rp: sinisa mihajlovic

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Davide, Davide/Zlatan, Zlatan/José più varie assortite.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU.
- La Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, si occupa di identificare, mettere in sicurezza, conservare e procedere alla classificazione e allo studio approfondito di tutti quei fenomeni e soggetti paranormali/sovrannaturali che comunemente interagiscono, più o meno evidentemente, con la realtà di tutti i giorni. Davide Santon è un Agente alle dipendenze di José Mourinho, direttore generale del distaccamento milanese della Fondazione, nonché suo padre adottivo. Sta ancora riprendendosi dall'addio forzato al suo partner precedente, Zlatan Ibrahimovic, trasferitosi recentemente al distaccamento parigino, quando suo padre gli affida un novizio, Mario Balotelli. E i due danno inavvertitamente inizio all'Apocalisse.
Note: Il mondo è un posto bello in cui io posso scrivere anche di queste cose non solo senza sentirmi in colpa, ma anche gloriandomene e divertendomi un casino XD Dunque, breve storia di questa storia: l'idea di base, il fulcro su cui tutto si sviluppa, l'idea di scrivere una storia sovrannaturale "a episodi", divisa in stagioni come una serie tv, nasce un paio d'anni fa, quando incappo per caso nella community LJ paranormal25, che decido di utilizzare come una traccia generica, seguendo i vari prompt proposti dalle varie tabelle. Ho subito capito che sarebbe stata una storia sul Soccerdom, perché la tipologia del racconto richiedeva tipo un fottio di personaggi, che solo il Soccerdom poteva darmi con l'adeguata abbondanza, ma per il resto un enorme velo nero è calato sulla storia e sui modi, finché Julie non ha inventato il Genetics Fest. Sono rimasta a brancolare nel buio chiedendomi cosa avrei potuto scrivere a riguardo, visto che avevo già deciso di prendere piume come prompt, quand'ecco che il progetto di questa storia è tornato a bussare alle porte della mia memoria, e giù a cascata tutto l'headcanon che in due anni non mi era mai passato per la testa XD
Dunque, in sostanza, per i primi quattro episodi dovresti essere abbastanza sicuri di poterli ricevere per tempo, uno a settimana, in coincidenza con le scadenze del Genetics Fest. Per i successivi, chissà! XD Mi conoscete, sapete che scrivo a cazzo di cane, ma prometto che cercherò di essere se non puntuale almeno dignitosa con le consegne e i postaggi ♥
Ciò detto, aspettatevi una storia potenzialmente infinita -- Supernatural ci fa una sega. E buon divertimento XD
L'ispirazione per la SCP Foundation viene da qui.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE UNSPEAKABLES
1x01 – Pilot

Avrebbe potuto voler diventare un avvocato, riflette fra sé, le gambe accavallate, le braccia incrociate sul petto, un piede che sbatte nervosamente contro il pavimento in resina lucida e bianca, il culo poggiato controvoglia sulla seggiolina in plastica grigia più scomoda mai concepita da mente umana. Avrebbe potuto diventare un avvocato, o chissà, un medico. Avrebbe potuto voler essere un poliziotto, o un professore. O un pilota automobilistico. Perfino un calciatore.
Ma no. Lui voleva seguire le orme paterne. Paterne, poi. Un blocco di cemento attaccato a una caviglia e in caduta libera giù da un ponte verso il mare sarebbe stato più paterno di quanto José Mourinho era stato nei confronti di Davide per tutta la sua intera esistenza, da che era stato adottato in poi, cosa che, davvero, aveva del crudelmente ironico. Se la natura non ti ha dato dei figli, perché disturbarti ad andartene a cercare uno fino in Italia per poi non stare mai con lui? Sempre lontano, suo padre, sempre immerso nel suo lavoro, sempre chiuso in ufficio, sempre impegnato ad incontrare gente che inevitabilmente finiva per non essere Davide. Un padre assente, per voler usare un eufemismo ancora gentile. Un trascurante figlio di puttana, a volere invece descrivere in termini più propri la realtà dei fatti.
Forse è per questo motivo che, posto di fronte alla scelta della vita, non appena concluso il liceo, Davide ha scelto la pillola rossa. Ha scelto di aprire gli occhi e guardare, uscire dalla realtà per cui “papà è il direttore generale di un’importante organizzazione che lo tiene molto, molto occupato, tesoro” per tuffarsi di testa nella verità che ha continuato a sfuggirgli per tutti gli anni della sua infanzia.
Una verità che ora vive quotidianamente, che gli piace più di quanto non ammetterà mai, e che a fasi alterne gli regala quanto di meglio la vita abbia da offrirgli, e subito dopo quanto di peggio.
I suoi pensieri si soffermano distrattamente sul profilo di Zlatan che si staglia contro il tramonto, in spiaggia, la tenda da campeggio appoggiata sulla sabbia qualche metro più in là, il carbone che scoppietta ed arde allegro nel braciere fra di loro mentre nell’aria si diffonde l’aroma invitante delle puntine di maiale annaffiate nel salmoriglio. “Andrà tutto bene, Dade,” la sua voce sempre così ruvida, dai semitoni così improvvisamente soffici, “Non hai davvero bisogno di me.” Il sapore di sale, chissà se dovuto alle lacrime o all’acqua di mare.
Scaccia via il pensiero con forza, chiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia. È arrabbiato, con se stesso, principalmente, per essere nonostante tutti gli anni di servizio che ha ormai alle spalle ancora così ridicolmente debole. Ricorda ancora le parole di suo padre il giorno in cui, completato l’addestramento, gli ha consegnato il suo nuovo tesserino di Agente, e la sua arma. “Ti affido a Zlatan,” ha detto, e poi ha sorriso, “Anche se so che sto facendo un errore.” Davide si rivede, infinitamente più piccolo, la faccia ancora brufolosa tipica degli adolescenti ed una massa confusa di capelli castani sulla testa, l’uniforme ancora da riempire che gli cadeva addosso sformata come un sacco di patate, chiedere perché. E rivede di nuovo quel sorriso a piegare le labbra di suo padre, e quel suo “Non crescerai mai, attaccato al culo di Zlatan, ti proteggerà sempre. Ma sei mio figlio, e non posso mandarti lì fuori con nessun altro.” La prima volta che s’è sentito vagamente amato da lui.
Si decide a deviare nettamente dal viale dei ricordi quando sente le lacrime cominciare a pungere sotto le ciglia, ed in quel momento la porta metallica accanto alla quale era seduto in attesa si apre con un clic discreto, mostrando la mano abbronzata e dalle dita lunghe di Pep, che si affaccia dallo spiraglio e gli posa addosso un’occhiata che non presagisce nulla di buono.
- Tuo padre può riceverti, adesso. – dice con un breve cenno del capo, aprendo la porta per lui.
Davide si solleva con un sospiro ed entra nell’anticamera di medie dimensioni che funge da ufficio di Pep Guardiola, fedele segretario tuttofare e primo consigliere di suo padre da ormai più di dieci anni.
In quell’edificio, ed anche al di fuori dei suoi confini, tutti sanno che è il figlio adottivo di José Mourinho. Lui s’è premurato di spargere la voce non appena ha saputo della decisione di Davide di entrare nella Fondazione. Un misto di orgoglio paterno e desiderio di buttare giù qualche paletto per tenergli lontano qualche Agente anziano in vena di scherzi di cattivo gusto. Quelli della Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, sono quanto di più simile ai ranghi di un esercito sia possibile trovare all’infuori di un esercito, e che qualcuno potesse voler mettere le mani sul nuovo arrivato senza conoscerne l’origine era un’eventualità che andava necessariamente presa in considerazione.
- Qualsiasi cosa accada lì dentro, - gli dice Pep, accompagnandolo di fronte alla porta chiusa dell’ufficio di suo padre e poi aprendola per lui, - Sappi che ho provato in ogni modo a fargli cambiare idea, ma non ha voluto ascoltarmi.
Davide gli lancia un’occhiata dubbiosa, ma è troppo tardi per indagare oltre. La porta è aperta e suo padre è seduto dietro la sua scrivania, tutto intento ad apporre il proprio timbro e la propria firma su una pila di documenti la cui altezza sfiora i venti centimetri. Un foglio via l’altro, ogni tanto scambia qualche parola con un tizio alto, scuro di pelle e coi capelli rasati secondo un pattern assolutamente ridicolo, seduto scompostamente su una delle due sedie metalliche di fronte al tavolo.
Davide decide di ignorarlo ed entra, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
- Papà. – lo saluta quindi, alzando un po’ la voce per costringerlo a guardarlo.
- Ah!, Davide. – annuisce José, invitandolo ad avvicinarsi con un breve cenno della mano, - Vieni, vieni. Sei perfettamente in orario, come al solito.
- Non avevamo un appuntamento. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia.
- Questo è del tutto irrilevante. – sorride José, - Vieni, dai, siediti. Di cosa volevi parlarmi? – Davide lancia un’occhiata al tizio, che gliela ricambia con aria un po’ stupita, e sta per dire che vorrebbe parlargli in privato quando la fragorosa risata di José lo interrompe. – Non preoccuparti, puoi parlare di fronte a lui. Dimmi.
Davide prende posto sull’unica altra sedia libera di fronte alla scrivania, serra le mani sulle ginocchia e prende un respiro profondo.
- Non voglio essere assegnato a nessun altro partner. – dice quindi, - Voglio lavorare da solo.
José inarca le sopracciglia, sollevando gli occhi su di lui ed interrompendo la propria interminabile trafila di apposizione di timbri e firme.
- Impossibile. – dice quindi, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Non è vero. – insiste Davide, - Non sarei il primo.
- I casi si contano sulle dita di una mano. – gli fa presente José, riprendendo a siglare documenti.
- Vuol dire che si conteranno sulle dita di due, da oggi in poi. – ribatte Davide, appoggiando una mano sulla scrivania. – Non intendo essere assegnato a nessun altro. Non voglio qualche stronzetto nuovo arrivato attaccato al culo, e non voglio nemmeno fingere di dover portare rispetto a qualche stronzo più navigato che si sente più bravo o più intelligente di me solo perché ha all’attivo qualche anno di servizio in più. Non voglio, lo rifiuto. Posso lavorare da solo, sono pronto.
José lo guarda senza cambiare espressione, appoggia la penna sul tavolo e scambia una rapida occhiata col tizio seduto accanto a Davide. Poi sospira, congiunge le mani a qualche centimetro dal viso ed appoggia i gomiti sul tavolo, tornando a guardare Davide con aria seria.
- Ti sei mai chiesto il motivo per cui gli agenti sono obbligati a lavorare in coppia? – domanda. Davide si irrigidisce sulla sedia, ma scuote il capo con fare orgoglioso, come fosse fiero del fatto che, in realtà, della risposta non gli interessa niente. – Ovviamente. – sorride José, e poi prosegue. – È necessaria una grande quantità di forza spirituale e psicologica, oltre che fisica, per portare a termine gli incarichi che la Fondazione affida ai suoi Agenti. Non tutti gli individui sono in grado di fornire quello che serve da soli. Anzi, si tratta di casi estremamente rari ed estremamente preziosi. – si interrompe per qualche secondo, il suo sguardo è duro, severo, proprio come quello di un padre intento a rimproverare il figlio, a dargli una lezione che non sarà in grado di dimenticare facilmente. – Tu non sei uno di quei casi, Davide.
A giudicare dal bruciore che sente sottopelle, suo padre ha fatto centro.
Davide abbassa gli occhi, ritraendosi come una lumaca nel suo guscio, velocemente. Si ripiega su se stesso, sconfitto, e non dice una parola.
- Mi dispiace, Dade. – aggiunge José, il tono di voce improvvisamente tenero. Tutto quello a cui Davide riesce a pensare al momento è quanto lo irrita non essere solo con lui in questa stanza. Sente lo sguardo dell’altro ragazzo addosso ed è imbarazzante, è degradante, è mortificante. – Sapevo che avevi intenzione di chiedermi una cosa come questa. L’avevo intuito. Ecco perché ho ritenuto opportuno essere molto chiaro, con te, di modo che ti convincessi a lasciar perdere. Ed ecco anche perché ho scelto di farlo di fronte a Mario. – dice, e Davide gli solleva immediatamente lo sguardo addosso. Sentire chiamato l’altro ragazzo per nome suona come una nota stonata, per quale motivo dovrebbe volerlo includere nella conversazione al punto da riferirsi direttamente a lui col suo nome di battesimo?
Davide si volta a guardarlo, e il tipo lo sta ancora fissando di rimando, le iridi nere piantate sul bianco abbagliante dell’occhio e, sullo sfondo, l’uniformità scurissima della sua pelle.
Sta per domandare chi sia, ma José lo precede.
- Lui è Mario, appunto, - spiega con un sorriso, - E da oggi è il tuo nuovo partner.
Sull’ufficio cala un silenzio nervoso e imbarazzato. Mario non spiccica una parola e Davide, gli occhi fissi sulle proprie mani, serrate strette attorno alle ginocchia, non si azzarda nemmeno a sollevare lo sguardo.
Lo odia, lo odia come non l’ha mai odiato prima di quel momento, e di motivi, e ragioni, e occasioni, ne ha avute parecchie, nella sua vita. Ma questo momento, ora come mai prima d’ora, riassume tutta la loro relazione. Non è mai stato un figlio, per lui, quanto più un prodotto. Qualcosa da crescere, instradare, indirizzare. Qualcosa da concimare ed osservare alzarsi robusta verso il cielo. Avrebbe potuto diventare un giardiniere, con una vocazione simile, ed invece è diventato il direttore generale di un’organizzazione segreta per la protezione della stabilità del mondo conosciuto. Due occupazioni solo in apparenza totalmente dissimili, che si riducono in realtà allo stesso nocciolo, perché niente di quello che José gli ha mai detto è mai stato qualcosa in più che banale fertilizzante. Lezioni da imparare per rendere più dura la sua corteccia.
- D’accordo, ho capito. – si alza in piedi senza degnare suo padre di un altro sguardo. Per quello che gl’importa, un SCP potrebbe emergere dalle pareti e staccargli la testa a morsi in questo esatto istante, e lui non muoverebbe un muscolo per salvarlo. Si volta verso il ragazzo e gli fa un cenno col capo. – Muoviti.
Il ragazzo inarca un sopracciglio e non muove un muscolo. José piega le labbra in un sorriso amaro.
- Bene. – dice, - È così che vuoi farlo, dunque. BÈ, è una tua prerogativa. L’Agente anziano sei tu, adesso, lui è una tua responsabilità.
- Che non ho chiesto. – dice Davide, tagliente, - Che non mi sono scelto.
Il sorriso di José si allarga impercettibilmente.
- Come tutte le responsabilità. – risponde serafico. Poi sembra come ricordarsi all’improvviso di qualcosa. – Prima che andiate, - dice, rovistando nella sua bella pila di carte, - Il tesserino di Mario, - dice, porgendogli il suo tesserino plastificato, - La sua arma, - continua, aprendo il primo cassetto della scrivania e recuperando l’arma ancora sigillata, - E, già che siete qui, il vostro primo caso.
Davide osserva i suoi movimenti con aria incolore, fin quando non scorge come in un flash il giallo della cartellina portadocumenti passare dalle mani abbronzate di José a quelle scure di Mario.
- Un attimo. – dice, aggrottando le sopracciglia e intercettandola a mezz’aria, sottraendola alla stretta delle dita di Mario prima che possa rafforzarsi attorno al cartoncino, - Me l’hai appena affibbiato e devo già portarlo fuori?
- Anche tu sei uscito quasi subito, dopo essere stato affidato al tuo partner anziano. – risponde José, facendo spallucce.
- Due giorni dopo l’assegnazione. – precisa Davide, irritato, - Non ho avuto il tempo di testarlo. Non ho ancora neanche sentito la sua voce!
- Guarda che sono stato addestrato anch’io. – dice finalmente Mario. La sua voce è profonda e gutturale, e venata da un marcatissimo accento del bresciano. Davide la trova istintivamente antipatica. Quella cadenza strascicata, quella punta di orgoglio infantile, gli danno subito sui nervi.
Si volta verso di lui, sferzandolo con un’occhiata severa.
- Non ti ho chiesto di parlare. – dice.
Mario non la prende bene. I suoi occhi si velano di un’ombra scura, una punta di rabbia che frena evidentemente solo a fatica. Ma non compie nessun movimento brusco. Conserva il tesserino nel portafogli, lega la cintura con la fondina attorno ai fianchi e poi resta in piedi, le braccia ritte lungo i fianchi.
- Lo testerai sul campo. – chiude la questione José, alzandosi dalla propria sedia girevole ed indicando la porta in un gesto di congedo, - Quale migliore occasione.
*
Nessuno dei due dice una parola mentre attraversano i lunghi e bianchi corridoi degli uffici milanesi della SCP Foundation. Non si sente nessun suono, attorno, eccezion fatta per il ticchettio degli stivaletti di pelle di Davide, e lo scricchiolare insistente delle suole di gomma delle scarpe da tennis di Mario.
Davide cammina guardando dritto davanti a sé, stringendo la cartellina fra le dita. Fa strada attraverso l’ingresso e fuori dall’edificio, verso l’ascensore che conduce al parcheggio sotterraneo. E poi attraverso i grigi corridoi di cemento del parcheggio stesso, illuminati a stento dalle luci al neon, biancastre e tremule, fino al SUV nero e lucido dal disegno squadrato che è stato l’ultimo lascito di Zlatan prima di partire. “Dove vado, non mi servirà,” la sua risata sguaiata mentre gli lanciava le chiavi in aeroporto, “Ho una Citroën GT ad attendermi non appena metto piede a Parigi!”.
