animanga: akito hayama

Le nuove storie sono in alto.

Serie: Varie
Genere: Comico/Romantico
Pairings: Vari
Rating: PG13
AVVISI: AU, Crossover, OOC.
- Molte coppie ricevono un invito a passare un fine settimana al Palazzo di Cristallo di Osaka. Scopriranno di doversconfiggere i tre più pericolosi nemici dell'umanità...
Commento dell'autrice: La mia seconda fanfictionO.O. La mia PRIMA ED UNICA CROSSOVER DEMENZIALEEEE!!! Quando la scrissi mi sembrò assolutamente perfetta. Adesso mi sembra un po' meno perfetta di allora, ma la trovo comunque grande^_^. La prima parte è praticamente solo romantica e comica. La seconda (la mia preferita^_^) è romantica, comica e politicamente impegnata! Abbasso le tre B!!!^_^. Comunque è una delle mie fanfiction più famose, ed è anche una di quelle che è piaciuta di più^_^.
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Fanfiction megacrossover

Prima Parte


1° capitolo


(Precisazioni dell’autrice. Prima di tutto volevo dire che questo è uno spazio che ci sarà prima d’ogni capitolo, per cercare di spiegarvi le mie coppie sballate. Giusto in questo primo capitolo c’è una coppia abbastanza normale, poiché, anche se nell’anime non si mettono insieme direttamente, è esplicito e normale che tra i due succeda qualcosa. Ebbene sì, sto parlando d’Akito Hayama (amore mio…) e Sana Kurata. Naturalmente uso i nomi originali giapponesi.).
Casa Hayama.
Akito: Sana, vuoi vedere di svegliarti?
Sana: Mmmmmmmh…no…
Akito: Ma come no? Devi andare a lavoro, non sei mica in vacanza!!!
Sana: Uffa che noia… ci siamo andati a coricare troppo tardi ieri sera…
Akito: Non è colpa mia se ieri hai voluto farlo così tante volte…
Sana: Ma parli come se non ti fosse piaciuto!!! E poi, scusa, mi sembra normale richiedere la tua partecipazione notturna più di una volta…sei così bravo…
Akito: Bhè. Va bene più di una volta, ma QUINDICI sono veramente troppe!!!
Sana: Uffa, va bene… (si alza e raggiunge Akito) ciao Aki… (lo bacia).
Akito: Non chiamarmi Aki…
Sana: Ok amore, vai tu a controllare se c’è posta???
Akito: Nella cassetta delle lettere?
Sana: Ma no, direi di provare nel congelatore…CERTO che la posta è nella cassetta delle lettere!!!
Akito: Uff…non sei spiritosa… (esce).
Sana: Dunque, cosa potrei mangiare per colazione…
Akito: (rientrando) Sono tornato…
Sana: C’era niente?
Akito: Mah, giudica un po’ tu… (fa cadere per terra un enorme ammasso di lettere)
Sana: WOW! Quante lettere di fan!!! Ma guarda… ce ne sono anche per te!
Akito: Davvero? Che dicono?
Sana: Lascia stare il mio unico amore… suicidati… se non lasci Sana ti affogo e cose così.
Akito: Mitico, mi vogliono morto… e per te?
Sana: Le solite cose… ti amo… usciamo insieme…sposami…facciamo un bambino…
Akito: Mi sembra ovvio, a me non potrebbero mai chiedere cose del genere…
Sana: Ma guarda un po’…
Akito: Cosa?
Sana: Un invito...
Akito: Ah si? E chi lo manda?
Sana: Non c’è scritto…
Akito: Dallo a me!
Sana: Tieni…
Akito: Dunque…la signorina Sana Kurata ed il signor Akito Hayama sono invitati a partecipare ad un raduno che si terrà questo fine settimana al palazzo di cristallo della città d’Osaka.
Sana: Ma c’è una cosa del genere ad Osaka?
Akito: Ti giuro che non lo so.
Sana: Nemmeno io, la geografia non è il mio forte.
Akito: Nessuna materia scolastica è il tuo forte…
Sana: Sorvoliamo…
Akito: Appunto, butta via questo coso e facciamo colazione…
Sana: CHE COSA??? Vuoi buttarlo???
Akito: Si, perché?
Sana: Ma no!!! Io ci voglio andare!!!
Akito: Non dirai sul serio??? Pensa… io ricevo lettere di tuoi fan assassini, tu ricevi lettere di tuoi fan allupati, assieme riceviamo lettere di pazzi anonimi che c’invitano a passare il fine settimana in un posto che probabilmente non esiste. Come non rispondiamo ai fan non dobbiamo rispondere a quest’invito.
Sana: (con gli occhi lacrimosi…) Ma Akituccio…
Akito: Ma… e con il tuo lavoro?
Sana: Eddai! Potrà aspettare un fine settimana, no?
Akito: Ma…
Sana: (sempre più commovente) Ti prego!!!
Akito: Ok, e va bene!
Sana: GRAZIEGRAZIEGRAZIE!!! Quanto ti amo quando fai così!!!
Akito: See, tzè…

2° capitolo


(Precisazioni dell’autrice. In questo capitolo è protagonista la coppia base dei pokèmon. Ad alcuni potrà suonare un po’ strano, giacché, tra loro, nel cartone, non succede mai niente. Effettivamente, non essendo uno shoujo, Pokèmon non ha l’obbligo di intessere una trama amorosa, ma semplicemente avventurosa. Io però da quando ho letto “Pokèmon Master” d’Ace Sanchez su www.fanfic.too.it, non ho potuto fare a meno di immaginarli insieme. E da qui questa coppia, che se Satoshi fosse alto una decina di centimetri in più sarebbe anche bella. Un’ultima cosa e non vi assillo più: vi consiglio di andare a leggere la fanfiction sopracitata. È un po’ lunghetta (e non è ancora terminata), ma ne vale proprio la pena!!! Anche qui uso i nomi originali (Satoshi = Ash; Kasumi = Misty)).
Casa Ketchum.
Satoshi: Zzzzzzz…
Kasumi: Zzzzzz…
Satoshi: Zzzzz…
Kasumi: Zzzzz…
Satoshi: Zzzzz…
Kasumi: Zzzzzz…
Lisachan: ALLORA, VOLETE SVEGLIARVIIIIIIIIIIII???
Satoshi: AAAAAAH! Eh? Chi è morto?
Kasumi: Mh? È morto qualcuno?
Lisachan: Brutti idioti…
Satoshi: Forse è meglio svegliarci…Pickachu, svegliati…
Kasumi: Ecco, vedi? Possibile mai che il tuo primo pensiero al mattino sia quello stupido topo giallo?
Satoshi: Ehi, non sarai mica gelosa…
Kasumi: Ma come osi!!! (Si butta su Satoshi con l’intenzione di prenderlo a pugni in testa)
Satoshi: (Blocca il pugno di Kasumi e la blocca a terra. Poi dopo averla baciata.) Avanti…lo sai che amo solo te…
Kasumi: Mh… idiota… piuttosto, fammi alzare. Ti voglio preparare una buona colazione…
Satoshi: Davvero? Cosa? (pensa al cibo in maniera adorante)
Kasumi: Ottime frittelle con glassa al cioccolato e cioccolata calda…
Satoshi: WOW! E in base a che cosa mi merito questo premio?
Kasumi: In base al fatto che stanotte sei stato mitico…
Satoshi: Ah, si? E le altre volte?
Kasumi: Effettivamente non mi sembra di ricordare nemmeno una volta in cui tu non sia stato mitico…
Satoshi: Vuoi che ripeta la performance ora? (Sguardo esplicito di chi ha una voglia matta di farlo…)
Kasumi: La proposta è allettante, ma… NO…
Pickachu: Pika???*_*
Kasumi: Mi sembra che il topo non approvi i nostri discorsi…
Satoshi: Ma no… che dici. Vero Pickachu? Pickachu???
Pickachu: Pi…ka…chuuuuuuuu! (Scaglia un tuonoshock potentissimo su Kasumi)
Kasumi: AAAAAAAAAAAAAAAARGH!
Satoshi: KASUMI!!! Oddio, mi dispiace… Pickachu ma che ti è saltato in testa… oh, santo cielo…
Kasumi: Non fa niente, non preoccuparti…piuttosto, accendi il pc…
Satoshi: (molto dispiaciuto) E perché di prima mattina?
Kasumi: Aspetto una mail dalle mie sorelle a Cerulean.
Satoshi: K…A…S…U…M…I.
Kasumi: Si?
Satoshi: No, niente. Mettevo la password.
Kasumi: Hai messo il mio nome come password di internet? Ma che dolce…
Pickachu: Pi… pickachuuu. Pika. (E’ doveroso tradurre qui: “Oh, si che dolce… mi sta venendo una carie ai denti al solo sentirlo…”).
Satoshi: Non sei affatto carino Pickachu…
Kasumi: Perché? Cosa ha detto?
Satoshi: Che sono troppo zuccherino…
Computer: (Non nel senso che è il computer che parla, ma nel senso che si sente questo rumore provenire dal computer…) BIP… BIP… BIP…
Satoshi: Aspetta, è arrivata una mail.
Kasumi: Si, saranno loro.
Satoshi: Ma qui dice Mittente Anonimo…
Kasumi: Anonimo? No io ho registrato le mie sorelle sotto il nome di Cerulean Jim…
Satoshi: Vuol dire che la mail non l’hanno inviata loro…
Kasumi: NON APRIRLA! Potrebbe esserci un virus dentro!
Satoshi: Se ci sarà pazienza… sono troppo curioso…
Kasumi: Oh, no…
Pickachu: Pika…
Satoshi: Guarda! Mitico!!! È un invito!!!
Kasumi: Stupendo!!! Ma dove ci invitano?
Satoshi: Al palazzo di cristallo della città di Osaka…
Kasumi: Dove?
Satoshi: Lo so, suona strano anche a me…
Kasumi: No, è che non l’ho mai sentito nominare prima d’ora…
Satoshi: Appunto. Che ne pensi Pickachu?
Pickachu: Pika….pickachu pikaaa…-_-
Satoshi: Pickachu non è molto tranquillo…non sembra piacergli questa storia…
Kasumi: Lo capisco. Nemmeno io sono molto convinta.
Satoshi: Al diavolo! Io ho deciso che ci andrò!
Kasumi: SATOSHI!!!
Satoshi: Potrebbe essere un invito a una gara fra i maestri di pokèmon più forti!
Kasumi: E pensi che avrebbero invitato te?
Pickachu: (annuendo) Pikachu!
Kasumi: Visto? Anche Pickachu, una volta tanto, è d’accordo con me!
Satoshi: Ma bene! Bella fiducia che avete in me! Su, vi prego…andiamoci!!!
Kasumi: Satoshi, non fare il bambino…
Satoshi: Ma Kasumi…ti prego…(si avvicina a lei e poi le parla sottovoce) sai, potrei anche migliorare le mie performance notturne…
Kasumi: (diventando rossa) Che cooooooosa? E va bene, mi hai convinta…
Satoshi: Evvai!!!
Pickachu: Pikaaaaaaaaaaa!!! :’-(

3° capitolo


(Precisazioni dell’autrice. E ci siamo! Per tutti i fan della Card Captor più famosa del mondo, il capitoletto dedicato a Sakuretta e Liuccio! Che felicità. Dunque, da precisare qui non c’è niente, anche perché, mi pare, che Sakura e Lì si mettano assieme alla fine di tutte le vicende…oh bè, via col terzo capitolo!).
Casa Shaoran.
Sakura: E comunque non voglio più vederla qui!
Lì: E va bene Sakura, ti ho detto che non vedrai più Mai Lin che mi gira intorno!
Sakura: Ma poi, santo cielo…è pur sempre tua cugina!!!
Lì: Non importa, in Cina quando riesci a promettere un bambino ad un suo parente non ci pensi su due volte…
Sakura: Bella mentalità!
Lì: Che hai contro la mentalità cinese?
Sakura: Niente! Non posso semplicemente non sopportare i cinesi?
Lì: Sakura…STOP…amore, ti prego…non mi piace cominciare la giornata litigando…
Sakura: Nemmeno a me…mi mette di malumore…
Lì: Appunto, lo so io come cominciare bene la giornata…(si avvicina e la bacia con chiare intenzioni).
Sakura: Mmmmmh…no, quello che intendi tu è impossibile da realizzare…
Lì: E perché, di grazia…
Sakura: Perché è tardi e devo prepararti la colazione e poi dobbiamo uscire…non è domenica…
Lì: Uffa, sempre in ritardo…
Sakura: E dai…recupereremo stanotte…
Lì: Già, di sera è meglio.
Sakura: Ok…vai fuori a prendere il giornale…il ragazzo lo avrà lasciato fuori dalla porta…
Lì: Ah, già…
Sakura: Dovrai ricordarti di andare a pagare gli arretrati un giorno…
Lì’: Acc…me ne scordo sempre…(esce)
Sakura: Hehehehehe…
Lì: Guarda un po’ che ho trovato!
Sakura: Cosa?
Lì: Un invito, credo…
Sakura: Davvero? Sarà di Tomoyo…
Lì: Forse…no! Ci invitano al palazzo di cristallo della città di Osaka…
Sakura: Ma che dici…non esiste una cosa del genere…
Lì: Invece probabilmente si…tu che dici?
Sakura: Bè…
Lì: NO! Non parlare! Sarà sicuramente la presa in giro di un pazzo. Non ci andremo.
Sakura: Ma…Lì!
Lì: Lascia perdere. Ma che cos’è questo buon profumino…cappuccino! Per me? Lo hai preparato tu?
Sakura: Si, so che ti piace…
Lì: E’ così infatti. Lo adoro…ora me lo bevo in santa pace…
Sakura: Senti amore, tornando al discorso di poco fa…
Lì: PPPFFFFFFFFFFFF! (Sputando tutto il cappuccino su Kero-chan che dormiva, svegliandolo).
Kero-chan: Maledetto idiota di un cinese! Mi hai svegliato!!!
Lì: Stà zitto, pezza! Sakura, mi sembrava di avere chiarito!
Kero-chan: Pezza a me??? Ma chiarito cosa?
Sakura: Qualcuno ci ha inviato un invito per andare ad un non so cosa che si terrà al palazzo di cristallo della città di Osaka. Lì dice che è una pazzia. Io però…
Lì: Sakura, non lo dire nemmeno!
Sakura: …ci voglio andare…
Kero-chan: Una volta tanto sono d’accordo col cinese. Mi sembra stupido ed avventato.
Sakura: Perché?
Kero-chan: Pensaci, non sai niente di colui che te l’ha mandata.
Sakura: E se fosse una Clow Card?
Lì: Diavolo, non ci avevo pensato…
Kero-chan: Potrebbe essere pericoloso…
Lì: Ma se è una Clow Card cambia tutto.
Kero-chan: Ma che dici cino???
Lì: Sakura! Possiamo andare.
Sakura: EVVIVA!!!
Kero-chan: Ma…
Lì: Zitto pezza, che tanto tu non sei stato menzionato!
Sakura: Che bello! Non vedo l’ora…
Lì: Basta che non ti entusiasmi troppo.
Sakura: Come? In che senso?
Lì: Tu quando ti butti anima e corpo in una cosa combini sempre disastri…
Sakura: Ma che…OOOOOOH! Senti, non è colpa mia se quando la volta scorsa ti volevo preparare la torta è andata a fuoco con tutto il forno e stavo per carbonizzare l’intera casa con te dentro che dormivi…io ci ho messo tutta me stessa.
Lì: Appunto, dico sei pericolosa…
Sakura: Lì…io ti ammazzo…carta del fuoco, mostrati al tuo vero aspetto! È la tua padrona Sakura che te lo ordina…RELASE!!!
Lì: Opporca…(seguono una seria di bruciacciamenti del povero Lì e del poverissimo Kero-chan).
Kero-chan: Ma perché io…
Lì: Perdonami Sakura…non lo faccio più…
Sakura: Così va meglio… ed è deciso che si va ad Osaka questo week end.
Lì: Mmmmmmh…mi piaci quando fai l’autoritaria…
Sakura: ZITTO!!!

4° capitolo


(Precisazioni dell’autrice. Ragazzi, vi prego di non mandarmi mail di odio dopo aver letto questo capitolo. L’anime in questione è Slam Dunk. Chi lo conosce sa di cosa parlo (naturalmente). Ma diversamente da come starete pensando, i MIEI protagonisti non sono Haruko ed Hanamichi. E nemmeno Haruko e Rukawa. E se volete saperlo nemmeno Miyagi ed Ayako. Però Rukawa c’è. Ed anche Ayako. Ora mi starete odiando. O prendendo per pazza. Vi starete chiedendo, chi è questa folle che mette Ayako e Rukawa assieme? Mi presento, chiamatemi Lisachan…vi prego, non odiatemi. È che io adoro Rukawa, e mi impersonifico molto in Ayako. Ne consegue che per me sono la coppia perfetta…via col quarto capitolo e cercate di perdonarmi!!!).
Palestra Shohoku.
Ayako: NOOOOOO! Idiota, no! Non è così che si tira saltando all’indietro!
Kaede: Uffa…
Ayako: Sei un idiota! Come pensi di poter eguagliare Sendo se non sai fare nemmeno questo???
Kaede: Se ti senti così brava vieni a farlo tu…
Ayako: Non pretendo tanto! E non sono io quella che si sente migliore del miglior giocatore del Giappone.
Kaede: Pensi che sia il migliore? Seriamente?
Ayako: Si. Lui è mitico.
Kaede: Allora fidanzati con lui…
Ayako: Non è con lui che voglio stare. Ma con te. È per questo che voglio che tu lo superi.
Kaede (arrossendo lievemente... hehehe un sogno, vederlo arrossire...): Umpf…
Ayako: Ingrato…su, prova di nuovo…
Kaede: (dopo aver fatto un tiro quasi immacolato che però non entra…) Maledizione…
Ayako: E NOOO! Hai visto tu stesso che non riesci a fare canestro…SPACK! (gli spacca in testa uno dei suoi soliti ventagli di carta)
Kaede: Ahi…Diavolaccio…ma perché…ora riprovo.
Ayako: Faresti bene. Mio Dio, sei più bravo a letto che a basket…
Kaede: Allora devo essere proprio mitico a fare l’amore…
Ayako: Una specie…ma non ti dare arie…scommetto che Sendo è meglio…
Kaede: Diavolo! Lo odio!!! (tira e mentre tira gli finisce un aereoplanino di carta in un occhio). AAAAAAAARGH!!!
Ayako: KAEDE!!! Stai bene??? Ma guarda, hai fatto canestro…
Kaede: Ahiahiahi…il mio occhio…mi brucia…pensa al mio occhio, non al canestro!
Ayako: Giusto, giusto…ci credo che ti brucia…
Kaede: Ma che è successo… mi hanno bombardato l’occhio?
Ayako: No, non sei così importante da farti bombardare…
Kaede: Grazie…
Ayako: Su, non te la prendere…era un aereoplano di carta…
Kaede: Bambini idioti… se prendo chi è stato…Ma da dove è arrivato?
Ayako: Non lo so…le finestre della palestra sono chiuse quindi non capisco…
Kaede: Apri il foglio e vediamo se è importante…
Ayako: Dunque…oh, che bello. Ci hanno invitati questo fine settimana ad una specie di festa al palazzo di cristallo della città di Osaka.
Kaede: Pensi che esista una cosa del genere?
Ayako: Non so. Potrebbe essere una nuova costruzione…
Kaede: Potrebbe essere una specie di mini-torneo di basket?
Ayako: Non so… tutto è possibile…
Kaede: POTREBBE ESSERCI SENDO?
Ayako: E CHE NE SO!!! SEI FISSATO!
Kaede: Non si discute, naturalmente sul fatto che io ci voglio andare.
Ayako: Non sei tu a decidere. Dovremo parlarne col signor Anzai…
Signor Anzai: Oh! Oh! Oh!
Kaede & Ayako: SIGNOR ANZAI!!! (Si alzano da terra e si ricompongono).
Ayako: Signor Anzai, come ha fatto ad entrare…*acc…mi sembrava di avere chiuso la porta…*
Signor Anzai: La porta era aperta…oh oh oh
Kaede: Ha sentito tutto?
Signor Anzai: Dalla prima all’ultima parola. Oh oh oh!
Kaede & Ayako: (Diventando rossi) Tutto???
Signor Anzai: Tutto. Potete andare ragazzi. Oh oh oh…
Kaede: Dice sul serio?
Ayako: Appunto coach. Effettivamente non sappiamo nemmeno dove si trovi il luogo preciso…
Signor Anzai: Oh oh oh. Non è un problema…e poi se c’è Sendo…(gli si illuminano gli occhiali) potrebbe essere il momento buono per superarlo, Rukawa. Oh oh oh!
Kaede: (Contornato da un’aura di fuoco che non promette niente di buono) Si! Io batterò Sendo!
Signor Anzai: Ok, allora è deciso. Oh oh oh. Ci penserò io a giustificarvi a scuola.
Ayako: Oh, non ce ne sarà bisogno, perché si svolge nel fine settimana.
Signor Anzai: Oh, perfetto. Allora io vado…oh oh oh! (esce)
Kaede & Ayako: Arrivederci!
Ayako: Pensi seriamente che ti abbiano invitato ad un torneo di basket?
Kaede: Ne sono quasi sicuro…
Hanamichi: CHE COOOOOOOOOOOOOOSA???
Ayako: Hanamichi, ciao!
Kaede: E’ arrivato l’idiota…
Hanamichi: Come ti permetti! Volpino deficiente! Perché hanno invitato lui e non me???
Ayako: Su Hanamichi, non fare così…
Kaede: Perché tu sei un incompetente…
Hanamichi: (Sputando fuoco e fiamme) Ma nemmeno tu hai battuto Sendo! E io sono più bravo e più bello di te!
Kaede: See, figuriamoci…
Hanamichi: AAAAAAARGH!
Ayako: Oh, povera me…

5° capitolo


(Precisazioni dell’autrice. Bè, non mi sembra ci sia nulla da precisare in un capitolo che parla di Van e Hitomi, no?^_^).
Casa Kanzaki.
Mamma: HITOMI!!!
Hitomi: Si mamma?
Mamma: HITOOOOOOOOOMI!!! AAAARGH! CHE DIAVOLO è QUESTO???
Hitomi: Mamma, ma perché urli così?
Mamma: BWAAAAAAAAAA! QUINDICENNE è GIà SPOSATA E NON DICE NIENTE AI SUOI GENITORI!!!
Hitomi: Ma che stupidaggini stai dicendo, mamma?
Mamma: Guarda!
Hitomi: Al signor Van ed alla signorina Hitomi…oh santo cielo..
Mamma: Chi è questo Van??? Come mai arrivano lettere a casa indirizzate a te ed a lui INSIEME???
Hitomi: Ehm, mamma…
Mamma: Pensa che cosa succederebbe se le vedesse tuo padre...
Hitomi: Mamma…
Mamma: Sarebbe una disgrazia…demolirebbe la casa per la rabbia…
Hitomi: Mamma, smettila…
Mamma: Ma almeno dimmi dive vive…fammelo conoscere…
Hitomi: MAMMA, ORA BASTA!
Mamma: Scusa cara…
Hitomi: Sono nella mia stanza, per favore non mi disturbate…
Mamma: …siamo al punto che è lei a dare ordini a me. Ah, l’adolescenza…
Hitomi: Accidenti alle sue crisi isteriche…ah, la terza età…(entra nella stanza e chiude la porta a chiave) Diavolo, ho sbagliato a dare il pendolino a Van…adesso non lo posso contattare…e come faccio? (magicamente appare Van in un brillio di lucine verdi, rosse e bianche molto patriottiche).
Van: Ciao Hitomi!
Hitomi: VAAAAAAAAAAAN!!! Oddio!(corre ad abbracciarlo con tutte le sue forze).
Van: Ehi, fai piano…mh…
Hitomi: Van, ma come hai fatto?
Van: Non lo so…ho avuto come l’impulso irrefrenabile di vederti…
Hitomi: Pazzesco, anche io volevo vederti…questa è telepatia?
Van: O è telepatia o abbiamo semplicemente voglia di (si avvicina e bisbiglia nell’orecchio di Hitomi) pssst psssssst…
Hitomi: (diventando rossa come un peperoncino napoletano) Urca…così me la fai venire tu la voglia…
Van: (con uno strano luccichio di speranza negli occhi) Davvero?
Hitomi: Naturalmente scherzo…devo parlarti.
Van: (l’incarnazione della delusione)E di cosa?
Hitomi: Guarda qua…
Van: Accidenti, ci invitano ad una festa…
Hitomi: E’ vero!
Van: Non trovi che sia magnifico? Una stupenda festa danzante…tu sarai bellissima e poi balleremo fino all’alba senza fermarci e poi andremo da qualche parte e…
Hitomi: Non continuare o ti rispedisco su Gaea con un calcio.
Van: Ok…(sempre più deluso)…però dove si trova? A Fanelia o qui sulla Luna dell’Illusione?
Hitomi: TERRA Van, TERRA! No, è qui sulla Terra. In una città che si chiama Osaka.
Van: Osaka? Che strani nomi che avete qui…
Hitomi: Precisamente al Palazzo di Cristallo della città di Osaka…
Van: Però almeno gli edifici sono gli stessi…
Hitomi: Avete un Palazzo di Cristallo su Gaea?
Van: Si, è ad Asturia. Non l’hai visto quando ci siamo andati?
Hitomi: No. Eravamo presi da Merle che stava male e quindi…a proposito, dov’è Merle?
Merle: (in uno sbrilluccicare di lucette azzurre e rosse come quelle dell’albero di Natale ecco apparire come per magia Merle)Eh? Signorino Van!!! La stavo cercando quando sono arrivata qui e…HITOMI!!! Come sono felice di vederti! (si butta su Hitomi ed abbracciandola comincia a leccarla).
Hitomi: Hahaha, Merle…su stai buona…come stai?
Merle: Tutto a posto…ora ti sposerai con il signorino Van?
Hitomi: Cosa?
Van: MERLE! MA CHE DICI!
Merle: Che ho detto di male…
Hitomi: (con un tono straordinariamente rassicurante come solo Hitomi sa parlare) No, niente, è che io e Van abbiamo altre faccende di cui occuparci adesso…
Merle: Più importanti del matrimonio?
Hitomi: Bè, in un certo senso si…
Merle: Oh, capisco…
Hitomi: Allora Van, dobbiamo andare a questa festa?
Merle: Festa? Che festa? Anche Merle vuole venire!!!
Van: Merle, ti prego…io vorrei andarci, se a te non dispiace…
Merle: Uffa, Merle non è stata invitata, forse?
Hitomi: Non è questo il problema, Merle… anche io vorrei andarci, ma mia madre sarà un problema…
Merle: Hitomi ha una madre poco permissiva?
Van: Si Merle…per me non sarà un problema, anche se dovrò lasciare temporaneamente il trono ad Allen di nuovo…
Merle: No, signorino Van, quello fa entrare troppe donne diverse nel castello! Ce n’è una diversa ogni notte!
Hitomi: Davvero il signor Allen è così donnaiolo?
Merle: Ma, si Hitomi! Non ricordi???
Hitomi: No…ho ricordi molto sfocati di Gaea…purtroppo…
Merle: Allora faresti meglio a tornare per rinfrescarti la memoria…
Hitomi: Mi piacerebbe molto, ma non è così semplice…
Van: SCUSATE SE MI INTROMETTO MA STAVAMO PARLANDO DI QUALCOSA DI SERIO!!!
Hitomi & Merle: Scusa…
Hitomi: Allora andiamoci, no?
Van: Ok…ora scusa ma devo proprio andare…
Hitomi: No, aspetta. Su Gaea il tempo scorre diversamente che sulla Terra. Lascia a me il pendolino, così ti potrò chiamare quando sarà il momento giusto.
Van: Hai ragione (le dà il pendolino). Ciao amore…
Hitomi: Ciao tesoro (si baciano, naturalmente…)
Merle: Ciao Hitomi!!!(la lecca tutta di nuovo)
Hitomi: Ciao Merle, a presto…(Van e Merle scompaiono contemporaneamente in uno scintillio di luci bianche, verdi, rosse e blu. Dovevo fare l’addizione delle lucette…^_^)
Hitomi: Uffa…devo chiamare Yukari per dire che mancherò agli allenamenti…

