webcomic: dave strider

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico.
Pairing: Dave Strider/Rose Lalonde.
Rating: R/NC-17.
AVVERTIMENTI: Het, Lime, Prequel (Post-scratch!verse), Death.
- Dopo più di dieci anni alla guida della rivolta, Dave e Rose la portano a termine nell'unico modo possibile. Ma c'è ancora una notte, prima della battaglia finale, poche ore di pace in cui ripercorrere storie e ricordi, e chiarire un non detto che si trascina indietro da molto più tempo di quanto non possa sembrare.
Note: Fa stranissimo parlare adesso di questa storia, considerando che l'ho finita ormai qualcosa come un mese fa e che è stata in gestazione per mesi, mentre cercavo di concluderla in maniera soddisfacente XD Alla fine, diciamo che ne sono soddisfatta all'80%. Ci sono delle cose che, lo so, potevano essere scritte meglio. Altre invece sono giuste così, ma principalmente sono felice di averla scritta, perché l'invito di Hussie ad approfondire la questione, quando ci ha parlato delle leggende sugli eroici Rose e Dave del post-scratch, era troppo invitante per non accettarlo XD
Spero che non ci siano incongruenze troppo enormi con la versione raccontata da Dirk a Jake nel fumetto originale. Sono andata a rileggermi le pagine incriminate, mentre scrivevo, ma tenere a mente tutti i particolari e i dettagli di Homestuck (specie quelli puramente cronologici) è difficilissimo-borderline-impossibile, per cui mi perdonerete per qualsiasi vaccata, spero XD
E niente, grazie mille alla Nari per aver disegnato la fanart più awww dell'universo ispirandosi a questa storia e sfidandosi ad acquerellarla nonostante fosse difficilissimo ♥ Grazie, pucci, sono fiera di te *A*
E spero che a voialtri invece la fic possa piacere :)
La fic partecipa anche alla challenge indetta dalla 500themes_ita, ispirandosi al prompt #29 (La quiete prima della tempesta).
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I DON’T WANNA MISS A THING