Davide respira forte, profondamente, poi fa scattare le sicure. L’automobile lo saluta lampeggiando e uggiolando di gioia un paio di volte. Davide apre lo sportello e si siede alla guida senza neanche invitare Mario ad accomodarsi. Fortunatamente, almeno per quello il ragazzo sembra non aver bisogno di alcuna direttiva, perché lo fa di propria spontanea iniziativa e, una volta sedutosi alla destra di Davide, resta composto ed immobile a fissare la parete grigia oltre il parabrezza. Davide lo imita per qualche secondo, cercando di concentrarsi, cercando di ricordare che è un uomo, ormai, che non deve lasciarsi manipolare così da suo padre, che deve essere professionale e che ha un compito da svolgere.
Solleva la cartellina e la appoggia al volante, aprendola ed esaminandone il contenuto.
- SCP di classe E, livello di pericolo due. – legge a bassa voce, scorrendo il documento di presentazione. Gli si piegano le labbra in un sorriso divertito, - Una succube! Mai vista una dal vivo? – chiede, voltandosi a guardare il ragazzo.
Lui è ancora piccato per la sua risposta sgarbata di prima, e si limita a scuotere il capo, silenzioso. Davide sospira e mette via la cartella.
- Non fare così. – gli dice, - Dobbiamo lavorare insieme.
- Sì, hai già espresso più che chiaramente il fatto che preferiresti leccare un cesso pubblico piuttosto che lavorare con me, ma sembra che non ci sia alternativa, per cui. – ribatte quello, guardando altrove.
Davide lancia un’occhiata esasperata al tettuccio e poi si passa una mano fra i capelli.
- Senti, non è una questione personale. – dice.
- Lo è diventata. – risponde Mario.
- No, non lo è diventata. – insiste lui, - Non lo diventa, se non vogliamo. Non è con te che ce l’ho.
Mario si degna di voltarsi a guardarlo. Con le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un broncio infantile, sembra più piccolo di quanto non gli sia sembrato ad una prima occhiata. L’imponenza del suo corpo e la freddezza del suo sguardo traggono in inganno, ma Davide si rende conto adesso che devono avere più o meno la stessa età.
- Ce l’hai con tuo padre? – domanda.
Davide sospira, scrollando le spalle ed appoggiandosi allo schienale del sedile.
- Anche, sì. È tutto un insieme di cose, - agita una mano a mezz’aria, - Non preoccupartene. Quello che è importante, adesso, è portare a termine questa missione e chiudere questa giornata nel modo meno disastroso possibile. Per il resto, avremo tempo. – conclude. – Pensi di potercela fare?
Mario scrolla le spalle.
- E proviamoci. – dice, - Abbiamo una foto?
- Un’illustrazione. – risponde Davide, sospirando teatralmente, - Vedi, questi sono i momenti in cui verrebbe voglia di andare negli uffici del reparto Classificazione e Identificazione, e dare fuoco a tutto. – borbotta, sollevando la fotocopia di un’illustrazione in bianco e nero visibilmente antica. Mostra un demone dalle zampe caprine e dal seno prosperoso. Ha lunghi capelli scuri e ricci, intricati come un labirinto, che svolazzano nel vento, una larga bocca piena di denti aguzzi dalla quale fa capolino una lunga lingua biforcuta ed occhi come due tagli orizzontali, privi di pupilla. Da dietro la schiena spuntano due enormi ali dalle piume nere. Ha le unghie adunche come artigli e zoccoli ai piedi.
Mario inarca un sopracciglio.
- Non andrà mica in giro così? – dice.
- Naturalmente no. – sbotta Davide. – Coi tempi che corrono, è più probabile che si sia trasformata in qualche Barbie bionda superdotata, o in una velina. Ma naturalmente non abbiamo foto della sua forma corrente. Sembra che avremo a che fare con del sangue blu, comunque.
- Prego? – domanda Mario, cercando di sbirciare i documenti. Davide ride e gli solleva davanti al viso un’altra fotocopia.
- La tipa in questione dovrebbe essere Mahalath, una delle quattro regine dei demoni.
- Yuhuu, - sbuffa Mario, senza neanche premurarsi di fingere entusiasmo, - La famiglia reale.
- Già. – ride ancora Davide, tornando a sfogliare il contenuto della cartella.
- Niente di utile, là dentro? – domanda curioso Mario.
- Mmh. – Davide scorre il testo con attenzione, - Citazioni dal Malleus, descrizioni di vittime sfuggite al rapporto per tutto il secolo scorso… roba standard. Niente di che.
- In pratica, dobbiamo arrangiarci per conto nostro. – conclude Mario, e poi annuisce. – Okay, - dice quindi, - Si va?
Davide inarca un sopracciglio, le labbra che si piegano in un sorriso furbo.
- Prima passiamo dagli alloggi. – dice. E, di fronte all’espressione poco convinta di Mario, spiega, - Non vorrai mica andare in discoteca conciato così?
*
Mario non ha niente di adatto per l’occasione, solo qualche paio di jeans sdruciti e qualche maglietta sbiadita. Le sue cose sono già state sistemate fra l’armadio e la cassettiera addossata in fondo alla stanza. Qualche cosa è stata poggiata sul letto, perfettamente rifatto come il suo gemello a qualche metro da lui.
Le due metà della stanza non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra, piena di poster e fotografie e libri che strabordano dagli scaffali della piccola libreria angolare quella di Davide, completamente spoglia ed anonima quella di Mario – nonostante le tracce di scotch sulle pareti dimostrino la presenza di qualcuno in quel luogo nel recente passato, qualcuno che ormai è andato via. Davide ha chiesto almeno cinquecento volte che le pareti venissero ridipinte, ma è stato ignorato ripetutamente, e niente riesce a togliergli dalla testa che si tratti in realtà di una delle piccole torture quotidiane che suo padre si diverte ad infliggergli nel tentativo di renderlo forte e duro e corazzato abbastanza da potergli cedere le chiavi dell’ufficio in un non troppo distante futuro.
Dopo un breve esame dei vestiti di Mario, Davide decide di prestargli qualcosa di proprio. Gli lancia addosso un paio di jeans aderenti blu scuro, una maglietta bianca così stretta da avvolgerlo come una seconda pelle ed un gilet nero, lucido e dal taglio moderno, che gli dice di indossare aperto sopra la maglietta. I jeans gli stanno corti ed il suo torace possente esplode nella maglietta, ma dovrà farsi bastare questo finché non riceverà il suo primo stipendio.
Davide prova a dargli un paio delle proprie scarpe, ma non portano la stessa misura, e Mario ritorna alle proprie sneaker consumate con un flebile sorriso di autentica gioia sul volto. Poi si alza in piedi e si sente scricchiolare tutto.
- Che palle. – borbotta, tirandosi giù la maglietta lungo i fianchi, - Perché stiamo facendo questa cosa?
- Perché i succubi frequentano esclusivamente locali notturni, preferibilmente discoteche. Dove si rimorchia meglio. – risponde Davide, sistemandogli il gilet sulle spalle e sollevandogli un’occhiata di rimprovero addosso, - Non hai studiato?
- Girano pochi libri in casa mia. – risponde Mario, guardando altrove, - I miei non credono nella parola scritta.
- Bella questa. – sbotta Davide, inarcando entrambe le sopracciglia e guardandolo adesso con curiosità, - Sai leggere, almeno?
- Sì, ovviamente. – grugnisce lui, offeso, - È solo che i miei preferiscono l’apprendimento sul campo a quello in classe.
Davide lo scruta con occhi attenti per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi scrolla le spalle.
- Che roba da pezzenti. – conclude, voltandosi e dirigendosi verso il proprio armadio per cambiarsi, - È come pretendere di diventare uno chef senza aver mai studiato come si cucina una frittata.
Irritato, Mario aggrotta le sopracciglia e serra i pugni lungo i fianchi.
- I miei genitori non sono dei pezzenti. – ringhia.
Davide si volta appena a lanciargli un’occhiata sufficiente da sopra una spalla.
- Non importa. – dice quindi, tornando ad esaminare i propri abiti, - Ragionano come se lo fossero.
- Ritira immediatamente quello che hai detto! – abbaia Mario. Davide si sente afferrare per un braccio e fa mezzo giro su se stesso. Mario lo schiaccia contro la porta chiusa dell’armadio e ringhia a due centimetri dal suo volto. – Non costringermi a ripetermi.
Davide lo affronta a muso duro, le sopracciglia aggrottate, le labbra serrate in una linea carica di disappunto. Gli pianta entrambe le mani contro il petto e lo spinge lontano da sé. Mario, sorpreso dalla sua forza inaspettata, finisce a sbattere contro la parete di fronte e gli solleva addosso un’occhiata smarrita. Davide si sposta il ciuffo da davanti agli occhi e mette le mani sui fianchi.
- Un’altra insubordinazione di questo tipo e faccio rapporto. Tre rapporti negativi sono un’ammonizione ufficiale. Tre ammonizioni sono una sospensione. Tre sospensioni portano all’espulsione. – elenca atono, - Questo giusto per avvisarti. Sono un Agente anziano, il tuo partner anziano, e devi portarmi rispetto.
- Be’, anche tu dovresti portarmene. – ribatte Mario, rimettendosi dritto e fronteggiandolo senza timore, - Sono un essere umano. O in questo posto del cazzo contano solo i gradi?
Davide non risponde subito. Lo guarda per qualche secondo, vagliando le sue parole, e poi cede.
- Ti chiedo scusa se ho mancato di rispetto ai tuoi genitori. Non li conosco e non ho il diritto di giudicarli. – dice, - Ciò non toglie, però, che ritengo il loro approccio alla materia assolutamente insufficiente. E penso che seguire i loro insegnamenti abbia fatto di te un Agente incompleto. Non so come tu abbia fatto a passare il test selettivo, ma—
- Non ho fatto nessun test per entrare. – risponde Mario, senza neanche lasciarlo finire di parlare.
Lo sguardo di Davide si incupisce, restando sempre fisso su di lui. Si illumina appena di un’intuizione indistinta quando Davide somma i fattori ed ottiene l’unico risultato possibile.
- Di chi sei figlio? – domanda.
Mario solleva il mento e gonfia il petto, prima di parlare. È una reazione ridicola ed esagerata, ma a suo modo tenera.
- Francesco e Silvia Balotelli. – risponde quindi. La voce gli trema d’orgoglio.
Davide è stupito dalla risposta. Non sapeva che i Balotelli avessero un altro bambino, oltre ai tre già da tempo entrati nella Fondazione, men che meno avrebbe mai potuto immaginare che l’avessero adottato. Quindi sì, è stupito dalla risposta, ma non esattamente sconvolto. José non avrebbe potuto accettare senza test d’ingresso nessuno che non fosse un prodotto certificato della famiglia Balotelli. Silvia e Francesco erano stati due Agenti di fama mondiale, negli anni ’80. Se ne studiava ancora le tecniche e le imprese, all’Accademia, durante l’addestramento.
A Davide non è mai piaciuto il loro stile. Sono noti per la loro intraprendenza ed il loro coraggio, ma anche per l’assoluta mancanza di programmazione e pianificazione dei loro assalti, che risultava spesso nella morte violenta dell’SCP che si sarebbe invece voluto acquisire. Lui preferisce altri tipi di tattiche.
- Capisco. – dice quindi, voltandogli nuovamente le spalle e tornando a passare in rassegna i propri vestiti. Sceglie per sé un paio di jeans neri ed una maglietta dello stesso colore, dalla profonda scollatura a v. – Insomma, un raccomandato. – conclude.
La rabbia di Mario è di nuovo chiarissima nella sua voce, quando parla.
- Sei un figlio di papà anche tu. – ringhia, i pugni che tremano lungo i fianchi.
Davide gli lancia una mezza occhiata ed un mezzo sorriso ironico. Poi si sfila la maglietta.
- Io i miei test ho dovuto sostenerli tutti. – ribatte, - Fra i banchi e sul campo.
Ignora la velocità con la quale Mario distoglie lo sguardo di fronte alla sua pelle nuda.
*
Sono di fronte all’Hollywood per le undici in punto, tardi abbastanza per trovare già un po’ di movimento ma presto abbastanza per avere di fronte almeno quattro ore buone di pattuglia. Entrano mostrando al buttafuori il tesserino e, una volta dentro, Davide si dirige dritto verso il bar, senza neanche guardarsi attorno. Almeno fino a quando non capisce di essersi perso Mario da qualche parte lungo la via.
Si volta per cercarlo in mezzo alla folla e lo trova immobile e rigido come un pezzo di legno a pochi passi dall’entrata, che si guarda intorno con aria smarrita. Sospirando e lanciando uno sguardo colmo di rassegnazione e pazienza in esaurimento al soffitto, gli torna accanto e lo strattona bruscamente, riportandolo alla realtà.
- Trovati. – borbotta, - Comportati con naturalezza.
- Con naturalezza? – esala Mario, fissandolo sconcertato, - Non riesco ad immaginare un comportamento più naturale di questo! Ma ce l’hai presente Concesio? Il buco del culo della Val Trompia! Quindicimila anime all’anagrafe! La cosa migliore che ne sia uscita dopo i miei genitori è stata un Papa! Ti pare che io possa mai aver visto cose di questo genere? – domanda, allargando le braccia in un gesto ecumenico che include tutta la discoteca, che si sviluppa di fronte a loro in un incessante rincorrersi di luci e suoni confusi, di corpi che si schiacciano fra loro al ritmo sempre uguale di tutti gli svariati successi dance dell’estate e dell’odore pesante ed avvolgente del sudore misto a quello più forte dei profumi da uomo e da donna ed a quello fruttato ed alcolico dei cocktail.
Per Davide, ambienti come questo sono la norma. È stato costretto a frequentarli più di quanto volesse per lavoro, e Zlatan ne andava matto nel tempo libero. Ma può comprendere come, per un tipo come Mario, siano invece una novità assoluta, da fissare con gli occhi sgranati e l’aria di un cieco miracolato del dono della vista che, come prima cosa dopo anni e anni di buio assoluto, posi gli occhi su un corpo di donna spogliato di ogni abito.
- Trovati lo stesso. – sbuffa Davide, afferrandolo per un polso e trascinandolo più in profondità all’interno del locale. – Concentrati sull’obiettivo, adesso. Qualunque bella ragazza è potenzialmente una succube.
- E come faccio a riconoscere quelle che lo sono da quelle che sono solo belle ragazze? – domanda lui, incerto.
Davide sbuffa, annoiato.
- Che ne so. – sbotta, - Lo percepisci, insomma. Non hai mai provato?
- Be’, abbiamo un piccolo Cerbero, a casa. – risponde lui, - So riconoscerlo rispetto a un cane normale.
- Sarà perché ha tre teste invece di una sola? – ribatte Davide con sufficienza, lanciandogli un’occhiata sarcastica.
- Intendevo ad occhi chiusi. – precisa Mario, offeso, - Dalla sua aura.
- È più complicato per i succubi. – sospira Davide, scuotendo il capo, - Sono demoni, la loro aura non è molto dissimile da quella degli esseri umani. Devi imparare a leggere le sfumature.
- Sì, certo. – sbuffa Mario, incrociando le braccia e raggiungendolo di fronte al bancone del bar, - Sono molto utili, le tue indicazioni, sai? Dimmi qualcosa di pratico, cosa stiamo cercando? Una donna eccezionalmente bella?
- Non saprei. – scrolla le spalle Davide, guardandosi intorno, - Sono tutte diverse.
- D’accordo, - insiste pazientemente Mario, - Ma nella tua esperienza, cos’hai visto? Ne avrai incontrate altre.
- Sì, - annuisce lui, - Un casino di volte.
- Bene. Ed erano belle?
Davide scrolla di nuovo le spalle, tornando a guardare altrove.
- Suppongo di sì. – dice, - Non faccio mai granché caso alla bellezza delle donne. Per me sono tutte abbastanza uguali.
- Ah. – dice Mario, lasciandosi cadere seduto su uno sgabello. – Ah. Okay.
Davide si volta a guardarlo, inarcando le sopracciglia.
- Problemi? – dice.
- No. – si affretta a rispondere Mario, - No, assolutamente.
Davide lo fissa ancora per qualche secondo, pensando che Mario dovrebbe rivedere il suo dizionario personale, visto che, chiaramente, alla definizione della parola “no” c’è quella della parola “sì”, ma taglia corto e torna a fissare la folla che sciama imperturbabile dentro e fuori dal locale quando si rende conto che una semplice occhiata non sarà in grado di scollare quello sguardo ebete dalla faccia di Mario.
- Okay. – dice quindi con una punta di presunzione, piantando lo sguardo su una ragazza dall’aspetto provocante, - Sta’ seduto qui e osserva il maestro all’opera.
