel centro della stanza, guardandolo severamente. – Perché mi hai seguito, Zlatan? – chiede secco, quasi irritato.
Zlatan si appoggia con la fronte contro la finestra. Il vetro fresco abbassa un po’ la temperatura del suo corpo – la sua pelle sembra bruciare, da quando José gli ha messo le mani addosso – e gli permette di respirare meno faticosamente, scrutando con distrazione il paesaggio scuro di fuori. Il buio si spezza appena quando un’altra macchina arriva e si ferma a qualche metro dalla BMW di José, Zlatan cerca di concentrarsi su quello, cerca di concentrarsi sui visi delle persone che occupano la vettura, ma non fa in tempo a metterli a fuoco che i fari si spengono e tutto torna scuro e irriconoscibile.
- Non lo so. – ammette a bassa voce, - Non lo so, non potevo non farlo.
- E questo non dovrebbe suggerirti qualcosa? – ipotizza José, incrociando le braccia sul petto.
- Mi suggerisce che sono molto più debole di quanto pensassi. – risponde Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Mi suggerisce che devo crescere ancora. Mi suggerisce-
- Ti manco. – lo interrompe José. Lo dice lui perché sa che a Zlatan sarebbe servita almeno un’altra mezz’ora di sproloquio senza senso per arrivarci, e una volta che ci fosse arrivato sarebbe probabilmente crollato chiedendosi cosa abbia fatto della sua vita e perché si sia messo in un guaio simile. José non vuole vederlo crollare, tutto ciò che vuole è riaverlo per sé, ecco perché lo salva, prendendosi la responsabilità di essere lui a dire le cose come stanno, come sempre.
- …sì. – annuisce Zlatan, abbassando lo sguardo, - Mi manchi. E questo è sbagliato.
José inarca un sopracciglio, offeso.
- Perché?
- Perché me ne sono andato! – replica Zlatan, gesticolando, - Cristo, come fai a non afferrare un concetto tanto semplice?! Sono andato via, mi sono lasciato tutto alle spalle, tutto, vittorie, sconfitte, stress, una villa da svariati milioni, amici, conoscenti e tutto il resto, e non sono stato dannatamente in grado di lasciarmi indietro te, e questo è ridicolo assurdo e doloroso e odio te e me stesso per questo!
José non si scompone minimamente, dopo il suo sfogo. Lo osserva respirare a fatica, il suo riflesso si sfuma sul vetro della finestra alle sue spalle e i suoi occhi sono rossi e un po’ umidi, ma non vuole piangere – sarebbe una cosa da ragazzini, sarebbe una cosa così incredibilmente sciocca!, e José lo conosce bene, sa che Zlatan si strapperebbe gli occhi dalle orbite a mani nude, piuttosto che farsi vedere in condizioni simili. Eppure lo sta facendo, gli sta sputando addosso cose che lui neanche immaginava – perché oh, c’è differenza, ce n’è eccome, fra lo sperare che la persona che ti ha abbandonato possa ancora sentire un certo trasporto nei tuoi confronti, e il renderti conto che quel trasporto c’è ancora, sì, ma gli sta spezzando il cuore – e José sa bene che Zlatan non vorrebbe dirgli niente di tutto questo, ma lo sta facendo comunque, e quale che sia il motivo probabilmente c’è semplicemente da ammettere che qui José non è l’unico che sta sacrificando qualcosa.
- Potevi restare. – gli ricorda, cercando di mantenersi freddo e razionale.
- Non era quello che volevo. – risponde immediatamente Zlatan, ricacciando indietro un singhiozzo e coprendolo con un ringhio di gola, - Io volevo andarmene, e volevo andare avanti con la mia vita. Volevo qualcosa di diverso, Milano non poteva darmelo.
- Io-
Neanche tu potevi darmelo. – si passa una mano sugli occhi, esausto. – José, Cristo. Perché non mi capisci?
José deglutisce a fatica, esitando appena, prima di avvicinarsi. Gli appoggia una mano sulla spalla, massaggia un po’ i muscoli rigidi sotto la maglietta e sospira.
- Zlatan. – lo chiama, e Zlatan scuote il capo. – Guardami.
- No. – risponde, pressando con più forza la mano sugli occhi, - Tu non hai idea di cosa mi fai. Non saresti mai dovuto venire qui.
- Sono venuto per la partita.
- Sei venuto perché sei uno stronzo. – ringhia lui, il volto ancora coperto, - Potevi guardare la partita e tornartene a casa. Sarebbe stato molto meglio.
- Zlatan. – ripete José, stringendo la presa sulla sua spalla, - Ho preso un dannato aereo alla prima sosta di campionato disponibile. Ho fermato per due giorni il lavoro dei ragazzi rimasti a Milano per fiondarmi qui in tempo per vederti, cazzo, prima di dire che non ho idea di cosa ti faccio, prova a guardare un po’ al di là del tuo naso! – si interrompe, arriccia le labbra in un anticipo di risata, e poi aggiunge: - Mi rendo conto che ti sto chiedendo di guardare ad una ragguardevole distanza, ma…
- Stronzo! – lo spintona poco delicatamente Zlatan con la mano che non è impegnata a fargli da scudo nei confronti del resto dell’universo. Il tono della sua voce è cupo e offeso, ma la risata che nasce spontanea nel fondo della sua gola non riesce ad essere fermata e inghiottita prima di raggiungere le labbra e sfuggirne, rassicurando José e convincendolo a lasciarsi andare ad un sorriso meno teso.
Zlatan si appoggia al davanzale della finestra. Il respiro che lascia andare è così profondo da dare l’impressione di lasciarlo senza neanche una molecola d’aria in corpo, completamente sgonfio.
- Puoi guardarmi, adesso? – chiede a bassa voce José, sporgendosi un po’ per sfiorargli la guancia in un bacio leggero.
- Non ne sono ancora sicuro. – risponde Zlatan con un mezzo sorriso, ma abbassa la mano, anche se non solleva gli occhi nei suoi. – Non pensavo che sarebbe andata così. – dice quindi, - Ovviamente immaginavo che ci saremmo rivisti e non sarebbe stato semplice, ma questo… cavolo. È molto più difficile del previsto.
- Potrebbe essere più semplice. – replica José, asciutto, e Zlatan lascia andare una risatina disillusa.
- No, non potrebbe. – risponde sicuro, - Tu continui ad essere convinto di poter risolvere tutto in base a chissà che decreto divino. Tu sei convinto che ti basti parlare di qualcosa per sistemare qualsiasi problema. Non è così, io vivo in un altro mondo, adesso. Quello che c’era non può tornare. – solleva lo sguardo e lo fissa a lungo, José ha l’impressione che Zlatan stia cercando di prendergli le misure per riacquistare familiarità con la sua figura. Si ritrova a chiedersi se sia possibile che, da qualche parte nel corso degli ultimi due mesi, Zlatan sia effettivamente riuscito a dimenticarlo. Si chiede se sia possibile che il suo piombargli all’improvviso fra capo e collo possa averlo destabilizzato al punto da non capire davvero più nulla – si chiede, per la prima volta da che è al mondo, se non abbia sbagliato. Se non abbia scelto troppo avventatamente, quando s’è trattato di decidere se andare a trovarlo o meno. Si chiede se non sia stato più egoista che maturo, si chiede se sia stato giusto. Si chiede cosa ci fa lì in quel momento.
- Non dirlo. – sibila, e Zlatan si rimette dritto, sottraendosi alla sua stretta.
- Ho bisogno di una boccata d’aria. – esala, allontanandosi di qualche passo guardandolo negli occhi, prima di rassegnarsi a dargli le spalle e tirare un paio di volte la porta verso di sé, senza ricordarsi che è chiusa a chiave. Quando lo realizza, deglutisce e pensa che José non sta approfittando di quest’incertezza per avvicinarsi e cercare di trattenerlo. Gira la chiave e si chiude la porta alle spalle.
La luce nel corridoio è fioca e giallastra. È tutto molto quieto e, in un primo momento, Zlatan coglie solo di sfuggita i due corpi avvinghiati contro una porta, tanto stretti da sembrare un’unica ombra. Quando, però, uno dei due sbotta un “merda” terrorizzato, Zlatan si volta e cerca di metterli a fuoco più distintamente. Ed allora risulta incredibilmente semplice riconoscerli.
- Mister. – boccheggia sconvolto, nel lasciar scivolare lo sguardo prima sul proprio allenatore e poi su Bojan, ancora stretto a lui, le labbra rosse e gonfie ed il segno evidente di un succhiotto appena sotto l’orecchio destro. – Boji.
Josep ansima faticosamente, stringendo possessivo le mani attorno ai fianchi di Bojan. Non sembrano intenzionati a separarsi, e se da un lato questo porta Zlatan a chiedersi cosa diavolo abbiano intenzione di fare, dall’altro, riflettendoci, anche lui capisce che non potrebbero fare nient’altro.
La porta alle sue spalle si apre lentamente, seguita da un sospiro stremato. Ha appena il tempo di realizzare che José sta uscendo dalla stanza per venirlo a cercare, che è costretto a fronteggiare un fatto ben più grave – José sta per vedere ciò che sta vedendo anche lui, e questo è molto probabilmente ben più di quanto Guardiola fosse intenzionato a lasciargli intuire della sua squadra, prima della partita del sedici. Zlatan vorrebbe sentirsi in grado di provare una qualche spinta protettiva nei confronti dei due uomini che si stringono a qualche metro da lui, ma non ci riesce.
Poi realizza che c’è qualcosa di ancora più grave perfino di questo: al di là di quanto possa vedere adesso José, c’è quello che invece potrà intuire Guardiola. E se la segretezza di una relazione passata può permettersi di sfociare in una bonaria consapevolezza all’interno di uno spogliatoio unito qual è quello dell’Inter a Milano, lo stesso non si può dire di ciò che potrebbe pensare il suo nuovo allenatore trovandolo in compagnia del suo ex in un bed & breakfast solitario subito dopo una partita di campionato.
- Oh. – dice la voce liscia e sicura di José, la mano ancora sulla maniglia e solo un piede oltre la soglia della porta. – Ho dovuto fare meno strada del previsto.
Josep si allontana da Bojan e il ragazzo si appoggia alla parete, probabilmente per non cadere a terra.
- Che situazione curiosa. – commenta divertito José, avanzando fino a sistemarsi al fianco di Zlatan e girargli un braccio attorno alla vita, traendolo possessivamente verso di sé. – Bella serata, mh?
Josep serra le labbra e Bojan distoglie lo sguardo, imbarazzato oltre il sopportabile. A Zlatan viene voglia di prendere José a pugni fino a fargli dimenticare come si chiama, perché si trova lì e perfino come si organizza un discorso di senso compiuto, ma le sue dita tozze chiuse con forza sulla sua pelle gli tolgono il respiro in modi che non riesce nemmeno a capire. Non sa se sia perché lo sta toccando o perché sa perfettamente che l’atteggiamento sbruffone e indisponente di José è, come sempre, una tattica di protezione nei confronti di ciò che ha di più caro – lo usa con tutti coloro cui tiene, con la sua famiglia, con la sua squadra, con lui – sa solo che al momento lo trova intollerabile, che gli dispiace vedere Josep e Bojan comportarsi così colpevolmente quando lui stesso non si sente meno colpevole, quando sa che anche José dovrebbe sentirsi colpevole allo stesso modo. Ma non dice una parola, resta immobile al fianco di José ed osserva Guardiola borbottare qualcosa di incomprensibile mentre Bojan si copre il viso con entrambe le mani.
- Coraggio, coraggio. – sorride José, allungandosi a sfiorare la spalla del ragazzo in un gesto paterno e rassicurante, - Può capitare. Non deve necessariamente uscire da queste quattro mura. – aggiunge comprensivo, e il sottotesto minaccioso delle sue parole è tanto chiaro da non aver bisogno di sottotitoli: una sola parola su me e Zlatan, e presto il mondo intero saprà chi si porta a letto la stellina appena maggiorenne del Barça.
Bojan non ricambia il suo sguardo ed anzi, sotto il suo tocco, si irrigidisce e si allontana impercettibilmente, come José scottasse. Probabilmente è solo l’imbarazzo a renderlo elettrico. Zlatan vorrebbe – non lo sa nemmeno lui. Abbracciarlo, probabilmente, come ha fatto con Davide quella volta che suo nonno è stato male e loro erano in ritiro e lui non poteva muoversi neanche per questioni di vita o di morte. O come ha fatto con Mario quando la convocazione per la Nazionale – che aspettava con l’eccitazione di un bambino a Natale, la sua stessa attesa, quella che non riusciva più a ritrovare, dipinta nei suoi occhi neri come il carbone – non è arrivata a lui ma al suo migliore amico. Ricorda le lacrime soffocate di Davide, quei suoi terribili “cosa faccio se muore, come faccio se muore?”, e ricorda anche le lacrime di Mario, profondamente diverse, quasi animalesche, ringhianti e furiose mentre si appendeva con entrambe le mani alla sua maglietta, tirandola spasmodicamente, e la sua tristezza priva di possibilità di sfogo, perché per quanto potesse essere deluso non riusciva neanche a prendersela con il suo Dade.
Gli fa male pensare che, se si fosse trattato di Mario o di Davide – se si fosse trattato della sua squadra – nemmeno la stretta di José sarebbe bastata a fermarlo. Se ne sarebbe liberato e sarebbe corso a stringerli,  e l’avrebbe fatto serenamente, perché José avrebbe capito e l’avrebbe perdonato. Adesso è diverso, non sente la stessa spinta nei confronti di Bojan. Vorrebbe poterla sentire, vorrebbe – dannazione – poter dire “sono a casa”, finalmente, ma tutto ciò che riesce ad associare alla parola casa è la sua stanza con Adri – e poi con nessun altro – in Pinetina, l’appartamento a Milano, via Montenapoleone, il Duomo che poteva sempre incrociare solo di sfuggita, tali erano i rischi che poteva correre nel caso qualcuno lo riconoscesse e si mettesse ad urlare in mezzo alla piazza che c’era Zlatan Ibrahimović lì a passeggiare come niente fosse, perfino la villa in ristrutturazione in cui non ha mai nemmeno messo piede sembra più casa di Barcellona. E casa di José, naturalmente, le  decine di stanze di villa Ratti e le decine di volte in cui lui, Helena e i bambini si sono fermati a dormire lì dopo una giornata passata tra piscina e salotto. E le decine di volte in cui è scivolato fuori dal letto, nella stanza degli ospiti, ed uscendo in corridoio ci ha trovato José. E i suoi baci, le sue carezze, il modo spiccio e rude che aveva di tirarlo verso la prima stanza disponibile per scopare.
Questo è tutto quello che riesce a realizzare quando pensa a casa, e quindi la spinta per abbracciare Bojan in questa situazione non arriva. E se anche arrivasse, Zlatan non è sicuro che non la lascerebbe spegnersi per paura di non ottenere da José la stessa comprensione che gli avrebbe riservato se, al posto di Bojan, ci fosse stato Mario o Davide.
- Io… - comincia Josep, ma è stato in silenzio così a lungo che la voce esce fuori roca e spiacevole. La schiarisce con due colpetti di tosse, prima di ricominciare. – Io penso che si possa risolvere questa questione in modo amichevole, mister Mourinho. – azzarda, e lo fa col tono di voce e con lo sguardo di chi sta chiaramente pensando “quello che vuoi. Dimmi ciò che vuoi e sarà tuo, purché tu tenga la bocca chiusa”. E per un secondo Zlatan ha davvero paura che la risposta di José potrebbe essere “ridatemelo”.
- Ma non c’è niente da risolvere. – lo tranquillizza invece José con un sorriso spaventoso, - Io sono a posto così, se anche lei è a posto così. Non sprechiamo ulteriore tempo prezioso in questioni così sciocche, vuole?
Josep annuisce e passa un braccio sopra le spalle di Bojan, attirandolo verso di sé e dandogli modo di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, stringendogli forte la maglia all’altezza del petto. Zlatan si aspetterebbe quasi di vederli entrare nella stanza di fronte alla loro, come non fosse successo niente, e invece Josep si volta e conduce Bojan lungo il corridoio, verso le scale, per scendere al piano di sotto ed abbandonare il bed & breakfast.
José schiocca la lingua, sbuffando appena.
- Mi spiace per loro. Che sfortuna, poi, scegliere lo stesso posto che ho scelto io. – e poi tira Zlatan verso la stanza in un gesto spiccio così tipico di lui che a Zlatan viene quasi voglia di sorridere. – Vedi, se non fossi uscito, tutto questo non sarebbe successo.
- Perché non mi sembri stupito? – chiede, seguendolo in camera ed osservandolo chiudere di nuovo la porta a chiave.
- Perché dovrei esserlo? – rimbecca José, sfilando la chiave dalla serratura e infilandosela nella tasca posteriore dei jeans, per ogni evenienza.
Zlatan indica la porta con aria allucinata.
- Il mio allenatore ed uno dei miei compagni di squadra stavano praticamente per scopare in corridoio. Secondo te perché dovresti essere stupito?
José inarca un sopracciglio e lo guarda, dubbioso.
- Devo ricordarti in quanti corridoi abbiamo scopato noi nel corso dell’anno che abbiamo trascorso insieme a Milano? – chiede ironico, e Zlatan lo manda a fanculo, irritato.
- Noi siamo una cosa diversa! – cerca di spiegarsi, - Insomma, non credevo che qualcun altro-
- Credi anche tu alla favoletta di Lippi? Niente omosessualità nel calcio? Andiamo, Zlatan. Cosa credevi di essere, una specie di unico esponente della razza dei calciatori bisessuali? Che guarda caso aveva trovato l’unico esponente della razza degli allenatori bisessuali col quale scopare in santa pace? Ti prego. Oltretutto, – aggiunge divertito, - devo dire che la tua perspicacia è rimasta agli stessi bassissimi livelli cui si trovava mentre stavi all’Inter. Andiamo, che quei due avessero una storia era evidente perfino a me che non li conoscevo.
- Ma che… - annaspa Zlatan, scioccato, - Prima di tutto, evidente un cazzo!
- Ma dai! – rimbecca José, sfilando la giacca e lasciandola ricadere morbidamente ai piedi del letto, - Non hai visto come se lo coccola quando è in panchina? Sono gesti molto teneri.
- Paterni! – specifica Zlatan, e José ride.
- Be’, come hai potuto osservare poco fa, mica poi tanto. E comunque-
E comunque lo dico io! – riprende Zlatan, osservandolo sciogliere un paio di bottoni della camicia con naturalezza quasi disturbante, - Che cosa vorrebbe dire quel discorso sulla perspicacia?
José scrolla le spalle, terminando di sciogliere i bottoni della camicia e sfilandola lentamente, per poi appoggiarla con cura sullo schienale dell’unica sedia presente in camera.
- Che non mi stupisce che tu non ti sia accorto di cosa c’era fra Guardiola e quel ragazzo, considerando che non ti sei mai reso conto della più evidente relazione omosessuale che ti passava sotto gli occhi dentro lo spogliatoio.
- Che…? – biascica Zlatan, spalancando gli occhi, - Ma di chi stai parlando?
- Mi dispiace, - ride José, - ma decisamente non sono più fatti tuoi. – gli dice, sapendo di fargli male, mentre sfibbia la cintura e la lascia sfilare lenta fra i passanti dei jeans, prima di arrotolarla e posarla sulla sedia. – Posso solo dirti che il signor Lippi sarebbe stupito di scoprire quanto bene possa funzionare sul campo e fuori una coppia omosessuale, in barba alle sue opinioni sull’equilibrio dello spogliatoio.
Zlatan boccheggia per qualche secondo come un pesce fuori dalla propria boccia, e poi si passa una mano sugli occhi, in tempo per evitare di guardare José che sfila i jeans e li piega sommariamente, riponendo anche loro sulla sedia e restando in boxer.
- Non sono sicuro di aver capito, ma se ho capito non voglio saperlo. – biascica. Poi sente due dita afferrarlo delicatamente per il mento e sospingerlo verso l’alto. Se ne lascia guidare, mordendosi il labbro inferiore mentre i suoi occhi scorrono su tutta la superficie del corpo di José, prima di terminare la loro corsa sul suo viso. – Perché lo stai facendo? – chiede a bassa voce.
- Cosa? – chiede a propria volta José, inclinando il capo, un po’ stupito.
- Spogliarti. – precisa Zlatan, - Potrei chiederti le chiavi e dirti che non ho la benché minima voglia di venire a letto con te. Non guardarmi così, - si lamenta, aggrottando le sopracciglia quando scopre una sfumatura ironica nel brillio che rende scintillanti gli occhi scuri di José, - la possibilità c’è! E tu invece-
- Zlatan. – lo interrompe José, poggiando entrambe le mani sui suoi zigomi e stringendo la presa abbastanza da zittirlo ma non tanto da fargli male, - Ma tu davvero credi che io sia venuto fino a qui pensando che questa fosse una possibilità concreta?
Zlatan lo fissa con disappunto, cercando di liberarsi dalla presa – con poca convinzione, in realtà.
- Poteva accadere. – insiste, - Può accadere ancora.
- Se fosse stato possibile, non mi sarei mai mosso. Non ho abbastanza pazienza per sopportare altri no, Zlatan.
- Potrei dirtelo, adesso.
- No, non potresti.
- E cosa te lo fa pensare?! – quasi urla, esasperato, scattando in piedi e liberandosi, - Cosa, fra tutto ciò che ho detto da quando sono qui, ti ha fatto pensare che io potessi essere ancora innamorato di te?! Dimmelo! Così avrò cura di non ripeterlo in futuro, e risolverò il problema alla radice!
José lo guarda curioso, in silenzio, per qualche secondo.
- Non ho ascoltato nemmeno una delle tue dichiarazioni, da quando sei qui. – dice alla fine, - Semplicemente, i tempi erano maturi. – e poi sorride con indulgenza, sollevando una mano a sfiorargli una guancia. – Se pensi di aver detto qualcosa di fraintendibile, forse dovresti ripeterla adesso. Magari non era solo fraintendibile. Magari era esattamente quello che volevi dire, tutto qua.
Zlatan però non dice niente. E non dice niente perché, se ripercorre con la memoria tutte le dichiarazioni che ha rilasciato ultimamente, gli sembrano tutte dichiarazioni d’amore, senza eccezione alcuna. E questo lo disturba, e non vuole che José lo sappia, perciò si china e lo bacia lievemente sulle labbra, perché alla fine l’unica cosa che vuole far sapere a José – l’unica cosa che conti davvero – è quella. Che ha ragione, che c’è ancora qualcosa, che no, non può stargli lontano, che gli è grato per essere venuto a trovarlo, che vorrebbe poter restare con lui per sempre, che il solo pensiero di vederlo tornare a Milano fra un paio di giorni lo distrugge, e cerca di mettere tutto nel bacio che gli appoggia sulle labbra. Solo che un bacio tanto infantile e asciutto non è abbastanza per far passare nulla di tutto questo, e quindi è José a pretendere di più. È José che lo afferra per la nuca e se lo tira contro, obbligandolo a schiudere le labbra con la propria lingua ed assaggiandolo lento, con affetto e un pizzico di soddisfazione, mentre lo sospinge dolcemente verso il letto. Zlatan si lascia guidare, si lascia adagiare fra le lenzuola come fosse troppo stanco per combattere ancora, ed è nel momento in cui José scende lungo il suo petto e gli respira addosso attraverso il cotone sottile della maglietta già umida di sudore, che Zlatan capisce che non è “come se” fosse troppo stanco per opporsi, lui lo è e basta. È stanco di dire no, è stanco di dirsi no, è stanco di scappare ed è stanco anche di aspettare.
Solleva il bacino per agevolare i movimenti di José. Le sue mani scorrono abili e leste lungo i suoi fianchi, ne seguono la linea dritta disegnata dai muscoli ed afferrano delicatamente i jeans, lasciandoli scivolare verso il basso in una carezza che somiglia a una tortura. Ansima con forza, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra, mentre solleva una mano ad arpionare José dietro la nuca nello stesso preciso istante in cui le sue labbra si chiudono addosso ad un suo capezzolo, stringendo e accarezzando e succhiando con la solita calma – ed è strano pensare in questi termini, “le solite cose” erano le cose che più credeva di odiare, una routine consolidata, noiosa e immobile e inflessibile, che non si sentiva più in grado di tollerare, e invece ora che José lo bacia e lo sfiora ovunque a Zlatan fa piacere ritrovare lo stesso identico sapore, lo stesso identico ritmo, le stesse identiche sensazioni.
Realizza che non si era mai veramente stancato di José, mentre lui si sistema fra le sue gambe ed accarezza la sua erezione, guardandolo dall’alto come fosse un’opera d’arte. Non riesce più a ricordare di cosa fosse stanco con esattezza, quando José sfiora con due dita il profilo del suo volto. Zlatan schiude gli occhi e cerca quelli di José, e non li trova perché sono persi da qualche parte fra la linea dritta del suo collo e quella curva della sua spalla, e scendono giù lungo il braccio, fanno la conta dei tatuaggi per vedere se c’è qualcosa di nuovo, e si illuminano di un sorriso che sulle sue labbra non affiora quando si rendono conto che non è cambiato niente, è tutto uguale a due mesi prima. È arrivato in tempo, è arrivato in tempo per impedirgli di perdersi, per impedirsi di perderlo.
Gli ricambia lo sguardo solo quando le sue dita, seguendo la curva del mento, si appoggiano lievissime sulle sue labbra, in una richiesta muta. Zlatan obbedisce senza pensarci, lasciando scivolare la propria lingua sulle falangi di José e godendo del suo mugolio un po’ stupito e un po’ compiaciuto, prima di lasciarlo andare e seguire il movimento di quelle stesse dita mentre tracciano una scia umida di saliva lungo il suo petto, il suo ventre e il suo fianco. E quando le perde di vista chiude gli occhi e stringe i denti, solleva ancora il bacino puntando i piedi sul materasso e la sensazione successiva che percepisce somiglia al ricordo di un sogno che non s’è mai sbiadito, nella sua memoria. Quella sensazione di pienezza mista al desiderio di avere di più lo confonde e lo eccita, ed è meglio dei dolcetti di papà, è meglio della torta di mamma ed è meglio anche dei regali di Natale: è l’attesa di José che continua a dargli sempre le stesse sensazioni. Perché potrà essere una stella ed avere assicurato il posto in campo, e potrà avere tutti i gol che vuole, potrà giocare con tutti i fuoriclasse che stima, sono cose che s’è guadagnato col talento, con l’età e con l’esperienza, e a meno di trovare il modo di viaggiare indietro nel tempo e tornare nel Malmö BI nulla potrà ridargli la sensazione di incertezza che provava quando aveva otto anni e non era sicuro che il mister lo chiamasse né tantomeno sapeva cosa gli sarebbe toccato fare nel caso in cui il mister l’avesse chiamato – ma oh, José resta l’unica incognita fissa nella sua vita, il modo che ha di guardarlo senza che Zlatan possa riuscire a decifrare se lo stia studiando o stia cercando di sedurlo, il modo che ha di toccarlo, come fosse una cosa propria ma non volesse trattenerlo per non imprigionarlo, il modo che ha di spingersi con forza contro e dentro di lui per ricordargli che anche se non lo stringe fino a soffocarlo, anche se lo lascia volare via, c’è solo una cosa per la quale varrà la pena di lottare per sempre, e quella cosa è lui.

*

José sta riscrivendo con un dito il nome di Maximilian sul suo braccio. Segue il contorno delle lettere vagamente gotiche che scendono giù lungo il bicipite, fino al gomito, e aggiunge ghirigori di tanto in tanto – quando gli sembra di non aver insistito abbastanza su un determinato centimetro di pelle, ad esempio. Zlatan crede che José non voglia ripartire finché non si sarà impresso sulle mani la forma di ogni singolo angolo ed ogni singola curva del suo corpo. Continuando di questo passo, però, non sarà l’unico a restare con una traccia addosso – sarà lo stesso per Zlatan, che probabilmente si porterà dietro il peso della pressione dei suoi polpastrelli per molti mesi, anche dopo che José sarà tornato a Milano.
- Non ti perdonerò mai per essere uscito dallo stadio prima della fine della partita. – dice guardando il soffitto. S’è sistemato così comodamente nell’incavo del suo collo che ha quasi l’impressione di esserci nato, in questa posizione. – Ti sei perso il mio primo gol al Barça.
- Ma non mi dire, - ride José, spostandosi a giocare in punta di dita sul disegno tribale che copre la spalla, - hai segnato? – Zlatan annuisce, trovando perfino il coraggio di mettere su un mezzo broncio offeso, e José ride ancora. – E com’è stato questo gol? – chiede a bassa voce. Il suo respiro agita appena i capelli sul suo collo, Zlatan ha i brividi ovunque.
- Mmh. – commenta con una scrollatina di spalle, - Diciamo che è stato meglio se non l’hai visto, forse.
- E allora con che faccia tosta ti arrabbi? – rimbrotta lui, dandogli uno schiaffetto lieve sulla fronte, - Dinamica?
- La palla è arrivata, - spiega Zlatan, - diciamo in modo rocambolesco.
Diciamo?
- Sì, be’, - biascica, adesso vagamente imbarazzato, - diciamo che non è stato proprio un passaggio pulito pulito. C’era di mezzo la testa di uno del Gijon, non so, non c’ho fatto molto caso, in realtà. – aspetta che l’ennesima risata divertita di José torni a spegnersi, prima di continuare. – E poi niente, mi sono buttato in avanti e ho sperato di prenderla. E l’ho presa.
- Normale amministrazione, quindi. – lo prende in giro con un ghigno che Zlatan non vede ma intuisce perfettamente nel tono della sua voce. Risponde con una gomitata nelle costole, neanche troppo gentile, e sbuffa teatralmente, fra le risate di José che non sembrano intenzionate a fermarsi neanche a causa del dolore. – Scusa, scusa. – gli dice, quando finalmente la pianta di ridacchiare, - Ascolta. C’è una cosa che non ho avuto il tempo di dirti, quando sei andato via.
- Non hai avuto il tempo? – sbotta Zlatan, piegando indietro la testa e guardandolo da sotto in su, - Ci ho messo tipo due settimane ad andarmene!
 - Già. – annuisce José con un’altra risata, stavolta un po’ amara, - Io ce ne ho messe tre per venirci a patti. – confessa, e Zlatan serra le labbra e smette di guardarlo. José, comunque, non smette di parlare. – Ci ho messo un po’ a capirlo, perciò non potevo dirtelo subito. E dirtelo al telefono sarebbe stato assurdo. Comunque il punto della questione è che non deve per forza cambiare tutto, Zlatan. Ci siamo un po’ persi perché ci siamo… come convinti che vederti cambiare squadra sarebbe stata una specie di fine del mondo. Di quelle piccole, che sconvolgono solo gruppi ristretti di persone, ed alle quali nessuno su grande scala bada. Il nostro piccolo Armageddon personale.
- E invece non lo era? – chiede, e la voce esce fuori con difficoltà, perché un po’ ci spera ancora. Un po’ – è assurdo, ma ci spera davvero – spera che José adesso gli dica “sì, va tutto di merda, è un’apocalisse di proporzioni devastanti, stiamo giocando male, abbiamo bisogno di te. Torna a Milano con me”. E lui partirebbe, cazzo. A costo di mettersi a litigare col presidente in persona e farsi tirare fuori dalla rosa fino a dicembre, dannazione, troverebbe un modo per tornare a Milano. Lo troverebbe lui o convincerebbe Mino a trovarlo, o in qualche altro modo comunque risolverebbe la questione, perché se ripensa alle attese adesso che sta fra le braccia di José non è poi davvero tanto sicuro di sentirne così tanto la mancanza.
Sa che non è possibile, però.
- No, non lo era. – risponde José con naturalezza, - Stiamo giocando bene. Abbiamo faticato un po’ a trovare il ritmo, sai?, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Non so se hai visto il derby, ma-
- L’ho visto. – sospira lui. – Siete stati grandi.
José ride piano.
- Avevi detto di non passare tanto tempo davanti alla tv.
Zlatan torna a guardarlo da sotto in su.
- E tu avevi detto di non aver ascoltato neanche una mia dichiarazione, da quando sto qui.
Ridono entrambi, contemporaneamente, rotolando un po’ sul letto e scombinando tutte le lenzuola.
- Comunque non l’ho vista in tv. – precisa Zlatan, ridendo ancora mentre José torna a scrivergli cose sul braccio, - L’ho vista al pc. E non hai idea di che fatica sia stata trovare un dannato streaming funzionante.

*

Le ultime parole di José, prima di salire sull’aereo per Milano, sono state “Al prossimo giro vieni tu, io sono troppo vecchio per queste sfacchinate mordi e fuggi, anche se quello che mordo mi piace”. Zlatan ha risposto tirandogli una spinta spalla contro spalla e promettendogli che la prossima volta non solo sarà lui ad andare a Milano, ma sarà anche lui a mordere. José ha fatto un sorriso storto e poi se n’è andato, e Zlatan si ritrova ad imitare quello stesso identico sorriso mentre raccoglie gli scarpini e un po’ di roba dalla quale non si separa mai all’interno del borsone. Fra un paio d’ore ha il volo per Stoccolma e naturalmente è in ritardo. Lagerbäck già lo odia perché ha chiesto di potersi presentare un giorno dopo a causa di un fantomatico dolore al ginocchio che, per via dei suoi precedenti, non è stato preso granché sul serio, e quindi appena metterà piede sul suolo svedese comincerà a sentire urla che non si esauriranno fino alla fine di questo turno di qualificazioni.
Sospira pesantemente, passandosi una mano fra i capelli e districando qualche nodo all’altezza delle punte. Sono troppo lunghi e da quando è a Barcellona non li ha lisciati nemmeno una volta, li ha sempre lasciati liberi di andare un po’ dove volevano, ma probabilmente è arrivato il momento di tagliarli. Lo segna sulla lista come prima cosa da fare una volta tornato in patria, Lagerbäck o meno.
Il lieve colpetto di tosse che lo coglie all’improvviso alle spalle lo costringe a girarsi di scatto, tirandosi un po’ i capelli nel movimento.
- Ahi… - si lamenta, liberando la mano dall’intreccio di boccoli all’altezza del collo, - Boji? – chiede quindi, un po’ incerto. Il ragazzo non lo guarda, resta lì a qualche metro da lui e fa fatica perfino a rimanere fermo, tanto è nervoso. Continua a spostare il peso da un piede all’altro, come non riuscisse a trovare pace. Zlatan sospira: Guardiola l’ha ignorato per tutto il giorno e la situazione s’è fatta pesante. È un bene che debba partire per gli impegni in Nazionale: se tutto va come deve, per il momento in cui sarà tornato, tutta questa faccenda se la saranno lasciata entrambi alle spalle. – Bojan, ti prego, non fare così. È già abbastanza imbarazzante anche evitando queste scene, ti pare?
Lui risponde con un sorriso minuscolo, avanzando di qualche passo e poi, finalmente, guardandolo.
- Pep non sa che sono qui… - mormora incerto, - Voglio dire, l’ha presa male, è molto preoccupato e- - Zlatan lo interrompe con una risata tonante, riprendendo a sistemare la propria roba nel borsone come niente fosse stato. Bojan inarca un sopracciglio ed arriccia le labbra in una smorfia infantile ed offesa. Zlatan lo ferma prima ancora che possa parlare.
- È tutto ok, Boji. – sorride, chiudendo il borsone ed avvicinandoglisi. Gli lascia passare un braccio attorno alle spalle, se lo tira contro e gli scompiglia i capelli, teneramente. – José non dirà una parola, garantisco io per lui. Di’ al mister di stare tranquillo.
Bojan ridacchia, un po’ imbarazzato, e poi solleva lo sguardo mentre, ancora abbracciati, si muovono insieme verso l’uscita dello spogliatoio.
- Sai che è la prima volta che lo chiami mister? – gli chiede. Zlatan sorride, guardando il cielo terso di Spagna non appena si ritrovano all’aria aperta.
- Davvero? – gli scompiglia ancora i capelli, inspirando ed espirando profondamente, - Non me n’ero accorto.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Flashfic, Bondage.
- Illusione di possesso.
Note: Io sono molto, molto, molto contraria al concetto che sta alla base di questa storia. L’ho scritta in trance, senza pensarci troppo, seguendo gli strascichi (poco salutari) dell’aver guardato questo video su Zlatan per un paio di volte nel pomeriggio. Che devo dirvi, sono femmina, gli ormoni sono quelli che sono e Zlatan, dannazione a lui, ne è un concentrato. Soprattutto quando è seminudo. José, perdonami ;_;
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Disincanto
81. Questione di scarsa mobilità


I muscoli contratti nello sforzo di liberarsi dalle manette, il corpo che si inarca in preda agli spasmi inevitabili di piacere che la sua mano fra le cosce lo costringe a provare, le labbra strette con forza fra i denti, gli occhi chiusi, le palpebre serrate, le sopracciglia aggrottate e quella piccola ruga proprio sopra la radice del naso, le gambe che tremano, incerte e in bilico fra il desiderio di serrarsi attorno al suo polso e quello di allargarsi per lasciargli più spazio possibile, l’erezione che svetta e appare e scompare fra le sue dita serrate attorno alla pelle bollente e un po’ umida e tesa, i gemiti che non riesce a impedirsi di lasciare scivolare sulla lingua, la stessa lingua che ogni tanto saetta sulle labbra riarse dalla voglia per cercare di placare un bruciore che non si può certo spegnere con così poco, le spalle larghe che tirano e si tendono, il bacino che segue svelto i movimenti della sua mano chiusa a pugno, le natiche sode e la violenza con cui stringe la presa attorno alle sue dita come a dargli l’impressione di volerlo imprigionare dentro di sé con tutti i muscoli che possiede, il collo esposto, il pomo d’Adamo che viaggia lungo la gola, verso l’alto e verso il basso, seguendo il ritmo affannoso dei suoi respiri, le dita di mani e piedi che si aprono e si chiudono incontrollatamente seguendo le onde di piacere che esplodono nel bassoventre per poi ripercuotersi lungo tutta la superficie del suo corpo come l’alta marea, dandogli i brividi e costringendolo a trattenere il respiro – Dio, il corpo di Zlatan è una cosa troppo bella per stare in gabbia, José quasi non riesce a credere di poterlo tenere costretto e immobile solo con due anelli di metallo, eppure è quello che succede, e lui deve deglutire un paio di volte e costringersi a prendere atto della realtà così com’è per non perdere la concentrazione e mandare tutto a puttane.
- Ti diverti? – soffia Zlatan, muovendosi ritmicamente contro di lui e sollevando una gamba per sfiorargli un fianco col ginocchio. – Ti sembra una cosa tanto divertente?
- Al contrario. – risponde José, lasciando in pace la sua erezione e risalendo con due dita umide lungo il suo ventre, riscrivendo il suo nome nella curva dello stomaco proprio sotto l’ombelico, e poi ricominciando la scalata fino ai capezzoli turgidi e sensibili che costringono Zlatan a un brivido incontenibile nel momento in cui vengono appena sfiorati, - La trovo una cosa molto seria.
Zlatan si dipinge sul viso un ghigno che se possibile lo rende ancora più odioso e intrattabile – è bello in maniera del tutto perfida, sorrisi del genere ti danno l’impressione di poterlo catturare nel palmo della mano e invece lui è pronto a spiccare il volo al minimo segno di cedimento, è pronto sempre, vive in attesa del momento in cui stornerai lo sguardo per cogliere quel singolo attimo e fuggire via il più lontano possibile.
- Se non ti diverti, non è divertente. – lo prende in giro, strattonando le manette perché tintinnino contro la testiera in ferro battuto.
- Silenzio. – ordina José, tornando a stringere la sua erezione fra le dita, - L’accordo era per il silenzio.
- Ma ti piace sentirmi sussurrare il tuo nome. – continua Zlatan, impietoso, le labbra ancora piegate in quel sorriso da schiaffi, - Ti piace quando ti sfioro le orecchie con le labbra e- José, José, Zay!
- Smettila. – intima lui, sistemandosi fra le sue gambe con un gesto repentino e premendosi con forza contro di lui, la punta che già si insinua dentro al suo corpo, scavandosi un posto molto meno difficile da trovare e raggiungere di quanto José non vorrebbe. – Sta’ zitto.
- Ti piace l’idea di potermi tenere sotto controllo. – sussurra Zlatan, spingendosi nella sua direzione con un movimento repentino, quasi violento, ed accogliendolo dentro di sé per tutta la sua lunghezza, lasciando andare un soffio a metà fra il compiacimento e il fastidio, - Queste ti aiutano a sentirti potente. – continua, accennando alle manette e alla sottile catena che le unisce, ancorandole ad una sbarra della testiera, - È solo ferro, Zay, è solo un momento. – lo disillude, muovendosi lentamente avanti e indietro, dettando il ritmo di quella scopata a senso unico in entrambi i sensi, - Io non sono tuo. Io non sono di nessuno.
José chiude con forza le mani attorno ai suoi fianchi e Zlatan si lascia sfuggire un mugolio sottilissimo, mentre lo accoglie più in profondità di quanto José abbia l’impressione di averlo mai percepito fare, e riprende a sussurrare il suo nome, ZayZay, presuntuoso e crudele e indomabile e pericoloso, molto più pericoloso di quanto José non avrebbe mai potuto pensare o anche solo intuire prima di posargli gli occhi addosso e rimanerne stregato.
Viene dentro di lui con un gemito gutturale, senza preoccuparsi di rendere a Zlatan il favore, ma quando apre gli occhi scopre che qualsiasi tipo di preoccupazione in tal senso sarebbe del tutto inutile: Zlatan è venuto, sì che è venuto, era quello che voleva, d’altronde, e Zlatan in questo è perfino più vincente di quanto non sia lui stesso, ottiene sempre ciò che vuole.
Lo guarda attentamente, mentre lascia scorrere due delle sue lunghissime dita sul proprio ventre e le sporca appena, sollevandole subito in direzione delle sue labbra. José non aspetta che ci sia una richiesta, da parte sua: le accoglie in bocca, fra i denti, fra la lingua e il palato, e succhia con un bisogno e un desiderio che lo lasciano stordito.
Zlatan sorride, estremamente compiaciuto.
- Non sono tuo. – ripete, - Non sono tuo. Tu sei mio.
José scosta lo sguardo ed osserva tristemente le proprie mani ancora serrate sui fianchi di Zlatan. Attorno ai suoi polsi non ci sono catene, ma è come se ci fossero.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno (ok, ci sono accenni di Jobra, se proprio li volete vedere *sbuffa*).
Rating: G
AVVERTIMENTI: Nessuno.
- Zlatan, in visita a villa Ratti, trova qualcuno che non si aspetta.
Note: Cerchiamo di ignorare tutti assieme quanto palese sia il subtext Jobra in questa storia, e fingiamo che sia davvero una gen \o/
No, va be’, scherzi a parte è una gen, perché in realtà io qui non volevo per niente raccontare dei non detti del rapporto fra Zlatan e José XD Piuttosto volevo concentrarmi sull’irrequietezza intrinseca di Zlatan, su come non riesca a sentirsi felice qualsiasi sia il posto in cui si trova. Se è a Barcellona, quando pensa a casa gli viene in mente Milano. E quando invece arriva a Milano, scappa verso casa, che è ritornata Barcellona. Benedetto ragazzo. *sospira*
Comunque l’idea mi martella in testa da quando José ha detto di essersi fatto male al mignolo giocando a basket con suo figlio XD (Sì, mi basta così poco. Oh, insomma.)
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This Will Tell You I Was There


Zuca non ha ancora imparato a giocare a basket, e questa è l’unica cosa che Zlatan può dire con certezza in questo momento, mentre lo osserva maneggiare la palla con aria tutt’altro che convinta, lasciandola rimbalzare a terra e provando a governarla con una mano sola, arrendendosi pochissimi tentativi dopo e sospirando profondamente mentre la regge alta sopra la testa, osservandola come fosse un qualche strano animale dotato di una propria coscienza e bene intenzionato a rendergli la vita difficilissima.
È abbastanza ridicolo, si dice, restare lì dietro la siepe a spiarlo come un ladro o qualcosa di ancora peggiore. Se qualcuno della sicurezza lo trovasse adesso, soltanto il suo nome potrebbe salvarlo da una ben meritata notte dietro le sbarre. Che è, per inciso, qualcosa che Zlatan di sicuro non può permettersi, dal momento che è praticamente fuggito via come un disperato cogliendo l’occasione della partita già giocata al sabato sera – no, non riuscirà mai ad abituarsi a giocare sempre costantemente il sabato – e del posticipo dell’Inter nella serata di domenica. “Parto”, si è detto, “saluto un po’ di vecchi amici, guardo la partita e per lunedì, massimo ad ora di pranzo, sono di nuovo a Barcellona”.
Per qualche motivo, però, l’indirizzo che ha dato al tassista recuperato subito fuori dall’aeroporto non era quello del centro sportivo ad Appiano, e non era neanche quello della sede in centro a Milano. Non era casa di Deki né casa dei bambini, non era casa di Marco, non era casa del presidente, ma Villa Ratti. Casa di José.
Non ha la minima idea del perché si trovi qui – il suo processo mentale è stato qualcosa di spaventosamente simile a “ok, non ho più una casa a Milano, dov’è che vado per non sentirmi del tutto fuori posto?”. Dovrebbe preoccuparsene, perché in fin dei conti a Villa Ratti lui nemmeno ci ha passato tutto questo tempo, dopotutto. Un po’ di cene, sì, qualche domenica pomeriggio con Helena e i bambini – anche perché Vinny adora Titi e Maxi adora la piscina – ma niente di più. Quanto, in tutto, una settimana, facendo il conto delle ore? Non abbastanza per definire quel luogo “casa”, visto che a stento ci riesce con Malmö.
- Puoi anche venire fuori, eh. – dice piano Zuca, riprendendo a far rimbalzare la palla.
Imbarazzato, Zlatan esce dal proprio nascondiglio, grattandosi nervosamente la punta del naso. Zuca sta venendo su incredibilmente simile a suo padre, ed è facile notarlo soprattutto nel suo atteggiamento: distaccato ma cordiale; è un po’ rigido, forse, ma il suo sorriso è caldo e tenero, sinceramente affettuoso.
- Ciao. – lo saluta timidamente, quasi sentendosi in soggezione nei suoi confronti e nei confronti dell’intimità di quel posto, un’intimità che sta violando. – Dov’è papà?
- È dentro ad aiutare mamma con qualcosa. – risponde Zuca vago, prendendo le misure fra se stesso e il canestro. – Volevi parlare con lui?
Per qualche secondo, Zlatan resta spiazzato da quella domanda posta con innocenza, perfino un po’ stupida: il tono di Zuca sembrava essere quello che avrebbe usato per chiedergli la stessa cosa se, per presentarsi all’improvviso a casa Mourinho, Zlatan avesse semplicemente dovuto attraversare la strada, e non prendere due taxi e un aereo come invece era stato costretto a fare.
- No, io… - comincia balbettando, - Forse. – ammette quindi, scrollando le spalle. – Non lo so con certezza.
Zuca gli solleva addosso gli occhi castani chiarissimi, e lo scruta con un po’ di sospetto.
- Tu stai a Barcellona adesso, vero? – chiede, come a volersene sincerare. Zlatan annuisce in silenzio. – E hai una bella casa? – continua Zuca, palleggiando un paio di volte.
- In realtà sto ancora in albergo. – risponde lui con un mezzo sorriso, grattandosi la nuca, - Non ho ancora trovato un posto adatto.
Zuca annuisce compitamente.
- Papà dice che non lo troverai mai. – commenta con distacco, - Dice che per te fermarti è impossibile, e che quando ti sembrerà di aver trovato un posto adatto, in quel momento vorrai già andartene via. Dice – continua – che è questo che è successo con la villa che avevi trovato qui a Milano, quella che hai dovuto vendere prima di partire per Barcellona. Dice che ti succederà anche lì.
- Tuo padre dice un mucchio di cose, mh? – chiede Zlatan, indispettito, mani sui fianchi e smorfia offesa sul volto.
- Sì. – ride Zuca, - Lui parla tanto. – e poi gli porge la palla da basket. – Giochi?
Zlatan lo guarda, un po’ stupito, prima di prendere la sfera fra le mani e palleggiare con una disinvoltura notevolmente maggiore rispetto a quella che ha sfoggiato Zuca fino a questo momento. Il bambino lo osserva riprendere confidenza con la palla, girare un po’ in cerchio attorno a lui palleggiando con concentrazione e poi correre a canestro, insaccando il pallone con un salto talmente fluido e naturale da non sembrare nemmeno vero.
- Aaah! – gioisce, battendo le mani e saltellandogli accanto con entusiasmo, - Era vero quello che diceva papà!
- Sentiamo, - ride Zlatan, scompigliandogli i capelli chiari, - cos’altro diceva papà?
- Che quando salti sembra che voli! – annuisce Zuca, ridendo a propria volta e grattandosi il naso infastidito dalle punte della frangetta lunghissima che è scesa a solleticarlo sotto la pressione delle lunghe dita di Zlatan.
E Zlatan sorride intenerito, consegnandogli la palla e poi stringendolo ai fianchi, sollevandolo abbastanza da permettergli di fare canestro ridendo entusiasta e sgambettando allegro ed agitato come il bambino che è, prima di adagiarlo nuovamente sul campetto di cemento.
- Vieni dentro, dai! – ride Zuca, prendendolo per mano e cominciando a trascinarlo verso casa, - Papà sarà contento di vederti, devi vederlo come borbotta da quando sei andato via! Sembra diventato nonno Félix!
- Ehi, piano, piano! – punta i piedi Zlatan, frenando così bruscamente che Zuca, già tutto proiettato verso la villa, rimbalza all’indietro come un elastico, finendo per rovinargli addosso. Lo regge per le spalle, rimettendolo dritto ed evitando i suoi occhi quando gli si posano addosso con curiosità, preferendo concentrarsi sullo zaino con poche cose che ha portato con sé da Barcellona ed ha abbandonato accanto al campo quando il bimbo gli ha chiesto di giocare. – Forse non è il caso di disturbare, dai. Devo tornare a casa, e poi è quasi ora di cena.
- Oh… - mugola Zuca, visibilmente deluso, - Papà sarà triste di non averti potuto salutare. – considera a bassa voce.
- Tu non dirgli che sono passato, ok? – chiede con una certa urgenza, recuperando lo zaino e sistemandoselo in spalla, - E… ehi. – richiama la sua attenzione con un sorriso, - Quando passi la palla, guida la traiettoria con la sinistra e dai la spinta con la destra, e che sia bella forte, ma precisa. – Zuca lo guarda come stesse parlando in aramaico. Aggrotta le sopracciglia sottili ed inclina un po’ il capo, prendendo poi a fissare nuovamente la palla come fosse tornato lo stesso oggetto oscuro e misterioso di mezz’ora prima. Zlatan ride di cuore. – Andrà meglio col tempo. – dice, sentendosi improvvisamente pieno di qualcosa che non riesce nemmeno a definire, e tranquillo. – Va sempre meglio, col tempo.
Zuca lo saluta debolmente con la mano, e Zlatan sparisce lungo il viale quasi correndo. Se prende il primo aereo, fa in tempo ad essere a casa prima di sera.

*

- Non capisco perché tua madre si ostini a chiedermi aiuto con le mensole in casa, quando è evidente che io le complico solo la vita. – si lagna José uscendo nuovamente in giardino e passandosi una mano fra i capelli scompigliati. – Giochiamo? – chiede, cercando il figlio con gli occhi e trovandolo a pochi centimetri da sé, sorridente come quando l’ha lasciato.
Zuca annuisce e si allontana saltellando. Palleggia impacciato, ma riesce almeno a governare la palla con una sola mano, nota José compiaciuto. Si vede che si è allenato, mentre lui era dentro.
- Palla! – grida il bambino, fermandosi all’improvviso e voltandosi verso di lui, tirandogli addosso una cannonata di invidiabile potenza e disastrosa precisione. José si allunga per cercare di recuperarla senza che faccia danni; la intercetta con il mignolo, deviandola abbastanza da impedire che vada ad infrangersi contro la finestra della cucina, e subito dopo lancia un grido che, per quanto abbia cercato di trattenerlo fino a mordersi a sangue il labbro inferiore, terrorizza Zuca abbastanza da costringerlo ad inarcare le sopracciglia e spalancare gli occhi, indietreggiando di qualche passo prima di riprendere coraggio e corrergli preoccupato accanto. – Papà! – lo chiama agitato, - Scusa!
- È tutto ok, è tutto ok… - tira fuori José, abbozzando un sorriso affaticato e tastando delicatamente il dito per cercare di capire cosa sia successo. Fa male, e parecchio anche. Sospira, cercando di riacquistare il controllo dei nervi abbastanza da costringersi a placare il dolore o costringere il cervello ad ignorarlo almeno in parte, e poi si rimette dritto. – Ma chi diavolo ti ha insegnato a tirare così? – chiede quindi, inarcando un sopracciglio.
Zuca storna lo sguardo, vago, e scrolla le spalle. José lo fissa con attenzione, incerto, e poi i lineamenti del suo volto si stendono in un attimo, mentre solleva lo sguardo e lo gira celermente intorno, come alla ricerca di qualcuno.
- Papà…? – lo chiama Zuca, guardandolo dal basso con aria colpevole, - È tutto a posto?
- …sì. – annuisce lui dopo un attimo di incertezza, circondandogli le spalle con un braccio e sospingendolo piano verso casa. – Torniamo dentro, dai. – conclude. Ma non riesce ad impedirsi di guardarsi ancora nervosamente intorno alla ricerca di Zlatan, pur rientrando in casa.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash.
- Ennesima rivisitazione dell'addio più famoso del fandom =P
Note: Premesso che il maglioncino esiste davvero e nel momento in cui l’ho visto atterrare a Barcellona vestito in quel modo il mio cervello è esploso senza più possibilità di ricomporsi, ho da dire solo tre cose. Primo: non so come sia possibile che io abbia ancora qualcosa da dire su questo addio, ma così è. Ogni tanto rileggo le storie che ho già scritto sul momento in cui Zlatan è andato via, e mi sembra sempre che manchi qualcosa. Sospetto che non arriverà mai il momento in cui potrò dire serenamente “ecco, adesso ho detto tutto”. Non so se sia un bene o un male XD Secondo: è palese che It100 e i suoi Challenge mi uccideranno, perché senza il Challenge #27: Triade #1 niente di tutto ciò sarebbe mai venuto alla luce. Terzo: i Muse sono divini e Resistance è una canzone meravigliosa adattabilissima ad una quantità spropositata di pairing – tra i quali anche il Jobra. Il titolo è rubato ad uno dei versi della canzone, con tanto affetto <3
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Love Is Our Resistance


.Buio.
La stanza è avvolta nella più totale oscurità, e l’unico suono percettibile in quella calma buia e un po’ ovattata è il respiro sereno di José. Scandisce regolare lo scorrere del tempo – il suo petto si solleva e con lui la mano che Zlatan vi ha poggiato sopra – e Zlatan sa che, se sta sentendo avvicinarsi l’alba, non è perché quella stia arrivando davvero, ma perché ha già contato decine centinaia migliaia di respiri di José, e allora davvero non può mancare così tanto al nuovo giorno.
Non sa perché gli abbia chiesto di dormire insieme un’ultima volta – non ne aveva il diritto – e non sa perché José abbia accettato – non ne aveva il dovere – ma nel momento in cui lo sente rigirarsi sul materasso ed avvolgerlo fra le braccia con un sospiro più profondo degli altri, che gli impedisce di capire se dorma ancora o se alla fine si sia svegliato, non gli importa nemmeno così tanto.
 
.Grigio.
Il maglioncino è lì fra le sue mani. È morbido e piuttosto leggero, è Armani. Stava dentro una scatola rettangolare bassa ed elegante, di un colore molto simile a quello del tessuto – un grigio chiaro, brillante, semplice, il classico capo d’abbigliamento che puoi mettere in ogni occasione e con qualsiasi altro colore senza mai sfigurare. Zlatan lo accarezza con devozione per molti secondi, e sorride nell’immaginare José scivolare di nascosto in camera sua ed infilare quel pacchetto nella sua valigia senza che lui se ne accorga.
Guarda la lettera ancora chiusa sul letto – pensa all’improvviso che in Svezia fa fresco, quindi può già indossarlo quel maglioncino, per partire, ma a Barcellona, quando sarà arrivato, probabilmente morirà di caldo. Dovrà trovare un modo per toglierlo, quando sarà lì, suppone, ma nel momento in cui lo indossa sopra la camicia bianca e si siede sul materasso, prendendo fra le mani il biglietto di José e preparandosi a leggerlo, non gli importa nemmeno così tanto.
 
.Mattino.
Il sole picchia. È tutto quello cui riesce a pensare. Il sole picchia e si rifrange sulla sua nuova maglietta da allenamento, che è una maglietta gialla fosforescente davvero assurda. Quando Mino gliel’ha vista addosso è scoppiato a ridere, gli ha fatto notare che quel colore gli riempiva la pelle di riflessi verdognoli vagamente malsani e poi, con un sorriso appena più mesto che l’ha stupito più di tutto il resto, ha aggiunto che probabilmente stava meglio in azzurro. Zlatan non ha risposto – in compenso ha stretto con forza le dita attorno al bigliettino di José, accartocciandolo tutto. Ha sciolto la presa subito dopo, non voleva spiegazzarlo così. S’è morso un labbro con forza per resistere alla tentazione di tirarlo fuori e rimetterlo a posto anche lì davanti al suo agente.
Poi ha sospirato ed è tornato a sedersi al proprio posto, osservando l’allenamento dei suoi nuovi compagni senza potervi prendere parte. Il polso sinistro fa male e si sente fuori luogo in maniera fastidiosa, probabilmente è anche vero che stava meglio in azzurro, ma il biglietto di José dice “chiamami quando vuoi”, e quindi Zlatan sorride, e di tutto il resto non gli importa davvero un cazzo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon.
- Zlatan chiama José, poco prima dell'inizio della Liga in Spagna, chiedendogli un appuntamento a Como.
Note: È passata una vita, da quando ho scritto questa fic (un paio di settimane, nella mia quotidianità di ficwriter, sono un tempo enorme, visto che in quattordici giorni in genere butto giù almeno cinque fic complete e altrettante in corso d’opera T_T), quindi naturalmente non mi ricordo più perché l’ho fatto XD Deve essere stata colpa di Def perché ricordo una conversazione su MSN in cui gli ho fatto leggere un pezzo della storia e lui si aspettava che fosse un’altra storia. Perciò lui mi disse “non è quella o_o” e io risposi “no, non lo è”, e lui replicò con uno sconcertato “non mi dire che hai preso il plot di prima?!”, riferendosi ad un plotcriceto di cui avevamo parlato qualche minuto prima, quindi so per certo che l’idea me l’ha data lui XD Anche se non ricordo più come. In sostanza, tutto ciò lo dico perché se non vi è piaciuta ora sapete con chi prendervela :D
(Titolo rubato all’omonima canzone degli Evanescence.)
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Tourniquet
50 Places / 020 Automobile @ PWP Fest (Kinks&Pervs)


- Quando mi hai chiamato, - dice José, addentando il panino e tamponandosi l’angolo della bocca con un tovagliolo per impedire alla salsa rosa di scivolargli lungo il mento, - ho pensato seriamente di mandarti a quel paese e dirti che potevi tornartene a Barcellona. E ora che “andiamo a cena fuori” è diventato “mangiamo un panino da qualche parte”, mi pento di non averlo fatto.
Zlatan ride, mandando giù un morso del proprio panino con salsiccia e molleggiando lentamente sulla ringhiera addosso alla quale è appoggiato, un po’ sollevato dal suolo, come a ribadire una posizione di superiorità che, se non gli è già stata data dall’altezza, gli è stata comunque confermata dall’essere stato quello a soffrire di meno, a causa di tutto il casino che è stata la loro relazione prima e dopo la sua partenza.
- Almeno è un buon panino. – ribatte, annuendo compiaciuto.
- Il tuo, forse. – insiste José, cocciuto, - Il mio è amaro.
- Amaro? – chiede lui, inarcando un sopracciglio.
- Aha. – risponde l’uomo con una scrollata di spalle, - Avresti anche potuto portarmi nel più raffinato dei ristoranti francesi di Como, e penso che avrei trovato amaro perfino il pâté de foie gras.
Zlatan si concede una mezza risata, prima di fermarsi e lanciare al lago debolmente illuminato una lunga occhiata pensierosa.
- Ma ci sono ristoranti francesi, qui a Como? – chiede quindi in tono quasi infantilmente curioso, costringendo José ad una risata anche troppo simile alla sua.
- Non ne ho la più pallida idea. – risponde con un sospiro, - E comunque non era quello il punto della questione.
- Sai, José? – prosegue Zlatan, il panino dimenticato fra le mani e gli occhi che indugiano nostalgici su tutta la superficie dell’acqua, accarezzandola lentamente fino ai monti che la racchiudono all’orizzonte come in un abbraccio, - Non l’ho mai davvero capito fino in fondo, quale fosse il punto con te.
- Forse perché era estremamente semplice. – risponde lui, seguendo la traccia del suo sguardo per sfiorare il lago con la stessa intensità, - Non sei mai stato molto elastico, in questo senso. Tu sei un uomo che impazzisce per le cose grandi, le cose epiche e distruttive, e-
- E tu no? – scocca, accompagnando la frecciata con occhi che brillano di fastidio appena accennato. José continua a fissare il lago e si degna di rispondergli solo dopo un altro morso al panino, portando gli occhi su di lui e scrutandolo attentamente.
- Anche io, sì. – ammette, - È per questo che su di te mi ci sono totalmente perso. Ma – prosegue, incartando ciò che resta del proprio panino e cercando in giro un cestino in cui gettarlo, - so anche riconoscere il valore delle cose semplici, quando me ne trovo di fronte una.
- E quando mai fra noi le cose sarebbero state semplici? – sogghigna Zlatan, continuando a mandare giù la propria cena in morsi svelti e brevi, come avesse fretta di finire per poter scappare via. Di già.
José abbassa lo sguardo e riflette – Zlatan vede scorrere i ricordi di un anno intero nel brillio cupo delle sue pupille illuminate a tratti dalle luci giallastre dei lampioni tutti intorno.
- Per me hanno cominciato ad esserlo nel momento in cui ho capito che era te che volevo, e che non potevo rinunciare alla tua presenza. – ride un po’, amaramente, - Cioè, immagino, più o meno quando hanno cominciato a farsi difficili per te. È questo, credo, il motivo per cui io e te abbiamo dovuto chiuderla, a un certo punto. – ragiona serio, grattandosi il mento e acconciando le labbra in una smorfia a caso pescata alla cieca dal suo famoso campionario, - Tu ed io siamo molto simili, combattiamo entrambi, di continuo. Solo che tu combatti per la conquista, io combatto per quello che viene dopo. Non abbiamo obiettivi comuni, capisci? Tu ti fermi e perdi interesse, quando conquisti qualcosa, io invece il mio interesse comincio ad accenderlo proprio quando quella cosa ce l’ho fra le mani. Capisci perché non può andare?
Zlatan, naturalmente, scuote il capo, gettando il proprio panino nel primo cestino disponibile.
- Tu hai due difetti enormi. – risponde, apparentemente senza seguire alcun nesso logico con quanto José ha appena detto, - No, ok, hai una quantità spropositata di difetti enormi, ma i due peggiori in assoluto sono che parli troppo e, soprattutto, parli in modo da farti dare sempre ragione.
- Perché ho sempre ragione.
- No, perché vuoi la ragione a tutti i costi, anche quando non ce l’hai. – precisa Zlatan, incamminandosi per il lungolago, le mani ficcate a fondo nelle tasche dei jeans e José al fianco, svariati centimetri più lontano da lui, tanto da non poter nemmeno sentire il tepore e il profumo che si emanano dal suo corpo. – Ho combattuto per te perché ti volevo. E ti ho voluto finché ti ho avuto.
- E poi non mi hai voluto più. – prosegue José con un sorriso sghembo.
- No. – nega risolutamente Zlatan, quasi fermandosi in mezzo alla strada per guardarlo dritto in viso, - È qui che ha cominciato a farsi tutto più complicato. Ma questa è una cosa di me che non hai mai capito e non capirai mai.
- Perché non me l’hai mai spiegata. – motiva lui in un mezzo ringhio.
- Perché non è spiegabile. – insiste Zlatan, convinto, - Perché non sei uno zingaro, perché ti leghi ai posti in cui vivi, perché ti affezioni e resti affezionato anche quando vai via.
- E tu no.
- E io no.
- Ma sei qui, ora.
Zlatan ridacchia, grattandosi imbarazzato la nuca.
- Ed ecco che ricomincia a farsi complicato.
- Sai cosa credo io, invece? – ride José, sospirando un po’, - Che ti dia fastidio ammettere che per più di qualche minuto, in barba al tuo animo zingaro e stronzate varie, tu abbia pensato seriamente alla possibilità di restare. Per me.
Zlatan gli lancia un’occhiata risentita, imbronciandosi appena.
- Tiri la corda. – lo avverte in uno sbuffo insoddisfatto, e José ride ancora.
- Vedi? – lo prende in giro, - Semplicissimo.  – e Zlatan rotea gli occhi.
- Ti riporto a casa. – sbotta, - È evidente che qui abbiamo sbagliato entrambi.
- Hai sbagliato tu, semmai. – replica José, - Io non ho mai pensato che questa serata sarebbe stata qualcosa di diverso da un clamoroso buco nell’acqua.
Zlatan inspira profondamente, cercando di calmarsi, prima di rispondere.
- Hai ragione. – concede infine, - Ho sbagliato io. Perché ci ho sperato.
Non dicono più una parola finché non si trovano rinchiusi nell’ambiente incredibilmente inospitale della Mercedes di Zlatan. Profuma di buono – profuma di lui, e José non riesce ad ignorarlo anche se vorrebbe profondamente – e si muove svelta e discreta lungo strade che entrambi conoscono a memoria, hanno ripercorso decine – centinaia – di volte e sembrano intrecciarsi in un viaggio lungo all’infinito solo perché nessuno dei due vuole davvero porre fine a quella serata, per quanto brutta possa essere stata, con un nulla di fatto. I pareggi non li hanno mai esaltati, e ci sono questioni per le quali trovarsi esattamente a metà fra due posizioni opposte non porta sollievo a nessuno.
Zlatan sospira con forza mentre si ferma all’improvviso, accostando sul niente in una strada semisterrata in un punto imprecisato fra il vuoto e il nulla. José solleva lo sguardo e lancia brevi occhiate tutte intorno a sé, cercando di scorgere un qualsiasi punto di riferimento nel buio che li circonda, ma il paesaggio non gli è familiare, anche se probabilmente dovrebbe, e perciò si volta a guardare l’unica cosa che sia sicuro di poter riconoscere con certezza nel raggio di chilometri.
- Perché? – chiede, osservando attentamente Zlatan, che si ostina a fissare il volante ancora stretto fra le mani.
- Perché – risponde immediatamente lui, mordendosi con forza il labbro inferiore per provare a calmarsi, - perché non voglio lasciarti andare. Perché forse – concede, voltandosi finalmente a guardarlo, - forse hai ragione tu, okay? Forse per un secondo o più di uno ho pensato che per te potevo farlo, intendo, mandare a fanculo tutto, anche se non stavo bene, e restare. Perché eri tu, capisci? No che non capisci, tu queste cose non puoi capirle perché… cazzo, perché tu apprezzi le cose semplici, le cose lineari, giusto? E quindi non lo puoi capire quello che mi gira per la testa, perché – ridacchia nervosamente, - come potrei spiegarti che ti voglio vicino e ti voglio lontanocontemporaneamente? Come faccio a spiegartelo? Non lo capisco nemmeno io!
- Tu non sei complicato, Zlatan. – ribatte lui, irritato, - Tu ti complichi la vita! Vuoi le cose che non hai, quando le hai continui a volerle ma solo alle tue condizioni, cosa credi che siano gli esseri umani, oggetti? Credi di poterne avere un campionario a disposizione e poter scegliere quale utilizzare in relazione a come ti svegli in un determinato giorno? Cristo! – sbotta, scuotendo il capo, - Se mi vuoi, mi vuoi e basta. Se non mi vuoi, va’ pure a fanculo, sono sopravvissuto fino ad adesso, potrò continuare a farlo anche in futuro. E, per inciso, non ho vissuto in attesa del tuo ritorno, Zlatan. Io sono andato avanti, mentre tu-
- Sono andato a letto con Pep.
José lo guarda, le parole bloccate in gola e le labbra ancora dischiuse in attesa della conclusione della frase.
- Tu hai fatto cosa?
- Non riuscivo… - cerca di spiegarsi, ma solo nel momento in cui comincia si rende conto di non sapere come concludere, e per la verità nemmeno come continuare, - Volevo solo-
- Volevi cosa?! – insiste José, la voce che si fa acuta man mano che comincia a gesticolare, - Cazzo, non so nemmeno cosa dirti! È un comportamento da ragazzini, e tu hai smesso di esserlo da un bel pezzo, Zlatan! Dirmelo adesso, poi! – aggiunge con una risata amara, - Cos’è che dovrei fare, secondo te? Mettermi a urlare e farti una scenata di gelosia?
- Be’, è quello che stai facendo! – gli fa notare lui, allargando le braccia e lasciando finalmente andare il volante in un gesto esasperato.
- Assolutamente no! – protesta José, - Sto cercando di spiegarti il punto, che è-
- Il punto, il punto, il punto! – si lamenta Zlatan, poggiando il capo contro la testiera del sedile, - L’unico punto che abbia un qualche valore, per me, è che mentre stavo con lui non riuscivo a non pensare a quanto sembrasse sbagliato, a quanto mi sembrasse di stare perdendo qualcosa. Mancava qualcosa e non sapevo dire cosa. E l’ho capito quando ti ho rivisto, ma sto cominciando a rendermi conto che forse non servirà a niente davvero, dopotutto.
- Sai cosa? – continua immediatamente José, quasi senza neanche lasciargli concludere il discorso, - Potresti perfino avere ragione, per la prima volta in tutta la tua intera esistenza, pensa! Non servirà a niente, è tardi. E non capisco perché sei tornato, non posso pensare che non lo immaginassi, non sei così stupido.
- Lo immaginavo, infatti. – sputa fuori Zlatan, adirato, - Ma ho voluto provare lo stesso.
- Perché sei cocciuto! Perché sei ostinato!
- Forse solo perché sono stupido davvero. – soffia a bassa voce, e la voce è bassa e il soffio è come una carezza perché è lì a pochi millimetri dalle sue labbra, José ne sente il tocco leggerissimo, quasi impalpabile, insapore, inodore, e poi tutti i suoi sensi si risvegliano e lui ricomincia a sentire nell’esatto istante in cui le labbra di Zlatan coprono le sue e la sua lingua si spinge in avanti in una richiesta muta ma fin troppo chiara, aspettando una risposta – sperando e pregando perché sia positiva.
La risposta arriva con le labbra di José che si schiudono – ma non per parlare – e con le sue mani che si spingono in avanti – ma non per fermarlo – e in pochi secondi Zlatan si ritrova sopra di lui, incastrato fra lo sportello e il portapacchi e soprattutto il suo corpo, perciò va benissimo così, anche se il cambio gli pressa contro un polpaccio e il freno a mano contro una coscia e la maniglia contro un fianco, perché le labbra di José sono sulle sue e poi divorano centimetri su centimetri di pelle lievemente sudata, giù lungo il collo e nel poco che riesce a sfiorare attraverso il colletto della camicia, ed è difficile muoversi in questo modo, ma non importa, Zlatan si muove lo stesso, si contorce abbastanza da liberarsi dalla camicia e si solleva torreggiando su José per qualche secondo per sfilare i pantaloni, prima di tornare a calarsi su di lui in uno strofinio che costringe entrambi a mugolare compiaciuti e ringhiare insoddisfatti, perché è bellissimo ma non è perfetto, ed invece vogliono entrambi che lo sia.
- Non cambia niente. – ansima José contro il suo collo, mordendo appena, - Se anche ora ti scopo-
- Scopami e basta. – lo interrompe lui, spingendosi con violenza contro la sua erezione tesa al di sotto dei pantaloni estivi e leggeri, - Cazzo, scopami e basta. E dopo mandami a fanculo e costringimi a non rivederti più.
José morde più forte, e Zlatan si lamenta piano, gettando indietro il capo.
- Mentivo. – gli sussurra addosso, sfiorando il segno del morso con le labbra umide, - Se ora ti scopo, poi tu non scompari più. Tu resti, perché altrimenti – stringe forte le dita attorno ai suoi fianchi, per lasciare un segno di sé anche lì, per marchiarlo tutto, - perché altrimenti io non lo so nemmeno, quello che faccio, Zlatan. – solleva gli occhi su di lui e lo obbliga a ricambiare il suo sguardo, tenendogli stretto il viso fra l’indice e il pollice, - Chiaro?
Zlatan si inumidisce le labbra e socchiude gli occhi. Non risponde ad alta voce ma annuisce, ed a José non sembra il caso di mettersi lì a pretendere l’assenso esplicito o una stupida firma su uno stupido contratto. Per quello che valgono le firme, poi. Sono molto più importanti gli occhi di Zlatan, è molto più importante quello che gli stanno dicendo loro, così come le sue labbra serrate con forza sulle proprie, può credere più facilmente a quello che a tutto il resto. E se lo fa bastare.
Lo aiuta ad alzarsi un po’ – Zlatan solleva un braccio per piantarlo sul tettuccio ed impedirsi di sbattere la testa, José ne segue la linea dritta e asciutta ed ogni singolo rilievo delle vene lungo l’avambraccio, ricorda quelle tracce a memoria ed avrebbe voglia di seguirle tutte con le labbra, se solo Zlatan non tornasse a calarsi con urgenza sulla sua erezione palpitante di desiderio, accogliendolo dentro di sé con un gemito arreso ed esponendo il collo ad una serie di morsi che José non riesce a risparmiarsi, mentre scende ad accarezzarlo con una mano fra le cosce, stringendolo fra le proprie dita e seguendo il più possibile il ritmo delle proprie spinte e dei movimenti svelti del bacino di Zlatan incontro al suo.
- Era così? – ansima a fatica, lasciando baci umidi sul suo petto e sulle sue clavicole, - Con lui era così?
- No. – geme Zlatan, coprendosi gli occhi con un braccio e stendendosi all’indietro per facilitargli la discesa lungo il suo petto, - No, non così, così con nessuno, né prima, né dopo, né- ah, José!
- Ancora. – chiede lui, stringendolo più forte, spingendosi più in profondità, - Il mio nome, ancora.
- José… - ripete Zlatan, docile, - Jo- Zay! – quasi grida, quando le sue spinte si fanno tanto forti da sembrare devastanti, da fare quasi male, - Zay!
- Non te ne andare. – chiede José, baciandolo lentissimo, ovunque, ed è una richiesta davvero, non un ordine, non un imperativo, è una richiesta e basta, non suona implorante solo perché la voce di José non è fatta per intonare suppliche, ma è quanto di più simile a una dichiarazione d’amore Zlatan potrà mai ottenere dalle sue labbra, e perciò si serra forte intorno a lui, contraendo i muscoli come volesse risucchiarlo dentro di sé per non lasciarlo andare mai più, e José urla il suo nome venendo all’istante, stringendo forte la presa della mano attorno al suo cazzo e passando il pollice sopra la punta, mentre Zlatan si tende e si inarca e quasi si allontana, sdraiandosi del tutto fra il parabrezza e il portapacchi, e José gli è subito addosso, chinandosi più di quanto non dovrebbe essergli per natura consentito ed accogliendolo fra le proprie labbra, continuando ad accarezzarlo con una mano dalla base alla punta mentre Zlatan grida e pianta i piedi dove può per tenersi immobile in quella posizione e non muoversi più, perché è tutto troppo bello e ora sì, è anche perfetto, soprattutto nel momento in cui l’orgasmo lo sorprende all’improvviso, lì fra le labbra di José, mentre si costringe a mordersi con forza il labbro inferiore per non scoppiare nell’ennesimo grido di piacere, più forte di tutti gli altri.
Quando torna a guardarlo, José sta cercando di rimettersi dritto con qualche difficoltà, e lui lo agevola come può, scivolando goffo sul sedile del conducente e cercando di rassettarsi mentre prova ad ignorare quel po’ di sé di cui ancora resta traccia sulle labbra di José, e che lui si premura al più presto di leccare via discretamente, perché non sia più motivo d’imbarazzo per nessuno dei due.
- Io non… - deglutisce a fatica, passandosi una mano fra i capelli lunghi e mossi, un po’ umidi di sudore, - non potrò restare davvero, lo sai. Fra pochi giorni-
- Lo so. – lo interrompe José, secco, richiudendo i pantaloni dopo essersi ripulito sommariamente con una salvietta pescata a caso da un pacchetto nel portaoggetti, - Zlatan. – sospira quindi, tornando a guardarlo, - Non è davvero importante dove sei, finché l’obiettivo per cui stai combattendo resto sempre io. Lo capisci, questo? – chiede a bassa voce, un po’ incerto.
Zlatan annuisce.
- Lo sei sempre stato. – puntualizza, allungando una mano a stringere forte la sua, - Lo sei sempre stato.
José sorride appena, sbuffando. Zlatan non riesce a capire se gli abbia creduto o meno, ma d’altronde non gli importa: che non sta mentendo, glielo dimostrerà sul campo. Come ha sempre fatto.
- Ti rivedrò in finale di Champions. – promette, gli occhi che brillano di determinazione, - E allora saprai che il mio obiettivo non è mai cambiato, è cambiato solo il modo in cui sto cercando di raggiungerlo.
José ride ancora, stavolta più divertito.
- Portami a casa, zingaro. – conclude. E il rombo della Mercedes si perde nella notte.
Genere: Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Boy's Love, What If?.
- Alla fine di Barcellona-Manchester City, una gatta nera trova il modo di introdursi al Camp Nou. Zlatan la adotta.
Note: Sul finale di Barcellona-Manchester City, valida per la tradizionale Coppa del Re (almeno credo o_ò) all’inizio di questa stagione calcistica, ad un certo punto un gattino nero ha trovato chissà come il modo di entrare in campo e, terrorizzato, schizzare di fronte alla panchina del Barça XD Per quel momento, Zlatan aveva già abbandonato il campo, perciò me lo sono immaginato a chiamare il gattino e portarselo a casa – e giuro che questo è l’unico motivo per cui ho scritto questa storia. José ci si è infilato autonomamente – come s’infila sempre autonomamente in ogni cosa, ne abbia il permesso o meno XD E a parte questo niente, è tutto storicamente documentato – a parte appunto la presenza di José e del gatto in casa di Ibra – e spero vi sia piaciuta <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Negrita


Quando Zlatan apre la porta, José ha entrambe le mani occupate. In una stringe i manici di un borsone nero ed elegante, di dimensioni medie, abbastanza appena per il cambio e il necessario per due giorni, forse. In un’altra, invece, stringe i manici di un sacchetto di plastica bianca, sottile e stropicciato. Sul davanti, un po’ deformato dal peso di ciò che contiene, lo stemma rosso e arancione del supermercato italiano dal quale proviene.
Quando José entra in casa senza chiedere permesso, anche Zlatan ha entrambe le mani occupate. Una stringe con forza la maniglia della porta, come vi si volesse aggrappare per non cadere, e José la osserva tremare visibilmente, quella mano, contro l’ottone un po’ sbiadito della maniglia, perché è la sinistra, il polso è ancora fasciato e nonostante tutto deve fare ancora male. L’altra mano, comunque, è occupata da qualcosa di ben più curioso.
- Sarebbe? – chiede il portoghese, poggiando il sacchetto di plastica sul primo tavolo che incontra e puntando poi l’indice contro il gatto nero che lo guarda curiosamente dal palmo della destra di Zlatan, gli occhi verdissimi fissi su di lui, a seguire il movimento del dito, e la coda che pende pigramente verso il pavimento.
Zlatan abbassa un po’ lo sguardo sul gatto, come avesse bisogno di osservarlo per ricordarsi della sua esistenza.
- Negrita. – risponde quindi, riportando gli occhi su José, che nel mentre ha tirato fuori dal sacchetto un pacco di spaghetti, una scatoletta di tonno, un vasetto di capperi sotto sale, un barattolo di pomodoro pelato ed un sacchettino più piccolo, tutto arrotolato, dal contenuto dubbio. – È una gatta, come puoi vedere anche da solo. L’ho chiamata così.
- E da quando ce l’hai? – chiede José con naturalezza, prendendo tutto fra le braccia e muovendosi disinvoltamente verso la cucina, come conoscesse a memoria la planimetria di quell’appartamento pur non essendoci mai stato, come fosse normale essere lì in quel momento quando invece dovrebbe trovarsi a più di mille chilometri di distanza, a Milano, nel proprio letto, a piagnucolare per il più fallimentare di tutta la storia dei pareggi da che l’uomo vive sulla Terra – o forse non esattamente, ma è comunque così che preferirebbe vederlo Zlatan, piuttosto che osservarlo affaccendarsi fra i suoi stipetti, cercando tegami e cucinando cose.
- Da oggi. – risponde comunque, appoggiandosi con una spalla allo stipite della porta ed accarezzando la gatta che ronfa serena sulla sua mano, - È entrata nello stadio, nessuno ha ancora capito come. Io ero già in panchina e lei era spaventata. Quando l’ho chiamata, mi si è avvicinata. – racconta piano, lento, e per un attimo riesce a perdersi in una fantasia assurda all’interno della quale José che gli prepara la cena è assolutamente normale, pure se non lo è mai stato e non lo era nemmeno quando passare le serate insieme, quello sì, era normalissimo. – Mi si è seduta sulle ginocchia. – continua a raccontare con un sorriso distante, - Quando è finita la premiazione, l’ho portata a casa con me. E l’ho chiamata Negrita.
- Ti piace lo spagnolo? – chiede l’altro, mettendo un tegamino sul fuoco e svuotando al suo interno la metà degli ingredienti che ha portato con sé.
Zlatan scuote le spalle.
- Non che lo capisca perfettamente.
- Dopo tutte le volte che l’ho usato con te. – soggiunge José con un ghigno, sciacquando i capperi prima di aggiungerli all’intruglio che già ribollisce nel tegamino.
- Tu parlavi in portoghese. – borbotta Zlatan, poggiando Negrita su una spalla per incrociare le braccia sul petto.
- Ho usato anche lo spagnolo, qua e là, chico. Solo che, – aggiunge con un altro sorrisino beffardo, - viste le situazioni in cui l’ho usato, non mi meraviglia che ti sia sfuggito.
Zlatan arrossisce imbarazzato, abbassando lo sguardo mentre Negrita fa le fusa proprio lì all’altezza del suo orecchio, stordendolo un po’.
- Sei venuto fino a qui per prepararmi la cena e fare lo stronzo? – chiede quindi, tutto d’un fiato. E poi, più seriamente, - Che ci fai qui, Zay?
José non risponde, e non sembra neanche granché turbato dall’uso di un soprannome che avevano entrambi deciso di mettere da parte nel momento esatto in cui Zlatan gli aveva detto che stava per partire. Rimesta l’intruglio, ne porta un po’ alle labbra e lo assaggia in punta di lingua con aria dubbiosa, prima di annuire soddisfatto e spegnere il fuoco sotto il tegamino, recuperando la pentola e piazzandola sotto il rubinetto per riempirla d’acqua calda.
- Com’è andata la partita? – chiede quindi, reggendo la pentola per i manici mentre, lentamente, si riempie, - Mi hanno detto che hai segnato.
- Ti hanno detto male. – quasi ringhia Zlatan, e il suo tono è così risentito che Negrita solleva il musetto dalla sua spalla e lo guarda con aria interrogativa, ma lui è troppo impegnato a scrutare José come volesse incenerirlo sul posto, per accorgersene. – Messi ha segnato. Il mio gol è avvenuto a gioco fermo. Quindi non è stato un gol.
Messi. – ripete José, accendendo il fornello sotto la pentola e coprendola subito dopo, - Non dovrebbe essere Lionel? O addirittura Leo?
Zlatan sbuffa e recupera Negrita, accarezzandola lentamente per tranquillizzarla.
- È Messi, per ora. – taglia corto. – Zay. – lo chiama ancora, - Zay, guardami.
José si volta a guardarlo, ma lo fa mentre srotola il sacchettino stropicciato tirandone fuori un rametto d’origano che chissà dove ha trovato prima di prendere l’aereo. Zlatan soffia come un gatto e Negrita soffia come lui.
- Guarda solo me. – precisa lo svedese, e José posa l’origano sul mobile della cucina, proprio accanto al lavandino, e guarda solo lui, le sopracciglia aggrottate e le mani sui fianchi. – Perché sei qui? – chiede Zlatan, e José sospira profondamente.
- Ti ho trovato magro. – risponde quindi, - Ho visto qualche foto, qua e là. Mi pare che non ti nutrano a dovere. Ho pensato “magari non gli piace la cucina spagnola”.
- E quindi sei venuto a prepararmi la cena. – conclude per lui. Negrita miagola, stuzzicata dall’odore del tonno cotto a puntino. – Mi prendi per il culo? – chiede ancora Zlatan, con un ghigno sghembo.
José scrolla le spalle, del tutto disinteressato.
- Non m’importa che tu mi creda. – dice, tornando a spargere origano sul tonno prima di versare l’intero contenuto del pacchetto di pasta all’interno della pentola, - M’importa solo che mangi quello che ti sto preparando. – poi si ferma, versa un po’ di sale e un goccio d’olio nell’acqua e comincia a mescolare perché gli spaghetti non si attacchino l’un l’altro né sul fondo della pentola. – E poi voglio che posi quel gatto. – continua, mentre Negrita gli ronfa sulla mano, - E che mi fai vedere quel polso, non sono sicuro che ti stiano curando per bene. – Zlatan fa per aprire bocca e fargli notare l’idiozia del ragionamento, dato che se c’è una cosa che interessa al Barcellona è che lui sia in splendida forma, ma José lo ferma con un rapido gesto della mano, tornando a coprire la pentola per rendere più svelta la cottura della pasta. – Lo so che è ridicolo. – precisa senza guardarlo, - Lo so che ti stanno curando bene. Ma voglio vedere quel polso. Voglio sentirlo sotto le dita. – torna a sollevare gli occhi su di lui, senza un’esitazione, senza pudore. – Voglio baciarti e scopare, è per questo che sono qui. – sorride appena, divertito, - Per la cena e per questo.
Zlatan schiude le labbra, ma non sa cosa dire. Negrita miagola, scalpita un po’. Zlatan si piega e la poggia a terra – lei non perde tempo, un secondo dopo sta strusciandosi contro le gambe di José, furba, sperando che lui le rifili un po’ di tonno più tardi.
- È un errore. – cerca di spiegargli, ma è incerto e confuso e non ci crede davvero. José lo capisce subito, e sorride più apertamente.
- Se m’importasse, non sarei qui. – risponde schietto. Zlatan si morde un labbro.
- Queste cose non sono mai prive di conseguenze. – protesta gesticolando piano, perché sì, per curarlo bene lo stanno curando bene davvero, ma la frattura sta faticando a guarire, anche se nessuno capisce il perché e Zlatan spesso si dice che forse è così perché il suo corpo non vuole davvero rimettersi a posto, dato che quel dolore è l’unica cosa che gli resta dell’Inter, della sua vecchia vita, di José.
- Ti sembro uno che ha paura delle conseguenze? – chiede José, indicandosi distrattamente prima di assaggiare uno spaghetto per saggiarne il grado di cottura, e spegnere il fuoco. – Scolapasta?
Zlatan si avvicina, Negrita cerca di arrampicarsi lungo i pantaloni di José e lui la scaccia con una mezza risata. Zlatan prende lo scolapasta e lo sistema nel lavandino, José si avvicina con la pentola bollente e lui si fa da parte. Negrita sta provando a scalare il cucinino, Zlatan la prende per la collottola e la solleva all’altezza del proprio viso, per scrutarla severamente.
- Non si fa. – cerca di spiegarle, agitandole un dito davanti al muso. Lei solleva una zampa e la poggia sul suo dito, cercando di attirarlo più vicino alla propria bocca per mordicchiarlo, un po’ per gioco e un po’ per dispetto. Quando Zlatan solleva lo sguardo su José – e lo fa solo perché José sta ridacchiando divertito – la pasta è già condita e nei piatti.
- Ostinata, questa gatta che hai trovato. – gli fa notare José, mentre sposta i piatti sull’isola della cucina e prende posto sul primo sgabello che si ritrova a portata di mano, - Adatta a te. Spero che Helena non faccia storie per tenerla in casa, quando gliela porterai.
- Al limite, - scrolla le spalle Zlatan, posando Negrita per terra e sedendosi sullo sgabello proprio di fronte a José, ficcando la forchetta nel proprio piatto di pasta mentre lo stomaco brontola e gli fa presente che dovrà ringraziare José per ben più di un motivo, dopo stanotte, - la tengo qui nell’appartamento. Non mi va di abbandonarla, dopo averla portata con me.
José fa una smorfia, non sembra granché soddisfatto.
- I gatti sono animali indipendenti. – spiega, e quando solleva gli occhi su Zlatan lui ha la netta impressione che José non stia più parlando di animali domestici, - Ma hanno bisogno della presenza del proprio padrone proprio come tutti gli altri. – Zlatan deglutisce. José manda giù una forchettata di pasta e mugola deliziato. – Assaggiala, - lo invita sorridendo, - è ottima.
Zlatan obbedisce annuendo. La pasta è ottima davvero.
- Quanto resti? – chiede fra una forchettata e l’altra. José scrolla le spalle.
- Gli allenamenti non riprendono prima di martedì. – butta lì, come fosse una cosa di marginale importanza, - Abbastanza per non farti sentire un cucciolo abbandonato. – conclude infine, con un sorriso più dolce. Zlatan risponde con un sorriso identico, e poi ricomincia a mangiare.
Negrita miagola insoddisfatta. José ride, e le allunga di nascosto un tocchetto di tonno.
Genere: Erotico, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Bondage, Lemon, Slash.
- Zlatan ed il suo preziosissimo autoregalo di compleanno, 3 ottobre 2008. E José che ci va ingiustamente di mezzo, Dio mi perdoni.
Note: Era il tre ottobre duemilaotto, Zlatan festeggiava il suo ultimo compleanno all’Inter e nessuno sapeva che sarebbe stato l’ultimo, perché lui era ancora felice di starci, in nerazzurro, allora, e lui e José si amavano con una passione esaltante, come dimostrano le quote dell’intervista, che sono tutte scrupolosamente vere fino all’ultima virgola, compresa l’ultima domanda in cui nessuno aveva chiesto a Zlatan di parlare del Mou ma lui ha ritenuto giusto farlo comunque XD Il giorno dopo, il quattro ottobre, contro il Bologna, Ibra avrebbe segnato uno dei gol più belli della sua carriera, di tacco, e l’avrebbe festeggiato sorridendo felice come un bambino. E l’Inter avrebbe giocato una delle partite più belle della stagione. *momento di tristezza nostalgica random* T_T
Questo, comunque, è solo un porno orribile e tremendo che Def mi ha chiesto di scrivere per non ricordo più quale allucinante associazione d’immagini su MSN. Ricordo solo che si concludeva col bondage, appunto, e con un dildo. E infatti qui c’è sia il bondage che il dildo, ma soprattutto c’è il porno che io non sono capace di scrivere, motivo per cui tutta questa shottina (che alla fine ha pure superato le duemila parole, senza un perché) fa abbondantemente schifo. Evvabbe’.
Il titolo è rubato a un verso di Time Is Running Out dei Muse, ora e sempre siano lodati. :*
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Bound And Restricted


Non passano neanche due secondi da quando Zlatan si affaccia con un sorriso furbo in camera di José a quando gli si fionda addosso, spingendolo di malagrazia fino al letto ed assicurandosi di chiudersi la porta alle spalle con un calcio bene assestato, di modo che tutti in Pinetina sentano che la stanza del mister è chiusa e, per tale motivo, è assolutamente necessario per motivi di ordine pubblico starne il più lontani possibile. D’altronde, non c’è niente di più bello di quella logica immediata, pratica e così tipicamente maschile che si instaura subito fra compagni di squadra, anche dopo pochi giorni di conoscenza. È una logica di opportunismo che si basa sulla sempre benemerita regola della beata innocenza: se attorno a te sta avendo luogo qualcosa di estremamente disturbante – e sì: la punta di diamante della squadra che, nonostante conviva da anni con la stessa donna ed abbia già un pargolo e ne aspetti un altro in dirittura d’arrivo, scopa regolarmente col nuovo CT portoghese arrivato da appena quattro mesi, decisamente è qualcosa di estremamente disturbante – ignorala. Magari la cosa estremamente disturbante non scomparirà, ma tu non ne sarai toccato, e sarà ancora tutto perfettamente a posto.
- Già finita l’intervista? – chiede José, atono, senza neanche provare a frenare l’irruenza dello svedese, che lo spinge a stendersi sul materasso dopo aver lasciato cadere lo zaino che portava in spalla per terra, per poi letteralmente saltare a stendersi al suo fianco. – Fai piano o farai saltare le doghe!
- Oh, piantala. – lo zittisce Zlatan con un bacio svelto a fior di labbra, - Comunque sì, finita l’intervista. – risponde annuendo e fissandolo con un certo interesse. José non riesce a spiegare la natura di quello sguardo, perciò – un po’ curioso e un po’ silenziosamente spaventato – si allontana di qualche centimetro per indagare.
- Ed è andata bene?
- Benissimo. – e se la voce di Zlatan potesse in qualche modo somigliare ad un cinguettio, questo sarebbe probabilmente il tono che userebbe. José ne è inquietato.
- …che cos’hai detto? – cerca di informarsi, incerto.
- Un po’ di questo, un po’ di quello. – scrolla le spalle Zlatan, ridacchiando compiaciuto, - Ho parlato tanto bene di te.
Che. Cosa. Hai. Detto. – ripete José, curandosi di aggrottare le sopracciglia e metter su l’espressione più minacciosa che possiede in campionario, calcando bene col suo italiano incerto su ogni singola parola che pronuncia. Naturalmente l’effetto non può che essere esilarante per Zlatan, che appunto ride e se lo tira contro stritolandolo neanche fosse un ragazzino di dieci anni, fra i suoi rimbrotti infastiditi in rigoroso portoghese.
- Lo vedrai stasera. – taglia corto, scendendo ancora una volta ad accarezzargli le labbra con le proprie. – Seeenti… - continua poi, con aria allusiva, e José comincia subito a borbottare.
- No! – si lamenta, disincastrandosi risolutamente dalla stretta e provando a rotolare giù dal letto un attimo prima che Zlatan lo afferri per la vita e torni a stringerselo addosso, - Sono le… - cerca l’orologio sul comodino con aria allarmata, - le dieci del mattino! Fra poco-
- Andiamo! – lo interrompe Zlatan, il tono ugualmente lamentoso, mentre struscia il naso contro la sua guancia ruvida, - Oggi passerò praticamente ogni singolo momento libero con Helena e Maxi, sono riuscito per un miracolo a liberarmi dall’intervista mezz’ora prima apposta per stare un po’ con te e-
- E noi non scoperemo! – prova a insistere José, tentando un’altra volta la via della fuga. Zlatan impiega tutta la propria forza per trattenerlo, e José non riesce a scappare davvero, e la smette anche di agitarsi e lamentarsi nel momento in cui Zlatan si piega su di lui e gli sussurra dolcemente “andiamo… è il mio compleanno”, sfiorandogli il lobo con le labbra ad ogni parola e sospirando appena in conclusione di quella mezza preghiera. José trema un po’ e sospira a propria volta, abbandonandosi alla sua stretta. – Che avevi in mente? – chiede, dimenandosi un po’ perché Zlatan gli conceda almeno lo spazio per sbottonare la camicia.
Lo svedese sghignazza, mettendosi seduto ed allungando un braccio a recuperare lo zaino ancora ai piedi del letto, per poi aprirlo ed immergersi al suo interno quasi con tutta la testa per frugare in mezzo al ciarpame che contiene, sotto lo sguardo basito e un po’ incerto del mister. Quando riemerge, lo fa con un sorriso da spaccone che José spaccherebbe volentieri a cazzotti, e con due fasce di seta nera che, invece, gli danno i brividi fino alla base della schiena.
- Non esiste. – scuote lentamente il capo, annichilito.
- Mi lasci fare? – chiede invece Zlatan, il sorriso che si fa più furbo ma anche in qualche modo più sincero. José regge il suo sguardo per sessanta secondi contati – ci arriva appena, dando fondo a tutte le proprie energie, perché davvero si sentirebbe troppo stupido ad arrendersi ancora prima di un minuto – e poi l’uomo sbuffa, stendendosi sul letto e terminando di sbottonare la camicia, per poi lasciarla ricadere distrattamente sul pavimento. E sollevare le braccia.
- Allora, te la dai una mossa? – chiede a propria volta, quasi stizzito, e Zlatan ride, tornando al suo fianco e stendendo bene le fasce, prima di farle passare entrambe attorno ai polsi dell’uomo e dietro le sbarre della testiera del letto, legandolo stretto ma abbastanza da concedergli un minimo di spazio per qualche movimento.
- Potevo togliertela io, la camicia. – sussurra sulle sue labbra, baciandolo a fondo per qualche secondo prima di scivolare lungo il profilo del suo viso e del suo collo.
- Ah, sì, avresti… - mugola un po’ José, chiudendo gli occhi, - avresti sicuramente aspettato di togliermi la camicia, per legarmi. Naturalmente.
Zlatan ride, fermandosi a stringergli un capezzolo fra i denti e mordendo piano, al solo scopo di zittirlo.
- Magari ti avrei legato… - sussurra, sfiorandolo leggermente con la lingua, - e poi ti avrei strappato la camicia di dosso. – conclude, tornando a mordere un po’ più forte.
José ringhia un lamento di gola, fra i denti, stringendo le ginocchia attorno alle spalle di Zlatan quando lui scende a slacciargli la cintura con un mezzo  sorriso.
- E così avrei detto addio a cento euro di camicia Armani. – trova la forza di ribattere, ma è una forza che si perde del tutto quando Zlatan scende a lambire la sua erezione con la punta della lingua, per tutta la sua lunghezza.
- Sta’ un po’ zitto… - lo minaccia quindi, con un ghigno preoccupante, - o dovrò usare l’altro regalino per tapparti la bocca.
José solleva il capo, improvvisamente interessato, anche se la sua non è tanto una curiosità positiva quanto più un sacro terrore che un po’ gli ricorda quello che provava quando sua madre, buon’anima, gli diceva di stare attento agli zingari per strada, quando andava a comprare il pane, che rapivano i bambini, poi li bollivano vivi e se li mangiavano col sale.
- Quale altro regalino? – chiede, cercando di ritrarsi dalle labbra di Zlatan, che nel mentre sono tornate a chiudersi su di lui.
- Quello che ho fatto a me stesso. – precisa lui con un altro sorriso sghembo e spaventoso, allontanandosi e recuperando lo zaino per tornare a rovistare al suo interno. Quando la mano grande di Zlatan riemerge da quella nuova, spaventosa e filopornografica versione del borsone di Mary Poppins, stringe fra le dita un dildo di dimensioni ragguardevoli, di fronte al quale José si sente perfino più intimorito di quanto non si sentisse rispetto al pensiero della buon’anima di sua madre, poco prima.
- Zlatan…! – prova a fermarlo, rimpiangendo ogni singolo minuto di quella appena iniziata e già tremenda giornata, e soprattutto il singolo momento in cui ha deciso di poter concedere a Zlatan più spazio e fiducia di quanto in effetti meritasse, - Non-
- Tranquillo. – sorride ancora lo svedese, avvicinandosi a lui, perfettamente a proprio agio, - È più piccolo di me, l’ho misurato. Se puoi sopravvivere ad uno…
- Zlatan, non intendo- - ma non riesce a concluderla, quell’accorata quanto inutile impennata d’orgoglio, perché Zlatan lo zittisce bruscamente, baciandolo a fondo mentre gli lascia scorrere il dildo addosso in una carezza leggera che gli dà il solletico e la pelle d’oca.
- Buono… - gli sussurra sulle labbra, e José non è in grado di capire se sia un’opinione o un ordine, e in ogni caso non trova che sia il momento giusto di discuterne. Vorrebbe essere in grado di obbedire al proprio cervello – che gli sta urlando di prendere Zlatan a calci lasciandogli appena la forza di scioglierlo, per poi liberarsi da quelle catene di seta, finire di farlo fuori a legnate e sparire per sempre senza mai voltarsi indietro – ma il corpo non vuole saperne, e non dipende solo dall’essere legato. Zlatan è troppo vicino, tutto qua.
E lui non può davvero dire di no a Zlatan, non può farlo se Zlatan lo guarda in quel modo e lo tocca in quel modo e sfiora tutta la lunghezza del dildo con la lingua, una volta, due, tre, per inumidirlo per bene, senza mai staccargli gli occhi di dosso, e allo stesso modo non può dirgli di no quando lui gli chiede di allargare le gambe – “fammi posto, voglio sentirti addosso mentre mi chiedi di scoparti” – e gli soffoca fra le labbra ogni singolo gemito mentre lo penetra lento col dildo, masturbandolo con la mano libera seguendo il ritmo delle spinte, senza prendere niente per sé, senza pretendere niente per sé, e il dildo si muove e così fanno le dita di Zlatan e la bocca di Zlatan, che lo lascia finalmente libero di gemere e ansimare e chiamarlo per nome e chiedere pregare implorare per essere scopato più forte più in fondo di più, e  dice Zlatan, sì, cazzo, sì, e il dildo scompare e si sostituisce il suo cazzo, duro e caldo ed è davvero più grande del dildo, fanculo, José si inarca e si spinge contro di lui seguendo i suoi movimenti svelti e furiosi – Zlatan è selvaggio, è selvaggio sempre, quando gioca, quando parla, quando scopa, cazzo, soprattutto quando scopa – e Zlatan cerca di tenerlo fermo per i fianchi, lo indirizza dove vuole, e José serra i muscoli tutti attorno a lui – e niente, non c’è speranza di trattenerlo, quel ringhio simultaneo e prorompente che germoglia nelle gole di entrambi mentre vengono, Zlatan dentro José, José fra le dita di Zlatan.
Cercano entrambi di ritrovare un ritmo decente per il loro respiro, ed entrambi sorridono quando si rendono conto che quel ritmo l’hanno modellato l’uno sul respiro dell’altro. Zlatan si solleva sulle braccia, un po’ a fatica, e si lascia ricadere sul materasso al fianco di José, con un mugolio di fastidio quando sente sotto la schiena la pressione ancora un po’ umida e tiepida del dildo. Lo recupera e se lo rigira compiaciuto fra le mani per qualche secondo, prima di metterlo via con una risatina divertita, mentre José si volta a guardarlo con la sua solita espressione priva d’inflessioni particolari, ma che ormai Zlatan ha imparato a definire disapprovante.
- Se mi slegassi, magari, invece di giocare col tuo regalino nuovo… cos’è, l’hai provato prima su di me per vedere se lo potrai riutilizzare su te stesso poi? - lo prende in giro, e Zlatan ride ancora mentre si allunga a recuperarlo, lasciandoglielo scorrere quasi distrattamente fra le natiche e costringendolo a rabbrividire ancora.
- Magari invece ho intenzione di riutilizzarlo sì, ma ancora su di te. – lo minaccia con un ghigno supponente. José risponde con un calcio su uno stinco in seguito al quale Zlatan ride e si rassegna a sciogliere i nodi delle fasce, liberando i polsi di José ed osservandolo con attenzione mentre se li massaggia, soffiando un po’ per il dolore sordo dell’intorpidimento dovuto all’immobilità prolungata.
- Si sono stretti mentre scopavamo… e comunque, Cristo, puoi essere un po’ meno devastante, ogni volta? Mi hai fatto male.
Zlatan rotea gli occhi, sbuffando sonoramente.
- Sei una lagna spaziale, Dio mio. Non ti toccherò più neanche con un dito. – sbotta.
- Volesse il cielo. – si lamenta una voce da fuori.
- Fatti i cazzi tuoi, Marco. – rispondono entrambi, in coro, e poi si guardano negli occhi e ridono – e, da fuori, allontanandosi, ride anche Marco.