La chiama intorno a mezzanotte, come le aveva detto che avrebbe fatto. Recupera gli occhiali, li indossa e si affaccia alla finestra della camera da letto, incrociando le braccia sul davanzale e perdendosi per qualche secondo ad osservare la notte placida di quell’emisfero sommerso dove la luna può specchiarsi sulla superficie appena increspata dell’oceano infinito in un’ininterrotta serie di bagliori bianchi che appaiono e scompaiono a seconda dei capricci del vento, che qua e là solleva una mezza onda e poi, così come l’ha risvegliata, la sopisce, perché non c’è una riva contro cui andare ad infrangersi.
Mentre il cellulare di Rose squilla, Dave pensa con una certa tristezza che, come le onde hanno perso la loro ragione di esistenza da quando non c’è più terra da aggredire e corrodere, anche loro due, ora che sanno, ora che Rose ha visto, non hanno più nessun motivo di restare.
Era inevitabile, si dice. Non che ci creda davvero. Ne sa abbastanza del modo in cui gli istanti si avvicendano uno dopo l’altro, da sapere perfettamente anche che non c’è nulla che non sia possibile evitare, così come non c’è nulla che non sia possibile ripetere e aggiustare.
Forse, da qualche parte dentro di loro, sono entrambi convinti che questa, dopotutto, sia ancora la strada migliore. Per cui è più comodo pensare che fosse anche l’unica possibile. Perché è fottutamente difficile percorrerla, ed è più semplice immaginare di non avere avuto scelta.
– Strider.
La voce di Rose è affaticata. Sullo sfondo, lo scrosciare impetuoso delle Bloody Falls ne copre appena le sfumature. Non abbastanza perché Dave non possa riconoscerle, comunque.
– Ci hai messo una vita a rispondere. – la rimprovera.
– Lo so. – ribatte lei, – Il bastardo ha venduto cara la pelle. – commenta. Dave non può vederlo, ma riconosce nel suo tono l’ombra di un sorriso cattivo ad arricciarle le labbra. Non fa per niente fatica ad immaginarla torreggiare fieramente sul cadavere di Fieri, coperta di sangue dalla testa ai piedi, mentre osserva il suo capolavoro.
– Sei ferita? – le domanda, mettendo da parte quello stupido moto d’orgoglio che spesso sente fiorire dentro di sé quando pensa a Rose, senza che ce ne sia motivo.
– Sto bene. – risponde lei. Dave aggrotta le sopracciglia.
– Sì, ma non è quello che ti ho chiesto.
Lei ridacchia appena, uno scampanellio un po’ frivolo che si perde nel rombo furioso delle cascate, che ora sembra più vicino.
– Non preoccuparti, Strider. – lo rabbonisce, – Sarò da te fra qualche ora.
Dave neanche le risponde, odia quando Rose prende a trattarlo con sufficienza. E accade troppo spesso perché lui possa non sapere come porre rimedio alla situazione prima che sfoci in un litigio violento.
Interrompe la conversazione senza neanche salutarla, sapendo già che, per quando sarà arrivata, ogni traccia di risentimento sarà sparita. Sfila gli occhiali e solleva lo sguardo al cielo, una massa nera uniforme, spezzata solo a tratti da stelle tanto piccole da farti sentire ancora più perso in mezzo al vuoto dell’universo, invece di consolarti col loro bagliore tremulo e vagamente romantico.
Mancano cinque ore all’alba. Sarà meglio che si dia una mossa a terminare i preparativi.
*
Seguendo il corso delle Bloody Falls, e poi del Bloody River, Rose si allontana dalla terraferma cavalcando in volo il busto di Guy Fieri. È triste pensare a quanto sia diventato facile, ormai, orientarsi nella notte senza più altro punto di riferimento oltre le stelle. Un tempo, quelle oggi conosciute come Bloody Falls erano molto più alte, rispetto ad adesso. L’acqua si lanciava nel vuoto per centinaia e centinaia di metri, prima di infrangersi con fragore violento contro le rocce appuntite che l’attendevano a valle. Ed a pochi chilometri da lì, nella dolce conca formata dai pendii siamesi di due colline, prosperava un piccolo borgo rurale, una specie di fortezza naturale, un paesello scavato nella pietra protetto ai fianchi dalle pareti dei colli, e frontalmente dal fiume poco distante, che si allungava in anse rotonde come i fianchi di una giovane donna in boccio fino a tuffarsi in mare, dopo un viaggio tortuoso lungo più di seicento chilometri.
È stato uno degli ultimi a cadere. Hanno dovuto annegarlo, perché smettesse di respirare. Ad un certo punto, una quindicina d’anni prima, era diventato il centro nevralgico della ribellione. Dietro le alte mura di pietra, erette da uomini nati, vissuti e morti centinaia e centinaia d’anni prima, nelle stanze dell’antico castello che, dalla sua posizione privilegiata in mezzo ad un altopiano, dominava tutta la vallata, erano stati decisi quasi tutti gli attacchi più importanti che, nel corso degli anni, erano stati portati ai centri del potere di Sua Imperiale Condescenza. Rose ha vissuto in quel luogo dai tredici anni in poi. È stato lì che ha conosciuto Dave.
Ora non importa più, però. Ora, le rovine di quel villaggio giacciono sul fondo dell’oceano, intrappolate dalle alghe sotto una massa d’acqua che pesa addosso a quelle macerie come il tempo pesa sulle spalle di Rose. Ne è trascorso troppo, e ne è rimasto troppo poco, perciò si concentra, e il torso di Guy Fieri comincia a viaggiare a velocità sostenuta nella notte, nell’oscurità della quale il rosso intenso delle acque irrimediabilmente macchiate di sangue dell’oceano sembra assumere una tonalità perfino più intensa.
Rose odia quel colore. Odia non aver quasi visto nient’altro che sangue spillare dalle ferite di gente innocente per tutta la propria vita. Odia la consapevolezza che è con quel colore negli occhi che finirà tutto. Se chiude gli occhi e pensa all’intensità del rosso acceso delle sue visioni, si sente quasi male tanta è la precisione con la quale riesce a immaginarlo, a riportarne alla memoria il bagliore accecante.
C’è un punto, però, un punto nell’oceano, al largo delle poche terre emerse che Sua Imperiale Condescenza non è ancora riuscita a nascondere, in cui il colore così disturbante dell’acqua delle cascate si stempera nell’azzurro placido e rilassante dell’oceano, e Rose lo adora. Si è recata poche volte a casa di Dave, in quell’assurdo appartamento posto tanto in alto da essere l’unico ad essersi salvato dall’inondazione in quella metà del pianeta, ma tutte le volte non ha potuto fare a meno di fermarsi in quel punto, volteggiare a mezz’aria, scendere quasi a pelo dell’acqua per osservare precisamente le sfumature dell’acqua insanguinata delle cascate mentre viene diluita dalla massa ben più grande dell’acqua ancora pura derivata dallo scioglimento dei ghiacciai.
È un contrasto che trova consolante, a livello metaforico. L’idea di qualcosa di grande e puro, capace di sconfiggere qualcosa di tanto orribile come l’ultima prova rimasta, assieme ai racconti di chi l’ha visto, di un eccidio tanto grande, crudele e assurdo.
Ammesso che sia possibile accettare l’identificazione della loro ribellione come qualcosa di grande e puro abbastanza, ovviamente. Rose non ne è sicura, ma d’altronde è consapevole che si tratta di una di quelle cose che l’uomo può solo consegnare alla storia, sperando che chi verrà dopo possa comprenderne le motivazioni. Sperando che qualcuno dopo ci sia, tanto per cominciare.
Il busto di Guy Fieri galleggia a pelo d’acqua mentre Rose lo utilizza come una barca, guidandolo utilizzando i fili di lana legati ai ferri come due redini. Il mare è calmo e silenzioso, se si eccettua il borbottio lieve delle onde. È ormai in aperto oceano, e l’acqua, riflettendo il colore del cielo, è nera come il petrolio. Rose tiene entrambi i ferri in una mano ed immerge in acqua quella libera, godendo della sensazione bagnata e fresca dell’acqua che sfila veloce fra le sue dita aperte, facendole un po’ il solletico. Sorride, risollevando la mano e portandola alle labbra, leccando via qualche goccia d’acqua dal palmo, arricciando piacevolmente il naso a causa del sapore salato. Poi schiude gli occhi e si ritrova sommersa da immagini appartenenti a un periodo troppo lontano perché non faccia male ricordarlo. Lei e Dave, poco più che bambini, in ginocchio sulla sponda del fiume vicino al villaggio, intenti ad aiutare gli adulti a riempire i vasi di terracotta per rifornire d’acqua il villaggio.
È troppo per non avere voglia di piangerci su, e Rose ne ha avuto abbastanza di sentire il sale sulle labbra.
Si solleva in volo a velocità ancora maggiore. Mancano quattro ore all’alba, e lei deve ancora raggiungere Dave.
*
Quando Rose arriva, Dave impiega un totale di due secondi a capire che è ferita, e dove.
– Togliti di dosso quella sciarpa e spogliati. – le dice, lasciandole la porta aperta e dirigendosi speditamente verso il bagno. Lei inarca le sopracciglia ed incrocia le braccia magre sul petto sottile ed elegante, piegando appena il capo e restando sulla soglia per un paio di secondi, prima di rassegnarsi al fatto che Dave non le darà ulteriore retta fino a quando non avrà potuto disporre del suo corpo come preferisce – il che, in questo caso, consiste molto probabilmente nel ripulirle le ferite e cercare di alleviarne il bruciore.
Non c’è dolore, però. Rose non ne sente più. Ha combattuto troppe battaglie, forse. Tutte le ferite non le provocano altro che una sensazione incandescente, come stesse ardendo dall’interno. Una sensazione troppo simile alla rabbia per non confonderle.
– Sono appena arrivata, e già mi chiedi di spogliarmi. – sospira, richiudendosi la porta alle spalle con un calcetto ed avanzando lenta e sinuosa come un gatto all’interno dell’appartamento silenzioso, eccezion fatta per l’armeggiare convulso di Dave all’interno del bagno, – Dov’è finita la cavalleria?
– È morta. – risponde Dave, uscendo dal bagno con un kit del pronto soccorso fra le braccia, – Quando sono morte le damigelle in difficoltà.
– E io cosa sarei? – borbotta lei, arricciando le labbra in un broncio offeso mentre scioglie il nodo che le tiene stretta la sciarpa in vita, e comincia a svolgerla dai propri fianchi. Se l’è girata addosso almeno una decina di volte, nel duplice tentativo di fermare l’emorragia e ingannare Dave abbastanza a lungo da impedirgli di accorgersi di cos’era successo.
– Una stupida. – risponde seccamente lui, appoggiando la valigetta bianca sul letto ed aprendola per rovistare al suo interno in cerca di qualcosa che possa tornargli utile, – Come potevi sperare che non me ne accorgessi?
– Una ragazza può sognare. – scrolla le spalle Rose, lasciando cadere la sciarpa macchiata di sangue per terra e provvedendo poi a sfilarsi la maglietta dalla testa, i lineamenti del volto appena contratti in una smorfia di dolore. – Non è niente di grave, comunque.
– Questo lascialo decidere a me. – sbuffa lui, e poi solleva lo sguardo. Rose si stringe nelle spalle, la parte superiore del corpo coperta solo dal reggiseno, e trova divertente riuscire a provare ancora imbarazzo nonostante tutte le volte in cui, per un motivo o per un altro, si sono ritrovati entrambi a doversi prendere cura l’uno dell’altra in questo modo. È divertente sentirsi ancora scossa dai brividi quando Dave le chiede di voltarsi per osservare meglio la ferita sul suo fianco, ed è divertente leggere quello stesso imbarazzo sulle sue guance adesso arrossate, rese tanto più evidenti dal colore così chiaro della sua pelle. – Solleva il braccio, devo medicarti.
Rose annuisce ed obbedisce, sollevando il braccio ed appoggiandolo alla parete. Dave recupera un po’ di cotone idrofilo e del disinfettante dal kit di pronto soccorso, cominciando a ripulirle le ferite dal sangue. Sono tre graffi paralleli, niente di che, ma Rose non riesce neanche a guardarli. Le sembra di stare guardando la traccia che Sua Imperiale Condescenza seguirà per ucciderla fra poche ore. È incredibilmente disturbante.
– Te l’avevo detto che non era niente di grave. – ribadisce con aria supponente. Dave sospira, scuotendo il capo.
– Hanno ferito anche me, quei due bastardi. – le dice, – Ci ho messo due giorni a riprendermi. Sono rimasto sdraiato su quel letto per ventiquattro ore di fila solo per raccogliere energie sufficienti a tirarmi in piedi e darmi una sistemata. Smettila di vergognarti solo perché non ne sei uscita indenne. – i suoi occhi si fanno appena più cupi mentre la mano con cui le stringe il fianco per tenerla ferma mentre la pulisce si chiude con possessiva tenerezza attorno alla curva alla base della sua schiena. – Io sono grato già del fatto che ne siamo usciti vivi.
Lei si concede qualche secondo per osservarlo dall’alto, rapita dalla linea tesa e netta delle sue labbra, e poi distoglie lo sguardo.
– Sto bene, comunque. – insiste ostinata. Le labbra di Dave si piegano in un mezzo sorriso.
– Non avevo dubbi al riguardo. – commenta sospirando, e poi si allontana da lei, sollevandosi in piedi. – È a posto adesso.
Rose guarda in basso, Dave le ha fasciato le ferite con cura, e adesso non bruciano neanche più.
– Posso rivestirmi, dottore? – domanda con un sorriso impertinente. Lui sorride a propria volta, scuotendo il capo con aria rassegnata.
– Vado a prendere qualcosa da mangiare. – annuncia, abbandonando la stanza, mentre Rose indossa nuovamente la maglietta e si lascia ricadere sul letto con un sospiro stanco.
*
Si sono conosciuti d’estate. Rose ricorda le colline e la cascata, ricorda di averle viste avvicinarsi mentre, a bordo dello sgangherato carretto con una ruota difettosa e condotto da due cavalli pigri sul quale si trovava assieme ad un’altra decina di persone, cercava di placare i morsi della fame col tozzo di pane che, all’inizio del viaggio, l’uomo al comando del manipolo di sfortunati dal quale era stata prelevata le aveva dato. Non mangiava da tanti di quei giorni che il primo morso le si era bloccato in mezzo alla gola, e se non fosse stato per uno degli altri uomini presenti, che aveva preso a batterle con forza una mano sulla schiena non appena aveva preso a tossire convulsamente, sarebbe sicuramente soffocata.
“Vedi di sopravvivere, ragazzina,” le aveva detto l’uomo, con un grande sorriso incoraggiante, “Siamo rimasti in pochi, ormai.”
Rose aveva tredici anni, ed era appena sopravvissuta allo sterminio di tutti i propri concittadini nascondendosi sotto i cadaveri di tutto il resto della propria famiglia. Aveva osservato la vita scivolare via dallo sguardo di sua madre, nelle orecchie ancora il flebile fiato in cui le aveva detto di restare in silenzio. Aveva aspettato per due giorni sotto quella massa di cadaveri, respirando poco e male, forzandosi a non piangere solo per paura di essere scoperta, e si era poi lasciata scivolare dietro e sotto un cassonetto dell’immondizia quando i soldati erano arrivati coi camion per smaltire i corpi.
Tremando di paura, aveva aspettato che sgombrassero le strade, lavorando fino a notte fonda con l’aiuto dei droni, e solo quando aveva sentito il rombo dei camion farsi distante e poi sparire del tutto si era azzardata ad uscire dal proprio nascondiglio.
Ricoperta di sangue rappreso dalla testa ai piedi, aveva vagato per la città in cerca di qualche altro sopravvissuto, ma non ne aveva trovato alcuno. Era sopravvissuta per più di un mese introducendosi nelle case ormai disabitate in cerca di qualcosa da mangiare e da bere e di un posto caldo e sicuro in cui dormire, e vagabondando per le strade deserte e silenziose per tutto il resto del tempo, fino a quando aveva sentito il rumore delle ruote cigolanti del carro e il vociare di persone. Si era nascosta ed aveva osservato il carro passare, ascoltando i dialoghi delle persone a bordo. “L’avevo detto io che non poteva essere sopravvissuto nessuno.”
“Cazzo, non è rimasto neanche il sangue, per le strade. Hanno ripulito tutto.”
“C’era da aspettarselo. C’erano ribelli nascosti ovunque, qui.”
“Sbrighiamoci ad attraversare la città, è arrivato un messaggio di aiuto da un villaggio a pochi chilometri da qui. Lì è sicuro che troveremo qualcuno ancora vivo.”
“Non lasceremo questo posto prima di esserci assicurati che non sia sopravvissuto davvero nessuno.”
“Certo, sprechiamo ore preziose inseguendo i fantasmi, invece di correre da chi è vivo per certo e ci aspetta.”
Era stato allora che era uscita dal suo nascondiglio, correndo dietro al carro e implorando a gran voce il gruppo di uomini di fermarsi. Piangendo, incapace di frenare i singhiozzi, aveva raccontato la propria storia ed era stata accolta con calore. Le era stato spiegato che quella carovana era diretta all’unico villaggio ancora sicuro sulla faccia della terra, che faceva il giro delle città vuote in cerca di sopravvissuti, che dovevano sbrigarsi, perché fonti sicure davano per certo che a breve il progetto per lo scioglimento accelerato dei ghiacciai avrebbe preso il via, ed allora viaggiare non sarebbe stato più così sicuro.
Rose non aveva afferrato proprio tutto quello che le era stato detto, ma per certo aveva capito di essersi salvata per caso. Per fortuna. E a quella fortuna si era aggrappata per tutto il viaggio, fino all’arrivo a quella che, da quel momento in poi, sarebbe diventata la sua nuova casa.
Rose ricorda la cascata, la ricorda quando le sue acque erano ancora limpide, quando scintillavano del riflesso dei raggi del sole, fortissimi in quel periodo dell’anno, stranamente perfino più forti del normale, di quanto Rose non ricordasse di aver mai sentito nelle altre estati della sua vita. Ricorda quanto brillante le sia sembrato il verde smeraldino dell’erba che copriva interamente le colline, quasi del tutto prive di alberi, e ricorda quel piccolo villaggio come adagiato sulla vallata, lambito dalle acque del fiume, mezzo appeso ai fianchi dei colli che lo proteggevano.
Ricorda di aver pensato con gioia che le sarebbe piaciuto vivere lì per sempre, ricorda con quanta trepidazione, in ginocchio sul rimorchio del carro, le dita strette attorno al parapetto di legno e il busto quasi del tutto proteso verso l’esterno, mentre una delle donne sedute accanto a lei le raccomandava di stare attenta a non cadere di sotto, ha atteso di valicare le alte mura di pietra che lo circondavano, ricorda il vociare allegro delle persone pronte ad accoglierli dietro le imponenti porte di legno.
Ricorda lui. Ricorda Dave. Ricorda di averlo notato nella folla, nonostante fosse defilato, quasi nascosto dietro le gonne di un paio di signore piuttosto anziane, che venivano incontro al carro portando cibo, acqua e teli per asciugarsi il viso. Ricorda di averlo guardato attentamente, quel viso dai lineamenti precisi e sicuri, gli occhi intensi sotto le sopracciglia aggrottate, la frangetta bionda che scendeva a solleticargli la fronte, l’aura di insicurezza e diffidenza che lo circondava, che sembrava quasi irradiarsi dal suo corpo.
Ricorda di aver pensato, no, di aver ricordato solo in quel momento di averlo visto già centinaia di volte. Nei suoi sogni.
*
– Si poteva fare di più, per la nostra ultima cena. – commenta Rose con una scrollatina di spalle mentre, seduta per terra ed appoggiata di schiena al letto, mangia la carne in gelatina direttamente dalla scatola con una forchetta, – Ammettilo.
– Senti, ho già congelato tutto. – sbotta lui, aggrottando le sopracciglia e lanciandole un’occhiata infastidita, – Queste sono le uniche due cose che ho tenuto fuori, e solo per delicatezza, perché onestamente io non stavo morendo di fame, potevo farne benissimo a meno, ma ho pensato che tu per qualche motivo avresti potuto gradire un ultimo pasto prima di… – si interrompe, guardando altrove.
– Morire? – completa Rose per lui. È sempre stato così, fra loro. Dave ha una gran paura delle parole, del modo in cui rendono concreti concetti fino al momento precedente del tutto astratti. Per questo motivo, spesso e volentieri ha lasciato a Rose l’onere di tradurre in alfabeto corrente il suo silenzioso linguaggio di non detti, ed a Rose è sempre andato bene così, perché lei teme i concetti molto più delle parole. Li conosce troppo bene, i concetti, in tutte le loro spaventose, multiformi sfumature, in tutta la loro sfuggente complessità, in tutto il loro misterioso, quieto silenzio, li conosce troppo bene per non sapere che nessun concetto è veramente manipolabile, plasmabile, finché non è stato espresso a parole. Definire è limitare. Pronunciare una parola a volte ridimensiona incubi lunghi una vita.
– Già. – annuisce Dave. Rose ascolta il soffio incerto del suo sospiro, e lo osserva poggiare la scatoletta di carne semivuota sul pavimento. – Avevo torto?
– No. – sorride Rose, mettendo via anche la propria ed appoggiandogli una mano sulla schiena curva, cercando di indovinare l’espressione del suo viso che, in questo momento, non riesce a vedere. – No, non avevi torto. Mi fa piacere. Anzi, ne sono proprio contenta. Hai fatto un buon lavoro, Strider.
Dave si volta a guardarla. Gli occhiali scuri le impediscono di decifrare il valore della linea netta e severa delle sue labbra. Gli occhi di Dave parlano, da soli, più di tutto il resto del suo corpo. È per questo che li tiene sempre nascosti.
– Non scherzare. – le dice, – Non è proprio il momento.
– Be’, – scrolla le spalle lei, – Visto che non ne avremo più occasione…
– Rose, cazzo. – Dave si alza in piedi, scrollandosi di dosso la sua mano ed allontanandosi da lei in passi lenti e nervosi, – Cazzo, ma non lo capisci proprio, eh? Cristo.
Si avvicina alla finestra, appoggia le mani sulla balaustra ed inspira a pieni polmoni l’aria salmastra, riempiendosi le orecchie dello stridio dei gabbiani, sperando che questo possa bastare a calmarlo. Il livello dell’acqua è appena a sei metri sotto di lui, ormai. Probabilmente salirà ancora un po’. Ha fatto bene a trasferirsi all’ultimo piano del grattacielo, in vista di ciò che deve letteralmente ancora arrivare.
L’unica luce della notte è quella della luna, e non è neanche lontanamente sufficiente a rischiarare quell’oscurità profonda. Disegna appena un paio di scintille sulla superficie dell’oceano increspato dal vento, e l’alba, nonostante manchino ormai solo poco più di quattro ore, è ancora troppo lontana perché il sole possa far capolino all’orizzonte, ridando colore alla realtà.
A Dave la notte non è mai piaciuta particolarmente, ma ora vorrebbe non finisse mai.
Le dita pallide e sottili di Rose, poggiandosi sulla sua spalla tesa, lo costringono a distogliere la mente dai propri pensieri per voltarsi a guardarla. Non è sicuro che riuscirà mai ad esprimere a parole ciò che prova per lei. Un tempo pensava che, un giorno, ci sarebbe riuscito con una canzone. Ma ormai sono anni che non è più tempo per cantare. E sa che, adesso, può dimostrarle ciò che prova solo sanguinando. Prova a sorriderle, e lei gli sorride a propria volta, e le sue labbra, arricciate in quel modo un po’ infantile, sembrano molto più sicure delle sue.
– Non so come ci riesci. – le dice, – Io sto impazzendo.
– Lo so. – dice lei, ridacchiando appena, – Sei divertente.
– Questo non risponde alla domanda indiretta. – le fa notare Dave, e lei si appoggia al davanzale accanto a lui, scrutando la notte con aria innamorata. A lei la notte è sempre piaciuta parecchio, ma è palese che ora vorrebbe soltanto che finisse il più in fretta possibile.
– Dave, io so esattamente cosa accadrà. – gli risponde, – L’ho visto. Lo so. Non posso aver paura di qualcosa che conosco.
– Io temo molto di più le cose che conosco, rispetto a quelle che non conosco. – sospira Dave, – Perché so esattamente quanto male faranno.
Rose sorride, si volta a guardarlo.
– Mi mancherai anche tu, sai?
Dave arrossisce, distoglie lo sguardo.
– Sarà meglio che vada a controllare un’ultima volta che sia tutto a posto.
*
Il sole splendeva alto nel cielo, quando Dave le aveva parlato per la prima volta. Rose era arrivata al villaggio da appena due giorni, ed era stata tenuta completamente all’oscuro da quelle che tutti gli altri si ostinavano a chiamare “le cose dei grandi”. Era un atteggiamento che Rose aveva imparato a disprezzare presto, fin da quando era ancora in viaggio e tutti gli adulti che la accompagnavano sembravano stare così incredibilmente attenti a ciò che dicevano, da farle fingere per la maggior parte del tempo di essere addormentata, per smettere, almeno ogni tanto, di sentire i loro continui “non dire queste cose davanti alla bambina, che poi si impressiona”.
Non c’era più niente che potesse impressionarla. Non dopo la strage, non dopo aver visto morire sua madre, non dopo essere rimasta nascosta fra i cadaveri per due giorni e aver passato i successivi, chissà quanti, sette, dieci?, intrufolandosi nelle case dei morti per rubar loro un po’ di cibo ed un luogo riparato in cui dormire.
Avrebbero dovuto trattarla come tutti gli altri, perché esattamente come loro era pronta a fare tutto ciò che fosse necessario per sopravvivere, non importa quanto terribile fosse il prezzo da pagare.
Questo non faceva di lei un’adulta?
Quel giorno era nervosa. Appena sveglia, una signora era venuta a chiamarla, informandola che, nel pomeriggio, l’avrebbero portata da Jade. Di Jade, Rose aveva già sentito parlare durante il viaggio. Era considerata il capo della rivolta, ne era, anzi, il seme. Da lei era partito tutto il resto, era stata lei a fondare il villaggio, ad organizzare la prima rete di spionaggio e di guerriglia, ed era sempre lei a coordinare i recuperi dei superstiti dopo i massacri. In parte, era a lei che Rose doveva la propria sopravvivenza, e ne era perfettamente consapevole. Era curiosa di incontrarla, ma allo stesso tempo l’idea la rendeva nervosa. Quello di Jade Harley, per qualche motivo, non era un nome che le fosse completamente ignoto, ma allo stesso tempo non avrebbe saputo con che cosa collegarlo, e questo la confondeva.
Le era capitato diverse volte di sentirsi così. Ogni tanto provava delle sensazioni che non sembravano appartenere alla sua memoria, ma ad una memoria differente, quasi universale, che si risvegliava a proprio piacimento tormentandola con ricordi non suoi.
Le era capitato anche guardando quel ragazzo nella folla, due giorni prima. Non ne aveva memoria, ma l’aveva visto spesso. E quando lo aveva visto avvicinarsi accanto a lei, attraversando i campi di grano, per un istante non era stata in grado di capire se fosse ancora un sogno, o fosse la realtà.
“Ehi,” le aveva detto lui, sedendosi al suo fianco sulla sponda del fiume, “Com’è che sei qui tutta sola?”
Lei aveva scrollato le spalle, guardando l’acqua. “Così,” aveva risposto, “Non mi va di stare con la gente.”
“Spesso, nemmeno a me,” aveva commentato lui con un sorrisetto impertinente. Poi si era voltato a guardarla, e stranamente solo allora Rose aveva davvero registrato il particolare degli occhiali scuri che portava sul naso. Non ci aveva fatto caso, prima, non perché non ci fossero, ma perché le erano sembrati un particolare normale, una cosa a cui era già abituata. Non aveva senso. “Tu ed io siamo uguali,” aveva detto il ragazzino.
Lei l’aveva osservato attentamente per un paio di secondi, sbattendo le palpebre. “Io nemmeno ti conosco.”
Lui aveva sorriso. “Non importa,” le aveva detto. “Comunque io sono Dave.”
“Rose,” si era presentata lei a sua volta, “Sei qui da molto?”
“Qualche mese,” aveva risposto lui, scrollando le spalle, “Non è male, come posto in cui vivere, se ignori l’addestramento. E, ovviamente, tutte le aspettative degli altri. Vieni con noi al villaggio, ti dicono. Sarà divertente, ti dicono. Avrai un ruolo fondamentale nella salvezza del mondo, ma nessuna pressione.”
Rose si era voltata a guardarlo, inarcando un sopracciglio con aria sospettosa.
“Ma di cosa stai parlando?” gli aveva chiesto. Lui si era alzato in piedi, sulle labbra un sorriso soddisfatto.
“Se sei davvero quella che Harley crede, questa è l’ultima volta che posso dire di sapere qualcosa in più di te. Lasciami godere il momento,” aveva concluso con una risatina.
Rose l’aveva osservato scappare via per i campi a piedi nudi, e poco dopo aveva visto avvicinarsi la stessa signora che l’aveva svegliata quella mattina. Aveva capito che il momento dell’incontro era giunto, ed aveva seguito la donna fino alla piccola roccaforte che sorgeva in cima alla collina sui fianchi morbidi della quale era stato costruito il villaggio, e lì, in una vecchia stanza enorme, piena di cianfrusaglie e tavoli coperti di libri e mappe dall’aspetto antico e usurato, aveva finalmente incontrato Jade Harley.
Era alta, la pelle scurita dal sole, il viso incorniciato da una massa confusionaria di lunghi capelli neri. L’aveva accolta con un sorriso incoraggiante, gli occhi verdi e scuri brillanti dietro i grandi occhiali rotondi ed un bizzarro gatto bianco pigramente accucciato ai suoi piedi.
“Rose Lalonde, vero?” le aveva chiesto, “Ti aspettavo da tanto.”
Rose aveva aggrottato le sopracciglia, indietreggiando di qualche passo, sulla difensiva.
“Chi sei tu?” le aveva chiesto.
Jade aveva sorriso, avvicinandosi ed appoggiandole una mano sulla spalla. “Hai sempre avuto un debole per le frasi ad effetto, vero?” le aveva chiesto, “D’altronde, ti piace scrivere.”
Spalancando gli occhi, sorpresa, Rose aveva pensato alla mezza dozzina di quadernetti pieni di storie che nascondeva usualmente sotto il letto, a casa. Aveva cercato di non immaginarli nascosti sotto le macerie. Poi si era chiesta come facesse quella donna a conoscere un particolare tanto insignificante, su di lei, ed aveva avuto paura.
“Dal momento che ti piacciono le frasi ad effetto,” aveva continuato Jade, inginocchiandosi accanto al cane ed invitandola a fare lo stesso, “Posso permettermi di usarne una. E dirti che la vera domanda non è chi sono io, ma chi sei tu.”
Le labbra di Rose si erano piegate in un broncio deluso, mentre lei incrociava le braccia sul petto. “Questa era veramente patetica,” aveva commentato.
“Sì,” aveva annuito Jade, ridendo argentina, “D’altronde la scrittrice sei tu, non io. Ma ora basta chiacchierare,” aveva aggiunto con un sorriso dolce, “Sono sicura che hai un sacco di domande.” Rose aveva schiuso le labbra per parlare, ma Jade l’aveva fermata con un’altra risata. “No, non è a me che devi farle,” aveva detto. “Prova ad accarezzare Bec,” le aveva suggerito, indicando il gatto con un cenno del capo, “Naturalmente il suo nome non è davvero Bec, o meglio… Bec è il nome che io gli ho dato, ma non si tratta del vero Bec. Ma anche questa è una cosa che capirai col tempo,” aveva concluso con una risatina. “Coraggio, accarezzalo. Non graffia.”
Rose aveva osservato il gatto aprire un occhio e guardarla con diffidenza. Non sapeva se fidarsi o meno, ma quando il gatto era tornato a sonnecchiare lei si era fatta coraggio, e dopo aver deglutito aveva allungato una mano, e gliel’aveva appoggiata sulla testa.
Era stato come lasciarsi attraversare da una scossa elettrica. Rose non l’aveva combattuta, aveva lasciato che viaggiasse lungo tutto il suo corpo, risvegliando ogni singola terminazione nervosa, spalancandole gli occhi su un passato, tanti passati, ed altrettanti futuri certi, possibili e impossibili.
Si era allontanata da Bec solo quando il calore e la quantità di dati da gestire era diventata troppo elevata, e l’aveva fatto di scatto, strisciando lontano da lui sul pavimento fino a raggomitolarsi contro il muro in un angolo della stanza, le ginocchia strette al petto, gli occhi spalancati, minuscole scintille di energia a crepitarle sulla pelle, fra i capelli, sulle punte delle dita.
“Stai tranquilla,” le aveva detto Jade, raggiungendola ed inginocchiandosi al suo fianco, accarezzandole i capelli con gentilezza, “È tutto a posto. Passerà presto.”
“Cos’era?” aveva chiesto Rose, la voce scossa da un tremito profondo, “Cos’è successo?”
“Bec è un animale particolare,” aveva sorriso Jade, “Ti ha aperto gli occhi. Quasi nessuna delle cose che hai visto rimarranno impresse nella tua memoria, non preoccuparti. Quello che è successo… è stato come aprire una diga per la prima volta. Naturalmente il flusso d’acqua all’inizio è impetuoso, massiccio, devastante. Poi, però, va stabilizzandosi. Ecco, tu avevi bisogno di un enorme flusso d’acqua, per risvegliarti, ma adesso tutte quelle informazioni così precise non sono più necessarie. La tua mente si occuperà di scartare quelle meno importanti, e quelle più importanti torneranno col tempo.”
Rose aveva annuito lentamente, sentendo la mente sgombrarsi man mano, tornare ordinata, tranquilla. Si era voltata a guardare Jade, ed era stato come riconoscerla per davvero per la prima volta. “Io ti ho già incontrata,” le aveva detto, “In un’altra vita, vero?”
Jade aveva sorriso più dolcemente, aiutandola ad alzarsi e conducendola verso una delle numerose scrivanie disseminate per la stanza. “Non eri propriamente tu,” le aveva sorriso, invitandola a sedersi, “Ma anche questo, lo capirai meglio col tempo. Io sono qui per aiutarti. Il mio è un ruolo preparatorio, così come, fra qualche anno, lo sarà anche il vostro.”
Rose aveva abbassato lo sguardo, pensando a Dave. “Ho già incontrato anche lui, in un’altra vita, vero?”
Jade le aveva stretto una mano fra le proprie, sorridendo dolce come una mamma. “Sì,” aveva annuito, “E continuerai a incontrarlo ancora, anche nelle prossime.”
*
Sopra di loro, il cielo è una lavagna nera sulla quale Dave e Rose giocano a disegnare costellazioni nuove e mai sentite prima. Dopo la costellazione del cane addormentato è stato il turno della costellazione del gelato che si scioglie sotto il sole d’estate.
– Quella. – dice Rose, puntando il dito in alto ed avvicinandosi a Dave per mostrargli esattamente dov’è la stella che indica, anche dalla sua prospettiva, – Vedi? Ne ha una gemella accanto.
– Ah–ha. – Dave annuisce, – Le vedo.
– Bene. – Rose annuisce divertita, – Ora guarda tutto intorno. C’è una stella subito sotto, è un naso. Poi tre stelle, la bocca. E le stelle tutte attorno a fare da cornice. Questa è la costellazione della faccia sorridente.
– Ora, direi che la stai tirando un po’ per i capelli, no? – ride Dave, – Le stelle tutte intorno non sono poi così tante, saranno quattro puntini. Non bastano per fare una faccia.
– Ma non hai un minimo di immaginazione, Strider? – sbuffa lei, voltandosi su un fianco e concedendosi una minuscola smorfia di dolore quando, nel muoversi, preme contro la ferita ancora aperta sotto le fasciatura che Dave le ha diligentemente avvolto attorno. – Forse, se ti togliessi dalla faccia quegli occhiali scuri, riusciresti a vedere meglio.
– Ci vedo perfettamente, grazie. – ghigna Dave, – Ma è stato un bel tentativo. Meriteresti quasi che li togliessi solo per premiare l’ingegno. – le lancia un’occhiata divertita, attraverso le lenti scure, – Quasi.
– Sei insopportabile. – sospira lei. – D’accordo, se non ti piacciono le mie costellazioni, fammi vedere cosa sai fare tu, allora.
– Ehi, il cane addormentato non era male.
– Era una palla ovoidale con tre puntolini a fare la coda. – commenta lei, inarcando un sopracciglio, – Fai di meglio, o subirai la mia ira.
– Nelle tre ore che mancano all’alba? Sono quasi sicuro di poter sopravvivere a tre ore della tua ira.
– Fieri non è sopravvissuto neanche a venti minuti. – sorride lei, cattiva. Dave arrossisce all’improvviso, e Rose può vederlo distintamente, nonostante gli occhiali, nonostante il buio. Non si abituerà mai all’effetto che ha su di lui. Al modo in cui Dave riesce a tenerle testa tranquillamente, ma solo fino ad un certo punto, oltre il quale il suo cervello sembra spegnersi, e lui torna ingenuo e arreso come un bambino, e lei ha la chiara impressione che potrebbe chiedergli di fare qualsiasi cosa, e lui obbedirebbe senza battere ciglio.
È una consapevolezza che la spaventa e la emoziona, la riempie di brividi di natura misteriosa, una realtà alla quale si è ormai assuefatta, senza la quale non potrebbe vivere.
– Stupiscimi, Strider. – dice a bassa voce.
Lui deglutisce, si volta a guardare il cielo.
– Quella. – dice, indicando un punto a caso nel cielo.
– Quale? – domanda Rose, avvicinandosi e cercando di capire di quale stella stia parlando.
– Questa. – sussurra Dave, e poi si volta e la bacia sulle labbra.
Sorpresa, Rose si tira indietro, ma Dave le passa un braccio attorno alla vita e la trattiene delicatamente contro di sé, schiudendo le labbra ed invitandola a fare lo stesso, accarezzandola piano con la punta della lingua finché non la sente sciogliersi e aprirsi per lui.
La bacia come fosse la prima e l’ultima volta, nonostante una parte di loro – più sviluppata in Rose, meno sviluppata ma sempre presente in Dave – sappia perfettamente che non è così e non sarà mai così. Che da qualche parte, in qualche universo, nel passato, nel presente o nel futuro, qualcosa di simile sta già accadendo, o è accaduta, o accadrà. Fra due persone che sono loro e al contempo non lo sono, questa cosa sta già accadendo. In qualsiasi tempo e luogo, sta già accadendo.
Si separano controvoglia, Rose lo guarda e non vuole perderlo, anche se sa che dovrà. In qualche modo è consolatorio pensare che da qualche parte c’è un’altra lei che ha già il suo Strider. Ma così com’è consolatorio pensare questo, è frustrante e triste pensare che, proprio come lei, anche quella Lalonde un giorno lo perderà, solo per permettere a un’altra come lei di trovarne uno nuovo che sia sempre ancora lui.
La loro è la maledizione più crudele della storia.
– Ti ho stupita? – le chiede lui, guardando altrove, le guance arrossate dall’imbarazzo.
Rose annuisce, stringendoglisi addosso.
*
Il giorno in cui Jade è andata via, pioveva a dirotto. Rose lo ricorda bene. Ricorda di essere rimasta tutto il giorno in camera propria, il naso schiacciato contro la finestra a fissare le gocce di pioggia che scivolavano svelte lungo la superficie liscia e trasparente del vetro. Ricorda la sensazione del freddo contro la pelle, la voglia di infilarsi un maglione pesante ed accucciarsi al calduccio sotto le coperte anche se in realtà la temperatura non era scesa poi così tanto. Soprattutto ricorda i musi lunghi e le espressioni serie della gente, come fossero tutti presi dalla sfiancante ricerca di una soluzione per quel fastidioso inconveniente.
Non c’era una soluzione alla pioggia, e – cosa ancora più importante – non c’era una soluzione alla malattia più profonda di cui la pioggia era solo il sintomo. Il livello dell’acqua si era alzato pericolosamente, nel corso dell’ultimo anno. Le piogge – sensibilmente più frequenti adesso rispetto a quando Rose era arrivata al villaggio – erano la diretta conseguenza dell’aumento di temperatura pilotato dalla Sua Imperiale Condescenza, che aveva provocato un anomalo scioglimento dei ghiacciai ed una graduale perdita di controllo della natura stessa sul ciclo di evaporazione dell’acqua.
Il fiume ai piedi della collina era già esondato tre volte, quell’anno. Avevano dovuto costruire argini più alti, ma era servito a poco. Ben presto, rinunciando alla speranza di vedere le acque ritirarsi, era toccato al villaggio farlo. Le case costruite a fondovalle erano state abbandonate, e adesso si viveva solo sui fianchi della collina ed all’interno del forte in cima alla stessa. Erano sistemazioni per lo più di comodo, e si viveva tutti un po’ schiacciati gli uni contro gli altri, ma nessuno se ne lamentava. Era facile perdere qualsiasi desiderio di lagnarsi, quando ci si ricordava di essere gli ultimi esseri umani rimasti sul pianeta.
A Rose piaceva restare chiusa in camera propria. Naturalmente prendeva attivamente parte alla vita del villaggio, alle esercitazioni di combattimento, alle riunioni strategiche, ma così come Dave era consapevole del proprio ruolo differente, e dal momento che tale ruolo poteva benissimo essere interpretato anche stando comodamente seduta a gambe incrociate sul proprio letto con un portatile sulle ginocchia, Rose preferiva stare lì, piuttosto che fuori, o nelle sale comuni. Jade spesso la rimproverava, per questo. Piuttosto bonariamente, in realtà, ma le vibrazioni della sua voce, per quanto dolci potessero essere, erano molto chiare nel dare all’interlocutore una chiara idea del suo stato d’animo mentre parlava, e Rose sapeva che, quando Jade le diceva che chiudersi in camera la allontanava dalla realtà dei fatti, non lo diceva soltanto per esporle un dato di fatto, ma soprattutto per cercare di farle capire che si trattava di un atteggiamento sbagliato.
“Non ho bisogno della realtà,” diceva Rose, sollevando il quaderno sul quale, pagina dopo pagina, andava srotolando il filo della storia di Calmasis, “Ricordi? Io invento.”
“No, Rose, è questo l’errore,” sorrideva Jade, “Tu non inventi niente. Ora metti via quel quaderno e vieni con me, esercitiamoci un po’ con le tue visioni.”
Per Jade era fondamentale che Rose esercitasse i propri poteri psichici. Rose ne era affascinata, e quando la seguiva nel suo studio, si sedeva per terra e lasciava che Bec le si accoccolasse in grembo, prendendo ad accarezzarlo passando le dita fra le ciocche di quel suo bizzarro pelo bianco, non lo faceva soltanto per eseguire l’ordine che una donna alla quale doveva la vita le aveva dato, ma soprattutto perché la sua mente sembrava una porta pronta ad aprirsi su innumerevoli universi, e durante ogni sessione Rose ne scopriva uno nuovo. Spesso non riusciva a vedere niente di preciso, durante la pratica, ma andava bene lo stesso, perché Rose sapeva che lo scopo di quelle sedute non era quello di farle vedere qualcosa in particolare, ma di aiutarla ad imparare a padroneggiare la tecnica, di modo che potesse gestire le visioni quando si presentavano ad intervalli irregolari nei momenti più impensabili nel corso della giornata.
L’ultima era stata due giorni prima. Rose era in camera di Dave, dove le capitava effettivamente fin troppo spesso di essere. Stava bene, in camera sua, ma ogni tanto semplicemente la voglia di infastidire Dave era troppo forte per poter essere repressa, specie quando sapeva per certo di trovarlo impegnato a lavorare su uno dei suoi film, o sulla sua musica.
Era stesa sul suo letto, stava leggendo ad alta voce brani a casaccio dall’ultimo capitolo che aveva scritto, senza aspettarsi una reazione o un commento di alcun tipo, semplicemente parlando per il puro piacere di farsi ascoltare, quando aveva cominciato a vedere.
“Meteoriti,” aveva detto a bassa voce. Teneva il quaderno aperto e sollevato a mezz’aria davanti al viso, e le parole scritte, le singole lettere, cambiavano posto, formavano parole nuove, e poi si allontanavano e si riavvicinavano ancora per creare dei disegni sulla pagina. Rose aveva sorriso estatica, la voce tremante. “È la cosa più assurda…” aveva detto, tutto il corpo scosso da un fremito di ansia ed emozione.
Dave si era alzato dalla sedia e le si era inginocchiato accanto in pochi istanti. “Stai vedendo qualcosa,” le aveva sussurrato, cercando di sbirciare la pagina e non trovandovi sopra niente di straordinario, “Cosa? Dove?”
“Meteoriti,” aveva semplicemente ripetuto Rose, il sorriso che si allargava sulle labbra mentre, fra le pagine del suo quaderno, il cosmo prendeva vita, i quadretti bianchi si trasformavano nell’oscurità profonda dell’universo ed ogni lettera era un pianeta orbitante attorno ad un’altra lettera mascherata da stella. E poi, i meteoriti. “Ne sono caduti due,” aveva sussurrato. Le lettere sulla pagina avevano smesso di vorticare, si erano fermate ed erano tornate ai loro posti. Rose aveva chiuso il quaderno, per niente turbata. S’era seduta ed aveva ripreso fiato.
“Stai bene?” le aveva chiesto Dave. Lei gli aveva sorriso appena, annuendo.
“Devo vedere Jade,” aveva detto. Pochi minuti dopo, la stava già conducendo fra i campi, seguendo il corso del fiume fin quasi alle cascate. Uno dei due meteoriti era lì, ridotto in pezzi fra le spighe di grano. Il bambino che vi aveva viaggiato a bordo sembrava illeso – gattonava allegramente fra le macerie, brandendo un paio di pistole dalla dubbia provenienza. Jade si era chinata su di lui, l’aveva sollevato da terra, stretto teneramente fra le braccia. “Ciao, Jake,” aveva sussurrato piano, strofinando la punta del proprio naso contro quello più schiacciato del piccolo. “L’altro?” aveva chiesto poi, voltandosi a guardare Rose.
Lei aveva distolto lo sguardo. “Perso,” aveva detto, “Nelle mani di Sua Imperiale Condescenza.”
Inaspettatamente, invece di accigliarsi o preoccuparsi, Jade aveva sorriso. “Perfetto,” aveva risposto, “Torniamo al villaggio.”
Due giorni dopo, nessuno aveva ancora avuto occasione di parlare con lei. Sembrava fosse rimasta tutto il tempo chiusa nella propria stanza col bambino, come avesse del tempo perduto da recuperare e nessuna intenzione di rimandare ancora l’occasione di farlo.
Rose non si era stupita, quando erano venuti ad avvisarla che Jade voleva vederla. Così come non si era stupita di trovarsi assieme a Dave di fronte alla porta della camera chiusa. L’aveva visto in un lampo pochi istanti prima che bussassero alla sua porta per chiamarla. Aveva visto un’istantanea del viso di Jade, del suo sorriso colpevole, ed aveva capito che qualcosa sarebbe successo di lì a poco, e che lei doveva essere pronta.
“Tu sai cosa sta succedendo,” le aveva bisbigliato Dave, teso come una corda di violino, mentre immobili davanti alla porta attendevano che Jade li lasciasse entrare.
“No,” aveva risposto lei. Era solo una mezza menzogna. Lui le aveva dato comunque della bugiarda.
All’interno della stanza, Jade stava terminando di preparare i bagagli. Il piccolo Jake dormiva saporitamente a pancia in giù sul letto della sua nuova mamma, un pollice in bocca ed un cuscino sistemato in orizzontale accanto a lui, perché non potesse cadere giù muovendosi inavvertitamente nel sonno. Le pistole erano state riposte lontano da lui, per fortuna.
“Ragazzi,” aveva detto loro, sorridendo confusamente mentre volteggiava per la stanza recuperando tutto ciò che voleva portare con sé, “Entrate pure. Immagino che avrete un sacco di domande.”
“È tuo figlio?” aveva chiesto subito Dave, indicando il bambino. Jade era arrossita, si era coperta il volto con entrambe le mani, aveva scosso il capo.
“Diciamo più un nipote,” aveva risposto. Poi aveva messo via il borsone pieno di vestiti ed aveva chiesto ad entrambi di sedersi, perché aveva qualcosa da dire loro. Aveva spiegato che aveva aspettato per anni questo momento, e che adesso era finalmente giunta per lei l’occasione di fare la propria parte per qualcosa di grande che sarebbe avvenuto solo fra, letteralmente, centinaia d’anni. Doveva andare via, lasciare la resistenza nelle loro mani – erano grandi abbastanza, maturi abbastanza, pronti abbastanza – portare Jake lontano da quell’isola, crescerlo altrove, dove sarebbe stato al sicuro fino a quando fosse arrivato il suo momento.
Rose e Dave non avevano capito. Jade aveva sorriso, si era scusata per non poter dire di più. “Capirete col tempo,” aveva detto loro, “Rose, il tuo dono vi aiuterà a capire, quando sarà arrivato il momento giusto. Mi dispiace lasciarvi qui da soli, ma se non lo facessi adesso vivrei solo per pentirmene.”
Era partita il giorno dopo. Nessuno dei due l’aveva più rivista.
*
– C’è qualcosa di cui ti penti? – gli chiede, fissando le increspature sulla superficie del mare. Gli sta talmente vicina che, se chiude un occhio, vede solo il bianco della sua maglietta ingrigito dall’oscurità della notte.
Dave si irrigidisce sotto di lei, e poi scrolla le spalle.
– Ce l’hai qualche giorno libero? – domanda ironico, – Così ti faccio l’elenco.
Rose sogghigna, e gli pizzica un fianco.
– Dico sul serio.
– Anch’io. – annuisce Dave, – Intanto, il primo è non essere scappato dal villaggio quando ancora potevo. Intendo, a tredici anni probabilmente avrei fatto cento metri e poi sarei caduto in un fosso, dentro al quale sarei morto logorato dalla fame e dalla sete dopo un’agonia di un mese, ma almeno avrei potuto provarci. Avrei potuto fare come Harley e scappare su un’isola caraibica. Probabilmente sarei morto comunque, ma ehi, vuoi mettere le palme, la sabbia bianca e bere il latte direttamente dalle noci di cocco?
– Cretino. – ride Rose, colpendolo al petto col pugno chiuso e poi schiudendo le dita e lasciandole lì, a sfiorare il calore di Dave attraverso la maglietta di cotone. – No, davvero. Rimpiangi qualcosa di quello che hai fatto? Che abbiamo fatto?
Dave sospira, guarda dritto di fronte a sé. Rose si chiede se stia guardando davvero qualcosa in particolare, se riesca a vederla nonostante la notte e quelle lenti che sono ancora più scure del buio.
– No. – risponde lui, sistemandosi meglio sotto di lei, stringendole un braccio attorno alle spalle, – Rose, non rimpiango niente, neanche un istante della mia vita.
– Io sì. – risponde lei in fretta, la voce quasi strozzata tanto è il desiderio che ha di parlare, – Dave. – si solleva a sedere, cerca i suoi occhi e non li trova, odia quegli occhiali e glieli strappa via dal viso con violenza, lasciandoli rotolare lontano sul pavimento di cemento. – Io sì. Rimpiango un sacco di cose e sono convinta di aver fatto casino in quasi ogni singolo istante della mia esistenza, perché tutto quello che è successo avremmo potuto affrontarlo insieme, ed invece non l’abbiamo fatto.
Sdraiato sul pavimento sotto di lei, Dave non cambia neanche espressione. La guarda con aria quasi severa, le labbra strette in una smorfia indecifrabile.
– Eravamo insieme. – dice.
– No. – insiste lei, scuotendo il capo, – Eravamo l’uno in compagnia dell’altra. Non insieme.
– Ti dico che eravamo insieme. – ripete lui, aggrottando le sopracciglia, – Non mi sono mai aspettato di sentirtelo dire. Non ho mai preteso di mettere le cose in chiaro.
– Avresti dovuto. – Rose si morde un labbro, finge di avere le lacrime agli occhi solo perché si sta facendo male. – Qualsiasi ragazzo normale—
– Noi non siamo mai stati ragazzi normali.
– Non importa! – Rose distoglie lo sguardo. Le rotola una lacrima giù per la guancia e si sente incredibilmente stupida e imbarazzata, ma questa è l’ultima notte che passano insieme su questa terra, e lei non può morire con questo peso addosso. Ne porta già fin troppi.
Dave solleva una mano, accarezzandole il viso. Lei torna a guardarlo e lui è così bello che a lei viene da piangere ancora. Si chiede se anche lui la veda così, adesso. A lei si spezza il cuore al solo pensiero di doverlo perdere. Vorrebbe sentirgli provare lo stesso dolore.
– So cosa intendi. – le dice Dave, e le parla dolcemente, come ad una bambina da proteggere. – Per quello che vuoi c’è ancora tempo.
– Ma ne abbiamo perso tanto. – sospira lei, socchiudendo gli occhi sotto le sue carezze.
– D’accordo, Rose, ma ce n’è ancora. – insiste lui, – Perché continua a sfuggirti questo concetto? Il tempo scorre. Bella novità. Rose, non fa altro dall’inizio dell’universo. Il punto, però, è che ce n’è sempre ancora.
– Per noi non ce ne sarà più, da domani in poi.
– È vero. – annuisce Dave, – Ma ce n’è ancora adesso. – le stringe il mento fra le dita, costringendola a voltarsi per guardarlo ancora. La tira giù, fino a poter sentire sulle labbra la carezza del suo respiro. – C’è tempo adesso.
Rose chiude gli occhi, posa le labbra sulle sue. “Dave è sempre lo stesso,” dice una voce da qualche parte nella sua testa. E Rose sorride, perché sa da dove viene.
*
I momenti peggiori sono sempre stati quelli in cui le visioni sono arrivate mentre lei dormiva. Quando è sveglia fa meno fatica a tenerle a freno, anzi, diventano perfino divertenti. Le visioni, ha scoperto nel tempo, con la pratica e con la pazienza, non sono allucinazioni nel senso proprio del termine. Non sono neanche veri e propri sogni ad occhi aperti.
Ovviamente, durante una visione Rose vede cose che nessun altro può vedere, cose che a conti fatti non esistono, ma non si tratta, usualmente, di vere e proprie scene. Sono brandelli di verità che riemergono pezzo dopo pezzo dal suo subconscio, e la ragione della spettacolarità con cui il suo cervello le mette in scena è da ricercarsi solo nel desiderio del suo stesso cervello di renderle a lei comprensibili al massimo. È per questo che spesso, quando è sveglia, le visioni non arrivano sotto forma di immagini, ma sotto forma di parole. Specie quando ha per le mani un libro o un quaderno, semplicemente le capita di vedere le parole che compongono il testo risistemarsi per formare un testo diverso, e su quel testo lei legge ciò che deve sapere, come fosse una storia.
Quando dorme, naturalmente, il suo io cosciente ha una possibilità molto limitata di fare da barriera fra i ricordi che riemergono e la Rose del presente, e per questo molto spesso quei ricordi riemergono esattamente come sono quando si risvegliano. Immagini, per lo più viste attraverso gli occhi di un’altra Rose, quella che si nasconde nella sua testa, quella che contiene una traccia di tutte le Rose passate e il germoglio di tutte quelle che devono ancora essere.
Quella volta dormiva. È uno dei ricordi più spaventosi che possiede. Era sola, allora. Dave era altrove, in missione. Era partito qualche giorno prima. Rose sapeva che lui stava bene, dovunque fosse – si tenevano costantemente in contatto e comunque era stupidamente ma genuinamente convinta che se gli fosse capitato qualcosa lei l’avrebbe saputo, sentito in qualche modo – ma il sogno l’aveva messa in agitazione.
Aveva visto una storia assurda di cui riusciva a ricordare i dettagli solo a fatica. Parlava di bambini, bambini che sarebbero nati fra centinaia d’anni, bambini di cui sapeva i nomi. Di cui conosceva i genitori. Spalancando gli occhi sul soffitto bianco sempre uguale della sua stanza, aveva sussurrato i loro nomi e si era chiesta come sarebbero stati. Sarebbero stati entrambi biondi, naturalmente. Chissà se avrebbero avuto i loro occhi?
Aveva stretto l’orlo del lenzuolo fra le dita, sentendo lo stomaco stringersi in una morsa dolorosa. Non aveva visto solo i bambini, ma anche tutto ciò che avrebbe portato alla loro comparsa. Tutta la loro storia. Tutta la sua storia, la loro storia, la sua e quella di Dave.
Aveva visto il sangue.
Spiegarlo a Dave era stato difficile. Lo aveva aspettato alle porte del villaggio e l’aveva riconosciuto quando ancora si trovava a chilometri di distanza. Non sapeva se fosse una caratteristica particolare che possedeva grazie alle proprie doti o se semplicemente fosse una caratteristica particolare che possedeva in quanto Rose, ma vedere Dave era sempre così semplice, dovunque si trovasse. Spesso, quando nient’altro intorno a lei sembrava familiare, il volto di Dave era l’unico a restare sempre perfettamente riconoscibile.
Lui l’aveva vista aspettarlo ad aveva sorriso, aveva lasciato che gli altri che lo accompagnavano lo superassero lungo il sentiero ed aveva rallentato il passo fino ad essere completamente solo una volta che fosse arrivato davanti a lei. E poi l’aveva guardata negli occhi e il sorriso sulle sue labbra si era smorzato, trasformandosi in una smorfia tesa e preoccupata. “Cos’è successo?”, le aveva chiesto. Lei aveva abbassato lo sguardo e lui le aveva stretto il mento fra le dita, costringendola a guardare di nuovo in alto. “Cos’è successo?”
“Ti devo parlare,” gli aveva risposto a mezza voce. Si erano appartati in quello che, ai tempi di Jade, era il centro nevralgico dell’organizzazione della resistenza, e che da quando lei era andata via Rose aveva trasformato in un’enorme biblioteca all’interno della quale aveva raccolto tutti i libri che era stata in grado di recuperare durante le sue numerose missioni in giro per il mondo. Teso e nervoso, Dave aveva aspettato per minuti interi che fosse lei a parlare per prima, ma quando si era accorto che non sarebbe mai successo l’aveva raggiunta alla scrivania, si era seduto di fronte a lei, aveva preso le sue mani fra le proprie e, guardandola ostinatamente negli occhi, le aveva chiesto di parlare.
Non sempre il racconto di Rose aveva avuto senso. Certi passaggi logici mancavano del tutto, ma Dave era abituato a quelle assenze. Capitava, ogni tanto, che Rose non avesse idea del perché certe cose si verificassero in un certo modo, l’unica cosa che sapeva era che si sarebbero verificate. Col tempo, Dave aveva imparato a fidarsi ciecamente, anche se doveva ammettere che ciò che Rose gli stava raccontando in quel momento metteva la sua fiducia a dura prova più di qualsiasi altra cosa gli avesse mai raccontato in passato.
“Rose…” aveva provato a ragionare, massaggiandosi lentamente gli occhi stanchi, “Non possiamo farlo. Siamo ancora forti abbastanza da portare avanti la guerra assieme agli altri. Sarebbe ridicolo lanciarci fra le fauci del lupo cattivo nella speranza—”
“Non è una speranza.”
“D’accordo, nell’attesa che, fra quattro fottuti secoli, due ragazzini arrivino, raccolgano la nostra eredità e concludano quello che abbiamo iniziato e non saremo capaci di finire. Possiamo finirla noi,” aveva suggerito, sorridendo incoraggiante, “Possiamo aspettare ancora qualche anno, cercare altri sopravvissuti o aspettare che i bambini siano cresciuti e poi attaccare in forze.”
Rose gli aveva sollevato addosso uno sguardo abbattuto, si sarebbe detto scoraggiato, se Dave non l'avesse conosciuta bene come la conosceva avrebbe sicuramente pensato che da qualche parte, in qualche modo, mentre lui era via Rose avesse gettato la spugna. Ma non poteva essere così, non poteva in alcun modo essere così. Dave la conosceva. La quantità di coraggio alla quale Rose poteva attingere era pari soltanto alla sua sconfinata intelligenza.
Ed era proprio quest’ultima a rendere i suoi occhi così cupi e tristi, in quel momento. Dave l’aveva capito dopo qualche secondo, e le sue dita si erano strette con più forza attorno a quelle di Rose, come per riflesso.
Non potevano fare niente per sconfiggere Sua Imperiale Condescenza. Se anche avessero aspettato dieci, venti o cinquant’anni, non sarebbero mai stati forti abbastanza.
Quello non era mai stato un gioco solo per due.
“Non saranno soli, è vero?” aveva domandato a mezza voce, cercando di sbirciare la verità nel fondo scuro e tempestoso degli occhi di Rose, “Non saranno soli a combatterla. E' per questo che loro riusciranno mentre noi non potremmo mai, è vero? È per questo che sono l'unica soluzione possibile.”
Rose aveva abbassato lo sguardo, annuendo lentamente.
“Mi dispiace,” aveva sussurrato, stringendo a propria volta le mani di Dave.
Lui aveva sospirato, intrecciando le dita con le sue. “Quando?”
“Non adesso,” aveva risposto lei, “Non ancora,” si era affrettata ad aggiungere, quasi sopraffatta, “Quando sarà il momento, lo sapremo.”
*
Le sembra di riascoltare la propria stessa voce pronunciare quelle stesse parole, adesso che si riempie gli occhi del cielo notturno e le narici del profumo di Dave, catturando sulla propria pelle il profumo della sua.
I vestiti che si sono quasi strappati di dosso alla rinfusa sono ammucchiati sotto di lei, per impedirle di sfregare contro il pavimento in cemento della terrazza, ennesima tenerezza che Dave le ha riservato senza che lei dovesse neanche chiedergliela. Non riesce neanche a stupirsi di questa sensibilità, perché se solo chiude gli occhi per riportare alla memoria gli istanti del passato si accorge che è sempre stata lì. Sempre. Dave l'ha sempre trattata con tutta la cura che si riserva usualmente alle cose che ci appartengono. E nel rendersi conto di questo sorride, realizzando finalmente il motivo per il quale Dave non ha mai sentito il bisogno di mettere ulteriormente in chiaro le cose fra loro.
Perché erano già chiarissime a sufficienza.
*
L'alba sopraggiunge in fretta, specie se paragonata alla lentezza con la quale sono trascorse le ore notturne. Rose osserva il sole fare capolino oltre la linea azzurra e netta dell'orizzonte, e poi si volta ad osservare Dave, ancora addormentato al suo fianco. Dopo aver fatto l'amore, erano talmente esausti e talmente bisognosi di qualche ora di sonno che si sono raggomitolati nei loro stessi vestiti in fretta e furia, utilizzandoli come coperte, ma Dave ha sempre avuto il sonno agitato, e fra una giravolta e l'altra ha fatto in fretta a scoprirsi quasi del tutto.
Ora, i raggi dorati del sole lo accarezzano discreti, e la sua pelle chiara quasi brilla del loro riflesso. Rose sorride, allungando una mano ad accarezzargli i capelli, e quel minimo movimento è sufficiente per svegliare Dave, che apre gli occhi su di lei con lentezza quasi studiata, come pretendesse di godersi al massimo quegli ultimi istanti di calma.
– Che ore sono? – le chiede, la voce impastata di sonno, mentre si solleva a sedere stropicciandosi gli occhi.
– E' quasi il momento. – gli sorride lei, lasciandogli scivolare le dita lungo il profilo del viso e poi sporgendosi a baciarlo. – Grazie per stanotte. – aggiunge divertita. Lui sogghigna, recuperando gli occhiali da sole che giacciono rovesciati sul pavimento alla sua destra ed inforcandoli velocemente.
– Quando vuoi.
*
Lo scontro è breve, quasi perfino simbolico. Sua Imperiale Condescenza li accoglie col solito sorriso ampio e spaventoso, i denti aguzzi che si incastrano perfettamente gli uni fra gli altri all’interno della cornice delle sue belle labbra piene tinte di porpora. Li invita a farsi avanti con un gesto elegante della mano carica di gioielli, il tridente d’oro apparentemente innocuo appoggiato ad un fianco dalla curva sinuosa, i capelli lunghissimi e neri che svolazzano selvaggi alle sue spalle, sconvolti dalla brezza marina.
Dave e Rose attaccano in coppia. Sua Imperiale Condescenza evita il colpo della prima e para quello del secondo, fa roteare il tridente a mezz’aria e quello brilla violentemente del riflesso del sole, accecandoli entrambi per un secondo, solo un secondo, ed è già abbastanza.
I loro corpi cadono a terra, vicini abbastanza da potersi toccare solo allungando una mano. Rose riesce a vedere le dita immobili di Dave con la coda dell’occhio, la sua carnagione sta velocemente perdendo colore, come se si stesse riversando tutto all’esterno assieme ai litri di sangue che perde dalle ferite che gli dilaniano il corpo.
Sua Imperiale Condescenza si allontana senza un suono, sorridendo soddisfatta. Rose sorride a propria volta, perché sa che questa battaglia è stata persa solo per rendere finalmente possibile la vittoria della guerra. Chiude gli occhi, e i volti dei bambini che ha visto si ripresentano davanti a lei. Ed è vero, non sono soli. C’è così tanta altra gente che combatterà al loro fianco… così tanta. Rose spera soltanto di aver fatto tutto per bene, che quello che hanno preparato per loro – casa sua, casa di Dave, i carapaci, il laboratorio – sia abbastanza per tenerli nascosti e protetti a lungo, almeno finché a loro volta non saranno pronti a compiere il loro destino.
Nella visione, Roxy e Dirk sorridono sereni, e Rose si lascia sfuggire una lacrima al pensiero che non riuscirà mai a incontrarli. La lacrima si schianta contro il pavimento con un suono tintinnante, e quando Rose apre gli occhi e vede rosso le si stringe il cuore al pensiero di aver previsto anche la posizione in cui sarebbe morta.
- Puoi muoverti? – le chiede Dave. La sua voce non è più che un rantolo. Rose prova a spostare un braccio, ci mette dentro tutta la forza che le resta, e riesce a sfiorare la punta delle dita di Dave con la punta delle proprie. È sufficiente. – Grazie. – sorride Dave. La sua voce sembra più tranquilla, adesso. C’è una nota rassegnata a renderla quasi dolce, nella sua tristezza. Rose piange ancora, senza un singhiozzo.
- Riesci a vedere il cielo? – gli domanda piano, sentendosi lacerare dentro con ogni sillaba che sputa.
- Sì. – risponde Dave.
Rose sorride, appoggiando la fronte al pavimento.
- Descrivimelo. – lo implora.
- È di un colore stupendo. – comincia Dave, mentre Rose chiude gli occhi e, lentamente, si lascia andare, - È di quell’azzurro che piace tanto a te, quello che sembra colorato coi pastelli a cera. Non c’è neanche una nuvola. Non riesco a vedere il sole, ma lo sento sulla pelle. Tu lo senti, Rose? Lo senti?
Rose annuisce lentamente, mentre la voce di Dave si spezza in un singhiozzo e poi in un gorgoglio discreto, fino a sbiadire nel silenzio.
Tutto sommato, per morire non avrebbero potuto scegliere un giorno migliore.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Dave Strider/Rose Lalonde.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Het, Incest, Angst, AU, Lemon.
- "Se esistono, al mondo, i luoghi dell'anima, Rose è senza dubbio il suo."
Note: Non ho giustificazione alcuna, per questa storia tremenda XD A parte che mi piacciono le AU e mi piace tantissimo il Dersecest. Son cose.
No, okay, in realtà, dal momento che quest'anno palesemente sto provando a calarmi nelle profondità di abissi sempre più profondi e oscuri con tutta la roba che scrivo, volevo provare a trattare l'incest in un modo differente rispetto al solito. Cioè, non sono mai pulitissima, quando scrivo storie incest, perché sono abbastanza convinta che alla base di un legame fraterno che si sviluppa in questo modo debba esserci di base una certa morbosità e anche un po' di non starci per niente con la testa, ma come è vero questo è vero anche che spesso e volentieri parlo di altri aspetti della relazione piuttosto che della morbosità in particolare, mentre qui è questo che ho voluto fare. Parlare dell'attaccamento morboso e delle relazioni di potere. In qualche modo. Non so se quello che dico abbia un senso, ma amen \O/
La storia partecipa alla Sagra del Kink 2.0 @ kinkmemeita su prompt esibizionismo preso dal Menù Veneziano, e filla il prompt #63 (Pericolo seducente) della challenge indetta da 500themes_ita.
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RITUAL UNION