Si allontana da lui senza degnarlo di un’occhiata, camminando a passo svelto a sicuro verso la ragazza. È vestita completamente di nero – pantaloni in pelle aderenti e dalla vita bassissima che mettono in evidenza le ossa appuntite del bacino e l’ombelico, top dello stesso materiale dei pantaloni incrociato sul petto, spalle nude, i capelli biondi lunghi e lisci che spiovono sulla schiena abbronzata in una cascata lucida che riflette tutto l’arcobaleno di colori che le luci stroboscopiche vomitano sulla folla. Ha un’aura appena più brillante delle altre ragazze, e sembra sola. Inusuale, per una ragazza di quell’età. A dir poco.
- Ehi. – la saluta con un mezzo sorriso, appoggiandosi al bancone vicino a dove è seduta lei, - Serata fiacca?
Lei gli solleva addosso un paio d’occhi enormi, da cerbiatta, di un colore indefinibile a causa della penombra multicolore della discoteca.
- Cosa te lo fa pensare? – domanda con un sorriso da Monna Lisa, le labbra piene dal disegno elegante appena appena arricciate agli angoli.
- Be’, - sorride Davide, avvicinandosi appena, - Una ragazza bella come te, in un posto come questo, a quest’ora, ancora tutta sola? O il mondo gira alla rovescia, o è una serata fiacca. Dimmi tu.
La ragazza ride, scuotendo il capo.
- Che fai, ci provi? – domanda.
Lui si concede una mezza risata, facendo cenno al barista di portargli la stessa cosa che sta bevendo lei, un cocktail che sa di albicocca dal colore talmente rosato e dall’odore talmente zuccherino da fargli venire la nausea senza averlo neanche assaggiato.
- Dipende. – dice, - Vuoi che ci provi?
Lei ride ancora, una risata cristallina e nitida, tentatrice. E quando ride la sua aura si illumina appena di sfumature rossastre.
- Spiacente. – dice quindi, e poi dà una risposta che Davide non si aspettava. – Non sono più sul mercato.
Deve guardarla in modo piuttosto esplicito, perché lei scoppia di nuovo a ridere, divertita, e sorseggia un po’ del proprio cocktail, chiudendo le belle labbra a cuoricino attorno alla cannuccia colorata.
- Non è possibile. – dice, e lei ride ancora.
- Dovrei offendermi? – chiede, - Mi avevi preso per una facile?
- Non esattamente. – risponde lui, passandosi le dita fra i capelli per scostarsi la frangia dalla fronte.
Lei ride un’altra volta.
- Oh. – dice quindi, - Allora i miei vecchi occhi avevano visto bene. – il suo sorriso si tinge di una sfumatura maliziosa, - Sei un Innominabile.
- Ah, per piacere. – sbuffa lui, - Ci chiamano ancora così, nei gironi infernali? È un vocabolo caduto in disuso da almeno un centennio.
- Be’, è più o meno da un centinaio d’anni che non rimetto piede all’Inferno. – risponde lei, - Quindi non saprei dire se adesso vi chiamino in altro modo. Per me siete rimasti Innominabili.
- Siamo Agenti, adesso. – sospira Davide, - E tu devi essere caduta.
- Da tempo, sì. – ride lei, allungando una mano verso di lui, - Chloé, piacere.
- Piacere mio. – risponde lui, stringendole la mano, e poi arrossisce appena, imbarazzato, - Non posso rivelare il mio nome.
- Ragioni di sicurezza? – chiede lei. La sua voce sembra ridere sempre, trilla come campanelli. – Non preoccuparti, capisco. – lui le sorride ancora e poi si abbatte sul ripiano del bar. Nel frattempo, il suo drink è arrivato, e lui ne assaggia un sorso e poi subito si ritrae con una smorfia. Come aveva previsto, troppo dolce. E lei si avvicina appena, e profuma di mandorle e zucchero filato. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando perdi l’anima, il profumo della pelle, la brillantezza dell’aura, la malizia negli occhi. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando te ne vai. – Giornata pesante? – chiede.
Davide sbuffa, chiudendo gli occhi.
- Annata pesante. – la corregge, - Ma è del tutto irrilevante, adesso.
- Immagino. – annuisce lei, e poi finge la voce grossa e misteriosa, - Sei in missione segreta?
- Già. – ride lui, voltandosi a guardarla, - Cerco un tuo superiore.
- Ah, sì, ho sentito. – Chloé piega il capo, i capelli le scivolano morbidi sulla spalla come una cascata dorata mentre lei accavalla le gambe, - Sua maestà, o almeno una delle, è scesa in campo.
- Corrono veloci le notizie all’Inferno. – commenta lui, inarcando un sopracciglio.
- Corrono più svelte in superficie. – precisa lei con un’altra risata cristallina. – Quindi sei alla sua ricerca, mh? Be’, mi spiace dirti che l’hai mancata di una manciata di secondi, letteralmente.
Davide spalanca gli occhi, piantandole addosso uno sguardo sconvolto.
- Prego? – domanda incerto.
Lei si stringe nelle spalle, gettando indietro i capelli in un gesto vezzoso.
- È appena andata via con un tipo, - dice, - Un bel ragazzo di colore, dall’aura potente. Il classico tipo che avrei preso di mira anch’io, se fossi stata ancora in servizio.
Davide ha appena il tempo di lanciarle un breve ringraziamento e una scusa impacciata, prima di saltare giù dallo sgabello e lanciarsi a rotta di collo verso l’uscita.
*
Li trova poche centinaia di metri più avanti, nascosti nell’ombra profonda di un vicolo. Segue l’odore dell’eccitazione di Mario nell’aria, prima, il suo profumo selvaggio appeso alle molecole di ossigeno. Poi comincia a sentire gli ansiti e i gemiti e a quel punto, più che seguire una traccia, imbocca una superstrada a duecento all’ora.
Mario sembra cosciente, ma è evidentemente fuori come un balcone. Ha gli occhi rossi e lucidi, le labbra dischiuse ed umide, gonfie di baci e di piccoli morsi, la maglietta strappata sul petto. La sua maglietta, pensa Davide con un certo risentimento.
Mahalath non è riuscita ad aspettare di trovarsi in un posto chiuso, in una camera d’albergo o chissà, magari proprio a casa sua. Gli Agenti hanno sangue forte da generazioni, hanno sangue potente, hanno resistenza e uno spiccato sesto senso, e non mancano in tutti loro una predisposizione verso il soprannaturale ed un’innata capacità di connettersi al paranormale molto più facilmente rispetto ai normali esseri umani. Per i demoni, rappresentano una tentazione più forte della mela per Eva. Se Mario si fosse degnato di aprire un libro e studiare, nella sua vita, lo saprebbe.
La regina dei demoni non ha avuto il tempo neanche di ritornare alla sua forma originaria, prima di iniziare l’accoppiamento. Si agita veloce, seduta sul grembo di Mario, tenendolo per il colletto stropicciato della maglietta come fossero redini e lui un cavallo che lei stesse cavalcando. La lunga e rigonfia massa dei suoi capelli riccissimi si agita lungo la sua schiena abbronzata e flessuosa, piegata in un arco elegante, quasi regale, mentre i suoi fianchi pieni ondeggiano avanti ed indietro. Dalle sue labbra dischiuse sfugge un gemito ed un sibilo da serpente ogni volta che l’erezione di Mario penetra dentro di lei e poi sguscia fuori, veloce, bagnata, pronta ad esplodere.
- Mahalath! – la chiama Davide, sperando di interromperli in tempo. Naturalmente, Mario viene in quell’esatto istante. – Merda. – ringhia lui, portando la mano alla propria arma ed estraendola velocemente dalla fondina. Un attimo dopo, Mahalat ruota la testa di centottanta gradi e gli offre uno sguardo spiritato e serpentino, poi soffia come un gatto e lui le punta la pistola addosso, l’indice già sul grilletto. – Ferma o sparo! – minaccia, il pollice che accarezza l’impugnatura decisamente, spostando verso l’alto il caricatore. Dall’arma comincia ad emanarsi un ronzio a bassa frequenza, e la bocca si illumina di un riflesso azzurrognolo.
Mahalath non reagisce bene. Si allontana dal corpo di Mario – il quale, non più sostenuto dalle sue braccia, si accascia per terra, svenuto – e gli ringhia contro. Quando parla, la sua voce è come divisa in due, una nota più bassa e cupa, l’altra acuta e stridula.
- Non puoi toccarmi, mortale! – gli urla contro, investendolo con l’onda d’urto della propria energia. Davide ha imparato a non contrastare questo tipo di colpi, a lasciarsi accompagnare dolcemente, perciò lascia che l’impatto con l’aria calda lo sollevi dal suolo e lo sposti di una decina di metri indietro. Quando sbatte contro i cassonetti in fondo alla strada e poi finisce di schiena per terra, però, fa un male fottuto lo stesso.
Si solleva da terra a fatica, stringe le dita aspettandosi di trovarci in mezzo la pistola e, quando non la trova, lancia un’occhiata allarmata tutta intorno a sé. La vede a pochi metri di distanza, per terra, spenta, probabilmente danneggiata. Mahalath non sembra interessata ad impadronirsene.
- Perché proprio ora? – le chiede, aggrappandosi ad un cassonetto per tirarsi in piedi. È persa, ormai, le possibilità che ha di catturarla viva o morta sono meno di zero. Tanto vale cercare di scucirle di dosso qualche informazione e sperare che Mario sia ancora vivo.
Mahalath si lascia andare ad un sorriso sghembo, la lingua che saetta fra le labbra.
- Il tempo è propizio. – dice semplicemente. Poi si solleva per aria, il corpo avvolto in una luminescenza rossastra. Lancia un urlo mentre getta il capo all’indietro e le si lacera la pelle all’altezza delle scapole. Due moncherini premono per uscire, sono solo ossa, all’inizio, poi le piume crescono, avvolgono la struttura e nel giro di pochi secondi sue enormi ali nere le si aprono alle spalle. Mahalath le sbatte pigramente a mezz’aria, una cascata di gocce di sangue si sprigiona dalle piume e piove su Davide, sulle pareti degli edifici, sulla strada, sull’immondizia, sul corpo di Mario disteso nell’ombra.
Le ali si chiudono svelte attorno al corpo nudo del demone, e Davide ha appena il tempo di scattare in piedi seguendo un riflesso involontario, afferrare la pistola e puntargliela contro – rendendosi conto che effettivamente non funziona – prima di vederla svanire in una fiammata rossa che divampa a mezz’aria e si consuma prima di toccare il fuoco.
Il vicolo rimpiomba nell’ombra, e Davide ripiomba seduto per terra quando le gambe lo abbandonano senza troppi ripensamenti. Fatica a processare l’enorme quantità di fallimenti che è riuscito ad impilare alla sua prima uscita senza Zlatan. È una situazione terribilmente imbarazzante. Come si possa passare da una percentuale di successo del novantanove virgola nove percento ad una catastrofe di epiche proporzioni come questa, durante la quale in meno di due ore è riuscito a sfasciare un’arma d’ordinanza, farsi rapire e violentare l’Agente di grado inferiore (cosa che potrebbe o non potrebbe avere conseguenze devastati per l’umanità se Mahalath è stata ingravidata), lasciarsi sfuggire un SCP e non riuscire neanche a strappargli dalla bocca un minimo di informazioni utili per farsi perdonare tutto il resto, è una cosa che francamente non riesce a spiegarsi, e che non ha idea di come spiegherà a suo padre.
Lentamente, si rimette in ginocchio, e poi in piedi. Barcolla fino al corpo di Mario, ancora riverso per terra, e gli si inginocchia a fianco. Ha i pantaloni calati fino alle ginocchia ed è passato direttamente dall’incoscienza al sonno profondo, almeno a giudicare dal compiacimento evidente col quale ha preso a russare.
Davide sospira, lo afferra per le spalle e lo scuote bruscamente.
- Oh! – borbotta, - Svegliati!
- Che?! – Mario apre gli occhi e glieli pianta addosso. È ancora così evidentemente confuso che, anche quando riesce a mettersi seduto, non la pianta un secondo di guardarsi intorno e sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco il posto. – Che… Cos’è successo?
- Il nostro obiettivo ha fatto di te il suo obiettivo. – sbotta, alzandosi in piedi e trascinandolo con sé nel movimento, - I succubi hanno una predilezione per gli individui con una predisposizione per il paranormale. Se ti fossi degnato di studiare su un qualsiasi testo preparatorio per meno di mezz’ora, lo sapresti.
- Ah. – biascica Mario, la bocca impastata, - Ah. – poi si ferma, si china di lato e sputa per terra, - Che schifo di sapore di merda. – sbuffa, - Zolfo.
- Chiamiamolo battesimo del fuoco, - sospira Davide, - E rivestiti, che sei nudo come un verme. Se penso che potresti essere appena diventato padre…
- Che cosa?! – sbraita Mario, voltandosi repentinamente verso di lui. Davide sospira ancora.
- Lascia perdere, - dice, - Te lo spiego dopo.
- D’accordo. – annuisce Mario, placandosi istantaneamente, ancora scosso dall’esperienza, mentre tenta con scarso successo di riabbottonare i pantaloni e continua a mancare spettacolarmente l’asola anche di cinque centimetri buoni a tentativo.
- Lascia, da’ qua, - sbuffa Davide, irritato, prendendo letteralmente in mano la situazione. – Sei un soggetto impossibile.
- Okay. – annuisce Mario, - Ma offrimi una pizza.
- Come, scusa?
- Ho questo sapore orrendo in bocca e ti giuro che se non mi offri una pizza adesso mi metto a vomitare a spruzzo come ne L’Esorcista.
- Ah. – Davide inarca un sopracciglio, - Quello lo conosci, dunque.
- Quello l’ho studiato! – ribatte Mario, annuendo, - Lo so a memoria.
- Non ne dubitavo. – sospira Davide, facendo strada.
Finisce comunque per offrirgli una pizza, ed intimargli di godersela, anche, mentre manda giù un boccone dopo l’altro come non mangiasse da mesi. Visto che, con ogni probabilità, è l’ultima che mangeranno prima dell’Apocalisse.
*
- Insomma, che dire. – sospira José, scorrendo distrattamente il report dettagliato che Davide ha posato sulla sua scrivania non più di cinque minuti fa. Lui e Mario stanno dritti in piedi di fronte a lui, le braccia dietro la schiena, le gambe unite, il mento sollevato. Davide ci ha messo tre quarti d’ora ad insegnare a Mario come posizionarsi correttamente di fronte ad un suo superiore, e adesso è abbastanza convinto che l’Apocalisse incombente non sia più una minaccia così spaventosa. Se è riuscito a far sì che Mario avesse anche solo la vaga parvenza di un Agente per bene, può fermare a mani nude tutte le Apocalissi dell’universo. – Un vero disastro. – conclude l’uomo, mettendo giù la relazione. Un’ombra di sorriso gli piega le labbra e non sembra davvero irritato dall’accaduto.
Davide inarca un sopracciglio, stringendo le mani dietro la schiena.
- Non sarebbe successo niente di tutto questo, se non mi avessi affidato un impiastro simile. – dice, - Me la sarei cavata perfettamente da solo.
- Sì, provandoci con una ex-succube decaduta. Osserva il maestro all’opera. – lo prende in giro Mario, lanciandogli un’occhiataccia.
- Mario! – sbotta Davide, arrossendo violentemente prima di poterselo impedire, - Sta’ zitto!
José scoppia a ridere, voltando le pagine del rapporto fino all’ultima ed apponendo in calce il proprio timbro e la firma.
- Non battibeccate come bambini. – dice quindi, rimproverandoli bonariamente.
- Stronzate a parte. – riprende Davide, tornando a guardare suo padre, - Non puoi ritenermi responsabile. Me l’hai consegnato, tralasciando di informarmi che era completamente sprovvisto di una anche minima istruzione teorica di base, e non mi hai neanche dato il tempo di conoscerlo, ci hai buttati per strada cinque minuti dopo averci consegnato l’incarico! Rifiuto qualsiasi conseguenza disciplinare collegata a questo evento.
José gli solleva gli occhi addosso, inarcando le sopracciglia. Richiude il report nella sua cartella e poi si solleva per inserirla nel grosso archivio metallico alle sue spalle.
- Il blob di via Sforza, aprile 2010. – dice, estraendo lentamente la propria chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni dell’abito ed aprendo il cassetto giusto, scorrendo le pratiche fino a trovare il corretto posto per il report, - A causa di una tua distrazione, sei stato contaminato dall’SCP. Ricordi su chi è ricaduta la responsabilità del fatto?
Davide si irrigidisce, serrando le labbra. Mario aggrotta le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata indagatrice, ma dal momento che nessuno aggiunge altro, evita di chiedere.
- Bene. – riprende quindi José, richiudendo il cassetto con un tonfo e poi voltandosi verso di loro e tendendo entrambe le mani, - Le vostre armi, prego.
- La mia è stata danneggiata. – confessa Davide in un borbottio, consegnando la propria.
- Lo vedo. – commenta José, esaminando la pistola ed il meccanismo di caricamento inceppato, - Il costo del pezzo di ricambio sarà addebitato sul tuo conto corrente e detratto dai prossimi stipendi in tre rate bimestrali. – lo informa, - Per quanto riguarda il resto, siete sospesi per una settimana, durante la quale dovrete sottoporvi alla consueta profilassi preventiva. Vi prego di presentarvi dal dottor Combi per iniziare la procedura quanto prima.
- Cosa?! – Davide si lascia sfuggire un gemito strozzato. Non c’è niente che odi al mondo più della profilassi post-contatto, niente, nemmeno suo padre.