*

Tami sta preparando la cena – si sente l’odore della sua canja fin lì in salotto, nonostante villa Ratti sia più che grande, enorme – Titi e Zuca stanno giocando ai suoi piedi sul tappeto – o meglio, Titi disegna e Zuca si ostina a inquietarla per ottenere la sua attenzione – e José non riesce a staccare gli occhi dal televisore. Zlatan parla con Scarpini e ride e ride e ride ed è bellissimo.
- Tanti auguri, Zlatan, si vede che sei felice! – dice Scarpini, e José sorride, e sorride anche Zlatan.
- Sono molto felice, provo a stare bene tutti i giorni anche quando sono in un periodo molto difficile. – risponde annuendo, - Quando una persona è contenta, si vede che sta bene.
L’intervista scorre tutta fra una risata e l’altra, finché Scarpini non prende e fa una domanda che José non si sarebbe mai aspettato – non posta in questi termini, non così esplicitamente. E dire che, frequentando spesso la Pinetina, anche Roberto ha avuto modo di capire cos’è che sta succedendo fra lui e Zlatan.
- Quanto è importante per lei José Mourinho?
E infatti è con un sorriso malizioso che Zlatan risponde.
- Mi ha dato tante responsabilità, fiducia, libertà in campo. Tutto quello che mi serve per fare le mie cose, per giocare con le mie qualità e fare tutto quello che posso. – sorride, ravviandosi una ciocca di quei tremendi capelli dietro un orecchio, - Secondo me lui fa tutto con i suoi giocatori, - spiega allegro, - sa quello che deve fare per ottenere il massimo da ognuno di noi. Quando vede un giocatore, - e per un attimo si ferma, guarda dritto in camera, prima di tornare a guardare a Scarpini e continuare, - sa quello che deve fare. Per questo ho detto che lui è il più completo di tutti gli allenatori che ho avuto sinora.
José non riesce davvero a seguire tutto il resto del discorso, perché le parole di Zlatan stanno ancora rimbombando da una parete all’altra della sua testa, e non sembrano intenzionate a lasciarlo presto in pace. Non è una cosa della quale si senta davvero disposto a lamentarsi, comunque.
- Come sta l’Inter in questo momento? – chiede Scarpini, mentre Tami chiama dalla cucina.
- Andiamo, bambini, è pronto. – dice José. Zuca comincia a ciondolare per il corridoio e Titi si lagna un po’, prima di decidersi a mollare il suo benedetto disegno e seguirlo. José sorride ancora e cerca il telecomando.
- Dobbiamo continuare come abbiamo fatto sinora, magari vincendo qualche trofeo. – risponde Zlatan, con una scrollatina di spalle. Chissà come starà festeggiando, adesso. – Però gli obiettivi sono lì e devi fare tanto lavoro per vincerli. Poi – aggiunge con una risatina, - con the special one tutto può succedere. – conclude, occhieggiando disinvoltamente alla camera.
José inarca un sopracciglio e lo guarda, sbuffando una mezza risata ironica. Poi scuote il capo, spegne la tv e si decide a raggiungere la canja di Tami.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- Sono le due del mattino. Zlatan è a Los Angeles, in ritiro con l'Inter. Mancano pochi giorni al suo trasferimento al Barça. E arriva un sms.
Note: Riferimento canon necessario: qui. Saltate pure tutte le cagate sulle minacce che il nostro Presidente s’è già amorevolmente premurato di smentire <3 E comunque, riassunto per i culopesi: pare che il Mou si divertisse a mandare messaggini ad Ibra, in cui appunto lo chiamava “traidor”, che vuol dire – come ovvio – traditore, in spagnolo. E pare che Ibra, a questi messaggini, rispondesse perculandolo in spagnolo maccheronico XD Ora, ditemi se ‘sti due non sono amabili. Poi, ok, io ci ho aggiunto dell’angst. Ma questo non c’entra. XD
PS. “Me la pela” = me ne frego. La traduzione esatta dovrebbe essere qualcosa tipo “mi importa una sega”, perché “me la pela” indica appunto, ehm!, l’atto della masturbazione. In Sicilia, qui, abbiamo “me la mino”, che vuol dire esattamente la stessa cosa *sghignazza*
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TRAIDOR


Lo squillo risuona per la stanza buia una, due, tre volte, tre squilli ripetuti e ravvicinati che si fondono con l’eco della vibrazione fortissima contro il legno liscio e scuro del comodino. Zlatan guarda il cellulare, guarda l’orario e si chiede chi diamine possa essere interessato a fargli sapere una qualsivoglia cosa mentre sta a Los Angeles in attesa di capire cosa sarà della sua vita per i prossimi cinque anni.
Poi ricorda che è notte solo lì in America – è notte solo per lui – in Italia sono tutti svegli e al lavoro, in Italia c’è Mino e Mino è sempre sveglio e al lavoro.
Allunga una mano nell’oscurità e recupera il cellulare, sospirando un po’ e strizzando forte gli occhi quando, dopo aver aperto il flick, la luce abbagliante e fastidiosa dello schermo lo investe in pieno viso, costringendolo a una smorfia di dolore. Cerca di abituarsi piano, senza forzature – qualsiasi cosa sia, se ha aspettato fino ad ora potrà bene aspettare altri due minuti.
Quando riesce a recuperare il controllo della vista, si accorge che il messaggio non arriva da Mino, bensì da qualcuno che, per comunicare con lui, se davvero volesse, non avrebbe che da sollevare il regale culo dal materasso e attraversare i due metri di corridoio che separano le loro stanze, bussare alla sua porta e pregare in una sua risposta positiva.
José, naturalmente, non fa nulla del genere. Lui gli manda gli sms alle due del mattino.
Zlatan storce il naso mentre scivola col pollice sulle poche lettere che compongono l’unica parola che fa da corpo al messaggio. Le accarezza come cercasse in loro una forma fisica – la forma fisica che devono avere, perché leggerle fa male quanto e più di un calcio sugli stinchi.
Traidor.”
Non gli serve un corso avanzato di spagnolo per sapere cosa quelle poche lettere vogliano dire. E comunque un po’ di spagnolo sta già cominciando a masticarlo. Non si sa mai. Per ogni evenienza. Per l’evenienza che più che un’evenienza è una possibilità una certezza un’ovvietà, anche se ha quasi paura ad ammetterlo ad alta voce.
Sospira e chiude il flick con un gesto nervoso, riponendo il cellulare sul comodino e cercando di tornare a dormire. L’apparecchio ricomincia a squillare meno di un minuto dopo. Solita storia, apre il flick, si abitua alla luce, scorre il testo del messaggio.
Traidor.”
Posa tutto per la seconda volta e si stende supino ad osservare il soffitto. Inspira ed espira una volta, due, tre, sempre più profondamente, e quando comincia a dolergli il petto capisce che forse dovrebbe cambiare mestiere, non solo squadra.
Il cellulare squilla per la terza volta, ma Zlatan non ha voglia di sentirsi ripetere di nuovo la stessa accusa, perciò si mette seduto, poggia i piedi a terra, si alza e raggiunge la porta.
José è lì che lo guarda come fosse normalissimo trovarsi in quel luogo a quell’orario assurdo del mattino dopo avergli tempestato il cellulare di roba opinabile. Zlatan posa una mano sul fianco e batte un piede a terra, indispettito. Fa per parlare, ma José lo anticipa.
Traidor. – dice, e sulla sua lingua e fra le sue labbra quella parola suona improvvisamente perfino più dolorosa di un cazzotto in pieno stomaco. E allo stesso tempo ha un suono così bello, così sensuale, così strascicato, che Zlatan non può fare a meno di chiudere gli occhi e assaggiarla in punta di labbra come avesse un sapore, come fosse un bacio.
Torna a guardare José con difficoltà ed inspira profondamente, prima di rispondergli.
Me la pela. – si decide alla fine, forzando un ghigno strafottente che gli storce le labbra in un sorriso idiota. Si sente un ragazzino. Come tutti i ragazzini, la prima cosa che ha imparato in spagnolo sono state le parolacce.
José ghigna in maniera molto più convincente di lui, inclinando lievemente il capo.
Español? – chiede, ed ogni lettera è un brivido che si allunga strisciando per tutta la spina dorsale di Zlatan. Che si morde un labbro e vorrebbe scattare in avanti, afferrarlo per il colletto della maglietta bianca che indossa e tirarselo contro, divorarlo di baci, consumarlo di carezze e sfinirlo a furia di scopare. E invece resta immobile. E non sa cosa dire.
José si avvicina di un passo, lo guarda da così vicino che Zlatan si sente confuso.
Traidor. – dice un’ultima volta. E poi lo bacia.
Genere: Triste, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- Uno scambio epistolare per provare a riaprire una storia. O chiuderla definitivamente.
Note: Sia messo a verbale che odio Gra e le sue regole riguardanti i limiti di parole, perché se solo fossero state un po’ meno restrittive questa fic si sarebbe fermata alle 800 parole. E invece niente, Gra ne voleva mille e mille, perciò ve ne beccate duemila. Di delirio Jobra a distanza emoangst. Grr. Prima o poi riuscirò a smettere- credo. Spero. Dio.
Comunque la amo e non poteva essere altrimenti, perché è catartica, perché è triste e perché è particolare. E no, non mi sono dimenticata come si usa l’invio, e nemmeno ho fatto casino con l’HTML, sono monoblocco perché sono sequenze uniche XD Tutte da cinquecento parole contate con Word. E- oh, basta. Ho sonno XD
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The Unsaid


first kind of lie – truth said over time
04. Lettera stropicciata @ Double Drabble Challenge
Sabbia @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


È assurdo scriverti una lettera, contando che potrei telefonarti…” José lascia scorrere silenziosamente le dita sulla carta. S’è rigirato quella lettera fra le mani così tante volte che ormai è tutta stropicciata, sembra vecchia di mille anni, s’è pure un po’ ingrigita, e invece è arrivata solo una settimana fa. E lui non ha ancora risposto. “Il fatto è che, per quanto mi piacerebbe parlarti, ho paura che non avrei niente da dirti. Il che è stupido, perché se fosse davvero così non dovrei nemmeno stare scrivendo questa lettera. Quindi forse le cose da dirti ci sono, è solo il coraggio che manca”. Sorride, mentre si lascia cullare dalla sensazione di ruvida morbidezza della carta sotto i polpastrelli, e una ruvidezza decisamente meno morbida – quella della sabbia del lungomare – gli solletica le piante dei piedi. “Lo so che fra noi le cose sono andate male”. E José non fatica a immaginarlo dire una cosa simile. Perché lui era così anche dal vivo, ha perso il conto delle volte in cui s’è fermato a scherzare con lui dopo una partita o dopo un allenamento e all’improvviso il suo sorriso ampio e divertito s’è trasformato in una smorfia seria che accompagnava le parole “devo parlarti”. È così che è cominciata la loro relazione, con un “devo parlarti” dopo il quale José s’è fermato ad ascoltare. È anche così che è finita, con un “devo parlarti” dopo il quale José non ha voluto sentire ragioni. “Lo so che avrei dovuto insistere di più, convincerti- no, costringerti ad ascoltarmi, ad accettare i miei desideri. E forse da lì saremmo potuti ripartire e saremmo rimasti insieme nonostante tutto. Non l’ho fatto e mi dispiace, ma devi capire che l’unico motivo per cui non l’ho fatto è che ho sempre sperato fino all’ultimo che lo capissi da solo. Che non era per te che andavo via, e che tu, anzi, saresti stato l’unica ragione per restare, se restare fosse stata un’opzione. Solo che non lo era, José, io non potevo restare e non potevo permetterti di obbligarmi a farlo. Io non sono fatto per restare nello stesso posto per più di tre anni. Il mio sangue è quello che è. Dicevi di amarlo com’era. Anche se, a pensarci adesso, mi viene da ridere: hai detto di amare tante cose, di me, ma mai me e basta”. José si lascia andare ad una smorfia mentre il mare comincia a rombare annunciando tempesta. E servirebbe, servirebbe davvero, perché fa caldo, l’aria è umida, i bambini sono insofferenti e Tami ha mal di testa. E José vuole la pioggia, perché rispetto al sole sarebbe più simile al suo stato d’animo. “Ho sbagliato io”, continua Zlatan da Barcellona, “non nell’andarmene, ma nello smettere di pretenderti al mio fianco”. E José si ferma. Si volta indietro a guardare il bungalow che dà sulla spiaggia. Tami avrà già finito di preparare la cena. “Chiama tu, quando vuoi”. La lettera finisce ripiegata e se ne torna in tasca, a spiegazzarsi un altro po’.


second kind of lie – truth never said
16. Post Scriptum @ Double Drabble Challenge
Scottatura @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Non ricevevo una lettera scritta a mano da anni. Devi avere davvero poco da fare a Barcellona, di questi tempi”. Zlatan non può fare a meno di ridere, appoggiandosi di spalle allo schienale della sedia a bordocampo, mentre i suoi nuovi compagni si allenano davanti a lui, salvo poi scostarsi immediatamente con una smorfia di dolore, appena il bruciore della scottatura frutto del suo ozio in quel posto torna a farsi sentire. Non è a Barcellona, è tornato a Los Angeles col Barça e gli fa strano stare lì con un’altra maglietta, altri compagni, un altro allenatore ed altri obiettivi, quando fino a pochi giorni prima quegli stessi campi li calpestava ammantato in altri colori. Controvoglia o meno. “Spero che la tua mano stia bene. O il tuo polso. O quel che era a farti male, devo confessarti di non averti seguito granché, da quando sei andato via. Non so perché l’ho fatto, probabilmente non volevo vedere cose che avrebbero distrutto l’idea che ancora conservavo di te. Altri non sono stati così saggi – Mario ha visto tutto ed è mio dovere informarti che ti conviene stare alla larga dal ragazzo, se mai dovesse capitarti di incontrarlo, perché credo abbia voglia di staccarti la testa dal collo a morsi”. Ancora, Zlatan vorrebbe ridere, ma stavolta non ci riesce. Il suo sorriso è una smorfia un po’ storta e ghignante, niente di granché piacevole o rassicurante – Zlatan se ne accorge perché il tizio che è incaricato di passargli le bottigliette d’acqua e di cui ancora non ricorda il nome, ma che sta sempre lì seduto accanto a lui e non si stacca dal suo fianco neanche fosse una fottuta ombra, si allontana da lui con un’espressione turbata. Questo lo fa ridere più sinceramente. Continua a leggere. “Qui le cose procedono senza intoppi”, lo informa José, e Zlatan può immaginarlo scrollare le spalle con una precisione quasi assassina – perché fa male come un coltello piantato nel cuore. E forse lo è, José è quel coltello che Zlatan tiene volontariamente conficcato nel mezzo del petto, perché certe volte la vita non ha senso se non stai male per qualcosa, ché il dolore persiste e resiste più della gioia, se è abbastanza profondo. “A breve partiremo per Pechino” continua, e Zlatan non riesce davvero a capire perché abbia scritto, se tutto ciò che voleva era rimpinzarlo di dettagli inutili a riguardo di una squadra che non è nemmeno più la sua e della quale, a rigor di logica, non dovrebbe importargli un accidenti. “Tami e i bambini ti salutano, un po’ manchi anche a loro. Si erano abituati ad averti sempre fra i piedi”. Zlatan ride ancora, stavolta non fatica a recuperare la sincerità che prima sembrava tanto lontana. “E per la verità non so che altro dirti, se non che manchi anche a me. E ti saluto”. Il sorriso gli si cristallizza sul volto, quando legge il post scriptum in coda alla lettera. “Forse, se fossi rimasto, ti avrei detto anche tutto il resto.


third kind of lie – truth mystified
30. Con tutto il mio affetto *firma* @ Double Drabble Challenge
Grigliata familiare @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Io penso che il tuo più grande problema, José, stia nel non saper dire le cose come stanno”. José inarca un sopracciglio, con disappunto. L’odore forte e gustoso della carne che cuoce sulla griglia riempie l’aria del piccolo cortile sul retro del bungalow, e lo stesso fanno le risate di Zuca e Titi, vistosamente più allegri dopo che il temporale di qualche giorno prima ha spazzato via il caldo asfissiante che attanagliava la riviera. Tami guarda il tutto con aria benevola e ogni tanto lascia scorrere gli occhi anche addosso a lui. José se ne accorge solo perché conosce il peso e la sensazione che danno quegli occhi quando gli accarezzano la pelle, ma non riesce a darle davvero attenzione perché Zlatan ha risposto subito, dopo la breve lettera che gli ha inviato qualche tempo prima. E non sa perché sia tanto impaziente di leggere il suo rimprovero severo tra le righe, ma sa che ne sente il bisogno. Perciò, disappunto o meno, va avanti. “Io sono sempre stato sincero con te, riguardo quello che c’era tra noi. Te l’ho detto quando ti volevo, ti ho mandato via quando non sopportavo di averti intorno, e soprattutto quando ho capito che era amore te l’ho detto. Questo forse non fa di me una persona migliore di te – anzi, sicuramente non è così, perché mi rende più egoista, più egocentrico e più infantile di quanto non lo sia tu – ma, poco ma sicuro, fa di me una persona più sincera”. José ringhia offeso, mentre Tami rigira gli hamburger sulla griglia e gli chiede a bassa voce come se la passi Zlatan in Spagna. Risponde con un grugnito poco convinto e lei gli fa eco con una risata cristallina delle sue, prima di lasciarlo alla conclusione della lettera. “D’altronde,” continua Zlatan, e José può quasi sentire il suo tono stanco e disilluso, nonostante i chilometri che li separano, “se avessi preteso della sincerità, da te, probabilmente non sarei mai partito. Oppure, con te non ci sarei mai nemmeno venuto a letto, figurarsi innamorarmi. Ti ho conosciuto che eri già un manipolatore, quello mi piaceva. Ma suppongo che a questo punto non possa lamentarmi del fatto che tu fossi esattamente come ti amavo. Come ti amo. Come… non lo so”, e qualcosa nel petto di José si spezza e nello spezzarsi cambia forma, così da dargli l’impressione che non sarà più in grado di riportarla alla normalità neanche ad utilizzare tutta la colla e la maestria che possiede. “Non rispondere a questa lettera se non vuoi dirmi quello che voglio sentire, José. Sarà meglio per entrambi. Con tutto il mio affetto, Zlatan”. José sospira e Tami lo informa che gli hamburger sono pronti. Lui le risponde che deve fare una cosa, ma torna subito. S’infila nel bungalow svelto e discreto come un ladro, si guarda intorno e poi si siede all’unica cosa che possa ricordare una scrivania nel raggio di chilometri, un tavolo in legno chiaro e levigato. E tira fuori carta e penna.


fourth kind of lie – truth denied
19. Lettera mai aperta @ Double Drabble Challenge
Fuochi d’artificio @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Helena è entusiasta e la Spagna le piace da impazzire, questa è l’unica cosa che Zlatan può dire di sapere con certezza, ora che sta sdraiato sull’erba di chissà che giardino gremito di persone e Max fissa con devozione il cielo che si illumina a tratti dei giochi di colore dei fuochi artificiali, mentre lei culla Vincent dondolandolo un po’ avanti e indietro, cercando di farlo addormentare nonostante il baccano. È appena tornato a casa dall’ennesima sessione di allenamento immobile – il braccio guarisce, non guarisce, “deve tenerlo fermo, signor Ibrahimović!”, “ho due figli, signor Vattelappesca!” – s’è appena ritrovato fra le mani la lettera di José, che subito Helena l’ha afferrato per il braccio sano, i bambini già nei passeggini, e gli ha cinguettato addosso tutta una serie di “ommioddio una festa di paese così carina mamma mia dobbiamo andarci i fuochi d’artificio!”, così confusa che Zlatan non ha nemmeno provato ad opporsi e l’ha seguita senza una protesta. E sono andati dietro al corteo in onore di chissà che santo patrono, hanno mangiato il marshmallow, Max ha storto il naso di fronte alle mele candite e Vinny ha dormito – come sempre – per l’ottanta percento del tempo, e ora sono lì che guardano i fuochi d’artificio esplodere nel cielo ed è il primo momento di vera quiete della sua giornata. Perciò, steso com’è, sperando che le luci delle bancarelle che costeggiano la strada siano abbastanza forti da illuminare la scrittura minuta e disordinata di José, recupera la lettera e la apre. All’interno della busta ce n’è un’altra più piccola, e c’è anche un foglietto a parte che gli scivola sul petto non appena fa tanto di guardarlo. Lo prende tra le dita e lo apre tenendolo sospeso sulla testa. “Io lo so qual è stato il mio errore più grande, Zlatan”, dice José, “lasciarti sempre decidere tutto. Ma è stata una mia scelta e non intendo smentirmi proprio adesso. Perciò d’accordo, decidi tu anche ora. Ma prenditi le tue responsabilità. Sai già cosa c’è nella busta più piccola che accompagna questo biglietto. Se apri e leggi, fallo solo perché vuoi tornare. Altrimenti, lascia tutto com’è. Questo sarà meglio per entrambi”. Il biglietto non dice altro. “Problemi?” chiede distrattamente Helena, allungandosi a risistemare Vincent nel suo passeggino. Zlatan risponde scuotendo il capo, e non sa cosa dire. Guarda la busta più piccola dentro la busta più grande e sembra così piccola e innocua che si sente stupido ad averne tanta paura. Ma lì dentro c’è ciò che avrebbe sempre voluto sentirsi dire e José non gli ha mai detto, e lui sa che, se solo lo leggesse adesso, poi nulla sarebbe più come prima. Perciò ci riflette accuratamente. Esita. E afferra la busta fra le dita e l’accarezza piano coi polpastrelli, sperando che quella carezza non si fermi sulla carta e in qualche modo arrivi dove vuole. Dove deve. Dov’è giusto. Ma quella busta lui non la apre. A Helena piace la Spagna. E certe cose, dopotutto, è meglio non saperle affatto.
Genere: Triste, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Language, Lemon, Slash.
- Maggio 2010. José Mourinho si trova a Madrid in vista della finale di Champions League che terrà impegnata l'Inter contro il Barcellona. E, già che è lì, fa un po' di conti col passato.
Note: Sia chiaro che quando ho cominciato a scrivere questa fan fiction sapevo esattamente perché lo stavo facendo, solo che ora che l’ho conclusa non me lo ricordo più o_o *facepalma* Comunque! In realtà, nonostante fatichi ancora a razionalizzare il motivo per cui ho sentito il bisogno di scrivere l’ennesima Jobra post-drama buttandomi su questa balenottera da 5000+ parole, devo dire che mi piace. Più che altro proprio a livello strutturale, perché è bello come la fic vada verso la sua conclusione, raccontando il punto fermo che José e Zlatan cercano di mettere alla loro relazione di non-detti, e si muova parallelamente su un livello di ricordi che invece quella stessa relazione la riporta ai suoi albori, alla prima, elettrica stretta di mano. Lungi da me fare filosofia spicciola sulle mie own storie, ma è una cosa carina, ecco XD E poi è anche il solito esorcismo propiziatorio, perché io spero davvero di esserci, lì a Madrid, e spero che ci sia anche Zlatan, ecco. Poi è chiaro chi tornerà a casa con la coppa, ma queste sono facezie u.u
Di mezzo ci sono un sacco di cose canon o presunte tali, comunque. Tutte le parti in corsivo – cioè tutti i ricordi – sono risultato di gossip vario ed eventuale recepito nel corso del campionato e del calciomercato estivo. Lo dico nel caso vi chiedeste de José abbia davvero detto quelle cose orribili ai suoi giocatori, dopo la pietosa sconfitta con l’Atalanta: ecco, pare di sì XD (E comunque Zlatan quel gol l’ha segnato sul serio u.u)
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Payback


L’aria di Madrid è calda e sa di casa e famiglia – José la inspira a pieni polmoni mentre passeggia distrattamente per le strade più nascoste della città, quelle che conosce a menadito e che sa di poter attraversare senza ritrovarsi improvvisamente circondato da gente sconosciuta che urla il suo nome ed allunga una mano per ricevere una stretta, un autografo, un saluto o chissà che altro.
Non sarebbe dovuto uscire – nulla di buono può derivare da una passeggiata solitaria nella città in cui il giorno dopo ti giocherai il nome, l’onore e l’orgoglio – ma per la verità l’aria in albergo aveva cominciato a farsi troppo incandescente per i suoi gusti. Gli piace lavorare in situazioni al limite, perché stimolano lui e stimolano i giocatori, ma c’è un limite a quanto può sopportare le situazioni al limite, se tali situazioni coinvolgono Zlatan. L’ha già provato in passato, non può essere cambiato granché in meno di dodici mesi. Se è vero che ogni uomo possiede un tallone d’Achille, ecco, il suo deve necessariamente essere lo zingaro che, partendo per Barcellona, gli ha spezzato il cuore in modi che non avrebbe mai creduto possibili senza coinvolgere Matilde o i bambini.
Quando il caldo comincia a farsi poco tollerabile, s’infila nella prima birreria disponibile, in cerca di una Corona. La ottiene e si perde nel gusto amaro, freddo e frizzante della birra che gli solletica la gola, guardando fisso di fronte a sé le mensole colme di liquori e chiedendosi quanta di quella roba gli servirebbe per ubriacarsi – e fare probabilmente una pessima figura coi suoi giocatori, il suo presidente e tutti i tifosi. Manda tutta una serie di anatemi nei confronti di un Dio che ama ma ogni tanto dimentica di temere, colpevole di averlo reso resistente all’alcol, e poi stabilisce che, comunque, resistenza o meno, anche cinque o sei Corone non riuscirebbero dove fallirebbe perfino il più potente degli alcolici, perciò paga e torna per le strade, una mano che scivola naturalmente all’interno della tasca posteriore dei jeans, accarezzando il cellulare dalle forme perfettamente regolari e perfettamente immobili.
Lo estrae con un sospiro pesante, lasciando scorrere gli occhi sul display con aria dubbiosa. Basterebbero un paio di click sul touch pad per risalire ad un numero che non usa più da mesi e non è neanche sicuro sia ancora funzionante. Insomma, Zlatan ha ancora amici, in Italia – almeno fra quelli dei suoi compagni che sono riusciti a perdonare cose che invece a lui continuano a non andare giù nonostante tutto il tempo passato – probabilmente per tenersi in contatto con loro il numero del cellulare che usava in Italia è ancora attivo. Uno fra i suoi duecento milioni di cellulari – quello per mamma e papà, quello per l’Italia, quello per i parenti sparsi chissà dove in giro per il mondo – potrebbe perfino rispondere.
José sa che, solo a rifletterci ancora un paio di minuti, capirebbe che chiamarlo sarebbe un errore madornale. Al momento non sta ancora abbastanza bene con la questione di lui al Barça, per poterlo affrontare lucidamente. Non quando l’ha visto così dannatamente sorridente fin dal primo giorno che ha passato in quella città, non quando le ultime parole che ha sentito provenire da lui a migliaia di chilometri di distanza sono state “non mi interessa cosa dice Mourinho”. Quando lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, per tenerlo con sé. Quando ogni singola frase uscita dalle sue labbra dalla sua partenza in poi non era stata altro che di lode, di affetto, di rispetto – e perfino qualcosa di più.
José non ricorda con precisione assoluta la miriade di cose che ha detto nel periodo immediatamente successivo al suo trasferimento, probabilmente anche perché, della maggior parte delle dichiarazioni con le quali si è sputtanato a livello internazionale, la sua testa ha preferito fare piazza pulita. Non che siano cose di cui si penta – può dirlo solo perché lui, in genere, non si pente mai di nulla – solo che c’è un limite alla quantità di cose che puoi dire senza poi cominciare a chiederti se non ci sia qualcosa che non va in te e nel modo in cui hai affrontato una situazione passata e ora ti appresti ad affrontarne una in divenire.
Cose come “credevo che sarebbe rimasto”, o le dichiarazioni in cui raccontava senza dirlo di come avesse fatto semplicemente di tutto per convincerlo a restare, potevano intrigare i giornalisti o divertire qualche tifoso, ma avevano su di lui l’effetto peggiore in assoluto. Quanto puoi soffrire per l’addio di un amico – peggio: di un semplice giocatore, in pratica un dipendente, al limite un collega – prima di renderti conto che probabilmente non si trattava affatto né di un amico, né di un collega, né tantomeno di un dipendente?

«Se il Barcellona vincerà la Champions, non sarà merito tuo. Sono abituati a vincere, sono creati apposta per vincere, non possono che vincere. Nessuno ti ringrazierà per questo.»
Un istante di silenzio.
«Non mi interessa. Voglio andare.»
«Vincere qui all’Inter avrebbe tutto un altro sapore.»
Una mezza risata. Josè sospira.
«Niente da fare?» chiede stancamente.
«Niente da fare.» conferma Zlatan con una scrollata di spalle. E poi si allontana.

Di una cosa José era certo al momento dei saluti con Zlatan, esattamente come ne è certo adesso che manda a fanculo il buonsenso e lo chiama: fra loro due non era mai accaduto quello che invece sarebbe dovuto accadere per rendere il loro rapporto meno allucinante e più sincero. Non è una cosa sulla quale gli piaccia riflettere e non è una cosa che ripeterebbe ad alta voce, ma è una cosa che sta cominciando ad accettare. Piano piano.
Il telefono squilla un paio di volte, e poi Zlatan risponde. Anche se il termine non è del tutto corretto, visto che Zlatan a tutti gli effetti non spiccica una singola parola. Tutto ciò che José sente è il silenzio di una stanza vuota spezzato a intervalli regolari dai suoi respiri incerti e pesanti. Zlatan s’è appena svegliato. Lo riconosce dal modo in cui respira. Ricorda di averlo sentito respirare così in due occasioni specifiche – due occasioni stupende. La notte in cui sono usciti a festeggiare lo Scudetto, con tutta la squadra – e Zlatan s’è appisolato sul bus per poi svegliarsi una volta tornati in Pinetina – e la notte che hanno passato in aereo mentre volavano verso Los Angeles – seduti accanto, Zlatan con la faccia schiacciata contro il finestrino fino a quando non è stato lui stesso a svegliarlo pochi minuti prima dell’atterraggio.
Ricorda il suono del suo respiro con la stessa precisione con cui ricorda la voce dei suoi figli, il modo in cui lo chiamano papà, o la voce di Tami, il modo in cui ansima il suo nome quando fanno l’amore o il modo in cui ha detto “sì” quando si sono sposati. Se gli fossero servite altre prove per cercare di capire meglio cos’è che lo leghi a Zlatan con questa forza quasi disperata, non avrebbe faticato a trovarne.
- Ciao. – comincia, visto che Zlatan non sembra intenzionato a farlo, - Disturbo?
Zlatan trattiene il respiro e si schiarisce la voce, prima di rispondere.
- Dormivo. – dice, un po’ confusamente, incerto fra due lingue. Allo spagnolo ha fatto l’abitudine, ma José gli sta parlando in italiano. E José sorride nel rendersene conto: potrebbe cominciare a parlargli in portoghese e ridere di lui nell’ascoltarlo arrabbiarsi perché non riesce a cogliere ogni singola parola del suo discorso. Ma lascia perdere, e visto che non ha ancora la minima idea di cosa stia facendo, quantomeno continua a farlo in italiano. Qualsiasi cosa sia.
- Mi dispiace. – mente, - Come stai?
- Sto… - comincia Zlatan, e poi esita e s’interrompe. – José. – lo chiama per nome, improvvisamente più sicuro, - Cosa vuoi?
- Niente in particolare. – scrolla le spalle lui, e si tratta solo di una mezza bugia, d’altronde, perché in effetti non vuole niente di particolare, da Zlatan, vorrebbe averlo lì per sé tutto intero. – Fare quattro chiacchiere.
- …domani ho una partita importante. – gli ricorda Zlatan, e José ride.
- Ma non mi dire. – lo prende in giro, - Magari vengo a vederti, io invece non ho nulla da fare.
Zlatan ride a propria volta, e José può immaginarlo scuotere il capo, rassegnato.
- Quasi ti manderei un paio di biglietti, se non sapessi che li hai già. Posto d’onore, per giunta. – José si rassegna ad un sorriso ed ascolta Zlatan sospirare mesto. – Non ho più sonno.

«Sono le quattro del mattino.»
Zlatan ride e il cortile silenzioso dell’albergo si riempie di quel suono tranquillo e un po’ ovattato, mentre José scivola al suo fianco, sedendosi sui gradini in pietra del porticato interno, proprio accanto a lui.
«Non sono ancora abituato al cambio di fuso. Se mi sveglio, ho difficoltà ad addormentarmi.»
«E come mai ti sei svegliato?»
Zlatan sospira, guardandolo attentamente per un secondo, prima di spostare lo sguardo altrove.
«Novità.» butta lì infine, vago ma anche inquietantemente – e insopportabilmente – concreto.
José non vuole sapere con precisione a che novità si stia riferendo, perciò tace.
 
- Dove alloggiate? – chiede José in un sospiro. – Mi dispiace averti svegliato, ma non ho sonno neanche io. Ci vediamo?
Zlatan ripete a memoria il nome e l’indirizzo dell’albergo e José prende nota mentalmente, mentre lo ascolta ridere divertito.
- Ma non dire che ti dispiace, sappiamo entrambi che non è vero.
José sospira, lasciando scivolare il pollice sopra il pulsante dell’interruzione di chiamata.
- Non è proprio così. – spiega, - Mi dispiace davvero. – e poi riattacca.
Quando arriva a destinazione, Zlatan lo sta aspettando nella hall, probabilmente per evitare di costringerlo a chiedere al concierge il numero della sua camera. José non sa se si sia trattato di una decisione saggia – se c’è qualche giornalista in giro, giustificare i titoli di domani sarà difficile. In ogni caso non è quello il momento di perdersi nei se e nei ma: è lì, lo è anche Zlatan, qualcosa da tutto questo dovrà venire fuori. Sia brutta o bella.
La camera singola è ordinata come se nessuno ci avesse mai messo piede. Il copriletto è appena spiegazzato, José lo osserva con aria critica, prima di spostare lo sguardo su Zlatan.
- Non hai ancora imparato a dormire per bene?

«Ma come diavolo stai dormendo?»
«Uh?» Zlatan schiude le palpebre e si copre il viso, per ripararsi dai raggi del sole.
«Per terra, sull’erba…» José lo fissa come fosse un alieno viola, «Voglio dire, se hai sonno torna in camera tua e riposati come tutti gli altri!»
«Ma…» la sua voce è un mugolio che si perde nel frinire dei grilli che riempiono il giardino i loro versi acuti, «volevo prendere un po’ di sole. Sono tornato bianchissimo dalle vacanze.»
«Sei tornato presto dalle vacanze» precisa José con un mezzo sorriso, guardandolo dall’alto, le mani sui fianchi, «Potevi star via ancora un po’, non c’era bisogno di tornare qui a Milano. Potevi andare direttamente a Los Angeles.»
Zlatan scrolla le spalle, rivoltandosi a pancia in giù e mostrando la coda del drago che gli si disegna sulla parte più posteriore del fianco.
«Mi mancava… qui» conclude. José non dice altro.
 
- Non è che fossi tornato da tanto. – scrolla le spalle Zlatan, sfilando la maglietta in un gesto naturalissimo e lasciandola ricadere su una poltrona di fianco al letto, - Io e Max eravamo in giro fino a non meno di un’ora fa.
- Sempre in giro, voi due amichetti. – è il commento ironico di José, che si aggira per la stanza come volesse preparare un elenco di tutto ciò che non gli va giù, per poi riversarglielo addosso tutto in una volta, - È stato così anche quando siete andati via entrambi.
Zlatan si volta a guardarlo con una tale quantità di rabbia negli occhi che José sente quasi il bisogno di indietreggiare. Ma tiene duro.
- Non recriminare, adesso, José. – ringhia lo svedese, stringendo e stendendo le dita delle mani, nel tentativo di scaricare il nervosismo, - Non mi pare proprio il caso.
- Non è mai il caso di discutere delle tue brillanti decisioni, per te. – ghigna José, scrollando amaramente il capo, - Fai solo cose buone e giuste.
- Parli tu! – quasi ride Zlatan, anche se la sua risata ha un suono sgradevole, troppo acuto per essere naturale, - Tu, l’uomo che non sbaglia mai- o almeno così crede!
- Ah, e sentiamo! – insiste José, allargando le braccia ai lati del corpo, - Sentiamo, dov’è che avrei sbagliato? Fammi un elenco, Zlatan, perché io avrei un elenco molto lungo di errori riconducibili a te! Vogliamo fare a gara? Coraggio!
Zlatan lascia andare un’altra risata in uno sbuffo esasperato, e gli volta le spalle, dirigendosi svelto verso la porta-finestra che conduce in terrazza.
- Lasciamo perdere, stronzo. – commenta scrollando le spalle, - Non si è mai potuto discutere davvero, con te.
- No, io non lascio perdere! – lo rimbecca lui, afferrandolo sbrigativamente per un polso per impedirgli di andarsene, - Per tua informazione, sei sempre stato tu quello chiuso al dialogo, Zlatan. E a questo proposito- primo errore: non dirmi subito che volevi andare via. Secondo errore, accettare la fottuta maglia numero dieci quando chissà da quanto progettavi di andartene!
- Finiscila! – cerca di liberarsi Zlatan, strattonandolo con una certa forza. José non molla la presa.
- Terzo errore, - prosegue, - baciare la fottuta maglia blaugrana, quando avresti potuto fare quello che volevi, a quella stracazzo di presentazione! Eri- sei Zlatan Ibrahimović, cazzo, avresti potuto dire loro “questa maglia non la bacio, io non bacio nessuna maglia”, e non avrebbero potuto aprire bocca per dirti “ba”, cazzo!
- Oh, fanculo! – si libera infine Zlatan, spintonandolo lontano, - Non venirmi a parlare di amore per la maglia, proprio tu! Hai cambiato anche più squadre di me, se dobbiamo decidere chi è la troia fra noi lo scontro è per lo meno pari!
- Io almeno sono sempre stato fedele a me stesso! – torna ad afferrarlo José, per lo stesso polso, ancora caldo della sua stretta.
- E io non lo sono stato?! – ride ancora Zlatan, smettendo di provare a liberarsi, - Cazzo, se c’è una cosa che non mi si può dire, è proprio aver tradito me stesso! Non l’ho mai fatto!
- Hai tradito te stesso e tutte le tue parole di stima nei miei confronti, quando hai detto che di ciò che pensavo non ti fregava un accidenti. – conclude José tagliente, fissandolo dritto negli occhi.
Zlatan si ferma, e il suo respiro si sospende per qualche attimo, mentre lui cerca di fare mente locale.
- Avevi detto… - lascia andare una mezza risata incredula, - Avevi detto che Eto’o era un giocatore migliore di me. Dopo avermi… dopo avermi fatto credere che fossi in assoluto il migliore, tu neanche due giorni dopo la mia partenza hai detto-
- Non l’ho mai detto! – grida José, la voce resa quasi stridula dalla rabbia furiosa che lo pervade, - Cristo santo, Zlatan! Ma che cazzo hai sentito?!
- Non lo so! – strilla a propria volta Zlatan, liberandosi per la seconda volta, - Che cazzo vuoi, eravamo a… a più di mille chilometri di distanza, io-
- Tu sei uno stronzo! – lo spintona José, obbligandolo a indietreggiare finché le sue spalle nude non toccano il vetro fresco della porta-finestra, - Sei uno stronzo senza palle che non ha avuto il coraggio di chiedere a me cosa pensavo, ed ha preferito affidarsi alle puttanate riferite da chissà che figlio di troia!
- Questo non cambia un cazzo di niente! – cerca di contrastarlo Zlatan, a muso duro, - Io sarei andato via comunque e fra noi le cose-… - si interrompe un secondo, la voce che quasi gli si blocca in gola, e poi manda a fanculo ciò che resta della sua razionalità e lo dice e basta, - fra noi le cose sarebbero comunque andate a puttane, perché io non volevo più vederti, stronzo!
José resta talmente immobile che perfino la stretta delle sue dita attorno al polso di Zlatan sembra pietrificarsi, facendosi tanto forte da far male. Zlatan, comunque, non intende dargli la soddisfazione di chiedergli di lasciarlo, neanche se dovesse perderlo, il fottuto polso. Che tra l’altro è il sinistro. E non ha mai fatto tanto male come adesso – e ne ha viste, di batoste. Anche sotto gli occhi di José.
- Che cosa intendi dire con questo? – chiede il portoghese, gelido, fissandolo ostinatamente negli occhi, - Parla.
- Non servirebbe a un cazzo. – ghigna Zlatan, stringendo la sinistra a pugno per cercare di contrastare il dolore, - Tornerai a casa da sconfitto dopodomani. A cosa vuoi che serva parlare?
- Non mi interessa se serve. – risponde secco lui, stringendolo con più forza, - Parla e basta, è un mio diritto sapere per che cazzo di motivo mi hai mollato nella merda senza nemmeno prepararmi ai chili di fango che ho dovuto ingoiare quando sei andato via.
- Tu- cazzo! – comincia Zlatan, concitato, - Non ne potevo più di te! Mi hai- mi hai fatto impazzire per un anno e-
- Io non ti ho fatto niente! – lo interrompe José, sinceramente sconvolto, - Io non- Io non ti ho mai fatto niente, Zlatan!
- Sai cosa?! – insiste lui, e mentre lo fa sembra perso nei suoi pensieri, - È questo il problema, sai? Esattamente questo! Tu non hai mai fatto un cazzo, io sono impazzito perché tu non hai mai fatto un cazzo, perché tu non hai maivoluto fare un cazzo, e ora non prendermi in giro, José, non guardarmi con quegli occhi e non provarci nemmeno, a dirmi che non te n’eri accorto, perché non ti crederei! Tu non hai mai-
- Piantala! – tuona José, afferrandolo per una spalla e schiacciandolo di prepotenza contro il vetro, - Piantala, Cristo, piantala di dire stronzate, io ti amavo! – si ferma, lo guarda, Zlatan schiude le labbra, - Io ti amo.

«Lo pensi davvero, quello che hai detto?»
Il caffè si fredda nel bicchierino che Zlatan si rigira fra le mani. Vorrebbe portarlo alle labbra e buttarlo giù tutto d’un sorso, ma ha chili di parole che gli occludono la gola e non saprebbe come lasciarvi passare in mezzo nemmeno un filo, figurarsi un liquido.
«Cosa?» ride José, sorseggiando tranquillamente il proprio caffè, «Dico sempre un mucchio di cose.»
«Che…» si inumidisce le labbra lui, incerto, «Quella cosa dell’essere insostituibile. Cioè, pensi davvero che per sostituire me serva un’intera squadra?»
José lo guarda e scrolla le spalle, come fosse la cosa più naturale del mondo.
«Naturalmente sì» risponde, tornando a sorseggiare il caffè ormai tiepido, «Senza di te mi sentirei perso» aggiunge, e poi sembra rendersi conto di ciò che ha appena detto e si schiarisce la voce, agitato. «Intendo» corregge con lieve imbarazzo, «la squadra, non… non avrei idea di come gestirla. Sei il punto cardine di questa formazione, e…» e José continua a parlare, ma Zlatan sorride intenerito, fissa il caffè ormai gelido sul fondo del proprio bicchiere e non lo ascolta più.
 
Se non fossero certi – più che certi – i trentacinque gradi che appesantiscono l’aria calda e umida di Madrid, José potrebbe perfino credere di sentire freddo. Negli occhi di Zlatan c’è qualcosa di enorme che si sta allargando sempre di più secondo dopo secondo, e José non è proprio sicuro del fatto che, quando quella cosa sarà diventata abbastanza grande da uscire ed attaccarlo, lui sarà in grado di contenerla o contrastarla in qualche modo.
- Tu non… - boccheggia Zlatan, a corto di fiato, - Tu stai mentendo.
- Io non mento mai. – risponde, con una freddezza che inquieta per primo se stesso.
- Tacere la verità è mentire. – ribatte Zlatan, e José ringhia nell’avvicinarsi impercettibilmente a lui.
- Non sto tacendo niente, stavolta, mi pare. – risponde, così vicino alle sue labbra da poterle accarezzare col respiro. – Anzi, ho detto anche troppo.
Zlatan lo guarda ancora, confuso.
- Da quando? – chiede poi, deglutendo faticosamente.
José sbuffa, allontanandosi un po’.
- A cosa dovrebbe servirti saperlo? – chiede esasperato, scuotendo lentamente il capo.
- A capire… - risponde Zlatan, esitando fra una parola e l’altra, - …a capire per quanto tempo avrei potuto… a capire se sarei potuto rimanere se solo tu… a…
- Zlatan. – lo ferma José tornandogli vicino e poggiando la fronte contro la sua, - Non parlare.
E, per la prima volta nella sua vita, Zlatan obbedisce.

«Piove.»
José ride, la pioggia si trasforma in nevischio.
«Nevica.» si corregge Zlatan.
«Sei meglio delle previsioni del tempo» lo prende in giro José, e Zlatan sbuffa, mettendo su un broncio molto offeso e tirandosi il cappuccio sulla testa. Non può rischiare un raffreddore. José, invece, evidentemente sì, perché non si muove e resta lì in mezzo al campo che si fa tutto bianco, a guardare la neve. Poi Zlatan lo vede tirare fuori la lingua ed aspettare pazientemente che un cristallo di ghiaccio vi si depositi, per poi assaggiarlo con la curiosità di un bambino che vede la neve per la prima volta. Ride, perché gli sembra assurdo.
«Mi trovi ridicolo?» gli chiede José, lanciandogli un’occhiata divertita.
«No» scuote il capo Zlatan, prendendo a propria volta un fiocco con la lingua, «Solo buffo. Perché lo fai? Non hanno chissà che sapore.»
José scrolla le spalle.
«Non è detto che tutte le cose che si fanno si facciano per piacere» spiega, «Ci sono cose che si fanno e basta. Tienilo a mente per il futuro.»
 
José sa di proibito e di segreti e di passato e di nostalgia. Zlatan non credeva che tutte queste cose potessero avere un sapore, ma è quello che ritrova sulle sue labbra e sulla sua lingua, quando le sfiora con le proprie e si azzarda ad assaggiarle. Le mani di José scivolano lente lungo il suo torace nudo, verso l’altro, posandosi sulle sue spalle e restando lì ferme come avessero paura di muoversi ancora. Zlatan mugola con forza, allontanandosi da quel bacio con molte più difficoltà di quanto non avrebbe creduto – di quanto non abbia effettivamente immaginato in nemmeno una delle milioni di volte in cui ha pensato alla possibilità di José così vicino e così suo.
- Toccami… - gli respira sulle labbra, e si sente un bambino, - Toccami, toccami, toccami…
Una delle mani di José risale il suo collo e lo stringe dolcemente alla nuca, tirandoselo contro. È un po’ buffo non avere idea di cosa fare, è la prima volta che le mani di un uomo lo toccano in questo modo, così come d’altronde è la prima volta che José sente forme simili sotto i polpastrelli. La forza con cui i muscoli di Zlatan, guizzanti e tesi sotto la pelle, si oppongono alla pressione delle sue mani, è una cosa che non è possibile paragonare a nessun corpo di donna – a nessun’altra cosa al mondo abbia mai toccato.
Quando le mani di Zlatan si sollevano e si posano sui bottoni della sua camicia, entrambi si allontanano apposta per guardare il movimento lento delle dita che, fra un’incertezza e l’altra, lo spogliano. La mano di José è ancora ferma sul suo collo e si muove in una carezza appena percettibile cui nessuno dei due bada: è lì ed è bello che ci sia, ma la camicia che si apre sul petto di José è al momento l’unica cosa che li interessa. Interessa Zlatan perché lo sta spogliando, e interessa José perché si sta lasciando spogliare, ed entrambi sono gesti tutt’altro che privi di conseguenze.
Quando la camicia finisce per terra, Zlatan si spinge un po’ in avanti. Non che sappia esattamente cosa voglia dire un gesto simile, spera solo che José sia con lui, in quel momento, che riesca a leggergli nella mente più di quanto non riesca a fare lui con se stesso al momento – perché ha voglia e non sa di cosa, perché vuole qualcosa che non sa come ottenere, perché è triste, perché José era suo, perché non capisce più se lo sia ancora, perché sente di appartenergli da sempre – e José c’è. José c’è e ci sono i suoi occhi che tornano a fissarsi nei suoi, rassicuranti, e ci sono le sue mani che lo stringono lievissime ai polsi, mentre indietreggia accompagnandolo verso il letto, e ci sono le sue labbra che lo sfiorano sulla bocca, sul mento, lungo il collo. José c’è, Zlatan lo sente, Zlatan lo lascia fare.
José c’è ed è ovunque – Zlatan sente la carezza infinita delle sue labbra che seguono il profilo del suo corpo, scendendo senza il minimo pudore lungo il suo petto, lungo il suo ventre, perfino fra le sue gambe, e non riesce a capire se tutta quella disinvoltura sia testimone di relazioni passate, e passate chissà da quanto, magari anche da pochissimo, oppure se sia semplicemente la naturale spensieratezza che ti accompagna quando ti perdi in qualcosa che non credevi avresti mai ottenuto.
- José… - lo chiama debolmente, sollevando il capo dal cuscino e cercando i suoi occhi. Lui gli ricambia l’occhiata un po’ persa, separandosi dal suo corpo col respiro pesante.
- Non ho idea di cosa sto facendo. – risponde, e poi ricomincia a toccarlo come stesse cercando il punto giusto senza aver ben chiara nemmeno la zona approssimativa nella quale dovrebbe trovarsi. Il che, su Zlatan, ha un effetto devastante, perché si traduce all’atto pratico nelle mani di José che ricominciano a vagare ovunque senza meta, dandogli i brividi lungo la spina dorsale e spingendolo ad inarcarsi sotto i suoi tocchi spingendosi verso l’alto in un movimento di cui non capisce l’utilità finché José non la trova per lui, afferrandolo saldamente per i fianchi e sistemandosi fra le sue gambe dischiuse, spingendosi lentamente fra le sue natiche, stuzzicandolo appena.
Zlatan freme di paura e di fastidio, e freme anche perché quella carezza leggerissima lo solletica e lo stimola in modi che non avrebbe mai creduto possibili – e non riesce più a capire se il piacere che sta provando sia qualcosa di puramente fisico o sia dettato anche e soprattutto dal fatto che è José a toccarlo così, è José a farsi sentire in questo modo, e per una volta non lo sta immaginando né sognando.
- Me ne sono andato perché non potevo più starti accanto sapendo che tu non provavi per me quello che provavo io per te. – confessa sulle sue labbra quando José si china a baciarlo nel tentativo di distrarlo, mentre si fa strada dentro di lui con un dito umido e caldo.
- Hai mollato la tua squadra, - elenca piano José, muovendosi dentro di lui con la stessa identica calma che impone alle sue parole mentre gliele lascia scivolare addosso, - la tua vita, i tuoi amici, le tue abitudini, la-
- Tu – lo interrompe Zlatan, posando entrambe le mani ai lati del suo viso e attirandolo più vicino, per baciarlo ancora, - mi stavi devastando l’esistenza. – mugola, quando José interrompe il movimento del suo dito per aggiungerne un altro, cauto, - Tu mi… non puoi nemmeno immaginare cosa fosse diventato per me giocare per te. – e ansima quando il movimento di quelle stesse dita si fa appena più svelto, - Io non ce la facevo più.
- Tu non hai lasciato l’Inter. – commenta distrattamente José, estraendo le dita e guardandolo dritto negli occhi. – Tu hai lasciato me.
Zlatan si morde un labbro, reprimendo a stento il mugolio che gli affiora alle labbra quando a spingersi contro di lui non sono più solo dita.
- Non so se si possa dire così. – risponde, poggiando le mani sulle sue spalle nel tentativo di aiutarlo quando José solleva il suo bacino di qualche centimetro, preparandosi a entrare dentro di lui, - Me ne sono andato perché… perché non potevo lasciarti, credo.
- Zlatan… - mormora José, confuso, la fronte contro la sua spalla, - che vuol dire questo?
- Vuol dire che lasciarsi è una prerogativa degli amanti, noi non lo eravamo, e quindi anche se avessi voluto lasciare te non avrei mai potuto farlo. – sputa fuori tutto d’un fiato Zlatan, perché si sente come se stesse dicendo troppo, più nudo di quanto in effetti già non sia, e non riesce a sentirsi a proprio agio, anche se José si spinge per qualche centimetro dentro di lui e pure se fa male, pure se è strano, pure se è assurdo, pure se sarà ancora più doloroso domattina rispetto ad adesso, in questo preciso istante sembra la cosa più perfetta del mondo. – Lasciare l’Inter era l’unica cosa che potessi… - esita affaticato, stringendo la presa sulle  sue spalle, - l’unica cosa che potessi fare, perché il legame con l’Inter era l’unico che avevo.
José lo guarda. Lo guarda a lungo.

«Cosa cazzo vi prende?!» sbraita, fuori di sé dalla rabbia, «Cosa siete, dei sacchi di merda?! Avete vinto uno Scudetto a tavolino, il successivo per un colpo di fortuna e l’ultimo perché non avevate rivali! E ora siete qui e fate i campioni facendovelo sbattere nel culo da una squadretta del cazzo?!»
Il silenzio regna sovrano nello spogliatoio. I ragazzi vorrebbero rispondere – alcuni di loro, se potessero, prenderebbero armi e bagagli e tornerebbero in Pinetina col primo taxi, probabilmente – ma restano pietrificati sulle loro panchine, congelati sul posto dalle occhiate severe con le quali José li sferza, aggirandosi per lo spogliatoio come una bestia affamata.
«Mi sono rotto i coglioni di voi!» continua l’uomo, spalancando la porta e indicando le scale che portano verso il campo, «Andate fuori di qui e fate gli uomini, se ne siete capaci! Altrimenti fottetevi!»
I giocatori abbandonano lo spogliatoio uno dopo l’altro, chi in perfetto silenzio – come Javi, più urtato dalla sconfitta in sé che non dalle parole del mister – chi borbottando scontento – come Adri, che le offese non le regge neanche se sono più che giustificate. Zlatan si attarda nei pressi del proprio armadietto  e guarda a lungo la schiena di José, mentre l’allenatore osserva la squadra tornare in campo.
Si alza e lo raggiunge solo quando lo osserva sospirare platealmente, sgonfiandosi in maniera perfino infantile.
«Segnerò.»
José si volta a guardarlo con stupore, come non si fosse accorto della sua presenza. Si gratta nervosamente una guancia, scrollando le spalle.
«Per quello che vale» butta lì, esasperato. Zlatan si inumidisce un labbro e riflette brevemente.
«A te importa che io segni almeno un gol?» chiede quindi, tornando a guardarlo negli occhi.
José esita qualche secondo.
«Sì.»
Zlatan annuisce.
«E allora io segnerò.»
José lo guarda ancora e poi lascia andare una mezza risata divertita.
«Sei un idiota.»
 
- Sei sempre stato un idiota. – è la risposta di José, l’ultima che gli dà prima di chiudere nuovamente le labbra sulle sue e cercare la sua lingua mentre lo penetra lentamente.
Zlatan lascia andare uno sbuffo di fiato fra le sue labbra, ed è dolore e piacere insieme, quando José si spinge a fondo dentro di lui e, allo stesso tempo, prende ad accarezzarlo per tutta la lunghezza della sua erezione, cercando di mantenere un ritmo simile a quello delle sue spinte, sperando che possa servire a lenire da una parte ed amplificare dall’altra. E serve, serve davvero, Zlatan se ne accorge quando chiude gli occhi e si lascia andare fra le sue mani con fiducia, gettando indietro il capo, il petto scosso dai sospiri e dalle scariche di piacere che gli annebbiano le idee. José solleva appena le labbra e gli sfiora un orecchio, resta lì a lungo, come volesse dirgli qualcosa, e invece non dice niente, non fa che respirargli contro la pelle. Zlatan non ne capisce il motivo, almeno fino a che non afferra che il motivo è quello: José non ha nient’altro da dire. José vuole farsi sentire e basta.

«E lui» dice Andrea, indicandogli l’altissimo svedese che, guardandolo, sorride come un idiota, «è Zlatan. Avrai sicuramente sentito parlare di lui.»
«Chi non ha mai sentito parlare di lui?» ride José, «Ibra» lo chiama quindi, prendendosi subito abbastanza confidenza da farlo usando un soprannome che, fino ad ora, è stato solo dei compagni di squadra, di Mancini, dello staff e di qualche tifoso innamorato. Così fa fatica a sentire questo José Mourinho come uno sconosciuto, e in effetti non passano che pochi secondi che s’è già abituato al modo buffo in cui sorride sollevando solo un angolo della bocca, mentre sulla guancia gli si disegna una fossetta dalla quale è impossibile staccare lo sguardo. «La tua fama ti precede» commenta, porgendogli la mano.
Zlatan la stringe ed è costretto a lasciarla immediatamente, infastidito da una scarica elettrica improvvisa. José ride, sventolando un po’ la mano davanti al viso.
«Però» commenta, «niente male come primo saluto.»
 
José lo chiama per nome ad alta voce, quando viene dentro di lui, e Zlatan non riesce a fare lo stesso quando viene fra le sue dita solo perché è José stesso a impedirglielo, baciandolo con tanta foga da mozzargli il respiro e annullargli i pensieri e spegnere l’universo intero. Che non esiste più.
Si separano a fatica, senza volerlo davvero. José si regge sul materasso coi gomiti, gli avambracci stesi all’altezza delle spalle di Zlatan, le gambe dello svedese ancora allacciate dietro i fianchi ed i petti che si sfiorano ad ogni respiro, solleticandosi appena.
Si ribalta sul materasso, stendendosi al suo fianco, solo quando il caldo si fa troppo appiccicoso per poterlo fisicamente sopportare ancora. Zlatan gli fa spazio, spostandosi lateralmente, e José gli fa girare un braccio dietro le spalle, aiutandolo a sistemarsi contro di lui.
- Almeno – commenta con una mezza risatina, - abbiamo risolto una questione.
La risatina di José gli fa eco, ma ha un tono profondamente diverso rispetto alla sua. Più disilluso.
- Abbiamo fatto l’amore, Zlatan. – gli spiega senza guardarlo, - Questo raramente risolve qualsivoglia questione.

Zlatan non capisce immediatamente cosa la frase di José voglia dire, e si addormenta fra le sue braccia perché è più comodo, più semplice e più bello così. Non capisce nemmeno quando il giorno dopo si sveglia e non lo trova più al suo fianco, prende la sua assenza come un dato di fatto e d’altronde, mentre si lava e si veste e si prepara per l’allenamento pomeridiano in vista della partita, si chiede anche con una certa ironia cosa potesse aspettarsi di diverso, non soltanto da José, ma dalla situazione in generale.
Continua a non riuscire a darsi una risposta per tutta la giornata. Almeno fino a quando alla sera non entra in campo e José è seduto in panchina. E non lo guarda. E nessuno, dalla panchina, in effetti lo guarda, e il pubblico tace – perfino i tifosi più accaniti – e i suoi compagni non sanno come aiutarlo a fronteggiare l’orda di sguardi rabbiosi che lo fissano dall’altro lato della linea di centrocampo.
E Zlatan si sente solo.
E capisce che la questione non è risolta per niente. E probabilmente non si risolverà mai.

Non c’è vento, non si muove una foglia. I ragazzi si allenano già, a qualche metro di distanza da loro, e José e Zlatan restano immobili sul limitare del campo. Hanno entrambi le mani sui fianchi, Zlatan finge di fare stretching, José finge di guardarsi intorno.
Il silenzio si spezza all’improvviso.
«Mi mancherai.»
Torna silenzio. Si spezza ancora.
«Anche tu.»
E poi più niente.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-16
AVVERTIMENTI: (Serie di) Drabble, Lime, Slash.
- Dopo un duro e solitario anno a Barcellona, Zlatan Ibrahimović ci racconta (brevemente) le sue vacanze estive.
Note: DIO SANTISSIMO CHE IMPROBA FATICA. *UNF* Mai più – ricordatemelo, la prossima volta che mi lancio in qualche follia similare – mai più fic con limiti tanto rigidi, neanche se si trattano di limiti più ampi. Gesù santo. Ho già un pessimo rapporto con i diktat tipo “non più di tot parole” o “non meno di tot parole”, era semplicemente ovvio che per scrivere una roba da novanta precise – da contare a mano, poi – sarei sclerata. Gra, ti odio tanto, ma con amore.
Me la prendo con Gra perché l’idea dello Short Service – [spam] challenge estiva che si chiude il 15 agosto e il cui obiettivo è appunto scrivere una drabblina da 69 o 90 parole, e i numeri non sono gettati lì a caso XD [/spam] – è sua. Poi me la prendo anche con Maki e Fae, perché invece i temi cui le drabble sono ispirati vengono dritti dritti dalla community Kinks&Pervs, community cui sognavo di partecipare da secoli, anche perché la kinkaggine e il pervismo rappresentano una parte consistente della mia anima di ficwriter.
Me la prendo inoltre pure con Def e Juccha che, quando ho annunciato che avrei scritto altro Jobra dieci minuti dopo aver concluso la Jobra dell’addio, non mi hanno fermato. E me la prendo col Jobra, infine. Perché è troppo bello per lasciarlo stare ;_; E poi ci serviva un happy ending, dai. Ci serviva che non ci fosse ending at all, probabilmente XD E sono contenta di averlo messo su carta. Bye bye <3
PS. Il soprannome Zay mi ucciderà XD
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See You Next Summer


.Pedalò.
Il sole picchia, rifrangendosi sul mare calmo tutto intorno. Il pedalò è fermo nel niente da mezz’ora, la spiaggia si intravede appena, le boe sono così vicine che Zlatan potrebbe allungare una gamba e toccarle. Lo dice. José ride. “Hai le gambe lunghe, non è indicativo.” Ride anche Zlatan.
Le vacanze sono appena cominciate, l’anno a Barcellona è stato soddisfacente, ma duro e solitario. Si allunga a sfiorarlo da sopra il costume e lui ghigna. “Di già?” chiede con un sorriso. Zlatan non risponde, si china e basta.
 
.Crema.
Zlatan si stende sul telo da bagno a pancia in giù e lascia che José si perda nel seguire il movimento flessuoso dei due chilometri di spina dorsale che Iddio gli ha dato in dotazione quando ha permesso a Jurka e Sefik di metterlo al mondo per il bene dei popoli. Momento di beatitudine seguente: le mani di José che quella curva la percorrono tutta per coprirlo di crema solare. Poi le mani finiscono sul sedere, lì si fermano e Zlatan capisce che non avrà tempo per la tintarella, oggi.
 
.Bagnasciuga.
In riva, la spuma segue il moto delle onde come un’innamorata. Zlatan adora quando gli bagna i piedi e lascia sulle dita quella scia un po’ frizzante – bollicine scoppiettanti che gli fanno il solletico dappertutto. Come le mani di José, seduto dietro di lui, il petto che si muove mentre respira sulla sua schiena, sul suo collo, contro le sue spalle. E le mani ovunque, giù lungo il petto, il ventre, fra le cosce. Zlatan chiude gli occhi. Ed anche lui segue il moto delle onde come un innamorato.
 
.Sabbia.
Si contorce sotto il getto d’acqua nel tentativo di lavarsi di dosso la sabbia che gli si è appiccicata ad ogni dannato centimetro della pelle durante la giornata. I granelli sono entrati in luoghi di se stesso che non conosceva, non pensava nemmeno di avere, e in altri luoghi su cui invece ha avuto il permesso di mettere le mani solo José. Una cosa disdicevole. “Zayyy!” lo chiama lamentoso, piagnucolando un po’, “Non riesco a toglierla!” José sospira, mentre scivola nel box accanto a lui. Pulirà a proprio modo.
 
.Bagnino.
“Niente male, il bagnino” biascica, sistemando le magliette in valigia. È triste, torna a Barcellona domani e poi va in ritiro – ok, è triste un casino, non vedrà José fino all’estate prossima, è devastato. Vuole litigare o forse solo un po’ d’attenzione. José, probabilmente, gli darà entrambe le cose.
“Niente di speciale,” sputa fuori astioso. Zlatan sbuffa. Il secondo dopo è piegato contro il materasso.  Ansima e geme e no, il bagnino non era niente di speciale. Quello che si porta a letto lo Special One è lui.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Erotico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- Canto del cigno.
Commento dell'autrice: Non che abbia molto da dire su questa storia. È nata stasera, cominciata poco prima dell’annuncio e terminata qualche oretta dopo, cercando di buttar fuori tutta la tristezza che era dentro, s’era accumulata e stava cominciando sinceramente a fare un po’ troppo male XD Almeno adesso sappiamo da che parte stiamo voltati (culo a José, ragazzi, sempre!). A Zlatan vanno solo baci, gratitudine e tanti auguri di fare il peggio possibile, così tornerà strisciando il miglior campionato possibile col Barça. Ma non ci credere nella Champions, svedese, quella sarà nostra u.u
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MEMENTO


Zlatan ricorda che, quando era piccolo, durante una delle prime partite col Malmö BI, nel tentativo di segnare di testa, saltò scompostamente, poi cadde a terra e si sbucciò un ginocchio. Era la prima volta che si faceva tanto male, perché gli era capitato di sbattere, ma nulla di tanto devastante, e gli era capitato di scivolare, ma non su un campetto così ghiaioso e ciottoloso e polveroso, tanto da fargli bruciare la carne esposta fino a farlo urlare e piangere di dolore. Quel pomeriggio giocava da solo, non c’era papà in tribuna, e nemmeno mamma, solo il mister che cercò di prendersi cura di lui nel migliore dei modi, ma dannazione era piccolo, stava male e voleva i suoi genitori, e loro non c’erano. Ricorda che, nel momento in cui suo padre arrivò al campetto – era già tramontato il sole, quasi del tutto – gli venne una tale voglia di corrergli incontro e piangere stretto fra le sue braccia, che neanche ci provò, a trattenersi, e nonostante il ginocchio gli facesse incredibilmente male saltare in piedi ed andare verso di lui – mentre lui spalancava le braccia per accoglierlo nel migliore dei modi – fu esattamente la prima cosa che fece, prima di tutto il resto, anche prima di spiegare come avesse fatto a conciarsi il ginocchio in quel modo.
Le ginocchia fragili sono una cosa che continua a trascinarsi dietro dall’infanzia, tant’è che l’ultima sbucciatura c’ha messo un mese a sparire del tutto – e il fatto che continuasse a strusciarla cadendo scompostamente come fa imperterrito da vent’anni non ha aiutato, per il grande sconcerto di José, che ogni tanto si ritrovava a guardare la ferita piena di mercuriocromo spalancando gli occhi e chiedendogli ad alta voce “Zlatan, cosa devo fare per rimetterti a posto? Ricucirti a mano?”, causandogli sempre un sorriso fra il tenero e il divertito.
Allo stesso modo, continua a trascinarsi dietro anche quella strana tristezza – una cosa che ha a che fare col sentirsi debole, stupido e inadeguato – che prova ogni volta che si fa male. Tanto che non si muove dal lettino sul quale il dottore l’ha abbandonato dopo avergli applicato la fasciatura al polso sinistro, e resterebbe ancora lì nei secoli dei secoli, probabilmente, se non fosse José a richiamare la sua attenzione, chiamandolo a bassa voce.
- Ibra.
Non Zlatan. È sempre stato Zlatan, fin dal primo giorno del suo arrivo, ed ha continuato ad esserlo fino a quando l’ipotesi del Barcellona non è diventata realtà. Fino a che lui stesso non l’ha fatta diventare realtà. Il suo desiderio di andarsene non è qualcosa che sappia come spiegare a José, dal momento che, in tutta sincerità, non riesce a spiegarlo nemmeno a se stesso. Ciononostante, avrebbe preferito che José non ponesse tutta quella distanza, fra loro. Toccarsi, salutarsi, parlare, baciarsi, fare l’amore, perfino chiamarsi per nome, sono cose che non si verificano più da tanto di quel tempo che, a ricordarle, sembrano finte. E dire che sono state tutte così frequenti, nell’ultimo anno, così presenti. Così loro.
Solleva lo sguardo cercando i suoi occhi, José risponde senza scostare i propri e Zlatan si sente incredibilmente a disagio.
- Mmhn. – risponde in un mugolio deluso, mettendosi in piedi.
- Frattura? – chiede José, inarcando un sopracciglio, - Credevo fingessi e stessi frignando a caso, durante la partita.
- Distorsione. – precisa Zlatan con una smorfia, - E non fingevo. Stronzo. Non fingo mai.
- Ma sei una lagna lo stesso. – sospira José, voltandogli le spalle. – Dai, ti accompagno in camera tua.
Zlatan lo segue, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. Lo solleva una volta sola, piantandolo fra le scapole di José – che si muovono lente, seguendo l’ondeggiare rilassato delle braccia lungo i fianchi – e nel momento stesso in cui lo fa torna a Malmö, il polso smette di fare male e comincia a dolere il ginocchio. È una cosa stranissima che dura un secondo e lo confonde come se invece fosse durata delle ore, tant’è che è costretto a scuotere energicamente il capo per cercare di scacciare via i pensieri che sembra si rifiutino di andarsene di loro iniziativa, sulle loro gambe. I capelli gli pizzicano il naso, starnutisce e José, di fronte a lui, ride senza voltarsi a guardarlo.
- Tienili composti. – getta lì senza pensarci, - Ti fanno sempre quest’effetto. – commenta distrattamente, e Zlatan si morde un labbro, spostando gli occhi sulla sua nuca.
E poi niente, è una cosa che non pensa, non decide e non intende ricordare quando questa giornata tremenda sarà finita: lo fa e basta. Fissa l’obiettivo, muove un passo avanti, prende una breve rincorsa e l’istante dopo si aggrappa alle spalle di José come un koala ad un albero, stringendo le braccia attorno al suo collo – anche a rischio di soffocarlo seriamente – e le gambe attorno ai suoi fianchi – anche a rischio di fargli perdere l’equilibrio fino a trascinare entrambi a terra in una caduta che non gioverebbe a nessuno.
- Cosa caz- - ansima José, colto alla sprovvista, mentre a fatica ritrova il proprio equilibrio e le sue mani scattano con naturalezza a stringerlo sotto le cosce, per impedirgli di scivolare, - Zlatan! – lo rimprovera, voltando il capo il più possibile per cercare di sferzarlo con l’occhiata di rimprovero che Zlatan immagina e si rifiuta per principio di prendere in considerazione.
Preferisce di gran lunga spalmarsi contro di lui come può, sollevando le gambe il più possibile perché non lo intralcino mentre, imperterrito, continua a camminare – perché José non si ferma mai, neanche se gli piomba addosso un pianoforte, figurarsi uno Zlatan Ibrahimović qualunque. Poggia il mento sulla sua spalla, sbuffando rumorosamente.
- Mi hai chiamato per nome. – borbotta, - Finalmente.
- Non mi ero accorto di aver smesso. – mente José, e Zlatan risponde con uno schiaffo lieve contro la sua guancia, dato più per ricordargli che non può prenderlo per il culo – non in questo modo, almeno – che per altro.
- Io sì. – risponde in un mezzo ringhio, - E comunque… - si ferma, perché non sa che dire. Sa che un “comunque” c’è, sa che c’è qualcosa che vorrebbe far sapere a quell’uomo che lo regge con cura appena sotto le ginocchia, ma non riesce. Non sa cosa dire. Non trova le parole o chissà cos’altro. Resta in silenzio.
- È una distorsione al polso. – gli ricorda José, sbuffando a propria volta.
- Lo so. – annuisce Zlatan con un mezzo sorriso, tornando a mettersi dritto ed accomodandosi meglio contro le sue spalle, dopo il primo momento di confusione che l’ha obbligato a stare il più piegato possibile per cercare di ingombrare il meno possibile – per quanto il tutto potesse sembrare assurdo.
- Non c’è motivo per cui tu non possa camminare. – precisa ancora José, come ad accertarsi che Zlatan l’abbia capito. Zlatan l’ha capito, infatti non è per quello che gli si sta attaccando come una patella allo scoglio.
- Lo so. – ripete infatti, annuendo debolmente.
- E sai pure che tutto questo è ridicolo, vero? – chiede il mister, un’espressione contrariata a distorcere, non del tutto spiacevolmente, i tratti del viso. È così raro vedergli un’espressione simile addosso, un’espressione che non sia il solito lancinante disinteresse, che Zlatan quasi si sente orgoglioso ad essere motivo di un tale sfoggio di umanità.
- Sì. – risponde Zlatan, salutando con un cenno della mano il capitano che passa di lì e li guarda entrambi con aria allucinata, senza che José faccia una piega al riguardo. – Fammi cadere e ti uccido. – aggiunge per la cronaca. Non che creda che José sarebbe davvero capace di mollarlo lì in mezzo al corridoio ed andarsene via, ma è sempre meglio dirle, certe cose. Anche se non dovrebbe essere lui a pensare una cosa del genere, dato quanto poco sta parlando ultimamente.
- Apri la porta. – gli dice José, indicando la maniglia quando giungono sulla soglia della sua camera, - Io non posso. – ride appena, stringendo la presa sotto le sue cosce per fargli sentire con forza che il motivo per cui non può girare la dannata maniglia non è che non può mollare la presa, ma che non vuole.
Zlatan annuisce, scioglie una delle braccia che gli ha allacciato attorno al collo e la allunga in avanti, sporgendosi fino a sfiorare con la propria guancia la guancia di José, mentre gira sbrigativamente la maniglia e spinge la porta per aprirla.
José avanza all’interno della stanza, piegandosi un po’ in avanti per tirare un calcetto alla porta e spingerla a richiudersi. Zlatan, nel movimento, ha l’impressione di cadere, e si aggrappa a lui con forza, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Quando il pericolo finisce, perché José torna a poggiare entrambi i piedi a terra, Zlatan schiude le palpebre e vede solo la grana ambrata della sua pelle, annusa il suo profumo da così vicino che gli dà alla testa e sente la sua risatina divertita tanto dentro da farsi dolere il petto. Non ci pensa nemmeno, ad allontanarsi. Resta lì ancorato a lui come se quello stringere convulsamente attorno alle sue spalle potesse essere sufficiente a trattenerlo lì. Ovunque sia lì: Boston, Milano, l’Inter, non importa. Ovunque sia lì. José è lì.
- Scendi, dai. – gli dice, la voce soffice come quando si sono presentati e José gli ha teso la mano sussurrando “Ho sentito molto parlare di te, ma devo dire che dal vivo colpisci molto di più”, e lui ha risposto con una mezza risata, imbarazzandosi anche e biascicando un “Potrei dire lo stesso” stentato, ridicolo e anche sommariamente falso, dato che di lui avrebbe potuto dire molto di più già fin dal primo giorno, come quanto fosse rimasto affascinato dal modo in cui i capelli brizzolati non lo facessero sembrare per niente vecchio, da come le fossette che gli si disegnavano sulle guance quando rideva fossero piacevoli da stare a guardare, da come la sua voce profonda e sicura fosse ammaliante e da come ogni sguardo attento che riusciva a strappargli sapesse di vittoria, di sconfitta e di scoperta, tutto insieme, come quando il cuore batte fortissimo e non capisci nemmeno perché.
Di scendere, comunque, non ha per niente voglia, perciò stringe le gambe attorno ai suoi fianchi e resta incerto a sfiorargli il collo con le labbra. Potrebbe baciarlo, basterebbe così poco, sporgerle un po’ e schioccarle, nient’altro, ma non sa come potrebbe reagire José e non vuole indisporlo più di quanto già non sia – anche se gli manca, gli manca tantissimo, e il solo pensiero di dover andare via fra una settimana, domani o anche solo fra qualche ora, senza poterlo avere ancora una volta, lo distrugge.
- Zlatan. – lo chiama ancora José, - Scendi. Per favore. – e Zlatan rabbrividisce, una richiesta del genere non può ignorarla. Non se espressa in questo modo, con questa stanchezza, con questo abbandono, con questa rassegnazione.
Sospira e stende le gambe, mettendosi in piedi con una certa fatica – le ginocchia che ancora cercano la forma dei fianchi di José attorno alla quale chiudersi – ed aspettando che lui si volti, lo saluti e lasci la stanza, probabilmente con l’intenzione  di non vederlo mai più.
José si volta ma non lo saluta, invece. Resta a guardarlo, le sopracciglia inarcate verso il basso, le labbra strette in una smorfia addolorata e gli occhi scuri tanto densi che Zlatan non riesce a leggervi niente dentro. Tutto ciò che sa è che la sua espressione gli confonde le cose nella testa, nello stomaco e nel bassoventre, e la cosa non lo stupisce, perché José è capace di fargli questo e altro senza il minimo sforzo, alle volte anche restando perfettamente immobile.
- Io non- - comincia, giusto per dire qualcosa, anche se non ha idea di cosa. José lo interrompe scuotendo il capo e infilando le mani in tasca, anche lui giusto per fare qualcosa. Fa male comportarsi in questo modo quando sempre,sempre, tutto fra loro s’è svolto nel modo più naturale possibile. Zlatan si inumidisce le labbra e attende. José solleva gli occhi nei suoi e lo guarda a lungo.
- Non posso credere che tu lo stia facendo davvero. – dice, nella voce molti più sentimenti di quanti Zlatan sia abituato a sentirne provenire da lui, - Io ci ho creduto, sai? In te, in noi, in questa… cosa. Per quanto assurdo potesse essere. E tu non-
- Ti prego. – lo ferma Zlatan, stringendo i pugni lungo i fianchi, - Non dirlo. Non è vero, lo sai che non è vero. Lo sai che ci ho creduto anch’io.
José si inumidisce le labbra e poi si rassegna ad annuire, avvicinandosi di un passo.
- Quando capirai perché lo stai facendo, - gli chiede in un sussurro, a pochi centimetri dalle sue labbra, - voglio che tu me lo spieghi. Dovunque sarai, qualsiasi ora sarà e per quanto stupido possa sembrarti il motivo, tu mi chiamerai e me lo dirai. Me lo devi.
Zlatan annuisce e non trova il coraggio di annullare quella briciola di spazio che ancora li separa, così come non ha trovato il coraggio di chiedersi davvero per quale motivo volesse tanto andare via, così come non ha trovato il coraggio di dirlo a José quando ha cominciato a desiderarlo, così come, all’inizio, non aveva trovato il coraggio di dirgli quanto lo volesse stringere toccare accarezzare baciare, ed ha dovuto aspettare che fosse José a indovinarlo da solo e farsi avanti. Lascia che sia lui a muoversi anche stavolta, e José fortunatamente lo fa.
Poggia le labbra sulle sue e Zlatan esala un sospiro sollevato, mentre tira su le braccia ad allacciarlo nuovamente al collo, passando distrattamente le dita fra i suoi capelli, che sono cresciuti tantissimo, non sono mai stati tanto lunghi da quando si conoscono, e Zlatan non ha mai davvero avuto l’occasione di accarezzarli così nell’ultimo periodo, perciò lo fa con soddisfazione, il più a lungo possibile, perdendocisi anche un po’. José piega il capo e approfondisce il bacio, traendolo a sé per la vita – la maglietta che si gonfia in sbuffi sopra e sotto il suo braccio, mentre la lingua di Zlatan segue la sua come tutto di Zlatan ha sempre fatto con lui.
José si fa avanti, costringendolo a indietreggiare verso il letto. Zlatan si piega piano, lentamente, quando tocca le lenzuola perfettamente composte con i polpacci lasciati nudi dai pantaloncini. Gli fa uno strano effetto stare lì in quel momento, mentre José lo bacia e poggia un ginocchio sul materasso, proprio accanto al suo fianco, per aiutarlo a sistemarsi sotto di sé. Si separano appena, guardandosi negli occhi, il respiro un po’ affaticato perché non ci stai a respirare quando perfino l’aria nella tua bocca cambia sapore grazie alla lingua di qualcun altro. Quella sensazione speciale la tieni dentro finché puoi, e perciò i respiri sono banditi.
- Una volta sola. – dice José, sulle sue labbra, - L’ultima. – Zlatan stringe la presa attorno al suo collo e lo guarda implorante, perché gli ultimatum non gli piacciono altrettanto quando non è lui a darli ma solo a riceverli, ma José è irremovibile. – Credimi. – gli sorride, e Zlatan distoglie lo sguardo. – Ehi. – lo richiama lui, - Sono qui, io. – continua a sorridergli, poggiandogli due dita sotto il mento per spingerlo a tornare a guardarlo. – Una volta sola. Di più farebbero male a entrambi, sai?
Zlatan non ha la forza di dire sì, ma non ha nemmeno la forza di mettersi lì a combattere per avere di più: è tutto l’anno che combatte per avere di più, sta ancora combattendo per avere di più, e tutto ciò che gli sembra di riuscire ad ottenere è dolore, in quantità che non è sicuro di essere in grado di sostenere. Perciò, se José gli dice che, a pretendere ancora pure stavolta, farebbe perfino più male, allora lui non combatterà. Di José si fida. È okay così.
Perciò lascia fare. Si abbandona fra le sue braccia e José lo tratta come fosse prezioso, per una volta. Di solito non è così, fra loro. Di solito ci sono spalle che battono contro le pareti, di solito ci sono strette fortissime che lasciano il segno attorno ai polsi e denti che cozzano e poi si chiudono attorno alla pelle calda e umida e salata, di solito c’è questo, o almeno questo c’era, ma stavolta no. Stavolta José è lento ed è accorto e si muove piano e lo assaggia tutto, come volesse imprimersi il suo sapore sulla lingua.
- Sei fantastico. – gli sussurra sulla pelle, scendendo lungo il suo ventre e soffermandosi a respirare sul suo ombelico, - Sei stata la cosa più spettacolare in assoluto, lo sarai sempre. – e Zlatan serra le palpebre, e siccome ha paura di spalancarle all’improvviso si nasconde dietro un braccio, mordendosi il labbro inferiore. Non vuole vedere né sentire altro che non sia José, e la sua schiena si inarca mentre le labbra dell’uomo si chiudono attorno alla sua erezione, ormai così tesa da far male.
Gli sfiora il viso con due dita, José apre gli occhi e lo guarda dal basso, prima di allontanarsi da lui e tornare alla sua altezza, spingendosi lento fra le sue gambe, che subito si allargano per accoglierlo. Lo bacia e sente sulla sua lingua il proprio sapore misto al suo, chiude gli occhi e si perde del tutto mentre José si fa strada dentro di lui, prima con le dita e poi con tutto se stesso, spingendo pianissimo e soffocando i suoi gemiti fra le labbra, muovendosi con attenzione, cingendolo ai fianchi per impedirgli di muoversi troppo velocemente. Detta il ritmo di qualcosa che Zlatan non si sente in grado di governare, e Zlatan lo lascia fare, perché se dovesse affidargli il ritmo dei battiti del suo cuore, ecco, in questo momento potrebbe fare perfino questo. Il ritmo della sua vita intera, potrebbe regalarlo a José senza pensarci un secondo. Come ultimo saluto, come il ti amo che non gli ha mai detto e che, d’altronde, non ha mai sentito nemmeno lui. Anche perché in realtà nessuno dei due ne ha mai sentito il bisogno.
Quando José viene dentro di lui, spingendosi con forza e stringendo la mano attorno alla sua erezione in carezze sempre più decise, José getta indietro il capo ed espone il collo ad una scia di baci e morsi che sono l’unica cosa che ricordi loro stessi un mese fa. In un letto diverso, in condizioni diverse, perfino in un diverso continente, ma loro. È il regalo di José, Zlatan lo accetta schiudendo le labbra e lasciandovi scivolare in mezzo un gemito estasiato mentre viene a propria volta fra le sue dita, stringendolo a sé con forza. Si respirano addosso per minuti interi, senza trovare il coraggio di allontanarsi l’uno dall’altro anche se il letto è abbastanza piccolo da consentire loro di stare appiccicati pur restando semplicemente accanto. Non vogliono stare accanto, vogliono stare sopra e sotto e dentro l’uno all’altro, qualsiasi condizione meno assoluta di questa è inaccettabile, almeno per il momento, e perciò restano immobili a respirarsi a vicenda, così profondamente da sentire quasi i polmoni esplodere per lo sforzo.
- Quanto hai detto di dover tenere la fasciatura? – chiede José, ancora senza fiato, spostando il viso nell’incavo del suo collo, in cerca di una posizione più comoda.
- …non mi ricordo. – confessa sinceramente Zlatan, fissando il soffitto con aria beata. In realtà sta bene. Ora sta davvero bene.
- E – continua José, con maggiore difficoltà, - quando hai detto che vai via?
Qualcosa nello stomaco di Zlatan fa un balzo e poi torna al suo posto tutta scombinata. Zlatan non ha voglia di rimetterla in ordine e si mordicchia un labbro, mentre sente gli occhi pizzicare fastidiosamente e si affretta a chiuderli per arginare il danno.
- Non ricordo nemmeno questo. – mente ancora. José, però, stavolta non chiede altro.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Mano fratturata e bisogno di parlare.
Note: Zlatan è un idiota e il colpo alla mano se l’è preso davvero. Non so se sperare che se la sia fratturata o no u.u *è un’innamorata crudele* Comunque delle donne non avevamo ancora parlato, mi è sembrato giusto porre rimedio XD
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I Can't Even Convince Myself


Zlatan guarda la propria stessa mano come fosse una specie di corpo estraneo, un impianto alieno attaccato al polso di cui non sa bene cosa farsi. La fasciatura che la tiene stretta è così enorme da essere grande quasi quanto la sua testa. Gli dà i brividi, non ha idea di come possa essere successo – una botta, okay, ma quante ne ha prese, e anche di peggiori? – e non sa come giustificherà il tutto a Guardiola, quando lo conoscerà. Sarà costretto a giocare con quella roba addosso per chissà quanto tempo e non sarà nel pieno delle sue condizioni – perché fa male, perché lo ingombra, perché quando gioca lui il suo corpo lo usa tutto, non solo le gambe e i piedi, e quindi una mano in queste condizioni può essere un impaccio anche se non deve usarla per toccare la palla.
José entra in camera sua. Ed è un momento molto più assurdo di quanto entrambi non potessero pensare.
Allo stato attuale dei fatti, non parlano da una settimana. Che non vuol dire “non abbiamo discusso di niente, ma ovviamente ci siamo salutati e scambiati qualche frase di circostanza”, no. Vuol dire che nessuna parola uscita dalle labbra di Zlatan negli ultimi sette giorni è stata rivolta direttamente a José, così come nessuna parola uscita dalle labbra di José nello stesso periodo di tempo è stata rivolta direttamente a Zlatan.
Il cambiamento è stato repentino e innaturale, e d’altronde non poteva essere diversamente per due come loro, abituati a parlare così tanto e così spesso, anche se mai delle cose veramente importanti. José lo fissa con aria allucinata, lo guarda in viso, poi guarda la fasciatura, infine torna a cercare i suoi occhi e schiude le labbra, incerto.
Come spieghi una cosa simile? – sbotta, indicandolo tutto con un ampio cenno del braccio. Sembra quasi che voglia chiedergli di spiegare se stesso, e Zlatan non è sicuro che ci riuscirebbe davvero. La frattura, per quanto assurda, è concettualmente più semplice, perciò è su quella che si concentra.
- Ho preso un colpo. – scolla, sul volto la stessa espressione sconcertata di José, ed è davvero ridicolo che si stiano guardando in questo modo, adesso, come non si aspettassero più di vedersi e quello fosse stato un incontro del tutto fortuito.
- Ti pare il momento di fratturarti una mano, Zlatan? – chiede ancora il mister, restando lì sulla soglia, una mano sulla porta e l’altra sullo stipite, - No, dico, ti pare proprio il caso? In questo momento?
Zlatan sospira. José, quand’è sconvolto, si lancia in recriminazioni che hanno dell’allucinante.
- Non è che l’abbia chiesto, sai. – borbotta infastidito. José entra in camera e si chiude la porta alle spalle, restando comunque a distanza, come avesse paura di avvicinarsi.
- Potevi stare più attento! – insiste, - Ora io che me ne faccio di te? Non puoi allenarti, non so che cosa stai ancora a fare qui e non ho idea di cosa farti fare mentre aspetti la benedizione divina per schiodare il culo! Bella storia, davvero.
Zlatan, offeso, distoglie lo sguardo, aggrottando le sopracciglia.
- Non vedi l’ora. – constata tagliente, a bassa voce, e José incrocia le braccia sul petto.
- Esatto, Zlatan, non vedo l’ora. – conferma in un ringhio, - Non ne posso più di questa situazione ridicola. Nessuno ne può più, di questa situazione ridicola, ma io in particolare.
Zlatan non torna a guardarlo, perché ha la certezza che non riuscirebbe a reggere l’intensità dei suoi occhi.
- Non posso farci niente. – sibila frustrato, - Helena è stata chiara.
- Helena dovevi lasciarla.
- Come tu dovevi lasciare Matilde.
José sobbalza, colto in fallo.
- Ci ho provato. – grugnisce, - Lo sai. Ma c’è stato troppo casino, ho dovuto smentire. Ti avevo anche detto-
- Che ci avresti riprovato presto. – completa per lui Zlatan, tornando finalmente a guardarlo, - Ma siamo già a luglio, José, e se devo andarmene devo farlo adesso. Non potrò più, quando sarà cominciato il campionato, almeno non fino all’inverno, ed Helena non è disposta ad aspettare. E coi bambini di mezzo-
- Anche io ho dei figli.
- Sono grandi. – contesta lui, - Non è la stessa cosa.
José ghigna deluso, muovendo qualche passo all’interno della stanza e passandosi una mano fra i capelli.
- Povero Zlatan. – commenta sarcastico, - Tutte le sfortune.
- E tu sei stata la peggiore. – annuisce lo svedese, tirandosi in piedi e sospirando profondamente, appendendo la mano sana ad un fianco magro e appuntito. Poi sorride appena, sollevando solo un angolo della bocca, - Mi era mancato litigare.
- Ci credo. – scrolla le spalle José, apparentemente disinteressato, - Non facevamo altro.
- Non è esatto. – corregge Zlatan, il sorriso che si allarga appena, - Il resto mi manca di più.
- Il resto non possiamo averlo. – lo ferma José, tornando a guardarlo e facendolo con un’intensità tutta speciale, come a dirgli che però è vero, manca anche a lui. – Quindi meglio non pensarci, ti pare?
Zlatan ci riflette su davvero, per qualche secondo.
- No, non mi pare. Credo che continuerò a pensarci, è più forte di me.
José sorride e scuote il capo in un sospiro stanco.
- È più forte di te. – ripete divertito, - E tu lo sei di me. Pensarci non mi aiuterebbe.
Zlatan annuisce, un po’ deluso.
- Quindi cosa? – chiede, - Mi butti fuori dal ritiro? Mi rimandi in Europa a calci?
- Questo non posso farlo. – sospira ancora José, - E non voglio nemmeno. Il primo aereo che prenderai, lo prenderai da qui, e sarà quello che ti porterà a Barcellona. – il suo sguardo si perde sui disegni della carta da parati che ricopre le pareti, mentre continua a parlare, - Sarà l’unica cosa alla quale ti consegnerò. – aggiunge, apparentemente sovrappensiero, - Non Helena, Barcellona.
- Helena sarà lì. – gli fa notare Zlatan, senza il minimo tatto, - Come Matilde sarà a Milano quando ci tornerai tu.
José solleva lo sguardo e gli sorride, annuendo lentamente.
- E saremo tutti ai nostri posti.
Zlatan si morde un labbro perché è quasi certo del contrario. È quasi certo che, quando lui sarà a Barcellona e José sarà a Milano, si sentiranno proprio nei posti più sbagliati in assoluto, come mai prima di quel momento. Ma questo non può dirglielo, e se José ha ragione – se davvero Zlatan è più forte di lui – allora è suo dovere esserlo abbastanza per entrambi. Perché è il suo numero dieci, perché è la sua punta di diamante, perché è il suo amore, perché è il suo amante, perché lui e José, e questo è sufficiente.
Annuisce, tirando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Lo osserva andare via salutandolo con un cenno del capo. Di tutto ciò che è per lui, quando José va via, resta solo un ex-giocatore. Ed è stato abbastanza forte da accettarlo senza cominciare a odiarsi. È una grande vittoria, può andarne quasi orgoglioso. Ed è certo che almeno José lo sia.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- "Cosa ti mancherebbe di me?"
Note: Mi affretto a postare, sperando di fare in tempo, perché per come stanno girando le cose ai piani alti molto presto avremo bisogno di un po’ di consolazione, e ci terrei a fare la mia parte come l’ho fatta nei giorni scorsi ^^ Ieri notte mio fratello è tornato alle quattro del mattino, io avevo José e Zlatan nella testa e ho deciso di lasciarli parlare. Per l’ultima volta su questo argomento – o almeno spero. Quanto meno, le mie ultime shot dimostrano ampiamente che è possibile raccontare lo stesso fatto in dodicimila modi diversi senza mai ripetersi una volta XD
Grazie, Zlatan. Comunque vada.
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Missing Moment


- Le tue gambe. – risponde José, lasciandogli scivolare una mano in una carezza distratta lungo la coscia.
- Le mie gambe? – ride Zlatan, scacciando via la mano per il solletico, - Come sarebbe a dire?
- Sì. – insiste lui, perfettamente a proprio agio, quel sorriso perfetto che ancora increspa le labbra, - Il modo in cui le muovi, il modo in cui le pieghi, e non sto parlando di sesso, in questo momento, quindi togliti quel sorrisino del cazzo dalla faccia, grazie.
- Scusa, scusa! – sghignazza, tirandogli un mezzo calcio dopo essersi liberato dal lenzuolo che gli si è attorcigliato attorno ai piedi, - Era fraintendibile! Le mie gambe, quindi.
- Sì, anche il modo in cui le sollevi quando fai stretching. O come ti allunghi in maniera assurda quando devi recuperare una palla, sei ipnotico quando lo fai.
- Il che vuol dire che vorresti mettermi le mani addosso anche mentre gioco. – conclude, roteando gli occhi in una palese quanto mal riuscita simulazione di fastidio, - Questo perché non si parlava di sesso.
- Infatti non ne sto parlando, sto cercando di spiegarti come sei quando giochi a calcio. – insiste José, serissimo.
- E come sono quando gioco a calcio? – chiede Zlatan, curioso, e José si prende un secondo, prima di rispondere.
- Bello. – dice infine, e Zlatan ride.
- E allora vedi che c’entrava il sesso?
- Mi alzo e me ne vado, sai?
- Sì, certo, certo. – ride ancora una volta Zlatan, sistemandosi il cuscino dietro la nuca, - E poi?
- I tuoi capelli. – prosegue José, lasciandovi scorrere due dita in mezzo, catturandone una ciocca ancora un po’ umida di sudore.
- I miei capelli. – ripete Zlatan, stavolta anche più stupito di prima, - Non piacciono a nessuno!
- Be’, a me sì. – risponde José con una scrollatina di spalle.
- E perché?
- Perché sono ribelli. Mi piacciono le cose indomabili.
- Perché ti piace essere l’unico a domarle.
- Anche. – ammette con un sorriso sardonico, - Comunque, i tuoi capelli. Sia quando li bagni per tenerli a posto, sia quando la smetti di provarci e li lasci andare dove vogliono.
- E soprattutto quando ti fanno il solletico mentre mi baci.
- Non stavo parlando di sesso neanche stavolta.
- Da come ti lamenti sembra tanto per cominciare che non ne parli mai, e tanto per continuare che non ti piaccia farlo.
- E tanto per concludere che tu sia un tantinello fissato, eh? – lo prende in giro, pizzicandogli un fianco, - E poi la tua voce.
- Ma parlo poco.
- Parli anche troppo.
- Detto da te, scusami, ma mi fa solo ridere.
- Io parlo il giusto.
- Allora il tuo giusto è un giusto enorme.
- Sei lagnoso, te l’ha mai detto nessuno? – sbotta José, stendendosi al suo fianco.
- Praticamente chiunque. – sospira Zlatan, tirando su i capelli dietro la nuca, - È per questo che me ne vado.
Rimangono in silenzio per un po’. Molto a lungo, in realtà, tanto che di quel silenzio hanno modo di sentire ogni singola molecola poggiarsi pesante sui loro corpi, sul materasso, sullo spazio che c’è fra loro e che sentirebbero il bisogno di annullare coprendolo con la loro stessa vicinanza – e potrebbero farlo, potrebbero davvero se solo il silenzio non fosse anche dannatamente ingombrante. Perciò restano fermi, e zitti, anche, fino a quando non è José a riprendere la parola, ignorando tutto quello che è stato detto negli ultimi minuti e tornando alla domanda di Zlatan che ha aperto la discussione: cosa ti mancherebbe di me?
- Il tuo culo vale?
Gli arriva uno scappellotto sulla fronte tanto forte che scatta a sedere, massaggiandosi con forza il punto dolente.
- Ahi! – si lamenta, lanciando a Zlatan un’occhiataccia offesa, - Perché?
- Perché avevi detto che non stavi parlando di sesso!
- Be’, ho cambiato idea! – sbotta, tornando a distendersi, - Vedi che roba. Se spunta un livido come-
- Se avessi voluto che ti spuntasse un livido, ti avrei dato un cazzotto sul naso, ti pare?
- …quanta delicatezza. – sospira, rigirandosi su un fianco e guardandolo attentamente. – Comunque, soddisfatto? Ho detto abbastanza?
Zlatan sospira a propria volta, imitandolo nel movimento per poterlo guardare dritto negli occhi.
- Tu dici sempre un sacco di cose. – borbotta. – E mai l’unica giusta.
José ride a bassa voce, scuotendo il capo. Sa già che non glielo dirà neanche stavolta, non ora che la sua partenza è così probabile, così vicina. Sa che forse a Zlatan basterebbe sentirselo dire, anche solo una volta, per cambiare radicalmente tutto il piano di vita che ha sviluppato nelle ultime settimane, da quando il Barça è tornato a farsi sentire, ma José non può trattenerlo a Milano usando se stesso come ancora, non sarebbe giusto. Se Zlatan resterà all’Inter sarà perché è all’Inter che vuole stare, non perché l’Inter è il posto in cui sta anche lui.
- Dimmi solo se domani col Chelsea vuoi giocare. – chiede, invece di rispondere. E chiede senza domandare, come d’altronde ha fatto Zlatan poco prima. La loro è una relazione di domande mancate. E, visto che Zlatan non sente il bisogno di dire “sì” ad alta voce, anche di risposte non dette.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst (lieve), Flashfic, Slash.
- Nella folla di inutili cose dette non detta da dire e da tacere, l'unica cosa importante.
Note: A questo giro è veramente colpa del Def, eh. Lui ha fatto il banner e ha chiesto (retoricamente, ok) “qualcuno vuole scriverci su?”, ed io non potevo certo lasciarmi mancare l’esorcismo del giorno. *piange* Zlatan, resta ;_; Per piacere ;_;
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The Last Goodbye


- Non ce l’ho con te, sai?
Sono le prime parole di José da quando abbiamo finito di scopare. Lui è uno che parla sempre un sacco, una cosa che potrà essere fastidiosa per molti ma non lo è mai stata per me, perché io sono uno che invece parla poco – ed ecco perché, in genere, quando lo faccio combino danni. Comunque sì, parla tanto, parla tanto anche durante il sesso, sente questo bisogno assurdo di dirti tutto quello che gli passa per la testa. Credo sia perché è innamorato del suono delle sue parole, ed anche perché è convinto che qualsiasi cosa pensi abbia un grande valore. José si piace molto, in questo siamo incredibilmente simili – che poi è il motivo per cui staremo decisamente meglio quando a separarci saranno più di mille chilometri. E insomma, fino a dieci minuti fa mi stava riempiendo le orecchie di roba ma non era roba esattamente ripetibile. Adesso invece, ora che è tranquillo e respira e tutto, mi dice questo.
Mi rigiro sul materasso, piantando i gomiti sul cuscino e guardandolo dall’alto. Lui resta disteso, un braccio dietro la nuca e l’altro sotto il mio corpo.
- No? – chiedo dubbioso, inarcando un sopracciglio. Lui scuote il capo.
- Sei un giocatore, non ho mai pensato che saresti rimasto per sempre. Queste cose un allenatore non può pensarle, sono prerogativa dei tifosi. – sospira, sistemandosi meglio fra le lenzuola, - E poi nemmeno io resterò per sempre. Non posso avercela con te per questo.
Tremo appena, sollevandomi per dargli modo di liberarsi dal mio peso, ma lui mi tira di nuovo giù, avvolgendo il braccio attorno alla mia vita.
- Ce l’hai con me per qualche altro motivo? – domando incerto, ravviandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio prima che cominci a pizzicarmi il naso.
- Sì. – ride lui, sollevando una mano e ripetendo il mio stesso gesto con un’altra ciocca e un altro orecchio, - Perché mi stai mollando. Mi sembra un motivo sufficiente.
Scendo a sfiorargli la fronte con la mia, non vorrei che i nostri nasi si sfregassero l’uno contro l’altro perché è una cosa da liceali idioti, ma d’altronde il mio naso è quello che è, non posso chiedergli di accorciarsi per evitare di toccare il suo.
- Sei stato il più grande in assoluto. – gli sussurro sulle labbra, - Posso andarmene, ma non ti dimenticherò.
Mi sorride addosso, baciandomi lievemente, chiudendo gli occhi.
- Lo so. – annuisce attirandomi nuovamente a sé. E poi ricomincia a dire cose irripetibili.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan, accenni miiiiinimi di Davide/Mario, se proprio li si vuole vedere.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, (Serie di) Drabble, Slash.
- Los Angeles, ritiro della squadra nerazzurra negli Stati Uniti d'America. Giunge una notizia inaspettata, e questo è ciò che ne consegue.
Note: È palese che io mi diverto a farmi del maleeeee XD *cerca di recuperare una qualche compostezza* Uhm, dunque. Serie di drabble che in realtà tutte assieme formano una oneshot (pure piuttosto corposa) ispirata ognuna ad un proverbio fra quelli forniti dal Challenge Speciale #5 indetto da It100. Il punto di tutto questo è che probabilmente Zlatan se ne andrà, d’accordo?, e io volevo – ancora – scriverci su. Ho della tristezza da buttare fuori a riguardo, quindi volevo farlo. Poi, fra capo e collo, m’è arrivata la notizia del probabile passaggio di Eto’o al Chelsea, e allora ho cominciato a vedere rosa (la vecchia zia sarebbe qualche dirigente di là XD). Motivo per il quale ho deciso che questa è una fan fiction e me ne sbatto se alla fine non andrà davvero così. È così che vorrei andasse, e le fan fiction esistono per questo. E poi conto molto sui miei poteri di P(l)izia. *accadiaccadiaccadi* ç_ç
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After Wisdom Comes Wit


Al povero mancano tante cose, all'avaro tutte.
Zlatan si guarda intorno – l’immenso campetto dell’UCLA, i compagni intorno che saltano, corrono e fanno stretching, José nel mezzo che impartisce ordini, somministra consigli, stila elenchi e compila programmi – e poi pensa a casa – Milano, Milano sa ancora di casa, la villa, Helena, i bambini, una città che si prostra ai suoi piedi, i tifosi che lo amano ed è amore vero, i tifosi che lo odiano ed è amore anche quello – e poi pensa alla Champions, lui la voleva in nerazzurro, e pensa al campionato, vincerne un altro sarebbe epico – e pensa alla faccia che farebbe José se lui gli dicesse “voglio restare, fammi restare”. E ci pensa, e ci pensa. E non è abbastanza. Non è abbastanza.

Il difficile sta nel cominciare.
La mensa ormai s’è quasi svuotata del tutto. Le signore delle pulizie passano pezze umide sui tavoli più distanti dal loro e l’unico suono che si sente è quello tintinnante delle stoviglie che vengono accatastate e portate via poco a poco. E la forchetta di Zlatan che ancora gioca a rincorrere le patate al forno nel suo piatto.
- Non dovremmo mangiare dell’insalata, con questo caldo? – chiede annoiato, lasciando rotolare una patata fino al bordo del piatto, - A me neanche piacciono le patate al forno.
José, seduto al suo fianco, consulta il proprio taccuino, e quando parla lo fa senza sollevare gli occhi su di lui.
- Hai lamentele, Zlatan? – chiede con un pizzico di fastidio, - Se sono serie, dimmi pure.
Zlatan schiude le labbra e quasi lo dice. Quasi lo dice davvero. Ma alla fine non ci riesce, e José, dopo qualche secondo, si alza e se ne va.

Il sonno della ragione genera mostri.
- Non è per farmi i fatti tuoi… - mormora appena Davide, mordicchiandosi distrattamente una pellicina del pollice, gli occhi fissi sul pallone che rotola pigro da un piede all’altro, - È solo che non capisco perché dovresti volerlo fare. Voglio dire, hai tutto. Le persone… - azzarda incerto, - intendo, già il fatto che pagherebbero così tanto per averti dovrebbe lusingarti abbastanza. Perché hai bisogno anche di andartene?
- Non è ancora deciso. – scolla lui, senza guardarlo.
- E allora! – sorride entusiasta Davide, chinandosi a recuperare la palla e stringendola fra le braccia in un gesto infantile, - È tutto a posto, no? Resta e basta!
Zlatan lo guarda. Aggrotta le sopracciglia, tende le labbra in un sorriso sarcastico e i suoi lineamenti diventano in un colpo se possibile ancora più sgradevoli.
- Hai ragione, Dà, sai? – sospira, e gli occhi di Davide brillano. Solo per un attimo. – Non farti i fatti miei.

La miglior vendetta è il perdono.
C’è una sola persona alla quale Zlatan sente il dovere di chiedere scusa, e quella persona è Mario. Non ha tenuto il conto delle numerose cose che gli ha insegnato nel corso dell’anno scorso e di quello in atto, ma è quasi sicuro che da qualche parte, purtroppo, ci sia stato anche un qualche discorso circa l’attaccamento alla maglia e quanto sia importante avere cura non tanto dei rapporti con la tifoseria quanto di quelli nello spogliatoio. È un discorso che sa di aver fatto e sa anche perché l’ha fatto – perché gli piacerebbe vederlo importante, quel ragazzino, un giorno, ed è una cosa che all’Inter possono garantirgli, è per questo che gli conviene restare – ma al momento non può che pentirsene, per certi versi.
Si avvicina a Mario che lui sta palleggiando distrattamente – testa testa ginocchio testa – e lo chiama a bassa voce. Lui risponde con un mezzo grugnito, senza guardarlo, continuando a palleggiare.
- Senti… - mormora Zlatan, grattandosi nervosamente la fronte, - Mi dispiace per tutto il casino che sta succedendo.
Mario si ferma, posa in terra la palla e sospira.
- Fa niente. – sorride appena, - È tutto ok. – e ricomincia a palleggiare.