6° capitolo


(Precisazioni dell’autrice. Dunque…wow, sei capitoli…ma sono davvero tanti…accidenti…ma ancora ne mancano tanti…dunque avevo pensato di fare un capitolo su Ranma ed Akane. Mi sembra una buona idea, no? Tra l’altro non servono spiegazioni…hehehe mi rendo la vita facile…comunque, via col capitolo!!!).
Casa Saotome.
Akane: Raaaaaaaanma!!!
Ranma: Ma non urlare sempre come una cornacchia!!!
Akane: Ma perché sei sempre così cattivo con me!!! Io ti ho solo preparato la colazione…
Ranma: Si, capisco. Ehm…però…per adesso…non posso venire…Shanpu, esci dalla vasca…
Akane: Cosa?
Ranma: No, niente amore…
Akane: Ranma, chi c’è lì con te?
Ranma: No, tesoro, nessuno…vai via potrebbe arrivare da un momento all’altro…
Akane: RANMA! (Si dirige correndo come una furia verso il bagno, apre la porta e trova Shan–pu abbracciata a Ranma) RAAAAAAAAAAANMAAAAAAAA!!!
Ranma: Akane, niente scene isteriche…
Akane: Isteriche? Tu mi dici che sono isterica? Ma come ti permetti…
Shanpu: Shanpu va via…
Ranma: Intendevo dire che non ce l’ho portata io dentro la vasca con me…
Akane: Ah, no…certo…come ho fatto a non capirlo prima…
Ranma: Ma dico sul serio!
Akane: Ma come ho potuto fidarmi di te…maledizione…sigh…
Ranma: No, non piangere, ti prego…
Akane: E’ tardi…antipatico…io ti sono così fedele…
Ranma: Già, però ti porti a letto quel porco…
Akane: Oh, ma smettila di prendertela con il povero P–chan, lui non ti ha mai fatto niente!
Ranma: Tzè…possibile che tu non abbia ancora capito chi è in realtà P-chan?
Akane: Cosa? Sentiamo, chi dovrebbe essere?
Ranma: P-chan in verità è…
P-chan: Gruf…gruf!!! (Salta e morde Ranma con tutte le sue forze)
Ranma: AAAAAAAAAARGH!
Akane: Ecco, ti sta bene…così impari a tradirmi ed a dubitare di P-chan.
Ranma: Ma che compagna gentile…diavolo, sanguino…
Akane: Cosa? (Corre con faccia preoccupata verso Ranma) Dov’è che sanguini?
Ranma: Sulla mano dove mi ha morso…
Akane: Oh, poverino…se ti do un bacino cambia?
Ranma: Eccome…(è felice anche se non lo fa vedere. Naturalmente si baciano).
Akane: Allora?
Ranma: Hai ragione, sto meglio…però puoi fare di meglio…
Akane: Hehehehehe…non se ne parla…vado a prepararti la colazione…
Ranma: Ok…(Akane va in un’altra stanza, Ranma prende l’acqua calda e la butta su P-chan). Ciao Ryoga!
Ryoga: Bastardo…
Ranma: Eh, già…puoi andare a letto a dormire con lei sotto forma di P-chan, ma lei non ti darà mai quello che dà a me…hahahahaha!!!
Ryoga: Io…ti…odio…
Ranma: Ma è naturale, ci litighiamo la ragazza, non possiamo volerci bene…non trovi?
Ryoga: Devo andare via. Cerca di non abusare ancora di lei…
Ranma: Ma io non abuso…è lei che mi si dà spontaneamente…hahaha!
Akane: E’ pronto, Ranma!
Ranma: Arrivo AMORE! Ciao Ryoga, non ti perdere…
Ryoga: Io non lo sopporto…
Ranma: Allora, che hai preparato di buono forse…
Akane: Osi insinuare che non cucino bene?
Ranma: Anzi, sei molto migliorata ultimamente…
Akane: Davvero?
Ranma: Si si…
Akane: In questo caso…ti ho preparato un ottimo piatto di latte e cereali…
Ranma: Wow, sofisticato…
Akane: Questo o niente…
Ranma: Lo mangio.
Bisnonna di Shanpu: CONSORTEEEEEEEEEEE!
Ranma: Dannazione, la vecchiaccia…
Akane: Ma possibile che la famiglia di quella ragazza giri sempre intorno a questa casa?
Bisnonna di Shanpu: La brava donna non si lamenta. Porto buone nuove per te consorte!
Ranma: Ma perché ti ostini a chiamarmi consorte?
Bisnonna di Shanpu: Non so. Forza di abitudine, io penso.
Akane: Per motivi di budget l’autrice ci impone di sbrigarci…
Bisnonna di Shanpu: Tu essere veramente antipatica consorte2.
Akane: Consorte2? Non sarebbe più facile chiamarmi Akane?
Bisnonna di Shanpu: Un grande saggio ha consegnato me questa lettera per voi.
Ranma: Che grande saggio?
Bisnonna di Shanpu: Io non sapere. Io era in trance quando lui venuto a portarmela.
Akane: E’ folle…
Bisnonna di Shanpu: (dandole una botta in testa) Rispetto!
Akane: AHI!
Ranma: Ma come ti permetti!
Bisnonna di Shanpu: Io va via. Leggi la lettera, mi raccomando! Addio consorti, hahahahahaha!
Ranma: E’ davvero indirizzata a noi…
Akane: Non ci credo, è un invito!
Ranma: Già! Probabilmente a qualche torneo di arti marziali…
Akane: Davvero??? E dov’è?
Ranma: Al palazzo di cristallo di Osaka?
Akane: Dove scusa?
Ranma: C’è scritto qui. Non so che follia sia…
Happosai: Non è una follia! Ciao Akane, come sei bella…
Akane: Non ci provi…
Ranma: Che significa non è una follia?
Happosai: Narra la leggenda che i due giovani discendenti della famiglia Tendo-Saotome verranno chiamati in causa a combattere per il loro amore in un palazzo argentato!
Akane: Ma che follie…
Happosai: Non essere scettica, ragazza! Dovreste andarci!
Ranma & Akane: NO!
Lisachan: E invece si!
Ranma: Cosa? L’autrice!
Akane: Wow, come ha fatto?
Lisachan: Non sono fatti vostri! In ogni caso dovete andare a questo maledetto raduno al palazzo di cristallo di Osaka!
Ranma: Perché?
Lisachan: Perché così ho deciso! Non potete bloccare la storia per un capriccio! Forza e coraggio!
Happosai: All’arrembaggio!
Lisachan: Giù le mani pervertito! Và via!
Happosai: Ok…
Lisachan: Siamo chiari??? O devo ripetere?
Akane: No, no non si preoccupi…
Lisachan: Tzè…(scompaio)
Happosai: Vado anch’io…aspetti autrice! (Esce dalla finestra)
Akane: Allora?
Ranma: Allora? Non si può dire di no all’autrice…

7° capitolo


(Precisazioni dell’autrice. Ho deciso di mettere ora un’altra coppia sballata. Probabilmente verrò uccisa alla fine di questo capitolo. Metterò infatti insieme Asuka e Shinji di Evangelion! Yes…mi stanno già sparando. Perdono…).
Base NERV, Neo-Tokyo 3.
Asuka: E no invece!
Shinji: Ma perché…
Asuka: Perché tu in confronto a me sei una nullità!
Shinji: Ma, Asuka…
Asuka: Niente ma! Non andrai a combattere contro quell’angelo!
Shinji: Dì la verità: sei gelosa del fatto che vogliono mandarmi con Ayanami e non con te…
Asuka: CHE COOOOOOOOSA??? Io gelosa della bambola??? Non proverebbe niente neanche se le facessi uno spogliarello nell’entry plug!
Shinji: Allora perché fai così? Uffa…
Asuka: Dannazione a te Ikari…lo vuoi proprio detto? Non sopporto l’idea di lasciarti solo con Ayanami! Ok? Ti senti realizzato?
Shinji: Vuoi la verità? Si…
Rei: Allora, mi devo preparare?
Misato: Non ce ne sarà bisogno Rei, va Asuka con Shinji.
Rei: Allora io vado…
Asuka: Preparatemi lo 02, sta arrivando la grande Asuka!
Shinji: Soryu, non ti dare troppe arie…
Asuka: Silenzio tu!
Lisachan: La trasmissione è momentaneamente interrotta per mancanza di protagonisti: Asuka e Shinji sono sugli EVA e combattono, Misato e Ritsuko sono al comando delle operazioni, il comandante Ikari e Rei sono spariti chissà dove (non oso immaginare…) e gli altri sono tutti nei rifugi. Oh, la battaglia è finita, riprendiamo lo show.
Asuka: (Spingendo via me) Via autrice insignificante! Fate largo alla grande Asuka! È stato solo merito mio se abbiamo vinto la battaglia!
Shinji: Ma Asuka…IO ho aperto l’AT-Field dell’angelo…
Asuka: Ma io l’ho ucciso con il mio Prog Knife!
Misato: Quando la smetterete di litigare, io potrò darvi il telegramma che è arrivato per voi.
Asuka & Shinji: Ciao Misato!
Asuka: Che telegramma?
Misato: Asuka Soryu Langley e Shinji Ikari sono invitati alla festa del palazzo di cristallo città Osaka. Stop. Si prega di raggiungerci nel fine settimana. Stop.
Asuka: WOW! Evvai! Si sono accorti tutti di noi!
Shinji: In che senso?
Asuka: Sarà sicuramente una festa di V.I.P!
Shinji: Dio mio Asuka…
Asuka: Che vuoi?
Shinji: Niente, scusa…
Asuka: Non chiedere sempre scusa, lo odio…
Misato: Io vi lascio, ok? Così potrete discuterne in pace.
Asuka & Shinji: Va bene.
Asuka: Dobbiamo andarci.
Shinji: Lo pensi sul serio?
Asuka: Ma certo! Ci divertiremo un sacco!
Shinji: Divertirci?
Asuka: Certo! Conosci il significato di questa parola? Penso di si, visto che la notte quasi non dormiamo per “divertirci”…
Shinji: Non parlare di queste cose in pubblico!
Asuka: Ma se non c’è nessuno!
Shinji: Ti prego…
Asuka: Dai, non dirmi che ti vergogni?
Shinji: …
Asuka: Non parlare! Un silenzio è più importante di mille parole. Ho capito che ti vergogni. È perché non vuoi che si sappia in giro che facciamo certe cose. Forse preferiresti farle con Ayanami?
Shinji: Ma no Asuka! Lo sai che non è così!
Asuka: Dì la verità: a cosa pensi mentre lo facciamo? Ad Ayanami? O *peggio* a Misato???
Shinji: Asuka, ma dai…
Asuka: Maledizione a te Ikari! Ti detesto!
Shinji: Asuka…(dolcemente la bacia)…Non penso a nessuno oltre che a te…
Asuka: (dolcemente) Shinji…(riprende il suo normale tono di voce) Così mi piaci Ikari! Devi essere più uomo.
Shinji: Per farti contenta andremo anche alla festa nel weekend.
Asuka: Davvero??? Grazie! Tu mi vizi...e non mi dispiace…
Shinji: Certo che non ti dispiace essere viziata…però dovresti viziarmi un po’ anche tu…in fondo siamo soli, no?
Asuka: Sei un po’ troppo audace Ikari…in fondo non sono abituata a farlo sulla tastiera dei comandi della NERV…
Shinji: Potremmo causare il Fourth Impact…ma sarebbe comunque molto piacevole…
Asuka: Riesci sempre a convincermi…
CENSURACENSURACENSURACENSURACENSURACENSURACENSURACENSURA……...
Lisachan: Siamo costretti a interrompere di nuovo tutto per eccessivo…come dire…insomma ci hanno imposto il V.M.18 Arrivederci.

8° capitolo.


(Precisazioni dell’autrice. Il capitolo che segue è dedicato a…vediamo…ah, si! Altra coppia sballatissima per cui verrò lapidata per l’ennesima volta. Spike e Faye di Cowboy Bebop! Però so che non è poi tanto sballata, perché c’è molta gente che odia Julia e li vedrebbe volentieri insieme…).
Marte.
Faye: Maledizione, con che coraggio si mette una taglia sulla testa di qualcuno per poi toglierla il giorno prima che un cacciatore bisognoso di denaro porti il ricercato alla polizia!
Spike: (Dalla radio) Faye, ti andata buca anche questa volta?
Faye: Dannazione, non è stata colpa mia! Quando sono riuscita a catturare Jack lo Squartatore e l’ho portato qui alla centrale mi hanno detto che hanno tolto la taglia ieri!
Spike: (Con tono strafottente) Accidenti, bella sfiga…adesso mi toccherà uscire per andare a rimediare i soldi per la cena…Ed, cercami qualche bel ricercato! Io vado gioia, ci vediamo alla Bebop!
Astronave Bebop.
Faye: (Spalancando le porte della Bebop come una furia) Dov’è quell’idiota!?!?
Jet: Ti riferisci a Spike?
Faye: Certo! Che altro può essere l’idiota che sta al centro dei miei pensieri!?!
Jet: Pensiero carino. Glielo dirò che lo pensi sempre…
Faye: DOV’E’?!?!
Jet: E’ uscito una mezz’oretta fa, dopo che ti ha chiamato alla radio…
Faye: Idiota…
Lisachan: Siccome non posso stare qui a raccontarvi per filo e per segno tutti i discorsi di Jet e Faye fino all’arrivo di Spike, passiamo subito all’apparizione del nostro eroe!
Jet: E scusa, la mia parte finisce qui???
Ed: Ed è molto delusa…volevo apparire anch’io…
Lisachan: Mi piacerebbe, ma i soldi non mi bastano e la Dynamic non mi ha permesso di comprare i tuoi diritti Ed…
Jet: E per quanto riguarda me?
Lisachan: Per te i soldi mi sono bastati a comprare i diritti per 3 battute…hey, ma quanto state parlando??? Non posso farvi parlare! Via!!!
Ed & Jet: Uffa…(vanno via)…
Lisachan: Dicevo…orologio del tempo due ore avanti ed arrivo di Spike!
Spike: Sono tornato!
Faye: Ah, ecco l’idiota!
Spike: Che succede Faye, sei più isterica del solito!
Faye: Ma come ti permetti??? Senti ragazzo, non mi piaceva il tono che hai usato con me alla radio! Mi stavi prendendo in giro???
Spike: (Con lo stesso tono che aveva alla radio) Ma no! Figurati…
Faye: Grrrrrrrrr…io ti uccido!
Spike: Apprezzo le buone intenzioni, ma non ci riusciresti! Sono cintura nera…
Faye: (Con le lacrime agli occhi per la rabbia) Perché hai il dannatissimo potere di farmi andare in bestia!?! Ti odio!!! (Corre via in un’altra stanza).
Spike: Ma…Faye…che reazione esagerata…
Lisachan: Nel frattempo, nell’altra stanza…
Faye: Spike… ma perché…
Spike: (Che appare dietro di lei) Scusa…
Faye: (Saltando in piedi per lo spavento) Spike, che ci fai qui!
Spike: Ti ho chiesto scusa, che c’è sei sorda?
Faye: No, ho sentito…scuse accettate…
Spike: Bene…perché volevo parlarti di una cosa: mi hanno dato un invito oggi.
Faye: Un invito? Chi te l’ha dato?
Spike: Un ragazzo me l’ha messo in mano, a dirla tutta. E poi è corso via.
Faye: Wow, adoro questa componente misteriosa…
Spike: Ci invitano in una città sulla Terra, Osaka. Al palazzo di cristallo.
Faye: La Terra è un pianeta malfamato e pericoloso…potremmo anche trovarci qualche bel ricercato succulento…no?
Spike: Hai ragione…Perciò ti farai bella ed andremo a questa festa sulla Terra…
Faye: Io non ho bisogno di FARMI bella, io lo sono già!
Spike: Ma perché ti vengono queste manie di grandezza…
Faye: Manie di grandezza???
Spike: Si! Un momento sei dolcissima e così bella che mi cominciano a venire pensieri osceni, e il momento dopo diventi insopportabilmente narcisista! Ti credi bellissima, vero? Cioè, lo sei, ma non significa…
Faye: Hahahahahahahaha…
Spike: Che c’è?
Faye: Non ti rendi conto che non smetti un attimo di farmi complimenti, anche quando mi stai rimproverando?
Spike: Cosa? Ah, diavolo…
Faye: (Si avvicina e lo bacia. Lui naturalmente ricambia perché non è scemo…) Cercherò di essere meno odiosa…va bene?
Spike: Oh, cavolo. Non ti scambierei per niente al mondo…forse non ti amerei così se avessi un altro carattere…
Faye: Stai cercando forse di dirmi quelle due paroline magiche, cacciatore di taglie?
Spike: Avanti, lo sai che dopo la faccenda di... di chi sai tu…mi viene difficile dire quella cosa a qualcuno!
Faye: Non riesci nemmeno a nominare più Julia? Ti brucia ancora così tanto?
Spike: Bè, lei è stata il mio primo amore…non potrà mai bruciarmi di meno…
Faye: Ah, davvero? Allora non dirai più a nessuno che lo ami? Nemmeno…
Spike:…
Faye: Nemmeno a me?
Spike:…io…oh, al diavolo…io ti amo, Faye…
Faye: Lo sapevo…(sorriso dolce e bacio finale…quanto sono carini…).

Genere: Introspettivo.
Pairing: Sana/Akito, Sana/Naozumi, Akito/Fuka.
Rating: PG-13
AVVISI: Flashfic.
- "Akito e Fuka, così come Sana e Naozumi, stanno insieme per pigrizia."
Commento dell'autrice: Ho scritto questa storia perché stavo rileggendo un'altra storia che ho scritto su Kodocha secoli fa (uno dei numerosi motivi per cui mai e poi mai mi si dovrebbe togliere internet, perché poi nella noia finisco sempre a rileggere vecchia roba, e ciò è poco salutare) ed ho sentito il bisogno di fare questo "appunto", se così si può dire o.o Non saprei nemmeno dire cosa sia. E' una roba. XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LA DESCRIZIONE DI UN ATTIMO


Akito e Fuka, così come Sana e Naozumi, stanno insieme per pigrizia. Il piccolo mondo che avevano creato in quattro, da ragazzini, non ha mai allargato i suoi orizzonti soltanto perché loro in realtà non hanno mai voluto prendersi la briga di spingerne i confini perché potessero fare spazio a più gente. Nuove conoscenze, nuovi amori, nuovi amici – niente di tutto questo ha mai turbato la perfezione assoluta del loro quartetto, e questo è stato possibile solo perché nessuno di loro quattro ha mai permesso ad elementi esterni di intrufolarsi fra i meccanismi perfettamente oliati e funzionanti della loro strana relazione quadrangolare.
Akito e Sana non sono mai stati compatibili, e Fuka e Naozumi non si sono mai piaciuti davvero. Nessuno di loro è amico di nessun altro, perché Sana e Akito sono innamorati e Fuka e Naozumi sono indifferenti. Fuka e Sana non sono amiche, o almeno non lo sono più da molto tempo, ed Akito e Naozumi si odiano. Akito e Fuka stanno insieme, ma non sono innamorati l’uno dell’altra. Naozumi e Sana stanno insieme, e se pure un tempo Naozumi potesse dire di essere innamorato di Sana fino a poter dare la vita, per lei, ormai quell’affetto si ritrova sepolto sotto anni di noia e di disinteresse profondo.
Akito e Fuka, così come Sana e Naozumi, stanno insieme perché è più comodo così. Perché se Akito e Sana fossero liberi, non farebbero che rincorrersi, e poi amarsi, e poi odiarsi, e poi allontanarsi, solo per ricominciare a rincorrersi un’altra volta. Ed anche perché se Fuka e Naozumi non stessero con loro, sarebbero così disperatamente soli da impazzire. Forse, un tempo, anni e anni prima, avrebbero potuto staccarsi da loro e costruirsi una vita propria, indipendente. Adesso, probabilmente sarebbero sposati e con famiglie da amare, ma non sono stati abbastanza furbi, e così ora tutto ciò che Fuka ha è Akito e l’odio che prova per Sana, così come Naozumi ha solo Sana e l’odio che prova per Akito.
Akito e Fuka, così come Sana e Naozumi, sanno perfettamente cosa accade quando si rivedono tutti e quattro insieme. Sana ed Akito attendono quei momenti con tale ansia che alle volte entrambi hanno come l’impressione di non riuscire più nemmeno a gonfiare i polmoni per respirare, e Fuka e Naozumi sanno che in quelle occasioni devono abbassare il capo, mordersi la lingua e inghiottire rabbia e frustrazione assieme alle lacrime. Sanno che è il loro pedaggio, che devono pagarlo per ritrovare poi la sicurezza di una casa condivisa con qualcuno quando gli incontri finiscono, e si rimanda tutto alla volta successiva.
Akito e Fuka, così come Sana e Naozumi, non hanno una vita. Sopravvivono in attesa di un attimo che scaldi loro il cuore.
La maggior parte delle volte, l’attimo non arriva nemmeno.
Genere: Introspettivo, Triste, Drammatico.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13
AVVISI: What if?.
- Asako Kurumi ha sedici anni ed ha appena lasciato il suo ragazzo. Akito Hayama ha sette anni, ed è da quando è nato che viene lasciato da tutti. Un incontro mai avvenuto, nel manga, ma che mi ha fatto piacere raccontare.
Commento dell'autrice: Dunque, questa storia è un piccolo miracolo XD Non per la sua qualità, assolutamente, quella la lascerò giudicare a chi di dovere. È un miracolo il fatto che sia nata, che io sia riuscita a scriverla XD Ho scritto tanto, su Kodocha. E quando si è presentata la possibilità del concorso, malgrado desiderassi intensamente partecipare, dal momento che è una serie che amo profondamente, mi sono accorta che mi mancavano le cose da dire. Sui rapporti che legano Sana, Akito, Fuka e Naozumi, che sono un po’ il fulcro del manga – naturalmente, essendo lui uno shoujo XD – ho già speso fin troppi fiumi di parole, tra shots varie e AU. Avevo semplicemente detto tutto quello che dovevo dire su di loro. E quindi sono entrata in crisi XD trovandomi piena di voglia di scrivere su Kodocha ma non sapendo di cosa parlare.
Poi, il miracolo :O! Ascolto per puro caso, grazie a un anime music video su Elfen Lied, una splendida quanto triste canzone di Pat Benetar, “Hell is for children” (di cui consiglio la lettura del testo e magari anche l’ascolto *.*), che parla di maltrattamenti ai danni dei bambini. Questa canzone mi ha fatto pensare ad Akito, e lì è scattata una scintilla. Dalla quale poi è nata questa storia ^^
La scelta della protagonista femminile XD Sì, è Asako Kurumi, l’Asako Kurumi che tutti noi conosciamo :) Tengo a precisare che la Obana non ha mai parlato di un incontro simile, me lo sono assolutamente inventato, di sana pianta. D’altronde, però, i tempi coincidono *-* E mi sembrava interessante accostare un personaggio fragile e desideroso di occuparsi di qualcuno come Asako a una vittima delle sue sfortune che, invece, ha un disperato bisogno che qualcuno si occupi di lui, come Akito. Ecco tutto ^^
Nota: Questa fanfiction ha partecipato al ventiduesimo concorso dell'EFP.
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HELL IS FOR CHILDREN


Love and pain become one and the same
In the eyes of a wounded child
Hell is for children – Pat Benetar


Il bambino continuava a fare dondolare le gambe giù dal muretto da molto tempo. Lei lo osservava di sottecchi da almeno mezz’ora, ma aveva come l’impressione che lui fosse lì già da molto prima che lei cominciasse a guardarlo. Forse perché sembrava triste, e quando vedi una persona triste la immagini anche immobile. Immobile nel tempo.
Cercò di concentrarsi sul libro che stava leggendo.
La panchina sulla quale sedeva era ancora gelida, e non capiva come fosse possibile. Il parco intorno a lei era tutto un brusio di bambini e genitori, nonostante il cattivo tempo e il vento freddo. Si sentiva sempre una stupida quando andava a leggere al parco di domenica. Non riusciva mai a seguire una parola, e una volta tornata a casa doveva ricominciare a leggere esattamente da dove s’era interrotta la sera prima.
Le sembrava un po’ di sprecare tempo.
Ma passava già abbastanza ore chiusa in casa, quando non era impegnata con le riprese o con la scuola che ancora saltuariamente frequentava, per non concedersi quella boccata d’aria aperta e libera una volta a settimana.
Sollevò lo sguardo. Il bambino era ancora lì. Le manine si reggevano strettissime ai mattoni, e le gambette continuavano a vagare nel vuoto, sbattendo alternativamente al muro per poi tornare a sbilanciarsi in avanti, inquiete.
- Akito! – chiamò qualcuno da lontano, e il bambino s’illuminò in volto, sollevando lo sguardo, guardandosi intorno alla ricerca di chi l’aveva chiamato.
Ma non chiamavano lui. Chiamavano un altro Akito. Un Akito che stava scivolando allegramente giù da un gonfiabile colorato.
Quando lo capì, il bambino ritornò a guardare il movimento dei suoi piedi, gli occhi spenti e l’espressione vacua.
Quella vista le strinse il cuore.
Si alzò, seguendo un improvviso moto di spirito, ma appena fu in piedi e guardò di nuovo il bambino si sentì una perfetta idiota. Che aveva intenzione di fare? Andare lì e attaccare discorso con un bambino che avrebbe potuto avere sì e no, quanto, dieci anni o forse meno? Sì, e magari farlo scappare via terrorizzato.
Si sedette di nuovo, affondando gli occhi nel libro a una pagina qualsiasi. Poco importava. Tanto non sarebbe riuscita a capire niente comunque.
Il bambino scese con un salto giù dal muretto e si avvicinò a una donna che stava facendo giocare dei bambini nella piscinetta di sabbia.
- Signora, che ore sono? – chiese con una vocetta infreddolita ma salda.
- Le sei e mezzo. – rispose lei cordialmente, - Stai aspettando i tuoi genitori?
Il bambino annuì.
- Ti va di giocare coi miei figli, mentre aspetti? È pericoloso stare lì tutto da solo…
Il bambino scosse il capo.
- Papà vuole che aspetto lì. Grazie, signora.
Salutò la donna con un cenno del capo da bambino educato e tornò ad appollaiarsi sul muretto, stringendosi nel cappottino grigio e calcandosi il berretto sulla testa.
Tra uno sguardo falsamente distratto e l’altro, passò un’ora.
Alle sette e mezza, il gelo s’era fatto così insistente che perfino i più stoici cultori della domenica al parco coi bambini s’erano dileguati, salvando i loro figli da raffreddore certo. E il bambino stava ancora lì. Aveva smesso di provare a guardarsi intorno, aveva smesso di far dondolare le gambe, stava solo immobile, tutto raggomitolato su sé stesso, e non tremava nemmeno.
Chiuse il libro, stavolta fermamente intenzionata a cercare di parlargli o qualcosa di simile, ma il bambino fu più veloce di lei: con uno scatto fu a terra, e cominciò a muoversi a piccoli passi verso l’uscita del parco.
Lei gli corse dietro.
- Ehi, Akito! Akito-kun!
Il bambino si voltò, un po’ disorientato, cercando di individuarla. Quando la vide correre e sbracciarsi verso di lui si fermò, aspettandola.
- Stai andando a casa?
Annuì.
- Tutto da solo?
Annuì ancora.
- Forse è meglio se ti accompagno, non credi? È molto tardi…
Il bambino la guardò, interdetto, per molti secondi.
- Signorina, tu chi sei?
Lei ridacchiò.
- Hai ragione, non mi sono presentata… mi chiamo Asako. Piacere! – disse sorridendo, porgendogli una mano.
Lui la strinse un po’ debolmente, ancora stupito.
- E tu sei Akito-kun, no?
Il bambino annuì ancora, come se quello fosse l’unico modo che conoscesse per dire “sì”.
- Ma tu come lo sai, signorina?
Sorrise, un po’ imbarazzata.
- Prima hanno chiamato “Akito” e tu ti sei voltato… ho fatto due più due.
Akito la guardò fissa. Poi le puntò un dito contro.
- Mi stavi spiando, signorina?
- Eh? Ma no, che dici?! – protestò lei, agitando una mano, - Mi sono distratta un attimo e casualmente ti ho visto…
- E ora mi vuoi accompagnare a casa casualmente, signorina?
- Che bambino impertinente sei! – si lamentò, un po’ offesa, - Sono più grande di te, sai? Dovresti portarmi più rispetto!
Non si può certo dire che fino a quel momento Akito avesse sorriso, ma dopo le sue parole, se possibile, s’incupì ancora di più.
Annuì e ricominciò a camminare, troppo velocemente per non far pensare stesse scappando da lei. Si sentì colpevole. Se gli fosse successo qualcosa probabilmente non avrebbe mai potuto perdonarselo.
- Aspetta, Akito-kun! – disse, correndogli dietro, - Scusami! Sono stata scortese! Tu neanche mi conosci, non posso pretendere rispetto da te. Giusto? – sorrise, piegandosi sulle ginocchia per poterlo osservare in viso più da vicino, - Però vorrei davvero accompagnarti a casa, posso?
Lui la fissò, dubbioso. Non sembrava intenzionato a concederle fiducia.
- Avanti! Guarda che è davvero pericoloso, per strada è già buio…
Il bambino sospirò.
- Va bene, Asako-san. – si limitò a dire, riprendendo il cammino. Lei lo seguì, affiancandoglisi.
- Allora, - cominciò, dimezzando l’ampiezza dei propri passi per non superarlo troppo in fretta, - che ci facevi al parco tutto solo?
- Aspettavo papà.
- Oh… e come mai non è venuto? Ha avuto un contrattempo…?
Il bambino scrollò le spalle.
- Io ho detto che aspettavo. – disse atono, - Non che veniva.
Asako rabbrividì.
- …non capisco…
- E’ che aspettare a casa mi stufa. Quindi lo aspetto al parco. Anche se non viene.
- …ah… capisco… - mormorò, ancora un po’ confusa, osservandolo mentre camminava a passo svelto, fissando dritto davanti a sé, come se nulla potesse importargli veramente.
- E… la tua mamma?
Domanda azzardata. Lo sapeva. Di solito, quando un bambino così piccolo parla prima di suo padre, vuol dire che la mamma non ce l’ha affatto.
- Non c’è più.
Ecco, appunto.
Sapeva che delle scuse sarebbero state inutili.
- E vivi solo col papà?
Il bambino scosse il capo.
- Anche con nee-san.
- Ah, bene! – disse lei, sollevata, - Allora non stai solo tutto il giorno!
Lui scrollò nuovamente le spalle, guardando un punto imprecisato sull’asfalto.
- E senti… la tua nee-san è molto impegnata? Si prende cura di te?
Akito sollevò lo sguardo, rallentando il passo.
- Che vuol dire?
Asako rabbrividì, di nuovo.
- Vuol dire… passa molto tempo con te?
- Non molto. Lei ha la scuola di pomeriggio. E poi esce anche con gli amici suoi. Torna di sera.
Quindi alla fine sì, stava tutto il giorno da solo.
Un bambino di dieci anni. Senza madre. Tutto il giorno.
- E tu non hai amichetti con cui puoi stare?
- Asako-san, guarda che io non ho “amichetti”… quella è una cosa da femmine.
Rise.
- E’ vero, scusa… allora, non ci sono dei bambini con cui giochi?
- A scuola sì. Però poi loro se ne tornano a casa. E pure io.
- Ah, capisco…
Avrebbe voluto chiederglielo. Se non soffrisse la solitudine. Se per caso non fosse triste, o arrabbiato, a volte. Se non si sentisse abbandonato. Come cavolo facesse a vivere tutto da solo, a prepararsi da mangiare, a fare i compiti, tutto.
Lo guardò.
Sembrava così assurdamente stabile, con la postura eretta, le piccole mani strette a pugno per ripararsi dal freddo e quel cappottino che lo stringeva goffamente facendolo sembrare un po’ cicciotto. E poi sembrava così fragile, anche. Con le sopracciglia corrucciate e la piccola bocca serrata e mai sorridente.
E Dio sapeva se lei non aveva bisogno di prendersi cura di qualcuno, da quando non stava più con Rei.
- Akito-kun, ma tu stai bene? – chiese, quasi soprapensiero, stupendosi da sola della stupidità della domanda. Era ovvio che non stesse bene. Era ovvio che peggio di così non avrebbe mai potuto stare.
- Sì. – rispose lui, annuendo tranquillamente, - Sono abituato.
Questo le diede qualcosa di molto simile a un colpo di grazia.
Ok, lei adesso era sola. Ok, non stava più con Rei e la cosa le faceva male.
Ma quel bambino stava solo da sempre ed era… era semplicemente ingiusto, e basta, che altro aggettivo avrebbe potuto usare?
D’improvviso, Akito si fermò di fronte a una casetta apparentemente adorabile e dalle finestre illuminate.
- Asako-san, io sono arrivato…
- Ah… abiti qui, quindi?
- Sì. Grazie. – disse con un piccolo inchino.
Sì, era decisamente educato.
- Va bene, allora ciao. – lo salutò lei, sorridendo, - Aspetto che entri e vado via, ok?
Lui si agitò.
- No, vai. Grazie. – mormorò, guardandosi la punta dei piedi e tormentandosi le mani.
Non era prudente andare via e lasciarlo solo lì, ma era sicuro che quel bambino non avrebbe fatto una mossa se prima lei non se ne fosse andata.
Annuì e gli scompigliò i capelli con una mano. Poi si allontanò, nascondendosi dietro un angolo.
Akito si guardò intorno a lungo, prima di dirigersi finalmente verso la porta di casa sua e suonare il campanello. E rimase in attesa altrettanto a lungo prima che qualcuno andasse ad aprirgli.
- Akito! Sei tu! – gridò una ragazza dai corti capelli castani, ostruendo l’entrata al bambino, - Quante volte devo dirti che puoi anche fare a meno di tornare a casa?
Il bambino rimase in silenzio a subire.
- Che c’è, avevi fame?! Certo, figurarsi! Non ci sei mai quando c’è da aiutarmi con le faccende di casa, ma quando hai fame…!
La ragazza si prese un attimo di pausa, osservando il bimbo con occhi gonfi di rabbia.
- Aspetta qui, - concluse poco dopo, tra i denti, - non ti muovere.
E il bambino aspettò e non si mosse, mentre sua sorella scompariva in casa e poi tornava indietro e gli lanciava addosso qualche monetina. Proprio così, dritta in faccia.
- Tieni, usa questi e vai a mangiare da qualche parte! Non provare a tornare qui finché sono ancora sveglia! Non ti voglio vedere! – concluse urlando e lanciandogli addosso anche le chiavi di casa. Poi chiuse la porta.
Akito rimase immobile, incerto sul da farsi. Poi, lentamente, cominciò a camminare, allontanandosi dalla casa.
Semplicemente, lei non poteva sopportarlo. Aveva sedici anni, va bene, e viveva sola, va bene lo stesso, e probabilmente non avrebbe saputo affatto prendersi cura di un bambino così piccolo, dargli tutto ciò di cui aveva bisogno eccetera eccetera, ma… qualcosa doveva fare. Doveva, assolutamente.
Uscì dal suo nascondiglio e gli si parò di fronte, sorridendo imbarazzata con un’espressione stupida stampata sul volto. Akito la guardò attonito, cercando di capire cosa ci facesse lì dal momento che le aveva detto di andare via.
- Eh… sono tornata indietro perché… mi sono dimenticata di dirti… che volevo invitarti a cena! – inventò, sperando che lui ci cascasse.
Lui la guardò ancora un po’ con quegli occhioni spalancati e le labbra dischiuse in segno di stupore.
Era la prima espressione vera che gli vedeva sul viso da quando l’aveva incontrato. Si sentì felice di esserne la causa.
- Allora? Vuoi venire a casa mia? – chiese, cercando di essere il più rassicurante possibile.
Il bambino chinò lo sguardo sulla piccola mano aperta che reggeva i soldi e le chiavi. Asako fu sicura di vedergli balenare una lacrima fra le ciglia. Poi tornò a guardarla, stringendo la mano e infilandosela in tasca.
- Grazie, Asako-san. – disse, sorridendo così lievemente che quasi lei non se ne accorse, - Voglio venire.
Poi, un po’ impacciato, tirò fuori dalla tasca la mano ormai vuota e gliela porse. Lei la afferrò quasi con urgenza, commossa com’era, e la strinse dolcemente.
Erano entrambe congelate. Ma si sarebbero scaldate nel tragitto fino al suo appartamento.
*