Gli si avvicina di soppiatto, silenziosa come una gatta, come sempre. Dave sente tutti i muscoli del proprio corpo tendersi nello sforzo di non voltarsi verso di lei, e fanno quasi male, tanto sono rigidi. Il collo bloccato, le spalle immobili, le braccia rigide, le dita strette con forza attorno alla ringhiera, tutto il suo corpo è proteso in avanti, i suoi occhi fissano con ostinazione la massa indistinta e colorata di persone che si agitano confusamente al ritmo della sua musica sulla pista da ballo sottostante; tutto di lui, ogni fibra del suo corpo, ogni arto, ogni cellula, rifugge con forza il corpo di Rose, anche solo il pensiero del suo tocco.
Tutto di lui, ogni fibra del suo corpo, ogni arto, ogni cellula, mente.
Dave sente la carezza evanescente delle sue labbra contro la nuca, e rabbrividisce, il viso contratto in una smorfia di disgusto.
- Stammi lontana. - sibila cattivo, le nocche bianche e le dita che tremano per lo sforzo. La sbarra di ferro alla quale si stringe ha cambiato temperatura. Era gelida, prima, ma ora la frizione contro la sua pelle l'ha riscaldata. E' perfino fastidiosa. Dave sa che, quando allontanerà le mani, attaccato alla pelle sarà rimasto l'odore penetrante del ferro. E poi Rose lo laverà via col proprio.
Quando staccherà le mani da lì sarà per spostarle sui fianchi di Rose. Quando accadrà sarà perduto. Un'altra volta. Non deve accadere.
- Non riesco a capire perché sei sempre così cattivo con me. - sussurra Rose, la sua voce è un veleno al miele che scivola lentamente nelle orecchie di Dave. Goccia dopo goccia lo stordisce, gli addormenta i sensi, e Dave si sente già cedere.
Chiude gli occhi, cercando di allontanarsi da lei, se non col corpo, almeno coi pensieri. Si concentra sul ritmo familiare della musica, sul battere ossessivo e sempre uguale delle percussioni, sul vibrato profondo della linea di basso e sulla cantilena ipnotica del testo, ma non è abbastanza. Le mani di Rose risalgono lungo i suoi fianchi, pesanti e minacciose come artigli.
Il pensiero vaga verso posti e tempi lontani. Dave prova a fermarlo, ma è come un'onda innescata dalla presenza stessa di Rose, l'alta marea che produce dentro di lui come la Luna sugli oceani.

Un giardino, sole d'agosto, un bambino seduto per terra, è lui. Il sole si riflette sul biondo dei suoi capelli. Dave, come fosse uno spettatore esterno, si osserva più piccolo di vent'anni, e quei raggi lo abbagliano senza pietà. Si guarda giocare con la terra, costruire un piccolo fortino per i soldatini di plastica. Li dispone in ordine sulle mura. Poi usa i peluche come giganti assassini. Li guarda, e li odia adesso come li odiava da bambino. Le loro espressioni grottesche, ridicole, i loro colori sgargianti. Lo terrorizzavano già allora. Li usava sempre come i cattivi delle fiabe. Sconfiggendoli, si sentiva più forte. Era l'unico modo per esorcizzare la paura.

Se riuscisse a sconfiggerla... se solo ci provasse...

La voce di Rose. Distante, ma reale. E' come una cantilena. Racconta una storia - sua sorella ha sempre raccontato storie; è brava a farlo, è brava a mentire - e Dave la segue con attenzione. Ogni cosa che dice, ogni evento che Rose racconta, Dave lo mette in scena con soldatini e peluche.
Rose parla di guerre, di mostri, di giganti crudeli. Di sangue.
A Dave fanno paura i racconti di sua sorella, ma allo stesso tempo lo affascinano.


A Dave fa paura sua sorella, ma allo stesso tempo...

La pressione della mano di Rose sulla spalla. Le sue dita piccole, affusolate, così pallide. Le unghie rosa, i polpastrelli morbidi e delicati. Dave guarda i propri, coperti di graffi e sporchi di terra. Rose non gioca con la terra. Rose gioca solo con le parole. Rose gioca solo con lui.