Chi semina vento raccoglie tempesta.
Le urla di Helena, dall’altro lato dell’oceano e della cornetta, sono tanto forti che sono perfettamente comprensibili anche se Zlatan cerca di schiacciarsi il telefono contro l’orecchio con tutta la forza che possiede, sperando che il contatto con la sua pelle e la tenda di capelli che vi lascia scivolare addosso siano abbastanza per arginare quell’incredibile schiamazzo.
Non è abbastanza, a giudicare dalle risatine dei più giovani, che si allenano saltellando sul posto all’ombra di una pensilina e non hanno la più pallida idea di quanto tutto ciò che sta accadendo sia devastante.
- Io non intendo muovermi ancora, Zlatan! – urla Helena, furibonda, - Io ci sto bene qua! I bambini stanno bene qua! Cristo santo! Zlatan! – e la conversazione si interrompe che Zlatan non ha avuto neanche il tempo di parlare, di dirle qualcosa di Barcellona, del bel tempo che c’è sempre lì e tutto il resto. Nelle sue orecchie risuona il monotono tuu tuu della linea libera, e Zlatan non può che riporre il telefono nella borsa, restando un po’ fermo all’ombra a massaggiarsi le tempie, prima di tornare dagli altri a cercare di fare finta che sia ancora tutto perfettamente a posto.

Di buone intenzioni è lastricato l'inferno.
- Io volevo solo- - e la voce gli si spezza in gola, non sa nemmeno perché. Javier lo guarda con una certa curiosità, Zlatan non ha la minima idea del motivo che l’abbia spinto a parlare proprio con lui di tutto quello che gli sta girando per la testa. Forse perché Javi è sempre stato un punto di riferimento, una presenza rassicurante, una sorta di fratello maggiore cui chiedere consiglio nei momenti più confusi. Per lui non è mai stato niente del genere, Zlatan ce l’ha sempre fatta da solo, ovviamente – tutto da solo, sempre da solo – e non ha mai sentito bisogno di riferimenti né di rassicurazioni né tantomeno di consigli, ma in questo momento, il primo veramente confuso della sua intera esistenza, in questo momento sì, ne sente il bisogno, e forse è per questo che ne sta parlando con lui. – Credimi. – aggiunge in un lamento strozzato, - Non volevo che le cose andassero così.
Javier si allunga a tirargli una pacca contro la spalla.
- Deciderai per il meglio, Ibra. – sorride rassicurante. Zlatan non ne è così certo. Però spera che il capitano abbia ragione.

Buon sangue non mente.
- E poi zio Mino mi ha portato un pallone nuovo! – racconta Max, la mente che va più veloce della lingua, attorcigliandosi su se stesso mentre cerca di dire a papà tutto tutto tutto quello che ha fatto nella giornata di oggi, - E poi Vinny ha pianto perché voleva il pallone e io gliel’ho dato ma lui è caduto subito. Pa’, secondo me è scemo, un poco!
- È solo piccolo! – ride Zlatan, mentre la risata di Helena gli fa eco, un po’ attutita, e lui la sente appena.
- Comunque siamo stati al parco! – continua Max, e Zlatan può quasi vederlo scrollare le spalle con aria disinteressata prima di entusiasmarsi di nuovo pensando agli alberi e alle fontane e alla palla che rotola fra le aiuole, - È un parco bellissimo, è nuovo! Quando torni a casa ti ci porto, te lo faccio vedere! E anche la casa è un sacco bella, devi vederla perché mamma ha ri-… ha ri-…
- Ha ridipinto. – suggerisce Helena, incredibilmente lontana.
- Ha ridipinto! – conclude Maximilian, una risata nella voce.
Zlatan sorride e non sa se le vedrà mai, tutte queste cose di cui Max gli parla con tanta gioia. Il sangue buono, è evidente, dev’essere quello di Helena.

Il mattino ha l'oro in bocca.
Zlatan si tira in piedi, il sole entra attraverso le tende tirate disturbandogli gli occhi e lui li stropiccia, sbadigliando rumorosamente. Il cellulare squilla, rompendo il silenzio che ancora grava, pesantissimo, tutto intorno a lui. Si allunga a recuperarlo, stiracchiandosi pigramente e schiacciando il tasto di accettazione della chiamata senza neanche guardare il nome sul display.
- Sei in ritardo. – dice la voce di José, vagamente roca e resa fastidiosamente metallica dal cellulare, - Datti una mossa, non hai sentito le belle notizie?
La chiamata si interrompe, Zlatan guarda il cellulare con una certa curiosità e poi nota il segnale di un messaggio non letto. Smanetta un po’ sulla tastiera, legge il messaggio, rabbrividisce. Mino dice che l’Inter e il Barça hanno trovato un accordo. Improvvisamente, l’idea di uscire e andare ad allenarsi sembra assurda.
 Il più conosce il meno.
L’asciugamano che gli piomba sulla testa all’improvviso è umido e fresco, e per questo Zlatan ringrazia una buona quantità di dei – tanto la sua religione dovrebbe comprenderne un bel po’, o almeno crede, oltre quel dio che è l’unico che dovrebbe poterlo giudicare, anche se Zlatan, molto spesso, non gli lascia né quest’onore né quest’onere.
- Fa caldo, mh? – chiede José, sedendoglisi accanto e giocando distrattamente con quel suo dannato onnipresente taccuino per gli appunti, - Dovresti bere qualcosa.
- Sono a posto così. – borbotta Zlatan, burbero, bagnandosi il viso con l’asciugamano. – Grazie per questo.
José scrolla le spalle.
- Nulla. – sorride, - Sei stressato?
Zlatan ride amaramente.
- Non che a qualcuno importi. – sbotta sarcastico.
José ride a propria volta, decisamente meno cattivo.
- Be’, è vero. – ammette, - Barcellona non è poi tanto bella, sai?
- Ci sei stato?
- Sono portoghese! – ride ancora José, e Zlatan non può che ridere assieme a lui.
- Non è così bella, dici?
José scuote il capo.
- C’è tutto. Ma non è detto che questo la renda migliore del resto del mondo.

La fame è il miglior condimento.
Se fosse solo una questione di soldi, Zlatan al Barça non ci andrebbe mai. Non possono dargli più di quanto gli dia Moratti – nessuno può farlo, forse lui stesso sa di non valerli nemmeno, tutti i soldi che riceve – e per la verità non possono neanche offrirgli condizioni di gioco ottimali. La tifoseria lì già lo odia, parlano di lui come di un mercenario – e lui probabilmente lo è davvero, perciò non ha che smentire. Se “mercenario” è il nuovo nome di chi cerca il meglio per sé stesso, allora d’accordo, è un mercenario. Credeva di essere solo un bastardo egoista ed egocentrico, ma aggiungere l’ennesimo aggettivo a quelli già esistenti e attaccati al suo nome senza possibilità di scampo non sarà poi così traumatico.
Il punto del Barcellona forse è proprio quello. L’Inter non può dargli altro, oltre quello che già gli dà. Il Barça sì, però. Non può dargli di più, ma altro, oh quello è sicuro. E lui ormai ne è quasi convinto. Ne è quasi convinto davvero. È altro ciò che vuole. È altro ciò che vuole?

Mai tardò chi venne.
- Oh, Cristo.
Il sospiro di Marco è un po’ esasperato e un po’ sollevato, quando Zlatan entra in palestra, stringendo i manici del borsone fra le dita di una mano, mentre il borsone stesso pende dietro la sua schiena, ondeggiando ad ogni passo.
- Che c’è? – chiede Zlatan, poggiando il borsone per terra e prendendo dalle mani di un assistente il suo programma di oggi, - Che hai?
Marco si siede su un tappetino con uno sbuffo spazientito, riprendendo quasi subito coi propri addominali.
- Sei sempre in ritardo, ultimamente. – gli fa notare in un mezzo ringhio affaticato.
- Dormo male la notte. – risponde stancamente Zlatan, cominciando a sollevare pesi con le gambe.
Marco ride appena, fermandosi a guardarlo da seduto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le braccia pendenti nello spazio vuoto fra le gambe.
- Anche se ci preoccupiamo, è bello vederti arrivare, poi. – commenta con leggerezza, prima di riprendere ad allenarsi.

Nel fiume che grida puoi passare sicuro.
Quando si trova imprigionato fra le braccia di José e il muro, Zlatan non può dire di non esserselo aspettato. Anzi, probabilmente è vero il contrario – che non solo se lo aspettava, ma lo aspettava e basta, come una specie di giudizio universale. Quello di quel dio lì. José dovrebbe venire dopo, qualsiasi sia la divinità di cui si stia parlando, ma forse non è vero. Forse José viene prima. Prima di… prima e basta.
- Se vuoi farlo, - gli sibila freddo sulle labbra, - è questo il momento. Quando se lo aspettano. Non posso permetterti di giocare a pallone con tutto, Zlatan, perciò se vuoi andartene fallo adesso. Non fra due mesi, non fra un anno, non la prossima volta che ti girano le palle. Adesso puoi farlo, hai il modo, hai la scusa, fallo, se devi.
Zlatan deglutisce incerto, gli occhi fissi nei suoi e brividi di paura a rincorrersi confusamente sulla sua pelle.
- …non so ancora se è quello che voglio.
José lo lascia andare senza toccarlo ancora, ravviandosi i capelli su una tempia.
- Be’, scoprilo in fretta, stronzo.

A combatter con il fango, che si vinca o che si perda, sempre ci si infanga.
- È che comunque, se vuoi il mio parere, ormai il danno è fatto.
Zlatan sospira pesantemente, incrociando le braccia sul petto mentre cerca di lasciare che i muscoli si rilassino nel bagno di acqua e ghiaccio dentro la piscinetta ai margini del campo.
- Non te l’ho chiesto, Deki. – borbotta scontento, mentre si massaggia le cosce per impedire che s’intorpidiscano.
- Sì, lo so. – risponde lui, vagamente offeso, - Stavo solo cercando di parlarne, visto che non ne parli con nessuno.
- Ma che differenza vuoi che faccia se ne parlo o meno?! – scatta Zlatan, irritato, - Qualsiasi cosa io possa dire adesso, non conta un cazzo! Nessuno vuole davvero ascoltarmi, e io probabilmente non ho nulla da dire, quello che doveva essere fatto magari è già stato fatto, proprio mentre noi stiamo qui a discutere del niente, ti rendi conto?! Cosa dovrei dirti?! Il danno è fatto! Okay! Hai ragione! E ora vaffanculo!
Abbandona la piscina senza una parola di più, e Deki, vagamente stupito ma neanche poi così tanto, invece resta lì.

Chi si è scottato con l'acqua calda ha paura anche dell'acqua fredda.
- Dà. – lo chiama a bassa voce Zlatan, quando se lo vede passare davanti, fresco di doccia e accompagnato dall’onnipresente Mario, sempre al suo fianco nemmeno fosse una specie di cavalier servente. In realtà, Zlatan lo sa, non sono davvero sempre appiccicati. Lo sono ogni volta che c’è nei paraggi lui, però, e questo non può fare a meno di fargli pensare che i due ragazzini abbiano stretto una sorta di tacito patto per cui cercano di evitarsi incontri ravvicinanti di tipo non meglio identificato, per risparmiare a tutti silenzi imbarazzanti e momenti eccessivamente dolorosi. Zlatan non saprebbe dire se questo sia un atteggiamento adulto o infantile. Di solito giudica gli atteggiamenti degli altri usando i propri come metro, ma sta cominciando a pensare di sbagliarsi, e di tanto anche.
Davide non si volta a guardarlo, lui e Mario stanno parlando, e neanche stavolta Zlatan può chiedergli scusa per come s’è comportato con lui qualche giorno prima. Poco da fare. Forse ha ragione Deki, ormai il danno è fatto davvero.

Con le mani di un altro è facile toccare il fuoco.
La risata di Maxwell, al telefono, suona davvero allegra e felice e soddisfatta.
- E quindi arrivi anche tu! – commenta divertito, - Ma sai che non ci speravo? Con tutta la storia del dieci sembrava una follia…
- Sì, eh? – annuisce Zlatan, appoggiandosi esausto alla parete. Non ne può più di sentire parlare di questa cosa. Non ne può più dell’Inter, non ne può più del Barcellona, non ne può più del calcio e non ne può già più nemmeno del numero dieci. Mai ricevute tante responsabilità in così poco tempo. E dire che l’anno prima si sentiva disposto perfino a diventare capitano.
Si chiede se sia davvero cambiato tanto, o se sia cambiato il mondo intorno a lui. Maxwell ride ancora, da quella che forse presto diventerà la sua nuova casa.
- Ehi, Max. – sussurra piano Zlatan, - Com’è lì, bello?
- Bellissimo. – conferma subito lui, - C’è un clima di aspettativa fantastico. Dovresti venire e vedere di persona.
Zlatan ride a propria volta, dell’eccitazione di cui Maxwell parla non riesce a provare nemmeno una briciola.

Errare è umano, perseverare è diabolico.
- Tu continui a non capire il punto.
- Il punto è che tu mi attacchi senza un cazzo di motivo.
- Il punto è che io ti attacco con un motivo ben preciso e tu, forse perché sei stupido, forse perché sei troppo impegnato a pretendere, ioioio! e tutto il resto, Zlatan, ti rifiuti di capirlo!
Zlatan lo guarda, un ringhio inespresso fra le labbra, le sopracciglia aggrottate in un’espressione di furia che in genere gli si vede addosso solo quando gioca e le cose non vanno come dovrebbero.
José lo fronteggia senza fare una piega. A Zlatan viene voglia di odiarlo, perché sembra a suo agio anche se non lo è, mentre lui non riesce a non sentirsi a disagio, anche se non dovrebbe. Forse è una situazione troppo complicata, perché lui possa gestirla tutto da solo lì in America. Mino saprebbe come aiutarlo. O forse peggiorerebbe solo le cose.
- Ho bisogno di te. – dice José, duro, - Prendi questa cazzo di frase nel senso che preferisci, è comunque quello giusto. Poi, fa’ ciò che credi.

Taci tu per primo ciò che vuoi sia taciuto da altri.
Zlatan ha ancora gli occhi chiusi e sente ancora nelle orecchie il respiro un po’ affaticato di José. È piacevole, è così piacevole che, se si concentra solo su quello, gli sembra di poter vivere solo di quel suono. Pensa a Barcellona, pensa che lì questo suono non c’è, e si chiede come riuscirebbe a sopravvivere senza. Ci sono momenti in cui gli sembra una prospettiva inaccettabile, ce ne sono altri in cui invece la voglia di partire è così forte che gli pizzica la pelle.
Quando torna a guardare il mondo, la vista un po’ appannata perché ha tenuto le palpebre serrate troppo a lungo e con troppa forza, José è lì al suo fianco che lo guarda, privo di espressione. È così normale, da parte sua, non lasciare affiorare al viso nulla di ciò che lo sconvolge dentro, che Zlatan ha quasi voglia di sorridere.
Una delle sue mani sale ad accarezzargli uno zigomo, scendendo poi lungo la mascella e fermandosi sul collo, per attirarlo in un bacio umido e stanco.
- Io- - prova a parlare Zlatan, ma José lo ferma.
- Non dirlo. – sospira, sollevandosi in piedi e cercando i propri vestiti in giro per la stanza, - Rendi tutto più facile a entrambi.

In amore e in guerra tutto è lecito.
- Senti, io ci ho pensato, e- - si interrompe quando lo vede parlare al telefono, dopo aver praticamente sfondato la porta di camera sua per entrare senza permesso.
- Aha, - annuisce José, chiunque sia la persona con la quale sta parlando con tanta serietà, - Yeah, thank you. It’s always a pleasure. Bye.
Zlatan inarca un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Con chi parlavi? – chiede dubbioso, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Una vecchia zia. – risponde José con una risatina evasiva.
In inglese? – insiste Zlatan, arricciando le labbra in un mezzo broncio.
- Zia poliglotta. – ride ancora José, - Ti va un caffè?
- No, mi va-
- Un bacio. – e poi José lo zittisce. E sì, un bacio gli va, perciò sta bene così.

La goccia scava la pietra.
Non è che sappia esattamente come tutto ciò sia accaduto. Non è che nemmeno voglia starci granché a pensare, in realtà. Ha sempre pensato che la vita fosse un percorso unitario, una cosa che cominci e poi manovri piano piano, mani sempre sul timone, per indirizzarla dove vuoi. Insomma, una cosa in cui tutto ha una conseguenza, ogni cosa è concatenata, non c’è niente che sbavi.
Si trova a ricredersi, e deve per forza, perché in questo momento della sua esistenza è così palese che la fina è fatta di istanti casuali che non potrebbe contrastare quest’asserto neanche volendo. Ci sono cose che decisamente non puoi prevedere, ci sono cose che non puoi manovrare, ci sono cose che non si lasciano manovrare, punto.
- Dici davvero? – chiede Helena al telefono, una punta di sconcerto nella voce. Forse davvero non se l’aspettava. – Zlatan, ne sei sicuro?
Lui annuisce. Poi ricorda che lei non può vederlo, e quindi parla.
- Sì.

Non puoi vedere il bosco se sei tra gli alberi.
Mino annuisce, Zlatan lo sa perché lo sente mormorare tutta una serie di “mh-hm” che sono tipici suoi, quando ti sta ascoltando ma non ti sta davvero dando attenzione, visto che ha tutto un altro milione di importantissime cose da fare e tu sei esattamente l’ultimo della sua lista, ed anzi si sta chiedendo cosa esattamente sia questo ronzio tremendo che lo infastidisce, interrompendo i suoi prodigiosi calcoli.
- Di’, mi stai ascoltando o no? – borbotta Zlatan, infastidito, picchiettando con la punta del piede sul parquet del campo da basket, - Hai capito quello che ti ho detto?
- Mh? – chiede Mino, un po’ confuso, interrompendo un attimo il frusciare convulso di fogli attorno a sé, - Sì, certo che ti ho sentito, Ibra. Ma sono un tantino impegnato, - sbotta infastidito, - Cristo, che caldo. Si può capire perché mi hai chiamato per dirmi qualcosa che era palese da secoli?
Zlatan fa una mezza smorfia, guardandosi riflesso nello specchio dell’armadio di fronte a sé.
- Volevo dirlo a qualcuno! – biascica lamentoso, adesso che tutto è più chiaro ha voglia di urlarlo, perfino.
- L’hai già detto a Helena?
- Qualcun altro! – insiste. Mino non capisce. Nemmeno lui, s’è per questo. Comunque il suo procuratore sospira esasperato.
- Senti, Ibra. Come immaginerai, ho altro da fare. perciò vai a parlarne con chi devi ancora avvisare, su. Non sono nemmeno pochi.
Zlatan annuisce. Interrompe la conversazione subito dopo.

Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'anima.
- Al Chelsea?! – spalanca gli occhi Zlatan. Ha fatto irruzione in palestra perché voleva essere lui a parlare, non certo perché voleva sentirsi dire una cosa simile dai suoi compagni, ed invece è esattamente quello che sta succedendo: Eto’o, principale pedina di scambio fra l’Inter e il Barcellona, è stato appena acquistato dal Chelsea, su pressante richiesta di Ancelotti congiuntamente al suo presidente, per uno sproposito di denaro.
- Insomma, non hai più dove andare, pare. – ridacchia Marco, mentre Mario, qualche attrezzo più in là, sgomita con una certa forza fra le costole di Davide.
- Bella fiducia. – borbotta Zlatan, offeso, - E io che ero venuto fino a qui per dirvi che avevo deciso di restare.
I suoi compagni di squadra si congelano ai loro posti, guardandolo sgomenti.
- Prima di saperlo? – chiede Deki, titubante.
- Me l’avete appena detto voi! – risponde Zlatan, sempre offeso, - Certo che l’ho deciso prima. – sospira e volta loro le spalle, lasciandoli lì a mormorare incerti. José lo sta guardando dalla soglia della palestra, un sorriso sornione a increspare le labbra sottili.
- …tu. – lo indica Zlatan, sconvolto, - La vecchia zia!
E José scoppia a ridere.

Uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia.
- Insomma, cos’è che devo dirti ancora? – borbotta Zlatan, stretto fra le sue braccia, - Non ti dirò che non lo farò più, sarebbe da ragazzini. Non sono un ragazzino, te lo ricordi ancora questo, giusto? Anche se chiami le mamme degli altri bambini per impedirmi di fare cose.
José ride, stampandogli un bacio stupido su una guancia. Zlatan resiste appena all’istinto di mugolare compiaciuto, limitandosi a rigirarsi contro di lui, aderendo perfettamente al suo corpo.
- Lo sai che è assurdo? – chiede con aria sinceramente stupita, - Io sono rimasto per te.
- Per me nel senso che io ti ho impedito di andartene o-
- Per te e basta. – sbotta, pizzicandogli risentito un fianco, - Fattelo bastare, una volta tanto.
José annuisce.
- E tutta la voglia di andare via?
Zlatan lo pizzica ancora, più forte.
- Ahi! – si lagna José, massaggiandosi il punto dolente, - Ma la pianti?
Zlatan sbuffa e si sistema contro il cuscino. E poi la pianta, sì.

Tocca sempre agli scalzi andare sulle spine.
- Ma cosa, quindi sono stato di merda per niente! – piagnucola Davide, tirandogli addosso un asciugamano nel tentativo di fargli del male, - Che stronzo, Dio mio! Ma almeno hai pensato di andare via, almeno per un secondo da quando tiri avanti questa pagliacciata?
Zlatan gli scompiglia i capelli bagnati, mentre Mario ride e si affretta a risistemarglieli sulla fronte e sulle tempie non appena lui lo lascia andare.
- Per più di un secondo, Dà. Non vi ho mandato al manicomio per niente, non le faccio queste cose.
- Sì, sì, certo. – continua a lagnarsi il ragazzo, infilandosi svogliatamente i calzini, - Come se non fossimo già abbastanza sfigati così.
Zlatan si chiede cosa ci sia di sfigato al momento nell’Inter, ma poi sorge spontanea una domanda ben più interessante, perciò pone quella.
- Dà, ma perché ti fai sistemare i capelli da Mario?
Davide scrolla le spalle, mentre Mario, dietro di lui, si lascia andare ad un sorriso vagamente idiota.
- È bravo a maneggiarli. – risponde tranquillo, allacciando attentamente gli scarpini.
- Ah. – risponde Zlatan. Aaaah, si dice poi, annuendo fra sé.
 La rabbia di oggi serbala a domani.
C’è un bel venticello fresco, a Palo Alto. La partita sarà verso le quattro e mezza del pomeriggio, è quasi ora di pranzo, Zlatan ha fame e, in verità, non vede l’ora di sedersi a tavola per chiacchierare e scherzare con gli altri mentre José cerca per l’ennesima volta di rifilargli patate al forno. Però il venticello è davvero fresco e piacevole e un po’ gli secca rientrare in albergo, perciò resta lì, le mani in tasca e l’ampia maglietta smanicata che si gonfia e si sgonfia ad ogni capriccio del vento, a camminare tranquillo per il cortile, canticchiando fra sé. La voglia d’altro c’è ancora, non è scomparsa, è solo sopita, lì, da qualche parte nel fondo del suo stomaco. Zlatan lo sa che un giorno si risveglierà. Ma quel giorno non è adesso, a quel giorno penserà quando sarà il caso.
- Senti, te la dai una mossa? – lo rimbrotta José, affacciandosi dalla soglia dell’albergo e fissandolo con aria accigliata, - Stiamo aspettando solo te!
- Arrivo, un secondo! – sospira lui, simulando una noia che non gli appartiene neanche parzialmente. José torna dentro mormorando qualcosa sulle primedonne, e Zlatan sopprime la voglia di fargli una linguaccia alle spalle. Poi, ridendo a bassa voce, rientra.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan, accenni miiiiinimi di Davide/Mario, se proprio li si vuole vedere.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst, Flashfic, Slash.
- Nella peggiore delle situazioni possibili. Just in case.
Note: È palese che io non sopravvivrò alla giornata di oggi. Grazie a tutti coloro che mi stanno faticosamente sopportando/intrattenendo/distraendo/lasciando sfogare/whatever, siete meravigliosi e non vi merito neanche per sbaglio.
Comunque sia: al momento in cui scrivo, Mino Raiola, procuratore di Ibra, ha posto un freno alle parole di Suarez, consigliere tecnico dell’Inter. Se il secondo verso le cinque dava per certo il trasferimento di Ibra, il primo ha recentemente risposto con un’aria pallata che tanto gli si addice che lui non si sta affatto occupando del caso, e lo saprà bene, lui, dove vanno gli omini che tiene sotto scacco.
Io, personalmente, per la prima e unica volta nella mia intera esistenza, voglio fidarmi di quell’uomo viscido che cura i contratti di Ibra XD Sono con Raiola. E fine, per ora.
Ps. Titolo rubato a un verso di Best Of You dei Foo Fighters.
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Getting Tired Of Starting Again Somewhere New


Nelle numerose volte in cui ha pensato in passato ad un’eventualità del genere – e sì, ovvio che ci ha pensato, sarebbe stato da idioti non prepararsi almeno un minimo a questa situazione, visto quanto è stata probabile, fra alti e bassi, nel corso degli ultimi mesi – José Mourinho aveva sempre pensato che la sua prima reazione sarebbe stata di rabbia. Per svariati motivi, poi: prima di tutto perché odia perdere le scommesse, e Zlatan era probabilmente la più importante della sua carriera; perché odia dover cambiare i propri piani, anche, e Zlatan era una parte rilevante di tutti quelli che aveva tracciato per l’anno in corso; e per gelosia, ovviamente, perché non vuole osservarlo andare via, non vuole restare senza di lui, detto schiettamente, non vuole farsi lasciare. Chi vorrebbe, d’altronde?
Comunque mai, assolutamente mai, avrebbe potuto pensare che il suo sentimento sarebbe stato un tale miscuglio di tristezza e nostalgia. Sono cose che non dovresti provare per una persona che va via consapevolmente, sono cose che dovresti provare per, boh, le partenze improvvise e indesiderate, quelle rese necessarie da questioni che trascendono il controllo delle parti in causa. Tipo “mia nonna è morta e ha sempre voluto vedermi giocare al Barça, quindi è così che intendo onorare la sua scomparsa”, o altre vaccate simili. Non dovresti sentirti così per una persona che, semplicemente, se ne va perché vuole di più e tu non sei più abbastanza.
Zlatan non va via per i soldi, questo José lo sa. Zlatan va via perché si sente costretto, frustrato e poco stimolato, non perché non si senta trattato bene e neanche perché si senta poco amato. E d’altronde non c’è modo in cui potrebbe sentirsi poco amato. Non con Milano ai suoi piedi, non con i tifosi ai suoi piedi, non con José ai suoi piedi.
Non è una questione d’affetto e non è una questione di denaro, è una questione di prospettive. Purtroppo, José lo sa, e forse è per questo che non riesce ad odiarlo davvero. Anche se dovrebbe e potrebbe e ne avrebbe tutte le scuse, con Mario che ancora piange come un bambino di là – non c’è qualcuno in quella squadra che soffrirà più di lui, per questa partenza, perché non è facile trovare un punto di riferimento che è anche un obiettivo e vederteli sparire entrambi da sotto il naso con la velocità di una folata di vento – e Davide che cerca nel fondo del petto una forza che non dovrebbe ancora appartenergli – una forza da adulto, e lui è solo un ragazzino – per cercare di stargli vicino e consolarlo e fargli capire che può ancora andare avanti, può trovare altri obiettivi, può farcela da solo. Potrebbe odiarlo e sarebbe facile farlo, con tutta la squadra di là che si sente persa, e a ragione, con i tifosi annichiliti davanti agli schermi dei computer e dei televisori dai quali hanno appena appreso la notizia, con tutto il mondo intero che si ribalta perché fino a ieri Zlatan Ibrahimović indossava la maglia numero dieci e adesso – il numero dieci più veloce della storia del mondo – la sta gettando via per andare a trovare chissà cosa a Barcellona.
Potrebbe odiarlo, sarebbe facile, sarebbe giusto.
Ma lo guarda lì, gli occhi bassi e le mani strette attorno alle maniglie della valigia con tanta forza da imbiancargli le nocche, e non gli riesce.
Sospira pesantemente, voltandogli le spalle ed avanzando lento verso la porta.
- Chiama quando arrivi. – scolla a fatica, prima di lasciare la stanza.
Lo stomaco di Zlatan si attorciglia con una violenza terribilmente dolorosa, e la valigia all’improvviso è così pesante che la lascia cadere a terra. Il silenzio accoglie il thud ovattato dell’urto, e poi la porta si chiude.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Maxwell/Zlatan, José/Zlatan.
Rating: PG-14
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- "Questa si chiama "Preghiera di una Fangirl XD" (cit.)
Note: T___T Ti prego, Dio del Fangirling, fammi questo favore. Solo questo T_T
Canon rilevante: Maxwell e Zlatan sono davvero amyketti del cuore da tempo immemore, ed è vero che quando uno va in un’altra squadra in genere l’altro poi lo segue a breve distanza di tempo. Con l’Inter è successo così, per dire. .___. La storia non è dalla nostra parte, ragazze.
Ps. Titolo rubato a un verso di The Take Over, The Breaks Over dei Fall Out Boy.
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We Don't Fight Fair


Maxwell raccoglie le proprie cose sotto lo sguardo attento del mister. È entrato nella sua stanza ormai da una ventina di minuti, e per tutto il tempo non ha detto una parola, limitandosi a restare lì, di fianco alla porta, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso su di lui che sistema magliette pantaloncini calzini e mutande in valigia, con una cura maniacale, avvolgendo ogni cosa attentamente e riponendola di modo che non occupi troppo spazio. Non può che sospirare, quando il mister si irrigidisce e si scosta dalla porta, avanzando di qualche passo all’interno della stanza proprio qualche attimo prima che la porta si spalanchi, rivelando dietro di sé il viso stravolto di Zlatan, che per qualche attimo resta lì sulla soglia, immobile, il respiro che preme a fatica fra il petto e la gola per uscire e gli occhi che saettano svelti da lui alle valigie al mister, adesso un po’ defilato.
- Allora è vero. – ringhia, deglutendo a fatica, - Te ne vai.
Maxwell abbassa gli occhi, terminando di avvolgere e conservare le ultime cose e dedicandosi poi alla complicata operazione della chiusura delle cerniere.
- Così pare. – scrolla le spalle, incerto.
- Perché? – chiede Zlatan, apparentemente dimentico della presenza di Mourinho a pochi metri da sé, - Non c’è motivo, perché-
- Non c’è motivo? – ritorce lui con un sorriso ironico e incattivito, - Andiamo, Zlatan. Il mio posto, ormai, è di Davide. E io non intendo passare il resto della mia vita in panchina a causa di un ragazzino, ok?
- Davide non-
Lo so che non è colpa di Davide. – sbotta interrompendolo, - Lo so. – aggiunge più pacatamente, sospirando appena, - È solo… è così. Ok? È così e basta.
Zlatan esita un po’, mordendosi il labbro inferiore con una violenza spaventosa, prima di sbattere la porta con tanta forza che quella si riapre e sbatte contro la parete, mostrandolo mentre solca il corridoio a grandi passi furiosi, verso l’uscita dell’hotel. Maxwell lo guarda allontanarsi e poi lascia scivolare gli occhi sul mister, che dal canto proprio non smette un secondo di fissare Zlatan, finché non lo vede sparire dalla propria vista.
Maxwell non può fare a meno di ridere ad alta voce, mentre serra la valigia con un lucchetto. Il mister torna finalmente a guardarlo e, prima di parlare, s’inumidisce le labbra.
- Bravo. – gli dice, non senza un che di tagliente nella voce, - Se i posti in campo si dovessero stabilire in base alle capacità recitative, non ci sarebbe nessun Davide in grado di rubarti il posto.
Il brasiliano solleva un angolo della bocca in un ghigno frustrato, tirando entrambe le valigie giù dal letto.
- Se il criterio per la scelta dei posti in campo fosse questo, mister, - risponde con la stessa esatta dose di cattiveria sulla punta della lingua, - giocherebbe solo lei.
José ride a propria volta, compiaciuto.
- Touché. – risponde, scrollando le spalle. Maxwell solleva le valigie e comincia a camminare verso la porta, fermandosi solo qualche centimetro dopo aver superato il portoghese e voltandosi a guardarlo con aria di sfida.
- Io e lui torniamo sempre insieme. – soffia, gli occhi sottili come quelli di un gatto, - È già successo in passato, succederà ancora in futuro. Andiamo altrove, ma troviamo sempre un modo per tornare insieme. Perciò, se è per tenerci lontani che ha organizzato tutto questo, sappia che perderà, Mourinho. Con me e Zlatan, perderà.
Il sorriso di José si allarga in una smorfia cattiva, mentre l’uomo sistema i capelli passando una mano distratta su una tempia.
- Buon viaggio, Max. – risponde semplicemente.
Maxwell rabbrividisce. E nell’osservare il mister allontanarsi lungo il corridoio, alla ricerca di Zlatan, per la prima volta in tutta la sua esistenza, da che conosce lo svedese, ha l’impressione che non lo rivedrà più.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-15
AVVERTIMENTI: Slash.
- Zlatan vuole il numero dieci. E intende guadagnarselo.
Note: No, non ringrazierò la Zoccola Major per essere rimasta, ha fatto meno del suo dovere XD Però boh, ero in vena di pseudo-angst ed UST (ci speravate nelle cosacce, eh? XD), e soprattutto volevo vederli scontrarsi un po’. Era un sacco di tempo che non mi litigavano, io li trovo bellissimi quando litigano <3 *perdutamente innamorata del Jobra, come il primo giorno (cit.)* E poi volevo festeggiarlo a mio modo, questo numero dieci. Ho umiliato Ibra solo un pochettino, niente di eccessivo, mh? XD Almeno spero. La Zoccola ha bisogno di qualcuno che gli faccia abbassare la cresta e_e José, pensaci tu.
Ps. Titolo rubato a una canzone degli Smashing Pumpkins. Lo amo. La canzone no, però XD
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The End Is The Beginning Is The End


- Sei dimagrito. – dice seccamente José, appoggiato con una spalla allo stipite della porta neanche volesse fisicamente impedirgli di entrare in casa.
- E tu sei in costume da bagno. – annuisce Zlatan, incrociando le braccia sul petto. – Abbiamo altre ovvietà da puntualizzare?
Jose sorride fra i denti, scuotendo appena il capo – i capelli sono cresciuti un sacco dall’ultima volta che Zlatan lo ha visto, e lo svedese non riesce a stabilire se gli stiano bene o male. Da un lato sono strani, sembrano una specie di nuvolone da temporale che aleggia pesantemente sopra la sua testa, e questo lo fa sembrare sempre arrabbiato – cosa che in effetti non si discosta molto dallo stato d’animo in cui José versa per la quasi totalità della sua giornata, è incredibile la quantità di cose e persone con cui è in grado di prendersela quando le cose vanno male, cioè non vanno come lui si aspettava che andassero. Dall’altro, per quanto quell’intrecciarsi di mezzitoni stia lì a ricordargli che non è più un ragazzino e presto, probabilmente, sarà troppo grande anche lui per star dietro ai capricci di una primadonna di dubbia nazionalità, quei colori gli stanno da dio. E c’è poco altro da dire, in effetti, se solo rivederlo dopo un mese o poco più lo manda fuori di testa al punto da lasciarlo lì a rimuginare sul dannato colore dei suoi capelli e a quanto si adatti ai toni ambrati della sua pelle.
- Sei qui. – dice José a bassa voce, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Zlatan vorrebbe ribattere qualcos’altro di molto brillante sulle ovvietà di cui sopra, ma è costretto ad ammettere, almeno con se stesso, che il suo trovarsi lì in quel momento non è mai stato ovvio, nemmeno nella più rosea delle prospettive, perciò si morde la lingua e cerca di tirare fuori una battuta meno compromettente.
- Ehi, - borbotta, ancora fermo sulla soglia, - dov’è finita tutta la tua fiducia? Avevi detto che sapevi che alla fine sarei rimasto.
- Lo pensavo. – annuisce José, una mano che scivola appena lungo il ventre, a sistemare in gesti distratti il doppio nodo che stringe i boxer in vita, - Poi Matilde mi ha detto “è zingaro, José, è zingaro e giovane”, e allora non sono più stato certo di niente.
Il sorriso di Zlatan si allarga in un ghigno indisponente, e José indietreggia di qualche centimetro quando osserva lo svedese affacciarsi all’interno dell’appartamento per sbirciare curiosamente in giro.
- Matilde è in casa? – chiede in una nota beffarda.
- È giù al lago coi bambini. – risponde José, e Zlatan gli lascia a malapena il tempo di finire, prima di ridere a così pochi centimetri da lui da fargli sentire sulla pelle il calore del suo respiro.
- A Matilde piacerebbe se fossi uno zingaro davvero. – commenta, scrollando le spalle e tornando a una distanza ragionevole dalla sua persona, - Se me ne andassi, intendo.
- No che non le piacerebbe. – puntualizza José con un mezzo ringhio indisposto.
- Solo perché non sa che pericolo sono. – ghigna Zlatan, compiaciuto.
- No. – insiste José, risoluto, - Perché non sei per niente pericoloso.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, piccato. Non è il benvenuto che si aspettava, non è il ringraziamento che si aspettava e non è il calore che si aspettava. In compenso, è esattamente il José che sa di volere, perciò sospira e rilassa i lineamenti del volto, lasciandosi andare a un’espressione che rifletta più sinceramente il suo sentire del momento. Un po’ di stanchezza, un po’ di paura. Niente di drammatico, lui è Zlatan Ibrahimović e nella sua vita non esiste nulla che sia meno che perfetto, ma sì. Un po’ di stanchezza. Un po’ di paura.
- Senti… - comincia in un sospiro arreso, - sono appena arrivato, okay? Ho litigato con Helena perché la prima cosa che ho fatto, arrivando a Linate, è stata chiamare un taxi per venire qui. Mi lasci entrare?
C’è una domanda, negli occhi di Zlatan, e quella domanda non è “mi lasci entrare?”. C’è qualcos’altro in quegli occhi, José non riesce a capire cosa sia e questo è inaccettabile, perciò si scosta dalla soglia, invitandolo a entrare.
- Vuoi fare una doccia? – gli chiede a bruciapelo, chiudendosi la porta alle spalle mentre Zlatan, neanche fosse a casa propria, avanza all’interno della villa senza neppure sentire il bisogno di accendere la luce. E dire che il corridoio principale è scuro e non ha nemmeno una finestra. – Scegli pure uno qualsiasi dei duemila bagni. Sono tutti liberi.
Zlatan continua a camminare, scrollando le spalle.
- Se volevo una doccia la facevo a casa mia. – borbotta, e dietro di lui José si lascia andare a una mezza risata.
- E allora cos’è che vuoi? – chiede seccamente, fermandosi in mezzo al corridoio. Zlatan si ferma a propria volta, girandosi a guardarlo con aria seria.
- Voglio il numero dieci. – sputa d’un fiato, - Sono rimasto. Voglio il numero dieci.
L’aria resta totalmente immobile solo per qualche secondo, prima che José si decida a spezzarla con una risata tonante di quelle che gli si sentono fra le labbra solo raramente, perché il mister non è tipo da ridere con tutti o per qualunque cosa. Evidentemente, pensa Zlatan con una certa irritazione, ciò che ha appena detto deve essergli sembrata una battuta particolarmente brillante. Peccato lui sia più che serio, serissimo.
- E lo vieni a chiedere a me, il numero dieci? – lo prende in giro José, le labbra piegate in una smorfia derisoria che fa desiderare a Zlatan di trovarsi già fuori da villa Ratti, nel taxi, diretto a casa. – Perché non sei andato dal presidente? Scommetto che sarebbe stato più che felice di accontentarti all’istante.
- Lo voglio da te. – insiste lui, le labbra strette per il nervosismo che sembrano una linea unica a tagliare la parte inferiore del viso. – Da te avrebbe un senso.
- Non hai fatto niente per me che meritasse questo numero. – scrolla le spalle José, e Zlatan digrigna i denti.
- La scorsa stagione-
- È stata una stagione da otto. – lo interrompe deciso lui, - Pensi che i numeri dieci possano permettersi mal di pancia o altre idiozie simili?
- Lo sai che non ho mai avuto intenzione di andarmene davvero.
- Non è questo il punto. – José incrocia le braccia sul petto, - Hai destabilizzato i tifosi, la società, i tuoi compagni di squadra e me. Non è un comportamento da dieci, questo. Ne abbiamo già avuto abbastanza di dieci incasinati, ti pare?
- Dest-… - Zlatan ride al alta voce, una risata cattiva e risentita, - Destabilizzare! Io! Tu dici a me che destabilizzo la squadra! Tu e i tuoi fottuti novantanove virgola nove percento!
- Io non sono te, Zlatan. – sbotta José, - E io non voglio il numero dieci.
- Sei l’allenatore!
- Ognuno è responsabile delle proprie azioni. – conclude lui, scrollando nuovamente le spalle, - Vuoi il numero dieci, Zlatan? Vai da chi può dartelo senza farti storie.
Lo svedese si avvicina, sfruttando i centimetri d’altezza per cercare di imporsi su quell’uomo ridicolo che continua a irritarlo perché evidentemente si diverte a farlo.
- Lo voglio da te. – insiste, - Me lo sono meritato, lo voglio.
- Non te lo sei meritato. – si ostina lui, guardandolo negli occhi senza un’esitazione, - Non per me.
Meno di un secondo dopo, José si ritrova schiacciato contro la parete, Zlatan così addosso da sentire ogni spigolo del suo corpo fare a pugni coi propri, il suo avambraccio a spingersi contro il suo collo, mozzandogli il respiro. Gli occhi scuri di Zlatan ardono come braci e il suo respiro è rovente sulle labbra.
- Vuoi meritarlo pestandomi? – gli chiede, ostentando una sicurezza che forse in fondo non possiede nemmeno – Zlatan è l’unico davanti al quale a volte riesce a sentirsi fragile.
- No. – risponde duro lui, ostentando una rabbia che non gli appartiene davvero – José è l’unico in grado di trasfigurarlo fino a fargli dimenticare chi è.
- Vuoi meritarlo con questi, Zlatan? – ringhia José, ed una mano scende ad afferrarlo con forza tra le gambe, stringendo senza pietà. Zlatan lotta contro se stesso e contro il dolore per non allontanarsi, e ringhia fra i denti, soffiando un respiro sofferente sulle labbra di José. – Non è a me che devi mostrarli. Ai tifosi, ai tuoi compagni. In campo e anche fuori, ma non qui in casa mia. – e poi lo lascia andare, stringendo un’altra volta apposta per fargli male, trattandolo con disprezzo.
Zlatan non sa se quel disprezzo lo merita o meno. Ha sempre fatto e detto ciò che ha ritenuto opportuno fare e dire, la sua vita è la sua, le sue scelte sono le sue, le sue responsabilità sono le sue, lui non ha mai rinnegato niente ed anche solo per questo, a fronte di tutti i mercenari che infestano il suo mondo – e non solo mercenari che vendono i colori di una maglia; ce ne sono di peggiori, che per un pugno di milioni vendono cose ben più preziose di un’effige sul lato sinistro del petto – a fronte di tutto questo sente di meritare almeno il rispetto minimo che riservi ad un essere umano quando parli con lui, un tipo di rispetto che possa impedirti di afferrarlo per le palle e cercare di castrarlo con una stretta bene assestata, almeno. E invece niente. Da qualche parte negli ultimi mesi, ha perso il rispetto di José, e non riesce a capire perché.
- Io – ripete a fiato corto, senza allontanarsi, - voglio il numero dieci. È mio, lo voglio. È già mio, tu lo sai.
- Il numero dieci è ancora Adriano, o quello che resta del suo ricordo, finché non sarai in grado di farmelo dimenticare. – sbotta José, spintonandolo malamente all’indietro, - E ora fatti da parte. Sono sudato, voglio farmi un bagno.
Zlatan indietreggia e gli lascia spazio per passare, e solo quando José si allontana di qualche passo lo svedese si decide a parlare ancora.
- Io non ti inseguirò. – dice orgoglioso, stringendo i pugni, - Non ti implorerò nemmeno.
José ride, voltandosi a guardarlo.
- Tu pretendi di ottenere ciò che vuoi alle tue condizioni, Zlatan, è questo il tuo problema. Come numero dieci saresti un fallimento. Un buon numero dieci, - precisa con un ghigno supponente, - deve ottenere ciò che vuole alle condizioni degli altri.
Zlatan lo osserva per qualche secondo muoversi a passi lenti lungo il corridoio, verso la portafinestra che dà sulla piscina in fondo, e si morde il labbro inferiore, incerto sul da farsi. Ogni tanto ha l’impressione che José sia un enigma e lui quello incaricato – da chissà chi, poi. Da se stesso, probabilmente – di risolverlo. E lui ci si impegna, davvero, ci sbatte la testa contro più e più volte, ma tutto ciò che ottiene quando riesce a svelare una risposta sono altre dieci domande almeno, che si affastellano l’una sull’altra neanche il suo cervello fosse un archivio incasinatissimo nel quale nessuno è mai stato capace di mettere un po’ d’ordine. È ormai quasi convinto di non possederla, Zlatan, la chiave per risolvere tutti i misteri di José, ma se c’è una cosa che proprio non si può dire di lui è che sia uno che si arrende facilmente. Perciò, passati i primi secondi di smarrimento, passata la rabbia e passato il dolore fra le gambe, Zlatan decide il da farsi. E decide anche che il da farsi è comportarsi da dieci. È ciò che vuole, José non intende accontentarlo se prima non dimostra di meritarlo e quindi ciò che deve fare è dimostrarlo. Punto.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
José si ferma sulla soglia della portafinestra; la sua sagoma si staglia contro il giardino illuminato in pieno dai raggi del sole di mezzogiorno, e Zlatan vede la sua ombra voltarsi appena, lanciargli un’occhiata poco convinta e poi riprendere il proprio cammino, ignorandolo.
Lo insegue.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
Lo implora.
- Ti prego.
Il giardino di casa si apre intorno a loro come un fiore, colorato e ricco di profumi – alcuni piacevoli, come quello dei fiori delle aiuole, altri meno, come quello del cloro che disinfetta l’acqua della piscina, altri intensi e basta, come l’odore acre dei tronchi degli alberi che circondano la proprietà – e per svariati secondi Zlatan è costretto a battere le ciglia con una certa forza, nel tentativo di abituarsi alla luce che lo inonda, rendendo tutto lucente in maniera quasi insopportabile. Il riverbero dei raggi sull’acqua appena scossa dal vento si proietta sulla pelle di José. Anche quel colore gli sta da dio. Zlatan si chiede se l’effetto sia lo stesso anche su di lui, che invece è di un pallore cadaverico che sembra non piacere a nessuno. Anche se ricorda la voce di José sussurrargli all’orecchio qualcosa di molto carino sul colore che ha dopo i morsi. Ma non è il momento di pensarci, questo.
- Resti almeno finché resto io. – dice lui, serio, appendendo una mano a un fianco. – Ho dei progetti, su di te, e non intendo lasciarli saltare per un altro mal di pancia, fra quattro o cinque mesi.
Zlatan annuisce.
- D’accordo. E-
- E vieni via con me, - aggiunge José, fissandolo senza neanche un minimo di vergogna, - quando me ne vado. Ho dei progetti anche in questo senso, e non intendo lasciar saltare nemmeno loro. Per nessun motivo.
Zlatan resta a corto di fiato perché il respiro che deve buttare fuori quando glielo sente dire è enorme. È che gli serve fare spazio. Una cosa del genere ne ha bisogno, per espandersi per bene, colonizzare tutte le cellule e imporre al corpo la comprensione che il cervello non sembra in grado di fornire. José gli sta dando molto più di un numero. E Zlatan finalmente ci arriva, a capire cos’è che intende il suo allenatore – il suo compagno, e lo è nonostante tutto. Le condizioni per ottenere qualcosa sono proporzionate al tipo di cosa che vuoi. Se già un numero vale tanto, ciò che José gli sta dando vale molto di più. Meritarlo è ancora più difficile. E i sacrifici dovranno essere adeguati.
- Sì. – risponde. Non d’accordo, perché non si stanno accordando su niente. José gli ha chiesto se lo ama. La risposta è .
- Zay? – trilla la voce di Matilde, mentre entra in casa nel vociare allegro e concitato di bambini esaltati e bambinaie isteriche, - Ci sei?
- Sì! – risponde José ad alta voce, senza muovere un passo né verso di lui né verso la portafinestra, - Abbiamo un ospite.
Matilde si affaccia sul giardino e sorride felice, i suoi occhi scuri si illuminano e Zlatan non può che ricambiare con un sorriso un po’ stanco ma tutto sommato simpatico, quando la donna lo saluta con un abbraccio caloroso.
- Zlatan, che sorpresa! Sei tornato oggi? Come sono andate le vacanze?
Zlatan ride, grattandosi la nuca, un po’ in imbarazzo.
- Movimentate. – risponde divertito, - Ho tempo di farmi una doccia, prima di pranzo?
- Oh, sì, naturalmente! – concede Matilde, allegra, - Mi metto subito al lavoro in cucina, tu prenditi pure tutto il tempo che ti serve!
José ghigna e gli passa accanto, richiamandolo con un cenno del capo.
- Ti mostro il bagno. – spiega, mentre lui lo segue, adattando il passo al suo.
- Uno dei duemila. – risponde Zlatan in una risata compiaciuta.
Non può vederlo, ma sa che il sorriso sulle labbra di José, mentre entrambi salgono lentamente al piano di sopra, è identico al suo.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lime, Doppio Drabble (più o meno).
- Talvolta dire sì è troppo facile. E' per questo che non lo si dice affatto.
Note: Caro Dio del Fangirling, questa storia non è una richiesta ma un esorcismo. Se solo ti azzardi a farla avverare come hai fatto avverare qualsiasi cosa io abbia scritto nel corso dell’ultimo anno della mia esistenza, sappi che ti troverò, ovunque tu sia, ti strapperò le palle e ne farò bocce con cui giocare a biliardo. E poi non scriverò mai più una parola T_T Dio avvisato, mezzo salvato. *annuisce*
PS. Il titolo è indecentemente rubato al monologo di Molly Bloom dell’Ulisse di James Joyce. Modificato ad hoc.
PPS. Partecipante all’Iniziativa Estemporanea Silenzio-Assenso di Criticoni.
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Yes I Say Yes I Will Yes


È un po’ che se ne parla. È un po’ che se ne parla e Zlatan non saprebbe – per la prima volta, davvero – non saprebbe rispondere alla domanda, se gliela facessero adesso. Un mese fa sarebbe stato molto più semplice – un mese fa, in effetti, è stato più semplice – sentirsi chiedere se sarebbe andato via dall’Inter, rispondere che, detto in confidenza, sì, sarebbe stato possibile. È stato più semplice per il periodo – nero – per il mal di pancia – furioso – per l’insoddisfazione – implacabile – per la frustrazione – che lo rodeva da dentro neanche fosse stato un fottuto male incurabile. E allora sì, in confidenza, sì. Andare via era possibile.
Adesso il mondo li ricopre d’oro, adesso per tutti sono una squadra vincente, adesso nessuno ricorda la Champions persa senza onore né gloria, senza neanche il lustro della finale, per tutti, adesso, l’Inter è la squadra dei sogni, sono tutti vincitori, tutti grandiosi, tutti supremi, e per questo è più difficile dire sì.
Ma quando José lo guarda è tutto diverso. Quando José lo guarda – e lo guarda con quegli occhi lì – quando lo sfiora – con quelle mani lì – quando lo bacia – con quella lingua, quelle labbra, quella bocca lì. Quando gli chiede “se andassi al Real, verresti via con me?”. È troppo facile dire sì così. È troppo facile. E Zlatan, per questo, tace.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: JoséxZlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- 25 gennaio 2009, Inter-Sampdoria 1-0. Zlatan Ibrahimović questa partita è costretto a guardarla dagli spalti. Guarda la partita, guarda Adriano fare a pugni in mezzo al campo, guarda il proprio allenatore venire espulso dopo un accesso d'ira. E questo è il post-partita.
Note: Questa storia è un assurdo. Nel senso che io mai e poi mai avrei pensato, un giorno, di finire a scrivere slash sull’Inter. Tutto ciò, naturalmente, finché José Mourinho non è arrivato ad allenare. A quel punto, i ragazzi hanno cominciato a precedere le sessioni di allenamento con lunghe sessioni di abbracci di gruppo e ciò che prima era solo ipotizzato è diventato palese, cioè che la nostra è una squadra palesemente gaia nel senso più ampio possibile. Io sono molto felice di tifare per una squadra palesemente gaia. XD
Ringraziamento – triplice – a Def: per Temporal-mente (che è un’iniziativa deliziosa), perché se lui non avesse cominciato a shippare Ibra non avrei cominciato neanche io XD e per le virgole <3
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Premessa. Perché non c’è neanche messo che uno debba fangirlare per forza la propria squadra del cuore XD Comunque, in breve e per non annoiare nessuno.
Antefatto. In occasione di Atalanta-Inter, (domenica diciotto gennaio 2009), Zlatan Ibrahimović (attuale attaccante di punta della formazione interista), si fa ammonire per proteste. Già diffidato – in quanto ammonito anche nella partita precedente – è costretto a saltare la successiva giornata di campionato.
Fatto. Domenica venticinque gennaio 2009, Inter-Sampdoria si conclude 1 a 0 per la formazione interista ma José Mourinho, allenatore della squadra, viene espulso dal campo a causa di una reazione verbalmente violenta nei confronti dell’arbitro Celi in occasione dell’ammonizione (immotivata ed ingiusta u.u) del centrocampista Dejan Stankovic. In aggiunta a questo, mentre Ibra guarda la partita dagli spalti, durante una potenziale azione da gol, Adriano (Leite Ribeiro, altro attaccante dell’Inter) scazzotta malamente nello stomaco il difensore doriano Gestaldello (colpevole di averlo tenuto un po’ troppo stretto mentre gli dimostrava il proprio amore abbracciandolo in area <3), gesto che causa grande indignazione in tutto il mondo sportivo (bla bla bla, è stato sexy *_*) e che, nel dopopartita, risulterà in una squalifica di tre giornate.
Sapendo questo, sapete tutto ciò che vi serve per non perdervi (troppo), ma se tifate Inter, conoscete un tantino la squadra e sapete che uomo meravigliosamente assurdo sia José Mourinho, di sicuro vi divertirete molto di più XD

God, And After God, Me
“There's footsteps loud and strong coming down the hall.” (Goodnight Moon – Shivaree)

“If I wanted to have an easy job, I would have stayed at Porto.
 Beautiful blue chair, the Uefa Champions League trophy, God, and after God, me.”
~José Mourinho




José non è ancora venuto fuori dallo spogliatoio e Zlatan non può fare a meno di pensare di essere stato un emerito coglione a farsi ammonire contro l’Atalanta. La situazione non è buona e, tanto per cambiare, avere vinto – come al solito – non conta un cazzo: battere qualcuno giocando bene, in Italia, non è abbastanza per evitare le critiche; per evitare le critiche, l’avversario devi umiliarlo, o te ne dicono alle spalle di tutti i colori. L’Inter, oggi, non ha umiliato nessuno. I ragazzi sono stati bravi, ma un uno a zero si dimentica in fretta. Non è la superiorità sfacciata dei due a zero, non è la presunzione dei tre a zero e non è il marchio a fuoco dei quattro a zero. È solo un numero del cazzo accanto a un altro numero del cazzo, e Zlatan sa bene che, se ci fosse stato lui in campo, i numeri sarebbero stati diversi. Ha già in testa la voce di Mou che ripete “se ci fossi stato tu, al posto di Sulley, quello sarebbe stato gol. Se ci fossi stato tu, al posto di Dejan, quello sarebbe stato gol. A te non ti si sostituisce con un giocatore. Ci vuole la squadra, per sostituire te”.
Si muove svelto fra i corridoi di San Siro, evitando accuratamente i grappoli di giornalisti appostati ad ogni angolo in attesa di un qualsiasi pollo da spennare; Julio non è altrettanto fortunato, Zlatan lo vede chinare il capo e forzare un sorriso di fronte al giornalista di Sky che lo imprigiona contro un tabellone pubblicitario chiedendogli se almeno lui vuole parlare, visto che Mourinho non ha voluto. “Sì, parlerò io al posto suo”, lo sente ridere Zlatan, e ride un po’ a propria volta, girando l’angolo ed immettendosi nel breve corridoio che lo porterà agli spogliatoi.
Quando fa per aprire la porta, si ritrova anticipato da Adriano, che gliela spalanca in faccia e, non contento di averlo quasi fatto fuori, incede col passo marziale dell’uomo fuori dalla grazia di Dio, investendolo in pieno mentre cerca di uscire.
- Adri…? – lo chiama Ibra, cercando di trattenerlo per le spalle. Il brasiliano lo fissa, gli occhi ancora annebbiati dalla furia, e poi si placa, chiudendo la porta dietro di sé e sospirando pesantemente.
- Ti sei goduto lo spettacolo? – gli chiede, incrociando le braccia sul petto, l’ampia felpa della squadra che sbuffa attaccandosi un po’ alla sua pelle ancora umida di doccia. Zlatan sorride appena, sa esattamente a cosa si stia riferendo l’attaccante.
- Ancora un po’ e gli sfondavi la pancia, Adri. – gli fa notare, inarcando divertito le sopracciglia.
- Lo stronzo mi stava abbracciando come non ha mai fatto neanche mia madre. – ribatte lui, borbottando infastidito, - Cosa dovevo fare? Lasciare che mi tenesse fermo? Eravamo nella merda!
Zlatan annuisce, sfilando il cappellino dalla testa. Il calore umido dei sotterranei lo sta avvolgendo, e del freddo secco di Milano non resta più niente.
- Ti daranno almeno tre giornate di squalifica. – ipotizza lo svedese, spostando il peso da un piede all’altro. Adriano risponde scrollando le spalle.
- José mi ha appena finito di dire che, squalifica o non squalifica, non vuole vedermi per le prossime due settimane. – ammette, abbassando appena lo sguardo, - Il che significa che le partite le salterei comunque. Mi ha fatto una paternale che sarebbe ancora in corso, se non fossi uscito. – poi ci riflette qualche secondo, - No, non sarebbe ancora in corso perché gli avrei spaccato una panchina sulla testa, ma insomma…
Zlatan ride a bassa voce, scuotendo il capo.
- È il tuo allenatore, devi rispettarlo. – gli ricorda, e Adriano ghigna.
- Oh, ma io lo rispetto. – annuisce, - Però lui oggi s’è fatto espellere perché non è stato capace di tenere a freno la lingua. Non può rinfacciarmi di non essere capace di tenere a freno le braccia. Io almeno ho la scusante di essere cresciuto in una favela.
Zlatan ride ancora, più sonoramente.
- Lo sai com’è fatto, non è per niente giusto nei rapporti con le persone.
Adriano ghigna ancora, mollandogli una pacca fenomenale contro una spalla.
- Sì che lo so. – ride, - Ma lascio che a dirlo siano quelli che lo conoscono meglio. – e butta lì l’allusione con una mezza strizzatina d’occhio, cominciando ad allontanarsi verso l’uscita.
- Stronzo! – gli urla dietro Zlatan, fingendo un imbarazzo che comunque non gli riesce di provare. Dovrebbe, probabilmente. Con Helena ed i bambini a casa, probabilmente sì, dovrebbe sentirsi in imbarazzo. Ed anche un po’ in colpa. Ma le regole di spogliatoio sono diverse dalle regole in superficie. Perciò, di fronte a quella porta, Helena ed i bambini non contano praticamente niente: di là c’è José che non è ancora uscito ed è stato espulso, ed è tutto ciò che a Zlatan interessi, al momento.
Entra, e lo spogliatoio lo accoglie in perfetto silenzio. Il panorama è simile a quello già visto decine di volte, quando tutti i suoi compagni di squadra sono già usciti e si preparano ad affrontare le orde di giornalisti affamati per raggiungere le macchine ed andare via. È allora che, spesso, José lo tira per un polso e gli chiede di restare, perché ha ancora qualcosa da discutere con lui. Tutti sanno cosa succede e nessuno – quasi nessuno – ne parla, perché è vero che ciò che succede nello spogliatoio non esce dallo spogliatoio, è una delle prime cose che José ha messo in chiaro arrivando all’Inter: “qua dentro, queste quattro pareti, queste panche, queste docce, questi armadietti, sono affar nostro. Là fuori siamo cose pubbliche, dobbiamo giustificare tutto e dobbiamo combattere per tutto. Qui dentro no. Qui dentro tutto è nostro e solo nostro”.
José sta seduto su una panca, piegato in avanti. Fissa il pavimento, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani dalle dita distrattamente intrecciate che pendono nel vuoto. Non dà segno di accorgersi della sua presenza, ma d’altronde non si sa mai davvero cos’è che gli giri per la testa, ed il più delle volte Zlatan è convinto che in realtà José capisca veda e senta tutto, solo che non si premura di fartelo sapere fino a quando non gli risulta utile.
Si annuncia con un colpetto di tosse. José non si muove.
- Mister…? – lo chiama quindi a bassa voce, azzardandosi ad avanzare di un passo. L’uomo sospira profondamente, ma rimane piegato in avanti e non lo guarda.
- È stata una bella partita, Zlatan? – chiede invece, fissando ostinatamente le piastrelle bianchissime della parete di docce di fronte a lui.
Zlatan inspira ed espira l’odore pesante ed umido dello spogliatoio, prima di decidersi ad avanzare ancora e sedersi al fianco del proprio allenatore, imitandone la posa concentrata e un po’ abbattuta.
- …no, mister. – risponde sinceramente, puntando lo sguardo sulle stesse piastrelle bianchissime, - È stata una partita combattuta, però. È caduto un bel po’ di sangue. – ridacchia, riferendosi alla gomitata che ha mandato a terra Sulley spaccandogli un sopracciglio. – Ma i ragazzi sono stati forti. Dei gladiatori. Soprattutto Adri-
- Un leone. – annuisce il mister, compiaciuto, - Stupido tanto quanto, almeno.
Zlatan sospira.
- Mister, ogni tanto lei dà l’impressione di essersi dimenticato com’era giocare sul campo.
José ride piano, scuotendo lentamente il capo.
- Lo ricordo bene, invece. – risponde pacatamente, - Ero un pessimo giocatore. Ci vuole un pessimo giocatore per fare un ottimo allenatore, perché solo i pessimi giocatori capiscono quanto possono arrivare ad essere stupidi gli ottimi giocatori. – solleva finalmente il capo e lo omaggia di una lunga occhiata penetrante. – La boria fa male. – sentenzia quindi, annuendo compitamente.
- E questo, detto da lei, è molto divertente, mister. – gli fa notare l’attaccante, ridendo di gusto. José lo segue nella risata, più intenerito che divertito.
- Parlavo dei giocatori. – rivela poi, tranquillissimo, - Fra quelli che comandano, la modestia è un peccato, Zlatan. – e lo svedese si ritrova a pensare che dev’esserci per forza qualcosa di sbagliato, nel rapporto fra lui e il mister, perché José spesso gli ricorda suo padre. Perché ha lo stesso modo di parlare per asserti imprescindibili, di quelli che ti fanno venir voglia di prendere appunti, sia mai dietro il commento disinteressato di una sera si nasconda invece una fondamentale lezione di vita su chissà che argomento di basilare importanza.
- Adri era piuttosto arrabbiato. – confessa quindi, tornando ad abbassare lo sguardo perché gli occhi scuri di José si stanno facendo troppo difficili da sostenere, - Per il rimprovero, intendo.
- Se Adri è convinto che oggi sia stato sufficiente, Adri sbaglia di grosso. – borbotta l’allenatore, incrociando le braccia sul petto. A Zlatan viene da ridere: non dovrebbe essere lui a fare paragoni fra José e suo padre; José un figlio all’Inter l’ha già scelto, l’ha scelto con attenzione e l’ha scelto il primo giorno in cui è arrivato. E non è lui. – Mercoledì sera, tanto per cominciare, che lo squalifichino o no io lo voglio seduto accanto a me. Anche solo per riempirgli le orecchie di roba che, come al solito, non ascolterà.
Zlatan la lascia andare, la risata.
- Verrà fuori che s’è fatto espellere apposta per poter restare con lui invece di venire con noi sul campo al Massimino. – lo prende in giro, e José risponde sferrandogli una gomitata giocosa in mezzo alle costole. Avvolto com’è nel piumino e in svariati strati di felpe, Zlatan appena lo sente. E non può dire, in tutta onestà, che non avrebbe preferito, invece, sentirlo molto meglio.
- La prossima partita, Zlatan… - riprende José poco dopo, sospirando pesantemente e raddrizzando la schiena, - è di fondamentale importanza. Io non sarò in panchina e sarete senza Adriano in campo. Praticamente, la squadra si reggerà sulle tue spalle. Lo sai questo, no?
Zlatan deglutisce e vorrebbe rispondere tanto per cominciare che questo ruolo non l’ha chiesto lui. E che, se a dieci anni avesse saputo che entrando in campo e segnando otto dannati gol al Villinge avrebbe posto le basi per arrivare lì dove si trovava adesso, probabilmente ci avrebbe pensato su un paio di volte, prima di sfilare la tuta e darsi da fare. Vorrebbe rispondere anche che con Mancini non era così, lui continuava a parlare di squadra sempre e comunque, era la squadra che doveva lavorare unita sacrificando le genialità dei singoli.
Per José il sacrificio non è mai valso la pena. In nessun caso. Zlatan lo sa perché al modo di fare di quell’uomo ha dovuto abituarcisi in fretta. Se prima era tutto un “Tranquillo, Ibra, quello che ti senti di fare farai”, da quando è arrivato José non c’è spazio per l’irresponsabilità. “Tu sei quello che sei”, gli dice José, “E sei un asso. Un capo. Il pilastro di questa squadra. Perciò è tua responsabilità dare il massimo sempre e comunque. L’Inter è responsabilità tua quanto mia.”
E perciò Zlatan annuisce.
- Sì, lo so, mister. Saremo grandiosi a Catania, vedrà. Io lo sarò.
José sorride e Zlatan abbassa lo sguardo. Non è proprio da lui sentirsi imbarazzato, ma è ciò che gli capita sempre quando Mourinho gli sorride. In un primo momento gli verrebbe da giustificarsi dicendo che il motivo è che José non ride mai, ma è falso: José ride spesso, solo che in genere non si fa vedere se non da chi ha il permesso esplicito di considerarlo una persona come tutte le altre. Per il mondo è lo Special One, e tale deve restare, ma ci sono pochissime persone – lui è fra queste – per cui può essere anche solo José Mourinho. Con loro, sorride.
Nell’elenco ci sono anche sua moglie e i suoi figli. Ma Zlatan deve stare attento a quello che pensa, perché dalla moglie e dai figli di Mourinho fino ad Helena e ai bambini il passo è breve, e da bravo giocatore sa che pensieri come quelli non sono ammessi, nello spogliatoio. Nello spogliatoio non c’è spazio per la famiglia, lo spazio è tutto occupato dalle labbra di José che ora premono con forza contro le sue, e dalle sue mani un po’ tozze che si fanno strada sotto il giubbotto, fra i vari strati di felpe, alla ricerca della pelle calda al di sotto del tessuto.
Zlatan si lascia andare, mettendo a tacere i pensieri e lasciandosi trascinare in piedi finché non si trova schiacciato sulla parete del bagno. Le mattonelle in ceramica sono un po’ fredde ed ancora umide di condensa, l’aria è sempre pesante – è quasi impossibile respirare senza ansimare – ma è difficile, adesso, capire se sia una questione di ambiente chiuso e saturo di umidità o se per caso il problema non sia un altro – se per caso non siano le dita di José che s’introducono oltre l’orlo dei jeans, sbottonandoli e lasciandoli scivolare lungo le gambe, o se per caso non sia il suo fiato dritto sulla nuca, o la pressione della sua erezione contro un gluteo, a cercarsi spazio fino ad entrare dentro di lui. Probabilmente sono quelli i motivi per i quali respirare è così dannatamente difficile, ma Zlatan non ci pensa, a Zlatan non interessa, a Zlatan in realtà non interessa quasi niente di niente quando José si spinge con forza contro il suo corpo, e gli interessa ancora meno quando José fa scattare una mano ad accarezzarlo dall’alto verso il basso per tutta la lunghezza della propria erezione svettante e pulsante di desiderio.
Vede solo bianco quando viene contro le piastrelle, trattenendo il respiro e gli ansiti perché sono nello spogliatoio, d’accordo, ma ci sono cose ancora più intime e private di quelle quattro mura. Ci sono loro due. Loro due sono una cosa molto intima e privata, dopotutto.
- Mister… - confessa con una mezza risata, separandosi da lui e rassettando i vestiti mentre aspetta di recuperare il fiato, - sarà una settimana pesante. Ti sei scelto un mestiere molto difficile.
- Se avessi voluto un mestiere facile, - ride apertamente José, rimettendo a posto i pantaloni, - sarei rimasto al Porto. Una bella poltrona blu, il trofeo della Champions League, Dio, e dopo Dio, io.
Zlatan sghignazza e José lo segue e restano lì, il primo di schiena appoggiato al muro, il secondo dritto in piedi davanti a lui, e questi sono i momenti di quiete che Zlatan spesso vorrebbe utilizzare per chiedere a José qualcosa di molto stupido – qualcosa di cui sicuramente si pentirebbe, qualcosa che in realtà non dovrebbe nemmeno voler chiedere, perché la loro è una relazione di spogliatoio, giusto?, perché lui è solo il suo mister, giusto?, perché lui ama Helena ed ama i bambini e non conta se, quando ce l’ha dentro, esiste solo José. Quando escono da quella porta, il resto del mondo li insegue. E Zlatan deve per forza guardarlo.
Si riscuotono solo quando sentono dei passi pesanti e rumorosi muoversi lungo il corridoio e riecheggiare fra le pareti fino a raggiungerli. È il segnale codificato col quale Adriano li avverte del suo arrivo – qualcosa di molto simile a un “sì, fatevi almeno trovare vestiti” che nessuno ha mai detto ad alta voce ma che è sempre stato anche fin troppo chiaro.
Quando il Brasiliano spalanca la porta – con l’aria incazzosa che ha sempre addosso quando lo costringono a fare qualcosa che non vuole – li trova già lì belli e pronti, coi giubbotti chiusi ed i borsoni sulle spalle.
- Be’? – chiede, - Si va?
José annuisce senza esitazioni e li precede in corridoio. Quando Zlatan fa per passare oltre Adriano e seguirlo, quello per poco non lo manda a terra con uno sgambetto.
- Ma tu non cresci mai? – lo rimbrotta, recuperando l’equilibrio.
Adriano ghigna, palesemente soddisfatto.
- Tu sei cresciuto, nell’ultima mezz’ora?
Zlatan sospira e riprende la via del corridoio, tirandosi dietro il compagno di squadra neanche fosse un pupazzo di peluche.
“Nemmeno di un secondo”, si ritrova a pensare amaramente. Ma resta un pensiero.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Pep/Bojan, Zlatan/Gerard, accenni di Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst.
- Bojan ha paura.
Note: Potete crederci o no, ma questa storia è nata esclusivamente perché la Jan un di', tipo quattro giorni fa, disse "ho voglia di Pejan". Siccome io sono così, mi piace rendere il mondo felice <3 *si bulla* ho pensato bene di accontentare lei e chiunque altro potesse aver voglia di un po' di sano Pejan nel mondo. Poi l'Ibraqué ci si è infilato involontariamente, ed è tutta colpa di una foto ormai famosa in modo nauseante, che non mi prenderò la briga di linkare qua, che tanto anche se vivete sotto un sasso sicuramente il vostro Gazzettino del Sasso si sarà premurato di mostrarvela mentre voi vi affogavate col vostro caffè.
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(Un)Resolved Sexual Tension


Le labbra di Pep sono calde ed asciutte sulla sua pelle umida di sudore. I suoi vestiti sono fradici, e quando gli si avvicina per abbracciarlo Bojan ha come l’impressione di sentirsi nudo contro il suo corpo. Il tessuto della divisa è sottile, non pesa niente, è quasi impalpabile, anche quand’è così bagnato. Arrossisce istintivamente quando Pep lo stringe a sé e gli sussurra qualche complimento sulla tempia, proprio nello stesso punto in cui l’ha baciato poco prima. In mezzo al clamore della folla ed al battito convulso del proprio cuore, Bojan non coglie neanche una delle sue parole, ma gli tremano ugualmente le ciglia quando lo sente sorridergli addosso e massaggiargli piano una spalla col pollice da sopra la maglia bagnata, un attimo prima di lasciarlo andare ed allontanarsi di qualche centimetro, per cercare i suoi occhi ed anche una risposta alla domanda che ha formulato e che Bojan s’è colpevolmente lasciato sfuggire.
- Cosa… - boccheggia, mentre tutto intorno a lui i compagni festeggiano e lui non riesce a vedere nient’altro oltre agli occhi di Pep e al suo sorriso piccolo e dolce, - Cosa hai detto?
Pep inarca un sopracciglio ed il suo sorriso si allarga appena, divertito.
- Ti ho chiesto se ti va di fermarti da me, stanotte. – ripete senza imbarazzi di sorta, - Devo mettermi nel cerchio di centrocampo, rubare un microfono a qualcuno e urlarlo a tutto il Camp Nou? – ridacchia, scompigliandogli i capelli.
- No! – ride per riflesso anche lui, abbassando lo sguardo mentre le guance gli si arrossano e lui è grato di poter fingere sia solo a causa della fatica per la partita appena conclusa, - No, ho… ho capito.
- E intendi anche darmi una risposta da qui alla fine del secolo? – lo prende in giro Pep, tirandoselo contro ancora una volta in un gesto rassicurante.
- Sì. – sbuffa lui in un sorriso più sereno, - Voglio dire, sì che intendo risponderti. E sì anche che… che mi fermo da te. – annuisce distogliendo lo sguardo. Pep sorride ancora, Bojan non lo vede ma può sentirselo addosso.
- Bene. – gli sussurra sulla pelle in un altro bacio, stavolta sulla guancia, - E smetti di tremare, dai. – consiglia ridacchiando ancora e spintonandolo lievemente spalla contro spalla, prima di allontanarsi verso la postazione per le interviste post-partita.
Bojan lo osserva muoversi, farsi più piccolo e poi sparire nel tunnel, e vorrebbe davvero smettere di tremare, ma non ci riesce.

*

Sta ancora tremando quando Pep gli apre la porta di casa e lo invita ad entrare. Non è la prima volta che si trovano da soli in casa dell’uno o dell’altro: Bojan ormai dovrebbe essere abituato a questa loro routine da fidanzatini casti e puri – può ancora ricordare quanto forte fosse il profumo della pelle di Pep quando, dopo averlo baciato a lungo, un pomeriggio di tanti e troppi mesi prima, gli ha detto “solo quando sarai pronto, Boji, io non ho fretta” – eppure per qualche motivo non riesce a sentirsi meno che terrorizzato ogni volta che la porta si chiude alle sue spalle, specialmente in quel breve istante in cui si ritrovano all’ingresso ancora immersi nel buio, prima che uno dei due si allunghi sbrigativamente ad accendere la luce per annegare l’imbarazzo in una risatina nervosa, incamminandosi a passo svelto lungo il corridoio.
Questa volta tocca a lui: stende un braccio lungo la parete, dove sa già di trovare l’interruttore della luce, e lo schiaccia. Di colpo, all’oscurità spazzata appena dalla luce della luna a filtrare dalla finestra in fondo alla stanza, si sostituisce la luminescenza giallastra della lampadina alta sul soffitto sopra di loro. I contorni delle cose si fanno più definiti – più spaventosi – e Bojan si sente quasi costretto ad abbassare lo sguardo mentre si rende conto dell’estrema facilità con cui riconosce il posto di ogni singolo mobile e soprammobile in quella stanza, così come prima le sue dita hanno trovato la via per l’interruttore della luce con una naturalezza perfino disturbante.
Imbocca il corridoio come fosse a casa propria, e combatte a stento il desiderio di fermarsi ogni due passi per ricordarsi che così non è, lui non vive lì, e dovrebbe ricominciare a comportarsi da ospite, sempre ammesso che l’abbia mai fatto prima d’ora. Entra in camera di Pep senza chiedergli se può, indovina a memoria la strada per il letto senza mai accendere la luce, e quando le sue ginocchia sfiorano il fianco del materasso vi si appoggia e molleggia un po’ contro quella morbidezza familiare, prima che qualcosa di meno morbido ma ugualmente familiare – il corpo di Pep, le sue mani, l’erezione prepotente fra le cosce che ogni volta cerca con scarso successo di nascondergli per non spaventarlo – lo raggiunga alle spalle, sfiorandolo con circospezione.
Bojan trattiene il respiro mentre Pep se lo stringe contro e scivola con le labbra lungo il profilo del suo viso e del suo collo, sfiorandogli la curva della spalla con la punta del naso da sopra la maglietta e respirandogli addosso per un tempo indefinito prima di chiamarlo piano per nome e scendere con il palmo della mano bene aperta lungo la sua pancia, sotto la maglia, soffermandosi appena qualche secondo sull’ombelico giusto per fingere di non essere terrorizzato all’idea di scavalcare l’orlo di pantaloni e boxer e scenderne al di sotto, per toccare ciò che le sue dita, vagando apparentemente senza meta sulla sua pelle, stanno segretamente cercando da quando hanno cominciato ad accarezzarlo.
Bojan non sa cosa Pep si aspettasse dalla serata; o forse sì, forse lo sa ed è proprio questo a spaventarlo tanto: il fatto che Pep si aspettasse qualcosa mentre lui, da qualche parte neanche troppo nascosta della propria testa, non faceva altro che sperare che, invece, non s’aspettasse niente.
Dovresti averne voglia, si dice impietoso mentre, con uno scatto quasi isterico, si allontana dal suo corpo e si volta per non dargli le spalle, guardandolo dritto negli occhi come un animale braccato che ha estremo bisogno di guardare il suo cacciatore in faccia, per cercare di comprenderne i piani. Dovresti tenerci anche tu, si ripete, dovresti volerlo, dovresti lasciarti toccare. E invece non vuole.
- Boji…? – lo chiama Pep, confuso, allungando una mano nel tentativo di raggiungerlo. Bojan si stringe nelle spalle e chiude gli occhi di scatto, come avesse paura di veder divampare fiamme dalla punta delle sue dita. Pep spalanca gli occhi e le labbra, e si ritrae, sconvolto.
Quando Bojan torna a guardarlo, si rende conto di sentirsi troppo in colpa perfino per restare lì a respirare la sua stessa aria, ed è per questo che si volta, esce dalla stanza e ripercorre il corridoio al contrario, afferrando la giacca alla cieca dall’attaccapanni e fuggendo da casa sua senza mai guardarsi indietro, e senza aver mai sentito il bisogno di accendere la luce.

*

Il tempo pazzo della primavera in Catalogna gli si riversa addosso con furia mentre corre per le strade di Barcellona. Gli piove addosso uno sproposito d’acqua, il vento gli scompiglia i capelli sollevandoglieli dalla fronte per poi lasciarglieli ricadere sul viso con la violenza di uno schiaffo. Bojan piange, ma non riesce a distinguere le lacrime dalle gocce di pioggia, per cui l’unica cosa che gli permette di capire quanto profondamente stia male è un dolore diffuso nel petto e i singhiozzi che gli scuotono le spalle, sfiancandolo più di quanto non stia facendo la sua corsa matta verso casa di Gerard.
Avrebbe potuto andare da chiunque avesse voluto, nessuno dei suoi compagni gli ha mai negato ospitalità o sostegno, solo che sono tendenzialmente tutti più grandi di lui – a parte Pedrito, ma Pedrito è un cretino babbione che chissà dove e come starà festeggiando la vittoria, proprio stasera – e per questo motivo si sentono come in dovere di fargli da vice-padri, e la prima cosa alla quale pensano quando lui si presenta a far loro visita con un “ho un problema” sulle labbra è “vediamo come possiamo risolverlo”.
Geri no, invece. Geri ha ventitre anni ma per certi versi – per molti versi – è rimasto un ragazzino. Dice sempre la prima cosa che gli salta sulla lingua, ride per ogni stupidaggine, e soprattutto non si è mai sentito grande abbastanza da poter risolvere i propri casini, figurarsi quelli degli altri. In compenso, è sempre disposto a distribuire un po’ di coccole a caso quando necessarie, e il suo letto nella stanza degli ospiti è sempre pronto all’uso, per quanto spesso Bojan si sia ritrovato triste abbastanza da costringersi all’imbarazzo di abbandonare quelle lenzuola neutre e un po’ deprimenti per spostarsi in punta di piedi in camera del suo ospite, trovandolo il più delle volte ancora sveglio, sorridente e in perfetta attesa che qualcosa di simile accadesse, pronto a dargli accoglienza al proprio fianco, fra le coperte calde che profumano di lui – di casa, di consolazione, di abbracci.
Per questo, non si preoccupa dell’ora tarda quando si attacca al campanello di casa di Gerard, e si stringe nervosamente nelle spalle, sotto la tettoia, cercando di scrollarsi di dosso un po’ di pioggia mentre si prepara a saltargli al collo nell’esatto momento in cui avrà aperto la porta e potrà ritrovarselo davanti. Solo che quello che apre la porta non è Geri, non gli assomiglia nemmeno. È Zlatan ed è seminudo e lo sta guardando come fosse un ostacolo imprevisto ma inevitabile, di quelli che poi ricordi con odio per tutto il resto della tua esistenza.
- Zlatan…? – sillaba incerto, scrutandolo terrorizzato mentre lui sospira, poi sbuffa e rientra in casa, lasciandosi la porta socchiusa alle spalle per permettergli di entrare.
- Hai visite. – lo sente sussurrare rivolgendosi a Gerard, un secondo prima di scostare le lenzuola con un gesto brusco e poi tornare a stendersi sul letto, nello stesso identico posto che presumibilmente occupava prima del suo arrivo.
- Boji! – lo chiama Gerard, sfoggiando un entusiasmo del tutto ingiustificato e saltando giù dal letto per correre ad abbracciarlo, nonostante sia fradicio di pioggia. – Ma santo Dio, dove diavolo sei stato? Sarai mica venuto a piedi?
Bojan annuisce senza davvero pensarci, e non riesce a staccare gli occhi di dosso da Zlatan che, dal canto proprio, continua a sfogliare Marca con aria annoiata, interrompendosi solo quando il suo sguardo comincia a farsi abbastanza pesante da impedirgli di ignorarlo ancora.
- Che hai da guardare? – chiede bruscamente, e Bojan distoglie immediatamente lo sguardo, arrossendo imbarazzato.
- Niente… - biascica incerto, - Solo che, insomma, credevo che fosse tutta una bufala, quella foto… sembrava così strana, credevo fosse finta.
- Finta! – sospira Zlatan, sollevando gli occhi al cielo, - L’unica cosa finta in tutta questa storia è il cervello che questo cretino mi aveva detto di avere quando invece ne era palesemente privo.
- Non essere il solito stronzo, Zlatan. – borbotta Gerard, spalancando cassetti a caso e tirandone fuori un telo di spugna nel quale lo avvolge quasi completamente, sfregandolo come fosse un cucciolo appena trovato per strada, nel tentativo di riscaldarlo. – Che succede, Boji? Ci sono stati problemi?
Il suo sguardo si fa immediatamente cupo e adombrato da un velo di lacrime, motivo per cui Gerard lascia andare un mugolio preoccupato al quale Zlatan fa subito eco con una lamentela disperata.
- Ma non poteva restarsene a casa sua? – sbotta infastidito, scalciando via le lenzuola e mettendosi in piedi vagamente stizzito.
- Zlatan, ma che palle! – lo rimprovera Gerard, sedendosi sul letto e trascinandosi dietro Bojan perché possa accomodarsi di fronte a lui, - Il piccolo qui ha evidentemente problemi d’amore, come puoi non capire che ha bisogno di conforto?
- Il conforto non serve! – protesta lui, ad un passo dalla porta del bagno, voltandosi a guardarli incredulo, - Non è che una menzogna che ti raccontano per farti credere che da qualche parte, nel mondo, ci sia speranza per la bontà umana, cosa assolutamente falsa. E poi, amore, che paroloni.
- Sì, be’, in effetti chiedere a te di comprendere un concetto simile è impensabile. – lo prende in giro con un ghigno sardonico, al quale Zlatan risponde con una smorfia inviperita.
- Io so esattamente cos’è l’amore, e per tua informazione lo conosco anche!
- Eccome! – risponde a tono lui, - Quando t’ho conosciuto eri già più sfondato di un traforo montano, non so se esista qualcun altro nel mondo che conosca l’amore più profondamente di te.
Zlatan si prende qualche secondo per fingersi più oltraggiato di quanto realmente non sia, e poi gli tira addosso una pantofola.
- Fottiti. – conclude, chiudendosi a chiave in bagno, non senza portare Marca con sé, e Gerard ride sotto i baffi mentre torna a concentrarsi esclusivamente su Bojan.
- Coraggio. – dice, accarezzandogli teneramente una spalla in segno di conforto, - Di’ a zio Geri cos’è successo.
Bojan non riesce a guardarlo tranquillamente negli occhi, motivo per il quale tiene gli occhi fissi sull’orlo del lenzuolo e lo stropiccia infantilmente fra le mani, mordicchiandosi un labbro. Cerca di concentrarsi su quello e spera che le parole vengano fuori da sole, senza bisogno di doverle spingere, perché non ha forza a sufficienza per farlo.
- Ho paura. – confessa in un soffio di voce, - Ho una paura folle, non riesco neanche a pensarci senza avere voglia di scappare. – si copre il viso, dimentico di non aver dotato la frase di un soggetto cui Gerard potesse appellarsi per capire a grandi linee di cosa stesse parlando, ma Gerard non insiste, lo lascia sfogare, sa che il momento giusto per chiedergli di spiegarsi arriverà, e se non dovesse arrivare sa che in qualche modo lo capirà da sé. – Non ho mai pensato che prima o poi saremmo arrivati a questo punto— cioè, è ovvio che ci ho pensato, - precisa arrossendo ancora, - però, insomma, non ci ho pensato davvero, a quello che potrebbe comportare, a cosa potrebbe significare, ma soprattutto… - si morde ancora il labbro inferiore, con più forza, come servisse a provarsi qualcosa, - non ho mai pensato al dolore, e— e mi fa paura. Mi fa paura tantissimo, non riesco— mi irrigidisco tutto, divento un pezzo di ghiaccio appena mi tocca, ed è solo perché ho una paura tale che non riesco a sbloccarmi. E continuando così manderò a puttane tutto, lo so, ma-- - singhiozza appena, trattenendo il respiro per non scoppiare a piangere come una ragazzina, - ma non ci posso fare niente, non riesco. Non riesco.
Gerard resta silenzioso e immobile a lungo, prima di decidersi a fare qualcosa. Lo prende delicatamente per le spalle e lo trae a sé, incurante dei suoi vestiti bagnatissimi che il telo di spugna non è riuscito ad asciugare neanche parzialmente, e se lo sistema sul petto, tirandogli giù l’asciugamani dalla testa per accarezzargli i capelli, lasciando sfilare le dita fra le ciocche che gli gocciolano sul viso, in parte per scacciare l’acqua, in parte per tranquillizzarlo.
- Sei così piccino. – gli sussurra dolcemente all’orecchio, coccolandolo un po’, - È normale avere paura, Boji, è giusto avere paura. È quella sirena che l’istinto di conservazione mette n moto perché tu possa chiederti se vuoi davvero qualcosa, o se sei pronto per ottenerla, in ogni caso.
Bojan annuisce distrattamente, più che altro perché ora ha voglia di ricominciare a piangere, e chiude gli occhi mentre si lascia cullare, sperando che questo possa aiutarlo magari ad addormentarsi lì e mettere un punto a questa nottata disastrosa, ma la chiave che gira nella toppa del bagno e la porta che si apre subito dopo, mentre Zlatan torna in camera con uno sbuffo esasperato, gli impedisce di portare a termine i suoi progetti.
- Quante sciocchezze. – sbotta lo svedese, avvicinandosi al letto con aria bellicosa e sedendosi sul materasso, per poi afferrarlo impetuosamente per le spalle e piantarselo dritto proprio di fronte, in modo da poterlo guardare negli occhi. – La paura è una stronzata con cui il tuo corpo ti spiega che non sai abbastanza di ciò in cui ti stai andando a ficcare. Scompare completamente quando sai cosa aspettarti. A te non servono coccole, ti serve informazione.
- Zlatan! – cerca di fermarlo Gerard, col solito tono petulante che, Bojan se n’è accorto, utilizza spesso con lui, ma Zlatan lo zittisce con un gesto infastidito, e torna a parlargli.
- Non sto parlando di sciocchezze tipo preservativo, lubrificante e cose simili, queste le saprai già, figurarsi se non le sai già. – quasi lo prende in giro, e Bojan abbassa lo sguardo, - No, sto parlando di informazione vera. Tipo quello che succede. – e prende un gran respiro, e lo prende anche Gerard, e quindi Bojan si sente autorizzato a prenderlo a propria volta: - Farà male. Farà un bel po’ di male, e specialmente se è la prima volta sarà strano e frustrante e confuso, e se durerà troppo a lungo non vedrai l’ora che finisca, il più presto possibile. E dopo vi sentirete sciocchi e non riuscirete nemmeno a guardarvi negli occhi, ma – e sorride, per la prima volta da quando Bojan è arrivato, e si allunga perfino a scompigliargli comicamente i capelli, come una specie di padre imprevisto che mai avrebbe creduto di potersi ritrovare a svolgere una funzione simile per un semi-sconosciuto, - sarà per sempre vostro. E sarà per sempre tuo. E ripensandoci più avanti potrai dire di essere stato felice di averlo fatto.
Bojan guarda il suo sorriso sereno e per un secondo riesce a trovarlo perfino bello, mentre Gerard ridacchia per motivi che non comprende e si allunga prima ad accarezzargli i capelli e poi a dargli un bacio sulla guancia. Li osserva agire con tanta tenerezza dopo i continui battibecchi in cui li ha visti esibirsi nel corso dell’ultima ora, e improvvisamente gli sembra tutto molto meno assurdo e sbagliato di quanto non avrebbe mai creduto possibile.
- Torna a dormire. – dice Gerard, rivolgendosi a Zlatan mentre lui, con uno sbuffo, obbedisce, e si stende tranquillamente sul materasso, - Hai rivangato anche troppo per una sera sola. Boji, - lo chiama quindi, sorridendogli sereno, - aspettami di là. Mi vesto e ti riporto da lui.

*

Ha salutato Gerard più di cinque minuti fa, ma non è ancora riuscito a trovare il coraggio di suonare il campanello, perciò è rimasto immobile di fronte alla porta in legno massiccio dell’appartamento, immerso nel buio, fino ad adesso, e l’unica cosa che gli sembra di aver imparato da questa serata, dopotutto, è che le parole sembrano avere un gran peso nel momento in cui le ascolti o le dici, ma finiscono per perdere in consistenza man mano che il momento in cui sono state pronunciate va allontanandosi nel tempo.
Si mordicchia distrattamente un pollice, spera di non fare troppo rumore – ma come?, si chiede anche, e poi lascia perdere perché è il meno irrazionale di tutti i pensieri irrazionali che l’hanno intrattenuto negli ultimi cinque minuti ormai quasi dieci – e riesce a scansarsi appena in tempo per non prendere la porta sul naso quando Pep la spalanca con un’urgenza inaudita, e poi si blocca sulla soglia, identificandolo lì in piedi sul suo zerbino, perso nell’oscurità più totale a non fare assolutamente niente.
- Boji. – sillaba incerto, - Ero… ero preoccupato! Stavo venendo a cercarti, di fuori c’è il diluvio e tu sei tutto bagnato! Senti, mi dispiace se ho sbagliato, non intendevo metterti paura, stavo solo-- - ma Bojan non lo lascia finire, riconosce in un secondo il peso delle parole e quelle di Zlatan tornano a farsi così presenti nella sua testa da assumere quasi una consistenza fisica, nel momento esatto in cui osserva le sopracciglia di Pep corrugate, i suoi occhi velati d’ansia, le sue labbra piegate in una smorfia preoccupata e tutti i suoi lineamenti tesi dal senso di colpa.
Si slancia in avanti anche a rischio di fargli male, e lo bacia d’impeto, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra. Pep è stupito dalla sua fretta, è stupito anche dall’atto in sé, ma riesce a restare presente a se stesso abbastanza da ricordarsi di chiudere la porta alle loro spalle, e poi resta lì nel mezzo dell’ingresso, incerto sul da farsi, stringendoselo contro perché sembra che sia questo ciò che Bojan vuole, mentre continua a baciarlo come se le ultime molecole d’ossigeno esistenti nell’universo fossero tutte concentrate sulla superficie delle sue labbra.
- Ti amo. – gli sussurra addosso, quando riesce ad allontanarsi abbastanza da tornare a respirare autonomamente, - Ti amo, ti amo, ti amo tantissimo, scusa se sono scappato. Sono un cretino e non avevo capito niente, scusami.
Pep lo guarda inarcando un sopracciglio, confuso, come non riuscisse a trovare neanche nell’anfratto più recondito della propria mente un singolo motivo per il quale Bojan dovrebbe volersi scusare con lui. E Bojan pensa che è felice che le parole abbiano un peso anche adesso, e sorride serenamente, un po’ commosso da quanto sciocco sia l’uomo che ama. Torna a baciarlo, stavolta con meno furia, e le sue mani scendono quasi di soppiatto ad afferrare l’orlo della sua maglietta, tirandolo su. Pep si allontana da lui e lo guarda ancora, se possibile più confuso di prima, ma i suoi occhi si soffermano nei propri abbastanza a lungo da lasciargli intendere tutto ciò che è necessario intenda. Poi, la maglia cade ai loro piedi, e Bojan si sofferma un attimo ad osservare la linea del torace di Pep, i pettorali definiti e gli addominali disegnati sul ventre. Quasi ipnotizzato, si sporge fino a lambirli appena, scivolandogli addosso in una carezza umida ma lievissima. Sente la sua pelle tremare in punta di lingua in concomitanza col gemito di gola che si lascia sfuggire, e si permette di sbirciare in alto il suo capo reclinato all’indietro, le labbra dischiuse mentre le inumidisce con la lingua e lascia correre una mano ad accarezzargli la nuca, un po’ in un gesto tenero e un po’ in un’inconscia richiesta.
È una richiesta che Bojan non intende rifiutare, dopotutto, perciò nonostante la paura s’inginocchia sul pavimento e poggia le dita sull’orlo dei suoi pantaloni. Fissa imbarazzato il rigonfiamento evidente all’altezza del cavallo di Pep e poi, senza prendersi un solo secondo in più per riflettere – d’altronde, sarebbe inutile, e probabilmente anche controproducente – lo spoglia, avvicinandosi timorosamente alla punta della sua erezione tesa verso le sue labbra in un invito muto. L’accoglie quasi perfettamente in silenzio, lasciandosi sfuggire solo un singhiozzo appena accennato quando, provando a prenderla più in fondo, si rende conto che non ci riesce bene. Probabilmente, si dice, perché non ci ha mai provato, e la cosa lo riempie di imbarazzo ancora più degli ansiti che Pep non riesce ad impedirsi di soffiare fra le labbra, perso da qualche parte sopra di lui che non può vederlo, perché si ostina a tenere gli occhi serrati.
Si allontana da lui poco dopo, perché in tutta onestà non saprebbe cos’altro fare. Gli occhi di Pep – che trova subito, persi nei suoi – sono offuscati e un po’ lucidi, e il suo respiro è affannoso. Lo aiuta a sollevarsi in piedi e poi resta lì, inerte fra le sue mani, mentre Pep gli sfila lentamente gli abiti di dosso. Gli si appiccicano alla pelle, tanto sono bagnati. Oppongono resistenza, lasciano tracce umide su tutto il suo corpo e Bojan si ritrova scosso più dai brividi di freddo che da quelli dell’imbarazzo, quando si ritrova completamente nudo di fronte a lui.
Pep lo guarda come fosse un’opera d’arte, ammirato e perso. Si allunga a sfiorarlo con devozione, Bojan chiude gli occhi e gli viene da piangere per essere stato così stupido da non permettergli di farlo prima. Si chiede come abbia potuto pensare anche solo per un attimo che il dolore potesse essere una ragione sufficiente per rinunciare alla sensazione perfetta di sentirsi completo e felice fra le sue dita. Si chiede come abbia potuto essere così sciocco da fingere che la vita non gli avesse insegnato niente, fingere di non sapere che per qualsiasi cosa bella bisogna sudare e stringere i denti e ignorare la sofferenza, sperando di riuscire a conquistare ciò che si vuole davvero. Sono cose che sa, cose che non ha mai dubitato di avere imparato, eppure con Pep per qualche minuto aveva perso questa consapevolezza, ed ha rischiato di perdere tutto per la cecità di un istante.
Si lascia stendere sul materasso, sente il cuscino sotto la testa inumidirsi per la pioggia che ancora cola dai propri capelli, ma sorride quando Pep – che di solito per queste cose è il primo a rompere le palle – invece di farglielo notare gli chiede se sia proprio sicuro di volerlo. Annuisce tranquillo e poi si lascia trasportare dalla sensazione stupenda delle dita di Pep che lasciano una traccia bagnata sul suo petto e sul suo stomaco, prima di scendere ad accarezzarlo fra le natiche, esplorandolo prima all’esterno e poi appena all’interno, per permettergli di abituarsi a quella presenza nuova e invadente.
Bojan sente l’altra sua mano chiudersi delicatamente attorno alla propria erezione, ed inarca la schiena, affondando tra i cuscini e mugolando deliziato quando quella stessa mano comincia a muoversi in una carezza sempre più decisa, seguendo il movimento delle sue dita che frugano dentro il suo corpo, si piegano e gli tolgono il respiro. La sensazione è così bella che accoglie quasi con disappunto il momento in cui le dita di Pep lo abbandonano, ma non ha veramente modo di pensarci troppo a lungo, perché la pressione di quelle dita viene sostituita immediatamente da una pressione ben più grande e profonda.
Spalanca gli occhi, schiude le labbra, e la bocca di Pep è lì, immediatamente pronta a coprire la sua, ed ogni più piccolo gemito di dolore. La sua lingua accarezza la propria teneramente, come volesse consolarlo, e la sua mano non smette un secondo di masturbarlo con attenzione, seguendo le proprie spinte ed anche i movimenti naturali del suo bacino, mentre cerca di abituarsi alla novità senza piangere troppo. Qualche lacrima gli sfugge, e non può fare a meno di sentirsi un ragazzino idiota per questo, ma la risata intenerita e senza fiato di Pep lo consola, come lo consolano i suoi baci, come lo consolano perfino le sue spinte dapprima lente e caute, poi sempre più svelte. E lo inorgoglisce essere lui la causa di quella temporanea perdita di controllo, il motivo per cui Pep smette di affidarsi alla propria razionalità e si lascia portare avanti dal proprio istinto, e quando stringe forte gli occhi perché la presa di Pep si fa più forte sulla propria erezione e la sua carezza si fa decisa al punto da costringerlo a venire con un gemito acuto e liberatorio, vede bianco per una quantità infinita di secondi, e si rende conto che la traccia umida delle lacrime sulle guance s’è già asciugata.
Pep gli si stende addosso esausto il secondo successivo. Bojan lo sente respirare a corto di fiato sul suo collo, e solleva una mano ad accarezzargli la nuca. Sorride, fissando il soffitto. Si sente a casa. E non ha più paura.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Angst, Gen, (accenni) Het.
- "Zlatan si sveglia, sente un buon profumo provenire dalla cucina ed apre gli occhi."
Note: Ambientata in un momento randomico della sua permanenza in Spagna -- solo che dopo la giornata di ieri ha un significato ancora più profondo XD Titolo rubato a Hello degli Evanescence. Prompt: Unito/Diviso @ It100.
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DON’T TRY TO FIX ME// (UNITO)
Zlatan si sveglia, sente un buon profumo provenire dalla cucina ed apre gli occhi. Sorride, ascolta per qualche secondo Helena canticchiare in cucina e i bambini parlare di cose sicuramente fondamentali di cui lui, ancora seminascosto fra le coperte, non riesce a cogliere il senso, e solo dopo si alza. Cammina lungo il corridoio a piedi nudi, sente la moquette fargli il solletico sotto le dita e quando entra in cucina Vincent lo vede e si catapulta giù dal seggiolino agitando il minuscolo frisbee che ha trovato nella confezione di cereali. La sua foga è tale che inciampa nei suoi stessi piedi, e Zlatan lo osserva cadere di faccia e schiacciarsi il nasino a patata contro il pavimento reprimendo a stento una risata, facendoglisi vicino e tirandolo su prima per controllare, come già sa, che non sia successo niente, poi per rassicurarlo con un po’ di bacini sulle guance paffute e infine per distrarlo chiedendogli di spiegargli cos’è quel gioco che ha in mano. Helena gli versa il caffè in una tazza, lo allunga con un po’ di latte, gli sorride. Zlatan lancia un’occhiata fuori dalla finestra: Milano è il solito delirio caotico e ingrigito dallo smog, ma lui si sente completo, e sorride ancora.