Ok, aveva fatto l’eroina senza macchia e senza paura e aveva salvato il bambino dalla furia della pazza sorella cattiva. Poteva essere fiera di sé stessa.
Il problema principale ora rimaneva: cosa diavolo doveva dargli da mangiare?
Sospirando, lo fece accomodare su una sedia in cucina e si diede alla ricerca frenetica di qualcosa che ricordasse anche vagamente del cibo sano, fra le migliaia di scatolette di carne dall’aria gelatinosa che conservava negli stipetti da… secoli, più o meno.
Trovò solo del marshmallow.
Santo cielo.
Bella idea aveva avuto, di improvvisarsi tutrice senza neanche sapere cosa avesse in casa – o in che condizioni fosse il suo appartamento, dal momento che non aveva neanche passato lo straccio da quando Rei era andato via.
Si sedette accanto ad Akito, poggiando il pacchetto di dolci sul tavolo davanti a lui.
- Serviti pure… - disse con un sospiro, vergognandosi profondamente di sé stessa.
Akito guardò il pacco e le caramelle gommose con non poca insicurezza.
- Asako-san, cosa sono queste cose?
- …eh? – mormorò lei, incredula, - Marshmallow… non li conosci…?
Akito scosse il capo.
- Ma dai… scherzi? Sono buoni! Buonissimi! Assaggiali! – suggerì, con eccessivo entusiasmo, sollevata.
Akito allungò una mano verso il pacchetto e, un po’ titubante, afferrò un marshmallow, infilandoselo in bocca quasi subito. Doveva avere fame.
Poi si commosse.
- E’… dolce… - sussurrò, ancora masticando, guardandola con enorme gratitudine negli occhi.
Lei ridacchiò.
- Sì, in realtà non dovrebbe andare bene per una cena…
- Non fa niente… è dolce…
Continuò a mangiare fino a finire il pacchetto.
Lei lo guardò per tutto il tempo.
Tutto sommato, era divertente averlo in casa. Era come dover badare al fratellino piccolo mentre papà e mamma erano via. Nonostante avesse solo sedici anni, si sentì responsabile del benessere di quel bambino, così come, più tardi, si sentì appagata dal suo lieve sorriso sazio e sereno, una volta che ebbe finito di mangiare e si fu seduto sul divano del salotto a sonnecchiare.
- Se vuoi puoi rimanere qui, stanotte. – gli suggerì, scompigliandogli i capelli, accorgendosi del movimento stanco e pesante delle sue palpebre.
Lui la fissò e le puntò il dito contro come aveva già fatto quella sera al parco.
- Asako-san, non è che sei una pervertita?
- Cosa?! Dove diavolo hai sentito questa parola, Akito-kun?!
Il bambino scrollò le spalle, come fosse un fatto di minima importanza.
- Scusa, ma tu quanti anni hai?
- Sette. – rispose lui seccamente, - Pensavi che ero un bambino piccolo?
- Sei un bambino piccolo. Comunque, non sono una pervertita e non intendo farti niente, se resti. Santo cielo, ma che spiegazioni ti sto dando?! Oh, insomma, fa’ quello che vuoi…
Akito ridacchiò, nascondendo uno sbadiglio.
- Asako-san, ma tu vivi da sola in questa casa?
Annuì.
- Però ho un solo letto, quindi magari ti do il mio e io dormo sul divano…
- Volevo dire, Asako-san, il signore delle foto è tuo marito?
Spalancò gli occhi.
Era vero, non aveva ancora fatto sparire le foto di Rei dai mobili e dalle cornici appese.
Oddio.
In qualche modo, faticando, riuscì a rimediare, tra le pieghe delle sue espressioni passate, un gioviale sorriso di circostanza.
- Akito-kun, io ho solo sedici anni, mi spieghi come potrei essere sposata…?
Il bambino annuì, come se l’impossibilità di sposarsi per un minorenne fosse una cosa del tutto nuova.
- Comunque il “signore” delle foto è solo un ragazzo. Il mio ex-ragazzo, per la precisione.
- …Asako-san, cos’è un ex-ragazzo?
- Come, cos’è un ex-ragazzo?!
- …è… uno che prima era un ragazzo e ora no …? – chiese il bambino, contrapponendo alla sua espressione sconvolta un’altra espressione ugualmente sconvolta.
- Ma no, Akito-kun, non era un ragazzo qualunque, era il mio ragazzo…
- Vuoi dire che eravate fidanzati?
- Eh?! – arrossì, - Adesso non esageriamo! Solo, ci volevamo bene, e siccome, per motivi nostri, vivevamo entrambi soli, ci siamo trasferiti nella stessa casa!
- …
- Sono sfumature, Akito-kun, hanno significati diversi!
Si sentì scema a tentare di spiegare i dettagli delle “sfumature” dei rapporti sentimentali degli adolescenti a un bambino di sette anni, a quell’ora di notte. Era chiaro che lui non ne avrebbe capito niente.
- Be’, - sospirò, stropicciandosi un occhio, - in ogni caso, immagino che se fra noi avesse continuato a funzionare, un giorno l’avrei sposato davvero. Quindi sì, in un certo senso puoi anche dire che fossimo fidanzati.
Il bambino annuì, finalmente soddisfatto dalla spiegazione.
- Adesso a nanna, Akito-kun… domani hai scuola, no?
- Scuola?! Devo andare a scuola anche se resto qua?
- Non sei mica in vacanza! Corri a letto!
Akito abbassò lo sguardo.
- Però, Asako-san… il divano è piccolo per dormirci bene…
- Di che ti preoccupi? Tu vai a letto…
- Dico per te…
Sollevò un sopracciglio e sorrise.
- Akito-kun, non sei un po’ cresciuto per volere ancora dormire coi grandi?
Il bambino arrossì, tornando a guardarla.
- Non è questo! – protestò, agitato, - Dico perché sei stata gentile! Io sono educato!
Rise di gusto, coprendosi la bocca con una mano.
- Sì, è vero… va bene, allora. Dai. Possiamo dormire insieme.
Gli sorrise. Il bambino arrossì lievemente.
Lo prese in braccio per portarlo di sopra, e lui era così leggero e abbandonato che lei sentì il bisogno di stringerlo forte per evitare che scivolasse via.
*

Non sapeva niente di lui, a parte il suo nome e che la sua vita familiare di certo non era fra le più rosee. Quando l’aveva preso in casa s’era preparata ad affrontare di tutto: un bambino difficile, un bambino con gli incubi, un bambino svogliato, un bambino molto triste.
Akito non era nulla di tutto questo. Certo, non era un libro aperto e le loro conversazioni non erano spontanee e naturali, tirargli fuori una parola di bocca spesso era molto più che difficile e tendeva a chiudersi un po’ troppo in sé stesso per avere solo sette anni, ma nel complesso Akito era un bambino gentile, un bambino educato, un bambino collaborativo, un bambino che non si faceva ripetere due volte qualcosa, insomma, un bambino ubbidiente.
E lei non capiva. Non capiva come fosse possibile che un bambino così fosse cresciuto in una famiglia come quella, e poi non capiva come fosse possibile che un padre e una sorella potessero non amare un bambino così, e poi ancora non capiva per quale motivo lui si fidasse tanto di lei, al punto da restare a casa sua non uno, non due, ma ben tre giorni.
E ancora non capiva e si chiedeva come diavolo avrebbe fatto a provvedere a lui. A “tirarlo su”, se la cosa si fosse protratta per le lunghe.
Un bambino per casa. Come una ragazza madre.
Per non parlare poi dei parenti. I suoi e quelli di Akito.
Tre giorni. Tre giorni in bilico, tutto sommato. Sospesi in un’innaturale normalità che imponeva loro, ogni mattina, di alzarsi, fare colazione, sorridere, lavarsi, andare a scuola, al lavoro, tornare a casa, mangiare, fare i compiti, sorridere, fare merenda, sorridere, sorridere, sorridere, guardare tanta televisione, giocare al parco, la sabbia e gli scivoli, sorridere, sorridere, sorridere, tornare a casa di nuovo, e la cena, e la bistecca che dev’essere tagliata sottile, signor macellaio, perché il bambino è piccolo e si stanca a masticare troppo, e poi il dolce dopo cena, il cioccolato piace ad Akito-kun, sorridere, sorridere, sorridere sempre e comunque, ed erano sorrisi veri, nonostante l’incertezza, nonostante un po’ di paura, e la sua solitudine era completamente sparita, come la tristezza, come le foto di Rei, come l’ombra negli occhi di Akito.
Madre e figlio.
Quasi.
E quindi perché non provare? Perché non farlo, un altro passetto in avanti?
Akito-kun era felice, d’altronde. Akito-kun dormiva ancora con lei, e la abbracciava, ed era dolce, caldo e morbido, e così consolante. È così reale. Era una presenza così viva, lì di fianco a lei, che ormai Asako non ricordava più se la prima volta era più lui o lei stessa ad avere voglia – bisogno – di dormire stretto a qualcuno.
Perché non farlo, davvero?
Era quasi pronta a chiederglielo, quasi pronta. Le mancava solo una spinta, una spintarella leggerissima, e gliel’avrebbe chiesto sicuramente, anche se le sembrava assurdo dopo soli tre giorni, e anche se non sapeva come avrebbe fatto a cavarsela, e a mantenere le promesse che gli avrebbe fatto per legarlo a sé, se lui avesse detto sì.
E la spinta poi arrivò, altroché. Uno strattone, un pugno, una carezza stupenda, un piccolo Akito che, sdraiato sul divano, mentre si conciliava il sonno succhiando un bastoncino di cioccolato, con gli occhi semichiusi e un imbambolato quanto piccolo sorriso sul volto, le chiese “Sono in vacanza, mamma?”.
Mamma.
Quasi, quasi, quasi.
- Akito-kun… - lo chiamò, scrollandolo lievemente.
- Mmmh… - mugugnò lui senza muoversi.
- Akito-kun, svegliati dai.
Un po’ stancamente, lui si mosse, mettendosi in ginocchio e stropicciandosi gli occhi, per poi guardarla.
- Sei sveglio?
Annuì.
- Stavi sognando?
Annuì di nuovo.
La voce flebilissima dei suoi movimenti era di una dolcezza unica.
- Cosa sognavi?
Lui scrollò le spalle.
- Non mi ricordo…
- Mi dispiace… - disse lei, - Sorridevi, sai? Doveva essere un bel sogno.
Ancora una volta, il piccolo scrollò le spalle.
- Akito-kun, vuoi restare in vacanza ancora un po’?
Il bambino sembrò rifletterci per un po’, con molta attenzione.
- Che vuol dire? – le chiese, alla fine, incerto.
Lei sospirò.
- Che ne diresti di venire a vivere qui con me… per sempre?
Akito sgranò gli occhi, fissandola come un’aliena.
- Sempre sempre? – chiese, un po’ inebetito, stringendo la presa delle manine sulle ginocchia.
Lei annuì.
- Mi farebbe piacere. – aggiunse poi, allungando una mano ad accarezzargli una guancia, - A te no?
Il bambino tornò a sprofondare nei suoi pensieri, concentrato.
Le labbra strette erano tenere. Le sopracciglia aggrottate erano tenere. I lineamenti del volto tesi di concentrazione e tensione, erano teneri anche loro.
Resta, Akito-kun, resta!
- Asako-san… - disse infine, sospirando tanto profondamente che lei ebbe paura si afflosciasse sul divano, sgonfiandosi e scomparendo, - tu sei troppo buona.
- Eh? Grazie… - rispose lei, con un sorriso imbarazzato.
Ma non è per questo che ti voglio qui.
Resta, resta, resta…

- Però io non posso stare qui sempre.
Eh? Cosa?
- Devo tornare a casa.
- Perché?! – scoppiò, stringendogli una mano, - A casa tua ti trattano male! Non sei stato bene qui con me?
- Sì… però devo tornare da nee-san e da papà…
Si morse il labbro inferiore, cercando di sopire la rabbia e la frustrazione. Senza riuscirci.
- Perché?
Lui si mosse a gattoni verso di lei, e le si accoccolò in grembo.
- Perché loro sono nee-san e papà. Devo tornare da loro.
Non c’era nessun motivo. Nessuno.
- Non capisco… - mormorò, strizzando gli occhi, incapace di trattenere oltre le lacrime.
Il bambino sollevò le braccia, cingendola al collo.
Era lui a consolarla. Sarebbe stato buffo se non fosse stato straziante.
- Sono nee-san e papà. – ripeté Akito in un soffio, - Non capisco nemmeno io bene… però voglio tornare a casa da loro. Li voglio vedere.
Lo strinse a sé, nascondendosi contro di lui.
La consapevolezza di non aver potuto fare niente per alleviare le sofferenze di quel bambino la colpì dritta in faccia, senza pietà. A lui era bastato pochissimo per farle dimenticare Rei. Gli era bastato occuparle la mente con una buona causa e tanta dolcissima ritrosia. Ma lei, lei non era riuscita a cancellare da quegli occhi il ricordo dei suoi parenti in nessun modo.
Debole. E stupida, ad averci sperato, anche.
- Va bene… - annuì, finalmente, scostandosi e sorridendogli rassicurante, le guance ancora rigate di lacrime, - Adesso ti porto a casa.
Lui lanciò uno sguardo spaventato all’orologio appeso al muro dietro di loro, e per un secondo sembrò sul punto di chiederle di restare, almeno per quella notte.
Ma era troppo educato per farlo davvero. E lei aveva troppo bisogno di smettere di vederlo e stringerlo per proporgli una cosa simile.
Lo aiutò a indossare la giacchetta, che era la stessa con la quale era arrivato da lei, e lo accompagnò per mano in strada, metro dopo metro, fino alla porta di casa sua.
Akito le strizzò forte due dita, fissando l’uscio chiuso e le luci spente.
- Asako-san…
- Dimmi.
Cercò di mostrarsi ferma. Akito era spaventato, aveva bisogno di qualcuno che gli confermasse che stava facendo la cosa giusta. Ne aveva bisogno ancor più che di qualcuno che si prendesse cura di lui. Aveva solo la necessità di sentirsi dire “Akito-kun, va bene così, sei un bravo bambino, hai scelto bene”.
E lei glielo disse.
Lui la guardò rapito per qualche secondo, gli occhi offuscati da un velo di lacrime, le guance e il naso rossi per il freddo. Lei sorrise. Gli lasciò la mano. Si allontanò passo dopo passo, mentre lui tirava fuori dalla tasca le chiavi di casa e apriva la porta, continuò ad allontanarsi mentre la sentiva aprirsi e poi richiudersi discretamente, non si voltò neanche una volta, tenne a freno la sua voglia di rapirlo di nuovo e, in silenzio, tornò a casa sua.
Genere: Romantico/Drammatico/Malinconico/Triste
Pairing: Sana/Akito
Rating: PG13
AVVISI: Het, Lime.
- Sana e Akito. Frammenti di convivenza. Frammenti di separazione.
Commento dell'autrice: Accidenti se è stato difficile riprendere in mano Kodocha dopo l’ultima volta XD Personalmente, ritengo questo manga un’opera splendida. Per molti versi, ha segnato la mia vita XD L’ultima volta che ho scritto qualcosa su Kodocha (ed era “Many ways”, quindi neanche tanto tempo fa XD) ero felice come lo ero stata poche volte prima (e anche dopo XD). Allora amavo una persona 9_9 Che amo ancora ma che non sento più XD Non sto bene (e si vede XD), ma passerà. Pensavo sarei stata peggio, comunque. Significa che sto crescendo.
Finora, nelle fic su Kodocha che ho scritto, Sana e Akito erano dei ragazzini (“Brothers…?”) oppure degli adulti che agivano con l’incoscienza e la leggerezza dei ragazzini (“Back to reality”, soprattutto, ma anche la stessa “Many ways”). L’intento di questa fic era che agissero da adulti punto e basta. In verità Akito è molto infantile XD Mi rendo conto che la fic è un po’ episodica e che i pezzettini non sono granché connessi l’uno con l’altro. In realtà ogni pezzettino è un po’ come se fosse un drabble (mini-fic). Per questo, chiedo scusa ^^ ma è così che mi è venuta ç_ç
Scritta in due tempi, abbastanza di getto, ascoltando “Slave to love” di Brian Ferry.
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Slave To Love


Solleva lo sguardo e la vede. Dorme ancora. La luce del sole che entra da fuori – la serranda è aperta – filtra attraverso la tenda rosa e rende rosata anche l’aria. Passa anche attraverso gli animaletti ricamati che decorano il tessuto leggero, proiettandoli sul muro di fronte. Akito solleva una mano e per un attimo il cagnolino scompare. Quando il braccio torna a distendersi sul materasso al suo fianco, il cagnolino ricompare e si confonde con la carta da parati ad elefantini.
Il bambino nascerà fra sei mesi, ma la camera è già pronta. Ci hanno messo un divano-letto perché potrebbe diventare la camera degli ospiti, oltre che quella del bambino, una volta che sarà abbastanza grande da poter dormire da solo – e poi comunque non si sa mai, un lettone di servizio può sempre servire.
La guarda ancora. Si chiede quando si sveglierà e contemporaneamente realizza che non riuscirà mai ad abituarsi alla sua bellezza, né a quel suo sorridere mentre dorme, che lo spiazza sempre e gli rompe il respiro. Ma va bene, perché è una sensazione splendida.
Da quando sa che è incinta, non fa che fantasticare su come sarà il bambino. Sa di essere un bell’uomo, ma vorrebbe che il piccolo, di lui, non avesse niente; vorrebbe che somigliasse tutto a sua madre. Vorrebbe che avesse i suoi occhi nocciola, i suoi capelli chiari e lisci. Vorrebbe che avesse le sue labbra sottili e il suo fisico asciutto. Lo vorrebbe così perché sarebbe come amare Sana di volte, in sua moglie e in suo figlio, però il figlio farebbe anche parte di lui. Non sa spiegarlo, ma sa che sarebbe fantastico.
Si rigira un po’ fra le lenzuola. C’è un buon profumo nell’aria. Lo riconosce, è il profumo di Sana. Vorrebbe che suo figlio avesse lo stesso profumo. Però lo sa, che odorerà di pannolini, latte e creme idratanti.
La cosa non lo disturba più di tanto.
*

- Il momento in cui mi hai chiesto di sposarti, te lo ricordi?
- Ovviamente. Ma ho rimosso i particolari scabrosi.
- Tipo il fatto che eri nudo?
- Quello non è un particolare scabroso.
- E quali sono i particolari scabrosi, allora?
- Ti dico che li ho rimossi. Che mi chiedi?
La osserva sbuffare e guardare fuori dalla finestra con fare annoiato. Sa quanto le piace sentirsi raccontare quel momento. Sospira.
- Tu dovevi partire l’indomani e io ero incazzato.
Lei si volta, sorride splendida. Poggia il mento sulle mani e i gomiti sul tavolo. Lo ascolta con aria sognante.
- Siccome avevamo litigato, per una stronzata, avevi anticipato la partenza. Saresti stata via due settimane invece che una sola. E io lo odiavo. Mi stavo facendo il bagno e cercavo di non pensarci.
- E ci riuscivi?
- No. E poi ad un certo punto mi sono reso conto che mi scocciava da morire che tu te ne andassi in un altro appartamento, a casa tua, per cambiarti, e che non avessi qui il cassetto con la tua biancheria. Così sono uscito dalla vasca e sono venuto in cucina, dove stavi preparando il caffè.
- E poi?
- E poi ti ho detto la prima cosa che mi è passata per la testa.
- Cioè?
Avrebbe potuto mangiarselo di baci, quel sorrisetto di bimba.
- Cioè “mi sposi?”.
Rise allegra. I soliti campanellini della sua voce gli riempirono le orecchie.
- E poi?
- Mi sono accordo che ero nudo e tu ti sei messa a ridere. Come adesso. – dice, dandole un pizzicotto sulla guancia, ma lei non smette. E va bene così.
- E poi?
- Sono scappato via. Però mentre scappavo sono scivolato e sono caduto. E mi sono rotto il naso.
- Avevi detto di avere dimenticato i particolari scabrosi! – dice lei con un’ultima risata cristallina.
Lui sbuffa e non la guarda più. È imbarazzato da morire.
La cosa non lo disturba più di tanto.
*

La pancia è tanto rotonda che quando la guarda riesce a vedere solo lei. Invade tutto il suo campo. Gli fa dimenticare tutte le altre cose.
Ha paura, quando pensa che per tutto il resto della sua vita vorrebbe non vedere altro che Sana e il suo ventre gonfio.
Ha paura, ma la cosa non lo disturba più di tanto.
*

Sana ha un modo ingenuo di fare l’amore. Gli si getta fra le braccia, fiduciosa, ad occhi chiusi e labbra scostate. Non apre gli occhi un secondo, né quando lui la tocca, né quando la penetra, né quando viene, né quando esce; per tutto il tempo, le palpebre abbassate e i lineamenti rilassati la fanno sembrare come in trance.
Anche lui vorrebbe poter andare in trance così, quando lo fanno. Però almeno uno di loro due dovrà pur tenere gli occhi aperti, no? E comunque lui non riuscirebbe mai a smettere di guardarla, sapendo di averla proprio lì davanti a un centimetro.
Potrebbe farle ciò che preferisce. Finisce sempre a fare ciò che sa lei vorrebbe. Inutile dirlo.
La cosa non lo disturba più di tanto.
*

Non ha occhi che per il piccolo. Da quando è nato, quattro mesi fa, la casa è tutto un risuonare di “Nao! Nao!”. Che poi è il suo nome.
Oh, sì. Sana è riuscito a piegarlo, alla fine. Aveva giurato a sé stesso che mai, mai suo figlio avrebbe portato quel nome, neanche se fosse stata l’unica possibilità. Piuttosto lo lasciava innominato.
Ma Sana vince sempre. E Akito non sa per quale motivo lo abbia voluto chiamare Naozumi. Sinceramente, non gli interessa. Non vedono quell’uomo da dieci anni, ormai. Neanche lo sentono più. Sana sembrava averlo completamente rimosso dalla memoria. Evidentemente era solo un’impressione.
Gli scoccia ammetterlo, ma ha sempre avuto una paura assurda di Naozumi. Perché ha sempre saputo che se solo Sana gli avesse dato una possibilità, lui si sarebbe fatto amare follemente, e altrettanto follemente l’avrebbe amata. Akito ringrazia ogni giorno la scarsissima furbizia di sua moglie. Perché sa di non essere il marito perfetto, sa di essere stronzo, cupo, irascibile e prepotente – anche se alla fine vince sempre lei, quante gliene fa passare prima di dichiararla vittoriosa?
Sana non ha occhi che per il bambino.
Che è tutto suo padre, accidenti a lui.
- E’ bello il nostro Nao, vero? Ti somiglia tanto.
Scrolla le spalle.
- Strana concezione hai, del bello.
- Secondo me tu sei bellissimo.
Lo bacia.
Sì, sì, ok, bellissimo. Ma lei lo è di più.
- Sai quanto ho desiderato che venisse così uguale a te?
Non parla, guarda il bebè che dorme tranquillo.
- Sarà come amare due Akito. Te e lui.
Sconvolto, la fissa.
- Scusa. È un ragionamento idiota…
Idiota, sì. Sono idioti tutti e due, allora.
La abbraccia, si sente d’improvviso molto sereno e tranquillo.
E d’improvviso, anche il fatto che si chiami Naozumi, beh, non lo disturba più di tanto.
*