Non ha mai smesso.
*
Dave non ricorda niente di sua madre, se non un paio di immagini sbiadite che ogni tanto riaffiorano controvoglia alla memoria. Sono quasi visioni, acquerelli che svolazzano per qualche secondo davanti ai suoi occhi e poi sbiadiscono progressivamente, contrastati dalla durezza precisa e netta della realtà. Ombre bionde e rosa, l'onda dei capelli, l'ovale del viso, la curva delle spalle, quanto sembrasse alta quando la guardava dal basso e tendeva le braccia per farsi sollevare e stringere al seno.
Ogni tanto il suo volto si sovrappone a quello di Rose. Quando succede, Dave sa di dover spegnere i ricordi. E' diventato bravo a farlo, è diventato bravo a fermarsi in tempo, a smettere di scavare prima di trovare qualche scheletro sepolto senza cura nella terra bagnata.
Dave non ricorda niente di sua madre, quasi niente, in realtà, ma qualcosa è rimasto, solo che non è un'immagine né una sensazione né un suono o l'idea di un abbraccio, no, è l'odore chiaro, abbagliante dell'alcool.
Sua madre beveva, e questo l'ha uccisa.
Sua madre è morta, e questo ha ucciso la sua famiglia.
La sua famiglia è morta, e questo ha ucciso Rose.
Ed ora il fantasma di Rose è qui, e vuole uccidere anche lui.
*
Suo padre è andato via poco dopo la morte della mamma. Di lui ricorda molto di più. La piega seria delle sue labbra, ad esempio. Le folte sopracciglia bionde. Le ciocche di capelli sempre dritte e disordinate sulla testa. Le basette - il modo in cui le dita di Rose indugiavano fra quella peluria morbida sulla guancia. La gelosia che lo divorava dentro quando la osservava accarezzarlo con devozione.
Rose era la preferita di papà.
Forse papà era il preferito di Rose, ed era questo a urtarlo tanto.
Non c'è mai stato niente di salutare, nella sua relazione con sua sorella.
*
Eppure, Rose era una bambina allegra. Di lei ricorda tutto, ogni cosa. Rose è il primo ricordo che ha, e forse dipende dall'essere nati insieme, ma forse no. Forse semplicemente Rose è il suo primo ricordo perché Rose è sempre stata paradigma di ogni cosa nel mondo. Tutto riconduceva a lei. Ogni gioco esisteva solo perché Dave potesse mostrarglielo, ogni canzone solo perché lei potesse sentirla, ogni istante del tempo aveva un significato solo perché potevano condividerlo.
Dei gemelli si dicono tante cose. Spesso si parla di telepatia. Dave non è sicuro che una cosa del genere esista. In certi momenti, guardare Rose è impossibile. E' così indecifrabile da fare paura. La paura lo imbarazza, e Dave distoglie pudicamente lo sguardo, quando accade, perché si vergogna.
Non è telepatia, no. E' condivisione. E' la consapevolezza profonda di essere nati dalla stessa piccola massa, di essersi divisi in due per un capriccio genetico. La biologia c'entra poco. Dave sa di non condividere niente con Rose in quel senso, sa di non essere nato dalla stessa identica cellula, ma non importa. Perché è così lo stesso. Non esiste nulla di suo che non sia anche di Rose.
Non esiste niente di Rose che lui non vorrebbe per sé.
*
Perdersi di vista, dopo la partenza di papà, era stato ovvio. Avevano dieci anni, mamma era morta l'anno prima e loro già faticavano a ricordarsi il suo viso. Ogni tanto Dave sorprendeva Rose a fissare le foto dell'album di famiglia con avidità, come volesse riempirsi la memoria di quei volti che non era più possibile vedere quotidianamente nella realtà. Aveva uno sguardo già nostalgico, come fosse perfettamente consapevole, nonostante fosse ancora così piccola, che presto anche il bisogno di guardare e riguardare quelle foto sarebbe sbiadito, proprio come tutti gli altri ricordi, ed allora i loro genitori sarebbero diventati solo un dettaglio biografico, una cosa che c'era stata in passato ma che, con lo scorrere del tempo, aveva perso tutta la sua importanza.
Rose aveva occhi da adulta incastonati in un volto da eterna bambina, ed era bellissima. Dave a volte si sorprendeva a guardarla all'improvviso, consapevole di averla fissata per minuti interi senza mai lasciarsi distrarre. Era particolare, bella come una bambola, il caschetto di capelli biondi le cui punte sfioravano appena il collo, la pelle di un bianco rosato abbagliante, il corpo minuto, i movimenti naturalmente eleganti. Dave era un bambino goffo, troppo alto per la sua età, troppo magro, coi piedi troppo grandi, le labbra sempre piegate in un broncio infastidito.
Quando papà era andato via, per qualche settimana - poco meno di un mese, in realtà - erano stati ospitati in un orfanotrofio, un bel posto, gestito dalle suore, nonne gentili e premurose che si occupavano di loro per la totalità del loro tempo, le figure più materne che Dave avesse mai incontrato sulla propria strada, e fin dall'inizio era stato chiaro per tutti che Rose sarebbe stata la prima ad andarsene. Molte delle coppie che venivano in visita la puntavano senza la minima esitazione, attratte dalla sua bellezza così perfetta e dalla luce particolare dei suoi occhi scuri, ma si ritraevano quasi tutte con imbarazzo evidente quando venivano a sapere che aveva un gemello. La maggior parte di loro non era interessata ad adottare due bambini, e l'idea di prendere solo lei lasciando lui indietro li metteva a disagio, motivo per il quale alla fine rinunciavano, dirottando verso un'altra scelta, ma era evidente che si trattava solo di una questione di tempo. Dave lo sapeva, se lo sentiva nelle ossa.
Anche Rose lo sapeva. Rose sapeva sempre un sacco di cose. Aveva sempre un sacco di strane sensazioni che poi, per un motivo o per l'altro, diventavano sempre realtà. Per prenderlo in giro, gli diceva che la carenza di cervello in lui era motivata dal fatto che in lei invece era stato riversato il doppio dell'intelligenza, ecco perché capiva sempre le cose anche molto prima che accadessero.
Rose leggeva negli sguardi della gente. Sapeva che tutte quelle persone che venivano in visita la volevano. Volevano lei e la sua bellezza e la sua naturale educazione e i suoi modi gentili e quel sorriso affabile che sbocciava improvviso e discreto come i fiori al primo sole della primavera, e sapeva che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno al quale non sarebbe importato del fatto che lei avesse un gemello. Qualcuno che l'avrebbe portata via.
Una notte - dormivano insieme, vicinissimi, avevano avvicinato i loro lettini nel dormitorio per poter restare a chiacchierare sottovoce e guardarsi negli occhi fino a notte fonda; poi lei si addormentava, e Dave continuava a guardarla, sentendosi stringere il cuore in maniera netta, dolorosa - lei gli aveva detto "non preoccuparti, perché anche quando andrò via tornerò a cercarti".
Non le aveva creduto. Era la promessa di una bambina che si ostinava contro ogni legge genetica a crescere anzitempo, alle sue orecchie di bambino ancorato disperatamente all'infanzia non era suonata come niente più di un appello disperato, una di quelle cose che gli adulti dicono ai bambini senza crederci, nella speranza che una menzogna possa rassicurarli.
Si era sbagliato.
*
Lui era stato adottato circa una settimana dopo di lei, e per anni di Rose non aveva più saputo niente. Dieci anni erano passati senza che nessuno dei due provasse a contattare l'altra, o a cercarla. Dave sapeva che anche Rose non lo stava cercando, lo sapeva con certezza assoluta, perché dentro di sé sentiva fortemente che, se lei l'avesse cercato, l'avrebbe trovato. E quindi la semplice assenza di Rose nella sua vita era una prova sufficiente per stabilire che lei non ci stesse neanche provando.
Inizialmente aveva pensato che anche il ricordo di Rose sarebbe scomparso, assorbito dai nuovi genitori e dalla nuova vita quotidiana, come nel tempo era facilmente scomparso anche il ricordo di mamma e papà, ma non era mai successo. Rose era persistente, il suo profumo era ovunque, riconosceva il suo viso nei volti degli altri.
Alla fine, invece di continuare a sperare che lei andasse via, si era rassegnato a lasciarla restare lì, sempre presente ma un po' in penombra, nascosta fra le pieghe della sua mente, silenziosa ma perfettamente visibile com'era sempre stata.
Ed era stato proprio allora che Rose aveva deciso di cominciare a cercarlo. E, ovviamente, l'aveva trovato.
*
Aveva capito che avrebbe dovuto nascondersi subito, quando se l'era ritrovata davanti agli occhi. Rose non era cambiata per niente, se non in età. Aveva sempre gli stessi occhi troppo grandi e troppo pieni e troppo maturi per il viso da bambina che si trovava, per le spalle strette, i fianchi magri, il seno acerbo. A quasi venticinque anni, non ne dimostrava più di diciotto, a voler essere generosi. Era consapevole di soffrire della stessa condizione fisica - anche lui, molto spesso, veniva considerato dagli sconosciuti molto più giovane di quanto in realtà non fosse - ma su Rose, forse perché si trattava di una ragazza, l'effetto era come decuplicato, in qualche modo disturbante. A causa dei suoi occhi, naturalmente, ma anche delle sue labbra, della loro curva piegata in quel sorriso insolitamente malizioso che, da bambina, non le aveva mai visto addosso. Anche a causa del profumo di donna che si emanava dalla sua pelle, un profumo dolce dal retrogusto selvaggio che aveva allertato tutti i sensi di Dave nel momento stesso in cui gli aveva solleticato le narici.
C'era qualcosa di pericoloso in sua sorella. Dave aveva sentito fin da subito il bisogno quasi fisico di allontanarsi da lei contrapporsi a quello disperato di stringerla al più presto fra le braccia.
Era stata un'ondata di desiderio improvviso, irrefrenabile, gli era divampato dentro bruciando ogni cosa in pochi secondi. Turbato da quella sensazione mai provata prima, per molti secondi Dave era rimasto semplicemente a fissarla, consapevole del fatto che Rose dovesse aver sentito almeno un'eco di quelle fiamme.
Lei si era avvicinata, lo aveva abbracciato stretto, gli aveva accarezzato i capelli. Poi si era allontanata e l'aveva osservato a lungo, riempiendosi gli occhi della sua immagine fino a lasciargli tempo a sufficienza di scorgersi nel riflesso delle sue pupille.
"Ti ho cercato così a lungo," gli aveva sussurrato addosso, "Sono così contenta di vederti," aveva continuato, appoggiandogli entrambe le mani sul petto.
Seduto sul letto in camera propria, Dave aveva sentito sulla pelle il calore dei suoi polpastrelli nonostante i vestiti, aveva percepito la forza della sua presenza e, deglutendo, le aveva detto "Sarebbe meglio che non ci rivedessimo più."
*
La questione del desiderio era sempre stata scontata. Fin da piccolo, Dave l'aveva sempre saputo: il suo corpo si protendeva naturalmente verso quello si Rose. Erano sempre stati due bambini soli, i loro genitori non erano mai stati bravi abbastanza da prendersi cura di loro e loro due erano sempre stati troppo strani per potersi trovare bene con gli altri ragazzini della loro età, perciò, fin dall'inizio, erano sempre stati solo loro due. Rose aveva sempre rappresentato l'orizzonte visivo di Dave, non c'era niente oltre lei. La Terra sotto i piedi di Rose era un pianeta piatto, piatto come nelle miniature medievali. Oltre le spalle di Rose, gli oceani si disperdevano a cascate nelle profondità dell'universo, e superato quel confine si cadeva di sotto. Non c'era nient'altro da scoprire. Niente dopo di lei.
Aveva sempre dato per scontato che anche per Rose fosse la stessa cosa, anche perché lei non ne aveva mai fatto mistero. Gli era sempre stata molto vicina, appiccicata. Avrebbe dovuto essere fastidiosa, forse, ma non lo era mai diventata. Dave percepiva un forte senso di appartenenza nei confronti del corpo di sua sorella. C'era una gravità particolare che li spingeva ad incontrarsi, anche senza malizia, fin da piccoli.
Quando mamma era ancora viva, ed entrambi vivevano ancora coi loro genitori, in quella grande casa col giardino in periferia, spesso in piena notte Rose sgattaiolava fuori dalle coperte e dalla propria stanza e percorreva in piccoli passi ansiosi il corridoio che separava le loro camere, intrufolandosi in quella di Dave silenziosa come un alito di vento. Era un'abitudine che aveva preso da quando i loro genitori avevano deciso che erano diventati troppo grandi per continuare a condividere una stanza. "State crescendo," aveva spiegato loro la mamma, mentre papà spostava le cose di Rose in lunghi viaggi avanti ed indietro per il corridoio, "Avete bisogno dei vostri spazi."
Per qualche motivo, i loro corpi non avevano mai sentito alcun bisogno di spazi differenti che non fossero quelli che già condividevano. Dave si era posto per qualche giorno una serie di domande sul perché di quell'improvviso cambiamento che nessuno dei due aveva richiesto, e poi la risposta era arrivata da sé, negli occhi preoccupati con cui la mamma li osservava interagire l'uno con l'altra, nel nervosismo che scorreva sulla pelle di papà quando si ritrovava ad osservarli giocare o parlare fra loro.
Erano strani, sbagliati, insieme facevano paura. Troppo vicini, troppo legati, troppo propensi a fermarsi all'improvviso nel mezzo di un gioco per guardarsi negli occhi e sfiorarsi lentamente da sopra i vestiti. Abbracci troppo lunghi e troppo stretti per poter essere sostenuti con lo sguardo.
Era la cosa più naturale del mondo, per loro. Ma solo per loro.
Rose si intrufolava in camera sua e Dave scostava le coperte, spostandosi lateralmente sul materasso per farle posto. Lei si sdraiava al suo fianco, si nascondeva contro il suo petto. Sotto le coperte, intrecciavano le gambe e si muovevano lentamente l'uno contro l'altra per minuti interi, solo per sentirsi meglio. Solo allora, soddisfatti e rassicurati, si addormentavano.
Durante la notte, papà entrava in camera. Prendeva Rose in braccio e la portava nuovamente in camera propria. Dave faticava a lasciarla andare.
Nel sonno, lei si aggrappava con forza al pigiama di papà, o lo stringeva al collo, strusciando il naso contro la sua spalla, adattandosi al suo calore, fra le sue braccia, contro il suo petto ampio nel quale i suoi contorni, nel buio, si nascondevano del tutto.
Dave lo odiava. Bruciato dalla gelosia, lo osservava allontanarsi di spalle dicendosi "se fossi grande abbastanza, mi riprenderei Rose, e lei starebbe sempre con me".
Non aveva mai dimenticato quel furore, quella rabbia cieca, quella sensazione così tremendamente spiacevole di odio assoluto nei confronti del mondo solo perché il mondo poteva facilmente avere ciò che a lui era esplicitamente negato per una ridicola questione genetica della quale comprendeva la gravità nonostante fosse solo un bambino.
Gli erano serviti anni per disintossicarsi. A Rose erano bastati solo cinque minuti per riportarlo indietro.
*
Tenersi lontano da lei è impossibile, specie dal momento che Rose non fa niente per non farlo sentire costantemente sotto assedio. Anche quando non sono fisicamente insieme, c'è sempre qualcosa di lei attorno a lui, un suono, un profumo nell'aria, una densità specifica della realtà, qualcosa di netto e tangibile che, quando lei non era ancora rientrata nella sua vita, semplicemente non c'era, ed ora invece sì.
Rose viene al locale quasi ogni sera. Quando non c'è, Dave si chiede dove sia, e se lo chiede ossessivamente, come non riuscisse a far rientrare il particolare della sua assenza in nessuno schema logico comprensibile. E quindi è come se fosse lì. Rose sa come far pesare la propria assenza, ed a volte il senso di oppressione che Dave percepisce nei confronti del proprio sentimento per sua sorella è molto più pesante quando lei non è lì a sollevarlo con le sue dita aggraziate ed affusolate e le sue mani docili ed esperte.
Rose dà assuefazione, come qualsiasi altra droga. Dave la vuole quando non c'è, ed odia se stesso perché la vuole quando invece c'è.
L'unico momento in cui non ci pensa, in cui il pensiero smette di martellargli dolorosamente il cervello, è quando si toccano, quando si baciano, quando si premono insieme l'una contro l'altro e fanno l'amore. Quando riceve la sua dose, Dave sta bene. E' tutto il prima che lo tormenta, tutto il prima e tutto il dopo.
Le labbra di Rose si chiudono delicate sulla curva del suo collo, succhiando appena, mordendo piano e ricalcando poi i segni dei denti con la punta della lingua. Dave geme, gli occhi fissi sulla folla sotto di lui. Se qualcuno volesse soltanto alzare lo sguardo e cercare di capire cosa succede lì nell'ombra, li vedrebbe, e capirebbe tutto. Il pensiero gli dà un brivido di terrore e piacere insieme, ed è su questo che Rose conta. Sull'oscenità immorale di quel bisogno quasi primitivo, quella smania assoluta non solo di possedersi, ma di mostrare al mondo che sono una cosa sola, l'uno dell'altra.
Il loro è un sentimento sfacciato, privo di filtri. Dave se ne vergogna per questo. Perché, se solo potesse, non esiterebbe a stringere sua sorella, baciarla, scoparla di fronte a folle intere. Per urlare al mondo è mia. E' mia, solo mia. E godersi l'effetto di una rivendicazione di possesso che sogna fin da bambino, nel modo più sporco e intenso possibile.
Rose gli gira intorno, danza nell'ombra come il vento fra gli alberi, sfiorandolo appena ed inchinandosi per scivolare fra le sue braccia. La schiena contro la ringhiera, si preme tutta contro di lui, lasciandogli scivolare gli occhiali da sole giù dal naso. Dave si perde senza speranza negli occhi di sua sorella, e si lascia sfuggire dalle labbra un gemito che suona come un'implorazione.
- Rose, ti prego, no. - esala quasi controvoglia, giusto perché deve, mentre lei si struscia lenta contro di lui. Rose sorride, sfiorandogli le labbra in un bacio più lieve di una carezza.
- Smettila di continuare a respingermi. - gli sussurra comprensiva, - Ti fai solo del male.
- E tu non me ne fai? - quasi già cede lui, la fronte appoggiata contro la sua, gli occhi chiusi perché è meglio non guardarla, - Continui a farmi questo, anche sapendo che non possiamo.
- Ma a me non importa. - la voce di Rose è severa, il suo respiro sicuro contro le labbra di Dave, che torna a guardarla, gli occhi offuscati dal desiderio, - Tu sei mio. E quello che è mio lo prendo. Dovresti farlo anche tu, perché sei come me.
Le mani di Dave si staccano dalla ringhiera, le dita dolenti per lo sforzo, e scivolano lente lungo i fianchi di Rose, sollevando la gonna già corta sulle sue cosce di madreperla.
- Tu sei mia. - le sussurra addosso, i fianchi che dondolano contro i suoi mentre Rose dischiude le gambe per fargli posto contro di sé, e solleva una mano per accarezzargli una guancia.
- E allora prendimi. - gli risponde in un soffio, un gemito che le sboccia sulle labbra quando la sua erezione, che preme imponente contro il cavallo dei pantaloni, sfiora il tessuto già umido di voglia delle sue mutandine.
Rose si solleva da terra, arrampicandosi selvaggia lungo il corpo di Dave e stringendogli le gambe attorno ai fianchi per ancorarsi al suo corpo. Frenetico, lui la bacia, forzando le sue labbra con la lingua e cingendole la vita con un braccio per tenersela premuta contro, mentre con la mano libera si insinua fra le sue cosce, scostando le mutandine in un movimento spiccio, quasi brusco. Non la spoglia, non la assaggia ovunque, non la copre di baci e carezze, perché quello che sono, quello che fanno, non c'entra niente con la tenerezza, forse nemmeno con l'amore. E' l'impeto rabbioso e irrefrenabile di tornare una cosa sola. Dave vuole solo essere dentro di lei, adesso, e lei vuole solo che lui lo faccia, e getta indietro il capo, inarcando la schiena sinuosa mentre lui, slacciando i pantaloni ed abbassando la zip per liberare la propria erezione, sfiora la sua intimità con le nocche, eccitando il suo desiderio.
Scivola dentro di lei in un movimento fluido, quasi senza attrito. Il suo corpo ha un incastro speciale, dentro quello di Rose, le appartiene come un pezzo indipendente ma strettamente connesso del suo stesso organismo. Se esistono, al mondo, i luoghi dell'anima, Rose è senza dubbio il suo.
Si muove svelto dentro e fuori da lei, stringendosela contro mentre lei fa lo stesso. Nell'ombra, non si distinguono più i loro contorni. Dave fatica ad identificare i punti di contatto fra i loro corpi. Lo sono tutti, e nessuno di loro lo è, perché un contatto può essere tale solo fra due oggetti distinti. Loro si perdono e si mescolano l'una dentro l'altro, i punti di contatto sono punti di fusione, vibrano all'unisono, le voci che intonano la medesima sinfonia soffocata di ansiti e sospiri mentre vengono l'uno dentro l'altra, l'una attorno all'altro, confondendosi al punto da dimenticare perfino dove si trovano. Ed in un attimo, quell'angolo buio che sovrasta lo spettacolo multicolore di tutte quelle persone diverse che ballano al ritmo della stessa musica, quei pochi centimetri addossati a quella ringhiera, quel perimetro minuscolo che i loro corpi uniti insieme occupano, è uguale ai due letti che avvicinavano all'orfanotrofio per fingere che fossero uno solo, è uguale al letto in camera di Dave nel quale Rose sgattaiolava furtiva in piena notte, è uguale alle cullette talmente vicine da potersi sfiorare le dita fra le assi di legno, è il grembo materno, dove già vivevano insieme in pochi centimetri stretti in un abbraccio che la vita non sarebbe mai stata in grado di sciogliere.
Rose si prende il proprio tempo, prima di allontanarsi da lui. Gli accarezza i capelli e il viso, rassicurandolo mentre aspetta che il ritmo del suo respiro si faccia più regolare. Gli bacia la fronte, le guance, il naso, le labbra, il mento, le tempie. Poi scivola via dal suo abbraccio, osservandolo senza pudore mentre, pesante di vergogna, Dave si riveste sbrigativamente.
- Ti prego, - quasi singhiozza lui, quando la sente allontanarsi di qualche passo, - non tornare più. Quello che abbiamo non mi basta, e se è tutto quello che posso avere, allora non lo voglio.
Dandogli le spalle per abbandonare la stanza, lei nemmeno gli risponde.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Dave/Rose (lieve).
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Gen, Angst, (lieve) Het, Spoiler, Flashfic.
- "Ha aspettato per ore, e lui non è mai tornato."
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt Occhiali da sole schiacciati.
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EYES WIDE OPEN

Sono passati nove giorni dall’ultima volta che l’ha guardata negli occhi senza vederla filtrata attraverso le lenti scure, quando Rose irrompe in camera sua, gli si avvicina, gli strappa via gli occhiali da sopra il naso e, dopo averli gettati per terra, li pesta sotto la suola della scarpa.
- Adesso basta, Strider. – dice stentorea, gli occhi fiammeggianti di rabbia, - Adesso basta.
*
Nove giorni fa, Rose si è svegliata senza aver dormito davvero. Ha chiuso gli occhi e la sua pelle era grigia, e la sua rabbia infinita, e sua madre morta, e tutto ciò che pensava sbagliato. E c’era sangue ovunque.
Poi ha chiuso gli occhi sapendo che non si sarebbe più svegliata, e quando l’ha fatto era su Derse, e sapeva. È volata fuori dalla propria finestra e verso quella di Dave, l’ha trovato assopito e l’ha svegliato sedendosi sulla sponda del letto e scuotendolo lievemente per una spalla. “Strider,” gli ha detto, “svegliati,” e lui l’ha fatto, e lei gli ha lasciato appena il tempo sufficiente per aprire gli occhi e ricordare dov’era e cosa ci facesse lì, prima di raccontargli tutto. Prima di raccontargli della bomba.
“No,” ha detto Dave, “No, assolutamente.”
“Dave, è l’unico modo,” ha insistito lei, sapendo che lui non le avrebbe creduto. E infatti lui non le ha creduto, si è sollevato a sedere, si è passato una mano fra i capelli e ha scosso il capo, confuso, allontanandosi da lei come a porre distanza fra se stesso e quell’idea folle.
“No,” ha detto, “Assolutamente no. Non sono pronto. No.”
Rose ha sospirato pesantemente, si è sporta verso di lui, ha stretto i suoi occhiali fra le dita con delicatezza e li ha spostati. Non si erano mai guardati negli occhi, prima di quel momento. Dave si è sentito strano, e anche Rose, anche se nessuno dei due è stato in grado di dare un nome a quella sensazione.
“Non c’è altro modo,” ha ripetuto. Dave ha trattenuto il respiro, le sue ciglia hanno tremato appena e poi lui si è precipitato a recuperare gli occhiali dalle mani di Rose, inforcandoli frettolosamente.
“Dammi qualche giorno,” ha detto. Rose non ha potuto fare altro che acconsentire.
*
Otto giorni fa, Rose è tornata, e Dave dormiva. Ha provato a svegliarlo, ma lui si è rifiutato categoricamente di farlo. Lei l’ha percepito, ed è andata via prima di arrabbiarsi più di quanto non sarebbe riuscita a controllare.
*
Sette giorni fa, Rose è tornata, e Dave non c’era. La sua stanza era vuota, il letto rifatto, il mixer spento, Lil’ Cal abbandonato sul cuscino con quel sorriso inquietante stampato sulle labbra di plastica dura. Infastidita, Rose si è seduta sul davanzale della finestra, immaginando di poter aspettare per qualche minuto che Dave facesse ritorno dal giretto per Derse che aveva palesemente deciso di concedersi senza neanche consultarla prima.
Ha aspettato per ore, e lui non è mai tornato.
*
Sei giorni fa, Rose non è nemmeno tornata a controllare che Dave ci fosse. Arrabbiata com’era quando era andata via il giorno prima, ha pensato di potersene stare un po’ per i fatti suoi, anche solo per cercare di riportare la calma e la razionalità nei propri pensieri.
Ha sperato che Dave venisse a trovarla di sua iniziativa, ma non è successo.
*
Rose ha dormito cinque giorni di fila. Nelle bolle il tempo sembra scorrere in maniera diversa, anche lo spazio segue regole tutte proprie. Rose le trova affascinanti, trova affascinante anche guardare per aria e vedere il cielo coperto di mostri che urlano di dolore. Tutto la incuriosisce, ma soprattutto non vuole tornare indietro. Da sveglia, su Derse, c’è Dave che sfugge il suo sguardo, e lei sta imparando ad odiarlo.
La consapevolezza la colpisce all’improvviso, quando percepisce la propria pelle cambiare colore un’altra volta. No, si dice, così no, questo no. Chiude gli occhi, inspira ed espira, e quando si sveglia è di nuovo su Derse, e Dave è in camera propria, e lei lo sa.
Vola fuori dalla finestra, e quando arriva lo trova sveglio. Non riesce a frenare lo scatto di rabbia, quando gli strappa quegli occhiali di dosso.
- Adesso basta, Strider. – dice, - Adesso basta.
Lo osserva deglutire a fatica, gli occhiali per terra sono ridotti in mille pezzi e adesso che si trovano occhi negli occhi Dave non può più scappare. Nessuno dei due può.
- Va bene. – dice lui, finalmente, aggrottando le sopracciglia ed avvicinandosi troppo senza chiedere il permesso, - Va bene, Rose, però insieme.
E ancora una volta, Rose non può fare altro che acconsentire.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Angst, Gen, Death, Flashfic.
- "Quando si sveglia, l’indomani mattina, suo fratello non è in casa, ma c’è una spada di cartone ad attenderlo proprio sul tavolo della cucina."
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt Death!Fic.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DOWN MEMORY LANE

Da piccolo, era un bambino molto solitario, anche se forse il termine giusto dovrebbe essere semplicemente solo. Era cupo, addirittura malinconico, distante, a tratti assente. Non sorrideva mai – abitudine che non è più riuscito a staccarsi di dosso – ed anche nelle rare occasioni in cui gli capitava di parlare con qualche altro bambino della sua età, spesso semplicemente loro non erano in grado di capirlo, o lui di farsi capire da loro, ed ogni conversazione terminava come era cominciata, con lunghi silenzi, sguardi imbarazzati, genitori dispiaciuti, e lui, da solo, ai giardinetti, in mezzo alla piscina della sabbia, con la sua paletta e il suo secchiello e un mucchio di giocattoli coi quali neanche gli andava di giocare.
Nel corso di quegli anni, suo fratello non l’ha mai lasciato solo. Mentre Dave cresceva, suo fratello è sempre stato al suo fianco, proteggendolo a suo modo, aiutandolo quando ne aveva bisogno, spiegandogli ciò che gli serviva per imparare a sentirsi grande, a sentirsi autosufficiente anche quando prendersi cura di se stesso da solo sembrava una missione impossibile.
C’è un ricordo preciso che Dave conserva gelosamente, è uno dei primi ricordi che ha. È estate, fa caldo, lui è solo in salotto, seduto sul tappeto, un ventilatore puntato contro. È piccolo, molto piccolo, abbastanza da indossare ancora il pannolino, anche se riesce già a muoversi da solo. Sta guardando un cartone animato in televisione. Il protagonista indossa un costume ridicolo, ma Dave lo vuole. Non sa perché lo voglia, è stupido, ma lo vuole tantissimo. È una tutina rossa, aderente e integrale, con un mantello che svolazza dietro la sua schiena, lungo fino ai piedi, e brandisce una spada lunga, affilata, appuntita e bellissima. Dave vuole anche quella.
Per la tutina aderente fa troppo caldo. Potrebbe andare a prendere uno dei suoi pigiami, ma la sola idea lo fa sudare ancora di più, e si sente già abbastanza appiccicoso, nonostante indossi soltanto il pannolino ed una canottiera di cotone leggero, perciò rinuncia fin da subito.
Il mantello è più semplice. È piccolo abbastanza da trovare facilmente ciò che gli serve: recupera una delle vecchie magliette a maniche lunghe di suo fratello e lega le maniche proprio sotto il collo. Fa un caldo insopportabile, ma è proprio uguale ad un mantello, e Dave la adora.
Gli serve una maschera. Non ne ha, in casa, ma quando prende un paio di mutandine e prova a mettersele sulla testa come una specie di casco nota che l’effetto non è poi così tremendo.
Soddisfatto di sé, comincia a giocare. Salta sui divani, si lancia sul pavimento urlando, fa le capriole, si piazza davanti al ventilatore per far sventolare il mantello e strilla ad invisibili nemici che non li lascerà scappare senza prima combattere.
Poi la porta si apre e suo fratello appare sulla soglia, un sacchetto della spesa per mano e, oltre gli ampi occhiali da sole, l’espressione più sconvolta che Dave gli abbia mai visto addosso.
Istantaneamente, le gambe gli cedono, e lui cade seduto sul pavimento. Il pannolino attutisce la caduta con un morbido poff, e Dave può sentire le goccioline di sudore per il caldo e per l’ansia che gli scivolano lungo la nuca e il collo.
- Ma che stai facendo? – gli domanda suo fratello. Dave deglutisce e poi indica la televisione ancora accesa. Suo fratello osserva le immagini in movimento e il più minuscolo dei sorrisi gli piega dolcemente le labbra. – Ti manca la spada, però.
Dave non vuole fargli capire quanto ci tenga, perciò scrolla le spalle, si alza in piedi aggrappandosi alla seduta del divano e poi caracolla via, scappando in camera propria.
Quando si sveglia, l’indomani mattina, suo fratello non è in casa, ma c’è una spada di cartone ad attenderlo proprio sul tavolo della cucina. È bellissima, anche se è stata palesemente ricavata da una scatola che doveva contenere qualche giocattolo, viste le immagini ridicole stampate su uno dei due lati.
Dave la usa per mesi. Poi si rompe. Si spezza in due con un taglio netto dopo un colpo inferto ad uno dei peluche di suo fratello. Anche dopo quest’incidente, Dave continua ad usare la sua spada, ed anche quando suo fratello gli dice che potrebbe fargliene una nuova, Dave preferisce tenersi stretta questa.
Nella testa di Dave gli anni si susseguono velocissimi, svelti come istanti, ed ora suo fratello è sdraiato per terra, immerso in una pozza di sangue, una spada conficcata nello stomaco, sembra spaccata a metà proprio come quella con cui Dave giocava spesso da piccolo.
Forse è per questo che, adesso, gli viene tanto da piangere.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dave/Rose.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Het, Incest, Angst, Flashfic, Spoiler.
- "Dio, Strider, che palla al piede."
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt Soltanto per una sera.
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NEVER READY