(DIVISO) //I’M NOT BROKEN
Zlatan si sveglia, sente un buon profumo provenire da qualche parte imprecisata della stanza ed apre gli occhi. Si gratta stancamente la fronte – non ha dormito bene – e quando si tira a sedere ci sono Helena e i bambini seduti al tavolo nella stanza accanto, che sbocconcellano pigramente caffellatte e croissant dal vassoio del servizio in camera. Zlatan sente fra le dita il tessuto morbidissimo delle lenzuola di quella stanza d’albergo che, tutta assieme, deve costare molto più di una vita umana e probabilmente anche più di quanto abbia speso Laporta per portarlo fin lì, e si alza in piedi sentendo la pelle prudere, come non riuscisse più a sopportare la sensazione di quelle lenzuola addosso. La moquette gli solletica la pianta del piede e lui, quando si siede al tavolo ed osserva il vassoio per cercare di capire se gli vada di bere il caffè o se non preferisca un po’ di succo di frutta, gratta via il prurito sbrigativamente, senza rifletterci troppo, con una smorfia perfino infastidita. Helena cerca di sorridergli, poi distoglie lo sguardo. Sospirando pesantemente, Zlatan lancia un’occhiata fuori dalla finestra: Barcellona è splendida, calda e assolata, ma lui si sente mancare qualcosa, e non riesce a sorridere.
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno in particolare, accenni a José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Crack, What If?, pseudoSlash.
- "Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione."
Note: Dunque, questa storia è a) totalmente inutile, b) totalmente folle. E' nata quando s'è cominciato vagamente a parlare del fatto che il Barça non avrebbe potuto raggiungere Milano in aereo, al che il mio cervello non poteva proprio starsene lì buonino ad osservare i fatti, no, doveva inventare XD E, insomma, questo è quello che è venuto fuori. Dedicata alla Jan perché sì, ecco XD
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Pepissea


Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione. Il commento di Pep alla questione, dopo aver appreso la notizia al telegiornale, era stato: “Ma porca di tutte quelle troie, dopo centottantasette anni doveva risvegliarsi e rompere i coglioni proprio adesso?”, al quale era seguito a distanza ravvicinata il commento di Bojan che, guardando il cielo con aria assorta come dovesse vedersi piovere una rana sulla testa da un momento all’altro, aveva detto “Non mi meraviglia che stia spargendo tutta questa robaccia in giro… inutilizzato da tutto questo tempo, doveva essere così impolverato.” Il minuto di silenzio che aveva seguito questa deduzione sarebbe rimasto nella storia di tutti i più importanti minuti di silenzio mai verificatisi a Barcellona per lungo, lungo tempo. Ma questa è un’altra storia.
Dopo due rinvii di un paio di giorni e poi una settimana, era altresì parso evidente che se anche le benedette semifinali fossero state spostate nello spazio e nel tempo fino ad essere organizzate in un universo parallelo, ucronico e geograficamente traslato su un pianeta vicino, le ceneri non sarebbero scomparse ed avrebbero continuato ad affliggere i cieli europei rendendo impossibili le tratte aeree ancora a lungo, ed era stato in forza di questo che, esattamente tre settimane dopo il disastro, Michel Platini aveva chiamato Joan Laporta e gli aveva spiegato che continuare a rinviare sarebbe stato del tutto inutile. “De scioeu mast go on, monsieur Laportà”, aveva detto.
“Laporta,” l’aveva corretto lui, infastidito. “E comunque ne parli col mio allenatore, che io il culo dalla Catalogna lo schiodo solo in casi di estremo bisogno – ed una semifinale di Coppa dei Campioni decisamente non rientra nella casistica indicata.”
“Si chiama Sciampions Lig,” aveva borbottato lui, e poi, rassegnato, s’era fatto passare Pep. “Monsieur Guardiolà!” l’aveva salutato con entusiasmo, “Comment ça va?”
“È Guardiola,” l’aveva corretto anche Pep con un ringhio sommesso, “E non intendo portare la mia squadra in Italia in queste condizioni.”
Il battibecco che ne era seguito sarebbe entrato anche lui nella storia di tutti i più importanti battibecchi mai verificatisi a Barcellona, ma si era nondimeno dovuto concludere con la sconfitta plateale di Pep per esigenze superiori, fra i sospiri rassegnati di tutta la squadra.
Fissata una nuova data per la partita – una che stavolta fosse definitiva – la prima questione da dirimere era stata quella dei biglietti aerei.
- Cosa vuol dire che non ci sono voli? – aveva chiesto Pep, fissando con aria incredula e anche vagamente pallata l’operatrice dell’agenzia di viaggi, seduta di fronte a lui tutta stretta nelle spalle come volesse scusarsi anche solo di esistere.
- Non è colpa mia, signor Guardiola… - aveva mugolato la ragazza, continuando a scrollare con la rotellina del mouse, pressando F5 sulla tastiera di tanto in tanto per aggiornare l’elenco di voli desolatamente vuoto, - Le ceneri sono ancora alte e pesanti, gli aerei non sono sicuri. Nessun mezzo in realtà lo è, dato che ultimamente i temporali si sono fatti sempre più frequenti e intensi, e-
- Senta, - l’aveva quindi interrotta Pep, massaggiandosi stancamente le tempie, - noi dobbiamo essere in Italia fra meno di due settimane, e non possiamo certo andarci a piedi. E lei capisce che non posso ficcare trenta persone fra giocatori e staff tecnico e medico in un treno per poi mandarli in giro per l’Europa fino a Milano. Mi trovi una soluzione.
La ragazza aveva abbassato lo sguardo, mortificata.
- Temo non ce ne siano, signor Guardiola. – aveva affermato tristemente.
Era stato allora che Carles si era avvicinato ed aveva proposto un modo per sfangarla.
- Guardi, mister, - aveva detto con aria professionale, - io non prometto niente, ma c’è un cugino di un fratello di un amico di un compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di mia cugina Dolores che ha una barca.
- Una barca. – aveva ripetuto Pep, come a cercare di convincersi della fattibilità dell’impresa, - Una cosa tipo uno yacht? Una piccola nave?
- No, una barca. – aveva insistito Carles, grattandosi la sommità della testa, - Da pesca, tipo.
- …ma come ci dovremmo arrivare noi in Italia con una barca da pesca?! – aveva strillato Pep, agitando le braccia, - Santo Dio, Carles!
Le cose si erano fatte anche più complesse quando, dopo aver appurato che nessun battello in condizioni umane sarebbe salpato in tempo utile, non certo col mare continuamente martoriato da tempeste in quel modo, la squadra s’era recata in pompa magna a prendere atto delle condizioni dell’imbarcazione che avrebbe dovuto condurli sani e salvi a destinazione, nonché di colui che sarebbe stato il loro timoniere nella buona e nella cattiva sorte, che i venti fossero favorevoli o no.
Il cugino del fratello dell’amico del compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di Dolores, cugina di Carles, viveva la propria vita in un costante stato di ubriachezza che gli concedeva tregua solo per pochi minuti al giorno, e si trascinava in stato semicomatoso dal pontile mezzo coperto di alghe sul quale pareva vivere al ponte della sua pseudo-barca da pesca le cui travi si tenevano palesemente attaccate con lo sputo. Arrivando, Pep e i suoi ragazzi lo trovarono piegato in due oltre il parapetto a vomitare alimenti di incerta provenienza sia quanto a conformazione molecolare sia quanto a tempo trascorso all’interno dello stomaco. Quando gli chiesero se si sentisse male, lui rispose “È solo un po’ di mal di mare”, ed i ragazzi preferirono evitare di fargli notare che la barca era ferma.
- Signor… - provò a chiamarlo Pep quando lo vide scivolare come senza vita lungo il fianco della barca, per poi tornare a sedersi sul pontile, - Signore, mi chiamo Josep Guardiola, piacere. – disse porgendogli una mano, che l’uomo ignorò platealmente, continuando a fissare laconico l’orizzonte oltre il quale nubi nere cariche di pioggia si addensavano inesorabili. Bojan tirò su il cappuccio, sempre pensando alle rane. – Ehm, posso sapere come si chiama? – proseguì Pep, incerto.
- Ho dimenticato il mio nome molti anni fa. – rispose l’uomo tetro, dando i brividi a tutti, - Non serve un nome, quando si è soli col Mare. Il Mare non ti chiama per nome.
- …no, naturalmente. – rispose Pep, deglutendo a fatica, - Senta, a noi serve un passaggio in barca fino, facciamo, in Italia. – disse, gesticolando a caso per darsi un tono. – Lei sarebbe disposto?
L’uomo si voltò a guardarlo e poi, non senza una certa fatica, si erse sulle gambe, torreggiando su tutti loro.
- Josep Guardiola, - disse sempre più cupo, - temi tu la morte?
Pep inspirò profondamente.
- In realtà sì. – rispose con un certo imbarazzo, - Ma vede, non stiamo organizzando una missione suicida, davvero. Vogliamo solo andare in Italia. Speravamo che lei potesse esserci d’aiuto, tutto qua.
L’uomo si grattò il mento, gli occhi distanti persi in chissà che scenario mortifero.
- Potrei. – rispose quindi, e una nuova luce illuminò i visi di tutti i presenti, - Ma ho perso le chiavi della barca. – confessò, tornando a portare l’oscurità su di loro, - Sono finite dentro quella grotta. – disse, indicando un punto moderatamente lontano della scogliera, - Mentre inseguivo un cerbiatto.
- …un cerbiatto? – chiese Pep, gli occhi enormi.
- I misteri del Mare sono molti. – grugnì l’uomo.
- Sì, e quelli delle allucinazioni post-sbornia anche. – commentò in un sospiro Thierry, scuotendo teatralmente il capo mentre Pep gli lanciava un’occhiataccia volta a zittirlo.
- Senta… - disse l’allenatore, pinzandosi la radice del naso, - Noi dobbiamo assolutamente partire, in un modo o nell’altro. Dobbiamo recuperare quelle chiavi. La pagheremo profumatamente, se solo lei-
- Ci ho già provato. – disse l’uomo, solenne, - Ma il pertugio fra le rocce è troppo piccolo perché un essere umano di statura normale possa passarci.
Simultaneamente, tutti gli occhi si voltarono a fissare Lionel, che sbocconcellava un panino appoggiato a un palo di legno poco distante.
- Cosa? – chiese l’argentino, mandando giù un boccone. Venti minuti dopo, stava appeso con una corda alla vita, dondolante a picco sul mare, dando indicazioni ai compagni che lo tenevano da sopra perché lo indirizzassero il più precisamente possibile verso l’ingresso della grotta.
- Va bene così? – strillò Gerard dall’alto, sollevando una mano perché Dani e Victor, impegnati a manovrare la corda, si fermassero. Lionel aspettò di riprendersi dalle svariate botte in testa che aveva preso rimpallando da uno scoglio all’altro come in un flipper impazzito, e poi piantò i piedi contro la roccia bagnata e scivolosa, sollevando un pollice in direzione dell’amico prima di avventurarsi all’interno della grotta.
Alto non più di una cinquantina di centimetri, l’ambiente era stretto e angusto, e perfino il minuscolo argentino ebbe serie difficoltà a strisciare prono verso la fine della galleria e tirarne fuori le chiavi. Quando, mezz’ora dopo, fu riuscito a tornare in cima alla scogliera, stringendo forte fra le dita il frutto del proprio sacrificio umano, la prima cosa che chiese all’uomo senza nome fu di spiegargli come diavolo ci fossero finite quelle chiavi così in fondo, ma l’uomo non rispose, e sorrise in modo così inquietante che a nessuno passo neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di insistere sul punto.
L’imbarcazione – senza nome come il suo proprietario e capitano – salpò nella notte spagnola, la stiva piena di viveri solo a metà, dal momento che l’altra metà era ingombra di tutte le bottiglie di vino catalano senza il quale il capitano non sembrava capace nemmeno di respirare, figurarsi camminare o ragionare lucidamente. Anche se, poi, pure in queste ultime due attività non è che brillasse, vino catalano o meno.
I primi problemi cominciarono a palesarsi quando le nubi scure, che li avevano minacciati quando erano ancora ancorati a terra, misero in atto i loro propositi guerrafondai scaricando sulle loro teste ettolitri d’acqua, tuoni e fulmini senza che loro potessero nemmeno ripararsi – a parte Bojan, che indossava ancora in cappuccio ma più per difendersi dall’eventuale caduta di rane che per altro.
- Finiremo alla deriva a mangiarci a vicenda per cercare di sopravvivere! – presagì immediatamente Pedro, agitando le braccia sopra la testa.
- Sta’ zitto, Pedrito. – lo minacciò Pep, stagliandosi contro il cielo scuro scosso a tratti da lampi lunghi e irregolari, abbaglianti come improvvisi fari nella notte, - O ti tengo fuori squadra fino all’anno prossimo.
- Non ci sarà una squadra e non ci sarà nemmeno un anno prossimo, per tutti noi! – continuò ad agitarsi Pedro mentre Bojan, spaventato dalle urla come un neonato, si metteva a piangere in un angolo, consolato da Thierry e Gerard, - Saremo già fortunati se arriveremo a vedere l’alba di domani mattina!
- Carles. – ordinò Pep, continuando a scrutare l’orizzonte appeso a una cima, gli occhi sottili e la pioggia che si faceva beffe del suo principio di calvizie, - Legalo. Ci serve una polena.
Le ultime parole che Pedro sentì prima di essere afferrato, imbavagliato e legato alla prua dell’imbarcazione furono “e spera che non si incontrino iceberg lungo il cammino”, suggerimento che il ragazzo accettò immediatamente cominciando a pregare in tutte le lingue a lui conosciute, che fendere le acque, per quanto agitate e violente, era una cosa, ma andare a sbattere di naso contro granitici blocchi di ghiaccio di svariate dimensioni era un affare del tutto diverso.
La tempesta cessò di infuriare solo l’indomani mattina. Stanchi e distrutti, i giocatori del Barça si aggiravano come marinai ubriachi sul ponte della nave, incerti sulle gambe, così come il capitano senza nome, che aveva dormito fino a dieci minuti prima ed aveva preso a bere non appena aperti gli occhi.
- Ma dove cazzo siamo? – si chiese Pep, gettando occhiate incuriosite in giro. Tutto attorno alla barca si apriva un corridoio di acque adagiato in mezzo a due rigogliose ali di vegetazione tropicale, con piante e fiori che mai avevano visto prima di quel momento.
- Ad occhio e croce, nella Foresta Amazzonica. – suppose Zlatan dopo essere riemerso dalla cabina del capitano della quale aveva preso possesso nell’esatto istante in cui erano saliti a bordo della barca, - Oppure su un altro pianeta. – scrollò le spalle, tirando fuori dal borsone il cellulare e componendo un numero a memoria. – Zay? – chiamò poco dopo, - Sì, siamo in viaggio. No, non ci crederai mai, ma ti racconterò appena sarò tornato a Milano. Senti, ma avete mica posto lì da voi? Perché io non ci ritorno a Barcellona in barca, beninteso. Aspetterò che la nube del cazzo si tolga dalle palle e poi tornerò in aereo, faranno a meno di me da qui a fine campionato.
Pep si voltò a guardarlo con aria sconcertata e anche un po’ oltraggiata.
- Potresti smetterla di parlare col tuo ex allenatore mentre siamo dispersi a risalire il corso del Rio delle Amazzoni che non si capisce come abbiamo raggiunto in una notte di viaggio col mare in tempesta?! – strillò, muovendosi tanto concitatamente da far ondeggiare la barca e pucciare Pedro nell’acqua come un savoiardo nel caffè.
Zlatan lo guardò malissimo, arricciando le labbra in una smorfia grandemente disapprovante.
- No. – rispose, prima di tornare a rivolgersi al suo interlocutore dall’altro lato dell’oceano, - Zaaaay, mi hai dato in mano a della gentaglia! – cominciò a lagnarsi, passeggiando nervosamente lungo il ponte, - Voglio tornare a casa, quando finisce il prestito? Sì, lo so che non è un prestito, ma potresti parlare col presidente…
Pep scosse il capo, sospirò profondamente e sollevò gli occhi al cielo plumbeo del Brasile – a quel punto, tanto valeva considerarsi davvero lì, se volevano avere una qualche speranza di venirne fuori – chiedendosi quanto ancora sarebbe durato quel supplizio.
La risposta tardò ad arrivare, perché mai, quando una risposta ti serve immediatamente, essa immediatamente arriva. Il viaggio durò tre giorni e tre notti, fu intenso e spossante, continuamente disturbato dal chiacchiericcio di Zlatan al telefono – chiacchiericcio che s’era poi trasformato in piagnisteo quando per qualche ragione le comunicazioni s’erano interrotte lasciandolo privo della sua dose di Mourinho quotidiana – dall’ondeggiare scomposto del capitano da un lato all’altro del ponte al solo scopo di sporgersi oltre il parapetto e vomitare e dalla rabbia e dalla frustrazione di un gruppo di uomini che pensava di costituire una squadra di calcio e che invece, per quel periodo di tempo, dovette dimostrare di essere in grado di pescare, nutrirsi dei crudi frutti del mare e sopravvivere a delle tempeste tali da lasciare incredulo chiunque sulle possibilità di sopravvivenza di quell’imbarcazione tanto malmessa quanto resistente.
Per tutta la durata del viaggio, attraversando oceani e osservando dalla barca gente sulle sponde delle terre che costeggiavano e che cercava di comunicare con loro tramite versi strani assimilabili a un certo “ma cu minchia sugnu?” che nessuno di loro era riuscito a interpretare, Pep rimase al proprio posto a prua, un piede ben piantato sulla punta della barca e il gomito poggiato sul ginocchio, lo sguardo sempre oltre l’orizzonte e la posa tipica dei comandanti colmi di onore e coraggio, quale lui d’altronde era.
Arrivarono a Genova sfiancati, smagriti, lerci e rattoppati come pantaloni vecchi, ma temprati da tutte le difficoltà che avevano superato e pronti ad affrontare l’Inter – e divorarne i calciatori, più per fame che per effettivo spirito combattivo. Una delegazione del club nerazzurro li accolse al porto come da programma. Furono rifocillati da deliziose cameriere in abitino nero e grembiule, furono loro donati dei vestiti umani e decenti e furono loro offerte brandine in un centro di prima accoglienza per immigrati, perché potessero riposarsi.
Solo dopo che si furono risvegliati José Mourinho in persona andò a porgere loro gli omaggi del presidente e della squadra tutta, ottenendo in cambio di essere schienato contro il pavimento dall’assalto del suo svedese preferito all’urlo di “ossantoddio, Zay, tienimi con te nella tua enorme villa con centinaia di servi per sempre”, robe che mai gli si erano sentite dire e probabilmente mai gli si sarebbero sentite ripetere.
Una volta ricompostosi, José si rimise in piedi e, accarezzando Zlatan placido al suo fianco come fosse un cucciolo di cane o qualcos’altro di spaventosamente simile, sorrise.
- Benvenuti! – li salutò, spalancando le braccia in un movimento quasi ecumenico, - L’Italia vi accoglie, o prodi giocatori del Barcellona. Prodi quanto stupidi, peraltro. – commentò, scoppiando a ridere come un cretino, - Gli aeroporti sono stati riaperti il giorno dopo la vostra partenza dalla Spagna.
Il silenzio calò sul dormitorio ricolmo di calciatori in pigiama appena riemersi da un sonno lungo dodici ore dopo aver attraversato il Mediterraneo su una barcarola piena di buchi come un groviera.
- …ma tu e Zlatan siete stati continuativamente al telefono per dei giorni… - balbettò Pep, le labbra tremule e lo sguardo vacuo, - Perché non avvertirci, perché… perché non mandare qualcuno…?
- E perderci lo spettacolo meraviglioso delle vostre urla in vivavoce per tutto il tempo? – chiese José, sorridendo placido e sistemandosi la cravatta, - Siamo la squadra più odiata d’Italia, che diamine, un motivo ci sarà pure. A proposito, - disse casualmente, avviandosi tranquillo verso l’uscita della camerata, - viste le ottime condizioni metereologiche, la partita è stata anticipata. Giochiamo stasera alle venti e quarantacinque a San Siro. Vi converrà partire al più presto. – numerosi ringhi di protesta accompagnarono la sua affermazione, così che lui si sentì quasi obbligato a sorridere più apertamente e precisare: - Però almeno potrete prendere l’aereo!
Pep e i suoi giocatori lo osservarono allontanarsi e poi scomparire oltre la porta, e fu solo dopo un paio di minuti che l’allenatore ritrovò la parola.
- Giocheremo sì alle venti e quarantacinque a San Siro, - grugnì, gli occhi scintillanti di furia omicida, - ma con la fascia nera al braccio. Avanti, miei prodi!
La rissa e il placcaggio della polizia che susseguirono sarebbero rimasti nella storia di tutte le risse e di tutti i placcaggi della polizia mai accostati alla stirpe del glorioso club catalano blaugrana, ma anche questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Genere: Introspettivo, Triste, Erotico.
Pairing: Leo/Zlatan, cenni (neanche troppo velati) Zlatan/José.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lime, PWP, Angst, Flashfic.
- "Non gli chiederai scusa, speri che capisca che vorresti e se lo faccia bastare."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), Leo/Zlatan, "Ma non sei lui.".
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No Excuses


Gli lasci scorrere addosso le mani sentendo la sua pelle umida scivolare sotto i tuoi polpastrelli quasi senza attrito. Sa ancora di sudore, dell’erba del Camp Nou e del tessuto delle maglie da allenamento. Sei quasi certo che, se avessero un odore, la sua pelle saprebbe anche delle incitazioni del mister, delle urla dei pochi tifosi che sono riusciti ad intrufolarsi allo stadio per osservare l’allenamento, delle risate di Boji e Gerard e di Viva La Vida riproposta volta dopo volta dopo volta dagli altoparlanti disseminati un po’ ovunque, per l’unica soddisfazione di Guardiola e di pochi altri.
A te i Coldplay non piacciono. Non è che li odi, solo che non ti dicono niente. E non sei ancora abituato ad allenarti a ritmo di musica, quando tutto ciò che scandiva i tuoi salti e i tuoi scatti e le tue corsette di riscaldamento a Milano era la voce profonda e un po’ strascicata di José, uno, due, tre, salta Ibra.
Zlatan… - chiama Leo a bassa voce, contorcendosi sotto le tue dita mentre stringi piano la sua erezione, massaggiando lentamente, - Di più…
Sorridi e ti chini a sfiorargli il collo con le labbra, sentendo il suo respiro crescere un bacio dopo l’altro, e tutto quello che pensi è che il sapore non è lo stesso, la consistenza non è la stessa, il colore non è lo stesso, la grana non è la stessa, nemmeno il suono della voce che ti chiama è lo stesso, come non è uguale la sensazione che provi entrando dentro di lui e scavandoti a fatica uno spazio fra le sue gambe, cercando di replicare quello che avevi un tempo e che avevi finito per considerare un tuo diritto, salvo poi osservarlo dissolversi nel niente appena hai messo un piede fuori dal regno dell’unico sovrano dal quale tu abbia mai accettato di lasciarti sottomettere nel corso della tua intera esistenza.
Ti accasci contro di lui e Lionel gioca con le dita fra i tuoi capelli, solleticandoti la nuca.
- È stato-- - accenni incerto, e cerchi le parole, - bello, ma-
Ma non sei lui. – completa Leo per te. Lo senti sorridere appena contro una guancia, ma non interrompe la carezza. Chiudi gli occhi. Non gli chiederai scusa, speri che capisca che vorresti e se lo faccia bastare.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bojan/Pep.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Flashfic.
- "L’8 Marzo 2010 è una data che verrà ricordata negli anni a venire, l’incredibile nevicata che ha bloccato Barcellona. Ad appena 13 giorni dalla Primavera, la neve ci ha sorpresi imbiancando la città."
Note: Il titolo assurdamente lungo (e rubato a Megalomania dei Muse) non giustifica nemmeno in parte questa vaccatella scritta in una ventina di minuti semplicemente perché le foto di Pep e Boji persi nella bufera a Barcellona erano troppo amabili per ignorarle XD E la verità, se proprio la volete sapere (scommetto che altrimenti non ci dormireste la notte!), è che se Any non me l'avesse chiesta, io non l'avrei mai scritta u.u
C'è Zlatan, dentro, e sto ancora cercando di capire perché. Bah.
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Paradise Comes At A Price That I Am Not Prepared To Pay


Osservare la neve cadere fitta fitta sulla Masia non è sconvolgente come osservare il Sahara coprirsi di bianco, naturalmente, ma non è nemmeno un evento tanto comune. Per questo motivo, Josep non cerca di forzare i suoi giocatori a concentrarsi sull’allenamento, e li lascia girovagare per il campo, tutti presi dall’osservazione dei fiocchi di neve e da quel modo idiota che hanno tutti di mettersi a giocare in ogni momento, riuscendo a far sembrare agli occhi del mondo di stare invece lavorando – solo, divertendosi un po’ più di tanti altri.
Zlatan passeggia tranquillamente per il campo. Ogni tanto ride, e quando Leo gli si avvicina e – con aria quasi offesa, neanche fosse merito suo se sta nevicando e si sentisse perciò oltraggiato dalla mancanza di rispetto che Ibra riserva all’evento – gli chiede perché non sia stupito, i suoi occhi per un secondo si fanno lontani e gli si allarga un sorriso sincero sulle labbra.
- A Milano ci allenavamo con la neve che ci arrivava alle ginocchia. – racconta con aria persa, e Josep rotea gli occhi, grattandosi la testa e muovendo qualche passo in giro dopo aver distolto lo sguardo. Il ragazzo è problematico e non capisce che non puoi avere le gambe in un posto e il cervello in un altro. Non capisce, soprattutto, che finché continuerà a giocare con mezzo cuore in blaugrana e mezzo cuore in nerazzurro – se davvero metà del suo cuore è riuscito comunque ad arrivare in Spagna, cosa di cui Josep non è affatto sicuro – dalla sua permanenza a Barcellona non potrà mai venir fuori nulla di buono. E a farne le spese sarà lui, perché è stato lui a pretenderlo al Camp Nou al posto di Samuel, ed a fine stagione sarà da lui che Laporta andrà esponendo il proprio libretto degli assegni e chiedendogli quale sia stato il frutto dell’investimento unico più cospicuo della sua intera vita.
- Sei buffo quando fai questa faccia qui. – ride Bojan alle sue spalle, e Josep si ferma, voltandosi indietro per osservarlo mentre lo affianca.
- Che faccia? – chiede, riprendendo a camminare accanto a lui.
- Questa. – ride ancora il ragazzo, e poi solleva un dito e lo usa per seguire i contorni del suo viso, stendendo le rughe sulla fronte. – Quella di quando sei preoccupato per qualcosa e non vuoi dirlo.
- Non sono preoccupato per nulla. – sorride Pep, stringendo la sua mano nella propria ed avvicinandoglisi, di modo che le loro mani intrecciate restino nascoste fra le pieghe del giubbotto che indossa. La neve cade anche su Boji, i suoi occhi grandi e chiarissimi sembrano voler seguire il tragitto di ogni fiocco dal cielo alla terra. – Non senti freddo?
- A-ha. – scuote il capo Bojan, sorridendo appena, - È bellissimo, non trovi?
Josep si ferma un attimo prima di rispondere col “sì” che Bojan meriterebbe, rendendosi conto da solo di quanto sarebbe estremamente ridicolo e melenso anche per uno come lui che in realtà è parecchio romantico, e quando Boji capisce perché lui si stia rifiutando di rispondere, scoppia a ridere.
- Sei una peste. – lo rimprovera, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca. Bojan gli si stringe contro, divertito.
- Che sono bellissimo anche io già lo so. – gli fa notare, tirando fuori la lingua, e Pep si sporge in avanti fermamente intenzionato a baciarlo per zittirlo e poi trascinarlo da qualche parte per fargli capire esattamente quanto bello sia, ma Carles passa loro davanti proprio in quel momento e si ferma di fronte a loro con aria seria, le braccia incrociate sul petto e le gambe leggermente divaricate.
- Mister, - lo riprende, battendo un piede per terra, - non siamo mica in vacanza. E soprattutto, per carità, non qui fuori!
Bojan ride, divertito oltre il legale, e si allontana da Josep solo per saltare addosso al suo Capitano, che per tutta risposta – ridendo come il ragazzino che è sempre rimasto nonostante l’età, che l’aria di Spagna è buona e rende eternamente giovani, è evidente – se lo carica in spalla e lo trasporta come un sacco di patate fino al cerchio di centrocampo, dove i loro compagni di squadra sono riusciti fra una risata e l’altra ad ammonticchiare un po’ di neve, sul quale la lascia cadere, costringendolo a una capriola mentre scivola lungo il fianco della montagnola, per poi risollevarsi in piedi fradicio e imbiancato dalla punta dei capelli alla punta dei piedi.
Josep sorride, lo guarda scuotersi come un cucciolo dopo un temporale e non si accorge per niente di Zlatan che appare al suo fianco, improvviso come la nevicata di oggi, e ghigna con aria saputella, senza guardarlo.
- Be’? – gli chiede, allontanandosi a disagio, - Coraggio, muoversi, stiamo cominciando l’allenamento, non te ne sei accorto?
Zlatan si volta a guardarlo per un attimo, e sorride più apertamente, improvvisando una seduta di stretching sul posto.
- Mister, - dice quindi, tornando a guardare i suoi compagni che saltellano e corricchiano per riscaldarsi a centrocampo, - lei non sbircia nella mia testa, e io non sbircio nella sua. Patti chiari, amicizia lunga.
Josep lo osserva allontanarsi spalancando gli occhi, e realizza che Zlatan è perfino più imprevedibile della neve alla Masia. Ma Bojan sorride, fiocchi di neve ovunque e capelli scompigliati e vestiti tutti stropicciati, e finché quello che c’è nella sua testa è al sicuro, a Josep non importa – che nevichi pure.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- Davide e Mario osservano Zlatan e José interagire durante gli allenamenti ad Harvard.
Note: Vaccatina abbastanza inutile scritta solo ed esclusivamente per la settima Minidisfida di Criticoni, cui partecipo fuori concorso just for the hell of it, e perché sono cocciuta e permalosa, anche. Al di là della Minidisfida, ho scritto questa storia perché sono una persona che si rotola molto nel suo cordoglio, prima di superare il momento e tornare al proprio own bzns, perciò questa cosa dovrò vederla da almeno altri millemila punti di vista (uno dei quali è già in scrittura, peraltro), e solo dopo potrò essere felice. Aaah. *sospira*
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Gentle Breeze


C’è un venticello leggero e piacevole che soffia dalle loro spalle, in direzione della scena speculare alla loro che si sta svolgendo dall’altro lato del campo. Il mister e Zlatan sono immobili, l’uno accanto all’altro. Hanno entrambi le mani sui fianchi – i propri, non quelli dell’altro; che può sembrare una specificazione inutile ma non lo è, viste le scene cui la squadra s’era abituata nel corso degli ultimi mesi dello scorso campionato, robe che avrebbero fatto arrossire il più accanito dei maniaci sessuali, o almeno così pensa Davide, tenerezze un po’ imbarazzanti ma niente di più secondo Mario, invece – e non si muovono se non per dei momenti brevissimi. Il mister si guarda intorno, Zlatan abbassa lo sguardo. Il mister parla, dice qualcosa che si perde nel soffio del vento, e Zlatan annuisce. Dice qualcosa anche lui, e il mister sorride a metà fra tristezza e nostalgia.
- Dici che se ne va? – chiede Davide in un sussurro che non riesce a sovrastare il rumore del vento.  Mario, comunque, in qualche modo lo sente. Ma Mario lo sente sempre, anche quando lui non parla, perciò non se ne stupisce.
- Non saprei. – risponde con una scrollatina di spalle, - Tu cosa ne pensi?
Davide risponderebbe volentieri che se gliel’ha chiesto è proprio perché non lo sa. Sarebbe una bugia, d’accordo, ma Mario sa che tutto ciò che vuole sentirsi dire è un rassicurante “ma no, dai, vedrai che resta”. Anche se è assurdo, perché ormai lo sanno tutti che Ibra non vuole più restare, lo sanno anche i muri dell’UCLA, che hanno abbandonato da qualche ora, lo sanno anche i muri di Harvard, pure se sono arrivati a Boston da pochissimo, lo sanno tutti, le pareti le foglie l’erba il cielo, pure il vento, sembra che lo stia sussurrando anche mentre li accarezza così, un po’ rude e un po’ dolce, e porta il buon profumo della mensa, che è quasi ora di pranzo.
- Io penso… - comincia Davide, e si morde il labbro inferiore, - …penso che ho paura di sì. Nel senso… - cerca di spiegarsi, ravviandosi la frangetta sulla fronte, - nel senso che ho paura che quando lui sarà andato via noi non sapremo più come giocare e perderemo tutto. E non sarà colpa sua, capisci, sarà colpa nostra, e io di questa cosa ho paura. Di quello che potrebbero dire, di quello che potrebbe succedere, a noi, al mister, e ho paura per il presidente che ce la sta mettendo tutta, e-
- Io penso – lo interrompe Mario, senza nemmeno guardarlo, - che tu abbia cominciato a pensare un po’ troppo.
Davide trattiene un respiro e poi lo lascia andare tutto insieme nel momento in cui Zlatan si allontana dal mister, con una risatina. Il mister lo segue subito, e poi le loro strade si biforcano, Zlatan comincia ad allenarsi – come fosse tutto normale e giusto così – e il mister si piazza a centrocampo ad urlare ordini a chiunque – ancora una volta, come fosse tutto normale e giusto così.
- Ci prendiamo una pausa? – gli chiede Mario, accarezzandogli il dorso della mano con due dita falsamente distratte. – Le vuoi un po’ di coccole? Ti compro il succo alla ciliegia. Però prima ti cambi. – aggiunge con una mezza risata.
Davide risponde con una mezza spallata.
- Non mi sporco sempre. – gli fa notare, offeso. E due secondi dopo è già lì che chiede al mister se possono allontanarsi per dieci minuti, e il mister è lì che sospira e si lamenta di non avere la minima autorità su di loro, “ma appena rimettiamo piede in Italia si cambia sinfonia, ragazzini, meglio che lo sappiate”, e poi niente, sono già al bar a prendere il succo e di corsa in camera a giocare alla playstation fra un bacio e l’altro.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Malinconico.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, (Raccolta di) Drabble, Slash.
- La squadra si ritrova in ritiro dopo le vacanze. Davide e Mario si ritrovano dopo non essersi più sentiti neanche una volta nell'ultimo mese. José e Zlatan smettono di ritrovarsi del tutto.
Note: Questa fic è stata scritta perché Gra è una criminale. Ha creato una tabella stupenda, chiamata Tempo e Orologi, ed era sfruttabile per il suo Double Drabble Challenge. Volevo scriverci su, ma al momento di scegliere i prompt mi sono accorta che a) mi piacevano tutti, b) l’idea che avevo era troppo enorme per essere sviluppata in due soli drabble. Pur se fossero stati tripli, pur se fossero state due flashfic, non ci sarei riuscita. Perciò, fine, ho preso tutti i prompt e ci ho scritto su trenta drabble XD E amen XD
A parte questo, quando ho finito questa storia, la reazione che ho avuto è stata di immediato rifiuto. Troppo lunga, ridondante, arrotolata su se stessa, forse perfino noiosa – e troppo angst, Gesù. E ancora Jobra, poi. *piange*
L’ho riletta dopo un paio di giorni e me ne sono innamorata follemente perché, pur continuando ad essere troppo lunga, ridondante, arrotolata su se stessa, forse perfino noiosa – e decisamente troppo angst – è completa. E rileggerla mi ha soddisfatta. Soprattutto perché per certi versi finisce bene. *aweggia da sola*
Ps. Titolo rubato ad un verso di No Line On The Horizon degli U2 ♥
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Time's Irrelevant, It's Not Linear


01. Pendola rotta.
C’è qualcosa di eccessivo ed esasperato nel modo in cui divori metri su metri fra strada, cortile, corridoi e scale, tanta è la fretta che hai di raggiungere la tua camera. Mentre muovi un passo dopo l’altro fra l’asfalto, la moquette e il marmo misto degli ambienti della Pinetina, ripensi a Palermo, a Mondello distesa fra mare e montagne come un’amante stanca, a quella villa enorme sempre piena di gente e sempre vuota di Davide e alla pendola vecchia di cento anni appesa al muro, all’ingresso, che scoccava il tempo immobile della tua permanenza in quel posto. Ricordi le sue lancette fermissime, ricordi le ragnatele ad imprigionarle, ricordi la cameriera che si scusa e ti dice “pulisco subito” e ricordi come l’hai fermata – stringendole forte un braccio e sussurrandole “la lasci com’è”. Ricordi di esserti fermato a guardarla tante volte da impararne a memoria le forme, tanto da poterle ricostruire nella mente quando ne stavi lontano. Ricordi di aver pensato spesso, fra il mare e le feste, “fra quanto torno a casa?”. E di aver visualizzato quell’orologio fermo ogni singola volta, ed esserti detto che mancava troppo tempo. E che le vacanze dovrebbero essere un periodo felice. E invece.
Entri in camera quasi sfondando la porta. Davide sta disfacendo la propria valigia, solleva gli occhi ed arrossisce. E siete tu, lui e il tempo che ricomincia a scorrere.

02. Allo scoccare della mezzanotte.
Mario è uscito subito, è stato come se tutto quello che volesse fare, entrando in camera, fosse vederti. Solo quello, per poi tornare ad essere il fantasma che è stato nel corso degli ultimi due mesi – perché vi siete detti tante cose, prima di partire (tu per l’Africa, lui per la Danimarca), “teniamoci in contatto, le mail, il cellulare, insomma, e poi magari ci si rivede prima delle vacanze”, ma non c’è stato niente del genere, perché lui non s’è fatto sentire e tu non hai trovato abbastanza coraggio per farti sentire a tua volta. E poi la mamma s’è fissata con la cosa del nonno – “Dade, lo sai che ogni anno potrebbe essere l’ultimo, vieni in vacanza con noi” – e Mario è scomparso per tutte le vacanze, e niente, neanche una parola. E questo ti ha fatto stare male, un po’, perché prima di partire parole non ce n’erano, ma non servivano. E quando sarebbero servite invece non ci sono state lo stesso, e quando te ne sei accorto ti sei sentito spezzare qualcosa dentro.
Mario torna in camera allo scoccare della mezzanotte, perché il mister è stato chiaro e per spiegare cosa intendeva per “tornare a casa in orario” ha raccontato una rivisitazione di Cenerentola con protagonista Zlaterentola, e hanno riso tutti – be’, tutti meno Zlatan – e quindi il messaggio è passato anche troppo chiaramente. Ecco perché Mario è puntuale. E siete tu, lui e il tempo che va in silenzio.

03. Perdere tempo.
Davide non sembra stare tanto bene, quando si sveglia, ma tu non hai il coraggio di indagare ed anzi ti guardi bene dal farlo, mentre lo osservi alzarsi e trascinarsi stancamente verso il bagno. La sveglia ha suonato meno di dieci minuti fa e tu comunque sei sveglio da ore, o forse non hai dormito affatto, non riesci a stabilirlo perché hai come l’impressione di essere svenuto, ogni tanto, durante la notte, altrimenti non si spiegherebbe perché le ore siano passate tanto in fretta, quasi senza farsi sentire, scandite dal respiro profondo e regolare di Davide e dai suoi movimenti lenti e pesanti durante il sonno.
Deglutisci con forza quando torna in camera, lo guardi, lui ti guarda, fa per dirti qualcosa ma poi rinuncia, ed è da quando vi siete rivisti ieri che non vi siete scambiati ancora una sola singola parola. E siete tu, lui e il tempo che state perdendo.

04. Fuori tempo.
Quando ti si avvicina e ti guarda con quell’aria un po’ così – che poi è la sua di sempre, quella che sembra voglia dirti che ad avvicinarsi, calcolarti e prendere atto della tua esistenza nel mondo, sia lui a farti un favore – tu scatti subito sulla difensiva. La verità è che ce l’hai con lui perché non ti parla – nemmeno in allenamento, Cristo, il mister era sconvolto da quanto avete fatto schifo e s’è messo a urlare ripetendo che in America perderete tutte le partite di fila – e ce l’hai con te stesso perché neanche tu riesci a parlargli. Non sai da dove cominciare e questo è stupido. Ti senti stupido tu e pensi stupido lui, e quindi sei incazzato, sì, e ora che sembra disposto a ritrovare l’uso della parola improvvisamente non vuoi starlo a sentire.
- Ciao… - ti dice, lasciandoti lì un po’ sospeso nel vuoto, a guardarlo come lo vedessi per la prima volta, - Com’è che stai?
Com’è che stai, hai voglia di battere ripetutamente la tua e la sua testa contro il muro, ecco come stai. Scrolli le spalle, Mario aspetta una risposta, la risposta non arriva.
- Mi è dispiaciuto non sentirci più… - continua quindi, - Volevo chiederti se ti andava di scendere giù con me per una settimana, ma… - e sospende la frase di nuovo, come fosse utile dire le cose solo a metà.
Scrolli le spalle di nuovo e non riesci a spiccicare una sillaba. Non capisci perché, ma non riesci nemmeno più a guardarlo. Lui ti chiama solo un’altra volta e poi va via. Quando ti viene in mente di richiamarlo, lui è già lontano. E d’altronde, quando era venuto in mente a lui d’invitarti a Palermo, eri già lontano tu. E siete tu, lui e il tempo che non riuscite a coordinare.

05. Ticchettio dell’orologio.
Hai un ricordo molto chiaro e recente degli aeroporti, e sono luoghi enormi, gremiti di persone e confusionari in maniera disturbante. Tutti parlano ridono si arrabbiano inseguono mocciosi piagnucolanti e si perdono dietro alle cernite delle valigie, che contano una due tre volte per essere certi di non dimenticarne nessuno, come fosse umanamente possibile dimenticare nel mezzo di una sala una specie di totem composto da un carrello e sei borsoni impilati l’uno sull’altro e legati dal filo elastico verde fosforescente. In questo momento, comunque, l’aeroporto ti sembra silenziosissimo, nonostante il viavai di gente da un lato all’altro della stanza, Andrea che conta i giocatori, Beppe che conta i neuroni di Andrea che vanno a farsi benedire e il mister che conta i suoi chili di pasta per assicurarsi che siano ancora e sempre duecentocinquanta.
L’unico suono che senti è il ticchettio regolare del tuo orologio. Davide non sta parlando. Davide è seduto sulla tua stessa fila di scomodi seggiolini, ma dal lato diametralmente opposto, e in mezzo a voi conti uno due tre quattro cinque vuoti a perdere. Uno due tre quattro cinque secondi che scivolano via col giro costante delle lancette. E siete tu, lui e il tempo che non riesce a muoversi.

06. Scandire il tempo.
- Uno, due, tre, quattro! – dice il mister, e continua fino a dieci mentre tutti vi riposate ed osservate Zlatan saltare una, due, tre, quattro volte fino a dieci. C’è stato un momento di tensione che non è veramente esploso, l’avete notato tutti lo stesso, però. Zlatan voleva smettere di allenarsi prima degli altri, il mister ha detto no, Zlatan ha insistito, il mister ha ripetuto no, Zlatan l’ha mandato a quel paese fra i denti, il mister ha cominciato a contare e Zlatan, con la naturalezza dell’abitudine, ha cominciato a saltare ostacoli. Uno, due, tre, quattro volte fino a dieci.
Mario guarda la scena con aria apparentemente impassibile, e tu gli senti scorrere addosso tutti i brividi d’inquietudine che non riesce ad esprimere a parole e, per un attimo, maledici lui per essere sempre così dentro di te da farsi sentire in ogni istante, e te stesso per essere così dannatamente suo da non essere capace di buttarlo fuori a calci come meriterebbe. Anche se non hai idea di cosa significhi tutto questo.
- Uno, due, tre, quattro! – ricomincia il mister. “Uno, due, tre, quattro”, ripeti tu nella tua testa, e sfiori un braccio di Mario così casualmente che lui quasi non se ne accorge. E siete tu, lui e il tempo di un’altra coppia che volge al termine.

07. Flashback.
«Non ci credo!» Davide ha i capelli lunghissimi, rispetto all’ultima volta che l’hai visto. Gli corri incontro e glieli scompigli, lui si arrabbia e ti manda a cagare, ma ride e ricambia l’abbraccio in cui l’avvolgi meno di due secondi dopo, proprio lì in mezzo al campo.
«Voi due in stanza insieme» stabilisce il mister passandovi accanto, «E se vi sento cazzeggiare fino a tardi vi piazzo nei due punti più distanti del residence, giuro sui miei figli.»
«Che padre severo devi essere» si intromette Zlatan, passandogli accanto e tirandogli una mezza spallata – cose che si permette di fare solo lui, nessun altro. Tu e Davide ridete mentre il mister si mette a lanciare a Zlatan improperi irripetibili in portoghese, e poi torni a guardarlo, il sorriso ancora aperto sulle labbra.
«Quindi ti sei fatto notare!» ti congratuli, cominciando a camminare verso il centro del campo. Davide annuisce docile.
«Spero di fare bene, il mister mi sta dando un sacco di fiducia.»
«Ti darò una mano io» lo rassicuri immediatamente, e quando lui ti sorride tu deglutisci a stento.
 
Ora lo guardi e hai difficoltà a dirgli che hai paura di averlo perso fra un silenzio e l’altro. E siete tu, lui e il tempo di un tempo che al tempo d’oggi non ritorna.

08. Lancette ferme.
Questo stupidissimo orologio non ha la lancetta dei secondi. Te ne accorgi solo dopo una quantità imprecisata di tempo che stai lì a guardarlo con aria afflitta. Eri partito con l’intenzione molto seria e motivata di stare lì a contare ogni singolo secondo da quando Mario è uscito al momento in cui ritornerà, ma senza lancetta dei secondi è impossibile, e d’altronde i minuti passano così lenti che la lancetta lunga sembra immobile nello stesso posto da ore. Insomma, non sai che fare, ti senti sempre più idiota e sei immerso nei casini fino al collo, perché Mario ha bisogno di parlare, perché tu hai bisogno di parlare, perché il mister è nervoso e quando è nervoso lui sono nervosi tutti e soprattutto perché stai cominciando a sentirti solo e a chiederti se non sarebbe stato meglio andarsene all’estero quando te l’hanno proposto, anni fa, piuttosto che ficcarsi in quel casino bicolore che è l’Inter e dalla quale sembra che non si riesca a venire fuori facilmente neanche se lo vuoi con tutte le tue forze – e il calvario di Zlatan, che poi è il calvario di tutti, ne è l’esempio più lampante.
Mario torna in camera ed ha gli occhi cupi e tristi. Non vuole parlare, non è serata, i segnali del suo corpo sai leggerli anche se lui non li traduce in lingua, perciò lasci perdere. E siete tu, lui e il tempo che delle vostre attese se ne frega.

09. Ora esatta.
Chissà perché, le notti americane le avevi immaginate diversamente. I locali, le donne – le donne? Sì, magari anche loro, per scacciare via l’ombra di due occhi che di femminile non hanno proprio niente – l’alcool, ballare fino alle cinque del mattino e via così, o comunque qualcosa del genere. Sì, naturalmente avevi messo in conto gli allenamenti sfiancanti, e d’altronde non è che pensassi di andar fuori ogni notte e tornare ogni volta all’alba, ma c’è differenza fra l’uscire un sacco e il non uscire affatto, e da quando sei lì in pratica non sei uscito affatto, anche perché il mister è isterico e si mette a ringhiare ogni volta che qualcuno fa tanto di disobbedire a un ordine anche solo pensato, figurarsi espresso chiaramente. E “Non fate cazzate”, per quanto possa sembrare vago, può essere un ordine incredibilmente restrittivo.
Una porta sbatte in corridoio, la voce di Zlatan inonda tutto il residence svegliando probabilmente chiunque, ma lo svedese se ne frega. “Non ne posso più di te,” urla, “vaffanculo!”, e poi i suoi passi svelti e pesanti si perdono, ovattati dalla moquette che riveste il pavimento del corridoio.
Deglutisci e fissi il soffitto.
- Che ore sono? – chiedi a mezza voce. Davide è sveglio, si volta su un fianco e ti dà le spalle.
- L’ora di dormire. – risponde. E siete tu, lui e il tempo che si prolunga silenzioso ancora per un’altra notte.

10. Ingranaggi malfunzionanti.
- Questo dannato coso – cominci, girando la vite dell’orologio da polso con rabbia crescente, - non funziona più, fanculo!
Lui ti sta guardando già da un po’, e continua a farlo anche adesso, mentre slacci la fibbia e te lo rigiri fra le mani, incerto sul da farsi.
- Ne comprerai un altro. – prova a suggerire, e tu sai che la sua voce non vorrebbe venire fuori così dannatamente supponente e fredda, ma è così che viene, come se non gliene fregasse un accidenti. E non è vero per niente che non gliene frega un accidenti, lo sa che-
- È un regalo di mio nonno. – ringhi offeso, e nei suoi occhi c’è scritto “appunto, Dade, lo so che è un regalo di tuo nonno, mi dispiace, non avrei dovuto suggerirti di disfartene”, ma non ti basta che ci sia scritto, tu vorresti che li esprimesse ad alta voce, questi pensieri, perché in un certo senso sai che ti sentiresti meglio, se solo lui allungasse un dannato braccio e ti stringesse contro di sé e ti consolasse perché il tuo dannato orologio cui tenevi dannatamente non funziona più. E invece niente.
- Magari lo portiamo-
- Vaffanculo. – tagli corto, alzandoti e allontanandoti subito dopo. E siete tu, lui e il tempo che palesemente non funziona più nemmeno lui.

11. Tempo che non passa mai.
Sarebbe più semplice, forse, venire fuori da tutto questo casino indecente, se solo l’aria intorno a voi fosse distesa e respirabile. Non lo è, in parte perché non si capisce ancora bene se Zlatan andrà o meno e in parte perché, che lui vada o meno, non è tanto una cosa davvero decisiva: voi non vorreste lasciarlo andare – nessuno in squadra vuole – e il mister è appena entrato nella fase di elaborazione del lutto che affonda nell’apatia e nel silenzio, e questo non mette nessuno nelle condizioni migliori per affrontare quest’addio. Vorresti dire al mister che è un po’ in anticipo sui tempi, che Zlatan è ancora qui e lui potrebbe anche fare a meno di farsi odiare in maniera così violenta per quest’atteggiamento da fidanzata tradita che sta adottando nei confronti di uno che decisamente non è il suo fidanzato e soprattutto, anche nel caso si trasferisse a Barcellona, non avrebbe comunque tradito nessuno. Ma eviti, perché hai già abbastanza casini senza aggiungerci il mister incazzato che ti urla in testa. E Davide continua a non parlare, e continua ad evitarti, e a volte tu vorresti prenderlo per le spalle, schiantarlo contro un muro e costringerlo a dire tutto – o non dire niente, non sai deciderlo, in questo momento – e invece non fai niente. Niente di niente. E siete tu, lui e il tempo che non passa mai.

12. Perdere il senso del tempo.
Mario ti è addosso senza preavviso, nel corridoio deserto alle quattro del mattino, ed è tutto molto più incasinato di quanto possa sembrare ad una prima occhiata. Hai sentito Zlatan urlare ancora, stavolta però urlava anche il mister, la porta che ha sbattuto sembrava quella di una stanza diversa dalla solita, e sei uscito a controllare, più che per spirito d’avventura, perché non riuscivi a tollerare oltre il silenzio pesantissimo che gravava su di voi, in camera vostra. Mario però deve averti seguito, e ora ti trovi pressato fra il suo corpo e la parete e non riesci a capire se sia un bene o un male – e comunque è bellissimo. Le sue dita scure e forti sono strette attorno ai tuoi polsi e t’inchiodano al muro senza lasciarti neanche una minima possibilità di scampo. Guardi i suoi occhi, i suoi lineamenti tesi, le sue labbra un po’ umide e dischiuse, in cerca del coraggio o della voglia per dirti qualcosa – o semplicemente in cerca di qualcosa da dire – e ti ci perdi. Ti ci perdi senza ritorno. E, fino a quando il mister non viene fuori dalla propria stanza e vi manda a dormire urlandovi in testa di tutto, siete tu, lui e il tempo solo vostro di un paio di labbra sfiorate quasi per sbaglio.

13. Macchina del tempo.
Se solo avessi una macchina del tempo, ti piacerebbe riportare la tua vita al momento in cui, dopo la prima amichevole disputata in Danimarca, hai preso il cellulare in mano e poi ti sei detto “va be’, lo chiamo più tardi”. È stupido e ridicolo, ma vorresti farlo lo stesso. Probabilmente, invece di seguire i ragazzi nella prima uscita serale del ritiro, avresti passato l’intera serata al telefono con Davide, a sentirlo lamentarsi di quanto si annoiasse in campagna coi suoi, i nonni e i due milioni di cugini piccoli che lo idolatrano che ha, e avresti riso, e no, non avresti legato coi ragazzi come invece hai fatto, d’accordo, ma almeno non avresti perso lui. Magari il miracolo si sarebbe ripetuto sera dopo sera e all’ultimo giorno gli avresti detto “Sai che quando torno in Italia vado a Palermo per un po’? Ho affittato una villa in un paesino di mare lì vicino, ti piacerebbe. Perché non mi raggiungi?”, e Davide avrebbe detto sì. E… probabilmente fra voi non sarebbe cambiato assolutamente niente, d’accordo, ma almeno la situazione non si sarebbe esasperata quanto invece è esasperata ora – come se ci fosse bisogno di ulteriore esasperazione in una squadra che ne ha già abbastanza da venderne agli altri a una miseria al chilo.
E invece no, non sei stato abbastanza attento né furbo né saggio, e ora la situazione è quella che è. E tu hai sulle labbra il sapore delle sue, di labbra. E siete tu, lui e il tempo che indietro non ritorna, mai.

14. Guardando al futuro.
- Sarei felice se tu riuscissi a non avercela con me- sarei felice se ci riusciste entrambi. – Zlatan scandisce bene le parole e, dal modo in cui le fa scivolare sulla lingua, mentre parla con Mario prima e si rivolge a entrambi poi, sembra quasi che voglia gustare le lettere una ad una, come fai sempre quando stai assaggiando qualcosa della quale sai che non ritroverai il sapore per molto tempo a venire. Cercando di imprimertelo sulla lingua e di riportarlo alla memoria ogni volta che puoi, per riprovare le stesse sensazioni che ti hanno investito in pieno la prima volta che l’hai assaggiato. Come fai tu col sapore di Mario.
 Lo ascolti, sì, ma non riesci davvero a star dietro al senso del suo discorso, perché Mario è come sempre al centro di quell’unico discorso che svolgi tu da solo col te stesso che c’è nella tua testa. Quello che sta cercando di capire cosa diavolo stia succedendo a te, a lui, a voi.
Zlatan andrà via fra pochi giorni – forse addirittura poche ore. Tu guardi Mario che lo fissa con aria persa, dalusa, addolorata, e ti chiedi perché faccia più male la sua espressione che non le parole di addio che ora Zlatan vi sta rivolgendo.
- Per sempre, - vi dice, - voi sarete sempre i benvenuti nella mia casa, ovunque sia. – e vi abbraccia con forza, entrambi. Tu e Mario non siete stati più così vicini da quella notte in corridoio. Non è questo che dovrebbe turbarti tanto, ma è questo che ti turba, e Zlatan è solo un profumo piacevole e conosciuto che vi avvolge e che presto smetterete di sentire. E resterete come sempre solo tu, lui e il tempo da qui in avanti.

15. Vivere nel passato.
Non ti curi di come ti trovi Davide quando entra in camera. Sei seduto sul letto, hai la testa fra le mani e stai piangendo come un bambino idiota. Non è la prima volta che ti succede – anzi, è almeno la seconda, di nuovo a causa di Zlatan, e speri che almeno a questo giro la notizia non faccia il giro del mondo. Anche perché c’è differenza fra il piangere per frustrazione, in seguito ad un rimprovero aspro ma giusto, e il piangere di tristezza e nostalgia in vista di un addio che non ti senti pronto a dare.
- Mario! – ti chiama Davide, allarmato, e per tutta risposta tu singhiozzi più forte e nascondi la testa fra le ginocchia, facendoti minuscolo come non credevi fosse più possibile da quando hai cominciato a metter su un po’ di muscoli. – Mario… - ripete lui, e il secondo dopo ti sta già abbracciando, e tu hai nello stesso momento un assaggio di ciò che eravate prima e un assaggio di quello che potreste essere adesso se tu non fossi stato così stupido da danneggiare con le tue stesse mani la cosa più bella che avevi. Perché eravate questo, tu e Davide, sempre appiccicati, sempre uniti, sempre vicini. E potreste ancora esserlo, se tu avessi usato il dannato telefono come mille volte ti eri ripromesso di fare.
E non capisci se ciò che vuoi sia tornare indietro o riavere adesso ciò che avevi allora, ma due mesi non li cancelli con un solo abbraccio, due mesi di silenzio non li riempi con un pianto soffocato sulla spalla di un altro, nemmeno se quella spalla è la spalla di Davide.
Nel silenzio della stanza, fra i tuoi singhiozzi, siete tu, lui e il tempo immobile di ieri, che però vive ancora solo dentro di te.

16. Indietro nel tempo.
Mario non si sta allenando – se è per questo nemmeno Zlatan. Tu stai cercando di fare il possibile – salti corri scatti, Julio dall’altra metà del campo ride e ti chiede “ma non ti stanchi mai?”, e tu ti mordi la lingua con forza per non rispondere che invece sei stanco, sfiancato, esausto, distrutto, ma che se ti fermi adesso hai l’impressione che non riuscirai più a muoverti. E siccome indietro non si torna, siccome non puoi riportare indietro il tempo, siccome non puoi farlo per te, siccome non puoi farlo per Mario, siccome sei obbligato a vivere adesso, che è un momento schifoso e fa male se solo ci pensi, allora ti muovi di continuo, come fossi posseduto, e non ti fermi un attimo. E la stanchezza è irrilevante.
Fai un altro giro di campo, Mario resta immobile seduto su una panchina, José resta immobile vicino all’entrata degli spogliatoi e Zlatan si allontana da lui per cominciare ad allenarsi. Mario lo adocchia e poi torna ad abbassare lo sguardo. Nella tua testa, restate tu, lui e i vostri tempi che non s’incontrano più.

17. Orologio da polso.
Lo noti all’improvviso, assolutamente per caso. Davide sta rifacendo il letto anche se non dovrebbe, perché tanto poi ci pensano le cameriere e questa è una cosa alla quale lui non riesce ad abituarsi, tant’è che ogni mattina rifà il letto anche in Pinetina. Comunque è là che maneggia le lenzuola, le tira, le stende, elimina le pieghe, le rassetta, prende un po’ a pugni il cuscino per gonfiarlo, e tu lo noti. La traccia dell’abbronzatura mancata sul suo polso – la traccia dell’orologio che s’è rotto, quello di suo nonno, quello che Davide ha conservato e non usa più. Ti allunghi a stringere quel polso sottile fra le dita, Davide si volta e ti guarda dall’alto. Sei seduto, lui è in piedi ma il tuo tirartelo contro lo costringe a piegarsi un po’. Eppure non lo stringi fra le braccia, anche se vorresti. Tutto ciò che fai è tenere quel polso fra le dita e guardarlo, seguire il cambio netto di colore da un centimetro di pelle all’altro e poi posarvi sopra le labbra.
Il brivido che scuote Davide quando lo sfiori, è lo stesso identico che scuote te. Siete ancora voi, tu, lui e il tempo che per un istante torna a farsi unico.

18. Sveglia inopportuna.
Ti prende quasi un mezzo infarto quando la sveglia di Mario suona. Ti rigiri con forza fra le lenzuola sperando che, svegliandosi, lui non si accorga del fatto che tu invece eri sveglio e lo guardavi da ore, cercando di trovare un senso a voi ed a quello che provi quando gli posi gli occhi addosso. Non è semplice, perché non sei sicuro che sia quello che pensi potrebbe essere. E ti senti stupido a non riuscire a parlare chiaramente nemmeno con te stesso, ma ci sono parole che sembrano troppo grandi anche se non hai il coraggio di pronunciarle ad alta voce.
Mario sospira profondamente e si alza in piedi. Tu cerchi di farti minuscolo e immobile, chiudi le palpebre con tanta forza che cominciano a farti male.
- Davide. – ti chiama lui. Ed è serissimo.
Siete tu, lui ed il tempo di muovere il culo e parlare.

19. Con il passare del tempo.
“E invece no”, è la prima cosa che pensi quando, nel momento stesso in cui apri bocca per dire tutto a Davide – tutto, poi. Non sai nemmeno tu cosa. Tutto e basta, probabilmente – Deki spalanca la porta e vi apostrofa entrambi con uno sbrigativo “ragazzini, di sotto. Il mister vuole parlarci”, e si prende una pausa, prima di aggiungere “di Ibra”.
Deki è sparito un secondo dopo, tu e Davide invece siete ancora lì, immobili come foste fatti di pietra. Ti volti a guardarlo e Davide ti ricambia l’occhiata col tuo stesso identico sconcerto. Ti osserva mentre ti inumidisci le labbra e deglutisci a fatica.
- Possiamo parlarne dopo? – scolli con evidente difficoltà, e il “sì” stentato di Davide non viene certo fuori meno meccanico o più rilassato.
Meno di due minuti dopo vi state già scapicollando giù per le scale verso la mensa. Tu, lui e il poco tempo che resta prima della fine di un sogno.

20. Orologio dal vetro rotto.
Pochissime parole, un discorso sobrio, la mensa è assolutamente silenziosa, eccezion fatta per la voce del mister che, col solito tono lento e strascicato, quasi monocorde, spiega brevemente i fatti e le loro conseguenze. Ibra va in cerca di nuove esperienze, Ibra è convinto che il Barça sia la soluzione migliore per lui, Ibra vuol bene a tutti e a Milano sta bene – con loro sta bene – non è per i dissapori che se ne va, dissapori non ce ne sono – “Mister, ma litigavate spesso” vorresti dire, solo che sai che i dissapori ci sono stati perché Ibra voleva andare, non per altro, ne sono stati una conseguenza, non la causa – insomma, Ibra parte, salutatelo tutti, dopo pranzo va via.
C’è una lunga processione di abbracci, subito dopo. Ibra si scusa, Ibra sorride un sacco ma i suoi non sono sorrisi fastidiosi, si vede che è un po’ triste, però si vede anche che è molto più che felice di andare, perciò tu proprio non ci riesci a restare a guardare, e sali in camera. Apri il cassetto del comodino e tiri fuori l’orologio del nonno, non sai perché lo fai, forse vuoi solo vedere se per caso ha ripreso a funzionare, così, da solo, senza aiuto – hai bisogno di sapere che è possibile, che a volte le cose si aggiustano senza doverle per forza rimetterle in sesto, per una specie di miracolo. Ne hai davvero bisogno, ma ovviamente non c’è nessun miracolo di cui gioire, l’orologio è ancora rotto e le lancette ancora immobili.
Qualcuno apre la porta e tu ti spaventi – credevi fossero tutti giù e forse stavi un po’ per concederti un pianto – l’orologio ti cade di mano, provi a prenderlo ma l’unica cosa che ti riesce di fare è dargli un colpo più forte che lo manda a schiantarsi col quadrante contro lo spigolo del comodino. È in frantumi due secondi dopo, e tu lì accanto che piangi come un bambino deficiente mentre Mario ti si china addosso e ti stringe e ti culla e ti sussurra cose che non capisci, ma non importa, non davvero. Siete tu, lui e il tempo che intendi ritrovare, costi quel che costi.

21. Se fossi un orologiaio.
- Se fossi un orologiaio, te lo sistemerei io. – non lo sai perché stai qui a sussurrargli tutte queste cose, tu eri salito per dirgli che Zlatan non se la sentiva di partire senza salutarlo un’ultima volta, e invece l’hai trovato lì con quei lacrimoni nascenti negli occhi e l’orologio in mano e ti si è stretto il cuore in una morsa devastante. – Te lo rimetterei subito in moto, ma non sono capace. – continui a sussurrare cullandolo avanti e indietro, - Non so se da me ti aspetti delle soluzioni, Dade, io non ne ho. – e lo baci lievissimo su una guancia, assaggiando in punta di lingua il sale delle sue lacrime, - Mi dispiace farti stare così, mi dispiace essere un coglione e mi dispiace avere rovinato tutto. Eravamo una bella squadra, io e te, prima, mi dispiace che ora sia tutto diverso, mi di- - e non riesci a concludere la frase, perché Davide solleva il viso e cerca le tue labbra, e dopo un’incertezza minuscola, dettata dalla vista appannata dal pianto, le trova anche. Le sfiora con le proprie in uno strofinio appena accennato, e poi le schiude. E siete tu, lui e il nuovo sapore del tempo sulla lingua.

22. Ingannare il tempo.
Sai di essere in condizioni pietose – senti la pelle delle guance tirare attorno alla traccia delle lacrime ormai secche sul tuo viso – e sai che quando tutto questo dramma sarà passato, quando anche gli altri staranno meglio e non saranno costretti a distogliere lo sguardo per evitare di stare troppo male di fronte alla schiena di Zlatan che si allontana verso l’uscita, in molti ti prenderanno in giro per questa sceneggiata da ragazzina, per il modo in cui ti aggrappi al collo di uno svedese che vorresti riuscire a chiamare traditore e che invece non riesci a vedere come niente di diverso da un amico che va via. Semplicemente.
Mario sta in disparte, lui Zlatan l’ha già salutato, e inganna il tempo giocando distrattamente coi lacci della tuta che pendono sul davanti, sciolti e un po’ rovinati in punta, perché lui ce l’ha per vizio questo giochicchiare continuo con tutto ciò che lo circonda, finisce sempre per sgualcire tutto – e tu lo sai bene, perché a forza di giocare Mario ha sgualcito anche te.
- Stammi bene, bambino. – ti  sussurra Zlatan, lasciandoti andare, un po’ commosso, - E prenditi cura di quel teppista, ne ha bisogno. – conclude, accennando a Mario con un breve movimento del capo. Tu sorridi ed annuisci, poi guardi Mario. E siete tu, lui e il tempo che forse non è vero che una volta perso è perso per sempre.

23. Lotta contro il tempo.
Te ne ricordi a metà delle scale.
- Cazzo! – sbotti, e sali al piano di sopra di volata, Davide che ti viene dietro cercando di mantenere il tuo passo e ti chiede di fermarti, perché che cazzo potrai avere di così importante da fare ora e subito che non possa aspettare che lui si sia un attimo ripreso e possa correrti alle spalle senza per forza dovere inciampare ovunque perché ha ancora gli occhi pieni di lacrime e non riesce a vedere tutto perfettamente?!
Comunque tu non lo ascolti, o se lo ascolti prendi appena nota dell’esistenza delle sue rimostranze, entri in camera e ne esci con un pacchetto, perché hai comprato a Zlatan un regalo – una cosa idiota, un cappellino in caso dovesse sentire freddo, è una cosa così stupida che ti senti deficiente tu stesso, adesso che lo tieni in mano – e ci tenevi a darglielo prima che partisse, naturalmente.
Quando esci dalla stanza col pacco stretto al petto, quasi investi Davide che, nel voltarsi per ricominciare a correrti dietro, ti manda anche a fanculo di cuore, e hai perfino il tempo di sorridere perché per un attimo ti sembra tutto esattamente com’era due mesi fa, ma è un sorriso che si spegne subito in una smorfia scioccata quando arrivi alla hall e ti fermi un attimo prima di essere scoperto e interrompere quello che sembra l’ultimo saluto del mister e di Zlatan.
Stanno l’uno di fronte all’altro e tu li guardi fissi col respiro di Davide che ti accarezza il collo.
- Mi mancherai. – dice il mister, la voce soffice, uno strascico di tristezza lungo come il velo di una sposa.
- …anche tu. – risponde Zlatan. Ed allunga una mano a stringergli un fianco. E mentre il mister fa lo stesso tu li osservi baciarsi e ti volti immediatamente, il regalo ancora premuto contro il petto e Davide che ti guarda con gli occhi ancora umidi spalancati. Tu, lui e il tempo di altre due persone che torna solo tempo e si perde nel passato.

24. I segni del tempo.
- La tua pelle s’è fatta più chiara. – Mario te lo sussurra appena vi chiudete la porta alle spalle. Ha ancora quello strano pacchetto fra le mani, cerca un posto dove lasciarlo e poi lo lancia di peso sul letto, scrollando le spalle come a stabilire che se ne occuperà più tardi. Tu, comunque, non hai capito cosa intende.
- Mh? – chiedi quindi, cercando i suoi occhi. Lui la tua occhiata la ricambia subitissimo, non ti obbliga ad aspettare neanche un secondo.
- Quando siamo tornati dalle vacanze, eri abbronzatissimo. Quello – spiega, indicando il tuo polso in un gesto distratto, - si vedeva un sacco. Adesso non si nota quasi più.
Sollevi il polso all’altezza del petto, noti la striscia di pelle più chiara dove un tempo portavi l’orologio del nonno e ti inumidisci le labbra.
- È passato già così tanto. – sospiri un po’ affranto, perché a fare il conto dei giorni perduti ti senti quasi girare la testa.
Mario ti è vicino il secondo dopo. Mario ti sta baciando che non è nemmeno  passato un minuto. E siete tu, lui e il tempo dei vostri gesti che detta un nuovo ritmo al vostro respiro.

25. Cassa di un orologio.
Mentre lo baci con la lentezza esasperante di tutte le prime volte più spaventose della tua vita – la prima volta che hai fatto il bagno al mare e avevi paura di annegare, la prima volta che hai visto i tuoi veri genitori e hai avuto paura di non poter resistere alle lacrime, e così via – capisci una cosa molto semplice, di te e di Davide, e probabilmente anche di tutto il resto del mondo: la vita e la scansione del tempo coincidono. Ogni vita è la cassa di un orologio, e se stai zitto, se non ti muovi, l’unica cosa che senti è il costante ticchettio delle lancette che annunciano il trascorrere del tempo nella tua immobilità. La dinamica annulla il trascorrere del tempo non perché quello smetta effettivamente di passare, ma perché tu smetti effettivamente di sentirlo.
Davide mugola fra le tue labbra, tu ti allontani e lo lasci libero di respirare. Lo guardi – gli occhi chiusi, le gote arrossate, anche se non capisci più se dalle lacrime di prima o dall’imbarazzo di adesso – e sorridi. Siete tu, lui e l’idea assurda del dover trovare il tempo di respirare fra un bacio e l’altro.

26. Spezzare le lancette.
Se servisse a concedervi un per sempre prolungato all’infinito in questo preciso momento, spezzeresti a mani nude tutte le lancette di tutti gli orologi di tutto il mondo intero. Ci sono cose di cui si comprende il valore col tempo, ci sono cose di cui si comprende il valore solo quando le perdi, ce ne sono altre di cui comprendi il valore solo quando finalmente le ottieni, e per te e Mario queste possibilità si sono verificate tutte assieme. Hai capito che era importante man mano che andavi conoscendolo, hai capito quanto era importante quando l’hai perduto ed hai capito come era importante quando finalmente l’hai ritrovato. Sulle labbra, sulle guance, sul collo e in qualsiasi altro posto.
Mario scende a baciarti l’osso sporgente e appuntito del fianco, tu lo guardi con imbarazzo ma non vuoi fermarlo. Tu, lui e il tempo di crescere.

27. Senza tempo.
Non sai quanto tempo passi dal momento in cui smetti di baciare ogni singolo centimetro del suo corpo e ti sistemi fra le sue gambe, esitando appena. Davide solleva le braccia e pianta le mani sulle tue spalle, stringe così forte che non potresti ignorare il suo terrore neanche volendo. Cerchi di rassicurarlo accarezzandogli lento i fianchi, la vita, le cosce, ti prendi il tuo tempo, te lo prendi tutto, non c’è fretta. Non lo vuoi solo perché lo vuoi, lo vuoi perché volerlo ha un significato ben preciso che va oltre il semplice desiderio fisico. Ci hai messo un po’ a capirlo, e sorridi nel realizzarlo mentre ti avvicini ancora e lui ti fa posto, mordendosi il labbro inferiore in previsione di un dolore che ancora non prova ma di certo presto proverà. Tu, lui e la calma placida del tempo che vi aspetta.

28. Orologio da taschino.
“Le cose care al cuore,” dice sempre il nonno, ed è assurdo che tu ci stia pensando in questo momento, ma tant’è, “vanno tenute strette al cuore. Ecco perché il mio orologio non lo porto mai al polso, ma sempre qui dentro”, e indica il taschino del gilet. “Ma nonno, quello è un orologio da polso, non da taschino”, rispondi sempre tu, e lui, ogni singola volta, scrolla le spalle e risponde che non importa, che il punto non è cosa qualcosa sia ma cosa quel qualcosa rappresenti per te. Lo capisci solo adesso, quello che intendeva il nonno. E stringi Mario forte al petto mentre lui entra pianissimo dentro di te, lento come una tortura, e senti il bisogno di ringraziare qualcuno, ma non c’è nessuno a parte lui, perciò quel ringraziamento glielo lasci scivolare fra le labbra quando vi baciate per quella che sembra la centesima volta. Lui non ti chiede perché lo stai ringraziando, e la verità è che tu stai ringraziando tutto il mondo per averti permesso di riaverlo indietro, quindi è più giusto che Mario non risponda. È più giusto che Mario non dica niente. È più giusto che torni semplicemente a baciarti e basta. È più giusto che siate semplicemente tu, lui e il tempo che conta, e comincia a contare proprio quando smetti di contarlo.

29. Tempo scaduto.
- Tempo! – urla il mister da bordocampo, e tu finalmente ti fermi, ansimando e piegandoti in avanti, le mani poggiate sulle ginocchia nel tentativo di riprendere fiato.
- Schiavista. – borbotta Matrix passandoti accanto e sfilando la maglietta con urgenza, l’umidità che vi si appiccica addosso e si fa insopportabile.
- Caldo? – chiede Davide fermandosi accanto a te e spintonandoti appena con un fianco. Ridi, rimettendoti in piedi e tirandotelo contro mentre tutto intorno a voi si solleva il solito coro di “oh, no, non di nuovo” e il mister si mette a berciare che questa è una squadra di calcio, non il distaccamento milanese dell’Arci Gay in trasferta a Pechino, “perciò ricomponetevi, ragazzini, che non ce l’avete il posto in squadra solo perché siete carini e teneri, d’accordo?!” e scompare negli spogliatoi tirando bloc notes ovunque, fra le risate di mezza squadra.
- Quanta cattiveria. – vi rimprovera Deki, ma ride anche lui, - Lo sapete che è ancora nervoso per Ibra. – e sì, voi lo sapete, lo sapete anche meglio di quanto non lo sappiano tutti gli altri. E vi dispiace, per certi versi. E per altri sapete che è così e basta e non c’è niente da fare. Siete voi, tu, lui e il vostro tempo appena cominciato.

30. C’è stato un tempo in cui.
C’è stato un tempo in cui non hai chiesto niente. Ce n’è stato un altro in cui hai chiesto e non hai avuto. E poi è seguito il tempo in cui hai smesso di chiedere, perché – visto che comunque non arrivava nulla – perfino parlare ti sembrava uno spreco. Poi è arrivato il tempo in cui Mario ti ha dato tutto e tu non hai avuto neanche bisogno di dirgli come. Senza parole, senza perché, senza fretta e senza paura, siete arrivati al compromesso perfetto – e ora lo sai, che l’amore è fatto di questo. Non c’entrano i bronci, non c’entrano le pretese, per certi versi è un gioco di domanda e offerta: ci sono cose che puoi dare e cose che non puoi dare. Quando il numero delle cose che non puoi dare supera quello delle cose che sei disposto a concedere, forse è il caso di andare via. Probabilmente è questo, quello che è successo fra Zlatan e il mister.
Ma tu non lo sai e al momento non è nemmeno importante: a te e Mario non è successo e ci sono momenti in cui l’amore per forza di cose deve essere egoista. Al mister passerà. Tu speri che a te non passi mai. Per Mario è lo stesso. Tu, lui, il tempo passato, il tempo presente, il tempo futuro e il tempo stesso.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Davide/Mario, José/Zlatan (accennato).
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lime.
- Il campionato in tasca e Davide spalmato addosso. Praticamente una serata perfetta.
Note: L’ispirazione per scrivere questa fic è arrivata quando ho visto le foto dei festeggiamenti dei ragazzi subito dopo la conclusione del posticipo della *mumble* terzultima? giornata di campionato. Quando il Milan *ghigno* ci ha consegnato l’allegro scudetto nelle mani, i ragazzi sono letteralmente impazziti, sono montati sul bus e sono corsi in Piazza Duomo a festeggiare la vittoria coi loro tifosi, dandosi alla pazza gioia fino alle quattro del mattino e trascinandosi dietro pure un inizialmente riluttante Mourinho (che il giorno dopo è risorto dalle proprie lenzuola verso le undici e mezzo del mattino, tipo XD). Per cui è tutto tendenzialmente canonico, compreso il Jobra, l’OT3 (Matrix/Deki/Chivu, sono sempre insieme quei tre loschi figuri XD) e – soprattutto – il Santonelli. Bimbi miei, vi adoro <3
Dedicata alla Mela, perché è meravigliosa. *sbaciucchia*
PS. Il titolo è un verso della canzone We Break The Dawn di Michelle Williams. Biasimate Def per questo. Ma fatelo, eh. Io di mio non ci riesco più XD
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Holding Time In Our Own Hands


Scoccano le quattro del mattino e la testa di Davide ciondola in avanti e poi di lato, una, due, tre volte. La frangetta sbilenca gli casca sul naso e lo pizzica, lui prova a scostarla con un movimento infastidito e, ovviamente, non ci riesce, tanto che Mario, seduto lì accanto, ride e si china su di lui, risolvendo il problema al suo posto. La testa di Davide, per tutta risposta, ciondola un po’ indietro e poi dall’altro lato, andandosi a schiantare senza delicatezza contro la spalla di Mario, che sposta il braccio e lo piega attorno alle spalle del difensore, per trarlo a sé con  più decisione e rendere la posizione meno scomoda e precaria per entrambi.
Nessuno si accorge di loro – ed è anche giusto così: sono tutti impegnati a sventolare bandiere e fomentare l’entusiasmo della folla che circonda il bus. Perfino chi inizialmente sembrava più restio ad uscire per festeggiare – perfino il Mister, che minimo avrà urlato sulle loro teste per mezz’ora prima di rassegnarsi ed uscire con loro, e solo perché il presidente gli aveva alla fine tirato una pacca sulla spalle e, sorridendo, gli aveva suggerito di lasciarsi un po’ andare, “che le fa bene, José, ha un così bel sorriso, me lo faccia vedere!” – insomma, tutti quanti sono così presi dall’euforia per la conquista dello scudetto che nessuno, proprio nessuno, pensa a loro due, seduti sui sedili in quell’angolo sul fondo del bus, perciò Mario non si fa problemi a stringere Davide più fermamente, scivolando con la schiena contro il sedile e sistemandoselo sul petto, mentre lui mugugna solo un po’, chiedendo a sua madre di lasciarlo in pace, che tanto è ancora presto per alzarsi, e poi comunque oggi non ci deve andare a scuola, che hanno vinto il campionato.
Mario ride a bassa voce, scuotendo il capo, ed alla sua risata si sovrappone lo sbuffare tipico delle smorfie del Mister, motivo per il quale l’attaccante alza lo sguardo e lo pianta sulla figura dell’allenatore, che scruta sia lui che Davide disteso su di lui con un’espressione indecifrabile.
- I bambini – afferma quindi il portoghese, senza che Mario abbia bisogno di chiedergli niente, - a quest’ora dovrebbero già dormire.
- Quali bambini? – ride Zlatan, apparendo alle spalle dell’allenatore e sfiorandogli i fianchi in un movimento distratto che ormai in squadra hanno imparato tutti ad ignorare. La prima volta li hanno guardati con sincero sgomento, la seconda con curiosa sorpresa, la terza con malcelato divertimento e poi semplicemente quegli sguardi si sono sfumati nella normalità e nell’abitudine. Mario, quel gesto, lo nota appena. La testa di Davide si muove di poco sul suo petto e lui spera solo che il suo cuore non batta tanto forte da svegliarlo.
- Questi due. – risponde José, indicandoli, - Come vedi, il piccolo dorme.
Zlatan ride ancora. È un po’ ubriaco ed i suoi lineamenti – in genere volgari e sgraziati – grazie a quel sorriso perenne acquistano una simpatia ed una piacevolezza tutte particolari. Mario ricambia la risata e stringe ancora Davide.
- Il grande però è ancora in piedi. – contesta lo svedese. José sbuffa e torna verso il bordo del bus, borbottando un “come preferisci” al quale Zlatan non ha voglia di rispondere, preferendo piuttosto restare fermo a guardare lui e Davide, ancora stretti in quel ridicolo abbraccio. – Odio ammetterlo, - sbuffa poi, - ma ha ragione. Davide stava già crollando di sonno prima che tu arrivassi. È che è-
- Un cretino ed è voluto uscire lo stesso. – completa per lui Mario, guardando distrattamente il capo di Davide muoversi appena al ritmo dei suoi respiri. – Forse sarebbe il caso di metterlo a letto. Domani non riusciremo mai a svegliarci in tempo.
Zlatan ghigna e lancia attorno a sé uno sguardo divertito, adocchiando José che gesticola animatamente mentre discute con Beppe. L’altro uomo ride e gli posa entrambe le mani sulle spalle, cercando di placarlo. “Sì, sì,” lo si sente dire in un sussurro sotto le urla dei tifosi e dei giocatori, “ora te li riportiamo a casa i cuccioli, José”. Zlatan e Mario lo osservano allontanarsi stizzito, e se lo conoscono abbastanza bene – e sì, è così – il borbottio costante che gli scuote le labbra suona più o meno come un infastidito “qui nessuno mi prende abbastanza sul serio”. Zlatan scuote il capo e si allontana verso di lui, senza nemmeno salutare. Mario non se la prende, al momento è felice, Davide gli pesa addosso in maniera deliziosa e lui non può davvero lamentarsi di nulla. Non ha nemmeno sonno.
Davide mugugna da qualche parte sul suo petto.
- Odori di champagne. – mugola fra le labbra.
Mario ride. È vero, gli hanno fatto praticamente la doccia, quando è arrivato alla Pinetina – dopo la fine della partita, sempre, perché lui porta sfiga, quando vuole che una squadra perda quella vince sempre, perciò nemmeno c’ha pensato a guardarla, la dannata partita del Milan, ha mangiato a casa, con suo padre, sua madre e i suoi fratelli, e del campionato se n’è strafregato. Almeno finché non ha scoperto di averlo vinto.
- Sei sveglio? – chiede a mezza voce.
Davide mugola ancora.
- No. – risponde sospirando, - Dove siamo?
Mario ride.
- Se aprissi gli occhi lo vedresti.
- Non sono sicuro di volerlo fare… - ammette Davide in un brontolio infantile, - Sto bene così.
Mario lascia scivolare una carezza distratta fra i suoi capelli, stringendoselo contro.
- Dovremo tornare in Pinetina, comunque. Prima o poi.
Davide mugola scontento e il “prima o poi” diventa “adesso” quando il bus comincia ad allontanarsi dai residui di folla festanti in Piazza Duomo. I giocatori si calmano quasi tutti, Deki sta ronfando saporitamente svaccato sulle gambe di Marco, il quale a propria volta si è spalmato addosso a Chivu, che gli accarezza la parrucca riccia nerazzurra con una certa devozione, ma ha gli occhi che riflettono un imminente coma alcolico. Perciò Mario non se ne interessa troppo, lascia solo scivolare appena lo sguardo sul Mister che trascina Zlatan in un mezzo bacio tenero, e poi torna a guardare Davide, ancora steso su di lui, che sorride sereno – gli occhi chiusi e i lineamenti di stesi – mentre il venticello fresco della prima mattina milanese gli scompiglia i capelli.
Quando l’autobus si ferma di fronte all’ingresso della Pinetina, molti dei supposti uomini maturi che si sono sfondati d’alcool fino a quell’orario indecente hanno bisogno di più mani per riuscire a scendere dalla vettura, risalire le scale ed infilarsi a letto. Davide no, Davide ha bisogno solo di Mario. L’attaccante si lascia passare un braccio del compagno sopra le spalle e lo sostiene stringendolo alla vita, mentre Davide gli si spalma addosso, strofinando il naso contro il suo collo.
- Non farti la doccia. – chiede il più piccolo, leccando dalla sua pelle ciò che resta dello champagne che gli hanno versato addosso a inizio serata, - Sai di vittoria.
- Sei ubriaco. – ride Mario, spalancando con un calcio la porta della camera che dividono, e trascinando Davide all’interno.
- Solo un po’. – risponde il ragazzo, lasciandosi stendere sul letto senza protestare. – Tu per niente? – chiede poi, in un mezzo mugolio confuso.
- Lo reggo bene. – si limita a scrollare le spalle Mario, rimboccandogli le coperte, - Adesso dormi. Domani abbiamo partita e-
- Mario. – lo chiama piano Davide, tirando fuori un braccio magro da sotto le coperte ed allacciandolo al collo, - Non ho sonno per niente, sai?
- Ma se mi dormivi addosso fino a poco fa… - ride il ragazzo, lasciando scorrere una mano lungo quel braccio e fino alla spalla, accarezzandolo piano.
- Appunto. – Davide lo afferra per il colletto della maglia, tirandolo sul materasso con tanta forza che Mario non riesce ad impedirglielo, e pensa distrattamente che probabilmente è vero, Davide non dormiva affatto ed è solo vagamente ubriaco, altrimenti quella forza non si spiega, non si spiega quell’urgenza neanche a tratti mitigata dal sonno o dal torpore e non si spiega la lucidissima fame con la quale il ragazzo gli morde le labbra, spalancando le gambe perché lui possa finirci in mezzo e cominciando a strusciarsi lento contro la sua erezione evidente anche attraverso il tessuto spesso e ruvido dei jeans.
- Non riusciremo mai a svegliarci in tempo… - ironizza Mario, liberando se stesso e Davide dall’impaccio dei vestiti inutili, per scivolare meglio contro di lui, pelle su pelle, - Il Mister ci aizzerà contro Zlatan.
- Mmhn… - borbotta Davide, schiacciandosi repentinamente contro di lui, - Potremmo parlarne in un momento in cui… in cui… - gli morde il mento, affamato, - In cui non stia impazzendo per sentirti dentro?
E la risposta è sì, naturalmente. La risposta è sì, possiamo parlarne quando vuoi, Davide, possiamo anche non parlarne mai, cosa vuoi che me ne freghi se ti stringi contro di me in quel modo, se mi baci ovunque in quel modo, se cerchi le mie labbra in quel modo, se tutto ciò che voglio è sentirti mentre ti chiudi attorno a me con quella forza, con quell’impeto, con quel desiderio, e chi se ne frega del Mister, chi se ne frega di Zlatan, chi se ne frega perfino del campionato, che tanto lo scudetto è nostro, piccolo, ci credi?, l’abbiamo vinto noi, cazzo, e tu sei bellissimo, sei bello come mai prima, perché ti muovi così e mi prendi così e ti giri così e mi baci così ed a me, quando lo fai, non frega più un cazzo di niente, Davide, davvero, che potrebbe crollarmi il tetto sulla testa e continuerei a scoparti comunque, perché tu sei troppo, perché tu sei tutto, e vaffanculo, quanto divento melenso quando ti tocco, mh, piccolo?, e senti come mugoli, senti come mi vieni incontro, senti come gemi e come ti agiti e senti come tremi mentre mi vieni fra le mani chiamandomi per  nome, e non lo sai nemmeno quanto sei bello, Davide, non lo sai quanto siamo belli, non ne hai idea, cazzo, non vedo l’ora di andare in nazionale – perché ci prendono insieme, mh, piccolo?, sì che ci prendono insieme – così saremo noi due, solo noi due, niente rotture di palle, nessuno con la chiave della stanza, nessuno che voglia uscire con noi alla sera, niente di niente, solo io e tu, Davide, e sarà fantastico, cazzo, sarà fantastico.
Uscire da lui è un po’ come riprendere conoscenza dopo un periodo indefinito – e indefinitamente piacevole – di totale annullamento di se stesso. Un po’ come quando gioca alla Playstation – per quanto, cazzo, Davide sia almeno uno o due milioni di volte meglio della Playstation – e lo fa con tanta concentrazione che, quando riesce finalmente a distrarsi – solitamente perché vince – si accorge che sono passate le ore, da quando s’è seduto. E con Davide è uguale, ma è anche diverso, perché con Davide il tempo non passa davvero. Quando scopano può passare quanto, mezz’ora? Ma quando Mario riprende conoscenza è sempre come ne fossero passate cinque, dieci, centomila. Davide prende il tempo e lo spazio, li comprime e glieli sbatte addosso, per lui scopare con Davide è come drogarsi della vita stessa. Anzi, è vita stessa.
Chiude gli occhi, poggiando la fronte contro la sua e respirando piano dalle sue stesse labbra, che lo sfiorano appena, giocando più che baciandolo davvero, conciliandogli il sonno. Sa che questo è il momento in cui dovrebbe dirgli che forse è meglio se va a dormire nel suo letto, perché – a differenza di quanto potranno dire quando e se saranno in nazionale insieme – adesso le chiavi di camera loro ce le ha almeno un’altra persona, e Mario non è neanche sicuro di aver chiuso la serratura, e in realtà non ricorda nemmeno se ha proprio chiuso la porta o meno, ma non può dirlo adesso. Perché Davide già dorme, stretto a lui, le gambe intrecciate con le sue, e se anche andare a dormire nel proprio letto fosse una possibilità lui non potrebbe rinunciare a questo calore per niente al mondo. Perciò se ne frega di ciò che sarebbe giusto ed anche di ciò che sarebbe conveniente e, a dirla tutta, se ne frega anche dei rimproveri che sicuramente gli pioveranno in testa domani mattina. È okay. Non potrebbe essere, davvero, più felice di così.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Inter/Zlatan (+ tutte le combinazioni possibili: José/Inter, José/Zlatan, Inter/Zlatan). No, non vi sto prendendo per il culo.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Slash, Threesome, Angst (tutti accennati).
- "Come tutti gli amori della sua vita, José l’Inter non l’aveva scelta: lei era esplosa."
Note: Ciò che dovete sapere, dovreste averlo anche intuito dai pairing/personaggi espressi là sopra. Io, più di quello, non so che dirvi XD
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I Belong To You (Mon Cœur S'Ouvre À Ta Voix)


Come tutti gli amori della sua vita, José l’Inter non l’aveva scelta: lei era esplosa. Si erano conosciuti per lavoro, naturalmente. La loro collaborazione era cominciata quasi per caso. Lei aveva appena mollato, lui era appena stato mollato. Non che entrambi fossero così clamorosamente a pezzi, ma fra il non essere morto e l’essere vivo passa una differenza molto meno sottile di quanto non si possa pensare, e José non si sentiva vivo da tanto di quel tempo che aveva perfino l’impressione di essersi dimenticato come fare a respirare. L’Inter, poi, era se possibile in una condizione psicologica ancora peggiore: vincente in tutto meno che negli affetti, giocava le partite della sua vita in balia dei capricci e dei mal di pancia dell’uomo al quale doveva tutto, e che proprio per questo minacciava di essere anche l’unica cosa che avrebbe potuto lanciarla in un vortice di disperazione, lasciandola sola da un giorno all’altro.
José e l’Inter avevano cominciato a conoscersi quando lei era ancora così presa da Zlatan da non riuscire quasi a pensare a nient’altro. “Non mi piace come ti muovi,” le aveva detto José in uno dei loro primi e incerti momenti d’intimità, accarezzandole teneramente il viso, come volesse prendere le misure dei suoi lineamenti.
“Lo so,” aveva risposto lei con un sorriso stanco, “ma non riesco a lasciarlo andare.”
“Non te lo sto chiedendo,” l’aveva rassicurata immediatamente lui, sorridendo appena, “Vedrai che riusciremo a farla funzionare anche così.”
Farla funzionare era stata dura, ma soddisfacente. Mentre l’Inter osservava, vagamente in imbarazzo, un po’ a disagio nel sentirsi contesa fra due personalità tanto forti, José era andato da Zlatan e l’aveva guardato severamente, saldo sulle gambe, senza arretrare di un millimetro.
“Non manderai tutto a puttane,” gli aveva detto, scrutandolo quasi con odio, “Farai ciò che io ti dirò di fare. Niente di più, niente di meno.”
“Non puoi domarmi, portoghese,” aveva riso Zlatan, sfacciato, “Non sono quel tipo di persona.”
“Non mi interessa che tipo di persona tu sia,” aveva risposto José, imitando il suo sorriso sicuro, “Farai ciò che io ti dirò di fare,” aveva ripetuto, “Niente di più, niente di meno.”
Anche Zlatan, come l’Inter, non l’aveva scelto lui. Ed anche Zlatan, come l’Inter, era esploso. Lavorare fianco a fianco con lui, mentre l’Inter si arrabattava faticando fra una prova di forza e l’altra, gli aveva dato modo di osservare tutto, della sua persona. La sua forza, il suo orgoglio, la sua indomabile sicurezza. Zlatan e l’Inter erano simili, molto, troppo. L’unica cosa che li differenziava era il tipo di sorriso col quale accoglievano le avversità: Zlatan sorrideva cattivo, preparandosi ad affrontare qualunque cosa; l’Inter sorrideva placida, certa di potercela fare, abbandonandosi sensuale fra le braccia di entrambi, pronta a farsi sostenere.
Le loro quattro braccia bastavano, a sostenerla. Ma solo fino ad un certo punto.
“Non posso avere tutto, finché resto con voi,” gli aveva detto Zlatan durante un pigro pomeriggio estivo, appoggiandosi quasi stancamente contro di lui in uno sfoggio di intimità che non si era mai manifestato fuori dalle lenzuola che condividevano con l’Inter, “Io voglio tutto, Zay. E qui non posso prendermelo.”
“Non lo farai,” aveva cercato di fermarlo lui, senza guardarlo, troppo teso perfino per muoversi. “Non manderai tutto a puttane. Tu resterai.”
Zlatan aveva sorriso, allungandosi a baciarlo lievemente su una guancia.
“Non l’hai ancora capito, portoghese?” l’aveva preso in giro, ridendo appena, “Non puoi domarmi. Non sono quel tipo di persona.”
Era partito pochi mesi dopo. La Spagna, diceva, quello era il posto. Barcellona. Lì avrebbe potuto avere tutto. Quando l’aveva detto all’Inter, lei aveva sorriso tranquilla, come sempre. L’aveva rassicurato stringendogli una mano e poi s’era allungata a sfiorare la fronte di Zlatan con le labbra morbide e dolci, sciogliendo la tensione che aveva accumulato fino a quel momento in attesa della sua risposta.
“Ti auguro di essere felice,” gli aveva detto. Non aveva mai pianto. Neanche osservandolo salire sull’aereo.
Dopo Zlatan, non era arrivato nessun altro a frapporsi fra José e l’Inter. Ed era stato allora che lei era esplosa ancora, devastandogli il cervello. L’aveva osservata sorridere con rinnovata decisione, ricomporsi dal nulla, reinventarsi da zero, e tirare su le maniche fino al gomito. L’aveva vista correre a perdifiato da un lato all’altro del campo, colpita una, due, tre volte, ferita quasi fino a non potercela più fare. E rialzarsi sempre, ogni volta con lo stesso identico sorriso sul volto. Il sorriso di chi ha smesso di credere di potercela fare, il sorriso di chi sa che ce la farà.
L’aveva baciata in un freddo primo pomeriggio di fine febbraio, di fronte a un sacco di gente.
“Voglio che lo sappiano,” le aveva detto, nascondendo l’imbarazzo e stringendola con forza fra le braccia, “Voglio che lo sappiano tutti.” Lei aveva sorriso, un po’ incerta, ed aveva sollevato le braccia per allacciarlo al collo, lasciandosi cullare. “Non l’avevo mai fatto, prima d’ora,” aveva aggiunto lui, la voce vagamente tremula e lo sguardo fisso sul suo collo bianco e un po’ arrossato d’imbarazzo. “Non ti lascerò mai.”
“Non dirlo,” aveva risposto lei, allontanandosi appena per poterlo guardare negli occhi. Sorridevano le sue labbra, sorridevano gli occhi azzurri sotto le ciglia nere, curve e lunghe, insidiose come trappole, da perdercisi dentro. “Non voglio promesse. Le tue labbra mi bastano.”
José gliele aveva date ancora, stringendola con forza alla vita.
L’aveva vista crollare a terra sconfitta non più di qualche settimana dopo, sola in mezzo al campo. Le si era avvicinato con circospezione, quasi avesse paura di disturbare il suo cordoglio facendo troppo rumore. Si era accucciato al suo fianco, lei era rimasta per terra, fradicia di pioggia e sudore, ansante, distrutta, delusa. Non sorrideva più.
“Non posso farcela,” l’aveva sentita bisbigliare, la voce rotta. Le lacrime, sulle guance bagnate di pioggia, erano invisibili, ma ugualmente dolorose. “Non ce la posso fare, Zay. Non sono forte abbastanza. Non come credevi. È finita.”
José aveva lasciato scivolare la propria mano sulla sua, intrecciando le loro dita.
“Sarò forte anche per te,” le aveva risposto sicuro, “Ce la faremo insieme.” Lei aveva sollevato lo sguardo e l’aveva scrutato a lungo, senza cambiare espressione. Poi, la sua tristezza s’era sciolta in un sorriso più calmo. “Ti fidi?” le aveva chiesto lui, stringendo la presa sulle sue dita.
“Mi fido,” aveva risposto lei, annuendo decisa. S’era rialzata senza aiuto pochi secondi dopo. Senza neanche parlare, stava già cercando serenamente il biglietto per Londra.
Genere: Erotico.
Pairing: José/Mario, cenni di Zlatan/José, Zlatan/Mario e pure di Mario/Davide, se squintiamo giusto un po'.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash, Lime.
- Una piccola vendetta. O forse solo giustizia.
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (Inter FC), Mario/José, crampi.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
AND JUSTICE FOR ALL


- C’è gente che viene pagata per fare questo lavoro. – sbotta José, annoiato a morte, cercando di continuare a dirigere la squadra ed aiutarlo a sciogliere i muscoli contemporaneamente.
- Non sono tanto bravi. – mente Mario, concedendosi un mezzo sorriso da bambino cattivo, - Concentrati, mister, che se non stai attento fai danni.
- Io e te dovremo ridiscutere questa faccenda del darmi del tu. – ringhia l’allenatore, indispettito, - Ti pare che qualcun altro oltre te si permetta di prendersi certe confidenze nei miei confronti?
Mario scrolla le spalle.
- Ibra lo fa. – risponde con falsa innocenza. José guarda altrove.
- Ibra è un’altra cosa. – risponde, - E comunque non ho mai dato il permesso neanche a lui, se l’è preso e basta. – lo fissa, inarcando un sopracciglio, - E tu non hai le qualità per farlo.
Mario gli ricambia lo sguardo, e i suoi occhi brillano. Il piede, coperto solo dal calzino e fino a poco fa saldamente incastrato tra la mano e il fianco del mister, scivola lungo il suo ventre, pressandosi appena fra le sue gambe. Tenendosi sollevato da terra coi gomiti, Mario lo fissa e basta, quasi con ostinazione, continuando ad accarezzarlo lentamente attraverso il cotone sottile dei pantaloni della tuta.
- Mario. – grugnisce José, con estremo disappunto, - Non in mezzo a tutti.
- Fermami. – risponde sbrigativamente lui. José è furioso, può vederlo dalla piega delle sue sopracciglia e dall’ombra scura che rende opachi i suoi occhi. Porta entrambe le mani ad afferrare il suo piede, per qualche secondo Mario si permette anche di pensare che forse lo fermerà davvero, ma poi José si rilassa, i suoi occhi si chiudono e alle sue labbra sfugge un sospiro rassegnato mentre, lontano dagli sguardi indiscreti di giocatori ed assistenti, impegnati a lavorare seriamente, loro sì, in mezzo al campo, si struscia contro di lui, cercando di contrastare le sue carezze con spinte brevi e discrete, sperando più che altro nella buona sorte.
Quando José si ferma all’improvviso, strizzando le palpebre con forza per un millisecondo che lo riempie di soddisfazione, Mario sorride e si inumidisce le labbra.
- …la tua gamba – deglutisce José, staccandosi repentinamente da lui con imbarazzo palese, - è troppo in forma, per essere quella di uno che s’è accasciato in terra in preda ai crampi dieci minuti fa. – borbotta, mollandolo lì e dirigendosi speditamente verso il primo bagno disponibile all’interno del centro sportivo.
Dopo averlo osservato scomparire oltre la porta, Mario resta disteso e guarda il mondo circostante sentendosi forte. Senza nessun motivo in particolare. 
Cerca Zlatan, e quando lo trova vede che lui lo sta già guardando. Sorride, chiedendosi da quanto lo stia facendo, e sorride perfino con maggiore convinzione quando lo vede cambiare espressione – da sbigottita a furiosa – ed allontanarsi a grandi passi verso il punto più lontano da lui sull’intera superficie del campo.
- C’è chi la chiamerebbe vendetta. – commenta Davide, apparso dal nulla sulla panca poco distante. Mario ride, alzandosi in piedi e saltellando brevemente sul posto per rimettersi in condizioni di allenarsi.
- Io la chiamo giustizia.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: Mario/Davide/Zlatan/José. Tutti assieme, sì.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Foursome, Lemon, Slash.
- "Dà? Era meglio se stavi zitto."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (Inter FC), Davide/José/Mario/Zlatan, "Vedete? È docile come un agnellino, se sapete prenderlo per il 'verso' giusto." "Fottiti.".
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IL SILENZIO E' D'ORO


La reazione di Mario, nel vedere Zlatan spalmato contro il tavolo in cucina fra tazze di latte più o meno piene e più o meno fumanti, biscotti sparsi e arance che rotolano un po’ ovunque a casaccio, è un sospiro teatrale e un altrettanto teatrale rivolgere gli occhi al cielo come in cerca dell’aiuto di Dio – perché in certi casi poco importa non essere proprio certi della sua esistenza: ci si spera e basta, che a sperare non si fa mai male. 
La reazione di Davide è più infantile ma non meno concitata: porta entrambe le mani al viso, come a volercisi nascondere dietro, ma in uno sfoggio di deliziosa impudicizia che nessuno si sogna neanche di definire casuale lascia separate le dita, in modo da potersi godere lo spettacolo senza difficoltà di sorta. Si lascia anche sfuggire un gemitino, di quelli piccoli che scuotono sempre tutti dal di dentro, e che costringono sia Mario che Zlatan – ancora piegato in due sul tavolo, per la cronaca – ad un ringhio di gola che gli fa eco ed amplifica il desiderio che già si fa strada nel bassoventre.
La reazione di Zlatan è ovviamente confusa. In fondo, è lui quello nudo e piegato sul tavolo, sempre in mezzo al latte e ai biscotti e alle arance, quindi la sua posizione è senza dubbio la più imbarazzante. Naturalmente, José potrebbe obiettare che dopotutto non è lui l’allenatore che è stato sorpreso da due fra i più piccoli giocatori della sua rosa mentre si struscia contro il suo attaccante migliore e si nutre dei suoi sospiri e dei suoi gemiti come fossero l’unica cosa importante al mondo attendendo di entrargli dentro e prendersi ciò che vuole davvero, ma Zlatan delle obiezioni di José – reali o ipotetiche che siano – si disinteressa del tutto, quindi mugugna un’imprecazione risentita e nasconde il viso contro gli avambracci, lasciando i capelli lunghi e mossi liberi di ricadergli ai lati del viso per coprire ciò che ancora resta visibile del suo imbarazzo.
La reazione di José, comunque, è la più inaspettata di tutte: nel rispetto della lunga e da più parti apprezzata tradizione dei gesti ad effetto, che lasciano sempre tutti a bocca spalancata incapaci di formulare una replica o anche solo di costringersi a pensare a qualcosa di diverso – di diverso da lui e da quanto possa essere indecentemente bello anche tutto arruffato dopo il lungo e riposante sonno notturno – José decide come al solito di spingersi oltre. Spingersi oltre, nel caso specifico, si traduce in spingersi dentro, e due secondi dopo la schiena lunghissima di Zlatan si inarca e dalle sue labbra sfugge un gemito dirompente al punto che Mario torna a guardare la scena, sbigottito, mentre Davide lascia ricadere le braccia inerti lungo i fianchi, spalancando la bocca e gli occhi.
- Be’? – dice quindi, con quel suo italiano strascicato e un po’ lagnoso e dannatamente sensuale, col tono preciso di chi ti concede la sua attenzione come un preziosissimo dono, - Che aspettate? La bestia ha bisogno di esseredomata. – ghigna, spingendosi più profondamente dentro il suo corpo.
Zlatan ringhia, rispondendo al richiamo quasi animalesco delle sue mani che gli tirano i capelli come redini, per tenerlo buono.
- Stronzo… - mugugna, impossibilitato a muoversi. Mario sospira.
- Sempre la stessa storia… - borbotta quasi annoiato, seguendo Davide e piazzandosi disinvoltamente alla sinistra di Zlatan, mentre il più giovane s’inginocchia e, con l’espressione di un bambino che si appresta a mettere le mani sul suo giocattolo preferito, si china sull’erezione dello svedese, sfiorandola quasi timorosamente con le labbra prima di prenderla in bocca fino alla base, inspirando profondamente ed appiattendo la lingua per farle spazio.
- Questo è- - biascica Zlatan, deglutendo a fatica, - è scorretto.
- Per carità, fa’ silenzio. – sbotta Mario, afferrandolo per il mento e costringendolo a voltarsi verso di lui. Lo fissa negli occhi per qualche secondo, prima di sciogliersi in un sorriso felice e arreso e improvviso come solo quelli dei ragazzini possono essere. – Cazzo quanto sei bello, fanculo. – commenta come fosse una scoperta improvvisa degli ultimi minuti, e si appoggia al tavolo per chinarsi sulle sue labbra, baciandolo profondamente ed impedendogli qualsiasi protesta possa venirgli in mente di avanzare contro tutti loro che si stanno evidentemente prendendo gioco di lui quando quella vacanza era stata progettata per rilassarsi e basta, non certo per essere violentato sul tavolo durante la colazione della domenica mattina.
Negli smottamenti che arruffano ancora di più ciò che sul tavolo è stato sparso solo per addobbo, dato che tutti mettono in bocca di tutto tranne che il cibo che a quello doveva essere destinato, un’arancia rotola giù verso il pavimento, e nella caduta libera incontra la testa di Davide, sulla quale rimbalza prima di andare ad accasciarsi in un angolo, immobile. Davide mugola, mugola tutto attorno a lui, Zlatan cerca di rafforzare la presa contro gli angoli del tavolo e si sente cedere le gambe mentre le labbra di Mario sulle sue gli tolgono il fiato e José irrompe dentro di lui con la violenza di un cataclisma, cingendolo per i fianchi e mugolando il suo nome sulla pelle della sua nuca, causandogli i brividi.
Quando viene, Davide non fa una piega. Si ritrae appena, ma non del tutto, resta lì incollato alla sua pelle come sapesse di zucchero, e lo accarezza piano mentre, diligentemente, lascia scorrere la lingua tutta attorno e sopra la punta, ingoiando in silenzio. Zlatan lascia andare un sospiro stremato fra le labbra di Mario e José regala a tutti un sorriso storto dei suoi, carico di una soddisfazione che non sarebbe altrettanto bravo ad esprimere con le parole.
- Vedete? – dice quindi, dopo aver recuperato abbastanza fiato per farlo, - È docile come un agnellino, se sapete prenderlo per il verso giusto.
Zlatan solleva lo sguardo mentre Davide si pulisce la bocca come un bimbo educato e si rimette in piedi.
- Fottiti. – commenta sgomento, - E fottetevi anche voi. – aggiunge, indicando i due ragazzini che, per tutta risposta, scrollano le spalle e si dedicano ad attività più interessanti – Mario raggiunge la moka ancora sul fornello e Davide si siede a tavola, cercando qualcosa che sia ancora commestibile in mezzo alla devastazione che regna sovrana.
- Ma non vai a lavarti i denti, Cristo santo?! – sbotta Zlatan, accasciandosi stremato sulla prima sedia disponibile e guardandolo con un’aria a metà fra lo sconfitto e il disgustato. Davide, che non ha ancora aperto bocca se non, naturalmente, per farsela scopare, lo guarda con sincera curiosità, prima di sorridere con l’espressione ebete di un mentecatto.
- Così la colazione ha un sapore migliore. – risponde deliziato, infilando in bocca un biscotto in chiara overdose da gocce di cioccolato.
La reazione a queste parole, stavolta, è comune.
- Dà? – lo chiama Mario, esprimendola per tutti, - Era meglio se stavi zitto.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Zlatan, José/Zlatan, Davide/Mario.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Un anno e tre relazioni importanti.
Note: Scritta per la Criticombola, su prompt 04. Fotografia.
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TRYIN’ TO HOLD THE WIND
4. Fotografia