A volte la convivenza gli sembra un’impresa impossibile. Ci sono giorni in cui lui e Sana non fanno che litigare, dalla mattina alla sera. E se anche non urlano, perché non vogliono che il piccolo si spaventi, fanno male anche quelle mezze parole infastidite sibilate tra i denti, accompagnate da un sorriso ironico e triste.
Sana è oscenamente brava a farlo sentire una merda fatta e finita. Seppure lui si renda conto che la maggior parte delle volte che litigano lo fanno perché lei, sbadata com’è, ha sbagliato qualcosa di importante tirandosi addosso i suoi rimproveri, quando la vede infuriata, con gli occhi lucidi e le mani strette a pugno, non può fare a meno di pensare che forse la colpa un pochettino è anche sua. E basta pensare questo per un attimo che comprende che si addosserebbe il peso del mondo se potesse servire a farla sorridere di nuovo.
Per questo, è sempre lui che si prende la colpa di tutto. E ogni litigata finisce con un perdono, sì, ma è sempre lei a perdonarlo.
Siccome sa perfettamente che è uno dei tanti sacrifici che si fanno per amore, e siccome sa altrettanto bene che anche lei si sacrifica in continuazione, la cosa non lo disturba più di tanto.
*

Bene attento a non addormentarsi, scruta la porta con occhi apertissimi e orecchie pienamente ricettive. La casa, senza Sana e Nao, gli sembra talmente vuota da essere inutile.
È scioccante, se ci pensa. Questa sensazione di non valere nulla se non in loro funzione è pericolosa, molto. Perché, cosa dovrebbe fare se per caso fra loro finisse? Se succedesse una disgrazia e si lasciassero? Se per forza di cose dovessero non vedersi più? Se capitasse una di quelle cose assurde che capitano a centinaia di migliaia di persone nel mondo, un’incomprensione, un litigio furioso, un tradimento fortuito, una stronzata qualsiasi, e se poi loro si lasciassero, di lui cosa resterebbe?
Come una macchia nel loro passato, una macchia che farebbero sparire presto, perché loro sono indipendenti. Nao sta crescendo, Sana è cresciuta. Lui invece è rimasto lo stesso, sempre. Dagli anni lontani in cui, diavolo com’era, implorava il suo angelo perché lo tirasse fuori dalla merda, non era cambiato di una virgola. È sempre lì a fare affidamento su di lei, anche solo sulla sua semplice presenza, o su un suo sorriso, per ogni cosa.
E la cosa non l’ha mai disturbato più di tanto, fino ad ora.
*

Sicuramente è stata colpa sua se le cose tra loro sono finite in maniera così schifosa.
Insomma, sapeva perfettamente che, una volta portata a termine la gravidanza e tornata quella di prima, Sana sarebbe tornata al lavoro, e lui avrebbe ricominciato a vederla così raramente da stare male.
Però forse nel suo delirio egoistico aveva sperato che lei, che so, rinunciasse al lavoro per stare sempre con lui e il bambino. Come una bella famiglia felice che non si separa mai. Perché cazzo, lui aveva un estremo bisogno di non separarsi mai da lei.
Lei che non è riuscita a capire. Che l’ha guardato sempre più sconvolta ad ogni nuova assurda scenata, che alla fine ha fatto le valigie e gli ha gridato in faccia che poteva sognarselo di distruggerle l’esistenza in questa maniera, e che poteva sognarsi anche che sarebbe rimasta lì un minuto di più, lasciando che Nao ascoltasse ancora le loro litigate furiose.
Non si è mai sentito solo come adesso che vive nell’appartamento che un tempo era stato di tutti loro, e che ora è vuoto e impolverato.
Ci sono stanze che non apre più. Come ad esempio la loro camera e quella del bambino. Preferisce dormire sul divano, e la sua vita si risolve tutta lì, nel tragitto divano-cesso-cucina-divano e così via daccapo.
Alla fine, almeno su una cosa aveva avuto ragione. Sul fatto che una volta rimasto solo sarebbe stato come morire continuando a vivere – straziante e inevitabile.
Forse perché sta tornando lo stronzo ghiacciato che era un tempo, la cosa non lo disturba più di tanto.
*

- Come hai convinto tua madre a farmi venire qui oggi?
- Non ho avuto bisogno di convincerla. Sai come ragiona lei. È molto aperta. E oggi era il compleanno di Nao, non avrebbe mai potuto impedire al padre di vedere il figlio.
- Mi stai dando un’immagine sentimentale di tua madre che non avrei mai sospettato.
Lei ride. Che risata tetra. Lo disturba, lo disturba moltissimo. Più di tutto il resto. Anzi, è l’unica cosa che lo disturbi veramente: averle fottuto tutte le sue belle risate.
- Tre anni. – dice, e la sua voce è pesante, - Nao si sta facendo grande.
Per lui, “tre anni” vuol dire solo “sono due anni che non mi risvegliò più con te al mio fianco”. Sa che è un pensiero orribile. Non può farci nulla.
Sana gli si avvicina e gli sorride.
- Ti accompagno a casa.
- Ho la macchina.
- Meglio, così dopo mi puoi riportare qui.
La guarda a lungo.
- Non sai quanto sei cambiata.
- Invece lo so perfettamente.
Arrivano all’appartamento, e quando varcano la soglia lei storce il naso.
- Che puzza, Akito! Dalla una lavata, ogni tanto!
- Non ho tempo per queste cose. – conclude spingendola verso il divano a facendola sdraiare.
Sarà la milionesima volta che succede una cosa simile, da quando lei è andata via di casa. Ne hanno già parlato spesso, sa che è solo una scopata, una fra le loro mille scopate, non la prima e di certo non l’ultima; sa che non avrà la benché minima conseguenza, Sana è stata sempre molto chiara con lui; sa che il fatto finiscano sempre così, e così spesso, dipende solo dal fatto che, semplicemente, non possono stare lontani l’uno dall’altra; la qual cosa, chiaramente, non lo disturba affatto.
Genere: Romantico/Drammatico/Triste
Pairing: Sana/Akito, Fuka/Akito, Sana/Naozumi.
Rating: NC-17
AVVISI: Het, Lime.
- Un uomo ed una donna. Nonostante tutto, un amore. Capire che ritrovarsi non è sinonimo di voler tornare insieme.
Commento dell'autrice: Una specie di parto è_é” Ci ho messo circa un mese a scriverla, certi pomeriggi l’ispirazione era tale che veramente afferravo il quadernetto e mi mettevo a scrivere, quasi senza un senso, “il senso glielo do poi, quando trascrivo al pc”, mi dicevo XD Nonostante la tristezza (sì, lo so, è una storia triste per gli Akito/Sana devoted ._. Immaginate me che l’ho scritta ;_______;) mi è piaciuto molto lavorarci. Anche perché era un progetto che mi portavo dietro da… circa un anno O.o, ma che non mi ero mai sentita matura abbastanza per portare a termine. Sono contenta di aver aspettato è_é
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Many Ways


La cosa che più la colpì, appena scesa dal treno, mentre si reggeva il cappello sulla testa per evitare che le venisse strappato via dal vento, fu il biancore assurdo di quella Fuka che, stretta nell’abito corto di lana nera, a collo alto, agitava un braccio per attirare la sua attenzione. Abbagliata da quella visione, rimase immobile, con lo sguardo fintamente perso nel vuoto, e si riscosse solo quando venne accidentalmente colpita da Naozumi che, stancamente, trascinava le valigie giù per gli scalini del vagone.
- Ah, guarda! Matsui è lì che ci aspetta! – disse l’uomo accennando con il mento alla figura lontana.
- Già. – annuì lei, - Ti serve aiuto con le valigie? – chiese, mascherando l’inquietudine con un sorriso.
- Ma scherzi? Vai a salutarla, da quanto tempo non vi vedete?
“Otto anni”, pensò Sana mentre il sorriso le si smorzava sul volto e, quasi inconsciamente, cominciava a camminare.
Venne raggiunta a metà strada, ed immediatamente stretta in un abbraccio tenerissimo ed impaziente, cui rispose con commozione.
- Ben arrivata, Sana… Kamura, anche a te, benvenuto!
Fuka si separò da lei e subito la afferrò per una mano, conducendola verso una macchina poco distante.
Sana non chiese nulla, ma lei rispose lo stesso.
- Akito è rimasto a casa con Yoshi-chan, ci aspetta lì. – disse, non senza imbarazzo.
Sana annuì, digerendo l’informazione, ma Fuka non la guardava e non poté vederla.
***

Lievemente sballottata sul suo sedile, mentre la macchina procedeva incespicando in ogni buca sul suo cammino, si chiese, come sempre in questi casi, che cosa ci facesse lì e come diavolo le fosse saltato in mente di andarci.
Magari solo per voglia di vedere Fuka, dopo tanto tempo. Oppure per rivederli insieme, e farsi definitivamente passare quegli strascichi di sentimento da “tempo che fu” che ogni tanto la assalivano di sorpresa quando Naozumi non era con lei. Forse soltanto perché era incinta e non voleva lasciare nulla di intentato. E cosa questo significasse davvero non lo sapeva neanche lei.
***

Akito era un po’ più magro, rispetto ad otto anni prima. Non aveva più lo stesso aspetto da “padre di famiglia”, ben pasciuto, ed i capelli erano allungati. Somigliava tanto al diciassettenne della sua prima volta…
Sana scacciò i pensieri dalla testa, sbattendo le palpebre, e sorrise.
- Ciao, Akito! – disse agitando una mano con un gesto infantile. La reazione dell’uomo fu calma.
- Ciao. – disse sollevando anche lui una mano, ma senza muoverla.
- Bè? Tutto qui? Non ci vediamo da otto anni ed è tutto quello che mi dici? – sbottò lei incrociando le braccia.
- Ciao signorina egoista, va meglio?
Sia a Naozumi che a Fuka si gelò il sangue nelle vene; perché quell’espressione d’astio? Cosa era successo? Cosa voleva dire? Erano tutti terrorizzati, ma Sana no, perché a lei era riuscito di rivedere, negli occhi del trentasettenne che la prendeva in giro, quelli del diciannovenne che per poco non le chiedeva di sposarlo, e scoppiò a ridere. Un riso un po’ amaro, ma sempre suo, sempre di Sana, che contagiò tutti.
Attirato dal fragore delle risate, un biondino dal viso pulito e molto innocente fece capolino dallo stipite della porta, senza permettersi di oltrepassare la soglia.
- Tesoro! – disse Fuka accorgendosi di lui, - Vieni, vieni! Tu non te li ricordi, ma questi sono zia Sana e zio Nao! Vieni qui a salutarli!
Nel sentirsi presentata come zia, Sana dimenticò i ricordi dei diciannove e tornò repentinamente ai trentatrè. Si sentì vecchia – vecchia? Sì, vecchia - piena di rimpianti, e si odiò. Poi si ricompose, tornò sé stessa e smise di ridere osservando il bambino entrare a piccoli passi timorosi.
- Ciao… - disse Yoshi con le braccia incrociate dietro la schiena.
Sana sfoggiò il migliore dei suoi sorrisi, per il piccolo replicante di Akito. Dieci anni. Poteva rivedere il decenne che la strozzava nei magazzini della scuola, e che le dava un bacio al sapore di limone sulla torre di Tokyo.
***

- Come va?
Si voltò sorridendo, lievemente turbata – ma sapeva nasconderlo bene.
- Tutto a posto.
- E’ cresciuto Yoshi, vero?
- Eh, sì… l’ultima volta aveva due anni… s’è fatto molto alto…
- …e molto simile ad Hayama…
Sana ridacchiò, scoccandogli una gomitata.
- Non ha lo stesso sguardo.
- E meno male!
Lei rise di cuore, guardandolo intensamente.
Naozumi cominciò a leggere.
“Sono scossa. Sono terrorizzata all’idea di dover restare qui per un’intera settimana, però non voglio andarmene. L’ho visto. Lo capisci che l’ho visto?! Basta, per stasera andiamo a dormire e se ne riparli domattina, forse.”
- Hai sonno? Vuoi andare a letto? – le chiese.
Sana rispose con un sorriso.
***

Intanto, l’amore non vince tutto. Soccombe al tempo, ed alle mille piccole rogne quotidiane. Ma soprattutto, soccombe alle necessità dell’ego. Sia lei che Akito erano due personalità bisognose di qualcuno che potesse passare il maggior tempo possibile con loro, qualcuno che focalizzasse su di loro le attenzioni di una vita. Continuamente.
Era semplicemente impossibile concedersi vicendevolmente tutto questo. Akito non poteva sempre seguire Sana, e Sana non poteva sempre restare ferma accanto ad Akito. Ed alla fine, per egocentriche ma ineluttabili cause, il loro rapporto s’era sciolto. E per un periodo entrambi non avevano avuto bisogno d’altri che di loro stessi. Poi, tra noia e solitudine, avevano scelto il ripiego, ed avevano scoperto che, alla fine, non era poi così male. Anzi, tutt’altro.
Talmente “altro” che Akito stava con Fuka da undici anni, ed avevano perfino un figlio – il replicante di lui – e lei e Naozumi stavano insieme da quasi dieci anni.
E lei era incinta.
E lui ancora non ne sapeva niente.
Il che complicava le cose in maniera assurda.
Si rigirò fra le coperte, piantando lo sguardo sul viso calmo di Naozumi.
- Non dormi ancora? – chiese con un sorriso lieve.
- Neanche tu, no?
Gli si strinse contro, pressandogli una mano sul petto.
Solitamente, la sola sua vicinanza era in grado di ripulirle la mente, e renderla chiarissima, bianchissima. Spazzare via i frammenti di ricordi con una facilitò esaltante, che t’incoraggiava all’abbandono. E lei si abbandonava, oh, sì.
Però quella volta non riuscì a calmarla. Quella volta, Akito non era a Kyoto, lontano chilometri e chilometri, era lì, a pochi metri, oltre il muro, e la sola presenza di Naozumi non era abbastanza. Aveva bisogno di qualcos’altro.
E lui lo capì, benedetto lui, come sempre, e come sempre l’assecondò, senza dimenticare di assecondare anche sé stesso.
***

- Papà, chi sono quei signori?
Akito socchiuse gli occhi su un sole estivo da pubblicità, e si ritrovò davanti gli occhioni spalancati di suo figlio.
- Che…? – chiese confuso, già dimentico della domanda.
- Chi sono quei signori, papà?
- …te l’ha detto la mamma ieri… sono gli zii…
- Io ci ho pensato, - disse il bambino annuendo con convinzione, - ma non me li ricordo. Invece zia Aya e zio Tsuyo me li ricordo!
“Certo”, pensò l’uomo, “loro non li vedi da appena un mese, questi due invece praticamente non li hai visti mai…”.
- Non ti preoccupare. – rispose con un sospiro, - Adesso li conoscerai meglio.
Il bambino annuì ancora e scese dal letto, zampettando fuori dalla stanza. Convinto che fossero ancora le sette circa del mattino, sperò che il moccioso non avesse svegliato Fuka, ed allungò a sinistra un braccio silenzioso, alla ricerca della donna. Il braccio contro le lenzuola produsse un leggero fruscio, ma non toccò nient’altro che cotone. La desolazione del posto al suo fianco gli venne confermata da prova visiva pochi secondi dopo, quando si voltò a guardare.
La sveglia segnò in quell’istante le nove e mezzo.
Akito si sollevò stancamente, massaggiando le spalle intorpidite e sbadigliando vistosamente.
- Ben svegliato! – disse Fuka con una risata cristallina, portando in mano una pila di lenzuola immacolate.
- Credevo fosse più presto. – si giustificò lui, atono, senza cambiare espressione. Fuka c’era ormai abituata, sapeva che le sue “scuse” erano sempre sincere.
Maliziosa, gli si avvicinò, sedendosi al suo fianco sul materasso.
Akito venne investito da una ventata del suo odore, che lo mandò in Paradiso.
- Come va? – gli chiese socchiudendo gli occhi.
“Fa la civetta. Vuole parlarmi di Sana”, indovinò lui.
- Bene.
- Ah-ha. Non ti ha fatto effetto?
- Certo. Non la vedevo da otto anni.
- E vederla con Kamura?
- Se ben ricordi, - disse lui sospirando, - stavano insieme anche prima che noi ci trasferissimo qui.
- Sì, ma adesso c’è l’aggravante del tempo passato… e poi s’è fatta bella…
- E’ sempre stata bella. – rispose Akito scrollando le spalle.
- Ah, sì? – disse Fuka imbronciandosi e stringendosi nelle spalle. Lui si sporse in avanti, ad un centimetro dal suo viso.
- Cosa stai cercando di farmi dire, Matsui?
Avendolo così vicino, a lei mancarono le parole. Le si annullarono, e si annullarono anche i pensieri, i respiri. E perfino il broncio.
Sorrise, baciandolo.
- Vieni di là? O aspetti il pranzo? – gli chiese ridacchiando.
Bè, prima o poi avrebbe dovuto comunque ritrovarsela di fronte.
***

- Hayama s’è deciso? – chiese Naozumi ironico sorseggiando il caffellatte.
- Sì, sì… - rispose Fuka continuando a ritirare biancheria pulita dal balcone. Sana si alzò in piedi, presagendo l’imminente arrivo di Akito e ben decisa a posticipare l’incontro il più a lungo possibile.
- Ti aiuto! – disse ad alta voce, raggiungendo l’amica.
Quando le fu accanto, la guardò attentamente.
Fuka era una donna splendida. Era formosa, non aveva certo il fisico di una modella, ma era bellissima. Non aveva neanche una ruga d’espressione. I capelli, un tempo lunghi alle spalle, adesso erano portati corti a baschetto appena sotto le orecchie, un’acconciatura che le assottigliava il viso e la ringiovaniva di dieci anni.
“Quasi trentacinque, un figlio e non sentirli…” pensò esagerando, ma senza farci caso, e sorrise amaramente. Nel sorridere, sentì chiara formarsi la rughetta all’angolo sinistro della bocca, con la quale fino al giorno prima aveva convissuto serenamente, e che invece in quel momento tornò a farsi fastidiosa come quando l’aveva scoperta qualche anno prima.
Invidiò la sua migliore amica. Per com’era e per cos’aveva. E non se ne sentì mai in colpa.
***

- Certo, io e te stiamo passando davvero poco tempo insieme.
- Sei arrivata appena ieri, - commentò lui senza guardarla, - cosa ti aspettavi?
Lei scrollò le spalle.
- Non lo so. Tu sei contento di rivedermi?
Akito si guardò intorno. Verificò che nella stanza, che dava sul balcone in cui in quel momento si trovavano, non ci fosse nessuno, e tirò fuori un pacchetto di sigarette.
- Vuoi? – chiese porgendoglielo.
- Non fumo. – disse lei con un sorrisino, scuotendo il capo. Lui scrollò le spalle.
- Ti dispiace?
- Fai.
Accese una sigaretta e ne aspirò una boccata, appoggiandosi alla ringhiera con i gomiti.
- Non mi hai risposto…
- Qual era la domanda?
Sana sorrise amara, e la ripeté.
- Ti ho chiesto se sei contendo di rivedermi.
- In un certo senso.
- Che razza di risposta è, me lo spieghi?
- Tu sei contenta di rivedermi?
- …non mi è dispiaciuto.
- Non copiarmi le battute, Kurata.
Sana ridacchiò, dandogli un colpetto sulla spalla.
Era la prima volta che lo toccava da quando era arrivata. Un colpetto, un tocco lievissimo, non si poteva neanche dire l’avesse sentito, perché l’aveva sfiorato con le nocche, che hanno poca sensibilità rispetto ai polpastrelli. Si pentì di non averlo accarezzato.
- Comunque vedo che qua con Fuka-chan stai bene.
- E’ così.
- E te la cavi, con Yoshi-chan?
La guardò curioso.
- Che intendi?
Lei rise.
- Quando ti ho visto l’ultima volta eri molto impacciato, sembrava che stessi facendo un lavoro non tuo.
Akito tirò un’altra boccata, ed annuì.
- Bè, ci si abitua a tutto.
- E’ vero.
“E così la discussione può dichiararsi chiusa.”, pensò Akito, ed avrebbe voluto prendersi a testate da solo.
Nauseato dal fumo – strano – gettò la sigaretta e la spense sotto una scarpa, buttandola poi giù dal balcone dopo essersi assicurato non passasse nessuno.
- Non dovresti farlo… - commentò lei.
- Cosa, fumare? – chiese lui, già sul piede di guerra.
Lei scosse il capo.
- Gettarla di sotto. Bè, vado a… vedere cosa sta facendo Nao… - disse voltandosi di spalle per rientrare.
La mano di Akito si mosse senza che lui avesse bisogno di ordinarglielo. Scattò in avanti, fendendo l’aria dietro di lei ed afferrandola per il polso, una stretta decisa ed impetuosa, dolorosa.
- Ahi! – si lamentò senza voltarsi.
- Domani potremmo andare a fare una passeggiata, io e te. – le propose, con voce quasi tremante, - Per… parlare meglio.
- Sì, credo di sì… - rispose lei frettolosamente, senza pensare, liberandosi dalla stretta e scomparendo dietro le tende.
Akito sospirò. Si sentì esausto. Ebbe bisogno di vedere Fuka.
***

Naozumi spalancò gli occhi, guardandola.
- Bè? Che è successo?
Lei cercò di mostrarsi convincentemente stupita.
- Quando?
- Ah, non prendermi in giro, dai! – disse lui ridendo, per nulla risentito.
Scrollò le spalle.
- Non capisco di cosa tu stia parlando. – disse abbassando uno sguardo cupo.
Lui le si avvicinò, sollevandole il mento con due dita.
- Non dirmi che mi ritieni così stupido da venire fino a qui senza preventivare gli effetti devastanti che la visione di quell’uomo ha su di te…
Lei tremò impercettibilmente, nel sentirgli usare quel tono calmo, di assoluta certezza, di assoluta rassegnazione.
- Che vuol dire…? – chiese, ben intenzionata a non dire nulla.
- Vuol dire che va bene. Insomma, è normale. L’hai amato… vi siete amati per così tanto tempo… dai, non mi fare dire chiaramente queste cose, intendo, lo so. Anche Matsui lo sa, credo. Perciò non preoccuparti.
Non riusciva a capire se quelle parole rappresentavano un permesso o un velato rimprovero.
Irritata, si separò da lui.
Dov’era scritto che dovesse per forza succedere qualcosa fra lei ed Akito? Chi l’aveva stabilito? E poi, bella fiducia le dimostrava il suo uomo, il padre di suo figlio – sebbene ancora non lo sapesse – e con che belle parole la accoglieva mentre lei era così… così…
Così sconvolta. E spaventata. E bisognosa, anche se non sapeva di cosa.
Ma perché, poi? Perché dover stare così?
Non sarebbe mai dovuta venire. Non avrebbe dovuto alzare la cornetta per chiamare Fuka per semplice curiosità di sapere come stesse, come stessero tutti loro, non avrebbe dovuto prendere troppo seriamente quella frase buttata lì per caso, “che ne dici di venire un po’ qui? C’è un tempo splendido!”, non avrebbe dovuto proporlo a Nao, e comunque avrebbe dovuto dirgli “no, lasciamo perdere”, anche se lui era ben deciso a venire.
Sapeva che sarebbe stato un disastro, eppure non aveva fatto niente per fermare il processo.
- Avanti, adesso non fare così. Dimentica quello che ho detto. Tu agisci solo come credi sia giusto.
Sana annuì, stranamente sollevata.
- Tanto… poi la settimana finisce…
Lei sollevò lo sguardo, senza cogliere il senso della frase.
- Eh?
- Intendo… la settimana finisce e poi torniamo a casa. E basta Hayama.
Sana lo guardò e pianse.
- Che…? Non volevo…!
Si coprì gli occhi con le mani.
- Lo so. Scusa…
Capì in quel momento che, quando Naozumi aveva insistito per partire, non era stato per rivedere i vecchi amici o il vecchio rivale, non era stato per farla contenta, e neanche per il semplice piacere di un viaggio, ma solo per liberarsi, una volta per tutte, di quel vecchio fantasma, il fantasma di Akito; concedergli – o concedere a lei – qualcosa, e poi liberarsene definitivamente.
Perché erano cresciuti, loro, ma Naozumi aveva ancora la stessa paura folle di Akito. Di Akito e lei.
“Poi torniamo a casa e basta Akito”, ripeté a sé stessa abbracciando il suo uomo.
***

- Esci, Akito?
Lui annuì. Lei non poteva vederlo, perché era di spalle. Lui se ne accorse.
- Sì. – disse ad alta voce.
- Dove vai? – chiese lei sorridendo, mentre si voltava a guardarlo.
- A fare quattro passi.
- Con Sana?
- No.
Era vero. Con lei sarebbe uscito solo l’indomani.
Dopo aver salutato sua moglie, uscì di corsa, con l’intenzione di riflettere, e per prima cosa si pentì di averlo fatto: il caldo e l’umidità erano insostenibili, e gli appiccicavano addosso la maglietta. Nessuna riflessione poteva valere una tortura simile.
Ed a parte tutto questo, aveva davvero poco su cui riflettere. Si rendeva conto che avrebbe dovuto pensare a Sana, a cosa dirle, a come gestire la situazione. Ma quel tocco – i due tocchi – sul balcone l’aveva completamente, completamente destabilizzato.
Prima che lei arrivasse s’era detto “ok, facciamo i duri”. Perché non voleva essere vulnerabile, non voleva darle lo spazio per scombinare tutto. Ed invece s’era accorto che lei non aveva bisogno di spazio, s’insinuava anche dove non c’erano fessure, attraversava i muri, gli si attaccava addosso, come una malattia.
Era Sana-dipendente?
Strano, in quegli otto anni avrebbe potuto dire di non averne quasi neanche sentito la mancanza. È assurdo che possa succedere così. Un giorno a malapena ricordi un viso, il giorno dopo per caso lo rivedi e non solo capisci che in realtà ricordavi, ma che faceva male, ed era per questo che lo ignoravi disperatamente.
Disperato? Poteva descriversi così? Non s’era mai sentito disperato, da quando non l’aveva più vista. Era tantissimo… tantissimo tempo che non si sentiva disperato. Ed anche in quel momento, non era affatto sicuro di esserlo.
- Papà! Papà!
Nel sentire la voce di Yoshi si voltò di scatto, pensando che potesse essere uscito da solo. Fortunatamente accanto a lui c’era Fuka, lo teneva saldamente per mano. Il piccolo saltellava ogni due passi, agitando una manina con fare eccitato.
Akito si fermò, le mani in tasca, le gambe leggermente divaricate, aspettando che i due lo raggiungessero.
Fuka ebbe una tremenda sensazione di deja-vu, ma non disse nulla.
- Che c’è?
- Papà, mi sono ricordato di zia Sana-chan! Mamma mi ha fatto vedere le foto!
L’uomo guardò sua moglie, che gli sorrise lievemente, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Guarda, guarda! – continuò Yoshi agitando un pezzo di carta rigido – la fotografia, - E’ lei che mi tiene in braccio, vero?
Akito si chinò, arrivando all’altezza del bambino, e puntò saccentemente l’indice verso l’alto.
- Se hai visto la foto non vuol dire che l’hai ricordata, ma solo che adesso sai che vi siete incontrati prima.
- Ma io me la ricordo, papà!
“Ah, sì? Anche tu?”, pensò Akito socchiudendo gli occhi mentre si risollevava.
***

- Fa caldo, vero?
- Mh.
- Si, rimpiange quasi il condizionatore che c’è in casa…
- Vuoi tornare?
- No!
- Mh.
Aveva immaginato qualcosa di diverso, quando lui le aveva proposto di fare una passeggiata. Un qualcosa di non molto ben delineato, nella sua mente, ma che era comunque diverso dal semplice camminare per strada fianco a fianco.
Avesse avuto almeno qualcosa a cui aggrapparsi… a Tokyo, per esempio, le sarebbe bastato guardare un angolino di strada per dirgli “ehi, ti ricordi?...” e cominciare a parlare. In quella città invece era estranea, e non c’era nulla, neanche nei suoi occhi, che ricordasse l’antico periodo in cui erano stati insieme.
“Forse è meglio così”, si disse, “Forse è meglio non rivangare i fatti chiusi”. Pensò a Naozumi, anche a Fuka, ma soprattutto a Naozumi, e si sentì terribilmente in colpa.
- C’è qualcosa che vorresti vedere? – sentì Akito chiederle. Siccome non aveva idea di cosa dire rispose che andava bene camminare così.
La strada era deserta. Immaginò che ad agosto la maggior parte delle persone dovessero trasferirsi in una località balneare, quindi non le sembrò tanto strano. Strano era, invece, il ritmico camminarsi accanto, lo sfiorarsi leggero delle loro dita quando le braccia ondeggiavano – erano così vicini – immersi in quel silenzio vuoto e caldo, da inferno.
“Avanti, Sana, non sarebbe molto più semplice allungare una mano e fare quello che vuoi?”