- Quanto tempo abbiamo?
È la domanda più stupida del mondo e, subito dopo averla posta, Dave si prenderebbe volentieri a schiaffi.
Rose, riemergendo con uno sbuffo dalla maglietta del pigiama, lo guarda con l’aria di una che ne ha avuto già abbastanza.
- Importa? – domanda col solito tono aggressivo e petulante, ed ecco che Dave trova un altro motivo per cui sarebbe stato molto meglio tacere: al di là della stupidità intrinseca di una domanda simile in un simile momento, quando Rose raggiunge un livello di scazzo tale a rispondere con una domanda provocatoria a qualsiasi domanda le sia stata posta precedentemente, Dave smette all’istante di sopportarla. E lì qualsiasi pensiero positivo possa essergli passato per la mente riguardo a Rose – anche immaginarla stesa sul letto con niente addosso a parte le sue labbra – scompare in una nuvola di rabbia mentre aggrotta le sopracciglia, incrocia le braccia sul petto e la fissa malevolo, atteggiando le labbra in un broncio infantile per il quale avrà molto tempo per vergognarsi.
- Senti, se devi essere così insostenibile allora tante grazie e arrivederci. – le dice astioso, - Era una domanda tanto per dire qualcosa, ma tu no, tu devi sempre ricondurre tutto a questioni di principio, devi sempre analizzare ogni singola parola che dico come se dietro ci fosse chissà che, perché non potevo semplicemente stare chiedendo quanto tempo avessimo così, per informarmi, no, ci deve essere qualche significato recondito, dietro, per forza, e la dottoressa Lalonde non può certo esimersi dal—
La manata che Rose gli schiaccia sul viso è così improvvisa e violenta da fare male. Non è uno schiaffo, è una mano pressata senza garbo sulla bocca, all’unico scopo di farlo tacere.
- Dio, Strider, che palla al piede. – gli dice, e gli occhi le brillano di una luce che Dave ha imparato a temere, - Cos’hai nel cervello, lanugine? – e poi abbassa lo sguardo, e c’è qualcosa di fragile nella linea delicata del suo collo, nelle ciocche di capelli biondi che le coprono la fronte e scivolano sulle guance, nella curva dolce delle sue spalle e in quella ancora più dolce dei suoi seni. – Non ci pensi mai a quello che fai alla gente quando parli?
E Dave vorrebbe abbracciarla e dirle che sì, cazzo, ci pensa. E se si sarebbe volentieri preso a schiaffi, dopo averle chiesto quanto tempo avessero, è stato proprio perché l’ha capito, cazzo. L’ha capito.
- Mi dispiace. – sospira. Rose gli alza addosso uno sguardo da bambina ferita e lui sente distinta e chiara dentro di sé una sensazione spaventosa, devastante, la certezza assoluta che morirebbe per uno sguardo simile. Morirebbe, è morto, morirà. I tempi verbali sono sempre un casino per uno nella sua condizione. – Non intendevo farti credere di avere fretta. Non ho nessuna fretta.
Ed è vero, perché sa che dove stanno andando potrebbe anche perderla. Non ha idea di cosa lo aspetti nelle profondità del vuoto oltre l’anello di asteroidi più esterno, ma sa che stavolta è vero, rischia di perderla. Rischiano di perdersi entrambi.
Rose si avvicina lenta, ipnotica, piega appena il capo e lo bacia lievissima sulle labbra. Dave si sente addosso il suo calore e chiude gli occhi, cerca di calmarsi, di non farsi sopraffare dalle emozioni, ma tutto è più duro e difficile e spaventoso che mai, quando Rose è coinvolta, e lui non è pronto, non lo sarà mai, non ci sarà mai in lui niente di pronto per affrontare niente che possa riguardarla.
- Abbiamo tutto il tempo del mondo, comunque. – risponde lei, sorridendogli appena contro le labbra.
Dave sorride a propria volta, scuotendo il capo.
- Facile dirlo quando si suppone che l’universo debba esplodere in qualche ora.
Rose si lascia sfuggire una risata cristallina alla quale Dave vorrebbe poter pensare con meno paura e nostalgia.
La torre di Derse continua a viaggiare nello spazio. Fra qualche secondo un agente apparirà, e loro dovranno combattere per sottrargli una bomba che sarà la fine di tutto.
Qualche secondo, però, può durare minuti o ore intere, quando viaggi lontano da Skaia, verso l’anello più esterno e verso il buio degli Horrorterror. E Dave non intende perdersene neanche uno.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Dave/Rose.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Het, Spoiler, Incest, Flashfic.
- " Non è male sentirsi tanto calmo, ma l’idea di sentirsi troppo calmo lo disturba."
Note: Fatto numero uno: Rose che indossa la roba di Dave è un mio kink enorme. Fatto numero due: ambientare fanfiction randomiche nelle dream bubbles è tipo una delle cose più spassose e adorabili del mondo e, fosse per me, non scriverei altro, su Homestuck, dalla mattina alla sera. Solo robe randomiche ambientate in dream bubbles varie ed eventuali. Fatto numero tre: nessuno, ma mettere solo due fatti sembrava male. \o\
Scritta per la settima ed ultima settimana del COW-T @ maridichallenge (Missione 1, prompt: fate il cazzo che vi pare con wordcount di massimo 500 parole).
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IN A BROKEN DREAM

Dave sta fissando il soffitto già da dieci minuti, praticamente da quando s’è svegliato. La stanza si rischiara, la luce del sole filtra attraverso le tende disegnando arabeschi sul soffitto e sulle pareti, ma non è nemmeno calda. È una luce pallida e fredda, Dave a stento se la sente addosso. Non sente, in realtà, né freddo né caldo. È una sensazione straniante, quella di trovarsi lì senza davvero esserci. Non riesce completamente a spiegarla, il che gli dà una brutta sensazione, ma in un certo senso si sente, chissà perché, tranquillo abbastanza da non dare troppo peso alla questione.
Nudo sotto il lenzuolo bianco che copre sia lui che Rose, ancora addormentata al suo fianco, incrocia le braccia dietro la nuca e fissa in alto, la mente svuotata di ogni pensiero. Sì, decide, è una sensazione spiacevole. Non è male sentirsi tanto calmo, ma l’idea di sentirsi troppo calmo lo disturba.
È una situazione troppo irreale per non insospettirlo, ma non ha tempo per pensarci quando, dopo il suo lungo, sonnolento silenzio, Rose apre gli occhi, rigirandosi a pancia in su e poi mettendosi seduta. Quando hanno finito, ieri notte – ma era davvero ieri? O notte? – ha preteso di infilarsi la sua maglietta. “Non voglio restare senza niente addosso,” gli ha detto a mo’ di spiegazione. “Ti ho già visto senza niente addosso,” ha risposto lui. Lei ha insistito – “non è la stessa cosa”, anche se Dave non è sicuro di poter spiegare perché – e alla fine Dave si è piegato sul pavimento, recuperando la propria maglietta appallottolata di fianco al letto per poi lanciargliela senza troppe cerimonie.
La maglietta le cade da ogni lato, adesso, sia perché le va larga, sia perché Rose ha il sonno agitato, e girandosi e rigirandosi se l’è quasi strappata di dosso. Le lascia nuda una spalla, la scollatura che scivola fino a scoprire una buona metà dell’accenno di curva del suo seno.
Ancora sdraiato sul letto, Dave la guarda, inarcando un sopracciglio. “Dormito bene?” le chiede ironico. Lei gli lancia un’occhiata di ghiaccio, poi si solleva in ginocchio e subito dopo gli ricade in grembo. “Whoa, whoa!” quasi strilla Dave, scattando a sedere mentre lei si sistema meglio sulle sue ginocchia e poi gli si preme contro, i seni che si sollevano, schiacciandosi l’uno contro l’altro, trascinando gli occhi di Dave sulla loro curva dolce, anche se non vuole, “Non sarebbe il caso di calmarsi e parlarne? Voglio dire, una volta è successo, ma due volte— insomma, mi sembra che la situazione fra noi sia complicata abbastanza anche senza il sesso, per non parlare del fatto che a quanto pare siamo anche imparentati, perciò—”
“Perché non stai zitto?” domanda Rose, avvicinandoglisi ancora e strusciando il bacino contro il suo. Dave deglutisce. Già, perché non sta zitto?
*
Apre gli occhi su Skaia, nella notte perenne di Derse. La catena è spezzata, la torre sospesa vola via, allontanandosi dall’orbita della luna. Dave ringhia, partendo in volo a velocità supersonica nel tentativo di raggiungerla.
Dannate bolle.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Gen, AU, Spoiler per l'Act6.
- Dopo svariati anni di relazione e troppo dolore nascosto, Dirk abbandona la propria famiglia. E Dave resta solo a cercare di rimettere a posto le macerie.
Note: Ci sono degli argomenti dei quali io non dovrei mai discutere, ed uno di questi è palesemente il divorzio XD Che poi alla fine divorzio nemmeno è. Comunque, per qualche strano motivo, proprio gli argomenti che dovrei rifuggire come la peste sono quelli dei quali mi interessa di più parlare, motivo per il quale, appena ho "conosciuto" Dirk e Roxy, la particolare condizione di entrambi e l'altrettanto particolare relazione con Dave e Rose, non ho potuto fare altro che immaginare una situazione come questa XD Diciamocelo, anche fomentata dallo stesso Hussie con tutto quel discorso di Roxy che chiede a Dirk di immaginare i loro possibili figli e lui che le va dietro nella fantasia. *cuore stretto* Omg, perché ogni volta che mi innamoro di personaggi vari ed eventuali sento il bisogno di devastare le loro esistenze? What is my problem? *sigh*
Comunque, è un'AU ma in realtà è talmente piena di riferimenti alla storia originale - tipo il rapporto particolare di Dave col tempo, nonché, be', praticamente tutto il resto della caratterizzazione XD - che, per quanto non sia impossibile da leggere senza conoscere Homestuck, in realtà si perde metà del divertimento a leggerla senza avere quella base da seguire. E se si toglie il divertimento, da questa storia, resta solo la disperazione /O\ Quindi non leggetela mai.
Scritta per la sesta settimana del COW-T @ maridichallenge (Missione 1, prompt: anno).
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IT SEEMS WORSE THAN IT IS
(but mostly the view is accurate)