Ancora con gli occhi chiusi, puoi sentire il rumore del mare a pochi passi dalla villetta. Dev’essere prestissimo, oltre al suono delle onde che s’infrangono sulla spiaggia c’è solo lo stridere dei gabbiani e niente più. Non una voce, non un pianto di bambino, non un urlo di qualche venditore ambulante pronto a offrirti cibo, bibite o qualsiasi altra cosa tu possa desiderare avere su una spiaggia, da un salvagente a un braccialetto intrecciato a un tatuaggio fatto con l’henné.
Mentre ti rigiri sul materasso, sentendo le lenzuola piacevolmente fresche contro la pelle caldissima, ti illudi per un secondo di trovarti su un’isola sperduta, lontana da qualsiasi centro urbano, a chilometri e chilometri dal primo agglomerato di case. È una delle tue fantasie ricorrenti, di quelle che potevi passare ore a raccontare a Davide quando dividevate la stanza in Primavera. Ti manca un po’, Davide, non lo senti da quanto? Qualche mese, almeno. Sì, lo saluti ancora quando vi beccate per caso, ma il punto è che non è mica tanto facile beccarsi, quando ci si muove in mondi completamente differenti.
Comunque c’è poco da fare, al mister Dade non convince, “è piccolo”, dice, “immaturo”, e tu non insisti perché è vero che sei un rompiballe ma non è vero che sei stupido, e sai che il posto in prima squadra ce l’hai non perché tu ti sia fatto il culo ad allenarti, ma perché il culo l’hai avuto a prescindere, e quando il Mancio ti ha visto si è innamorato del modo in cui porti palla – quelle volte in cui riesci a non perderla, naturalmente – perciò non ci tieni affatto a mettere a rischio la posizione in cui sei ora per insistere sulla possibilità di portare in squadra quello che alla fine, in fondo, è solo un pischello che probabilmente finirà al Mantova o al Frosinone l’anno prossimo.
Schiudi gli occhi e ti volti a guardare Zlatan, concedendoti anche un mezzo sorriso, dato che non può vederti. È tremendo quando ti becca a sorridere come un cretino perché sei semplicemente felice. Non che lui sia granché diverso, è un tipo che quando è felice davvero si lascia andare a certi sorrisoni da moccioso che ogni tanto ti chiedi come possa avere davvero quasi dieci anni più di te, ma per qualche strano motivo si sente sempre in diritto di prenderti per il culo ogni volta che ti becca a fare un sorriso un tantino più convinto degli altri. E siccome ti pare già abbastanza che ti prenda per il culo nel senso fisico del termine, non sei tanto propenso a lasciarglielo fare anche in senso morale; perciò, nel momento in cui lo vedi stiracchiarsi un po’ sul materasso, allungando braccia e gambe fino a sfiorare le tue e inspirando così profondamente da gonfiare il lenzuolo, inarcando la schiena e mugolando qualcosa di incomprensibile, smetti subito, e ti sollevi su un fianco, poggiando una guancia sul palmo della mano e piantando bene il gomito per reggerti dritto.
In realtà, stare con Zlatan non ti piace. A te piacciono le cose semplici e lineari, e questo perché ti senti già abbastanza incasinato senza doverti preoccupare di quanto possano complicarsi ulteriormente le cose quando, da incasinati, si affronta un mondo incasinato anche il doppio. Ti basta già il casino che c’è, insomma, non avresti mai pensato che saresti arrivato a perderti in questo modo ridicolo per uno come Zlatan, uno che non è geneticamente predisposto a semplificare la vita di nessuno, e che anzi si diverte a rendere infernale qualsiasi cosa tocchi – e tu lo sai bene, dato che bruci come il fuoco ogni volta che fa tanto di metterti anche solo un dito addosso.
Tu e Zlatan non avete una storia, avete una cosa che da un certo punto di vista si è gonfiata troppo – tanto che la vedono tutti, non è più possibile ignorarla – e da un altro punto di vista è totalmente insignificante. Perché tu lo sai che non è amore, sei ragionevolmente certo che Zlatan non ti ami e pure tu sei abbastanza convinto di non amarlo a tua volta. Però c’è, e il risultato è che adesso siete in vacanza insieme in un posto in cui sei già stato un paio d’anni fa e che conosci piuttosto bene, mentre a Zlatan è del tutto estraneo.
Ti turba un po’, e ti spaventa anche, che lui abbia accettato di farsi condurre fino a San Vito. “Due settimane”, ti ha detto con quel sorriso insopportabile, troppo sicuro e soddisfatto per essere anche piacevole, “tutte per noi”. La malizia sulle sue labbra era così evidente che neanche per un secondo hai potuto fingere che quella concessione fosse un regalo romantico. Era solo Zlatan che si comportava da Zlatan, lasciandoti scorrere gli occhi scuri addosso e disegnando in una carezza impalpabile la curva della tua schiena là dove si faceva più stretta, appena sopra le natiche.
Due settimane, questo è il vostro primo risveglio qui e tu stai già chiedendoti come farai a sopravvivere ad altri tredici risvegli simili.
- So di essere uno schianto, ma… - ti prende in giro Zlatan, ridendo divertito, e tu lo mandi a fanculo fra i denti, rigirandoti a pancia sotto e sistemando il cuscino, nel tentativo di tornartene a dormire. – Sei sveglio da molto? – ti chiede, la voce ancora impastata dal sonno. Tu scrolli le spalle con aria disinteressata.
- Un po’. – sbuffi, fingendo di scostarti quando lui allunga un braccio a circondarti la vita. Lo lasci fare, perché è una cosa che ti piace da impazzire. Tu sei molto fisico, nelle tue dimostrazioni di affetto, ma non pensavi lo fosse anche Zlatan. Visto da lontano, sembrava più il tipo da pensare “volete adorarmi? Liberissimi, ma non provate nemmeno ad allungare un dito su di me”, e invece è completamente diverso. È uno che, quando ha qualcosa da dimostrarti, nel bene e nel male, lo fa con una violenza tale da non poter essere contenuta in parole o in un’occhiata: deve toccarti. E tu ti lasci toccare.
- Com’è che fate colazione, da queste parti? – chiede con aria distratta, sistemandoti contro il suo petto neanche fossi un cuscino o un peluche e prendendo a fissare il soffitto mentre disegna qualcosa di incomprensibile sotto il tuo orecchio. Sembra l’iniziale del tuo nome – ancora non lo sai, ma fra poco più di un anno te la tatuerai addosso. Lui, però, non sarà più lì per vederla.
- Cornetti e cappuccino. – rispondi, e provi a voltarti. Finisci ugualmente schiacciato contro il suo petto, ma al contrario, così da poterne sentire sapore e calore sulle labbra. Socchiudi un po’ gli occhi perché a volte Zlatan è un po’ troppo. Lui nemmeno se ne rende conto, naturalmente, è una questione che non lo tocca. Dipende da chi sta toccando lui, se è in grado di reggere o meno la quantità spaventosa di cose che Zlatan è in grado di marchiarti a fuoco sulla pelle solo sfiorandoti. Hai sempre creduto di essere forte – il più forte di tutti – ma con Zlatan a volte non ce la fai proprio.
- Cornetto? – chiede Zlatan, e quando tu sollevi lo sguardo vedi formarsi nei suoi occhi l’immagine più che precisa di un cono gelato della Algida. Sospiri e scuoti il capo, esasperato.
- Brioche. Come vuoi chiamarla la chiami. Croissant?
- Ah! – realizza lui, improvvisamente illuminato dalla luce divina, - Ma non sapete parlare, qui in Sicilia. Uno si confonde. Va be’, dai. – conclude, lasciandoti andare con la stessa naturalezza con cui in genere ti tira uno scappellotto improvviso durante gli allenamenti, - Vai a recuperare i croissant e il cappuccino, così ci svegliamo e facciamo qualcosa di utile. – ti osserva metterti in piedi e grattarti stancamente la testa, cercando in giro i tuoi vestiti ed incontrando più difficoltà di quanto avresti pensato nel ritrovarli. – Ho un paio di idee carine.
- Le tue idee le conosco. – borbotti tu, e fingi di non essere così schifosamente lusingato come invece sei, mentre ti rassegni ad aprire un borsone a caso e tiri fuori i suoi pantaloni della divisa, con un otto tanto grande ricamato vicino all’orlo inferiore da essere appena meno evidente di un semaforo in mezzo a un incrocio. È un po’ uno dei problemi più enormi che hai con Zlatan, affiancato a una serie in realtà abbastanza infinita di problemi giganteschi: ogni parola, ogni occhiata, ogni pensiero sono preziosi come il cristallo. Ti senti piccolo piccolo quando hai a che fare con lui, e ciò rende ogni suo gesto nei tuoi confronti incredibile e bellissimo. È una cosa così ridicola, cazzo. Hai voglia di prenderti a schiaffi ma non lo fai, infili una maglietta a caso ed esci a piedi nudi, direttamente sulla sabbia. Zlatan ti ride dietro.
- Ti farai male. – dice, mettendosi a sedere sul letto. Il lenzuolo gli scivola addosso e gli si arriccia in grembo con una lentezza esasperante, tu lo guardi e deglutisci un blocco di voglia che ti obbliga a stringere i pugni lungo i fianchi come aggrappandoti all’aria, per impedirti di tornare dentro, chiudere la porta con un calcio e saltargli addosso.
Invece ti forzi a sorridere, inclinando appena il capo e sporgendo il mento in una posa spavalda che per la prima volta in due giorni ti aiuta a ricordare chi sei e come ti piace affrontare il mondo.
- Non conosci questo posto. – dici supponente, - Queste strade potrebbero fare male a te, ma non a me.
Zlatan ti guarda con un sorriso storto colmo di reale compiacimento, e tu la porta la chiudi lo stesso, ma te la chiudi alle spalle senza tornare indietro, soddisfatto della vittoria che Zlatan ti ha consentito di prenderti, perché se è vero che con lui ti tocca accontentarti della briciole, allora pretendi almeno la briciola più grande di tutte.
La sabbia ti si attacca alla pelle come un’armatura, cammini lungo il marciapiedi ancora fresco di notte e in giro non c’è nessuno. Ti senti addosso l’odore di Zlatan e ti diverte che sia un odore solo tuo, perché nessun altro in questo posto potrebbe riconoscerlo.
Ti fermano per strada, è un bambino che non avrà più di tredici, quattordici anni.
- Sei il mio mito! – ti dice, - Sei troppo figo! – e suo padre, accanto a lui, sorride un po’ nervosamente. Non riesci a capire bene perché, forse non ti apprezza come giocatore, o magari tifa Milan. Sorridi, vorresti dirgli “si rilassi, sa?, tifo Milan anch’io”, ma lasci perdere, e quando il ragazzino ti chiede una foto fai come sempre, ti metti in posa al suo fianco e aspetti il click della macchina fotografica. Non rifiuti mai una foto a nessuno. In realtà un po’ ti pare di non averne il diritto, insomma, è come quando non esulti dopo un gol: perché lasciarti andare ad espressioni di gioia più o meno organizzate, se stai solo facendo il tuo lavoro? E anche le foto rientrano un po’ nel contratto, forse non in quello reale, ok, ma in quello morale che hai stipulato con la parte di tifoseria che ti apprezza, quello sì, quindi perché dovresti tirarti indietro?
Il ragazzino non ti fa perdere molto tempo, ti molla subito dopo un “continua così!” talmente sentito che tu non puoi proprio evitare di sorridergli e colpire con un pugnetto cameratesco il suo pugno sollevato a mezz’aria in segno di vittoria. Tu gli sei grato per la sua velocità, anche perché vorresti evitare di essere visto dal mondo intero mentre te ne vai in giro a piedi nudi con addosso i calzoni di Zlatan Ibrahimović, per cui affretti i tempi, ti infili nel primo bar disponibile sul lungomare e quando ne esci inspiri il profumo dolce dei cornetti e del caffellatte che si mischia con quello più fresco e salato del mare, e sorridi soddisfatto.
Quando rientri in casa, Zlatan è sveglio ed ha appena finito di risistemare il letto. Batti più volte i piedi sul pavimento, all’ingresso, per evitare di spargere sabbia ovunque, e lui ti guarda con un sorriso sereno, divorando con gli occhi qualcosa che non riesci a capire se sei tu stesso o ciò che tieni in mano.
- Ho portato la colazione. – annunci per ogni evenienza, e mentre entri in cucina aggiungi: - Ho incontrato un tifoso, per strada. Mi ha chiesto una foto.
- E tu l’hai fatta? – ti chiede Zlatan, ridendo divertito. Tu scrolli le spalle, sistemando tutto sul tavolo. – Con quei pantaloni addosso? – insiste, e tu, per un secondo, fissi il vuoto con aria persa, prima di realizzare.
- Ops. – biascichi infine, guardando imbarazzato altrove.
Zlatan ride, avvicinandosi ed accarezzandoti la nuca con la punta del naso.
- Penitenza. – soffia sulla tua pelle. A te dispiace solo che il caffellatte lo berrai freddo, dopotutto.
*
Il caffellatte arriva già freddo, ma tu non hai proprio cuore di voltarti e dire a Davide “che cazzo, sei andato a prenderlo direttamente a casa tua?” come in realtà vorresti, perché anche se senti il profondo e intimo desiderio di prendere le cose a testate o, al limite, scardinare la porta e devastare l’intero centro sportivo a colpi di traversa, sai di non potertela prendere con lui.
Davide è un ragazzino – e non dovresti pensarlo, perché non è che tu sia così tanto più grande di lui – Davide è gentile con te – e tu nemmeno te lo meriti, visto come lo snobbavi prima che il nuovo mister lo prendesse in prima squadra – e soprattutto Davide non ha colpa del fatto che mister Mourinho, assieme a tutte le indubbie innovazioni e migliorie che ha portato all’Inter arrivando quest’estate, si sia anche preso qualcosa che tu credevi ti appartenesse ma, realizzi solo ora, col caffellatte freddo fra le mani, forse non sei mai neanche riuscito a stringere davvero.
- Mi sa che è un po’ freddo… - tentenna Davide, osservandoti restare lì immobile a fissare il vuoto, perso nei tuoi pensieri. Tu scrolli le spalle, ma piano, perché di quel caffellatte non vuoi versare neanche una goccia. Sei stanco perché stanotte non hai dormito, sei stanco perché litigare con Zlatan ieri ti ha stremato, sei stanco perché Zlatan non ha affatto capito perché sei così arrabbiato con lui e ora passeggia per il campo accanto a Mourinho, ridendo e scherzando e prendendo in giro chissà chi – magari te, te lo meriteresti, ma se è così non vuoi davvero saperlo.
È una routine cui dovresti già essere abituato, questa, dato che si ripete da parecchi mesi. Non è che tu e Zlatan abbiate smesso di parlare o che, solo che non è più come prima e tu lo senti ogni volta che ti rivolge la parola e ti guarda, e soprattutto quando ti tocca. Che non capita più spesso, e a te per la verità spesso manca, ti mancano le sue mani chiare e grandi che ridisegnano la linea netta dei tuoi fianchi, ti mancano tanto che a volte nel letto da solo chiudi gli occhi strizzando le palpebre e provi a replicare quegli stessi gesti, ma non ti viene mai bene. È allora che scivoli fuori dalle lenzuola in cerca di altre mani che possano accarezzarti, ma non hanno la stessa impronta delle mani di Zlatan, e quindi non è la stessa cosa.
Tu e Zlatan non siete mai stati in buoni rapporti. Lo realizzi adesso che lui e il mister ti passano accanto diretti chissà dove, e Zlatan non ti guarda non perché si rifiuti di farlo, ma perché a passarti gli occhi addosso neanche ci pensa. La sua attenzione è catalizzata altrove, il mister lo attrae come una dannata calamita. E tu non sei abbastanza magnetico. Non per lui, almeno.
Tu e Zlatan siete simili, e per questo litigate spesso. Solo che tu sei innamorato e lui no, ed è questo che ti fa pensare che quando arriverà il momento del vostro addio – e, se il mister continua a tenerti fuori rosa, è un addio che avrà luogo molto prima del previsto – quando quel momento arriverà, ecco, non sarà bello. Sarà una spaccatura netta e irrecuperabile, una di quelle cose che ti cambiano l’esistenza al punto da non poter più tornare a com’era tutto prima.
Cerchi di ricordarlo. Com’era prima? Non lo sai più.
Davide ti si avvicina e ti sfiora con aria apparentemente casuale. Sorridi perché sai che non lo è mai.
- Ehi… - ti chiama piano, la voce ancora venata da una certa nota infantile che ti fa una tenerezza infinita, - Sono due minuti, se ce la facciamo di corsa.
- Mh…? – chiedi, un po’ divertito, perché non riesci a capire a cosa si riferisca.
- I dormitori. – precisa lui con una risatina furba, - Ho fatto il conto. Sono due minuti, se ci sbrighiamo. E il mister non ci sta tenendo d’occhio, adesso.
- Potrebbe tornare e non trovarci. – provi, ma stai ridendo e gli stai sfiorando un fianco impedendoti forzatamente di non scivolare sotto la maglia azzurra che indossa, quindi non sei per niente credibile.
- Non ti sono mai importate queste cose. – obietta giustamente lui, ed ha ragione.
- A te sì, però. – gli fai notare tu, e gli dai un colpetto fronte contro fronte. Lui socchiude gli occhi e ride come un bambino, a te batte il cuore ad un ritmo lievemente diverso.
- Tu mi interessi di più. – e questo chiude il discorso.
Davide è dannatamente bravo in matematica, e due minuti dopo siete già a letto, in effetti, affondati in mezzo alle lenzuola tirate via alla rinfusa. Non profumano di niente in particolare, quindi l’odore dolce di Davide sovrasta tutto, impregna il suo respiro, gli abiti che vai sfilandogli di dosso, veloce, perché vuoi assaggiargli la pelle. Non è Zlatan per niente, non ha lo stesso modo di tirarti contro di sé, non ha lo stesso modo di baciarti. La sua fame è del tutto diversa, le sue labbra e i suoi denti si chiudono attorno alla tua pelle lo stesso, ma non è la stessa cosa. Tu chiudi gli occhi e butti fuori Zlatan a calci.
Davide ha un sapore buonissimo. Ti stringe e ti aiuta a nascondere il viso nell’incavo del suo collo, e ridacchia un po’ quando le tue ciglia lo solleticano leggermente. Ti muovi svelto contro di lui, chiamandolo in un soffio mentre lui geme a due millimetri dalla tua tempia.
Davide non è stupido e non è cieco. Sa più di quello che ti dice. Capisce più di quanto tu non creda, forse. Il senso di colpa è un macigno opprimente col quale stai imparando a convivere, non sai per quanto dovrai tenertelo dentro, lì, nel mezzo del petto, a schiacciarti il cuore e i polmoni, ma sai che per liberartene dovresti lasciare Davide – lui e le sue labbra e i suoi caffellatte ghiacciati al mattino – e quindi te lo tieni. Sopporti la cassa toracica che duole e scricchiola come ti stessero prendendo a cazzotti sullo sterno, e stringi forte la presa attorno ai suoi fianchi. Non pensi al singhiozzo che lasci andare.
- Va tutto bene. – sussurra piano Davide, - È tutto a posto. – dice, accarezzandoti la nuca, - Ti ho sempre voluto bene. Sempre, sempre.
Vorresti dirgli “io no”. Vorresti dirgli “non ne ho idea neanche adesso”. Il macigno diventa più grosso e più pesante e poi si dissolve quando Davide ti bacia. Sai che sarà solo per qualche minuto – mentre vi respirate addosso e il mondo non esiste e tutto e bello perché tutto è Davide – ma cerchi di trattenere quella sensazione fra le ciglia più che puoi, prima di schiudere gli occhi e lasciarla andare. Questa è una delle tante cose che ti ha insegnato Zlatan, lui, che non aveva mai avuto la pretesa di insegnarti niente e che alla fine, invece, ti ha costretto ad imparare più di tutte le altre persone che hai conosciuto nella tua intera esistenza: gli attimi sono bellissimi, sono le lunghe distanze che rovinano tutto. Negli attimi risiede il vero senso della vita e l’attimo è l’unico momento in cui si può essere davvero felici.
Il tuo attimo è Davide steso sul letto, sudato e affaticato sotto di te. E tu che lo guardi come fosse un miracolo che si dipinge sotto i tuoi occhi.
Dura poco, anche perché Davide scatta subito in piedi, appena riesce a recuperare un ritmo meno indecente per il proprio respiro. Lo osservi guardarsi intorno con aria incerta e poi recuperare i tuoi pantaloni in un angolo, infilandoli sbrigativamente.
- Ma dove stai andando? – gli chiedi ridendo e tirandogli addosso un cuscino. Lui lo evita e ti fa una linguaccia.
- Il distributore automatico è più vicino, qui.
Ridi ancora e scuoti il capo.
- Potrebbe vederti qualcuno con quelli addosso. – azzardi, ma lui scrolla disinvoltamente le spalle, infilando le scarpe e battendo un paio di volte le punte sul pavimento, per sistemarle.
- Dirò che li ho presi a casaccio dalla cesta della roba pulita. – risponde. Tu ridi per l’ennesima volta, ed è tanto piacevole che ti senti scoppiare il cuore.
- Noi non abbiamo una cesta della roba pulita. – gli fai notare, ma lui si disinteressa del tutto e si muove svelto verso la porta, ben deciso a portarti un caffellatte che sia almeno tiepido. – Aspetta, aspetta. – lo fermi, chinandoti sul comodino e recuperando la macchina fotografica dal primo cassetto. Attendi che si accenda, lo inquadri e metti a fuoco. Lui fa una faccia buffa e tira su due dita in segno di vittoria, mettendosi in posa. Non protesta, quando gli scatti una foto, ed esce solo quando osserva la soddisfazione spiegare la ruga fra le tue sopracciglia, mentre rimiri il risultato finale sul display. Ti trova ancora lì che la fissi, cinque minuti dopo, e ride nervosamente.
- Mi sa che il mister ha chiesto di noi, mi hanno detto che Rui ci sta cercando ovunque.
Tu sbuffi e aspetti che posi il caffellatte sul comodino accanto a te; poi te lo tiri contro e lo soffochi di solletico e baci dati ovunque a casaccio.
- Altri cinque minuti. – chiedi, e Davide non rifiuta.
*
Visto che era nell’aria già da parecchio – e visto che, dopotutto, quest’anno in Sicilia c’hai portato Davide – pensavi ti avrebbe fatto meno effetto quando questo momento sarebbe arrivato. Ora invece guardi Zlatan e Mourinho dall’altro lato del campo, li osservi scambiarsi quello che ha tutta l’aria di essere l’ultimo saluto prima della partenza, e se da un lato riesci perfino a pensare che ti piacerebbe scattar loro una foto proprio adesso, perché in qualche modo contorto che non riesci a spiegarti sono belli e li trovi tali perfino tu che dovresti odiarli, dall’altro lato tutto quello che riesci a sentire è un dolore sordo all’altezza del petto, dove fino all’anno scorso c’era il macigno. Adesso quel macigno non c’è più, il tempo e Davide sono stati bravi a corroderlo come il mare corrode i fianchi delle montagne di una terra che vorresti poter chiamare casa, e al suo posto è comparsa questa specie di ferita invisibile che pulsa sempre quando guardi Zlatan o quando, come adesso, realizzi che sarà probabilmente l’ultima volta che lo vedi da amico.
Il pensiero ti fa un po’ ridere, in fondo, anche perché tu e lui in realtà non siete mai stati davvero amici. Siete passati da sconosciuti ad amanti quando la chimica fra i vostri corpi è esplosa con la stessa violenza di una detonazione nucleare, e poi siete tornati per lo più sconosciuti quando hai capito che le esplosioni di Zlatan durano anche meno dei periodi che riesce a trascorrere fisso in una stessa terra. Zlatan è nomade, tutto in lui tende a cambiare, il suo sangue, le sue passioni, le sfumature dei suoi sorrisi.
Davide si lagna del ginocchio destro, che gli duole un po’. Osserva le bende che lo coprono – ne segui le linee dai colori sgargianti – e sospira profondamente.
- Me la prendi una bottiglietta d’acqua? – chiede in un pigolio triste. Tu gli scompigli i capelli in una carezza ruvida e non annuisci neanche, prima di cominciare a muoverti verso il distributore automatico all’interno del campus.
Ti stai dando del cretino perché non hai con te abbastanza monete, quando Zlatan paga per te e ride piano a due centimetri dal tuo collo, costringendoti a voltarti di scatto e, spaventato e stupito, schiacciarti contro il macchinario, spalancando gli occhi.
- Calmati. – ti prende in giro, con quel suo accento ridicolo che hai paura possa perdersi del tutto quando comincerà a parlare spagnolo. L’hai ascoltato fare le prove, recentemente. Non gli riesce bene, finisce sempre a concludere le frasi in italiano e poi si passa una mano sugli occhi, sospirando frustrato. È sempre bellissimo quando fa queste cose, è sempre bellissimo quando lascia intravedere al mondo quanto umano possa essere oltre gli scazzi e i mal di pancia e l’indiscussa, poetica bellezza di quando si muove come se il pallone fosse un’appendice semimobile del suo corpo. – Non ti faccio niente.
Cerchi di tranquillizzarti. Ti allontani dal distributore automatico, ti gratti la nuca. Guardi altrove, principalmente, e Zlatan ride piano, in uno sbuffo quasi tenero.
Le sue labbra sulle tue hanno lo stesso sapore che avevano l’anno scorso. Mentre chiudi gli occhi e lasci che la sua lingua accarezzi la tua, tirandogli la maglietta quasi con rabbia per schiacciartelo contro il più possibile, ti rendi conto di due cose. La prima, che sei felice che il sapore di Mourinho non sia riuscito a corromperlo. La seconda, che su di lui, di te, non è rimasta la minima traccia.
Zlatan sta andando via. Zlatan non è mai appartenuto a nessuno. Tu hai stretto il vento fra le braccia per nove mesi della tua vita, ed è stata la cosa più bella del mondo.
- Mi sarebbe piaciuto che fra noi due andasse diversamente. – ti dice lui, sfiorandoti il naso con la punta del suo.
Tu sorridi, tirandogli un pugno contro la spalla.
- A me no. – rispondi allontanandoti e chinandoti a recuperare la bottiglietta d’acqua dal cassettino in basso, - Non riesco a immaginare una cosa migliore di com’è andata.
Zlatan ride, ti dà un buffetto sulla fronte.
- Prima o poi lo scoprirai. – ti assicura, annuendo convinto. Tu scrolli le spalle – al momento non t’importa. Lo superi sfiorandolo appena, giusto per trattenere addosso il suo calore qualche istante di più, e poi corri fuori. Davide si sarà stufato di aspettare ancora la sua acqua.
Genere: Commedia.
Pairing: Nessuno (ma se proprio vi intestardite, i soliti XD).
Rating: G
AVVERTIMENTI: Nessuno.
- Con Mario bloccato in Pinetina dalla febbre e Davide bloccato al suo fianco in preda alla sindrome della crocerossina, a José tocca prendersi cura per una sera del cagnetto dei ragazzi, Lucky. Sarà tutto molto meno semplice di quanto il portoghese non immagini.
Note: Mi pare che l’idea di questa fic fosse del mio adorabile quasi-marito Def, in contemporanea con Busted XD Si dava per scontato che, durante la drammatica notte di febbre di Mario, trascorsa ad Appiano, Davide fosse rimasto diligentemente al suo fianco da brava fidanzata. La domanda ovvia di Busted, a quel punto, fu “E chi ha portato a spasso il cane (di Mario), allora?”. E Def, subito, “José!” XD Motivo per cui io mi sono innamorata di tutto ciò e ho deciso che prima o poi ci avrei scritto sopra XD
Il NEU[t]ROFest mi ha dato l’occasione adatta, anche se ammetto di aver fatto una fatica boia a non infilare slash ovunque XD Ma sono tutto sommato soddisfatta del risultato, soprattutto perché è idiota, e io sono sempre felice di scrivere vaccate :D
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DOGSITTER


- Ecco, queste sono le chiavi del portone di sotto. – elencò preciso Davide, mostrandogli un mazzo colmo di chiavi fino a pesare più di quanto non pesasse lui stesso, - Queste sono quelle del garage, e la metta dentro la macchina, mister, che altrimenti sono guai, mi raccomando. Queste, invece, sono le chiavi dell’appartamento, e-
- Dade… - si lagnò Mario dalla stanza, tirando rumorosamente su col naso, - Dade, sto morendo.
- Arrivo! – rispose Davide, quasi saltellando sul posto per l’impazienza e la fretta, ma senza rassegnarsi a lasciare andare liberamente il proprio interlocutore. – Mi ascolti bene, mister, è importante. – disse serio, e José annuì, cercando di sbirciare all’interno della camera che dal corridoio, oltre la porta socchiusa, s’intravedeva appena, per sincerarsi delle effettive condizioni di Mario. – E non si distragga! – lo riprese Davide, costringendolo a riportare tutta la sua attenzione su di sé. – Questo è l’elenco delle cose da fare. – lo informò, tirando fuori dalla tasca posteriore dei jeans un fogliettino di carta perfettamente ripiegato in quattro, - Prima di ogni cosa, deve portare Lucky a passeggio. – scandì compitamente, - Poi, quando lo riporta su, gli fa il bagnetto. E no, non mi guardi così, non può aspettare. Se avesse potuto aspettare, non le avrei chiesto niente del genere, le pare? Oh. Poi stende un asciugamano davanti alla sua cuccetta, e lui passerà un paio d’ore ad asciugarsi alla bell’e meglio. Nel mentre, lei gli prepara la cena-- è tutto scritto qui. – annuì convinto, mostrandogli il foglio e puntando il dito contro ogni voce dell’elenco, per ripassare simbolicamente ogni cosa. – È tutto chiaro?
José, per la verità vagamente offeso, inarcò un sopracciglio.
- Dade… - chiamò ancora Mario, la voce sempre più flebile e piagnucolosa, - Vieni qui, voglio dirti addio. E lasciarti tutte le mie cose. Tranne le chiavi della macchina, quelle le ho promesse a Marko- e comunque tu guidi malissimo. – borbottò, prima di perdersi in un gorgoglio confuso di piagnucolii e colpi di tosse.
- Arrivo, Mario, arrivo! – lo rassicurò il più giovane, torcendosi le dita. – Allora, mister, è tutto chiaro? – insistette preoccupato. José lo sferzò con una delle sue migliori occhiatacce disapprovanti.
- Davide. – disse, a corto di pazienza, - Ho vinto una Champions League con una squadra che l’ultima coppa di quel tipo l’aveva vista quando quel trofeo si chiamava ancora Coppa dei Campioni. Sono stato eletto due volte allenatore dell’anno dall’IFFHS. Ho due lauree. Ho cresciuto due figli. E ultimo ma non ultimo sono riuscito ad inculcare un po’ di buonsenso nel tuo amichetto morente di là.
- Dade… - pigolò ancora Mario, come sentendosi chiamato in causa, - Dade, addio, ti ho voluto molto bene.
José roteò gli occhi, ignorandolo.
- Ti pare – concluse quindi, - che possa avere una qualche difficoltà di un qualsiasi tipo a dover badare ad un cane per una notte?
Un po’ in imbarazzo, Davide abbassò lo sguardo, dondolandosi sui talloni e sulle punte dei piedi.
- Be’, era solo per assicurarmi che fosse tutto chiaro. – biascicò, - Mario tiene molto a Lucky, e non vorrei che ci fossero problemi. Oltretutto, non è un cane molto facile, da gestire, ed è ancora piccolo, per cui-
- È un cane! – precisò ulteriormente José, allargando le braccia ai lati del corpo, - Ora, per carità, - sospirò teatralmente, - fa’ il bravo, torna di là da Mario che ha indubbiamente molto più bisogno del tuo aiuto di quanto ne abbia bisogno io, e fate in modo di non farmi pentire di avervi lasciato qui insieme. – conclude, gesticolando ampiamente come a voler abbracciare l’intero centro sportivo, - Il dottor Combi sarà nella stanza accanto, per ogni evenienza, ma voi cercate di non far preoccupare né lui né me. D’accordo?
Davide sbuffò, sollevando il mento, offeso.
- Ho vinto uno scudetto con l’Inter nell’anno del mio debutto in prima squadra, - elencò fiero, - ho marcato il Pallone d’Oro Cristiano Ronaldo e lui mi ha fatto i complimenti, sono sopravvissuto ad un fratello minore e, ultimo ma non ultimo, sono stato il migliore amico di Mario per gli ultimi tre anni della nostra esistenza. Le pare – sorrise furbo, - che possa avere una qualche difficoltà di un qualsiasi tipo a dover badare a lui per una notte?
- Ha, ha, ha, molto divertente. – commentò José, battendo sarcastico le mani, - Questa te l’ha insegnata lo zingaro, di sicuro. È il classico tipo di persona che non va via fino a quando non ha infestato il luogo in cui abitava in ogni modo possibile. – Davide ridacchiò compiaciuto, mentre José agitava una mano come a scacciar via l’ilarità e, da sotto le coltri che lo coprivano, Mario riprendeva ad invocare per un po’ di supporto morale nell’ora della sua dipartita. – Coraggio, corri dal tuo Mario. – sospirò José, - Non vorrai davvero che muoia tutto da solo. – concluse con un sorriso, e Davide, sorridendo a propria volta più sinceramente, scosse il capo, rifugiandosi in camera e chiudendosi la porta alle spalle. José rimase solo nel mezzo di quel corridoio – il mazzo di chiavi in una mano e il foglietto spiegazzato nell’altra – solo per una manciata di secondi, prima di decidersi ad imboccare finalmente la via dell’uscita, per raggiungere l’appartamento dei ragazzi.
*
La prima cosa che lo colpì – invero piuttosto violentemente, come una specie di impalpabile ceffone o qualcosa di simile – fu la puzza. Tragica, insopportabile, devastante puzza proveniente da più o meno ovunque.
- Dio-mio! – esclamò entrando in casa e richiudendosi immediatamente la porta alle spalle, sinceramente spaventato dalla possibilità che quel terribile olezzo potesse uscire e spandersi per tutto lo stabile, - Ma che diavolo è successo qui?! – chiese al vuoto, accendendo tutte le luci al proprio passaggio, - Ossignore, se il cane è morto all’improvviso, poi chi le sente le lagne. – si lamentò, passandosi una mano sulla fronte e approfittandone per massaggiarsi le palpebre stanche. Nel momento meno opportuno di tutti.
- Che-- Che cazzo! – sbraitò, sollevando il piede e saltellando sull’altro, cercando di non sporcare ovunque dopo aver pestato quella che, per quantità, doveva essere il risultato della permanenza in quell’appartamento di un puledro, altro che di un cucciolo di labrador.
Il suddetto cucciolo di labrador, per inciso, in quel momento si trovava a qualche metro da lui, accucciato sulla soglia del corridoio, e lo scrutava con aria curiosa, il capino lievemente inclinato di lato e le lunghe orecchie nere a penzolare nel vuoto, la coda immobile stesa sul pavimento.
- Lucky? – lo chiamò José, - Ma sì, certo che sei Lucky. – si rispose da solo, sospirando e appoggiandosi al muro, tirando fuori un fazzolettino di carta dalla tasca per pulire il disastro sotto la scarpa, tenendo sempre un occhio al cane in attenta osservazione della sua persona, - Be’, vedo che qui hai già risolto ogni problema di natura fisica che potesse presentartisi. – sbuffò, - Non ci sarà bisogno di uscire a fare alcuna passeggiata. – considerò saggiamente.
Il labrador, per tutta risposta, si sollevò sulle quattro zampe e, guardandolo con un’aria che, non fosse stata del tutto ebete, sarebbe sembrata di sfida, sollevò una zampa e si preparò a fare pipì contro lo stipite della porta.
- No! – strillò José, terrorizzato, mettendo le mani avanti e obbligando fisicamente Lucky ad abbassare la zampa, - No! Scherzavo! Usciamo, promesso!
Il cane abbaiò soddisfatto, sparendo in corridoio per un attimo e tornando col guinzaglio fra i denti, la coda che sventolava allegramente dietro di sé dando ad ogni suo movimento una certa oscillazione del tutto ridicola.
- Tu sei troppo furbo, per i miei gusti. – borbottò, preparandolo per la passeggiata, - Lo zingaro deve avere insegnato qualcosa di poco onesto anche a te.
Lucky inclinò ancora il capo, dando chiaro segno di non aver capito un accidente di quanto José aveva appena affermato.
- Ah, lascia perdere. – sbottò l’uomo, rimettendosi dritto. Appena in piedi per venire trascinato fuori dall’appartamento e lungo le scale, fino all’esterno del palazzo, naturalmente.
*
- Io non ti porterò più da nessuna parte! – sbraitò José mentre, tirando giù una serie di santi fra cristiani e pagani, cercava di liberarsi dal guinzaglio attorcigliato intorno alle gambe, - Sei un demonio, ecco cosa sei! E questa casa è un porcile! – concluse, sbattendo la porta e guardandosi intorno con aria persa. – Santa pazienza. – mugolò disperatamente, infilando una mano in tasca a recuperare il cellulare che squillava già da una quindicina di minuti buoni escluse le pause fra un tentativo e l’altro, ed al quale Lucky gli aveva fisicamente impedito di rispondere tentando di gambizzarlo girandogli intorno come una trottola alla ricerca della traccia olfattiva degli escrementi di un qualche altro pony sotto sembianze di cane a lui simile. – Pronto? – sospirò esausto, appoggiandosi contro una parete e lì restando mentre Lucky tornava ad odorare le prove del proprio stesso crimine all’ingresso e decideva di irrorarle con un’altra buona dose di pipì, giusto perché si mantenessero fresche. – Chi è che tiene occupato il mio cellulare impedendomi di chiamare la nettezza urbana per avvertirli che c’è una discarica ambulante che abita in questo appartamento?
- …ok. – rispose tranquillamente la voce di Zlatan, dall’altro capo della cornetta, - Chiamo subito Davide e gli dico che non sei in grado, così manda un dogsitter e tu puoi tornartene a casa. Ciao! – concluse con voce squillante, mentre José prendeva a gridacchiare una serie di concitatissimi “aspetta” per impedirgli di interrompere la conversazione.
- Me la sto cavando benissimo! – protestò con uno sbuffo offeso, - Non hai nessuno da avvertire e a me e Lucky non serve nessun dogsitter.
- Sbaglio, o poco fa stavi pensando di mollarlo alla nettezza urbana? – gli fece presente Zlatan, apparentemente parecchio divertito dal tutto, almeno a giudicare dal suo tono allegro e gioviale.
- Facevo ironia! – rispose José, gesticolando animatamente mentre Lucky spingeva la ciotola col muso sul pavimento, facendo lo slalom fra le schifezze che lo imbrattavano, per chiedergli un po’ di cibo, - E tu non hai niente di meglio da fare che non spendere i milioni in chiamate internazionali coi miei giocatori, oltre che con me?!
- Per la verità no, mi annoiavo. – rispose Zlatan con estrema naturalezza, - E poi ero un po’ in pensiero per te, a dirla tutta. Ci ho passato un po’ di tempo, con quel cane, quando era piccolo così, e so cosa significa averlo intorno.
- Ah be’, questo spiega tutto! – si lamentò José, esasperato, recuperando disinfettante e rotolone dalla cucina per pulire il pavimento dell’ingresso, docilmente seguito da Lucky ancora in attesa del suo giusto pasto serale, - In particolare spiega perché questa bestia sia l’incarnazione stessa di Satana! La malvagità non poteva che provenire dalla sua fonte primigenia in terra, ovverosia te!
- Ora calmati! – rise di gusto Zlatan, - Prometto che non avvertirò Davide del tuo tracollo emotivo, così almeno non perdi la faccia. Comunque, se vuoi un consiglio: - e non diede tempo a José di rifilargli il no che per svariati motivi avrebbe meritato, - grattini dietro le orecchie e tante tante lusinghe, e conquisterai il suo cuore.
José non ebbe nemmeno il tempo di dirgli che gli assomigliava anche in questo, prima che Zlatan si decidesse ad interrompere la chiamata, lasciandolo solo a pulire per terra.
*
- Capiamoci, cane. – disse con un certo disgusto, le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e le mani saldamente piantate sui fianchi in una posa che, immaginava, Zlatan non avrebbe esitato a definire “da diva”, se non fosse stato a mille chilometri di distanza a sorbire un succo di frutta alla papaya o chissà che altro ridendo delle sue sventure. – Tu devi pulirti. Devi pulirti perché i tuoi padroni mi hanno detto che devi, e devi pulirti perché sei oggettivamente una fogna e puzzi più di un maiale immerso in una pozza di fango.
Lucky lo guardò, dando segno di non stare comprendendo quanto fosse serio, ma quando José gli si avvicinò, cercando di bloccarlo per ficcarlo di forza all’interno della vasca, dimostrò di essere bravo a mentire quanto il suo illustre insegnante svedese o pseudotale, dato che spiccò un salto all’indietro, vanificando tutti i suoi sforzi e costringendolo a finire ginocchioni per terra, umiliato e dolorante.
- Io sono troppo vecchio per queste cose. – si lagnò, mettendosi seduto sul pavimento e sospirando profondamente, - Lucky, sii buono. Vieni qui, dai. – biascicò, battendo la mano sul pavimento di fronte a sé, fra le gambe dischiuse, - Non ti faccio niente, coraggio. – cercò di rassicurarlo con un sorriso mite.
Lucky lo fissò per qualche secondo, platealmente dubbioso, e poi si avvicinò piano, un minuscolo passetto dopo l’altro, con circospezione, fino a sistemarsi fra le sue gambe e lì restare, incerto.
- Bravo cucciolo. – sorrise candidamente José, accarezzandogli dolcemente il capo, - Vedi che sai come comportarti anche tu? Bravo, bravo. – continuò ad accarezzarlo, grattandogli le orecchie, il collo e il dorso. – Bravissimo. – concluse. Dopodiché si chiuse attorno a lui come una tenaglia, e non lo lasciò più andare fino a quando, fra guaiti e uggiolii vari, non fu al sicuro immerso per metà nell’acqua che riempiva la vasca, impossibilitato ad uscire e finendo per immergersi ogni due secondi a causa del fondo scivoloso sotto le zampe sottili. – Bravissimo davvero! – ripeté con estrema soddisfazione, - E scemo, anche. Esattamente come il tuo maestro!
*
- Oh, andiamo, non guardarmi così. – borbottò, sentendosi anche vagamente in colpa, mentre sistemava l’asciugamano per terra in salotto, di fronte al televisore, e vi depositava delicatamente sopra Lucky, avvolto in un accappatoio trovato in un cassetto e che non era sicuro di potere usare, ma d’altronde se Davide e Mario si aspettavano che lui si colasse tutto portando il cane dal bagno al salotto a mani nude, erano così fuori strada da realizzare un perfetto testacoda e rimettersi tranquillamente in carreggiata. – Coraggio, dovevi pur lavarti! Eri un insulto all’igiene pubblica!
Il cane grugnì un guaito incomprensibile, liberandosi dall’accappatoio e prendendo a strusciarsi contro ogni superficie asciutta, morbida e assorbente che riuscisse a incontrare sul proprio cammino, nel tentativo di asciugarsi.
- No! – rispose José, puntando il dito contro l’asciugamano, - Devi stare lì! – soggiunse severo, - O non ti faccio mangiare.
Lucky lo guardò a lungo, e José ebbe l’impressione che, se avesse potuto, gli avrebbe riso in faccia. Dopodiché sollevò nuovamente la maledetta zampa, e solo la tempestività di José e le sue rassicurazioni sulla cena in arrivo poterono salvare il tappeto persiano dei bambini di casa da un bagnetto improvvisato fuori stagione.
Il cellulare squillò nuovamente, e José rifletté a lungo sulla possibilità di lasciarlo squillare in eterno, prima di rassegnarsi a rispondere e mettere il riso soffiato del cane a cuocere in un pentolino.
- A coronamento della serata, la buonanotte dello zingaro spagnolo. – commentò acido, mentre Zlatan rideva dall’altro capo del telefono.
- Volevo solo sapere come te la stavi cavando. – ribatté l’altro, - Se eri ancora vivo, se potevo chiamare la polizia. O il dogsitter.
- Lucky sta benissimo, e anch’io! – protestò José, - Sono perfettamente in grado di gestire altri esseri viventi oltre a me stesso e non mi serve l’aiuto di nessuno, grazie mille.
- E neanche un po’ di compagnia? – insistette Zlatan, il tono vagamente nostalgico, - Quel cane non è che sia di grande stimolo, in quel senso.
José si voltò a guardarlo – Lucky rincorreva la propria stessa coda trottolando per il salotto come una scheggia impazzita. Sospirò.
- Grazie per aver chiamato. – sorrise sinceramente, - Com’è il tempo lì?
*
- Sei un disastro, io sopravvivo a malapena all’influenza del secolo e tu rischi di mandare a puttane la mia brillante carriera nonché la mia preziosa vita andando quasi a schiantarti contro un albero a ottanta all’ora?! – si lagnò Mario, la voce terribilmente nasale, rientrando in casa l’indomani mattina.
- Non ho preso l’albero! – ritorse Davide, offeso, gettando di malagrazia le chiavi sulla consolle all’ingresso e sbattendosi la porta alle spalle, - Sei tu che sei agitato come un vecchio nonno isterico! Avevi la febbre, sai, mica la tubercolosi!
- Come ti permetti tu, moccioso! – ringhiò Mario, saltandogli addosso alle spalle e strofinando le nocche della mano chiusa a pugno contro la sua testa, - Porta rispetto per i più anziani!
- Ma quali anziani! – strillò Davide, liberandosi di lui con una poderosa scrollata di spalle, - Piuttosto, trova Lucky! Il mister di sicuro dopo avergli dato da mangiare se ne sarà tornato a casa sua, il cane dovrà ancora uscire! Anzi, mi meraviglio che non ci sia tutto l’appartamento seminato a cacche in attesa della bella stagione.
- Dade? – lo chiamò Mario, dopo essersi affacciato in salotto, - Il mister non è tornato a casa sua, stanotte. – constatò, indicando José sdraiato sul divano con Lucky steso addosso in un modo che non avrebbe trovato gradevole, nel momento in cui si fosse svegliato.
- Oh, mio Dio. – biascicò il più giovane, recuperando il cane e tenendolo stretto in braccio mentre cercava di svegliare il mister con piccoli calcetti sugli stinchi, - Mister! – lo chiamò, - Guardi che è tardissimo, fra mezz’ora c’è la conferenza stampa e poi deve partire per Livorno! Si tiri su, andiamo!
- No… - mormorò trasognato lui, rigirandosi a pancia sotto ed abbracciando un cuscino, - Tami, è presto, fammi dormire ancora…
- Ma che Tami e Tami! – strillò Davide, ottenendo in risposta solo una risatina di Mario, un guaito di Lucky e il ronfare ancora più profondo del proprio allenatore. – Senti, pensaci tu. – borbottò, mollando il cane sul pavimento e dirigendosi speditamente verso la propria camera, - Io oggi sono in vacanza e intendo disinteressarmi di qualsiasi cosa, per cui, visto che stanotte mi hai anche vomitato addosso, mister “che mi frega se stai al mio capezzale e ti fai frantumare le palle dalle mie lamentele per ore e ore, tanto io la riconoscenza non so nemmeno sotto che lettera cercarla sul vocabolario”, sbrigatela da solo. Arrivederci!
Mario incassò la testa fra le spalle, cercando a stento di trattenere l’ennesima risata mentre Davide si barricava in camera sua, e poi si voltò a guardare Lucky.
- E adesso che si fa, bello? – chiese, sedendosi in bilico sullo schienale del divano, - Ci mettiamo a ululare? Chiamiamo lo zingaro?
Lucky abbaiò con competenza, si arrampicò sul divano e si sistemò ordinatamente all’altezza del viso rilassato di José. E poi sollevò la zampa.
Seguito di Who's Returned From The Dead e Who's Living Upstairs.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Davide/Mario, accenni di palese UST fra Maxi e Vinny.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Angst, Fluff, Death, Slash.
- La vita di Zlatan non sembra destinata a concedergli tregua, soprattutto nel giorno in cui la sua povera casa è invasa da decine di invitati accorsi da ogni parte per festeggiare il matrimonio dell'anno. Fra uomini felici, ragazzi turbolenti e figli in crisi mistica, Zlatan riesce forse a raggiungere un punto d'intesa con José, non prima, però, che quest'ultimo si esibisca nello spettacolo che gli riesce meglio in assoluto.
Note: …sono perfettamente conscia di essere indecente X’D *ride felice* Questa saga continua ad essere del tutto schizofrenica, alternando momenti di drama emoangst a momenti di puro fluff a momenti di puro lol. Io non riesco a governarla, così come non riesco a governarne i personaggi (che, per dire, hanno cambiato trama a questa shot giusto quel paio di volte, mentre io cercavo di buttarla giù correndo contro il tempo sul filo del rasoio *ansima*), ma d’altronde è pur vero che la scrivo con una spensieratezza esaltante che sfocia a volte nel ridicolo. Ma tipo che mi gaso da sola e aweggio felice come una deficiente. No, sul serio. Compatitemi.
L’unico problema adesso è che mi serve un’altra challenge a tempo cui ispirare le prossime shot X’D
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WHO'S GOING TO GET MARRIED


Guardandosi intorno con aria circospetta, Zlatan individuò Helena tutta presa dalla propria attività di anima della festa e, assicurandosi di non essere alla portata del suo occhio indagatore, si defilò dietro una siepe, lasciandosi andare seduto per terra esattamente come faceva quando riusciva a scappare da un allenamento particolarmente duro quando era ancora un ragazzino, con l’unica differenza che allora, sedendosi, sfilava la maglietta e se la sistemava sulla testa per proteggersi dal sole e dal caldo, mentre in quel momento tutto ciò che poteva fare era cercare di allargare il nodo della cravatta perché non lo soffocasse, stroncandogli vita e carriera mentre era ancora nel fiore degli anni.
- Sarebbe troppo – chiese Davide, intromettendosi nella sua perfetta oasi di silenzio, - un sorriso, almeno nel giorno del mio matrimonio?
Zlatan lasciò andare uno sbuffo contrariato, per nulla stupito dalla sua apparizione.
- Io sorrido sempre. – borbottò, - Quando ho motivo di farlo. Oggi ho mal di pancia.
- Oh! – rise Davide, sedendosi al suo fianco anche a rischio di sporcare i pantaloni dello smoking, - Quindi volerai a Barcellona per la prossima stagione? Non so mica se ti vogliono, Puyol sta facendo bene.
- Bla bla bla. – sbottò Zlatan, agitando una mano come per zittirlo, - Non volerò da nessuna parte, è solo che sono convinto che questa storia sia una pagliacciata!
- Perché siamo due maschi? – indagò Davide, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Non fare lo stronzo con me, Dade. – ritorse subito Zlatan, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - È il matrimonio in sé che è ridicolo!
- Ah, sì. – annuì l’uomo, - È per questo che sei sposato anche tu.
- No, è per questo che Helena c’ha messo vent’anni prima di prendermi per sfinimento. – precisò con un sospiro teatrale. – Ma d’altronde è la vostra vita, io non posso davvero decidere per voi.
- Avanti… - cercò di rabbonirlo Davide, - È una bella giornata di festa. E Mario mi ha confessato che è felicissimo di averti come testimone di nozze. Non sai quanto ci teneva.
Zlatan sospirò ancora, scuotendo lentamente il capo.
- E tu a Mario hai confessato niente? – chiese a bruciapelo, tornando a guardarlo. Davide si morse un labbro, distogliendo lo sguardo.
- Non ho ancora avuto occasione di farlo. – rispose in un bisbiglio un po’ tremolante.
- Dade, se aspetti l’occasione, non arriverà mai. – lo rimproverò il più grande, sistemandogli brevemente la frangia sulla fronte, - Non esiste l’occasione più adatta per dire al tuo futuro marito che il suo ex allenatore è tornato dal mondo dei morti. È un’occasione che devi ritagliarti tu. E comunque va fatto. – sospirò ancora, rassegnato, - Prima o poi dovrà venire fuori. È meglio che chi ci è vicino lo sappia prima e nel modo meno turbolento possibile.
- E tu? – lo rimbeccò Davide, con un mezzo sorriso, - Tu l’hai detto a Helena?
Zlatan si passò una mano fra i capelli, nel vano tentativo di rimetterli a posto, finendo invece per scompigliarli più di quanto già non fossero.
- Helena è una cosa diversa… - cercò di spiegare, sospirando pesantemente, - Queste sono cose da spogliatoio, non è necessario che-
- Non lo sarebbe, se José non vivesse nella sua soffitta. – gli fece notare Davide, annuendo compitamente con aria innocente.
Zlatan lo sferzò con un’occhiata disapprovante, inarcando supponente le sopracciglia e tirandosi in piedi.
- Senti, ma tua moglie? – lo prese in giro, - Perché deduco sia questo, visto quanto si sta facendo aspettare.
- La moglie – disse Mario, apparendo alle loro spalle con un grugnito affatto compiaciuto, - stava giusto cercando suo marito, visto che sta gironzolando per questo giardino enorme da mezz’ora senza trovarlo, quando lui era palesemente nascosto dietro un cespuglio a fare chissà cosa con un gitano pervertito.
- Ah, Dio, grazie! – sbottò Zlatan senza scomporsi più di tanto, afferrando Davide per le spalle e rimettendolo in piedi, spolverandogli i pantaloni e lisciandogli i vestiti prima di riconsegnarlo a Mario come fosse stato un pacco postale, - Riprenditelo. – disse annuendo, - È una cosa impossibile. Spero di non vedervi per un mese, vi do il permesso di sparire in Nuova Zelanda per la luna di miele, tutto il tempo che volete.
- Gentile come al solito. – borbottò Davide, sistemandosi orgogliosamente al fianco di Mario mentre quest’ultimo ridacchiava divertito e gli sistemava la giacca dello smoking sulle spalle, - Guarda che ti prendiamo in parola, e poi la settimana prossima, in posticipo col Milan, te la vedi tu.
- No, per carità. – deglutì ansioso Zlatan, riportando improvvisamente alla memoria il calendario dei prossimi impegni in Campionato, - Con Zuca ancora fuori uso ho bisogno di-- Zuca! – strillò, osservando il ragazzo dirigersi spedito verso casa, aiutato solo da due stampelle, - Punto primo! …ragazzi, - si rivolse brevemente a Mario e Davide, - scusatemi, ma il coglioncello lì vuole rovinarsi la carriera. – tagliò corto, lasciandoli lì dietro la siepe e correndo a perdifiato verso il figlio di José, - Punto primo, dicevo! – riprese, mentre Zuca lo osservava con aria vagamente infastidita, e si fermava solo perché obbligato dall’ostacolo del suo corpo, - Che diavolo ci fai qui?! Dovresti essere in centro a riposare!
- No, dico. – sbuffò Zuca, appoggiandosi alla stampella e sollevando la gamba malconcia dal peso del corpo, - Davvero ti aspettavi che me ne rimanessi ad Appiano, perso nel nulla, con le vecchine che mi salutano dalle case alla fine del vialone, mentre Dade e Mario si sposavano? Tu sei fuori. – concluse, riprendendo a muoversi verso casa.
- Fermo là! – lo bloccò nuovamente Zlatan, frapponendosi ancora una volta fra lui e la villa, - Io ci ho provato, a insegnarti l’educazione che la buon’anima di tuo padre non aveva fatto in tempo ad inculcare in quella tua testa marcia, ma tu sei impermeabile! – lo rimproverò, - Cosa ti ho detto ieri, Zuca? Eh? Cosa ti ho detto? – sospirò profondamente, massaggiandosi la fronte.
Zuca sospirò a propria volta, esasperato, roteando gli occhi e soffiando via la frangetta biondiccia scesa a solleticargli la punta del naso.
- Che la squadra ha bisogno di me. – rispose laconicamente, scrollando le spalle.
- Esatto. – annuì Zlatan, deciso, - Sostituire te è più difficile che sostituire qualsiasi altro giocatore, perché sei il perno dell’attacco. Senza di te, la squadra può forse funzionare, ma perde smalto. – sorrise, riavviandogli la frangia sulla fronte, - Ne servono undici, per sostituire te solo. Vuoi mettermi davvero in queste difficili condizioni?
Zuca inarcò le sopracciglia, fissandolo come se gli avesse appena recitato a memoria la tabellina del due.
- No, dico. – ripeté ancora, e Dio solo sapeva se ogni “no, dico” non aveva su Zlatan un effetto quasi devastante, portandolo a desiderare di possedere un’ascia come mai nella sua intera esistenza, - Per chi mi hai preso? Non sono mica il sempliciotto che eri tu ai tempi. A te bastava che mio padre ti tirasse su un teatrino di complimenti, ti facesse un po’ gli occhi dolci ed ecco che tu eri lì a sputare sangue sul campo anche per partite idiote, quando avresti potuto restartene a casa con il ghiaccio sul ginocchio, una bottiglia di birra in una mano e il telecomando nell’altra, a rintontirti di tv spazzatura. – sorrise furbo, inclinando lievemente il capo, - Non è che siccome tu non sei stato in grado di goderti la vita, allora io devo fare la tua stessa fine.
- Ti ricordo – grugnì Zlatan, indicandosi, - che questa fine è una fine da tredici milioni all’anno solo per osservare ventisette mentecatti come te correre dietro a una palla e godersi i complimenti dei giornalisti nel post-partita, eh? Quindi, forse, prima di parlare con tanto disprezzo della fine che ho fatto io, dovresti cominciare anche a capirla un po’, questa fine che ho fatto.
Zuca lo ignorò apertamente, aggirandolo svelto e ricominciando la propria marcia verso l’edificio.
- Zuca! – berciò Zlatan, correndogli dietro e rendendosi conto con sconcerto di dover faticare per tenere il passo nonostante lui fosse infortunato, - Cristo, ma perché non mi ascolti?! Dove stai andando?!
- A pisciare! – scattò lui, agitando una stampella nella sua direzione e colpendolo di malagrazia contro una spalla, - Ora mi lasci in pace?! Dio, quanto ti odio!
Zlatan si fermò in mezzo al selciato, una mano ancora sollevata in un accenno di gesto volto a fermarlo, e lo osservò finalmente raggiungere la porta di casa e infilarsi al suo interno senza una parola di più, sospirando profondamente e chinando il capo, deluso.
Quando era arrivato all’Inter, due anni prima, Zuca era già lì. Era l’anima dello spogliatoio, andava d’accordo con tutti e, complice anche il suo grande talento, era stato il pupillo dell’allenatore precedente. Sfortunatamente, era parso subito evidente come il ragazzo mancasse totalmente di ogni tipo di educazione – era un ribelle senza speranza, molto più di quanto non lo fosse stato Mario ai tempi e infinitamente oltre ogni limite Zlatan potesse dire di aver toccato in una carriera pur turbolenta e non certo scevra di contrasti. Tutti i suoi tentativi di inculcare un po’ di sale in quella zucca montata al contrario erano risultati in un odio pressoché devastante da parte del ragazzo, che comunque non è che l’avesse mai preso in reale simpatia, dal momento che la prima cosa che aveva fatto vedendolo arrivare era stata ignorare il suo saluto – quando lui era così felice di vederlo, così emozionato dall’idea di posare finalmente gli occhi addosso al figlio di José, così cresciuto, ed allenarlo.
Sospirando, tornò verso il gazebo, ignorando apertamente Maxi e Vinny appartati in un angolo a confabulare chissà che con due facce più scure di quelle che avevano avuto ai funerali dei loro nonni. “Che vita difficile”, si disse, prendendo posto di fianco a quella specie di altare improvvisato drappeggiato e decorato con della roba della quale non era sicuro di voler comprendere il disegno e che Helena aveva disegnato personalmente.
- Era ora. – borbottò Mario in una mezza risata, apparendo al suo fianco mentre gli invitati – ad eccezione di Zuca – prendevano posto, e Davide si affrettava a sistemarsi accanto a lui, aggiustandosi la cravatta e la camicia dopo quella che Zlatan non tardò ad identificare come un’intensa sessione di coccole pre-sposalizio. – Stavamo cominciando a pensare che alla fine la sposa fossi tu.
- Sto ridendo così tanto che mi stupisco l’eco delle mie risate non arrivi in Cina o anche su Marte. – sbuffò lui, sarcastico, - E comunque, quando finisce questa pagliacciata? E dov’è Zuca?
*
Una volta in casa, per prima cosa Zuca mollò le stampelle sul pavimento. Il ginocchio non doleva, era a posto, e se quel cretino del mister pensava di tenerlo fuori anche per la prossima era del tutto fuori strada: se anche non si fosse degnato di convocarlo, si sarebbe infilato di nascosto negli spogliatoi e contro il Milan avrebbe giocato, alla faccia sua.
Compiacendosi del silenzio che regnava sovrano all’interno della villa, si lasciò andare sulla prima poltrona disponibile in salotto – una che non fosse sommersa di cappotti, borsette e cianfrusaglie varie – e lasciò andare le braccia lungo i fianchi fino a sfiorare il pavimento, dondolandole un po’ avanti e indietro. Sorrise quando, in quell’ondeggiare calmo e rilassante, le sue dita incontrarono la forma rotonda, perfetta e familiare di un pallone. Lo recuperò chinandosi appena e prese a palleggiare piano, da seduto, provando ad usare solo la gamba sana ed arrendendosi poco dopo, saltando in piedi e palleggiando con entrambi i piedi, sorridendo soddisfatto nel momento in cui si rese conto che non sentiva davvero alcun dolore, e il suono ritmico e preciso della palla contro i suoi piedi, le sue ginocchia, il suo petto e la sua testa, era ancora in grado di cullarlo meglio delle ninne nanne di sua madre.
- Mi hanno detto – disse una voce conosciuta alle sue spalle, - che il ginocchio ti dà qualche problema, Zuca.
Raggelato, il ragazzo si interruppe immediatamente, lasciando che la palla ricadesse a terra e rotolasse lontano da lui. Si voltò lento, tremando appena, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse in un’espressione di puro stupore.
- P-Papà…? – balbettò incerto, voltandosi di scatto e indietreggiando fino a cadere di peso sulla poltrona, quando riconobbe esattamente l’uomo che aveva davanti. Identico a suo padre, stessa voce, stessi occhi, lo stesso uomo che era praticamente morto sotto il suo sguardo, fra le braccia di Davide, vent’anni prima.
- Chi altri? – rispose José indicandosi e muovendo un passo verso di lui. Zuca lasciò andare un urlo terrorizzato, stendendo entrambe le braccia in avanti come in cerca di protezione. José sorrise diabolico, un ghigno che ricordava di avergli visto addosso solo nei casi delle punizioni peggiori. – Fai bene ad avere paura. – disse suo padre, glaciale, - So molte cose di te, Zuca. – continuò, - So che sei un giocatore indisciplinato e che impedisci al tuo allenatore di disporre di te come ritiene più opportuno. – aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi ancora ed osservando Zuca tirare su le gambe fino a rannicchiarsi sulla poltrona quasi in posizione fetale, gli occhi sbarrati e il respiro mozzo. – È così che onori il tuo nome, José?! – tuonò agitando un pugno nella sua direzione, - È così che mi ripaghi?!
Una sola lacrima si azzardò a scivolare oltre le ciglia di Zuca, rotolando lungo la sua guancia mentre il ragazzo dimenticava tutto – di se stesso e della sua intera esistenza, di tutte le domande che avrebbe voluto fare a suo padre se mai avesse avuto per assurdo l’occasione di rivederlo, compreso chiedergli il perché di quel bacio a fior di labbra che aveva visto Zlatan dargli quando era già nella sua bara – e scattava in piedi, lasciando le stampelle all’ingresso e catapultandosi fuori dall’edificio senza neanche lasciare andare un urlo.
José sospirò pesantemente, recuperando le stampelle da terra ed appoggiandole ordinatamente alla poltrona, prima di tornarsene in soffitta.
*
- Lo voglio. – sorrise Davide, e Mario non aspettò nemmeno il permesso del funzionario per prendergli il volto fra le mani e tirarselo contro, baciandolo profondamente e a lungo mentre tutto intorno a loro gli ospiti si alzavano dalle loro sedie, applaudendo festanti.
Zlatan scosse il capo, roteando gli occhi.
- Che pagliacciata. – commentò mentre dall’altro lato il fratello di Davide, nelle sue stesse condizioni, sorrideva imbarazzato. Voltò in giro lo sguardo, appena in tempo per incrociare Zuca che si scapicollava verso il cancello come stesse fuggendo da una bestia inferocita o chissà che altro. – Zuca! – lo richiamò, correndogli dietro, - Ma Cristo santo, è mai possibile che sei sempre di corsa anche quando non dovresti?! – lo fermò, afferrandolo per una spalla, - Fermati un po’! Dove sono le tue stampelle? – chiese, guardandolo attentamente dall’alto in basso.
- Io non… - balbettò lui, visibilmente scosso, - Io non… non ne ho idea, io non…
- Zuca? – lo chiamò ancora Zlatan, sorreggendolo per le spalle, - Ma cos’hai?
- Niente! – disse immediatamente il ragazzo, scostandosi con un gesto secco, - Io… scusa. – deglutì, - Non posso restare qui, giuro che… ci vediamo in allenamento domani, io… mi dispiace, davvero, fai i miei auguri a Dade e Mario, ma non posso proprio… - continuò a balbettare confusamente, arretrando verso il cancello senza mai staccare gli occhi di dosso alla villa. Zlatan lo osservò andare via con un misto di sconcerto e preoccupazione, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, finché non fu scomparso con la macchina oltre la strada privata che conduceva a Villa Ratti.
- Dio, che vita difficile. – ripeté ad alta voce, mentre Maxi gli passava accanto in un vortice di rabbia isterica, - E tu che diavolo hai adesso? – chiese in una mezza lagna già rassegnata, senza aspettarsi certo una spiegazione all’ennesima fuga del suo figlio maggiore dalla casa paterna.
- Fottiti! – si limitò a rispondere il ragazzo, raggiungendo la propria automobile ed abbassando il finestrino solo per berciare ancora: - E lega la bestia, o la prossima volta se viene lui di certo non vengo io!
Zlatan annuì meccanicamente, ripromettendosi di torchiare Vincent fino a fargli sputare sangue o, in alternativa, il motivo reale di tutti quei battibecchi ricorrenti, ma nel momento in cui si voltò verso il gazebo il suo sguardo venne inevitabilmente attratto da qualcosa che si muoveva oltre il vetro della piccola finestra in soffitta.
José lo stava salutando.
Invocando la forza di parecchi santi, inspirò profondamente per non mettersi ad urlare contro gli stessi e poi, mesto, entrò in casa e salì al piano di sopra, strascicando adeguatamente ogni passo perché José potesse comprendere alla perfezione e con largo anticipo l’esatta misura del suo scazzo.
- Dimmi che non sei stato tu a ridurre in quelle condizioni Zuca inscenando una qualche stronzata tipo apparizione del fantasma del padre morto. – implorò, lasciandosi andare seduto sul letto e passandosi stancamente una mano sugli occhi, - Dimmelo, perché se tu non me lo dici giuro che io tento il suicidio.
José rise – una risata quasi infantile – e si sedette al suo fianco.
- Chissà. – rispose enigmatico, - Magari è solo la sua coscienza che è tornata a farsi sentire. – ipotizzò con un mezzo ghigno.
- Mi stupirebbe. – ammise Zlatan, stendendosi sul materasso e fissando ostinatamente il soffitto spiovente, - Zuca non ha mai avuto una coscienza.
José rise ancora e si stese accanto a lui, guardando lo stesso soffitto. Ascoltarono l’uno i respiri dell’altro per tanto di quel tempo che, alla fine, riuscirono perfino a sincronizzarli.
Zlatan allungò una mano fra i loro corpi a cercare quella di José, e lui – quando la strinse – non rifiutò il contatto.
- Ti sei perso un bel matrimonio. – commentò distrattamente, - Ridicolo, ma bello.
- Come tutti i matrimoni. – rispose José, sorridendo appena, - Ricordo ancora quando ho detto “lo voglio” a Tami. È stato un bel momento.
- Già. – rise a propria volta Zlatan, stringendo ancora un po’ la presa sulle sue dita e accarezzando con un pollice il dorso della sua mano. – È una bella sensazione, quando ti leghi a qualcuno e vuoi farlo davvero. Riesce a farti sentire tranquillo. Sai, io – sorrise, stiracchiandosi un po’, - non mi sono mai sentito sereno quasi in nessun posto, non so perché. Mio padre mi diceva che il mio sangue bruciava come il fuoco, e che per questo, potendo, avrei cambiato perfino pelle. Però, quando ho detto “lo voglio” a Helena… in qualche modo, in quell’istante, ha smesso di bruciare. Solo per quell’istante, - precisò con un mezzo sospiro, - ma ne è valsa la pena.
José intrecciò le dita con le sue, e quando tirò un po’ Zlatan si voltò a guardarlo, una domanda palese negli occhi. José, però, non aveva nessuna risposta. O forse sì, anche se non era quella che Zlatan si aspettava.
- Lo voglio. – disse il portoghese, così piano che Zlatan, per un secondo, credette di aver sentito male. Ma si affrettò a deglutire e riprendere il controllo di se stesso, in tempo per non dare a José l’impressione che, proprio adesso, volesse tirarsi indietro.
- Lo voglio. – rispose annuendo. José sorrise.
- Adesso puoi baciarmi. – disse a mezza voce. Zlatan evitò di chiedergli se stavolta non si sarebbe allontanato, e si limitò ad eseguire l’ordine, mentre da fuori, un po’ ovattati, giungevano i brindisi degli ospiti in onore dei novelli sposi.
Seguito di Who's Returned From The Dead.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Davide/Mario, accenni di palese UST fra Maxi e Vinny.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Death, Slash.
- Proseguono le tragicomiche avventure di Zlatan alle prese col ritorno dalla morte di José Mourinho, ex allenatore e uomo impossibile che non ha mai smesso di rendere la vita difficile a chiunque anche da morto. In questo episodio, Zlatan affronta le lagne di sua moglie, le lagne di José, le lagne dei suoi figli e le lagne di Davide, in un continuo lagnarsi universale che lo distrae e lo confonde fino a non fargli capire cosa sta accadendo in tutto ciò nel giardino di casa sua.
Note: Sbrigativamente: povero Zlatan. E comunque sappiate che ho provato a resistere all’UST Ibracest con tutte le mie forze, davvero, fino all’ultimo. Non c’è stato verso. *piange*
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WHO’S LIVING UPSTAIRS


- Zlatan? – lo richiamò alla realtà Helena, piantando entrambe le mani sui fianchi e fissandolo con aria enormemente disapprovante, - Allora? Hai sentito almeno una parola di quello che ti ho detto?
- Uh? – ribatté lui, cercando di concentrarsi su di lei ma tornando immediatamente a volgere lo sguardo altrove, puntandolo nel bel mezzo del nulla, distratto dai rumori tutt’altro che casuali che provenivano dalla soffitta.
- Zlatan! – urlò quindi lei, schioccandogli le dita proprio davanti al naso, - Lascia perdere i dannati topi nel sottotetto e ascoltami, una buona volta!
- Ma sì, sì, ti ho ascoltato… - borbottò lui, tornando a guardarla e cercando di simulare una qualsivoglia presenza di spirito, per evitare di restare lì ancora almeno altre due ore a riascoltare la spiegazione di sua moglie (spiegazione della quale, per inciso, non aveva colto una parola, ed alla quale peraltro, al momento, non poteva interessarsi di meno, con José a fare tutto quel rumore al piano di sopra), - Penso che sia un’ottima idea.
Dubbiosa, Helena inarco le sopracciglia.
- Davvero? – chiese, incrociando le braccia sul petto.
- Davvero. – le sorrise lui, condiscendente, accarezzandole una spalla, - Penso che sia un’idea molto carina, - inventò, cercando di far tesoro dell’unica regola che in tutti quegli anni aveva imparato a proposito delle donne (“i complimenti sono la via per il successo in ogni frangente”), - e penso anche che sarai grandiosa come sempre, tesoro. – concluse con un sorriso smagliante, tirandosi in piedi ed abbracciandola brevemente.
- …sei proprio sicuro? – cercò di sincerarsi ancora lei, scrutando nei suoi occhi un minimo cenno di incertezza. Zlatan, se possibile, tirò fuori un sorriso ancora più smagliante: mai mostrare debolezza davanti a una donna. – Mi era parso di capire che-
- Non ci sarà assolutamente nessun problema! – insistette, - spingendola verso la porta, - Anzi, perché non vai a fare un po’ di shopping? – suggerì, dato che con Helena lo shopping sembrava sempre funzionare alla perfezione.
- Be’, in effetti mi servirà almeno-
- Ecco, vedi? – la esortò compiaciuto, mentre da sopra sembrava che José volesse tirar giù il soffitto a furia di saltare come un bue isterico, - Vai, tesoro, e fammi sapere se poi ti serve aiuto a portar su le buste, ok? A più tardi.
L’eco delle parole di Helena – un confuso “ma amore!” sussurrato appena saltellando di gradino in gradino verso il vialetto che portava al garage – si perse dietro il legno spesso della porta, nel momento in cui Zlatan se la chiuse alle spalle e, ringhiando come un animale, salì le scale tre alla volta per raggiungere José in soffitta. Dal rumore che aveva sentito fino a quel momento, avrebbe dovuto aspettarsi di trovare come minimo la branda divelta dal pavimento e il tavolino con elegante sedia in pura plastica nera che gli aveva trovato rovesciato al contrario in un tripudio di fogli, a fare da coreografia all’apocalisse dalla quale si sarebbe salvato solo il palmare che gli aveva regalato un paio di giorni prima e che José venerava come un dio in terra.
Naturalmente, quando aprì la porta, José stava ordinatamente seduto sulla propria seggiolina di plastica e guardava video su YouTube con i suoi graziosi auricolari Sony ben piantati nelle orecchie, in perfetto e religioso silenzio.
- Oh, non provarci. – cominciò, puntandogli contro un indice accusatorio, - Non provarci nemmeno, José, non ho più vent’anni e non puoi prendermi per il culo come facevi allora!
- Non sapevo neanche che faccia avessi, quando avevi vent’anni. – gli fece notare educatamente José, senza nemmeno sfilare gli auricolari, - Ti ho conosciuto che eri molto più vecchio, ma in effetti potevo prenderti tranquillamente per il culo anche allora, quindi non vedo perché non continuare. Non è difficile. – precisò, agitando il palmare come a indicarlo come ovvia causa di tutte le sue gioie.
- José. – grugnì Zlatan, passandosi una mano sulla fronte, - Piantala.
- Voglio uscire! – scattò lui, pestando i piedi come un bambino, - È una settimana che sto chiuso in questa topaia! Voglio uscire!
- Sei uscito due giorni fa! – precisò Zlatan, allargando scandalizzato le braccia ai lati del corpo.
- Mi hai portato sul balcone! Quello non è uscire! Io voglio andare fuori, - si lagnò José cominciando a vagare per la stanza come l’anima in pena che in effetti avrebbe potuto essere, - girare la città, vedere gente, andare a mangiare in qualche bel ristorante…
- Tu sei morto! – cercò di ricordargli Zlatan, le mani nei capelli, - Quante volte devo dirtelo?! Hai dei desideri assurdi! Non ti basta esserti fatto l’account su FaceBook ed aver tirato su un casino colossale dicendo a tutti che eri proprio quel José Mourinho nella tua home page?!
- Ma nessuno ci ha creduto! – borbottò lui, - Ed era anche ovvio che non ci credessero, volevo solo divertirmi!
- Divertirsi, dice lui! – sospirò Zlatan, lasciandosi ricadere sulla brandina, improvvisamente sgonfio, - José, io seriamente non so che dirti. – cercò di ragionare, mentre José si sedeva al suo fianco, come in attesa di una qualche risposta ad una domanda che aveva accidentalmente dimenticato di porre, - Ho deciso di tenerti qui perché ovviamente non potevo mandarti da nessun’altra parte, e-
- Ah. – lo interruppe José, secco, inarcando le sopracciglia ad allontanandosi di qualche centimetro con aria disgustata, - Non perché mi volevi qui, no, eh? Perché non potevi mandarmi da nessun’altra parte.
- Gesù, ti prego. – piagnucolò lui, passandosi una mano sugli occhi, - Ti prego, non ricominciare.
- Io non ricomincio! – strillò José, come un’aquila isterica.
- No, tu non ricominci, perché a tutti gli effetti tu non smetti mai!
José aggrottò le sopracciglia, visibilmente offeso, e completò le operazioni di allontanamento andando a sedersi nel punto più distante possibile da Zlatan, pur restando sul letto.
- Va bene. – disse gravemente, - Allora torna pure di sotto a fare quello che vuoi e lasciami qui ad ammuffire. D’altronde, è quello che mi spetta, no? – aggiunse con un sorriso di vago scherno, - Sono morto, dovrei stare a decompormi dieci metri sottoterra. Posso farlo qui, almeno è comodo.
- José… - roteò gli occhi Zlatan, avvicinandosi impercettibilmente, - Okay, senti, ricominciamo. Abbiamo evidentemente sbagliato approccio. – ragionò calmo, annuendo pacatamente. José gli rispose con un lungo sguardo indispettito, prima di sospirare e sciogliere le spalle, tornando ad avvicinarsi a propria volta.
- Sto impazzendo a restare chiuso qui, Zlatan. – confessò, la voce bassa e seria, - Non ti sto dicendo che devi farmi uscire adesso e non ti sto neanche dicendo che devi risolvere da solo questa situazione del cazzo, ma una soluzione dobbiamo trovarla, perché io non so cosa mi succederà domani o anche solo fra due ore, ma c’è la possibilità che io ti resti fra le palle a lungo, e non vorrei dare più fastidio di quanto ne do già.
- Tu non-
- Oh, non provarci. – gli fece il verso José, sorridendo appena, - Non provarci nemmeno, Zlatan. – sospirò ancora, rimettendosi in piedi per andare a poggiare il palmare sul tavolo, prima di avvicinarsi alla minuscola finestra che adornava la parete esposta al sole di mezzogiorno. – Sai che non sono venuto fuori dalla tomba? – disse all’improvviso, osservando il giardino con aria un po’ persa.
- No? – chiese Zlatan, avvicinandosi a lui e sbirciando attraverso il poco spazio che gli restava senza per questo doversi avvicinare troppo, - Sei, tipo, apparso?
- Credo di sì, anche perché sarebbe stata dura prendere un aereo per venire fin qui. E comunque non ricordo di averlo fatto. – ridacchio, costringendo Zlatan ad una risatina simile, - Ho aperto gli occhi ed ero davanti al Duomo. Il sole mi ha abbagliato, e la prima cosa che ho pensato è stata che questo sole di ghiaccio, tutto luce e niente calore, il sole di Milano, mi era mancato tantissimo.
Zlatan deglutì, sorridendo un po’.
- Sì, è strano, no? – annuì, - Quando vai via da Milano ti dici sempre che è stupendo andarsene, che una città così assurda non ti mancherà per niente. E invece poi ti manca.
- È per questo che sei tornato? – chiese José, curioso, voltandosi a guardarlo.
- Chissà. – scrollò le spalle Zlatan, - Forse. In realtà Helena sentiva la mancanza dei ragazzi, solo che naturalmente non potevamo essere in due stati diversi contemporaneamente. Perciò ci siamo detti “andiamo a Torino, almeno stiamo con Maxi”, ma non ci siamo trovati bene. Così, semplicemente, quando è arrivata l’offerta non ci ho nemmeno pensato troppo su. E siamo tornati a Milano.
José rise, poggiandosi con le spalle contro la parete e guardandolo con aria furba.
- A-ha. – annuì interessato, e Zlatan sospirò, ridacchiando complice.
- Okay, sì, quando è arrivata l’offerta mi sono messo a saltare di gioia. – ammise, - Non me lo aspettavo e morivo dalla voglia di rivedere Appiano. L’hanno ampliato ancora, sai? Sembra un cazzo di centro sportivo olimpionico, tipo. È fantastico. Dovresti- - si interruppe, mordendosi un labbro prima di concludere la frase, per quanto fosse ormai evidentemente tardi. – Intendevo…
- Esattamente quello che hai detto- o meglio, che non hai detto. – rise José, sospirando piano, - Dovrei vederlo. Vorrei vederlo. Chissà, magari lo vedrò pure.
- Quanto ottimismo tutto assieme! – lo prese in giro Zlatan, tirandogli un colpetto lieve contro la spalla, - Attento, rischi di sorridere troppo. Poi ti si paralizza la faccia e non è bello.
- Che stronzo. – sbottò José, ricambiando il colpetto e ghignando divertito, - Sono fresco come una rosa, nonostante sia morto. Profumo di buono e sono morbido come un bambino.
- Ma la tua migliore qualità resta sempre la modestia. – annuì compitamente Zlatan, fra le sue risate compiaciute.
Il silenzio che si stese fra loro, per una volta, non li infastidì. Ricordò piuttosto ad entrambi il periodo in cui silenzi del genere erano abituali, fra loro. Quando, dopo un’intera giornata passata insieme fra campo e palestra, non riuscivano comunque a trovare motivazioni sufficienti per separarsi, e non avere nient’altro da dirsi sembrava assolutamente indifferente, soprattutto nel momento in cui la cosa più importante in assoluto pareva essere il rimanere lì a respirare nello stesso rettangolo d’aria, l’uno l’ossigeno dell’altro. Non avevano mai chiarito cosa fosse quel bisogno, ma in effetti era stato principalmente perché non ne avevano mai sentito il bisogno.
- Penso che non sarei più andato via. – disse José sottovoce dopo poco, tornando a sedersi sulla sponda del letto, stavolta visibilmente più rilassato, - Se non fossi morto, intendo, non me ne sarei più andato da Milano.
- Tu? – chiese Zlatan, inarcando dubbioso un sopracciglio, - Scherzi?
- No! – rise José, sistemandosi più comodamente contro la parete alle proprie spalle, - Sai cosa? Venti minuti prima che si concludesse la finale di Champions, quando il Real era già sotto di due gol e il Bernabeu sembrava San Siro per quanto urlavano i tifosi dell’Inter… Davide era seduto accanto a me in panchina. Io stavo lì, - ridacchiò teneramente, - non avevo niente da ridire sulla squadra ed era la prima volta da quando li allenavo. Mi godevo i fraseggi di Mario, gli assist di Diego per Samuel, le volate di Lucio fino ad oltre la linea di centrocampo, e Davide – rise ancora, - Davide prende e mi afferra un braccio. Allora io mi volto a guardarlo, pure un po’ stupito, ma non gli chiedo niente. E nemmeno lui mi dice niente, perché sta guardando il campo come se volesse divorarlo, e io… - si prese un momento per inspirare ed espirare. Zlatan guardò il suo petto gonfiarsi e poi sgonfiarsi e si chiese se avesse davvero bisogno di qualcosa di simile, essendo morto. Poi José riprese a parlare, e la questione divenne improvvisamente insignificante. – L’ho spedito in campo il minuto dopo, e dieci minuti dopo aveva insaccato una doppietta. E mentre lo guardavo correre in tondo e saltellare e lasciarsi atterrare a centrocampo da Mario, io ho pensato “resto”. E sarei rimasto per sempre. – si fermò ancora, sospirando profondamente e voltandosi a guardare Zlatan con un sorriso tanto tenero e nostalgico da dargli il batticuore fino a fargli dolere il petto. – Come sta il mio bambino, Zlatan? Come stanno tutti i miei bambini?
Zlatan resistette all’impulso di scattare ad abbracciarlo solo perché sapeva che a José avrebbe dato fastidio, e schiuse le labbra per rispondergli che i suoi bambini stavano benissimo, che Mario finiva per essere capocannoniere in Serie A un anno sì e un anno no, che Davide era uno dei migliori capitani che l’Inter potesse vantare in una storia di capitani sempre eccellenti, che Rene aveva fatto benissimo all’Inter per tutto il tempo in cui era rimasto e che s’era ritirato due anni fa dopo aver disputato una splendida stagione col Chelsea nonostante un tremendo infortunio al ginocchio, e soprattutto che – dannazione – avrebbe dovuto vedere Zuca. Avrebbe dovuto vederlo correre come un pazzo per il campo e bersagliare la porta avversaria con un’ostinazione tanto simile alla sua da rasentare l’assurdo, fino a segnare più di prepotenza che di tecnica. Avrebbe dovuto vederlo allenarsi con impegno e sopperire al fisico sottilissimo con una velocità, un’agilità ed una grazia che avevano dell’incredibile, avrebbe dovuto vederlo combattere in area di rigore avversaria e staccare tutti anche di un metro saltando per colpire di testa. E avrebbe dovuto vederlo l’anno prima, quanto sembrasse grande con la Coppa dei Campioni fra le braccia, quanto il suo sorriso risplendesse di orgoglio e di gioia.
Non ci riuscì, perché la voce di Helena, squillante e vagamente irritata, lo raggiunse dal piano di sotto come un fulmine a ciel sereno, costringendolo a scattare in piedi ed allontanarsi all’improvviso.
- Zlatan! – continuò ad urlare sua moglie, - Ma dove cavolo sei?! – e Zlatan deglutì.
- Io… - biascicò, - torno dopo. – annuì serio, - Stanotte.
- No. – sorrise José, - Tu dopo vai a dormire. Con tua moglie. Come sarebbe giusto.
- Jo-
- No, ti prego, non ricominciare. – rise José, alzandosi in piedi e tornando a sedersi alla scrivania, prima di prendere il palmare fra le mani, - Ne abbiamo già parlato.
- No, non ne abbiamo parlato. – borbottò Zlatan, deluso, - Senti, mi pare ridicolo continuare a ignorare quello che sta succedendo quando la prima cosa che hai fatto rivedendomi è stata baciarmi.
- Non è stata la prima. – gli fece notare José, ma Zlatan lo liquidò con un gesto spiccio.
- Dettagli. – sbottò, - Seriamente, io non capisco-
- No, sono io che non capisco. – rise ancora José, tornando a girovagare per YouTube, - Sembri sempre avere ben chiaro in mente che sono morto, tranne quando si tratta di mettermi le mani addosso. A quel punto, improvvisamente torno vivo. Ma non ti fa pure un po’ schifo toccarmi?
- Zlatan!!! – chiamò ancora Helena, esasperata, - Giuro che se non scendi subito faccio una strage! Di te e anche di quelle piaghe sociali dei tuoi figli!
Zlatan sospirò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi in un mugolio esasperato.
- Ne riparliamo. – borbottò deciso all’indirizzo di José, mentre il portoghese lo salutava agitando distrattamente una mano per aria e si lasciava distrarre dalle highlight di una recente partita dell’Inter commentata con incredibile passione da Materazzi.
Al piano di sotto, Helena stava già indossando la giacca.
- Ma da quanto sei tornata? – le chiese Zlatan, salutandola con un lieve bacio su una guancia.
- Da abbastanza tempo per godermi l’inizio della drammatica videochiamata quotidiana dei tuoi due figli, Dio mio. – sospirò lei, recuperando la borsa, - Te li lascio ben volentieri, tanto più che ho ordinato prima due ghirlande ma pare che il fioraio non riesca a recuperare le rose blu che ho chiesto, per cui tanto vale vada a controllare di persona.
- Due ghi- Helena, a cosa ti servono due ghirlande?! – cercò di informarsi lui, mentre dal salotto proveniva il berciare un po’ metallico dei suoi due figli isterici.
- Zlatan, sciocchino. – ridacchiò Helena, imboccando la porta, - Due ghirlande sono assolutamente indispensabili, nella situazione contingente!
Fece per chiederle a cosa esattamente si riferisse, ma Helena era già sparita nel battito di ciglia successivo, e tutto ciò che restava a riempire la casa – a parte il battere secco e regolare di José dal piano di sopra, per ricordargli che era ancora lì – era il continuo strillare di Maxi e Vinny dalla stanza accanto, perciò Zlatan si decise ad affrettare il passo e raggiungere finalmente il salotto, dove – attraverso gli schermi e le webcam collegate in rete – i suoi due unici figli si tiravano addosso insulti della peggior specie coinvolgendo nelle offese anche la loro innocente madre, parlandone peraltro con lo stesso irriguardoso sdegno col quale avrebbero parlato della madre di chiunque altro, rivolgendole epiteti di dubbio gusto.
- Ragazzi! – strillò inorridito sull’ennesimo “puttana sarà tua madre” vomitato rabbiosamente nei confronti di Vinny da un Maxi che evidentemente dimenticava come la madre suddetta fosse la stessa per entrambi, - Datevi una calmata! È sempre la stessa storia, Dio mio! Che avete adesso?!
- Quello stronzo – sbraitò Maxi, indicando suo fratello a chilometri di distanza attraverso lo schermo, - s’è fregato la mia maglietta portafortuna!
Zlatan roteò gli occhi con un lamento sommesso, mentre Vinny metteva il broncio ed incrociava le braccia sul petto, guardando altrove.
- Maxi, ti prego… siete primi in classifica, non hai davvero bisogno di una maglietta portafortuna!
- Stronzo pure tu! – continuò a urlare il ragazzo, puntando il dito anche contro di lui, - State dietro a un punto e guardacaso domenica c’è Inter-Juve! Ho bisogno della mia maglietta portafortuna! Di’ allo stronzo di rispedirmela.
- Te lo puoi scordare, e vaffanculo. – concluse Vinny, interrompendo la chiamata senza una parola di più.
- Oh, si fotta. – commentò gentilmente Maxi, e quando Zlatan lo vide allungare una mano verso il pulsante, sbuffò platealmente.
- Non ci provare nemmeno! – lo fermò, puntandogli contro un dito a conti fatti inutile ma dotato ancora dell’aura di autorità paterna che ogni tanto i suoi figli ricordavano di dover temere, - Maximilian, dimmi cosa diavolo sta succedendo fra voi due. Ormai i vostri litigi si stanno facendo insopportabili! – sospirò, passandosi una mano fra i capelli, - Quando è rimasto da te un paio di giorni, dopo il turno di Champions, sembravate stare bene insieme. Eravate carini. Che cosa è successo dopo?
- È successo che lo stronzo s’è portato via la mia cazzo di maglia. – ringhiò Maxi, guardando altrove, - E lo sa che odio che mi spariscano le cose da sotto il naso. Doveva chiedermela! – insistette gesticolando, - Non gliel’avrei comunque data, ma doveva chiederla!
Zlatan si lasciò sfuggire un lamento sofferente, coprendosi il volto con le mani, mentre qualcuno suonava il campanello.
- Mi date il mal di testa, davvero. – commentò, stirandosi contro lo schienale della sedia, - Resta in linea. Chi è? – chiese, azionando col telecomando il videocitofono accanto alla porta. Davide apparve sullo schermo un istante dopo, sorridendo timidamente mentre agitava una mano per salutare. – Dade? – borbottò Zlatan, stupito, - Ma che diavolo ci fai qui?
- Come che ci faccio qui? – chiese a propria volta lui, ugualmente stupito, - Devo posare il barbecue, Helena mi ha detto di portarlo.
- Il barbecue?! – sbottò, spalancando gli occhi. – Mia moglie è impazzita. Maxi, - ripeté, rivolgendosi a suo figlio dall’altro lato dello schermo, - tua madre è impazzita. Prima le ghirlande, ora il barbecue, vuole invitare il vicinato per una festa in giardino?
- Uh? – chiese Maxi, inclinando lievemente il capo, - Ma come una festa in giardino? Sta-
- Ok, senti, aspetta. – lo fermò, tornando a rivolgersi al citofono. – Aperto! Dade, vieni dentro, su.
- Senti, pa’, se è un problema ci risentiamo dopo, tanto non è importante. – biascicò confusamente Maximilian, grattandosi la nuca prima di rivolgere un cenno di saluto a Davide che passava sullo sfondo, il suo ingombrante carico fra le braccia e un “dove lo metto?” un po’ impacciato sulle labbra.
- Nel ripostiglio, Dà. – rispose sbrigativamente lui, prima di rivolgersi a Maxi, - No, senti, noi ora ne parliamo e risolviamo questa cosa, perché così non può continuare, è evidente. Oltretutto, a Natale vi voglio entrambi qui e gradirei non dover raccogliere i vostri resti sparsi in salotto dopo che vi sarete presi a mazzate prima, durante e dopo il pranzo, per dire.
- …non credo che accadrà niente del genere. – sospirò Maxi, poggiando i gomiti sulla scrivania e piegandosi un po’ in avanti, i capelli biondissimi che scendevano sulla fronte fin quasi a coprirgli gli occhi.
- Se ora mi dici che non intendi venire a Natale, giuro che prendo il primo aereo per Torino e ti prendo a mazzate come non ho mai fatto in ventidue anni di vita, anche se te lo saresti meritato spesso. – lo minacciò con aria cupa, e Maxi scosse il capo.
- No, non intendevo quello. – ammise con un mezzo sorriso stanco, - Verrò a Natale. Sta’ tranquillo.
Zlatan schiuse le labbra e fece per chiedergli quale fosse il motivo di tutta quell’improvvisa arrendevolezza, ma non riuscì. L’urlo di Davide, dal piano di sopra, lo travolse come una valanga, e Zlatan ebbe appena il tempo di realizzare cosa quell’urlo stava a significare, che portò le mani ai capelli e fissò suo figlio con aria allucinata.
- Pa’…? – lo chiamò Maxi, preoccupato, ma Zlatan scattò in piedi prima che potesse concludere la domanda.
- Dopo. – disse sbrigativamente, prima di interrompere la chiamata, - Mi faccio sentire io.
- Tu! – strillò Davide, apparendo dalla tromba delle scale e puntandolo con un dito come sembrava ormai uso in quella casa, - Tu sei- sei- un vecchio porco!
- Ti avevo detto di metterlo nel ripostiglio! – strillò a propria volta Zlatan, evidentemente a corto di argomenti, - Non in soffitta!
- Non è il punto della questione! – insistette Davide, prendendo a girovagare per il salotto, visibilmente turbato, - Diosanto, ma che cos’è?! – chiese, più al soffitto che a Zlatan stesso, - Un- Un androide, una statua di cera, lui imbalsamato?! Cosa cazzo è?! Cosa cazzo ci fa qui?!
- Davide- - cercò di spiegarsi Zlatan, ma l’uomo lo zittì con un’occhiata furiosa.
- Niente Davide! – ringhiò, - Cazzo, non hai rispetto! Per te sarà stato probabilmente solo un allenatore stronzo qualsiasi, uno da dimenticare subito dopo essertene andato da Milano, ma per me… - si interruppe, tirando su col naso e resistendo stoicamente alla voglia di chiudere gli occhi e lasciare le lacrime libere di scivolare lungo le guance coperte appena dalla barba cortissima, - per me è stato come un padre, Zlatan, e mi è praticamente morto fra le braccia. Tu non puoi nemmeno immaginare… - singhiozzò, passandosi una mano sulla fronte a tirare indietro la frangia caduta davanti al viso nella concitazione degli ultimi minuti. - …Qualsiasi cosa sia, fallo sparire. – Zlatan provò a replicare, ma Davide non glielo lasciò fare, preferendo concludere il proprio discorso. – Non voglio più vederlo e di certo non mi sposerò in una casa con dentro una roba del genere. – e lasciandolo sbigottito.
- …tu cosadovequando e perché?! – strillò inorridito, scattando all’indietro. Davide inarcò un sopracciglio, sospettoso.
- Oh, bene, se pensi di distrarmi dalla mia rabbia facendo finta di non sapere che tua moglie ha organizzato qui il matrimonio, sei completamente fuori strada. – sbuffò con un sorriso sarcastico.
- Io non fingo! – sbraitò Zlatan, gesticolando come un ossesso, - Non lo sapevo! Nessuno in questa casa si degna mai- oh, porca miseria! – realizzò quindi in un mugolio di dolore, portando le mani alla testa e ciondolando per casa in cerchi irregolari e confusi, - Ecco di cosa mi ha parlato Helena stamattina! Dannazione, dannazione! Ma sono un deficiente!
- Piantala di fare questa parte ridicola, Zuzu!
- Non chiamarmi Zuzu, sai?! Non in questa situazione di merda nata perché in primo luogo a te convivere non bastava, no!, tu vuoi adottare!, e ci sono possibilità maggiori se si fa parte di un nucleo familiare stabile e bla bla bla, perciò o matrimonio o morte!
- Il mio matrimonio – ribatté Davide, piccato, - non c’entra niente col fatto che tu sei un porco pervertito che tiene in soffitta una bambola gonfiabile a immagine e somiglianza di José!
- Oh, finiscila, non-
Finitela tutti e due. – li interruppe la voce seria e pacata di José. Si voltarono entrambi a guardarlo con evidente confusione negli occhi, e lo trovarono ai piedi della rampa di scale, un paio di pantaloni un po’ stropicciati e la camicia aperta sul petto quasi per metà, che si grattava la testa con un’aria a metà fra l’indispettito e l’assonnato. – Se anche fossi stato ancora morto e sepolto, con tutto questo casino avreste trovato comunque il modo di svegliarmi.
- …mister… - annaspò Davide, irrigidendo le braccia lungo i fianchi.
- Non sono una bambola gonfiabile, bambino. – lo apostrofò severamente, guardandolo dritto negli occhi, - Per quanto possa essere assurdo chiamarti ancora così a quest’età. E non sono neanche una statua di cera o qualche altra diavoleria simile, sono io.
- Sei vivo! – puntualizzò, la voce resa acuta dall’agitazione e dalla sorpresa.
- Non esattamente. – scosse il capo José, - Io e Zlatan non siamo ancora riusciti a capire cosa mi sia successo. Non che ci abbiamo veramente provato, in realtà. – scrollò le spalle, - Comunque sia, per adesso diamo per scontato il fatto che sono risorto. O qualcosa del genere. – sospirò, schiudendo le braccia ed atteggiando le labbra ad un sorriso tenero, - E che evidentemente potrò esaudire in un colpo solo entrambi i desideri che serbavo nei tuoi confronti.
Davide scattò sulle gambe svelto come avesse dovuto involarsi sulla fascia per portare un compagno a rete, seguendo l’ordine di quelle braccia spalancate come un imperativo categorico assoluto.
- Quali erano, mister? – chiese fra le lacrime, stringendoselo contro dall’alto della decina di centimetri che li separava.
- Vederti capitano. – rispose José con una mezza risata, - E vederti sposato.
Zlatan li guardò a lungo, crogiolandosi un po’ nell’offesa – perché lui restava Zuzu, ma José, nonostante gli anni, era rimasto il mister – e un po’ nella tenerezza. Lasciò vagare gli occhi oltre l’abbraccio di due delle persone cui tenesse di più al mondo, perché non voleva intromettersi in quello che sembrava un momento tanto intimo, e lo sguardo cadde sull’ampia finestra del salotto, quella che dava sul giardino principale, davanti al porticato.
- …e no, questo no, però! – strillò inorridito, spalancando la porta e correndo di fuori, - Accetto tutto, il matrimonio, il barbecue, perfino di fare da dannato testimone di nozze, per quanto ritenga tutto ciò una solenne quanto ridicola pacchianata, ma il gazebo arabeggiante in seta bianca decorato con disegni floreali nerazzurri no, perdio!
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Davide/Mario.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Fluff, Death, Slash.
- Siamo nel 2028. Zlatan Ibrahimović si è ormai ritirato dai campi, ma non
altrettanto dal calcio: adesso vive a Villa Ratti - magione che fu
precedentemente del suo allenatore - ed allena l'Inter, all'interno della quale,
tra gli altri, gioca anche il figlio del suddetto allenatore, José Jr., detto
Zuca. Fra calciatori che si sposano (fra loro), figli che litigano, giovani
calciatori indisciplinati con tanta voglia di farsi notare e gente che torna in
vita non si sa per quale motivo e non si sa in che modo, seguite Zlatan nel
calvario in cui l'autrice ha intenzione di trasformare la sua vita, e
divertitevi :D
Note: Questa fic – in realtà questo universo – si è completamente plottata da sola nello spazio minimo di una mezz’ora, basandomi solo e unicamente sul punto focale del fest per cui volevo scrivere. Halloween era il pretesto, mostrilli mostruosi il tema. Ho pensato “zombie”, e subito una serie di idee l’una più strampalata dell’altra hanno cominciato a presentarsi sul foglio senza nessuna soluzione di continuità, quasi alla rinfusa, tant’è che io stessa ho fatto fatica a mettere loro ordine e fare una cernita di ciò di cui potevo parlare in questa shot e ciò che invece avrei fatto meglio a lasciare per le successive. Perché sì, ce ne saranno di successive – almeno due. E quindi tutti i piccoli dettagli sparpagliati qua e là – i figli di Zlatan che giocano sparsi per l’Europa ed hanno un rapporto palesemente ambiguo, il figlio di José che gioca nell’Inter come attaccante, Davide capitano, lui e Mario in chiusura di carriera, lui  e Mario che si sposano XD Sono tutte cose che sono arrivate alla rinfusa. Io le ho prese e le ho ficcate tutte dentro al calderone – che, trattandosi di Halloween, fa anche atmosfera – e poi ho cercato di tirarne fuori qualcosa di buono, partendo comunque dal punto cardine imprescindibile attorno al quale ruotava tutta la trama: Zombie!José. O qualsiasi altra cosa egli sia.
Spero di esserci riuscita XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
WHO’S RETURNED FROM THE DEAD