Maledetto lui, ed anche lei.
Maledetta quella schifosa città ed il momento in cui c’era venuto.
Maledetto il momento in cui s’erano lasciati.
Nervosa ed agitata, continuò a camminargli accanto.
***

“Sta succedendo, Akito. E’ già successo. Rassegnati.”
Realizzò solo dopo qualche secondo di averle stretto involontariamente una mano. E prima di lasciarla, la guardò negli occhi. E se non ci avesse trovato stupore e quasi terrore, non l’avrebbe lasciata affatto.
- Non volevo. – disse, evitando il suo sguardo. Poi riprese a camminare.
Sana non si mosse. Lui si voltò indietro a guardarla.
- Ho già chiesto scusa. – disse nervosamente, con fare sbrigativo. Lei sollevò lo sguardo, e sembrava persa, assente.
- Sana…? – le si avvicinò, e nel tempo in cui lui mosse due passi lei abbassò il capo e si mise a piangere.
- Mi hai chiamata per nome… - piagnucolò mentre Akito, preoccupato, le metteva una mano sulla spalla e la scuoteva leggermente.
- Non è la prima volta, mi pare.
- E’ la prima, invece… da quando sono qui…
Per qualche secondo, l’uomo non capì, o non seppe cosa dire.
- Perché piangi? – le chiese alla fine, sospirando.
- Non lo so. – ammise lei imbarazzata, - Forse è nostalgia…
“Lo spero”, si disse lui per farsi coraggio – invece non lo sperava affatto – e le diede due pacche sulla spalla, per consolarla.
- Akito…
- Mh.
- Vieni più vicino…?
L’allarme rosso nel suo cervello squillò, squillò fortissimo. E lui lo ignorò, perché così voleva.
Le si avvicinò, e lei gli si appoggiò addosso. I suoi capelli gli ricaddero su una spalla, e poi giù lungo il petto. Un profumo inebriante, sconvolgentemente dolce, lo accerchiò e lo tramortì, costringendolo a chiudere gli occhi.
- Ti dispiace se stiamo un po’ così…?
Raccolse le forze.
- Siamo tornati adolescenti…?
Sana ridacchiò, afferrandogli un lembo della maglia con una mano.
- E’ un po’ imbarazzante – gli disse, - qui, in mezzo alla strada.
“Mi sta chiedendo di portarla in un posto dove non sarà imbarazzante.
E dove perderò la testa.”
Non è una diciassettenne, non puoi portarla nel parco e pomiciare. Non si fa così. Non puoi portarla in un love hotel, chissà dove sta un love hotel?, e poi dovresti tornare a casa e prendere la macchina, perderesti l’attimo. Per ovvi motivi, non puoi portartela a casa.
Akito deglutì e la spinse leggermente. Sana riprese a camminare, e lui continuò a tenerle una mano sulla schiena, come a manovrare il timone per darle la direzione. La fece fermare di fronte ad una stradina laterale abbastanza buia. La guardò.
“O qui o niente”, lesse Sana in quegli occhi, e si infilò per prima nel vicolo, tirandolo per una mano.
Non aveva bisogno di tenere gli occhi aperti, comunque non avrebbe visto nulla, perciò li chiuse e si lasciò andare contro il muro. Lui le si avvicinò veloce, circondandole la vita con le braccia e gettandosi avido sul suo collo; istintivamente, Sana tirò su il mento per lasciargli spazio, e sollevò anche le braccia, appoggiandogliele sulle spalle.
- Ah… Akito… - mormorò flebilmente, senza invitarlo ad andare avanti. Ma neanche respingerlo. Lui lo prese come un incoraggiamento.
Le fece scivolare una mano fra i capelli sciolti – ah, sensazione… come aveva potuto credere di averla dimenticata…? – mentre con la lingua le stuzzicava il lobo di un orecchio, e poi scendeva giù, lungo il collo.
- Akito! – lo chiamò più forte, e stavolta era tutta voglia, tutta impazienza.
Affondò il viso nella scollatura della sua maglietta, ma da lì non riuscì ad arrivare a niente, ed allora l’afferrò da sotto e la sollevò, fin sopra al petto.
Per un attimo rimase abbagliato e non seppe che fare. Ebbe perfino il tempo di chiedersi “cosa sto facendo?”. Ma poi lei lo chiamò di nuovo, e lui non perse neanche un secondo a tornarle addosso, strapparle quasi via il reggiseno, baciarla ovunque, farle scivolare una mano giù, lungo il ventre, il bacino, sotto la gonna, oltre gli slip.
- Akito! – quasi gridò lei, e lui le mise una mano sulla bocca, si liberò di ogni ostacolo e da un secondo all’altro le era già dentro.
E se, fino al giorno prima, gli avessero detto che avrebbe ancora potuto provare una tale estatica sensazione di appartenenza a qualcosa che non era più lui solo, ma un’unione più grande, più grande del matrimonio, o del tempo passato insieme, non ci avrebbe creduto.
Sana gli si aggrappò stretta alle spalle, e leccò la mano che ancora le teneva chiusa la bocca. Lui non la spostò e, chiudendo gli occhi, le si gettò sul collo, muovendosi aritmicamente, avanti e indietro. Lei, obbligata al silenzio, poteva esprimersi solo con mugolii soffocati, che lo eccitavano incredibilmente, e si muoveva seguendo il ritmo che lui le imponeva, reggendosi su una sola gamba mentre lui, reggendola per la coscia, teneva sollevata l’altra. Sostenendosi con più decisione alle sue spalle, si tirò su anche la gamba su cui si puntellava, incrociandole entrambe dietro la schiena di lui, che le liberò la bocca e, con tutte e due le mani libere, le si avvicinò ancora, spingendo più veloce, di più, come lei gli sussurrava nell’orecchio graffiandogli la pelle. La sentì gemere più forte, e lanciare un gridolino, in seguito al quale gli si accasciò ansante fra le braccia. Due spinte dopo era venuto anche lui.
***

Non sapeva bene cosa avrebbe dovuto dirgli. Non sapeva neanche se qualcosa da dire effettivamente ci fosse, lungo la strada che li riportava a casa.
“E’ stato fantastico. E chi se ne frega se farlo in un vicolo, a quest’età, di nascosto, è volgare e squallido, oltre che scomodo, è stato fantastico e sono venuta come non mi capitava da troppo tempo.”, questo pensava, ma credeva fermamente che dirglielo sarebbe stato un errore immenso, che avrebbe generato solo una quantità infinita di disgrazie.
- Mi dispiace.
Sollevò lo sguardo, in cerca dei suoi occhi, ma lui era voltato e non li trovò.
- Per cosa? – chiese con un sorriso lieve.
Lui scrollò le spalle.
- Suppongo dovrei dire “per quello che ho fatto”… - la guardò, - in realtà mi dispiace solo per il posto.
Lei lo guardò per qualche secondo, e poi scoppiò a ridere. Sollevata.
- Anche a quarant’anni… non cambi mai!
- Prima di tutto non ho quarant’anni…! Modera i termini, Kurata!
“…e secondo poi, non è che io non sia cambiato. È che quando sono con te mi ricordo com’ero prima”.
- Scuse accettate.
Si rese conto di non poter fare a meno di essere felice, e d’improvviso anche la questione di come avrebbe fatto a spiegarlo a Naozumi si fece irrilevante.
***

- Ah! Sei qui?
Fuka sorrise dolcemente, avvicinandosi ai fornelli per preparare un po’ di te. Naozumi rimase in silenzio. Lei seguì il suo esempio mentre armeggiava con acqua e bollitore.
- Matsui… sei diventata molto più silenziosa rispetto a com’eri un tempo.
Lei ridacchiò, socchiudendo gli occhi.
- Dici? Comunque mi fa uno strano effetto sentire ancora qualcuno chiamarmi così…
- Ah, già… ormai dovrei chiamarti Hayama, ma mi farebbe un’impressione…!
Stavolta Fuka rise apertamente.
- Mi rendo conto. Potresti chiamarmi semplicemente col mio nome, no? Ormai…
- Già.
Tornarono in silenzio. Fuka tolse il bollitore dal fuoco e versò l’acqua in due tazze, immergendovi poi le bustine di te.
- Grazie. – disse Naozumi prendendo la tazza che lei gli porgeva.
Sorseggiarono un po’ la bevanda bollente.
- Fuka, sei preoccupata?
Non aveva bisogno di specificare riguardo cosa.
- Mi sembra ovvio. – disse lei sorridendo, gli occhi chiusi, mentre allontanava da sé la tazza.
- Ovvio, ma non così evidente.
- Mi sono preparata molto a questo momento.
- E se dovessero farlo?
La mora lo guardò sorridendo, come a chiedergli perché si illudesse, come mai non ne fosse ancora certo, che cosa gli mancasse ancora per ammettere, almeno con sé stesso, che chissà dove, in quello stesso momento, Sana ed Akito stavano già facendo l’amore.
- Non è alla semplice “possibilità” che mi sono preparata io.
Naozumi annuì lentamente, finendo il suo te.
- Lo perdonerai?
Fuka rise. Fuka rideva spesso.
- Il problema non si è neanche mai posto! – disse guardandolo, - Perché, seriamente, tu ti sei chiesto “potrò mai perdonarla”?
Naozumi si strinse nelle spalle. Non se l’era proprio chiesto esplicitamente, ma…
…il pensiero di Sana ed Akito insieme lo disturbava.
- Ma mi spieghi come fai a prenderla così tranquillamente?
- Ti ho detto che non sono tranquilla. Sono rassegnata, è diverso.
- E dunque lo perdonerai. Scommetto che neanche gli dirai niente quando tornerà.
- Naozumi. – concluse lei con tono infastidito, - Dovresti smetterla di pensarci. Una settimana, ok? Fine. So che lo sai. La rabbia e l’orgoglio sono inutili.
Naozumi pensò che Fuka era cambiata davvero. E tanto. Però pensò anche che forse, nella loro posizione, il cambiamento era naturale, anzi, necessario. Cercò di mettersi il cuore in pace.
***

Nonostante i buoni propositi, trovò piuttosto difficile comportarsi normalmente di fronte a lui, quando lo rivide. Se avesse deciso di fare l’impassibile o l’offesa sarebbe stato più facile, perché avrebbe potuto permettersi di fuggire il suo sguardo, di sbuffargli contro senza dover necessariamente motivare, di incrociare le braccia e lasciare la stanza. Sarebbe stato semplice, perché lui, Akito, avrebbe compreso al volo il motivo di quel furore, e non le avrebbe chiesto niente, rimanendo giustamente il colpevole attesa che le passasse.
Ma così era dura. Non era fingere di non sapere, sarebbe stato poco credibile, era sapere e sopportare. Baciarlo per salutarlo. Baciarlo per salutarlo, soprattutto, ma anche altro, anche doverlo guardare sfilarsi la maglietta e vedere quello che c’era sotto, vedere i graffi e capirne il motivo, mentre lui semplicemente le diceva “è tutta sudata, potresti lavarla?”.
Sospirò, spingendo l’indumento sul fondo della bacinella ed osservando le bollicine risalire in superficie e trasformarsi in schiuma.
Insomma, era umana anche lei. Sono tutti bravi a parlare, in teoria. Ed infatti si sentiva un po’ in colpa per aver trattato Naozumi come se lei fosse in qualche modo superiore. Le dispiaceva anche per averlo rimproverato bruscamente, alla fine, ma non aveva altra scelta. Una sola rimostranza da parte sua avrebbe potuto portare ad una rottura con Sana, e con lei libera allora forse Akito…
- Non era necessario che lo facessi subito. – le disse suo marito appoggiandosi con la fronte sulla sua spalla.
“Cerchi di farti perdonare?”, avrebbe voluto chiedergli. Ovviamente rimase zitta.
***

Sfiancato, si lasciò andare sul letto, ansimando.
Bè, sì… era stato stancante. Due volte, con due donne diverse, a distanza così ravvicinata. Segnò sul promemoria di non farlo più (sebbene non vedesse alcun motivo per cui dovesse poter accadere ancora) e chiuse gli occhi, ascoltando Fuka che, dopo aver domato il proprio respiro, si rialzava e si rivestiva, in un calmo frusciare di lenzuola e cotone.
- Io vado a preparare la cena… - disse lei stancamente mentre calzava le pantofole, - tu… vorrai riposare, credo…
Ecco, sì, si sentiva in colpa, e lei lo intuiva sicuramente, quando mai lei non intuiva qualcosa?, dunque perché punzecchiarlo in quella maniera?
Riaprì gli occhi e si mise seduto, e le rivolse uno sguardo, che lei resse fiera per qualche secondo, prima di sorridere con imbarazzo.
- Sì, lo so, Akito. scusa…
“Per carità, non scusarti!”, avrebbe voluto – e dovuto – dirle.
- Comunque tu rimani pure a letto per un po’. Ti chiamo io quando è pronto.
Annuì, distendendosi nuovamente, le braccia incrociate dietro la testa.
Amare Fuka? Perché chiederselo adesso? Non aveva sempre evitato la domanda per paura della risposta? In quei lunghissimi undici anni, non si era forse sempre detto “non è importante, l’importante è sentirsi sereni, essere felici”? E non si era sempre sentito esattamente così, con la sua Fuka tutta comprensione ed acqua di rose?
Non era mai stato necessario chiedersi se l’amasse. Ma… una volta rivista Sana… una volta toccata, accarezzata, stretta, baciata Sana… d’improvviso tornava a chiederselo, ed a chiedersi se… una farsa del genere fosse sostenibile.
Una farsa, eh? Fuka l’avrebbe sbranato vivo, se gli avesse sentito dire una cosa del genere. “Una farsa il mio amore per te?”, l’avrebbe rimproverato, “Una farsa la nostra vita insieme, nostro figlio?”. Yoshi. Con Yoshi era stato tutto molto strano. Aveva cominciato a sentirsi padre improvvisamente, senza un perché. Un giorno ti chiedi chi sia il piccolo estraneo nella culla, il giorno dopo ti dici “eh, bè, ma è Yoshi”, e trovi tutto talmente naturale che a che serve chiedersi ancora qualcosa?
Mh, era questo il dannato punto. Forse avrebbe fatto molti errori in meno se solamente si fosse fermato a riflettere prima di agire.
Per esempio… bè, per esempio, era stato lui a capitolare per primo. Dopo la separazione con Sana aveva resistito tre mesi. Tre mesi appena. E dopo aveva sentito il bisogno di qualcuno che si potesse occupare di lui per il tempo più lungo possibile. Fuka era lì, ed semplicemente molto meglio di quanto non potesse mai sperare di ottenere. Era sua senza neanche bisogno di chiedere.
Ricordava ancora il momento in cui l’aveva spogliata per la prima volta come uno degli attimi di più profonda liberazione e spensieratezza di tutta la sua vita.
***

Vide tanta luce sul suo viso, nei suoi occhi e nel suo sorriso, che per un secondo – ma solo per un secondo – si sentì a sua volta molto felice. E detestò invece il momento in cui, dopo averlo visto, lei tornò ad essere la solita Sana i cui sguardi incerti imploranti perdono volevano dire “sto bene, ma è chiaro che mi sto accontentando, scusa”. Comunque, si sforzò di sorriderle sinceramente. Ci riuscì. D’altronde, l’aveva fatto spesso in passato, doveva soltanto recuperare l’abitudine.
Fin da quando, tanti e tanti anni prima, la sua Sana gli si era presentata davanti, non in lacrime ma quasi. “Era da tempo che non ci vedevamo”, le aveva detto lui facendola accomodare, “almeno quattro mesi.”, “Già”, aveva annuito lei, le mani incrociate strette in grembo. Lui aveva aspettato un po’ prima di chiedere altro, ed alla fine s’era convinto solo perché averla lì davanti e non chiederle niente sarebbe stato troppo stupido. “Ti sei ripresa?”. Aveva saputo da Sagami – cui chiedeva continuamente informazioni a riguardo – che giusto quattro mesi prima lei ed Hayama avevano rotto, e che recentemente lui aveva ripreso a frequentare Matsui. Sagami aveva usato parole terribili, forse esagerate ma sicuramente preoccupanti, non per la loro forza, ma per il concetto in sé. “E’ stata ad un passo dal morire di disperazione.”, aveva detto Sagami, ecco perché quel giorno l’aveva chiamata insistendo per vederla al più presto.
Sana non aveva risposto alla domanda, aveva sorriso e poi gli aveva chiesto “E tu, invece, come stai?”. Invece di parlare, lui l’aveva baciata, e già un secondo dopo se n’era pentito. “Sono stato inopportuno”, s’era detto, “lei sicuramente non aveva alcuna voglia di un’effusione simile”. Ed invece lei aveva dato vita a quel sorriso, il sorriso rassegnato di chi fa il conto delle proprie possibilità e sceglie la meno brutta; un sorriso tutto suo, dedicato solo a Naozumi Kamura, e benché non fosse più profondo e valido di un “in fondo, mi piaci anche tu”, lui lo prese come la più grande possibilità della sua vita, e non la lasciò più.
***

Nao era veramente quanto di meglio nella vita potesse capitarle. Poteva sempre starle accanto, di più, i produttori pagavano per averli accanto, non accettavano proposte dagli sceneggiatori, se gli attori consigliati dal casting non erano loro due. In patria erano più famosi delle coppie hollywoodiane, più di quanto non lo fossero stati ai loro tempi Cruise e la Kidman. Erano belli, erano bravi, erano uniti ed affiatati. E grazie a questo, lei non correva il rischio di passare neanche un secondo lontano da lui, non correva il minimo rischio di essere trascurata.
La causa scatenante della sua separazione da Akito era stata quella, il motivo era il – troppo – tempo passata da sola. Lui coi suoi impegni non poteva tralasciare il lavoro all’università, lei non poteva certo rifiutare gli ingaggi. Non certo per rimanere a casa… in attesa del suo ritorno.
Ci aveva provato, ok?, a fare la brava. Ad aspettare, nei giorni di pausa dalle riprese, che Akito rincasasse ogni giorno sempre più stanco ed assente, senza la forza di farle una carezza, talmente affamato da riuscire a modulare solo le sillabe “ci” e “bo”, e sempre pronto a lamentarsi del fatto lei non sapesse cucinare “cose normali” e dovessero giornalmente ordinare la cena in un locale che facesse recapiti a domicilio.
“Non esiste”, si diceva, “non esiste un rapporto simile. Dov’è l’intimità, dov’è la convivenza?”. E poi, un giorno, mentre aspettava, aveva concluso, “Io l’amo, ma non posso aspettarmi solo questo dalla mia vita sentimentale”.
Dopo aver saputo di Akito e Fuka insieme, quasi s’era sentita sollevata. Distrutta e devastata, sì, ma talmente leggera. Forse per un incredibile senso di vuotezza che la coglieva spesso. “Bene, odialo adesso”, provava a ripetersi. Non c’era riuscita. Non ne aveva sentito davvero il bisogno. Eppure, bisogno di qualcosa doveva essere quel macigno sullo stomaco che, fra le altre cose, gli toglieva l’appetito.
Nao. Nao era stato soffice e caldo, l’aveva stretta dolcemente. Era stato tenero e suo fin dal principio, ed era dovunque lei lo volesse. Era perfetto. E lei s’era sentita felice di poterlo accogliere, di passare anni ed anni con lui. Era perfino felice di potergli dare questo figlio. Anche se non ci stava pensando troppo.
Però… però Akito. Strano. Non avrebbe saputo elencare un solo motivo per cui potesse desiderare davvero tornare a stargli accanto, anche solo come prima. Bè, forse riflettendo con meno codardia almeno uno, ma uno importante, l’avrebbe trovato, ma il punto era proprio che questo coraggio non ce l’aveva.
Non poteva ammettere di amarlo neanche con sé stessa.
Perciò, guardò Naozumi, non si scusò ad alta voce, ma lo fece con gli occhi, con l’espressione e col bacio che poco dopo gli diede.
***

Quel silenzio assoluto era irreale ma comodo. È riposante non essere costretti a parlare di futilità quando invece non vorresti fare altro che urlare rabbiosamente contro il tuo prossimo.
Non che fossero realmente arrabbiati… più che altro nervosi per tanti, tanti motivi di cui era meglio non parlare. Non se ne parla mai quando il rischio di perdere tutto è così alto ed il gioco non vale affatto la candela.
…perché, non la vale, vero?
***

- Sono stanca.
- …? Eh?
- Dico… - si affrettò a precisare lei, per evitare che lui fraintendesse, - è faticoso avere ospiti. Potresti anche aiutare, quantomeno ad aprire quel cavolo di divano letto rigido come un pezzo di legno…
- …è fatto di legno…
- Sciocchezze, le congiunture sono di metallo e dovrebbero essere bene oliate, ma non è questo il punto, ti costerebbe troppa fatica, solo ogni tanto, chiudere quel dannatissimo coso, visto che poi, comunque, io devo aprirlo ogni sera?
- Ma perché non lo lasci aperto?
- Non abbiamo un salotto tanto grande da poter essere vivibile con un letto aperto ventiquattro ore al giorno, te lo ricordi, sì?
Non era un litigio, non era nemmeno una discussione. Era uno scambio di battute, era la sua Fuka che parlava a macchinetta. Si dice “normali scene di vita coniugale”.
- Mamma…
Yoshi s’intrufolò nella stanza senza chiedere permesso, saltando sul lettone e guardando sua madre con occhi imploranti.
- Mamma, mamma, guarda! – disse mostrando a Fuka una rivista aperta su una pagina chiassosa e colorata. La pubblicità di un Luna Park. Akito sentì “crack” da qualche parte nel petto, leggendone il nome. Pregò che suo figlio non chiedesse quello che invece, lo sapeva fin troppo bene, stava per chiedergli, e finse il più profondo disinteresse.
- Mamma, ci voglio andare!
- Ma che leggi queste riviste a quest’ora…? Dovresti già stare dormendo!
- Mamy, per favore!
Fuka sbuffò.
- Ne parleremo domani, Yoshi-chan…
Vedendo che il piano occhi dolci&piagnucolosi su sua madre non aveva effetto, il piccolo si voltò verso suo padre, adottando la stessa tattica.
- Papà… papà, ti prego!
Akito accettò. Forse perché cedette allo sguardo tenero di suo figlio, per dimostrare di essere un buon padre. Oppure per dimostrare a sé stesso di poter riuscire a non scoppiare a piangere rimettendo piede al Dreamland.
***

- …e Kamura dov’è?
- L-Lui è già… in bagno… ma tu…?
Che scena surreale. Lui che irrompe in salotto, alle sette e mezzo del mattino – ha promesso a Yoshi di andare al Luna Park di buon’ora, quindi si è dovuto svegliare presto – e la trova ancora a letto, seduta, che stringe al seno il lenzuolo per coprirsi, visto che indossa solo una sottoveste di raso bianco.
I capelli, resi luminosi dalla luce del sole che filtrava dal singolo spiraglio fra le due tende, ricadevano morbidi, in boccoli naturali, fino al seno, conducendovi lo sguardo.
Akito deglutì entrando.
- Ieri ho detto a Fuka che oggi avrei chiuso io quest’affare. Lei lo trova faticoso.
Sana annuì lentamente, ancora stordita dall’invasione.
- Sì, ok, ma… potresti aspettare che… non so, che mi alzi e mi vesta?
Akito scosse la testa.
- Ho promesso a Yoshi che oggi l’avrei portato nella regione T…. Sai, al Luna Park. Al Dreamland.
La vide irrigidirsi tutta e poi sorridere nervosamente.
- No… scherzi?
Lui negò di nuovo. Lei ridacchiò sommessamente.
- Allora, in questo caso… - disse alzandosi in piedi e rimanendo accanto al letto, al quale Akito si avvicinò, con l’iniziale sincera e decisa intenzione di chiuderlo. Provò a spingere – solitamente era così che si chiudeva, automaticamente, - ma in effetti incontrò qualche difficoltà. Le giunture erano parecchio dure.
- E’ rigido?
Si bloccò, e la guardò dal basso verso l’alto. Si chiese se realizzasse appieno il significato di ciò che gli aveva detto – anche se si vergognava molto, perché si sentiva come un ragazzino che si aggrappa ai doppi sensi.
Sana realizzò ed arrossì.
- Intendevo… io intendevo… il letto.
Per la cronaca, era “rigido” sì. Tanto da fare male. Da quando l’aveva vista, appena entrato nella stanza. Forse da prima, dal solo pensiero di rivederla. Non lo ricordava, e non era importante.
Si raddrizzò, avvicinandosi a lei. Sollevò le mani, che percorsero l’arco della vita ed indugiarono sui fianchi.
- No… no. Naozumi potrebbe tornare, si sta solo facendo la doccia, tornerà in un secondo…
Lui non rispose. Si separò da lei. Raggiunse la porta. La chiuse a chiave. Le si riavvicinò.
***

Cavolo, Naozumi, dico, ma scherzi? Stringi i denti e staccati da quella porta, visto che non hai avuto il coraggio di farti vedere da loro non ha senso continuare a stare qui. E poi guardati, sei ridicolo col solo asciugamano a fasciarti i fianchi, ma cosa speravi di fare? Tornare nella stanza e darle il tuo “buongiorno speciale”? Non per ora, non per oggi e non per i restanti tre giorni in quest’inferno, lo sai, che lei sarà sua fino a quando non sarete sul treno verso Tokyo, e sai anche che non hai altra scelta che accettarlo e chiudere gli occhi.
Per carità, non origliare, non origliare, che pietà, ma chi te lo fa fare? Sei sconvolgente, sei disgustoso.
E dunque, visto che devi ascoltare, quantomeno ascolta bene. Senti, come geme? Ti sembra che gema così quando fa l’amore con te? Non geme affatto così, ecco la riposta, è perché Akito la tocca, è perché Akito la bacia, è perché Akito se la scopa, lo senti?, non riesce a trattenere le urla. Immaginatela, nuda, sudata, con espressione persa, si passa la lingua sulle labbra, ogni tanto si lascia andare ad un mezzo sorriso, ha gli occhi chiusi, oh, come gli scivola fra le braccia, puoi vederla, con gli occhi della mente, perché con te lo fa spesso, ma con lui di più, e…
…oh, Naozumi, ma che schifo, non sei un ragazzino che immagina la ragazza che ama in pose da coniglietta Playboy, sei un uomo che ascolta la sua donna fare sesso con un altro, dunque ricomponiti, fai sparire quell’erezione fuori luogo, Cristo che disgusto, torna in te, dico, scherzi?!, stringi i denti e vai via.
***

Il primo pensiero lucido, nel vederlo lì, disfatto, per terra, fu un categorico ed ostinato rifiuto dell’evidenza dei fatti, un secco “NO” nel cervello.
No. Non può aver sentito, non può aver capito, non può sapere.
Kamura sapeva. O almeno, probabilmente sapeva già da prima, ma… bè, chissà perché, quando sai di essere stato colto il flagrante è più difficile. È più doloroso. Non è più tacita conoscenza, è rumoroso sdegno. È rumoroso anche il silenzio, non era forse come un grido quell’espressione smarrita e spenta? Non era un grido terribile? Ad Akito rimbombarono le orecchie.
Sana uscì in quell’istante. Capì tutto in un colpo d’occhio, e crollò in ginocchio, piangendo accanto a quell’impressionante Naozumi silenzioso. Dopo qualche secondo in cui si sentirono solo i singhiozzi della donna, fu Naozumi stesso a parlare.
- Basta, Sana, smetti di piangere, per piacere.
Sana capì – “non ho alcun diritto a queste lacrime” – e tornò silenziosa, guardando fisso per terra.
- Io… voglio fare finta di non aver visto e sentito niente. Posso…? Per questi tre giorni, posso…?
Stringiamo i denti. Facciamolo tutti. Saremo noi stessi solo per altri tre giorni, e poi torneremo “normali”.
***

“Dunque… voi fate come se foste a casa vostra… Kyoto è una bella città.”, aveva detto Fuka mentre ancorava Yoshi al sedile posteriore con la cintura di sicurezza.
Una parola; dopo la scenata assurda di quella mattina, che fare? Prendersi per mano ed andare in gita turistica “oh, Nao, voglio visitare i templi!”? Per favore. Va bene l’ipocrisia, ma…
- Che vuoi fare oggi? – le chiese Naozumi ingoiando l’ultimo boccone di cornetto.
- Mh?
Lei sollevò il capo, senza afferrare.
- Dico… vuoi fare una passeggiata? Uscire un po’?
Sana si strinse nelle spalle.
- Non so… tu…?
- Io voglio uscire. Ti dispiace se andiamo un po’ in giro?
Scosse il capo, condiscendente.
Aveva ragione anche lui, in fondo. Se serve a farci uscire di casa, a farci stare meno peggio, va bene anche un po’ d’ipocrisia.
***

- E’… successo qualcosa, stamattina?
- Mh?
- Intendo… ho sentito… un po’ di confusione…
Akito gettò uno sguardo a Yoshi dallo specchietto retrovisore. Dormiva profondamente, il capo reclinato sulla spalla ed una gocciolina di saliva pensante da un angolo della bocca.
- Sì. Kamura s’è sentito male.
Fuka fece tanto d’occhi, voltandosi a guardarlo.
- Che…? E che ha avuto?
Akito fece spallucce.
- Gli è passato subito, ma Sana s’è spaventata.
Il nome gli era sfuggito di bocca senza neanche che neanche se ne accorgesse. Ci pensò solo dopo, quando vide l’espressione di Fuka di sfuggita, poco prima che chinasse il viso.
- Da quando vi siete lasciati… anche quando parlavi di lei… l’avevi sempre chiamata Kurata.
Lui stette per qualche secondo senza sapere cosa dire.
Alla fine, scusarsi gli sembrò il minimo.
***