Quella mattina, Dave apre gli occhi senza aver dormito. Non che restare sveglio gli sia stato in qualche modo utile, non che abbia captato chissà che particolare suono provenire da chissà che particolare angolo di quella enorme, ridicola casa, non che – in sostanza – abbia fatto poi molto più che perdere ore di sonno prezioso che rimpiangerà sicuramente più tardi durante matematica, ma in qualche modo gli sarebbe sembrato stupido dormire proprio quella notte.
Non sa perché, ma non voleva perdersi il momento. Non se n’è accorto, mentre accadeva, ma sa che era sveglio durante, che era vigile mentre le valigie venivano spostate dalla camera da letto all’ingresso, mentre lui indossava la giacca e il cappello ed usciva. Che sia stato a mezzanotte, alle due, alle tre o alle sei del mattino, Dave era sveglio, può dire di esserci stato. Forse i suoi occhi non l’hanno visto, ma tutti gli altri suoi sensi l’hanno percepito. E probabilmente è stato molto meglio così, perché Dave non è un piagnone ma, forse, se l’avesse visto coi propri occhi non sarebbe riuscito a sopportarlo. Invece così il passaggio è stato molto meno traumatico, quasi naturale, per quanto naturale possa essere una cosa simile, considerato che non ha mai visto neanche uno di quei corvi bastardi che hanno preso dimora sul suo balcone abbandonare il loro nido, mentre invece sembra che sia proprio questo che è successo, stavolta.
È stato meglio così, comunque, per una svariata serie di ragioni. È stato meglio che sia finita ed è stato meglio che, mentre finiva, Dave fosse sveglio ma non presente. È consolante pensare di non conoscere il momento esatto in cui non ci sono state più speranze, è consolante pensare che possa essere successo in un momento qualsiasi, in tutti i momenti, in un momento privo di importanza. Tipo mentre lui stava pensando all’unica equazione chimica che non è riuscito a bilanciare mentre faceva i compiti quel pomeriggio. Mentre lui ripercorreva i passaggi ad uno ad uno, ecco, fra un passaggio e l’altro, quella porta si è aperta e poi si è richiusa senza un suono, e lui stava pensando ad altro, mentre accadeva, ai fatti suoi, sostanzialmente.
È una sensazione liberatoria, lo fa sentire più leggero. Come se lui non avesse tempo da perdere dietro questioni di un’importanza talmente irrisoria. Ed è vero, perché lui ha le sue cose, i suoi problemi, la sua merda a cui badare. Non può star dietro anche a quella dei suoi genitori.
Mettendosi a sedere sul letto e cercando a tentoni le pantofole sul pavimento, stando attento a non toccarlo coi piedi perché quella casa enorme, anche coi riscaldamenti a palla, non diventa mai neanche lontanamente tiepida, neanche sbadiglia. Non ha sonno, non è stanco. Ha gli occhi spalancati, tanto svegli da bruciare, come se improvvisamente fossero diventati la parte più sensibile del suo corpo. Vede ogni cosa ed ogni dettaglio è come uno spillo che gli si conficca nella retina, è surreale. La parete grigiastra e tappezzata di poster è talmente chiassosa da dargli quasi la nausea.
Si mette in piedi, si passa una mano fra i capelli e si stiracchia pigramente, scrollandosi via di dosso il torpore in cui l’ha gettato l’immobilità notturna. Si sente come se si fosse appena risvegliato da una specie di letargo vigile. Vorrebbe poter pensare che si tratti solo dell’effetto della notte insonne sul suo sistema nervoso, ma in realtà sa che non è così. In realtà sa che sono mesi che ha l’impressione di vivere in letargo vigile. Quelle che si sta scrollando di dosso adesso non sono poche ore di immobilità. Sono giorni, settimane, mesi interi che gli scivolano giù dalle spalle e si schiantano contro il pavimento con un fracasso che può sentire solo lui nella propria testa.
Sarebbe un’apertura niente male per uno dei suoi beat, ma non è questo il momento di pensarci. Questo è il momento di uscire da camera propria, riprendersi, cazzo, ed affrontare qualsiasi cosa ci sia fuori dalla sua stanza, perché è perfettamente preparato per farlo.
Sono mesi che non pensa ad altro, cazzo. Mesi.
In corridoio è tutto abbastanza silenzioso. Dave lo percorre in passi lunghi e silenziosi, soffermandosi davanti alla porta di sua sorella e bussando un paio di volte.
- Rose? – la chiama. Lei non risponde. – Rose, andiamo. – sospira lui.
- Non sto bene. – si degna di rispondere finalmente lei, con uno sbuffo contrariato. Dave inarca un sopracciglio, perplesso.
- Cos’hai? – domanda schiettamente. Non le crede.
- Vuoi il programma esatto degli avvenimenti che avranno luogo fra le mie gambe durante il Festival del Ciclo Mestruale, Dave? – ritorce lei, aspra. – Lasciami in pace, - aggiunge poi, la voce attutita dal cuscino, - oggi non vengo a scuola.
Dave conosce a sufficienza Rose – e d’altronde, non potrebbe essere altrimenti – per sapere che si tratta dell’unico essere umano sulla terra più cocciuto di quanto lui stesso non sia. Sa quindi altrettanto bene che, se ha preso la decisione di non tirare fuori il naso da camera propria per tutto il giorno, niente riuscirà a convincerla a fare il contrario, ma mentre si allontana lungo il corridoio verso la cucina Dave sa che, anche se ci fosse stata una possibilità di farle cambiare idea, probabilmente oggi avrebbe lasciato perdere subito lo stesso. In qualsiasi altro giorno avrebbe insistito. Oggi no.
Sua madre è seduta a tavola. Dave ne scruta il profilo, lo sguardo assente, i capelli un po’ scomposti. Fa colazione con un fottuto martini.
Suo padre è appena andato via di casa.
*
Esce presto. Non fa colazione – non ha fame. Sua madre si offre di preparargliela, si alza perfino in piedi, puntellandosi con entrambe le mani al tavolo, ma quando la vede barcollare Dave le volta le spalle e le dice di lasciar perdere. Butta giù un sorso di caffè, fa una smorfia – non l’aveva mai preso amaro; suo padre, invece, non l’aveva mai preso zuccherato – e poi scappa in bagno, si sciacqua il viso e, pur non sentendosi ancora completamente sveglio, si affretta a tornare in camera propria, vestendosi velocemente ed afferrando lo zaino.
Sa che non è così, ma si sente come se stesse scappando di casa. Ovviamente sa che tornerà, ma più si allontana da casa, un passo dopo l’altro, più si pente di essere uscito e vorrebbe tornare indietro. È ancora in tempo, forse. Può tornare, mettere a letto la mamma, chiamare a scuola e spiegare la situazione, loro capirebbero, lo lascerebbero restare a casa almeno fino a che non fosse riuscito a trovare un modo per risolvere questa situazione, sempre che un modo esista.
Ma è solo un pensiero con cui si consola, una possibilità che concede solo ad uno dei mille se stessi immaginari che immagina popolino tutte le varie realtà alternative in cui la sua vita avrebbe potuto trasformarsi se avesse preso una decisione piuttosto che un’altra. Gli piace considerare il tempo un ciclo infinito di attimi che si ripetono continuamente, gli piace l’idea di poter scivolare di attimo in attimo, sapendo di lasciarsi alle spalle qualcosa che continuerà ad accadere all’infinito anche quando lui non potrà più vederla. Gli piace perché lo spinge a pensare che possa esserci un modo per risolvere ogni problema, uno stratagemma per rimediare ad ogni errore, una via per tornare indietro e rimettere le cose a posto. Farle funzionare.
Gli piace pensarlo, ma sa che non è vero. E quando pensa di poter tornare a casa, è già a metà strada fra il suo palazzo e la scuola, ed è troppo tardi per i ripensamenti.
Il sole è ancora basso, e lui riesce a vederlo solo di rado, quando gli capita di fare capolino fra un enorme edificio e l’altro, ma anche quando non è la luce ad abbagliarlo, quel dolore sordo che gli fa bruciare gli occhi è sempre lì. Il mondo, oggi, non sta facendo nessuno sforzo per risultare gradevole, e con una mezza smorfia Dave indossa gli occhiali da sole, e progetta di non sfilarli più fino a quando non dovrà per forza, all’inizio delle lezioni.
Dietro le lenti scure, si concede un paio di lacrime.
*
Rientra a casa quasi sette ore più tardi. La prima metà del tragitto per rientrare l’ha attraversata senza fretta, le mani in tasca e gli occhi a scrutare diffidenti ma disinteressati qualsiasi cosa intorno a lui, ma man mano che ha cominciato a scorgere il profilo slanciato del palazzo in cui abita, in fondo alla strada, ha distintamente percepito i propri passi farsi più veloci, quasi impazienti. Ne ha seguito il ritmo, lasciando che lo conducessero lungo il marciapiede, oltre il pesante portone in legno e vetro all’ingresso, all’interno dell’ascensore e fino all’ultimo piano.
L’appartamento è silenzioso, ma d’altronde lo è quasi sempre. E lo era prima come adesso, non è certo stato il fatto che ora suo padre non sia più qui a renderlo tale.
Non ha voglia di fare niente. Si guarda intorno e gli sembra tutto così stupido. Cos’è che dovrebbe fare lui adesso? Cos’è che può fare? Gli oggetti, i mobili, ogni cosa gli sembra irreale. Ha quasi paura ad allungare una mano perché non ha idea di cosa succederebbe se provasse a toccare qualcosa e finisse per non sentire nient’altro che aria sotto le dita. Probabilmente scoppierebbe a piangere, sì, gli cederebbero le gambe, si accascerebbe sul pavimento e scoppierebbe a piangere come un bambino, singhiozzando e lamentandosi senza neanche provare a fare piano.
È solo un momento. I mobili, gli oggetti, le pareti, le finestre, è tutto ancora lì. L’unica cosa che manca è suo padre, ma andandosene lui non s’è portato via niente, a parte – Dave immagina – le proprie cose. Tutto il resto, tutto ciò che Dave ha sempre chiamato casa, è tutto ancora qui. Non è cambiato nulla, niente a parte l’insignificante dettaglio che prima papà c’era, e ora non c’è più.
Non può essere così drammatico.
Dave inspira ed espira, e per convincersi una volta per tutte che ogni cosa sia ancora al suo posto si mette a preparare il pranzo. Non è mai stato granché bravo in cucina – anche lui, come Rose, ha preso da mamma, in questo: lei non è mai stata capace di preparare niente che non coinvolgesse l’utilizzo di uno shaker, è sempre stato papà ad occuparsi di pranzi e cene, fin da quando Dave riesce a ricordare – ma da adesso in poi dovrà imparare. Ed è comunque perfettamente in grado di preparare uno o due sandwich, se vuole.
Lo fa, e ci mette delle ore. Si muove al rallentatore, è come non riconoscesse più casa propria. Il frigorifero, ciò che contiene, lo sportello dietro il quale si trovano i piatti di plastica, fatica a trovare qualsiasi cosa. Ci mette una vita ad affastellare strati di salumi, lattuga e pomodoro, ce ne mette due a tagliare i sandwich quadrati in due sandwich triangolari, e poi gli sembra di metterci dei secoli a ripetere le operazioni con altre due fette di pane.
Quando finisce, si volta a guardare l’orologio appeso in alto sopra il tavolo addossato alla parete. È tornato a casa intorno alle due e mezza, e non sono ancora neanche le tre. Il tempo lo prende in giro.
Sospirando, recupera i due piatti in cui ha messo i sandwich e, reggendone uno sul palmo di una mano ed uno sul palmo dell’altra, percorre il corridoio fino alla porta chiusa dietro la quale si trova la camera di sua sorella. Sistema un piatto in equilibrio sull’interno del gomito e bussa piano, cercando di non far cadere niente per terra.
- Rose? – la chiama, - Come stai?
Rose, naturalmente, non risponde.
- Ti ho portato il pranzo. – annuncia. Prova ad aprire la porta, ma è chiusa a chiave dall’interno. – Seriamente, Rose, - borbotta con uno sbuffo contrariato, - ma cosa ti chiudi dentro a fare? Dai, ho fatto i sandwich senza maionese come piacciono a te. Ero talmente concentrato che non ho messo la maionese neanche nel mio. Ti va di mangiarli insieme?
Dave resta in attesa di una risposta per un paio di minuti, ma non ne arriva nessuna. Sospirando, si rassegna. Si siede per terra a gambe incrociate, spalle alla porta, e poggia sul pavimento il piatto coi sandwich di Rose, mentre sistema il proprio in equilibrio sulle ginocchia, e comincia a mangiare.
- Non potrai restare chiusa lì dentro per sempre. – cerca di convincerla nel frattempo, fra un morso e l’altro, - Prima o poi dovrai venire fuori, e quel giorno ti costringerò a mangiare sandwich che colano maionese per ore e ore. Puoi giurarci. – Rose continua a non dire niente, e Dave comincia a perdere la pazienza. – Che due coglioni, Rose. – sbotta, strappando un morso quasi violento al panino e masticandolo con furia, - Cazzo, ho capito che è tutto una merda, lo so che lo sai anche tu, ma a cosa cazzo pensi che possa servire chiuderti là dentro e non parlarne? – la rimprovera, dimenticando che non dovrebbe parlare con la bocca piena, - Così mi tagli fuori e basta, e non ho voglia di sentirmi tagliato fuori, Rose, non ne ho proprio voglia, perché come sensazione, lascia che te lo dica, fa schifo al cazzo.
Lancia nel piatto ciò che resta del proprio panino – un morso o due, ma non ne ha più voglia – e resta in silenzio, la testa fra le mani, gli occhi bassi. Non ha ancora nemmeno tolto gli occhiali da sole. Non vuole farlo, non sa cosa cazzo vedrebbe se li togliesse. Il mondo ha cominciato a fargli paura da quando ha capito cosa vuol dire vederlo cambiare in un attimo, per un dettaglio insignificante.
Sua sorella, oltre la porta, piange sommessamente. Chissà da quanto.
- Rose, Cristo. – quasi mugola, piegando indietro il capo e battendolo appena contro il legno, - Lasciami entrare. Non devi stare sola, adesso. Nessuno di noi deve.
- Vattene via. – singhiozza Rose, la voce spezzata. Dave chiude gli occhi, inspira ed espira. Non vuole piangere. Non può piangere. Si alza in piedi.
- I panini… li lascio qui. – mormora, recuperando il proprio piatto e riportandolo in cucina. Getta tutto nel cestino dell’immondizia e poi lancia un’altra occhiata all’orologio. Non sono nemmeno le tre e un quarto. Dio, questa giornata non finirà mai.
Non ha voglia di chiudersi in camera e fare i compiti. Non ha voglia di fare niente, per cui immagina di aver voglia di guardare la tv. Attraversa il corridoio un’altra volta, cercando di ignorare il piatto coi panini di Rose ancora per terra davanti alla porta chiusa, ed entra in salotto. Cristo, questa casa è enorme, e lui la odia. L’ha sempre amata, ma ora la odia.
Riesce a vedere il caschetto biondo ed elegante di sua madre fare capolino da sopra lo schienale del divano, rivolto verso il televisore appeso alla parete. Non si muove.
- Mamma? – la chiama piano. Lei non risponde. Dave sospira. – Sai cosa, mi sto rompendo le palle di parlare coi sordi, ma’. – sbuffa, avvicinandosi piano.
Sua madre sembra prendere un sospiro eterno.
- Non dire parolacce, Dave. – esala quindi. La sua voce è debole, roca, sembra quasi finta. Dave sospira un’altra volta e gira attorno al divano, lo stomaco stretto in una morsa di terrore perché non sa cosa aspettarsi. Non sa più niente di niente, sua madre potrebbe essersi trasformata in un fantasma, mentre lui non c’era, e lui potrebbe dire di non esserne stupito.
Non si è trasformata in un fantasma, però. Ci assomiglia, ma no. È sempre lei, gli occhi confusi e stanchi, il vestito bianco, le calze nere, la sciarpa rosa perennemente annodata attorno al collo, unico tocco di colore. Stringe quell’orribile pupazzo da ventriloquo al quale papà teneva tanto. Non l’ha portato via con sé. Questo è strano.
Ci sono un bicchiere ed una bottiglia di vino vuoti, sul tavolino da caffè. Dave li osserva con disappunto per qualche secondo.
- Ti dispiacerebbe prendermi un’altra bottiglia dal ripostiglio, tesoro? – domanda sua madre, un sorriso lievissimo a increspare le labbra secche, ma coperte di rossetto, come sempre.
- Sì, mi dispiacerebbe. – risponde lui, sinceramente, sedendosi al suo fianco, - E infatti non lo farò.
Sua madre si concede un mezzo sorriso e poi si allunga ad accarezzargli i capelli, ravviandogliene una ciocca più lunga dietro un orecchio.
- Sono così fortunata ad avere te, ad occuparti di me. – sussurra, la voce ridotta ad un fiato tremulo ma incomprensibilmente dolce, - Sono sempre stata fortunata ad avere qualcuno che si occupasse di me. Sono senza speranza, io. Da sola, non servo a niente. Tu e tuo padre siete… - singhiozza appena, una mano che si chiude attorno ad una delle sottilissime braccia del pupazzo, - Siete così simili. Siete buoni.
- Basta. – la interrompe lui, voltando lo sguardo. Non capisce come possa dire una cosa simile dell’uomo che l’ha appena lasciata, soprattutto non accetta che lei possa pensarli simili. Non adesso. – E getta via quella roba.
Sua madre abbassa lo sguardo sul pupazzo, accarezzandone una guancia rossa.
- Cal? Penso che lo terrò con me per un po’. – annuisce lentamente, - Sì, penso proprio che lo terrò con me per un po’.
Dave sospira, scalciando via le scarpe e sedendosi più comodamente sul divano, dopo aver recuperato il telecomando della tv. La accende, fa zapping. Non c’è niente di interessante da vedere.
Continua a fare zapping, mentre sua madre, lentamente, si addormenta al suo fianco.
*
Quando apre gli occhi, l’indomani mattina, lo fa dopo aver dormito, e in realtà si sente bene. Anche troppo bene, nota nello spostare lo sguardo sulla sveglia sopra il comodino. Non è ancora tardi, ma decisamente non è presto, e lui non è abituato a dormire così a lungo, ecco perché si sente così intorpidito.
Scalcia via le coperte, si stiracchia con una serie di mugolii compiaciuti e poi esce in corridoio. Già da dove si trova può vedere che il piatto che ha lasciato ieri per Rose è vuoto, e si avvicina con un sorriso alla sua porta per recuperarlo da terra. Bussa piano, Rose non risponde, ma lui può sentirla respirare piano, profondamente addormentata, e decide di lasciarla in pace, per oggi.
Anche sua madre dorme, tutta rannicchiata in metà del divano, stretta a quell’orribile pupazzo. Dave ricorda di averlo trovato figo, un tempo. Suo padre non faceva che farglielo dondolare davanti agli occhi, quando era piccolo, e così, forse per abitudine, forse perché era suo, era diventato il suo giocattolo preferito.
Adesso, se potesse, gli darebbe fuoco.
- Mamma? – la chiama, scuotendola delicatamente per una spalla, - Mamma, forse è meglio se vai a letto, se hai sonno.
Sua madre scuote il capo, sulle sue labbra aleggia l’ombra di un sorriso. Chissà cosa sta sognando. Dave la guarda e per un secondo gli sembra così piccola e indifesa, come fosse tornata ragazzina. È giovane, sua madre, lei e papà hanno avuto lui e Rose molto presto, ed anche adesso, guardandola, non le darebbe più di trent’anni. Ha potenzialmente tutta la vita, davanti. E sta rannicchiata su un divano scomodo, abbracciata ad un pupazzo orrendo, e sorride nel sonno perché ha ancora troppo alcool in circolo per rendersi conto di quanta tristezza la aspetta quando si sarà risvegliata.
Dave sospira, uscendo dal salotto ed allontanandosi verso l’enorme armadio a muro a scomparsa che copre quasi l’intera parete del corridoio. Ne apre un’anta a colpo sicuro, i cappotti di suo padre sono ancora lì. D’altronde, non li usava quasi mai. Non hanno nemmeno l’odore del suo dopobarba addosso.
Si piega sulle ginocchia, aprendo uno dei cassetti in fondo e recuperando una coperta di lana. Poi si rimette in piedi, chiude tutto e torna in salotto. Sua madre è ancora lì, le gambe piegate, le ginocchia strette al petto, come non volesse occupare troppo spazio. Le avvolge la coperta attorno al corpo e poi torna in camera per prepararsi ad uscire. Non prima di aver bevuto un sorso di caffè amaro.
Sono passate solo ventiquattro ore da quando suo padre è andato via.
*
A John non dice niente. È il suo migliore amico, e suppone che lui capirebbe cosa vuol dire ritrovarsi da un giorno all’altro con un solo genitore anziché due, considerato il fatto che vive solo con suo padre e la nonna, ma la verità è che Dave non ha alcuna voglia di parlare di cosa è successo, cosa sta succedendo e cosa succederà. Da un lato ne è quasi geloso, perché sono fatti suoi e della sua famiglia; dall’altro lato conosce abbastanza John da sapere che, di fronte a una notizia del genere, farebbe quella faccia, quella che fa sempre quando è molto, molto preoccupato per lui, gli si siederebbe di fronte e probabilmente allungherebbe perfino una mano a battergli un paio di pacche amichevolmente consolatorie sulla spalla, e gli chiederebbe “e tu come ti senti, Dave?”, e lui non avrebbe idea di cosa dirgli. Per cui meglio evitare di parlarne del tutto, piuttosto che dover star lì ad occhi bassi chiedendosi “e io come mi sento?”, senza sapere neanche che valore dare ad una domanda simile.
Lui come si sente? Che importa? Non gli importa davvero. Sua madre dorme sul divano. Sua sorella non è mai uscita da camera propria dal giorno prima. Suo padre è andato via. Cosa importa come può sentirsi lui?
Quando John gli chiede se gli va di pranzare a casa sua e passare il pomeriggio insieme, comunque, accetta. Il pensiero di sua sorella e sua madre a casa da sole lo tormenta per un po’, sa che il suo dovere sarebbe quello di tornare a casa, prendersi cura di loro, preparare il pranzo, passare un po’ di tempo con mamma, cercare ancora di convincere Rose a venire fuori dalla sua stanza, ma già nel momento in cui fa l’elenco di tutto ciò che lo aspetterebbe una volta varcata la soglia dell’appartamento, si rende conto che non ha nessuna voglia di farlo. Si sente in colpa, ma non riesce a convincersi che sarebbe meglio declinare e tornare a casa. Si sente soffocare al solo pensiero. Perciò accetta. Senza ripensamenti, accetta.
- Grande. – sorride John, - Mio padre ha preparato un’altra di quelle sue stupide torte. Mi servirà una mano per finirla. Magari se vuoi puoi portarne un po’ ai tuoi, stasera, tanto quello ne prepara una nuova ogni giorno. La quantità di avanzi che buttiamo via ogni giorno è surreale, stiamo ingrassando tutti i gatti del quartiere. Ormai, quando scendo a buttare la spazzatura mi circondano e mi si strusciano sulle gambe come se fossi una specie di messia, è ridicolo.
Dave si concede una risata, e anche di dimenticare tutto per un po’. Ferma anche il conto delle ore, tanto sa già che possono solo aumentare, e che quando guarderà nuovamente l’orologio sarà passato ancora troppo poco tempo.
*
Torna a casa dopo cena, portando con sé due fette di torta alla panna accuratamente protette da un guscio di piatti di plastica avvolti nella pellicola trasparente, in modo che non potessero aprirsi e rovesciare il loro contenuto per terra in nessun caso.
L’appartamento è così silenzioso che potrebbe non esserci nessuno. Sono le dieci passate quando Dave entra in cucina, posa i piatti sul tavolo e solleva gli occhi sull’orologio. Ricorda senza nessuna difficoltà che, solo fino ad una settimana prima, ogni sera a quest’ora lui era sempre in salotto, attaccato al televisore grande, a farsi massacrare da sua sorella a Tekken 7, mentre sua madre sorseggiava vino rosso da uno di quei bicchieri a coppa che le piaceva tanto tenere in mano, rileggendo per l’ennesima volta tutta la saga de La soddisfazione dell’Erudito fin dal principio, e dal computer di suo padre posto in un angolo arrivavano i suoni più disparati mentre le sue dita battevano veloci sulla tastiera.
Era solo una settimana fa. Prima che le cose cominciassero ad andare a puttane, prima che la casa piombasse nel silenzio.
Sospira e recupera due piatti di plastica puliti da uno stipetto. Una fetta per piatto. Poi due forchette.
Prende il piatto di Rose e bussa alla porta di camera sua. La sente sospirare pesantemente.
- Non ti arrendi mai? – dice. Dave aggrotta le sopracciglia.
- Non fare la stronza. – la rimprovera, - Ti ho portato una fetta di torta. L’ha fatta il signor Egbert. È buona.
- Non mi va.
- Dovrai pur mangiare qualcosa.
Rose sospira ancora, Dave le sente girare una pagina di qualcosa.
- Lasciala lì per terra.
Obbedisce senza averne voglia, perché non ha voglia neanche di litigare con lei. Non in generale, tantomeno attraverso una porta. È tardi, è stanco, non ne può già più.
- Fai come vuoi. – borbotta, allontanandosi verso la cucina e poi tornando a percorrere il corridoio con l’altro piatto. La luce in salotto è spenta, ma l’abat-jour sul tavolino accanto al divano è accesa. Sua madre è ancora seduta lì, e finché non la vede Dave può illudersi di pensare che abbia passato il pomeriggio a leggere, come ha sempre fatto.
Invece poggia il piatto sul tavolino da caffè, si volta e mamma è ancora rannicchiata e addormentata, nella stessa posizione in cui era stamattina. Perfino la coperta sembra che non le si sia spostata di dosso neanche di un centimetro.
- Mamma… - sospira, - Hai dormito tutto il giorno?
Sua madre schiude le palpebre, gli occhi velati di sonno, le labbra che si piegano in un sorriso evanescente.
- Cos’altro avrei dovuto fare, tesoro mio? – domanda con una vocina trasparente, stringendosi nelle spalle, - Cal mi ha tenuto compagnia.
- Devi buttarlo via. – quasi ringhia Dave, - Andiamo, ti porto a letto. – sospira poi, scostandole la coperta di dosso e passandole un braccio attorno alla vita, spingendola a sollevarsi in piedi. Lei lo fa, in una sinfonia di lamenti e piagnucolii che Dave cerca con tutte le proprie forze di ignorare. Sua madre è ancora più alta di lui, anche se di poco, e lui non riesce a non ripensare alle innumerevoli volte in cui ha visto suo padre riaccompagnarla in camera dopo averla trovata brilla sul divano. “Sei incorreggibile, Lalonde,” le diceva, e lei rideva, e la sua risata non suonava sgradevole come quelle degli ubriachi. Era un tintinnio dolce, gentile. E suo padre sorrideva, e tutto sembrava perfetto e giusto, e adesso è rotto, da qualche parte un ingranaggio s’è scheggiato, e Dave non sa come ripararlo. E forse, anche se lo sapesse, non riuscirebbe comunque.
Aiuta sua madre a mettersi a letto, così vestita per com’è, le rimbocca le coperte e, alla luce giallastra della lampada sul comodino, la vede piangere. Non se ne sarebbe mai accorto se non fosse stato per come le brillano addosso le lacrime. Non emette un suono, e sulle sue labbra c’è un sorriso ridicolmente dolce.
- Mamma… - sussurra, sentendosi stringere il cuore mentre si siede sulla sponda del letto e le asciuga le lacrime dalle guance, - Per favore, non piangere.
Lei apre gli occhi, lo guarda con affetto, gli accarezza una guancia.
- Credo che sia la cosa che tuo padre mi ha ripetuto più spesso da quando eravamo ragazzi. – dice a mezza voce, - Siete davvero identici.
Dave distoglie lo sguardo, ferito. Si alza in piedi.
- Cerca di dormire. – le dice. Una mano di sua madre scivola fuori dalle coperte e si chiude attorno al suo polso sottile.
- Vuoi restare ancora un po’ con la mamma, tesoro? – domanda. Dave si volta a guardarla ed è abbastanza sicuro che gli stia chiedendo soltanto di sedersi lì e parlare con lei ancora un po’. Forse per darle l’illusione che papà sia ancora lì, a prendersi cura di lei.
Dave ci pensa. Pensa a tutte le ore che ha passato fuori casa, lasciandola in balia di se stessa, disinteressandosi di lei, dimenticando perfino la sua esistenza.
Poi spegne la luce, gira attorno al letto, sfila le scarpe e scivola sotto le coperte, stendendosi su un fianco. Sua madre resta immobile, fissa il soffitto, sorride.
- Allora, tesoro, com’è andata oggi a scuola? – domanda.
Dave ha sonno, è stanco e ha voglia di piangere. In più, né a scuola né a casa di John è successo niente di particolarmente eclatante, perciò non è neanche sicuro di sapere cos’è che dovrebbe raccontare adesso a sua madre. Ma parte comunque dal principio, fin da quando s’è svegliato, omettendo il conto delle ore anche se sa che ormai ne sono passate almeno trentasei da quando suo padre è andato via di casa.
*
Dave non ha mai creduto a tutte quelle storie riguardo una supposta connessione telepatica fra gemelli. Lui, della testa di Rose, non sa niente. I suoi pensieri, le sue emozioni, le sue sensazioni, agli occhi di Dave sono sempre state insondabili. Sua sorella è l’enigma che non sarà mai in grado di risolvere, il quesito sospeso a cui non riuscirà mai a trovare una risposta. Per la maggior parte del tempo non la capisce, per la restante parte del tempo non vuole nemmeno provarci. La accetta così per com’è, con le sue arie da stronza e le sue reazioni passivo-aggressive e le occhiate colme di presuntuoso sdegno con le quali osserva quasi sempre tutto il mondo circostante.
È passata una settimana da quando ha cominciato a dormire con sua madre. Lei non ha più chiesto, ma lui ha continuato a farlo, e adesso sta semplicemente prendendo l’abitudine di stare con lei, la notte, perché gli sembra che ne abbia bisogno.
Suo padre è andato via da otto giorni. Lui non vede Rose esattamente dalla stessa quantità di tempo.
Sono le nove del mattino di domenica. Sua madre è ancora a letto, profondamente addormentata. Non fa che dormire, quando lascia il letto è solo per trascinarsi sul divano, dove Cal viene immancabilmente abbandonato ogni sera. Fa qualcosa solo quando Dave è con lei, che sia guardare la tv o fingere di aiutarlo a fare i compiti. Per il resto del tempo, fissa il vuoto, e Dave può leggerle negli occhi che non sa cosa fare di se stessa, e questa cosa lo terrorizza.
Non quanto, comunque, lo terrorizzi il fatto di non aver mai visto sua sorella in più di una settimana.
La domenica gli permette di prendere le cose con più calma, forse perché tutto sembra girare ad un ritmo più normale. Durante tutto il resto della settimana c’è quest’incongruenza che Dave non riesce a spiegare, per cui i minuti sembrano scorrere via velocissimi, nella sua mente, ma non è così. Quando gli sembra che siano già passate due o tre ore, in realtà a stento ne è passata una.
La domenica, questo divario fra tempo percepito e tempo effettivamente passato sembra ridursi. Le ore sono sempre interminabili, ma almeno quando Dave crede che ne sia passata una sola poi la supposizione si dimostra vera. Forse perché di domenica non c’è davvero niente da fare, per cui in qualche modo ha senso che ogni minuto sia davvero lungo un’eternità.
Lui s’è svegliato presto anche oggi, perché dormire a lungo nel letto grande non gli riesce. C’è ancora il profumo di suo padre attaccato a tutto, anche se le lenzuola sono state cambiate. Forse è trattenuto nelle molecole d’aria, Dave non saprebbe spiegarlo, sa solo che non si sente mai completamente a suo agio in quella stanza. Di solito, verso le sei sgattaiola via, prima che mamma possa accorgersene. Oggi s’è costretto a restare al suo fianco fino alle otto, ma poi non c’è l’ha più fatta. S’è alzato in piedi, ha pulito la cucina da cima a fondo, ha preparato il caffè, ne ha bevuto un sorso e ha fatto una smorfia chiedendosi se gli riuscirà mai di abituarsi a questo saporaccio amaro.
Ora guarda l’orologio e si chiede se sia il caso di andare a chiedere a Rose se, almeno oggi, le va di uscire da camera sua. Mamma resterà probabilmente a letto tutto il giorno, lui non ha in programma di vedere John né nessun altro e l’idea di passare l’intera giornata in giro per casa o chiuso in camera propria da solo lo fa sentire sull’orlo di una crisi di nervi.
Attraversa il corridoio e si ferma davanti alla porta chiusa di Rose. È quasi sicuro che, se bussasse, lei gli direbbe di sparire, perciò, anche se non è corretto e lo sa, dopo essersi assicurato di sentirla respirare lentamente e profondamente, prova ad aprire la porta.
Sorprendentemente, non è chiusa a chiave. Deve aver smesso di chiudersi dentro quando ha visto che lui non passava più così spesso a bussare.
Sbircia all’interno. La finestra è chiusa, le tende tirate, ma di fuori il sole è alto e passa attraverso gli scuri, illuminando appena l’ambiente. Abbastanza da vedere Rose seminascosta sotto le coperte, almeno, il caschetto biondo tutto scompigliato e gli occhi chiusi, un’espressione incredibilmente serena a distenderle i tratti del volto. Sembra che sia lei che mamma stiano meglio quando dormono, da quando papà è andato via. Dave non riesce, tutti i suoi sonni sono agitati. Dormire non gli piace più. In realtà non gli è mai piaciuto granché. È sempre stato abbastanza insonne. Anche papà lo era. Ogni tanto gli capitava di uscire dalla propria camera ad orari improbabili della notte per andare a bere un po’ d’acqua, e di trovarlo sveglio e seduto davanti al computer, oppure in cucina, intento a prepararsi un panino.
Parlavano sempre un sacco, in quelle occasioni. Quando erano soli. In qualche modo, Dave lo sentiva più rilassato. Era più facile avere a che fare con lui.
Si siede per terra, spalle contro la parete, accanto al letto di sua sorella. La guarda dormire per un po’, sorridendo appena, e poi scorge l’angolo di uno dei suoi quaderni fare capolino da sotto il letto. Rose è gelosissima di questi diari, li nasconde sempre nei posti più improbabili. È strano trovarne uno abbandonato con tanta incuria sotto il suo letto.
Si allunga a recuperarlo, stringendolo fra le dita ed appoggiandoselo sulle ginocchia per sfogliarlo. La prima pagina è divertente, perché comincia con tre “caro diario” che sono stati poi impietosamente cancellati per far spazio a qualche racconto breve, o stralci di racconti più lunghi magari continuati altrove. Dave ridacchia, accarezzando la pagina con due dita prima di girarla. I racconti proseguono per un po’, lui neanche li legge, in realtà, lascia solo scorrere gli occhi addosso alle lettere, cogliendone il senso generale, pensando che gli piacerebbe che Rose scrivesse il testo di una canzone, perché lui impazzirebbe alla sola idea di musicargliela.
- È divertente? – chiede Rose. Dave solleva lo sguardo e trova i suoi occhi vigili e attenti. Non è arrabbiata. Anzi, sorride appena.
- Scusa. – dice, richiudendo il quaderno e posandolo esattamente dove l’ha trovato, - Era lì.
- E tu non hai potuto fare a meno di leggerlo. – sospira, stiracchiandosi appena sotto le coperte, - Sei fortunato che è roba vecchia, altrimenti non avresti vissuto abbastanza per raccontarne il contenuto. – ridacchiano insieme per qualche secondo, e quando le risate tornano silenzio Dave guarda sua sorella e si sente stringere il cuore, perché il suo sorriso è identico a quello di sua madre. – Perché sei qui, Dave? – domanda lei a bassa voce, e lui si stringe nelle spalle.
- Mi mancavi. – risponde sinceramente, - E volevo chiederti se ti andava di uscire da qui, almeno oggi.
Lei sospira, lanciando uno sguardo alla porta che Dave si è richiuso alle spalle dopo essere entrato.
- È ancora presto. – risponde. Dave segue il suo sguardo, e nota il violino abbandonato sul ripiano del mobile ad angolo.
- Non te l’ho sentito suonare, ultimamente. – dice, rendendosene conto solo in quell’istante, - Non hai smesso, vero?
Rose sorride appena, allungando una mano a scompigliargli i capelli.
- Non ho smesso, - lo rassicura, - è solo troppo presto anche per quello.
Dave annuisce come se capisse cosa intende, ma la verità è che non lo capisce affatto. Che vuol dire troppo presto? A lui sembra già tardi. Anche se il tempo non passa mai, gli sembra che ne sia già passato a sufficienza. Che lo stato di immobilità in cui sono sia già durato fin troppo a lungo. Rose non può fermare lo scorrere del tempo chiudendosi in camera propria, ma lui non riesce a dirglielo.
- Speravo che potessi tenermi un po’ compagnia, oggi. – le dice però, abbassando lo sguardo.
Rose non risponde per molti secondi, ma poi si solleva sui gomiti e lo guarda.
- Io non voglio uscire, - dice, - ma forse tu puoi restare.
Dave gli ricambia l’occhiata, inarcando le sopracciglia.
- Qui? – domanda. Rose annuisce.
- Possiamo tenerci compagnia qui. – suggerisce. Il suo sguardo si fa indagatore, per un attimo. – Sembri stanco.
Dave guarda altrove, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Non dormo bene, ultimamente.
Rose sospira e scivola più in là sul proprio materasso.
- Vieni qui, dai. – lo invita con un sorriso.
Dave ride, scuotendo il capo.
- Scherzi? – domanda, - Questo letto è minuscolo.
- Ci stringeremo. – risponde lei seria, battendo la mano sulla porzione di materasso libero al suo fianco. – Dai.
Dave la guarda per un po’, chiedendosi se stia facendo la cosa giusta. Ma sente gli occhi pesanti, e dopo un po’ non gli importa più di quale potrebbe essere la cosa giusta. Si alza in piedi e scivola sotto le coperte accanto a sua sorella. Lei se lo stringe contro, accarezzandogli i capelli.
- Hai pianto, da quando è andato via? – gli domanda. Dave pensa alle due lacrime che s’è lasciato sfuggire, e stabilisce che quello non è piangere, perciò scuote il capo. – Io sì. – confessa Rose, annuendo, - E dovresti anche tu.
Dave chiude gli occhi, le stringe le braccia attorno alla vita, nasconde il viso contro il suo petto, e piange fino ad addormentarsi.
*
Rose ci mette un mese a riprendere in mano il violino. Dave sa perché suonare le costa tanta fatica: è sempre stato papà ad incoraggiarli a cominciare qualcosa. Mamma è sempre stata brava a spronarli a continuare per la strada che avevano intrapreso, ma la scintilla iniziale, quella che è sempre servita ad accendere il fuoco, è sempre stata una parola di papà, un suo suggerimento, una sua proposta. È stato così per i suoi beat, ed è stato così anche per il violino e per Rose. Papà adorava ascoltarla suonare.
Succede in un momento qualsiasi, ed ancora una volta Dave è felice che sia così. È contento che sia un momento qualunque, perché fra vent’anni non ricorderà che in quel momento era sul divano a ripassare storia mentre teneva d’occhio sua madre e in sottofondo la tv tenuta a volume bassissimo raccontava qualche stupida storia d’amore da soap opera sudamericana, no. Fra vent’anni ricorderà soltanto che era lì a fare qualcosa di assolutamente non importante e poi improvvisamente ha sentito il lamento nervoso e straziante del violino farsi strada fino a lui, ed il cuore si è messo a battere più in fretta.
Scatta in piedi, e non ha neanche il tempo di notare che sua madre, silenziosamente, comincia a piangere. Corre per il corridoio a piedi nudi, rischiando di scivolare e schiantarsi contro ogni singola parete, raggiunge la porta – come sempre chiusa – della camera di Rose e la spalanca senza neanche pensare che forse sarebbe il caso di bussare.
Rose è in piedi e, col suo pigiama rosa sgargiante addosso, i piedi fasciati in quei suoi ridicoli calzini antiscivolo con le dita e i capelli scompigliati, malamente tenuti indietro da una fascia nera, è probabilmente l’immagine meno poetica dell’universo, ma al solo vederla lì, il capo ripiegato, le dita di una mano elegantemente strette attorno all’archetto e le dita dell’altra che scivolano veloci sulle corde, a Dave viene da piangere, e per una volta – per la prima volta in trenta giorni e qualche ora e troppi minuti e una quantità infinita di secondi – non è una sensazione spiacevole.
Rose si interrompe e si volta a guardarlo, le lunghe ciglia chiare che tremano appena.
- Mi fanno un po’ male le dita. – dice a bassa voce.
- È perché non sei più abituata. – annuisce lui, fermo sulla soglia della porta, una mano ancora stretta attorno alla maniglia, come volesse restarci aggrappato per non cadere. Rose lo nota e sorride, e lui sorride stupidamente a propria volta, sentendo una scintilla di irrazionale felicità bruciargli nello stomaco e poi diffondersi ovunque. – Vuoi fermarti? – le domanda, e dentro la propria testa prega che risponda di no. E come se una fatina buona avesse deciso di accogliere le preghiere di Dave, Rose scuote il capo.
- Vuoi restare mentre mi esercito? – domanda quindi. Dave annuisce entusiasta, ed obbedisce quando lei gli chiede di entrare e chiudere la porta.
Sul divano, in salotto, sua madre continua a piangere. Dave non la sente, anche se sa che lo sta facendo. Sa che probabilmente dovrebbe tornare di là, sedersi al suo fianco e tenerle la mano mentre si sfoga, perché Rose adesso sta meglio e ha molto meno bisogno di lui di quanto possa averne bisogno lei, ma il canto del violino è una piccola vittoria, anche per lui, e Dave decide di godersela.
*
Quattro mesi dopo, Dave dorme ancora con sua madre, e sta lentamente ma inesorabilmente cominciando a diventare un’abitudine priva di lati negativi. Sono scivolati in una specie di confusa routine che – Dave ne è abbastanza convinto – qualsiasi psicoterapeuta al mondo non esiterebbe a descrivere come malsana – Rose, peraltro, non è (ancora) una psicoterapeuta, ma già lo fa – ma in fin dei conti Dave è arrivato perfino a trovarla comoda.
Un letto è solo un letto, alla fine. Non è che passi tutta la sua vita in camera con sua madre, anzi. Se non è a scuola, o da John, per lo più la camera in cui sta chiuso è la propria, solo che preferisce dormire con lei. Per non farla sentire sola, probabilmente, per non lasciare vacante quel posto al suo fianco.
Sua madre non lo abbraccia, non è eccessiva nelle sue effusioni – non lo è mai stata, d’altronde – non lo ha mai scambiato per suo padre, né per una bambola addosso alla quale piangere tutta la notte. Semplicemente, si sente più tranquilla quando non c’è una voragine vuota al proprio fianco, e Dave non vede per quale motivo dovrebbe privarla di un sonno sereno per rifiutarsi di fare qualcosa che – peraltro – nessuno gli ha mai chiesto, e che non gli costa alcuna fatica.
Ogni tanto, comunque, fatica ad addormentarsi, forse perché negli ultimi mesi non ha fatto altro che dormire, e in queste occasioni può passare ore a scrutare intensamente il soffitto, come cercando di identificare i contorni di una qualche macchia che solo lei è in grado di vedere.
Passa la quasi totalità delle proprie giornate in uno stato di ubriachezza costante, ma Dave è convinto che, per la maggior parte del tempo, finga, o esageri la propria condizione, per non dover affrontare necessariamente la realtà con le responsabilità di una persona lucida. Dev’essere per forza così, non c’è modo in cui, se fosse davvero ubriaca come dice, potrebbe poi ridursi alla sera così presente a se stessa.
- Che c’è, ma’? – le chiede Dave, voltandosi su un fianco e scrutando il suo profilo pallido ed elegante nell’ombra. È bella, sua madre, è una specie di copia più adulta e matura di Rose, e Rose è bella da morire, per cui Dave riesce ad immaginare con molta facilità quanto potesse essere bella mamma alla sua età. Ogni tanto immagina Rose da grande, e non può fare a meno di sorridere orgoglioso pensando a quanto le somiglierà.
In un primo momento, sua madre non sembra neanche sentirlo, ma Dave la conosce abbastanza da sapere che non è così. Sua madre ascolta sempre tutto, solo che a volte ha bisogno di qualche secondo per mettere le parole ordinatamente una dietro l’altra, e Dave, paziente, le lascia il tempo di farlo.
- Pensavo. – risponde infine, sospirando pesantemente.
- A cosa? – chiede Dave, e poi aggiunge, - Dovresti dormire, invece di pensare.
Sua madre sbuffa una mezza risata, allungando una mano alla propria destra per scompigliargli i capelli, un altro gesto tipico che lei e Rose hanno in comune.
- No, dovrei proprio pensare, invece. – lo corregge, gli occhi sempre fissi sul soffitto, lo sguardo che si tinge di una sfumatura più seria, quasi grave. – Dovremo parlarne, prima o poi. – dice, e Dave abbassa lo sguardo e si sente stringere lo stomaco in una smorfia che gli dà la nausea.
Non ha alcuna voglia di parlarne. Ha voglia soltanto di lasciarsi tutto alle spalle. Cinque mesi non sono stati sufficiente, ma forse lo saranno sei. Forse devono solo tenere duro ancora un pochino, e tutto tornerà al suo posto, anche se un ingranaggio resterà mancante.
- Cosa c’è da dire? – domanda controvoglia, stringendo le dita attorno al cuscino, quasi aggrappandovisi. Ogni volta che sente qualcosa scuotere la scombinata normalità che sta lentamente ricreando attorno a sé, ha bisogno di sentire sotto le dita qualcosa di presente, reale, fisico. Immagina che questo sia un segno di debolezza, ma al momento non può ancora farne a meno.
Sua madre sorride tristemente.
- Un sacco di cose. – risponde, - Davvero un sacco. Ma non è ancora il momento. – dice, scuotendo il capo. Poi si volta a guardarlo, gli scosta la frangetta dal viso e lo bacia piano sulla fronte. – Dormi, tesoro mio. – dice a voce bassa, quasi cullandolo.
Dave annuisce, e chiude gli occhi.
*
Altri quattro mesi, e Dave è tornato a dormire in camera propria. Non è stato un cambiamento voluto, ma d’altronde non lo era stato neanche trasferirsi da mamma, per cui la cosa non lo stupisce. Semplicemente, una sera si è fermato a lavorare ad alcuni beat fino a tardi e poi è crollato addormentato nel proprio letto. Non ha neanche avuto bisogno di un po’ di tempo per riabituarsi alle differenze, è stato molto naturale, per cui Dave immagina che fosse semplicemente il momento giusto.
Sono passati esattamente nove mesi – o forse poco più, o forse poco meno, alla fine non è che importi – da quando papà è andato via. Non c’è più il suo profumo da nessuna parte, molte altre delle sue cose sono sparite col passare del tempo – segno chiaro che mamma deve averlo rivisto, di tanto in tanto, o che lui deve comunque essere tornato a casa per riprendersele – e la vita è ricominciata monotona e dolce com’era prima che lui se ne andasse, con la differenza che lo spazio vuoto non si è colmato, e dopo nove mesi Dave sta cominciando a pensare che non si colmerà mai.
Pensava che questo potesse essere un tempo sufficiente perché qualcosa in questo senso potesse cambiare, una cifra quasi simbolica – nove mesi, il tempo che una vita impiega per formarsi, sperava potesse essere anche il tempo che ci avrebbe messo la sua a ricostruirsi identica a prima – ma ha imparato che non c’è niente di simbolico nella normalità, le cose non accadono mai in tempi prestabiliti, non ci sono tempistiche che puoi darti per qualcosa che non dipende neanche da te stesso.
Semplicemente a un certo punto succede, o non succede.
Suo padre non è più lì, e Dave vorrebbe poterci venire a patti, ma non crede che succederà.
Succede invece che sua madre ricomincia a lavorare, a leggere, a fingere di saper cucinare, a sbronzarsi regolarmente perché è una vita che si porta dietro il vizio – e che se lo tolga è un’altra di quelle cose che non accadrà mai – e una sera, mentre lui e sua sorella sono lì che si prendono a botte perché lei vuole giocare a Tekken e lui a Final Fantasy, improvvisamente chiude il terzo volume delle avventure di Calmasis e dice ad entrambi che è il momento di parlare.
Dave ha atteso questo momento con terrore per mesi, ormai, certo che sarebbe arrivato ed altrettanto certo che non avrebbe saputo come affrontarlo. È rimasto da solo a combattere la solitudine per settimane, s’è tenuto dentro il segreto anche con John, al quale continua a non aver detto niente anche adesso, ha tenuto in piedi una casa con le sue sole forze quando nessuno sembrava interessato o preparato o forte abbastanza da aiutarlo, ed ora che non c’è assolutamente niente che lui debba fare, ora che ci si aspetta da lui soltanto che resti calmo, ascolti ed accetti, non si sente in grado.
Rose ruota su se stessa, restando seduta sul pavimento a gambe incrociate ma voltandosi verso la mamma, seduta sul divano, le gambe raccolte sotto il corpo. Dave la imita, inspirando ed espirando profondamente. Nessuno dei due dice una parola mentre la mamma racconta di lei e papà da ragazzini, dell’amicizia profonda che li legava, di come – da parte di mamma – ci fosse ben più che solo questo, di quell’amico comune di nome Jake del quale poi hanno perso le tracce. Di quello che papà provava per lui. Del modo in cui fra loro non è mai nato niente. Di quello che papà ha provato in seguito al rifiuto, di come mamma gli sia rimasta vicina, di quello che hanno provato a fare, convinti che fosse meglio così, che fosse meglio restare uniti che soli. Dei fantasmi che papà non è mai riuscito a scacciare, perché sarebbe stato impossibile per lui farlo. Delle menzogne che ha raccontato solo ed esclusivamente a se stesso, perché neanche per un minuto, neanche per un secondo mamma si è illusa di non sapere perfettamente che lui le restava accanto per obbligo, per affetto, per abitudine. Mai per amore.
Mamma parla lentamente, senza rabbia. L’imitazione di sorriso che le arriccia le labbra rende il tutto ancora più triste di quanto già non sia.
*
Quando papà si fa sentire, è passato un anno da quando è andato via. Non è abbastanza da stentare a riconoscere la sua voce, naturalmente, ma è decisamente abbastanza da non credere a ciò che sente per una quantità infinita di secondi.
Anche stavolta, è un momento senza importanza. Dave sta lavando i piatti dopo pranzo quando il cellulare squilla, ed a lui tocca prodursi in acrobazie non indifferenti per recuperare il telefono senza che si bagni troppo e poi tenerlo in equilibrio fra la testa e la spalla dopo aver risposto.
E poi sente la voce di suo padre e il telefono quasi scivola per terra. Perché, si domanda, perché adesso, perché in assoluto, perché, è tutto ciò che vorrebbe sapere, ma non chiede. Ascolta e basta, ed è suo padre a chiedere. Chiede di vedersi più tardi, e Dave accetta. Vorrebbe strillargli addosso che col cazzo che si incontreranno, col cazzo che vorrà mai più rivederlo o anche solo risentirlo per tutto il resto della sua vita, dopo un intero anno di fottutissimo e ingiustificato silenzio, e invece accetta, e non si lamenta nemmeno, mentre lo fa. Accetta e basta.
Passa le ore che lo separano dall’incontro fissando il vuoto ed immaginando i mille possibili modi in cui potrebbe andare, le mille possibili cose che potrebbe dire a suo padre, e lo fa sapendo che non gliene dirà neanche una, che oltre tutti i mille modi che ha ipotizzato ce n’è sicuramente un milleunesimo che non ha considerato, e sarà quella la direzione che il loro incontro prenderà, proprio l’unica che non ha neanche preso in considerazione.
Sono quasi le sei quando comincia a muoversi. L’appuntamento è per mezz’ora dopo. Indossa una maglietta pulita, un paio di pantaloni casuali, gli occhiali da sole, e quando passa dal salotto, senza neanche pensarci, prende Cal per un braccio e lo infila in un vecchio zainetto vuoto per portarlo con sé.
Rose lo intercetta un attimo prima che esca di casa.
- Dove vai? – gli chiede, il tono tetro, l’aria di una che non accetterà una bugia come risposta.
- Da John. – risponde lui. Lei lo guarda come se volesse ucciderlo e poi si chiude in camera sbattendo la porta. Lui si chiede perché abbia mentito nonostante sapesse che lei si sarebbe arrabbiata, perché era chiaro che, evidentemente, doveva averlo ascoltato mentre parlava con papà, o quella scena non si sarebbe mai nemmeno verificata. Si risponde che l’ha fatto per proteggerla, che dirle una bugia ha significato poter evitare di parlarne, di dirle “sì, sto andando a incontrare papà, ma ha chiesto di vedere solo me”, ma in realtà sa che, più che proteggere Rose, mentendo stava proteggendo se stesso dal confronto. Dal dover dire la verità.
Quando lo realizza è già a metà strada e quasi si ferma in mezzo al marciapiede, lo stomaco schiacciato in una morsa tanto dolorosa da impedirgli di respirare, le dita strette attorno agli spallacci dello zaino. Gli tornano in mente le parole di sua madre – siete davvero identici – e lui non vuole, Dio, non vuole essere identico a papà, ma forse non c’è niente che può fare per evitarlo. Forse è un’altra di quelle cose che succedono o non succedono. O forse lui sta lasciando che succeda.
Arriva al luogo dell’appuntamento senza neanche accorgersene. È un piccolo diner aperto quasi ventiquattro ore al giorno, ad angolo fra la via residenziale in cui è situato il suo palazzo e la via più trafficata, quella che conduce verso il centro. Dave ci passa davanti ogni mattina quando va a scuola, ed ogni volta rallenta il passo per godersi più a lungo il profumo delle ciambelle appena sfornate. Ne compra una giusto per togliersi lo sfizio, mentre aspetta che suo padre si faccia vivo. Non è appena sfornata, e forse è un po’ troppo unta, ma è buona lo stesso. La granella di zucchero multicolore gli scricchiola fra i denti e gli solletica il palato, ed a lui viene voglia di comprarne una scatola intera da portare a casa, per dividerle con mamma e Rose. Forse lo farà. A Rose piacciono le ciambelle. Potrebbe essere un buon modo per chiederle scusa e fare pace.
Sta giusto cercando di ricordare se ha portato con sé soldi a sufficienza quando suo padre appare sulla porta. Si guarda brevemente intorno, ma non deve notarlo, perché si dirige verso un tavolo vuoto e prende posto, e solo allora, quando solleva lo sguardo, finalmente lo vede, gli sorride e gli fa cenno di avvicinarsi.
Dave si muove meccanicamente, un passo dopo l’altro. Sfila lo zaino dalle spalle e lo appoggia sulla metà della panca che non occupa quando si siede di fronte a lui. Resta in silenzio quando la cameriera passa a prendere la loro ordinazione. Ascolta la voce di suo padre scandire attentamente ciò che vuole – un caffè amaro ed una pasta alla crema, per il bambino un caffè zuccherato e un’altra ciambella – e poi continua a restare in silenzio per il lungo lasso di tempo che passa da quando la cameriera si allontana verso la cucina a quando torna indietro con ciò che hanno ordinato su un vassoio.
Neanche suo padre parla. Aspetta di aver visto la cameriera allontanarsi verso un altro tavolo, poi sorseggia un po’ del proprio caffè, e solo allora lo guarda.
- Come stai? – gli chiede. Dave sente già le lacrime pungere sotto le ciglia.
- Bene. – risponde.
- Rose? – domanda lui, - La mamma?
- Bene anche loro. – annuisce. Poi si interrompe, ma suo padre aspetta pazientemente, perché sa già cosa aspettarsi. – Mamma dice che non l’hai mai amata.
Suo padre sorride appena, guardando in basso e stringendo la tazza ancora calda fra le dita.
- Lei ne è sempre stata convinta.
- Ma ha ragione. – dice Dave, sporgendosi in avanti verso di lui, cercando il suo sguardo per fronteggiarlo da pari, - L’hai lasciata. Quindi non la amavi.
- Le due cose non sono quasi per niente in relazione. – obietta suo padre, sorseggiando un altro po’ di caffè, - Anzi, direi proprio il contrario.
- Stronzate. – protesta Dave, tornando ad appoggiarsi allo schienale della panca e guardando in basso, - Non prendermi in giro. Non puoi permetterti di farlo. Sono cresciuto, papà, non sono più come mi ricordi. È passato un anno intero, cazzo, e tu non ti sei più neanche fatto sentire. Ho visto che hai portato via tutte le tue cose, sei entrato in casa mentre non c’eravamo? Ridammi le tue chiavi. – quasi ringhia, porgendogli il palmo della mano aperta.
Suo padre lo osserva serio, ma alla fine infila le chiavi in tasca e recupera il proprio mazzo di chiavi, passandoglielo senza una protesta. Dave le stringe con forza fra le dita, fin quasi a farsi male col bordo seghettato.
- È vero, - annuisce suo padre, terminando il proprio caffè, - sei cresciuto. Sei un uomo, ormai. Dovrai prenderti tu cura di Rose e della mamma, lo sai, no?
- No. – ribatte lui, guardandolo freddamente, - No, ci prenderemo cura l’uno dell’altro, perché è così che funziona. Anche se cerchi di fare tutto da solo, non sei l’eroe di nessuno. Sei solo un egoista che vuole che ogni cosa giri esattamente come lui ha deciso di farla girare. – abbassa lo sguardo, le mani che tremano. – Tu forse ti senti un grande eroe perché hai liberato mamma dal pensiero di stare con un uomo che non la amava. Magari sei qui e stai pensando che quando saremo grandi capiremo e ti saremo grati e chissà che altra stronzata. Sono tutte cazzate, papà. – sospira, - Piantala di prenderti in giro.
Suo padre gli concede un sorriso stanco, annuendo ed alzandosi in piedi.
- Sei un ragazzo intelligente, Dave. – dice, - Sai già che non ci rivedremo più, vero?
- E non me ne frega niente. – ribatte lui, allunando una mano a recuperare lo zaino e tirandoglielo quasi addosso, - Ma questo portatelo via con te, io non lo voglio più vedere.
Suo padre sbircia appena all’interno dello zaino, e quando scorge la grande faccia lucida di Cal quasi gli viene da ridere. Dave gli è grato perché non lo fa – è l’unica cosa della quale lo ringrazia, in realtà.
Lo osserva avvicinarsi alla cassa, pagare e andare via senza neanche un saluto, e resta lì, seduto su quella panca, sentendosi svuotato di tutto e, allo stesso tempo, incredibilmente pesante. Gli si avvicina una cameriera poco dopo, chiedendogli se ci sia qualcosa che non va. Forse vuole che gli incartino la pasta alla crema e la ciambella, forse vuole portarle via? Dave guarda la ragazza distrattamente e ci pensa, ma poi scuote il capo. Piuttosto, le dice, mi dia una confezione di ciambelle da portare via, quella la prendo. La ragazza annuisce e si allontana, e Dave resta seduto fino a quando non riporta indietro le ciambelle chiuse in una graziosa confezione rettangolare in cartoncino bianco.
Somiglia a un regalo, e Dave sorride. Sarà un modo perfetto per fare pace.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Gen, Angst.
- Be the girl.
Note: Ok, questo è un esperimento, anche, ma soprattutto è stato un po' il mio parco giochi personale dopo un periodo in cui ho studiato molto e quasi tutto quello che ho scritto l'ho scritto seguendo ritmi serratissimi per tutta una serie di scadenze XD Anche questa storia partecipa a una challenge (la prima settimana della nuova edizione del CoW-T @ maridichallenge, missione 2, prompt pioggia), ma l'ho presa in modo diverso dal solito, l'ho presa scialla, direi XD Dandomi dei tempi miei e soprattutto permettendomi di giocare un po' con la formattazione originale di Homestuck, che ho tentato di mantenere nei pesterlog e nell'uso dei comandi azione. E in nient'altro, sostanzialmente. *cough*
Poi niente, dunque, l'ambientazione non è spoiler perché è la doomed timeline in cui John è morto e Dave e Rose sono rimasti soli all'interno del gioco, mi pare che venga mostrata tipo nell'Act2 or something, ora non c'ho culo di controllare, ho passato il pomeriggio a cercare di capire che verso facessero le tartarughe sul pianeta di Rose per poi apprendere che non ne facevano alcuno, è stato stancante. *ride*
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WE’RE IN RUINS