All’alba dei propri quarantasette anni, Zlatan Ibrahimović poteva dirsi un uomo felice, sereno e soddisfatto della propria vita presente almeno quanto era orgoglioso di quella passata e colmo di speranze per quella futura.
Sollevandosi dal letto con un enorme sorriso a tirargli le labbra, anche quella mattina Zlatan si guardò intorno e compilò mentalmente l’elenco dei propri doveri: fare colazione con estremo comodo, rendersi presentabile e uscire di casa, per poi balzare in macchina diretto al centro sportivo di Appiano Gentile per il primo allenamento giornaliero, previsto per le dieci. Quindi – continuò ad elencare entrando in bagno e cominciando a lavarsi – attendere lì l’arrivo del presidente per pranzare insieme a lui e alla squadra prima del riposo e dell’allenamento pomeridiano, previsto per le quattro. Restare lì anche a cena, costringere i piccoli a mangiare le loro verdure, dribblare gli assalti di Davide per quella ridicola questione del volergli chiedere di essere il suo testimone di nozze, dribblare anche Zuca per quell’altrettanto ridicola questione del voler già rientrare in campo domenica prossima dopo l’infortunio al ginocchio e poi, finalmente, mollare il gruppo di squinternati per tornarsene a casa, salutare Helena con un bacio e poi assistere con estremo divertimento alla telefonata serale fra Maxi e Vinny, già abbondantemente fuori di testa per Juve-Chelsea del mercoledì successivo e bene intenzionati a suonarsele di santa ragione sul campo, per poi ovviamente rintanarsi nel primo angolo di spogliatoio appartato disponibile, scambiarsi un abbraccio fraterno, farsi qualche coccola e darsi appuntamento al prossimo incrocio di Champions. Dopodiché, finalmente, rintanarsi sotto le coperte e lì restare fino all’indomani mattina, in attesa di dover riprendere tutto da capo con lo stesso identico sorriso.
Sorseggiando il caffè un po’ annacquato di Helena, Zlatan accese la tv e si lasciò stordire dalle notizie del giorno, storcendo il naso e lasciandosi andare ad una smorfia disapprovante quando, nell’ambito del servizio dedicato alla recente legalizzazione dei matrimoni fra omosessuali in Italia ed a tutte le conseguenze del caso – il quinto in cinque giorni, sembrava che i telegiornali ci tenessero particolarmente a tenere un conto il più preciso possibile di tutte le coppie gay già convolate a nozze sul suolo italiano – il giornalista inserì qualche stralcio di un’intervista rilasciata da Davide qualche settimana prima, in cui l’uomo si diceva fiducioso riguardo l’esito delle votazioni in Parlamento e confessava di aver già preparato quasi tutto per il proprio matrimonio, laddove l’unico problema sembrava convincere il testimone di nozze a sacrificarsi in tal senso contro la propria volontà.
- Perché il mondo deve volermi male in questo modo? – si lagnò ad alta voce, mentre il frigorifero gli offriva un bicchiere di latte freddo che lui fu ben felice di accettare. – Mario. – chiamò poi ad alta voce, e nel giro di pochi istanti l’aria attorno a lui si riempì del rumore un po’ ovattato del telefono che componeva il numero di Mario, e poi del segnale della linea libera in attesa che qualcuno, dall’altro lato della cornetta, rispondesse.
- Pronto…? – si degnò di farsi sentire la voce di Mario, finalmente, dopo almeno una decina di squilli.
- Mario! – sbraitò Zlatan, sistemando il nodo alla cravatta davanti allo specchio del corridoio, - Dormivi?
- Nossignore! – scattò l’uomo, chiaramente appena sveglio, muovendosi confusamente in un frusciare di lenzuola supportato dalla colonna sonora dei mugolii sonnolenti e infastiditi di Davide al suo fianco, - Arriveremo in tempo all’allenamento, Zuzu, giuro.
- Punto primo, - riprese Zlatan in un lamento esasperato, - piantala con quel soprannome del cazzo. Punto secondo, sveglia il tuo uomo o l’allenamento non ve lo faccio neanche guardare dall’infermeria. Punto terzo- non ridere, testa di cazzo, punto terzo, io non sarò il vostro testimone di nozze, e piantala di ridere perché giuro che ti costringo al ritiro anticipato, sai? – si fermò, giusto per concedersi un sospiro stanco e massaggiarsi pietosamente le tempie. – Punto quarto, parla con Zuca. Non lo so, incatenalo a una branda, ipnotizzalo, gambizzalo, o comunque fa’ qualcosa. Il deficiente mi assilla perché vuole tornare subito in campo, ma il ginocchio non è ancora a posto, per cui, visto che pare ascoltare solo te, cerca di fare qualcosa di utile nella tua esistenza e fermalo.
Mario rise ancora, trattenendosi a stento.
- D’accordo, - rispose quindi, - ma non puoi stupirti del fatto che si comporti così. Voglio dire, suo padre…
- Mario. – lo interruppe, sospirando affranto e tornando stancamente in cucina, vicino all’apparecchio, per lasciar scivolare due dita sopra il tasto dell’interruzione di chiamata, come in una mezza carezza, - Non mi pare il caso di parlarne, al momento. – concluse, forzando un sorriso la cui debolezza era tanto evidente che Mario, dall’altro lato della città, fu costretto a deglutire, agitato. – A dopo. – lo salutò quindi, schiacciando il pulsante e lasciando nuovamente la casa al silenzio.
Si concesse di accarezzare con la memoria il ricordo antico ma mai sbiadito di José solo per qualche secondo, prima di mescolare ciò che restava del caffè con ciò che restava del latte, aggiungere un po’ di zucchero, mandare giù tutto in un colpo solo come fosse stata una medicina e poi indossare la giacca, diretto all’uscita. Aprì la porta col sorriso di nuovo sulle labbra – lo stesso sorriso che aveva preso in prestito da José in un bacio unilaterale l’ultima volta che l’aveva visto, da morto, e che per questo non aveva mai restituito – ma quello stesso sorriso si spense sulle sue labbra quando il ricordo antico ma mai sbiadito di José si rivelò non essere antico, né sbiadito, né tantomeno un ricordo: José, una mano sollevata e chiusa a pugno come nell’atto di bussare e le labbra dischiuse in un’espressione di puro stupore, lo osservava appena oltre la soglia, in piedi, sul patio di casa sua.
- …non ho sbagliato indirizzo. – disse, senza che nessuno gliel’avesse chiesto. La sua voce era esattamente identica a come la ricordava, l’accento portoghese pesante rendeva il suo italiano strascicato e sensuale, anche se ricordava un po’ il tono di un ubriaco pronto per crollare addormentato al primo angolo di strada disponibile. Zlatan deglutì, una mano ancora stretta attorno alla maniglia di ottone e l’altra pressata con forza contro lo stipite della porta, un po’ per reggersi, un po’ in un vano tentativo di porre una barriera fra l’ospite inatteso – ma chissà quanto indesiderato – e la propria casa.
Schiuse le labbra, comunque, ed ebbe bisogno di un po’ di tempo per formulare con ordine le parole adatte nella propria testa, prima di essere finalmente pronto ad esprimerle.
- Io invece credo di sì. – sputò fuori in un fiato, e subito dopo osservò i lineamenti di José cambiare repentinamente, esattamente come ricordava potessero fare vent’anni prima – Dio, vent’anni prima – per conferire al suo volto quell’aria disapprovante ma intimamente disinteressava che costituiva nei fatti la sua espressione severa.
- Non sei per niente diventato una persona migliore, dall’ultima volta che abbiamo parlato, zingaro. – lo rimproverò, costringendolo a spostarsi dalla soglia con un colpetto neanche tanto debole in pieno stomaco ed entrando in casa sua come fosse stata casa propria, - Offrimi un caffè.
- Farò tardi all’allenamento… - biascicò Zlatan, massaggiandosi il ventre ma richiudendosi comunque la porta alle spalle e dirigendosi comunque in cucina per azionare la macchinetta automatica, - Voglio dire, i ragazzi mi aspettano e… - i suoi occhi si sollevarono, dopo che ebbe posizionato due tazzine sotto gli erogatori dell’elettrodomestico, ed incontrarono quelli solo apparentemente più spavaldi di José, oscurati dallo stesso velo di incertezza che doveva offuscare anche i suoi. Si voltò per poterlo guardare più direttamente, appoggiandosi con un fianco al mobile come avesse bisogno di quell’appiglio per non cadere rovinosamente per terra, e poi si schiarì la voce. – Tu dovresti essere morto. – constatò seccamente, non con rabbia né con paura, solo con una certa praticità. D’altronde, José era sempre stato anche lui un uomo piuttosto pragmatico.
- Sì, questo me lo ricordo. – annuì, prendendo posto al suo tavolo. – Comunque non so se posso.
- Uh. – biascicò Zlatan, vagamente inebetito, - Cosa?
- Il caffè. – precisò José, indicando le tazzine già piene per metà, - Non so se posso berlo. Voglio dire, non so neanche esattamente come sia possibile che io mi trovi qui in questo momento, figurati sapere se posso bere o mangiare o chissà che altro.
Zlatan recuperò entrambe le tazzine e gliene porse comunque una, mentre si accomodava al suo fianco allo stesso tavolo.
- Cos’è che sei? – chiese quindi, fissandolo con curiosità quasi scientifica senza lasciarsi distrarre da quanto quel dialogo e quella situazione potessero essere oggettivamente allucinanti, - Intendo, un fantasma, uno zombie…
- Non lo so. – scrollò le spalle José, rigirandosi la tazzina bollente fra le dita, - Una cosa a metà, forse. Non sono trasparente e non passo attraverso i muri, ma non perdo neanche pezzi, non sono in putrefazione e non provo l’indomabile istinto di mangiarti il cervello. Secondo te cosa sono?
- Non ne ho idea! – rispose Zlatan, infastidito dal sarcasmo, - Uno stronzo, suppongo, ma quello lo sei sempre stato. – sbuffò, e José scoppiò a ridere, stendendo tutti i lineamenti e tornando perfino piacevole da guardare, - Comunque non puoi essere una cosa a metà, non ha senso.
- Ah, perché suppongo che, invece, se fossi un fantasma uno zombie, avrebbe molto più senso. – ritorse José con un sogghigno. – Suppongo di essere semplicemente resuscitato. – aggiunse quindi, con una scrollatina di spalle, - D’altronde, ho sempre creduto di essere divino, in qualche modo.
- José, fottiti. – ringhiò Zlatan, scattando in piedi e cominciando a muoversi nervosamente per la cucina, - È una cosa seria, voglio dire, se tu davvero sei tornato dalla morte… - si fermò all’improvviso, guardando la propria immagine riflessa nello specchio. – Ma che sto dicendo? Se tu davvero sei tornato dalla morte? Ma mi ascolto, quando parlo?! Non è semplicemente possibile! – quasi gridò, tornando a guardarlo con aria accusatoria, - Devo essere ubriaco.
José roteò gli occhi, restando seduto al proprio posto e sorseggiando il caffè. Zlatan lo osservò deglutire e poi si avvicinò per guardarlo bene da ogni parte, come aspettandosi di vedere il caffè scivolare all’interno del suo corpo come in trasparenza e poi magari cadere a terra, insozzando il pavimento pulito. Niente di tutto questo, ovviamente, accadde.
- No, direi che non sono un fantasma. Potrei ancora essere uno zombie, ma l’idea della resurrezione mi piace di più. Chiamami Gesù Cristo, da ora in poi, grazie. – ironizzò con un sorriso compiaciuto, e Zlatan tornò a sedersi, grugnendo stancamente e coprendosi il viso con entrambe le mani.
- Ma cosa diavolo sta succedendo…? – chiese a nessuno in particolare, massaggiandosi con forza la fronte e le guance, come a volersi risvegliare del tutto dopo un sogno particolarmente turbolento, - Questa cosa non può essere vera.
- Io sono del parere che bisognerebbe considerare come vere solo le cose che accadono realmente sotto i nostri occhi. – obiettò José, facendo schioccare la lingua infastidito, - Intendo, se vent’anni fa mi avessero detto che ti avrei trovato in questa villa… - rise un po’, indicando con un cenno del capo le stanze di Villa Ratti in ordinata esposizione lungo il corridoio a pochi metri da loro, - non ci avrei mai creduto. E invece guardati, sei qui e… cos’è che fai, esattamente?
- …alleno. – rispose lui, lasciandosi ricadere le braccia lungo i fianchi, - L’Inter.
José spalancò gli occhi strabiliato.
- Tu al- - riuscì appena a balbettare, prima di scoppiare a ridere piegandosi perfino in due e pressandosi un braccio contro lo stomaco, - Tu alleni l’Inter? Alleni l’Inter e poi vieni a dire a me che è impossibile che io sia resuscitato? Perdonami, ma fra le due cose il fatto che tu stia allenando questa squadra mi sembra perfino più improbabile.
- Ah, sì? – quasi ghignò Zlatan, incrociando le braccia sul petto, - E, nella tua personale scala dell’improbabilità, io che alleno l’Inter nella quale gioca anche tuo figlio su che gradino si colloca, più o meno?
José smise immediatamente di ridere, portando gli occhi scuri a cercare quelli di Zlatan.
- Scherzi. – tentò.
- Affatto. – sorrise Zlatan, e poi sospirò, condiscendente. – Dovessi farti un elenco di tutte le cose che sono cambiate, suppongo che ti verrebbe un infarto e moriresti di nuovo. Per non parlare di quelle che invece sono rimaste uguali.
José gli lasciò scorrere gli occhi addosso, forzando un sorriso.
- Il mio cuore non batte. – gli fece notare, - Dubito che potresti fare peggio di così.
Zlatan abbassò gli occhi, serrando le labbra e restando a lungo in silenzio, prima di passarsi stancamente una mano sulla fronte e sospirare.
- Questa dev’essere una maledizione. – biascicò, - Qualcosa tipo “e al compimento del tuo quarantasettesimo anno di vita, riceverai la visita del tuo ex allenatore, che porterà sventura su te e sulla tua casa”. Sei l’angelo della morte, José? Sei qui per dirmi che farò la tua stessa fine?
- Mi pare improbabile che un fanatico possa spararti dagli spalti del Bernabéu dopo la vittoria della Champions. – lo prese in giro, cercando i suoi occhi e tirando sulle labbra un sorriso quasi tenero, - Mi pare improbabile anche che tu possa vincere una Champions, fra le altre cose.
- L’ho già vinta. – ribatté Zlatan, stizzito, - L’anno scorso, al mio primo anno qui all’Inter.
- Davvero? – rise José, più genuinamente divertito che realmente deluso per la notizia, - Mi sa che avevi ragione.
- Su cosa? – chiese Zlatan, inarcando un sopracciglio.
- Sulla mia scala dell’improbabilità. – rispose José, annuendo, - Probabilmente è una stronzata.
- Io non ho detto niente sulla tua scala dell’improbabilità. – precisò Zlatan, sbuffando sonoramente.
- No, ma l’hai lasciato intendere. – rise ancora José, avvicinandosi a lui strisciando la sedia sul pavimento, - E credo che avessi ragione. Adesso mi dirai che Davide gioca ancora nell’Inter e- no, anzi! Mi dirai che Davide è il capitanodell’Inter, e che lui e Mario stanno per sposarsi.
Zlatan spalancò gli occhi e dischiuse le labbra, guardandolo come se – oltre ad essere risorto – fosse appena diventato blu sotto il suo stesso considerevole naso.
- In effetti- - provò a balbettare, ma José lo fermò con una risata tonante delle sue – di quelle che a ragione giustamente credeva non avrebbe mai più sentito.
- Questo lo so che è vero. – disse con aria furba, ghignando apertamente, - L’ho letto sulla Gazzetta mentre venivo qui.
- …hai comprato la Gazzetta? – fu tutto ciò che riuscì a chiedere Zlatan, sempre più sconvolto, - Cioè ti sei fatto vedere in giro e hai comprato la Gazzetta?! Tu sei morto vent’anni fa! – puntualizzò, spalancando le braccia in un gesto a metà fra il rassegnato e l’esasperato.
- Non credo che l’edicolante mi abbia riconosciuto, Zlatan. – sospirò lui, - E se l’ha fatto, si sarà giustamente detto che era una cosa impossibile, come d’altronde stai facendo tu adesso, e mi avrà archiviato nella propria memoria alla voce “sbalorditive somiglianze” o, peggio ancora, alla voce “inspiegabili allucinazioni”. Ma – continuò con un altro ghigno, stavolta meno compiaciuto, - sono più propenso a credere che non mi abbia riconosciuto affatto. Probabilmente, se anche gli avessi detto “salve, buon uomo, sono José Mourinho di ritorno dalla morte”, mi avrebbe guardato e mi avrebbe detto “e quindi?”. Si fa presto a dimenticare i morti, no?
- No. – rispose seccamente Zlatan, stornando lo sguardo e mandando giù il proprio caffè, giusto per darsi qualcosa da fare. – No, direi che, fra tutte le stronzate che hai detto da che sei apparso alla mia porta, questa è la peggiore in assoluto.
José sorrise – un sorriso a bassa frequenza, appena intuibile sul suo volto, quasi per nulla percettibile nell’aria – e si alzò in piedi, fronteggiando Zlatan da un’altezza alla quale s’era difficilmente trovato, quando era ancora vivo.
- Forse è meglio che io vada via. – propose, senza smettere di sorridere.
- E dove vorresti andare? – chiese Zlatan, in uno sbuffo condito da una risatina sarcastica, - Sei morto. Vuoi, che ne so, affittare una casa? Andare a trovare tua moglie, rivedere i tuoi figli, dire a Zuca che è una piaga sociale e dovrebbe pensare a recuperare l’infortunio al ginocchio invece di rompere le palle per tornare subito a giocare?
José rise divertito, e la sua risata riecheggiò in tutte le stanze della casa, raggiungendo le orecchie di Zlatan in un brivido dolce e nostalgico che lo scosse fin nel profondo, costringendolo ad un sorriso di reazione.
- Non lo so, dove andrò. Ma penso che sia meglio non rivedere gli altri. Insomma, guarda tu come hai reagito, - commentò, battendogli una pacca amichevole sulla spalla, - e tu sei solo Zlatan. Intendo, immagina cosa-
- Non dirlo. – lo interruppe Zlatan, guardandolo con aria quasi implorante, mordendosi un labbro, - Non dire che sono solo Zlatan, io… - abbassò lo sguardo, avvicinandosi impercettibilmente e poi, altrettanto impercettibilmente, ritraendosi. – Quando tu sei morto… voglio dire, i tuoi funerali sono stati a Setúbal, io sono venuto. Sono entrato nella camera ardente, durante la notte di veglia. – trattenne il respiro, tornandogli vicino, - Quando Tami mi ha visto, mi si è stretta contro ed ha pianto sul mio petto come se fossi- non lo so, suo fratello o il suo migliore amico, e io lì – rise un po’, imbarazzato, - io lì ho capito quanto fossi vicino a lei e a tutta la tua famiglia, e poi ti ho visto lì nella tua bara e… - trattenne il respiro, guardandolo negli occhi, - …Tami mi ha lasciato solo con te, dopo un po’, e io- - non riuscì a concludere il suo monologo, perché José annullò i pochi centimetri che ancora li separavano e si sporse a pressare le labbra contro le sue, restando lì, sospeso in un momento fra certezza e incertezza, abbastanza a lungo da farsi sentire, ed imprimere quella sensazione nella memoria di Zlatan. Labbra calde, con un sapore, labbra vive.
- Lo so. – disse allontanandosi, pochi istanti dopo. – Quello lo ricordo. Non so come, - aggiunse con un sorriso, - ma lo ricordo.  – e poi sospirò, infilando le mani in tasca e ristabilendo le giuste distanze fra i loro corpi. – Comunque, vado. – annuì decisamente, più per confermare l’idea nei propri stessi confronti che per ribadirla in quelli di Zlatan, - È decisamente meglio così.
Zlatan lo osservò voltarsi e muoversi con una sicurezza quasi eccessiva verso la porta, deglutendo faticosamente. Cercò di tacere mentre José poggiava due dita sulla maniglia e pressava, schiudendo l’uscio, ma non riuscì a trattenersi oltre quando, in un gesto involontario, tirò fuori la lingua per inumidirsi le labbra asciutte. E vi trovò sopra il sapore di José.
- No, senti… - lo fermò frettolosamente, correndogli dietro e tirandolo nuovamente all’interno della casa, chiudendosi subito la porta alle spalle, - Non andare.
- Zlatan, - cercò di obiettare José, - mi sembrava di averti spiegato-
- Non importa. – scosse decisamente il capo lui, - Non mi importa di chi ti vedrà, di cosa succederà quando ti vedranno né di un fottuto cazzo di resto. Non mi importa nemmeno della possibilità che- - rise un po’, a fatica, - che tutto questo sia un sogno, che ne so, o che tu possa sparire la prossima volta che chiuderò gli occhi. – la sua mano, ancora ferma sulla sua spalla, scese lungo il suo braccio e si fermò a stringergli una mano. – Resta. Okay? E non dirmi no. Resta e basta.
José schiuse le labbra, guardandolo per qualche secondo senza sapere nemmeno come rispondere.
- E non t’importa di non sapere nemmeno se sono uno zombie, un fantasma o sono resuscitato davvero? – chiese alla fine, con un sorriso piccolissimo.
Zlatan scosse il capo.
- Però m’importa che tu possa mangiare. – annuì convinto, recuperando la giacca ed infilandola sbrigativamente, - Perché voglio invitarti a pranzo.
José rise – finalmente, di cuore, e che battesse o meno a quel punto non era poi così importante – e lo seguì all’esterno della villa, verso la macchina. Avrebbe constatato sulla strada se avesse ragione o meno, riguardo alla possibilità di essere stato dimenticato del tutto.
Genere: Commedia.
Pairing: *prende fiato* José/Zlatan/Davide/Mario/Adriano/Douglas/Ivan/Julio/Marco/Dejan/Cristian.
Rating: R?
AVVERTIMENTI: Slash, Flashfic, Elevensome, Crack vario ed eventuale, penso.
- Questa non è una fanfiction, è la trasposizione narrativa del Tetris.
Note: Io ho ancora delle oggettive difficoltà a capire come tutto ciò sia potuto succedere X’D Ricordo che Gra ha indetto questa challenge che aveva come obiettivo scrivere una storia sul rapporto di tre persone, o comunque un gruppo dispari di gente. Fiore ha quindi commentato il tutto dicendo qualcosa tipo “dillo che in realtà l’hai fatto perché vuoi che Liz scriva una 11some con tutta la formazione!” XD Sono seguiti commenti di chiunque – tra Fae scioccata, Chià che la chiedeva a gran voce e Gra che aggiungeva il proprio “potrei davvero averlo fatto apposta”, e insomma, mi sono sentita sfidata nel mio onore di fanwriter (?), perciò l’ho fatto. Una 11some. o_o Meriterei dei premi. E di essere rinchiusa, anche, e presto.
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ELEVEN'S A CROWD
Commedia @ Fanworld.it Pigiama Party
La Solitudine dei Numeri Dispari @ Gracalling


Già confuso ma fermamente intenzionato a non farsi abbattere dalle oggettive difficoltà della scena che gli si presenta davanti, José solleva lo sguardo ed incrocia le braccia sul petto nudo.
- Dunque. – comincia con fare competente, - Tutto quello che ci serve è un po’ di organizzazione.
Zlatan, steso sul letto al suo fianco e con addosso solo un angolo di lenzuolo, scoppia a ridere, mentre il resto dei nove undicesimi presenti si guarda intorno con aria vagamente imbarazzata.
- Non per porre un freno ai tuoi sogni di gloria, - contesta lo svedese con un ghigno furbo, - ma in una situazione simile non puoi mica adottare uno schema e risolvere così. Com’è, proviamo col classico albero di Natale? Quattro-tre-due-uno? Uno con dietro due con dietro tre e via così e tu guardi dal bordo del letto agitando le braccia come un indemoniato?
José si volta a guardarlo con aria omicida, borbottando un “be’, nessuno ti ha costretto a venire!” inviperito che si perde in parte tra le continue risate di Zlatan ed in parte fra le lamentele di Dejan.
- Sì, ma così non è giusto! – sbotta il serbo, mettendosi a sedere sul letto con le gambe e le braccia incrociate, neanche fosse un dodicenne offeso, - Mario si tiene Davide tutto per sé!
Per tutta risposta, il ragazzo ringhia, stringendosi contro il compagno.
- Io non volevo nemmeno venire! – motiva spiccio, - Mi ha costretto Davide, ha quella cosa che… - e naturalmente, in mezzo al suo lamentarsi continuo, Davide sorride con un’innocenza indecente in maniera quasi disturbante, e quindi tutto il gruppo è obbligato a prendere atto del fatto che sì, Davide ha quella cosa che e non è possibile sfuggirgli. Il secondo dopo, ci sono solo mani che si allungano verso di lui e labbra che cercano le sue. Davide risponde a tutti con un sorriso allegro dipinto sulle labbra piene, Mario prova a contrastare l’attacco mordendo dita a caso quando gli capitano a tiro, ma si stanca presto, perché Davide geme e, ad esempio, il solo vedere il suo corpo snello e asciutto schiacciato fra quelli decisamente più massicci di Deki e Marco, mentre Christian gli stuzzica il collo con la lingua, lo manda fuori di testa.
Adri, steso sul materasso, il capo poggiato contro il ventre di Zlatan che si solleva e si riabbassa al ritmo del suo respiro, ride, e la sua risata si riflette nella voce dello svedese, costringendoli entrambi a sobbalzare un po’. José li odia entrambi e li fissa con disapprovazione.
- Non ti arrabbiare, mister, constatavo solamente che paiono cavarsela alla grande anche senza la tua direzione. – lo prende in giro il brasiliano, tirando fuori la lingua. Zlatan ne approfitta per chinarsi e rubargli un bacio, e José scuote il capo, rassegnato.
- Oh- Ahi! – si lamenta qualcuno alle loro spalle, ed è Douglas. – Il ginocchio in mezzo alle chiappe no, Ivan, fa male! Sta’ attento!
- Tanto presto arriverà qualcosa di peggio. – commenta pratico Julio, battendo una pacca amichevole sulle spalle del connazionale prima di ribaltarlo sul materasso e voltarsi verso l’altro, - Dai, proviamo così, che qua se aspettiamo direttive restiamo immobili fino all’anno prossimo.
- Ma nessuno qui si fida della mia autorità ed esperienza sul campo?! – borbotta José, incredibilmente offeso. Zlatan, tanto per cambiare, ride di lui.
- Non hai nessuna delle due cose. – gli fa notare.
- Però hai qualcos’altro di decisamente più interessante. – commenta Adriano con un sorriso malizioso, avvicinandoglisi. José solleva gli occhi al cielo in cerca del Dio che lo precede ed al quale probabilmente vorrebbe chiedere perché gli abbia dato un appetito sessuale tale da provare ad organizzare un incontro fra una quantità di persone simili – e similmente fuori di testa – ma tutto ciò che trova è il soffitto e da qualche parte ci sono le labbra umide di Adriano che giocano lievissime sulla sua pelle, perciò lascia perdere le preghiere e socchiude gli occhi, respirando piano.
Zlatan sorride compiaciuto e si unisce al gioco, pensando che su quel materasso enorme sono tutti vicinissimi, e quindi forse in realtà un po’ di organizzazione non serve nemmeno: lo schema di gioco più adatto, lo troveranno sul campo.
Genere: Comico.
Pairing: Zlatan/José, un minimo di Davide/Mario, se proprio vi ostinate a volercelo vedere.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Parodia, Slash.
- Roberto Scarpini è emozionato: finalmente José Mourinho s'è concesso ai microfoni di Inter Channel, e per ben dodici minuti! Se non che...
Note: Storia assurda nata in chattina come solo le storie assurde possono nascere in chattina XD Stavamo guardando alcuni filmati di interviste recenti del Mou – o meglio: io guardavo e riferivo in chattina la straniante verità per la quale quando chiedi al Mou qualcosa, su qualunque argomento dello scibile umano, lui trova un modo per ricondurla a Zlatan. Quindi io ero lì che ironizzavo dicendo “eh, il Mou va in mensa, la signora gli chiede cosa vuole da mangiare e lui attacca a parlare di Ibra…” e qualcuno (credo Fae) disse “al povero Zlatan fischieranno continuamente le orecchie”. Ed io ho aggiunto “sì, e starnutirà anche di continuo”. Che, per chi non lo sapesse, sono le due cose che, nella tradizione popolare, indicano che qualcuno sta parlando di te da qualche parte nel mondo.
Poi non saprei dire in realtà come ci sia caduto dentro Scarpini °_° Cioè, immagino dipenda dal fatto che quell’intervista l’ha fatta lui, ma potevo anche risparmiarglielo. E invece no. *sospira*
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CAUGHT A LITE SNEEZE


Quando Scarpini si presenta in albergo, Boston è tutta un rombare di automobili e ticchettare di tacchi femminili e strisciare di scarpe da tennis e urlare di venditori ambulanti e tutto un altro milione di rumori molesti che naturalmente lui non sente neanche per sbaglio, perché se solo fosse un tantinello più leggero fluttuerebbe sicuramente a mezz’aria, tanta è la gioia che prova in vista della prima intervista ufficiale di Mourinho ai microfoni di Inter Channel. Perciò, di tutti i rumori molesti di cui sopra lui non ne sente nessuno: il verso di Boston è il cinguettio degli uccelli, il canto melodioso delle ragazzine che vanno al mare e lo scampanellare felice del baracchino dei gelati all’angolo, fine.
La hall sarebbe praticamente deserta, non fosse per Mario e Davide che stanno in un angolo a perdere tempo. Roberto sorride, perché coi ragazzini ha un bel rapporto, e si avvicina, notando nel mentre che Davide ha un broncino molto dolce che gli piega le labbra in una smorfia infantile e Mario, per tutta risposta a quella maschera di tenera offesa, sta ridendo come un deficiente, pressandosi entrambe le mani sul ventre e piegandosi in avanti, molleggiando sulle gambe per non perdere l’equilibrio e mettersi a rotolare sul pavimento.
- Che succede? – chiede, mentre le risate di Mario cominciano a contagiarlo, - Successo qualcosa di buffo?
- Sì! – risponde subito Mario, salutandolo con un’amichevole pacca sulla spalla, - Il deficiente qui s’è di nuovo tirato addosso tutto il succo alla ciliegia! – lo prende in giro, mentre Davide cerca invano di coprire un’evidente macchia rossa in centro e rosata ai bordi, proprio lì nel bel mezzo del cavallo dei pantaloncini bianchi – ed è già il secondo paio che distrugge irrimediabilmente in questo modo.
- Mario! – cerca di rimproverarlo il giornalista, con poca convinzione, visto quando sta ridendo a propria volta mentre il povero Davide, rosso in viso come un pomodoro, distoglie lo sguardo, - Non si prendono in giro i compagni!
- Ma scusa! – continua a ridere Mario, afferrando Davide con un braccio attorno al collo e tirandoselo contro per scompigliargli amichevolmente i capelli, - È lui che se le tira dietro, le prese per il culo!
Davide lo guarda come volesse fare una pessima battuta, e Roberto è molto felice che lui non la faccia, nel momento in cui lo vede sospirare, abbassare lo sguardo e scuotere la testolina castana, rassegnato.
- Com’è che sei qui? – chiede invece, rivolgendosi a lui e cominciando sistematicamente ad ignorare Mario, che ovviamente parte subito ad inquietarlo nei modi più assurdi, tipo cercando di ficcargli le dita fra le costole o mollargli pizzicotti illegali lungo i fianchi e le cosce.
- Ho un’intervista col Mou. – risponde Roberto, gonfiandosi come un galletto, - Ho un sacco di domande e mi ha concesso ben dodici minuti. Non vedo l’ora!
Mario smette subito di infastidire Davide e si irrigidisce come una sarda salata nella propria scatoletta, guardando il giornalista dapprima con sincero stupore – come lo stesse vedendo per la prima volta – e poi con un’aria accigliata che non promette nulla di buono. Il secondo dopo, sta già allontanandosi a passo marziale verso l’uscita dell’albergo, borbottando maledizioni incomprensibili probabilmente in ghanese, sempre ammesso che lo conosca.
Davide sospira e Roberto lo guarda curiosamente, una domanda palese negli occhi.
- Ce l’ha col mister. – spiega il difensore, occhi al cielo e tono lamentoso, - Oggi l’ha chiamato Ibra durante un’azione.
Il che, riflette Roberto, non senza un certo stupore, dovrebbe sembrare molto più assurdo di quanto già non sia. Come si fa a chiamare un giocatore con un altro nome durante un’azione di gioco? È come chiamare qualcuno col nome del tuo ex quando… ma è un argomento che Roberto non vuole davvero approfondire, perciò scuote il capo e lascia andare una risatina un po’ imbarazzata, mentre Davide riprende a parlare.
- A questo proposito, non aspettarti di riuscire a cavare un ragno dal buco, per tutte le tue domande, perché il mister ultimamente è un po’ in fissa.
Roberto gli risponde con un’occhiata da triglia confusa, inclinando lievemente il capo nell’ottima imitazione di un cane che non abbia ben capito cosa voglia da lui lo strano essere umano che gli agita davanti agli occhi un bastoncino dal dubbio valore artistico o nutrizionale.
- In che senso? – chiede, cercando di esprimere le proprie perplessità il più chiaramente possibile, di modo che anche un ragazzino il cui hobby è sporcarsi i pantaloni di succo alla ciliegia possa capirlo senza fraintendimenti di sorta: l’appuntamento col mister è fra poco meno di dieci minuti e lui vuole arrivare preparato, qualsiasi sia il problema.
- Nel senso che… non è che ne sia uscito proprio benissimo, da questa cosa di Zlatan. – riflette Davide, dubbioso, cercando nella memoria esempi da fornire al giornalista disorientato, - Per dire, ieri stavamo in mensa, no? E la cuoca, che è ‘sta signora con un paio di tette allucinanti, che te le raccomando, veramente, sono grandi come due panettoni e le tiene sempre… va be’, comunque, la signora gli fa “Mister Mourinho, carne o pesce?” e lui “A Zlatan piaceva tanto il pesce”, con tipo un’espressione vacua.
- Vacua? – chiede Roberto, sempre più confuso.
- Vacua, vacua! – insiste Davide, annuendo con sicurezza, - Come il pesce che ti guarda dall’acquario aprendo e chiudendo la bocca, ma più malinconico. Un pesce triste.
- Un pesce triste. – ripete Roberto, come se il ripeterlo servisse a dargli senso, mentre un senso probabilmente nemmeno esiste.
- Esatto. – annuisce ancora Davide, - Volevo dirtelo per spiegarti che non puoi pensare di avere con lui una conversazione normale, al momento. Per dire, la signora alla fine mica ha ricevuto risposta. Ha chiesto di nuovo “carne o pesce?” e il mister era perso in chissà che pensieri e ogni tanto ripeteva “cinquanta milioni… potevo vendere la Lamborghini”, ed è dovuto intervenire il signor Baresi che ha risposto “carne, perdio, carne” al posto suo, sennò restavamo tutti in fila come dei cretini fino all’indomani, eh.
- Oh. – deglutisce confusamente Roberto, annuendo appena. – Credo di capire.
- No. – scuote teatralmente il capo Davide, - Non puoi capire finché non vedi di persona. Per renderti conto di quanto è profondo l’abisso, devi guardarlo dal ciglio del burrone. – lo avverte con aria tetra, e Roberto indietreggia di qualche passo.
Okay, la partenza di Ibra deve aver mietuto più vittime di quanto pensasse.
- E ora scusami, – lo liquida Davide con un breve cenno del capo, - devo andare a recuperare Mario prima che si chiuda in qualche bagno a piangere perché il mister non lo ama e non vuol dargli il dieci prima dell’anno prossimo. – aggiunge con un altro sospiro rassegnato. Per la prima volta da quando gioca coi titolari, Roberto è contento di vederlo andare via.
Dopodiché, cerca di lasciarsi tutta questa palese follia alle spalle e, rinvigorito al solo pensiero di rivedere finalmente il mister per parlare con lui faccia a faccia, si dirige trotterellando verso la sala ricreativa all’interno della quale il set per l’intervista è stato preparato. Il mister, come al solito, sfoggiando grande professionalità, è già lì.
Solo che Roberto comincia ad averne paura nel momento esatto in cui gli posa gli occhi addosso e vede disegnarsi sul suo viso un’espressione così estatica e felice da essere possibile solo in caso di pesante uso di droghe. O antidepressivi. O alcool. O tutte e tre le cose insieme.
- Mi-Mister…? – lo chiama incerto, deglutendo pesantemente.
- Sìììì? – chiede José, voltandosi verso di lui con un gesto fluido e immediato del solo collo, terrorizzandolo a morte, - Oh, ciao, Roberto. – e il giornalista può quasi sentire dei cuoricini rosa librarsi dalle note calme e soavi della sua voce, per esplodergli tutti intorno come lievissime bolle di sapone, - Che piacere rivederti.
- Mister, la… - accenna lui, sempre meno sicuro di aver avuto l’idea del secolo a prenotare quell’intervista così presto, - la trovo… bene, credo.
- Oh, sto benissimo. – annuisce José, sorridendo felice come un bambino, chiudendo gli occhi, schiudendo le labbra e piegando lateralmente il capino brizzolato, - E tu? Ti piace l’America?
- La… uh, sì, suppongo. – balbetta, grattandosi la fronte con aria persa. – È sicuro di voler…
- Ma naturalmente, naturalmente! – lo invita José, allontanando un po’ la sedia ed indicandola perché lui possa prendere posto, - Cominciamo pure quando vuoi.
Roberto si siede e tira fuori il blocchetto con le domande appuntate in pessima calligrafia sulla prima pagina vuota disponibile, e si dice che d’accordo, magari è un po’ strano, ma almeno non sta parlando ossessivamente di Ibra come da Davide così tremendamente profetizzato, perciò può anche andare bene, forse, tutto sommato.
- Be’, allora… entriamo subito nel vivo! – comincia scoppiettante Roberto dopo un breve cenno d’intesa scambiato col cameraman, - Parliamo subito di Eto’o. Bel giocatore, eh?
- Be’, be’, sì. – ride José, vagamente imbarazzato?, spostandosi sulla sedia per mettersi più comodo, - Naturalmente Ibra era un’altra cosa. – e Roberto non ha il tempo di spiaccicarsi una manata depressa sulla faccia, che il mister si lancia nella dichiarazione d’amore del secolo. – Ibra era più un attaccante di riferimento, capisci cosa intendo?, gli piaceva inventare, aveva fantasia, costruiva, prendeva palla, era veloce… - si ferma un secondo, come cercando di ricordare di cos’è che dovesse parlare prima di cominciare a blaterare di tutt’altro. Roberto lo guarda allusivo, cercando di ricordargli telepaticamente che è di Eto’o che dovrebbe discutere, e José sembra capire, sorride e aggiunge – Eto’o è completamente diverso. – prima di chiudere la discussione con un altro sorriso infantilmente felice.
- Ehm… sì. – annuisce Roberto, a disagio, - Naturalmente. E… insomma… come… come ha visto l’acquisto di Milito e Motta? Come si stanno comportando i due giocatori? – per la verità, subito dopo la domanda su Eto’o c’era una domanda che chiedeva un parere circa il trasferimento di Ibra, ma a conti fatti meglio evitare.
José riflette un po’, prima di rispondere, cosa che dà modo a Roberto di illudersi della possibilità di avere una risposta che abbia effettivamente un senso.
- Ti dirò la verità, - comincia José, e un coro di cherubini comincia a cantare l’alleluja nella testa del giornalista, - sono due ottimi giocatori, ma sono stanchi morti. – e Dio in persona si unisce ai cherubini in un’improvvisazione hard rock dell’Osanna, - È dura abituarsi ai nostri ritmi di lavoro. – continua il mister con un sorriso, e la Vergine in persona balla la lap dance ai cancelli del Paradiso. E poi tutto crolla inesorabilmente nel buio. – Niente a che vedere con quanto era elastico e pronto Ibra di fronte a qualsiasi cambiamento gli si presentasse.
- …si capisce. – si abbatte Roberto, guardando con aria pietosa il cameraman che, dietro la telecamera, risponde con un’occhiata ugualmente pietosa e una solidale scrollatina di spalle. – D’accordo, mister. – sospira alla fine Roberto, rassegnato: dal momento che continua ad ottenere risposte assurde a domande tutto sommato intelligenti-barra-interessanti, tanto vale fare l’unica domanda alla quale Mourinho sembra essere quantomeno predisposto. Sia mai si riesca a cavarne qualcosa di buono. – Cosa può dirci in merito al trasferimento di Ibra al Barça? Si sente molto la sua mancanza, in questi ultimi giorni di ritiro?
Il viso del mister, per un secondo, si fa di pietra, cristallizzandosi – in modo invero inquietante – su quell’espressione di beata spensieratezza che l’ha contraddistinto da quando lui e Roberto si sono incontrati. Poi all’improvviso tutto cambia, le sue sopracciglia si inarcano verso il basso, le sue labbra si contraggono in una smorfia triste e i suoi piccoli ma espressivi occhi scuri si riempiono di una luminosità che sarebbe perfino tenera e romantica se, nel contesto attuale, non fosse anche del tutto fuori luogo.
- …perché ha dovuto farlo?! – sbotta quindi il mister, portandosi le mani ai capelli e saltando in piedi come un invasato, - Perché mi ha lasciato?!
- Mi-Mister?! – chiama allarmato Roberto, chiedendosi se il cameraman stia ancora filmando e stabilendo il secondo successivo di non volerlo davvero sapere, - Che succede?! – e soprattutto, perché quest’intervista sembra destinata ad avere solo risposte assurde che non vogliono dire niente e per le quali niente di tutto questo potrà mai finire in televisione senza prima passare sotto una devastante sequenza di taglia e cuci in post-produzione?!
- Dimmi perchééééé! – insiste José, afferrandolo per il bavero della polo e scuotendolo con una certa enfasi, - Gli ho dato tutto quello che ha chiesto! Anche cose che-
- Mister!!! – cerca di fermarlo Roberto, disperato, e fortunatamente in quel momento Mario e Davide fanno irruzione in sala.
- Mister! – lo chiamano con una sincronia non meno inquietante di tutto il resto.
- È successo di nuovo. – sospira Mario, avvicinandosi a José, che nel mentre s’è accasciato in un angolo e sta mormorando qualcosa a proposito di un ultimo preservativo ancora conservato in qualche luogo di cui Roberto decisamente non vuole conoscere l’ubicazione.
- Robi, - lo chiama Davide, esasperato, - non gli avrai mica chiesto direttamente di Ibra?
- Be’, sì! – cerca di darsi un contegno Roberto, visibilmente scosso, - Sembrava intenzionato a parlare solo di lui, perciò ho pensato… ho pensato…
- Hai pensato male! – sbraita Mario, tirandogli addosso un microfono che fortunatamente finisce sul fondo della sala senza uccidere nessuno. – Coraggio, coraggio. – lo sente cinguettare poi il giornalista, mentre torna a chinarsi su José, cullandolo come un padre, - È passata, è passata.
Davide sospira ancora, allargando le braccia in segno di resa.
- Te l’avevo detto, io. – sbotta rassegnato, - Non ne è ancora venuto del tutto fuori.
*
Frattanto, dall’altro lato dell’oceano Atlantico, Zlatan Ibrahimović vive un attimo di confusione nel momento in cui, improvvisamente, il suo corpo decide di ribellarsi al suo comando e lui si ritrova con le orecchie che fischiano e uno starnuto che pressa per uscire dal fondo di un naso irrimediabilmente irritato. Fa appena in tempo a coprirsi la bocca, prima di starnutire rumorosamente, obbligando il suo nuovo allenatore a voltarsi per guardarlo con aria un po’ confusa.
- È tutto a posto? – chiede Pep, facendoglisi più vicino e mollandogli una pacca amichevole sulla spalla, - Non ti farai mica venire il raffreddore appena arrivato, mh? – ironizza prendendolo in giro.
- Ma no, ma no… - abbozza un sorriso Zlatan, scrollando le spalle e dirigendosi verso la sala in cui lo aspettano i medici, per le prime visite, mentre Mino, al suo fianco, gli porge un fazzoletto per asciugare il naso, - È stato solo un momento di confusione. È già passato.
Genere: Generale.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José, Davide/José (onesided).
Rating: R
AVVISI: AU, Slash.
- Mario fa entra ed esci dall'orfanotrofio da quando aveva due anni. Nessuna famiglia sembra riuscire ad accoglierlo nel giusto modo, e perciò non vede perché dovrebbe essere diverso, stavolta. Solo che lo sarà. Lo sarà eccome.
Note: ;___; Commozione, è finita!!! Voi non potete capire cosa vuol dire per una donna come me – una che le storie sa (quasi) sempre quando le comincia ma mai quando (e se!) le finisce – riuscire a concludere una fic a capitoli. In un tempo prestabilito, poi, e senza sbavature! Sette settimane, ci ho messo, e mai un ritardo. E amo oggi questa famiglia di disastrati esattamente quanto l’amavo il primo giorno, perché piano piano ho imparato a conoscerli assieme a Mario. E nonostante il finale tremendo (me lo dico da sola ._. Odiatemi) mi resteranno sempre nel cuore. *sparge affetto*
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NEW COLORS TO PAINT THE WORLD
lady in red

La signora è vestita di rosso, quando arriva all’orfanotrofio. Assieme a lei c’è un uomo che, al suo fianco, sembra altissimo, anche se in realtà può vantare al massimo un metro e settantacinque d’altezza, qualcosa di più forse, qualcosa di meno probabilmente, Mario non è mai stato granché bravo con questo tipo di stime, anche perché è cresciuto molto in fretta ed è diventato altissimo altrettanto frettolosamente, perciò ha perso il senso della misura da qualche parte fra i quindici e i sedici anni. Alla fine di tutte le considerazioni, non saprebbe dire se l’uomo in questione sia basso davvero o gli sembri tale solo perché è più basso di lui, tutto ciò che sa è che è con la signora e che la signora è vestita di rosso, ed è bellissima. Non una bellezza canonica, non di quelle che vede sui giornali e non certamente di quelle con cui si concede di uscire ogni tanto – le altre ragazzine dell’orfanotrofio, sedicenni e diciassettenni fasciate in jeans e top aderenti, che gli corrono dietro solo perché è alto e gioca a calcio, perciò il fisico è quello che è e non è niente male. La signora è bella perché è elegante, la signora è bella perché emana una piacevole aura di tranquillità e la signora è bella perché ha due begli occhi castani che si guardano attorno con aria svagata e persa. La signora è bella perché chissà quanti anni ha ma sembra una ragazzina che scopre tutto all’improvviso, una che esce di casa per la prima volta, ed è bella anche per come si stringe all’uomo che la accompagna, che la trae a sé in un gesto protettivo e intimo, stringendole un braccio attorno alle spalle e voltando appena il capo per baciarle una tempia e sussurrarle qualcosa all’orecchio – qualcosa che le provoca una risata divertita e infantile, che lei cerca di soffocare con poco successo portando una mano alle labbra.
Mario non è proprio sicuro che restare a fissare i due nel modo in cui lui li sta fissando sia la cosa più giusta da fare, ma è altrettanto vero che proprio non riesce a smettere di farlo, perciò resta lì con aria ebete mentre intorno a lui il giardino dell’orfanotrofio si agita tutto, ogni ragazzo intento nelle proprie attività, e lui dovrebbe stare più attento a come muove le cesoie attorno a quel cespuglio tondo, o finirà per tranciarlo a metà e fare un disastro. Non che abbia paura di una punizione, il direttore non è esattamente noto per il suo pugno di ferro, ma gli è sempre dispiaciuto rovinare le cose belle, perciò sì, dovrebbe stare più attento, ma la signora e il suo uomo continuano a passeggiare per il giardino come fossero in visita ad un parco o chissà che, e lui non può fare altro che continuare a guardarli, perciò poco da fare, sono comunque molto più belli loro di qualunque cespuglio tondo decori quel giardino.
La signora si volta a guardarlo e gli lascia scivolare gli occhi addosso in una carezza distratta. Sorride serena, ed il suo sorriso si allarga lievemente quando incontra gli occhi scuri e stupiti di Mario, che la osserva fermarsi all’improvviso con una certa curiosità, le cesoie ancora a mezz’aria. L’uomo si ferma contemporaneamente a lei, con una naturalezza che sa di comportamenti rodati: chissà quante volte la signora si ferma all’improvviso e chissà quante volte l’uomo, semplicemente, la segue, fluido, senza scatti, immediato.
La signora si allontana dalla stretta del compagno e lui non la trattiene, si limita a seguirla, un solo passo indietro, fino a quando non si ferma davanti a Mario, continuando a guardarlo con quel sorriso entusiasta e un po’ bambino, che contrasta in maniera piacevole con le rughe sul suo viso e che, adesso che sono vicini, Mario può vedere distintamente.
- Che bel colore. – dice la signora, trasognata, sollevando una mano ad accarezzargli una guancia. È avvolta in rosso anche quella manina così piccola e delicata, Mario se la sente scorrere morbidamente addosso e resta a guardare la signora, rapito dai suoi occhi persi. Nessuno l’ha mai guardato con tanta palese adorazione, e lui non sa se sentirsi più lusingato o più in imbarazzo. – Zay, hai visto che bel colore?
- Sì, Tami. – annuisce l’uomo, sorridendo appena, - È bello davvero.
Mario sposta lo sguardo sull’uomo e cerca di decifrarne gli occhi, ma pur essendo di un colore banalissimo sono assolutamente incomprensibili.
- Tami! – dice la voce del direttore alle sue spalle, e qualcosa in quel momento perfetto si spezza. La signora abbassa la mano e smette subito di accarezzarlo, sollevandosi sulle punte per cercare oltre il suo corpo la figura che si avvicina, e sorridendo entusiasta come una bambina non appena riesce ad individuarla.
- Massimo! – lo chiama, agitando un braccio, - Zay, c’è Massimo! – richiama l’attenzione dell’uomo, che sorride ancora e saluta il direttore con un cenno del capo.
- Ma che piacere rivedervi! – saluta anche il direttore, chinandosi sul corpo minuscolo della signora per avvolgerlo in un abbraccio amichevole e poi voltandosi a stringere la mano dell’uomo, - José, quanto tempo.
L’uomo sorride ancora, e si ravvia distrattamente i capelli sulla testa, con una smorfia buffa.
- È stata bene, ultimamente. – butta lì, come non avesse importanza. Mario non capisce a cosa si stiano riferendo, d’altronde il direttore non ha chiesto a nessuno come stesse qualcun altro, quindi la risposta dell’uomo è veramente incomprensibile, ma il direttore sembra capire tutto al volo, e Mario lo osserva annuire serio per un secondo, prima di tornare a sorridere allegramente, poggiando una mano sulla spalla della signora.
- Coraggio, Tami, ti offro un tè. Vaniglia?
- Con piacere. – sorride la signora, e si volta a cercare il marito con lo sguardo, un po’ incerta.
- Precedetemi. – la rassicura lui, chinandosi a baciarla lievemente sulle labbra, - Io vi raggiungo subito.
Mario osserva la signora e il direttore allontanarsi lungo il vialetto, verso l’edificio principale dell’orfanotrofio, e poi torna a portare lo sguardo sull’uomo – José, come l’ha chiamato il direttore, che lo sta a propria volta scrutando con un certo interesse, come lo stesse studiando.
- Non parli molto, mh? – chiede curioso. Mario serra le cesoie attorno ad un rametto fuori posto. Il suono che producono è secco e fastidioso. Il rametto, cadendo a terra, invece, è silenzioso come una piuma.
- Preferisco tacere, se non ho qualcosa da dire. – risponde scrollando le spalle, - Cerco di evitare di mettermi nei guai.
- E ti capita spesso? – chiede ancora José, - Di metterti nei guai, intendo.
- …ogni tanto. – risponde Mario, sinceramente. – Prima, però. Adesso non più.
- E come mai?
Mario si prende un secondo, prima di rispondere. Pota ancora un paio di rametti qua e là, cercando di mantenere la forma del cespuglio, e poi sospira.
- Il direttore mi ha fatto capire che, passati i diciott’anni, non è più possibile creare problemi.
José scoppia immediatamente a ridere, una risata piena, tonante e divertita. Mario lo osserva gettare indietro il capo e poi tornare a guardarlo con una luce compiaciuta negli occhi.
- Per quante famiglie sei passato? – chiede a bruciapelo.
- Due. – risponde lui, altrettanto immediato e altrettanto privo di filtri.
- Non eri abbastanza per loro?
- O forse loro non lo erano per me.
José lo guarda con compiacimento se possibile addirittura maggiore, incrociando le braccia sul petto.
- Mi piace quest’atteggiamento. – commenta annuendo, - E a Tami piace il tuo colore. – si interrompe solo per un attimo, inumidendosi le labbra. – Ti andrebbe di provare ancora?
Mario non può nascondere il suo stupore, quando sente la domanda, ed inarca entrambe le sopracciglia, abbassando la cesoia lungo il fianco.
- Solo perché alla signora piace il mio colore? – chiede.
José annuisce.
- Ce l’hai un sogno? – domanda a propria volta, salutando con la mano la signora che si sta sbracciando come una ragazzina dalla terrazza sul fronte dell’enorme quanto sobrio castello che ospita l’orfanotrofio. – Una cosa per la quale sei disposto a tutto?
Mario scrolla le spalle.
- Aspetto che arrivi. – sospira profondamente. José annuisce ancora, prendendo atto.
- Tami è il mio. – dice a bassa voce. E stavolta annuisce Mario.
- Non c’è due senza tre, immagino. – concede con un’altra scrollatina di spalle.
José ride ancora. Anche Mario è divertito, perciò ride anche lui.
- Comunque mi chiamo Mario. – precisa il ragazzo, tornando a potare il cespuglio, - Giusto per informazione.
José annuisce, prendendo atto, e poi sorride ancora.
- Fantastico. – commenta, infilando una mano in tasca e continuando a fissare la signora, seduta col direttore ad un grazioso tavolino bianco in terrazza, mentre sorseggia il tè, - Mario è anche il mio secondo nome.
*
Mario arriva a Villa Ratti appena due giorni dopo e, quando oltrepassa il cancello, perdendo lo sguardo sull’immensità del giardino – ed è un eliporto, quello che intravede al di là degli alberi, in quella radura assolata? – gli riecheggia ancora nelle orecchie l’ultima conversazione avuta col direttore Moratti, mentre sistemava le poche cose cui tiene nel borsone già al quinto trasloco.
- Se dovesse andare male… - gli ha chiesto con falsa distrazione, appallottolando calzini e schiacciandoli nel fondo del borsone senza cercare gli occhi del proprio interlocutore, il quale non ha neanche sentito il bisogno di interrompere il suo discorso parlando, e s’è limitato a coprire le sue ipotesi con un rassicurante sorriso dei suoi, di quei sorrisi che raggiungono come una specie di mistica incrollabilità, che quando li guardi capisci che sono così splendenti e sicuri solo perché si sono guadagnati con la forza il diritto di esserlo.
- Non mi sembra il piede giusto con cui partire. – gli ha fatto notare, battendogli un’amichevole pacca sulla spalla, - E comunque non credo che andrà male. Nel caso dovesse proprio essere un disastro, - ha aggiunto con un sospiro stanco, osservandolo rilassarsi visibilmente, rassicurato, - qui c’è sempre un posto per te, Mario, naturalmente.
Mario ha annuito senza sollevare lo sguardo dalla maglietta che stava piegando.
- E che tipi sono, questi qui? – ha chiesto poi, cercando di dissimulare la curiosità fra le pieghe di un disinteresse costruito ad arte.
Il direttore ha riso, aiutandolo a piegare i pantaloni.
- Sono brave persone. – gli ha risposto con sicurezza, - Li conosco da moltissimo tempo. Sono molto affettuosi e tu non sei il primo che adottano.
Mario ha sollevato lo sguardo, finalmente, cercando gli occhi castani del direttore coi propri, sempre castani ma di una tonalità decisamente più scura, retaggio di un codice genetico che non sente proprio perché lui, nonostante il colore della sua pelle, è nato in Italia e in Italia ha sempre vissuto, dell’Africa non sa nulla e in realtà non sa nulla neanche dei suoi genitori naturali che, dopo averlo messo al mondo, non hanno trovato niente di meglio da fare che mollarlo nel primo ospedale disponibile quando si sono accorti che non è nato perfetto ma con un difetto di fabbrica che – non avesse trovato brava gente a prendersi cura di lui in ospedale, e il direttore, naturalmente – gli sarebbe quasi sicuramente costato la vita.
- Brave persone? – ha ripetuto Mario, inarcando un sopracciglio e infilando un paio di scarpe da tennis in un sacchetto di plastica, - Non saranno mica di quelli che vanno in giro recuperando bambini e ragazzi negli orfanotrofi di tutto il mondo solo per mostrare alla gente quanto sono fighi e generosi e antirazzisti? Guardi che non ci voglio finire in casa col Brangelina di Milano e provincia. – ha borbottato irritato, o forse solo innervosito dall’imminente cambiamento.
Il direttore ha riso ancora, scuotendo appena il capo.
- No, Mario, niente del genere. Puoi stare tranquillo, in casa Mourinho si adotta solo perché si vuole un figlio.
Mario ha scrollato le spalle ed ha recuperato tutta la propria biancheria dal primo cassetto del comodino.
- E la signora… - ha aggiunto in un soffio, quasi percepisse la propria curiosità come una violenza nei confronti di quella bella donna vestita di rosso, - …intendo, non è mica tanto normale.
Il direttore ha sospirato, aiutandolo a tenere ben fermo il borsone dai lati mentre lui cercava di chiudere la cerniera sulla sommità.
- Di questo dovrà parlarti José, e lo farà quando sarà il momento giusto. Ma non hai ragione di preoccuparti, Tami è splendida. Ed è accudita bene sia da suo marito che dai suoi figli.
- Di solito – ha aggiunto quindi Mario, ricontrollando per l’ennesima volta tutta la stanza per essere certo di non dimenticare niente, - non è la mamma che si prende cura di tutti gli altri?
Il direttore ha riso per la centesima volta in mezz’ora e Mario s’è chiesto se non fosse per caso ubriaco o non si trattasse piuttosto di lui, che si stava effettivamente rendendo ridicolo, con tutte quelle domande del cavolo, neanche avesse avuto dieci anni e tutto ancora da imparare.
- Scoprirai che in famiglia le cose sono quasi sempre molto più complicate di così. – ha risposto il direttore, sollevando il borsone dal letto e poi lasciandolo planare disinvoltamente fra le sue braccia, rischiando di mandarlo col sedere per terra causa eccessivo carico da sostenere troppo improvvisamente, - Ed anche molto più semplici.
In realtà, comunque, attraversando il giardino lungo il selciato e andando incontro all’uomo in giacca e cravatta che lo attende sulla soglia di casa, Mario non riesce a immaginare cosa possa esserci di complicato in una situazione come questa. È altrettanto vero, in realtà, che non riesce nemmeno ad immaginare cosa possa esserci di semplice, per cui resta in silenzio e lascia che l’uomo recuperi il suo borsone direttamente dalle sue mani e lo introduca all’interno della casa, dove un altro tipo lo aspetta, avvolto in un abito elegantissimo, tipo Ambrogio, per intendersi, solo che il tizio con Ambrogio non c’entra granché, perché più che un maggiordomo sembra una specie di topo da biblioteca tirato lontano di prepotenza dai libri, infilato in una livrea grande almeno due taglie più della sua e costretto a fare un lavoro che non gli compete minimamente.
- Benvenuto a casa, Mario. – dice il maggiordomo, - Il mio nome è Beppe e mi occupo della gestione della casa. Non lasciarti intimorire dalla livrea, a Tami piace come mi sta, ma non c’è bisogno di trattarci formalmente. Lavoro per José da più di dieci anni, ormai.
Mario annuisce, con aria poco convinta.
- La mia borsa… - accenna, e Beppe gli sorride conciliante.
- Se ne sta occupando Andrea. – gli rivela, - Più tardi tornerà a portarti in camera tua.
- Ma sta rovistando nella mia roba? – chiede Mario, allarmato, cercando di fare mente locale per assicurarsi di non aver ficcato qualche calzino sporco in qualche tasca laterale del borsone.
- Rovistando? – chiede Beppe, con un certo stupore, - Sta mettendo a posto. Per te le due cose coincidono?
- Be’! – borbotta Mario, irritato, - Sì, se per mettere a posto ci ficchi il naso dentro!
Beppe ride, e Mario mette su un broncio scontento, ripromettendosi di dire a José che lui è abituato a badarci da solo, alle proprie cose, e quindi gradirebbe che nessuno lo facesse al posto suo, e non gliene frega niente di quale sia la prassi di quella stupida villa in riva a uno stupido lago nel mezzo di una stupida palude umidiccia e piena di stupide zanzare. Naturalmente, tutti i suoi buoni propositi vanno a farsi benedire quando Beppe torna a parlare.
- Tami… - esordisce, e tutti i sensi di Mario si tendono nel tentativo di captare ogni singola sfumatura di quel discorso, - è in una condizione un po’ particolare. È lei che decide come ci si muove in questa casa, chi fa cosa e quando e come. Lei vuole i maggiordomi e lei vuole che si occupino loro di tutte le questioni pratiche. Quindi, che ti piaccia o no, Andrea continuerà a badare alla tua roba, ed io a tutto il resto. Mi sono spiegato?
Mario annuisce – non gli pare ci sia molto altro da fare – ed esita appena, prima di concedersi una domanda.
- Ma la signora… sì, cioè, Tami, dico… sta bene o no? Perché a me-
- A me pare che tu stia già chiedendo più di quanto non debba sapere in questo momento. – lo interrompe Beppe con un sorriso serafico, allargando un braccio verso una porta a vetri che porta su un’altra parte del giardino, - Ora seguimi, avvertiamo la tua famiglia del tuo arrivo.
La prima cosa che Mario vede, comunque, uscendo in giardino, non è la sua famiglia, ma un’enorme piscina dalle forme tondeggianti che si allunga per almeno una quindicina di metri. Ci sono le scalette, c’è un trampolino azzurro e c’è tutto un corridoio di sassolini rotondi e lucidi che brillano nel sole e portano dalla piscina alle docce – alti tubi verdi che somigliano a gambi di fiori, così come fiori sembrano i doccini – di una bel rosso acceso – che li terminano e dai quali esce un getto continuo d’acqua tiepida e cristallina.
Il sole abbaglia Mario colpendolo dritto negli occhi e, quando lui li scherma per mettere a tacere il bruciore, riesce finalmente ad individuare Josè – in camicia a mezze maniche e bermuda, steso su una sdraio a prendere il sole come una lucertola. Il portoghese solleva una mano e lo saluta sorridendo.
- Spero tu abbia portato un costume da bagno. – scherza, tornando a sistemarsi comodamente sul telo di spugna che gli impedisce di bagnare di sudore il tessuto in cotone pesante della sdraio che lo ospita.
- …dovrei averne uno nel mio borsone, ma me l’hanno rubato. – si lamenta lui, sedendosi tranquillamente su una sdraio accanto a quella di José. L’uomo ride divertito, chinandosi a recuperare da terra un bicchiere colmo di succo di frutta fresco.
- Andrea te lo porterà sicuramente quando avrà finito di mettere ogni cosa al suo posto. – lo tranquillizza, e Mario annuisce. Poi viene colpito da qualche gocciolina d’acqua in pieno viso, ed ha appena il tempo di sollevare lo sguardo che i suoi occhi impattano contro la figura snella di un ragazzino dalla pelle rosata e dai capelli di un castano talmente chiaro da sembrare biondo sotto i raggi del sole. Mario lo osserva emergere dalla piscina, tirandosi su con la sola forza delle braccia, e poi camminare lentamente lungo il sentiero di sassolini, dopo aver infilato le infradito, per concedersi una breve doccia che scacci via dalla sua pelle il sapore vagamente salato del cloro disciolto in acqua.
- Davide. – risponde José alla domanda muta di Mario, mentre il ragazzo recupera un accappatoio bianco e lo indossa, scomparendo all’interno delle pieghe del morbido tessuto di spugna e dirigendosi poi con disinvoltura verso l’interno della casa, - Tuo fratello. Uno dei.
- …quanti altri? – chiede con un po’ di terrore, tornando a guardare il proprio patrigno. José ride, sempre più divertito.
- Ce n’è solo un altro, oltre lui. Ma ho i miei dubbi che lo vedrai spesso da queste parti. – soggiunge scrollando le spalle. Poi chiude gli occhi e torna silenzioso, perciò Mario non può fare nient’altro che aspettare quei due secondi di rito che non lo portino a pensare lui conservasse quella domanda sulla punta della lingua da quando l’aveva visto – cosa peraltro vera – prima di lasciarsi andare, e chiederlo e basta.
- Senti, José… - accenna timoroso, - ma Tami-
- È presto per parlare di Tami. – lo ferma José, senza guardarlo nemmeno, - Per ora goditela e basta. Avrai tempo, per tutto il resto.
- Sei arrivato! – cinguetta una voce allegra da qualche parte alla sua sinistra. Mario si volta in quella direzione ed inquadra la signora nel bel mezzo di un roseto, intenta a potare spine da cespugli che ne sono già stati abbondantemente privati molto tempo prima che lei potesse cominciare a toccarli, pasticciando ovunque con quelle manine minuscole sempre avvolte in un paio di guanti. È ancora vestita di rosso, la signora. Oggi non indossa un abito ma un paio di pantaloni, una casacchina smanicata ed un cardigan di cotone grosso a coprirle le spalle, ed è comunque bellissima. Mario la saluta con un sorriso ed un gesto affettuoso, ed è così piccolina in mezzo a quell’enorme roseto bianco che sembra una goccia di sangue persa sopra chilometri di lenzuola candidissime.
- La aiuti col giardinaggio? – chiede la voce di José, dolcissima, proprio accanto a lui.
Mario annuisce distrattamente, rapito da Tami che sorride e si sbraccia ed agita una rosa per attirare la sua attenzione, e si alza in piedi, per raggiungerla subito dopo. Per il resto avrà tempo. Al momento, intende godersela.
 
*
 
Note. Questa fic nasce praticamente su richiesta XD Stavo istruendo la mia primogenita ai misteri del Santonelli, spiegandole quanto esso sia canon in virtù del fatto che chiunque ama Davide e nel “chiunque” rientra abbondantemente anche il Mou, quando lei a un certo punto s’è messa a sbrilluccicare di luce propria ed ha urlato che voleva una fic con PapàDiMario!Mou. Attenzione, non voleva solo che fosse padre di qualcuno e basta (a quel punto mi sarebbe bastato scrivere la What If? spostata in avanti nel tempo di quindici anni), voleva proprio che fosse il padre di Davide. E quindi il mio cervellino ha cominciato a lavorare alacremente per creare un universo alternativo in cui tutto ciò fosse possibile senza tirare in conto l’Inter. È soddisfacente quando prendi dei calciatori e li metti a fare robe non loro XD
In concomitanza al desiderio di scrivere quest’AU è arrivato il Challenge di FanWorld, che voleva sette storie (o sette capitoli) ispirati ognuno ad un colore diverso. Ho pensato che questo fosse ciò che mancava a questa storia, un’impostazione narrativa ordinata, ed in effetti quando ho deciso che avrebbe partecipato al challenge tutto s’è messo a posto quasi da solo – tranne qualche nodo di trama: quelli sono stati risolti con tempestività, amore e meravigliosa efficacia dal Def, che peraltro questa storia se la beta pure. Onore all’uomo che ha del coraggio – ed è decisamente una delle cose migliori del fandom.
Le coppie principali non ve le dico XD Se mi conoscete, le immaginate. Se non mi conoscete è più divertente *_* E comunque spero di farvi piangere almeno un po’, col prosieguo della storia u.u Uniche noticine: il titolo della storia è preso da un verso di Weapon, di Matthew Good, mentre tutti i titoli di tutti i capitoli sono presi da canzoni più o meno famose (quella di questo giro è appunto l’omonima Lady In Red di Chris de Burg); il nome della moglie del Mou dovrebbe essere Matilde, e Tami dovrebbe essere il suo soprannome, l’ho letto in un articolo di gossip. Lo stesso nel quale ho letto di Zay, che in teoria è il modo in cui José veniva chiamato dalla sua prima amante mai confermata :\ A me di questi retroscena a livello narrativo non interessa poi molto, ma i soprannomi mi piacevano, per cui li ho usati XD
A presto <3

Scritta in coppia con Def.
Genere: Drammatico, Erotico, Generale.
Pairing: Copiosi.
Rating: NC-17.
AVVISI: Hurt/Comfort, Language, Slash, Ucronia, Underage, Violence, OC.
- "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."

Note: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
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Before you begin... Hi there, qui parlano la verduraia di Satana e il fruttivendolo di qualità: fino a dieci minuti fa ballavamo la conga e tentavamo di riprenderci dall’immane fatica ma vi diamo ugualmente il benvenuto *amore a pioggia*. Prima di iniziare, però, un po’ di noticine non riguardanti la trama (più o meno) di quella che all’inizio era nota come ‘Quina’ e poi come ‘POALS’, storia con cui abbiamo abbondantemente scassato i maroni a tutto l’universo e oltre.
Punto primo: ci andiamo giù pesante. No, non stiamo scherzando, popolo, e non ci riferiamo soltanto alle zozzate esplicite (che pure ci sono e che sarebbe difficile enumerare per intero, dovrebbero essere più o meno una per capitolo, in media XD). Anzi, forse il p0rn, quantunque sia cosa degnissima e meritevole di essere letta, è proprio il meno di questa storia. Se la volgarità e la crudezza di certe scene dovessero offendervi, o se non siete molto inclini a questo tipo di racconti, chiudete la pagina in qualunque momento. Senza rancore *_*v.
Punto secondo, questa storia è completa. Se la postiamo un po’ per volta è solo ed esclusivamente per compiacere le nostre malevole e riverite personcine *-*.
Punto terzo, Temporal-mente. L’uomo partecipa giusto per perdere tempo visto che più fuori concorso di lui non si può, la donna non avrebbe avuto chissà quale bisogno visto che è logorroica di suo <3 comunque sia c’è sia il prompt dell’adolescente maschio di casa (Blue), sia il prompt della fangirl ’88 (Xdono) – no, non provateci, ci stanno d’incanto XD.
Punto quarto: serve un elenco immenso di persone da ringraziare, a partire dall'associazione a delinquere Fae&Gra (cui è dedicata con tanto amore questa storia *_*v), passando per Suinogiallo che ci ha offerto (aggratis!) la sua consulenza medica, per la chattì che ha sopportato pazientemente (ma anche no) i nostri scleri censurati, per i solutori abili e per i lurker indefessi. È tutta tutta tutta vostra. Vostra e di chi leggerà con voi, si spera.
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro. Non si vuole essere lesivi nei confronti delle persone reali descritte. Niente di quanto narrato è realmente accaduto, bensì è semplice frutto di fantasia, pertanto non si pretende di dare un ritratto veritiero di eventi o personalità. Ogni immagine delle persone raffigurate nei banner non è utilizzata a scopo di lucro ma solo ed esclusivamente per esigenze di fanwriter. Le solite puttanate, insomma.
Questa storia è protetta da una licenza (ma non mi dire).



PUPPET ON A LONELY STRING
"Here's a story about a little guy that lives in a blue world." (Blue – Eiffel 65)
"E di persone ce ne sono tante, buoni pretesti sempre troppo pochi." (Xdono – Tiziano Ferro)




Resta con gli occhi puntati sui suoi e il cellulare attaccato all’orecchio, nell’attesa di un colpo di fortuna che possa raddrizzare sia la situazione catastrofica che si sta svolgendo davanti a lui, impassibile e furibondo testimone, sia quella, ugualmente disastrosa, che sta trascinandosi verso la fine dall’altra parte della pianura, a poco più di un centinaio di chilometri.
Sprona i ragazzi nel silenzio irreale dei pochi, coraggiosi spettatori che sanno già come andrà a finire – e per quanto lo stallo possa sbloccarsi, nulla impedirà a chi comanda davvero di decidere dei destini di interi patrimoni.
Un trillo argentino spacca l’atmosfera greve di tensione e rassegnazione. La mafia non ha neanche dovuto operare i suoi piccoli, insignificanti aggiustamenti, per una volta; schiumando di rabbia, tira un calcio a una lattina di soda ancora quasi piena, che si riversa sull’erba secca e sporca.
Serve il salto di qualità, perché secondo o ultimo non cambia nulla. E il pezzetto di carta ripiegata che crepita sotto le sue dita nervose, dentro la tasca della giacca, gli ricorda che potrebbe anche tentare di trovare un modo sicuro per dare una spinta alla situazione.
A modo suo, ovviamente.

* * *

«Fermo dove sei, Gabelić» intima la donna con voce calma e quasi allegra, puntando la Beretta contro il malvivente con aria sicura; alle sue spalle, la sola presenza del compagno – ugualmente armato – le dà uno strano senso di sicurezza.
Restano lì impalati, tutti e tre, a guardarsi come se non ci fosse altro da fare; poi il criminale scaglia in aria un tavolino e tenta la fuga, evitando per miracolo i colpi di pistola esplosi dai due carabinieri.
È una fuga disperata, la sua: tenta di seminarli con una sventagliata di mitraglietta, ma non fa neanche in tempo a premere il grilletto che una tremenda fitta di dolore si fa strada dal basso ventre – un calcio nelle palle, forse anche due – e l’agente alto è già dietro di lui a sfilargli l’arma, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«Roberto Gabelić» trilla ancora la donna, puntandogli la pistola alla tempia, «ti dichiaro in arresto. Associazione mafiosa, estorsione, omicidio e resistenza a pubblico ufficiale. Si divertiranno parecchio con te per farti cantare, bello. Filì, ammanettalo.»
Gabelić la fissa con occhi di brace. «Puttana» sibila, rabbioso, e le sputa in faccia un grumo di sangue e saliva. Mezzo secondo più tardi, metà della testa gli salta via dal resto del corpo in un colpo fragoroso. E un altro mezzo secondo più tardi, Rosalia fissa il collega inebetita.
«Ma sei un minchione!» esclama. «Quindici giorni buttati nel cesso!»
Lui la guarda come se avesse detto chissà quale stronzata, limitandosi a inarcare un sopracciglio con aria eloquente.
«Filì, non mi rispondere nemmeno. La tua non è cavalleria, è una scemenza, oh» sbotta ancora, impedendogli qualsiasi tentativo di spiegarle alcunché – come se lui ne avesse mai avuto la voglia. A malincuore, osservando l’espressione più che impassibile dell’amico, si lascia andare a un sorriso riconoscente.

* * *

Nio sta attento a modulare opportunamente la voce e a far sì che il male che il coglione di turno gli sta facendo – cazzo, potrebbe anche evitare di pompare così, nessuno lo sta minacciando di far presto – appaia al cliente come una sfumatura di quello che potrebbe anche sembrare piacere.
Quando lo stronzo se ne va, assestandogli una pacca un po’ troppo forte sul sedere indolenzito e teso e salutandolo in un inglese fluente, se ne resta ancora un po’ sul letto per riprendere fiato, stringendo tra le mani un paio di banconote; la sua erezione preme insoddisfatta contro il piumone verdino per parecchi minuti, prima che si decida a portare una mano sotto il suo corpo, languida, e che le sue gambe si allarghino appena in una posizione che, per un immaginario osservatore, dev’essere terribilmente erotica. Un ghigno compiaciuto fa capolino dal volto affondato nei cuscini, mentre le dita scorrono e stimolano e scivolano tra i glutei e tornano a masturbarlo, in attesa del piacere che il signore di passaggio non ha saputo, o voluto, dargli.

TBC...


Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Pep/Zlatan in svariate combinazioni.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst.
- "La storia della rosa dei venti non l’ha mai affascinato granché."
Note: Allora, con questa storia ho avuto un rapporto conflittuale, durante la stesura. Essa continuava ad apparirmi a tratti schifosa ed a tratti bellissima, con effetti sconvolgenti nella mia testa, che in pratica continuava a strillare "AAAAAAAAAAA" senza soluzione di continuità. Insomma, la follia.
Ci ho fatto pace, comunque, dopo averla finita. L'ho riletta ieri sera e le ho voluto bene. Son cose.
Comunque, scritta per l'Arena, iniziativa speciale della terza Notte Bianca. I miei leoncini!prompt mi chiedevano di scrivere una storia che contenesse il numero tre citato almeno per tre volte, che fosse ispirata al prompt una bussola fissa sull'Est ed all'interno della quale i protagonisti si abbracciassero. Tutto ciò è presente, e perciò io sono contenta. XD
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(LIKE A) ROSE (IN THE) WIND

Dev’esserci una ragione per cui il tre è un numero primo. Una ragione profonda, cosmica, non matematica, una ragione a livello spirituale per cui sia possibile dividerlo solo per uno e per se stesso. Dev’esserci una ragione anche per la quale è considerato un numero perfetto, dev’esserci una ragione per cui il Cristianesimo ha deciso di dividere in tre il suo dio pur lasciandolo intatto – una cosa unica, ma divisa per tre, suona assurdo anche solo a pensarlo, eppure ha un che di intenso, di reale, di poetico – dev’esserci una ragione per cui il tre piace tanto a tutti, tranne forse agli studenti che se lo ritrovano scritto in rosso sul foglio del compito in classe corretto.
Tre è un bel numero anche per José. È uno di quei numeri che lo fanno sentire al sicuro. Primo con tre punti di scarto. Vittoria per tre a zero. Tre Champions League in bacheca. Tripletta.
Tre è anche un numero scomodo, però. E José ci pensa perfino con una certa insistenza aprendo gli occhi quella domenica mattina.
Zlatan è andato via da quasi anno, ormai. Maggio non è mai stato così caldo. E prima di giugno, lui sarà già in Spagna.
*
La storia della rosa dei venti non l’ha mai affascinato granché. A José piace volare via dopo le grandi vittorie, gli piace lasciare il campo da grande condottiero, ma è profondamente convinto di non poter abbandonare il luogo in cui si trova prima di aver compiuto la propria missione. Per Zlatan è sempre stato tutto molto diverso, e sì, naturalmente lui e Zlatan hanno avuto una vita completamente differente, anche due tipi di fortuna completamente differenti, ma se è vero questo, è altrettanto vero che José, la sua fortuna, se l’è costruita con le proprie mani, con pazienza, senza mai scappare dopo un fallimento, tenendo duro. Se non vinci, come puoi pensare di riuscirci andando via? È restando che ottieni la vittoria. Prima o poi arriva.
Zlatan questa cosa non l’ha mai capita. Forse perché è sempre stato sicuro di non essere lui la causa delle sconfitte delle squadre in cui giocava. Forse perché, intimamente, ha sempre creduto di aver dato il massimo, e che se qualche cosa di spiacevole accadeva non era mai, mai perché lui non aveva fatto abbastanza, ma perché lui aveva dato tutto mentre gli altri, be’, gli altri no.
Zlatan non è Nord, Sud, Est e Ovest. Zlatan è un punto nello spazio che non rispetta le leggi del magnetismo terrestre. Zlatan è un peso non soggetto alla gravità, un corpo sul quale le forze della Natura non agiscono. Non è un punto cardinale, è l’ago impazzito di una bussola che non riesce a puntare da nessun’altra parte, e perciò continua a girare su se stesso freneticamente, riuscendo a trovare un punto fisso da guardare solo saltuariamente, e solo per brevi periodi di tempo.
Quando l’ago della bussola di Zlatan ha cominciato a puntare insistentemente verso Est, verso l’alba di un nuovo giorno che, curiosamente, nasceva ad Ovest, dalle terre assolate e verdi della Spagna, José l’ha capito subito. E ha provato a fermarlo, ma non c’è riuscito.
*
Il problema, sostanzialmente, è Pep. Che sarebbe come dire che in realtà il problema sono loro due – loro due intesi come José e Zlatan, ma anche come Zlatan e Pep stesso, o ancora come Pep e José – ma la condizione determinante che ha scatenato il tutto è stato lui. Lui da solo.
Pep non l’ha davvero mai perdonato per aver lasciato Barcellona. Quell’“oggi, domani e sempre col Barça nel cuore” lui non l’ha mai dimenticato, e José ha sempre saputo che, se mai quella frase avrebbe rappresentato un pericolo per lui, non sarebbe stato perché qualche giornalista l’aveva tirata fuori dal baule, tutta impolverata, e l’aveva rimessa a nuovo per attaccarlo, ma perché Pep non l’avrebbe mai dimenticata. Perché Pep aveva sostituito se stesso al Barça, perché quella frase, alle sue orecchie, non era mai suonata come lui l’aveva davvero pronunciata, ma come lui aveva voluto intenderla.
José aveva avuto le sue parti di colpa, naturalmente. Non aveva mai cercato di spiegargli, ad esempio, che “per sempre” è solo un’unità di misura, ma di quelle impalpabili. “Per sempre” non vuol dire niente, “per sempre” è una cosa vaga. Quanti anni sono “per sempre”? Quanti mesi, giorni, ore, minuti, secondi? E quando dici “per sempre”, poi come fai a dimostrare che è davvero così? E come fai a dimostrare il contrario, se anche credi che qualcuno, dopo aver promesso di ricordarti in eterno, in realtà ha smesso?
José quella promessa l’ha dimenticata. Lo sa. È convinto di avere un cuore grande, ma sa perfettamente di non avere più spazio per il Barcellona. O per Pep. Forse ne ha avuto, un tempo, ma quel tempo è passato. Se “per sempre” fosse un’unità di misura seria, immagina José, sarebbe talmente enorme da potere definire perfettamente da quanto tempo il Barcellona ha smesso di battere nel suo cuore.
José lo sa, e lo sa anche Pep. Ma quando Pep gli ruba Zlatan, strappandoglielo da sotto le dita – ed è ancora più doloroso sapere che in realtà non si tratta davvero di un furto, perché in quale tipo di furto la refurtiva si muove sulle proprie stesse gambe per correre incontro al ladro? – José non riesce a pensare ad altro che a questo.
Ti avevo detto che sarebbe stato per sempre. Oggi mi rubi la cosa più grande e importante che ho perché credi che il mio per sempre sia già finito, ma con che diritto lo affermi? Per quale motivo ne sei convinto? Che prove puoi portare a suffragio della tua tesi? Ridammelo. Ridammelo, è mio, non hai alcun diritto su di lui. Rivuoi il tuo per sempre? Ridammi il mio.
*
Lui e Zlatan si vedono di sfuggita agli inizi di luglio. José è appena arrivato in Spagna, lui invece sta partendo per Los Angeles, come ogni estate. Ci sono i bambini, con lui.
- Ed Helena? – gli chiede, mentre scambiano quattro parole più per cortesia che per altro.
- Ci aspetta lì, è partita un paio di giorni fa. – risponde Zlatan. Con gli occhi lo sfida a chiedergli di più. Lo sfida quasi ad odiarlo di più. Fisicamente, si mantiene distante, ma sono gli occhi ad invadere lo spazio. Gli spazi. Tutti.
- E Pep? – domanda invece José. Gli basta prendere nota della sfumatura lievemente più rosata delle guance di Zlatan, per capire ogni cosa, fin nel più minuscolo dettaglio.
- Storia chiusa. – risponde comunque lo svedese, prima di scrollare le spalle e distogliere lo sguardo. È una piccola resa, ma José non riesce ad andarne orgoglioso come vorrebbe. Né a considerarla una vittoria, di qualunque tipo possa essere.
*
All’inizio, Pep si rifiuta di incontrarlo, e José accetta di buon grado. Non è sicuro che uno dei due riuscirebbe ad uscire vivo dalla stanza, se finissero per mettersi le mani addosso.
*
Devono incontrarsi, comunque, prima o poi. Quando succede non se lo aspettano, è una sorpresa e questo annulla per qualche secondo la loro capacità di intendere e di volere.
È un grave errore.
*
Zlatan si arrabbia, pur non avendo alcun diritto di farlo. José non ha la minima idea di come sia riuscito a venire a saperlo, dagli Stati Uniti, ma non può ignorare il dato di fatto, così evidente quando Zlatan lo chiama e lo tiene al telefono due ore, urlandogli di tutto e mandandolo a fanculo quelle trecento volte, prima di interrompere bruscamente la chiamata dopo avere esplicitamente chiarito di non volerlo vedere mai più.
José, in quel momento, è solo in camera. Una camera d’albergo spoglia e decisamente poco confortevole, che odia dal profondo del proprio cuore. Dal bagno arriva il rumore bassissimo dell’acqua nella doccia. Pep fischietta. È un suono vagamente confortante.
Tre, pensa José, sospirando pesantemente, è un numero del cazzo. Lo costringe a pensare ai triangoli. Vorrebbe che potessero esistere delle linee lunghe abbastanza da congiungere lui, Pep e Zlatan nonostante le distanze. Vorrebbe che fossero flessibili abbastanza da piegarsi ai loro capricci, e allo stesso tempo vorrebbe che fossero spesse e salde abbastanza da non spezzarsi mai.
Loro, però, non sono i vertici di un triangolo. Sono tre persone che avrebbero dovuto pensare a quello che stavano facendo molto tempo prima di cominciare a farlo. E non è un “molto tempo” che si concluda nel giro di due, tre, quattro, cinque o sei anni. Si parla di dieci, quindici, vent’anni, di epoche in cui non erano ancora nati, si parla del momento esatto in cui il mondo si è formato, in cui minuscoli frammenti di materia destinati a diventare quello che loro sono oggi portavano già in sé il seme di ciò che sarebbe stato.
Avrebbero dovuto pensarci allora, e al contempo è ironico pensare che naturalmente non avrebbero mai potuto.
*
Da Barcellona, Zlatan passa appena per prendere la propria roba.
- Torni a Milano. – constata José, seduto sul letto, osservandolo mentre, ancora seminudo, prepara la valigia. Alle volte, quando pensa alla vita che ha fatto nell’ultimo mese, si chiede come uno come lui, alla sua età, possa ancora reggersi in piedi. E la stagione non è neanche cominciata.
- Che c’è, vuoi venire con me? – borbotta Zlatan, sorridendo incattivito. È ancora arrabbiato. Non c’è stato modo di fargliela passare. Lui, di per sempre vari ed eventuali, non ha mai neanche voluto sentire parlare, ma evidentemente deve averne uno bello grande conficcato nel centro del petto, perché è quello a renderlo così uggioso e infastidito.
- Sono appena arrivato. – risponde José, e quando si rende conto che come risposta non è sufficiente aggiunge: – No, non voglio venire con te. Ma se mi saluti Milano mi fai contento.
- Vado dall’altra parte, portoghese. – gli ricorda Zlatan, - Quella che non ti piace.
José sorride.
- Non importa, - scrolla le spalle, - in fondo è quello che hai sempre fatto.
Zlatan scuote il capo, scoppiando a ridere di gusto. Sospira, lasciando perdere la valigia e sedendosi con uno sbuffo morbido sul letto accanto a lui. José ci riflette per un paio di secondi e poi capisce che se ha continuato a sbagliare fino ad adesso non c’è alcuna possibilità che possa smettere di farlo da questo momento in poi, e solleva le braccia per stringerlo a sé.
Zlatan si lascia abbracciare. Non c’è il minimo calore, fra di loro, in quel momento.
- Sono tutti così gli addii? – domanda a bassa voce, nascondendo il viso contro il suo collo. Basta che la punta del suo naso gli sfiori la pelle perché quel calore che sembrava essersi improvvisamente spento riprenda a divampare con una violenza quasi devastante. Adesso sì. José sorride.
- Già. – annuisce. E sorride anche Zlatan.
*
- Non mi dispiace. – commenta Pep, grattandosi la nuca, - Non del tutto, almeno.
José ridacchia, sporgendosi a tirargli una spallata discreta.
- Meglio così, tanto non ho intenzione di sparire in fretta.
Pep si volta a lanciargli uno sguardo brillante e pieno di storie e sentimenti di cui José preferirebbe evitare il ricordo.
- Non promettere. – dice a bassa voce.
José annuisce.
- Stavolta no.
*
Dev’esserci un motivo per cui il tre è un numero primo. Un motivo per il quale non è possibile dividerlo per altri numeri che per uno e per se stesso.
Forse è perché il tre si basta da solo, pensa José a fine stagione, di fronte al bivio più pericoloso della sua carriera – restare o tornare indietro? – forse, pensa, il tre non ha bisogno d’altro. A parte che di se stesso.
Scegliendo di restare, José stabilisce che è così per davvero. Il tre basta a se stesso. E anche lui, imparerà a farselo bastare.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVISI: Slash, Angst.
- "Questo non posso promettertelo."
Note: Prima di tutto, questa breve shot è stata scritta il 25 febbraio. Ci tengo a dirlo perché il mio computer in questi due giorni è stato un disastro e non mi ha permesso di postare praticamente nulla, ma questa storia avrebbe dovuto essere postata in quella data, per "festeggiare" i due anni dal postaggio di God, And After God, Me. Non per festeggiare la fic in sé, naturalmente, ma perché in modo del tutto inaspettato ha dato il via ad una cosa grande che continua a crescere e mi commuove ogni volta che ci penso.
Per il resto, la fic è ispirata alla recente intervista che Zlatan ha rilasciato appositamente per parlare male del suo ex allenatore al Barcellona e lanciare randomiche dichiarazioni d'amore all'uomo che, invece, lo allenava all'Inter. Negli ultimi due anni Zlatan ha cambiato due squadre ed anche José è andato via, e dell'Inter del 2008 che, per molti versi, è stata l'Inter più "mia" di tutte, non è rimasto granché, ma una cosa non è mai cambiata: lo shipping Jobra =P
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BE CAREFUL HOW THE SMALL THINGS GROW

Steso sul letto accanto a lui, sollevato sui gomiti, Zlatan lo guarda come fosse un oggetto prezioso. Non si azzarda a toccarlo, ma José sente – lo sente dal modo in cui gli bruciano addosso i suoi occhi scuri e piccoli – che vorrebbe.
- Non scompaio, sai? – butta lì con un mezzo sorriso, - Non sono mica un sogno.
Zlatan annuisce, ma sembra che abbia bisogno di un po’ di tempo per rendersene effettivamente conto.
- Questa cosa… - dice quindi, vago, - …è stata straordinaria.
José inarca un sopracciglio, il sorriso che si allarga in una smorfia compiaciuta.
- Be’… - comincia, ma Zlatan lo interrompe subito con uno sbuffo contrariato.
- Non parlo solo del sesso. – sbotta, - In generale, - spiega, i lineamenti del viso che si tendono in un’espressione pensosa e un po’ corrucciata, tremendamente buffa, - il senso di potere che provo… - mormora, guardandosi le mani, - è straordinario.
- Potere? – chiede José, dubbioso, - Non hai nessun potere su di me, zingaro.
Zlatan si volta a guardarlo e nei suoi occhi non c’è un’ombra di offesa. Solo tanta consapevolezza.
- Parlo di quello che potrei fare io. – risponde. Lo sta guardando, ma in un certo senso i suoi occhi sembrano persi molto oltre lui, molto oltre loro, verso obiettivi che fino a quel momento non si era neanche mai pensato di poter chiamare coi loro nomi, tanto sembravano distanti e inavvicinabili. – Parlo di quello che potresti farmi fare con una sola parola. – continua in un sussurro roco, avvicinandosi appena. Continua a non toccarlo, ma questa volta, quando i suoi occhi guardano fissi in quelli di José, José sa che sta guardando proprio lui. – Ucciderei, per te.
José solleva una mano, lasciandola scivolare lungo i lineamenti del suo viso. Visto così da vicino, Zlatan è ancora più sgraziato di quanto non sembri ad una distanza normale. C’è una tale sproporzione, fra la rozzezza generica espressa dai suoi occhi troppo vicini, dal viso troppo allungato, dagli zigomi troppo alti e da quel naso, Dio, quel naso così esagerato, e la perfezione così platealmente evidente di ogni singolo muscolo del suo corpo, dal petto alle braccia alle cosce alla schiena, che al solo pensarci José si sente bruciare di voglia sottopelle. Zlatan è la creatura più imperfetta che abbia mai visto, e questo la rende anche la più perfetta in assoluto. Per lui. Per essere sua.
- Ti chiedo solo di vincere la Champions. – dice piano, allungandosi a baciarlo appena sulle labbra.
Zlatan però vacilla, la luce nei suoi occhi trema con violenza, come una fiammella controvento, e questo dovrebbe essere un primo segnale, qualcosa che gli suggerisca di diffidare. Ma José non diffida. Se la luce danza negli occhi di Zlatan, pensa, è solo a causa della penombra, del piacere che sta ancora scemando e gli ottenebra i sensi. Qualsiasi cosa, ma non certo paura.
- Questo non posso promettertelo. – risponde con un mezzo sorriso. José sorride a propria volta, improvvisamente Zlatan gli sembra un bambino, molto, molto più piccolo di quanto non sia e molto, molto più piccolo di quanto non l’abbia mai visto. Sul momento, lo trova tenero. Non riesce a pensare che dovrebbe temerlo.
*
Quasi un anno dopo, si ritrovano sullo stesso letto, in camera di José alla Pinetina. La Champions League non è mai arrivata, ma José non è arrabbiato, non è frustrato e non è intimidito. Teme le vittorie, più che le sconfitte. Le sconfitte infiammano i cuori, li riempiono di desiderio di rivalsa, fanno brillare gli occhi. Le vittorie, soprattutto quando sono numerose, fiaccano il corpo e lo spirito, saziano la voglia che brucia nel petto. José è sempre fuggito dalle squadre vincenti. Vorrebbe non doverlo fare, con l’Inter.
Zlatan non lo guarda. È stretto al suo fianco, il viso nascosto nell’incavo del suo collo. Il suo corpo così grande copre quello di José per più di metà. Le loro gambe sono intrecciate così strettamente da fare quasi male, ma non è un dolore per il quale José provi fastidio. No, il dolore non spaventa José. Non è che la traccia fisica della presenza di Zlatan, e se questo potesse servire a trattenerlo al suo fianco per sempre, sarebbe disposto a sopportarlo fino alla morte.
Zlatan ansima ancora, il corpo scosso dai fremiti dell’orgasmo. Si calma pian piano, e man mano che va calmandosi lo stringe con forza sempre maggiore, come fosse preoccupato dall’eventualità di poterlo lasciare andare. José sorride, un sorriso minuscolo, nel pensare che solo un anno prima non si azzardava a toccarlo per paura di perderlo. Adesso, invece, è quella stessa paura ad obbligarlo a toccarlo quanto più possibile.
Lo sente singhiozzare all’improvviso, e solleva una mano per accarezzargli pigramente i capelli.
- Non dirmi che stai piangendo. – lo prende in giro.
- No. – risponde Zlatan, e la sua voce in effetti non vacilla, - Fa solo male.
José abbassa lo sguardo per cercare di cogliere il suo, ma il viso di Zlatan è ancora ben nascosto contro la sua pelle.
- Quanto sei sciocco. – borbotta, - Stai facendo tutto da solo.
Zlatan si concede una risata amara, inspirando ed espirando profondamente.
- Già. – concede, prima di sollevarsi abbastanza da poterlo guardare in viso. José lo lascia fare, così come accetta la carezza carica di devozione che poco dopo lui gli lascia scivolare lungo una tempia, una guancia, il mento, fino al collo, per poi morire sul suo petto. Zlatan sta guardando lui, ma sta anche guardando oltre. Esattamente come un anno fa. – Ucciderei, per te. – gli ripete, trasognato. José sa che non gli sta mentendo, ma sa anche quanto poco possa valere una verità tutta di sentimenti in una situazione come questa, che coi sentimenti ha a che fare ben poco.
Si sforza di sorridere, baciandolo lentamente.
- Ti chiedo solo di restare. – dice. Ma non c’è aspettativa, nella sua voce. E forse è questa consapevolezza che porta tutti i lineamenti del volto di Zlatan a contrarsi in uno spasmo di dolore, quando se ne accorge.
Stavolta, quando Zlatan gli risponde che questo non può prometterglielo, José sorride, stringendolo a sé, e sa perfettamente cosa questa frase significhi.
Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico.
Pairing: Davide/Hera, Antonio/Giampaolo, Riccardo/Giampaolo.
Rating: R.
AVVISI: AU, Slash.
- Come da titolo, tre episodi che raccontano tre ordinarie storie di (diverso) amore, inteso nel senso più ampio possibile, in tempo di guerra.
Note: ...la pazzia. *piange* Allora, prima di tutto ci tengo a premettere che questa fic non è ambientata in un'epoca precisa. La presenza delle trincee potrebbe indurvi a pensare che si sia nel mezzo della WWI, ma così non è. E' una guerra immaginaria, si combatte in modi assolutamente privi di attinenza con la realtà dell'epoca (di quella o di un'epoca qualsiasi, in effetti) e per ottenere obbiettivi diversi e, fondamentalmente, aprendo questa pagina non aspettatevi di trovare qualcosa di sensato, perché non lo troverete XD
Voglio scriverla da un po', ma se ci sono riuscita devo dire grazie in primis ai prompt di Crim su magic_reservoir e in secundis al prompt Guerra della prima settimana del COW-T. *anf* Basta, addio. *muore*
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L’AMORE AI TEMPI DELLA GUERRA

He sees hope.
Mario spera che non riprenda a nevicare, perché c’è già abbastanza freddo così.
La trincea è un buco profondo meno di due metri. Uno come lui, per non farsi vedere deve camminare sempre piegato in due. Gli fa male la schiena, per questo, e gli fa male il culo perché non si siede su qualcosa di anche solo vagamente comodo da mesi. Dal fondo della fossa di fango scavata a mani nude dai suoi compagni mandati in avanscoperta qualche settimana fa, si vede solo campagna bruciata a perdita d’occhio. La città per la quale stanno combattendo sembra così lontana da apparire quasi come un sogno. Milano col suo maestoso Duomo, la classica austerità del Teatro alla Scala, gli ampi spazi del Castello Sforzesco, l’imponenza schiamazzante di San Siro e l’opulenza sfacciata della Galleria. Milano che da questa guerra non è mai stata toccata, perché se stanno combattendo contro i Diavoli dell’altra sponda del Naviglio è proprio per prendersela, quella città così bella e così grigia e così fondamentale per tutti loro, e perciò lei deve restare intatta. La sua vita continua placida mentre loro si ammazzano in mezzo alla sporcizia, al fango e agli stenti. Moriranno tutti come sono morti i compagni che questa buca l’hanno scavata, Mario ne è sicuro. Verranno colti all’improvviso nella notte da una raffica di proiettili alle spalle, come loro, sorpresi durante gli scavi per colpa dello zingaro traditore che aveva scelto proprio quel momento per saltare la barricata e correre dall’altro lato.
Davide si avvicina di soppiatto, sorprendendolo a guardare con una certa malinconia quel po’ che si vede di Milano all’orizzonte attraverso l’aria polverosa del tramonto. È arrivato solo da qualche mese, Davide. Il generale Mourinho gliel’ha affidato personalmente perché hanno più o meno la stessa età, anche se ormai Mario combatte sul campo da quando aveva sedici anni. “Tu puoi capirlo,” gli ha detto l’uomo, “ma al contempo hai più esperienza. Guidalo.”
Aveva occhi stanchi e lontani, quel giorno, il loro condottiero. Parlando di Davide, aveva il tono di voce di un padre. Mario aveva provato una pena infinita per lui, per quell’uomo piccolo e ingrigito sulle spalle del quale pesavano le sorti di un intero popolo.
- Nostalgia di casa? – chiede il ragazzo, sedendoglisi accanto, - Stai giù con la testa, potrebbero vederti.
Mario obbedisce, più per farlo contento che perché si senta minacciato – prima o poi gli toccherà, e ha passato in trincea abbastanza anni da sapere che prima arriva, prima sarà libero – e sorride un po’.
- Sì, un po’. – ammette, - Non ricevo una lettera da casa da qualche settimana. I miei sono anziani, sai. Sono un po’ preoccupato.
- Sono soli? – chiede Davide, una punta di tristezza nella voce. Mario scuote il capo.
- No, mia sorella è lì con loro. Ma deve occuparsi di tante cose, e non è semplice. Spero in una licenza il mese prossimo, per tornare a darle una mano, anche se per poco.
Davide sorride, sedendosi più vicino.
- Sei carino. – commenta, - Cioè, a preoccuparti per la tua famiglia.
- Tu non ti preoccupi? – ribatte lui, inarcando un sopracciglio. Davide scuote il capo.
- La mia famiglia non è di qui. È al sicuro.
Mario risponde con un’occhiata dubbiosa.
- E tu perché sei qua? – chiede, e Davide si stringe nelle spalle.
- Abbiamo bisogno di soldi. – risponde, - Io e la mia ragazza vogliamo sposarci, ma non possiamo chiedere di pagare per tutto alle nostre famiglie.
- E tu vieni in guerra a rischiare di morire e non poterti sposare mai più? – insiste Mario, allibito. Davide si lascia sfuggire una risatina un po’ imbarazzata.
- La paga è buona, però. Non so per quanti anni avrei dovuto risparmiare, se fossi rimasto a lavorare in paese. Qui, se sopravvivo sei mesi, ho già abbastanza soldi per tornare a casa e comprare un piccolo terreno tutto mio.
- Ma prima devi sopravvivere. – commenta Mario con un sorriso un po’ intenerito. Il sorriso con cui gli risponde Davide è forte e sicuro di sé.
- Intendo farlo. – lo rassicura, e poi rovista all’interno della borsa tutta rattoppata che porta a tracolla, estraendone una custodia consunta in pelle marrone. – Vuoi vedere la mia ragazza? – domanda, - È bellissima.
Mario sbuffa un mezzo sorriso ed annuisce. Davide scopre la foto di una ragazza dal volto simpatico, i lineamenti dolci, grandi occhi castani e lunghi capelli ricci a scendere sulle spalle.
- È bella davvero. – sorride, accarezzando la superficie patinata della fotografia con due sole dita, per paura di rovinarla. Davide ridacchia compiaciuto e gli lascia contemplare la foto per tutto il tempo che vuole, senza pretenderla subito indietro.
- Tu non hai una ragazza? – gli chiede. Mario lascia correre il pensiero alle numerose ragazze che ha avuto prima di entrare nell’esercito, e alle molte altre che gli hanno semplicemente fatto compagnia durante i periodi di licenza più o meno lunghi che nel corso degli anni è riuscito a strappare alla morsa di una guerra che si andava facendo mese dopo mese sempre più aspra e sanguinosa. Decine di ragazze senza nome, volti ormai confusi in una macchia indistinta.
Non risponde alla domanda di Davide, ma ne pone una a propria volta.
- Tu credi davvero che riuscirai a tornare a casa e sano e salvo? Per sposarla e vivere per sempre felici e contenti o quel che è? – chiede, indicando con un cenno del capo la ragazza che sorride immobile nella foto.
Davide sorride e annuisce. La sua fiducia è incrollabile, e Mario, riconsegnandogli la foto ed imbracciando la propria arma per allontanarsi verso il punto che gli è stato assegnato in mattinata, non fatica più a comprendere perché.

Let me go.
Giampaolo si morde un labbro, guardandosi intorno con preoccupazione. Se la sta facendo sotto dalla paura ed è la prima volta che si pente di essere uscito dalla trincea. Sa che dovrebbe rilassarsi, che è notte e soprattutto è stata suonata la tregua ormai da un paio d’ore, e che quindi non corre nessun pericolo a trovarsi lì in quel momento, ma ciò che lo preoccupa non è tanto il trovarsi dove si trova, quanto più lo stare aspettando Antonio. Tregua o non tregua, è comunque un Diavolo, e tregua o non tregua loro non dovrebbero avere rapporti.
Solo che, tregua o non tregua, li hanno sempre avuti. E saltare una notte al momento sembra inconcepibile, anche se dal tradimento dello zingaro tutto è diventato più difficile, i controlli si sono decuplicati e le pene si sono inasprite.
Seduto sul porticato della catapecchia abbandonata che da ormai un anno è teatro dei loro incontri, Giampaolo si prende la testa fra le mani e giura e spergiura che questa sarà l’ultima volta. Non può continuare a cercare di cancellare il senso di vuoto che gli provoca l’assenza di Riccardo in questo modo. Ogni volta che riceve una lettera è come sentire il cuore frantumarsi in mille pezzi. Ha smesso di rispondergli, ma Riccardo non demorde. Il senso di colpa si sta facendo insostenibile, così come il peso della certezza di essere arrivato al fronte senza avere possibilità di tornare indietro.
Vorrebbe che Riccardo si rifacesse una vita, mentre lui, sconsideratamente, pone fine alla propria. Ma in qualche modo sa che lui non si rassegnerà finché non si vedrà recapitare a casa una medaglia al valore da un paio di ufficiali decorati fino alla punta dei capelli.
- Sempre perso nel tuo mondo cupo e triste. – commenta Antonio con una mezza risata, sostando a qualche metro di distanza da lui. Giampaolo solleva immediatamente lo sguardo e, quando lo riconosce, si affretta a scattare in piedi e precederlo oltre la porta scardinata e cigolante. Antonio lo segue subito dopo, e quando Giampaolo se lo ritrova di fronte, all’interno della casa, sta ancora sorridendo.
- Questa storia non può continuare. – dice subito, mettendo le mani avanti. Antonio rotea gli occhi, annoiato ancora prima di cominciare.
- No, ti prego, un’altra volta no. – protesta con un sorrisetto divertito. Giampaolo abbassa lo sguardo, imbarazzato.
- Sta diventando troppo pericoloso. – dice, provando a farlo ragionare, - Le trincee si sono avvicinate troppo. Ormai rischiamo di ammazzarci ogni volta che spariamo. Non… - si passa una mano sugli occhi, esausto, - non capisci che questa storia è assurda? Potrei sparare alla cieca e trovarti fra i cadaveri che ho abbattuto subito dopo. Ne ho abbastanza di storie d’amore finite male.
Antonio aggrotta le sopracciglia, contrariato.
- Ehi, ehi. – lo ferma, afferrandolo per le spalle ed obbligandolo a guardarlo negli occhi, - Frena. Questa non è una storia d’amore. – Giampaolo gli lancia un’occhiata tetra, ed Antonio insiste. – Sai bene che io sono innamorato della mia ragazza, e lo sarò fino a quando non creperò, per mano tua o di chiunque altro. Credevo che per te fosse lo stesso, con tuo marito.
Giampaolo si morde l’interno di una guancia e si allontana da lui con uno scatto isterico, voltandogli le spalle ed avvicinandosi all’unica finestra presente su quelle pareti spoglie. Il vetro è spaccato e da fuori entrano spifferi gelidi che gli danno i brividi. La notte è scura e silenziosa. Non si vede nemmeno una stella, in cielo. I bagliori innaturali delle bombe che scoppiano qualche chilometro più a ovest, fra le montagne, illuminano i nuvoloni neri carichi di pioggia che incombono su tutti loro. Domani sarà altro fango, altra lotta, altro sangue. Altra morte.
- Ho deciso di dimenticare quello che avevo prima. – confessa in un sussurro, - Perché so che non potrò farvi ritorno.
Antonio gli si avvicina, stringendolo alla vita in un abbraccio intenerito mentre gli lascia scivolare le labbra sulla nuca. Giampaolo si abbandona contro di lui, chiudendo gli occhi.
- È proprio perché sai che non potrai più averlo – gli sussurra Antonio, - che devi sempre tenere a mente che un tempo l’hai avuto.
Sulle guance di Giampaolo scivolano due lacrime che lui non riesce a fermare, forse perché nemmeno ci prova.
- Allora forse è meglio se mi lasci andare. – dice, e un po’ spera che Antonio ritratti e gli dica che va bene, va bene se dimentica Riccardo, se finge di non aver mai amato nessuno oltre lui, se dimentica di avere avuto una vita perché a cosa serve ricordare di averne avuta una quando inesorabilmente la si perde?, ma Antonio, sordo alla sua muta richiesta, non fa niente di tutto ciò. Lo bacia lievemente su una guancia, concedendogli un ultimo abbraccio consolatorio prima di liberarlo dalla propria stretta.
Giampaolo continua a guardare la notte sentendosi improvvisamente avvolto dal gelo. Sa che non lo rivedrà mai più.