Suo padre gli camminava avanti, era grande. La schiena di papà, così ampia e forte, l’aveva sempre attratto. Ricordava di quando in seconda elementare avevano fatto disegnare a tutti un’immagine della famiglia. Lui si era disegnato al centro del foglio, perché la mamma gli ripeteva spesso che lui era proprio al centro dei pensieri di lei e papà. Poi aveva disegnato mamma, sorridente e luminosa, perché lei era sempre così. Aveva il viso bianco, pulito e profumato, e l’abbracciava spesso, dunque l’aveva disegnata vicinissima a sé stesso. Ed infine aveva disegnato papà. Non l’aveva messo in un punto corretto, se ne rendeva conto, non era neanche un corpo, piuttosto una figura grande, indefinita, che dominava come un’ombra l’intera scena. Di spalle. Grandi, grandi spalle. Non poteva immaginare niente di più paterno.
Inspiegabilmente, la maestra s’era molto allarmata. Aveva chiamato la mamma e le aveva parlato a lungo, e la mamma aveva ascoltato in silenzio tutto il tempo, annuendo di tanto in tanto, l’espressione triste e quasi… mortificata.
Non aveva colto molto del discorso della maestra, ma due parole sì. Una la conosceva da tanto, “papà”, l’aveva sempre saputa. L’altra la conosceva da poco, ed era “assenza”. Mamma gliel’aveva spiegata qualche tempo prima, e non ricordava riguardo a cosa. Non ricordava quasi neanche di conoscerla, ma nel sentirla gli era subito tornata in mente, perché aveva un significato spaventoso. Assenza è quando una cosa non c’è. Assenza… di papà?
Non era così. Proprio no.
In macchina, sulla strada verso casa, mamma era tornata sull’argomento.
- Yoshi, - gli aveva chiesto, - Ogni tanto papà ti sembra molto lontano? Ti sembra che se ne vada spesso?
Lui aveva scosso la testa.
- Ed allora perché l’hai disegnato di spalle?
Mamma aveva una voce dolce e paziente. Quando la maestra gli aveva chiesto spiegazioni, invece, era nervosa e sembrava avere una gran fretta. A mamma sentì di poter provare a spiegare.
- Non è che io vedo solo la sua schiena, mamma.
La mamma aveva annuito, rimanendo in ascolto.
- Tu la guardi la schiena di papà?
- Che vuoi dire?
- Quando prende le cose sugli scaffali in alto… quando prende le borse…
- Mh… e allora?
- La schiena di papà è grande e forte, ed a me piace tanto. La voglio pure io così, da grande. L’ho disegnata perché è la cosa che mi piace di più.
- E perché… non hai disegnato la sua faccia, come con me?
Allora la sua testa si era riempita di pensieri cupi. Il viso di papà, i suoi occhi…
- Perché papà ogni tanto quando mi guarda fa gli occhi tristi…
***

- Yoshi, ti piacciono le montagne russe?
“Mi piacerebbe di più che tu mi portassi a cavalluccio”, pensò Yoshi, e subito se ne vergognò, perché non gli sembrava affatto una pensiero degno di un bambino di dieci anni. A cavalluccio vai a tre, quattro, massimo cinque anni, non a dieci. A dieci anni sei già troppo grande per un’idiozia del genere.
- Che? – gli chiese suo padre con poca delicatezza, scrutandolo con diffidenza.
- Mi piacciono le montagne russe! – rispose con un sorriso, senza lasciar passare troppo tempo.
Akito lo guardò. Guardò suo figlio fingere di non avere nulla quando era invece palese stesse rimuginando chissà che cosa in quel cervellino, e si sentì molto triste. Una sensazione molto simile a quella che ogni tanto provava quando, ad esempio, gli capitava di guardare Fuka e vederla così inesauribilmente felice mentre ancora lui, da qualche parte nello stomaco, sentiva una fitta gridare “rimpianto!”. Però era molto più triste, perché erano due cose diverse. Con Yoshi non era l’impossibilità di adeguarsi appieno ad uno stato d’animo nonostante lo considerasse giusto, era il tristissimo rimorso nel dover sentire dentro “come pensi sarebbe stato se questo bambino non fosse esistito?” ogni volta che guardava suo figlio.
Suo figlio. E lui avrebbe dovuto già sapere quanto potesse essere terribile e doloroso per un figlio anche il solo intuire un pensiero simile nel proprio padre.
Che comunque… era strano, perché il suo non era mai un desiderio di ritorno al passato, un desiderio di “non avere Yoshi” perché con lui era tutto molto più difficile e molto più importante, ma piuttosto… il pensiero di Sana. Che dovunque si girasse era sempre là. Il tentativo folle di trovare un motivo, una scappatoia grazie alla quale loro “sarebbero rimasti insieme, se non che…”.
“Sì, certo. Se Yoshi non ci fosse stato, se io avessi potuto in qualche modo dichiararmi slegato da Fuka, saremmo sicuramente tornati insieme, dopo un po’.”
Così era molto più facile pensarci. Così poteva pensare a Sana senza distruggersi di sensi di colpa. Poteva crogiolarsi nella certezza che “l’amava, sì, ma Yoshi…”.
Che poi, amore.
Se avesse dovuto aggettivare l’amore, se avesse dovuto dire che l’amore è serenità, appagamento sessuale, condivisione giornaliera di gioie e dolori, allora amava senz’altro la sua Fuka.
Era quando pensava all’amore irrazionale, quello senza aggettivi, che Sana gli si attaccava alla mente e non l’abbandonava più.
***

Si complimentò con se stesso: giocando con Yoshi e prendendolo sulle spalle per aiutarlo a raggiungere la palla che s’era incastrata tra i rami bassi di un albero, era riuscito a rasserenarlo un po’, qualsiasi fosse il pensiero cupo in cui si stava rigirando prima. Sembrava che suo figlio si fosse divertito, che fosse felice. E poi, lui stesso era riuscito perfino a non deprimersi troppo ogni volta che, per accompagnare il bambino, doveva salire su una giostra sulla quale era già salito con Sana più di… vent’anni prima. L’aveva sconvolto ricordare tutto così bene, ma non si era mostrato triste neanche per un secondo, e di questo andava molto fiero.
Guardò suo figlio dormire profondamente, un’espressione esausta ma soddisfatta, sul sedile posteriore, e mise in moto. Vide che anche Fuka gettava uno sguardo al bambino, e subito si sentì assalire da un impulso assurdo: stringere la mano a sua moglie e sorriderle. Si disse, “Davvero, ho tutti i motivi per essere felice, ed anche in tutti questi anni, io felice lo sono stato, ed allora…?”.
- Bè, parla, dai.
La guardò con occhi curiosi, incerto sul da farsi.
Fuka prese un’enorme boccata d’aria e poi chiarì le sue intenzioni.
- Lo so che è una situazione brutta. Io so tutto, Akito. Ma tutto tutto. Quello che non so lo immagino, dunque non farti… problemi, se vuoi sfogarti.
Lui continuò a guidare, tenendo lo sguardo fisso sulla strada.
- Scusa. – disse alla fine.
- Che c’entra?! – sbuffò Fuka incrociando le braccia, - Non volevo suggerirti che fosse il caso di scusarti, te l’avrei detto chiaramente, se fosse stato così.
- Lo so.
- Ecco. Ed allora perché di sei scusato? Guarda che io volevo sentire tutt’altro tipo di cose.
- Sì, ma quello è l’unica cosa che voglio dirti adesso.
Fuka ridacchiò, abbassando lo sguardo.
- Sai? Sinceramente parlando, questo tuo senso di colpa mi consola, un po’.
- Che vuol dire?
- Cioè… - guardò fuori dal finestrino, inspiegabilmente agitata, - Se… pur amando lei… ami anche me al punto da sentirti in colpa, io mi sento felice. Anche se forse sto semplificando la situazione…
Akito ebbe voglia di fermarsi di colpo, scendere, afferrare Fuka per le spalle, scuoterla e baciarla. Non lo fece.
- Ma che cosa dici?
- Era chiaro, dai…
- Tu lo sai cosa provo per te.
Fuka annuì.
- Non… parlare come se fossi rassegnata al secondo posto per via di… Kurata. Non sei mai stata al secondo posto, da quando ci siamo sposati.
Fuka annuì ancora.
Forse si sentiva seconda solo in quel momento, solo in quella settimana. Se Akito le assicurava che dopo sarebbe immancabilmente tornata prima, allora poteva fidarsi.
***

- Oh! Com’era il Dreamland?
Sana sembrava allegra.
- Bello! – rispose sorridendo, - Yoshi-chan s’è divertito veramente tantissimo!
- Eh, sì… immagino…
Se ci pensava bene, si accorgeva che era la prima volta che stavano loro due da sole, sa quando lei e Naozumi erano arrivati. Trovò in qualche modo sgradevole quella considerazione. Che bisogno aveva di annotare mentalmente il tempo passato con Sana, le parole dette? Non aveva senso. Cioè, sì, poteva essere doloroso scoprire che non era più naturale passare del tempo insieme senza parlare di futilità, ma non puoi annullare gli effetti del tempo e degli eventi, no?
- Ti aiuto a preparare la cena? Facciamo qualcosa di speciale, sarete affamati, voi.
Annuì sorridendo lievemente, e tirando fuori dal frigo una confezione di funghi.
- Taglia questi a fettine sottili, grazie.
- Ti avverto che se non è cucina francese io…
Rise.
- Dai, devi solo tagliarli a fettine!
Sana annuì, prendendo un coltello dal cassetto e cominciando a lavare i funghi.
- Ti vedo allegra! – commentò Fuka, tanto per parlare.
“Sì, è perché fino ad ora non ho visto Akito”, pensò Sana, e rabbrividì.
- Ho fatto una lunga passeggiata con Nao. Ritrovarmi in mezzo alla gente è stato bello.
- Assalita dai fans?
Sana rise.
- Sì, ma è stato piacevole.
Era vero, comunque. Da quando era arrivata in quella città aveva visto solo Akito – il piacere ed il dolore che riusciva a procurarle – Naozumi – il modo in cui comunque lo faceva soffrire – e Fuka – la gelosia che provava nei suoi confronti – ed uscire da quella casa, stare per strada, sentirsi chiamata da sconosciuti talmente contenti di vederla, sì, le aveva fatto bene. Perfino stare tanto vicina a Naozumi le era sembrato meno pesante, ed aveva adorato poter camminare con lui stringendogli una mano, così, in tranquillità. E dunque sì, era felice.
- Ne sono contenta.
E poi il silenzio. Un silenzio di una leggerezza impalpabile veramente meravigliosa, del quale tutte e due furono grate.
“Sì”, si disse Fuka, “alla fine, c’è poco da prenderla male. E’ così che funziona quando, pur volendosi bene, un bene antico che non sai motivare, per qualche ragione ci si separa per tanto tempo. Non c’è da arrabbiarsi, c’è solo da stringere i denti.”
In tutta onestà, non poteva dire di provare ancora dell’affetto per quella donna. Non avrebbe potuto negare con risolutezza di odiarla, e neanche affermare il contrario, però. Ma, forse per abitudine a non averla, non faceva altro che desiderarla il più lontano possibile da casa sua.
***

Sana agitò una mano verso di lui.
- Ciao… - gli disse flebilmente, stringendosi nelle spalle e diventando improvvisamente minuscola.
- Ehi. – le si avvicinò, sedendosi sul divano.
- Disturbo? – chiese Naozumi senza preoccuparsi più di tanto di nascondere l’astio nella voce, entrando lievemente in salotto.
Era la prima “rivincita” che si prendeva “su di loro” in assoluto. Sana sorrise e scosse il capo, senza commentare. Perfino Akito rimase in silenzio, senza guardare l’altro uomo ma salutandolo con un cenno della mano.
Naozumi raggiunse il divano e si sedette alla destra di Sana. Akito era ancora ben saldato alla sua sinistra, le mani sulle ginocchia.
“Eccomi qui,” pensò Sana, e le venne quasi da ridere. Poi pensò con disappunto che, almeno, lei e Fuka non avevano mai voluto mettere Akito in mezzo a loro su un divano, come nella pin-up di uno shoujo manga. Perché, dunque, loro due invece potevano permettersi di tenerla in quella situazione? “Forse che gli uomini fanno lavorare il cervello secondo gli schemi degli shoujo?”, pensò, ed una risata quasi le sfuggì dalla bocca, ma solo quasi, perché il realtà era una scena di una tristezza ed uno squallore infiniti.
E mentre stava lì chiedendosi se sarebbe stato più saggio avvicinarsi definitivamente a Naozumi, magari appoggiarsi a lui e dare ad Akito un segnale chiarissimo, o semplicemente alzarsi dal divano e dissociarsi da quella situazione assurda, lui la toccò. Akito sollevò una mano e, di nascosto, le posò due dita sull’interno del gomito. Neanche fece pressione più di tanto, la sfiorò solamente e poi lasciò lì la mano, come se quello fosse il suo posto naturale.
A Sana non servì altro. “Sono sua”, ammise con terrore, “Sono tutta sua”. E poi, quasi tremando, sentendosi ghiacciare le ossa e la fronte mentre tutto ciò che di lei rimaneva caldo era il punto su cui sostavano le dita di Akito, si disse “devo scappare da qui. Devo andarmene subito”.
***

Quella notte ne parlò a Naozumi. Non disse tutto, ovviamente, e d’altronde non ce n’era neanche bisogno, gli disse solo che voleva andare, e lui in qualche modo, nel suo solito modo, dovette capire, perché la strinse forte, non la baciò, non l’accarezzò, non le disse niente, la strinse e basta, e quella stretta poteva dire una sola cosa, era inequivocabile, “Ti amo e ti voglio con me e basta”, e Sana pianse un po’, ma non erano lacrime di rimpianto e neanche di nostalgia, e nemmeno di tristezza perché Akito non l’avrebbe più rivisto. Forse erano semplicemente lacrime di commozione, ma lei volle credere fossero d’amore.
***

L’indomani mattina Sana ed Akito si svegliarono molto tardi, nel silenzio più assoluto, e quando si ritrovarono nella stessa stanza, e si guardarono negli occhi, si videro di fronte ad una sconvolgente evidenza dei fatti.
Erano soli. Improvvisamente e senza un apparente motivo.
Si guardarono a lungo cercando di capire come e perché, ed alla fine, tacitamente, decisero di cercare qualche indizio in giro per la casa.
Trovarono un biglietto in cucina, sul frigorifero. Non diceva niente di speciale, non spiegava nulla, nulla più di quanto non avessero già capito da soli, “Siamo usciti, torniamo a pranzo”. Cosa significasse, per Sana era abbastanza chiaro, non c’era bisogno di rifletterci né di sconvolgersi più di tanto. Nelle ore di dormiveglia che avevano preceduto il sonno s’era ritrovata spesso a pensare che, forse, Naozumi per lei l’avrebbe fatto davvero.
Akito, invece, sembrava cadere dalle nuvole, e la guardava come se volesse riuscire a trovare un senso a tutto nella sua espressione.
- Bè? – le chiese infine, lievemente allarmato da quel prolungato silenzio.
Lei si strinse nelle spalle ed uscì dalla cucina, sorridendo tristemente. Lui le corse dietro, afferrandola poco delicatamente per un braccio.
- Che mi stai nascondendo?
- Ma nulla, nulla…
- Dimmelo subito, sai?
L’ordine non la infastidì quanto avrebbe dovuto. Piuttosto, nel millesimo di secondo in cui si voltò verso di lui, ebbe modo di pentirsi mille volte per aver chiesto a Naozumi di andare via prima. E se ne pentì per vari motivi. Primo fra tutti che non lo voleva veramente. Già, in un mondo perfetto in cui fosse stata libera di scegliere del proprio destino senza per ciò distruggere la felicità altrui, avrebbe sicuramente deciso di appiccicarsi, senza mezzi termini, ad Akito Hayama, e possibilmente diventare parte di lui, una sua appendice, un’appendice con cui poter fare l’amore, però, e sarebbe stato perfetto. Secondo poi, aveva una paura immensa che la consapevolezza di doverlo lasciare di lì a poche ore amplificasse le sue sensazioni tanto da stordirla o confonderla.
D’altronde, stava già succedendo. Lui la teneva ferma per un braccio, probabilmente la guardava dritta negli occhi, lei non poteva saperlo, perché faceva fuggire lo sguardo altrove, e già lo sentiva riempirsi di lacrime di un’agitazione prematura ed assolutamente ingiustificata.
- Dimmelo. – ripeté lui, e Sana sentì la sua voce tremare.
- Vado via.
Lui sembrò rilassarsi, tanto che allentò la presa sul braccio e fece scivolare la mano lungo l’arto, verso il basso. Evidentemente non aveva colto.
- Vado via oggi. – precisò, - Questo pomeriggio.
Le dita si richiusero attorno al polso, con uno scatto doloroso.
- Ahi. – disse Sana atona. Cominciò a piangere, ma non sentiva davvero male. Ed anche l’avesse sentito, il motivo delle lacrime non sarebbe stato quello.
- Perché? – chiese lui quasi subito, senza lasciarla, ignorando il suo lamento.
- Immaginalo. – disse lei abbassando lo sguardo.
“Mi ama ancora”, rimbombò nella testa di Akito. “E la amo anche io”. Le sue dita glielo confermarono, smettendo di stringere e cominciando ad avvolgere. I muscoli del braccio fecero loro eco, attirandola più vicino, e poi fu come se tutto il suo corpo non volesse fare altro che gridare amore per quella donna, e lei si ritrovò cinta dalle sue braccia, talmente vicina a lui da potersi illudere di affondare nel suo petto.
Chiuse gli occhi, stringendolo a sua volta dietro la schiena, aggrappandosi con le dita e con le unghie alla sua maglietta bianca.
- Non ti sembra strano non doversi dire niente, a questo punto? – gli chiese con una risatina imbarazzata.
Lui scosse il capo, e nel muoversi col mento le sfiorò la fronte. Un contatto più dolce era assolutamente inimmaginabile.
- Però dovremmo parlare dei perché. Perché questo sentimento, perché lasciare le cose come stanno. – sospirò, - Perché partire.
- Perché sì. – disse lui, e lei pensò che è così che si fa con i bambini, si da un imperativo categorico assoluto senza fornire motivazioni di sorta, perché quando sei troppo piccolo non puoi capire che se ti arrampichi su un tavolo e ti butti di sotto puoi anche morire, ed è per questo che mamma e papà ti afferrano per il polso, ti scuotono un po’ e ti dicono che non si fa “perché no”.
“E’ uguale, Akito, non siamo cresciuti mai”.
Ed allora non aveva senso disquisire sui loro sentimenti, lei doveva andare via, perché sì, e non dovevano parlare di quello che provavano per Fuka e Naozumi, lui doveva lasciarla andare, perché sì, non avevano neppure bisogno di parlare di Yoshi e del futuro bambino di Sana, non dovevano vedersi mai più, perché sì.
- Allora adesso non dovresti abbracciarmi più.
- Questo è diverso.
- E cos’è? Una commemorazione?
- …può darsi. – concluse lui facendo spallucce.
Si separò da lei, conducendola sul divano per una mano. Quando si furono seduti lì, l’abbraccio ancora, lasciandole accomodare il capo sul suo petto, godendo della lieve pressione della sua testa sui suoi respiri.
- A cosa serve stare seduti così? – chiese lei con voce tremante.
- A ricordarlo sempre. – rispose Akito facendole scivolare una mano lungo il braccio, in una lenta carezza.
Lei rabbrividì per tutta la durata per contatto. Le venne la pelle d’oca ovunque. Non si mosse quando la sollevò, né quando lui chinò il capo per raggiungere le sue labbra.
- No… - mormorò, ma già pensava “magari uno solo”.
Mentre lo baciava, sentì un sapore orrendo. D’altronde, nessuno dei due s’era ancora lavato i denti.
- Ugh… disgustoso… - commentò Akito separandosi da lei, ed un secondo dopo la stava baciando di nuovo.
“Un altro ancora, magari… l’ultimo e basta”.
Quando lui scese sotto la camicia da notte, sfiorandole le gambe, Sana pensò che, comunque fosse, quei giorni erano stati belli. Non felici, non spensierati, non riposanti, piuttosto tristi, pesanti, assolutamente irripetibili, belli. Intensi. Ed intensa doveva essere anche quella mezz’ora di sesso, intensa doveva essere anche la successiva ora e mezza in attesa del ritiro di quei due, intenso doveva essere il loro addio.
“Rendiamo giustizia a questo amore, Akito”, pensò salendogli a cavalcioni ed accogliendolo dentro di lei con un gemito.
Lui chiuse gli occhi, abbandonandosi sulla spalliera del divano.
- Muoviti… - sussurrò, e lei si mosse, verso l’alto, in avanti, verso il basso, indietro, scendendo giù fino al massimo, risalendo su fino al limite, lenta, già sudata, appoggiandosi indietro alle ginocchia di lui, sporgendo il seno verso il suo viso. Akito dischiuse gli occhi, vide l’offerta, vi si gettò addosso, avido, avvolgendo un capezzolo con le labbra e l’altro con le dita, non resistendo all’impulso e cominciando a sua volta a muoversi con vigore, gustando il suo sapore e quell’adorabile lentezza, come stessero giocando ad allontanare il più possibile la fine di quel rapporto.
“Vorrei tirarla fino a stasera”, si ritrovò a pensare, e quasi rise di se stesso, ma che voleva fare?, eppure sarebbe stato stupendo, lì su quel divano per cinque o sei ore, sempre lo stesso movimento, non riusciva neanche a contemplare l’eventualità della stanchezza, figurarsi la noia, erano lui e Sana in venti minuti infiniti.
Liberò il seno e si sollevò, in cerca delle sue labbra, ma più lui si sollevava più lei veniva spinta verso l’alto, e si allontanava.
- Sana… - la chiamò, e lei aprì gli occhi e si accorse del suo desiderio, si chinò e gli circondò il collo con le braccia, e poi dischiuse le labbra, ed Akito la baciò e sentì di nuovo quel saporaccio da notte, “Siamo umani, infondo”, si disse, “non durerà per sempre, l’eco delle sensazioni, per quanto vivido, prima o poi svanirà, e noi sapremo che abbiamo fatto l’amore e che è stato bello, ma ci saremo già lavati milioni di volte e su di noi, di tutto questo, non sarà rimasta più alcuna traccia, ma adesso è fantastico lo stesso”.
Venendo si abbracciarono forte, fortissimo, “Magari così ci fondiamo”, pensò Sana infantilmente, ma non accadde nulla ed allora, dopo un po’, si separarono.
***

Camminavano piano, guardando fisso per terra, silenziosi, senza sfiorarsi nemmeno e tenendo sempre costante la distanza fra di loro. Fuka sbirciò nella sua direzione solo dopo quasi un’ora. Lo vide tranquillo, insomma, almeno impassibile. Lei, invece, era sicura di essere furiosa, e sapeva bene che era esattamente ciò che la sua espressione mostrava.
- Non capisco. – sbottò d’improvviso.
- Che cosa? – chiese lui con un sospiro, senza guardarla.
- Perché hai voluto lasciarli soli. Insomma, poche ore ed andate via.
- Appunto.
- Mi sembra che siano stati dati loro già abbastanza contentini, anche escludendo questo.
- Non è una questione così semplice.
L’uomo si guardò intorno, fissando lo sguardo su una macchia verde pochi metri avanti a loro.
- Cos’è quello?
- Un parco. – rispose Fuka trattenendo l’astio.
- Ci sono le panchine per sedersi?
- Se è per questo, volendo c’è anche un bar.
Naozumi annuì e ricominciò a camminare. Lei lo seguì oltre il cancello. Era un grande giardino, quello, un giardino all’inglese. Aiuole con piante di ogni tipo, dalle più classiche alle più esotiche, intervallate da lindi vialetti lastricati, e panchine il legno e ferro battuto su ogni lato della via, la quale poi sfociava in un’ampia piazza occupata quasi per metà da un’immensa fontana con statue, papere, pesci rossi ed acqua torbida, e per un altro buon quarto da un edificio basso e di un orrido gialliccio sbiadito – il bar – e dai tavolini che lo circondavano.
I due presero posto, ed ordinarono un caffè ed una granita al limone. Ovviamente fu Fuka a prendere il caffè, per Naozumi era una bevanda troppo forte. Erano lontani i tempi in cui Sana lo prendeva in giro perché non riusciva a masticare una semplicissima chewing-gum alla menta, ma lui, tutto sommato, era cambiato poco. Troppo poco.
Fuka riuscì a tacere solo per poco.
- Allora?
- Allora cosa?
- Se la questione non è semplice, com’è?
- …complicata…?
- …hai per caso intenzione di morire…?
Naozumi rise e poi la guardò fissa negli occhi.
- Fuka, tu non ti senti in colpa?
- Ah, no! In colpa no! – disse infastidita ed adirata, sbattendo la tazza sul suo piattino e facendo schizzare sul tavolo qualche goccia di caffè, - In colpa no. Tutto quello che è successo da quando si sono lasciati, ed anche quello che è successo in questi giorni, è una loro responsabilità, e noi siamo stati fin troppo accondiscendenti, per come la vedo io.
Lui scrollò le spalle.
- Beata te che la pensi così.
- Perché, tu invece mi vorresti dire che ti senti in qualche modo colpevole di qualcosa?
Naozumi annuì.
- Assurdo. – commentò acida Fuka incrociando le braccia ed accavallando le gambe.
- Sarà. Però tu lo sai, Fuka, che si amano.
Il volto dai lineamenti tesi della donna tremò, e lei deviò lo sguardo sugli zampilli della fontana poco distante.
- Lui rimarrà con me. – affermò con decisione, la voce ridotta ad un sibilo.
- Sì, lo so, - annuì Naozumi, - anche lei rimarrà con me. Ma noi vivremo sempre col pensiero che ce li siamo tenuti stretti a discapito del loro amore.
- Ricordati che se tornassero insieme lo farebbero a discapito del nostro. – disse con gli occhi che si riempivano di lacrime.
- Sì, ma non lo faranno. Il che fa di noi gli unici colpevoli.
- Smettila! – quasi urlò, con voce stridula, - Che diavolo di discorsi mi fai, perché mi dici queste cose? Non ci avrei pensato, mi sarei obbligata a non pensarci, se tu non me l’avessi detto così!
- Lo so. Scusa. È che… - tirò fuori un fazzolettino di carta dalla tasca, porgendoglielo, - portare questo peso tutto da solo non mi va. Almeno, così potremo farci una chiamata ogni tanto, sfogandoci perché ci riteniamo inadeguati, infelici, eccetera eccetera.
Fuka singhiozzò, e poi scosse la testa.
- Non credo che succederà. Sai, da sempre, il più importante dei miei obbiettivi è stato “stare con Akito”. Non potrei pentirmi di nulla fatto per stare con lui.
Sul momento, ascoltando le parole di Fuka, a Naozumi venne da pensare “troppo egoista”. Poi, però, si corresse. “No, io troppo martire”.
- Naozumi, io lo amo. – disse la donna stringendo le mani in grembo.
- Lo so già. Perché lo ripeti?
Lei sorrise con imbarazzo.
- Ogni tanto fa bene ribadire il concetto.
***

Quando suonarono alla porta, Akito non perse un secondo prima di alzarsi dal divano per andare ad aprire.
- Aspetta, aspetta! – mormorò confusamente Sana sollevandosi di scatto e tirandolo per la maglia.
“E’ l’ultima volta che lo tocco. Non lo farò più”, si disse, e già le veniva di nuovo da piangere.
Lui le prese la mano, dolcemente, provando a scostarla. Lei non si mosse, e strinse più forte.
- Dimmelo. Solo una volta. Dai.
Akito la guardò in silenzio per qualche secondo. Poi diede uno strattone improvviso alla mano – non forte, non violento, solo improvviso – e la mano si staccò.
- No. – disse piano.
Lasciò andare il polso e le strinse teneramente due dita.
- Non ti ci aggrappare più, Sana.
***

Akito aiutò Naozumi a caricare le valigie nella macchina, e poi lo salutò con una stretta di mano.
- Ci accompagni tu, Fuka? – chiese Sana titubante.
- Sì, - rispose lei sorridendo, - Akito rimane a casa con Yoshi-chan.
Lui le passò davanti proprio in quel momento. Lo salutò senza avvicinarsi, con un sorriso ed un cenno della mano. Lui fece la stessa cosa, sorriso compreso. Flebilissimo, ma compreso. Salutò da lontano anche il biondino che, imbarazzato, faceva capolino dalla porta d’ingresso, e sorrise pensando che si sarebbe fatto un bel ragazzo.
Il viaggio in macchina su molto breve. Alla stazione, Sana abbracciò forte la sua amica e, seppure a stento, riuscì a resistere all’impulso di chiederle scusa, perché, si disse, alla fin fine quando un argomento è già chiuso è meglio tacere.
Naozumi salutò Fuka con una pacca sulla spalla. Poi, lui e Sana salirono sul treno.
***

- Come stai? – gli chiese quando il treno fu fuori dalla città.
Lui non sentì il bisogno di mentire.
- Mi sento sollevato. – disse sorridendo. Sana ricambiò, poi tirò un respiro profondo.
- Naozumi, ti devo dire una cosa.
Continuò a sorriderle, annuendo.
- Sono incinta.
Si sentì scoppiare il cuore. “E’ suo. E’ di Akito”. Ne ebbe la certezza assoluta, non poteva essere diversamente.
Stavolta non si sentiva in grado di agire da Naozumi. Si alzò in piedi e, senza dire una parola, recuperò la valigia dallo scomparto sopra i sedili e si diresse verso l’uscita della cabina. Era troppo, era semplicemente troppo, quello.
- Dove vai? – chiese Sana allarmata, seguendolo.
- Via, non so dove! Tu vai dove vuoi, basta!
Lei intuì. Si forzò a non piangere.
- E’ tuo, Naozumi.
Il cuore gli scoppiò di nuovo.
- …che?
- Ero già incinta prima di venire a Kyoto.
- …non mi avevi… detto niente… - considerazione scontata, ma cos’altro avrebbe potuto dire?
- Scusa. Non mi sentivo ancora sicura e… scusa.
Lasciò andare la valigia per terra e le si avvicinò.
- Sei sicura, adesso?
Lei annuì.
- Non mi stai mentendo, vero?
Negò.
Naozumi recuperò il bagaglio e lo ripose al suo posto. Si sedette. Sana lo imitò quasi subito.
- Scusa.
- Basta scuse. Saremo genitori?
- Sì.
- Per sempre?
- Che vuol dire?
- Staremo insieme per sempre, Sana?
- Sì.
***

Le storie d’amore possono andare in molti modi. A volte ami per sempre una persona anche quando non ci vivi insieme, altre volte non riesci mai ad amare la persona con cui stai; possono esistere storie infinite e cortissime; i tempi si dilatano quando si è vicini, oppure diventano troppo brevi; e poi ci sono tutte le infinite vie di mezzo; ed a volte finisce bene, o male.
Le storie d’amore – e gli impieghi precari – sono le più instabili delle attività, perché i fattori che ne determinano l’esistenza e la rottura sono sempre nuovi, sempre inediti, anche quando già vissuti, e non finiscono mai, non c’è un punto della storia in cui ti fermi e dici “ok, non c’è una possibilità che sia una che ci si lasci”.
E comunque le si vive, e non ci si chiede mai se valga veramente la pena, se non sia meglio saltarle e passare direttamente ad altro. Solo, devi tenere presente che in ogni momento potrebbe presentartisi il dovere di una scelta. Una scelta immediata, che devi essere pronto a fare immediatamente, e della quale dovrai sempre subire le conseguenze.
Così pensava Akito senza un’ombra di rimpianto sul viso, mentre rubava l’ultima polpetta dal piatto di sua moglie e, fra le grida infuriate di quest’ultima, si preparava a seguire suo figlio in salotto, davanti alla tv, per guardare quel programma demenziale ma divertente che davano al sabato sera sul quinto canale, e che a tutti e due piaceva tanto.
Genere: Drammatico/Malinconico/Triste/Romantico
Pairing: Sana/Akito
Rating: PG
- Una fuga dalla realtà ha ben poco di vero. Non c'è vita, fuori dal mondo. Sana ed Akito lo impareranno.
AVVISI: Nessuno.
Commento dell'autrice: *_______* Era una vita che non scrivevo oneshot *_* Che poi non è neanche vero, ma mi sembra davvero tanto ù_ù Comunque, frutto di un’ispirazione improvvisa che, tra alti e bassi, si è protratta per giorni e giorni XD Un finale surreale ù_ù XD Ma un significato profondo ^_*
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Lascio scorrere il mio sguardo sul tuo corpo addormentato di fianco al mio. So che, se fossi sveglio, quest’incanto non esisterebbe, quindi cerco di godere appieno di ogni istante prima che tu risorga dalle lenzuola. Nella luce del primo mattino, i tuoi capelli sembrano brillare. Non vale a nulla la tenda bianca che c’è sulla finestra di questa camera d’albergo, il sole è irrimediabilmente attratto da te, raggiunge il tuo corpo e lo avvolge, dandogli calore, facendolo brillare.
E non perché tu sia una persona solare. Anzi, proprio perché sei sfuggente, proprio perché sei una luna dalle mille facce, il sole non può fare a meno di volerti.
Spiacente sole, lui è già mio.
Pelle abbronzata… colore del miele… diverso sapore. Il sapore è tuo. Lo stesso che sentii quella volta, lo stesso del nostro secondo bacio.
Ehi, ricordo ogni bacio con precisione, fino al liceo! Mi perdonerai se non riesco a fare la conta dei successivi, ma ti renderai conto che sono diventati troppi perché io possa tenerli a mente…
Troppo numerosi e troppo concentrati.
Ovviamente è uno scherzo, non saranno mai troppi né troppo concentrati. Io non mi sazio, a quanto pare.
Quel neo sotto l’ascella… quante volte l’ho sfiorato nello stesso momento in cui tu sfioravi i miei…? Innumerevoli. Soprattutto ultimamente.