- Non lasciarti ingannare dalla mia aria tranquilla, Davide. – risponde José, sollevandogli addosso uno sguardo severo, - Il casino che avete combinato mi costerà lunghe e tediose ore di spiegazioni al presidente, una fastidiosa ammissione di responsabilità di fronte al consiglio e, ultimo ma non ultimo, probabilmente un grande numero di vite umane quando la gravidanza di Mahalath sarà giunta al termine. Dal momento che tutte queste cose sono conseguenze che un tuo errore mi costringerà ad affrontare, farai il bravo bambino e la pianterai di lagnarti perché ti obbligo a sottoporti ad una procedura che sarebbe comunque uno standard nel tuo caso.
- Non è uno standard affatto! – insiste Davide, sbattendo il pugno sul tavolo, - Ti ho già spiegato che tutto questo non è una mia responsabilità, e comunque soltanto Mario è entrato in contatto con l’SCP, io non l’ho nemmeno sfiorato, non—
- Agente. – la voce con cui José interrompe il suo sproloquio è fredda, ferma come il ghiaccio. Non lo chiama per nome e questo, per qualche motivo, dà i brividi anche a Mario. – Presentatevi dal dottor Combi istantaneamente per cominciare la procedura. Dopodiché siete sospesi per una settimana. E se non vuoi che le settimane diventino due, ti converrà obbedire agli ordini all’istante.
Davide si irrigidisce istantaneamente, raddrizzando la schiena e serrando i pugni lungo i fianchi.
- Agli ordini. – risponde quindi, con una voce cavernosa che chissà da quale anfratto di quel corpicino da eterno adolescente sta tirando fuori. – Mario, vieni. – lo richiama, prima di voltarsi ed abbandonare l’ufficio.
Mario lo segue docilmente lungo i corridoi, avrebbe mille domande da fargli, ma si rende conto di non poterlo fare adesso. José li osserva andare via, in piedi dietro la propria scrivania, e sospira pesantemente. Lo aspettano un paio di giorni letteralmente infernali, per non parlare di quello che accadrà fra qualche mese. Sospirando ancora, ripone entrambe le pistole nel doppio fondo dell’ultimo cassetto della sua scrivania, premurandosi di chiuderlo a chiave prima di raccogliere le proprie cose nella valigetta portadocumenti, indossare il cappotto ed uscire.
Come al solito, è rimasto l’ultimo negli uffici. L’eco dei suoi passi rimbomba rumorosamente per i corridoi e all’ingresso, e poi ancora all’interno del garage, nel quale la sua Mercedes è rimasta l’ultima macchina parcheggiata. Sta per far scattare la serratura ed entrare quando una voce conosciuta lo raggiunge alle spalle e lo inchioda sul posto.
- Ti trovo bene. – dice Zlatan, appoggiato ad uno degli enormi pilastri di ferro che reggono la struttura.
José si volta a guardarlo, ravviandosi una ciocca di capelli brizzolati sulla fronte.
- Sei stato via appena un mese, stavolta. – commenta con un mezzo sorriso, - Dev’essere un record.
- Che posso dire, - ride Zlatan, scrollando le spalle prima di allontanarsi dal pilastro con una discreta spinta del bacino, - Mi mancava Milano. – conclude, avvicinandosi a lui.
- Lo immagino. – annuisce José. – Sai già dove andrai a dormire stanotte? – domanda.
- Non posso fermarmi. – scuote il capo Zlatan, - Blanc e Leo mi aspettano a Parigi in tarda serata.
- Davvero? – ribatte José, piccato. Non vuole darlo a vedere, ma la risposta lo delude. – Dunque? Che ci fai qui?
Zlatan gli offre un breve sorriso di scuse non richieste ma ugualmente necessarie, e si stringe nelle spalle.
- Torno adesso da una breve visita a Yolee, in quel di Istanbul. – dice, e José subito lo interrompe con una smorfia.
- Per piacere, - borbotta, - Non ci vediamo da un mese e torni per parlarmi dei deliri di una ridicola fattucchiera?
Zlatan ride, divertito.
- Ha avuto una crisi proprio mentre ero lì. – riprende, - Visioni.
- Non mi interessa. – José gli volta risolutamente le spalle, infilando la chiave nella serratura, - Il giorno che vorrò seguire le indicazioni di una veggente pazza, ne comprerò una a dieci centesimi sul mercato nero. Fino ad allora—
- Il diavolo canta, Zay. – lo interrompe Zlatan. La sua voce è seria e, quando José si volta a guardarlo, scopre che lo sono anche i suoi occhi. – Sarà padre, presto, e non sarà piacevole per nessuno che non sia lui. Ne sai qualcosa?
José deglutisce, cercando di mantenere la calma. È impossibile che la notizia della disavventura di Davide sia già giunta alle orecchie di Yolanthe. La visione dev’essere stata reale. Mahalath è incinta.
- Qualcosa, sì. – ammette con un sospiro, - Ma è tardi. Sono stanco. E non mi va di parlarne.
Zlatan annuisce, e sulle sue labbra torna ad aprirsi un mezzo sorriso. I suoi lineamenti spigolosi si illuminano tutti assieme all’improvviso.
- Può aspettare. – dice quindi, avvicinandosi di un altro passo, - Non ci siamo ancora salutati per bene.
José schiude le labbra per ribattere, ma non ha il tempo di farlo. Si ritrova schiacciato contro la portiere della macchina pochi secondi dopo, la bocca di Zlatan premuta contro la sua, il suo sapore familiare e nostalgico sulla lingua, e decide che possono aspettare anche le battute e le proteste.

continua

Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dejan/Sinisa.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Hurt/Comfort, Flashfic.
- "Ma ora Deki è qui, e Siniša inala l’ossigeno che gli serve direttamente dalla superficie fresca della sua pelle, e sembra tutto incredibilmente più facile."
Note: Scritta nel corso della Notte Bianca #4, su prompt RPF Calcio, Dejan Stankovic/Sinisa Mihajlovic, 'Una volta ero io a chiederti aiuto.'. Ambientata praticamente un paio di settimane fa, more or less, durante il Periodo di Grande Sconforto in cui la panchina sotto il sedere di Miha traballava in modi che ci hanno fatto piangere parecchio. Dedicata a Deffy perché lo lovvo. ♥
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
MAKE ME YOUR RADIO, TURN ME UP WHEN YOU FEEL LOW

- Sono venuto appena ho letto il messaggio. – dice Dejan, abbracciandolo sulla porta non appena Siniša gli apre, - Ho fatto il prima possibile.
Siniša chiude gli occhi, abbandonandosi contro di lui. Gli sembra di riuscire a respirare solo adesso che può di nuovo toccarlo, come se fino a pochi istanti prima l’aria fosse troppo calda, troppo densa, troppo pesante, e lui non riuscisse ad assimilarla correttamente. Ma ora Deki è qui, e Siniša inala l’ossigeno che gli serve direttamente dalla superficie fresca della sua pelle, e sembra tutto incredibilmente più facile.
- Grazie. – mormora, incapace di allontanarsi da lui. Dejan prende la situazione nelle proprie mani, spingendolo delicatamente all’interno dell’appartamento e richiudendosi la porta alle spalle, per poi condurlo verso il divano. Aspetta che si sia seduto, prima di sedersi al suo fianco, e dopo stringe una delle sue mani fra le proprie, giocando con le sue dita come gli capitava spesso di fare da ragazzino, quando era nervoso. Prima delle partite in nazionale, soprattutto.
Siniša glielo lasciava fare allora, e glielo lascia fare anche adesso, pure se ora è lui quello nervoso, lui quello che ha bisogno di conforto.
- Cos’è successo? – gli domanda, e Siniša sospira, scuotendo il capo.
- Ultimatum. – confessa a bassa voce, e non deve dire altro. Dejan sa bene cosa questa parola voglia dire in bocca ad un allenatore. Specie visto quanto ha traballato la panchina della Fiorentina nell’ultimo periodo.
- Andrà tutto bene. – gli dice. Siniša sorride a metà. Gliel’hanno detto in tanti, negli ultimi giorni, ma se è Deki a dirglielo può perfino fare finta di crederlo possibile.
- Lascia stare, piccolo. – dice, scuotendo il capo, - Tutto quello che voglio adesso è smettere di pensare. Ho la testa che gira a velocità doppia da giorni e mi sembra di sentirla esplodere.
Dejan gli sorride teneramente, allungandosi verso di lui. Lo stringe a sé, gli lascia un bacio lievissimo sulla tempia e gli accarezza il viso con devozione infantile.
- È per questo che mi hai chiamato, vero? – sussurra dolcissimo sulla sua pelle. Siniša annuisce con la sincerità carica di abbandono di chi sa di non avere nessun motivo di mentire. – Una volta ero io a chiederti aiuto. – sussurra ancora Dejan. Nella sua voce non c’è nessun rimprovero. Solo una quantità enorme di nostalgia intenerita. – Ho aspettato per anni di potere finalmente ricambiare.
Siniša gli sorride direttamente sulle labbra, e poi si abbandona senza pensare alle sue carezze.
Genere: Introspettivo, Romantico, (Pseudo) Erotico.
Pairing: Alen/Dejan, Mario/Davide, accennati Dejan/Siniša e José/Zlatan.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lime.
- Alen Stevanovic ci racconta la storia della sua personale fine del mondo, e già che c'è ci racconta anche quelle degli altri, fra partenze e ritorni, imparando a capire cosa vuol dire trovare un equilibrio.
Note: Questa è una storia assurda che ho cominciato a scrivere perché m’ero innamorata di Alen Stevanovic, giocatore serbo che probabilmente nessuno di voi conosce XD attualmente militante nella Primavera dell’Inter. Non so perché ho immediatamente deciso di darlo a Deki, sarà che le SerbsTP mi possiedono XD E alla fine ho concluso per infilare in questa storia semplicemente di tutto, per cominciare con la SerbsTP#1 (Deki/Sini ♥), continuando poi col Santonelli e il Jobra XD Insomma, tanto amore gaio di vario genere e tutto ciò che Ary ♥ che oggi compie gli anni ♥ Tanti auguri, tesoro, tutto per te :* Spero ti piaccia!
Ps. Titolo rubato a The Hardest Part dei Coldplay. Se dovevo dire altro, l’ho dimenticato XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
You Left The Sweetest Taste In My Mouth


C’è un periodo molto preciso dell’adolescenza, che varia da persona a persona, naturalmente – perché nessuno è uguale a un altro neanche a cercare con la lente d’ingrandimento fra tutti e sette i miliardi e passa di persone che vivono su questo pianeta in questo momento – in cui non è importante quanti anni tu abbia o cosa tu faccia nella tua vita o quali siano le tue origini o con chi tu vada in giro o quali siano le tue convinzioni politiche o i tuoi credo religiosi: sei comunque una testa di cazzo. Ci provi anche, a volte, a uscirne, da questa maledizione tremenda, solo che non ti riesce. Testa di cazzo sei e testa di cazzo resti.
Si può manifestare in molti modi diversi – nel mio caso si manifestava con lo scopare in giro. Le cose, in Primavera, girano molto diversamente da come girino in prima squadra. La società crede in te, naturalmente, e sei capitale spendibile in cui investire, senza dubbio, ma ciò non toglie che tu non sia esattamente un elemento indispensabile per il gruppo della squadra, perciò sei molto più libero di quanto tu non sia quando poi fai il salto di qualità – se ci riesci, è ovvio – e ti ritrovi in panchina accanto al mister, o sul campo a sputare sangue per cercare di contribuire alla vittoria della squadra.
Chiaro, quando sei una nullità e tutta la tua vita gira attorno alla speranza che il mister possa chiamarti in prima squadra, la routine della Primavera la odi a morte. Sì, ci sono gli allenamenti a due passi dai campioni, e ci sono le partite e il campionato e tutto il resto, ma se hai delle aspirazioni, se il tuo obiettivo è diventare un grande, dopo un po’ continuare a giocare così in piccolo ti frustra. Oggi so che bisognerebbe essere abbastanza saggi da apprezzare ciò che si ha nel momento esatto in cui lo si possiede, ma d’altronde – come dice sempre Mario quando finisce gli allenamenti col Milan e passa a prendere Davide per tornarsene a casa – uno non ci pensa mai, a godersi quello che ha per bene, fino a che non lo perde irrimediabilmente. E lui ne saprà decisamente qualcosa, visto il casino che è successo fra lui e Davide quando s’è trasferito.
Comunque non è dei due idioti che voglio parlare, tanto più che è ovvio che hanno passato gli ultimi tre anni in astinenza in attesa che Davide riuscisse a venire fuori da questa specie di lutto che l’ha preso dopo il trasferimento, e da qui a qualche mese capiranno che stanno perdendo tempo in maniera idiota e ricominceranno a stendersi vicendevolmente su ogni superficie spendibile in tal senso nel raggio di chilometri, come ai bei tempi in cui stavano entrambi in prima squadra all’Inter e non c’era verso di staccarli l’uno dall’altro neanche ad usare le tenaglie o i gas repellenti.
O forse sì, è anche di questi due idioti che voglio parlare, mentre cerco di spiegarvi il momento assurdo che mi ha cambiato l’esistenza senza cambiare una virgola di ciò che ero.
Quando Mario ha accettato l’offerta del Milan ed è andato via – troppa competizione in prima linea, decisamente troppi attaccanti, e il Milan aveva urgente bisogno di corpi giovani dai quali attingere forza e velocità per provare a ribaltare una situazione che era pessima già da un paio d’anni – lui e Davide stavano insieme da molto tempo. Quando io sono arrivato in Primavera, loro scopavano abitualmente già da un anno abbondante, e se non avevano ancora ufficializzato la cosa era solo perché, in effetti, sarebbe stato abbastanza ridicolo ufficializzare qualcosa di cui tutti erano a conoscenza e che comunque tolleravano senza alcun problema.
Poi Mario è andato via. Loro hanno continuato a condividere l’appartamento, ma il senso di tradimento che Davide ha sentito più profondamente di tutti gli altri s’è frapposto ingombrante fra loro, e quindi in qualche modo si sono lasciati. Dico “in qualche modo” perché è sempre dura dire di qualcuno che ha lasciato qualcun altro quando continua a guardarlo nel modo in cui Davide guardava Mario, o quando continua a pensare a lui nel modo in cui Davide pensava a Mario – essendo peraltro in questo totalmente ricambiato. Comunque sì, si lasciarono. E una volta – non potrò mai dimenticarlo, si sfottevano tutte le teorie di fine del mondo nel 2012, visto che nel 2012 c’eravamo in pieno e non era successo niente di così drammatico, dato che eravamo ancora tutti lì a cazzeggiare – insomma, quella volta Davide, aspettando che Mario passasse a prenderlo, mi disse che in realtà per lui la fine del mondo c’era stata eccome.
E io ho capito cosa intendeva solo perché la mia, di fine del mondo, aveva già avuto luogo. Nel 2010.

*

- Per favore, per favore! – sussurrai a Simone, mentre lui faceva cenno a Lorenzo di aspettarlo un attimo, - Ho bisogno di stare fuori casa, stanotte! Ho detto a tutti che avrei fatto centro con la bionda dell’altra volta all’Hollywood! Non posso-
- Senti, Alen. – roteò gli occhi lui, esasperato, - Non è colpa mia se la gallina ti ha dato buca, okay? Io vivo coi miei, non posso portarti a casa con me! Se proprio non vuoi far sapere a nessuno che il grande Stevanovic, per una volta nella sua vita, non ha inzuppato il biscotto, aspetta che se ne siano andati tutti e chiama i tuoi genitori per farti venire a prendere!
- Ma dai! – insistei, agitato, - Lo sai che c’è un gruppo che si ferma sempre fino a tardi per guardare tutti gli allenamenti della prima squadra! Fino a che ora vuoi farmi aspettare?!
- Simo! – lo chiamò ad alta voce Lorenzo, agitando il casco, - Guarda che devo passare a comprare i pomodori o mia madre mi uccide, ce la diamo una mossa?
- Arrivo, arrivo! – disse sbrigativamente Simone, tornando a guardarmi. – Ale, ascoltami. A me dispiace per te, okay?, dico sul serio. Ma se perdo il passaggio di Lori poi sarò costretto a chiederlo a Mario e… - deglutì profondamente, cercando di trattenere una smorfia, - non ho alcuna intenzione di esserci, quando lui e Davide ricominceranno con la solita menata dei fidanzatini conviventi, ok? Quindi trova qualcos’altro o tornatene a casa. A domani. – e così dicendo sparì dalla mia vista, dirigendosi velocemente verso Lorenzo e raggiungendolo un attimo prima che quello se ne andasse per i fatti propri.
Scopare in giro, dicevo prima, era il mio modo di essere testa di cazzo, ai tempi. Ognuno di noi ne aveva uno suo, personale, il mio era scopare in giro e farlo chiassosamente, di modo che si sapesse. Un giorno sarei stato il mito dello spogliatoio per le mie capacità atletiche, in quel momento mi limitavo ad esserlo per la quantità spropositata di ragazze che m’ero portato a letto. Solo che, per quello stesso motivo, oltre all’ammirazione arrivava a pacchi anche l’invidia, e il rischio di venir preso per il culo vita natural durante per un due di picche era forte. Non so se immaginate quanto possa essere umiliante ritrovarsi in uno spogliatoio con venti diciottenni che ti sfottono come se da questo dipendessero tutte le loro vite. Non è bello. Ecco perché avevo sperato nell’aiuto di Simone, dato anche che ai tempi eravamo molto vicini e dividevamo la stanza in Pinetina, perciò lui era l’unico che, per forza di cose, quando mi andava male veniva a saperlo. Lui teneva questo segreto per me, io evitavo di parlare della cotta di proporzioni mistiche che lui aveva per Davide, ed eravamo entrambi contenti.