TG: rose
TG: rose hai sentito quello che ho detto
TG: rose giuro che se non mi rispondi tiro giù un casino che neanche ti immagini
TG: rose cazzo

TT: Sono qui.
TG: bene
TG: cazzo
TG: ok ora non ti muovere
TG: ti raggiungo lì dove sei e poi ne parliamo

TT: Di cosa?
TG: che cazzo ne so rose
TG: di tutto
TG: tu aspettami lì e basta
TG: rose

TT: D’accordo. D’accordo, Dave. Ti aspetto qui.

> Be the girl.

Sei Rose Lalonde, e hai paura. Non ti è mai capitato in tutta la tua vita di essere così spaventata. Hai visto piovere meteoriti sulla tua casa, incendiare la foresta, radere al suolo la centrale nucleare, e non hai mai avuto paura. Ti sei avventurata fuori dalla pur illusoria capsula protettiva della tua cameretta ed hai attraversato la strada col cielo in fiamme, ti sei intrufolata in un mausoleo e ne hai seguito i sotterranei senza il minimo tremore. Anche se hai solo tredici anni. Anche se stavi rischiando la vita. Anche se il tuo futuro sembrava appeso a un filo. E non hai mai avuto paura.

Adesso ce l’hai. Adesso, persa in un mondo che è tuo ma al contempo non lo è, su un pianeta in cui la pioggia non smette mai di mitragliare la superficie di un oceano senza più pesci da nutrire, hai paura. E temi di non potercela fare.

John è morto. Avete perso i contatti con Jade. Questo, purtroppo, può significare una sola cosa. E cioè che non riuscirete mai a concludere il gioco.

Questo mondo non è stato creato perché una persona sola potesse vincere il premio che attende di essere scoperto dietro l’ultima porta. No, questo mondo è stato creato perché quel premio possa essere stretto fra le mani di una squadra.

Voi non avete più una squadra. Tu e Dave, da soli, non bastate. Non potete bastare.

E per questo, tu hai paura.

> Be the guy.

Il mondo di Rose fa schifo al cazzo, è la prima cosa che pensi mettendoci piede. Il tuo era molto più figo. Sì, certo, faceva un caldo infernale e c’era da stare attenti a non scivolare mai o a non mettere il piede su una trave spezzata o su un’impalcatura instabile, per paura di scivolare di sotto e fare una fine tanto brutta che adesso non vuoi nemmeno starci a pensare, ma quantomeno si stava all’asciutto, ed era tutto di un bel colore. Un bel rosso acceso. Ti piace il rosso, è un colore giusto per te.

Qui è tutto rosa e celeste e dorato e ridicolmente da ragazzina. E tu non sei una ragazzina. Sei Dave Strider, e non hai paura di niente, ma questo posto ti fa un po’ schifo, e anche gli animaletti che ci abitano, in realtà.

Quando la tartaruga rosa ti si avvicina, il tuo primo istinto è di fare un passo indietro. Quella roba potrà ben essere lenta, ma ha un becco. La lunga storia personale che da anni ti vede coinvolto in una relazione pericolosa coi corvi che abitano sul tetto di casa tua ti ha insegnato a diffidare di qualsiasi animale ne possegga uno.

Poi ricordi che non hai paura di niente, neanche di qualsiasi animale dotato di becco possa avvicinartisi su quest’isola multicolore, tantomeno di una tartaruga rosa che ti guarda con terrificati occhi verdi rotondi come biglie, e ti avvicini di nuovo.

La tartaruga allunga una zampa e stringe la tua maglietta fra quelle che pensi di poter considerare in qualche modo delle dita. Poi ti tira un po’, come volesse chiederti di seguirla.

> Follow the pink turtle.

La tartaruga ti porta da Rose. Non l’hai mai vista prima di questo momento, eppure sai che è lei, e non solo perché non potrebbe essere nessun altro. È seduta sulla riva, nella sabbia così bianca che se l’aria non fosse così umida e tiepida potresti scambiarla per neve. Ha le ginocchia strette al petto e fissa le nuvole sull’orizzonte sempre uguale. E i suoi occhi riflettono solo i colori della pioggia.

TG: rose
TT: Non sei stato molto veloce.
TG: sì mi sembra proprio il momento sai
TG: proprio il momento di farmi sentire in colpa per questo motivo
TG: ho fatto il prima possibile ok
TG: posso anche tornarmene su lohac se non ti sta bene

TT: Mi sta bene.
TG: cos’è quel sorriso
TT: Sono contenta di vedere almeno te.

Ti siedi accanto a lei sulla sabbia e guardi il mare, anche se dopo pochissimi istanti una di quelle noiose nuvole dorate si piazza proprio sopra le vostre teste e vi fa piovere in testa per mezz’ora.

Ti annoi dopo meno di due minuti, ma hai la sensazione che Rose abbia bisogno di ancora un po’ di tempo per riprendersi. Tu non sei così, a te non serve tempo per riprenderti. Le cose sono in un modo o sono in un altro, le persone sono vive o sono morte, il dolore o trovi cosa fartene e lo trasformi in qualcosa di utile o ti mangia vivo. Tu non puoi farti mangiare vivo dal dolore. Sei prigioniero in un gioco e il gioco non ti fa paura, devi sconfiggerlo, e puoi farlo, ma solo se resti lucido.

E solo con Rose al tuo fianco.

> Be the girl again.

Dave è molto paziente, con te. Per tutto il tempo in cui resti in silenzio, lui non ti disturba. Forse non sa cosa stai facendo, forse non si è reso conto che stai pensando. Lo vedi stare seduto lì al tuo fianco, imitare la tua posizione e fissare il mare, puoi vedere le sue sopracciglia aggrottate e il suo sguardo intenso nello sforzo di concentrarsi sulle onde colorate all’orizzonte, come stesse chiedendosi cosa ci troverai mai tu di così interessante nel mare, ma la verità è che tu non vedi il mare, tu vedi oltre. Non riesci neanche a capire cosa, o come, ma è così.

E dunque pensi. Pensi a cosa fare. E ci pensi per ore ed ore, tanto che se non è già notte, quando parli di nuovo, è solo perché su LOLAR il sole non tramonta mai.

TT: Io dico di continuare.
TG: cosa
TT: Il gioco. Io dico di continuare fino a quando riusciamo. Magari andando avanti scopriamo qualcosa che potrebbe darci una mano a tornare indietro.
TG: indietro
TG: che cazzo vuol dire indietro
TG: rose mi stai nascondendo qualcosa

TT: È una domanda?
TG: retorica
TG: mi pare evidente

TT: Allora non devo rispondere.
TG: rose
TG: rose mi vedi
TG: sono qui a un passo dall’andare fuori di testa
TG: in realtà da qui a pochi minuti potrei andare così fuori di testa che la mia testa potrebbe dovermi guardare mentre mi siedo a qualche metro da lei su questa bella spiaggia bianca e dovrebbe dirmi di tornare dentro
TG: quindi per favore

TT: ...
TG: non ridere
TT: Scusa. Sei buffo.
TG: vuoi litigare per forza
TT: Non ti sto nascondendo niente, Dave. Dico soltanto che non abbiamo molte alternative, a parte andare avanti.
TG: ma tu hai parlato di tornare indietro
TT: Non so perché l’ho detto. Una sensazione, un’intuizione, chiamala come credi. Temo di doverti chiedere di fidarti di me, Strider.
TG: non mi fido
TT: Io mi fido di te.
TG: questo è un ricatto morale
TG: sei furba, lalonde

TT: ...
TG: ti ho detto di non ridere

> Be the guy again.

Tu e Rose rimanete in silenzio ancora a lungo, stavolta perché quello che ha bisogno di pensare sei tu. Non capita spesso, sei pronto ad ammetterlo: non sei un dissennato, ma sei comunque un uomo d’azione. Anche se hai solo tredici anni. È per questo che non hai paura, è per questo che non puoi avere paura. Un uomo d’azione non può avere paura delle conseguenze. O non agirebbe mai.

Lo sforzo che ti chiede Rose adesso, però, è di quelli sui quali devi riflettere per forza. Qui si tratta di fare una cosa. Di farla a modo tuo, oppure di farla a modo suo.

In sostanza, chiedendoti di fidarsi di lei, Rose ti sta chiedendo di farla a modo suo.

Ti viene quasi da sorridere mentre, dietro gli occhiali da sole, chiudi gli occhi e ti alzi in piedi.

La risposta la sai già.