Vai, Sana, sei un’adulta!

Ridacchio al pensiero, silenziosamente perché non voglio assolutamente che ti svegli di già.
È stata una bella idea venire qui in vacanza, sai? Lo penso davvero. Quando ero più piccola pensavo sempre che quando sarei stata grande, indipendente, quando avrei vissuto per conto mio, sarei stata maggiormente in grado di organizzare e gestire i miei impegni. Ero fiduciosa nel dire “Vedrai, quando sarò autonoma potremo vederci più spesso.”. Purtroppo però, più divento grande più lavoro, e con dei film in mezzo – oltre alle solite pubblicità e le apparizioni in tv – puoi organizzarti bene quanto vuoi, ma sono le esigenze di regia che stabiliscono i tempi della tua vita. Non è bello dirlo, eh?
Poi, ovviamente, devo pensare di non essere l’unica ad avere degli impegni. Spesso, quando io sono libera tu sei impegnato, e viceversa, così passo ore intere davanti alla televisione aspettando la prossima edizione del telegiornale che mi ripeterà per la centesima volta che ti sei qualificato per le Olimpiadi, che hai vinto un torneo nazionale, che hai superato il record di KO eccetera, eccetera, ecctera.
Tu guardi ancora la televisione per ricercare il mio viso?
È brutto anche questo. In ogni caso, foto e televisione non rendono giustizia alla tua presenza.
Alla tua presenza di fianco a me.
Più ti guardo e più penso che queste vacanze siano una benedizione divina.

No, non svegliarti ancora, voglio nuovamente perdermi nel guardarti. Espressione rilassata, come dormi bene…
Sono rilassati tutti i muscoli del tuo corpo, e sei ugualmente bello di quando invece sono tutti tesi e sotto sforzo. Una volta, lasciando vagare la mano su di te, mi sono chiesta quanti muscoli tu sia in grado di mettere in funzione per darmi piacere, mentre facciamo l’amore. Lì vedevo lì, in movimento, ed erano tutti attivi!
Partecipavi con tutte le tue fibre. Sono gli istanti in cui penso “lui è mio, interamente, non c’è nulla di ciò che lo compone che possa sfuggire alle mie mani”.
Si… la mia mano su di te… accarezza il tuo capo, scende lungo il collo, per le spalle… la lascio andare seguendo l’arco della tua schiena, mi fermo prima dell’arco successivo perché si, ancora sono imbarazzata da queste cose.
Ti concedo di ridacchiare e di procedere col tuo solito sarcastico “non sembra quando siamo a letto insieme”. Lo so, che non sembra, ma è solo perché tra le tue braccia difficilmente riesco più a capire cosa provo, o a provare qualcosa di diverso dalla passione pura.

- Sana…? Che fai?
- Ah… ciao!
- Mi fissavi? Mi accarezzavi?
- Ma che…? Ma smettila!
Martellata in fronte. Lo tengo sempre accanto, il martello, he he…
- Lo so che lo stavi facendo! L’ho sentito sulla schiena!
- Avevi una mosca e l’ho scacciata!
- Ah si…?
In un secondo – non ho neanche il tempo di capire come – sono tra le tue braccia, e tu segui il mio profilo posteriore dal collo alla schiena.
- Tu così scacci le mosche?
- Avanti… finiscila…!
Mi lasci e torni disteso sul letto, guardando il soffitto. Anche io mi lascio andare sul materasso, respirando a pieni polmoni il tuo odore che è rimasto nell’aria.
- Che caldo…
- E’ estate, Sana.
- Lo so! Era per dire qualcosa! Accidenti, sei impossibile!
- Devi per forza dire qualcosa…?
Silenzio. Solo i nostri respiri nell’aria. Che strana tensione…
- Ahm… andiamo a mare…?
Sospirando rumorosamente, ti alzi dal letto dirigendoti in bagno.
- Andiamo a fare una passeggiata.
Tono intransigente, prima di sparire dietro la porta.
Non si può pensare di farti dei complimenti che elimini subito qualsiasi motivo per meritarteli, accidenti a te.
**

- Che ore sono?
- Ti annoi?
- Non mi annoio…
- …
- Akito…?
- Si?
- Si può sapere cos’hai?
- …
- …
- …
- Akito…
- Si…
- Ti ho fatto una domanda…
- Lo so.
- Risponderesti?
Ti fermi. Nel bel mezzo di un boschetto poco distante dalle rive bianche e dal mare fresco dove vorrei essere – perché non siamo andati al mare? Eh? – ti fermi e mi fissi negli occhi. Per un lunghissimo istante. Poi, d’improvviso, abbassi lo sguardo sospirando e scuoti la testa.
- No.
- Perché???
- Perché sarebbe inutile!
- Perché?!
- Non capiresti!
- Ah, questa poi!
- Uffa… Sana, continuiamo la passeggiata!
- No!
- Ti lascio qui!
- Fai pure!
Ci blocchiamo per qualche secondo, stringendo i pugni e guardandoci con crescente rabbia, prima di sbottare in un contemporaneo “Ma tu non cambi mai?!”.
Poi, un semplice sospiro e torniamo a camminare fra gli alberi, l’una di fianco all’altro. Il tuo braccio sfiora accidentalmente il mio nel muoversi.
Ti fermi, mi guardi.
Quale strana alchimia agisce fra noi, portandoci addosso ad un pino immersi nel piacevole passatempo dei baci e delle carezze? Non stavamo litigando, poco fa?
La mia, è una risatina rassegnata.
- Che fai, ridi?
- E certo che rido! Una situazione assurda…
Ricominciamo a camminare silenziosi, la tensione nervosa di poco prima sembra completamente sparita. All’orizzonte, davanti a noi, si vede il mare.
- Sicuro che non ti vada di farti una nuotata?
**

- AKITO HAYAMA!
- Mi aspettavo una reazione simile…
- Come puoi essere così tranquillo??? Qui a Tokyo il finimondo e lì da voi… dove diavolo siete voi, a proposito???
- Uhm… un paesino di mare… non sono autorizzato a dire il nome…
Allontanò leggermente l’orecchio dalla cornetta, appena in tempo per scampare alle urla indiavolate di Tsuyoshi Sasaki, diciott’anni, impiego: studente, funzione: suo migliore amico, hobby: riportarlo con i piedi per terra quando faceva qualche follia. Come in quel momento.
Il ragazzo biondo si voltò indietro, scuotendo il capo in direzione della sua ragazza, Sana Kurata, diciott’anni, impiego: attrice, funzione: farlo impazzire, hobby: non esserci tanto spesso.
Si, bè, forse stavolta Tsuyoshi non sarebbe riuscito a riportarlo indietro.
Sana si avvicinò a lui, tendendo la mano.
- Dai, passamelo.
Lui obbedì meccanicamente facendosi da parte e tentando di immaginare.
- Tsuyoshi-kun? Si, sono io. No, non mi ha rapita lui. No, non l’ho neanche rapito io. Ma la smetti di blaterare? Ah, dì a Fuka-chan che mi dispiace di essere sparita senza avvertire. Va bene, dillo anche ad Aya-chan. Va bene, scusami Tsuyoshi-kun! Si, lo immaginavo. No, non m’importa. Mia madre è d’accordo, e comunque non sono una bambina.
Poi, s’interruppe un attimo.
- Tornare…?
Lo guardò, con un misto di sorpresa e terrore negli occhi.
- S-Si… lo so che… tre settimane… ma… tornare…!
Sbuffando le si avvicinò, riprendendo il telefono fra le mani.
- Tsuyoshi? Ti richiamo io.
- Va bene, ma tu NON TI AZZARDARE a spegnere di nuovo il cellulare, capito?!
- Si, si…
Terminò la chiamata e spense il telefonino senza dire una parola, tornando poi a guardare Sana.
- Perché sei così sconvolta adesso?
- Sconvolta? Io??? Ma che dici!
Gli diede la schiena, dirigendosi a passo veloce verso la cucina dell’appartamento e sparendo dietro la porta. Lui la seguì.
Akito Hayama, diciott’anni, impiego: karateka, funzione: essere innamorato, hobby: farsi trascinare. La seguì.
- Sana…
- Si?
Disse lei guardandolo distrattamente mentre beveva un succo di frutta direttamente dalla bottiglia.
- Neanche io voglio tornare.
La ragazza posò il contenitore sul tavolo, riavviandosi una ciocca di capelli e guardandolo intensamente.
- Allora non abbiamo niente di cui discutere.
- Invece si, Sana.
- Invece no, Akito!
La osservò muoversi veloce accanto a lui e tornare nel salottino.
- Sana, ascoltami…
- Uff… che c’è ancora…?
- Non vorrei tornare a casa… ma dovremmo farlo…
- Akito, santo cielo! Eppure di solito sei tu quello che vuole evadere dalla realtà!
- Si, è vero, sono io, ma se manchiamo dal mondo per tre settimane…
- Noi non manchiamo dal mondo! Noi siamo qui, esistiamo, ci stiamo divertendo! Questo è un bel posto, e qui ci siamo noi, e nient’altro! Non hai voglia di restarci per sempre?
- Si che ne ho voglia. Ma non possiamo fare tutto ciò di cui abbiamo voglia.
- Ed allora dovremmo agire sempre facendo il contrario di ciò che vogliamo? Bene! Allora adesso ti lascio e domani torno alle mie riprese!
Lei trattenne il fiato, abbassando lo sguardo e cercando di arginare le lacrime. Akito le si avvicinò, stringendola presto fra le braccia.
- Adesso non fare così… non dico questo. Tu sei troppo intransigente.
- Macché… non ne posso più, Aki… ogni giorno, per settimane, per mesi! Ci sono periodi in cui riusciamo a vederci solo per un paio d’ore… così non è possibile stare insieme… voglio smettere di recitare…
- Non è vero, e lo sai.
- Si, lo so. Ma piuttosto che recitare e perdere te preferisco smetterla e tenerti accanto.
Si strinse a lui un po’ di più.
E lui si sentì morire.
Era vero, quella era una situazione dannata. Tra i suoi impegni e quelli di Sana, la vita stava diventando insopportabile.
Ecco il motivo della fuga.
“Solo una settimana, Aki, te lo prometto. Poi torniamo.”
E da una settimana erano arrivati a tre, scivolando veloci di paesino in paesino come scivolava il tempo, in assoluto silenzio. Senza neanche capire. O forse, capendo invece fin troppo bene che finito quel periodo sarebbe tornato tutto come prima, e tutto sarebbe stato nuovamente disfatto. Per questo avevano spento i cellulari. O meglio, Sana una notte aveva spento entrambi i cellulari senza dirgli nulla. Ma lui, che se n’era accorto, certo non avrebbe protestato.
Poi, quel giorno. Cominciava, effettivamente, a voler tornare a Tokyo. E per quanto si sforzasse di convincersi che era tutto a postissimo anche così, non ci riusciva. C’era qualche problema.
- Tu non mi perderai comunque.
- Io non posso saperlo.
- Ma si che lo sai. Te lo sto dicendo.
- L’hai già fatto in passato. E non hai mantenuto la promessa.
Ecco. Proprio quello che non voleva. Rivanghiamo i vecchi ricordi! Riapriamo le ferite! Rigiriamo il coltello nella piaga!
… ma perché…?
Si staccò da lei muovendo qualche passo nel salotto. Sana sembrò accorgersi dell’errore.
- Mi spiace, Akito. Non avrei dovuto dirlo. Io… mi fido di te! Davvero! Ma… gli effetti della lontananza…
Disse sorridendo tristemente e con un goccio d’ironia nella voce.
- Sana, non so che dirti. Dobbiamo tornare. Abbiamo da fare. Sono tutti preoccupati.
- Ecco, vedi? VEDI?! Già parti con un “abbiamo da fare”! Non riusciremo a stare insieme nemmeno un minuto! E poi adesso che Tsuyoshi-kun ci ha sentiti non sarà più preoccupato! Possiamo rimanere ancora un po’!
- Sana, tu non capisci, questo non è reale! È una stupidissima fuga!
- Invece è reale! Noi possiamo farlo diventare reale! Se… decidessimo di rimanere qui… per sempre…
Akito la guardò con stupore. Davvero era arrivata a pensare… cose simili? Fino a questo punto era arrivata la sua voglia di farla finita?
E lui non se n’era accorto. Lui, dannato stupido egoista e bastardo, lui, che andava in giro pavoneggiandosi – bè, pavoneggiandosi no, ma è lo stesso – dicendo di essere il suo ragazzo, LUI non si era accorto di quanto in là fosse andata la sua voglia di fuga.
Si avvicinò nuovamente, cingendola fra le braccia.
- No, Sana… mi… mi dispiace… ma non sarebbe reale neanche in quel caso…
Lei ebbe un sussulto, e non alzò lo sguardo.
- Sana, la nostra vita è anche questo. La nostra vita è anche il cinema, è anche il karate. È anche il non potersi vedere spesso. Il mio amore rimane inalterato.
- Ma… ma… Akito, io… io…
Scossa dai singhiozzi, Sana rimane immobile, stretta a lui. Pensando che non avrebbe mai voluto lasciarlo scivolare via.
Il tempo si. Lui no.
- Non torniamo…
Si aggrappò alla sua maglietta come all’ultimo soffio di vita.
- Ti prego.
Lui inspirò. Poi espirò. A fondo, il suo profumo addosso.
Scosse il capo.
- Solo un’altra settimana, Sana. Solo un’altra settimana.
**

- Cioè, ti ha detto che ti avrebbe richiamato e poi NON L’HA FATTO???
Tsuyoshi annuì sconsolato verso le due ragazze.
- Ed il cellulare?
Scosse il capo.
- Spento.
- L’IMMAGINAVO! Tsuyoshi, sei proprio uno stupido!
- A-Adesso calmati, Fuka-chan…
- Almeno HAI PARLATO CON SANA? Le hai CHIESTO DOVE SONO? E perlomeno QUANDO TORNERANNO?
Tsuyoshi si portò una mano alla fronte, massaggiandosi poi le tempie.
- Piantala di urlare, ok Fuka-chan…? Si, le ho parlato, ma non mi ha detto nulla… sinceramente credo che non voglia tornare…
- E CHI SE NE FREGA??? INSOMMA! CHE BAMBINATA! ALLA LORO ETA’!
- Fuka-chan…
Disse Aya mettendole una mano sulla spalla.
- Adesso cerca di calmarti, ok…?
L’impassibilità di Aya scosse entrambi nel profondo, tanto che Fuka si calmò davvero. Tsuyoshi la guardò a lungo, leggermente disorientato. Poi borbottò qualcosa abbassando gli occhi.
- Si, ecco, appunto. Adesso cerchiamo di ragionare con calma ed ipotizziamo il luogo dove possono essere… dopodiché andremo a prenderli e…
La sua ragazza lo investì con uno sguardo talmente freddo e severo che lui serrò le labbra e trattenne il respiro.
- Non faremo nulla del genere.
- Ma, Aya-chan…
Provò ad intromettersi Fuka.
Per un attimo, lo stesso sguardo glaciale che poco prima aveva investito Tsuyoshi, venne gettato su Fuka, ma Aya lo modellò rapidamente, cambiandolo in qualcosa di diverso, dipingendolo con i toni della severità composta e comprensiva di una madre.
- Fuka-chan, quei ragazzi sono ormai due adulti, e nel caso non fossero ancora del tutto maturi, bè, non potranno mai diventarlo se noi ci ostiniamo a riportarli indietro con la forza.
Fuka guardò in basso, silenziosa.
- In ogni caso non possiamo decidere delle loro azioni, quindi se vogliono farla finita con tutto e rimanere ovunque siano per sempre, ne hanno tutto il diritto. L’unica cosa importante non è forse che stiano bene, che siano felici?
I due che erano rimasti fino a quel momento in riverente ascolto, si dedicarono per qualche momento ad un’intensa contemplazione del pavimento. Fuka fu la prima a risollevare lo sguardo.
- Va bene, Aya-chan… hai ragione tu…
Disse la mora in un soffio, sospirando rumorosamente. Aya annuì soddisfatta, riavviandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Bene. Adesso mi prometti che starai tranquilla?
Fuka sorrise.
- Ti prometto che ci proverò…
Qualche minuto dopo, la ragazza andò via lasciandoli soli nella stanza di Tsuyoshi. Lui si sedette su una sedia, ed una strana inquietudine lo prese. Fu improvviso, inaspettato ed indesiderato. Era lì, con la ragazza che amava, e… e?
- Tsuyoshi…
Sbuffò lei lasciandosi andare seduta sul letto.
- Che hai?
- Io?
Aya sorrise con condiscendenza.
- Si, tu Tsuyoshi.
Anche lui sorrise con fare imbarazzato, come scusandosi dell’idiozia della precedente domanda.
- Ecco…
Gli ci volle una gran forza, per parlare.
- E’ che… poco fa… mi sei sembrata… strana…
- …
- Ed ho pensato…
- …
- Che forse tu, Aya…
- …
- Che forse sei diversa da come credo di conoscerti…
- …
Rimasero in silenzio, e lei lo fissò a lungo con un’espressione stupita sul volto.
Poi ridacchiò.
- Credimi, Tsuyoshi. Tu sei la persona che mi conosce meglio in assoluto.
Gli si avvicinò, accarezzandolo dolcemente sul viso.
Lui pensò che forse era vero, ma che questo certo non significava che lui conoscesse tutto di lei. Più cose, rispetto agli altri. Ma… tutto?
- Perciò stai tranquillo.
Si abbandonò alle sue labbra rassicuranti.

Ma si. Sono tranquillo.
**

Nella notte, lo guardò dormire profondamente.
Non aveva per nulla un’espressione serena. Le sopracciglia erano corrugate, come fosse preoccupato. O in ogni caso impensierito da qualcosa.
Bisbigliò.
- A cosa pensi…?
Non ricevette risposta.
- Cosa sogni…?
Silenzio.
Si, dormiva.
Gli si appoggiò addosso, sistemando i capelli in modo da non dargli fastidio.

Quando aveva organizzato quel viaggio, le era parsa una buona idea.
Si, forse un po’ infantile, forse MOLTO infantile, ma nulla che dovesse rendere necessaria una perizia psichiatrica, no?
O forse si?

Stringendosi ancora un po’ a lui, pensò che non doveva assolutamente fargli capire di essere insicura. Se avesse mostrato una falla, subito lui se ne sarebbe accorto. L’avrebbe riportata a casa.
No, non voleva.

“- Mamma, io parto.
- Parti? Con Akito?
- Si.
- Per dove?
- …
- …
- …
- Quando torni?
- …
- Capisco. Non approvo, ma capisco.
- Posso farlo, vero?
- …
- …
- Sana, quanti anni hai?
- …
- Non devi chiedermi il permesso.”


Lei capiva. Lei non approvava, ma capiva. Era quanto bastava.

Mamma, forse non tornerò più…

- Forse è meglio tornare domattina.
**

Sollevò lo sguardo impaurita dalla voce che, bassa ed improvvisa, l’aveva colta assolutamente alla sprovvista.
- A-Akito…?
Lui si mise seduto, costringendola a fare lo stesso.
- Non dormivi…?
- Dormivo. Mi sono svegliato…
- Capisco…
Disse Sana abbassando lo sguardo.
- Sana?
- Si?
- Hai sentito cosa ti ho detto poco fa?
- Akito, mi avevi promesso un’altra settimana! Non sono passate che poche ore, e già ti rimangi ciò che mi hai detto?
- Sana, ma tu piangi.
- Io… cos… cosa…?
Istintivamente portò le mani alle guance, e le trovò bagnate.
Piangeva. Senza neanche accorgersene.
- Ma…
- Non l’avevi notato?
Chiese lui stupito almeno quanto lei.
La ragazza scosse la testa.
- No…
Akito le mise una mano sulla spalla e poi l’abbracciò teneramente.
- Facevi di tutto per non notarlo… vero…?
- Non… non è così… non è importante…
- Si che lo è… a te manca la vita reale… quanto manca a me…
- No, Akito…
- Non possiamo continuare così, Sana. Torniamo a Tokyo.
E dopo un momento di silenzio, lei si sciolse in lacrime, scossa da violenti singhiozzi, stretta a lui, aggrappata alla sua maglietta.
- Ma… ma…
- Sssh… ti prometto… che farò di tutto per vederci più spesso, Sana… anche tu mi prometti che farai lo stesso…?
Serrando le labbra annuì, cercando di frenare le lacrime ed i singulti.
- Bene…
Lui la strinse un po’ più forte.
- Adesso basta… è tutto finito… domani… torniamo a casa…
E su quel “torniamo a casa” che giunse alle sue orecchie molto più dolce di quanto avrebbe mai immaginato, si addormentò esausta.
**

- Mi chiedo cosa diavolo mi fosse preso…
Disse la ragazza finendo di pettinarsi i capelli.
Aya rise.
- Capita, un momento di follia!
Sana la guardò, con un sorriso negli occhi oltre che sulle labbra.
- Grazie per non essere venuta a riprenderci…
**

Tsuyoshi alzò una mano verso Akito, per farsi notare, rimanendo sotto il porticato della scuola per evitare di venire completamente investito dalla pioggia.
- Akito! Vieni a ripararti qua sotto, per carità!
Akito seguì di corsa il suo consiglio, e quando fu all’asciutto di scosse i capelli fradici.
- Tutto a posto?
- Si, Tsuyoshi… tutto a posto…
- Guarda qua come sei conciato! Ti vedi con Sanachan?
- Proprio adesso…
- Tsk! Mai possibile? Uscite insieme e ti presenti in queste condizioni?
Tsuyoshi rise. Akito sospirò guardando le nuvole che, lentamente, si andavano diradando, così come la pioggia.
- Sai? Penso che, in fondo, delle condizioni in cui mi presento le interessi poco…
L’amico gli mise una mano sulla spalla.
- Oh, io ne sono sicuro… ombrello?
Fanfiction a cui è ispirata: Brothers...? / They Answered: No, Not Brothers
Genere: Introspettivo, Malinconico
Pairing: Sana/Akito
Rating: PG
AVVISI: AU, Incest, Spin-off.
- Perché mi basterebbe vederti anche solo per un attimo… pensieri di Akito dopo la fine di “Brothers…?”.
Commento dell'autrice: L'ispirazione per questa fanfiction è arrivata fulminea dopo la rilettura di "Brothers...?". Sono solita rileggere le mie fic, una volta ogni tanto, perché mi accorgo degli errori e dei cambiamenti di stile, e mi rendo conto della mia crescita - se c'è - o della mia retrocessione - se c'è - o di qualunque altre cosa mi serva per andare avanti in questa meravigliosa cosa che è scrivere... Comunque... la fic è una cosa che mi è venuta spontanea davvero. Akito Hayama io l'ho sempre adorato, sia come personaggio del manga in sé che come personaggio nella mia fic... e quando scrivevo Bros ADORAVO scrivere il suo POV (Point Of View, il punto di vista). Temporalmente si colloca dopo "Brothers...?" un po' di tempo dopo, magari uno o due anni... prima di "They answered: no, not brothers", comunque...
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Wishing you


Se ci penso davvero, c’è stato un periodo della mia vita in cui l’idea di amarti non mi ha sfiorato neanche lontanamente.
Si. Non ricordo molto di quel periodo, ma sono sicuro che ci sia stato.
Tu eri piccola. Io ero piccolo. C’erano i nostri genitori.
Eravamo semplicemente una famiglia. Una bella famiglia, devo dire. Chi se ne frega della modestia.
Mi piaceva da morire la nostra vita in quattro.
Non soffrivo. Non soffrivo per nulla, ero talmente felice da non riuscire a contenerlo. Ed il fatto che non sorridessi non vuol dire proprio un cazzo.
Era bello, eravamo felici, la parola incesto era così lontana… lontana? No. Non esisteva nemmeno.

Forse perché ero troppo piccolo… ma non c’è un momento in cui io mi ricordi dei nostri genitori infelici.
Per quanto ne so io… sorridevano sempre. E tu con loro.

La famiglia Hayama, gran bella famiglia, davvero!
Poveretti, i fratelli Hayama… i loro genitori sono morti, e sono così piccoli! Peccato, erano una bella famiglia…
Che schifo, hai saputo dei due fratelli Hayama? E dire che sembravano una così bella famiglia…

Ora… io devo essere sincero…
Ho paura che, ad un certo punto della mia vita, io mi sia addormentato profondamente. E che abbia dormito per moltissimo tempo. E che nessuno abbia provveduto a svegliarmi.
Davvero. C’è stato qualcosa, un particolare che mi sono perso… perché altrimenti non riesco a spiegare… COME abbiamo fatto… dalla prima all’ultima frase…

Sana, dove sei? Non ti sento.
Ci sono momenti in cui mi sembra che la nostra distanza sia così ampia da non poterla colmare neanche con tutto il mio amore. Che è davvero tanto.
Ci sono momenti in cui Nagoya mi sembra in capo al mondo.
Ci sono momenti, Sana, in cui vorrei soltanto che tu potessi essere qui per venti minuti, e quello che ti farei…
Ci sono momenti in cui invece credo che non mi accontenterei mai, e ti vorrei qui per sempre, e quello che ti farei, e quello che mi faresti, e quello che faremmo insieme…

Insieme.
Perché non riesco più a trovare un significato a questa parola?
Io e Fuka siamo andati insieme al parco, ieri.
Aya e Tsuyoshi sono a letto insieme.
Tamakichan è insieme ai suoi nonni.
Tu vivi insieme a tuo cugino.