Mugugnando deluso e preparandomi ad una nottata all’addiaccio – a costo di restare a dormire fuori dai cancelli, cazzo, non avrei chiamato mamma e papà, non mi sarei fatto venire a prendere e non sarei tornato a casa – raggiunsi il gruppetto di ragazzi che osservava gli ultimi minuti di allenamento della prima squadra.
- Che ci fai ancora qui, Alen? – chiese Mattia con aria furba, - Non dovevi uscire con quella tipa bella come la Hunziker e via così?
- Certo che ci esco. – grugnii in risposta, sferzandolo con un’occhiataccia cattiva, - Più tardi.
- Oooh. – rise ancora lui, per niente convinto, e poi Ricky provò una trivela e la trivela mandò Julio a gambe all’aria, e quindi non ci fu più spazio per me e la possibilità di prendermi in giro, che si perse come una nuvola di fumo in mezzo all’esaltazione che ci dava il solo fatto di poterli osservare così da vicino, questi fenomeni.
Naturalmente, non avevo dove andare. Altrettanto naturalmente, aspettai che tutti fossero andati via e poi mi misi all’uscita, proprio accanto al cancello, a guardarmi intorno con aria sospettosa, preoccupato dall’idea che qualcuno potesse vedermi, mentre con una mano incerta accarezzavo il cellulare riposto all’interno della tasca dei jeans, combattuto fra la mia ostinazione e l’idea tremenda di passare davvero la notte all’addiaccio – non è una cosa che esattamente ti auguri, non agli inizi di novembre e non col freddo che fa da quelle parti in quel periodo dell’anno.
Come a voler coronare una situazione già inesorabilmente di merda, si mise a piovere. Mi bagnai come un pulcino tirando improperi a destra e a manca, cercando con lo sguardo un riparo inesistente senza per questo decidermi a mettere da parte l’orgoglio e chiamare i miei. E poi, la fine del mondo.
- Alen?
Mi voltai a guardarlo. Dejan, da sotto l’ombrello, mi fissava con aria allucinata, le labbra dischiuse e le sopracciglia inarcate verso l’alto.
- Ehm… - cercai di abbozzare un sorriso di circostanza; nonostante la nazionalità condivisa, io e Deki non è che parlassimo poi tanto. Io ero tremendamente in imbarazzo, nei suoi confronti, perché Dejan era, ecco, tutto ciò che avrei voluto essere, nel senso che era uno come me, un serbo, anche se io poi a conti fatti ero nato a Zurigo, e ce l’aveva fatta, era titolare in prima squadra, titolare in nazionale, pluripremiato e trattato da tutti con rispetto. Tutti noi in Primavera avevamo un modello, ognuno lo sceglieva in base alle affinità di gioco, o personali, io avevo scelto lui perché era serbo e perché mi piaceva guardarlo sfondare la difesa avversaria per spingersi in attacco. Non era fantasioso, e non era tecnicamente magistrale, ma era potente e ostinato e pulito. Mi piaceva. – …ciao. – conclusi quindi, deglutendo faticosamente.
- Ma… - riprese lui, guardandosi intorno come a chiedersi dove fossero i miei amici, - ma che ci fai qui da solo, scusa? Sta diluviando, non te ne sei accorto? Sei fradicio! – mi fece notare, il tono stupito di chi si chiede se davvero la persona che ha davanti non si sia resa conto delle svariate ovvietà di cui gli si sta parlando.
- Sì, è che… - balbettai incerto, - ci sono stati dei problemi, e… - cercai di tirare fuori una scusa convincente, ma non ce n’erano ed ero troppo stanco e bagnato per pensare lucidamente, - …e non posso tornare a casa, quindi…
Lui inarcò ulteriormente un sopracciglio, sempre più allucinato.
- Non puoi restare qui. – disse, senza chiedermi perché non potessi tornarmene a casa mia, - Ce l’hai un amico cui chiedere un posto per la notte?
Spostai il peso da un piede all’altro, imbarazzato, e nel movimento le mie scarpe, bagnate fin dentro, scricchiolarono sinistramente.
- …ho chiesto un po’, - mentii, - ma niente. Erano tutti… impegnati. – buttai lì, scrollando le spalle. Dejan annuì, inumidendosi le labbra.
- Senti, - disse, grattandosi la nuca, - …intanto vieni qui sotto, dai. – mi invitò, accennando col capo all’ombrello che reggeva in una mano e sotto il quale mi rifugiai istantaneamente, scuotendomi tutto per cercare di liberarmi da un po’ dei litri d’acqua che il mio corpo dava l’impressione di voler cominciare ad assorbire, neanche fosse stato una spugna, - Piano, mi bagni tutto! – rise lui, divertito, - Comunque, ascolta. Ho un appartamentino ad Appiano, a pochi minuti da qui, per le emergenze. Se vuoi… - scrollò le spalle, - intendo, se per te non è un problema, puoi stare lì per stanotte. – e poi, sorridendo furbo, aggiunse: - Non lo saprà nessuno.
Se non fossi stato così bagnato da gelare perfino nelle ossa, sarei probabilmente arrossito. Fortunatamente rischiavo l’ipotermia, e perciò il commento di Deki si limitò a salvarmi la vita ridando al mio corpo quel minimo di calore sufficiente a sopravvivere ma non abbastanza forte da affiorare alle mie guance.
- Grazie! – annuii agitato, - No che non è un problema, naturalmente non lo è! Grazie! – ripetei ancora, e lui rise passandomi una mano sulla testa come in una mezza carezza, scuotendo ancora un po’ d’acqua dai capelli corti.
L’appartamentino era un bilocale molto grazioso che con l’idea che mi ero fatto di Dejan non c’entrava un accidenti di niente. Guardi lui e pensi a un appartamento enorme e incasinato, perché insomma, Deki è incasinato, fa un sacco di cose assurde, è rumoroso, è sempre in movimento e non è mai aggraziato quando si agita, perciò avevo quest’idea di appartamento con i divani pieni di roba, mucchi di vestiti ad ogni angolo, il letto sfatto, che ne so. Invece niente, era un posto carino con le tende a fiori e le pareti in legno, una cosa molto simile a una casina di caccia, però in versione bilocale alla moda, ecco. Non so se si capisce cosa intendo. Comunque c’era questa grande stanza che era il salotto, col divano e la televisione e tutto, e poi c’era un soppalco, un po’ defilato, nascosto da un paravento con degli uccelli gialli disegnati sopra, dietro al quale s’intuiva un letto di dimensioni modeste ed un altro televisore, più piccino, in un angolo. E poi c’era un bagno, una veranda con cucina e un terrazzino sormontato dallo scheletro di quello che un tempo doveva essere un gazebo, ma del quale era rimasta soltanto la struttura in ferro, pure un po’ arrugginita, perché del tendone non c’era traccia.
- Lo tengo per quando faccio tardi agli allenamenti e sono troppo stanco per tornare a Milano. – mi spiegò, sfilando l’impermeabile ed appoggiandolo all’attaccapanni, lasciandolo poi lì a gocciolare sul pavimento, - Mi spiace se è tutto un po’ fuori uso, voglio dire, non è che ci passi tutto questo tempo. – aggiunse, guardandosi intorno con aria incerta, - Vedi un po’ se funziona la tele, che io cerco se c’è qualcosa da mangiare. – poi si interruppe e mi guardò a lungo, dall’altro in basso, ridacchiando e muovendosi svelto verso una cassettiera vicina al soppalco, - Facciamo così. – propose, porgendomi un pigiama pesante, grigio ed enorme, - Va’ in bagno, fatti una doccia calda, asciugati e metti questo. Io, nel mentre, chiamo Ana e le dico che stasera non torno. E poi ordino due pizze. – concluse con un’altra risatina. – D’accordo?
Annuii senza spiccicare nemmeno una parola.
Non saprei dire se fossi a disagio – d’accordo, ci conoscevamo poco, ma non è che fossi preoccupato dal ritrovarmelo intorno, anche in un contesto così intimo come casa sua. Avevamo condiviso lo spogliatoio, quel paio di volte che il mister mi aveva chiamato in prima squadra per qualche amichevole, giusto per cominciare a fare un po’ di esperienza sul campo, coi grandi, e una volta che condividi lo spogliatoio con qualcuno, soprattutto se quel qualcuno è Deki, che può tranquillamente essere definito spigliato, usando un eufemismo elegante, insomma, il pudore a quel punto diventa un optional anche un tantino idiota, nel senso che pure condividere il letto alla fine è una cosa fattibile. Certo, non ti metti a saltare e ballare in preda all’euforia, ma non ti senti in imbarazzo né fuori luogo, non ne hai motivo.
E quindi, mentre usavo il suo bagnoschiuma e i suoi asciugamani e indossavo il suo pigiama grigio, non è che mi sentissi propriamente in imbarazzo o avessi voglia di andar via, anzi, gli ero grato di avermi trovato un posto in cui stare e di aver rinunciato alla possibilità di passare una serata con sua moglie e i suoi figli, solo per tenermi compagnia.
Non ero in imbarazzo, non ero a disagio. Ero solo agitato.
Quando uscii dal bagno, ancora un po’ umido ed avvolto nel suo pigiama, lo trovai che finiva di sistemare le stoviglie sul tavolo. Le pizze erano già arrivate, aveva preso due margherite semplici e una bottiglia di coca cola, probabilmente cercando di tirare a indovinare cosa potesse piacere ad un ragazzo della mia età, o forse rovistando nei ricordi per cercare di riportare alla mente cosa piacesse a lui quando aveva meno di vent’anni. In ogni caso ci aveva preso, mi sedetti a tavola con lo stomaco che borbottava deliziato, desolatamente vuoto ed impaziente di essere riempito.
Parlammo tranquillamente di un sacco di cose. Di com’era il clima negli spogliatoi della Primavera – “torrido e umido”, risposi, “quando apriamo tutti l’acqua calda sembra di essere nella foresta Amazzonica”, e lui rise divertito – di quanto il mister ci tenesse a coinvolgere noi “piccoli” nel lavoro coi più grandi, di quanto contasse su di noi per costruire per l’Inter un futuro più solido, con prospettive più ampie, e mentre discutevamo di questi argomenti serissimi Deki trovò anche il modo di sdrammatizzare tirandosi addosso mezzo litro di coca cola e bagnandosi tutto come uno scemo, per poi sfilarsi la maglietta e lasciarla piegata in due e appoggiata sulla spalliera di una sedia, continuando a mangiare e borbottando di essere troppo affamato per andarsi a fare una doccia adesso, ci avrebbe pensato poi.
Poi non venne mai, perché dal tavolo ci trasferimmo direttamente sul divano, sazi e ancora ridacchianti per le scenette che s’erano avvicendate a tavola – non solo Deki che si versava addosso mezzo litro di Coca Cola, ma anche io che inseguivo un filamento di mozzarella fin quasi a rovesciare nel cartone tutto il condimento della pizza, o il momento in cui ci accorgemmo che una decina di piccioni stavano litigandosi uno spazietto al coperto sul terrazzino a colpi di becco e ali.
Dejan accese il televisore ma lasciò il volume basso perché preferiva continuare a parlare con me, e perciò lo sciocco programma d’intrattenimento su non mi ricordo che canale scivolò sullo schermo senza che nessuno di noi due vi prestasse attenzione. La pioggia, da fuori, picchiettava sui vetri delle finestre riempiendo la stanza di ticchettii ipnotici che si fondevano col brusio delle risate preregistrate in sottofondo al programma e facevano da colonna sonora al chiacchiericcio incessante di Dejan, che continuava a sciorinare episodi comicissimi degli allenamenti o dei pranzi di gruppo o dei grandi festeggiamenti per gli scudetti o di altre duemila occasioni diverse cui io avevo preso parte solo da spettatore marginalmente coinvolto, e non so cosa successe, non so perché a un certo punto mi sembrasse così naturale appoggiarmi alla sua spalla e socchiudere gli occhi mentre lui mi traeva delicatamente a sé, accarezzandomi distrattamente un braccio. Persi il senso del tempo inseguendo il suono della sua voce – sembrava cullarmi come una ninna nanna, non ascoltavo cose simili da più anni di quanti non potessi contarne con entrambe le mani – ascoltai ogni singola parola vibrarmi nella testa attraverso il suo petto – non mi ero accorto di essermi steso tanto, lui non aveva fatto una piega quando mi ero allungato contro il suo corpo – e quando sollevai il viso, del tutto casualmente, per trovare una posizione più comoda e sciogliere i muscoli intorpiditi da quei minuti di immobilità, trovai le sue labbra come fossero già in attesa delle mie, non protese né alla ricerca di un bacio, semplicemente lì, immobili, vicinissime, e non dovetti neanche sporgermi per riuscire a sfiorarle.
La scarica elettrica che mi percorse tutto lungo la schiena, scalando le vertebre con velocità e furia assassine, fino a risvegliare dal torpore ogni singolo muscolo del mio corpo, mi costrinse a saltare in piedi. Le braccia rigide e larghe lungo i fianchi ed il respiro pesante, restai a guardare Dejan ancora immobile sul divano col cuore che martellava tanto forte nel petto da farmi male. Tumptumptump, era tutto quello che potevo sentire.
- Alen? – mi chiamo Dejan a bassa voce, e io indietreggiai. - …mi dispiace. – aggiunse immediatamente. Io non risposi. Non riuscivo a respirare normalmente, ogni volta che ci provavo mi doleva il petto. Strinsi i pugni con tutta la forza che avevo, gli diedi le spalle e mi mossi senza pensare.
Fuori si congelava. La pioggia era ghiacciata e picchiava con una forza incredibile. Le gocce, grosse e pesanti, mi si schiantavano addosso come chicchi di grandine – o almeno facevano altrettanto male. I piccioni, che prima avevano combattuto tanto per un po’ di posto sotto la grondaia, erano alla fine riusciti ad accordarsi: stretti l’uno all’altro, le penne umide arruffate e le teste incassate fra le ali, si scaldavano a vicenda, incuranti del temporale. Rimasi immobile al centro del terrazzo finché la voce di Dejan non mi scosse ancora, pacata.
- Non volevo spaventarti. – disse piano, - Ti osservo da un po’. – continuò, come dovesse giustificarsi, - Mi dispiace di avere esagerato.
Io non mi voltai a guardarlo. Continuai a fissare i tetti delle case di fronte a me e la pioggia cadere scrosciante, scivolando ovunque in rigagnoli grigiastri, fino a terra.
- Posso avvicinarmi? – chiese Dejan. Io deglutii, prima di annuire, e poco dopo sentii le sue braccia circondarmi le spalle e la sua guancia sfiorare la mia in un gesto tenero e rassicurante. – Hai paura? – chiese a bassa voce, le sue labbra mi sfioravano la guancia ad ogni movimento. Annuii ancora. – Non ti piaccio? – scossi il capo energicamente, e non so nemmeno perché. Quella domanda lui non avrebbe nemmeno dovuto pormela. Era senza senso, fuori luogo ed era anche una pazzia. Eppure scossi il capo, perché la pressione delle sue braccia mi piaceva, perché mi piaceva il suo profumo, perché mi piaceva la sua voce, perché mi piaceva il modo in cui il suo corpo bagnatissimo aderiva al mio. – E hai paura lo stesso. – constatò lui con una mezza risata. – Sai, la prima persona che ha avuto me, poco prima di… insomma, capito, no?, mi disse “la paura è una componente fondamentale. È giusto avere paura”. – sospirò profondamente, allontanandosi da me e spingendomi a rigirarmi fra le sue braccia, fino a potermi guardare dritto negli occhi. I capelli fradici gli si erano appiccicati alla fronte e alle tempie, le sue ciglia erano talmente bagnate che sembrava avesse appena finito di piangere, ma i suoi occhi erano scuri e tranquilli e brillavano di determinazione. – Io credo che sia vero.
Mi baciò lentamente, quasi esitando, ed io vorrei poter dire che risposi perché ero confuso e stanco e stordito, ma tradirei troppo di ciò che sono, tradirei troppo di quella sera – tradirei troppo Deki – se solo mi azzardassi a dire una bugia simile. Risposi perché lo volevo. Risposi perché era abbastanza vicino da permettermi di farlo, risposi perché la sua pelle bagnata scivolava bene sotto le mie dita, risposi perché la sensazione che mi dava la sua lingua intrecciandosi con la mia ed accarezzandola lentamente era impagabile. Risposi perché non mi ero mai sentito così con nessuna delle ragazze con cui avevo scopato – e so che è un cliché, ma non ho mai detto di essere meno banale degli altri.
Avrei dovuto avere l’impressione di stare facendo qualcosa di tremendamente sbagliato, lasciando che mi spingesse contro una parete e mi accarezzasse lento lungo i fianchi e il torace, ma non sembrava niente del genere. Sembrava solo giusto – era piacevole. Continuai a farmi accarezzare dalla pioggia, dalle sue mani e dalle sue braccia, finché non furono quelle stesse braccia a riportarmi dentro e stendermi sul divano.