> Trust the girl.
Genere: Erotico.
Pairing: Dave/Rose.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: AU, Incest, Lemon, Het, Underage, PWP.
- Il professor Strider non sa più cosa fare: la signorina Lalonde lo perseguita come un incubo, spaventosa, pericolosa e minacciosa esattamente allo stesso modo. Quando si ritrovano ad affrontarsi in presidenza per l'ennesima volta, Dave decide di mettere le carte in tavola. E Rose gioca la sua mano.
Note: ...l'orrore. XD Ok, sssh. Scritta per il Come Ti Trombo il Prof Fest, ispirandomi anche al prompt #45 della mia tabellina per la Maritombola (presidenza). maridichallenge e il crossposting ci posseggono.
Per il resto boh, è una stupidatissima, volevo tremendamente scrivere una qualche highschool!AU su Homestuck e, be', Rose e Dave sono sempre i primi che mi vengono in mente, e poi avevo voglia di porno het, e poi era inconcepibile che non avessi ancora scritto dell'incest su questi due (io!), e insomma. XD
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DETENTIONSTUCK

C’era una qualche parentela, fra loro, anche se nessuno era mai riuscito a stabilire di che tipo. Qualcosa che aveva a che fare non tanto coi loro genitori, forse nemmeno coi loro nonni, bensì con qualche ramo ancora più antico dell’intricatissimo albero genealogico della loro famiglia, un punto d’incontro la cui origine non era per niente chiara e che sembrava girare tutto attorno all’operato di un certo biologo che in un non meglio precisato periodo per nulla ben definito a livello temporale, che sembrava aver legato la famiglia Strider ai Lalonde per sempre.
Qualche esperimento biologico, dicevano i più fantasiosi, qualcosa che avesse a che fare con incroci genetici e clonazione e tentativi mal riusciti che avevano generato confusione lungo tutta la linea di parentele che dal primo Strider e dal primo Lalonde portavano giù fino a loro. Una relazione proibita mai culminata in un matrimonio, dicevano altri, più romantici, ma – a parere di Dave – non meno con la testa fra le nuvole rispetto ai primi.
Lui, al contrario, no. Lui era un tipo coi piedi per terra, uno che a queste storielle per ragazzini scemi non credeva per niente, uno che si limitava a riconoscere l’esistenza di quella parentela e della compresenza nel loro albero genealogico di due rami con cognomi differenti ben distinti che, a un certo punto, erano diventati indissolubili, uno che la accettava con la stessa semplicità con cui la si accetta in qualsiasi altra famiglia. Come una cosa assolutamente normale.
Ciò che lo inquietava della signorina Rose Lalonde non era certo il suo cognome e la lontana quanto effimera parentela che li univa, no. Era la loro somiglianza. Entrambi biondi, dalla pelle chiara e dagli occhi scuri, entrambi alti e longilinei, entrambi dai lineamenti affilati almeno quanto l’acido sense of humor col quale si approcciavano all’interazione con chiunque compresi i loro familiari, erano talmente simili che, benché non lo fossero, li si sarebbe facilmente potuti scambiare per fratelli.
Dave aveva una considerazione di se stesso troppo alta per poter accettare con calma e raziocinio l’esistenza al mondo di un esserino che, come la signorina Lalonde, lo rendesse un po’ meno unico, un piccolo clone in gonnella dalle labbra perennemente tinte del viola più scuro e dalle lunghe ciglia esageratamente curve che proiettavano ombre irregolari sulla pelle chiarissima del suo viso quando socchiudeva le palpebre in quell’espressione di felina ironia che le si dipingeva sul volto ogni volta che si preparava a sferzarti con una qualche fastidiosa battuta delle sue.
Non gli piaceva averla intorno. Conosceva abbastanza la signorina Lalonde per immaginare che, simile a se stesso com’era, anche per lei non fosse granché esaltante vederlo così spesso.
Essere il suo professore di fisica – nonché il preside della scuola che frequentava – non aiutava a tenersi lontani, dunque qual era il motivo che spingeva quella ragazzina a fare di tutto, ma proprio di tutto per mettersi nei guai ad intervalli regolari di una volta ogni due o tre giorni, in modo da ritrovarsi puntualmente seduta sulla scomoda seggiolina di fronte alla sua scrivania in presidenza, in attesa della propria punizione?
- Signorina Lalonde, - sospira con aria già esausta, massaggiandosi le tempie, - mi aiuti a capire, perché dal basso della mia ignoranza non riesco. Perché lo fa?
Rose sorride, stringendosi civettuola nelle spalle.
- Non capisco a cosa si sta riferendo, professor Strider. – scuote il capo, sbattendo le ciglia con l’innocenza di un cerbiatto.
- Lasci perdere. – si rassegna lui, scuotendo il capo a propria volta. – Mi dica cos’ha fatto.
- Forse volevo solo un paio di ripetizioni. – ridacchia la ragazza, accavallando le gambe sotto la lunga gonna nera che striscia contro il pavimento ora che è seduta come quando sta in piedi, - Non credo di aver afferrato appieno la teoria della relatività generale applicata allo spaziotempo.
- Oh, so benissimo che, nonostante quanto si diverte a prendermi in giro cercando di darmi a bere il contrario, non c’è proprio niente che lei non abbia afferrato appieno nel corso della nostra ultima lezione. – borbotta Dave, incrociando le braccia sul petto con impazienza.
- D’accordo, forse ho afferrato i concetti espressi. – risponde lei, ghignando in maniera spaventosa mentre scrolla appena le spalle sottili, - Ma ciò non vuol dire che io sia riuscita ad afferrare proprio tutto quello che volevo. – aggiunge sfacciatamente. Dietro gli occhiali da sole che non sfila mai, Dave si permette perfino di arrossire.
- Le consiglio di smetterla, se non vuole che la sospenda. – la redarguisce, tendendole una mano, - Coraggio, mi dia quella nota.
Rose si solleva in piedi, lasciando scivolare due dita fra la propria maglietta e la lunghissima fascia rosa che tiene stretta attorno alla vita e pendente lungo le gambe e fino a terra, sfilandone un foglietto bianco ripiegato in due e porgendoglielo con sussiego, non senza dimenticare di piegarsi appena perché la rotondità appena accennata del suo seno risulti spaventosamente evidente nella luce bianca che illumina l’ufficio, rendendola incredibilmente provocante nonostante la maglietta nera per nulla attillata né particolarmente scollata che indossa.
Dave distoglie lo sguardo, strappandole il foglietto dalle dita ed aprendolo per leggerne il contenuto. I suoi occhi si spalancano con orrore parola dopo parola, e quando torna a guardare la ragazza le sue labbra sono dischiuse in un muto segno di sconcerto.
- Cos’è che ha fatto?! – sbotta incredulo. Rose scrolla ancora le spalle, giungendo le mani dietro la schiena.
- Non ci sono riuscita, ci ho solo provato. – dice, a mo’ di giustificazione, restando in piedi. Dave si alza a propria volta, battendo con forza le mani contro la superficie lucida e liscia della scrivania.
- Non importa! – strilla, - Resta il fatto che ha tentato di accecare un suo compagno di classe con un paio di ferri da maglia! Si rende conto della gravità della sua azione?!
Rose dondola un po’, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. La curva appena accennata e ancora infantile dei suoi fianchi si piega da un lato e poi dall’altro, e Dave non riesce a non pensare che non lo stia facendo apposta per stuzzicarlo. Dovrebbe cacciarla dalla presidenza istantaneamente, ma non le ha ancora dato la sua punizione, e non può certo fingere che niente di grave sia avvenuto solo perché trova la sua presenza disturbante.
- Professor Strider? – lo chiama la ragazza, quando si accorge della spropositata quantità di tempo che ha passato in silenzio, specie per i suoi standard.
- Stia zitta, signorina Lalonde. – sbotta lui, alzandosi in piedi e dandole le spalle. Raggiunge la finestra dietro la sua scrivania e scruta con una certa indolenza la primavera nel giardino fiorito davanti alla scuola. Gli alberi sono pieni di corvi – dannati uccellacci. Affollano i cieli a causa delle campagne vicine, e per quanto abbia tentato più e più volte di scacciarli dal territorio non c’è mai riuscito. Quelli continuano sempre a tornare.
Un po’ come la signorina Lalonde.
- Mi dica lei cosa devo fare. – dice a bassa voce, le braccia incrociate sul petto in una posa quasi infantilmente arrabbiata, - Perché io non so più come gestirla. Se anche ho potuto evitare di sospenderla dopo lo spiacevole episodio di quel suo orrido gatto con quattro occhi trovato intento a divorare i compiti di latino in sala professori, non posso certo ignorare quello che è successo oggi, e se lei— - si interrompe all’improvviso, sentendo le mani piccole e calde di Rose insinuarsi sul suo petto da sotto le sue braccia. Guarda in basso e vede le sue dita aggrapparsi al tessuto liscio e pesante del completo che indossa. Deglutisce. – Signorina Lalonde.
- Lei parla troppo, professor Strider. – sussurra, stringendo i risvolti della sua giacca fra le dita e tirando lievemente per sfilargliela di dosso. Dave sa che dovrebbe serrare le braccia ed impedirle di fare ciò che vuole, ma Rose è implacabile e non glielo permette. Il suo respiro caldo sulla nuca lo confonde e lo distrae, e Dave distende le braccia lungo i fianchi, rilassandole abbastanza da lasciarsi scivolare via la giacca dalle spalle.
Si volta verso di lei e la scruta con attenzione, al di là degli occhiali da sole. Lei cerca i suoi occhi, e quando non riesce a trovarli arriccia il naso in un’espressione infantilmente infastidita. Solleva le mani, sfilandogli gli occhiali dal naso e sorridendo più serenamente solo quando li appoggia sulla scrivania.
- Meglio. – commenta a bassa voce. Dave rabbrividisce.
- Dovrei espellerla seduta stante. – la minaccia. Rose si lascia sfuggire una risatina ironica, perfino fastidiosa. E l’attimo dopo si solleva sulle punte, il guizzo colorato delle sue converse rosa a fare capolino da sotto l’orlo della gonna lunghissima che solo adesso le lascia un po’ scoperte le caviglie sottili, ed appoggia le labbra sulle sue. Le muove appena, Dave si sente preso in giro, e quando schiude le proprie labbra è solo per catturare le sue, per impedirle di rigirarselo fra le dita con la stessa semplicità con cui l’ha spinto fino a quel punto.
Rose se lo tira contro, indietreggia fino ad incontrare il bordo della scrivania e vi si appoggia, sollevandosi nuovamente sulle punte per sedersi più comodamente e continuando a stringerlo per il colletto della camicia con una mano, mentre utilizza l’altra per sollevarsi la gonna sulle cosce, lasciandosi libera di schiudere le gambe. Dave le osserva con un certo imbarazzo, trattenendo il respiro. La sua pelle è bianchissima e così liscia, così invitante, ma se solo pensa alla possibilità di toccarla si sente girare la testa. Tutto ciò è sbagliato per così tanti motivi che fatica ad elencarli ordinatamente, e forse è per questo motivo che quegli stessi motivi diventano nient’altro che una nebbia confusa, nella sua mente. E dopo un po’ a lui non interessano più.
Rose lo strattona con impazienza, se lo preme contro, geme piano e ondeggia il bacino contro di lui. Perfino attraverso il tessuto dei pantaloni, Dave riesce a sentire quanto è eccitata, ed è sicuro che la stessa cosa potrebbe dire lei di lui. L’erezione costretta dentro i boxer si sta facendo dolorosa, ed i movimenti di Rose sono così ipnotici, lo invitano a darle di più, a chiederle di più, ed è lui a sfilarsi i pantaloni di dosso con gesti rapidi e concitati, mentre lei, soddisfatta, si solleva in piedi e sfila le mutandine in un gesto fluido ed elegante, tornando a sedersi sulla scrivania quasi subito.
Tende le braccia verso di lui, e lui non aspetta un secondo di più. La bacia con forza, costringendola a piegare il collo all’indietro. La curva esposta che scivola a nascondersi oltre il colletto attillato della maglietta sembra invitare Dave a seguirne la linea in una scia di baci umidi, e lui lo fa, spingendosi contro di lei e scivolando con la punta della propria erezione lungo la sua intimità già umida di desiderio.
E come le scivola contro, le scivola dentro, pochi istanti dopo. Così naturalmente che si lascia sfuggire un sospiro sorpreso fra le sue labbra umide e dischiuse, il rossetto scuro ormai sbiadito per lasciare posto al rosa più naturale reso più vivido e lucido dai lunghi baci che si sono scambiati fino a quel momento.
Rose lo guarda dritto negli occhi, è lei a venirgli incontro in spinte lente e regolari, i fianchi che ondeggiano e Dave che vi appoggia sopra le mani per lasciarsi guidare da quel ritmo surrealmente tranquillo. Non sono soli al mondo, non sono soli neanche a scuola, chiunque potrebbe entrare in presidenza e scoprirli, e lei è così giovane, appena sedici anni, e lui, oh, lui potrebbe finire in galera per così tanti motivi diversi che probabilmente a sommare tutti gli anni che gli darebbero converrebbe di più gettarlo in uno scantinato e buttare via la chiave definitivamente, ma il sapore di Rose sembra valere abbastanza la pena di rischiare, forse perché è così simile al suo – e lui non vuole neanche provare a immaginare cosa un’affermazione come questa dica della sua personalità – forse semplicemente perché è così speziato e misterioso e pericoloso e perfino un po’ spaventoso, e lui è abituato a controllare ogni cosa, ogni situazione, perfino le più assurde, ma con lei non ci riesce, e forse il problema è tutto lì.
È tutto lì, racchiuso nel mistero dei suoi occhi scuri dal taglio felino, nelle punte del suo caschetto biondo che gli solleticano il naso, nel calore accogliente del suo corpo di ragazzina in boccio, nel profumo infantile e fruttato che si solleva dal suo collo arrossato dai baci.
Quando la sente tremare, e tendersi, e poi venire violentemente stringendosi in uno spasmo di piacere tutta attorno a lui, Dave si sente vincitore come dopo una qualche estenuante battaglia. Respira pesantemente, scivolando fuori dal suo corpo appena in tempo per non combinare qualche disastro perfino maggiore, e quando solleva uno sguardo colmo di disappunto dalla macchia che deturpa la moquette del suo ufficio, ripulita non più di una settimana fa, Rose sta sorridendo vittoriosa, stringendosi nelle spalle. I suoi occhi, sottili come quelli di un gatto, brillano divertiti.
- La mia punizione, professor Strider? – domanda sarcastica, scendendo dalla scrivania con un saltello e recuperando le proprie mutandine, senza nemmeno sprecarsi ad indossarle.
Dave si risistema i pantaloni e recupera gli occhiali da sole, nascondendosi dietro le loro lenti scure mentre arrossisce violentemente.
- Torni a casa e si faccia un esame di coscienza, signorina Lalonde. – ribatte burbero, indicandole la porta con un gesto secco e irritato.
Non sa se la risatina che le sente sfuggire dalle labbra mentre esce lo renda più arrabbiato o divertito.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Gen, Flashfic, Spoiler.
- "Ecco, ci siamo. Sta succedendo. Lo stiamo facendo succedere."
Note: Scritta nel corso della Notte Bianca #4, su prompt And in the dark, I can hear your heartbeat / I tried to find the sound / But then it stopped, and I was in the darkness / So darkness I became. - Cosmic Love. Spoileroni gigantopici per l'EOA5, statene lontani se non siete al passo. Where making this hapen *O*
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HOLD YOUR BREATH AND COUNT TO TEN
then fall apart and start again

È morto decine di volte, e le ricorda tutte. Ad un certo punto, mentre viaggiava avanti e indietro nel tempo per chiudere tutti i loop aperti da lui e Terezi per ottenere i progressi di cui avevano bisogno all’interno del gioco, si è semplicemente reso conto di ricordare. Ed aveva avuto paura, perché ricordare i decessi di ogni Dave alternativo sparso per ogni dove nello spazio-tempo non poteva che confermare una nozione di cui – forse in maniera inconscia e istintiva, in quanto Cavaliere del Tempo – era sempre stato consapevole, pur senza accettarla: tutti quei Dave non erano separati dalla sua persona. Erano parti di lui che si erano andate staccando dal suo corpo per la strada. Che avevano continuato a vivere lontane dal suo corpo, ma che lui non poteva fare a meno di ricordare e sentire profondamente proprie.
Non dovrebbe essere così turbato al riguardo – così com’è consapevole che tutti quei Dave gli appartengono, in un modo o nell’altro, è allo stesso modo altrettanto consapevole del fatto che non sono lui, non completamente, almeno – ma lo è. Fin da quando l’ha capito c’è stato qualcosa, dentro di lui, qualcosa di oscuro, una consapevolezza martellante che parlava direttamente al suo cuore, e al suo cuore soltanto: farò la stessa fine.
Non se n’è accorto, mentre accadeva, ma adesso sì. Adesso lo sa. Ora che è immobile davanti al Tumore che conta implacabile da cinque e ventitré a zero, e Rose, accanto a lui, guarda il macchinario che hanno davanti ed è talmente pallida, e trema talmente tanto da non lasciare dubbi sul fatto che sappia perfettamente a cosa serva e come funzioni, Dave non può fare a meno di pensare “ecco, ci siamo. Sta succedendo. Lo stiamo facendo succedere”.
- Rose. – la chiama piano. C’è silenzio, attorno a loro. Nella nicchia di oscurità scavata nello spazio, oltre l’Ultimo Anello, dove avrebbe dovuto trovarsi qualcosa che avrebbero dovuto distruggere, Dave riesce a sentire perfettamente l’eco del battito del proprio cuore martellare in sincrono con quello di sua sorella. Sua sorella. – Di’ qualcosa.
Lei si volta a guardarlo. Lo zero è vicino.
- Mi dispiace. – dice piano, - Ma sono contenta che tu sia qui con me.
Dave si morde l’interno di una guancia ed allunga una mano verso di lei. Fa appena in tempo ad osservare Rose tendere la propria a sua volta, quando il counter raggiunge lo zero, il tempo si dilata – e forse è lui a costringerlo a rallentare – e l’ombra li inghiotte. Lui non trova più la mano di Rose, la cerca ma non riesce a stringerla, però riesce ancora a sentire il battito del suo cuore. Veloce, terrorizzato, ma regolare, e c’è.
E poi, contemporaneamente, qualcosa esplode, e Dave non sente più niente.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Angst, Gen, Spoiler.
- "Rose gli ricambia l’occhiata, inarcando un sopracciglio, le labbra arricciate in una smorfia insofferente."
Note: Scritta per il secondo numero di Squee, su prompt in bianco e nero, ispirandomi ad uno dei miei pezzi preferiti di Homestuck, verso la fine dell'Act5, quando Rose "ruba" a Dave la missione suicida per la distruzione del Sole Verde X3 Cocchini, voi ;_; Avrei potuto scrivere dell'incest e invece è venuta fuori una puccinata gen a caso, ma ne sono felice ♥
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WE HAVE ALL THE TIME IN THE WORLD

- …sono confuso. – ammette Dave, guardando Rose con attenzione e faticando a riconoscerla, - Questo quando è successo?
Rose gli ricambia l’occhiata, inarcando un sopracciglio, le labbra arricciate in una smorfia insofferente.
- Ti riferisci a? – domanda con tono petulante, una mano appesa al fianco, proprio sopra la striscia di seta rosa che le tiene la gonna stretta in vita.
- Il colore della tua pelle. – sbotta Dave, aggrottando le sopracciglia, irritato dal suo tono. Quando ha scoperto tutta la questione della parentela e del suo essere a tutti gli effetti più che un semplice fratello, ma addirittura il gemello biologico di Rose, non è riuscito a stupirsene come avrebbe voluto e, probabilmente, dovuto. È riuscito solo a darsi dello stupido per non averlo capito o quantomeno intuito prima, perché il modo in cui Rose è sempre riuscita ad irritarlo coi suoi atteggiamenti spocchiosi e arroganti era già da solo un indizio preciso sul loro legame di sangue. Un po’ come invece tutti quei momenti in cui la loro connessione su tutti i livelli gli era sembrata così forte da non poter essere mai spezzata. Solo una sorella può generare sentimenti simili in un fratello. E quindi Dave avrebbe dovuto essere in grado di capirlo prima. – Il colore della tua pelle è cambiato. – specifica in un grugnito frustrato quando vede che l’espressione di Rose non accenna minimamente ad incrinarsi o a farsi segno di un atteggiamento più collaborativo.
- Ma davvero? – ribatte lei, per nulla impressionata. Le sue labbra si piegano solo da un angolo in un sorriso sbruffone e presuntuoso. – Sei un osservatore provetto.
- Siamo in un punto della timeline in cui possiamo permetterci di perdere tempo con stronzate come questa? – insiste lui, sempre più acido, incrociando le braccia sul petto. Rose risponde con una risatina, sedendosi sul letto della sua stanza, sulla luna di Derse. – Sei già partita per il Sole? No, aspetta… non ricordo niente. Sei già partita, mi hai rubato la mia missione suicida, questo me lo ricordo. E la tua pelle non era di questo colore, quando è successo. E non eri vestita così. E io ti sono corso dietro, comunque. Sono riuscito a fermarti? – Rose si stringe nelle spalle, dondolando i piedi. - …ma non importa, perché comunque questa è una bolla. Vero?
Il sorriso che Rose gli concede, stavolta, è più dolce.
- Ci sei arrivato, finalmente. – lo prende in giro, comunque, - Cretino.
Dave sospira, non ha neanche voglia di ricambiarle l’insulto. Copre in pochi istanti la distanza che lo separa da lei e si lascia ricadere sul letto al suo fianco, semidisteso, i gomiti piantati contro il materasso e la nuca appoggiata alla parete.
- Quando cazzo mi sono addormentato? Volando mentre cercavo di raggiungerti? – domanda, - Da qualche parte c’è un Dave che si è addormentato a mezz’aria e ora viaggia a trecento chilometri orari verso il suolo di Derse?
- No, non credo proprio. – ridacchia ancora Rose, tirando su le gambe e stringendosi le ginocchia al petto, dondolando un po’, - Credo che quel Dave sia già arrivato a destinazione.
- Quindi ti ho salvato la vita. – dice immediatamente Dave, lanciandole un’occhiata speranzosa, - C’era quel tizio. Il tizio che mi ha svegliato ficcandomi quel fottuto bastone da passeggio nel cuore. Ti ho salvata da lui.
Rose si stringe nelle spalle, guardando altrove.
- Perché ti interessa saperlo? – domanda, - Stiamo parlando di un’altra timeline.
- Sì, ma dal momento che è la timeline principale ci tengo a sapere se sei morta o meno, se permetti. – grugnisce lui, aggrottando le sopracciglia.
- Come fai a sapere che quella è la timeline principale? – domanda Rose con un sorrisetto furbo, - Magari invece è di quelle sterili e la timeline principale è quella in cui ci troviamo adesso.
- Questa è una dannata bolla in cui tu sei diventata grigia e indossi vestiti semplicemente assurdi, ecco come faccio a sapere che non è questa la timeline principale! – risponde lui con uno sbuffo infastidito, sistemandosi più comodamente sul letto, - Dio, mi fai venire voglia di svegliarmi. Sei snervante.
Le labbra di Rose si distendono e poi si piegano in un sorriso intenerito, mentre si accomoda accanto a lui, più o meno nella stessa posizione. Lui ascolta in silenzio i tonfi attutiti che i talloni della ragazza producono nello sbattere ritmicamente contro lo scheletro in legno del letto, e se ne lascia cullare, concedendosi di chiudere gli occhi ma cercando di mantenersi vigile. Non ha ancora capito bene come funzionino, queste maledette bolle, e visto che il meccanismo principale sembra sempre essere qualcosa del tipo “se ti addormenti, in qualsiasi dimensione dell’universo tu sia, ti svegli all’istante da un’altra parte” cerca di tenersi sveglio, perché non vuole ancora andare via da qui.
- Non ti rivedrò più, vero? – domanda a bassa voce, gli occhi ancora chiusi. – È successo qualcosa. Non sono riuscito a raggiungerti. Non ti ho salvata da quel tipo, forse. Ecco perché sono finito nella bolla. Forse sei morta. O forse sono morto io.
- O forse stiamo entrambi semplicemente dormendo. – ipotizza Rose, - Lo sai che basta essere incoscienti per scivolare in una bolla.
- Rose, io non voglio che tu muoia. – continua lui, come non l’avesse neanche sentita, - Se sei morta, tornerò indietro nel tempo. Creerò un’altra timeline. Renderò quella in cui sei morta sterile e farò in modo che quella diventi la timeline principale. L’abbiamo già fatto. Posso rifarlo.
- Io non morirò. – risponde lei con una risatina, - Almeno, non la me con cui stai parlando adesso. Se è vero che questa è solo una bolla come dici…
- Non parlarmi così. – scatta immediatamente Dave, lanciandole un’occhiata per metà preoccupata e per metà genuinamente risentita, - Sai perfettamente che ho ragione e che questa è davvero una bolla. Io non ti ho mai vista così, questo non può essere un ricordo. E già che ci siamo, perché sei conciata così? L’ultima volta che ti ho vista non—
- Mia madre è morta. – dice lei d’un fiato, e Dave si interrompe all’improvviso. Le parole gli muoiono in gola, si bloccano lì e si condensano in un grumo che non vuole saperne di sciogliersi o scivolare via. Rose non guarda lui, guarda un punto a caso sulla parete, ma non lo vede davvero. Vede oltre, nelle profondità dell’universo, oltre l’Ultimo Anello, al di là delle bolle, al di là degli Horrorterrors e delle loro urla di dolore. Vede qualcosa che solo lei può vedere, e d’altronde, come potrebbe essere altrimenti? È lei la Veggente. Lui è solo il Cavaliere del Tempo, anche se il tempo, da un po’ a questa parte, non fa che prendersi gioco di lui.
- Mi dispiace. – dice piano, allungando una mano verso di lei e sfiorandole appena un ginocchio col dorso, in una carezza distratta. – È per questo che sei….?
- No. – sbotta lei, scuotendo il capo, e poi sospira, - …non lo so. – ammette con aria più incerta, - Ma non è questo il punto. Pensavo che dovessi saperlo, visto che a conti fatti è anche tua madre. Avrei dovuto dire “nostra madre è morta”, forse così l’avresti capito subito. Ma non ci ho neanche pensato.
Dave guarda altrove, mordicchiandosi l’interno di una guancia.
- Non l’ho nemmeno mai vista. – commenta sottovoce.
- E non la vedrai mai. – aggiunge Rose. Il tono della sua voce è duro, stentoreo, apre una ferita non meglio identificata da qualche parte dentro il petto di Dave. Qualche parte che fa male in modi quasi disperati. Non riesce ad essere triste per la scomparsa di questa donna, nonostante il presunto legame che avrebbe dovuto unirli, ma per Rose. Per Rose sì. Vederla in questo stato lo distrugge.
- Mi dispiace, davvero. – ripete, non sapendo in che altro modo darle anche solo un’idea di ciò che sta provando. Non è mai stato bravo a consolare la gente. E in verità, ora che ci pensa – e lo fa con un piccolo sorriso –, neanche Rose.
Rose che scrolla le spalle, inspira, espira e poi si acciambella al suo fianco, poggiando il capo nell’incavo fra la sua spalla e il suo collo ed una mano proprio nel mezzo del suo petto.
- So cos’è successo nella timeline principale. – gli sussurra all’orecchio, la voce che trema, - So cos’è successo quando sei arrivato. Posso dirti se siamo ancora vivi. Vuoi saperlo? – domanda.
- No. – risponde immediatamente lui, scuotendo il capo, irrazionalmente spaventato dalla possibilità di venire finalmente a sapere qualcosa che fino a poco fa sembrava essere l’unica cosa ad interessarlo veramente.
Rose si lascia sfuggire un sorriso comprensivo, stringendo la presa delle dita sulla sua maglietta, mentre lui le avvolge un braccio attorno alle spalle, sfiorandole la fronte in un bacio consolatorio.
- Penso che starò così per un po’. – sussurra lei, - Se non ti dispiace.
A Dave non dispiace. E Rose può restare in quel modo per tutto il tempo che vuole.