Io odio Fuka. O magari la amo troppo. O magari amo troppo te.
Aya e Tsuyoshi hanno un brutto momento. Da molto tempo. È un momento molto lungo.
Tamaki odia i suoi nonni. Non può vederli. È così piccola…
Tu odi te stessa e la tua vita. E tuo cugino. E forse anche me.

Ed allora… il significato di quell’insieme… dov’è? Dove si è perso? Perché dev’esserci stato un punto della storia in cui io e Fuka abbiamo smesso di andare insieme al parco, in cui Aya e Tsuyoshi hanno smesso di fare l’amore insieme, in cui Tamaki ha smesso di sopportare i suoi nonni, in cui tu hai smesso di amare la vita…
In cui noi tutti abbiamo smesso di essere…

Mi sento talmente stupido.
È colpa mia. Lo penso seriamente, a volte. A volte penso davvero che se non avessi detto niente di te, se non ti avessi baciata… sarebbe stato tutto diverso.
Non vale nulla se quando sono calmo e rifletto mi dico che non è affatto così. Che avrei sofferto ugualmente perché ti avrei amata in silenzio. Che avresti sofferto in silenzio perché non sarei più stato capace di essere tuo fratello. Che lei avrebbe sofferto lo stesso perché non avrei mai potuto amarla come avrebbe voluto. Che Aya e Tsuyohi sarebbero comunque arrivati al punto in cui lo stress fa un salto e non è possibile contenerlo neppure con tutto l’amore del mondo. Che Tamaki avrebbe comunque odiato qualcuno, prima o poi.

Quella bambina. Mi dispiace che tu non l’abbia potuta conoscere.
È una delizia. Somiglia incredibilmente a Tsuyoshi, fa impressione. Però ha gli occhi dolci di sua madre.
E… sinceramente non so perché, ma mi fa rabbia che stia crescendo così.
Si, bè, insomma… con questi due esempi di rapporto.
Questa casa avrebbe dovuto essere calda ed accogliente. Ed invece è un blocco di ghiaccio. Ghiaccio, dico.
Con me e Fuka che a stento ci guardiamo, anche a letto.
E con quei due che passano il tempo ad ignorarsi quando non litigano.

È frustrante.
Perché nonostante tutto quello che ho provato per molti anni della mia vita, ricordo anche che dopo che tu mi dicesti di voler fare l’amore con me, io credetti davvero nell’amore. Ci credetti davvero ciecamente. Mai. Non ci avevo mai creduto.
L’amore… non si avverava mai, quello vero. Non esisteva mai.
Ed invece tu esistevi. Ed il pancione tondo di Aya era lì. Ed io credevo, accidenti… credevo davvero che sarebbe stato tutto meraviglioso…

Un comportamento assolutamente fuori dai miei schemi.
Io, il pessimista. Io, il negativo. Io, l’ombra. Io, la tristezza. Io, il buio.
Io, Akito Hayama.
Io mi ero lasciato andare. Solo per qualche giorno. Solo per qualche giorno ci ho creduto veramente.
E sono stato preso a coltellate nel petto.
Continuo ad essere ferito. Sono io, che mi ferisco da solo.

E… magari non sono normale, ma… anche se questo significasse essere nuovamente ucciso… vorrei che tu tornassi. Magari non per sempre. Magari per un giorno. Magari un pomeriggio. Un paio d’ore. Qualche minuto.
Vorrei poterti notare di sfuggita fra la massa di gente per strada. Mi basterebbe vedere la tua meravigliosa figura anche solo per un attimo.
Potrei sopportare anche altri mille anni di una tale sofferenza.
Ma prima avrei bisogno… di rivederti di nuovo. Anche solo per poco.
Genere: Drammatico/Romantico
Pairing: SanaXAkito, AyaXTsuyoshi
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Incest.
- La storia di un amore che avrebbe fatto meglio a non esistere...
Commento dell'autrice: Orgoglio e soddisfazione. Mai queste due sensazioni erano state potenti nel mio cervello come lo sono state mentre scrivevo questa fic e mentre mi rendevo conto di quanto entrasse nel cuore della gente. Sarà stato per l'argomento spinoso (che mi sta a cuore, del quale non mi pento e non mi pentirò mai), sarà stato che, forse, anche io so scrivere benino, ma questa fanfiction resta secondo me la migliore delle mie opere. Più di "Back to home", più di "Ninety-eight", più di "La tua voce mi cambia", più di tutto il resto.
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Lisachan presenta...
 
Brothers...?

 
16° fanfiction, 2° su Kodomo no Omocha
 
 
Introduzione

 
Non l’ho mai fatto. Per nessuna delle mia fanfiction, fino ad ora. Ma per “Brothers...?” non solo preferisco che sia così, ma è soprattutto necessaria.
Dovete sapere che la storia che mi appresto a narrare mi tocca da vicino. Non in prima persona, ma molto da vicino.
Come dice la mia amica Elisa, “Angel Sanctuary chiama e noi, pronti, rispondiamo”. Ma non mi sembra giusto ridurre questa fic ad un semplice tentativo di parlare degli stessi argomenti di Angel Sanctuary, e per farvi capire che intendo è necessario che io vi racconti una storia.
Un mese fa circa, vagavo all’entrata della scuola perché erano ancora le otto meno cinque, e non sapevo che fare, quando ad un certo punto chi mi vedo spuntare? Una mia amica che non vedevo da una settimana e mezzo circa, perché era stata assente. A guardarla così mi sono subito preoccupata, aveva un paio di borse sotto agli occhi che facevano davvero paura... comunque, mi sono avvicinata, l’ho salutata, tranquillamente, le ho chiesto come stesse... lei si è voltata e dopo avermi riconosciuto (ci ha messo qualche secondo...) mi è scoppiata a piangere fra le braccia. Io non sapevo che fare, improvvisamente non mi sembrava più tanto presto, e fra cinque minuti sarei dovuta rientrare in classe. Ma dopo averla guardata di nuovo l’ho praticamente trascinata in palestra, dove lei si è gettata su uno di quei materassoni azzurri sempre polverosi e puzzolenti. Dopo qualche minuto si è calmata (la campanella già era suonata...) ed ho cominciato a farle qualche domanda, giusto per capire che avesse. Lei all’inizio non sembrava disposta a parlare. Anzi, era agitata e nervosa, e ripeteva solo che avrebbe preferito di gran lunga sprofondare in un buco per sempre piuttosto che trovarsi in una situazione come la sua. Io, ovviamente non capivo nulla. Ero indecisa se continuare a premere per farmi dire tutto o lasciarla in pace nel suo dolore e correre in classe finchè ero ancora in tempo. Alla fine sono rimasta lì, e dopo un po’ di tempo lei ha cominciato a mostrarsi più disponibile... conclusione:  mi ha confidato di essersi innamorata di suo fratello.
Potete immaginare che espressione che ho fatto. Subito le ho chiesto se stesse scherzando, ma aveva una faccia che proprio non lasciava dubbi. Anzi, ha cominciato a raccontarmi quando era cominciata, cosa aveva provato... confesso che non riuscivo a comprendere i suoi sentimenti, forse perché non sono mai stata innamorata di mio fratello... però vederla in quel modo mi faceva stare malissimo, era ed è una delle mie migliori amiche, se non la migliore, come potevo sopportarlo?
Così, un giorno che di pomeriggio ero a casa da lei me ne sono uscita con una proposta folle. “E se gli dicessi tutto?”. Lui era un ragazzo intelligente, ed era anche carino, non il mio tipo ma devo ammettere che era carino. Diciotto anni appena compiuti. Andava al classico. Alla fine dell’anno sarebbe partito per andare a frequentare l’università non ho ben capito se a Roma o a Firenze con alcuni suoi amici. Probabilmente è stata l’imminente partenza di lui a risvegliare nella mia amica quel particolare tipo di sentimenti. Comunque, dicevo, le ho proposto di dirgli tutto. Lei, stranamente, ha accettato subito.
Cioè, stranamente non è proprio esatto come termine... doveva essere completamente esasperata da quella storia, probabilmente anche lei non vedeva l’ora che finisse... in un certo senso in questo posso capirla. Comunque lei ha accettato ed io sono andata a chiamare suo fratello nella sua stanza. Il quale mi ha seguito subito senza fare troppe storie. Quello era un ragazzo intelligente, io credo che avesse capito qualcosa. Tanto che, quando lei glielo disse all’orecchio, una volta che io l’ebbi portato nella sua stanza, non si mostrò minimamente sorpreso. Anzi, fu molto comprensivo. Mentre io rimanevo seduta in un angolino della stanza cercando di non disturbare, lui la abbracciò e le sussurrò qualcosa (che lei non mi ha voluto rivelare... io provo a non pensarci troppo per non farmi rodere dalla curiosità...) dopo la quale la mia amica si sciolse completamente in pianto. Ricordo che in quel preciso istante, a vederla così (cavoli, aveva perfino la maglietta bagnata di lacrime) mi si strinse il cuore ed ebbi voglia di piangere anch’io. Ma non ne avrei avuto motivo, quindi mi trattenni.
Epilogo: Giugno si avvicina, e per lui si avvicinano anche gli esami. La promozione è quasi una certezza, e la partenza sembra inevitabile. La mia amica soffre come una dannata ma prova a non darlo a vedere. Insieme mi sembrano (stranamente, adesso si che è il termine giusto) una bellissima coppia. Forse perché so cosa c’è dietro. Comunque non è destinato ad essere un sogno d’amore coronato. Starò vicina alla mia amica finchè potrò.
Qualche giorno dopo ho provato a parlarne con qualche adulto, ma sono stati tutti parecchio evasivi. Si vede che l’incesto è un argomento che la mente umana rifiuta fortemente. Eppure esiste! Io non credevo che ne avrei mai *visto* uno, eppure un caso mi è capitato proprio sotto agli occhi, da una persona che credevo di conoscere benissimo!
Bisogna parlare di certe cose, come è possibile che parlando con un ultraquarantenne di un argomento del genere lui debba arrossire più di me?
Questo il motivo per il quale sto scrivendo questa storia. È difficile, ma scrivere è l’unica cosa che *credo* di saper fare. Il rating talmente elevato è dovuto proprio al tipo di discorso che voglio fare.
Vi prego di non scrivermi mail di offesa, io vi sto avvertendo che non è un argomento leggero e che non tutti ci possono passare sopra indenni. Detto questo, ho detto tutto.

Genere: Romantico
Pairing: Sana/Akito
Rating: G
AVVISI: OOC.
- Sana ed Akito, come andrà a finire la loro storia dopo il torneo di arti marziali?
Commento dell'autrice: Insomma, è la mia prima storia, e si vede. Quando l'ho scritta (più di due anni fa! Ci credereste mai?) non ero guidata da un'ispirazione particolare, semplicemente avevo appena finito di guardare l'ultima puntata di Kodocha in tv, e (come tutti coloro che l'hanno vista, penso) ero rimasta così delusa che ho preso carta e penna ed ho scritto ^_^ Poi ho trasposto al computer. Quando ho aperto questo sito ero indecisa se metterla o meno... non è che io ne vada così orgogliosa... oddio, ho usato anche i nomi Mediasettini... ma alla fine ho deciso che di un autore non si devono leggere soltanto le meraviglie, ma anche le schifezze. Quindi beccatavela ^_^
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Grazie ad una cintura nera
Rossana era nella sua stanza, distesa sul letto. Ripensava all’ultimo giorno di scuola.
[Flashback]
Heric: E’ l’ultimo giorno. Anzi, abbiamo proprio finito, perché ci hanno già dato i diplomi.
Fanny: Dai!!! Non farne una cosa tragica! Ci rivedremo l’anno prossimo!
Rossana: Non è questo. Credo che sia perché l’anno prossimo saremo già al liceo. Saremo più grandi e più maturi…
Heric: Per te non credo proprio: tu sei sempre immatura ed hai un fisico da bambina.
[Heric si avvicina con l’intenzione di toccare il seno a Sana come sempre per vedere se è cresciuto]
Rossana: Non ti avvicinare. Non provare nemmeno a fare quello che sta per fare!
[E lo colpisce col martello di gomma]
Terence: Possibile che voi dobbiate sempre litigare??!
[Fine flashback]
Un sorriso salì alle sue labbra. Era dall’inizio delle vacanze che non rivedeva più i suoi amici. L’era passato per la testa di andare a trovare Alyssa o Fanny un’infinità di volte, ma tra i suoi impegni di lavoro era difficile trovare un po’ di tempo libero per le sue migliori amiche. Più che altro, però, voleva evitare i discorsi su lei ed Heric che sicuramente quelle due avrebbero fatto. In fondo, lei ed Heric non stavano ancora insieme. Ed il torneo per la cintura nera sarebbe cominciato l’indomani. Sana si voltò su un fianco con mezza testa affondata nel cuscino. Chiuse gli occhi e pensò: ’Devo andare a vederlo, domani? Potrebbe non volermi vedere…’
“Uffa!” disse ad alta voce “Detesto i problemi di cuore…”. In quel momento squillò il cellulare. Driin. Rossana si voltò a guardare il telefonino. Chi poteva essere? Driin. Squillava di nuovo. Rossana si mise in ginocchio sul letto. Da lì non riusciva a vedere chi era. Il cellulare era sulla scrivania. Driin. A Rossana batteva il cuore. Poteva essere Terence, o Alyssa, o forse Fanny. Il pensiero che potesse essere Heric nemmeno la sfiorò. Driin. Aveva già squillato quattro volte, ma Sana non si era ancora decisa ad andare a rispondere. Non riusciva a capire perché. Aveva forse paura dei suoi compagni? Driin. Aveva squillato ancora. Rossana lentamente si alzò, ed ancora più lentamente si diresse verso la scrivania. Intanto il telefonino aveva smesso di squillare. Prese il cellulare in mano e lesse nel piccolo schermo: “Chiamate perse: una. HERIC”. Rossana urlò: “AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHH! Ma come mi è saltato in mente di non rispondere!!! Devo essere impazzita… devo chiamarlo.” Compose il numero di Heric ed attese. Tuu, tuu, tuu… “Pronto?” disse Heric. “Ciao!” rispose Sana. “Mi hai chiamato tu prima, vero?”. “Si, ero io. Ma perché non mi hai risposto?”
“Non ha importanza” disse lei “ma dovevi dirmi qualcosa?”
“Veramente si. Domani ti andrebbe di venire a vedermi al torneo di Karate?”. A Rossana brillavano gli occhi. Non aspettava altro. “Certamente! A che ora?”
“Comincia un po’ prestino…” disse Heric. “Alle sette”
“Ma certo, ci sarò”
“Ma, arriverai in orario?”
“Contaci!” disse Sana sorridendo. Poi entrambi riattaccarono. Rossana ebbe un attimo di calma, ma poi saltò sul letto e cominciò a cantare una canzone che da qualche parte aveva sentito.
Fino a quella sera
Non mi avevi notato mai
Tutto è cambiato
Me ne rendo conto
Mi hai coperta di complimenti
Ed io non capivo perché
Mi c’è voluto un po’
Per comprendere che era
ERA AMORE!!!
Poi cadde distesa sul letto e si mise a ridere come una pazza.
Dal piano di sotto, sua madre ascoltava le sue risate sorridendo a sua volta, ma questo Sana non poteva saperlo. Quando Sana scese per la cena, Robbie si ritirò a casa. Era stato fuori tutto il giorno in cerca di nuovo lavoro per Sana ed aveva un’aria distrutta. “Ciao Robbie!!!” disse Sana al settimo cielo. ‘Ah, bene, è già felice! Ma lo sarà ancora di più quando le dirò quello che ho fatto oggi!”. “Signora Patriciaaaaaa! Cosa c’è per cena?”
“Riso alla cantonese e pollo alle mandorle”
“Bene! Oggi si cena cinese!!! Non potrei essere più felice!!!”. Quando tutti si furono seduti a tavola, Robbie fu il primo a parlare. “Sana: ho una notizia per te! Ti vogliono per girare una ventina di spot pubblicitari!”
“Bene: lavoro duro! E quando si comincia?”
“Bè, il primo spot è su un hotel qui vicino: ti dovrai vestire in maniera molto chic e parlare molto bene del suddetto Hotel. Si comincia domani alle sette…” Rossana, che stava sorseggiando un’aranciata, sputò tutto in faccia a Robbie e disse: “Ma sei impazzito a prendere impegni prima di interpellarmi? Come ti sei permesso? Sei un fallito!In ogni modo puoi benissimo andare a dire al produttore che domani non se ne fa niente. Tanto ho già un impegno!”. Poi si alzò e salì di sopra in camera sua. Sua madre si alzò da tavola. “Signora Katherine, mi aiuti…” bisbigliò Robbie. “Mia figlia ha perfettamente ragione: fallito!”. Poi salì sulla sua macchinetta, premette un pulsante di modo che le scale diventassero una specie di strada e salì anche lei di sopra a cercare sua figlia. “Ma cosa ho fatto…”. In quel momento entrò la signora Patricia con la cena. “Ma come mai non c’è nessuno?” “Non credo che si mangerà stasera, può mettere tutto in frigo.”. Disse Robbie.
Toc, toc! Sana si voltò verso la porta. Era seduta sul letto ed era ancora furiosa con Robbie. “Chi è?” chiese. “Sono la mamma, posso entrare?”
“Certo” disse lei. La signora Smith entrò. “Sana, cosa è successo?”
“Tu credi che sia più importante la mia carriera della mia vita?”
“Non lo so cara. Probabilmente sono tutte e due molto importanti, anche perché in un certo senso, la tua carriera è la tua vita.”.
“No! Qui vi sbagliate tutti!” disse Sana alzandosi di scatto dal letto e guardando negli occhi sua madre. “La scuola è la mia vita! La mia famiglia è la mia vita! I miei amici sono la mia vita! Heric…” disse bisbigliando “…lui è la mia vita… Ma non certo la mia carriera! Quella è solo un lavoro! Una distrazione! Probabilmente non starei male senza lavoro, ma senza voi, senza tutti quelli che mi stanno accanto, io starei male!”
“Ma mi spieghi perché domani non vuoi andare a girare quello spot? Cosa devi fare? Se non ti va non è un problema…”
“Non è che non mi va! Domani io devo vedermi con Heric alle sette!”
“Bè,” disse Katherine “se ti ama ti saprà aspettare”
“E il problema è proprio questo! Io non posso causargli altri problemi col mio lavoro! Gliene ho già causati fin troppi! Io col mio lavoro l’ho fatto soffrire parecchio! E non voglio che lui soffra! Perciò” disse Sana con aria decisa “io domani andrò a quell’appuntamento e nessuno mi fermerà”
“Sono d’accordo con te” disse Katherine sorridendo. Le diede un bacio sulla fronte e poi si avviò all’uscita “Buona notte tesoro mio”
“Buona notte mamma”. ‘Che bello sapere che ho ragione!’ pensò Rossana. Poi s’infilò la camicia da notte, si mise a letto e si addormentò felice.
L’indomani quando la sveglia suonò, Rossana stava per fermarla e riaddormentarsi di nuovo quando pensò a Heric ed al suo appuntamento. Sgranò gli occhi, scattò a sedere e guardò la sveglia. Erano ancora le 6:30. Bene! Si alzò ed andò in bagno. Si lavò, si vestì e poi scrisse un biglietto a sua madre dove diceva che era già uscita e che sarebbe tornata nel pomeriggio. Poi uscì e di corsa raggiunse il luogo del torneo. Non conosceva nessuno e si sentiva un po’ sperduta. Poi però scorse Heric e dopo aver urlato il suo nome lo raggiunse e lo salutò. “Come mai sei ancora fuori?”
“Sei in anticipo di cinque minuti. Com’è possibile?”
“Hahahaha! Sei spiritoso!!!” disse Sana colpendolo col martello. “Guarda! Cominciamo ad entrare!” continuò lei. Heric poteva leggere la felicità nei suoi occhi. Ora doveva pensare a farla veramente felice: doveva vincere quella cintura nera! Appena furono dentro l’edificio, Heric disse: “Ora ti devo lasciare, mi devo andare a cambiare. Tu cerca un bel posto in prima fila, eh?”
“Certo, voglio vederti bene mentre batti tutti i concorrenti!” disse lei. Poi sorrise ed andò a cercarsi un bel posto dove sedersi. Heric invece andò negli spogliatoi. Lì lo accolse un coro di ragazzi festanti. Erano i suoi compagni di palestra. “Ehi Heric, chi è quella bella ragazza che c’è con te?”
“Chi, Rossana?”
“Oh, ma guarda un po’, la ragazza di Heric si chiama come un’attrice della tv!”
“Ragazzi, ma è lei, è Rossana Smith.”.
“Wow! Il nostro Heric è fidanzato con una diva!”
“Ma no! Non è ancora la mia ragazza!”. ‘Non ancora…’ pensò lui. Questo pensiero lo rendeva felice.
[Flashback]
Heric bacia Rossana a tradimento. Dopo un po’ lei si stacca e gli molla un calcio.
Rossana: “Sei sempre il solito. Dai tutto per scontato tu!”
Rossana se ne va imbestialita e si avvicina alla porta.
Rossana: “Heric…”
Heric: “Si….”
Rossana: “Se prenderai la cintura nera… anch’io ti devo parlare”
[Fine flashback]
‘Si’ pensò Heric ‘quando avrò vinto la cintura nera…’. I suoi pensieri furono disturbati da un suo compagno che diceva “Fra cinque minuti si esce!”. Il ragazzo era al culmine dell’eccitazione. Il cuore batteva a 2000. Si mise velocemente la divisa di karate ed uscì. Fuori l’arbitro stava già chiamando per nome i concorrenti. Heric non ascoltava. Pensava a Sana. ‘Devo, DEVO vincere oggi… Non ci sono scuse…’. “Akito Heric” l’arbitro lo chiamò e lui salì sulla pedana. I concorrenti erano molti. Tutti con gradi di cintura diversi. C’erano i pivellini della cintura bianca che gareggiavano per la cintura verde, i mediani della cintura verde che gareggiavano per la cintura marrone e quelli come lui, che la cintura marrone l’avevano già e gareggiavano per la fatidica cintura nera. Per molti quella cintura rappresentava qualcosa di molto importante. Ed Heric era deciso più che mai. Dopo la chiamata, i ragazzi si andarono a sedere sulle panchine e l’arbitro chiamò i primi due concorrenti. Heric non fu chiamato. ‘Peccato’ pensò lui ‘volevo combattere. ’. Rossana salutò con un cenno della mano Heric e lui rispose semplicemente guardandola. Non l’avrebbe salutata. Non adesso, in mezzo a quella folla. Poi l’incontro cominciò. Heric passò i restanti incontri a esaminare quali fossero le migliori tecniche di attacco e di difesa in funzione dell’avversario che avrebbe dovuto battere. Rossana ogni tanto lo guardava con la coda nell’occhio e le veniva quasi da ridere vedendolo così attento. Finalmente arrivò il turno di Heric. Doveva battersi con un ragazzo della sua stessa palestra. Non era uno molto forte. Certamente non quanto lui. La battaglia era vinta in partenza. Heric cominciò in difesa. Per sicurezza avrebbe osservato i movimenti del compagno. Dopo un paio di minuti, però cominciò ad annoiarsi ed allora passò lui all’attacco. La velocità di Heric spaventò il ragazzo che si trovò completamente alle strette. Dopo un paio di calci era già K.O. Heric aveva vinto il primo incontro. E Rossana urlava di gioia dagli spalti. La gara passò tranquilla. Heric vinceva incontro su incontro e Rossana era sempre più felice. Si avvicinava il momento in cui il suo Heric avrebbe preso la cintura nera. Finalmente arrivò la finale. Heric doveva combattere contro Arisagawa Kamei, un ragazzo che come lui aveva vinto tutti gli incontri. Era forte. Molto forte. Heric si ritrovò a temere di perdere. Anche Rossana aveva questo brutto presentimento, ma cercò di non pensarci. Non poteva andare male. Heric doveva vincere, per se stesso e per lei. L’incontro incominciò. Heric pensò che sarebbe stato meglio attaccare a tutto spiano per dare a Kamei minori possibilità. Mossa avventata. Kamei era veloce e schivava tutti gli attacchi di Heric. Non sembrava nemmeno che facesse sul serio. E poi aveva uno strano sorriso sul viso. Come se lo stesse prendendo in giro. A Heric questo non faceva piacere, anzi… Era letteralmente infuriato. Attaccava sempre più velocemente e Kamei schivava senza problemi eccessivi tutti i suoi attacchi. Poi accadde quello che Heric non si sarebbe mai aspettato: Kamei gli fermò il pugno a mezz’aria e sempre con quell’orrendo sorriso sul volto tramortì Heric con un potentissimo pugno sullo stomaco. Heric era sorpreso e il dolore era forte. E cadde a terra. Rossana urlò “HERIC!” veramente spaventata. L’arbitro cominciò a contare. Uno… Heric non riusciva a credere di essere caduto a terra con un pugno solo. Due… voleva rialzarsi ma non riusciva a muoversi. Tre… cosa stava pensando Sana di lui in quel momento. Quattro… sicuramente che era un perdente, un fallito. Che non voleva uno come lui. Cinque… poi la voce di Rossana giunse chiara alle sue orecchie anche in mezzo alle altre voci. “Non osare perdere Akito! Se tu perdessi non te lo perdonerei MAI! Hai capito? MAI!!!”. Sei… Heric aprì gli occhi e si rialzò di scatto. Ma com’era potuto cadere così! Lui! Heric Akito. Intanto l’arbitro aveva smesso di contare. “L’incontro può continuare!”. Kamei partì subito all’attacco. Poi si avvicinò a Heric fermandogli ancora una volta i due pugni a mezz’aria e gli disse a bassa voce “La ragazza che ti ha incitato è molto carina, come si chiama?”
“Che ti interessa?” rispose Heric liberandosi dalla stretta. “Niente” disse lui “è solo che dovrò sapere il suo nome quando andrò a consolarla per la tua sconfitta!”. Heric era letteralmente infuriato. “E va bene” disse mantenendo la calma “ma ricorda che mi ci hai costretto tu!”. Kamei probabilmente non riusciva a capire, perché fece una faccia strana. “Il tuo sorrisetto sparirà subito…” disse Heric, e con questo gli mollò un gran colpo sulla testa come quelli che dava a Terence di solito per farlo rinsavire. Kamei cadde quasi subito. Ci fu qualche attimo in cui i presenti trattennero il respiro. Non potevano farsi una ragione di come il ragazzo avesse potuto battere così facilmente Kamei. Poi, però, un boato si alzò dal fondo della sala contagiando anche i primi posti. Tutti stavano ridendo e urlando di gioia per Heric. Anche Rossana saltava per la felicità. Heric non sembrava particolarmente entusiasta, come se sapesse che avrebbe vinto sicuramente. Poi Kamei fu portato via in barella perché non era ancora rinvenuto dopo il colpo, e l’arbitro consegnò a Heric la cintura nera. Lui guardò Rossana e lei ricambiò il suo sguardo felicemente. Per i due ragazzi fu quanto mai difficile uscire, perché tutte le ragazzine ed i ragazzi che partecipavano a dei corsi di karate volevano consigli. Nessuno si era ancora accorto di Rossana. Ma la pacchia finì quasi subito, quando Sana perse gli occhiali da sole. Tutti i ragazzi la riconobbero e le saltarono addosso, mentre le ragazze rimanevano appiccicate a Heric. I due erano in una situazione di imbarazzo reciproco. Finalmente riuscirono a divincolarsi, dopo molta fatica, e s’incamminarono per una strada poco frequentata, per evitare inconvenienti. Non si parlarono per parecchio tempo. Poi Sana esordì con un “COMPLIMENTI! Sei stato grande. ”. “Grazie” rispose Heric. Poi di nuovo il silenzio. Imbarazzati e silenziosi i ragazzi si avviarono quasi involontariamente verso il parco. Il parco che per loro aveva significato molte cose. Quando Sana aveva recitato la parte della madre di Heric. Quando si erano abbracciati al ritorno di Rossana dall’America. Quando poi Heric le aveva fatto capire che in fondo anche Robby le voleva bene. E poi naturalmente la vigilia di Natale dove per la seconda volta Heric aveva preparato per Sana un piccolo pupazzo di neve. Quella volta, se non fossero arrivati Margareth, George, Terence ed Alyssa, probabilmente loro si sarebbero dichiarati. Quando arrivarono al gazebo si sedettero meccanicamente l’uno accanto all’altra. Poi Heric parlò. “Sai, se oggi ho vinto… è solo grazie a te.”.
“Non dire così” disse Sana. “Se hai vinto è stato solo grazie alla tua forza di volontà.”.
“Non è vero. Io stavo… stavo per perdere, ma poi tu mi hai detto che non mi avresti mai perdonato. E io mi sono alzato.” Rossana notò l’espressione seria di Heric. Voleva sdrammatizzare, perciò disse “DAAAAAAIIIII! Fammi un sorriso!”, ma vedendo la riluttanza di Heric a sorridere anche solo un pochino disse. “E va bene! Ti sorriderò io!”. Detto questo si voltò verso Heric e gli rivolse un sorriso splendente. Heric era stranizzato dal comportamento della ragazza. Lei allora disse “Una volta, ho letto su un libro una poesia. Si chiamava “Il valore di un sorriso”. L’ultima strofa era la più bella. Diceva… “E se un giorno incontrerai qualcuno che non ti regala un sorriso, porgigli il tuo: nessuno ha bisogno di un sorriso come chi non sa darlo.”. Poi sorrise di nuovo. “Adesso sorriderai, vero?”. Ed Heric sorrise. La abbracciò e prima di baciarla dolcemente le sussurrò “Ti amo”.