- Il letto è lontano. – disse Deki, scivolando con le labbra lungo il profilo del mio collo, - Ma non potevamo restare là fuori.
Risposi con un mugolio, e fu tutto ciò che riuscii a dire anche dopo – mentre Deki mi sfilava il suo pigiama ormai fradicio e lo lasciava ricadere a terra, mentre baciava ogni centimetro del mio corpo come volesse conservarne per sempre in memoria una traccia, mentre disegnava sui miei fianchi l’impronta delle proprie mani stringendo come se volesse renderla indelebile, mentre si sistemava fra le mie gambe e mi accarezzava svelto, cercando di distrarmi, mentre entrava dentro di me uccidendo il mio gemito di dolore in un bacio più profondo e rovente degli altri, mentre spingeva e ansimava e mi teneva stretto e io chiudevo le palpebre con tanta forza da vedere bianco, non dissi una parola. Solo quel mugolio, e nient’altro. Ricordo ancora il suono preciso che fece la mia voce quando sfilò impalpabile fra le mie labbra e si perse sulle sue. Mmhn. Mi chiedo se anche Deki lo ricordi ancora.

*

- Ehi! – mi saluta Mario, battendomi una poderosa pacca sulla spalla mentre finisco di raccogliere le mie cose nel borsone, - Come va? Sei in partenza?
- Ciao. – rispondo io con un sorriso, - Sì, Mihajlović mi ha convocato per l’amichevole di venerdì. Ci puoi credere?
Mario ride divertito, annuendo lentamente.
- Ci credo sì. Congratulazioni. – poi si guarda intorno curioso, quasi circospetto. – Davide? – chiede quindi, chinandosi appena verso di me, come non volesse farsi sentire da altri. Io sospiro pesantemente, rilassando le braccia lungo i fianchi.
- Il mister gliene sta dicendo di tutti i colori da almeno mezz’ora.
- Andato male l’allenamento? – indaga, mordicchiandosi un labbro.
- Diciamo che avrebbe potuto essere più brillante. – rispondo io con un altro sospiro. – È successo qualcosa fra voi? – chiedo quindi, cercando di essere discreto e di scrutare una risposta negli occhi di Mario prima che debba essere lui a darmela. Non faccio in tempo, comunque.
- Succede sempre qualcosa, fra me e Davide. – ride, con un pizzico di rassegnazione. – E temo che mi toccherà aspettare parecchio, se ricordo ancora come striglia il Mou.
Rido anch’io, e ci sediamo entrambi su una panchina. Le nostre risate riecheggiano ovunque nello spogliatoio vuoto, ed io temo di essere già in ritardo.
- Ti penti mai di essertene andato? – chiedo a bruciapelo, guardandolo di sottecchi. Mario fissa dritto davanti a sé, serio.
- Te lo ricordi Ibra? – ribatte invece di rispondere. Io annuisco, mentre nella mia mente si forma il profilo di un giocatore col quale ho potuto confrontarmi solo da avversario, da quando gioco seriamente a calcio, - Quando è andato via lui, gli ho fatto la stessa domanda. Non erano passati nemmeno tre mesi, ci siamo incontrati qui a Milano per la prima partita del girone di qualificazioni di Champions. Sembrava felice di giocare in blaugrana, ed io allora ero molto meno felice di vederlo con quel colori addosso. – scrolla le spalle, - Ero giovane e ancora piuttosto ingenuo, nonostante tutto. Comunque, gli feci la stessa identica domanda di fronte al succo di frutta che aveva insistito per offrirmi nonostante mi fossi lagnato per un’ora di volere una birra.
- E lui che rispose? – rido io, divertito. Mario sorride.
- Rispose che l’unica regola che aveva sempre seguito nella sua esistenza era stata quella di agire senza mai doversene pentire in futuro. In pratica, fare qualcosa solo quando si è certi di volerlo davvero con tutte le proprie forze.
- Ma non pensi mai a cosa hai lasciato? – insisto io, gesticolando, - Anche fra te e Davide-
- Sai, - mi interrompe lui, alzandosi in piedi con un sorriso e guardandomi dall’alto, le mani sui fianchi e le gambe semidivaricate in una posa sbruffona che gli ho visto spesso addosso sia in partita che fuori dal campo, - io credo che il punto della partenza non sia tanto cosa lasci quando vai via, ma cosa trovi quando torni. Intendo, - scrolla brevemente le spalle, - se torni e ci sono ancora le stesse identiche cose di quando sei partito, sei a casa. E magari prima di partire non lo sapevi nemmeno.
Schiudo le labbra, incerto.
- …non capisco. – mi arrendo con l’ennesimo sospiro, - Cosa c’entra?
Mario ride ancora, come mi stesse prendendo in giro – e probabilmente lo sta facendo davvero.
- Il Barça – dice, apparentemente senza un senso preciso, - non vince da quasi cinque giornate, sai? E io – ridacchia, - ho quindici gol all’attivo solo in campionato, ed un contratto che scade a giugno. – sorride più apertamente, mentre io spalanco gli occhi, - E gennaio è alle porte.
- Cosa?! – strillo, scattando in piedi, mentre Mario ride più forte, - Scherzi! Non scherzi?! – scoppio a ridere anch’io, - E Davide lo sa?
- No! – continua a ridere Mario, - E non dirglielo. Tanto, vedrai, litigheremo anche per quello. Sembra tanto pacato e remissivo, ma è una piaga sociale ed è anche più ostinato di un mulo. Vedrai che arrufferà le penne più adesso di quanto non abbia fatto quando sono andato via.
- Incredibile! – commento con un altro sorriso, - Solo che… insomma, - inarco un sopracciglio, - capisco perché stai tornando tu, voglio dire, seguendo il discorso di prima e quello che trovi tornando… ma Ibra?
Mario si lascia andare a un sorriso furbo, e quando il mister fa irruzione nello spogliatoio urlando e sbraitando chiedendoci cosa diamine ci facciamo ancora qui e perché il nemico si sia intrufolato nello spogliatoio, ride perfino più apertamente. Mario non risponde, suppongo che dovrei aver capito qualcosa, ma qualunque cosa sia mi sfugge. Solo che adesso sono in ritardo sul serio, quindi non ci penso più.

*

Siniša Mihajlović è identico a come lo ricordavo. L’ultima volta che l’ho visto stava accanto al mister e mi guardava con aria interessata. L’unica cosa che Mourinho ha voluto dirmi, in seguito a quel colloquio, è stato un “mi toccherà ricominciare a combattere per tenerti in squadra” condito da un sospiro esasperato che mi ha divertito parecchio. Meno di un mese dopo, la convocazione. È stato Davide a spiegarmi per sommi capi cosa l’allenatore intendesse con quelle parole, la minicronistoria del suo odio nei confronti delle nazionali maggiori mi ha divertito anche più del suo sospiro. Mi sono sentito molto lusingato, e mi sento così ancora adesso, mentre Mihajlović sorride e mi batte una bacca compiaciuta sulla spalla.
- Ce l’hai fatta, alla fine, - mi prende in giro, e parla in italiano perché sa che è la lingua che conosco meglio, - a liberarti dalle grinfie del demonio ed arrivare. – rispondo con una mezza risata, annuendo distrattamente. – Hai paura? – mi chiede quindi, con un sorriso un po’ storto.
Io resto in silenzio per qualche secondo e ascolto il battito del mio cuore. Tumptumptump.
- Sì. – rispondo quindi, e la voce mi trema un po’.
Mihajlović, comunque, sorride.
- La paura è una componente fondamentale. – dice, - È giusto avere paura.
Tumptumptump dice il mio cuore, saltandomi in gola.
Quando rispondo, non so come faccia la voce a passare.
- Cercherò di ricordarmelo.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dejan/Sinisa.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Angst.
- Una storia d'amore che dura anni e che fino alla fine non si riesce a chiamare col suo nome, ma che tale è e tale resta, per tutto il tempo che le verrà concesso -- per sempre.
Note: Allora... in genere non è proprio da me fare note molto lunghe in apertura o in chiusura di una storia-- o meglio, era da me, qualche tempo fa, ma ci ho perso gusto, motivo per cui le mie note ultimamente sono parecchio stringate, anche quando magari non dovrebbero. Ecco, qui non possono, oltretutto, ma farò del mio meglio per mantenerle di una lunghezza normale.
Dunque, il desiderio di questa storia è nato nel prendere in mano Fortissimamente Io, l'autobiografia che Deki ha scritto con l'aiuto di Mirko Vrbica e da un frammento della quale peraltro è preso anche il titolo di questa storia. E' un testo adorabile, pieno di spunti d'interesse di vario tipo, all'interno del quale per larga parte viene affrontato anche il rapporto di amicizia ormai decennale che lo lega a Siniša Mihajlović, altro storico giocatore di origine jugoslava. Due stralci determinati (e molto brevi) li potete trovare qui e qui, ma lungi da me obbligarvi a farvi una cultura su questi due, anche perché immagino che, se vorrete dare un'occhiata a questa storia, lo farete perché già v'interessano. *ride* O perché vi obbliga la sua partecipazione a un contest, ehm.
Oltre a Sini e Deki, all'interno della fic sono nominati alcuni altri personaggi di gran lunga meno famosi. Essendo quella che viene raccontata una storia piuttosto "privata", sono presenti anche personaggi che hanno avuto una minore esposizione pubblica rispetto ai protagonisti, e che pertanto potrebbero essere di difficile riconoscimento anche per chi è un po' più ferrato in materia. Per questo motivo, a fine storia è presente un minuscolo elenco con le nozioni di base riguardanti questi personaggi un po' più oscuri. Sono giusto un paio di righe ciascuno, niente di trascendentale, non preoccupatevi XD
In chiusura di queste chilometriche ed orrende note XD vorrei ringraziare dal più profondo del mio cuore il Def per il lavoro stupendo che ha fatto sia nel rileggere la fic che nel rassicurarmi sulla sua utilità. Se il contest al quale stiamo partecipando (ndLiz: è questo e tutti voi dovreste dargli per lo meno un'occhiatina u.u) è un'occasione per celebrare la figura del beta-reader, direi che noi l'abbiamo fatto nel migliore dei modi :°)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PURO COME UNA LACRIMA

Quando Deki arriva in prima squadra, Siniša è il primo a saperlo. Petrović lo chiama in disparte dopo l’allenamento e gli dice di raggiungerlo nel suo ufficio fra una mezz’ora. Poi lo tiene a fare anticamera per dieci minuti mentre finisce di parlare col padre del ragazzo, e quando la porta si apre Siniša ne vede uscire un uomo alto, un po’ spelacchiato, decisamente stanco ma soprattutto soddisfatto. Dietro di lui viene fuori anche il presidente, poi un paio di avvocati, gli passano tutti davanti e lo salutano. Lui si profonde in ampi cenni del capo e li fissa un po’ sbigottito chiedendosi a chi appartenga tutto quel dispiegamento di uomini, e poi Petrović si affaccia e gli sorride, invitandolo ad entrare. È stanco anche lui, Siniša glielo legge in faccia, ma i suoi occhi brillano. Siniša ne è affascinato. Non gli è mai capitato di vederlo così.
- Che ti prende? – gli chiede inarcando un sopracciglio ed accettando il suo invito a prendere posto su una delle poltroncine di fronte alla sua scrivania. Petrović si siede al proprio posto, intreccia le dita all’altezza del naso e sorride felice. Inspira ed espira, lo fa per qualche secondo senza dire niente, come volesse limitarsi a percepire l’aria che entra ed esce dai propri polmoni, almeno per un po’.
- Ho fatto qualcosa di grande per la Serbia. – dice quindi. Siniša aggrotta le sopracciglia, incerto.
- Come sarebbe a dire? – chiede, e Petrović ride. – Ljupko, ti spieghi o no?
- Fra quindici, vent’anni, - risponde lui, lo sguardo sognante, - la gente si ricorderà di me. Dirà “è merito suo se abbiamo questo ragazzo, è lui che l’ha scoperto”.
- …Ljupko, stai cominciando a preoccuparmi. – sillaba Siniša, - Davvero, mi dici cosa succede?
Petrović ridacchia ancora per qualche secondo. Poi sembra riacquistare la sua usuale compostezza, e quando riprende a parlare, apparentemente, sta dicendo cose che con tutto il discorso che ha fatto prima non c’entrano niente.
- Ho preso un ragazzino nuovo, Miha. – dice, - Dejan Stanković. Non è affatto male. – spiega vago, come a dare alla faccenda un’importanza minima. – Voglio che te ne occupi tu. – dice quindi, guardandolo dritto negli occhi. Siniša lo fissa sconcertato.
- Io? – chiede, indicandosi confusamente, - Ma dai! – borbotta, - Perché?
Petrović sorride ancora, inclinando appena il capo ed alzandosi per battergli una pacca su una spalla.
- Perché voglio che fra quindici o vent’anni la gente si ricordi anche di te.
*
Deki è davvero, davvero piccolo. Ha sedici anni appena e sarebbe ancora troppo piccolo perfino per il giro della Primavera, ma Petrović è convinto, “il ragazzo viene con noi”, e quindi poco da fare, Siniša se lo tiene ben stretto perché appena fa tanto di distrarsi lui parte in ogni direzione, cerca di toccare tutto, quasi non riuscisse a credere di trovarsi su un volo diretto per Atene. Non è mai stato in aereo prima d’ora, e guarda ogni cosa con gli occhi che brillano di curiosità, sul volto un’espressione estatica che lo fa sembrare addirittura più piccolo della sua età. Per un istante, mentre lo osserva addormentarsi di botto con la testa reclinata sulla sua spalla, dopo aver fatto il diavolo a quattro passeggiando avanti e indietro per tutto l’aereo per almeno mezz’ora, si chiede cosa dovrebbe farci, lui, con un bambino così per le mani. Ljupko, si dice, mi sa che hai preso un abbaglio. Non può funzionare. Ci separano troppi anni, siamo troppo diversi. Non siamo nemmeno lontanamente paragonabili, siamo come alieni, a volte lui mi guarda con un’ammirazione fanatica che mi brucia sulla pelle come acido. Non mi piace.
Poi solleva lo sguardo e Petrović è lì, due sedili più avanti, che li guarda con l’aria tenera di un padre. Ha fatto grande lui e vuole fare grande pure Deki, e guardandolo negli occhi Siniša non riesce a trovare il coraggio di tirare fuori quelle parole. Se le lascia posate in mezzo alla gola, ostruiscono un po’ il passaggio dell’aria ma qualche istante dopo passa l’hostess col carrello, gli offre un caffè e Siniša manda giù quello e tutte le proprie rimostranze. Troverà un modo per andare d’accordo col ragazzino. Petrović è un amico, un fratello, una guida, e lui non intende deluderlo.
All’arrivo ad Atene Deki ricomincia a saltare di qua e di là come un indemoniato, e Siniša rimpiange l’assenza di un guinzaglio da agganciargli al collo per poterlo trascinare indietro quando il suo entusiasmo tracima i limiti della normale felicità per gettarsi a peso morto ed occhi chiusi nel vortice della pazzia.
Deki gli corre dietro da un lato e dall’altro, non gli dà tregua; per consolarsi, Siniša pensa che, giunta la sera, sarà così stanco da crollare addormentato di botto al massimo alle nove, e ciò gli aprirà le porte di almeno un paio d’ore di quiete, prima di dovere andare a letto a propria volta.
La previsione si rivela esatta: Deki si addormenta subito dopo cena, senza neanche essersi dato una ripulita. Ha ancora uno sbuffo della salsa che accompagnava il pollo su una guancia. Siniša lo guarda con una certa pietà, gli passa un fazzoletto umido sul viso – lui arriccia il naso e mugugna infastidito, voltandosi dall’altra parte – e poi gli rimbocca le coperte. Esce e lo chiude dentro per evitare casini, si concede un po’ di relax e, quando torna in camera, è stanchissimo. Gli fa male tutto il corpo, correre dietro a un ragazzino è decisamente massacrante, molto più che correre dietro ad una palla.
Doccia, pigiama, letto. Domani cominciano gli allenamenti in vista dell’amichevole, il ritiro sarà duro come lo sono sempre tutti i ritiri prima dell’inizio del Campionato, e l’idea di doversi trascinare dietro il ragazzino lo devasta. Chiude gli occhi per non pensarci e si addormenta come un sasso.
Lo risvegliano dei lamenti confusi e soffocati, non sa quante ore dopo. Schiude gli occhi nel buio della stanza, rischiarato appena dal fascio di luce lunare che entra da fuori attraverso le imposte accostate, e sbatte le palpebre un paio di volte per recuperare consapevolezza di chi è, dov’è e com’è possibile che ci sia qualcuno che non è lui a piangere nella sua stanza, a poco meno di un paio di metri di distanza.
Si mette a sedere in un fruscio scomposto di coperte che gli scivolano di dosso e si raccolgono attorno ai suoi fianchi, e i singhiozzi si interrompono per qualche secondo, prima di esplodere ancora, più fragorosamente di prima.
- Deki? – lo chiama, - Piccolo, che succede?
Dejan tira su col naso e si appallottola con maggiore ostinazione fra le coperte, ben deciso a non rispondergli. Siniša si alza e non si premura neanche di infilarsi le pantofole. In pochi passi è accanto al suo letto e lo scruta dall’alto, anche se tutto ciò che può vedere è un groviglio di lenzuola che si agita al ritmo dei respiri affannosi di un ragazzino triste.