The confrontation.
Glielo portano incatenato, come ha chiesto. È pesto e i suoi abiti sono ridotti a brandelli. Immagina che i suoi ragazzi non l’abbiano certo accolto con baci e abbracci, appena l’hanno visto cercare di fuggire lontano dalla guerra confondendosi fra i cadaveri dei morti in battaglia.
- Lasciateci soli. – ordina. Zlatan, in ginocchio di fronte a lui, sogghigna.
- Potrebbe essere pericoloso, generale. – lo avverte Marco, voltandosi a sputare per terra a due centimetri dal prigioniero, - Questo bastardo schifoso—
- So esattamente cosa posso aspettarmi da lui, adesso. – sorride rassicurante. Marco sibila, non è convinto. Occorre l’intervento di Dejan per convincerlo ad obbedire all’ordine, per quanto anche lui, nel momento di abbandonare la stanza, non riesca a risparmiarsi di voltarsi e lanciare un’occhiata preoccupata al proprio generale, chiedendogli di essere prudente.
- Si preoccupano tutti per te. – commenta Zlatan, ironico e sprezzante. Nonostante sia legato mani e piedi e in condizioni pietose, con un occhio nero, le labbra gonfie e sangue ormai rappreso a fare da culla per quello nuovo che esce copioso da un taglio sul sopracciglio, il suo sguardo è fiero, e non c’è timore nella sua voce.
- È naturale. – ribatte José, prendendo una sedia e sedendosi davanti a lui, in modo da poterlo guardare negli occhi da un’altezza più paritaria, - Dopo quello che hai fatto.
Zlatan sorride storto, fissandolo negli occhi senza provare neanche la minima vergogna per il proprio tradimento.
- Hai sempre saputo che ero un mercenario. – risponde, - Ma mi hai voluto lo stesso.
- Perché pensavo che i soldi bastassero a farti cambiare schieramento, ma non potevo immaginare che bastassero anche a convincerti a vendere i tuoi vecchi compagni! – strilla José, alzandosi in piedi così repentinamente da rovesciare la sedia sul pavimento.
- Io non avevo compagni. – lo corregge Zlatan, improvvisamente più serio, come se José avesse toccato un punto sul quale lui non è disposto a transigere. – Io ero assoldato dal tuo esercito.
- E col tuo tradimento hai mandato a porte persone con le quali avevi riso e scherzato e al fianco delle quali avevi combattuto fino al giorno prima. – gli fa notare José, e poi sembra sgonfiarsi quando legge negli occhi di Zlatan una calma che lo sconvolge. – E non ti senti minimamente in colpa per le loro morti. – considera atono.
Zlatan sbuffa, liberandosi con un repentino gesto del capo di una ciocca di capelli sporca di sangue e terra che gli è scivolata sugli occhi.
- Siamo in guerra. – dice, - La gente muore ogni giorno, con o senza il mio intervento.
José scuote il capo, espirando con rassegnazione.
- Speravo di poter parlare con te, ma vedo che è impossibile. – si china sulle ginocchia, incrociando il suo sguardo da pochi centimetri di distanza. – Un tempo non eri così, Zlatan. – dice a bassa voce, - Cosa ti è successo?
Zlatan freme. I muscoli delle sue spalle e delle sue braccia si tendono e José sa che, se non fosse ammanettato, gli salterebbe alla gola per ucciderlo.
- Secondo te cosa mi è successo, Zay? – ringhia, tanto arrabbiato da usare un soprannome che entrambi credevano di aver sepolto anni e anni fa, ben prima di ritrovarsi a combattere fianco a fianco e, poi, l’uno contro l’altro. – Cosa credi che mi sia successo? Quello che succede a tutti dopo anni di questa vita di merda. – la sua voce si fa più bassa, riducendosi ad un sussurro stentato. – Volevo provare a farla finita con questa guerra di merda. Ho pensato di vendermi l’informazione e poi fuggire con la borsa piena di quattrini.
José si rimette in piedi, guardandolo con disgusto.
- Uno con la tua esperienza avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe mai riuscito a fuggire. Qua intorno non c’è niente. Solo devastazione per chilometri e chilometri. Pensavi davvero di riuscire a farla franca?
Zlatan distoglie lo sguardo, chiude gli occhi e sorride.
- Zlatan. – lo chiama lui, quando capisce che non ha alcuna intenzione di rispondergli. Sospira, coprendosi il volto con le mani per qualche secondo. Quando torna a guardarlo, i suoi occhi sono pieni di lacrime. – Non ho scelta. – dice, - Sei già stato giudicato. E condannato.
Zlatan si ostina a non rispondere. Sorride con una serenità che gli stringe il cuore. È passato troppo tempo dall’ultima volta che l’ha visto sorridere così, troppo perfino per provare a ricordare a quando quel tempo risalga.
- Marco, Dejan! – chiama ad alta voce. I soldati entrano e lui guarda un punto a caso sul pavimento per non essere costretto a fissare Zlatan mentre pronuncia il proprio ordine. – Fucilatelo.
I soldati si avvicinano a Zlatan e lo tirano in piedi di peso. Un attimo prima di essere trascinato via, Zlatan sussurra una parola nella propria lingua. Nell’udirla, José spalanca gli occhi, incapace di credere alle proprie orecchie. Osserva i suoi uomini portare Zlatan nel piazzale retrostante l’accampamento. Lo bendano e poi si allontanano, imbracciando i fucili per eseguire la condanna.
Salutandolo, Zlatan gli ha detto grazie.
José non riesce a liberarsi del pensiero che forse questo era ciò che aveva sempre voluto fin dall’inizio.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Malinconico.
Pairing: Mario Balotelli/Davide Santon, Philippe Coutinho/OC/Adriano, (accennato) Zlatan Ibrahimovic/José Mourinho.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst, What If?.
- Sono passati quasi vent'anni - "diciotto" ripete una vocina fastidiosa nella sua testa - da quando Mario Balotelli è partito da Milano alla volta di Manchester, lasciando l'Inter per il City. E' partito senza una parola, perché era giusto così, e non ha mai avuto un ripensamento, nel corso di tutta la sua vita. La sua carriera è stata lunga e soddisfacente, e da quando ha appeso le scarpe al chiodo ha cominciato a lavorare nel settore giovanile. E' appunto mentre è in ritiro con il Manchester United di Walter Zenga che lo raggiunge la telefonata del suo vecchio mister, José Mourinho.
José a Milano c'è rimasto. Contro ogni previsione, forse anche contro la propria stessa volontà, è rimasto ancorato alla Pinetina per quasi vent'anni, ed ora ha una proposta per Mario. Qualcosa di cui può parlargli solo personalmente.
Mario non ha intenzione di accettare, ma sale comunque sul primo aereo per Milano, ben determinato ad arrivare fino a lì, ascoltare cosa José ha da dirgli e poi declinare la sua offerta per tornarsene a casa. Solo che le cose non vanno esattamente così, e l'offerta di José lui l'accetta.
Note: Una storia di cui avevo intuito l'enormità (delle dimensioni) fin dal momento del plottaggio (qualche mese fa) e che avevo accuratamente tenuta serbata nella mia mente fino all'arrivo del Big Bang XD Non ne avevo neanche parlato con qualcuno, se non per l'accenno di "voler scrivere qualcosa in cui bla bla" a Def, mi pare, accenno che poi lui ha gloriosamente dimenticato, per la mia gioia, visto che questo mi ha permesso di mantenere la suspanssss per un bel po', mentre scrivevo XD *crudeltà* Spero che possiate apprezzarla nonostante la lunghezza infinita (e il melodramma) (e Beautiful).
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VIA LE MANI DAGLI OCCHI

La Pinetina è cambiata un sacco. Mordicchiandosi distrattamente le unghie – un vizio che non ha mai perso nonostante le quasi due decine d’anni passate dall’ultima volta che ha messo piede in quel posto – Mario attraversa salette e corridoi di cui ricorda a memoria la planimetria e scopre in ogni metro qualcosa di differente, nuove piante, un nuovo parquet in palestra, nuovi tappeti, nuove foto incorniciate e appese alle pareti. Così, anche se le mura sono le stesse, i corridoi sono ancora lunghi allo stesso modo e sono invariati perfino i passi da fare per giungere da un posto all’altro, tutti i particolari minuscoli che rendono la Pinetina diversa si fondono in un’unica, grande massa di cose sconosciute che rendono ignoto l’intero ambiente, spaventandolo un po’.
Non è mai stato da lui lasciarsi spaventare, affrontare le cose come se potessero fargli del male. E non sono neanche le svariate coppe vinte dall’Inter negli ultimi diciott’anni ad intimidirlo – è stato molto attento a stare ben lontano dall’Italia, e tutte le vittorie di quella squadra, a parte le due Champions che hanno conquistato a distanza di sette anni precisi l’una dall’altra nel duemilaquattordici e nel duemilaventuno, non l’hanno mai toccato più di tanto – no, è qualcosa di diverso, la sensazione irrazionale di dovere qualcosa a quelle pareti, a quei luoghi, alle camerate del dormitorio, alle file di bagni sempre puliti e profumati, alla vasca del ghiaccio, alla cappella isolata in fondo al viale, agli studi di Inter Channel al piano di sopra, ai campi sempre perfettamente mantenuti di fuori. Un saluto, forse, o un ringraziamento. Niente che abbia mai avuto la possibilità di dire, essendo partito per l’Inghilterra direttamente dal ritiro negli Stati Uniti nel duemiladieci, ma in realtà niente che abbia mai avuto la reale voglia di dire, per cui immagina che, non fosse partito da Philadelphia ma da lì, non l’avrebbe detto comunque, ed ora si sentirebbe esattamente allo stesso modo.
Inizia a pentirsi di aver accettato quel colloquio con Mourinho, ma d’altronde non gli ha fatto alcun tipo di promessa, cosa anche logica, visto che non ha idea di che lavoro voglia proporgli. In realtà, però, attraversando i corridoi verso quella che ricorda perfettamente essere la sala d’aspetto di fronte al suo ufficio, si rende conto di essere stato sciocco ad accettare. Un viaggio a vuoto dal ritiro statunitense dello United – la fedeltà, d’altronde, non è mai stata parte del suo essere – fino a Milano, e già sapendo che, qualsiasi posto sia quello che Mourinho intende offrirgli, la sua risposta sarà comunque un no, sembra troppo stupido perfino per lui, che di cose stupide nella sua vita ne ha fatte. Sempre meno e sempre meno eclatanti, certo, ma le ha fatte, e continua a farle.
Dallo scorcio che riesce a vedere avanzando lentamente lungo il corridoio, la sala d’aspetto sembra vuota. Saluta con un sorriso di gioia sincera la prospettiva di restarsene un po’ seduto in silenzio per i fatti propri a riflettere. È un’abitudine che ha preso quando è partito, su consiglio di Mino, e non l’ha più abbandonata, anche adesso che Mino non è più lì a ricordargliela. “Tu non sei capace di ragionare,” gli diceva sempre, guardandolo con quel misto di severità e ironia che gli aveva sempre fatto pensare a quando i suoi fratelli maggiori lo guardavano nello stesso modo quando lo portavano in giro a farsi vedere dalle squadrette giovanili dei dintorni di Brescia, “perciò, quando ti senti confuso, mettiti seduto da qualche parte, preferibilmente in silenzio, ed elenca i pensieri. Dato che a ordinarli non sei capace, almeno fai una lista e poi cerca di scegliere il più conveniente. Questo dovresti essere in grado di farlo, sì?”
E quello era stato in grado di farlo, sì. Era l’unico modo in cui era davvero riuscito ad andare avanti e non perdersi fino a quel momento. Quando, dopo sei mesi di permanenza al City, il Mancio l’aveva estromesso dalla rosa dei titolari per aver litigato con mezzo spogliatoio – compresi i suppellettili e le docce – aveva davvero pensato di rassegnarsi a passare il resto dell’anno in panchina e poi chiedere a Mino di farsi trasferire ovunque fosse possibile, anche di nuovo all’Inter, pur di mollare quel posto di merda. Ma Mino gli aveva detto “siediti e fai una lista”, e Mario l’aveva fatta, ed alla fine si era calmato, ed era rimasto.
Era rimasto cinque anni, abbastanza a lungo da vincere tutto, Pallone d’Oro compreso – non aveva neanche fatto un grande effetto: era una cosa che si aspettava da se stesso, prima o poi sarebbe arrivato, l’aveva sempre aspettato con la fiducia di chi sa per certo di poterlo fare – e poi era andato via in pace, aiutando il City ad uscire dal brutto buco nero in cui gli sceicchi l’avevano mollato da un anno all’altro, scoperchiando un debito da fare invidia alla peggior gestione di una qualsiasi squadra spagnola o italiana a scelta. Era stata una cosa che aveva fatto con piacere, alla fine sarebbe anche rimasto volentieri: a Manchester s’era scavato il suo posto da titolare fisso inamovibile, posto che era sopravvissuto anche all’avvicendamento degli allenatori che avevano seguito il Mancio, e la tifoseria lo amava, per non parlare della fauna femminile locale. Ma gli era stato chiesto un sacrificio e lui l’aveva fatto a cuor leggero, e d’altronde l’offerta del Real era di quelle veramente irrinunciabili.
A lui era andata bene. Tutti quelli che gli avevano pronosticato una vita alla Cassano, piena di delusioni e con un ravvedimento solo tardivo, a scapito di anni che invece avrebbero potuto essere proficui, erano rimasti con un palmo di naso: Mario Balotelli era maturato subito, come fosse stata l’aria milanese a tenerlo ancorato al proprio infantilismo fino a quel momento, cosa che Mario, tra l’altro, tendeva a non escludere. La sua vita, così come il suo percorso calcistico, era stata bella, piena, regolare. Era rimasto sulla cresta dell’onda per un sacco di anni, aveva seguito un normale declino sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista tecnico, come tutti, senza grandi drammi, senza scadere nel ridicolo e nel patetico come altri grandi prima di lui, e dopo aver chiuso la carriera con un ultimo anno al City s’era trovato un lavoro nello staff tecnico di Zenga allo United, e lì era rimasto a lungo, in una posizione magari oscura, ma tranquilla, a contatto coi ragazzi, giusto perché almeno uno come lui sapeva come prenderli.
Inspira profondamente, pensando ai ragazzini delle giovanili che si sono aggregati con la prima squadra per il ritiro a Los Angeles aspettandosi di aver lui al fianco, mentre lui invece è lì a perdere tempo e ponderare su una decisione che sa di non voler prendere mentre peraltro ancora nessuno gli ha chiesto di prenderla, ed è con questo stato d’animo, nel mezzo della solita confusione di pensieri che gli fa desiderare una stanza vuota e una sedia per poter fare la sua lista e scegliere l’opzione migliore, che entra in sala d’aspetto e non la trova vuota come credeva.
Su una delle poltroncine c’è Davide, che appena gli posa gli occhi addosso si tende tutto come una trappola pronta a scattare, ed il cervello di Mario si annulla, niente più liste da fare, niente più masse di pensieri, niente più pensieri e basta, solo i suoi occhi, i lineamenti del suo viso segnato dal tempo, i capelli corti e brizzolati sulle tempie ed il pizzetto che ridisegna il contorno del suo mento e delle sue labbra con una precisione tale che solo quello basta a togliergli il fiato.
- Ciao. – mormora incerto, avvicinandoglisi di qualche passo. Davide non è cambiato moltissimo, non fatica per niente a riconoscerlo. Anche le sue reazioni sono le stesse. A Mario basta un assaggio fugace del suo profumo per ricordare giorni in cui una tensione simile nei suoi muscoli e nei lineamenti del suo viso poteva essere giustificata solo dalle sue mani che correvano lungo i suoi fianchi e il suo ventre, insinuandosi oltre l’elastico dei boxer alla ricerca della sua erezione.
- Sei già qui. – considera Davide, atono, alzandosi in piedi. Non sembra intenzionato ad avvicinarsi, però, anzi, sta piuttosto sulla difensiva. – Non sei neanche passato dall’albergo? Il tuo volo dovrebbe essere atterrato non più di un’ora fa.
- Per la verità, non ne ho nemmeno prenotato uno. – risponde con una mezza risata, grattandosi nervosamente il collo, - Non penso di restare poi molto.
Le labbra di Davide si tendono in una smorfia poco compiaciuta, mentre scrolla le spalle.
- Come preferisci. – commenta con una freddezza che Mario fatica ad associargli.
- Tu che fai? – chiede, cercando di scioglierlo parlandogli con lo stesso tono casuale e affezionato con cui soleva parlargli anni prima, - Aspetti di vedere il grande capo?
- Già. – annuisce lui, spostando lo sguardo sulla porta chiusa dell’ufficio di José, - Per la verità è almeno una settimana che cerco di fargli cambiare idea sull’opportunità della tua presenza qui. – aggiunge con una naturalezza che quasi lo turba. Parla di lui come di un possibile impiegato e basta, valuta i pro e i contro della sua presenza solo in un’ottica di convenienza lavorativa. È triste, ma Mario immagina fosse inevitabile. È cresciuto – sono cresciuti entrambi – e non c’è più niente, di ciò che avevano, la cui fibra sia resistita abbastanza da consentire loro di aggrapparvisi ancora.
- Come ti dicevo prima, - annuisce serio, - non intendo restare a lungo.
- E allora perché sei venuto? – ritorce Davide, sferzandolo con un’occhiata dubbiosa, - Se già sapevi che, indipendentemente da cosa ti sarebbe stato offerto, non saresti rimasto, perché hai fatto la fatica di muovere il culo e venire fin qui?
Mario si morde l’interno di una guancia, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Non tutto si può spiegare razionalmente. – risponde incerto.
- Sì, invece. – obietta Davide, bussando alla porta, - Se solo si vuole.
- Davide, levati dai coglioni. – risponde immediatamente una voce dall’interno. È invecchiata e arrochita dagli anni e dal fumo, ma l’accento è lo stesso, il tono strascicato e affascinante anche, e Mario non può impedirsi di sorridere, nonostante quella voce non risvegli solo ed esclusivamente ricordi piacevoli, nella sua memoria. – E lascia in pace Mario. Solo uno di voi due metterà piede in quest’ufficio, e mi auguro siate entrambi abbastanza intelligenti da capire chi.
Davide rotea gli occhi, lamentandosi a bassa voce e sputacchiando un flusso inarrestabile di parole inintelligibili, sul sottofondo del quale Mario lascia andare una mezza risatina e lo osserva allontanarsi lungo il corridoio, prendendosi un secondo per inspirare, espirare e poi tornare serio, prima di aprire la porta.
- Però, - commenta, osservando Mourinho seduto dietro la propria scrivania, intento ad osservare degli schemi scorrere sullo schermo ultrapiatto del pc mentre prende appunti a mano sul proprio taccuino, un’abitudine che non ha mai perso nonostante l’evoluzione tecnologica degli ultimi dieci anni, - sei invecchiato bene.
- Tu no. – lo rimbecca lui, senza neanche guardarlo, - Sei diventato una pappamolla. Farti rigirare come un calzino a quel modo da Davide.
- Non sono io che mi sono rammollito, mister. – gli fa notare, prendendo posto su una poltrona di fronte a lui, - È Davide che è diventato una macchina da guerra. Cosa che temo di dover imputare a lei.
Mourinho stacca lo sguardo dallo schermo del computer, posandoglielo addosso in una carezza distratta ma, in qualche modo, perfino affettuosa.
- Mi hai chiamato “mister”. – dice atono.
- Sì, me ne sono accorto a metà parola. – ridacchia Mario, accomodandosi meglio, - Le vecchie abitudini non muoiono mai, immagino.
- Sono passati vent’anni. – insiste Mourinho.
- Quasi vent’anni. – ribatte lui.
- Quasi vent’anni. – concede Mourinho con un mezzo sorriso, - Forse non sei cambiato poi così tanto.
Mario indica la propria testa e la pettinatura decisamente più sobria che porta da quando ha smesso di giocare.
- Un po’ sì.
- Sono differenze minime. – sbuffa l’uomo, agitando una mano davanti al viso con aria annoiata, - Ma Davide le ha notate.
- Non che mi aspettassi niente di diverso. – sorride Mario, lo sguardo che si perde un po’ sul verde rigoglioso della Pinetina fuori dalla finestra. Solo per qualche secondo, comunque, dopo il quale torna immediatamente a concentrare tutta la propria attenzione sul portoghese. – Allora, - comincia, - parliamo d’affari.
José sorride, spegnendo il computer con un tocco appena accennato alla base dello schermo, e poi si alza in piedi. Ha un po’ perso massa, soprattutto il tono muscolare non è più quello di una volta, ed ha perso anche centimetri in altezza, e non è che sia mai stato veramente alto, e nel complesso guardandolo così in piedi, molto più bianco e magro e minuto di quanto lo ricordasse, Mario non riesce ad evitare una stretta di nostalgia che gli avvolge i polmoni e lo stomaco in una morsa soffocante, e le sue labbra si piegano in una smorfia, che fortunatamente, dietro gli occhiali dalla montatura praticamente invisibile, lui non nota.
- Affari. – dice, girando attorno alla scrivania e dirigendosi senza guardarsi indietro verso la porta. Si aspetta che lui lo segua, e Mario si alza in piedi a propria volta, raggiungendolo ma restando dietro di lui di un passo o due, osservando la direzione che prende fra i corridoi e sorridendo quando si rende conto che vuole condurlo di fuori, ai campi. – Fossi in te, io non la metterei in questi termini.
- No? – chiede Mario, incuriosito, osservandolo camminare lentamente con le braccia dietro la schiena, - E come la metterebbe?
- Io non voglio fare affari con te. – dice José, imboccando un viale alberato senza neanche controllare che lui lo stia seguendo ancora, certo com’è della sua presenza pochi passi dietro di lui, - Un affare presupporrebbe del guadagno da parte di entrambi, qualcosa di vantaggioso sia per me che per te. Io, invece, voglio essere sincero e chiederti un sacrificio. Un accordo in seguito al quale io guadagno un giocatore, e tu praticamente niente.
Mario si lascia sfuggire una risatina incerta, inarcando le sopracciglia.
- Io non gioco più da tempo, mister. – gli fa notare, - Non può propormi una cosa del genere.
- Non ho mai pensato di rimetterti a giocare per me, Mario. – ride divertito lui, salutando il sorvegliante all’ingresso dei campetti sui quali si allena la Primavera, - Ho seguito il tuo percorso lavorativo, però, e devo dire che mi hai molto sorpreso.
- Nel senso che non si aspettava che durassi tanto? – chiede lui, ironico.
- Sciocchezze. – risponde José, - Mi sarei aspettato che durassi un po’ di più, s’è per questo, ma dal momento che è evidente che non hai mollato perché non ce la facevi più, ma perché t’era venuto a noia, direi che va bene così. Comunque, no. – spiegò, rallentando decisamente il passo in prossimità dei campi, - Parlo di quello che hai fatto dopo esserti ritirato. Il tuo è un lavoro di responsabilità, ed ho sempre pensato che, una volta appesi al chiodo gli scarpini, avresti cercato di rifuggirne il più possibile.
Mario scrolla le spalle, lasciando scorrere gli occhi sul campetto sul quale alcuni ragazzi si stanno allenando, divisi in piccoli gruppi.
- Me la cavo coi ragazzini. Mi adorano tutti. – risponde, osservando Davide entrare da un cancello secondario, molto distante da loro, e raggiungere subito un assistente, per recuperare una cartellina prima di piazzarsi al centro del campo e battere le mani con forza, richiamando l’attenzione dei ragazzi ed ordinando loro di radunarsi in cerchio attorno a lui. – È lui che allena la Primavera? – chiede con aria allucinata, puntandolo con un dito e voltandosi a guardare José con un sorriso incredulo sulle labbra.
- Già. – risponde lui, invitandolo a proseguire il cammino e fermarsi poco più avanti, molto più vicino alla squadra, per osservarli più facilmente, - La mia proposta ha a che fare proprio con la Primavera, nel caso te lo stessi chiedendo.
- Naturalmente. – ride Mario, osservando i ragazzi cominciare a giocare a torello divisi in due gruppi, - Altrimenti non mi avrebbe portato qui.
- L’ottimizzazione dei tempi e delle risorse è la prima regola sulla quale baso il mio lavoro, - annuisce il portoghese, - dovresti saperlo. E poi sono convinto di avere maggiori possibilità di farti accettare la mia proposta, se ti mostro dal vivo il soggetto in questione.
Mario si volta a guardarlo inarcando un sopracciglio, scettico.
- Di chi parliamo? – chiede, e segue il cenno del capo di José fino ad incontrare la figura solitaria di un ragazzino piuttosto magro, mulatto, che palleggia disinvoltamente e con aria abbastanza annoiata a bordocampo. – Chi è?
- Si chiama Christos. – risponde José, atono, - Ha diciott’anni compiuti da un pezzo. Tecnicamente è abbastanza maturo da poter andare in prestito, ed è ciò che dovrebbe fare se non vuole fare la riserva per sempre, visto che in prima squadra non c’è posto per lui.
- Però? – lo incita a proseguire, poggiando una mano sulla ringhiera quasi ad aggrapparvisi, mentre lo osserva con maggiore attenzione.
- Però non vuole. – risponde José in una mezza risata sconfitta, - Riesci a crederci? Sta per mandare a repentaglio un’intera stagione perché non ha intenzione di andare via.
- Vuole la prima squadra? – chiede Mario, concentrato. Il ragazzo continua a palleggiare come se nulla di ciò che gli succede intorno, loro che lo osservano o i suoi compagni che si allenano, possa davvero toccarlo.
- Non ne sono sicuro. – riflette José, - D’altronde, scoprirlo sarà uno dei tuoi compiti, per cui me ne tiro fuori.
Mario torna a posargli gli occhi addosso, aggrottando le sopracciglia.
- Di cosa stiamo parlando, nello specifico?
José sorride, riprendendo a camminare.
- Hai sei mesi. – gli risponde, - Nella finestra invernale, il ragazzo deve andarsene. Troveremo noi una squadra adatta ad accoglierlo, ma Christos deve andare in prestito. E con le buone, perché è un capitale molto importante per questa società. Non vogliamo rischiare di perderlo per colpa di un capriccio adolescenziale.
- Dico, - borbotta Mario, affiancandoglisi, - non avete pensato a mandarlo da uno psicologo o chessò io? O parlare col suo procuratore, magari? Di solito aiuta. – suggerisce con un sorriso furbo. José gli lancia un’occhiataccia ed è così palese che vorrebbe tirargli un ceffone sulla nuca che Mario quasi pensa di porgergliela.
- Il suo procuratore è d’accordo con noi, così come gran parte del suo entourage, almeno stando a quello che siamo riusciti ad intuire parlando con alcuni di loro, ma il ragazzo non si lascia convincere. Tu hai detto di saperci fare, no? Allora dimostralo. Ufficialmente farai parte dello staff tecnico di Davide, ma il tuo compito è risolvere il problema con Christos, quindi non lasciarti distrarre da altre questioni, siano esse lavorative o personali.
- Non mi parli come avessi già accettato. – gli ricorda lui, serio, - Non l’ho ancora fatto. Voglio prima parlare col ragazzo.
José sorride ancora, e Mario si accorge che, camminando, sono arrivati fino al cancello d’ingresso del campetto, solo quando José lo spalanca.
- Allora vai. – lo invita, sempre sorridendo, - Hai tutto il tempo che vuoi.
Mario si mordicchia l’interno di una guancia, ripensando ai ragazzi dello United, a Los Angeles, a Zenga che come minimo comincerà a cercare di rintracciarlo ininterrottamente nel giro di tre ore massimo quattro. E poi oltrepassa il cancello e si avvicina a Christos.
*
- Preferisci essere chiamato in qualche modo particolare? – chiede Mario sorridendo, mentre si avvicina a Christos all’ombra degli alberi che circondano il campetto. Il suo sguardo corre per un secondo a bordocampo, dove Davide sta scuotendo con un bastone piuttosto lungo le fronde di un albero dall’altro lato rispetto a loro, imprecando in ferrarese stretto. Da quando il Campionato Primavera è stato praticamente equiparato in importanza a quello maggiore, i giornalisti spiano anche i ragazzi, ed è divertente osservare il malcapitato spione mentre cerca di arrampicarsi più in alto per non essere preso a bastonate, mentre il servizio di sicurezza accorre, più per salvare lui che per aiutare Davide che, è evidente, se la caverebbe benissimo anche da solo. – Non so, - riprende, tornando a guardare il ragazzo, - Chris? Christi?
- Il mio nome è Christos. E non mi piacciono i nomignoli. – risponde lui, continuando a palleggiare. Quella che usa è una palla di quelle nuove, ultraleggere, perfettamente sferiche, con le cuciture invisibili ad occhi e tatto. È incredibile come riesca a controllarla al punto da compiere palleggi così brevi e precisi, senza mai sbavare. Dev’essere un pezzo che non gli viene permesso di allenarsi coi compagni.
- Davvero? – ride Mario, sedendosi su una panchina là accanto, - E Tramontana non ti ha affibbiato nessun soprannome?
- Gli ho chiesto di non farlo. – continua a palleggiare Christos, imperturbabile, - Il nome di una persona è importante. Voglio essere ricordato col mio nome, quando diventerò famoso.
- Ed è Christos come? – insiste Mario, - Ce l’avrai un cognome, no?
Il ragazzo gli lancia un’occhiata ironica e si produce in un palleggio lievemente più alto. Afferra il pallone sul palmo di una mano e poi lo lascia rotolare a terra, mentre quello trova subito la sua strada verso gli altri palloni accatastati in un angolo poco lontano.
- No, non ce l’ho. – risponde con un mezzo ghigno, piantando una mano sul fianco, - Non ho cognome perché nessun genitore s’è premurato di darmelo. E prima che tu possa pensare che alla base del mio comportamento ci sia un’enorme solitudine, ti dico subito che alla base del mio comportamento c’è esattamente il contrario. – si ferma per un secondo, Mario fa per aprire la bocca e, al solo vederlo, Christos ricomincia a parlare. – E prima anche che tu possa pensare che io e te ci assomigliamo… io so chi sei. E non ci assomigliamo per niente. Tu eri uno stupido ingrato e non sei per niente la persona più adatta ad aiutarmi ad entrare nell’ottica di idee di dover partire. Io questo posto non lo lascio. E non intendo stare a sentirti.
Mario serra le labbra, non perché sia davvero sorpreso – Christos è un ragazzino difficile; bella storia, non è il primo né l’ultimo che incontrerà nella sua vita – ma perché si rende conto di quanto inutile e frustrante potrebbe essere continuare questa conversazione adesso, mentre Christos non ha voglia di ascoltarlo e lui, be’, lui ha voglia solo di prenderlo a pallonate in faccia fino a far diventare la palla cubica.
- Come preferisci. – risponde, alzandosi in piedi. – Comunque, se mi conosci come dici, saprai anche che questo bel discorsetto non mi fermerà certo dal provare lo stesso a convincerti.
Christos scrolla le spalle, avvicinandosi al mucchio di palloni e recuperandone uno, per tornare a palleggiare.
- Accomodati. – gli risponde, senza più guardarlo.
Immediatamente fuori dal campetto, Mario trova Mourinho ad aspettarlo, con un sorriso enigmatico sul volto.
- È andata bene? – gli chiede.
- Malissimo. – risponde lui, - E non mi dica che si aspettava qualcosa di diverso, perché non ci credo neanche se me lo giura. – Mourinho ride divertito, riprendendo a passeggiare ed aspettandosi che lui gli vada dietro, cosa che d’altronde Mario fa immediatamente. – Comunque, accetto il lavoro.
- Adesso posso dire che non mi aspettavo niente di diverso. – annuisce il portoghese, - Posso chiederti cosa ti ha convinto?
- Mi ha dato dell’ingrato. – sbotta Mario, velenoso.
- E ha torto? – chiede José, inarcando un sopracciglio.
- Certo che sì. – insiste lui, offeso, - Ero giovane, non ingrato. Lui, in compenso, è giovane, vigliacco e terrorizzato. E crede di avere una risposta per tutte le domande del mondo. – José fa per chiedergli qualcosa, ma Mario lo ferma con un sorriso. – E sì, - annuisce sicuro, - ha torto anche su questo.
*
- Sei sicuro di volerlo fare, Davide? – gli chiede José, le braccia incrociate sul petto, - Non sarebbe certo un problema trovargli una stanza da qualche parte.
- Casa mia è abbastanza grande per ospitarlo finché non trova un posto dove stare in pianta stabile. – risponde lui, scrollando le spalle. Mario li osserva discutere appoggiato allo stipite della porta, dopo aver recuperato la valigia all’ingresso, dove l’aveva lasciata arrivando. – Non capisco per quale motivo la società dovrebbe anche sobbarcarsi il peso del suo vitto e del suo alloggio quando già ci toccherà pagargli un lauto stipendio. Per non parlare della penale che ci scucirà di dosso lo United, non siamo mica andati a pescare un assistente a caso, no, noi dovevamo andare a tirar loro via il dannato direttore dell’area tecnica del settore giovanile. – sbuffa infastidito, e José ride di gusto.
- Ti dispiacerebbe venirci a patti, Davide?
- E magari non parlare come se non ci fossi? – aggiunge Mario, agitando una mano come a volersi mostrare ai loro occhi. Davide ignora Mourinho, ma si volta repentinamente a guardare lui.
- Sarà dura cambiare abitudini, - dice amaramente, - considerando che ho sempre parlato di te come non ci fossi, negli ultimi vent’anni. Chissà perché. Ah, già, perché non c’eri.
- Il che ci riporta alla questione principale. – s’intromette José, sollevando gli occhi al cielo e poi tornando a posarli su Davide. – Sei sicuro di volerlo fare?
Lui sospira pesantemente, rilassando le spalle e massaggiandosi le tempie.
- Sì. – risponde, visibilmente più sereno rispetto a prima, - Sì, sono sicuro. Non mi pesa, davvero. E poi mi toccherà abituarmi, e questo è il modo migliore.
- Devi abituarti a lavorare di nuovo con lui, Davide, mica a conviverci. – ride José, ed un brivido identico scorre lungo le schiene di entrambi i suoi interlocutori, visto che nessuno dei due ha ancora dimenticato quando le due cose non facevano che mescolarsi l’una con l’altra.
Ma erano altri tempi, e loro erano altre persone. Davide saluta Mourinho con un abbraccio affettuoso, augurandogli la buonanotte, prima di passare accanto a Mario ed ordinargli di seguirlo, conducendolo verso la propria macchina nel parcheggio sul retro.
- Quindi sei tornato per restare? – gli chiede mettendo in moto, lo sguardo fisso sulla strada.
- Devo ancora fare un paio di telefonate per risolvere qualche questione e, naturalmente, sottopormi all’ovvia ramanzina di Walter, ma tendenzialmente sì. – risponde lui, sorridendo distrattamente. – Milano è molto cambiata, da quando sono partito. – commenta, lasciando scorrere lo sguardo sulle enormi campagne che attraversano, lontano dai terreni industrializzati dei quali si possono scorgere i contorni all’orizzonte.
- Sì, in peggio. – annuisce Davide, le mani ben salde sul volante, - Fortunatamente, Appiano resta un’oasi in cui il progresso non si è introdotto in modo troppo invasivo, anche se è ovviamente tutto merito della gestione. Adesso l’intero paese appartiene a noi. Abitiamo tutti lì, con le nostre famiglie.
- Dev’essere un vero paradiso. – ride Mario, guardandolo con attenzione. Gli occhi di Davide non si staccano mai dalla strada.
- È l’unico posto veramente abitabile nei dintorni. Almeno per me. – scrolla le spalle lui, - Milano è tremendamente inquinata, e così caotica. – aggiunge con malcelato disgusto.
- Ti piaceva, quando ci abitavamo insieme. – si lascia sfuggire lui, come fosse un aneddoto di poco conto. Gli occhi di Davide saettano immediatamente sulla sua figura, infuocati di rabbia.
- Troppo tempo fa perché possa ricordarmi per quale motivo una cosa simile potesse bastarmi per ignorare tutto il resto. – risponde acido. Mario incassa e non ribatte.
Casa di Davide è enorme, e stupenda. È una di quelle ville che da qualche anno a questa parte rappresentano il top per architettura e progettazione, completamente immersa nella natura, tutta in legno, vetro e acciaio. Le scorre accanto un torrente di quelli che Mario pensava si fossero drenati tutti. Un ruscellino allegro e scrosciante, c’è perfino una ruota attaccata ad una cabina che Mario immagina provveda a parte dell’energia elettrica che serve per rifornire la casa. Può scorgere i pannelli solari che provvedono al resto sul tetto, e si sente profondamente inadeguato nel ripensare al suo attico da scapolo incallito a Manchester. Cosa se ne debba fare Davide di una casa così grande, comunque, resta un mistero.
- Nella piscina – dice Davide, indicando la vasca colma d’acqua proprio davanti alla casa, - va l’acqua del torrente, depurata. Viene ulteriormente depurata e rimessa in circolo per uso domestico, ed è perfino potabile.
- Wow. – ride Mario, ammirato, - Devi andarne fiero.
- È così, in effetti. Non che sia un pezzo unico, visto che da queste parti è l’unico modo per vivere serenamente se vogliamo anche cercare di preservare l’ambiente, o nel giro di poco tempo anche Appiano farebbe la fine di Milano e dintorni, - sospira, - però sì, l’ho voluta con forza e ne sono molto orgoglioso. È l’ambiente ideale per crescere un figlio.
Fermandosi sulla soglia della porta, aspettando che Davide digiti il proprio codice per disattivare l’allarme e far scattare la serratura, cercando disperatamente di non mostrare quanto profondamente l’abbia scosso l’implicazione maggiore delle ultime parole di Davide, Mario si chiede se avrebbe potuto esistere un modo migliore per venirlo a sapere. Meno doloroso, meno violento, meno improvviso.
- Sei sposato. – constata seguendolo in casa, - E hai—
- Papà! – strilla un bambino di non più di sei anni, correndogli incontro inseguito da una babysitter scarmigliata, - Papà, sei— - si ferma all’improvviso, quando nota la sua presenza al fianco di Davide. Mario lo osserva divertito spalancare gli occhi e puntargli il dito contro, allucinato. – Ma è Mario Balotelli! – dice, saltellando sul posto, - È Mario Balotelli!!!
- Urrà! – borbotta Davide, roteando gli ochi, - È così che si salutano gli ospiti, Giovanni? – lo riprende poi, con tono pacato ma grave. Il bambino si calma un po’, incrocia le braccia dietro la schiena e china il capo, ma continua a pestacchiare incessantemente coi piedini contro il pavimento, e si vede che sta per esplodere. Mario ride pianissimo, sperando che Davide non lo senta. Ovviamente, Davide lo sente, e lo sferza con un’occhiataccia disapprovante prima di sospirare ed arrendersi. – Va bene, va bene. – mugola, sfilando la giacca ed appendendola all’attaccapanni, - Sciogliti, per carità, non voglio vederti scoppiare sul tappeto preferito di tua madre. – concede con un mezzo sorriso.
Giovanni urla qualcosa di non meglio definito e corre incontro a Mario, cominciando a saltellargli davanti e tutto intorno in preda ad una straordinaria eccitazione.
- Sei Mario Balotelli! – gli ripete per la terza volta in dieci minuti. Mario ride, accucciandosi davanti a lui per raggiungere la sua altezza. È piuttosto piccino, per avere la sua età, ed un sacco sottile. Assomiglia tremendamente a suo padre, tranne per gli occhi, di un anonimo castano che non ha niente a che vedere con quello più liquido e brillante di Davide, affogato in un verde di cui Mario non è mai riuscito a capire nemmeno come fosse possibile l’esistenza.
- Già. – dice annuendo, - Conosco il mio nome, sai? – lo prende un po’ in giro, molleggiando sulle punte.
- Sì, ma è che tu sei Mario Balotelli! – continua a squittire il bambino, battendo le mani, - Mangi con noi? Possiamo giocare un po’, dopo cena? Possiamo, sì?
Mario solleva gli occhi su Davide che, in fondo all’ingresso, scambia qualche battuta veloce con la babysitter, che scompare lungo il corridoio subito dopo.
- Allora? – chiede ad alta voce, per attirare la sua attenzione, - Possiamo, papà?
- Mario, non abusare della mia pazienza. – lo avverte lui con un sorriso pericolosamente teso, - Gio, Mario resterà qui per qualche tempo. – dice quindi, chinandosi a prendere in braccio il bambino.
- Un po’ di tempo quanto? – chiede quello, gli occhi che brillano d’emozione.
- Qualche giorno, penso. Un paio di settimane, forse. – risponde Davide. Giovanni, incapace di trattenersi oltre, comincia a saltellargli in grembo.
- Mi farò insegnare un sacco di cose! – strilla, dimenandosi come un’anguilla.
- Sì, sì, certo. – ride Davide, rimettendolo a terra, - Hai già sentito tua madre, oggi?
- Sì! – risponde subito Giovanni, sollevando le braccia con entusiasmo, - No, aspetta… - ci ripensa poi, assumendo una posa molto seria e riflessiva, tremendamente comica. – No, oggi no. – risponde quindi, incupendosi.
- E cosa stai aspettando? – chiede Davide, scompigliandogli i capelli vaporosi e biondicci, - Vai di là e telefonale. Niente cena se prima non le parli per almeno venti minuti!
- Vado! – dice Giovanni col solito entusiasmo, sollevando nuovamente le braccia e correndo via.
- Però. – ridacchia Mario quando il bambino scompare alla vista di entrambi, - Quanta gioia di vivere. La madre dov’è?
- Hera è in tour negli Stati Uniti, per ora. – risponde lui, sollevando gli occhi al cielo, perfettamente visibile oltre la cupola di vetro che fa da soffitto all’ingresso, - Starà via almeno fino a gennaio.
- Hera? – ride Mario, recuperando il proprio bagaglio e seguendo Davide quando anche lui imbocca il corridoio, - Non so se sia più comico il pensiero che tu abbia sposato la stessa ragazza con cui stavi a diciott’anni, o il fatto che gli armadietti dei miei ragazzini a Manchester sono tappezzati delle sue foto in topless per Rolling Stones. – commenta ironico. Davide si volta a guardarlo malissimo per qualche secondo, prima di procedere.
- Se sei venuto qui per insultare la mia famiglia, faccio sempre in tempo a buttarti fuori da questa casa. – lo minaccia blandamente, - O infilarti nell’inceneritore, chissà che almeno la tua presenza non porti qualcosa di utile, tipo energia elettrica sufficiente per cucinare la cena di stasera.
Mario ride ad alta voce, fermandosi subito dietro di lui quando Davide spalanca una porta, mostrandogli la sua stanza.
- …cazzo, Davide, questa stanza da sola è grande quanto metà di tutto il mio appartamento. – commenta, sinceramente ammirato, muovendo qualche passo all’interno della camera, - Quanto è grande questa villa?
- È abituata a contenere un mucchio di persone. – scrolla le spalle lui, - Persone che naturalmente non faranno i salti di gioia al pensiero di rivederti, come ho cercato insistentemente di spiegare a José per le ultime due settimane della mia esistenza, ma comunque. – sospira teatralmente, - Sistemati pure qui. – lo invita con un cenno del capo, - La cena sarà in tavola fra tre quarti d’ora. Non tardare, Giovanni deve andare a letto presto e dubito che si rassegnerà ad obbedire prima che abbiate giocato almeno un po’. – sospira ancora, scuotendo il capo, - Ma chi me l’ha fatto fare… - esala in un mugolio sommesso, avviandosi stancamente lungo il corridoio.
Mario lo osserva allontanarsi con un sorriso intenerito, stupito da quanto sia semplice, nonostante il figlio e l’atteggiamento ostile, sentirlo ancora tanto vicino anche e soprattutto nelle piccole cose, nei piccoli cenni che gli fa, nelle occhiate che gli lancia. Si chiude la porta alle spalle, sistemandosi in fretta. Non vuole fare tardi.
*
L’espressione sconvolta che rende ridicolo il viso di Zlatan non può che costringere ad una mezza risata Davide, nonostante tutto, nel momento stesso in cui appare sullo schermo del videotelefono.
- Ho chiamato appena ho saputo. – dice lo svedese, gli occhi spalancati e i capelli tutti arruffati, come si fosse appena svegliato, - Ma il portoghese è impazzito del tutto all’improvviso?
- Non faccio che chiedermelo da quando me ne ha parlato. – sospira Davide, lanciando un’occhiata al giardino illuminato di fuori, sul prato naturale del quale Mario e Giovanni si rincorrono fra loro fingendo di rincorrere entrambi il pallone, - Non mi ha neanche chiesto cosa ne pensavo, ha semplicemente preso una decisione. E tu sai com’è quando prende una decisione.
- Lo so anche troppo bene. – sbotta Zlatan con una smorfia, - Ma perché non me l’hai detto?
- Perché tu sei un procuratore, Zlatan. – risponde Davide, - E questi invece sono affari della società. Non potevo dirtelo.
- Professionalmente parlando, no. – annuisce Zlatan, - Ma considerata la nostra vecchia e proficua amicizia…
- Sempre no. – sorride lui, mentre Mario prende in braccio Giovanni e lo fa volare più in alto di quanto lui non sia mai riuscito a fare. – È un bel casino. – sospira quindi, abbattuto.
- E non può che peggiorare. – commenta Zlatan, pensoso. – Dade, ma Mario ha idea di chi sia la gente che Christos frequenta? I suoi amici, le persone che l’hanno cresciuto… non è veramente pensabile che ci possa lavorare in mezzo, me compreso. Sarà una guerra.
- Senti, a me non dici nulla di nuovo! – sbuffa lui, stendendosi contro lo schienale della poltrona ed allentando il nodo della cravatta, - È José che s’è fissato, io non avrei mai permesso che una cosa simile potesse accadere, se lui non mi avesse scavalcato. Fa’ il tuo mestiere, comportati da procuratore e rompi i coglioni alla società. Io non posso farlo, tu sì.
- Non posso farlo nemmeno io, Da’. – ride Zlatan, inarcando un sopracciglio, - Avrei potuto, fino a cinque anni fa, ma ormai il regolamento è tutto cambiato, e la nostra libertà di rompere i coglioni al nostro prossimo, che poi è stato il motivo principale che mi ha spinto a intraprendere questa carriera, s’è molto ridotta.
Davide torna ad avvicinarsi al videotelefono, sorridendo appena.
- Ora non raccontarmi balle. – borbotta, - Sappiamo entrambi che non è per questo che hai cominciato. - Zlatan rotea teatralmente gli occhi, gesticolando come a scacciare via una mosca molesta, e Davide torna a distendersi, molto più rilassato di quanto non fosse prima. – Senti, perché non gli parli? Christos è una cosa molto speciale, per lui, ma è evidente che se te l’ha affidato, dodici anni fa, l’ha fatto perché ritiene di potersi fidare di te. Prova a spiegargli che non è questo il modo per—
- E qual è il modo, Davide? – chiede Zlatan, abbattuto, - Perché io, sinceramente, non ho più conigli da tirare fuori dal cappello. Ho esaurito le risorse. Christos deve partire, se vuole avere una dannata carriera, e deve staccarsi da questo dannato posto, ed io non so come convincerlo a farlo.
- Il problema è che non so come potrebbe convincerlo Mario. – considera Davide, atono. – Ti saluto, adesso, sta rientrando. – dice frettolosamente, osservandolo avvicinarsi alla porta con Giovanni già addormentato appoggiato su una spalla, - Ci vediamo domani a pranzo, come al solito.
Zlatan lo saluta con un breve cenno del capo ed interrompe la chiamata. Il suo volto scompare dallo schermo prima che Mario possa raggiungerlo.
- Dove lo poso questo sacco di patate? – gli chiede in una mezza risata. Davide sorride intenerito, alzandosi in piedi e tendendo le braccia per farsi passare il bambino, che mugola appena ma resta addormentato nonostante gli smottamenti.
- Ci penso io. – risponde, - Tu va’ a riposarti. Non hai idea della giornata che ti aspetta, domani. – dice, quasi divertito. – Conosci la strada. – conclude, salutandolo con un cenno della mano ed avviandosi lungo il corridoio. Mario si guarda intorno e si chiede cosa abbia dato a Davide questa certezza, visto che è arrivato non più di un’ora e mezza fa, ma sospira, si rimbocca metaforicamente le maniche e parte alla ricerca della propria camera. È, invero, piuttosto soddisfatto quando, dieci minuti dopo, la trova.
*
Nonostante le parole tutt’altro che rassicuranti di Davide, non gli è riuscito di chiudere occhio. Mentre si cambiava per la notte, Zenga l’ha chiamato ed ha preteso che rimanesse in piedi accanto a letto senza mai sedersi mentre lo rimproverava strillandogli addosso quanto fosse irresponsabile, e stupido, e quanto in realtà stesse aspettando una cosa simile da anni e l’avessero capito tutti tranne lui. Mario non sa perché abbia obbedito, non sa perché sia rimasto in piedi quando avrebbe tranquillamente potuto sedersi o anche stendersi e non ci sarebbe stato modo, per Walter, di saperlo, dall’altro lato del mondo. Tutto quello che sa è che, anni fa, non l’avrebbe mai fatto. Sedersi o stendersi sarebbero state le prima cose che avrebbe fatto nel momento stesso in cui avesse sentito le parole “resta in piedi”. Oggi, ad anni di distanza, in una casa non sua, lontano dalla propria vita, dalla propria squadra, e catapultato nella vita e nella squadra che erano sue vent’anni prima, invece, non l’ha fatto. Qualcosa significherà, ma Mario non sa cosa, ed in ogni caso non è ancora pronto a chiederselo.
Incapace di restare ancora a letto a sudare nonostante la casa perfettamente rinfrescata, si alza ed esce dalla propria stanza, guardandosi intorno. Non vuole finire nella zona delle camere di Davide e Giovanni, per cui cerca di ricordare verso dove ha visto avviarsi Davide quando l’ha salutato prima di andare a dormire e si dirige verso un punto completamente opposto, sperando di trovare qualcosa. Qualsiasi cosa.
Gira a vuoto per almeno un quarto d’ora. Incontra porte chiuse, il salotto con la porta a vetri, un bagno con la porta socchiusa – probabilmente lasciata così apposta nell’eventualità che lui ne avesse bisogno – e poi, semplicemente, la porta di casa. Attraverso i vetri si vede tutto, il cielo pieno di stelle, la vegetazione rigogliosa ovunque, il torrente che scende lungo la collina e la piscina. E Davide che fa il bagno.
Esce cercando di non fare troppo rumore, ma nel silenzio totale che avvolge il giardino Davide fa in fretta a sentirlo comunque, e si volta a guardarlo. Non sembra infastidito, né sorpreso dal suo trovarsi lì.
- Non riesci a dormire? – gli chiede. Mario scrolla le spalle, avvicinandosi. Sfila le ciabatte e si siede a bordo vasca, dondolando i piedi, mentre Davide si issa sulle braccia, appoggiandosi sui gomiti e restando fuori dall’acqua solo per metà, proprio accanto a lui.
- Pensavo. – risponde, piantando le mani per terra e provando semplicemente a rilassarsi.
- A cosa? – chiede Davide. La sua voce è dolce, carezzevole, completamente diversa da quella che ha usato per rivolgersi a lui per tutto il resto del giorno.
- A domani. – risponde lui, vago, - A come mi organizzerò, a cosa dirò a questo benedetto ragazzo. Il mister mi ha detto che è importante.
- Allora evidentemente lo è. – risponde lui, lo sguardo fisso nel buio.
- Ti fidi di Mourinho? – chiede Mario, incerto.
- Hai dimenticato com’è con lui? – ritorce Davide, ironico, - O ti fidi, o ti rassegni. Per la maggior parte delle cose riesco a fidarmi, sì. Per tutto il resto, mi rassegno.
- Come con me. – suggerisce Mario. Davide sospira.
- Esatto. – risponde, - Come con te.
Mario lascia che qualche minuto passi in perfetto silenzio, riempito soltanto dallo sciabordio dell’acqua contro le rocce del letto del torrente, e poi schiude le palpebre, ritira le gambe e si piega per guardare Davide dritto negli occhi.
- Ho bisogno del tuo aiuto. – gli dice. Davide si ritrae appena, solo pochi millimetri, ma abbastanza perché Mario possa notarlo e interpretarlo come un segnale di sfiducia. – Professionalmente parlando. – precisa lui, aggrottando le sopracciglia, - Lavorare coi ragazzini non è facile. Ogni parola può essere quella sbagliata, e quello con Christos sarà un lavoro di precisione. A Manchester sono abituato a lavorare a stretto contatto con le famiglie, col loro supporto, mentre qui non ho niente. Mi serve tutto quello che sai. Come è arrivato qui questo ragazzino, chi ce l’ha portato e perché. E questo non perché sono Mario, non perché stavamo insieme e non perché ti ho lasciato, - dice tutto d’un fiato, - ma perché siamo colleghi.
Davide resta teso a lungo, anche dopo aver finito di ascoltarlo. Quando si scioglie, espirando stremato e tornando ad appoggiarsi a bordo vasca, i suoi occhi tornano distanti e un po’ smarriti. Perdono parte di quel bagliore che da sempre li rende più vivi e vispi di quelli degli altri, e istintivamente Mario sa che tutto questo sta avvenendo perché Davide sta spingendo la propria memoria a ricordare tempi antichissimi, che avrebbe preferito non dover rivangare mai più.
- Tu eri andato via da poco, e tutti noi eravamo ancora troppo esaltati dalla vittoria della Champions per preoccuparci. Di te o della trattativa in corso fra José e il Real. Io personalmente continuavo a pensare che tutto fosse andato come doveva andare, e che avrebbe continuato ad essere così anche da quel momento in poi, per cui se José doveva andarsene, che andasse. Così come avevi fatto tu. – si ferma per qualche secondo, inumidendosi le labbra, incerto. – Sarebbe andato via davvero, sai? La trattativa col Real era quasi chiusa. E poi una mattina si presenta in sede, a bordo di una macchina dai vetri oscurati, e mezz’ora dopo esce ed è ancora l’allenatore dell’Inter. – Davide sospira, dondolandosi un po’ nell’acqua. – Mario, cazzo, lo sai quanto sono lunghi vent’anni?
- Diciotto. – lo corregge lui, teso.
- Diciotto. – concede Davide, - Sono lunghissimi, per certuni sono una vita. Per Christos, per dire, lo sono. – solleva lo sguardo e incontra quello di Mario. I suoi occhi brillano di nuovo, adesso, e Mario può vederli con chiarezza.
- …Christos. – dice piano, - È lui la ragione per cui è rimasto.
Davide annuisce, inspirando profondamente.
- Non ci ha mai detto da dove sia spuntato. Ognuno di noi ha teorie diverse sul punto. Io credo sia suo figlio, per esempio, anche se non ho proprio idea di chi potrebbe essere la madre. Fatto sta che, da un giorno all’altro, Christos era sempre con lui. – sorride appena, gli occhi di nuovo persi nel vuoto, - Ci è praticamente cresciuto, in Pinetina, capisci? José non lo portava mai a casa, restava in dormitorio con noi. Ci prendevamo tutti cura di lui a turno, facevamo le notti in bianco quando era piccolissimo, e ci siamo abituati tanto alla sua presenza che dopo un po’ prendercene cura non è più stata una fatica, ma un piacere.
Mario annuisce composto, tornando a immergere i piedi nell’acqua.
- Almeno adesso è chiaro perché non vuole partire neanche morto. – considera. Davide annuisce.
- Christos ha grandi progetti, per il suo futuro. – dice, - È cresciuto in mezzo a grandissimi campioni e sa ciò che vuole. Il problema è che lo vuole all’Inter, dove è sempre stato, e non riesce ad accettare la possibilità di doversene separare per raggiungere i propri obiettivi. Sa che tornerebbe, il presidente Moratti è quasi un nonno per lui, ed Angelomario non lo manderebbe mai via senza avere la certezza di poterlo riprendere all’occorrenza, ma non accetta compromessi. Abbiamo… - sospira, - Abbiamo tutti cercato di spiegargli che non è così che funziona, ma lui vuole ottenere ciò che vuole alle sue condizioni e basta. E da lì non si muove.
Mario annuisce ancora, prendendo mentalmente nota di tutte le informazioni ottenute.
- Grazie. – dice infine, - Sono sicuro che tutto questo mi sarà utile.
- Anche perché io non ho altro da darti. – scrolla le spalle Davide, uscendo dalla piscina e sedendosi al suo fianco.
- Dovrò parlare con il suo procuratore, con chiunque frequenti di rilevante. – ragiona, - Sarà possibile?
Davide ride a bassa voce, stringendosi nelle spalle.
- Sarà obbligatorio, più che possibile. – risponde, - È tutta gente che in un modo o nell’altro continua a frequentare Appiano ancora oggi. Non sarà difficile ottenere quello che cerchi.
Mario sorride soddisfatto. Fa per alzarsi, ma all’ultimo secondo ci ripensa, restando là seduto.
- Tu perché non dormi? – gli chiede, lanciandogli un’occhiata fintamente casuale, - Pensieri per la testa?
Davide sospira, chiudendo gli occhi per una manciata di secondi.
- Non intendo mentirti, Mario: la tua presenza qui mi turba. – confessa, - Se sono riuscito ad andare avanti con la mia vita dopo che te ne sei andato, è perché la vita, che tu lo voglia o no, si muove, e tu puoi solo muoverti assieme a lei. Restare fermi non è proponibile. E così mi sono sposato, ho avuto un figlio, ho costruito questa bella casa, e ora faccio un lavoro che mi piace e sono un uomo soddisfatto. Ma quando guardo te… - mormora, voltandosi a sfiorarlo con un’occhiata improvvisamente dolce, quasi antica, - …torna tutto indietro. Tutto assieme. Ed è un po’ troppo, sai? – conclude con una risatina un po’ incerta.
Mario si inumidisce le labbra, sollevando un braccio con l’intenzione di sfiorargli una spalla. I suoi polpastrelli toccano appena la sua pelle nuda ed umida, e lui subito ritrae la mano, quasi si fosse scottato.
- Mi troverò presto un altro posto dove stare. – dice a bassa voce. Davide lo guarda con delusione palese negli occhi, e Mario si alza da terra, un po’ impacciato. Tanto che, quando la mano di Davide scatta ad afferrarlo per una manica, tirandolo repentinamente giù, lui inciampa sui propri stessi piedi e gli cade praticamente addosso, la maglietta che si inumidisce all’istante, a contatto con la sua pelle bagnata. Si guardano negli occhi per una quantità di tempo che non riescono né vogliono quantificare, e Mario ha l’impressione che possa spuntare il sole da dietro le colline troppo presto, ad un certo punto, ed è per questo, solo per questo, perché sente l’alba approssimarsi ed ha paura che, sorgendo, il sole possa togliergli la possibilità di fare ciò che vuole, che si china su di lui e copre le sue labbra con le proprie in un bacio che è bagnato solo perché lo è Davide, lo sono loro.
Si rimette in piedi subito dopo. È ancora notte, buia più che mai. Davide, sdraiato a bordo vasca, così perso e vulnerabile, lo tenta – senza volerlo, probabilmente – come mai niente l’ha tentato prima d’ora. E Mario distoglie lo sguardo.
Davide respira a pieni polmoni e poi si alza in piedi a propria volta, stando bene attento a non scivolare.
- Non metterti fretta. – gli suggerisce, - Non solo per la casa. In generale. Prenditi il tempo che ti serve. Non ti butterò in mezzo a una strada. – conclude passandogli accanto e rientrando in casa.
Mario sfiora con due dita la propria maglietta all’altezza del ventre. È calda e bagnata, di Davide e di lui. Ne stringe con forza un lembo in un pugno, prima di tornare in camera propria.
*
- Non vuoi parlare prima col suo procuratore? – chiede José, inarcando un sopracciglio mentre prepara sbrigativamente il programma della seduta di allenamento mattutina, picchiettando a memoria col pennino sul touchscreen del palmare. Mario lo osserva per qualche secondo, notando come non abbia nemmeno bisogno di stare a guardare cosa stia selezionando. Dopo vent’anni, malgrado tutti i cambiamenti che ci sono stati nel lavoro, nella società ed anche nel modo di intendere il calcio a livello nazionale e globale, Mourinho tende comunque a restare immutabile come ha sempre pensato che sarebbe stato.
- No. – risponde sinceramente, - Sarebbe perfettamente inutile. Non avrei niente da dirgli.
- Guarda che è una delle persone che lo conoscono meglio, in giro. – gli fa notare l’uomo, mentre dalla stampante in un angolo della stanza viene fuori il programma dell’allenamento su carta, pronto ad essere appuntato all’immancabile cartellina senza la quale José non sembra essere in grado di sopravvivere, abitudine che non ha mancato di passare anche a Davide.
- Non importa. – insiste Mario, - È comunque una figura di tipo professionale, nella sua vita. Non è direttamente parte del suo privato. Quindi, al momento, non mi serve.
José sospira, appuntando il foglio col fermaglio in cima alla cartellina.
- Scoprirai col tempo che, quando si parla di Christos, professionale e privato sono due concetti che vanno inaspettatamente a braccetto.
Mario sbuffa, esasperato, e José ride di gusto.
- Può lasciarmi fare come dico io? – ride a propria volta Mario, già dimentico dell’offesa, - Non ci riesce proprio, eh?
- Be’, sei stato tu il primo a chiamarmi “mister”. – risponde José, dandogli una pacca sulla spalla, - È ovvio che io mi sia adeguato. Comunque, - sorride, avviandosi verso l’uscita del proprio ufficio e facendogli cenno di seguirlo, - dimmi cosa ti serve.
- I nomi. – annuisce Mario, - Quelli che l’hanno cresciuto.
José rallenta il passo, riflettendo per qualche istante.
- Davide ti ha già detto tutto, vero? – chiede. Mario annuisce. – Non è mio figlio. – dice immediatamente lui, - So che Davide lo pensa, ma non è mio figlio. Non ho mai tradito Tami e non avrei mai potuto. Le ho chiesto molto, quando le ho parlato di Christos. Le ho chiesto di fidarsi di me, di non indagare, di rinunciare a sapere. Per lei non è stato facile. Christos ha passato la quasi totalità del suo tempo con me per i primi tre, quattro anni della sua vita, e dal momento che non potevo portarlo a casa, visto il rischio enorme che correvo di essere visto o fotografato con lui, non solo ero costretto a lasciarlo in Pinetina praticamente sempre, ma trascorrevo lì quasi tutti i giorni. Ogni giorno. Ventiquattro ore su ventiquattro. – sospira, scuotendo il capo. – Puoi immaginare cosa questo possa voler dire per un matrimonio? Non esserci mai perché troppo impegnato ad accudire un figlio non tuo.
Mario si inumidisce le labbra, incerto.
- Di chi è figlio Christos? – chiede a bassa voce. José si volta a guardarlo con severità, come lo avesse appena scoperto a rovistare fra i suoi documenti privati.
- Non ne ho idea. – risponde alla fine. Mente, e Mario se ne accorge, ma non ritiene opportuno insistere oltre. Se Mourinho non glielo sta dicendo, vuol dire che non ritiene possa essere un’informazione utile. Magari i suoi genitori sono morti, magari erano suoi cari amici. In sostanza, non sono fatti suoi. – Ed al contempo, lo so. – continua José, ora più pensieroso. Si prende qualche secondo, prima di proseguire. Mario lo scruta con attenzione. – Esclusi Davide e me, - dice quindi, - Javier, Esteban, Dejan e, per una strana combinazione di coincidenze, - aggiunge con un sorriso più dolce, - Philippe. Sono queste le persone che si sono occupate più spesso di lui, quando era piccolissimo. I suoi punti di riferimento, per così dire. Molti altri sono quelli che l’hanno seguito man mano che si faceva più grande, ma cercavo per quanto possibile di non coinvolgere troppo i nuovi arrivati, o comunque i più piccoli. Preferivo fidarmi dei senatori.
- L’ha sempre fatto. – ride Mario, inarcando un sopracciglio. – Come mai Coutinho? – chiede quindi, incuriosito, - Che vuol dire una strana combinazione di coincidenze?
José solleva gli occhi al cielo, parzialmente divertito, parzialmente rassegnato.
- Cose di cui sarebbe meglio evitare di parlare. – risponde enigmatico, - Cose, comunque, che potrà dirti lui stesso, se vorrai incontrarlo.
- Vorrò incontrare tutti loro. – annuisce Mario, tornando serio, - Dovrà dirmi dove e quando.
- Be’, gli allenamenti stanno per cominciare. – riflette José, lanciando un’occhiata all’orologio da polso, - Posso concederti dieci minuti con Philippe mentre gli altri si scaldano. Quanto agli altri, temo dovrai aspettare la pausa pranzo. A quest’ora, sono già tutti impegnati da un pezzo. E Javier non tornerà dall’Argentina prima di qualche giorno.
- È sempre stato… - mormora Mario, gli occhi bassi, mentre escono sui campi appena fuori dal centro sportivo, - …spiazzante, credo. Il modo in cui la maggior parte delle persone che hanno a che fare con questa società poi, per un motivo o per l’altro, insistono sempre per rimanerci incastrate a vita. C’è gente che non s’è mai mossa da qui. È una cosa che non riesco a comprendere.
José ride divertito, stringendogli affettuosamente una spalla.
- È per questo che sei la persona adatta a convincere Christos a darsi una mossa. – lo rassicura incoraggiante, - Adesso, forza, al lavoro. Per incontrare Deki e il Cuchu, durante la pausa pranzo, ti converrà andare in mensa. È probabile che Christos sia con loro, peraltro. – riflette, grattandosi il mento, - Dirò a Davide di trattenerlo con una scusa.
- Grazie. – annuisce Mario, sorridendo appena. – In generale.
José risponde al suo sorriso, salutandolo con un’altra pacca sulla schiena, prima di indicargli Philippe che fa il proprio ingresso in campo con un asciugamano poggiato sulle spalle.
Mario gli si avvicina sfoggiando un sorriso aperto, carico di fiducia, incoraggiante. Riflesso sul volto di Philippe, però, trova un sorriso molto diverso. Divertito, ironico, incuriosito, forse, ma non certo ben disposto. Si dà mentalmente del cretino per avere accettato l’incarico abbandonando un lavoro piacevole che amava profondamente, e poi si fa forza.
- Ciao. – lo saluta, tendendogli la mano. Philippe si ferma e gliela stringe con decisione, il suo sorriso ora è vagamente meno indisponente. – Noi due non abbiamo mai avuto propriamente modo di conoscerci.
- No, non direi. – ammette Philippe, allontanandosi verso una panchina ma aspettando che lui lo segua, - Quando sono arrivato, tu eri già andato via. Un trasferimento lampo, non c’è che dire.
- Conosci come me le tempistiche del calciomercato di allora. – scrolla le spalle lui, rimanendo al suo fianco mentre Philippe solleva una gamba e l’appoggia sulla seduta della panca per un po’ di stretching, - Tutto poteva avvenire in poche ore, oppure potevano volerci dei mesi. Da uscirci pazzi.
- Eccome. – ride Philippe, piegandosi e risollevandosi ritmicamente, - È vera quella storia su Raiola? Se n’è parlato tanto, qualche anno fa. L’esaurimento nervoso e tutto…
- Balle. – sbotta Mario, roteando gli occhi, - Di gente che non ha mai imparato a tacere. Mino stava male già da un po’, quando s’è messo in pensione. È sempre stato un testardo, ma contro il secondo infarto non poteva spuntarla nemmeno lui. Ero lì quando è successo, sai? I medici gli avevano detto di riguardarsi, mangiare leggero, ed invece a casa sua si organizzavano cene spaziali ogni tre giorni. Pollo, costolette alla brace, peperonata, pomodori ripieni… - ride, - Le sue ultime parole, poco prima dell’attacco di cuore, sono state “Mario, tu eri, sei e resterai per sempre un cazzone”. Gli avevo appena detto di volermi ritirare.
Philippe ride ad alta voce, rimettendo entrambi i piedi per terra e saltellando un po’ sul posto.
- Aveva ragione? – chiede curiosamente.
- Sì, abbastanza. – risponde Mario, ridendo a propria volta.
- Sembri averla presa bene, comunque. – commenta Philippe, inarcando un sopracciglio ironico.
- Be’, sì. – scrolla le spalle lui, invitandolo ad una breve passeggiata con un gesto. Philippe accetta. – Sembrava proprio non dovesse farcela, dopo il primo infarto. Ero molto amareggiato, temevo che non avrei avuto modo di salutarlo, o di ringraziarlo. Sai, quello che sono oggi, per quanto possa sembrare assurdo, è in gran parte merito suo. E invece poi s’è ripreso. Questo mi ha dato qualche mese in più. – guarda verso gli alberi che circondano il centro sportivo, sempre uguali, immutabili, le punte che fanno il solletico al cielo di un azzurro sorprendente sopra le loro teste. – Quando se n’è andato, eravamo a posto, se capisci cosa intendo. Tutti dovremmo avere il tempo per elaborare i lutti, di qualsiasi tipo siano.
- Che una cosa del genere venga proprio da te… - ridacchia Philippe, le braccia incrociate dietro la schiena, mettendo avanti un piede alla volta, serenamente, - Quando sei andato via, non hai proprio lasciato a nessuno il tempo giusto per elaborare, mi pare.
- Lo so. – ride Mario, - L’ho capito dopo. D’altronde, non ho mai fatto mistero di essere stato uno stronzo.
- Ed ora? – chiede Philippe, svoltando a sinistra per girare attorno al campo.
- Ora è diverso. – sospira Mario, - Sembra siano passati secoli, da quando me ne sono andato da Milano. Comunque, - si interrompe, ridendo divertito, - non è certo per psicanalizzare me che siamo qui, adesso.
- Aaah, eccoci qua. – solleva gli occhi al cielo Philippe, rassegnato, - La sfilza di domande su Christos.
- Ti dispiace? – chiede Mario con un mezzo sorriso. Philippe scrolla le spalle, ed anche il capo.
- Spara. Prima risolviamo questo problema, meglio sarà per tutti.
- Come l’hai conosciuto?
Philippe scoppia a ridere, divertito oltre il legale.
- Conosciuto? Tu quando sei arrivato come hai conosciuto i letti, i divani, le donne delle pulizie…?
Mario si lascia andare ad una risatina complice, tirando fuori dalla tasca un palmare sottilissimo e minuscolo corredato da un pennino col quale comincia immediatamente a prendere appunti sullo schermo.
- Credo di capire cosa intendi. – annuisce, incitandolo a continuare.
- Christos era già qui da più di un mese, quando sono arrivato io. – racconta il capitano, - Era già uno di famiglia. Dovevi vederla, tutta la squadra, un branco di omaccioni sudati che dopo l’allenamento fuggivano via per andare a coccolare ed allattare un infante piagnucoloso. – ride, perso nella propria memoria, - Erano uno spettacolo fantastico. Io a quei tempi non capivo una parola di italiano, per cui ero abbastanza confuso. Al mister, peraltro, non piaceva parlarne. Puoi immaginarti il casino?
- Lo immagino sì. – annuisce Mario, ridendo un po’, - E poi?
- Poi niente. – Philippe scrolla le spalle, - Christos è sempre rimasto qua, così per un motivo o per l’altro era sempre in giro. Io sono diventato capitano nel duemilasedici e quello è stato un anno piuttosto confuso, sai, con l’infortunio di Davide e tutto. – lo guarda per qualche secondo, prendendo atto solo distrattamente della sua occhiata vagamente perplessa, - Insomma, sentivo di avere una certa responsabilità, no? Christos aveva sei anni. Ed un giorno torna infebbrato e indisposto dopo l’allenamento dei pulcini, e comincia a ricoprirsi di pustoline. Varicella. – solleva gli occhi al cielo, - Abbiamo passato insieme qualcosa come una settimana, non mi sono mai allontanato da lui. Non poteva praticamente uscire dalla stanza, il campo sportivo come al solito era pieno di bambini e sarebbe stato pericoloso. E stando a stretto contatto con lui, ero contagioso anch’io. Non sapevo chi o meno nel centro avesse avuto la varicella da piccolo, perciò per evitare problemi siamo entrati entrambi in una mini-quarantena.
- Non dev’essere stato facile. – riflette Mario, picchiettando un po’ a caso col pennino sul touchscreen, disegnando puntini neri sul foglio virtuale che scompaiono immediatamente quando ci passa sopra con un dito, - Trascorrere tutto quel tempo da solo con un bambino praticamente sconosciuto.
- Invece è stato facilissimo. – sorride Philippe, - Ci siamo trovati subito. Era così incredibilmente affascinato da… tutto, più o meno. – ride appena, - La sua curiosità era irrefrenabile. Mi tempestava di domande, soprattutto sulla squadra, e su com’era giocare in Brasile. Io mi sposai quell’anno, - sorride più teneramente, - e ricordo di aver pensato distintamente che mi sarebbe piaciuto avere un figlio come lui. Per un certo periodo, dopo il matrimonio, pensammo anche di adottarlo. – ride, un’improvvisa nota amara nella voce, - Sai, non potendo avere figli nostri ci siamo detti “piuttosto che pagare un utero in affitto, perché non lui?”. Ma il mister non era d’accordo, andò su tutte le furie quando glielo proponemmo, ed alla fine non se ne fece più niente. – scrolla le spalle, guardando altrove.
- Tu di chi pensi sia figlio? – chiede Mario a bruciapelo, mettendo via il palmare.
- Non ne ho idea. – risponde sinceramente Philippe, lanciando un’occhiata ai propri compagni che già si allenano in mezzo al campo, - Suo, credo. Lo crediamo quasi tutti. Ma chi può saperlo. In ogni caso, - sospira, - dopo quell’episodio il rapporto fra me e Christos si fece particolarmente stretto. Si prese anche una bella cotta per me, ma di quelle di una certa entità, sai? Se l’è portata dietro per anni.
Mario inarca le sopracciglia, divertito.
- È gay? – chiede con un mezzo sorriso.
- Dio, - sospira Philippe, - non potrebbe essere più gay neanche se indossasse un corpetto ed una minigonna fucsia ed andasse in giro facendosi chiamare Veronique. Sai che a dodici anni l’ho beccato a scambiare scarpini per un bacio? – ridacchia, - Deki gli aveva comprato questo paio di Nike Vintage splendide, era l’edizione di quell’anno ispirata alle vecchie Superfly del 2009, una roba che gli invidiavano tutti dalle giovanili ai più grandi, soprattutto perché sai, c’era sopra l’autografo di Zlatan e tutto, e… - gli lancia un’occhiata, prendendo atto del suo sguardo a dir poco confuso, e ridacchia imbarazzato, - …sto divagando. Comunque, regalò gli scarpini a un ragazzo degli Allievi in cambio di un bacio. Avresti dovuto vederlo, ne andava orgogliosissimo. Del bacio, dico, non degli scarpini.
- …wow. – ride Mario, stupito ma nonostante tutto divertito, - Un tipino niente male.
Philippe sbuffa una mezza risata sarcastica, grattandosi nervosamente la nuca.
- Già. – risponde, - Forse è per questo che… Dio, dirlo è ancora così difficile. – ridacchia appena, guardando insistentemente qualsiasi punto circostante che non sia il viso di Mario, - Insomma, avemmo una storia. Non lunga, ma a suo modo… importante. E questa cosa ha distrutto completamente il mio matrimonio, mettendoci definitivamente una pietra sopra.
Mario gli batte una pacca sulla spalla, comprensivo.
- State ancora insieme? – chiede incerto.
- No, - ride Philippe, - e da parecchio tempo.
- E… insomma, non hai mai provato a ricontattare il tuo ex? – insiste Mario, inarcando le sopracciglia. Philippe ride ancora.
- Non ho bisogno di ricontattarlo, - risponde, - lo vedo ogni giorno. Ora sta insieme a Christos, - ride un po’, - e da parecchio tempo. – conclude, facendosi il verso da solo. – Ora scusami, - lo saluta, sottraendosi al suo tocco, - devo andare ad allenarmi. Non sarò più il capitano di questa squadra, dall’anno prossimo, perciò voglio godermi appieno ogni occasione di torturare i giovani che mi viene offerta da qui a fine stagione. Ci si becca in giro.
Quando lo vede allontanarsi, attraversando il cancello e correndo fino a centrocampo mentre Mourinho gli urla che non c’era bisogno di prendersi le ore per raccontargli l’intera storia della sua vita, per qualche secondo Mario rimane immobile a fissare il vuoto con aria perplessa, e non può fare a meno di chiedersi in che razza di trappola si sia andato a cacciare.
*
Quando Mario arriva, la mensa è piena di ragazzini che chiacchierano e fanno rumore spostando sedie, posando piatti e posate, tirandosi calci a vicenda e ridendo come idioti per ogni battuta. Li riconosce facilmente perché ricorda com’era avere la loro età e frequentare quella stessa mensa, mangiare quello stesso cibo – be’, forse non propriamente lo stesso, dopotutto – e ridere allo stesso modo delle stesse battute cretine.
Riconosce facilmente anche Deki e il Cuchu, comunque, perché non sono cambiati di una virgola. Sorride, o almeno ci prova, nonostante sia teso come una corda di violino, mentre si avvicina al tavolo al quale sono seduti, da soli. Non mangiano, parlottano fra loro con aria serena, e lui si sente quasi di troppo quando scolla un “ehi” impacciato che lo riporta a vent’anni prima e ad un se stesso molto più piccolo che si avvicinava agli stessi due uomini sperando che potessero dargli una mano ad ambientarsi in mezzo ai grandi.
Dejan si volta a guardarlo immediatamente, ed il suo movimento è così repentino e inaspettato da spiazzarlo. Mario fa un mezzo passo indietro mentre l’espressione del serbo si fa istantaneamente tesa e poi subito maggiormente rilassata, anche se si tratta palesemente di una forzatura volta a non metterlo troppo a disagio.
- Ciao. – sillaba Esteban, la voce incerta solo inizialmente, che va prendendo confidenza man mano che comincia a parlare, - José ci ha avvertiti che saresti arrivato. Sei un po’ in ritardo, però.
- Chiedo scusa. – sorride appena lui, grattandosi la nuca, - Avevo un po’ di appunti da riordinare. Pare che Christos sia uno su cui gli aneddoti si sprecano.
- Oh, potrei raccontartene alcuni piuttosto piacevoli. – ridacchia Dejan, incrociando le braccia sul tavolo, - D’altronde, è stato qui in giro parecchio a lungo. Ha assorbito tutte le influenze che poteva assorbire e le ha portate ad un nuovo livello evolutivo.
- Piantala, Deki. – ride Esteban, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca. – Non ascoltarlo, - continua, tornando a rivolgersi a Mario, - va così orgoglioso del piccolo che ogni tanto straparla.
- Il piccolo? – domanda divertito Mario, - È alto quasi quanto me.
- Quando conosci qualcuno che è ancora così piccolo da poterlo tenere sul palmo di una mano, fatichi ad accettare che possa davvero crescere. – considera Esteban, malinconico.
- Confermo. – annuisce Dejan, - E ti assicuro che io ho provato in ogni modo possibile a convincermene, eh. Non c’è stato verso.
Mario annuisce, tirando fuori il palmare dalla tasca a picchiettando lievemente sul touchscreen per accenderlo.
- Quand’è arrivato qui? – chiede con tono professionale.
- Era una notte buia e tempestosa… - risponde Dejan, ironico, gesticolando e modulando la voce perché risulti più cupa di quanto in realtà non sia, - A che ti serve saperlo, Supermario?
- Dio. – ride lui, scuotendo il capo, - Non mi chiamano così da secoli. E non fate i vaghi, ho bisogno di queste informazioni, e se c’è qualcuno dal quale posso estorcerle, quelli siete voi.
- Puoi provarci. – ribatte Dejan, sorridendo sereno, - Ma non ci riuscirai.
- Vedi, Mario, - spiega Esteban pazientemente, - Christos, così come ciò che questa squadra è stata, soprattutto negli ultimi quindici anni, è famiglia. Tu sei un elemento che ha preferito smettere di farne parte prima che si formasse definitivamente. Quindi ci sono cose che non possiamo dirti.
- Ci sono cose che non vogliamo dirti. – precisa Dejan, guardandolo con una certa severità.
Mario aggrotta le sopracciglia.
- È stato José a chiamarmi. – fa presente, offeso.
- Senza prima consultare nessuno di noi. – ritorce Dejan, ora decisamente meno calmo.
- Deki. – lo riprende Esteban, lanciandogli un’occhiata disapprovante prima di tornare a guardare Mario con indulgenza, - Non prenderla sul personale. – si scusa stringendosi nelle spalle, - Quello di averti qui è un desiderio di José, non esattamente condiviso da gran parte della comunità. Aiuteremo come potremo, per il bene di Christos, ma se sei venuto qui per una cronistoria completa della sua vita da quando è arrivato ad Appiano fino ad ora, è mio dovere avvertirti che questo sarà solo il primo di una lunga serie di buchi nell’acqua, per te. Oltretutto, - continua con un sospiro, - noi sappiamo molte cose, e Christos ci vuole molto bene, ma è innegabile che i suoi punti di riferimento, al momento, siano altri. È a loro che dovresti rivolgerti.
- …il suo ragazzo. – riflette Mario, occhi bassi ed espressione concentrata, - E il suo procuratore. – qualcosa gli si illumina negli occhi, all’improvviso, - Il suo ragazzo è il suo procuratore? – chiede incerto.
- Ti piacerebbe. – scoppia a ridere Dejan, quasi piegandosi in due per le grandi risate, - Così almeno avresti una sola gatta da pelare. E invece no, caro mio, sono due ed entrambi problematici come si addice ad uno come Christos. Non si può che augurarti buona fortuna. Secondo me José l’ha fatto apposta, a gettarti in questa fossa di leoni. È la sua vendetta, dopo tutti questi anni.
- Dejan. – lo chiama Esteban, cupo e gelido, sferzandolo con un’occhiataccia peggiore di tutte le precedenti messe insieme, - Ora basta.
Dejan sospira, allungando una mano ad accarezzargli la testa perfettamente lucida.
- La pianto, la pianto. – annuisce alzandosi in piedi, - Vado a prendere una boccata d’aria. E tu, - dice, rivolgendosi a Mario, - farai meglio a tornartene a casa e riposarti. – il suo sorriso si fa più dolce, solo per un momento, - Scommetto che per oggi ne hai già avuto abbastanza. – conclude, prima di allontanarsi verso l’uscita.
Esteban gli si avvicina subito dopo, dandogli qualche pacca su una spalla, con la mano bene aperta.
- Scusalo. – dice sorridendo, - Devi un po’ capire che per tutti noi la questione della tua presenza qui è molto complessa. Sei un po’ una storia che non si è mai chiusa, - ridacchia, - sarà dura riviverti, e poi magari lasciarti andare di nuovo.
- Non è detto che vada così. – dice Mario, aggrottando le sopracciglia, - Potrei rimanere. Sono una persona diversa, adesso.
Esteban sorride con più convinzione, la presa della mano sulla sua spalla che si fa più stretta solo per un attimo, prima di lasciarlo andare.
- Potresti. – annuisce, - Chissà. Un passo alla volta, vuoi? – ride. Mario sbuffa un mezzo sorriso, ed annuisce.
- Cosa cazzo ci fai qui? – dice una voce tetra alle sue spalle. Quando si volta a guardare, si ritrova davanti Christos, ancora sudato e coi capelli ricci scarmigliati sulla testa, - Stai lontano da lui.
- Christos. – prova a intromettersi Esteban, ma lui non gli dà modo di farlo, scattando in avanti ed afferrando Mario per il colletto della camicia, prima di strattonarlo e spingerlo verso la parete.
- Stai lontano da lui! – tuona minaccioso, - Stai lontano dalla mia famiglia, stai lontano dalla mia vita! – grida, prima di dare loro le spalle e fuggire di fuori attraverso la portafinestra in fondo alla sala.
Mario respira a fatica, immobile contro la parete, Esteban al suo fianco che gli chiede come stia. Tutti gli sguardi dei presenti sono voltati verso di lui. Gli duole una spalla. Per un secondo, un secondo soltanto, ha avuto paura di Christos. È stato sufficiente a farlo dubitare di fin troppe cose che credeva al di fuori di ogni questione.
*
- Ho saputo che l’incontro in mensa non è andato esattamente bene. – commenta Davide, sistemandosi addosso la polo e tirandone su e giù il colletto mentre si guarda con attenzione nello specchio, alla ricerca del risultato migliore.
- Oh, e immagino come questo ti dispiaccia. – ride Mario, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate sul petto, - Scommetto che avresti voluto essere lì per vederlo.
- Oh, sì. – ghigna Davide, decidendo per il colletto sollevato e dandosi una sistemata ai capelli, - Sarebbe stato grandioso.
- Stronzo. – ride Mario, tirandogli uno scappellotto contro la nuca. Davide ride a propria volta, sollevando una mano per fermarlo e, non riuscendoci, scattando ad afferrare quella che l’ha appena colpito, senza però lasciarla andare. La tiene stretta fra quattro dita, e Mario lo lascia fare anche quando si volta e la esamina lentamente, con gli occhi e coi polpastrelli, scivolando fra le dita, contando le falangi.
- Sicuro che non ti pesa restare qui con Giovanni? – gli chiede soprappensiero, continuando a guardare il palmo chiaro della sua mano, - Posso ancora chiamare la babysitter. Magari hai qualcos’altro da fare.
- Niente che non possa aspettare domani. – risponde lui, la mano libera che risale lungo il braccio di Davide e poi si poggia quasi casualmente sulla sua spalla, strofinandola piano al di sopra del tessuto leggero della maglietta a maniche corte. È come se i loro corpi stessero imparando da capo come trovarsi, come non l’avessero mai saputo. Ricorda quando succedeva davvero, quando davvero né lui né Davide avevano idea di cosa aspettarsi da una carezza o da un bacio, e pensa che quella condizione, rispetto a questa, era mille volte più lieve, mille volte meno dolorosa. Ora Mario sa di cosa saprebbe Davide se solo si sporgesse a coprire le sue labbra con le proprie. Conosce alla perfezione il tepore della sua pelle, il suo odore, la sensazione tattile dei suoi fianchi ossuti, delle sue natiche piene, della sua voglia dura fra le dita. Eppure non può prendersela. È lì e non può averla. – Esci spesso con Obi? – chiede quindi, cercando di far sì che il suo tono risulti il più casuale possibile.
Davide ride di gusto, e solleva gli occhi dalla sua mano, incontrando il suo sguardo.
- Sei geloso. – constata con divertimento palese.
Mario si stringe nelle spalle, incapace di trattenere un sorriso sornione.
- Forse. – concede in una mezza risata, - Ma questo non risponde alla mia domanda.
Davide inspira profondamente, tornando a guardare la sua mano, ed anche a rigirarsela fra le dita.
- Al contrario di te, - comincia con tono polemico, ma intimamente divertito, - Joey per me c’è stato in ogni momento in cui ne ho avuto bisogno. Quando sei andato via… - sospira, - Insomma, avevo bisogno di qualcuno a cui aggrapparmi, e ne avevo bisogno immediatamente, perché tu eri quello cui mi aggrappavo prima e te n’eri andato via troppo presto. Non mi hai… lasciato il tempo di recuperare l’equilibrio.
- Avete avuto una storia? – chiede Mario a bruciapelo.
- No, demente. – risponde Davide, tirandogli uno schiaffo contro la nuca, - C’è stato e basta. Per chiacchierare, per uscire, quando ho avuto qualche problema scemo con Hera… soprattutto, c’è stato quando mi è andato in pezzi il ginocchio.
Lo sguardo di Mario torna a farsi più serio, mentre con la mano che prima gli accarezzava una spalla sale ad accarezzargli anche il collo, e i contorni del viso.
- Fuori sono arrivate notizie frammentarie. – dice a bassa voce, inumidendosi le labbra, - La notizia ha fatto scalpore, ma i giornali dicevano tutti una cosa diversa, e dopo un po’ ho perso traccia di quello che ti stava succedendo.
- Avresti potuto chiamarmi. – sospira Davide, socchiudendo gli occhi.
- Potevo, sì. – annuisce lui, - Ma non volevo. Avrebbe riportato a galla troppe cose, non era passato abbastanza tempo.
- Erano passati sei anni, Mario.
- Non era passato abbastanza tempo, Davide. – ripete lui, calcando maggiormente le parole. Davide schiude le palpebre e torna a guardarlo.
- I medici l’hanno capito subito che non c’era più niente da fare. – racconta, il tono dimesso e spento, - Solo che hanno aspettato di esserne certi al cento per cento prima di dirmelo. Allora il trattamento a base di PFD non era ancora legale, per quanto fosse a un passo dallo sviluppo completo, e io potevo scegliere di farmi riempire il ginocchio di viti e convivere con ossa che si sarebbero ridotte in polvere ciclicamente dandomi il tormento, oppure… be’, ritirarmi.
- …e tu hai scelto di ritirarti. – conclude Mario per lui, guardandolo intensamente. Davide scrolla le spalle.
- Non volevo rischiare di gettare fango su quanto di buono avevo costruito nel corso di tutta la mia carriera. – spiega, - Non sarebbe stato giusto, e non solo per me, ma anche per tutti quelli che mi avevano aiutato a diventare quello che ero. Che sono.
- Avresti potuto diventare capitano. – insiste Mario, accarezzandogli una guancia col pollice seguendo le linee della barba rasata di fresco, - Anche solo per un anno.
- Solo per un anno? – ridacchia Davide, scuotendo il capo, - Io non volevo essere il capitano dell’Inter solo per un anno, Mario. Io volevo esserlo fino a che non mi fossi ritirato, io volevo morire con la consapevolezza di aver giocato l’ultima partita della mia vita con quella maglia addosso, con quella fascia al braccio. Ma non posso spiegartelo adesso, perché questa è la classica cosa che non hai mai capito, l’unica che tu non abbia mai afferrato di me, e se non l’hai compresa allora non la comprenderai mai.
Mario distoglie lo sguardo, abbassando la mano che lo accarezzava ma lasciando che Davide continui a stringere l’altra fra le proprie.
- Mi dispiace. – sussurra sincero. Davide sorride.
- Non dispiacerti. – scuote il capo, - Ci sono cose che semplicemente non sono destinate ad accadere. Tu sei stato felice, no? Non eri destinato a restare. E io sono stato felice, Mario, davvero. Te lo giuro. Per cui non è colpa tua. Non hai niente di cui scusarti.
Mario si morde un labbro. Improvvisamente, le sue dita si chiudono attorno a quelle di Davide, e le stringono teneramente.
- Posso baciarti? – chiede in un fiato. Non sa perché stia chiedendo il permesso quando potrebbe semplicemente chinarsi e prendersi le sue labbra come in passato ha sempre fatto senza che ci fosse bisogno di espliciti permessi di alcun tipo, sente soltanto che deve farlo. Che questa non è una cosa che può decidere da sé, che è una scelta che deve coinvolgere anche Davide. Perciò lo chiede. E lo ripete. – Posso baciarti?
Davide ride, scuote il capo con rassegnazione e si sporge in avanti, appoggiando la propria fronte contro la sua. È così vicino che potrebbe semplicemente spingersi di qualche centimetro verso di lui e baciarlo, ma non può. Non prima di aver ricevuto una risposta.
- No. – è la risposta di Davide. E quindi Mario non può baciarlo affatto. – Devo andare, adesso, sono in ritardo. – dice, allontanandosi da lui, - Giovanni a letto per le nove e mezza massimo, e niente ologiochi se prima non finisce tutti i compiti. – lo avverte con una mezza risata, recuperando la giacca dalla spalliera di una sedia e dirigendosi verso l’uscita.
- Quella roba lo fa impazzire. – commenta Mario divertito. Davide annuisce, strizzandogli un occhio.
- È mio figlio, d’altronde. Noi due sui videogiochi ci facevamo le nottate. – ridacchia, sparendo oltre l’uscio e richiudendosi la porta alle spalle. Mario non ha neanche il tempo di salutarlo.
*
Due letturine con protagonisti uccellini perduti che non riuscivano più a ritrovare la strada di casa – in inglese e in italiano – una cena e mezz’ora di tiri in porta fuori in giardino dopo, Giovanni giace sbadigliante nel proprio lettino con la luce accesa, e Mario sta seduto sul bordo, proprio accanto a lui, sistemandogli le coperte sul petto.
- E poi che hai fatto? – chiede il bambino, gli occhi così piccoli da sembrare solo due linee sottili che brillano a tratti nella luce giallognola dell’abat-jour sul comodino a fianco, - Gliele hai date di santa ragione, vero?
- No che non gliele ho date di santa ragione. – ride Mario, scuotendo il capo, - Ibrahimović era largo il doppio di me, io ero solo un ragazzino. Mi ha rincorso per tutto lo stadio e mi sono dovuto chiudere a chiave in bagno per impedire che a darmele di santa ragione fosse lui!
Giovanni ride, rotolandosi un po’ fra le coperte e scombinandole tutte, così che a Mario tocca sollevarle nuovamente e risistemargliele addosso tenendole dagli orli.
- Era davvero così manesco, da giovane? – chiede curiosamente il bambino, - Ora a guardarlo non sembra, è sempre gentile con me.
- Lo conosci? – chiede Mario, inarcando un sopracciglio, dubbioso. Giovanni annuisce freneticamente, entusiasta.
- Ogni tanto viene qui a pranzo o a cena! Papà borbotta sempre, perché Zlatan lo prende in giro.
- Sì? – ride lui, sporgendosi curiosamente verso Giovanni per incitarlo a continuare.
- Sì! – conferma il bambino, emozionato dall’aver trovato un argomento di discussione che possa interessarlo, - Io non è che capisco cos’è che dicono, in realtà, parlano sempre di cose successe tanti anni fa.
- Ed è molto cambiato, lui? – chiede ancora Mario, il tono che si ammorbidisce, nostalgico.
- Un po’. – annuisce Giovanni, - Ma ha sempre il nasone. – ride divertito, - E gioca ancora a calcio benissimo, una volta l’ho incontrato in Pinetina e mi ha portato sul campo dei grandi, e mi ha detto “stai fermo qui” e mi ha messo fermo davanti a una delle porte piccole per l’allenamento, e poi ha cominciato a prendermi a pallate!
- Ha cominciato a fare cosa?! – sbotta Mario, incredulo, e Giovanni ride.
- Si è messo lontano e ha cominciato a calciare, e segnava sempre, e non mi colpiva mai! E c’era la palla che mi passava sempre accanto e a un certo punto mi è passata a tanto così dall’orecchio, e l’ho sentita fischiare! A te ti è mai successo? È una cosa troppo bella! E io allora ho deciso che volevo diventare un calciatore, perché da grande volevo farla pure io questa cosa di calciare in porta senza prendere neanche una volta il bambino che ci ho messo dentro.
Mario ride divertito, chinandosi a scompigliargli i capelli.
- Saggia scelta. – dice, - Scommetto che sarai un calciatore grandioso. Ibra è il tuo preferito, vero?
- No no. – risponde Giovanni, scuotendo il capo, - Il mio preferito sei tu!
- Ah, sì? – chiede lui, inarcando un sopracciglio, - E cosa ne sai? Non ti ho mai messo in una porta per prenderti a pallate.
Giovanni ride, agitando le gambe sotto il lenzuolo.
- Papà mi ha raccontato tutto di te. – annuisce dopo essersi ripreso dall’accesso di risa, - Ha un’agenda nel suo studio ed è piena piena di foto tue vecchissime e anche più nuove, e poi mi ha fatto vedere un sacco di olotape con un sacco di cose bellissime che hai fatto. Prima capitava che la domenica ci mettevamo in salotto e lui metteva il lettore in mezzo alla stanza e proiettava gli ologrammi a grandezza massima, e tu sembravi proprio lì. – dice con aria sognante. Mario lo guarda e sorride, rimboccandogli un’ultima volta le coperte sotto il mento.
- Adesso dormi. – dice, ravviandogli la frangetta biondiccia sulla fronte, - È già tardi, tuo padre si arrabbierà moltissimo se torna a casa e ti trova ancora sveglio.
- Okay! – risponde il bambino, sistemandosi comodamente sul materasso e tirandosi la coperta fin sopra la testa. Mario spegne la luce e contemporaneamente vede spuntare quella di una torcia da sotto la massa di coperte, e nel silenzio perfetto della stanza cominciano a diffondersi i primi suoni del giochino elettronico portatile che Giovanni accompagna con la propria voce, facendo la telecronaca della partita che sta giocando.
Mario ride silenziosamente, scuote il capo e si allontana, lasciando la porta socchiusa. Passa di fronte alla porta dello studio di Davide, e non prova neanche a fare finta di voler rispettare la sua privacy.
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- Allora… - comincia Joel, le mani sul volante ed un sorrisino sornione ad increspargli le labbra, - Com’è che sta andando?
- Oddio, no, ti prego. – mugola Davide, rilasciando il capo all’indietro contro il sedile mentre la macchina sfreccia veloce lungo le vie semivuote della notte nel tardo agosto milanese, - Abbiamo passato tutta l’intera serata parlando di qualsiasi cosa non fosse Mario, e proprio all’ultimo rovini tutto?
- Be’, era piuttosto ovvio che te l’avrei chiesto, dai! – ride Joel, - Vedila come una questione pratica, sono finiti gli argomenti di conversazione, a furia di ignorarlo è rimasto solo lui. Dunque, è successo qualcosa fra voi?
Davide sospira, guardando fuori dal finestrino. Il cielo è così ingombro di nubi che non si vede nemmeno la luna, figurarsi qualche stella. Non vede l’ora di essere di nuovo in campagna.
- Mi spieghi perché ci ostiniamo a venire a cena sempre da queste parti? – borbotta soprappensiero, - Ormai ad Appiano e dintorni hanno aperto un sacco di localini simpatici. Io la odio questa città.
- È la tua città, Davide, - gli ricorda Joel, - è la città dei colori che indossi ed è la città del tuo primo stadio.
- Sì, e fortunatamente è una città dalla quale sono anche scappato via. – ritorce lui, lanciandogli un’occhiata quasi infastidita.
- Stai ignorando la mia domanda. – gli fa presente Joel, atono.
- No, è la tua domanda che è del tutto imprecisa. – ribatte Davide, scrollando le spalle. – Mi chiedi se è successo qualcosa… - sospira stancamente, - Definisci qualcosa.
- Aaah, lo sapevo! – ride Joel, battendo divertito i palmi delle mani contro il volante, - È successo! Qualsiasi cosa sia, è successo!
- Ma quanto sei cretino? – ride anche Davide, tirandogli un cazzotto nient’affatto amichevole contro una spalla, - Qualcosa è successo, sì. Niente di davvero significativo, comunque.
- Sento della delusione, nella tua voce. – tira a indovinare Joel, lanciandogli un’occhiata divertita, - Ti vuoi davvero ficcare in questo casino impossibile? – gli chiede, e Davide si arriccia su se stesso, prendendosi la testa fra le mani e mugolando di dolore come in preda alla più fastidiosa delle emicranie.
- Non lo so. – borbotta con tono lagnoso, mentre la macchina, dopo aver brevemente attraversato le vie praticamente sterrate in mezzo ai campi, si ferma a pochi passi dal vialetto di casa sua, - Mario è sempre stato così, lo sai. Lui potrà essere cambiato, ma genera casini anche solo esistendo. Io sono sposato, ho un figlio, non posso— non voglio, però…
- Però quando lo guardi è la fine del mondo. – sorride Joel, guardandolo teneramente e scompigliandogli i capelli. – Dio, sei così palese. Sei rimasto un sedicenne dentro, ma guardati.
- Oh, e piantala! – sbotta lui, rimettendosi dritto e scansando via la sua mano, ma ride divertito, nonostante sia palesemente in imbarazzo. – Non lo so, davvero. – sospira alla fine, curvando le spalle solo per un attimo, come dovesse sostenere un peso troppo grande, prima di voltarsi indietro e recuperare la giacca abbandonata sul sedile posteriore. – Me ne vado a letto, va’. Domani sarà il massacro, José ha organizzato un’amichevole di allenamento fra la prima squadra e la Primavera e mi ha già anticipato che vorrà almeno dieci cambi per parte durante la partita.
- Uuuh. – ride Joel, osservandolo aprire lo sportello e scendere dalla macchina, - Dovrò tenere pronte le incubatrici, i ragazzi avranno bisogno di un trattamento ricostituente di quelli mica male.
- Sissì, senti che tono eroico… “dovrò tenere pronte le incubatrici”… - lo prende in giro Davide, facendo la voce grossa, - Mentre tu terrai pronte le incubatrici e ti rigirerai i pollici fino alle sei del pomeriggio, a me toccherà tenere a bada un mucchio di ragazzi smaniosi di farsi scegliere in prima squadra che entreranno sulle caviglie di chiunque senza capire che rischiano che la Regina di Cuori ordini che venga tagliata loro la testa.
Joel ride ad alta voce, gettando indietro il capo ed asciugandosi una lacrima dall’angolo di un occhio prima di scuotere la testa e guardarlo come guarderebbe un fratellino minore che abbia appena detto qualcosa di estremamente stupido.
- Vedi cosa intendevo? Sei rimasto un sedicenne dentro. – sbuffa appena, tornando a guardare davanti a sé mentre rimette in moto l’automobile, - La Regina di Cuori, ma sentitelo… buonanotte. – lo saluta con un cenno della mano. Davide gli fa una linguaccia, giusto per non smentirlo e sentirsi ridicolo una volta di più ad indulgere in comportamenti così infantili alla sua età, e poi richiude lo sportello, voltandosi per risalire il vialetto e rientrare in casa.
Tutte le luci delle stanze che danno sul prospetto frontale sono spente, il che significa che Giovanni è già a letto e, se è molto fortunato, sarà già a letto anche Mario. Non è proprio sicuro di volerlo affrontare adesso, perché se solo chiude gli occhi davvero non fatica a ritornare adolescente nel sentire ancora il tepore della sua pelle così vicina alla propria.
Attraversa il corridoio in silenzio, camminando a memoria senza sbattere da nessuna parte nonostante il buio pesto che lo avvolge. Tutto in quella casa è stato voluto così com’è espressamente da lui. Forme, dimensioni, posizioni. Riconosce ogni centimetro delle pareti che nemmeno sfiora, perfettamente bilanciato al centro esatto del corridoio, e percepisce ciò che lo circonda come una melodia che parla direttamente alla parte più profonda di lui. Una melodia tranquilla, regolare, priva di imperfezioni.
È per questo che nota subito la porta socchiusa dello studio e il lievissimo raggio di luce che esce dallo spiraglio, illuminando a ventaglio una minuscola porzione del corridoio. Inarca un sopracciglio e, nel momento in cui poggia una mano sulla porta e la spinge verso l’interno, aprendola, sa già chi deve aspettarsi là dentro.
Mario, d’altronde, non sembra stupito di essere stato trovato. È, anzi, così tranquillo che sembra non abbia cercato altro. Appoggiato alla sua scrivania, sfoglia l’agenda che aveva lasciato sul ripiano con attenzione quasi eccessiva, leggendo ogni parola degli stralci di articoli attaccati con lo scotch o trascritti a mano, e sfiora con la punta delle dita ogni foto. Voltando incautamente una pagina, si accorge di un biglietto per una partita che scivola fra le pagine e lo afferra deciso prima che possa cadere a terra. Lo guarda da ogni lato e sorride, e per tutto il tempo Davide resta lì, fermo sulla soglia, sereno come non avrebbe mai immaginato di poter essere, e lo osserva.
- Sei venuto a vedermi per il debutto al Real Madrid. – constata, riponendo il biglietto al suo posto e riprendendo a sfogliare le pagine, ora meno attentamente, - E in generale ci sei sempre stato, anche se eri lontano. Qui sono registrate cose che quasi non ricordo nemmeno io.
- È a questo che servono le agende. – risponde Davide, muovendo un passo in avanti verso l’interno della stanza e chiudendosi la porta alle spalle, - A ricordare le cose.
Mario annuisce.
- Non ho neanche dovuto cercarla davvero. – considera a bassa voce, - Era qui, in bella mostra.
- Non è mai stata pensata per essere segreta. – risponde lui, scrollando le spalle, - È una cosa a cui tengo. Volevo poterla mostrare a Giovanni senza dovergli riempire la testa di segreti.
- Ma avresti potuto farla sparire quando mi sono trasferito qui. – insiste Mario, richiudendola lentamente e posandola sulla scrivania al proprio posto.
- Forse volevo che tu la trovassi. – ipotizza Davide, lo sguardo lontano, perso in un punto vuoto oltre la sua spalla, - O forse ci speravo e basta, non lo so.
Mario resta appoggiato alla scrivania mentre Davide attraversa in pochi passi lo spazio che li separa, mantenendo il contatto fra i loro sguardi.
- Ti sei divertito con Obi? – chiede, ma è evidente nel brivido che gli corre lungo la schiena che qualcosa è cambiato, la consistenza dell’aria che respirano, forse, o il suo sapore.
- Smettila di chiamarlo per cognome. – sorride Davide, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, - Siete stati amici.
- A volte – confessa Mario a mezza voce, - A volte faccio fatica a ricordare cose che risalgono al periodo in cui ho giocato per l’Inter, sai? Tutto si è disintegrato e mescolato e io a volte mi chiedo cosa sia successo in un determinato periodo e cosa in un altro, chi ho conosciuto prima e chi dopo, e questo vale per tutto, Davide, tutto tranne te. – conclude in un fiato. – E ora ti prego, dimmi che posso baciarti, perché giuro che se non lo faccio adesso impazzirò del tutto.
Davide si morde il labbro inferiore, irrigidendo le braccia lungo i fianchi al solo scopo di cercare di trattenersi dall’abbracciarlo di slancio.
- Baciami. – dice ansioso, il respiro già troppo pesante per poter essere sostenuto se non con l’aiuto delle sue labbra a dargliene di nuovo e più leggero, - Baciami, per favore.
Il sollievo di Mario si esprime in un lamento quasi strozzato mentre si lancia in avanti, afferrandolo per le spalle e tirandoselo addosso. Le loro labbra, i loro denti, le loro lingue collidono, e si scambiano un bacio umido, aperto e doloroso. Un bacio che assomiglia a un morso che assomiglia a una carezza che assomiglia ad uno schiaffo in pieno volto. Davide solleva le braccia e lo cinge al collo, sollevandosi un po’ sulle punte per raggiungere la sua altezza e lasciando il proprio corpo strusciarsi contro quello di Mario nel movimento, più in un tentativo di riprendere confidenza con le sue forme che in un invito di tipo sessuale.
Le mani di Mario si appendono ai suoi fianchi magri mentre si allontana nel tentativo di riprendere fiato, e quando Davide gli si schiaccia di nuovo contro quelle stesse mani corrono con naturalezza alla fibbia della sua cintura, e lì si fermano per un secondo, incerte.
- Posso? – chiede.
- Sì. – risponde lui, annuendo deciso. Ha gli occhi chiusi, perciò non può vederlo, ma ricorda ancora qual era la sua espressione in momenti come quello, quanto sembrasse concentrato, come pensasse che maneggiarlo con qualcosa in meno della massima premura possibile fosse criminale o chissà che altro. È certo che, se schiudesse le palpebre e lo guardasse in viso, troverebbe la stessa espressione di allora, perciò sorride mentre la cintura scivola fuori dai passanti dei suoi jeans e poi sul pavimento, producendo un fastidioso tintinnio attutito solo in parte dalla moquette che riveste la quasi totalità della casa.
Mario gli sbottona i jeans e li lascia scivolare giù lungo le sue gambe, e lui ha appena il tempo di scalciarli lontano da sé che si ritrova seduto sulla scrivania, mentre Mario si pressa spasmodicamente fra le sue cosce, cercando la via per il suo corpo con ansia quasi disperata.
- Cristo. – mormora Mario, senza fiato, cercando le sue labbra a casaccio, - Cristo, Dade.
A Davide fa male il cuore al solo sentirsi chiamare così dalla sua voce. Il vortice che si apre nei suoi ricordi ogni volta che ripensa a Mario si spalanca anche stavolta, solo mille volte più violento, improvviso e doloroso del solito. Si aggrappa alle sue spalle perché è certo che se non lo facesse non riuscirebbe a mantenere il contatto con la realtà, e Mario entra dentro di lui poco dopo con un sospiro di sollievo quasi ridicolo nella sua infantile serenità. Si muove lentamente, subito dopo, come se avesse avuto una gran fretta di ritrovarlo ma quella fretta si fosse esaurita immediatamente, sostituita dal desiderio ben più pressante di tenerlo stretto il più a lungo possibile.
Davide si muove in sincronia con il suo corpo, andando incontro alle sue spinte e ritraendosi quando anche lui si allontana, così che ogni colpo che gli viene inferto finisce con l’andare sempre un po’ più a fondo di quanto non fosse andato il precedente, e fa male come una coltellata, ma allo stesso tempo il piacere che lo scuote ogni volta è così intenso da dargli quasi il capogiro.
Stretto fra le sue dita, viene con tanta forza da non riuscire a trattenere il gemito che gli ingombra la gola, e che spinge per uscire al punto che è costretto a pressare le labbra contro il suo collo e mugolargli addosso, perché all’improvviso la camera di Giovanni e più in generale tutta la realtà sembrano troppo vicini per non fare paura. Ora che anche le spinte di Mario si fanno più incostanti, più lente, ora che anche lui sta venendo dentro il suo corpo e gli nasconde il viso fra il collo e il mento, è fin troppo facile riaprire gli occhi e vedere il buio e la casa vuota e la vita di tutti i giorni che non può comprendere l’esistenza di qualcosa che li leghi come li legava un tempo, semplicemente perché questo, la parte più profonda di loro, è rimasto uguale mentre tutto intorno il mondo cambiava, ed è cambiato così tanto che ormai non resta più spazio per ospitarlo, né per contenerlo. Non ha un posto, eppure dal posto che si prende con la forza straripa, tracima gli argini, e Davide si allontana da Mario con forza perché del tutto all’improvviso, senza un perché, si sente mancare l’aria, come gli si stessero riempiendo d’acqua i polmoni.
Mario lo guarda ferito, e per qualche secondo, Davide ne è sicuro, non comprende esattamente ciò che sta succedendo. Poi però torna in sé, e vede di nuovo tutto anche lui. Davide scende dalla scrivania e si risistema frettolosamente i vestiti addosso, osservando Mario fare lo stesso e poi restando immobile, sperando che sia lui a fare la prossima mossa, perché per parte propria non saprebbe nemmeno da dove cominciare.
Lo sguardo di Mario si fa più dolce mentre gli si avvicina, gli appoggia una mano sulla nuca e se lo tira nuovamente contro, baciandolo lievemente sulla fronte e trattenendolo immobile contro le proprie labbra per qualche secondo, secondo di cui Davide approfitta per chiudere gli occhi e rilasciare un respiro tanto profondo da dargli la sensazione di non avere più aria da buttare fuori.
- Buonanotte, Dade. – gli sussurra Mario sulla pelle, prima di lasciarlo andare. Non si volta a guardarlo mentre esce dallo studio, ma Davide non riesce a staccare gli occhi dalla sua schiena che si allontana. È un déjà vu troppo doloroso perché Davide possa sopportarlo senza vacillare, perciò si morde un labbro e, quando la porta dello studio si chiude, silenziosamente si mette a piangere.
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Mario non ha chiuso occhio tutta la notte, ed il risultato di questa opinabile scelta del suo sistema nervoso è un mal di testa lancinante che lo accompagna per tutta la mattina, da quando mette piede giù dal letto in poi, affiancato ad una sonnolenza che lo rintontisce sbiadendo i contorni della realtà all’interno della quale si sta muovendo.
Prende un caffè, prima di uscire di casa. Lo trova ancora tiepido nella caffettiera. Lo stupisce, in qualche modo, la naturalezza dei propri stessi gesti. Sa dove cercare e trovare le tazzine pulite, sa che il manico non tiene bene e la caffettiera va sollevata con molta attenzione, ha preso l’abitudine di sciacquare la tazzina e riporla al proprio posto dopo averla usata. Sa già che il caffè farà schifo, perché a Davide non è mai piaciuto ma gli ha spiegato che adesso gli serve per svegliarsi completamente e in fretta al mattino, per cui lo prende, sì, ma incredibilmente annacquato, anche perché ogni volta Giovanni insiste a volerne un goccio e lui non potrebbe di certo propinarglielo se fosse fatto in grazia di Dio, forte e nero e denso e così amaro da dargli la pelle d’oca. A Mario invece piace, neanche a dirlo, forte e nero e denso e amaro, ma mentre butta giù la brodaglia quasi trasparente di Davide non ne sente nemmeno il sapore, così come a stento riesce a percepire la sensazione bagnata dell’acqua sul viso quando si lava prima di vestirsi.
In compenso, se solo chiude gli occhi, il profumo di Davide è ancora lì, come il calore della sua pelle, l’odore dei suoi capelli e il suono della sua voce. È tutto lì, concentrato sulla pelle sensibile dei suoi polpastrelli e sulla punta della sua lingua. Quelle legate a ciò che ha fatto con Davide la sera prima sono le uniche sensazioni che sente di essere in grado di provare, al momento.
Sa che è sbagliato, ed è consapevole di comportarsi in modo molto, molto stupido. Vorrebbe prendersi a schiaffi, ma sarebbe troppo stupido perfino per lui. Cerca di dirsi che deve concentrarsi, che ha un lavoro da portare a termine. Si aggrappa a questo pensiero con tutte le proprie forze quando, meno di venti minuti dopo, arriva in Pinetina e la prima cosa che vede è Davide. Sta discutendo serenamente con alcuni collaboratori, ha un’aria così perfettamente concentrata e seria, mentre si accarezza distrattamente il pizzetto e indica una serie di nomi facendo prove di formazione sul display del touchscreen di medie dimensioni che regge per un angolo, che Mario quasi fatica a riconoscerlo.
Davide annuisce, soddisfatto della formazione definitiva, e consegna il touchscreen ad uno dei suoi collaboratori perché cominci a radunare i ragazzi che, fra una mezz’ora, scenderanno in campo da titolari contro la prima squadra. Mario gli fa un cenno, e quando Davide si accorge di lui gli si avvicina, offrendo un sorriso come pegno di pace.
- Preparativi frenetici. – commenta divertito, e Davide sospira stancamente, lasciandosi andare sulla prima panchina disponibile ed aspettando che lui si sia seduto al suo fianco prima di rispondergli.
- José tiene molto a queste partitelle, soprattutto nel pre-stagione. Oggi, poi, è speciale. – sorride appena, - Mi ha lasciato intendere che due o tre ragazzi potrebbero fare il salto in prima squadra, se si mettono abbastanza in mostra.
- Posso immaginare l’emozione. – ride Mario, guardando i ragazzini che indossano una pettorina bianca sulla maglietta celeste e si riscaldano correndo, scattando e saltando qua e là.
- Puoi? Davvero? – lo prende in giro Davide, inarcando un sopracciglio, - Ti sei mai sentito sotto esame, tu? – chiede incredulo.
- Costantemente. – risponde Mario con naturalezza, senza guardarlo, - Immagino che Christos giocherà.
- Non fra i titolari. – nega Davide, scrollando le spalle, - Sa già cosa penso di tutta questa storia. Guarda con che ragazzini gioco oggi, sono tutti diciassettenni, c’è qualche diciottenne fresco di compleanno al massimo. Christos è il più grande. Dovrebbe essersene già andato l’anno scorso. – sospira affranto. Mario gli appoggia una mano su una spalla, cercando di rassicurarlo mentre lancia un’occhiata curiosa attorno al campo per individuare Christos.
- Toh. – ride divertito quando lo trova, - Fra le varie informazioni che mi sono state date, nessuno si è premurato di dirmi che Christos è molto amico del vostro vice-capitano.
Davide segue il suo sguardo e sorride quando i suoi occhi incontrano le figure di Christos ed André vicine sotto un albero. I due parlano del più e del meno, ogni tanto ridono, scherzano, si tirano qualche spallata giocosa. La pelle scura di André contrasta piacevolmente contro quella caramellata di Christos, sensibilmente più chiara, ed il sorriso di Mario si piega un po’ di più quando pensa che il contrasto fra la sua pelle e quella di Davide un tempo era molto simile, e nonostante tutto lo è ancora.
- Sono sempre stati piuttosto amici, sì. – annuisce Davide, la voce soffice, venata di tenerezza, - André s’è preso una cotta spaziale per lui, sai?
- Santo cielo. – sospira Mario, sollevando gli occhi al cielo, - Ma ce n’è uno che si salvi, qua dentro?
Davide ride di gusto, gettando indietro il capo.
- Spiritoso. – lo apostrofa, tirandogli uno schiaffo sulla nuca, - Direi che ogni situazione è particolare e va osservata nel suo contesto, ma tieni presente che con Christos è tutto sempre un po’ più inspiegabile del resto. È qui da così tanto tempo… è parte di tutti noi. Alcuni di noi ci sono caduti perché—
- Alcuni di voi? – lo interrompe Mario, incredulo. L’occhiata che lancia a Davide è sinceramente stupita, ma anche profondamente divertita. Davide risponde infilandogli due dita fra le costole e ridendo mentre lui si piega in preda alle risate e al dolore contemporanei.
- Alcuni di noi, sì. – annuisce continuando a torturarlo finché Mario non implora pietà, - Non io, comunque. Ma devi capire che è una cosa particolare, Mario. Tutti noi abbiamo, credo, cercato di essere dei buoni padri, per lui. Nessuno di noi c’è riuscito, ovviamente, visto che siamo sempre stati genericamente impreparati alla sua persona, ma ci abbiamo provato, ed ognuno di noi ha fallito in modo diverso. Christos è un po’ confuso, riguardo certe cose. Credo che si senta molto amato, in generale, stando qua, e credo che abbia molta paura di allontanarsi da questo posto in cui tutti pendono dalle sue labbra e per lui darebbero un braccio e vogliono solo il meglio per la sua vita. Ma d’altronde, - sospira, - penso che sia così per tutti. Io, però, non posso capirlo, perché non sono mai stato costretto ad andarmene. Forse tu puoi, però.
Mario scrolla le spalle, alzandosi in piedi.
- Il punto è esattamente questo, Dade. – dice, usando senza pensarci lo stesso soprannome che gli è sempre rimasto disegnato sulle labbra, - Io non sono stato costretto ad andarmene. Io sono stato costretto a capire che andarmene sarebbe stata la soluzione migliore, e solo a quel punto ho deciso di andarmene di mia spontanea volontà. – si volta a guardarlo, - Avrei potuto restare, e farmi un altro anno di scazzi e rotture di coglioni partendo da titolare cinque volte in tutto il Campionato, ma ho scelto di andarmene. E così dovrà essere anche per Christos. Noi possiamo solo spiegargli nel dettaglio che alternative ha, poi dev’essere lui a decidere.
- Ma le sa già le alternative che ha. – sospira Davide, scuotendo il capo.
Mario sorride.
- Il fatto che le conosca non vuol dire che le abbia davvero comprese. – conclude, allontanandosi a grandi passi verso la coppia ancora intenta a chiacchierare sotto le fronde dell’albero che li protegge dal sole spaccapietre di agosto, poco più in là. – La palança negra. – dice, sorridendo sereno e porgendo ad André la mano mentre finge di ignorare l’occhiata astiosa di Christos che ha accompagnato i suoi ultimi passi e continua ad accompagnarlo anche ora che è già arrivato, - Ti ho seguito con molta attenzione, dall’estero. Non si fa che parlare della tua Angola, dai Mondiali del duemilaventisei. È incredibile quello che siete riusciti a fare, sarebbe già stato leggendario anche solo arrivare in finale, ma costringere l’Olanda ai rigori e perdere con un solo gol di scarto, be’, che dire. L’Inter è fortunata ad averti.
- Sono stato fortunato io ad avere l’Inter. – sorride André, ricambiando la stretta della sua mano ed ignorando a propria volta Christos che, per protesta, incrocia le braccia sul petto. – Non sarei nemmeno vivo, oggi, se non fosse stato per quello che questa società ha fatto per me quando ero ancora un bambino. La mia gratitudine è immensa.
- Vedo che abbiamo tutti uno o più motivi per essere grati a questa società. – commenta Mario con un sorriso.
- Tu non sei grato. – sbotta Christos, interrompendo il proprio sciopero del silenzio con un fiotto d’acido diretto al centro del suo petto, - Tu sei solo uno stronzo opportunista che non sarebbe mai tornato se non per soldi.
Mario gli lancia un’occhiata severa, prima di voltarsi nuovamente verso André.
- Mi spiace, dovremo rimandare ad un altro momento la nostra conversazione. – dice, continuando a sorridere come se Christos non avesse mai parlato. André si scusa, saluta Christos con un bacio sulla tempia facendosi strada a fatica fra i ricci gonfi e leggeri che gli incorniciano il viso, e poi scompare oltre il cancello, deciso a riprendere il proprio posto in allenamento con la prima squadra. – Per inciso, - dice Mario non appena lo vede sparire oltre la siepe, - il mio stipendio come consulente tecnico qui non giustificherebbe il mio passaggio dallo United all’Inter neanche se fossi stato dichiarato clinicamente incapace di intendere e di volere prima di firmare il contratto.
Christos lo liquida con uno sbuffo contrariato, e prova a sorpassarlo girandogli attorno. Mario si muove lateralmente, piazzandoglisi di fronte e guardandolo dritto negli occhi in segno di sfida.
- Lasciami passare. – dice gelido, stringendo i pugni lungo i fianchi. Mario scuote il capo. – Lasciami passare! – insiste lui, stavolta più ad alta voce.
- Tanto non giocherai. – gli fa presente Mario, sorridendo beffardo. Alle volte, parlando con Christos, ha l’impressione di tornare ragazzino e litigare con lo specchio.
- Lo so già che non parto titolare. – ringhia lui, - Ma Davide mi—
- Il tuo mister – lo corregge Mario, incrociando le braccia sul petto, - non ti farà giocare nemmeno per il secondo tempo, che siano quaranta, dieci o anche solo cinque minuti.
- E questo perché l’hai deciso tu? – ribatte Christos, strafottente, ma il sorriso che gli piega le labbra svanisce in un lampo quando si ritrova a fronteggiare un sorriso identico da parte sua.
- Esattamente. – risponde Mario, - E visto che tenerti lontano dagli allenamenti e dal campo non basta a farti entrare un minimo di sale in zucca, farò quello che avrebbero dovuto fare altri con me quando avevo la tua età e ti toglierò il pallone.
- …che cosa? – balbetta Christos, incerto. Mario sorride ancora.
- Esci dalla Pinetina. Vai da qualche altra parte. Non ti è permesso entrare in questo centro sportivo per tutta la prossima settimana.
- Cos— io ci vivo qua dentro, stronzo di merda! – annaspa il ragazzo, gesticolando animatamente.
- Me ne sbatto le palle. – risponde Mario, sorridendo serafico, - Ora, vuoi che te lo ripeta io o preferisci che chiami mister Mourinho in persona per farti buttare fuori da questo posto a calci in culo? – Christos lo guarda come volesse saltargli alla gola e sbranarlo sul posto. Ringhia sommessamente, come una bestia in gabbia, e Mario sente il prurito più piacevole del mondo scivolargli lungo la schiena e crepitargli sulle mani. Il ragazzino non ha idea della persona contro cui si è messo. – Ti irrita, vero? – ride piano, - Ti irrita da morire che ad ordinarti una cosa del genere debba essere proprio io. Io che con te non c’entro un cazzo, sono arrivato da meno di una settimana e questa squadra che tu ami tanto l’ho mollata senza pensarci quando avevo quasi la tua stessa età. Che ingiustizia. – ride ancora, sottovoce. Le mani di Christos, lungo i suoi fianchi, si aprono e si chiudono a pugno alternativamente, come se solo provando a strangolare l’aria Christos potesse impedirsi di provare a strangolare lui. – Be’ ti insegno qualcosa che pare qui nessuno sia stato in grado di ficcarti in quella testaccia del cazzo: la giustizia non esiste. E ora fuori di qui.
Christos lascia andare un mezzo grido frustrato, muovendo qualche passo verso di lui e calciando con una forza inaudita un pallone lasciato lì per terra, prima di allontanarsi imprecando e continuando a prendere a calci qualsiasi cosa incontri al passaggio.
Mario sospira, rilassando le spalle ed i lineamenti del viso. Un tempo era abituato a tirare sulle labbra sorrisi falsi per lasciare intendere al mondo che stesse andando tutto bene quando in realtà non era affatto così, ma è un’abitudine che ha perso andando via da Milano, quando la gente ha smesso di pretendere, di chiedere, di accerchiare. Di soffocarlo.
Scuote con decisione il capo, per evitare che ricordi che non ha alcuna voglia di rivangare tornino inattesi e indesiderati ad ingombrargli il cervello. Sciogliendo le spalle, si dirige verso la panchina sulla quale è seduto Davide. I Primavera stanno ancora scaldandosi, la prima squadra, accompagnata da Mourinho, è appena arrivata. Davide non lo guarda, nemmeno quando lui si siede al suo fianco.
- L’hai fatta grossa. – lo avverte.
Mario scrolla le spalle.
- Non è la prima né l’ultima volta.
*
Il pomeriggio è già tardo, col sole ancora giallo e splendente ma basso a sfiorare già le punte degli alberi attorno alla Pinetina, quando Mario entra nella sala principale della zona medica. La luce è bassa e per lo più azzurrina, c’è solo qualche lampada bianca sparsa in giro, soprattutto vicino alle scrivanie dei dottori e in qualche punto strategico vicino alle incubatrici, così che i vari addetti possano controllare valori e funzioni vitali degli incubati senza doversi portare dietro una torcia elettrica.
Joel è vicino all’incubatrice di Philippe. Controlla scrupolosamente che tutto sia a posto e poi, sollevando gli occhi, ricambia il sorriso estatico che Philippe stesso gli rivolge, al di là dello spesso vetro che lo protegge, della maschera ad ossigeno che gli fornisce la quota di ossigeno in più che gli permette di respirare e dello straordinario liquido che lo avvolge interamente come un abbraccio.
- L’aria liquida. – commenta Mario, avvicinandosi a lui e spezzando discretamente il silenzio della sala, - È o non è stata la scoperta in assoluto più interessante dell’ultimo secolo?
- Indubbiamente. – annuisce Joel, scorrendo gli elenchi di valori sul proprio datapad, - Curare gli infortuni immediatamente, dimezzare i tempi di recupero, potenziare l’apparato respiratorio e rallentare l’invecchiamento cellulare, e tutto questo è possibile con una sola seduta a settimana, e nemmeno tanto lunga. – sbuffa appena un sorriso, - Personalmente, avrei preferito la UEFA lo legalizzasse qualche anno prima. Considerato che già allora le singole leghe calcistiche nazionali non esistevano più, e che già parecchi centri sportivi in tutta Europa erano pronti a partire ed aspettavano solo il via dei grandi capi, sarebbe bastato un niente per prendere il ginocchio di Davide in tempo ed aiutarlo a guarire.
Mario si volta a guardarlo, sorridendo appena.
- Sembri molto affezionato a lui. – considera, prendendo a passeggiare davanti alle incubatrici ed osservando i ragazzi godersi la terapia, chi più quietamente, con gli occhi chiusi e le braccia molli lungo i fianchi, chi in maniera più rocambolesca, saltellando sul fondo dell’incubatrice o azzardando qualche capriola dopo aver staccato la maschera ad ossigeno.
- Non è che lo sembro, lo sono. – risponde Philippe, affiancandoglisi e bussando ad una delle incubatrici al cui interno si verifica un’attività più turbolenta, - Aleks, vedi di darti una calmata. Sta’ buono e respira. – sbotta, prima di tornare a rivolgersi a Mario con un sospiro rassegnato, - La soluzione di Perfluorodecalin ossigenato funziona meno efficacemente se si agitano, ma molti sono ragazzini e lo vedono solo come un gioco. Educare i piccoli non è facile.
- Questa è decisamente qualcosa che non è cambiata. – ride Mario, appoggiando una mano al vetro di una delle incubatrici ed accarezzandolo lentamente. – Il che ci riporta al motivo per cui sono qui.
- Oh, non volevi parlare di Davide? – ride lui, stringendosi nelle spalle.
- No, Joey. – risponde Mario, facendogli eco, - Quello magari dopo.
- Hai smesso di chiamarmi Obi? – insiste lui, inarcando un sopracciglio.
- Ti ho detto do— aspetta, Davide ti ha detto perfino che ti chiamavo Obi?! – sbotta lui, spalancando gli occhi, e Joel ride di gusto, piegandosi in due ed appoggiandosi alla stessa incubatrice sulla quale Mario stava passando una mano prima. Alen, da dentro, tira un calcetto contro il vetro, guardandoli infastidito, e loro si allontanano.
- Ok, ok, basta idiozie. – ride Mario, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandoselo contro in un abbraccio affettuoso, - Dimmi di Christos.
Joel scrolla le spalle, ricambiando l’abbraccio.
- Sei venuto da quello che lo conosce di meno in assoluto, Mario. – confessa, - Nell’anno in cui Christos è arrivato in Pinetina, io feci il salto definitivo dalla Primavera alla prima squadra e allo stesso tempo decisi di cominciare a frequentare l’università. Fra allenamenti e studio non è che avessi davvero del tempo libero, perciò di lui si occupavano prevalentemente gli altri. Poi all’università ho conosciuto anche quella che ora è diventata mia moglie, per cui—
- Sei sposato? – chiede Mario, sorridendo, - Congratulazioni! Mi fa piacere sapere che la specie umana è ancora provvista di qualche esponente eterosessuale in grado di proseguirla.
Joel ride, scuotendo il capo.
- Sei sempre stato un cretino. – lo apostrofa divertito, - Comunque, - sospira, - mi spiace di non poterti dire molto. So meno di quanto sappiano altri con cui hai già parlato, Christos è arrivato dal nulla, nessuno sa chi sia il padre, quasi tutti crediamo sia José ma lui è tanto ostinato nel ripetere che non è suo figlio quanto lo è nel rifiutarsi di dirci allora chi sia questo padre misterioso. Hai perso tempo, me ne rammarico.
- Ah, io no. – sorride Mario, battendogli una pacca amichevole sulla spalla, - Mi andava di parlare un po’ con te, comunque. E, be’, sento il bisogno di ringraziarti, anche.
Joel inarca un sopracciglio, scettico.
- …vorrei chiederti perché, ma suppongo ci sia di mezzo Davide e non ci tengo minimamente a sentirti fare un discorso del tipo “grazie di esserti preso cura di lui mentre non c’ero”. Cercati un altro Pacey, Dawson.
Ridono entrambi, e continuano a farlo anche mentre le luci si accendono e le incubatrici si svuotano, lasciando i ragazzi all’interno liberi di tornare a poggiare i piedi per terra e respirare normalmente. È in quel momento che una segretaria entra in sala, cercando Mario, per riferirgli che Mourinho vuole parlare con lui nel proprio ufficio.
*
Zlatan irrompe nel suo ufficio sbraitando come una furia, la cravatta che svolazza ovunque e che lui immediatamente allenta e sfila, lanciandola sulla scrivania un attimo prima che entrambi i suoi pugni si abbattano sullo stesso piano, a pochi centimetri dalle mani di José.
- Oggi si è passato il segno! – strilla, chinandosi su di lui in modo da poterlo guardare dritto negli occhi, anche se José non sembra intimorito da questo, come neanche dal suo atteggiamento aggressivo in generale. – Cristo, José, sai che io sono il primo a desiderare che Christos muova il culo e si allontani da qui quanto prima, ma è già da due settimane che il ragazzo è rientrato e si allena a programma ridotto, ora arriva Mario e lo mette fuori squadra! Ma stiamo scherzando?! Vogliamo che giochi altrove o che perda la forma e si distrugga?! Ma Cristo!
L’espressione di José si incrina appena solo quando sente Zlatan dire che Mario ha messo Christos fuori squadra, ma torna immediatamente alla solita impeccabile maschera di controllato interesse già per la fine del suo monologo. Frustrato, Zlatan sbuffa e si lascia ricadere su una delle due poltrone di fronte alla scrivania, incrociando le braccia sul petto e mormorando un “di’ qualcosa!” estremamente risentito.
José sospira, intrecciando le dita ed avvicinando la propria poltrona girevole alla scrivania con un colpo di reni.
- Zlatan, da quanti anni segui Christos? – chiede con rassegnazione evidente nella voce, negli occhi, nei lineamenti del viso.
- Tanti. – risponde Zlatan, piegandosi verso di lui in modo da dare a quella conversazione il tono più intimo che José implicitamente gli ha chiesto avvicinandosi per primo. – Ma il fatto che io gli sia affezionato non può impedirmi di fare correttamente il mio lavoro, e— - ride un po’, - È assurdo che tu mi chieda di comportarmi come se non mi importasse essere scavalcato proprio da lui. L’ultimo arrivato, e sarebbe già abbastanza per farmi saltare i nervi, ma Mario, per giunta. José, sei stato tu a volere che imparassi questo lavoro. Per Christos. Non puoi chiedermi di svolgerlo male, adesso.
- Non te lo sto chiedendo, Zlatan. – scuote il capo lui, - Ti sto chiedendo di fidarti di me, è ben diverso.
- No, José, tu non mi stai chiedendo di fidarmi di te! – sbotta lui, esasperato, - Tu mi stai chiedendo di fidarmi di Mario, e questo è ben diverso!
- Io mi fido di lui. – ribatte José, serio.
- E non riesco a capire perché. – sbuffa Zlatan, tornando ad appoggiarsi contro lo schienale e incrociando le braccia sul petto, - Non ti ha mai dato motivo di farlo.
- Nemmeno tu me ne avevi mai dato. – gli ricorda il portoghese, sistemandosi gli occhiali sul naso.
- È diverso, - insiste Zlatan, - io sono tornato, quando me l’hai chiesto.
- Ed anche lui. – ridacchia José, - Zlatan, smettila. – lo rimbrotta divertito, - So quello che faccio.
- Forse tu sì, ma Mario no di certo. – sospira lui, alzandosi in piedi e recuperando la cravatta, girandosela attorno al collo senza però annodarla. Fa per voltarsi verso la porta e muovere qualche passo per uscire, ma nota subito Mario immobile sulla soglia, una mano sulla maniglia e gli occhi spalancati dalla sorpresa. – Da quanto sei qui? – gli chiede gelido, piantando una mano su un fianco. Mario boccheggia, fa per dire qualcosa, non ci riesce. Zlatan sbuffa. – Fa niente, - dice con un gesto di stizza, attraversando i pochi metri che li separano e uscendo dalla stanza per imboccare il corridoio, - non che m’interessi davvero.
Mario resta immobile senza essere capace di esprimere nemmeno uno dei pensieri che gli affollano la testa. José ha tutto il tempo di alzarsi dalla propria poltrona ed avvicinarglisi circospetto.
- Mario, - lo chiama a bassa voce, - devo parlarti.
Lui si riscuote, abbassando lo sguardo e incontrando i suoi occhi.
- È lui il suo procuratore? – gli chiede. José annuisce. – Perché?
- Perché era adatto. – risponde.
- Come sono adatto io adesso? – domanda ancora, stringendo la presa attorno alla maniglia.
- Esattamente. – annuisce ancora lui.
Al di là delle labbra serrate, Mario digrigna i denti.
- Forse ha fatto un errore di valutazione di troppo. – gli risponde seccamente, prima di voltarsi e inseguire Zlatan lungo il corridoio.
- Aspetta, Mario! – cerca di fermarlo lui, allungando un braccio per afferrarlo e ritrovandosi a stringere solo aria, - Devo parlarti!
- Dopo! – risponde semplicemente lui ad alta voce, prima di sparire dietro un angolo. José sospira e torna nel proprio ufficio, massaggiandosi stancamente le tempie e sperando che dopo non sia troppo tardi.
*