- Mi manca casa. – piagnucola lui dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio. Siniša sospira e gli toglie la coperta di dosso. Deki è stretto su se stesso come un nodo. Sembra così piccolo, così impreparato, e Siniša si sente esplodere il cuore del tutto all’improvviso quando pensa che non è che lo sembri, lo è. È piccolo, impaurito, impreparato e inadatto, e gli è stato affidato perché lo aiutasse a crescere, a diventare più coraggioso, a conoscere più cose possibile e diventare un uomo.
Scivola sul materasso accanto a lui e se lo stringe contro, inglobandolo in un abbraccio più caldo di quanto entrambi abbiano bisogno nei trenta gradi abbondanti della notte estiva greca. Dejan, comunque, non si ritrae, anzi. Si rigira fra le sue braccia e nasconde il viso contro il suo petto, continuando a piangere. Siniša gli accarezza i capelli, le braccia e le spalle tremanti.
- Vedrai che passa. – gli sussurra all’orecchio, cantilenando come in una ninna nanna, - Da domani avrai tante di quelle cose da fare che non ci penserai più. E quando torneremo a Belgrado, sarà ancora più bello rivederla.
Deki annuisce freneticamente. Si fida senza domande, come il bambino che è.
- Sei il primo a cui lo dico. – dice dopo essersi calmato, in un ultimo singhiozzo che gli spezza la voce. – Sarai anche l’unico. – promette. Siniša non sa precisamente cosa quella promessa possa significare. Ne coglie la forza, però, e tace rispettosamente.
*
Anche la prima volta che Deki viene convocato in Nazionale, Siniša è il primo a saperlo. Non è lui a dirglielo, perché in realtà da quando lui s’è trasferito a Roma non si sentono più granché. No, è Santrač a chiamarlo, svariati giorni prima che escano le convocazioni ufficiali. Siniša già sa di essere in lista, è stato Santrač stesso a confermarglielo qualche giorno prima per telefono, perciò ricevere un’altra telefonata da lui un po’ lo preoccupa. Nello spazio di pochi secondi gli passano per la mente infinite possibilità, tutte, peraltro, piuttosto spiacevoli, e il nodo allo stomaco che lo piega in due e lo costringe a cercarsi un posto per mettersi a sedere si fa perfino più stretto quando il CT si ostina a trascinare pigramente la conversazione una frase di circostanza dopo l’altra, come non avesse nessuna voglia di arrivare al punto.
- Ragazzo mio, - si rassegna a dire alla fine, dopo un enorme sospiro sconfitto, - mi sento molto stupido a parlare con te di questo, ma sento di potermi fidare. E quando ho chiesto in giro mi hanno tutti detto che saresti stato il migliore con cui discuterne.
Siniša è teso, agitato, sta quasi fisicamente male. Allarga il colletto della camicia e deglutisce.
- Mi dica, mister. – lo invita annuendo, anche se lui non può vederlo. Santrač sospira ancora.
- La lista è quasi pronta. – dice lui, - Ma praticamente non c’è nessuno che venga dal Campionato jugoslavo. La Federazione non è molto contenta.
- …immagino. – annuisce ancora Siniša, senza forzarlo a proseguire.
- Perciò pensavo… - dice precipitosamente Santrač, come avesse paura di pentirsene, - Pensavo a Stanković.
Siniša resta in silenzio per qualche secondo. Stupidamente, si chiede se ci sia un altro Stanković di cui Santrač possa stare parlando, uno che non sia ancora un ragazzino, almeno, ma risulta evidente dal silenzio imbarazzato del commissario tecnico che invece sta parlando proprio di lui. Deki.
- Ma… - balbetta Siniša, - quanti anni ha?
- Diciannove. – risponde Santrač dopo un’incertezza minima, ma carica di disagio. – Miha, tu lo conosci, no? Ci hai giocato insieme, gli sei stato vicino. Ci si può fidare?
Siniša si morde la lingua. L’ultima volta che ha visto Deki era poco più di un ragazzino. Ricorda ancora le sue spalle magre scuotersi in preda ad irrefrenabili singhiozzi sotto le sue dita. Ricorda la consistenza del suo corpo premuto contro il proprio alla ricerca di un calore che non fosse solo caldo, ma più di tutto accogliente, e ricorda i suoi occhi lucidi e ingigantiti dalle lacrime e dalla paura fissarlo con aria persa e un po’ svagata, e si rende conto di non sapere come rispondere. Fa appello a tutta la propria razionalità, si dice se tu fossi l’allenatore, cosa faresti?, e nel suo cervello di allarga una macchia di silenzio imbarazzato e imbarazzante.
Deglutisce.
- Convocalo. – risponde. Santrač geme, preso in contropiede. Probabilmente si aspettava una risposta diversa. – Fidati. – ribadisce Siniša, - Me ne occupo io.
E lo fa davvero.
Dejan ha diciannove anni, adesso, compiuti da pochissimo. Non è molto diverso da come lo ricorda, un po’ più alto, meno smilzo, ma ha ancora la faccia da ragazzino e quegli occhi scuri pieni di sogni che brillano e brillano e brillano. Siniša li guarda e sente brillare qualcosa di molto simile anche nel fondo dei propri occhi. Si dice che non ha più l’età per queste robe da ragazzino, ma in fondo non ci crede per niente.
Si incontrano in ritiro, in programma c’è il doppio spareggio contro l’Ungheria. La Francia è ancora lontana ma non è un miraggio, non è impossibile. Intanto, però, c’è da vincere queste due partite, e Deki sa già che non giocherà. Ma non è turbato, non è triste. Siniša è contento di vederlo così sereno. Forse è vero che non è cresciuto tanto fisicamente, ma è maturato dentro.
Dividono la stanza, parlano poco, ma si sorridono parecchio. L’Ungheria viene battuta, e Deki non fa in campo nemmeno un minuto, ma non è ancora finita. Arriva a Belgrado la Corea del Sud, Siniša gioca titolare, naturalmente, ma non gliene va bene una. A lui, o alla squadra. La pressione sulle spalle di tutti è pesante, si affannano ma sono brutti anche solo da guardare, Siniša se ne rende conto ed è una delle poche volte nella sua vita in cui pensa quasi di mollare, di dire a Santrač guarda, si capisce che non è proprio cosa, e passare tutto il secondo tempo negli spogliatoi, lontano dai fischi di tutta Belgrado che, amareggiata, osserva i dragoni soccombere un colpo dopo l’altro.
Vanno a riposo sull’1 a 0 per la nazionale coreana. Negli spogliatoi, Siniša sta seduto in un angolo e si guarda i piedi. Dentro la propria testa, li rimprovera aspramente, ed è molto preso da questo, al punto che scorge solo con la coda dell’occhio uno dei collaboratori di Santrač che chiama in disparte Dejan e parla con lui per un paio di minuti, prima di lasciarlo andare a prepararsi.
Siniša spalanca gli occhi quando vede Deki entrare in campo con la sua divisa immacolata, all’inizio del secondo tempo. Non se n’era accorto davvero, non aveva nemmeno pensato che fosse possibile. Lancia un’occhiata a Santrač che, in panchina, è teso come una corda di violino. L’ansia stravolge i lineamenti del suo viso e Siniša è preoccupato per lui, è preoccupato per la Jugoslavia ed è preoccupato per Deki. È molto, molto preoccupato per Deki. Ma lui sembra tranquillo, ciondola a centrocampo battendo ritmicamente la punta degli scarpini per terra per metterli a posto, tira su i calzettoni, sistema la maglia dentro i calzoncini. Siniša ha lo stomaco stretto in una morsa di paura e lo invidia.
Poi l’arbitro fischia, il secondo tempo comincia. E succede una cosa bellissima.
L’azione di gioco è normale, lui scende sulla fascia e scende fino in fondo, arriva in prossimità dell’area di rigore coreana ma ne resta fuori, neanche ci prova a tentare l’incursione all’interno. Non deve andare così. La chiarezza con cui vede il campo lo sconvolge, prima non c’era. Si sente scivolare al proprio posto come una tessera in un puzzle. È come rientrare nei propri panni dopo essere stato per un giorno intero in quelli – scomodi – di qualcun altro.
Deki è lì. Entra in area e lo fa con discrezione. Neanche si sbraccia per farsi notare, tanto sa che Siniša l’ha visto. E Siniša lo vede, lo vede così bene che quasi vede solo lui. Cross. Gol. Così semplice, così perfetto, quasi irreale. Ma la rete si gonfia e si gonfia lo stadio, il pubblico, la città, lo stato tutto. Si solleva una voce gigante che solletica il cielo ed esplode tutta assieme dentro le sue orecchie, dentro la sua testa, dentro il suo cuore. Deki gli corre incontro, esulta, lo abbraccia. Siniša lo tiene tanto stretto da sentirne la mancanza una volta che è costretto a lasciarlo per rimettere la palla a centrocampo.
Una cosa così meravigliosa, si dice, non capiterà mai più. E invece succede ancora, appena dieci minuti dopo. Non proprio allo stesso modo, ma con la stessa identica semplicità. Ed è fantastico. Siniša stringe di nuovo Dejan come non pensava avrebbe più avuto occasione di fare, e nel fondo della sua coscienza, senza quasi neanche accorgersene, prega perché possa accadere altre mille volte. Adesso che sa che è possibile, è tutto molto più facile.
*
Siniša è bene intenzionato a non lasciarsi sfuggire Deki dalle mani, anche se non ha la minima idea di cosa questo, in concreto, possa significare. Sa che non sta vivendo un periodo facile, sa che sta per lasciare la Stella Rossa perché in Italia lo vogliono, lo vogliono disperatamente, ma non ha idea di dove potrebbe andare a finire di preciso. I nomi sono tanti, e sono tutti altisonanti. Nomi che fanno paura. Ufficialmente, Siniša è ancora alla Samp, un nome che invece non fa paura a nessuno, ma se è il primo a sapere che fra tutte le squadre Deki finirà alla Lazio è perché si muove in prima persona perché questo accada.
Va da Sergio e gli parla con molta franchezza. Lui lo fissa per tutto il tempo come se fosse improvvisamente impazzito.
- Miha, ma sei serio? – gli chiede, boccheggiando come un pesce fuori dalla boccia. Siniša si concede un mezzo sorriso al quale non sa dare un valore.
- Sì. – risponde, - Procurami un incontro con Farinelli. Al resto ci penso io.
- Col cazzo. – risponde l’agente, - Con tutto il dovuto rispetto, Miha, l’unico incontro che ti procurerò nei prossimi giorni sarà una visita psichiatrica. Da uno bravo.
Siniša ride, e lo fa di cuore. Gli batte una pacca contro la spalla.
- Sono fuori di testa, Sergio, è vero. – conferma annuendo, - Ma ho in mente una cosa grande.
Sergio deglutisce, tendendosi tutto.
- Grande quanto? – chiede, - Più di te e me?
E Siniša annuisce. Sergio ha paura, è visibilmente preoccupato, ne ha tutte le ragioni, ma non dimentica qual è il suo lavoro, e gli procura l’incontro con Farinelli, che palesemente non ha nessuna voglia di ascoltarlo. È un decennio, ormai, che lavora come osservatore, e l’ha capito che i consigli altrui valgono come un soldo bucato. Non è per un consiglio che lo cerca Siniša, infatti.
Di fronte ad un caffè, con la massima calma, gli spiega ciò che vuole. Farinelli lo guarda per tutto il tempo e fa tanto d’occhi, sconcertato.
- Come, prego? – gli chiede, quando ha finito di parlare. Siniša sorride con molta più spavalderia di quella che sente realmente in corpo. Ostenta una sicurezza che affonda le proprie radici in una parte profonda e misteriosa di sé, e tutto quello che riesce a pensare è che si sente esattamente come, da ragazzino, s’è sentito il giorno del provino alla Stella Rossa. Quando sapeva ciò che voleva e sapeva anche che avrebbe fatto di tutto per prenderselo. E che, alla fine, sarebbe stato suo.
- Il ragazzo ha talento. – dice, scrollando le spalle.
- Ma non è nessuno. – ribatte Farinelli, - Mihajlović, questo Dejan Stanković non è nessuno, in Italia. Ha vent’anni appena. La conosci, la Serie A. Per quale diavolo di motivo dovrei andare fino a Belgrado ad osservare un nessuno di vent’anni per poi non farmene un accidenti di niente?
Siniša lo guarda, lo guarda a lungo; Farinelli legge in anticipo nei suoi occhi la risposta che sta per dargli.
- Io non sono un ragazzino e non sono un nessuno. – sorride, - La Lazio mi vuole? Prendete Deki, e avrete anche me.
Qualcosa brilla negli occhi di Farinelli, brilla intensamente, al punto che, quando si alza e lo saluta, prima di andare via, Siniša sa già di avere la vittoria in tasca, e non fa altro che pensare a tornare a casa e fare le valige per le vacanze, ma farle ben piene, infilandoci dentro anche roba invernale, perché a Genova non ci vuole nemmeno tornare.
Qualche giorno dopo, viene a sapere che è fatta, e che, prima di andare a Belgrado, Farinelli ha parlato con Jugović, per un consiglio in più. Le sue ultime parole prima di partire per Madrid sono state “prendetelo, il ragazzo. Ha futuro.” Sorride e segna sull’agenda di chiamare Vlada, più tardi, per ringraziarlo. Prima, però, ha un’altra cosa da fare.
Il telefono squilla a vuoto per qualche secondo, poi la voce nervosa e stanca di Deki si diffonde attorno a lui come una carezza, nonostante sia così incredibilmente spigolosa, quasi appuntita.
- La ricordi la prima volta che ti ho chiamato? – dice. Dejan trattiene il respiro.
- Miha. – dice quindi, affannosamente, come faticasse a riprendersi dalla sorpresa, - Miha, è un gran casino di periodo.
- La ricordi la prima volta che ti ho chiamato? – ripete lui. Dejan inspira ed espira profondamente.
- Sì. – risponde, - È stata alla mia prima convocazione in Nazionale maggiore. – la sua voce si distende in un sorriso nostalgico, - Mi hai detto “domani ci vediamo all’aeroporto, si parte per il ritiro”. Non sapevo ancora nemmeno di essere in lista.
Siniša sorride a propria volta, sente il cuore tanto gonfio da fare quasi male.
- Domani ci vediamo all’aeroporto. – ripete quindi, - Si parte per il ritiro.
Dejan boccheggia, esita, non parla.
- Miha. – sussurra senza fiato, - Miha, che mi stai dicendo? La Sampdoria? – chiede confusamente.
Siniša si concede una mezza risata divertita.
- Non temere, piccolo. – lo rassicura, - Non ti ci porto, a Genova. Ti porto in casa dei più grandi.
La loro conversazione si interrompe in quel modo. Sarà l’ultima volta in cui potranno dire di avere interrotto qualcosa. Dal giorno dopo, in aeroporto, non ne avranno più occasione per quasi dieci anni.
*
È il primo a saperlo anche quando Ana rimane incinta. Dejan lo chiama nel cuore della notte. Appena sente il telefono squillare, Siniša schiude le palpebre e lancia all’apparecchio un’occhiata furibonda, ma tutta la sua rabbia svanisce in un lampo quando, dopo aver sollevato la cornetta, sente nelle orecchie un pigolio che non ha più avuto occasione di sentire per anni, perché Dejan è cresciuto, non è più un ragazzino al suo primo viaggio lontano da casa, e in tutto questo tempo non ha mai pianto. Ma stanotte ha la voce rotta, è confuso, e Siniša non fatica ad immaginarlo mentre caracolla ansioso da un lato all’altro della casa, camminando scompostamente giusto per darsi qualcosa da fare.
- Piccolo, - lo chiama, quando i suoi lamenti si confondono in un farfugliare terrorizzato, - piccolo, mi dici che ti prende?
- Ana è incinta. – sputa fuori Deki in un solo fiato, - Proprio adesso, cazzo, proprio adesso. Ma perché queste cose devono capitare sempre quando comincia un periodo di merda? Cazzo, non gioco da mesi, sono in un momento in cui già vedere la panca sarebbe tanto, Zoff neanche mi calcola, e lei resta incinta!
- Avanti, Deki. – lo interrompe lui, appoggiandosi su un gomito per restare sollevato dal materasso, e parlando a bassa voce più per tranquillizzarlo che per non svegliare Arianna che dorme placida al suo fianco, - Lo sai che non è mica colpa di Ana se è successo proprio adesso.
- Lo so. – ammette Deki in uno sbuffo stanco. Inspira ed espira profondamente, e Siniša lo sente sedersi da qualche parte e restare in silenzio ancora per qualche secondo, prima di riprendere a parlare. – Ho bisogno di giocare, Miha. – confessa, la voce venata da uno strascico di dolore così puro che Siniša si sente stringere il cuore, - Ho bisogno di giocare davvero, non ce la faccio più.
- E che problema c’è. – risponde lui con sicurezza. Nasconde il fremito che gli infiamma la voce e stringe le mani a pugno per impedir loro di tremare. – Che problema c’è, piccolo? Ce ne andiamo.
- Che? – annaspa Deki, confuso, - Miha, ti prego, non dire stronzate.
- Ce ne andiamo. – insiste lui, - Non ti preoccupare.
- Miha, tu sei titolare fisso, cazzo. Piantala di dire stronzate. – ribatte Deki.
- Ti ho detto di non preoccuparti. – ripete allora Siniša, più dolcemente. Sta già pensando a cosa dire a Sergio domani mattina. – Vuoi che venga a farti un po’ di compagnia?
- No, Miha. – geme Deki, preso alla sprovvista, - No, ti prego, fai già tanto, non—
- Vengo, se vuoi che venga. – lo interrompe Siniša. Il silenzio di Deki si prolunga ancora per qualche istante.
- Sì, per favore. – risponde alla fine, - Per favore, vieni qui.
Siniša lo raggiunge a casa, passano insieme tutta la notte. Non chiudono occhio. Affacciati al balcone in salotto, discutono di matrimonio, di mogli, di padri, di figli. Discutono il nome del bambino, come chiamarlo quando nascerà. Ad un certo punto, guardando la luna bassissima nel cielo mentre, a est, il sole comincia ad affacciarsi, facendo capolino dietro ai colli, Deki sorride, e gli chiede di essere il padrino di suo figlio. Siniša volta appena il capo e scruta il suo profilo nella luce azzurrognola dell’alba, e sente che per lui potrebbe fare di tutto, essere qualunque cosa. L’enormità del sentimento che prova lo investe in maniera quasi dolorosa. Sopraffatto, gli appoggia entrambe le mani sulle spalle, costringendolo a voltarsi e guardarlo negli occhi. È un effetto collaterale e niente di più, perché tutto ciò che voleva era un appiglio per non cadere a terra, e le sue spalle adesso così forti e larghe gli erano sembrate quello migliore.
- Sì. – gli risponde. E fa fatica a dirlo una volta sola.
Il giorno dopo irrompe in ufficio da Sergio e gli dice ciò di cui ha bisogno. Sergio lo guarda con aria allucinata, lo indica e gli dice “tu sei pazzo”.
- Non ha senso! – aggiunge, - Zoff ha i giorni contati, comunque, non lo sai che c’è Zaccheroni in dirittura d’arrivo?
- Sì, ma Deki sta impazzendo. – gli risponde lui, e quando Sergio fa tanto di sbottare un “ma si fotta Deki!”, Siniša quasi gli salta al collo. – Non mi importa se devi fare carte false, non mi importa se devi mentire al mondo e a due squadre contemporaneamente, dammi tempo. E se devi mentire, che sia una menzogna credibile.
Sergio si stringe nelle spalle, crollando sulla propria poltrona, visibilmente terrorizzato. Abbassa lo sguardo e riflette in silenzio per qualche minuto.
- Posso provare con la Fiorentina. – sillaba, - Ma Miha, c’è il rischio che invece la presidenza regga. Se la presidenza regge e la Fiore non dichiara bancarotta, vi toccherà andarci. Sarebbe… sarebbe un disastro, magari non per Dejan che lì giocherebbe eccome, ma tu, Miha, tu qui sei titolare. Diosanto… - geme, prendendosi la testa fra le mani, - Ma perché fai così?
- Hai la procura per la mia carriera. – risponde Siniša, e sente male al petto mentre dice una cosa simile ad uno dei più cari fra i suoi amici, - Non per la mia vita privata. Fa’ come ti ho detto e non fare domande.
La giostra comincia a girare in quel momento. Da quel giorno, e per molti giorni successivi, Siniša ogni tanto non può fare a meno di guardarsi allo specchio e risentire nelle orecchie la voce di Sergio che gli chiede perché si comporta in questo modo.
Cominciano a fioccare i titoli sui giornali, comunque, e Deki ricomincia a sorridere. Un giorno gli si presenta in casa con in mano una copia del Večernje novosti. La prima pagina recita Stanković in viaggio verso Firenze. Lo abbraccia così a lungo che Siniša perde il senso del tempo. Nasconde il naso nell’incavo del suo collo ed inspira il suo profumo fino a riempirsene i polmoni. La voce di Sergio gli chiede ancora “perché fai così?”, e Siniša ha paura di risponderle.
La cosa si fa ogni giorno più seria – visite mediche, contratti – Sergio è nel panico, e Siniša pure. Il cuore è il soddisfatto, ma il cervello è alla deriva. Deki è così felice da confonderlo. Ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, Siniša non riesce a vedere altro. Lo accompagna ovunque come quando era un ragazzino perduto in Grecia, solo che stavolta non è Deki ad avere bisogno di aiuto, ma lui stesso. Lo insegue perché ha paura di poterlo perdere. Sarebbe la prima volta dopo troppi anni, e non è sicuro di essere pronto.
Il ventitré giugno, Siniša si sta annodando la cravatta intorno al collo per poi precipitarsi al battesimo di Stefi. È in ritardo, Deki l’ha già chiamato tre volte, sempre ridendo, facendogli presente che il padrino non può proprio mancare al battesimo del suo figlioccio. Siniša ha il cuore stretto in una morsa, e quando il telefono squilla ancora si prepara a rispondere per l’ennesima volta a Deki che è pronto e sta per arrivare, e invece no. Non è Deki. È Sergio.
- È saltato tutto. – dice, e Siniša lo sente piangere di gioia, - Cecchi Gori ha mollato, il CdA è saltato. Dio, grazie.
Siniša lascia andare un sospiro di sollievo puro, passandosi una mano sulla fronte sudata.
- Zoff? – chiede incerto.
- Due settimane al massimo ed arriva Zaccheroni. – risponde immediatamente Sergio, la voce rotta in un singhiozzo di felicità incontenibile, - Dio del cielo, quasi non ci credevo più.
- Sergio… - mugola Siniša, trattiene a stento le lacrime. – Grazie.
- Sì, vaffanculo. – ride lui, e Siniša ride a propria volta. – Datti una mossa, c’è il battesimo oggi, giusto? Scommetto che sei in ritardo.
Siniša annuisce, lo ringrazia ancora ed interrompe la chiamata. Lancia un’occhiata al telefono, chiedendosi se dovrebbe chiamare Deki e dirgli subito che restano alla Lazio, ma poi riattacca la cornetta e sistema un’ultima volta la cravatta, lanciando ad Arianna un urlo dal corridoio per chiederle se è pronta. Alla sua risposta affermativa sorride e recupera le chiavi della macchina. A Deki lo dirà di persona, quando saranno già sulla via per la chiesa.
*
Quando decide di darci un taglio, è Deki il primo a saperlo. Sono cambiate così tante cose, fra loro, da quando si sono conosciuti, che Siniša si sente riempire gli occhi di lacrime ogni volta che ci pensa. Quel giorno, dopo averlo sentito dire che lascerà il calcio giocato a fine stagione, Deki serra le labbra e spalanca gli occhi, e Siniša sorride intenerito nell’accarezzargli una guancia e nel sentirla ruvida di barba. A sedici anni era ancora così liscio, così piccolo. Ed invece adesso eccolo qua, uomo fatto. Sicuramente Petrović è molto fiero di lui, sicuramente è molto fiero di entrambi.
- Non lascio l’Inter, piccolo. – lo rassicura. La tensione sul volto di Deki si scioglie in un’espressione ancora impaurita, ma meno ansiosa. – Divento il secondo del Mancio. Voglio imparare sul campo. Voglio fare carriera.
- Allenare? – chiede Deki, azzardandosi finalmente a schiudere le labbra e rilassandosi quando, nel farlo, capisce che non scoppierà in lacrime come un pivellino. – Tu?
- Che, non mi ci vedi? – lo prende in giro Siniša, inarcando un sopracciglio.
Deki scuote il capo.
- Al contrario. – dice a bassa voce, - Spero che un giorno sarai il mio allenatore, così potrò ripagarti in campo di tutto quello che hai fatto per me.
Siniša lo abbraccia, ridendo come un bambino. Le lacrime pungono sotto gli occhi, ma quando sente Dejan singhiozzare contro il suo collo capisce che non tocca a lui piangere, nemmeno stavolta, perciò le trattiene.
- Piccolo, tecnicamente sarò già il tuo allenatore a partire dalla prossima stagione. – gli fa presente. Dejan gli pizzica un fianco.
- Hai capito cosa intendevo. – borbotta. E lui ha capito davvero.
*
L’unica volta della sua vita in cui Siniša non può condividere immediatamente qualcosa che gli è successo con Deki, è anche quella più dolorosa. Non può comunicargli subito cosa sta succedendo per prima cosa perché succede troppo in fretta, e per seconda cosa perché fa troppo male. Mancini entra nell’ufficio del presidente e ne esce tre minuti dopo. Lo guarda e ha un paio d’occhi così sconvolti e vuoti che Siniša si spaventa sul serio, per la sua salute, perfino, prima che per tutto il resto; anche se, pure per tutto il resto, quegli occhi non possono significare niente di buono.
- Cos’è successo? – gli chiede, facendoglisi incontro e protendendo le braccia come per aiutarlo a reggersi in piedi. Mancini accetta l’appoggio senza una protesta, lui che per tutto questo tempo ha mantenuto la stessa mentalità che aveva quando giocava, quando non voleva aiuto neanche per uscire dal campo zoppicando su un piede solo.
- Ero entrato per discutere dei piani per la prossima stagione. – risponde con un filo di voce, - Non riesco a crederci.
- Mancio? – lo chiama lui, il cuore in gola ed un peso enorme che gli si sistema sullo stomaco, ben deciso a non mollarlo più, - Che dici?
- Un minuto ci ha messo, a licenziarmi. – gli spiega, tornando a guardarlo negli occhi con aria persa, - Io ci ho messo il doppio del tempo per uscire. – abbassa nuovamente lo sguardo, la voce che diventa progressivamente sempre più bassa, fino a sparire. – Non riuscivo a venire fuori da là dentro.
Deki, in quel momento, è in vacanza. In America, dall’altro lato del mondo. Siniša non riesce a trovare il coraggio per disturbarlo. Raccoglie le sue cose e va via. Lui e Mancini si dividono non succedeva da anni. “Sei abbastanza grande per camminare da solo, ormai,” gli dice con tenerezza, “buona fortuna, Miha”.
L’estate si preannuncia lunga. Siniša non ha un lavoro, ma soprattutto non ha voglia di trovarsene uno, il che è perfino peggio. Affitta una villa in Sardegna e decide che li passerà là, con tutta la sua famiglia, i prossimi mesi. Cerca di godersi il sole, il mare, il sorriso di sua moglie, il tempo libero, ma è dura. Aveva un sogno e gli si è sbriciolato fra le dita. È la prima volta che non ha idea di cosa fare di se stesso, lui che ha sempre avuto un’alternativa pronta per qualsiasi cosa. Ogni tanto, il suo sguardo accarezza il telefono e si chiede se adesso sia passato abbastanza tempo, se Deki sia già sulla via del ritorno verso l’Italia. Se può semplicemente chiamarlo, perché ha una voglia di sentirlo che lo riempie tutto, e ogni volta che si abbandona allo sconforto e piange se la sente scivolare addosso, gli brucia sulla pelle e lui non la sopporta più.
Alla fine, è Deki il primo a chiamarlo.
- Ho parlato col Mancio. – gli dice semplicemente. Siniša si lascia sfuggire un sospiro pesante e rassegnato. Fa per dirgli qualcosa, ma Deki non gliene lascia il tempo. – Vuoi che venga a farti un po’ di compagnia?
Siniša deglutisce a fatica.
- Dove sei? – gli chiede.
- Non importa. – risponde lui, - Vengo, se vuoi che venga.
Siniša neanche si sogna di mentire.
- Vieni. – sussurra, - Ti prego.
Dejan annuisce, e lui riesce a vederlo con chiarezza nonostante la distanza.
- Solo, Miha… - sospira, - Cerca di essere solo, quando arrivo.
Siniša nemmeno gli chiede quando intende arrivare. Interrompe la conversazione dopo avergli detto dov’è, e subito dopo esce. Prenota una stanza in un albergo sulla costa, per l’indomani. Ha il cuore in gola. Per la prima volta, gli sembra di vedere chiaramente dove lui e Deki si stanno dirigendo, e gli fa una paura fottuta.
Quando va a prenderlo all’aeroporto, si abbracciano per minuti interi. Nessuno li guarda, nessuno sembra riconoscerli, o se lo fanno li lasciano in pace. È la prima volta negli ultimi due mesi che Siniša si senta grato per qualcosa nei confronti del mondo. Ha il cuore che batte così forte da minacciare di saltargli fuori dal petto.
- Deki— - fa per dirgli, ma lui lo ferma subito, appoggiandogli due dita sulle labbra.
- Dopo. – dice con un sorriso, - Andiamo.
La stanza in albergo è fresca. Dalla finestra socchiusa entra un alito di brezza che profuma di mare e scuote le tende leggere come fossero onde. Il suono dei cavalloni che si infrangono contro la spiaggia ad un paio di centinaia di metri da lì è appena più forte dei loro respiri.
- Non potrei mai perdonarmelo, se andassi via senza… - sospira un po’, abbassando lo sguardo. Siniša trema, il cuore minaccia di cedergli.
- Non posso credere che stia succedendo. – esala in un sospiro spezzato. Deki gli sorride. È così diverso da quando l’ha conosciuto, eppure allo stesso tempo non è mai cambiato. È il suo più grande orgoglio, il suo più grande amore, è un pezzo di vita che sta per lasciare andare. Ha sempre creduto che non sarebbe mai stato pronto ad abbandonarlo. Non era vero. Ora sente che è giusto. Sono passati così tanti anni che recidere il contatto sarà probabilmente la cosa più dolorosa che abbia mai affrontato, ma è giusto così. L’altra metà della sua vita lo aspetta. Lui deve correrle incontro.
Lo bacia piano, con timore. Sfiora appena le sue labbra con le proprie e sente Deki bruciargli fra le dita. È lui il primo a farsi avanti con più decisione. Lo allaccia al collo e gli si schiaccia contro, Siniša lo stringe fra le braccia e geme nella sua bocca.
- Piccolo, - gli dice, - Piccolo, Dio mio, quanto ti ho voluto sempre.
Dejan annuisce, conducendolo verso il letto. Lo aiuta a stendersi ed accomodarsi fra le lenzuola. Si spoglia, lo spoglia. Sulla sua pelle calda, quasi febbricitante, le dita fresche di Dejan scivolano come un lenitivo. Siniša si inarca ad ogni carezza, e quando Dejan gli si sistema in grembo ed accoglie la sua erezione dentro il proprio corpo, d’istinto cerca le sue mani, alla cieca, incapace di schiudere le palpebre. Deki intreccia le proprie dita con le sue, muovendosi attorno a lui ed accogliendolo come un vecchio amico, un eterno amante, un fratello per sempre.
- Piccolo, ti amo. – dice Siniša con gli occhi pieni di lacrime.
- Anch’io ti amo, Miha. – sorride Deki, scivolando su di lui ed abbracciandolo stretto mentre sente il suo orgasmo esplodergli dentro. Siniša gli circonda le spalle con le braccia, lo aiuta a sistemarsi al suo fianco e finalmente apre gli occhi e si concede di guardarlo. È così stanco, così addolorato, così bello.
- Resta un po’. – gli sussurra all’orecchio, sistemandosi dietro di lui come la prima volta che hanno dormito insieme. Come quella volta, Deki gli si rigira fra le braccia. Come quella volta, ha gli occhi pieni di lacrime.
- Tutto il tempo che vuoi. – gli risponde, nascondendosi contro il suo petto.
- Tutto quello che ci resta. – sorride Siniša. E sorride sinceramente. Il tempo non è tanto, ma non è neppure poco.




- Ljupko Petrović, allenatore della Stella Rossa quando Dejan Stanković arrivò in squadra, a soli sedici anni.
- Slobodan Santrač, commissario tecnico della Nazionale jugoslava dal 1994 al 1998, nonché primo CT a volere Dejan in nazionale. E' peraltro vero che Dejan debuttò con la Nazionale contro la Corea del Sud, e che segnò due gol, entrambi su Assist di Siniša.
- Sergio Berti, agente di Siniša.
- Vincenzo Proietti Farinelli, osservatore della Lazio dal 1993 e per una decina d'anni successivi. E' stato in effetti lui il primo a visionare Dejan su commissione della Lazio, ma naturalmente la storia non si è svolta come l'ho raccontata io. Allo stesso modo, la vicenda che coinvolse Dejan e Siniša in relazione alla Fiorentina è enormemente romanzata da parte mia, nonostante sia vero che Deki stesse vivendo un periodo piuttosto brutto, che ci furono contatti con la Fiorentina, che lui e Siniša quasi raggiunsero l'accordo e che poi tutto saltò in aria perché Cecchi Gori lasciò la presidenza.
- Vladimir Jugović, giocatore serbo che in effetti ebbe grande merito nel passaggio di Dejan dalla Stella Rossa alla Lazio, consigliando la mossa alla dirigenza nonostante stesse per partire verso l'Atletico Madrid.
- Ana e Arianna sono rispettivamente le mogli di Dejan e Siniša.
(A uso e consumo delle organizzatrici del contest, visto che le altre chi è dovrebbero saperlo XD, il Mancio è Roberto Mancini, storico calciatore italiano che militò nella Lazio assieme a Siniša e che poi divenne allenatore sia della Lazio stessa che dell'Inter. Quando Siniša si ritirò dai campi, lo prese sotto la propria ala, facendone il proprio secondo.)