- Smettila di seguirmi. – dice Zlatan, senza degnarlo nemmeno di un’occhiata.
- Non lo farò fino a quando non avrai risposto alle mie domande. – ribatte lui, sicuro.
- Non ne hai posta nemmeno una, ancora. – gli fa notare lo svedese, inarcando un sopracciglio senza smettere di camminare.
- Sto aspettando che tu ti fermi e mi dia modo di cominciare! – sbotta Mario, allargando le braccia in un gesto rassegnato e fermandosi all’improvviso, sperando intimamente che Zlatan lo segua. Zlatan, però, continua a camminare imperterrito, e dopo pochi secondi Mario ha bisogno di corrergli dietro, se non vuole perderlo. – Zlatan. – lo chiama, il respiro un po’ affaticato per la corsa.
- Chiedi. – risponde lui, gelido.
- È figlio tuo? – domanda Mario a bruciapelo. Zlatan si ferma all’improvviso, così inaspettatamente che Mario ha bisogno di un paio di secondi buoni prima che il suo corpo comprenda che è successo e si decida a fermarsi. Si volta a guardarlo, e Zlatan lo sta fissando di rimando, gli occhi spalancati.
- Ma come ti salta in mente? – ritorce allucinato, - No che non è figlio mio! Mi spieghi come dovrebbe essere arrivato qui mentre io ero in Spagna?
- Cosa vuoi che ne sappia?! – sbuffa lui, allargando nuovamente le braccia ai lati del corpo, - C’è una qualsiasi cosa che abbia senso, in questa storia? Puoi biasimarmi se ormai non do più niente per scontato?
- Senti, Mario, - riprende Zlatan con un sospiro, ricominciando a camminare, - non so che idee ti sia fatto tu, ma ci sono molte più probabilità che il figlio sia tuo che non che sia mio, ed è tutto dire.
- Spiritoso. – quasi ringhia Mario, rimettendosi al suo fianco e riprendendo il passo, - Tu sei il suo procuratore e non sai di chi è figlio?
- Esattamente. – dice Zlatan, e fatica ad ammetterlo, Mario lo capisce, perché i suoi lineamenti si tendono tutti, indurendosi e dandogli l’aria di uno che non vede l’ora che il momento che si ritrova controvoglia costretto a vivere svanisca nel vortice dei momenti suoi simili già trascorsi e fortunatamente dimenticati.
- Come cazzo è possibile che nessuno oltre José sappia di chi questo ragazzo è figlio?! – strilla Mario, esasperato, affiancandosi alla macchina di Zlatan, parcheggiata a pochi passi dal cancello d’ingresso secondario del centro sportivo.
- Cosa vuoi che ti dica? – scrolla le spalle lui, aprendo lo sportello e sedendosi al proprio posto, - È stato bravo a mantenere il segreto.
Mario si affretta a spalancare lo sportello anche dal proprio lato, chinandosi poi sull’automobile sportiva bassissima per cercare gli occhi di Zlatan. Si scambiano uno sguardo lungo, intenso e combattuto, simile a certi sguardi che si lanciavano in allenamento troppi anni prima perché il ricordo possa essere ancora di una qualche importanza. Ciononostante, al termine del confronto, Zlatan sospira e lo invita con un cenno ad entrare, cosa che Mario termina di fare pochi attimi prima che l’auto parta, imboccando la strada per il centro residenziale di Appiano a velocità sostenuta per passare in mezzo al crocchio di giornalisti e curiosi ammassato poco fuori dall’uscita.
- Dove stiamo andando? – chiede timoroso. Zlatan fissa di fronte a sé.
- Da Christos. – risponde lapidario, - Capisco cosa hai avuto intenzione di fare, ma lui non ha nessun posto dove stare oltre alla Pinetina. Sarà andato a rompere i coglioni al suo ragazzo, e lì non ci può stare.
Mario inarca un sopracciglio, incerto.
- E perché no? – chiede, - Dovrebbero essere felici di stare un po’ insieme.
- Lo sarebbero indubbiamente se non fosse che in quella casa non c’è spazio. E naturalmente, se non fossero anni che Adri cerca di rompere con lui.
Mario spalanca gli occhi, prendendosi qualche secondo per cercare di digerire l’informazione e rassegnandosi a boccheggiare sconvolto quando si rende conto che non c’è modo per digerire una cosa simile. Non c’è modo, in generale, per comprendere quanto profondamente Christos abbia messo radici a Milano, con quanta forza si sia imposto su ogni singolo componente di questa società, del nucleo di persone che la compone e di tutti coloro che a queste persone sono in qualche modo collegati. È un bene che i suoi genitori, chiunque siano, stiano ben lontani da Milano, perché hanno sulla coscienza la vita di troppa gente, e da quando è tornato anche la sua.
- Quindi è lui il ragazzo di Christos. L’ex marito di Philippe. – considera con aria assente. Zlatan si concede una mezza smorfia, deviando dalla strada principale per entrare in paese e cominciando a vagare per le vie dei quartieri semivuoti.
- Senti, cerca di non darti troppa pena per quello che è successo mentre non c’eri. – lo avverte, - Anche perché è troppa roba, e per lo più sono cose di cui non hai colpa. Non è che se tu fossi rimasto Christos non sarebbe arrivato comunque, eh. Anzi, ci sarebbe solo stato un problema in più.
Mario annuisce, ma si mordicchia l’interno di una guancia, incapace di smettere di pensare a come sarebbero andate le cose se invece fosse rimasto davvero.
- Cosa sai di lui? – chiede quindi, più per distrarsi dalla piega che i suoi pensieri stanno prendendo che perché speri di cavare un qualche ragno dal buco.
Zlatan, infatti, scrolla le spalle.
- Niente più di quello che ormai saprai a memoria anche tu. – risponde, continuando a tenere d’occhio la strada nonostante la disinvoltura con cui guida lasci intendere che conosce quelle vie perfettamente a memoria, - José s’è presentato già col bambino, come l’avesse autogenerato. E lì è cambiato tutto. Doveva andarsene, ma è rimasto. Ora, io non so se lui cercasse solo una scusa per rimanere e questo bambino gli sia piovuto fra capo e collo regalandogliela, o se restare qui sia stata solo una conseguenza cui s’è dovuto abituare controvoglia, però so che è così che è andata. E per inciso, dei primi anni di Christos io non so niente, perché ho saputo della sua esistenza quando lui ne ha compiuti sei.
Mario annuisce serio, meditando sulla possibilità di tirare fuori il suo pad e prendere qualche appunto. Poi lascia perdere, decidendo di affidarsi alla propria memoria. Per qualche motivo, l’idea di fare con Zlatan come ha già fatto con tutti gli altri lo disturba. Vuole che questa continui ad essere una conversazione normale, per quanto – se ne rende conto – nella situazione contingente la parola normale perda un po’ senso.
- Com’è successo? – chiede, - Come l’hai saputo?
- José mi ha chiamato. – dice Zlatan con un mezzo sorriso, - E mi ha chiesto di fare un sacrificio.
Mario non può impedirsi di sorridere a propria volta.
- È la stessa cosa che ha detto a me, sai? – dice, guardando fuori dal finestrino Appiano sempre uguale, le sue palazzine basse, le villette sporadiche, le piazze semivuote, - Mi ha detto che non voleva propormi un affare, assumendomi, ma chiedermi un sacrificio.
Zlatan ride ad alta voce, i lineamenti molto più rilassati di quanto non fossero qualche minuto prima.
- Non è cambiato molto, in questi ultimi anni. – dice, nella voce una punta di tenerezza, - È pretenzioso e sfacciato adesso come lo era allora.
- Quando ti ha chiamato… tu non dovevi essere poi così vecchio. – riflette Mario, dubbioso, - Quanti anni avevi? Trentacinque, trentasei? Il PFD era appena stato legalizzato, il Barça aveva apparecchiature molto all’avanguardia. Avresti potuto fare almeno altri due, tre anni.
Zlatan annuisce.
- Avevo trentacinque anni, infatti. E sì, avrei potuto. Ma non l’ho fatto. – ride, - Ho lasciato Barcellona e sono tornato a Milano immediatamente.
- Cosa ti ha detto per convincerti? – chiede Mario, curioso, e Zlatan ride ancora.
- Assolutamente niente. – risponde divertito, - Non è neanche stato completamente chiaro, al telefono. Mi ha parlato di questo bambino e mi ha detto che voleva che fossi io il suo procuratore. “Sei abbastanza stronzo per farlo,” mi ha detto.
- E tu hai mollato tutto e sei tornato a Milano solo per questo? – insiste Mario, - Solo perché te l’ha chiesto?
Zlatan ride a bassa voce, scuotendo lievemente il capo con evidente rassegnazione.
- Assurdo, vero? – commenta, - Eppure, sì. È andata esattamente così. Ed è successo così anche con te, no? – gli chiede, lanciandogli un’occhiata complice.
Mario distoglie lo sguardo, un po’ in imbarazzo.
- Io non pensavo di rimanere. – risponde, - Pensavo di rifiutare.
- Certo. – ride Zlatan, ad alta voce, - Chiunque prende un volo transoceanico per andare a rifiutare una proposta di lavoro. Come no. – lo prende in giro, e Mario gli lancia un’occhiataccia solo fintamente offesa. – La verità – riprende Zlatan poco dopo, fermandosi a pochi passi da una bifamiliare con un bel cortile davanti all’interno del quale Mario nota due cani che sonnecchiano in un angolo e un piccolo pollaio sull’angolo opposto, tre o quattro galline che chiocciano nell’aia e i panni stesi in alto a pochi passi dal cancello d’ingresso. – Ma mi ascolti? – rimbrotta Zlatan, ridacchiando divertito. Mario annuisce, tornando a guardarlo ma non riuscendo a smettere di chiedersi per quale motivo si siano fermati. – La verità – ricomincia Zlatan, - è che il punto non è Mourinho e non è nemmeno quello che siamo venuti a fare qua. Sai perché sono convinto che Christos non sia stato altro che il pretesto di cui José aveva bisogno per rimanere? Perché è stato il mio pretesto per tornare. E credo che la stessa cosa valga per te. – annuisce deciso, - Il punto è Milano, Mario. Quello che ci siamo lasciati alle spalle andandocene. Ecco perché siamo tornati. Il motivo reale è questo.
Mario abbassa lo sguardo, incerto.
- Anche se mi dici così, se è vero io non posso saperlo, perché non me ne sono accorto. – risponde, - Io credevo davvero di voler rifiutare.
- E poi non l’hai più fatto. – scrolla le spalle Zlatan, aprendo lo sportello. – Matematico. Ora esci, dai. Siamo arrivati.
Mario solleva lo sguardo, tornando a guardare il cortile.
- Qui? – chiede allibito, indicando il pollaio, i cani, i panni, in generale tutto ciò che vede, - È qui che abita Adri?
Zlatan si mette a ridere, chiudendo la macchina ed avviandosi verso il cancello.
- È qui che abitiamo tutti. – risponde, tirando fuori le chiavi.
Mario non riesce ad impedirsi di lasciare andare un’esclamazione di puro stupore, nel sentire le sue parole.
- Come sarebbe a dire tutti? – domanda sconvolto, seguendo Zlatan oltre il cancello e dentro al cortile ed osservandolo con un certo sgomento mentre scaccia a pedate qualche gallina più stupida delle altre, convinta di potersi frapporre fra lui e il suo obbiettivo.
- Ti presento il Senato. – ride Zlatan, aprendo la porta ed invitandolo ad entrare, - Ma non azzardarti a chiamarlo così davanti ai vecchi, è il modo in cui lo chiamano i ragazzi in Pinetina per prenderli in giro.
- Il Senato? – chiede Mario, sempre più allucinato, seguendolo all’interno dell’edificio e lanciando occhiate curiose intorno per provare a mappare la casa, il cui piano terra è composto da due stanze a vista sull’ingresso, un salotto enorme e la cucina abitabile, ed un corridoio sul quale si aprono altre tre porte.
- Aha. – prosegue Zlatan, posando le chiavi sulla consolle all’ingresso e chiudendo la porta mentre Mario muove qualche passo incerto attorno a sé, giusto per non rimanere impalato in mezzo al niente come uno stoccafisso. – Lo sai com’è quando i figli crescono, no? Le famiglie si rimpiccioliscono e gli amici si avvicinano. – scrolla le spalle, - Javi, Deki e il Cuchu ne hanno solo approfittato per poter avere un posto in cui tenere Christos e prendersi cura di lui quando ha cominciato a farsi un po’ più grande. Poi le cose si sono complicate, naturalmente, prima sono arrivato io, molti anni dopo hanno dovuto trovare un posto anche per Adri, insomma, una serie di terremoti uno dietro all’altro. Che poi, se ci pensi, - continua, come perso nei suoi pensieri, - tutti i terremoti sono stati generati da Christos, in un modo o nell’altro. Tutto il resto è una conseguenza.
- …quindi vivete tutti qui. Tutti assieme. – commenta Mario, deglutendo a fatica, - Ma non è la cosa più opprimente del mondo? Il mio appartamento mi sembra già troppo affollato quando porto a casa qualcuno per la notte.
- Porti a casa qualcuno per la notte? – ridacchia Zlatan, divertito, - Dio, non sei cambiato per niente. – sbuffa scuotendo il capo, - Ci credo che continui a combinare danni, il danno ambulante sei tu. – sospira appena, prima di alzare la voce e rivolgersi genericamente a tutto il resto della casa. – Sono tornato! – annuncia, - E c’è un ospite.
Il primo a mostrarsi, affacciandosi alla porta del salotto con tanto slancio che ha bisogno di puntellarsi con entrambe le mani sugli stipiti per non cadere in avanti, è Javier.
- Mi sembrava di aver sentito una voce conosciuta. – dice, così piano che Mario a stento lo sente, - Speravo di sbagliarmi.
- Javi, bentornato. – lo saluta Zlatan, sfilando la giacca ed appendendola all’appendiabiti, - Andato bene il viaggio di ritorno?
- Quello sì. – sbuffa lui, - Il papà di Paula sta meglio, tra l’altro.
- Ah, ne sono contento. – sorride Zlatan, battendogli una breve pacca sulla spalla prima di sorpassarlo ed entrare in salotto.
- Certo, arrivare a Milano ed essere costretto a correre qui immediatamente perché Christos è stato buttato fuori dalla Pinetina mi ha un po’ scombussolato i programmi. – riprende Javier, accigliato, inseguendolo senza aspettare un attimo. – A chi devo dare la colpa di tutto questo?
Zlatan si lascia andare sul divano con un tonfo, lanciando un’occhiata al televisore acceso e cercando alla cieca il telecomando fra i cuscini con entrambe le mani.
- A lui. – dice, indicando Mario con un cenno del capo.
- E perché l’hai portato qui? – insiste Javier, comportandosi in tutto e per tutto come se Mario non esistesse, mentre lui resta immobile alle sue spalle, ancora all’ingresso, tremendamente a disagio.
- Perché ha bisogno di parlare con qualcuno con cui non ha ancora parlato. – sbuffa Zlatan, chiudendo l’argomento e trovando finalmente il telecomando. – Aaah, eccoti. – esala soddisfatto, prendendo a fare zapping. Solo allora Javier si volta e guarda Mario con la stessa espressione con cui l’ha osservato spesso scrutare gli avversari prima delle partite. Gli occhi di uno che sa chi ha davanti, ha ottenuto tutte le informazioni che gli servivano ed è perfettamente pronto ad affrontarlo.
- Scusami. – gli dice, i tratti del volto che si distendono tutti assieme, sciogliendosi in un sorriso rassicurante che ridà al suo volto l’età che la durezza di poco prima gli aveva tolto, riportandolo quasi a quando di anni ne aveva trentasei e guidava senza paura una squadra di pazzi a vincere quella che per certi versi è rimasta la Champions League più epica di tutti i tempi, - Non è colpa tua. È solo che José ha giustamente aspettato che io fossi via, per farti venire. Che uomo assurdo.
Mario si inumidisce le labbra, guardando Javier con un certo timore reverenziale che suona francamente assurdo, visto che non lo guardava in questo modo neanche quando avrebbe dovuto farlo per contratto.
- Non mi volevi qui? – chiede incerto. Javier sorride ancora e scuote il capo.
- Ma ancora una volta, non è colpa tua. – lo rassicura con una breve stretta di mano, - Purtroppo, la situazione è molto complessa, come immagino già saprai.
- Sì, - ride un po’ Mario, ricambiando la stretta e grattandosi nervosamente la nuca con la mano libera, - il mondo intero non fa che ripetermelo da quando sono arrivato.
- E non hai ancora avuto modo di vederlo coi tuoi stessi occhi? – chiede Javier, facendogli strada verso la cucina proprio di fronte al salotto.
- Per la verità sì. – sospira lui, prendendo posto su uno degli sgabelli attorno al tavolo alto nel mezzo della stanza ed osservando Javier che prepara il caffè meticolosamente, senza sporcare nulla. Ripensa al piano accanto al lavello a casa sua. Non ricorda se l’ha pulito prima di partire. È straniante come la sua permanenza a Milano, per quanto scombussolata e sconvolgente, gli stia dando modo di comprendere a fondo quanto disordinata e priva di qualsiasi criterio sia la propria vita di tutti i giorni a Manchester. – Capitano, non ho la minima idea di dove stia andando a parare questa storia.
Per niente stupito di sentirsi chiamare ancora così proprio da lui, quando nessuno più lo fa ormai da tempo, Javier sorride e continua a preparare il caffè. Altri capitani hanno preso il suo posto dopo di lui, alcuni meno longevi di altri. C’è stato Deki per un anno subito dopo il suo ritiro, poi c’è stato il Cuchu per un po’, Julio per l’ultimo anno all’Inter prima di cedere il passo e tornare in Brasile, poi Philippe, tanto a lungo da superare perfino i suoi record, ed André si appresta a prendere il suo posto l’anno prossimo, col benestare di tutti, e Javier non è più il capitano di nessuno che militi ancora nella formazione dell’Inter, non è il capitano di nessuno dei ragazzi che scendono in campo ogni domenica e nei turni infrasettimanali e durante le competizioni nazionali, europee e mondiali, ma è rimasto il capitano di Mario. Quello che gli hanno insegnato a chiamare così quando aveva sedici anni, lo stampo sul quale ha posizionato tutti gli altri capitani che si sono susseguiti nel corso della sua carriera, l’ombra scura sul muro sopra la quale proiettava le sagome degli altri, per vedere se le assomigliavano, se c’entravano qualcosa, il suo imprinting, il suo primo assaggio reale di cosa possa voler dire prendere sulle spalle una squadra e condurla dove ha bisogno di andare, dove è giusto che vada.
- Dove sta andando a parare quale storia? – chiede bonario, accendendo il fornello e voltandosi a guardarlo, per poi sedersi di fronte a lui. Mario si stringe nelle spalle e si sente molto più piccolo di quanto non si sia mai sentito, anche quando piccolo lo era davvero.
- Tutte. – risponde un po’ abbattuto. – Perché José mi ha voluto qui, cosa sto facendo con Christos e con tutto il resto… non ho avuto neanche il tempo di fermarmi a riflettere su quale fosse effettivamente la cosa di cui si stava parlando, sai?, perché c’era la possibilità di tornare, e il ragazzino indisponente era una sfida troppo allettante, e tutte le cose che ho lasciato qui vent’anni fa sembra che mi stiano chiamando per chiedermi di restare. – sospira, - Ma io che ci faccio qui? Questa non è più la mia vita, qui non è rimasto niente che sia solo mio. Non ho neanche un posto dove stare. – ride un po’.
- Cos’è, dormi sotto un ponte? – gli fa eco Javier, - Ti direi di trasferirti qui, che tanto è stata la frase che ho usato di più nell’ultimo ventennio, ma non abbiamo più stanze libere. Oh, ma abbiamo soppalcato lo sgabuzzino, un paio d’anni fa, se vuoi—
- Mi sta ospitando Davide, grazie. – ride di cuore Mario, sciogliendosi un po’. Javier sorride con affetto sincero, mentre gli appoggia una mano sulla spalla e la stringe calorosamente.
- Ho capito cosa intendi. – gli dice a bassa voce, - È esattamente il motivo per cui ero contrario alla tua presenza qui. Ma per qualche motivo José invece è convinto che tu possa essere la soluzione ideale per Christos, e sia io che tu sappiamo bene che sono rare le volte in cui quell’uomo ha torto.
- Già, perché nessuno sopravvive per raccontarle. – ride Zlatan, entrando in cucina e spegnendo il fornello. – Si stava bruciando. – risponde con un sorriso alle loro domande mute, prima di recuperare qualche tazzina e versare il caffè.
- Senti, - sospira Mario, sorseggiando il proprio con aria incerta e rivolgendosi nuovamente a Javier, - tu lo sai chi è il padre, vero? Se c’è una persona alla quale il mister può averlo detto, quella persona sei tu.
Javier trattiene il respiro solo per un attimo, mentre Mario resta in attesa, e in quell’attimo Zlatan inarca un sopracciglio e gli lancia un’occhiata incerta.
- Tu lo sai. – gli dice a bassa voce. Javier distoglie lo sguardo.
- Non è— - comincia, ma non ha modo di concludere la frase perché la tensione quasi sacrale del momento viene interrotta dal rumore che produce la mano di Christos quando si schianta contro lo stipite della cucina. Indossa solo i jeans e le pantofole, i capelli così arruffati che gli coprono tutta la fronte. Le punte dei ricci un po’ sudate gli accarezzano la nuca e i suoi occhi sono talmente pieni di rabbia che Mario, guardandoli attentamente, riesce già quasi a vederli lucidi di lacrime.
- Tu devi stare lontano da me. – dice il ragazzo, e la sua furia è tale che non riesce a nascondere il tremito che gli scuote la voce, - Devi stare lontano da me e dalla mia famiglia. Io non me ne voglio andare, io non andrò da nessuna parte e tu devi smetterla di ficcare il naso in cose che non ti riguardano! – il suo sguardo si allontana da Mario e si posa su Zlatan e Javier, dall’altro lato del tavolo. – E voi siete due stronzi. – conclude, la delusione che rende pesante il tono di voce, mentre volta loro le spalle e corre fuori. Dalla stanza, dalla casa, dal cortile.
Zlatan espira profondamente, come avesse trattenuto il fiato fino a quel momento, e si passa una mano fra i capelli.
- Era su con Adri, immagino. – sospira, scuotendo il capo. Javier annuisce, voltandosi a guardare Mario.
- Va’ da lui. – dice, indicando le scale per il piano di sopra con un cenno del capo, - Non potrà rispondere alla domanda che sembra più importante per te, perché non sa chi sia il padre, ma risponderà sicuramente a tutte le domande che sono più importanti per Christos. – conclude con un sorriso mesto.
Mario si morde un labbro, annuendo lentamente, e poi, a capo chino, si incammina verso il primo piano.
*
Adriano non si aspetta di vederlo, ma la sua espressione sorpresa è immediatamente mitigata dal sorriso sincero che gli si apre sulle labbra quando gli posa gli occhi addosso.
- Oh-mio-Dio. – dice incredulo, - Oh-mio-Dio! – ride, saltando giù dal letto ed andandogli incontro. Mario fa per stringergli la mano, incapace di trattenere un sorriso di fronte a tanta allegria, ma Adriano non gliene porge alcuna, preferendo di gran lunga avvolgerlo in un abbraccio tanto stretto da risultare quasi soffocante nel momento stesso in cui si avvicina abbastanza da poterselo tirare contro.
- Ehi. – ridacchia Mario, a corto di fiato, - Sei il primo che sembra così felice di vedermi.
- Be’, è abbastanza normale. – ride Adriano, allontanandosi da lui ma continuando a tenergli una mano sulla spalla, come non volesse in alcun modo interrompere il contatto fra i loro corpi, - Immagino che il ricordo che gli altri hanno di te sia piuttosto diverso da quello che ho io. Per me rimarrai sempre il ragazzino idiota che rideva a tirava fuori la lingua contro gli avversari quando si guadagnava una punizione o segnava. Non ho avuto modo di pensare a te come qualcosa di diverso, visto che quando sono tornato in Italia, be’, tu eri già andato via.
- Mi sei mancato. – sorride Mario, stringendolo in un altro abbraccio di propria iniziativa, un abbraccio molto diverso dal precedente, meno irruento ma più caloroso, - Non è che all’Inter non ci fosse nessuno in grado di capirmi, quando sei andato via tu, però ecco, con te mi sentivo molto più a mio agio. Eravamo più… simili.
- Verissimo! – annuisce Adriano, con un’altra risata, - Questo perché sia io che tu siamo sempre stati due casini ambulanti. Tu, però, sei stato più fortunato di me. – annuisce serio, - Figlio di un’altra generazione, una generazione di vincenti. Infatti ti è andata molto meglio.
- Non mi sembri granché infelice, però, nonostante tutto. – commenta Mario con un sorriso divertito, sedendosi sul letto quando Adriano lo invita a farlo, prima di piombare sgraziatamente al suo fianco.
- Perché non lo sono. – scuote il capo il brasiliano, - La mia vita è stata piena e carica di gioie. Se fosse stata del tutto priva di dolori, non sarebbe stata una vita, ti pare?
- Dolori come Philippe? – gli chiede Mario a bruciapelo, rifiutandosi di guardarlo negli occhi perché odia giocare al detective con la gente che l’ha cresciuto, anche se sa di non avere molte alternative a riguardo. Adriano s’interrompe un attimo, perfino il sorriso che ancora piega le sue labbra si fa meno convinto, più dimesso, prima di aprirsi nuovamente, con maggiore convinzione.
- Dritto al punto. – commenta, la voce ancora un po’ incerta, - Perché avrei dovuto aspettarmi qualcosa di diverso, d’altronde?
- Mi dispiace. – borbotta Mario, tornando a guardarlo solo quando l’imbarazzo comincia lentamente a scemare.
- Non scusarti. – lo rassicura Adriano, battendogli una robusta pacca su una spalla, - Immagino che tu non abbia avuto proprio modo di raccapezzarti in questo gran casino, da quando sei qui.
- No, infatti. – annuisce Mario, lasciandosi andare ad un piccolo sorriso, - È per questo che sto cercando di tornare il più indietro possibile, capisci? Cioè, - cerca di spiegarsi, e gesticola, e guarda altrove perché teme di non riuscirci, - so che c’è un passaggio che mi sono perso. C’è un corto circuito da qualche parte e non riesco ad individuarlo. Forse, se riesco a risalire fino al momento in cui ero ancora qui e questo posto per me non aveva segreti, riuscirò anche a… - sospira, - Non lo so. Andare avanti fino all’interruzione, e sistemarla.
Adriano annuisce lentamente, considerando le sue parole. Poi striscia all’indietro sul materasso, appoggiandosi contro la testiera e guardando un punto a caso nel vuoto per raccogliere i pensieri, prima di schiudere le labbra e riprendere a parlare.
- Con Philippe è cominciata molto tempo prima che ci trasferissimo entrambi in Italia. – racconta a bassa voce, perso nella propria memoria, - Era solo un ragazzino, allora, per cui non è che ci fossero state chissà che grande cose. – ridacchia, vagamente imbarazzato, - Però lui era così spontaneo, allegro e, be’, sì, stupido, che insomma, non riuscivo davvero a stargli lontano. È stato il primo essere umano che ho sentito il bisogno di proteggere. Che mi sono sentito in grado di proteggere. – ride un po’, ma è una risata molto più spenta della precedente, - Mi sbagliavo, come mi sono sbagliato spesso quando s’è parlato di relazioni umane, nella mia vita. Christos ne è solo l’ennesima prova, d’altronde.
- Cos’è successo? – si azzarda a chiedere Mario, sfilando le scarpe e sedendosi a gambe incrociate di fronte a lui, sentendosi sempre più bambino man mano che i secondi passano e la sua schiena si curva assumendo una posizione di curiosità infantile che le sue ossa non dovrebbero più nemmeno ricordare come comporre, visto quanto tempo è passato dall’ultima volta che se l’è concessa.
- Fra me e Philippe o fra me e Christos? – chiede Adriano, inarcando un sopracciglio. Mario ride.
- Fra te ed entrambi. – risponde. Adriano ride a propria volta, inspirando brevemente.
- Be’, io e Philippe ci siamo trasferiti, lui a Milano, io a Roma, e ci siamo un po’ persi di vista, ovviamente. E altrettanto ovviamente ci siamo ritrovati quando io mi sono ritirato e sono tornato a Milano. Non chiedermi perché l’ho fatto. – ride, - Non saprei risponderti.
Mario abbassa lo sguardo annuendo lentamente. Lo comprende più di quanto non riesca a dire, più di quanto non riesca perfino ad ammettere.
- E vi siete sposati. – aggiunge, incitandolo a continuare.
- Già. E siamo stati felici a lungo. – conclude lui, annuendo.
Mario si morde un labbro, prima di sollevare nuovamente lo sguardo su di lui, incerto.
- E Christos? – chiede, - Come diavolo— voglio dire, come è riuscito a passarvisi entrambi? Cioè, scusa la brutalità, ma—
Adriano ride ad alta voce, interrompendolo all’improvviso e gettando indietro il capo.
- No, ma è il modo migliore per dirlo. – ammette, - Anche se forse sarebbe più corretto dire che siamo stati noi a passarcelo, non lui a passarcisi. Ma sarebbe solo una questione di forma, la realtà è che Christos… - sospira, - Come te lo spiego? Ha sempre avuto un gran bisogno di sentirsi amato. Sempre. Da chiunque. Ed il fatto che sia sempre stato circondato da persone che per lui avrebbero fatto di tutto l’ha portato a cercare di fare qualunque cosa per, come dire, tenersele strette.
Mario si inumidisce le labbra, gli occhi che brillano appena.
- Da piccolo facevo così anch’io. – ammette, - Con la mia famiglia adottiva, intendo. Nessuno di loro, né i miei genitori né i miei fratelli, hanno mai colto la malizia con cui facevo certe cose, i ricatti morali che imponevo loro per cercare di evitare che mi abbandonassero. Piangevo ogni volta che mi sembrava non mi fossero stati vicini abbastanza, o abbastanza a lungo. Ho fatto in fretta a crescere, quindi questa cosa si è un po’ smorzata, col passare del tempo, ma è un atteggiamento che posso capire.
Adriano annuisce serio, grattandosi pensieroso il mento.
- Il problema è questo qua, di fondo. – cerca di spiegare con la massima chiarezza possibile, - C’è una questione irrisolta, nella vita di Christos, che è la questione dei suoi genitori. Cazzo, deve pure averceli un padre ed una madre. Tu, voglio dire, sei stato adottato, ma sai di avere due genitori naturali, sai chi sono, sai che esistono, da qualche parte, li hai visti, ci hai parlato. Sono presenze che magari hai rifiutato nella tua vita, però li conosci. – Mario annuisce, ed Adriano non aspetta altro per proseguire. – Lui invece no. I suoi genitori potrebbero aver fatto una fine qualsiasi, è come se non fossero mai esistiti, e sente di dovere troppo a Mourinho per costringerlo a dirgli la verità. E la cosa peggiore è che tutti intorno a lui si comportano come se questa questione non fosse poi così importante, cazzo, come se fosse normale per un bambino avere trecentocinquanta padri ed altrettante madri soltanto perché gli unici due che avrebbero dovuto crescerlo non ci sono.
Mario annuisce, un po’ abbattuto. Ha creduto di poter comprendere Christos presumendo di poter comparare le loro situazioni, ma la realtà è che non può affatto. Comparare, né comprendere. C’è una profonda differenza fra la sua infanzia e quella di Christos, e questa differenza è la chiarezza. Lui ha sempre saputo fin troppo bene da dove veniva e dove invece era andato, come e perché. Christos, invece, no.
- Quindi mi stai dicendo che si tratta solo di una banalissima sindrome da abbandono? – sospira, le spalle che tornano dritte nel momento in cui ricorda di avere ancora un lavoro da portare a termine.
- Banalissima? – chiede Adriano, scrollando le spalle, - Se preferisci considerarla banalissima, fai pure. Sarà anche banale, ma ha combinato un casino dietro l’altro. Christos voleva Philippe, e quando se l’è preso si è reso conto di non averlo voluto davvero. O meglio, di averlo voluto, ma non tanto profondamente da accettare di essere il responsabile della fine di un matrimonio. Si è depresso. Parecchio. Ha smesso di mangiare, di allenarsi, di alzarsi dal letto. Eravamo tutti preoccupati perché era ancora in fase di crescita e trascurarsi in questo modo poteva rovinargli la vita, oltre che la carriera. – Mario trattiene il fiato, ed Adriano lo imita per un secondo, prima di ricominciare a parlare. – Philippe non poteva più stargli vicino come un tempo. Fra loro era cambiato tutto e sarebbe stato un disastro. Allora ho cercato di avvicinarmi io, ho cercato— non lo so. Di aiutarlo. E Christos ha voluto me, ed è riuscito a prendermi, ed io ho cercato in tutti i modi, negli anni, di fargli capire che non è giusto così, non è amore, è solo paura, ma lui non ascolta. Non ascolta una parola di ciò che gli dici, mai.
Mario si mette in ginocchio, avvicinandosi quasi a gattoni ed abbracciando Adriano con tanta forza da sentirlo annaspare contro il proprio petto.
- Ha fatto così anche con me. – ammette a bassa voce, cullandolo piano. Adriano ricambia la sua stretta, aggrappandosi alla sua maglia come ad uno scoglio nel mezzo di una tempesta.
- Per te è diverso, Mario. – dice, - Per te, quando si rifiuta di ascoltarti, non si tratta che di un rifiuto. A me spezza il cuore ogni volta. Ogni santa volta.
Mario si morde un labbro, trattenendo il respiro mentre Adriano, silenziosamente, comincia a piangere contro la sua spalla. Non smette per un secondo di stringerlo, e per questo solo molti, molti minuti dopo, Mario riesce ad allontanarsi, salutarlo ed uscire dalla camera. Scende al piano di sotto guardando fisso davanti a sé, come in trance. Non bada ai gradini, imbocca il corridoio ed entra in cucina, parandosi davanti a Zlatan e Javier, ancora intenti a sorseggiare i propri caffè, restando in silenzio fino a quando non sono loro stessi a sollevargli gli occhi addosso. Ed è la voce di Zlatan a costringerlo a parlare, chiedendogli cosa ci faccia lì impalato.
- Riportami in Pinetina. – dice semplicemente, la voce ruvida come fosse disabituato ad usarla, - Devo parlare con José. Immediatamente.
Zlatan potrebbe domandargli perché, ma se lo risparmia. Mario gli è grato, mentre lo osserva posare la tazzina vuota nel lavabo e fargli strada all’esterno della casa, attraverso il cortile e poi in macchina.
- Non te lo dirà mai. – lo avverte lo svedese, intuendo i suoi pensieri. Mario non risponde. Continua a guardare fisso davanti a sé, come se potesse visualizzare il proprio obbiettivo in qualcosa di fisico eppure impalpabile, la linea dell’orizzonte, le punte degli alberi in lontananza, la sagoma sbiadita del centro sportivo nella luce azzurrognola della sera. José e tutte le sue rispose sono lì. Mario può vederlo.
Quando è arrivato ad Appiano, è stato José stesso a fargli giurare che niente sarebbe riuscito a distoglierlo dal suo obbiettivo. E così sarà.
*
- Mi chiedevo se saresti tornato, oggi. – sorride appena José, seduto alla scrivania, gli occhi bassi sulle proprie stesse dita intrecciate sul tavolo. – Avevo bisogno di parlarti e speravo di poterlo fare prima che scoprissi tutte le cose che avrai sicuramente scoperto andando a casa dai ragazzi.
Mario si morde un labbro, cercando di non prestare troppa attenzione a Davide in piedi accanto a José, appoggiato di schiena alla parete e con le braccia incrociate sul petto, ed a Zlatan seduto sulla poltrona accanto a lui.
- Speravo che avremmo potuto parlare a quattr’occhi. – non può evitare di dire, stringendo la presa sui braccioli della propria poltrona. Il sorriso di José si allarga un po’, venato da una sorta di tenerezza paterna che Mario non può fare a meno di trovare in qualche modo rassicurante, per quanto vagamente fuori luogo.
- Arrivati a questo punto, non c’è niente che io debba dire a te che non debba dire anche a loro. – sospira, - Perciò tanto vale farla breve.
- José. – lo interrompe Mario, usando con lui il suo nome di battesimo e la seconda persona per la prima volta in assoluto da quando lo conosce, per la prima volta in tutta la sua vita, mentre Davide e Zlatan, consci di ciò che sta per accadere, tendono tutti i sensi in attesa della risposta all’unica domanda che José si sia ostinato ad ignorare negli ultimi anni. – Ho parlato con Adri. Mi ha detto di quello che è successo a Christos. E mi ha detto perché gli è successo. È ridicolo ostinarsi in questo modo, non possiamo continuare ad ignorare il fulcro del problema. Devi dirmi chi sono i genitori di Christos. Non mi importa dei dati anagrafici o di sapere dove trovarli, devi solo dirmi chi erano, che persone erano, perché altrimenti io non—
- Perché questa questione ti sta così a cuore? – lo interrompe José, guardandolo dritto negli occhi, - Perché vuoi sapere chi sono?
- Per risolvere il problema di Christos. – risponde lui, seccamente. – Perché è il lavoro che mi è stato dato quando sono stato assunto, e voglio portarlo a termine. Perché non voglio essere preso in giro. E perché è giusto così.
- E anche per poter dire a Christos chi sono? – insiste José, duro. Mario si morde l’interno di una guancia.
- Sì, se sarà necessario. Se ciò servirà a spronarlo a partire, lo farò senza dubbio. – annuisce, senza interrompere il contatto coi suoi occhi.
José inspira profondamente, intrecciando le dita davanti agli occhi e chiudendo le palpebre, perso in qualche secondo di riflessione silenziosa. Davide sposta il peso del corpo da un piede all’altro, mordendosi nervosamente un labbro. Zlatan stringe la presa attorno ai braccioli della propria poltrona, picchiettando con un piede sul pavimento lucido e nero.
- E se invece saperlo lo intrappolasse qui? – chiede, - Se vi intrappolasse qui entrambi?
Mario trema.
- Che cosa…? – balbetta. Davide si avvicina di un passo. Zlatan si sporge verso José.
- Christos è tuo figlio. – dice l’uomo, gelido, tornando a guardarlo negli occhi. Mario smette di respirare, anche perché in un solo secondo la consistenza dell’aria si fa troppo densa, e il suo peso specifico troppo elevato. Respirare adesso equivarrebbe a soffocare, e Mario se lo risparmia. Non riesce a staccare gli occhi da Mourinho, anche se vorrebbe, e non riesce a smettere di ascoltarlo, anche se vorrebbe riuscirci anche più di quanto non vorrebbe riuscire a distogliere lo sguardo. – Betty venne a trovarmi a casa un paio di giorni dopo la tua partenza. Disse di non avere più il tuo numero, di non sapere come rintracciarti. Voleva parlartene, ma non aveva avuto il coraggio di farlo fino a quel momento e in tutta sincerità dubito che lo avrebbe trovato nel tempo. – José sospira, sfilando gli occhiali e passandosi due dita sugli occhi, massaggiandoli piano. – Voleva darlo via. Non voleva tenerlo ed avrebbe cercato di darlo via il più silenziosamente possibile. Mi disse che già doversi nascondere per quasi sei mesi le aveva rovinato la vita a sufficienza. Non c’era più nessuno che le offrisse un lavoro. Aveva perso la linea e recuperarla non sarebbe stato semplice. Era così… - sospira ancora, cercando le parole più giuste per descriverla, - arrabbiata. Con se stessa, principalmente. E anche con te, e con il suo bambino. Per questo non avrebbe avuto difficoltà a darlo a qualcun altro. – José solleva nuovamente lo sguardo, incontrando quello di Mario e restando silenzioso per qualche secondo, prima di proseguire. – Io non ci sono riuscito, però. Avevo lasciato andare te, ma lui volevo— non lo so. – ammette, un po’ abbattuto, - Volevo tenerlo. È stata una follia, e non ho avuto tempo di rendermene conto perché man mano che gli anni passavano Christos si faceva sempre più grande, e tutto sempre più normale. Ma non lo era. E quando ho capito cos’era a bloccarlo in questo modo, ho pensato che tu potessi riuscire a liberarlo, in qualche modo. Ma probabilmente mi sbagliavo.
Mario fa per dire qualcosa, Zlatan sembra più veloce di lui perché si sposta in punta alla sedia e batte un pugno violento contro la scrivania di José, ma l’unica voce che si riesca a sentire prima di quella di Christos è quella di Davide che, dalla propria posizione privilegiata in piedi dietro alla scrivania, lo vede prima di tutti, immobile sulla soglia della porta, ed ha il tempo di mormorare un “Dio” strozzato che dà i brividi a tutti. Poi è solo la sua voce, sottile, debole, sperduta come quella di un bambino intimidito di fronte all’enormità dell’edificio scolastico all’entrata del primo giorno delle elementari, e nonostante questo è un suono che deflagra nella mente di tutti i presenti, azzerando le loro capacità di pensiero.
- No. – dice, con una sicurezza impressionante, nonostante la sua voce sia appena udibile, pur nel silenzio caotico di quel momento. Zlatan e Mario si voltano a guardarlo così lentamente che sembra che il solo girare sulla sedia costi loro una fatica immensa. Si aprono come il mar Rosso e questo permette agli sguardi di José e Christos di incrociarsi, ed è guardandolo dritto negli occhi che Christos ripete “no”, a voce più alta, così che l’unico uomo cui vuole far sentire quella parola recepisca il messaggio senza possibilità di errore.
Poi si volta, e il minuto successivo è sparito oltre la porta, lungo il corridoio. Mario sente lo scricchiolio fastidioso delle suole di gomma delle sue scarpe da tennis che strisciano contro il pavimento lucido e liscio, e non si concede il tempo per pensare. Sa che, se si fermasse a riflettere, capirebbe che non è lui quello che deve alzarsi e corrergli dietro, al momento. Dopo, forse, per un chiarimento, per chiedergli scusa, anche se non riesce a immaginare esattamente per cosa. Ma non ora. Non proprio ora.
Ed è proprio questo il motivo per cui spegne il cervello. Non deve inseguire Christos, ma è quello che vuole fare, perciò mormora un “Davide” che sa di implorazione d’aiuto e si alza in piedi con uno scatto, correndogli dietro. Davide gli è accanto già prima che sia riuscito ad uscire.
Anche José si alza, visibilmente più lentamente degli altri due, schiacciato da troppi pesi per poterli contare, e per la prima volta anche dall’età. Gli cadono addosso gli anni uno ad uno, lo confondono e lo rattristano e lo riempiono di tante altre emozioni e sensazioni troppo vivide per poter essere sostenute su due gambe, motivo per cui appoggia entrambe le mani sulla scrivania e la usa per sostenersi mentre le gira intorno, ben deciso a seguire Christos a propria volta.
Zlatan si alza in piedi e lo afferra per un polso, tanto repentinamente che José si sente quasi cadere all’indietro. Quando si volta a guardarlo, nei suoi occhi legge troppa confusione e troppo dolore. Stringe forte le labbra e si gira, fronteggiandolo e reggendo il suo sguardo per qualche secondo prima di rassegnarsi a chinare il capo e fissare il pavimento. È la prima volta, la prima volta nella sua intera vita che si sente in colpa.
- …avresti dovuto dirmelo. – dice Zlatan, la furia trattenuta nella sua voce è così palese che José prova quasi fastidio nel percepire quanto lui si senta in dovere di moderarsi per non dargli troppo addosso. Che sia a causa dell’età o di chissà che altro motivo non gli interessa, vorrebbe avere la forza di tornare a guardarlo negli occhi e dirgli chiaro e tondo che può urlargli addosso quanto gli pare, come ha sempre fatto in passato, e che nulla di quello che potrà dire lo scalfirà, o riuscirà a sfiorarlo. Il punto è che sa che sarebbe una menzogna, e non può aggiungere al carico anche questa.
- Lo so. – risponde sommessamente, continuando a fissare per terra, - Non ci sono mai riuscito.
- La mia intera vita, José… - continua Zlatan, come non l’avesse nemmeno sentito, - La mia intera vita è così com’è oggi perché tu mi hai chiesto una cosa ed io ho risposto di sì. E ora—
- Non è cambiato niente, Zlatan. – prova a dire, - Te l’avrei chiesto comunque, anche se ti avessi detto che era figlio di Mario, io—
- Ma io l’avrei saputo! – tuona Zlatan, stringendo la presa sul suo polso per un attimo, prima di lasciarlo andare con delicatezza quasi forzata. – Non mi hai mai detto niente, e la cosa più assurda, la cosa più stupida, è che per me è andata bene così, fino ad adesso.
José si morde l’interno di una guancia, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, a disagio. Si inumidisce le labbra e si schiarisce la voce, prima di parlare, perché ciò che ha da dire adesso è più difficile di tutto quello che ha dovuto dire nel corso della sua intera esistenza, e di cose difficili ne ha dette, tante, e a parecchie persone.
- Forse… - azzarda, sollevando lo sguardo per cercare i suoi occhi, - dovresti chiederti perché.
Zlatan deglutisce a vuoto un paio di volte, restando immobile nei pressi della scrivania. José osserva il suo corpo rigido, come si stesse volutamente impedendo di muoversi. Poi si scioglie, poco a poco, è come se il sangue piano piano riprendesse a scorrere attraverso le sue vene. Il suo viso riprende colore e si avvicina a José di un passo, poi di un altro, e quando solleva un braccio e gli accarezza una guancia José trattiene il respiro, terrorizzato e ad un passo dall’esplodere per l’emozione.
- …sarebbe stupido chiedersi qualcosa di cui conosco già la risposta. – conclude, abbassando ancora il braccio. José riprende a respirare e sul volto di entrambi nasce un sorriso.
*
- Christos! – lo chiama ad alta voce, ma Christos non si ferma. È naturale che non lo faccia, Mario si dà dell’idiota da solo per averci sperato, per aver sprecato chiamandolo fiato che avrebbe potuto utilizzare per correre più veloce, per cercare di stargli dietro. Davide gli è due passi dietro, così composto che a Mario viene quasi da ridere, soprattutto visto che lui ha un fiatone tale che se non si conoscesse si scambierebbe per uno che ha smesso di tenere il passo degli allenamenti già da almeno vent’anni. Mario gli lancia un’occhiata subito dopo essere uscito dal centro sportivo, e Davide gli ricambia lo sguardo come a dirgli che lui è lì, non deve preoccuparsi di chi lo sta seguendo, che badi solo a chi si ritrova a dovere inseguire a propria volta, ma anche che quella, comunque, è la sua lotta, e lui potrà anche aiutarlo, ma non potrà mai combattere al posto suo.
Mario torna a guardare di fronte a sé. Christos scavalca una recinzione e oltrepassa un nugolo di giornalisti assiepati nei pressi, per gettarsi come una furia in mezzo ai campi poco distanti, e mentre Mario prende distrattamente nota della pioggerellina fresca che gli cade addosso dal cielo grigio chiaro sopra Appiano, si chiede dove abbia sbagliato nella vita. Se sia stato un errore andarsene, se sia stato un errore tornare, se l’errore l’abbia fatto a monte concedendosi a vent’anni quello che poi, per una svariata serie di ragioni, avrebbe deciso di smettere di concedersi nel tempo. Da qualche parte un errore deve esserci stato, perché immaginarsi colpevole dell’aver rovinato la vita a così tante persone è già abbastanza senza dovere aggiungere il carico della consapevolezza che, anche cercando di impedire tutto questo, non sarebbe riuscito ad evitarlo.
Ha bisogno di qualcuno da incolpare. Se non se stesso, chi altri?
- Mario! – lo chiama Davide, e Mario solleva lo sguardo. Christos è più vicino, sta piangendo così forte che lo si sente singhiozzare nonostante il rumore della pioggia sempre più forte, e sta correndo molto più lentamente di quanto non stesse facendo fino a qualche minuto fa, nonostante l’ostinazione gli impedisca di fermarsi e lasciare che l’inevitabile avvenga. Mario lo capisce. Christos sa che prima o poi dovrà fermarsi, che lo prenderanno o se anche non dovessero riuscirci sarà lui a dover tornare a casa, prima o dopo. Sa che questa è una verità che dovrà affrontare, ma non vuole farlo. Mario sa come si sente perché s’è sentito così per vent’anni, già da prima di partire per Manchester. Ora sa che la sensazione di terrore che ha sentito quando è arrivato in Pinetina è la stessa che muove le gambe di Christos, adesso, ed è la stessa che, fosse stato più giovane, avrebbe costretto alla fuga anche lui: la certezza di essere arrivato alla resa dei conti, di avere qualcosa da confessare a quelle pareti, qualcosa da chiarire, qualcosa per cui scusarsi.
Scatta in avanti con l’ultimo respiro che gli sia rimasto nei polmoni, sperando di non scivolare sul fango che scricchiola sotto le sue scarpe per niente adatte a correre per campi, e quando riesce a sentire solida e fisica la spalla fradicia di Christos sotto le dita non può impedirsi di sorridere, anche se nel movimento si sbilancia e nell’aggrapparsi a lui finisce per trascinare entrambi a terra, facendosi male e, probabilmente, facendone anche a lui.
- Lasciami stare. – piange Christos, le mani sul viso e le lacrime che scorrono lungo le guance arrossate per lo sforzo, mentre i capelli, resi pesanti dalla pioggia, gli si afflosciano lungo il collo e la nuca, - Dio, perché proprio tu? Fra tutti quelli che potevano essere… Lasciami stare, vaffanculo, tornatene da dove sei venuto, lasciami stare
Mario cerca di riprendere fiato, appoggiandosi per terra mentre i vestiti gli si inzuppano d’acqua e fango, e quando Davide lo raggiunge e si china al suo fianco per chiedere ad entrambi come stiano non gli lascia nemmeno il tempo di aprire bocca.
- Io non sono tuo padre. – dice seccamente, e Christos abbassa le mani e solleva lo sguardo, trovando i suoi occhi. – Io non sono tuo padre. – ripete Mario con un sorriso più dolce. – Sai chi è Thomas Barwuah? – gli chiede. Christos scuote il capo. – È un uomo che ho conosciuto e ha vissuto un po’ fra Palermo e Brescia fino a settant’anni. È un uomo che ogni tanto parlava di me per portare a sua moglie e ai suoi due figli qualche soldo in più. È un uomo che ho odiato e che ho imparato a perdonare con la consapevolezza che è arrivata col tempo che per me lui non è stato nulla, non è stato in grado di farmi male. Thomas Barwuah è stato tutte queste cose, ma non è mai stato mio padre. E io non sono tuo padre. Non sono tuo padre, Christos. – conclude sorridendo con maggiore convinzione.
- …e chi è tuo padre? – chiede Christos, abbassando lo sguardo. La sua voce è debole, fioca come una fiammella persa in mezzo al temporale che si sta abbattendo sul campo e su di loro in quello stesso istante. – Tu lo sai? Perché io no. Io non lo so.
- Sì che lo sai. – sorride ancora Mario, e si allunga a ravviargli una ciocca di capelli bagnati dietro l’orecchio, scivolando poi con due dita lungo il profilo del suo viso fino a trovare il suo mento, costringendolo a tornare a guardarlo negli occhi. – Mio padre si chiamava Franco. Era un uomo buono. Mi ha sempre voluto bene. Quella del suo funerale è stata l’unica occasione in cui sono tornato in Italia in tutti questi anni.
- Sì, ma io non ce l’ho! – grida Christos, la voce spezzata dal pianto, - Io non ne ho uno. Non ho niente. Non ho niente— come faccio ad andarmene se non ho niente a cui tornare? Se me ne vado perdo tutto. Qui per me non resta nessuno. Perché non ho nessuno.
Mario sorride appena, avvicinandoglisi un po’.
- Mister Mourinho. – comincia ad elencare, - E Davide, e Philippe, e Joey. E Adri, e Zlatan. E il capitano, e il Cuchu, e Deki. E potrei farti altri cinquecento nomi. È tutta la gente che ti ha cresciuto, Christos, sono le tue radici. Sono i tuoi genitori.
Gli occhi di Christos si fanno enormi, così pieni di lacrime che Mario teme di poterli vedere sciogliersi nella pioggia. Ma poi Christos li chiude e il suo respiro si fa più pesante, più calmo, quasi si fosse addormentato. E dopo un attimo esplode in un singhiozzo enorme, come l’avesse trattenuto per tutta la sua vita da quando è venuto al mondo, aspettando il momento giusto per emetterlo. Allungandosi a stringerlo fra le braccia nel fango, una cosa che sa non farà mai più, Mario sa che è proprio così che è andata. Tutto torna al suo posto. Appiano gli piove addosso, Mario sente il suo celo grigio scivolargli goccia dopo goccia sulla pelle, e il suono flebile della pioggia sembra sussurrargli che adesso è libero, adesso può scegliere se andare o restare, ma restare non sarà più una prigione, ed andarsene non sarà più un obbligo.
Christos gli si abbandona lentamente fra le braccia, e Mario si accorge solo dopo qualche minuto che s’è addormentato, esausto. Si volta a cercare gli occhi di Davide, e li trova subito. Rossi e bagnatissimi, lo osservano in un misto di stupore e gioia. La sua mano calda sopra la spalla lo rassicura una volta di più. E quando gli chiede aiuto per tirare su Christos e riportarlo in Pinetina, Davide non si tira indietro, e Mario sa che i loro problemi non sono ancora risolti, ma sono comunque sulla buona strada per esserlo.
*
- Sei sicuro di aver preso tutto? – chiede Zlatan, trascinandosi dietro il proprio trolley ed inarcando un sopracciglio quando nota Christos intento ad amoreggiare senza vergogna con André in un angolo poco distante da loro. – Christos! Ma santo Dio, partiamo fra venti minuti e invece di salutare tutta la gente che è venuta fin qui per dirti arrivederci cosa fai?
- Quello che fa sempre da quando aveva dodici anni? – chiede innocentemente Philippe, chinando appena il capo con aria incuriosita e scatenando immediatamente la risata divertita di Adriano al suo fianco. Zlatan si passa una mano sugli occhi, espirando pesantemente.
- Ma chi me l’ha fatto fare… - si lagna, e chi gliel’ha fatto fare gli sorride spavaldo, riuscendo per un istante ad assomigliare più che mai al se stesso di tanti anni prima che con due parole era stato in grado di riportarlo a Milano senza nemmeno doverlo guardare negli occhi. – Lasciamo perdere. – sbuffa con una punta d’imbarazzo. – Ti chiamo appena arriviamo, così sai che— è andato tutto bene. – conclude. José gli sorride ancora, stavolta più dolcemente, senza aggiungere una parola.
- Christos, è davvero il caso che tu ti muova. – sorride Davide, afferrando il ragazzo per un orecchio e staccandolo di peso dalle labbra di André, che subito ride, intrecciando le dita con le sue e seguendolo quando Christos, una lamentela dopo l’altra, si trascina verso il resto del gruppo, dispensando abbracci a tutti i presenti, fra una rassicurazione di Javier, una battuta di Dejan ed un abbraccio caloroso di Esteban.
- Non sono ancora sicuro di quello che sto facendo. – borbotta fermandosi davanti a José e guardandolo dritto negli occhi, - Ma adesso so che se non va bene ho qualcuno che mi aspetta qui.
José sorride, accarezzandogli una guancia e tirandoselo contro per abbracciarlo stretto.
- Andrà bene. – lo rassicura, - Non può che andare bene.
Christos chiude gli occhi e prova a crederci. Si allontana pochi secondi dopo, cercando Mario con lo sguardo e trovandolo alle spalle di José, quasi defilato, come se lui, con tutto ciò che sta accadendo, non avesse niente a che fare.
- Ehi. – lo chiama con fare acido, - Grazie.
Mario sbuffa una risatina divertita.
- Perché? – chiede inarcando un sopracciglio.
Christos rotea gli occhi, voltandogli le spalle. Non si spreca a rispondergli, e d’altronde a Mario va bene così. Lo osserva attraversare il corridoio fino all’entrata dell’imbarco, seguito a ruota da Zlatan e da tutte le valige che lo svedese è costretto a portare per lui fra un borbottio e l’altro.
- Sai cosa pensavo? – gli chiede Davide, appoggiandosi contro la sua spalla mentre guarda André seguire Christos fin dove gli è possibile, prima di lasciargli la mano e tornare indietro per osservarlo da lontano mentre passa i controlli e imbocca il corridoio che lo porterà all’aereo, - La settimana prossima torna Hera, e sono tre-quattro giorni che Giovanni non fa che chiedermi se possiamo andare in campeggio tutti insieme. Non so da dove gli sia venuta in testa quest’idea, ma—
- Gliel’ho suggerita io. – ride Mario, voltandosi a cercare le sue labbra in un gesto discreto ma inequivocabile. Davide lo guarda, un po’ sorpreso, ma ricambia il bacio prima di ridere e scuotere mestamente il capo.
- Dimmi come si suppone che io possa resistere a un simile attacco combinato. – finge di lamentarsi con un sorriso.
- Non si suppone, perché non puoi. – ride ancora Mario, tirandoselo contro. – Allora? Ci andiamo in campeggio?
Davide si morde un labbro, guardandolo incuriosito.
- Questo vuol dire che resti? – gli chiede a bassa voce.
Mario sfiora le sue dita con le proprie in un gesto quasi casuale.
- Dici che se resto abbiamo qualche speranza? – gli chiede. Davide riflette qualche secondo e poi torna a guardarlo. Sta ancora sorridendo.
- La differenza fra allora ed adesso, è che adesso avremmo qualche speranza anche se te ne andassi di nuovo. – gli risponde.
Mario sorride più apertamente, stringendogli una mano con decisione.
- Allora resto. – conclude. La voce dell’aeroporto, con tutti i suoi piccoli e grandi rumori, il borbottio delle persone, il ticchettio di centinaia di tacchi contro il pavimento in marmo lucido, sembra complimentarsi con lui per la risposta esatta, e spingerlo ad uscire. Mario obbedisce. E nei suoi occhi non c’è più neanche un’ombra di paura.





(1) André è lui, è angolano e le Palanças Negras (Antilopi Nere) sono appunto i calciatori della nazionale angolana.
(2) Grazie a Def per il titolo, per tutto l'aiuto, per il betaggio e per il PFD :*
(3) Grazie alla Kya per il fanmix stupendo e per aver dato quella faccia a Christos ;____; *piange splendore e amore per sempre*
(4) Un bacio speciale ad Ary e Chià. Loro sanno perché. ♥
Genere: Introspettivo, Malinconico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Flashfic.
- Zlatan vende la propria abitazione di Cernobbio, e si occupa personalmente di mostrarla ad un amico che, proprio in quel momento, cerca casa.
Note: Gemellina della sua omonima ad opera del mio diletto marito, scritta perché il Def ha il potere di farmi scrivere su qualsiasi cosa. *ride* E perché ci piaceva un mucchio l'idea di scrivere sul nuovo challenge di it100, e Zlatan ce ne ha dato immediatamente l'occasione. *ride*
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SAUDADE

»Paese
- Come vedi, la casa è in ottime condizioni. – dice Zlatan, attraversando il corridoio e spalancando tutte le porte perché Kevin possa dare una rapida occhiata alle stanze prima di osservarle più attentamente una per una, - Il paese è piccolo e qui sono abituati ad avere a che fare con le celebrità, non ti infastidiranno affatto. D’inverno c’è parecchio freddo, anche perché è proprio sul lago, ma i riscaldamenti sono a posto, controllati l’anno scorso, e non dovrebbero darti problemi. So che hai un bimbo piccolo, magari la cosa ti preoccupava.
Kevin si guarda intorno con aria un po’ sconvolta, accarezzando la carta da parati che ricopre le pareti. È soffice al tatto, liscia e piacevole.
- Cazzo, Ibra, questa casa è una favola. – dice con aria sognante, - Ha cinquecento stanze, e il parco, fuori…!
- Poi prendiamo la macchina e ti porto a fare un giro anche lì. – ride lui, spalancando uno dei balconi che danno sulla facciata dell’edificio ed appoggiandosi coi gomiti alla ringhiera. – Come vedi, - dice, e la sua voce, per un attimo, si fa distante, quasi antica, in un modo che Kevin non saprebbe spiegare, - anche la vista è fantastica.
Kevin si sistema al suo fianco, nella stessa posizione, e guarda dritto davanti a sé, oltre le cime degli alberi che si estendono per chilometri attorno alla villa. Si vede perfettamente il lago e tutte le splendide ville ottocentesche che lo circondano. Lo sguardo di Zlatan sembra perso in quella direzione, senza un apparente perché.
- Ibra… - lo chiama quindi, con aria un po’ incerta, - Perché vendi questo posto?

»Mondo
Zlatan non risponde. Serra le labbra, gli occhi che, senza volerlo, si fissano su Villa Ratti, in un gesto collaudato che, fino a due anni prima, lo riempiva automaticamente di un benessere inestinguibile, al punto che aveva preso ad affacciarsi in quel modo ogni mattina, e tanto gli bastava per essere di buon umore per tutto il giorno.
- Intendo, è un posto meraviglioso, - continua Kevin, aggiungendo concitatamente parole su parole su parole per cercare di seppellire l’imbarazzo con la propria voce, - e ora che anche tu sei tornato a stare a Milano mi sembra un po’ assurdo andare a stare da qualche altra parte quando si ha già tutto questo.
Zlatan si dice che è vero, è proprio assurdo. Ed è una cosa infantile e ridicola, tanto infantile e tanto ridicola che non ha avuto il coraggio di spiegarla ad Helena. Lei una donna abbastanza forte da sostenere tutto ciò che dice, ma soprattutto tutto ciò che tace, e lui le è stato grato come mai nella vita quando, alla notizia che non avrebbero più abitato lì, lei si è limitata a sorridere e a mettersi in modo per cercare un altro posto in cui alloggiare.
La verità è che non sa come riuscirebbe a venire a patti con quel posto, se dovesse tornare a viverci per forza. Con tutto ciò è stato e che ha rappresentato per lui, qualcosa di tanto forte da costringerlo a scappare, se non dall’altro lato del mondo, comunque in un luogo abbastanza lontano da permettergli di non pensare più a lui. Un luogo che adesso non serve più il suo scopo, perché era lontano ma non a sufficienza da impedirgli di raggiungerlo ancora. E ancora. E ancora.
- Vieni. – dice, interrompendo il flusso dei propri pensieri, - Ti mostro il resto.

»Universo
La verità, pensa Zlatan con un pizzico di rassegnazione mentre Kevin lo segue al piano di sopra, già eccitato all’idea di vedere l’attico e la terrazza, è che non esiste un solo singolo posto in tutto l’universo che potrebbe essere abbastanza lontano per tenere a distanza José. Non solo la sua persona, anche se Zlatan immagina che per lui sia davvero possibile arrivare ovunque, pianificando giusto un po’, ma soprattutto il suo ricordo, la sua essenza. Sa che questa cosa si ripete ovunque vada perché il pezzo di José che gli è rimasto conficcato come una spina nel cuore è troppo ingombrante e radicato troppo in profondità per pensare di strapparselo via di dosso, ma è comunque un pensiero che non riesce a dargli pace, perché ha sempre creduto di essere diverso, ha sempre creduto di essere abbastanza forte, forte a sufficienza per sconfiggere almeno il dolore sordo della nostalgia, e fino a prima di incontrare José gli era sempre, sempre riuscito. E ora, invece, non gli riesce più.
Dalla terrazza, Villa Ratti si vede con una chiarezza incredibilmente dolorosa. La facciata per metà bianca e per metà ricoperta di rampicanti gioca a nascondino con la folta vegetazione che la circonda, e le finestre brillano in controluce come volessero fargli l’occhiolino. Ogni riflesso lo abbaglia infastidendolo sempre più profondamente, fino a quando non sente il bisogno fisico di distogliere lo sguardo.
- È una gran bella casa, Ibra. – conclude Kevin, ammirato, sporgendosi cautamente oltre il parapetto e guardandosi intorno. – Ti prometto che ci farò un pensierino.
Zlatan annuisce brevemente, e spera solo che Kevin decida in fretta.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Flashfic.
- "Non posso aspettare. [...] Dobbiamo vederci adesso."
Note: Scritta per la Notte Bianca @ maridichallenge, su prompt José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic, "I can't wait to see Mourinho again".
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UNBALANCE

Nel rapporto assolutamente sbilanciato che lo legava a José, era sempre lui a chiedere, a esporsi per primo, a proporre un passo avanti. Non che la cosa gli piacesse più di tanto, non che ci fosse abituato, peraltro, ma si conoscevano ormai da quasi tre anni ed era sempre stato così. Si sarebbe potuto pensare che il controllo di quella relazione fosse suo, ma era soltanto una condizione apparente: niente si muoveva, niente accadeva davvero se non perché José aveva dato il proprio assenso, e un suo diniego era sufficiente per riportare la loro relazione a momenti preistorici in cui, guardandosi negli occhi, spesso s’erano chiesti perché stessero insieme, cosa trovassero l’uno nell’altro a parte il sesso che valesse davvero la pena di ingannare il mondo e correre un rischio più grande di loro, soltanto per scopare.
Zlatan decise di esporsi anche quella volta. Perché non lo vedeva da troppo tempo per concedersi una riflessione più lunga o un atto un tantino più ponderato. Rilasciò un paio di dichiarazioni di quelle che ancora, nonostante tutto, obbligavano la gente ad associare il proprio nome al suo, aspettò che gli venissero riferite, osservò le risposte sincere e tranquille che ne vennero e poi, in serata, lo chiamò al telefono.
- Non posso aspettare. – disse in un fiato, sentendosi mancare il respiro all’improvviso, - Dobbiamo vederci adesso.
José rise appena, dall’altro lato della cornetta.
- Non sei proprio capace, mh? – chiese a bassa voce. Zlatan provò ad immaginare la sua espressione, le linee delle sue labbra, il profilo del suo viso. Chiuse gli occhi, lo vide e desiderò non riaprirli più, anche se fu solo un attimo fugace.
- Di fare cosa? – chiese a propria volta con aria trasognata, l’immagine di lui ancora intrappolata nella retina.
José rise ancora, e lo stomaco di Zlatan rispose stringendosi in una smorfia d’impazienza.
- Di lasciarmi andare. – rispose. Zlatan spalancò gli occhi. Gli sembrò d’intuire qualcosa, nella sua voce. Una richiesta d’aiuto, forse, anche se non gli riusciva di interpretarne il senso.
- Tu non vuoi che lo faccia. – gli rispose, la voce incerta per un attimo. – Vero?
José si inumidì le labbra, Zlatan pensò alla sua lingua, alla sua lingua contro la propria, alla sua lingua sul suo corpo, alla sua lingua dentro di lui, e pregò intensamente come non aveva mai pregato. Pregò che rispondesse che era vero. Non voleva. Non avrebbe mai voluto.
José non rispose, comunque. Si limitò a dettargli brevemente l’indirizzo dell’albergo nel quale aggiornava, e terminò la chiamata. Zlatan dovette farsi forza, inaspettatamente, per ritrovare tutta la voglia che aveva di vederlo. Si mosse solo quando la sentì scaldargli le viscere ancora e, come ogni volta in cui José non rispondeva alle sue domande, cercò di farselo bastare.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: G
AVVERTIMENTI: Gen.
- "Zlatan picchia contro la porta con una forza tale che Mario ha seriamente paura che possa abbatterla."
Note: Dunque, parte di questa storia dovrebbe essersi verificata sul serio XD Nel senso che, in un'intervista alla Gazzetta, Matrix disse che dopo una partita (a Torino, ma non ci è dato sapere di più), Zlatan inseguì Mario per tutto lo stadio con la ferma intenzione di picchiarlo per motivi che non comprendiamo. Cioè, secondo la gran parte di noi Matrix s'è sbagliato a dire che tutto ciò si sarebbe svolto a Torino, crediamo invece che sia accaduto all'ultima di campionato dell'anno scorso che ora non mi sovviene con chi sia stata -- Parma? -- comunque il succo è quello. E tempo prima peraltro José aveva confermato di aver cazziato furiosamente Mario perché si rifiutava di giocare per far segnare Zlatan e anzi andava a segnare lui... XD Gioie dell'essere una squadra.
A parte questo, comunque, storia scritta la settimana corrente del Challenge Trimestrale #2 @ dietrolequinte, su prompt "Tu vuoi essere creativo, vuoi essere al centro dell'attenzione, ammettilo: vuoi essere come me". \o/
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MIRROR OF MYSELF
"Tu vuoi essere creativo, vuoi essere al centro dell'attenzione, ammettilo: vuoi essere come me"


Zlatan picchia contro la porta con una forza tale che Mario ha seriamente paura che possa abbatterla. Gira la chiave nella toppa, una volta non basta per rassicurarlo e la gira ancora, poi si volta e si appoggia di spalle alla porta stessa, fissando il proprio sguardo terrorizzato nello specchio che copre quasi per metà la strettissima parete di fronte a lui. Sta ansimando faticosamente per la corsa attraverso tutto lo stadio e il cuore gli martella in petto velocissimo, tanto che non sa se gli faccia più male lui o le costole contro cui finisce inesorabilmente per cozzare ogni volta che bum scatta in avanti per ogni bum per ogni colpo di Zlatan contro la bum contro la porta.
- Apri la cazzo di porta! – urla Zlatan, e Mario si allontana, andando ad accucciarsi sul water chiuso nell’angolo opposto del bagno. La porta trema ogni volta che Zlatan le scaraventa contro un cazzotto, e Mario vorrebbe tapparsi le orecchie con le mani per impedire sia ai botti che alla sua voce di raggiungerlo, ma sa che niente potrebbe impedirgli di ascoltare il battito furioso del proprio stesso cuore, e quello scandirebbe il tempo che passa con una precisione ancora maggiore del pugno di Zlatan. Mario non è pronto a restare solo con la sua paura, perciò resta immobile. – Cazzo! Mario! Apri la cazzo di porta! – continua Zlatan. Smettila, smettila, smettila, pensa silenziosamente Mario, tremando fin nelle ossa.
Da fuori sente provenire rumori concitati. Voci che si accavallano, un mezzo accenno di rissa, urla confuse. “Fai quel cazzo che vuoi, allora!” grida improvvisa la voce di Marco. Mario non l’ha sentito avvicinarsi, ma di certo sente i suoi passi pesanti mentre si allontana lungo il corridoio, e gli salta il cuore in gola. Realizza in un lampo che forse ha avuto una chance di uscire, ma non è andata per il verso giusto. A Zlatan sfugge qualche imprecazione fra i denti. La voce di Mario trema, quando prova a parlare due secondi dopo.
- Lasciami in pace! – lo implora, sull’orlo delle lacrime, - Non lo faccio più, lo giuro! – ma non sa nemmeno cosa diamine stia succedendo, perché dovrebbe avere paura, perché Zlatan dovrebbe volerlo prendere a pugni. Anche se forse non è del tutto vero, la voce di Mourinho gli risuona nelle orecchie inferocita ancora adesso. Devi far segnare lui, porca puttana, Mario.
Si morde un labbro, con forza. Non vuole sentirsi in colpa per una cosa simile. Forse è solo un ragazzino, forse non ha segnato tanto quanto ha segnato Zlatan, quest’anno, e forse non è nemmeno stato altrettanto importante per la squadra, ma erano lui, la palla e la porta, e Mario non è mai stato capace di dire no né all’una, né all’altra. Non è un calciatore egoista, sa quando è meglio darla via. Ma non quando sono soli. Non quando sa di potersele prendere.
Zlatan, di fuori, sembra essersi calmato. Non picchia più contro la porta, almeno, ed il suo respiro s’è fatto quieto, tanto che Mario non riesce più a sentirlo. Ma sa che è ancora lì, può percepire la sua presenza, e gli dà i brividi.
- Mario. – dice piano. La sua voce non è mai stata soffice, e non lo è neanche adesso, anche se lui sta cercando di fare di tutto per addolcirla, smussarne gli angoli perché non gli perfori le orecchie, aumentando di nuovo il ritmo con cui il sangue gli corre nelle vene. È dura ignorare la voglia che gli scuote lo stomaco e che vorrebbe indurlo a sprofondare di nuovo nel panico. Mario cerca di respirare con calma. – Apri la porta, dai. Voglio solo parlare. E non puoi certo rimanere chiuso lì dentro per sempre.
- Posso eccome. – si sforza di rispondere, annuendo a se stesso, come a volersi dare coraggio. Zlatan, da fuori, ride piano.
- Mario, andiamo. Mi sono calmato, lo senti, no? – insiste, - Prometto che non ti picchierò.
Già il fatto che debba prometterglielo, si dice Mario, grattandosi nervosamente una tempia, è terrificante. Zlatan non è mai stato davvero manesco, con lui. Rude, quello sì, duro, molto spesso, ma non gli ha mai sollevato addosso un dito, niente più di una semplice minaccia fisica dovuta più alla sua stazza ed al suo atteggiamento che ad un vero e proprio tentativo di spaventarlo volutamente, eppure questo è sempre bastato per ghiacciargli il sangue nelle vene quelle volte – non poche, ma neanche tantissime – in cui l’ha visto infuriarsi con lui. Un suo sguardo il più delle volte è già stato sufficiente a riempirlo di brividi, le sue parole severe in più occasioni l’hanno ridotto in lacrime, ma non era pronto a quel terrore sordo e cieco e muto che l’ha preso quando Zlatan ha mostrato seriamente, per la prima volta, l’intenzione di fargli del male fisico.
- Chiamo il mister, se… - accenna intimidito, alzandosi ed allungando un braccio verso la chiave, - se mi fai male. Lo giuro.
Zlatan ride ancora e non risponde. Mario gira la chiave nella toppa una volta, fa per tornare a sedersi e poi ricorda di doverla girare ancora. Lo fa e poi si schiaccia indietro contro la parete come avesse paura di vedersi spalancare la porta in faccia, e quando questo non avviene non sa se sentirsi rassicurato o ancora più spaventato. Si lascia scivolare contro le piastrelle ghiacciate, ricadendo seduto sul water, le mani ancorate con forza ai bordi nell’insana paura di poter essere travolto da un uragano da un momento all’altro.
La porta, invece, si apre con calma. L’espressione di Zlatan è fredda, nervosa, ma non congestionata. Sembra davvero più tranquillo – niente di neanche lontanamente rassomigliante al mostro in cui si era trasfigurato prima, rincorrendolo per tutti i corridoi dello stadio – e Mario non può fare a meno di guardarlo con una certa curiosità quando, dopo essere entrato, gli dà le spalle, per tornare a chiudere la porta a chiave.
Deglutisce a fatica quando Zlatan torna ad osservarlo dall’alto, gelido e distante, le braccia incrociate sul petto e l’espressione più offesa che realmente severa. Ha quasi voglia di sorridere – sembra che Zlatan l’abbia presa sul personale, ma d’altronde lo fa sempre, come fosse convinto che al mondo non possa proprio esistere altro in grado di competere con la sua importanza.
- Sei un cretino infantile ed egocentrico. – dice Zlatan, e Mario scoppia come un bambino che si sente accusato di qualcosa che non ha commesso.
- Ma perché?! – strilla, le dita che si chiudono con forza perfino maggiore attorno al coperchio del water, - Cosa cazzo ho fatto di male?! Non è che tutto il mondo deve girare attorno a te, cazzo, non è giusto! Io ero lì, potevo fare gol, perché avrei dovuto— perché?!
- Perché sei un ragazzino! – tuona Zlatan, battendo il pugno con violenza contro la porta, - Perché sei un ragazzino e il tuo allenatore ti ha dato un ordine preciso! Perché tu non sei niente e nessuno, Mario, ed a volte, anche quando una cosa può sembrarti la migliore in assoluto, non lo è! Ti era stato detto di agire in un determinato modo e questo perché evidentemente non era importante segnare e basta, era importante che segnassi io!
Mario si morde l’interno della guancia, aggrottando le sopracciglia, nervoso.
- Be’, ma allora questo discorso vale anche per te, no? Anche tu devi obbedire agli ordini. Io e tu— non siamo diversi. Tu devi obbedire esattamente come me.
Sul viso di Zlatan si disegna un’espressione dapprima semplicemente un po’ stupita, che poi si apre in un sorriso quasi incredulo ed infine scoppia in una risata tonante, colma di derisione.
- Non ci posso credere. – borbotta scuotendo il capo come un fratello maggiore davanti al fratellino quasi impossibilmente stupido, - Mario, no. – dice quindi, senza riuscire a trattenersi dal ridere ancora.
- Ma no cosa?! – sbotta Mario, mollando finalmente il coperchio del water e quasi digrignando i denti per la rabbia.
- No, noi non siamo uguali. – risponde subito Zlatan, con un sorriso adesso perfino sereno. – Tu vuoi essere creativo, vuoi essere al centro dell’attenzione, vuoi essere come me. Ma non lo sei, Mario, e non solo perché sei un ragazzino, non hai esperienza e sei troppo piccolo per arrivare al mio livello.
Mario abbassa lo sguardo, sentendo gli occhi pungere fastidiosamente. Non piangerà, non piangerà, non piangerà.
- E per che altro motivo? – chiede alla fine fra i denti, mordendosi il labbro inferiore con tanta forza da potersi illudere di voler piangere per il dolore che sente e non, ancora una volta, per le parole di Zlatan.
Zlatan, prima di rispondere, si prende tutto il tempo che gli serve per sorridergli e tirargli un mezzo cazzotto contro una spalla. Poi si abbassa fino a poterlo guardare direttamente negli occhi, e poggia la propria fronte contro la sua, scrutandolo da una distanza così infinitesimale e per tanto a lungo che Mario ha tutto il tempo di sentire il suo respiro caldo infrangersi contro le proprie stesse labbra, e rabbrividire senza un perché.
- Perché tu non sei me, Mario. – dice Zlatan, e gli angoli della sua bocca si piegano in un sorriso divertito e solo in parte macchiato d’ironia, - E non potrai mai esserlo.
*

È per questo che, un anno dopo, quando Mario e Zlatan s’incontrano – Mario è arrivato a Miami solo ieri, Zlatan c’è già da almeno una settimana e probabilmente continuerà a rimanerci anche una volta che Mario sarà andato via – e Zlatan chiede a Mario se siano vere le voci che circolano, se davvero andrà via dall’Inter durante l’estate, Mario ridacchia fra sé, e poi scuote il capo.
- Non è vero. – risponde serenamente, - Non m’interessa andarmene.
Zlatan sorride appena, quasi nervosamente, e si gratta una spalla in un gesto quasi infastidito.
- Come mai? – chiede, - Potrebbe essere un’esperienza interessante.
Mario ride ancora, si stende sulla propria sdraio, aspira una boccata dalla sigaretta che tiene mollemente fra le dita.
- Sì, ma io non sono te, Zlatan. – risponde con un sorriso furbo, guardando altrove, - E non lo sarò mai.